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Riassunto diritto amministrativo scoca 23

Diritto Amministrativo (Università degli Studi di Teramo)

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- DIRITTO AMMINISTRATIVO -
- a cura di Franco Gaetano Scoca -

-PARTE 1. AMMINISTRAZIONE
- PARTE E CITTADINO-
1. AMMINISTRAZIONE E CITTADINO -

CAPITOLO 1. NOZIONI INTRODUTTIVE.


1. La pubblica amministrazione. Il complesso degli uffici cui è demandata la
cura degli interessi pubblici e a cui sono conferiti i relativi doveri e poteri costituiscono la
“pubblica amministrazione”. La P.A. si articola in enti territoriali (Stato, Regioni, Province,
Città metropolitane e Comuni) che costituiscono l’ossatura fondamentale dell’apparato
amministrativo. Accanto a questi enti, c’è un nutrito numero di altri enti pubblici funzionali,
perché finalizzati allo svolgimento di determinate funzioni amministrative.
Mario Nigro ha sostenuto che i modelli di amministrazione emergenti dalle varie norme
costituzionali sono 3, e sono tra loro confliggenti : l’amministrazione si presenterebbe
alternativamente come “apparato servente del Governo” (sulla scorta dell’art. 95 Cost.),
come “complesso autocefalo”, non subordinato al potere politico, ma regolato direttamente
dalla legge (sulla base degli artt. 97 e 98 Cost.) o come “modello autonomistico e
comunitario” (sulla base dell’art. 5 e degli artt. 114 ss. Cost.). Eppure un modello unico di
amministrazione pubblica può ricavarsi dalla Costituzione, se si prende in considerazione
l’intero testo costituzionale, dando peso agli articoli relativi ai principi fondamentali.
Un presupposto necessario da cui partire è la distinzione tra GOVERNO e
AMMINISTRAZIONE. Si è così operata una scissione fondamentale nella “funzione
esecutiva”, propria degli organi del potere esecutivo. La FUNZIONE DI GOVERNO
(fondata sul “principio democratico”) consiste nella determinazione dell’indirizzo politico-
amministrativo, nell’individuazione degli obiettivi da raggiungere e nella valutazione dei
risultati raggiunti. Tale funzione è affidata agli organi di governo, che sono presenti in tutti
gli enti territoriali. La FUNZIONE AMMINISTRATIVA, invece, consiste in un’attività di
gestione, consistente nella cura concreta degli interessi pubblici, ispirata ai principi del buon
andamento e dell’imparzialità e finalizzata al raggiungimento degli obiettivi fissati dagli
organi di governo. Dunque, la scelta degli obiettivi da raggiungere è operata dagli organi di
governo, che devono ispirarsi, per il principio democratico, agli orientamenti delle forze di
maggioranza, e ai quali pertanto non può applicarsi il principio di imparzialità. Invece
l’azione diretta al raggiungimento degli obiettivi, mediante attività concreta, amministrativa,
spetta agli organi amministrativi, che devono attenersi ai principi di imparzialità e buon
andamento. Ne deriva che “funzione di governo” e “funzione amministrativa” sono diverse
e rispondono a principi costituzionali diversi; ciascuna ha apparati ad essa dedicati :
l’apparato amministrativo deve essere autonomo dall’apparato di governo; le relazioni tra i
due apparati sono improntate a collaborazione, e non a subordinazione; il personale
dell’apparato di governo è di estrazione politica, quello dell’apparato amministrativo è
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tecnico. L’amministrazione allora può essere considerata come un’articolata struttura


tecnica, autonoma rispetto agli organi di governo, ma ad essi collegata.

2.L’integrazione amministrativa nell’Unione europea. L’ “integrazione


europea” risale al Trattato di Roma (1957) e inizialmente aveva un ruolo rilevante in settori limitati.
Nel corso dei decenni, con le modifiche apportate dai Trattati successivi, la missione dell’Unione si
è estesa anche a funzioni amministrative. Cosicchè, da un lato, l’Unione si è dotata di ampi
apparati amministrativi e, dall’altro, si è formato un sistema amministrativo integrato tra Unione e
Stati membri, che è stato indicato come “AMMINISTRAZIONE COMUNE
DELL’ORDINAMENTO EUROPEO”. Il continuo ampliamento dei settori di intervento
comunitario (alcuni di competenza esclusiva, altri di competenza concorrente con quella degli Stati
membri) ha comportato un rilevante ampliamento dell’organizzazione amministrativa comunitaria,
che fa capo non solo alla Commissione, ma anche al Consiglio (dei ministri) e al Parlamento
europeo e si articola in “uffici interni di tali organi di vertice” e in numerosi “comitati” e “agenzie”
con rapporti di dipendenza/autonomia rispetto agli organi fondamentali. Anche a causa del dovere
di leale cooperazione tra gli Stati, si sono creati organismi di raccordo tra plessi organizzativi
comunitari e plessi organizzativi statali, tali da far pensare a un sistema organizzativo integrato.
Nello svolgimento dell’azione amministrativa spesso funzioni proprie dell’amministrazione
nazionale sono state trasferite agli organi dell’Unione, cosicchè, per le materie di competenza
comunitaria e concorrente, le amministrazioni italiane, da un lato, operano per la preparazione
istruttoria delle decisioni comunitarie (c.d. fase ascendente) e, dall’altro, si occupano
dell’attuazione nell’ordinamento interno delle decisioni comunitarie (c.d. fase discendente).
Inoltre molte attività rimaste proprie delle amministrazioni interne sono soggette a discipline
comunitarie (ad es. la disciplina dei contratti di appalto, pur essendo contenuta in testi normativi
nazionali, è ispirata da direttive comunitarie).

3. L’oggetto e i caratteri del diritto amministrativo. Il diritto


amministrativo è la branca del diritto pubblico che ha ad oggetto l’apparato amministrativo (profilo
dell’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA), l’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA e la
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA).

4. Le fonti normative. La Costituzione stabilisce che “I pubblici uffici sono organizzati


secondo disposizioni di legge” (art. 97 ), ponendo in tal modo una riserva relativa di legge che, pur
riguardando espressamente solo l’organizzazione degli uffici, è stata interpretata estensivamente,
includendovi anche l’attività amministrativa. Invece per la giustizia amministrativa la riserva è
assoluta in base all’art. 101 Cost.
Le fonti-atto sono le stesse delle altre branche del diritto : la Costituzione, i Trattati comunitari, le
fonti comunitarie derivate (regolamenti, decisioni, direttive), le leggi (statali e regionali), i
regolamenti e infine le fonti interne ai singoli enti (come gli statuti e i regolamenti interni).
La validità delle leggi può essere valutata in più modi : il contrasto con le disposizioni costituzionali
va valutato dalla Corte costituzionale; il contrasto con le disposizioni comunitarie comporta la
disapplicazione della legge interna confliggente; il contrasto con la CEDU, come interpretata dalla
Corte di Strasburgo, va apprezzato dalla Corte Costituzionale.
I regolamenti sono atti amministrativi, anche se hanno un contenuto normativo; pertanto, ove
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vengano ritenuti illegittimi, possono essere impugnati davanti al giudice amministrativo.


La disciplina del diritto amministrativo risponde al PRINCIPIO DI LEGALITA’: l’organizzazione
e l’attività delle amministrazioni devono essere conformi alle leggi e alle altre fonti normative. Il
principio di legalità può essere inteso in senso formale (l’atto-fonte deve autorizzare l’atto
dell’amministrazione, quindi le deve dare il potere di compierlo) o sostanziale (l’atto-fonte, oltre ad
autorizzare l’atto dell’amministrazione, ne deve dettare anche la disciplina sostanziale,
vincolandone il contenuto). I rapporti tra le fonti rispondono ai criteri della GERARCHIA e della
COMPETENZA, il primo basato sulla forza delle fonti, il secondo basato sulla distinzione degli
organi cui è affidato il potere di porle in essere.

*PLESSO : struttura costituita da un insieme di organi che svolgono attività affini.

*RISERVA RELATIVA DI LEGGE : i principi sono stabiliti dalla legge; le fonti secondarie
possono intervenire con la normativa di dettaglio.

*RISERVA ASSOLUTA DI LEGGE : la materia deve essere regolata interamente dalla


legge (e non da una fonte secondaria, ad es. un regolamento).

5. Fonti. Le FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO sono tutti gli atti e i fatti che
producono norme giuridiche che vanno a disciplinare il sistema della pubblica amministrazione :
Costituzione, leggi (statali e regionali), regolamenti (atti normativi secondari), fonti comunitarie.
I REGOLAMENTI (fonti secondarie) sono lo strumento attraverso cui il Governo e le altre autorità
amministrative esercitano la loro potestà normativa. Tali regolamenti, ove dovessero presentarsi in
contrasto con norme di legge, potranno essere annullati dal giudice amministrativo.
I regolamenti sono atti formalmente amministrativi, ma a contenuto normativo (cioè contengono
precetti generali e astratti in grado di innovare l’ordinamento giuridico). Ciò li differenzia dagli
ATTI SOGGETTIVAMENTE AMMINISTRATIVI, che si distinguono in : 1) ATTI
AMMINISTRATIVI GENERALI (atti non normativi, attraverso cui si predispone una disciplina
giuridica che può anche derogare alle disposizioni contenute nella fonte normativa : ad es. i bandi di
gara); 2) ATTI AMMINISTRATIVI PARTICOLARI (che esplicano la loro efficacia nei confronti
di specifici soggetti : ad es. i provvedimenti amministrativi). Gli atti generali e gli atti particolari
non sono fonti del diritto amministrativo.

I REGOLAMENTI AMMINISTRATIVI sono atti generali e astratti provenienti da organi


dell’amministrazione (statale, regionale o altri enti pubblici) attraverso cui l’amministrazione
competente disciplina determinate materie o il proprio funzionamento. Si distinguono in :

 REGOLAMENTI GOVERNATIVI : disciplinati dall’art. 17, 1° comma della L. 400 / 1988,


sono emanati con D.P.R., previa delibera del Consiglio dei ministri e sentito il parere del
Consiglio di Stato, per disciplinare : 1) l’esecuzione di leggi, decreti legislativi o di
regolamenti comunitari (c.d. regolamenti esecutivi); 2) l’attuazione o l’integrazione di leggi
e decreti legislativi che recano norme di principio (c.d. regolamenti attuativi o integrativi);
3) le materie non disciplinate dalla legge o dagli atti con forza di legge, sempre che non si
tratti di materie sottoposte a riserva di legge (c.d. regolamenti indipendenti); 4)

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l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche (c.d. regolamenti di


organizzazione e di funzionamento).
 REGOLAMENTI DI DELEGIFICAZIONE : disciplinati dall’art. 17, 2° comma della L.
400 / 1988, emanati con D.P.R., previa delibera del Consiglio dei ministri, sentito il
Consiglio di Stato e il previo parere delle Commissioni parlamentari competenti in materia;
sono emanati per disciplinare le materie, non coperte da riserva assoluta di legge, per le
quali le leggi, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare di matrice governativa,
determinano le norme regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme di
legge vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari. La delegificazione
infatti è il potere del legislatore di affidare una determinata materia (già disciplinata dalla
legge) alla competenza normativa del potere esecutivo, con conseguente abrogazione delle
norme di legge e loro sostituzione da parte di norme di rango secondario.
 REGOLAMENTI MINISTERIALI e INTERMINISTERIALI : disciplinati dall’art. 17,
3°comma della L. 400 / 1988; vengono emanati con decreto ministeriale o interministeriale.
Essi possono essere adottati, nelle materie di competenza del ministro, solo ove la legge
conferisca espressamente tale potere (ma non possono dettare norme contrarie a quelle
contenute nei regolamenti governativi).
 REGOLAMENTI DI RIORDINO : disciplinati dall’art. 17, comma 4-ter; con essi si
provvede al periodico riordino delle norme regolamentari vigenti.

Altre fonti secondarie sono gli STATUTI e i REGOLAMENTI degli enti locali (non le Regioni,
però !). Gli STATUTI sono atti normativi che regolamentano l’organizzazione, il
funzionamento dell’ente locale e le linee fondamentali della sua attività. Il T. U. degli enti locali
(d.lgs. 267 / 2000) dispone che lo statuto deve essere approvato con una maggioranza qualificata
dei 2/3 dei consiglieri o, in caso di mancata approvazione, con il voto favorevole della
maggioranza dei consiglieri (da ripetersi due volte). Questo con riferimento alla potestà
normativa degli enti locali (comuni, province, città metropolitane).
Lo statuto regionale invece è un atto normativo primario (quindi è allo stesso livello della
legge), a differenza degli statuti provinciali o comunali che sono appunto atti normativi
secondari. L’approvazione dello statuto regionale è di competenza del Consiglio regionale.
Mentre lo statuto ordinario è adottato e modificato con legge regionale, lo statuto speciale è
adottato e modificato con legge costituzionale.
Con riferimento invece alla potestà regolamentare degli enti locali, questa si estrinseca nella
possibilità di adottare REGOLAMENTI, che sono subordinati allo statuto e disciplinano
l’organizzazione e il funzionamento degli enti locali.

Anche le “autorità amministrative indipendenti” hanno potestà normativa, possono quindi


emanare atti normativi, a patto che siano atti aventi contenuto tecnico (non idonei, cioè, a
svolgere funzioni di indirizzo politico nei confronti di altre amministrazioni).

Tra le fonti del diritto amministrativo sono ricompresi anche i “Testi Unici”, atti che raccolgono
norme in origine comprese in atti diversi. Si distinguono in : 1) TESTI UNICI NORMATIVI
(che modificano o abrogano disposizioni di legge vigenti); 2) TESTI UNICI COMPILATIVI (si
limitano a raccogliere in un unico testo delle norme già esistenti, lasciando immutata la
legislazione vigente). Sempre in vista della semplificazione normativa, sono adottati “codici di

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settore”, con cui si intende dar luogo, in singole materie, ad un complesso di norme stabili e
armonizzate che garantiscano regole certe (ad es. codice dei contratti pubblici).

Non possono essere, invece, annoverate nel novero delle fonti di diritto amministrativo le
“CIRCOLARI AMMINISTRATIVE”, con cui l’amministrazione fornisce indicazioni relative
alle modalità di comportamento dei dipendenti di una determinata struttura organizzativa o di un
ufficio. La loro efficacia si esplica all’interno dell’amministrazione che le ha emanate.

6. L’autonomia privata dell’amministrazione. L’AUTONOMIA PRIVATA


è quella situazione di libertà con cui un soggetto regolamenta i propri interessi, ponendoli in
relazione con quelli di altri soggetti, nel rispetto delle regole poste dall’ordinamento. Tipica
espressione dell’autonomia privata è il contratto (e, più in generale, il negozio giuridico). Non c’è
mai stato dubbio che l’amministrazione possa compiere negozi giuridici o altri atti giuridici
privatistici. L’art. 1, comma 1-bis della L. 241 / 1990 statuisce che «la pubblica amministrazione,
nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che
la legge disponga diversamente». Dalla disposizione si ricava che l’amministrazione può porre in
essere atti di diritto privato. Anche l’ ATTIVITÀ DI DIRITTO PRIVATO deve considerarsi
attività amministrativa, poichè anch’essa è finalizzata alla cura dell’interesse pubblico. È questo un
passaggio fondamentale per capire se si possa parlare di “autonomia privata dell’amministrazione”.
A proposito di tale attività, sostanzialmente amministrativa e formalmente privatistica, sorge infatti
il quesito se all’amministrazione possa essere riconosciuta l’autonomia privata negli stessi termini
in cui è riconosciuta ai privati. Secondo una parte della dottrina, proprio perchè la P.A. può stipulare
e sottoscrivere contratti, la risposta è affermativa . Ma secondo altra dottrina, se per AUTONOMIA
PRIVATA s’intende il potere di regolamentare liberamente i propri interessi, essa non si accorda
con la disciplina tipica dell’attività dell’amministrazione, che è finalisticamente vincolata alla cura
dell’interesse pubblico. Infatti le pubbliche amministrazioni non possono scegliere gli interessi da
perseguire, ma devono solo porre in essere quell’attività necessaria al raggiungimento degli
obiettivi che la legge attribuisce loro. In base a questa argomentazione, la dottrina ha negato che
all’amministrazione possa essere riconosciuta autonomia privata.
Quindi, se si assume una concezione rigorosa di AUTONOMIA PRIVATA, come potere libero di
regolamentare i propri interessi, essa non può essere riconosciuta all’amministrazione, che è
vincolata a curare nel modo migliore possibile gli interessi che le sono affidati. Se invece per
autonomia privata si intende genericamente la capacità di porre in essere atti di natura privatistica,
allora si può ritenere che l’amministrazione ne sia dotata. In ogni caso, anche quando compie atti di
natura privatistica, l’amministrazione deve agire non solo curando l’interesse pubblico, ma anche
seguendo le procedure tipiche previste dalla legge. Ad esempio la stipulazione dei contratti è
preceduta da un articolato procedimento amministrativo, detto “procedimento di evidenza
pubblica”. Dato che l’amministrazione, sia che agisca con atti autoritativi sia che lo faccia con atti
consensuali e privatistici, deve seguire comunque le stesse regole, possiamo dire che alla sua azione
presiede un “unico statuto giuridico” e che ad essa si applicano sempre gli stessi principi (tra cui
quelli di legalità, proporzionalità e imparzialità) e gli stessi criteri generali (tra cui quelli di
economicità, efficacia, efficienza e trasparenza).

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- APPROFONDIMENTI –
1.LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE. Il diritto regola la vita della
società, intesa come un insieme di persone (fisiche e giuridiche), ognuna delle quali vanta propri
interessi e propri bisogni : queste persone, però, non vivono in modo isolato, ma tendono ad
intrecciare determinate relazioni tra loro : in questo modo, si viene a creare un particolare sistema,
in cui gli interessi e i comportamenti dei singoli soggetti trovano una connessione con gli interessi e
i comportamenti degli altri consociati. In un sistema del genere, il diritto deve tutelare gli interessi
di ogni singolo soggetto, ma deve anche attribuire a questi una qualificazione giuridica. Ed è questa
qualificazione giuridica degli interessi che viene ad assumere i connotati propri di SITUAZIONE
GIURIDICA SOGGETTIVA. Le SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE sono le situazioni o
posizioni in cui vengono a trovarsi determinati soggetti per effetto dell’applicazione di una o più
disposizioni giuridiche. I rapporti giuridici, e quindi le situazioni giuridiche soggettive, sorgono, si
modificano, e si estinguono, al verificarsi di determinate fattispecie, fatti tipici ai quali la norma
collega determinati effetti giuridici. Le situazioni giuridiche soggettive si distinguono in
SITUAZIONI DI VANTAGGIO e di SVANTAGGIO (a seconda che riconoscano utilità o pesi per
il loro titolare. Ad es. il diritto soggettivo è una situazione di vantaggio, l’obbligo è una situazione
di svantaggio). Si distinguono, inoltre, in SITUAZIONI STATICHE (o inattive) e DINAMICHE (o
attive) : le prime prendono in considerazione gli interessi dei singoli soggetti (il cui assetto può
essere definito in quiete, proprio perché statico); le seconde, invece, prendono in considerazione
quei comportamenti giuridicamente rilevanti in grado di modificare precedenti assetti di interessi
(consentendone, perciò la trasformazione). Le SITUAZIONI STATICHE, quindi, assicurano il
godimento di interessi tutelati dall’ordinamento e per il cui esercizio si richiede il compimento di
comportamenti facoltativi o leciti (dunque, non giuridici) : si pensi al diritto soggettivo (sia assoluto
che relativo). Al contrario, le SITUAZIONI DINAMICHE devono esercitarsi con la
predisposizione di appositi “atti giuridici” : il classico esempio di situazione dinamica è il potere.
*diritto assoluto = può essere fatto valere verso tutti (erga omnes); es. proprietà.

*diritto relativo = (inter partes) si possono far valere solo nei confronti di soggetti determinati; es. diritti di credito.

2. IL POTERE GIURIDICO. La classica situazione soggettiva dinamica è il POTERE,


che storicamente è nato da una costola del “diritto soggettivo” : infatti in passato il “diritto
soggettivo” era considerato non solo come una situazione soggettiva statica, ma anche dinamica (e,
più precisamente, come una facultas agendi, come situazione relativa all’agire giuridico). Tuttavia,
nel momento in cui si è preso atto che il “diritto soggettivo” avrebbe dovuto essere concepito come
un interesse protetto (con esclusione, quindi, della “facultas agendi” – intesa, questa, come
un’effettiva possibilità di ottenere il riconoscimento giuridico dell’interesse -), ci si è resi conto
dell’esistenza di una nuova situazione giuridica soggettiva : il POTERE. Questa situazione
soggettiva ha cominciato a interessare la dottrina a partire dagli anni ’50 del ‘900 ed è stata studiata,
in origine, prendendo come riferimento i “diritti reali”, e in particolare il DIRITTO DI
PROPRIETÀ : quest’ultimo, essendo il diritto di godere e disporre di cose determinate (art. 832
c.c.), avevano fatto comprendere che i due termini usati dalla norma (il godimento e la disposizione)
erano due situazioni diverse, perché il GODIMENTO presuppone un’attività fattuale, mentre la
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DISPOSIZIONE può aver luogo solo se il titolare del diritto pone in essere “atti giuridici”. Così,
una volta isolato il POTERE (disposizione) dal DIRITTO (godimento), è stato possibile enucleare il
concetto di DIRITTO POTESTATIVO, la cui nozione risulta molto cara al diritto amministrativo,
nel cui ambito questo concetto assume i connotati della “POTESTA’”, o meglio, del c.d. POTERE
AUTORITATIVO. E si tratta di un potere attraverso cui alla pubblica amministrazione viene
concessa la possibilità di porre in essere “atti giuridici unilaterali”, in grado di produrre effetti
giuridici (ampliativi o restrittivi) nella sfera dei destinatari, indipendentemente dal loro consenso.
Tuttavia, questo potere unilaterale deve fare i conti con l’ “interesse legittimo” (interesse a che
l’amministrazione provveda o non provveda, a seconda dei casi) spettante ai cittadini coinvolti, a
vario titolo, nella vicenda amministrativa.
*Diritto potestativo = situazione di “potere” contro una situazione di soggezione. Una parte ha il pieno potere di realizzare
una modificazione giuridica; l’altra parte non può che subirla. E’ proprio del diritto privato (serve a tutelare un interesse
proprio).

*Potestà = serve a tutelare un interesse altrui; è tipica del diritto pubblico.

CAPITOLO 2. SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE


DELL’AMMINISTRAZIONE.
1. Precisazioni sul potere giuridico. Il termine POTERE designa la “situazione
giuridica soggettiva della P.A., che questa esercita come autorità nell’ambito dell’attività
amministrativa”. Il potere che esercita la pubblica amministrazione come autorità si inscrive
nella più generale categoria del POTERE GIURIDICO e presenta propri caratteri distintivi : 1)
non è attribuito a tutti i soggetti dell’ordinamento, ma titolari del potere ne sono solo alcuni,
individuati dalla norma, a differenza di quanto avviene per il potere giuridico, che è conferito a
tutti i soggetti dell’ordinamento. Così, il potere di concludere contratti è manifestazione
dell’autonomia attribuita a tutti i soggetti, mentre il potere di espropriazione può essere
esercitato solo dagli organi individuati come competenti dall’ordinamento; 2) determina gli
effetti giuridici previsti dall’ordinamento, senza che occorra il consenso del destinatario,
costituendo, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive. Invece, nei rapporti tra
i soggetti dell’ordinamento, per trasformare le situazioni giuridiche soggettive occorre il
consenso degli interessati. Il trasferimento del diritto di proprietà su un bene opera, con
l’espropriazione, senza che sia necessario il consenso del suo proprietario e anche contro la sua
volontà. Il passaggio di un bene in proprietà da un soggetto all’altro, invece, interviene se si
incontrano la volontà di chi vuole vendere il bene e quella di chi lo vuole acquistare ; 3) si
esercita attraverso l’adozione di un atto tipico, detto “provvedimento amministrativo”,
disciplinato dalle norme giuridiche quanto a presupposti, procedimento, oggetto ed effetti. Il
potere giuridico, invece, si estrinseca in più atti, tipici e atipici. Esistono infatti negozi tipici,
disciplinati dal codice civile e dalla legge, ma anche atipici, che le parti possono sottoscrivere
stabilendo contenuti ed effetti giuridici non predeterminati dalle norme. L’amministrazione,
invece, nell’esercizio del potere autoritativo può adottare solo atti tipici; 4) si confronta con la

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situazione giuridica soggettiva di “interesse legittimo”, che ha una struttura e tutela diversa dal
diritto soggettivo; 5) gli atti che ne costituiscono esercizio sono sindacabili dal giudice
amministrativo, anche se con limitazioni, poiché la giurisdizione del Tribunale amministrativo
regionale e del Consiglio di Stato riguarda la “legittimità” (che si articola nei vizi di violazione
di legge, incompetenza ed eccesso di potere).

2.Distinzione del potere della P.A. in relazione al contenuto.


L’aspetto più rilevante della disciplina del potere della pubblica amministrazione è il
CONTENUTO (l’assetto di interessi che viene stabilito con l’esercizio del potere), che può
distinguersi sotto 3 profili :
1) POTERI DI TRASFORMAZIONE E POTERI DI CONSERVAZIONE : riguardano i possibili
effetti che può produrre l’esercizio del potere. La TRASFORMAZIONE comporta la costituzione,
modifica, estinzione di situazioni giuridiche soggettive e incide nel reale, perché richiede la
produzione di effetti materiali. La CONSERVAZIONE stabilisce che non si producano
modificazioni del reale e gli effetti si esauriscono solo sul piano giuridico. L’atto espressione del
potere di trasformazione è l’ “atto amministrativo positivo”, mentre quello di conservazione è l’
“atto amministrativo negativo”. Si può pensare al potere di trasformazione volto al rilascio di un
permesso di costruire, che autorizza il destinatario ad eseguire il manufatto richiesto; o al potere di
conservazione che nega il permesso di costruire. Di conseguenza :
 Il rispetto del “PRINCIPIO DI LEGALITA’” vale con maggior rigore per il potere di
trasformazione;
 Gli effetti innovativi di trasformazione sono stabiliti dagli “atti positivi”; mentre quelli non
innovativi, di conservazione, sono stabiliti dagli “atti negativi”.
 Nel caso del SILENZIO-ASSENSO CHE DETERMINA EFFETTI INNOVATIVI, la
trasformazione si produce se vengono rispettate la competenza e le norme sostanziali, ma
saltano tutte le altre regole formali e procedimentali, per cui i terzi lesi dal silenzio-assenso
potranno dedurre in giudizio solo il vizio di “incompetenza” e di “violazione delle norme
sostanziali” (a differenza di quando l’amministrazione adotta un provvedimento positivo,
contro cui è possibile dedurre davanti al giudice tutti i vizi, formali, procedimentali e
sostanziali). Nel SILENZIO-RIFIUTO o RIGETTO, gli effetti di conservazione si
producono anche se non si rispettano le norme sulla competenza e quelle sostanziali, perché
non si ha mutamento della situazione preesistente.
 Il “potere di disapplicazione dell’atto amministrativo” attribuito al giudice ordinario è una
misura idonea a impedire gli effetti del potere di trasformazione, ma non lo è per contrastare
gli effetti del potere di conservazione.
 Il “potere di annullamento” del giudice amministrativo consente un intervento efficace sul
potere di trasformazione senza alcuna limitazione in ordine ai vizi deducibili. Nei confronti
del potere di conservazione è l’azione di adempimento a consentire un’efficiente tutela,
anche se non può intervenire nei confronti del potere discrezionale.

2) POTERI DI INDIRIZZO E POTERI DI GESTIONE : è una distinzione che connota la


distribuzione del potere tra gli organi politici (elettivi) e quelli amministrativi. Gli organi politici
pongono gli indirizzi, gli scopi, i risultati che gli organi amministrativi devono perseguire attraverso
l’esercizio dei loro poteri di gestione. Ciò ha comportato il passaggio dal “modello a responsabilità

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ministeriale” a quello “a competenze differenziate”. Infatti gli elementi essenziali del “MODELLO
A RESPONSABILITA’ MINISTERIALE” sono :

 Tra i dipendenti e l’organo politico (Ministro, a livello centrale; Sindaco, Giunta e


Consiglio, a livello comunale, provinciale e regionale) c’è un “rapporto di gerarchia”;
 I dipendenti, reclutati in base a concorso per merito, sono organizzati in uffici che non hanno
il potere di esternare la volontà dell’amministrazione.
 I dipendenti svolgono attività preparatoria e istruttoria, redigono gli atti e danno ad essi
esecuzione, ma il momento decisionale di ogni singolo atto è di competenza degli organi
politici.
 I dipendenti esercitano a tempo indeterminato le loro funzioni e c’è coincidenza tra il
“rapporto d’ufficio” (pubbliche funzioni svolte) e il “rapporto di servizio” (prestazione e
retribuzione).
 I dipendenti sono “irresponsabili”, poiché gli organi politici sono responsabili degli atti
assunti sul piano civile, amministrativo e penale, nonché sul piano politico.

Per quanto riguarda le “FUNZIONI DIFFERENZIATE” (indirizzo e gestione), gli aspetti


qualificanti sono :

 L’eliminazione della concentrazione negli organi politici dell’attività di indirizzo, di


gestione e di controllo, con l’attribuzione ai dirigenti dei poteri di gestione, mentre gli
organi politici indicano gli obiettivi da perseguire e controllano l’attività dei dirigenti (nel
loro insieme, e non per ogni singolo atto) per verificare il raggiungimento degli obiettivi e
l’efficienza della gestione; dal rapporto di gerarchia si passa a “quello di direzione”.
 I dirigenti vengono distinti da tutti gli altri dipendenti : gli uffici di cui sono titolari
diventano “organi”, potendo impegnare l’amministrazione verso l’esterno.
 I dirigenti diventano responsabili degli atti adottati sul piano amministrativo, civile e penale,
oltre che dell’efficienza della gestione e del raggiungimento degli obiettivi.
 Gli incarichi di “direzione di aree funzionali” possono essere conferiti a tempo determinato,
per cui ai dirigenti può essere attribuito un “incarico di direzione” che comporta la
corresponsione di un trattamento economico aggiuntivo, con ciò operandosi una
differenziazione tra gli emolumenti che il dirigente riceve per le prestazioni normalmente
svolte come dipendente (rapporto di servizio) e quelli che riceve per il particolare incarico
funzionale (rapporto di ufficio). Quindi c’è uno scorporo tra il rapporto d’ufficio e di
servizio.
 L’incarico di “direzione di aree funzionali” (rapporto di ufficio) è a tempo determinato, può
essere rinnovato, ma può motivatamente cessare anzitempo in relazione ai risultati raggiunti
 E’ possibile che venga chiamato un altro soggetto, non dipendente dall’ente, a svolgere le
funzioni dirigenziali (con accesso, quindi, dall’esterno, senza far ricorso a dipendenti
reclutati in base a concorso per merito).

3) DISCREZIONALITA’ PURA, DISCREZIONALITA’ TECNICA E POTERE VINCOLATO : la


più importante distinzione del potere della P.A. è quella tra “potere vincolato”, “discrezionale puro”
e “discrezionale tecnico”. La P.A. esegue, come la giurisdizione, la legge, applicandola, per cui il
contenuto del provvedimento (= l’assetto di interessi) dovrebbe essere lo specchio della previsione
normativa. Ma così non è. L’amministrazione, infatti, opera nel concreto della realtà fattuale e deve
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realizzare “l’interesse pubblico specifico che ha in attribuzione” e che nella realtà non si presenta
isolato, ma insieme ad altri interessi pubblici e privati, per cui la legge non può prevedere tutte le
possibili eventualità che si determinano nella realtà. Non viene, quindi, fissato nella norma il
contenuto degli adottandi provvedimenti e l’amministrazione può scegliere la soluzione più
opportuna per soddisfare l’interesse pubblico. La “DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA”
(o pura) sta in questo potere di scelta. Invece il “POTERE VINCOLATO” si ha quando la norma
risolve, in via generale e astratta, la valutazione degli interessi e stabilisce il contenuto del
provvedimento da adottare allorchè si verifichino i presupposti di fatto previsti dalla norma. La
“DISCREZIONALITA’ TECNICA”, invece, non è espressione di una scelta, ma è il frutto di un
giudizio tecnico (economico, ingegneristico, sanitario, estetico, ecc.) che la norma stabilisce di
effettuare.

3.Potere vincolato e potere discrezionale puro. Se la norma disciplina


compiutamente l’azione amministrativa e, nel concreto, non ci sono spazi di scelta, si è in presenza
di un “POTERE VINCOLATO”; se invece la norma non opera la scelta, che deve essere effettuata
dall’amministrazione nel concreto, oppure la realtà pone un’evenienza non prevista, si è di fronte a
un “POTERE DISCREZIONALE”.
La dottrina ha cercato le “regole che l’amministrazione deve seguire nell’esercizio del suo potere di
scelta”. Infatti, se nelle norme di diritto positivo non si rinviene una disciplina sull’esercizio del
potere, si apre l’alternativa o di ritenerlo insindacabile o di individuare un metro di giudizio che non
è nelle norme, ma in altri valori, che possono essere i più diversi. Infatti il giudice amministrativo
svolge un giudizio sulla “legittimità”, e non sul “merito-opportunità”, comparando l’azione
amministrativa con ciò che prevede la norma, per cui ciò che non è predeterminato dalle norme è
insindacabile.
La dottrina ha individuato il “processo decisionale che porta la pubblica amministrazione ad operare
la scelta” : l’amministrazione deve agire per il soddisfacimento dell’interesse pubblico specifico di
cui è attributaria (“interesse primario”) o che la norma, in quel caso, le impone di perseguire, e la
scelta va eseguita valutando comparativamente tutti gli “interessi secondari” (pubblici e privati)
presenti nella concreta fattispecie alla luce dell’interesse pubblico primario, per poi decidere
l’assetto degli interessi, a seconda dell’interesse ritenuto prevalente nel singolo caso. Si è
individuata, cioè, la “corretta modalità con cui la P.A. deve procedere nell’esercizio del potere
discrezionale”, ma l’assetto degli interessi viene lasciato alla soluzione dettata dalla singola
concreta fattispecie, che può portare anche a ritenere recessivo (= che arretra) e a sacrificare
l’interesse pubblico primario in ragione di altro interesse, ritenuto dominante in quella particolare
evenienza.
L’evoluzione normativa ha indotto a criticare l’affermazione che la P.A. debba perseguire
l’interesse pubblico specifico che la legge le attribuisce o che la singola disposizione normativa le
impone di realizzare. Infatti, gli “enti a fini generali” (Regioni, Province, Comuni e gli altri enti
territoriali a fini generali) non hanno in attribuzione uno specifico interesse pubblico, ma tutti gli
interessi pubblici. Fa eccezione lo Stato, che presenta un’organizzazione a grosse branche, i
ministeri, che hanno in attribuzione un interesse pubblico ben individuato. Da questo punto di vista,
assume valenza solo teorica l’affermazione che si persegua l'interesse pubblico fissato dalla legge,
se quest’ultima attribuisce all’amministrazione i più ampi fini generali che si collegano al territorio
di governo. Sotto un’altra ottica, quando in un procedimento amministrativo è opportuno «effettuare
un esame contestuale di vari interessi pubblici», l’amministrazione procedente «indice una
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conferenza di servizi» per arrivare a una decisione frutto non di un organo che agisce da solo, ma
dell’insieme dei titolari dei diversi interessi pubblici coinvolti, che esprimono il loro avviso in
relazione all’interesse pubblico primario che ognuno ha in cura, per cui il modello della
comparazione degli interessi che si presentano in concreto (“secondari”, pubblici e privati) in
relazione all’“interesse pubblico primario” entra in crisi : nella conferenza di servizi si confrontano
contemporaneamente “più interessi primari coinvolti in una determinata operazione
amministrativa”.
Per concludere, quindi, secondo la tesi prevalente, l’amministrazione è libera di scegliere tra più
soluzioni, tutte ragionevoli e legittime, in base a criteri di opportunità e convenienza, che sono, in
quanto tali, sottratti al sindacato di legittimità.

4.La disciplina del contenuto del potere discrezionale. Un’altra dottrina,


rimasta minoritaria, elimina il merito della scelta amministrativa come sfera inviolabile dell’agire
libero dell'amministrazione. Si afferma che la P.A. non può determinare liberamente “i criteri che
regolano le scelte discrezionali”, perché questi sono espressione di scienze sociali, la cui
applicazione vincola l’amministrazione e la conduce a una soluzione obbligata, con la conseguenza
della piena “sindacabilità del potere discrezionale”, che deve essere esercitato in applicazione di
altre discipline, soprattutto sociali, e che sono date per presupposte (= scontate) dalla norma. Ma la
giurisprudenza amministrativa ha sempre affermato di non poter svolgere un “sindacato
sull’opportunità della scelta rimessa alla P.A.”, tranne che nelle materie, espressamente indicate
dalla legge, in cui esercita la più ampia giurisdizione estesa al merito. Ciononostante, la
giurisprudenza ritiene che il POTERE DISCREZIONALE sia comunque sottoposto al “sindacato di
legittimità”, che svolge attraverso le figure sintomatiche dell’eccesso di potere. In tal modo, la
giurisprudenza ha costruito dei “criteri che la discrezionalità deve rispettare”, pur in assenza di
espressa previsione normativa. Si tratta di “principi sull’attività amministrativa” che nascono dalla
valutazione giudiziaria del caso concreto e che si ispirano a valori desunti dall’ordinamento
giuridico (non contraddittorietà, conseguenzialità logica tra presupposti e conseguenze, ecc.), dal
precedente della stessa P.A., che si autovincola per la successiva azione (di qui alcune regole, come
la preventiva contestazione, la non disparità di trattamento, ecc.). Così, la giurisprudenza ha
individuato un metro per giudicare il contenuto del potere discrezionale della P.A., siccome la
disciplina dettata dalla norma giuridica, premessa maggiore del sillogismo giudiziale (previsione
normativa - fattispecie concreta - confronto di quest’ultima con la prima, per giungere alla
conclusione della “legittimità”, se conforme, o dell’ “illegittimità”, se difforme), manca nel potere
discrezionale. Il giudice amministrativo è venuto così a creare una griglia di regole disciplinanti
l’esercizio del potere discrezionale a cui la P.A. è vincolata per evitare l’annullamento, in caso di
impugnativa, e lo stesso giudice nelle sue sentenze le assume come principi che causano
l’illegittimità del provvedimento.
In sostanza, il giudice, in assenza di previsione normativa disciplinante l’esercizio del potere
discrezionale, ha costruito le proprie norme. Allo stato, il potere discrezionale è disciplinato da un
“reticolo di norme di origine giurisprudenziale”, espressione dei “principi sull’attività
amministrativa”, e l’agire libero della P.A. è confinato in ambiti sempre più ristretti. Tuttavia il
giudice non può ripetere lo svolgimento dell’AZIONE AMMINISTRATIVA, ponendosi al posto
della P.A. e valutando tutti gli apprezzamenti eseguiti, perché questa indagine è ritenuta appartenere
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al merito dell’attività amministrativa e, come tale, è insindacabile nella “giurisdizione di


legittimità”.

5.La discrezionalità tecnica. La DISCREZIONALITÀ TECNICA in origine era


riferita alla “norma c.d. imprecisa”, ossia quella che può dar luogo ad apprezzamenti soggettivi, non
univoci, per le aggettivazioni usate (evento «grave», pericolo «imminente», ecc.) e che sono definiti
fatti complessi rispetto a quelli “semplici” per i quali c’è un mero accertamento, senza valutazione
dell’«intensità» del fatto (l’altezza di un manufatto; la lunghezza di una strada, ecc.). La dottrina ha
evidenziato che l’accertamento del fatto e la sua valutazione è un’attività che la P.A. svolge dopo
aver interpretato la norma e, quindi, riconducendo il fatto alla norma, con un’attività identica a
quella necessaria in presenza di una norma precisa, per cui è palese la differenza con la
“discrezionalità amministrativa”. Tuttavia, il trattamento giuridico della “norma imprecisa” e di
“quella che attribuisce un potere discrezionale alla P.A.” è lo stesso : l’insindacabilità.
Fatto ancora più complesso ricorre quando la norma stabilisce che si debbano operare valutazioni
che trovano il loro parametro in scienze esatte o umanistiche (ad esempio, quando si attribuisce alla
P.A. il potere di vietare la vendita di sostanze tossiche : la tossicità va apprezzata applicando
conoscenze riferibili alla chimica, alla medicina, ecc.). In tutti questi casi si parla di
DISCREZIONALITA’ TECNICA, perché il giudice amministrativo la ritiene sindacabile, in sede
di “legittimità”, solo negli stessi modi con cui va a sindacare la discrezionalità amministrativa, e
cioè attraverso le figure c.d. sintomatiche dell’eccesso di potere. Ma la dottrina ha avvertito che in
queste ipotesi si è in presenza di una «pseudo-discrezionalità», che implica solo un “giudizio”, e
non è espressione di una scelta, come nella discrezionalità amministrativa. La
DISCREZIONALITA’ TECNICA è la manifestazione di un giudizio, che si ha dopo un
accertamento di fatto basato su regole tecniche e scientifiche. Tali regole sono richiamate dalla
norma, che non le espone, ma le dà per presupposte e conosciute.
La dottrina ha affermato che gli “apprezzamenti tecnici” non possono essere posti sullo stesso piano
della “ponderazione di interessi”, poiché sono questioni di diritto, poiché riguardano
l’interpretazione della norma che “incorpora” la tecnica, con conseguente necessaria
sottoposizione a verifica diretta da parte del giudice.
1) Per rimarcare l’ingiustificata chiusura del giudice amministrativo nel sindacare la discrezionalità
tecnica, si è sottolineato che il giudice ordinario conosce degli apprezzamenti tecnici della P.A.,
disponendo consulenze tecniche che vanno a rivalutare le operazioni eseguite.
2) Una parte della dottrina, invece, condivide la giurisprudenza del giudice amministrativo (cioè
condivide l’insindacabilità) : il giudice ordinario, si è detto, conosce del diritto soggettivo e deve
valutare se sia stato leso dall’attività della P.A. che, se convenuta davanti al giudice ordinario, non
ha agito nell’esercizio del potere, per cui è in posizione paritetica con l’attore, quindi è necessario
un accertamento del rapporto a tutto campo, anche in ordine agli accertamenti tecnici. Il giudice
amministrativo, invece, conosce di interessi legittimi incisi dall’atto della P.A., che si presenta come
«soggetto a cui spetta il potere di valutare una certa situazione», con la conseguenza che se il
giudice, invece di limitarsi a sindacare la correttezza dell’accertamento e delle valutazioni
compiute dalla P.A., si sostituisse ad essa, ne invaderebbe il campo.
Il giudice amministrativo ha perso la sua granitica posizione in ordine all’insindacabilità della
discrezionalità tecnica, con un’importante pronuncia della “quarta Sezione del Consiglio di Stato”,
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(sent. 601 / 1999) che si è pronunciata a favore della SINDACABILITÀ ed ha distinto


l’“opportunità” (propria della valutazione di merito) dall’“opinabilità di alcuni giudizi tecnici” : la
prima è una scelta tra più soluzioni per la cura di un interesse pubblico, la seconda è espressione
soggettiva di un giudizio tecnico relativo al fatto, non all’interesse pubblico. Da qui la possibilità di
un SINDACATO INTRINSECO, che affondi la sua indagine fino alla verifica della “correttezza del
criterio tecnico individuato” e del “procedimento seguito dall’autorità per applicarlo”. Allo stato,
c’è un filone giurisprudenziale che segue la stessa impostazione, anche se sono ancora dominanti le
decisioni che assimilano la discrezionalità tecnica a quella amministrativa quanto alla sindacabilità.
Si è affermato un orientamento che distingue tra giudizi tecnici opinabili (e quindi “soggettivi”) e
giudizi che si basano su dati non opinabili (e quindi “oggettivi”); per i secondi è previsto un
sindacato «forte», per cui il giudice può sostituirsi all’amministrazione nell’esprimere il giudizio;
mentre per i primi è previsto un sindacato «debole», attraverso l’eccesso di potere e le sue figure
c.d. sintomatiche, non essendo possibile sostituire il giudizio soggettivo e opinabile del giudice a
quello altrettanto opinabile dell’amministrazione.
Ma il sindacato del giudice non può escludersi nemmeno in presenza di un provvedimento
amministrativo che applica un parametro tecnico opinabile che fa parte della fattispecie normativa
da applicare al caso concreto. L’amministrazione non fa altro che interpretare il dato normativo,
accertare il fatto e valutare, secondo i “parametri tecnici della scienza richiamata dalla norma”,
senza dover eseguire alcuna valutazione di opportunità o di merito; nella stessa posizione
dell’amministrazione è il giudice rispetto alla norma nel momento in cui la interpreta, accerta il
fatto e valuta il dato tecnico richiamato nella norma. Non si può affermare, quindi, che il giudice
esprima un giudizio riservato al potere dell’amministrazione. Il giudice, se compie UN’INDAGINE
PIENA E DIRETTA SULLA VALUTAZIONE TECNICA, dà semplicemente esecuzione alla norma,
anche quando i parametri da applicare sono opinabili.

CAPITOLO 3. LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE


DEI PRIVATI.

1.Diritti soggettivi dei privati nei confronti dell’amministrazione. I


soggetti privati possono essere titolari, nei confronti dell'amministrazione, sia di diritti soggettivi
che di interessi legittimi. Al privato che sia proprietario di un bene l’amministrazione deve il
rispetto che è dovuto da tutti i soggetti dell'ordinamento. Se, per esigenze di pubblica utilità, il bene
deve essere espropriato, l'amministrazione deve agire nel rispetto del PRINCIPIO DI LEGALITA’ :
l'amministrazione ha il potere di estinguere il diritto di proprietà, ma deve esercitare il suo potere in
presenza dei presupposti previsti dalla legge e con le modalità e i tempi che la legge prescrive.
Finchè il provvedimento di espropriazione non diventa efficace, il diritto del privato permane.
I diritti soggettivi dei privati sono tali anche nei confronti dell’amministrazione, che ha il potere di
limitarli o estinguerli. La coesistenza di diritti (privati) e di poteri (pubblici) idonei a incidere sui
diritti non è contraddittoria : le due situazioni soggettive entrano in collisione solo nel momento in
cui l'amministrazione esercita il suo potere. Poiché l'esercizio del potere avviene mediante l’iter
procedimentale, è con l'apertura del procedimento che lo stato di collisione inizia a concretizzarsi.
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Tuttavia, se l'amministrazione ha il potere di limitare o estinguere il diritto, quest’ultimo non può


trovare tutela nei confronti dell’amministrazione : non possono essere contemporaneamente tutelati
il “diritto soggettivo” e il “potere di limitare o estinguere quel diritto”. Tuttavia il privato, titolare
del diritto soggettivo, non può rimanere senza tutela : così l’ordinamento attribuisce al titolare del
diritto una diversa situazione giuridica soggettiva, l’ interesse legittimo, che gli consente di
partecipare al procedimento e far valere le sue ragioni, per evitare o per ridimensionare l’incidenza
negativa sul suo diritto.
Il fenomeno dell’estinzione del diritto e della nascita dell’interesse legittimo è stato visto per anni
come “degradazione del diritto soggettivo”, intendendo che quest’ultimo si trasforma in interesse
legittimo. Ma non c’è alcuna trasformazione. L’interesse legittimo nasce con l'inizio del
procedimento, il diritto soggettivo si estingue solo alla conclusione di esso e solo nel caso che il
provvedimento sia sfavorevole per il privato. Non può quindi parlarsi di “trasformazione” del diritto
in interesse legittimo. Si tratta di due vicende separate che fanno sì che, per tutta la durata del
procedimento, coesistano entrambe le situazioni soggettive. Così il privato, da un lato, continua nel
godimento del bene di sua proprietà, e dall'altro, esercita la sua difesa nel procedimento
amministrativo di espropriazione.
Per contrastare l’esercizio del potere di estinguere il diritto, il privato non può invocare la titolarità
del diritto, poichè non si tratta di reagire ad una lesione del diritto; deve provvedervi usando
l'interesse legittimo : la tutela consentita non è l’opposizione all’amministrazione con
l’affermazione della titolarità del diritto, ma è il dialogo con l'amministrazione nel procedimento
per far sì che il potere sia esercitato in modo legittimo e proporzionato alle esigenze di pubblico
interesse.
Il diritto soggettivo può essere tutelato come tale (ossia, come diritto soggettivo) solo se il potere
autoritativo di limitarlo o estinguerlo non sussiste : ciò accade quando il soggetto pubblico che
adotta provvedimenti ablatori non è titolare di tale potere. Si ha allora la nullità del provvedimento
adottato in carenza di potere (che la legge denomina «difetto assoluto di attribuzione»).

2.Il problema dei c.d. diritti resistenti. Negli anni ‘70 la Cassazione individuò
diritti non limitabili né estinguibili ad opera dell’amministrazione : si creò così la categoria dei
diritti non degradabili, detti anche “diritti resistenti” (a cui venivano ricondotti quei diritti che
avevano riconoscimento nella Costituzione). L’ipotesi iniziale è quella del diritto alla salute, esteso
anche al diritto all'ambiente salubre.
La presenza di diritti non limitabili e inestinguibili non è tuttavia compatibile con l’attribuzione
all’amministrazione del potere di limitarli e estinguerli. Pertanto l’affermazione del carattere
resistente di un qualsiasi diritto deve logicamente comportare l’assenza di poteri amministrativi che
ne possano determinare l’ablazione. Questa è infatti la giustificazione teorica del carattere
incomprimibile di tali diritti : si assume che l'amministrazione sia priva del potere di comprimere il
diritto soggettivo costituzionalmente garantito. Tuttavia, se tali poteri sono attribuiti
all’amministrazione, non è possibile ipotizzare l’esistenza di diritti resistenti : questo perché nella
collisione tra potere e diritto il secondo cede.
Inoltre l’attribuzione di poteri all'amministrazione è finalizzata alla cura di interessi pubblici, la cui
soddisfazione può confliggere con gli interessi che sono tutelati come diritti soggettivi privati. Il
conflitto tra poteri pubblici e diritti privati è pertanto un conflitto tra interessi pubblici e interessi
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privati : la tutela piena di questi comporta necessariamente l’impossibilità di soddisfare gli interessi
pubblici, e, viceversa.
La Cassazione ha trattato dei diritti resistenti con riferimento a un “problema di giurisdizione",
affermando che le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (giudice
dei diritti soggettivi) e non in quella del giudice amministrativo (giudice degli interessi legittimi).
Quindi, il conflitto tra diritti costituzionalmente garantiti e poteri dell’amministrazione dovrebbe
essere risolto dal giudice ordinario. Tuttavia questo non è possibile, perché la tutela del diritto
soggettivo è diversa dalla tutela dell'interesse legittimo e inoltre il giudice ordinario non ha il potere
di annullare i provvedimenti amministrativi illegittimi (può solo condannare al risarcimento del
danno o applicare misure interdittive degli interventi pubblici).
La categoria dei DIRITTI RESISTENTI non è mai stata riconosciuta dal legislatore, che anzi,
disciplinando i provvedimenti cautelari del giudice amministrativo in tema di «interessi essenziali
della persona» (come il diritto alla salute, all’integrità dell'ambiente, o ad altri beni di rilievo
costituzionale), afferma la “giurisdizione del giudice amministrativo”, negando la giurisdizione del
giudice ordinario e l’esistenza di diritti resistenti. Tuttavia la Cassazione ha
mantenuto fermo il suo orientamento. La Corte costituzionale ha preso posizione sul problema,
affermando che «non è ravvisabile alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi
esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti
costituzionalmente protetti». L’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo
comporta che : 1) sussistono poteri autoritativi dell’amministrazione che incidono sui diritti
costituzionalmente garantiti; 2) nell’esercizio di tali poteri l’amministrazione può adottare
provvedimenti che incidono su questi diritti; 3) la tutela consentita ai titolari di tali diritti è quella
tipica dell’interesse legittimo, basata sulla dimostrazione del cattivo esercizio del potere da parte
dell’amministrazione e sull’invalidità del provvedimento incidente negativamente sul diritto.

3.L’interesse legittimo. L’INTERESSE LEGITTIMO permette al privato di difendere il


suo patrimonio giuridico dall’azione intrusiva dell’amministrazione o di sollecitare e sostenere
l’azione dell’amministrazione diretta all’ampliamento dello stesso patrimonio. Nel primo caso,
l’interesse legittimo si dice oppositivo, mentre nel secondo si dice pretensivo. L’interesse oppositivo
si ha, ad esempio, contro l’azione dell’amministrazione diretta a espropriare un bene immobile di
proprietà privata; l’interesse è invece pretensivo quando il privato richiede un provvedimento
amministrativo a sé favorevole (ad esempio, la concessione in uso esclusivo di una porzione di bene
demaniale).
Alla formazione del Regno d’Italia (1861) la tutela dei privati nei confronti dell’amministrazione
aveva carattere amministrativo, in omaggio al principio della separazione dei poteri, che impediva
che gli atti del potere esecutivo potessero essere giudicati da organi del potere giurisdizionale.
L’amministrazione si divideva allora in “amministrazione pura”, comprendente gli organi di
amministrazione attiva, e in “amministrazione contenziosa”, cui facevano capo i Tribunali del
contenzioso amministrativo. In occasione della “Legge di unificazione amministrativa” (L. 2248 /
1865), superando la rigorosa concezione della separazione dei poteri, si volle cambiare radicalmente
il sistema di tutela, affidando al giudice ordinario la tutela dei diritti soggettivi che i privati
ritenevano lesi dall’amministrazione. Ma la riforma non diede i risultati sperati, perché le
controversie con l’amministrazione non riguardavano sempre diritti soggettivi, e per queste
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controversie si perse la possibilità di farle decidere dai Tribunali del contenzioso amministrativo
(che, con la stessa legge, erano stati aboliti). Cosicché tutti gli interessi non riconosciuti come diritti
soggettivi rimasero senza una tutela giurisdizionale. Questa situazione determinò una seconda
importante riforma, attuata nel 1889 con l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato,
denominata «per la giustizia amministrativa». Il nuovo organo doveva assicurare la tutela «contro
atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa che abbiano per oggetto un interesse legittimo di
individui o di enti morali giuridici».

4.L’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva. C’è un


lungo percorso : dapprima l’INTERESSE è considerato : 1) una situazione giuridica soggettiva; 2)
poi una situazione giuridica soggettiva di diritto sostanziale; 3) e infine una situazione giuridica
soggettiva risarcibile.

L’inizio fu burrascoso, perché l’interesse non era riconosciuto nemmeno come situazione giuridica
soggettiva. I primi commentatori della legge del 1889 infatti escludevano che fosse stata creata una
nuova situazione giuridica soggettiva; meno che mai potevano pensare al riconoscimento di nuovi
diritti soggettivi, perché, ove si fosse trattato di diritti, la tutela doveva essere chiesta al giudice
ordinario, in forza della legge del 1865. Per giustificare che fosse data tutela giurisdizionale a
interessi non riconosciuti come diritti soggettivi, si usarono vari espedienti : Meucci ipotizzò che il
ricorso consistesse in un’azione popolare moderata, rispetto a cui l’interesse serviva a circoscrivere
l’ambito dei soggetti legittimati ad esercitarla; sempre Meucci costruì il ricorso come inteso a
tutelare in modo diretto l’interesse pubblico e in modo solo occasionale l’interesse del privato
ricorrente, creando la formula dell’«interesse occasionalmente protetto» (ossia protetto di riflesso,
ove coincidente con l’interesse pubblico); Ranelletti immaginò che l’interesse del privato ricorrente
fosse un vero e proprio diritto soggettivo, «compresso» dagli atti e provvedimenti
dell’amministrazione. L’«interesse legittimo» non era concepito come una situazione giuridica
soggettiva : o era un interesse irrilevante giuridicamente o si identificava con il diritto soggettivo
«compresso».
Un eminente processualcivilista, Chiovenda, all’inizio del ‘900, enunciò la tesi per cui l’’AZIONE
GIURISDIZIONALE deve essere considerata un «diritto» a sè stante, separata dal diritto soggettivo
che essa serve a tutelare; e, a dimostrazione dell’autonomia dell’azione portò ad esempio proprio
«il diritto di chiedere l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi», riferendosi al giudizio
che si svolgeva davanti alla Quarta Sezione. La tesi di Chiovenda non eleva ancora l’interesse
legittimo a situazione giuridica soggettiva, ma elimina un ostacolo importante al suo
riconoscimento come situazione giuridica soggettiva : non ci può essere alcuna situazione giuridica
soggettiva senza che ad essa sia riconosciuta tutela giurisdizionale. Su questa strada si è posta in
seguito la dottrina, sostenendo che l’interesse del privato si riduce a un “interesse processuale” (in
cui il ricorrente trova non il titolo da far valere col ricorso, ma solo la legittimazione per
proporlo) : infatti le norme che regolano l’azione amministrativa servono a tutelare l’interesse
pubblico e l’amministrazione che viola tali norme lede l’interesse pubblico; quindi il giudizio
amministrativo mira a ristabilire l’interesse pubblico leso. Il privato, come tale, non ha il titolo per
dolersi dell’eventuale violazione di norme, ma poiché il suo interesse può risentire uno svantaggio
dall’inosservanza di quelle norme, l’ordinamento si avvale di lui come dello strumento atto a
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promuovere la restaurazione dell’interesse pubblico leso. L’interesse legittimo resta privo di


qualsiasi rilevanza giuridica sul piano sostanziale, ma acquista rilievo sul piano processuale. Quindi
viene elevato a fatto integrante la legittimazione ad agire (o come “potere di agire in giudizio”).

5.L’interesse legittimo come situazione giuridica sostanziale. Inteso


come situazione processuale, l’interesse legittimo nasce dopo l’adozione del provvedimento
sfavorevole. Non sussistendo prima dell’adozione di quest’ultimo, non ha nulla a che fare con il
procedimento e le facoltà che, nell’ambito del procedimento, sono attribuite al privato e che gli
consentono di influire sul modo in cui l’amministrazione esercita il suo potere.
Per ritenere sussistente una SITUAZIONE DI DIRITTO SOSTANZIALE, occorre che essa abbia
riconoscimento e tutela anche fuori (e prima) del processo : non può trattarsi semplicemente di un
potere di reazione in sede processuale.
Alla costruzione dell'interesse legittimo ostava una circostanza fondamentale : l’interesse del
privato può legittimamente non essere soddisfatto dall’azione dell’amministrazione. Se ne
deduceva, quindi, che non potesse essere ritenuto protetto giuridicamente un interesse di cui
l’ordinamento non garantiva la soddisfazione. Allora l’interesse legittimo fu concepito come
“interesse alla legittimità dell’azione amministrativa” (Tosato). Tuttavia la “LEGITTIMITÀ” è un
valore oggettivo e astratto, che mal si presta ad essere l’oggetto di una situazione soggettiva.
Occorre un aggancio di questo valore astratto a qualcosa di concreto cui il soggetto aspira : occorre
cioè rendere individuale e soggettivo l’“interesse alla legittimità”.
La dottrina comincia a rendersi conto che l’INTERESSE ALLA LEGITTIMITA’ è un interesse
strumentale, che va collegato con un altro interesse, che sia sostanziale (interesse a un bene della
vita) e sia inoltre proprio di determinati soggetti (ossia relativo a un bene della vita, che essi
vogliono acquisire o non perdere). In questo modo si può spiegare il “carattere soggettivo
dell’interesse legittimo”. Si è cercato
poi di esaminare quale possa essere l’oggetto dell’interesse legittimo ed è stato individuato
nell’AZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE, in quanto strumentale ad acquisire (o a non perdere)
un bene della vita : poiché lo strumento di soddisfazione dell’interesse al bene della vita è il
comportamento dell'amministrazione, è logico ritenere che l’oggetto sia proprio tale comportamento
(Scoca). Secondo altri, tuttavia, sarebbe preferibile indicare come oggetto dell’interesse legittimo
direttamente il BENE DELLA VITA (Miele). A sanzionare definitivamente il carattere di
situazione sostanziale dell’interesse legittimo è stata la Costituzione : l’art. 24, collocando gli
interessi legittimi accanto ai diritti soggettivi, presuppone che i primi siano, come i secondi,
situazioni giuridiche soggettive di diritto sostanziale; e alla stessa conclusione portano gli artt. 103
e 113 Cost. Il contenuto sostanziale dell’interesse legittimo è stato trasfuso in disposizioni
legislative con la “legge sul procedimento amministrativo” (L. 241 / 1990) : si tratta di facoltà che
attengono al procedimento. “L’interesse legittimo vive nel procedimento”. Dopo l’adozione del
provvedimento che chiude il procedimento, se l’interesse legittimo si ritiene violato, sorge il potere
di tutela giurisdizionale, che si esplica con l’impugnazione del provvedimento davanti al giudice
amministrativo.

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6.L’interesse legittimo come situazione giuridica risarcibile. Una


volta affermato il carattere sostanziale dell’interesse legittimo, avrebbe dovuto derivarne come
immediata conseguenza la sua risarcibilità in caso di violazione da parte dell’amministrazione, sia
per il “mancato o ritardato esercizio del potere” (per l’assenza o la tardiva adozione del
provvedimento richiesto), sia per l’“illegittimo esercizio del potere” (e per l’adozione di
provvedimenti illegittimi sfavorevoli per il loro destinatario o per soggetti terzi). Ciononostante la
giurisprudenza non ha ritenuto ammissibile il risarcimento del danno fino alla fine del secolo scorso
: la resistenza della giurisprudenza, dovuta all’orientamento della Cassazione, non aveva un
fondamento giuridico e rispondeva solo alla preoccupazione di tutelare le finanze pubbliche, non
esponendole a esborsi da risarcimento. A convincere la Cassazione dell’insostenibilità del suo
orientamento è stata la pressione del diritto comunitario, che ha affermato, in tema di appalti
pubblici, il principio per cui è risarcibile qualsiasi danno provocato dal comportamento illecito
dell’amministrazione, anche se ad essere lesi sono interessi legittimi. Cosicché l’INTERESSE
LEGITTIMO ha visto completata la sua evoluzione e presentarsi finalmente come situazione
giuridica soggettiva, sostanziale e risarcibile. Tuttavia : 1) se si assume che l’interesse legittimo ha
ad oggetto il “bene della vita” a cui il suo titolare aspira (o il bene che egli teme di perdere), la
misura del risarcimento deve parametrarsi al valore del bene illecitamente perduto o illecitamente
non acquisito. 2) Se invece si assume che l’interesse legittimo ha ad oggetto il “comportamento
dell’amministrazione”, che è lo strumento necessario per acquisire un nuovo bene della vita
(interesse pretensivo) o per non perdere un bene già facente parte del patrimonio giuridico del
privato (interesse oppositivo), la misura del danno risarcibile riguarda solo il valore dell’ interesse,
leso da comportamenti procedimentali illegittimi.

*ART. 24 COST. : “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.

*ART. 103 COST. : “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la
tutela nei confronti della P.A. degli INTERESSI LEGITTIMI e, in particolari materie indicate dalla legge,
anche dei DIRITTI SOGGETTIVI”.

*ART. 113 COST. : “Contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei DIRITTI e degli
INTERESSI LEGITTIMI davanti agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”.

-PARTE II. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA -


- 2. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA-

CAPITOLO 1. LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E LA


SUA EVOLUZIONE.

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1. L'unificazione amministrativa. Con la formazione politica del Regno d’Italia


come Stato unitario le singole discipline amministrative vigenti negli Stati preunitari, molto diverse
tra loro, si sono uniformate al diritto vigente in Piemonte (infatti per l’unificazione amministrativa
si è parlato di «piemontesizzazione»). Le ragioni dell’uniformazione al sistema piemontese, e non
ad altri, sotto certi aspetti più progrediti (quello lombardo, toscano o napoletano) sono due : 1) il
Regno sabaudo era il solo Stato costituzionale al momento della formazione del Regno d’Italia, per
cui i temi di fondo (rapporti tra Parlamento ed Esecutivo, relazioni tra Governo e apparato
amministrativo, poteri del Sovrano) dovevano per forza ispirarsi al modello piemontese; 2) nel 1859
il Governo piemontese, usufruendo dei poteri che gli erano stati attribuiti in occasione della seconda
guerra di indipendenza, aveva promulgato leggi molto importanti; sempre nel 1859, inoltre, erano
stati pubblicati il codice penale, di procedura penale e di procedura civile, cosicché l’ordinamento
piemontese era il più aggiornato.
Tuttavia, la sostituzione del vecchio sistema con il diritto amministrativo piemontese avvenne, nelle
varie zone del Regno, in tempi e modi diversi : infatti, mentre nei ducati di Parma e Modena, il
reggente Farini decise di introdurre quasi subito il sistema piemontese, in Toscana il Ricasoli,
convinto della superiorità del sistema vigente nel Granducato, ritenne necessario mantenere in vita
le vecchie istituzioni (in tal modo, l’uniformazione del diritto avvenne qui per fasi successive). Per
ciò che riguarda invece la Lombardia (ove pure si era convinti della superiorità del sistema in vigore
precedentemente), nel 1860 si ebbe una brusca introduzione del sistema piemontese (anche se fu
previsto un periodo di transizione voluto da Cavour). Molto più difficile fu, al contrario,
l’introduzione del modello piemontese nel sistema napoletano e in quello siciliano, in cui fu
necessario il susseguirsi di diversi governi (dalla dittatura Garibaldi alla luogotenenza Cialdini) :
proprio per tale motivo, l’autonomia organizzativa del Mezzogiorno durò fino al 1° novembre del
1861. L’“unificazione amministrativa” fu attuata in via definitiva solo con la L. 2248 / 1865,
approvata su pressione del Governo La Marmora : tale legge era costituita da un articolo e da 6
allegati (relativi all’amministrazione provinciale e comunale, alla sicurezza, alla sanità pubblica, al
Consiglio di Stato, all’abolizione del contenzioso amministrativo e alle opere pubbliche).

2. La fisionomia originaria della amministrazione pubblica


italiana. L’organizzazione amministrativa piemontese presentava i caratteri della semplicità,
dell’uniformità, dell’accentramento e della gerarchia. Quindi era del tutto diversa da quella attuale.
Gli stessi caratteri sono stati trasmessi all’organizzazione amministrativa del Regno d’Italia. Le
strutture organizzative sono concentrate negli enti territoriali : Stato, Provincia e Comune. Sono
pochi gli enti pubblici diversi dagli enti territoriali e quelli che ci sono hanno origini antiche e
struttura associativa (ad es. gli ordini professionali e le camere di commercio).
Le Province e i Comuni, pur essendo dotati di personalità giuridica propria, sono considerati
«membra dello Stato». Poiché l’intera “organizzazione pubblica” è organizzazione dello Stato,
occorre distinguerla in AMMINISTRAZIONE DIRETTA (se fa capo alla persona giuridica Stato) e in
AMMINISTRAZIONE INDIRETTA (se attiene agli enti territoriali minori).
L’organizzazione interna della Provincia e del Comune è dominata da organi dello Stato : al vertice
della Provincia è posto un organo collegiale, la Deputazione provinciale, presieduta dal Prefetto. Al
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vertice del Comune siede il Sindaco, che è nominato dal Governo (dal Re) tra i consiglieri
comunali. Gli enti territoriali minori sono gerarchicamente dipendenti dallo Stato. La struttura
organizzativa di tali enti risponde al criterio dell’uniformità. L’uniformità è anche propria
dell'amministrazione dello Stato : a livello centrale troviamo i Ministeri (suddivisi in direzioni e
sezioni); a livello periferico le Prefetture e le Sottoprefetture. L’amministrazione si presenta come
un corpo compatto governato dal centro e ha carattere fortemente accentrato.

3. Evoluzione dei modelli organizzativi. Un sistema così semplice, uniforme e


accentrato (in cui lo Stato era l’assoluto dominante) non poteva reggere all’aumento delle funzioni
assegnate all’amministrazione pubblica. Così le strutture organizzative originarie (dello Stato e
degli enti territoriali minori) si sono dilatate; contemporaneamente sono aumentati gli enti pubblici
ausiliari e sono stati introdotti nuovi modelli. Alla fine dell’800 fu introdotto il modello
dell’AZIENDA AUTONOMA, inserita in ambito ministeriale, ma dotata di autonomia gestionale e
finanziaria : in pratica, attraverso l’azienda autonoma lo Stato assunse il compito di erogare in
modo diretto servizi ai cittadini (si pensi all’istituzione dell’ “Azienda autonoma Ferrovie dello
Stato”, conseguente alla nazionalizzazione di buona parte delle strade ferrate, prima gestite da
società private in base a concessioni).
Le originarie strutture ministeriali infatti non erano adatte a svolgere compiti di carattere aziendale e
si dovette introdurre un modello organizzativo aziendale. La stessa esigenza è alla base
dell’introduzione, all’inizio del ‘900, dell’“AZIENDA MUNICIPALIZZATA”, articolazione del
Comune e della Provincia, finalizzata alla gestione di vari servizi (dall’illuminazione del tessuto
stradale, agli acquedotti, al trasporto pubblico). Inoltre in epoca fascista furono istituiti anche i c.d.
“ENTI PUBBLICI FUNZIONALI”, strutture organizzative dotate di personalità giuridica di
diritto pubblico e destinate a svolgere funzioni specifiche : tra questi ricordiamo
l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), l’Istituto nazionale assistenza infortuni sul
lavoro (INAIL) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI).

4. L'ordinamento regionale. La Costituzione del 1948 ha arricchito il panorama degli


enti territoriali, inserendovi la REGIONE, ente dotato di “potere legislativo” in determinate
materie (elencate nell’art. 117 Cost.), nonché di “potere statutario”, con funzioni amministrative
nelle stesse materie devolute alla sua competenza legislativa. Si prevedeva che la Regione dovesse
esercitare le sue funzioni amministrative non direttamente, ma mediante delega alle Province e ai
Comuni o avvalendosi dei loro uffici : si voleva così evitare che la Regione divenisse un “ente di
gestione”, rimanendo un centro di indirizzo e coordinamento di attività demandate ad enti già
esistenti. Ma una volta istituite le Regioni (1970), l’originario disegno costituzionale è andato
perduto. Le Regioni, invece di delegare le loro funzioni amministrative agli enti locali o di avvalersi
dei loro uffici, hanno sviluppato proprie strutture operative, esercitando direttamente le loro
funzioni (e ciò ha finito per appesantire il quadro dell’organizzazione pubblica).
Per quel che riguarda, invece, la funzione legislativa, con la riforma del Titolo V, Parte II della
Costituzione (legge cost. 3 / 2001) è stato stabilito che la loro potestà legislativa si estende «ad ogni
materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, 4°comma). Si è cioè
invertito il vecchio sistema che lasciava allo Stato la competenza generale e residuale e attribuiva
alle Regioni potestà legislativa solo nelle materie tassativamente elencate (vecchio art. 117 : “La Regione
emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”). Una
grande modifica ha riguardato poi le funzioni amministrative delle Regioni : infatti è stata superata
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la regola del “parallelismo delle funzioni” fissata nel vecchio testo costituzionale, cioè della loro
corrispondenza alle materie di competenza legislativa (vecchio art. 118 : “Spettano alla Regione le funzioni
amministrative per le materie elencate nel precedente articolo”). Il nuovo criterio di distribuzione delle funzioni
amministrative tra enti territoriali si basa sui principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza : le funzioni amministrative «sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne
l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato» (art. 118,
1°comma).
*POTESTA’ STATUTARIA = potere di autoregolamentarsi.

*STATUTO = disciplina l’organizzazione e il funzionamento di un ente.

*L. cost. 3 / 2001 = attribuisce alle Regioni “competenza legislativa residuale” in ordine alle proprie elezioni.

*ART. 117, 4 comma = potestà legislativa residuale, esclusiva delle Regioni.

5. Le riforme dell'ultimo decennio dello scorso secolo. Vari episodi di


riforma dell’amministrazione pubblica si sono avuti negli anni '90. L’innovazione maggiore
riguarda la distinzione tra funzioni politico-amministrative (indirizzo e controllo) e quelle
prettamente amministrative (gestione amministrativa, finanziaria e tecnica) : in base a tale
distinzione gli organi di ogni amministrazione si distinguono in organi politico-amministrativi
(organi di governo) e organi tecnico-amministrativi (dirigenti).
Per quanto riguarda l’apparato ministeriale, è stata riordinata la Presidenza del Consiglio, struttura
destinata ad assicurare l’unità di indirizzo politico e amministrativo del Governo, con compiti di
impulso, indirizzo e coordinamento ed è stata rivista l’organizzazione interna dei ministeri. Lo
schema organizzativo del ministero prevede strutture di primo livello, che possono essere o i
“dipartimenti” o le “direzioni generali”. Viene disciplinata la figura del “Segretario generale”, ma
solo per i ministeri articolati in direzioni generali.
Sono state inoltre introdotte le “agenzie”, strutture organizzative dotate di piena autonomia che
svolgono attività tecnico-operative di interesse nazionale, operano al servizio di amministrazioni
pubbliche e sono sottoposte ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministro.
A livello periferico, invece, è stata disposta la trasformazione della “Prefettura” in “Ufficio
territoriale del Governo” (UTG), al quale inizialmente erano state attribuite tutte le competenze
periferiche dello Stato, ma poi esso è stato ridimensionato ad ufficio con meri compiti di
coordinamento degli altri uffici periferici dello Stato.
Agli enti territoriali minori, Province e Comuni, è stata attribuita fin dal 1990 potestà statutaria, ma
anche autonomia «normativa, amministrativa, impositiva e finanziaria».
Il quadro dell’amministrazione pubblica oggi è assai diverso dal quadro originario : alla semplicità è
seguita la complicazione; all’uniformità la differenziazione dei modelli; all’accentramento il
decentramento.

6. Lo sviluppo delle autonomie e il federalismo. Gli enti territoriali minori,


da «membra dello Stato» si evolvono in enti autonomi e, da una posizione di “subordinazione
gerarchica” rispetto allo Stato, sono elevati ad enti ad esso equiordinati. Nel processo evolutivo
individuiamo due tappe fondamentali : 1) il passaggio dal sistema originario, totalmente statuale
(statocentrico), ad un sistema in cui lo Stato conserva una posizione dominante (nel senso che resta
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il centro di indirizzo unitario del sistema complessivo), ma le strutture amministrative degli enti
territoriali non sono più considerate amministrazioni indirette dello Stato; 2) il passaggio ad un
sistema «policentrico», ossia articolato in più centri di elaborazione di indirizzi politico-
amministrativi, facente perno sugli enti territoriali cui viene riconosciuta larga autonomia. In questo
quadro lo Stato è solo una delle componenti della Repubblica, formalmente equiparato agli altri enti
territoriali.
La prima tappa inizia con le “riforme crispine” (fine ‘800), si interrompe con il fascismo, e si
conclude con la “Costituzione del 1948”; la seconda si estende nel periodo successivo, trova il suo
pieno riconoscimento con la riforma costituzionale del 2001 (legge cost. n. 3 / 2001) ed è ancora in
corso, non essendo state pienamente attuate le nuove regole costituzionali.
Negli anni '80 dell’800 Crispi rende elettiva la carica di Sindaco nei Comuni maggiori (la riforma
venne poi estesa a tutti i comuni dal Di Rudinì); fatto ciò, Crispi abolisce la Deputazione
provinciale e rende elettiva la carica di Presidente della Provincia. Le due cariche di vertice del
Comune e della Provincia diventano così espressione dei relativi Consigli e viene rotto l’ambiguo
rapporto che intercorreva tra gli organi statali e gli organi degli enti locali. Tuttavia resta inalterata
l’ingerenza dello Stato nell’amministrazione di Comuni e Province, in quanto l’apparato centrale
conservava comunque un influente potere, che veniva esercitato attraverso i penetranti “controlli”,
non solo di legittimità, ma anche di merito, effettuati dal “Prefetto” e dalla “Giunta provinciale
amministrativa”.
La situazione non cambia granchè fino all’avvento del regime fascista, che si ispira di nuovo ai
“principi di gerarchia” e “unità dell’intera amministrazione pubblica”, governata dallo Stato. Il
Sindaco, ora denominato Podestà, torna ad essere nominato dal Governo e alla Provincia viene
preposto il Preside, carica anch’essa di nomina governativa.
Dopo la caduta del regime fascista, nel 1943, vengono ripristinati gli organi elettivi (voluti dalla
riforma Crispi), ma rimasero in vigore i precedenti e penetranti controlli.
E arriviamo così all’avvento della Costituzione del 1948 : essa contiene una norma fondamentale :
«la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5). Ma c’è di più
: l’art. 130 Cost. (oggi abrogato dalla l. cost. 3 / 2001) modifica il sistema dei controlli,
trasformando il “controllo di merito” da sanzionatorio (avente come esito l’annullamento degli atti
controllati) a collaborativo (tendente a richiedere motivatamente agli enti controllati «di
riesaminare la loro deliberazione») e affida alla Regione i controlli sugli enti territoriali minori. Con
la Costituzione si chiude la prima tappa : lo Stato non è più egemone, ma ha ancora un accentuato
predominio nei confronti delle altre amministrazioni pubbliche.
L’istituzione delle Regioni (nel 1970) è stato un passo in avanti nel cammino verso il pieno
riconoscimento dell’autonomia degli enti territoriali minori. Sia il potere statutario, sia la potestà
legislativa in alcune materie, hanno rotto il monopolio statale anche nella determinazione
dell'indirizzo politico-amministrativo. Negli anni '90 la potestà statutaria è stata riconosciuta anche
a Comuni e Province. Nel contempo sono stati ridotti i controlli statali sulle Regioni e i controlli
regionali sugli enti locali.
Il punto di arrivo si ha con la legge cost. n. 3 / 2001, che ha modificato il Titolo V della
Costituzione. L’art. 114, 2°comma recita : «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione» (in tal modo il PRINCIPIO AUTONOMISTICO viene disciplinato in modo concreto).
Esso si realizza attraverso l’attribuzione agli enti autonomi sia della “potestà statutaria”, sia di

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un’ampia “potestà regolamentare”. A prescindere dalle Regioni, che hanno anche “potestà
legislativa”, anche gli enti territoriali (Comuni, Province e le non ancora istituite Città
metropolitane) sono dotati, oltre che di “potestà statutaria”, di “potestà regolamentare” in ordine
alla disciplina della loro organizzazione e dello svolgimento delle loro funzioni.
Un’ulteriore riforma in corso è orientata verso un modello di “FEDERALISMO MODERATO”. In
attuazione del novellato art. 119 Cost., che esalta l’«autonomia finanziaria di entrata e di spesa»
degli enti territoriali, è stata conferita delega al Governo per la realizzazione del c.d. “federalismo
fiscale”, con l’obiettivo di sostituire il vecchio sistema di finanziamento (mediante versamenti
statali) con un nuovo sistema basato sul conferimento agli enti territoriali di un potere impositivo
proprio : l’obiettivo che si intende perseguire è quello di consentire agli enti territoriali di finanziare
la spesa con entrate proprie, sulla base di costi standard.
In tal modo ciascun ente ha 3 tipi di entrate : i tributi e le entrate propri, le compartecipazioni al
gettito di tributi erariali e le erogazioni del fondo perequativo . La riforma si ispira, oltre che al
principio di autonomia, anche a QUELLO DI SOLIDARIETÀ : si prevede la costituzione di un
fondo perequativo a favore dei «territori con minore capacità fiscale per abitante».
Agli enti territoriali vengono trasferiti i beni demaniali e patrimoniali dello Stato. I beni trasferiti
perdono il carattere demaniale, tranne quelli del demanio marittimo, idrico ed aereonautico. Le loro
risorse devono finanziare le funzioni pubbliche attribuite agli enti; è prevista però la possibilità di
indebitamento (ricorso alle banche, al risparmio privato, ecc.) solo per finanziare spese di
investimento, essendo però esclusa ogni garanzia dello Stato su tali prestiti.
*ART. 123 COST. = lo “statuto regionale” è approvato dal Consiglio regionale con un iter aggravato.

*STATUTO REGIONALE = regola la “forma di governo” e l’“organizzazione interna” dell’ente (è una sorta di
Costituzione regionale).

*TRIBUTI ERARIALI = da versare allo Stato.

*ART. 117, 1°comma Cost. = la legge statale e quella regionale hanno gli stessi limiti.

7. Le società pubbliche e a partecipazione pubblica. La P.A. si articola in


“SOGGETTI PUBBLICI”; tuttavia essa si è circondata di “SOGGETTI PRIVATI” (ad es. di
società) per esigenze diverse. La prima esigenza fu l’intervento dello Stato in economia,
determinata dalla profonda crisi del 1929. Lo Stato rilevò il pacchetto azionario di molte società per
non farle fallire e raccolse le partecipazioni azionarie in capo a un ente pubblico istituito
appositamente, l’IRI, “Istituto per la ricostruzione industriale”. Si realizzò così la figura dello
STATO IMPRENDITORE. Mentre originariamente lo Stato e gli altri enti pubblici investivano in
ogni campo dell’imprenditoria privata, successivamente si orientarono verso la gestione dei servizi
pubblici (sia statali che locali). Ciò comportò, da un lato, l’eliminazione del “sistema delle
partecipazioni statali”, e, dall’altro, l’affidamento dei servizi pubblici a società a partecipazione
pubblica (sia statale, sia regionale, sia locale). Nascono così le società per azioni Ferrovie dello
Stato, Poste italiane, ENEL, ANAS, ecc. Le “aziende municipalizzate” si trasformano anch’esse in
società per la gestione dei servizi pubblici locali.
Alla fine del secolo vengono costituite per legge “società a prevalente o esclusiva partecipazione
statale”, per le quali vengono dettate disposizioni derogatorie rispetto a quelle contenute nel codice
civile. Si è posto quindi il problema della natura pubblica o privata di queste società e, per alcune
di esse, è prevalsa l’idea che abbiano natura pubblica : sarebbero “enti pubblici con struttura
societaria”. Ad es., sono state ritenute pubbliche Patrimonio dello Stato s.p.a. e Riscossione s.p.a.
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(attualmente detta Equitalia). Secondo la giurisprudenza, le società avrebbero natura pubblica in


presenza dei seguenti elementi : 1) istituzione per legge; 2) partecipazione totalitaria o maggioritaria
di enti pubblici; 3) carattere pubblico dei compiti da perseguire; 4) poteri di indirizzo da parte di
autorità pubbliche; 5) soggezione a disciplina in parte diversa da quella codicistica; 6) irrilevanza
dello scopo di lucro.
Occorre tenere distinte le “SOCIETÀ PUBBLICHE”, che sono enti pubblici, dalle “SOCIETÀ A
PARTECIPAZIONE PUBBLICA”, che sono soggetti privati, anche se a loro possono applicarsi
alcune norme dettate per l’amministrazione pubblica. In tempi recenti, si supera la figura dello
“Stato imprenditore” e si afferma lo “STATO REGOLATORE” : lo Stato deve limitarsi a dettare le
regole per il corretto sviluppo dell’economia. Si fa strada quindi l’idea di restringere la possibilità
per gli enti pubblici di partecipare a società che gestiscono servizi pubblici, poichè anche questi
devono essere lasciati alla libera concorrenza tra imprese private. Negli ultimi tempi
l’atteggiamento del legislatore nei confronti delle società a partecipazione pubblica è cambiato :
poichè esse non hanno determinato una maggiore efficienza nella gestione dei servizi e ne hanno
anzi aumentato i costi, si è fatto molto più severo. Ad esempio sono state poste forti limitazioni alla
costituzione di nuove società ed è stata prevista la dismissione della partecipazione pubblica nelle
società in perdita.
*NAZIONALIZZAZIONE = passaggio alla proprietà e al controllo dello Stato di “servizi di pubblica utilità” o “imprese”
prima gestite da privati. E’ l’opposto di PRIVATIZZAZIONE, DISMISSIONE.

*DISMISSIONE = cessione, vendita a privati; privatizzazione.

8. La fisionomia attuale dell'amministrazione pubblica. Perfezionatosi


il passaggio da un’amministrazione tutta concentrata nello Stato al sistema attuale, caratterizzato dal
“principio autonomistico”, il quadro che ne risulta è comunque insoddisfacente, troppo complesso e
poco efficiente.
Le amministrazioni pubbliche sono tutte le amministrazioni dello Stato, comprese le Regioni, le
Province, i Comuni, le Comunità montane, le scuole, le istituzioni universitarie, le Camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura, tutti gli enti pubblici non economici, le aziende e gli
enti del Servizio sanitario nazionale, e le Agenzie.
Il panorama dell’amministrazione pubblica è sovraccarico : esso si impernia sugli “enti territoriali”,
che ne costituiscono la spina dorsale. Intorno agli enti territoriali operano poi innumerevoli strutture
pubbliche e private, che però non sempre si dimostrano efficienti (autorità indipendenti, agenzie,
enti pubblici, imprese pubbliche e società pubbliche e a partecipazione pubblica).
Proprio per questo, negli ultimi decenni è stato avviato un processo di PRIVATIZZAZIONE, che ha
comportato la trasformazione di molti enti pubblici e di tutte le aziende autonome statali e delle
aziende municipalizzate in società private (normalmente in società per azioni). Tale processo non ha
però dato luogo ad una completa privatizzazione, poichè tali società restano soggette sotto molti
aspetti a discipline pubblicistiche (ad es., per quel che riguarda il controllo della Corte dei Conti e il
modo di concludere i contratti).
Quindi gli organismi che curano gli interessi pubblici non hanno tutti natura pubblica, e,
ciononostante, sono tenuti a rispettare, almeno in parte, la disciplina pubblicistica. Per indicare
questo fenomeno si parla di “P.A. in senso sostanziale” (la “P.A. in senso formale” è il complesso

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dei soli organismi aventi natura pubblica). La tendenza moderna è che lo Stato e gli altri enti
territoriali dismettano le vesti di operatori economici e acquistino il ruolo di regolatori del mercato;
smettano di essere produttori di servizi e si limitino a svolgere funzioni di indirizzo e sorveglianza
dei privati operatori dei vari settori. A tal fine è stata introdotta l’“Autorità indipendente”, una
struttura diretta da un organo collegiale, che opera al riparo dall’indirizzo politico del Governo,
assicurando in tal modo la massima imparzialità (ad es. l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato o l’Autorità di regolazione dei trasporti).

- CAPITOLO 2. LE AMMINISTRAZIONI COME


OPERATORI GIURIDICI -

1. Le amministrazioni come figure soggettive. Finora le amministrazioni sono


state prese in considerazione come “STRUTTURE ORGANIZZATIVE”. Ora dobbiamo considerarle
come “OPERATORI GIURIDICI” : le amministrazioni hanno il compito di curare gli interessi
pubblici usando strumenti giuridici, ossia operando con atti giuridici. Da questo punto di vista, le
amministrazioni si presentano come figure giuridiche soggettive, ossia come centri di riferimento di
situazioni giuridiche soggettive. Tuttavia, le amministrazioni, pur essendo figure soggettive, non sono
necessariamente anche persone giuridiche, dal momento che la “PERSONALITÀ GIURIDICA”
implica non solo la sussistenza di un “centro di azione” (elemento comune sia alla figura soggettiva
che alla persona giuridica), ma anche di un “centro di responsabilità” (elemento che, invece,
caratterizza solo la persona giuridica). Quanto detto trova conferma nell’ampio panorama che ci offre
l’organizzazione pubblica : se è vero infatti che nel nostro sistema giuridico è elevato il numero di
pubbliche amministrazioni con personalità giuridica (si pensi allo Stato agli enti pubblici, sia
territoriali che funzionali), ancora più numerose sono le amministrazioni che, pur avendo la qualità di
soggetti, sono prive di personalità giuridica : ad es. lo Stato è una persona giuridica, ma è articolato in
molte amministrazioni che sono semplici soggetti (come i ministeri e alcune agenzie).
Le persone giuridiche sono caratterizzate da una disciplina speciale, rilevante soprattutto sul piano
della responsabilità patrimoniale : la persona giuridica risponde delle sue obbligazioni nei limiti del
suo patrimonio. Ciò è rilevante per le persone giuridiche che sono destinate a operare nel mondo degli
affari come operatori economici (ad es., le società), ma non dove la responsabilità patrimoniale conta
meno, come nei “rapporti di diritto pubblico”. Da ciò discende un dato importante : nel settore
pubblico, mentre è essenziale la nozione di SOGGETTO GIURIDICO (figura soggettiva), è meno
rilevante la nozione di PERSONA GIURIDICA : ciò che conta è che vi siano “centri di imputazione
delle attività dirette alla cura degli interessi pubblici”. Si spiega così anche come, con semplici tratti
della penna del legislatore, le amministrazioni possano acquistare o perdere la personalità giuridica
senza conseguenze di rilievo.

2. L’imputazione giuridica. Le pubbliche amministrazioni, in quanto figure soggettive,


possono svolgere azioni giuridiche rilevanti, mediante la predisposizione di atti giuridici : tutto ciò,
però, può avvenire solo grazie all’intervento di persone fisiche che, agendo, imputano alla figura
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soggettiva gli atti compiuti (c.d. IMPUTAZIONE). Il problema è il modo in cui le amministrazioni
vengono rese “operatori giuridici”.
Il problema era risolto originariamente con il “MODELLO DELLA RAPPRESENTANZA”, per cui
l’atto giuridico compiuto da una persona fisica «produce direttamente effetto» nei confronti della
persona giuridica. Con il modello della rappresentanza si ha pertanto l’imputazione alla persona
giuridica dei soli “effetti giuridici” prodotti dagli atti compiuti dal rappresentante. Né più né meno di
ciò che accade nella rappresentanza delle persone fisiche incapaci di agire.
Il modello della rappresentanza è però parso inadeguato : 1) per la complessità della struttura
organizzativa della persona giuridica Stato, che era composta da un elevato numero di rappresentanti;
2) perché il modello della rappresentanza non riguardava tutti i “fatti giuridici”, ma solo i fatti
giuridici negoziali e limitava l’imputazione al solo effetto derivante dall'atto giuridico, e non la
estendeva all’atto in quanto tale. L’atto compiuto dal rappresentante restava atto del rappresentante e
non era trattato, quindi, come atto del rappresentato.
Per ovviare a questi inconvenienti fu quindi elaborato un diverso modello di imputazione giuridica,
quello dell’ “ORGANO”, la cui nozione fu concepita nell’ambito della “teoria organicistica dello
Stato” (cioè per risolvere il problema della capacità di agire dello Stato). Con la figura dell’“organo”
si ha un “rapporto di imputazione” più ampio rispetto all’imputazione propria del rapporto di
rappresentanza : infatti alla persona giuridica non viene trasferito solo l’effetto giuridico prodotto, ma
anche l’atto giuridico che lo produce.
Il più intenso contenuto dell’ imputazione, per cui la “persona giuridica” non è solo il soggetto nei cui
confronti si produce l’effetto, ma è anche il soggetto che è divenuto titolare (autore) dell'atto, ha fatto
descrivere il rapporto tra l’organo e la persona giuridica come “rapporto di immedesimazione
organica” (idea però da alcuni contestata). Di immedesimazione organica si può sicuramente parlare a
condizione che la nozione sia svincolata dalla sua concezione originaria, dove essa serviva ad attribuire
la capacità di agire alle persone giuridiche. L’orientamento più moderno nega infatti che le persone
giuridiche abbiano capacità di agire e afferma che esse hanno capacità di imputazione giuridica di atti.
La figura soggettiva diventa sì titolare di atti giuridici, ma non perché sia capace di compierli, ma
perché ad essa vengono attribuiti gli atti compiuti dai suoi organi.
L’idea dell’“IMMEDESIMAZIONE ORGANICA” rende a dovere la differenza tra l’organo e il
rappresentante : l’ORGANO non è un’entità soggettiva distinta dalla persona giuridica. Egli è parte
della persona giuridica che agisce. La persona giuridica infatti si compone di organi che sono formati,
a loro volta, da persone fisiche (che non agiscono in nome e per conto della persona giuridica, ma ne
sono parte integrante). L'organo è quindi inserito nel quadro organizzativo della persona giuridica e,
sotto questo profilo, si presenta come “ufficio”. L’organo, anzi, può essere tale solo in quanto
incardinato nell’ufficio e, quindi, nei limiti della competenza propria dell’ufficio. L’organo è però
necessariamente una o più persone fisiche, poichè solo la persona fisica ha l’ idoneità naturale ad agire,
a compiere atti giuridici, e solo lei, quindi, può imputare alla persona giuridica gli atti giuridici da essa
materialmente compiuti. L’immedesimazione organica fa sì che sia la “persona giuridica” ad essere
giuridicamente considerata l’autore degli atti giuridici materialmente compiuti dalla persona fisica
avente la qualità di organo.

3. L'organo come strumento di imputazione . Con l’IMPUTAZIONE


ORGANICA tutti gli atti e gli effetti giuridici posti in essere materialmente dalla persona fisica (in
veste di organo) sono imputati alla figura soggettiva. Ciò è molto utile dal punto di vista pratico,
poiché la tutela di coloro che entrano in rapporto con la figura soggettiva si rafforza, dato che questa
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non può sottrarsi alla responsabilità, assumendo che gli atti viziati vadano attribuiti all’organo e non a
se stessa.
Ma dire che l’organo è strumento di imputazione alla figura soggettiva non basta. Occorre anche
individuare quali atti siano oggetto di imputazione. Il problema più rilevante riguarda l’imputazione
alla persona giuridica dei meri “fatti” (e, in particolare, dei fatti illeciti). In merito, mentre si è concordi
sull’imputabilità alla persona giuridica, da parte dell’organo, di “atti precettivi” (negozi, provvedimenti
e atti normativi) e di “meri atti giuridici”, non c’è concordia a proposito dei FATTI GIURIDICI.
1) Secondo alcuni l’imputazione giuridica riguarda “tutti i comportamenti giuridicamente rilevanti”
(leciti e illeciti) e perfino fatti psicologici e di conoscenza (buona o mala fede, conoscenza o ignoranza
di circostanze, ecc.), purché siano fatti umani. 2) Secondo altri l’organo imputa alla persona solo “atti”,
e non fatti, in quanto – come affermava Giannini – “le imputazioni di fattispecie fattuali non
richiedono che il fatto sia naturalisticamente riferibile a un organo” (o, più correttamente, alla persona
fisica avente qualità di organo). La seconda tesi è preferibile dal punto di vista giuridico, per due
motivi : 1) sia perché la nozione di “organo” si riferisce solo alla figura soggettiva intesa come
operatore giuridico (ossia come soggetto, cui il diritto riconosce la possibilità di curare i suoi interessi
attraverso il compimento di “atti”); 2) sia perché per i fatti illeciti si usa la nozione di “imputabilità”,
che è diversa da quella di “imputazione” riferita al rapporto tra l’organo e la persona giuridica. Ciò
trova anche conferma nella lettera della legge : a proposito dei “fatti illeciti civili”, imputabili alle
persone giuridiche, vigono “regole generali” (artt. 2049-2054 c.c.) per tutte le persone giuridiche, o
“regole speciali” per le persone giuridiche pubbliche (ad es. art. 28 Cost.). Tali regole non hanno nulla
a che vedere con la figura dell’organo e con il rapporto di imputazione organica. La responsabilità
delle persone giuridiche connessa a “illeciti penali”, invece, è disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001.
L’imputazione dei fatti illeciti si fonda sul nesso di causalità materiale; i “fatti illeciti” non sono
estrinsecazione della soggettività giuridica, né sono riferibili al soggetto inteso come operatore
giuridico. Anche soggetti giuridicamente incapaci possono infatti essere imputati di fatti illeciti.
Compiere un fatto illecito significa compierlo materialmente; compiere un atto giuridico significa
esserne giuridicamente l’autore.

4. Organo e ufficio. Una particolare attenzione occorre dedicarla alle nozioni di ORGANO
e di UFFICIO. L’ORGANO è un centro operativo (persona fisica o collegio di persone fisiche),
attraverso cui si imputano atti ed effetti alla persona giuridica. Essere uno “strumento di imputazione”
implica che l’organo abbia una sua collocazione nella struttura organizzativa, e poiché qualsiasi
struttura organizzativa si articola in “uffici”, l’organo (considerato sotto il profilo organizzativo) deve
essere considerato un UFFICIO (cioè come un centro di lavoro). Esemplare, al riguardo, è la massima
di Giannini, secondo cui “l’ORGANO è un ufficio di imputazione”. Allora si pone un dilemma : il
“rapporto di imputazione” si radica nell’organo considerato come ufficio o nella persona fisica che è
preposta all’ufficio e che è titolare dell’organo? Il RAPPORTO DI IMPUTAZIONE corre tra la
“persona fisica titolare dell’organo” e la “figura soggettiva”.
L’ORGANO, dal punto di vista strutturale, tecnico è parte integrante della struttura organizzativa della
figura soggettiva : in quanto tale può essere inteso come “ufficio”. Dal punto di vista funzionale, esso è
invece uno “strumento di imputazione”, che si identifica perciò con la persona fisica titolare
dell’organo-ufficio. Non bisogna, quindi, confondere il RAPPORTO DI IMPUTAZIONE (che corre
tra l’organo e la figura soggettiva) con il PROFILO ORGANIZZATIVO, che è l’unico sotto cui
l’organo rileva come ufficio.
Ma quali sono gli atti compiuti dalla persona fisica che vengono imputati alla persona giuridica? La
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risposta si trova nella “delimitazione funzionale” di ciascun organo, che corrisponde all’ambito della
competenza dell’ufficio (cioè, ogni organo può imputare alla persona giuridica solo gli atti che egli
compie nell’ambito della competenza che gli spetta).

*CAPACITA’ GIURIDICA = capacità di essere titolare di diritti ed obblighi (situazioni giuridiche soggettive). Si
acquista con la nascita.

*CAPACITA’ DI AGIRE = capacità di porre in essere atti giuridici validi. Si acquista con la maggiore età.

*SOGGETTO GIURIDICO = qualsiasi centro di imputazione giuridica.

*RAPPRESENTANTE = agisce in nome e per conto del rappresentato.

*IMPUTARE = attribuire.

*ORGANO DI UNA PERSONA GIURIDICA = è la persona fisica o l’insieme delle persone fisiche che agisce per essa,
compiendo atti giuridici.

*PERSONA FISICA = essere umano.

*PERSONA GIURIDICA = persona “ficta”, finzione che l’ordinamento usa per imputare rapporti giuridici anche a
soggetti diversi dalle persone fisiche.

*INCARDINATO = collocato.

*SITUAZIONI GIURIDICHE INATTIVE = statiche.

*SITUAZIONI GIURIDICHE ATTIVE = dinamiche.

*UFFICIO = unità organizzativa di un ente.

*ORGANO = parte dell’ente. Articolazione interna dell’ente specializzata per un determinato compito che viene
attribuito alle sue competenze.

*TITOLARE DELL’UFFICIO = colui che è preposto all’ufficio.

*ART. 28 COST. = “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili,


secondo le leggi penali, civili e amministrative , degli atti compiuti in violazione di diritti . In tali casi la “responsabilità
civile” si estende allo Stato e agli enti pubblici ”. In pratica sancisce la DUPLICE RESPONSABILITA’ (DIRETTA E
SOLIDALE) TRA ENTE ED ORGANO.

*IMMEDESIMAZIONE ORGANICA = a differenza della “rappresentanza” (dove ci sono due soggetti), evidenzia
l’esistenza di un solo soggetto. L’organo non è, nello svolgimento delle sue funzioni, diverso dalla persona giuridica. E’
riferito alla capacità di agire della persona giuridica.

- CAPITOLO 3. LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE -

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1. Il disegno organizzativo delle strutture. Le AMMINISTRAZIONI, in quanto


strutture organizzative, sono delle vere e proprie macchine ideate per lo svolgimento di attività
complesse, in vista del perseguimento di un risultato. L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA è
interamente disciplinata da norme giuridiche, di rango anche costituzionale. Le strutture organizzative
pubbliche sono : 1) “ORGANIZZAZIONI FORMALI”, ossia costituite per raggiungere determinati
scopi; 2) e “BUROCRATICHE”, poichè l’attività lavorativa, che viene svolta al loro interno, è alquanto
articolata : a cominciare dall’assunzione dell’iniziativa, passando per l’acquisizione dei dati, fino alla
decisione finale.
L’ORGANIZZAZIONE DELLE AMMINISTRAZIONI si articola in c.d. “centri di lavoro” che ne
costituiscono le unità strutturali elementari, detti uffici, posti tra loro in una qualche relazione che li metta
«a sistema». Sicché il disegno organizzativo è composto non solo dalla somma degli uffici, ma anche dai
compiti assegnati a ciascuno di essi e dalla loro rete di relazioni. L’indicazione del numero, della
dimensione e del ruolo degli uffici acquista dignità giuridica in quanto il “principio di legalità” impone
che tale disegno sia fissato con norme giuridiche.

2. La nozione di ufficio. Le unità elementari di qualsiasi struttura organizzativa sono gli


UFFICI. Essi investono solo il piano organizzativo, essendo estranei al problema della soggettività e delle
imputazioni. Perciò, la nozione di UFFICIO (riferita all’organizzazione strutturale delle amministrazioni)
deve essere tenuta distinta da quella di ORGANO (riferita alla soggettività giuridica delle
amministrazioni). Organo e ufficio sono quindi nozioni riguardanti profili diversi (l’uno riguarda il tema
della SOGGETTIVITÀ GIURIDICA delle organizzazioni, l’altro quello della loro ARTICOLAZIONE
ORGANIZZATIVA). Gli “uffici”, quindi sono articolazioni organizzative che hanno la funzione di
preparare l’attività a rilevanza esterna propria degli organi e che, quindi, svolgono compiti di rilevanza
meramente interna. La valorizzazione della sostanza meramente organizzativa dell'ufficio, inteso come
centro di lavoro, ha posto la premessa per qualificarlo come “predeterminazione di un’attività lavorativa
che, coordinata con le attività degli altri centri di lavoro (uffici), consente all’amministrazione di svolgere
le proprie funzioni”. In tal senso si può dire che gli uffici sono “sede e punto di svolgimento della
funzione”. Inoltre ciascun ufficio è dotato di un proprio ruolo. Le norme giuridiche possono disegnare
uffici con più ruoli o distribuire uno stesso ruolo su più uffici.

3. Rapporto d'ufficio. Dovere d'ufficio. Rapporto di servizio.


Munus e officium. L’ufficio si compone di persone fisiche che, ivi incardinate, prestano
la propria attività lavorativa : esse sono gli ADDETTI, tra cui si distingue, per la sua posizione
preminente, il TITOLARE DELL’UFFICIO. Questo è la persona fisica che, assegnando compiti
specifici agli addetti, dirige il lavoro dell’ufficio e ne è responsabile anche nei rapporti con gli
altri uffici. Si delinea, quindi, all’interno dell’ufficio, una gerarchia.
Su ciascuno degli addetti e sul titolare dell’ufficio grava l’OBBLIGO DI PRESTARE IL
PROPRIO LAVORO PROFESSIONALE, consistente nel compimento delle attività che sono
demandate all’ufficio. A fronte di tale obbligo sta il DIRITTO DELL’AMMINISTRAZIONE DI
RICEVERE LA PRESTAZIONE LAVORATIVA. Tale diritto è il lato passivo del rapporto che
corre tra l’amministrazione e la persona fisica (addetto), denominato “RAPPORTO D’UFFICIO”.
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Il c.d. DOVERE D’UFFICIO, inteso come dovere degli addetti di prestare il loro lavoro nella
struttura organizzativa, non deve essere confuso però con la c.d. DOVEROSITÀ DELLA
FUNZIONE, con cui invece ci si riferisce all’azione che l’amministrazione è tenuta a
intraprendere per il perseguimento degli obiettivi prefissati. Quest’ultimo aspetto ci permette
anche di comprendere la differenza che intercorre tra il DOVERE D’UFFICIO e la figura del
MUNUS (o anche “ufficio in senso soggettivo”) : questi infatti, a differenza del titolare
dell’ufficio, è anche titolare della funzione ed è una figura soggettiva a cui è affidata la cura di un
interesse altrui, che può essere un interesse privato (tale è ad esempio la “potestà genitoriale”, che
comprende i diritti e i doveri da gestire nell’interesse dei figli minori) o un interesse pubblico (si
pensi all’attività professionale ausiliaria della funzione giurisdizionale, che viene svolta dai
“consulenti tecnici”).
Il MUNUS è qualsiasi attività da cui derivi l’attuazione di fini pubblici, esercitata da privati
(ossia da persone fisiche che non sono organi di enti statali o pubblici, ma che sono titolari di una
qualche potestà), quindi da persone fisiche investite della cura di interessi altrui. Il titolare di un
munus pubblico, pur mantenendo una natura privatistica, può adottare atti produttivi di effetti
amministrativi, anche se non perfettamente equiparabili agli atti amministrativi (tanto da escludere
per essi la giurisdizione del giudice amministrativo). Indica una funzione di pubblico interesse.
Esempi di munus publicum sono l'attività del tutore che ha la cura del minore, lo rappresenta in
tutti gli atti civili e ne amministra i beni; e l'avvocato nominato d'ufficio per la difesa della parte
ammessa al beneficio del gratuito patrocinio. Sono funzioni pubbliche attribuite ad un privato.
Dal munus va tenuto poi distinto l’OFFICIUM (“ufficio in senso oggettivo”), che è lo strumento
con cui una determinata collettività, priva di personalità giuridica (c.d. ente di fatto) riesce ad
agire giuridicamente. Ciò dimostra che l’officium, a differenza delle figure di ufficio su
analizzate, va considerato come un vero e proprio centro di imputazione, nel senso che gode di
una propria “soggettività”, in forza della quale è titolare anche di una propria legittimazione
sostanziale e processuale per la cura degli interessi affidatigli (si pensi alle rappresentanze
sindacali aziendali); interessi che, a differenza del munus, non sono estranei rispetto alla struttura
organizzativa di queste figure soggettive.
Il RAPPORTO D’UFFICIO è esteso a tutti i componenti dell’ufficio (e, dunque, oltre che al
titolare dell’ufficio, a tutti gli addetti che sono legati all’amministrazione).
Quando investe il titolare, il rapporto d'ufficio assegna anche la qualifica di “organo” : tramite il
rapporto d’ufficio la
persona fisica, che riveste quella posizione all’interno dell'ufficio, imputa gli atti che compie in capo
alla
figura soggettiva.
Il “rapporto d’ufficio” si instaura con l’ATTO DI INVESTITURA DEL TITOLARE, dopo un
procedimento di nomina o mediante un sistema di elezione. La nomina può derivare da una scelta
basata sulla fiducia, scelta a volte effettuata tra una «rosa» di aspiranti indicati dalla legge o da
un’autorità amministrativa (proposta di designazione) in base ai requisiti ritenuti più idonei per quello
specifico ufficio. Quando consegue ad un procedimento elettorale (come per i consiglieri regionali,
provinciali e comunali), la nomina investe rappresentanti del corpo elettorale.
Distinto dal “rapporto d’ufficio” è il “RAPPORTO DI SERVIZIO”, che investe chi è alle dipendenze
dell’ amministrazione pubblica (gli addetti e il titolare dell’ufficio) svolgendo
per la persona giuridica un’attività lavorativa a titolo professionale, ossia in modo

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continuativo ed esclusivo dietro corresponsione di una retribuzione.


Tale rapporto racchiude tutto ciò che attiene al trattamento
economico della persona fisica (che è anche impiegato) che presta la propria attività lavorativa e al suo
stato giuridico (qualifica, anzianità, mansioni, ecc.). In ogni caso, le vicende dell’uno e dell’altro
rapporto, sebbene distinte, incontrano momenti di collegamento, come nel caso in cui per poter essere
preposti ad
un ufficio è necessario possedere determinate qualifiche nell’ambito del rapporto di
lavoro.

4. Uffici monopersonali e pluripersonali. Se un ufficio si compone di più persone


fisiche, acquisisce il carattere della COLLEGIALITA’, che però comporta la necessità di ridurre a
unità le opinioni dei singoli componenti del collegio : a tal fine, l’ordinamento ha fissato delle regole
destinate a regolare la costituzione dell’ufficio e la deliberazione della decisione.
Per la COSTITUZIONE DEL COLLEGIO è necessaria la presenza di un certo numero di componenti
(c.d. quorum strutturale) stabilito dalla legge che, in assenza di diverse previsioni, si ritiene integrato
con la presenza della metà dei componenti del collegio più uno, e che deve permanere per tutta la
durata della seduta : si pensi, ad esempio, ad un consiglio comunale formato da 40 consiglieri, al cui
interno il quorum strutturale sussiste quando sono presenti almeno 21 di essi.
Se la normativa prevede l’obbligatoria presenza di tutti i componenti del collegio per la validità della
riunione, il collegio si dice “PERFETTO” : si pensi ad esempio ai tribunali penali, civili e
amministrativi.
Una volta costituito, il collegio delibera (secondo i punti indicati nel c.d. ordine del giorno della
seduta) sulla “proposta di delibera” emersa all’esito della discussione. La “proposta di delibera”
diventa “delibera del collegio” solo quando si sono espressi favorevolmente su di essa i componenti
del collegio nel numero richiesto dalla norma, variabile a seconda del tipo di collegio o del tipo di
delibera da adottare (c.d. quorum funzionale), ma che, in assenza di precise disposizioni, corrisponde
alla metà dei membri votanti più uno (c.d. maggioranza semplice), sebbene spesso siano previste
maggioranze qualificate : pertanto, se un consiglio comunale è composto da 40 persone, il quorum
strutturale è di 21 membri, mentre quello funzionale dipenderà dal numero dei presenti (così, ad es., se
alla seduta sono presenti 30 componenti, il quorum funzionale sarà di 16 voti : la metà più uno dei
presenti).
Durante la votazione può accadere che uno dei componenti si astenga : in tal caso, salvo diversa
indicazione normativa, l’astenuto viene computato tra i votanti e, quindi, viene computato nel quorum
strutturale (e dunque tra i presenti).
I collegi sono costituiti da un numero fisso di persone, anche se ci sono casi in cui la composizione è
variabile in relazione a fatti oggettivi (ad es. il numero di candidati da esaminare, come nel caso della
commissione per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato) o se sono chiamati a
parteciparvi tutti coloro che hanno una particolare qualifica (ad es. tutti i professori di ruolo di
un’università).
I componenti del collegio devono esprimere il loro voto sulla base dei punti indicati nel c.d. “ordine
del giorno” (che racchiude l’elenco degli argomenti su cui il collegio dovrà deliberare) : l’ordine del
giorno deve essere fissato dal Presidente, che convoca e presiede l’adunanza, con il relativo ordine dei
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lavori. La deliberazione si ritiene assunta quando i componenti del collegio esprimono la loro volontà,
e non quando è approvato il verbale della relativa seduta (che di solito è approvato nella seduta
successiva). La verbalizzazione integra, infatti, un’attività successiva, affidata ad un segretario, volta a
tradurre per iscritto lo svolgimento della discussione e il contenuto della decisione assunta.
In dottrina si distingue tra COLLEGI DI PONDERAZIONE, quando si riuniscono in un unico corpo
più capacità professionali, persone che prendono parte al collegio per la loro capacità di valutazione
(ed è proprio per questo che sono detti anche “collegi di valutazione”, composti da persone che, per la
loro professionalità, devono valutare fatti specifici) e COLLEGI DI COMPOSIZIONE, se la ragione
della collegialità è quella di comporre in un’unica sede interessi diversi, eterogenei. I “collegi di
ponderazione" sono composti da persone che vi prendono parte per la loro capacità di valutazione,
mentre nei “collegi di composizione” entrano a far parte i rappresentanti di interessi diversi.
I collegi di ponderazione sono perfetti; quelli di composizione sono invece collegi imperfetti : i primi
funzionano solo con la partecipazione di tutti i componenti (= plenum); i secondi possono funzionare
anche in assenza di alcuni componenti.

5.Il funzionario di fatto. Qualora il titolare dell'ufficio si trovi, nel corso del rapporto,
in situazioni di temporanea incapacità di prestare la propria attività lavorativa (ad es. incarichi fuori
sede o situazioni di carattere personale) l’ordinamento prevede, per assicurare la continuità
dell’esercizio dei compiti dell’ufficio, le due figure della SUPPLENZA e della REGGENZA. Il
supplente (che nella maggior parte dei casi è il titolare di un altro ufficio dell’amministrazione)
subentra automaticamente nella titolarità dell’ufficio al verificarsi della vacanza, senza che sia
necessario uno specifico atto di nomina. La reggenza, invece, entra in gioco solo nel caso in cui non
sia stata disposta la supplenza : in tal caso, si rende necessaria la nomina di un altro titolare
dell’ufficio, specificamente individuato secondo procedure stabilite. Però queste figure (che
regolano le ipotesi in cui il titolare dell’ufficio sia temporaneamente incapace di svolgere le sue
mansioni) non hanno nulla a che vedere con la “CESSAZIONE DEL RAPPORTO D'UFFICIO” :
quest’ultima può essere determinata da cause riguardanti la persona del titolare (ad es. morte o
impedimento permanente) o dalla cessazione del rapporto di lavoro (ad es. per scadenza dello
stesso). In quest’ultimo caso, però, sorge la necessità di assicurare il regolare funzionamento
dell’ufficio : a tal riguardo, in passato, per assicurare la continuità di funzionamento degli uffici, si
permetteva al titolare dell’ufficio di continuare a esercitare il proprio ruolo fino all’insediamento del
successore; una simile possibilità (che veniva fatta rientrare nell’ambito della prorogatio) era però
prevista solo per gli uffici a titolarità politica (ad es. i Consigli comunali e provinciali, una volta
scaduti, restano in carica fino all’elezione dei nuovi); al contrario, per gli uffici a titolarità onoraria
e per tutte le nomine di competenza parlamentare, dopo un incisivo intervento della Corte
costituzionale, il legislatore è intervenuto con una disciplina che, nel ribadire il principio per cui gli
organi amministrativi svolgono «le loro funzioni secondo il termine di durata per ciascuno di essi
previsto ed entro tale termine devono essere ricostituiti», consente, in caso di mancata
ricostituzione, al titolare scaduto di operare in regime di prorogatio per non più di 45 giorni
decorrenti dalla scadenza, adottando solo atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli urgenti e
indifferibili specificamente motivati. Al di fuori di questi confini, gli eventuali atti assunti sono

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sanzionati con la nullità.


In ogni caso, la figura del titolare prorogato non ha nulla a che vedere con quella del
“FUNZIONARIO DI FATTO”, che invece è quel soggetto che pone in essere un atto senza esserne
legittimato, in quanto il suo atto di investitura è illegittimo, nullo, o addirittura mancante : in casi
del genere, le regole sull’ invalidità dell’atto di investitura dovrebbero comportare l’invalidità di
tutti gli atti adottati dal funzionario di fatto; il che, però, cagionerebbe un danno ai destinatari
dell’azione amministrativa (che infatti, non essendo a conoscenza dell’investitura, non possono
controllarne la validità). Per risolvere l’inconveniente, pertanto, si è formata nel tempo la regola per
cui tutti gli atti posti in essere dal titolare di un ufficio il cui atto di investitura sia illegittimo o
manchi del tutto sono validi, fino a quando l’atto di investitura non venga annullato : in questo
modo si è cercato di salvaguardare la “buona fede” dei soggetti che, rivolgendosi
all’amministrazione, fanno affidamento su persone che paiono titolari dei loro uffici.
Distinta dalla figura del funzionario di fatto è quella dell’“USURPATORE DI UFFICIO”, colui che
con coscienza e volontà assume la titolarità dell’ufficio in assenza di una valida investitura (al
contrario, il funzionario di fatto agisce in mancanza di una volontà usurpatrice).

5.1. Lo SPOILS SYSTEM. Lo SPOILS SYSTEM (sistema del bottino) è la pratica


politica secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare
del governo. Le forze politiche al governo scelgono i dirigenti, affidano dunque la guida della
complessa macchina amministrativa a dirigenti che ritengono che non solo possano, ma anche
vogliano far loro raggiungere gli obiettivi politici. Nell’accezione più negativa, le forze politiche al
governo distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti le varie cariche istituzionali, la titolarità
di uffici pubblici e posizioni di potere, in modo da garantire gli interessi di chi li ha investiti
dell’incarico. Sebbene le linee generali di questa pratica si possano ricondurre alla nozione
di “clientelismo” (pratica consistente nel concedere vantaggi a chi può offrire un contraccambio),
l’espressione spoils system non implica, originariamente, una connotazione negativa o l’idea che
tale distribuzione di cariche sia necessariamente un abuso : si tratta di un’espressione che descrive
una prassi formalmente riconosciuta, e apertamente applicata in vari Paesi. Allo spoils system si
contrappone spesso il merit system (letteralmente: sistema del merito) in base al quale la titolarità
degli uffici pubblici viene assegnata a seguito di una valutazione oggettiva della capacità di
svolgere le relative funzioni, senza tenere conto dell' affiliazione politica dei candidati agli uffici.
Un tipico esempio attraverso il quale si realizza il merit system è un concorso pubblico.
A partire dagli anni ‘90, l’espressione “spoils system” è entrata in uso anche in italiano, per indicare
l’insieme dei poteri che consentono agli organi politici di scegliere le figure di vertice
come segretari generali, capi di dipartimento, segretari comunali, ecc.
Lo spoils system è stato regolato in via legislativa regolato nel 2002 e nel 2006, prevedendosi la
cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza nella pubblica amministrazione
passati 90 giorni dalla fiducia al nuovo esecutivo (cioè la nomina di un nuovo governo).
L’istituto ha come ratio la necessità di fiducia e armonia fra l’amministrazione e la politica come
elemento necessario per il buon andamento della pubblica amministrazione.
La questione ha dato luogo a numerosi pronunciamenti della Corte Costituzionale. La Corte
costituzionale, nel 2006, ha confermato la validità del sistema dello spoils system, affermando come
la necessità del buon andamento della pubblica amministrazione sia prioritaria rispetto al “principio
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di imparzialità” (che in teoria escluderebbe vertici amministrativi "parziali" verso l’esecutivo); la


corte ha però anche affermato come tale sistema non possa infrangere lo spazio riservato
all’indipendenza della pubblica amministrazione (generalmente, quello più strettamente legato
all’attività della stessa) limitando quindi lo spoils system solo alle posizioni apicali ed escludendo la
media dirigenza ed i vertici delle società pubbliche; essa affermò anche come il sistema non potesse
concretizzarsi in una precarietà inaccettabile della dirigenza, escludendo quindi il possibile
azzeramento dei vertici delle amministrazioni, cosa che creerebbe anche una pericolosa dipendenza
dell’amministrazione verso la politica. Per quanto riguarda l’individuazione precisa dei vertici
amministrativi interessati dallo spoils system, la Corte non ha fornito criteri capaci di individuarli
con precisione; si può solo intuire come siano le posizioni più a stretto contatto con gli organi
politici.
Tra il 2007 e il 2008 la Corte ha sanzionato con l’illegittimità le varie disposizioni di legge (statali e
regionali) che prevedevano meccanismi di cessazione automatica degli incarichi dirigenziali in caso
di “avvicendamento politico”. Tali disposizioni (quando non si tratti di posizioni dirigenziali di
vertice) contrastano con il “principio di continuità dell’azione amministrativa”, che è strettamente
correlato a quello di “buon andamento” (Corte Cost., 2007). La revoca delle funzioni
legittimamente conferite a un dirigente può essere conseguenza solo di un’accertata responsabilità
dirigenziale, in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia.

6. L'ufficio del responsabile del procedimento. Un esempio di concentrazione di più


ruoli in un unico ufficio è costituito dalla figura del RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO. Il
RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO è il responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento
procedimentale; questa figura è disciplinata dalla L. 241 / 1990 ed è stata istituita per garantire la funzionalità e
la trasparenza dell’azione amministrativa. Egli svolge numerosi compiti : valuta i presupposti, accerta i fatti,
svolge l’istruttoria, informa i destinatari del provvedimento e gli altri interessati e, ove ne abbia la
competenza, adotta il provvedimento finale. Tutti questi compiti, distribuiti ai vari uffici coinvolti nelle attività
procedimentali, sono accorpati in un ulteriore ufficio, quello del responsabile appunto, uni-personale (in quanto
composto da una sola persona fisica), che viene in vita ogniqualvolta prende avvio un procedimento.
Gli uffici sono riuniti sotto un dirigente cui è assegnato il compito di dirigere l’unità, compiendo tutti gli atti
necessari allo svolgimento di tale compito, primo fra tutti l’individuazione del responsabile del procedimento
ogniqualvolta un procedimento appartenente alla competenza dell’unità organizzativa prende avvio. Il dirigente
dell’unità organizzativa, quando un procedimento prende avvio, individua il responsabile del procedimento,
assegnando a sé o ad un altro dipendente addetto all’unità la responsabilità dell’istruttoria e di ogni altro
adempimento inerente il singolo procedimento (nonché, eventualmente, dell’adozione del provvedimento).
Fino a tale assegnazione è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all’unità
organizzativa. Responsabile può essere, dunque, sia il titolare dell’ufficio sia uno qualsiasi degli addetti
all’ufficio, scelto nell’ambito di uno degli uffici interessati dall’attività procedimentale (o anche, ma di rado, al
di fuori di essi). Si tratta, quindi, di un ufficio dotato di un proprio ruolo, diverso dal ruolo dell’ufficio cui la
persona appartiene e costituito dal singolo procedimento concreto.

7. Le fonti e i criteri di organizzazione. Le amministrazioni, in quanto “organizzazioni


complesse” (perché formate da più uffici preposti al raggiungimento di uno scopo), sono disciplinate con leggi,
regolamenti e atti organizzativi (adottati dalle singole amministrazioni). Gli atti organizzativi, con cui le
strutture sono concretamente gestite, sono adottati dalle singole amministrazioni interessate. E sono proprio
questi atti ad assumere un’importanza basilare, perché servono a stabilire le piante organiche, essenziali per
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determinare il numero e la consistenza degli uffici (ovviamente nel rispetto delle norme di legge).
Una volta stabilito il numero e la consistenza degli uffici, si deve procedere alla loro aggregazione, che può
avvenire secondo due linee di sviluppo : 1) la prima è la LINEA DI SVILUPPO VERTICALE (che si basa
sull’importanza del ruolo ricoperto dagli uffici e dei compiti loro affidati); 2) la seconda è la LINEA DI
SVILUPPO ORIZZONTALE (che si basa sulle diverse attività svolte dai vari uffici). Seguendo queste linee,
emerge una piramide, al cui interno gli uffici sono collocati secondo un “criterio di gerarchia” : si viene così a
creare un “rapporto di autorità-responsabilità” (ove l’autorità spetta agli uffici che hanno supremazia esecutiva,
mentre la responsabilità riguarda gli uffici subordinati ai primi).
Tuttavia, se è vero che ogni ufficio occupa una precisa posizione nella «linea gerarchica» (“ uffici di line ”), è
anche vero che si possono individuare anche uffici solo affidatari di compiti ausiliari (“ uffici di staff”).
A seconda poi del tipo di attività erogata possiamo distinguere tra AMMINISTRAZIONI BUROCRATICHE,
deputate all’esercizio delle funzioni pubbliche, e AMMINISTRAZIONI DAI CARATTERI AZIENDALISTICI
per l’espletamento di pubblici servizi.
La distribuzione del lavoro tra gli uffici avviene in base alla maggiore o minore rilevanza dei compiti loro
affidati (intendendosi come “compiti di maggior rilievo” quelli riguardanti le scelte sui modi e i tempi della
cura degli interessi affidati all’amministrazione competente e come “compiti di minor rilievo” quelli esecutivi).
Così viene definita ACCENTRATA la struttura in cui i compiti del primo tipo vengono assegnati agli uffici di
vertice della c.d. piramide gerarchica (detti “uffici centrali”) e DECENTRATA la struttura i cui compiti sono
assegnati agli uffici di base (detti “uffici periferici”).
Una figura soggettiva poi può presentare : 1) una STRUTTURA ORGANIZZATIVA UNITARIA (o
compatta), costituita da più uffici (a volte articolati in uffici centrali e periferici) sì da mostrare un carattere di
compattezza; questo quando svolge limitate funzioni; 2) qualora, però, sia titolare di numerose e diverse
attribuzioni, cui provvede con diverse strutture organizzative (ciascuna dotata di propri organi e di propri
uffici), l’amministrazione si presenta “DISAGGREGATA”. L’esempio principale è lo Stato che, pur essendo
una persona giuridica unitaria, si presenta come un aggregato di più strutture organizzative (i ministeri) che
esprimono ciascuno una propria attività, con i propri organi.
Le STRUTTURE si dicono, poi, “COMPIUTE” quando sono separate rispetto alle altre strutture facenti capo
ad un’organizzazione complessa (ad esempio quella statale), di cui costituiscono articolazioni organizzative e
sono idonee ad operare con propri organi. Si rinvengono di regola nelle organizzazioni disaggregate, ma sono
riscontrabili anche in quelle compatte. Esse perseguono finalità proprie, sono titolari di situazioni soggettive
proprie, esercitate attraverso organi propri (diversi sia da quelli della struttura principale nelle organizzazioni
compatte, sia da quelli delle altre strutture compiute in cui l’organizzazione complessiva si articola nelle
organizzazioni disaggregate). Si pensi alle amministrazioni statali, ove i singoli ministeri operano come figure
soggettive a sé stanti mediante propri organi, che esercitano un’attività distinta da quella di ogni altra figura
soggettiva facente capo allo Stato.

8. L'amministrazione dello Stato. Lo Stato, nella sua articolata struttura, integra


pienamente il modello delle “ORGANIZZAZIONI DISAGGREGATE”. Lo Stato, in quanto persona
giuridica unitaria, ricomprende una pluralità di amministrazioni, aventi una propria consistenza sul piano
organizzativo e che si presentano, perciò, come figure soggettive a sé stanti (cioè come vere e proprie
amministrazioni pubbliche). Infatti, nonostante il parere contrario di una parte della dottrina, le pubbliche
amministrazioni in cui si articola il complesso statuale si presentano con una fisionomia diversa anche
sotto il profilo della “soggettività”. Si tratta di centri di imputazione di situazioni soggettive, e quindi di
figure soggettive, sia pure prive di personalità giuridica. Infatti, ogni ministero ha “organi dotati di
rappresentanza legale”, che agiscono imputando le fattispecie compiute al ministero (e non allo Stato);
sicché dovrebbe potersi concludere che le singole amministrazioni dello Stato acquistano fisionomia di
“figure soggettive”.

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9. Le amministrazioni autonome. Svolgendo attività produttiva di beni e servizi


nell’ambito delle organizzazioni complesse di tipo burocratico, tali amministrazioni operano in modo
diverso rispetto alle strutture burocratiche a cui sono collegate. Esse, pur restando strutture della figura
soggettiva cui appartengono, hanno una struttura organizzativa compiuta (propri organi, proprie attività),
capace di operare giuridicamente in modo autonomo rispetto alla persona giuridica a cui appartengono,
anche perché godono anche di una spiccata autonomia contabile e finanziaria.
Tra le “amministrazioni autonome” ricordiamo : le aziende autonome dello Stato e le aziende
municipalizzate degli enti locali. Pur non avendo un proprio patrimonio, in quanto affidatarie di
compendi patrimoniali della struttura di riferimento, esse formano un bilancio separato, che viene
allegato a quello di quest’ultima.
In ogni caso, tale modello organizzativo è stato da tempo abbandonato.

*Incardinato = collocato
*Rapporto d’ufficio (o rapporto organico) = pubbliche funzioni svolte. E’ un rapporto non giuridico, ma organizzativo
(perché attiene alle imputazioni giuridiche dell’attività svolta dal titolare dell’organo). Infatti, l’atto compiuto dal
titolare dell’organo viene direttamente imputato all’ente. Sulla base di questo rapporto organico, la persona fisica
acquista la capacità di esercitare i poteri e le funzioni che le norme attribuiscono agli uffici delle pubbliche
amministrazioni.
*Rapporto di servizio = prestazione e retribuzione; è il rapporto di lavoro, di impiego, è un rapporto giuridico.
*Titolare dell’ufficio = o funzionario. Il funzionario è colui che è preposto all’ufficio (ha posizione di preminenza).
*Centro attivo di imputazione = è colui che imputa nel “rapporto di imputazione”.
*Vacante = privo di titolare.
*Quorum strutturale (o costitutivo) = il numero minimo degli aventi diritto che devono essere presenti a una
riunione.
*Quorum funzionale (o deliberativo) = numero di voti favorevoli minimo perché una proposta sia approvata.
*Collegi perfetti = possono deliberare validamente solo se sono presenti tutti i componenti (c.d. plenum).
*Collegi imperfetti = possono deliberare validamente anche se non sono tutti presenti (purchè sia raggiunto il
quorum strutturale).
*Carica onorifica = non prevede retribuzione e non dà effettivi poteri. E’ conferita a titolo di onore, senza gli obblighi
e i diritti inerenti.
*Funzionario di fatto = soggetto non legittimato a esercitare l’azione amministrativa.
*Prorogatio = istituto per cui i titolari degli organi possono continuare a esercitare le loro funzioni nonostante sia
scaduto il loro mandato, in attesa della nomina o dell’elezione dei successori.

- CAPITOLO 4. LE RELAZIONI ORGANIZZATIVE -

1.Relazioni organizzative e formule organizzative. Tra le amministrazioni si


instaurano molteplici rapporti, per creare un collegamento tra le diverse strutture : si tratta delle c.d.
RELAZIONI ORGANIZZATIVE. Se queste relazioni intercorrono tra strutture diverse, le stesse si
articoleranno nel binomio potestà / interesse protetto : il che vuol dire che mentre una delle due
strutture (quella sovraordinata) è titolare di potestà, l’altra (quella subordinata) è titolare di interessi
protetti.
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Però, l’intensità di questo rapporto non è univoca : è costante quando le strutture interessate (o almeno,
quella subordinata) hanno personalità giuridica; non è costante quando nessuna delle due strutture
interessate ha personalità giuridica (o quando entrambe appartengono alla stessa persona giuridica).
Questa diversa intensità del rapporto esplica particolari effetti anche sul piano dei RIMEDI : infatti, nel
caso di rapporto costante, la struttura subordinata può chiedere la
tutela dell’interesse protetto anche in sede giudiziale; nel caso di rapporto incostante, invece, la
subordinata può ricorrere solo in via amministrativa.
Oltre alle relazioni intercorrenti tra strutture diverse, il nostro sistema disciplina anche le RELAZIONI
TRA GLI UFFICI DI UNA STESSA STRUTTURA ORGANIZZATIVA (relazioni organizzative
interne) : in questi casi, però, i rapporti assumeranno la connotazione di “potestà-soggezione” (e non di
potestà / interesse protetto). Le
relazioni organizzative, quindi, dal punto di vista della loro consistenza giuridica, sono raggruppabili
in due tipi : i rapporti POTESTÀ-INTERESSE PROTETTO e i rapporti POTESTÀ-SOGGEZIONE. Dal
punto di vista, invece, dei termini tra cui esse corrono, possono individuarsi tre tipi : 1) le relazioni tra
uffici della stessa struttura (o della stessa amministrazione), che sono dette “RELAZIONI
INFRASTRUTTURALI”; 2) le relazioni tra strutture (o amministrazioni) diverse, che danno luogo a
“RELAZIONI INTERORGANICHE” (se le amministrazioni interessate non hanno personalità
giuridica) o a “RELAZIONI INTERSOGGETTIVE” (se le amministrazioni interessate hanno
personalità giuridica).
Le relazioni interne alle singole strutture si limitano a sostanziare il rapporto di gerarchia. Le relazioni
tra amministrazioni sono “rapporti giuridici”. L’insieme delle
relazioni esistenti tra le strutture caratterizza la posizione in cui le une si collocano rispetto alle altre.
Tali posizioni relazionali danno luogo a FORMULE ORGANIZZATIVE (o modelli organizzativi) che
sono raggruppabili nella “posizione di autonomia” o di “dipendenza”.

2. La gerarchia. La GERARCHIA è una nozione che nel tempo ha subito un’involuzione.


Infatti, nel primo modello di organizzazione amministrativa, che si ispirava a un sistema fortemente
accentrato, la gerarchia era l’unica formula organizzativa usata e ad essa venivano ricondotti tutti i tipi
di rapporti amministrativi : ad essa si ispiravano sia i rapporti interni alle singole amministrazioni, sia
quelli tra amministrazioni diverse. Tale vasto ambito di applicazione si è andato riducendo via via che
il modello “accentrato e statocentrico” si è andato evolvendo verso “formule pluralistiche e
decentrate”. Perciò oggi il “criterio gerarchico” si applica solo alle relazioni tra uffici della stessa
amministrazione (esso cioè ha il compito di collegare gli uffici interni a una singola amministrazione
per programmarne l’attività).
L’involuzione del “criterio gerarchico”, però, non ha riguardato solo l’ambito di applicazione, ma
anche il profilo dei contenuti : infatti, originariamente la gerarchia trovava il suo presupposto nella
comune sfera di competenza tra l’ufficio sovraordinato e l’ufficio sottordinato. La comunanza di
competenza consentiva all’ufficio superiore di ingerirsi liberamente nell’attività dell’ufficio inferiore,
sia avocando sia delegando in modo informale all’ufficio inferiore qualsiasi compito rientrante nella
comune sfera di competenza. Nel
tempo però le competenze degli uffici inferiori sono state individuate in modo formale e tassativo. La
gerarchia subisce così una prima involuzione, in quanto gli atti che interferiscono nella sfera di
competenza dell’ufficio inferiore iniziano a dover essere formalizzati (e quindi devono essere motivati
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e sono controllabili sotto il profilo della legittimità). La gerarchia è la formula organizzativa che
contiene in sé tutte le POTESTÀ DI SOVRAORDINAZIONE (indirizzo, programmazione, controllo).
Tipica della gerarchia è la POTESTÀ D’ORDINE, cioè la possibilità dell’ufficio sovraordinato di
prescrivere le modalità di comportamento cui l’ufficio subordinato deve attenersi nello svolgimento
della sua attività. Da questo potere derivano altri poteri, come : 1) quello di impartire direttive (in cui
si indicano gli obiettivi da raggiungere) all’ufficio subordinato (lasciando a questo un certo margine di
apprezzamento sulle modalità in cui realizzarli); 2) o il potere di risoluzione dei conflitti che possono
sorgere tra uffici subordinati; 3) o il potere di revoca e riforma degli atti emanati dall’ufficio inferiore.
Pertanto, dal punto di vista giuridico, con il termine “GERARCHIA” si fa riferimento ad una relazione
di sovraordinazione/ subordinazione tra uffici, in base a cui all’ufficio sovraordinato spettano poteri di
ordine (o di comando) nei confronti dell’ufficio subordinato.
La progressiva attenuazione dell’intensità del rapporto gerarchico ha spinto la dottrina a parlare di una
vera e propria “crisi della gerarchia”, da attribuire in primis all’avvento della Costituzione. L’art. 97,
2° comma, Cost., ad es., prevede che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di
competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari» : da ciò emerge non solo una
responsabilità propria del titolare dell’ufficio, diversa e distinta da quella del titolare dell’ufficio
sovraordinato, ma anche una distinzione delle sfere di competenza, il che comporta un’attenuazione
dei poteri di ingerenza dell’ufficio sovraordinato nei confronti di quello sottordinato. La distinzione
delle sfere di competenza mette in crisi il presupposto dell’identità di competenza tra uffici
gerarchicamente ordinati, necessario per dare vita a un rapporto di gerarchia. La responsabilità del
titolare di un ufficio presuppone che la competenza dell’ufficio sia distinta da quella dell’ufficio
sovraordinato. Per tali motivi c’è stato un ripensamento sulla nozione di gerarchia, che ha avuto
importanti svolgimenti anche in sede normativa : in proposito va ricordata la “riforma della dirigenza
statale” che non solo ha attribuito competenze esclusive ai dirigenti, ma ha anche attenuato i poteri
d’ingerenza del Ministro (che non ha più un potere d’ordine generale, ma solo un potere di impartire
direttive agli organi del ministero). Così la gerarchia oggi assume connotati meno intensi, che
l’avvicinano notevolmente al rapporto di direzione.

3. La direzione. La DIREZIONE è una relazione organizzativa con cui si realizza il


collegamento tra uffici della stessa struttura o, più spesso, tra strutture diverse : in particolare, tra le
figure soggettive pubbliche, diverse dallo Stato (gli enti pubblici) e l’organizzazione statale.
Questa particolare relazione organizzativa prese le mosse nei primi anni del 20°sec., in concomitanza
con la nascita del fenomeno del “pluralismo dei soggetti di pubblica amministrazione” : questo
fenomeno determinò un incremento degli enti pubblici, ciascuno dei quali era dotato di un proprio fine
istituzionale. Perciò, il RAPPORTO DI DIREZIONE si affermò per assicurare una salda connessione
tra gli enti pubblici e lo Stato, connessione che non poteva essere garantita usando il rapporto
gerarchico. Infatti, a differenza della
gerarchia, la DIREZIONE, pur riferendosi a un rapporto di sovraordinazione, si caratterizza per il
riconoscimento di un certo grado di “autonomia” all’ufficio (o all’ente) subordinato : ciò significa che
l’ufficio superiore non dispone di un “potere d’ordine gerarchico”, ma solo del “potere di emanare
direttive”, con cui esso indica all’ufficio sottordinato gli scopi da perseguire (stabilendo eventualmente
il loro ordine di priorità). Ma sarà l’ufficio subordinato a scegliere i modi e i tempi di attuazione,
necessari al raggiungimento dei fini prestabiliti.
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Al “potere di ordine”, quindi, si sostituisce il “potere di impartire direttive” o il “potere di indirizzo”,


con cui sono fissati gli obiettivi da perseguire. L’ufficio o l’ente subordinato resta però «libero» di
determinare i modi e i tempi dell’azione e di disattendere le direttive o gli indirizzi quando siano in
contrasto con il fine istituzionale, con il limite di dover motivare il suo comportamento. In questo
schema di relazione anche il “POTERE DI CONTROLLO” si modifica rispetto al “potere di controllo”
che si trova in sede gerarchica, poichè si tratterà non più di un controllo su atti, ma di un controllo
sull’attività svolta dall’ufficio o ente soggetto alla direzione. Infine al potere di direzione si
contrappone in capo all’ente subordinato un interesse protetto, con la conseguenza della possibilità di
tutela anche in sede giurisdizionale. Nei rapporti tra uffici la relazione, invece, si articola in situazioni
di potestà-soggezione, secondo lo schema tipico della relazione di gerarchia.

4. ll coordinamento. Il COORDINAMENTO non è una relazione organizzativa, ma è il


risultato dell’esercizio di poteri che riguardano diversi tipi di rapporti organizzativi. Tuttavia la
dottrina lo considera un rapporto organizzativo, che si pone nell’ambito di rapporti tra figure
soggettive. Col termine COORDINAMENTO la dottrina indica un “rapporto di equiordinazione”, che
intercorre tra soggetti preposti ad attività che, pur essendo diverse, sono destinate ad essere ricondotte
ad unità, in vista di risultati di interesse comune». Lo scopo dell’istituto è quello di realizzare una
connessione tra figure soggettive che non esprimono alcun rapporto di subordinazione. Infatti,
all’attività di coordinamento partecipano, ad egual titolo (dunque su un piano di parità), tutti gli enti (o
gli uffici) chiamati congiuntamente ad effettuare una valutazione degli interessi in gioco. Il
coordinamento realizza un raccordo tra figure soggettive che difficilmente esprimono posizioni di
subordinazione. Il
coordinamento, pertanto, non può essere ritenuto né un potere (potere di coordinamento) né un tipo di
relazione organizzativa (relazione di coordinamento), ma solo il risultato a cui si può pervenire
attraverso relazioni sia di sovraordinazione che di equiordinazione. In tal senso, gli studi più recenti
inquadrano il coordinamento nella prospettiva del “procedimento” (quando un procedimento
amministrativo investe più interessi, la regola è che le varie figure soggettive che sono centro di
riferimento dei vari interessi devono tutte essere chiamate nel procedimento) e, da ultimo, in una
visione più moderna, dell’ “operazione amministrativa”, nozione che raccoglie la complessiva attività
posta in essere da più figure soggettive, titolari di poteri diversi che devono coordinarsi nel
perseguimento di un risultato unitario. In tale prospettiva è l’operazione amministrativa (e non il
coordinamento) che assurge a nuova figura di relazione organizzativa, in cui si intrecciano profili di
equiordinazione e di sovraordinazione.

5. Il controllo. In diritto amministrativo il CONTROLLO è quel particolare strumento che mira


a garantire la regolarità formale e sostanziale delle decisioni amministrative. L’ordinamento, infatti,
pur garantendo a ogni amministrazione il “potere di iniziativa” in ordine all’attuazione dei suoi fini, si
avvale dei CONTROLLI come mezzi per sottoporre l’azione amministrativa o i risultati raggiunti ad
appositi riesami da parte di organi a ciò espressamente deputati. Il nostro sistema conosce una pluralità
di controlli :

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 Dal punto di vista giuridico i controlli possono essere sia INTERNI, sia INTERORGANICI,
sia INTERSOGGETTIVI e, su questa base, si distinguono i controlli interni (alla stessa
struttura) dai controlli esterni.
 A seconda del loro oggetto, invece, i controlli possono essere effettuati SU SINGOLI ATTI
o SULL’INTERA ATTIVITÀ DELL’UFFICIO SOTTOPOSTO AL CONTROLLO.
A loro volta, i “controlli su singoli atti” possono essere PREVENTIVI (nel caso in cui il
controllo sia effettuato prima che l’atto produca i suoi effetti) o SUCCESSIVI (se il controllo
avviene dopo che l’atto è divenuto esecutivo).
 A seconda, poi, del parametro usato per la verifica, i controlli possono essere distinti in
“CONTROLLI DI LEGITTIMITÀ” (quando il parametro di riferimento è la legge),
“CONTROLLI DI MERITO” (quando il parametro di riferimento è costituito
dall’opportunità dell’azione amministrativa) e infine “CONTROLLI DI GESTIONE” e
“CONTROLLI STRATEGICI” (che hanno come parametri l’economicità e l’efficienza
dell’attività rispetto ai risultati raggiunti).

Il sistema dei controlli era regolato, fin dall’inizio del '900, dalla “legge generale di contabilità dello
Stato”, dal “testo unico delle leggi sulla Corte dei conti” e dal “testo unico delle leggi comunali e
provinciali”, che avevano incentrato il sistema sul “CONTROLLO ESTERNO”, PREVENTIVO, e
DI LEGITTIMITÀ SUI SINGOLI ATTI (e, in particolare, quello di competenza della Corte dei
conti per gli atti delle amministrazioni statali). I controlli sugli atti dei Comuni e delle Province
erano invece di legittimità (c.d. vigilanza) e di merito (c.d. tutela) ed erano affidati al Prefetto (il
controllo sugli atti dei Comuni) e alla Giunta provinciale amministrativa (quello sugli atti delle
Province).
Le riforme degli ultimi anni hanno completamente sovvertito il disegno originario. La prima
consistente riforma dei controlli era già stata introdotta dalla Costituzione, che, da un lato, aveva
ridotto il “CONTROLLO DI MERITO” a una semplice richiesta di riesame da parte degli enti di
controllo agli enti controllati e, dall'altro, aveva affidato i controlli a organi a composizione tecnica,
a garanzia della loro imparzialità. L’assetto appena delineato aveva resistito fino agli anni '90.
Dopodiché è stato definitivamente abolito, dapprima, il “controllo di merito”; e poi anche il
“controllo di legittimità” è stato eliminato con l’abrogazione degli artt. 125, 1° comma e 130 Cost.
ad opera della legge cost. 3 / 2001.
Ad oggi CONTROLLI PREVENTIVI DI LEGITTIMITÀ ad effetto impeditivo dell’efficacia si
esercitano nei soli confronti degli «atti del Governo», in base all’art. 100, 2°comma Cost., che
attribuisce alla Corti dei conti il relativo potere.
Così, per effetto delle recenti riforme, si è compiuto il passaggio da un SISTEMA BASATO SUI
CONTROLLI DI LEGITTIMITÀ, ESTERNI E SU SINGOLI ATTI, ad un SISTEMA INCENTRATO
SU CONTROLLI INTERNI, aventi ad oggetto non più i singoli atti, ma L’INTERA ATTIVITÀ e
come parametro non la conformità alla legge, ma L’EFFICIENZA GESTIONALE DELL’ENTE
CONTROLLATO. Vediamo ora le tipologie di
“CONTROLLI INTERNI” in vigore :

 il “controllo di regolarità amministrativa e contabile”, tendente a garantire la legittimità,


la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa; esso può essere preventivo nei
soli casi espressamente stabiliti dalla legge e non è mai impeditivo dell’efficacia
dell’atto, che è rimessa all’esclusiva responsabilità dell’organo emanante;
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 il “controllo di gestione”, inteso a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità


dell’azione amministrativa, per consentire ai dirigenti di ottimizzare il rapporto tra costi
e risultati;
 la “valutazione e il controllo strategico”, miranti a supportare l'attività degli organi di
indirizzo politico-amministrativo e a valutare l’adeguatezza delle scelte operate dai
dirigenti riguardo agli obiettivi stabiliti dalle norme, nonché a identificare gli eventuali
fattori di ostacolo al conseguimento degli obiettivi, le eventuali responsabilità per la loro
mancata attuazione e i possibili rimedi.

Una notazione è da dedicare, infine, ai “RAPPORTI DI CONTROLLO FRA AUTORITÀ


EQUIORDINATE”. Questi rapporti sono previsti da specifiche disposizioni di legge, implicando la
soggezione (altrimenti non consentita) di un’autorità amministrativa ad un’altra dello stesso livello :
è il caso, ad esempio, dei Ministeri nei confronti del Ministero dell’economia, a cui la legge
attribuisce il potere di verificare (in sede di predisposizione del bilancio annuale) le necessità di cui
ogni singolo Ministero abbisogna. Viceversa, i “RAPPORTI DI CONTROLLO TRA AUTORITÀ
IN POSIZIONE DI RECIPROCA INDIPENDENZA” (ad es. il rapporto tra la Corte dei conti e il
Governo) o “DI AUTONOMIA” (ad es. il rapporto tra Stato e Regioni) sono istituiti direttamente
dalla Costituzione o da norme di legge in base a precise esigenze costituzionali : si pensi, ad
esempio, al controllo successivo che la Corte dei conti è chiamata a effettuare sulla gestione del
bilancio dello Stato predisposto dal Governo (art. 100, 2° comma, Cost.).

6. Delegazione di funzioni e utilizzazione degli uffici. Nell’ambito dei


rapporti di collaborazione tra figure soggettive diverse vanno ricompresi due modelli fondamentali :
la “delegazione di funzioni” e l’“utilizzo di uffici altrui”.
Il primo modello (DELEGAZIONE DI FUNZIONI) ricorre quando la figura soggettiva delegante,
che è titolare di un potere o di una funzione, ne trasferisce l’esercizio ad un’altra figura soggettiva,
la cui attività, però, sarà controllata dal soggetto delegante, che dispone di specifici poteri di
indirizzo e controllo. La delegazione può
intercorrere sia tra strutture o enti diversi (c.d. “DELEGAZIONE INTERSOGGETTIVA” : ad es.
tra Stato e Regioni o tra Regioni ed enti territoriali minori), sia tra organi (non uffici!) della stessa
struttura (c.d. “DELEGAZIONE INTERORGANICA”). Affinchè, però, la delegazione possa
assumere validità giuridica, è necessario un apposito “atto di delegazione”, che può avere natura
legislativa o amministrativa (in questa ipotesi, però, l’atto di delegazione deve essere ripetuto nel
caso in cui mutino o il titolare dell’organo o gli amministratori dell’ente delegante).
La delegazione dà luogo al fenomeno dell’ “esercizio indiretto della funzione amministrativa”
(detto anche amministrazione indiretta).
L’UTILIZZAZIONE DEGLI UFFICI DI UN ALTRO ENTE si ha quando un’ amministrazione
pubblica, anziché dotarsi di uffici propri, si avvale (per l’espletamento delle funzioni che le
competono) del personale e delle attrezzature di una figura soggettiva diversa. Questo modello
serve a evitare l’inutile proliferazione di strutture e assetti organizzativi. Esso era previsto dal
vecchio art. 118, ult. comma, Cost. che, prima della riforma del 2001, prevedeva che le Regioni
esercitassero le proprie funzioni amministrative «delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri
enti locali o valendosi dei loro uffici».

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Sia alla delegazione che all’utilizzazione degli uffici si può far ricorso solo in presenza di
un’espressa disposizione di legge.

*Art. 125 Cost. = CONTROLLO SUGLI ATTI REGIONALI. Recitava : “Il controllo di legittimità sugli atti amministrativi
della Regione è esercitato da un organo dello Stato. La legge può in determinati casi ammettere il controllo di merito, al
solo effetto di promuovere, con richiesta motivata, il riesame della deliberazione da parte del Consiglio regionale”. E’
stato abrogato dalla L. cost. 3 / 2001.

*Art. 130 Cost. = CONTROLLO SUGLI ATTI DEGLI ENTI LOCALI. Recitava : “Un organo della Regione esercita il
controllo di legittimità sugli atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali . In casi determinati dalla legge può
essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro
deliberazione”. E’ stato abrogato dalla L. cost. 3 / 2001.

*Art. 100, 2°comma Cost. = “La Corte dei conti esercita il “controllo preventivo di legittimità” sugli atti del Governo, e
anche “quello successivo” sulla gestione del bilancio dello Stato”.

- CAPITOLO 5. L’ORGANIZZAZIONE
AMMINISTRATIVA -

1. L’organizzazione amministrativa. L’ORGANIZZAZIONE


AMMINISTRATIVA è l’insieme di soggetti pubblici che, nel loro complesso, compongono
le pubbliche amministrazioni : è questo il c.d. “profilo statico dell’organizzazione”. Ma
questo sistema rivela anche una particolare propensione “dinamica”, in quanto ogni pubblica
amministrazione, a seconda dei fini che è chiamata a perseguire, è un “centro di
riferimento” deputato alla cura di un particolare interesse pubblico.

2. L’organizzazione amministrativa nell’architettura


costituzionale. E’ necessario adesso analizzare le norme che la Costituzione dedica
alla materia. Anzitutto, dal testo costituzionale emerge l’assenza di un qualsiasi riferimento
al MODELLO ORGANIZZATIVO DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI : il
costituente, infatti, si limita da un lato a dettare dei “principi generali” atti a guidare i
soggetti nell’esercizio del potere organizzativo, e dall’altro a delineare la differenza tra
funzione di indirizzo politico (e cioè di governo) e funzione amministrativa. L’unico
richiamo a un modello preciso rinvenibile a livello costituzionale riguarda la struttura
ministeriale, che è il modello rispetto a cui è espressamente prevista una “riserva di legge”
relativa al profilo istitutivo (art. 95 Cost.); riserva ribadita nell’art. 97 con riferimento
all’organizzazione dei pubblici uffici, la cui struttura e il cui funzionamento devono trovare
la propria fonte nella legge. Le altre disposizioni costituzionali che contengono dei richiami
al profilo dell’ORGANIZZAZIONE fanno riferimento a un modello generale che consta di
tre parti «disomogenee». La prima incentrata sul MODELLO MINISTERIALE, in funzione
servente rispetto al Governo, da cui dipende e che, ai sensi dell’art. 95 Cost., ne «determina

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gli indirizzi e ne cura l’unità». La seconda, riconducibile ad un MODELLO AUTOCEFALO


di amministrazione, trova la propria consacrazione negli artt. 97 e 98 Cost. Il modello
autocefalo è una variante del modello accentrato di amministrazione, caratterizzato, però, da
imparzialità e buon andamento. La terza parte è quella relativa al c.d. MODELLO
AUTONOMISTICO (o comunitario), riconducibile all’art. 5 Cost. : si tratta di un modello in
cui sono stati consacrati i “principi di autonomia” (la capacità dell’ente territoriale di
formulare un proprio indirizzo politico e amministrativo; autonomia normativa e
organizzativa) e del “decentramento amministrativo”(che esprime una Repubblica che non
presenta anche comuni, province e regioni, ma che consiste di essi), ora specificati nel
riformato Titolo V.
Però, al di fuori di queste eccezioni, nella Costituzione non c’è alcun richiamo al “modello
organizzativo delle pubbliche amministrazioni” e ciò ha impedito che si potesse giungere
all’enucleazione di una definizione di “PUBBLICA AMMINISTRAZIONE”. Questo vuoto
è stato colmato dalla dottrina, che ha individuato degli “indici di riconoscimento formali”
con cui valutare una struttura per qualificarla come un ente pubblico. Essi sono due :
 il primo indice riguarda il “regime giuridico dell’ente” (a tal proposito, ciò che assume
rilevanza è la costituzione a iniziativa pubblica dell’ente);
 il secondo indice riguarda, invece, “tutti gli elementi che fanno presupporre l’inserimento
dell’ente nel sistema delle pubbliche amministrazioni” (si pensi, ad es., all’ingerenza dello
Stato nella nomina e revoca dei dirigenti o alla sussistenza di un finanziamento pubblico,
ecc.).

La dottrina ha poi individuato dei “criteri sostanziali”, che però si riferiscono al profilo
funzionale dell’ente : nel senso che l’ente può considerarsi “pubblico” solo se la sua attività è
diretta al perseguimento di un interesse collettivo. Muovendo da queste considerazioni, la
dottrina ha così individuato i caratteri essenziali affinchè un ente possa essere considerato
“pubblico”; essi sono :

 l’autarchia, cioè la capacità dell’ente di governarsi;


 l’autotutela, cioè la capacità dell’ente di risolvere un conflitto di interessi e di
controllare la validità dei propri atti;
 l’autonomia, cioè la capacità di emanare provvedimenti sulla base di scelte
effettuate dall’ente;
 l’autogoverno, cioè la facoltà di amministrarsi attraverso propri organi.

3. Il sistema delle pubbliche amministrazioni. Occorre ora richiamare


alcuni criteri elaborati dalla dottrina per classificare le pubbliche amministrazioni : 1) il
“CRITERIO TERRITORIALE”, cioè l’ambito spaziale in cui il soggetto pubblico opera :
sotto questo profilo, si distinguono l’amministrazione statale (ministeri, agenzie,
amministrazioni indipendenti), centrale e periferica (Prefetture-UTG Uffici territoriali del
Governo, Questure, Soprintendenze, articolazioni regionali delle agenzie, ecc.) da quella
regionale e locale (Province, Comuni, Comunità montane, Città metropolitane); 2) un altro
criterio riguarda l’AMBITO DI OPERATIVITÀ DELLE AMMINISTRAZIONI : in
quest’ottica si distinguono gli enti pubblici (cioè quelle persone giuridiche pubbliche create
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dallo Stato, dalla Regione o dall’ente locale per perseguire un determinato interesse
pubblico) dagli enti pubblici economici (creati per lo svolgimento di attività economiche e
operanti, a differenza di quelli non economici, con atti di diritto privato); 3) sotto il
PROFILO DELLA COMPETENZA si distingue, poi, tra amministrazione diretta (formata
da organi le cui attività è imputata direttamente all’ente per cui agiscono) e amministrazione
indiretta, in cui un ente maggiore si serve per il perseguimento dei propri fini di altri
soggetti pubblici, che si pongono in una posizione di strumentalità rispetto al primo (si
pensi, ad es., all’istruzione scolastico-universitaria, in cui il Ministero persegue i propri
obiettivi attraverso l’opera di scuole e università).

4. L’organizzazione ministeriale e le agenzie. Il modello organizzativo


statale per lungo tempo è stato rappresentato da quello “ministeriale”, al cui vertice sono
posti i Ministri, membri del corpo politico ed espressamente previsti a livello costituzionale.
I ministeri per lungo tempo sono stati disciplinati dalle proprie leggi istitutive, che però non
trovavano il loro riferimento in un atto legislativo esprimente un disegno organizzativo
unitario. Solo con la L. 400 / 1988 il legislatore ha definito in modo puntuale sia la missione
che le funzioni proprie di ciascun Ministero.
Analizziamo la struttura ministeriale : l’organizzazione interna si compone di
“DIPARTIMENTI” e di “DIREZIONI GENERALI”. I DIPARTIMENTI sono strutture di
primo livello, istituite per assicurare il corretto esercizio delle funzioni ministeriali. Il
dipartimento si articola a sua volta in “DIREZIONI GENERALI” (uffici dirigenziali di
secondo livello) che dipendono dal primo. L’articolazione interna degli uffici dirigenziali
generali prevede uffici dirigenziali diretti da dirigenti. Ogni dipartimento è diretto da un
“direttore generale”, nominato con decreto del Presidente della Repubblica su deliberazione
del Consiglio dei ministri e proposta del Ministro competente. Il capo del dipartimento, non
solo opera a stretto contatto con il Ministro, ma, essendo responsabile dei risultati perseguiti
dagli uffici dirigenziali posti alle sue dipendenze, è anche chiamato a dirigerne e a
controllarne l’operato. Al capo del dipartimento spettano anche poteri di allocazione delle
risorse disponibili fra gli uffici dipendenti, nonché la promozione ed il mantenimento delle
relazioni con gli organi competenti dell’Unione europea per la trattazione di affari di
competenza del proprio dipartimento.
La struttura dei “Ministeri della difesa”, degli “affari esteri” e “per i beni e le attività
culturali”, invece non individua al primo livello i dipartimenti, ma le DIREZIONI
GENERALI, che possono caratterizzarsi anche per la presenza del “Segretario generale”, che
opera alle dirette dipendenze del Ministro competente e provvede all’elaborazione degli
indirizzi e dei programmi di competenza del Ministro. Nei tre ministeri non
dipartimentalizzati, oltre alle direzioni generali e alla figura del Segretario generale, può
anche esserci un numero limitato di “uffici di diretta collaborazione con i ministri, con i
vice-ministri e con i sottosegretari” : si tratta di uffici di staff, strutture che non gestiscono
direttamente gli affari amministrativi e che restano all’esterno della struttura amministrativa
del singolo ministero (costituita dai c.d. uffici di line). Tra gli uffici di staff vanno incluse,
ad esempio, le segreterie dei ministri o gli “uffici di gabinetto”.
La legge n. 400 / 1988 ha previsto la possibilità di nominare i c.d. “Ministri senza
portafoglio”, cioè ministeri privi di un proprio apparato organizzativo (tant’è che si
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avvalgono, per l’esercizio delle loro funzioni, della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Infine al ministero possono essere collegate una o più AGENZIE. Le agenzie sono strutture
che svolgono attività tecniche di interesse nazionale. E’ loro riconosciuta un’autonomia
statutaria, organizzativa, contabile e gestionale, ma esse sono comunque sottoposte ai
“poteri di indirizzo e di vigilanza” del ministero competente (del quale sono un vero e
proprio braccio operativo per le attività tecniche), nonché ai “poteri di controllo” della Corte
dei Conti. Al vertice dell’agenzia c’è un direttore generale, affiancato da un comitato
direttivo composto da 3 dirigenti. Tra le Agenzie presenti nel nostro ordinamento,
particolare importanza rivestono le “Agenzie fiscali”, dotate di personalità giuridica di
diritto pubblico. Alle agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, Agenzia delle dogane, Agenzia
del territorio e Agenzia del demanio), che contano articolazioni regionali, sono attribuite
funzioni riguardanti : 1) «le entrate tributarie erariali» (AGENZIA DELLE ENTRATE); 2)
«i servizi relativi all’amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei diritti doganali»
(AGENZIA DELLE DOGANE); 3) «i servizi relativi al catasto e quelli relativi alle
conservatorie dei registri immobiliari, col compito di costituire l’anagrafe degli immobili
esistenti sul territorio nazionale» (AGENZIA DEL TERRITORIO); 4) «l’amministrazione
dei beni immobili dello Stato, col compito di valorizzarne l’impiego» (AGENZIA DEL
DEMANIO).

*Questore : a capo della polizia di Stato. La questura è l’ufficio della Polizia di stato alle dipendenze del Ministero
dell’Interno. Si trova in Provincia (mentre nei Comuni abbiamo i commissariati).
*Prefettura : è retta da un Prefetto. La Prefettura è un’articolazione territoriale del Ministero dell’Interno; è la
rappresentanza locale dell’esecutivo, del governo sul territorio della provincia. Il questore invece è il capo della polizia.
Il prefetto può disporre dell’aiuto di tutte le forze armate. Il Questore è un organo OPERATIVO, mentre il Prefetto è un
organo POLITICO. Il Prefetto in ambito provinciale rappresenta il Governo nel suo complesso, ed esercita funzioni che
possono riguardare tutti i settori dell'amministrazione dello Stato. Dipende dal Ministero dell'Interno (gerarchicamente),
mentre dal punto di vista funzionale egli è di volta in volta subordinato al Ministero competente nella materia trattata.
E’ Autorità provinciale di Pubblica Sicurezza (la funzione più importante) ed è responsabile della tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblica nella provincia. Per questo viene costantemente informato dal Questore e dal Comandante
provinciale dei Carabinieri e a sua volta informa il Ministero dell’Interno.
La differenza sostanziale è questa : spetta al Prefetto determinare l'indirizzo generale e gli obiettivi delle attività per la
tutela della sicurezza pubblica.
Il prefetto individua gli obiettivi. Al questore poi è attribuito il compito di determinare il modo per raggiungerli.

*Soprintendenza = organo periferico del Ministero per i beni e le attività culturali.


*Ministro senza portafoglio =è un ministro, ma non è preposto ad un dicastero.
*Sottosegretari = coadiuvano il Ministro e svolgono compiti ad essi delegati.
*Dogana = organismo che controlla l’entrata e l’uscita delle merci dal territorio nazionale. Il dazio doganale è un tributo
sulle importazioni e le esportazioni.
*Conservatoria = ufficio dove sono conservati i registri immobiliari e ipotecari. Ha il ruolo di registrare i “passaggi di
proprietà”.
*Catasto = inventario degli immobili (con i relativi proprietari) a fini fiscali.
*Agenzie = anche in Provincia.
*Uffici di staff e di line = Per gli uffici di line si, si presuppone un rapporto di gerarchia. Quelli di staff possono essere di
due tipi: quelli di diretta collaborazione (quindi strumentali all'esercizio delle funzioni degli uffici di line) e quelli di
specializzazione tecnica, sempre coadiuvanti agli uffici di line, ma con competenze più specifiche (es. il Ministro della
salute prima di approvare l'entrata sul mercato di un medicinale dovrà ascoltare il parere di un ufficio tecnico
competente).

5. Cenni sull'organizzazione statale periferica. Con l’espressione


AMMINISTRAZIONE STATALE PERIFERICA ci si intende riferire a quelle articolazioni
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territoriali in cui si snodano alcuni Ministeri, nonché le Agenzie fiscali. Con questo meccanismo,
infatti, si attua un “decentramento burocratico degli enti che operano sul territorio nazionale”. A
seconda delle attribuzioni loro devolute, si distinguono “ORGANI A COMPETENZA
GENERALE”, che rappresentano lo Stato nella sua totalità, esercitando funzioni di rappresentanza
governativa (come, ad es., le prefetture - UTG) e “ORGANI A COMPETENZA SPECIALE”, che
svolgono specifiche funzioni statali, riguardanti singoli settori (ad es. pubblica sicurezza) su una
frazione di territorio.

6. Strutture di raccordo interne ed esterne all'amministrazione.


Ogni ministero ha una propria autonomia, necessaria per il perseguimento dei propri obiettivi : esso
è una struttura compiuta, con una propria mission. Tuttavia non mancano degli elementi, interni ed
esterni alla struttura, istituiti per raccordare tra loro i ministeri. Con riferimento agli STRUMENTI
DI RACCORDO INTERNO ALLE SINGOLE ORGANIZZAZIONI, un ruolo centrale va riconosciuto
agli “uffici centrali del bilancio”, che dipendono dal Ministero dell’economia e delle finanze : a tali
uffici spetta il compito di controllare la regolarità finanziaria delle operazioni poste in essere dai
Ministeri presso cui sono incardinati (e dai quali, però, rimangono estranei, proprio perché
dipendono dal Ministero dell’economia). Questi uffici controllano la regolarità finanziaria delle
operazioni e provvedono alla tenuta delle scritture contabili, vigilando sull’osservanza delle leggi e
delle disposizioni impartite dal ministero dell’economia e delle finanze.
Sempre in vista dell’uniformazione dell’azione amministrativa, poi, sono previste delle
STRUTTURE DI RACCORDO ESTERNE, tra le quali ricordiamo : il consiglio dei ministri, i
comitati dei ministri, i comitati interministeriali e il Presidente del Consiglio dei ministri.

 Il CONSIGLIO DEI MINISTRI è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri (art.
92 Cost.), che hanno il compito di determinare la politica generale del Governo, fissando
l’indirizzo politico-amministrativo del Paese, nonché la guida politica, normativa e
finanziaria del Governo. Esso si avvale, per il perseguimento delle sue funzioni, di un
Ufficio di segreteria diretto dal “Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio”.
 I COMITATI DEI MINISTRI sono composti esclusivamente da ministri, che svolgono
funzioni istruttorie e consultive nei confronti del Governo. Tra questi, ad esempio, c’è il
“Consiglio di Gabinetto”, i cui membri sono nominati dal Presidente del Consiglio per
aiutarlo nei suoi compiti.
 I COMITATI INTERMINISTERIALI sono soggetti di raccordo a composizione mista, in
quanto ne fanno parte ministri, esperti e rappresentanti delle amministrazioni di volta in
volta interessate. Si tratta di organi collegiali non necessari del Governo, che possono avere
una “funzione consultiva”, se preparano le deliberazioni del Consiglio dei ministri, o una
“funzione deliberativa” nei casi in cui ex lege possono sostituirsi allo stesso Consiglio nelle
sue deliberazioni. Essi sono 3 : C.I.P.E. (Comitato interministeriale per la programmazione
economica), C.I.C.R. (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) e C.E.S.I.S.
(Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza). Il C.I.P.E. svolge funzioni
di coordinamento in materia di programmazione e di politica economica nazionale, nonché
di coordinamento della politica nazionale con le politiche comunitarie. Il C.I.C.R. ha il
compito di vigilare sulla tutela del risparmio e sull’esercizio del credito.

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*Consiglio di Gabinetto = è un consiglio politico che consente consultazioni più rapide, poi sottoposte al vaglio del
Consiglio dei Ministri. E’ come se fosse un Consiglio dei Ministri ristretto (Presidente del Consiglio e alcuni ministri), che
elabora tematiche che poi sono sottoposte al Consiglio dei Ministri al completo.

La Presidenza del Consiglio dei ministri. L’ultima struttura organizzativa


esterna è la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, che è presieduta dal Presidente del
Consiglio. Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo,
mantenendo l’unità di indirizzo politico-amministrativo e coordinando l’attività dei ministri (art. 95
Cost.). Il Presidente del Consiglio è posto a capo di una struttura organizzativa (la Presidenza del
Consiglio dei ministri) disegnata come centro dell’azione di governo. La Presidenza del Consiglio è
stata riformata in modo organico dalla legge 400/1988 e dal d.lgs. 303 / 1999.
Al Presidente del Consiglio sono attribuite funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento, nonché
ampi poteri di delega al sottosegretario alla Presidenza o ad altre autorità politiche per settori di
attività. Egli si avvale della Presidenza per l’esercizio delle proprie funzioni, tra cui rientrano la
direzione politica del Governo, la progettazione delle politiche generali e l’assunzione di decisioni
di indirizzo politico generale, nonchè le relazioni con il Parlamento, con le istituzioni europee, con
le autonomie e con le confessioni religiose. Il Presidente del Consiglio ha un doppio grado di
autonomia, “organizzativa” e “contabile” : infatti, sotto il profilo organizzativo, il Presidente, con
propri decreti, può affidare specifiche funzioni all’ufficio del Segretariato generale (anche se
questi, nell’espletamento delle stesse, agisce con piena autonomia). Inoltre il Presidente può
individuare gli uffici di diretta collaborazione propri e quelli dei ministri senza portafoglio.
L’autonomia contabile e di bilancio consente, invece, la flessibilità nella gestione delle spese, nei
limiti delle disponibilità iscritte in un unico stanziamento approvato annualmente dal Parlamento.
Distinto dagli uffici di staff del Presidente, il “SEGRETARIATO” assicura il supporto
all’espletamento dei compiti del Presidente del Consiglio dei Ministri, sovrintende
all’organizzazione e alla gestione amministrativa del Segretariato generale ed è anche
responsabile dell'approvvigionamento delle risorse umane della Presidenza del Consiglio dei
Ministri. Il Segretario generale predispone il progetto di bilancio annuale e pluriennale di
previsione e il conto consuntivo della Presidenza e li sottopone all’approvazione del Presidente;
per le strutture del Segretariato generale impartisce le direttive generali per l’azione
amministrativa e determina gli obiettivi gestionali.

CNEL, Consiglio di Stato e Corte dei conti. Accanto agli elementi di raccordo
esterni ai ministeri completano il quadro gli “ORGANI AUSILIARI”, che hanno funzioni
consultive e di controllo sull’attività delle pubbliche amministrazioni. Essi sono :

 il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL ; art. 99 Cost.), istituito nel 1957.
Esso è un organo collegiale di 65 membri, composto da esperti e rappresentanti delle
categorie produttive con “funzione di iniziativa legislativa” (limitatamente alle materie di
propria competenza), e “consultiva”. È un organo consultivo del Governo, delle Camere e
delle Regioni, e ha diritto all’iniziativa legislativa, limitatamente alle materie di propria
competenza (le quali sono la legislazione economica e sociale). Con riferimento alla
“funzione consultiva”, il CNEL emette pareri, che nella maggior parte dei casi sono
facoltativi, fatta eccezione per la relazione previsionale e programmatica che il Ministro
dell’economia e delle finanze deve sottoporre in via preventiva al Consiglio, prima

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dell’invio al Parlamento (infatti in questo caso, per espressa previsione normativa, la


richiesta del parere preventivo del CNEL è obbligatoria).
 Il secondo organo ausiliario che la Costituzione ci presenta è il Consiglio di Stato, che
risultava già presente nel Regno di Sardegna (fu istituito dal re Carlo Alberto nel 1831 e,
poi, mantenuto dopo la riforma del 1865). Il suo ruolo si ricava dall’art. 100 Cost. che ce lo
presenta come un «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia
nell’amministrazione» e che, quindi, ricopre una duplice funzione : giurisdizionale e
consultiva.
Dal punto di vista strutturale, il Consiglio di Stato (dotato di un organo di autogoverno : il
“Consiglio di presidenza”) è articolato in 7 sezioni, alcune con funzioni giurisdizionali, altre
con funzioni consultive. A differenza del passato, ove vigeva la regola per cui le sezioni 4, 5
e 6 agivano con funzioni giurisdizionali, mentre le restanti con funzioni consultive, oggi il
Presidente del Consiglio di Stato, con proprio provvedimento, all’inizio di ogni anno, sentito
il Consiglio di presidenza, individua le sezioni che svolgono funzioni giurisdizionali e
consultive, determina le rispettive materie di competenza e la composizione. Ad esse si
aggiungono l’Adunanza Generale, anch’essa con funzioni consultive, e l’Adunanza Plenaria,
con funzioni giurisdizionali.
L’attività consultiva ha carattere generale, potendo riguardare sia la “legittimità” che il
“merito” dell’azione amministrativa, e viene esercitata attraverso la formulazione di “pareri”
che possono essere facoltativi (se l’amministrazione ha la mera facoltà di richiederli) o
obbligatori (se l’amministrazione è obbligata a richiederli) e nel caso di pareri obbligatori la
natura del parere varia ulteriormente : è vincolante, se il provvedimento
dell’amministrazione non può avere un contenuto diverso da quello indicato nel parere; è
relativamente vincolante, quando è ammessa l’adozione da parte dell’amministrazione di un
provvedimento con contenuto diverso da quello indicato nel parere del Consiglio di Stato,
ma occorre in ogni caso una deliberazione di un altro organo, a cui viene imputata la
responsabilità amministrativa della scelta.
La richiesta di parere (che va motivata in fatto e in diritto) deve essere trasmessa al
Consiglio dal Ministro procedente o dal sottosegretario, su proposta del dirigente del
servizio. Fatto ciò, la richiesta viene smistata alla sezione competente, che procede alla
formulazione del parere in assenza di contraddittorio delle parti interessate (eccetto il caso
in cui contraddittori siano i ministri, che possono intervenire).
 Nel novero degli organi ausiliari rientra, poi, la Corte dei conti : si tratta di un organo di
controllo dell’amministrazione che conta anche un’articolazione regionale. Dotata di
assoluta indipendenza nei confronti del Governo e del Parlamento, essa è composta da
impiegati amministrativi e magistrati. L’art. 100 Cost. le attribuisce specificamente
“funzioni di controllo” e “funzioni giurisdizionali nelle materie della contabilità pubblica e
nelle altre materie specificate dalla legge”. Essa svolge anche funzioni amministrative, come
ad esempio i provvedimenti che adotta riguardo allo stato giuridico dei propri dipendenti, e
funzioni consultive, come i pareri resi al Governo sugli atti adottati dallo stesso.
Le “funzioni di controllo” si articolano nei c.d. “controlli esterni” (controllo preventivo,
successivo, nonchè controllo sulla gestione degli enti locali) e “controlli interni”, finalizzati
a garantire la legittimità, l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa (controllo di
regolarità amministrativa e contabile; controllo di gestione; valutazione e controllo

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strategico).
La Corte svolge anche compiti tesi a garantire il controllo sulla copertura economica delle
leggi di spesa, per garantire il rispetto degli equilibri finanziari e dei vincoli di bilancio. Gli
esiti di questi controlli sono espressi in una relazione trasmessa al Parlamento e redatta con
cadenza quadrimestrale sulla copertura di spesa delle leggi adottate nel periodo. Essa è
competente anche in merito alla certificazione finanziaria dei contratti collettivi di lavoro.
Quanto, invece, alle “funzioni giurisdizionali”, la Corte dei Conti ha competenza nei giudizi
di conto (giudizi sui conti degli agenti contabili), nei giudizi di responsabilità dei contabili e
in materia pensionistica” (riguardo alla sussistenza del diritto alla pensione ed al suo
ammontare).
 Completa il quadro, infine, l’Avvocatura dello Stato, che fa capo al “Segretario generale
della Presidenza del Consiglio dei ministri” e ha il compito di provvedere alla tutela legale
delle amministrazioni dello Stato. Essa è articolata in “Avvocature distrettuali” a livello
regionale, ed è composta da avvocati dello Stato e da personale amministrativo. Al vertice
dell’organo è posto l’Avvocato generale.

7. Le amministrazioni indipendenti. Sempre rimanendo a livello centrale (cioè


di amministrazioni che hanno la propria competenza su tutto il territorio nazionale) rilevano le c.d.
“AMMINISTRAZIONI INDIPENDENTI” (o “AUTORITÀ DI REGOLAZIONE”), che devono
garantire lo stabile funzionamento di un determinato settore di mercato (credito, lavori pubblici,
telecomunicazioni, ecc.). Il soggetto pubblico, in questo caso, non agisce per erogare direttamente
un certo servizio alla collettività, ma serve a garantire il corretto funzionamento dello stesso e la sua
stabilità, operando così per il mercato, e non nel mercato. Le amministrazioni indipendenti sono
enti di diritto pubblico dotati di personalità giuridica.
La garanzia del corretto funzionamento è assicurata attraverso il conferimento all’amministrazione
indipendente di vari poteri, che vanno dalla predisposizione delle regole essenziali per il corretto
funzionamento del settore affidato alla sua regolazione (cui gli operatori devono attenersi), alla
garanzia della loro applicazione, fino alla soluzione dei conflitti.
I caratteri essenziali delle amministrazioni indipendenti sono stati individuati nell’
“INDIPENDENZA” dal Governo, essendo l’obiettivo da essa perseguito la stabilità del mercato cui
la stessa è preposta e la sua concorrenzialità. Infatti, a livello funzionale, è esclusa ogni previsione
tesa ad assoggettare l’amministrazione a possibili forme di influenza da parte del Governo; e a
livello strutturale, la scelta dei vertici dell’amministrazione deve avvenire tra soggetti dotati di una
competenza specifica, alta professionalità ed indipendenza, attraverso un procedimento che
prescinda da qualsiasi legame col Governo (nella maggior parte dei casi, infatti, la designazione dei
vertici è effettuata dal Parlamento). Si pensi all’“Autorità garante della concorrenza e del mercato”
(l’Antitrust), che ha il compito di garantire la libera concorrenza e il corretto funzionamento del
mercato, attraverso l’esercizio di poteri normativi, di indagine, di denuncia e sanzionatori. Il suo
vertice è costituito da un organo collegiale, costituito dal Presidente e da 4 membri, nominati
d’intesa dal Presidente della Camera e del Senato. O all’“Autorità di vigilanza sui lavori pubblici”,
costituita da 7 membri nominati d’intesa dal Presidente della Camera e del Senato. Accanto al
requisito dell’INDIPENDENZA, cui fa da contraltare quello della “NEUTRALITÀ” (evitare che i
membri di una specifica Autorità operino all’interno del settore di mercato che l’Autorità è
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chiamata a regolare), la caratteristica propria del modello è rappresentata dalla “titolarità di poteri
normativi, esecutivi e di soluzione dei conflitti”. Tra le amministrazioni indipendenti ricordiamo
inoltre la “Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali” (che ha il compito di valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il
contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati) e l’ “Autorità per l’energia elettrica e il gas”, l’ “Autorità di regolazione
dei trasporti” e la “CONSOB” (Commissione nazionale per le società e la Borsa, la cui attività è
rivolta alla tutela degli investitori e del mercato mobiliare italiano).

8. Gli enti pubblici. Gli “ENTI PUBBLICI” sono quei soggetti creati secondo norme di
diritto pubblico per il perseguimento di determinati fini pubblici. Il settore degli enti pubblici è
caratterizzato da una costante mutevolezza, accentuata dall’esigenza del legislatore di operare un
suo riordino, sia per ragioni di semplificazione che di contenimento della spesa. Di estremo
interesse sono le previsioni della legge n. 70 / 1975 di soppressione degli enti inutili (c.d. legge sul
parastato). La legge individuava i c.d. “enti necessari” (il “parastato”), come l’INPS e l’ACI, per cui
era previsto il mantenimento in vita (attraverso il loro inserimento in un apposito elenco), in quanto
essenziali, poichè svolgevano funzioni strumentali all’attività statale. Accanto agli enti necessari
erano poi individuati quegli “enti non soggetti alla legge sul parastato”, per i quali non era stato
predisposto un elenco dettagliato, essendosi il legislatore limitato a rinviare agli statuti di specie,
cioè alle rispettive norme di disciplina (enti pubblici economici, enti locali territoriali, Camere di
commercio) e “gli altri enti pubblici”, cioè quegli enti che, non considerati necessari, né a statuto di
specie, continuavano ad esistere come enti privati, senza alcun finanziamento statale. Sempre nel
quadro della legge n. 70/1975 erano poi individuati, in via residuale, i c.d. «enti inutili», cioè quegli
enti, non ricompresi nelle categorie menzionate, ritenuti non meritevoli di sopravvivere anche se
autofinanziati e che, pertanto, sono stati soppressi.
Un cambiamento decisivo nel senso del riordino degli enti pubblici si ha negli anni '90, quando, da
un lato, si avvia un serrato percorso di privatizzazione, e dall’altro si afferma la tendenza ad allocare
le funzioni non più in modo accentrato, ma in capo agli enti più vicini alla collettività
(decentramento amministrativo). Il nucleo centrale di questa riforma, che va rintracciato nelle c.d.
leggi Bassanini, mira a garantire sia la semplificazione dell’azione amministrativa sia la
realizzazione di una forma accentuata di federalismo amministrativo. Le “leggi Bassanini” (dette
anche “leggi sulla semplificazione amministrativa”) sono : la L. 59 / 1997 (legge Bassanini semel) ;
L. 127 / 1997 (Bassanini-bis); L. 191 / 1998 (Bassanini-ter) e la L.50 / 1999 (Bassanini – quater).
La prima legge Bassanini riguarda propriamente la semplificazione e il decentramento
amministrativo (Delega al Governo per il conferimento di funzioni alle Regioni e agli enti locali); la
seconda lo snellimento dell’attività amministrativa; la terza contiene alcune modifiche e
integrazioni delle due leggi precedenti; la quarta riguarda la delegificazione.
Il percorso di semplificazione così avviato ha trovato poi un ulteriore sviluppo nella riforma del
Titolo V della Costituzione con la legge cost. n. 3 / 2001, con cui l’organizzazione complessiva
assume un assetto federale, e con la c.d. “legge taglia enti” del 2008, con cui sono stati soppressi gli
enti aventi una dotazione organica (= il personale) inferiore alle 50 unità.
In particolare la legge n. 59 / 1997 (legge Bassanini) ha delegato al Governo l’emanazione di
decreti legislativi per : 1) il riordino degli enti pubblici operanti in settori diversi dall’assistenza e
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dalla previdenza; 2) la fusione e soppressione di enti con finalità analoghe; 3) la privatizzazione


(attraverso la trasformazione in ente pubblico economico o in società di diritto privato) di quegli
enti che presentavano un alto indice di autonomia finanziaria; 4) la privatizzazione (attraverso la
trasformazione in associazioni o persone giuridiche di diritto privato) degli enti che non svolgono
funzioni di rilevante interesse pubblico o degli enti per il cui funzionamento non è necessaria la
personalità giuridica di diritto pubblico; 5) il riordino delle società per azioni controllate dallo Stato.

*Parastato = è il complesso degli enti soggetti allo “statuto sul parastato”, contenuto nella L. 70 / 1975, che non ha
definito questi enti, ma ha elencato 7 categorie di enti sottoponibili alla disciplina sul parastato, dichiarando tali enti
“necessari”.

*ACI = Automobile Club d’Italia (ente pubblico non economico).

9. Gli enti pubblici economici e l’impresa pubblica. Un discorso a parte va


fatto riguardo alle ipotesi in cui lo Stato ha assunto il ruolo di operatore economico, diretto
erogatore di servizi a favore della collettività, rispetto alle quali si è registrata nel tempo una
molteplicità di formule organizzative che trovano nelle “AZIENDE AUTONOME” e nell’
“IMPRESA PUBBLICA” i modelli prevalenti. Si consideri, ad esempio, il settore ferroviario
rispetto a cui nel 1876 fu dichiarata la statizzazione delle ferrovie, sebbene subordinata
all’affidamento dell’esercizio alla gestione privata. Nel 1905 la loro gestione fu, invece, affidata a
un’amministrazione autonoma, amministrazione che nel 1948 divenne parte del “Ministero dei
trasporti”, per poi ridiventare “Amministrazione autonoma delle Ferrovie dello Stato”.
La formula dell’amministrazione autonoma o delle c.d. aziende autonome indica una struttura
organizzativa, nata dallo scorporo (= separazione) di una direzione del ministero titolare, la cui
autonomia riguardava però solo il profilo strutturale, e non quello funzionale (infatti, l’organo di
vertice delle aziende era comunque il ministro di settore, che, oltre ai “poteri di rappresentanza”
dell’azienda autonoma, aveva anche “poteri deliberativi”; questi, a sua volta era assistito da un
Consiglio di amministrazione).
Negli anni ’90, però, le aziende autonome sono state interessate da un profondo processo di
privatizzazione (processo che, in una prima fase, ha visto la loro trasformazione in s.p.a., e
successivamente, il collocamento del loro pacchetto azionario sul mercato) : si pensi, ad esempio, al
settore delle poste, in relazione al quale l’azienda autonoma Poste e telecomunicazioni” è stata
trasformata prima in ente pubblico economico Poste italiane e poi in Poste s.p.a. (con il
collocamento sul mercato del pacchetto azionario inizialmente detenuto dallo Stato).
Sempre agli inizi del ‘900 un fenomeno simile a quello dell’amministrazione autonoma si è
registrato anche a livello locale, con riferimento al settore dei servizi, in cui furono istituite, da parte
delle amministrazioni locali, le “AZIENDE MUNICIPALIZZATE”, proprio secondo lo schema
dell’azienda autonoma.
Nel primo dopoguerra poi nasce un nuovo modello organizzatorio, quello dell’ “IMPRESA
PUBBLICA”, così denominata perché era un’impresa il cui capitale era conferito in tutto o in parte
da un soggetto pubblico. Si trattava di un’impresa gestita dallo Stato o da enti pubblici separati
dallo Stato-amministrazione : gli ENTI PUBBLICI ECONOMICI. Gli “ENTI PUBBLICI
ECONOMICI”, istituiti nel periodo fascista per lo svolgimento di attività economiche, di

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produzione di beni e servizi, sono la figura cardine attraverso cui si realizza l’intervento pubblico
nell’economia. Si tratta di enti pubblici dotati di una propria “personalità giuridica”, di un proprio
“patrimonio” e di proprio “personale dipendente” (che, a differenza di quello degli altri enti
pubblici, è soggetto a un rapporto di impiego di diritto privato) aventi ad oggetto l’esercizio di
un’impresa commerciale. La connotazione privatistica non inficiava, però, i forti legami
pubblicistici, giacchè gli organi di vertice dell’ente, cioè il Presidente e il Consiglio di
amministrazione, erano nominati dal Ministero competente nel settore in cui l’ente svolgeva la
propria attività. Ministero che, tra l’altro, conservava un “potere di indirizzo” e “vigilanza”
sull’attività dell’ente. L’ente pubblico che gestiva l’impresa aveva la qualità di imprenditore e
un’organizzazione assimilabile alla stessa impresa : il Presidente e il Consiglio di amministrazione.
Il primo ente pubblico gestore di un’impresa fu l’INA, l’ “Istituto nazionale delle assicurazioni”,
istituito nel 1912 per creare una sorta di monopolio pubblico nel settore delle assicurazioni sulla
vita. Dopo la grande crisi economica del 1929 il fenomeno della partecipazione pubblica (cioè
dell’acquisizione da parte dello Stato di quote di partecipazione in società private) si è esteso
notevolmente. La crisi del 1929 infatti mise in seria difficoltà il sistema bancario, poiché le banche
detenevano ampi pacchetti azionari delle società che gestivano le imprese manifatturiere, che erano
affette da crisi di sovrapproduzione; di conseguenza, il dissesto di queste finì per coinvolgere tutto il
sistema bancario, esposto al rischio di non recuperare i crediti erogati alle imprese. Quindi, nel 1933
viene costituito l’ IRI (“Istituto per la ricostruzione industriale”), che acquisì i pacchetti azionari
delle imprese private in crisi detenuti dalle banche e diede avvio al ripianamento dei passivi delle
società. L’IRI divenne così una holding (cioè una società finanziaria, un ente di gestione, con un
“potere di direzione” e “controllo” su una gran quantità di imprese private). L’IRI era una holding
in cui le varie imprese possedute dallo Stato furono raggruppate all’interno di holding di settore
(altrettante società finanziarie in comando dell’IRI) per ogni gruppo di attività produttiva. Negli
anni ’60 l’IRI risultava composta da 6 holding di settore : FIMECCANICA nel settore meccanico,
FINELETTRICA in quello dell’elettricità, FINCANTIERI in quello cantieristico, FINMARE in
quello del trasporto marittimo, FINSIDER in quello siderurgico e STET nel settore delle
telecomunicazioni. Fuori dalle holding di settore rimasero, invece, il settore del trasposto aereo
(l’Alitalia), quello radio-televisivo (la Rai) e quello delle autostrade.
L’IRI divenne, quindi, una struttura avente la forma di un ente pubblico, ma la sostanza di una
società finanziaria (cioè, di una società che non svolgeva alcuna attività produttiva, ma deteneva il
capitale di imprese produttive); sul modello dell’IRI nel 1953 venne creato un altro ente pubblico
economico : l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), sotto cui furono raggruppate le società a
partecipazione pubblica operanti nel settore degli idrocarburi. I moduli organizzatori dell’IRI e
dell’ENI si articolavano, dunque, su diversi livelli : il primo, in cui erano collocate le società per
azioni operanti sul mercato; al secondo livello erano collocate le società capogruppo nei vari settori;
al terzo gli enti di gestione (IRI ed ENI), cui spettavano la direzione e il coordinamento dell’azione
imprenditoriale e finanziaria dei gruppi. Trattandosi comunque di soggetti a partecipazione
pubblica, essi dovevano necessariamente operare secondo direttive pubblicistiche impartite dagli
organi statali - il “CIPE” e il “Ministero per le partecipazioni statali”.
L’impresa pubblica, nonostante il processo di privatizzazione, non è scomparsa totalmente dal
panorama organizzativo : in sede comunitaria le IMPRESE PUBBLICHE sono definite come quelle
«imprese su cui le autorità pubbliche possono esercitare un’influenza dominante perché ne hanno
la proprietà o hanno in esse una partecipazione finanziaria. L’INFLUENZA DOMINANTE è

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presunta quando le autorità pubbliche detengono la maggioranza del capitale sottoscritto


dall’impresa o hanno il diritto di nominare più della metà dei membri del consiglio di
amministrazione. Quindi vanno considerate “imprese pubbliche” quelle entità che svolgono
un’attività economica sotto l’influenza dominante delle “autorità pubbliche”, ma nel rispetto dei
“principi della normale gestione commerciale”, e cioè sopportandone tutti i rischi, tra cui quello di
fallire.
*HOLDING = è una società che possiede azioni o quote di altre società.

10. Il processo di privatizzazione e le società pubbliche. Verso la fine


degli anni '90, su pressione del diritto comunitario, ma soprattutto per risolvere la questione del
debito pubblico (divenuto insostenibile), lo Stato comincia a rinunciare al proprio ruolo di
imprenditore, cui segue l’abbandono delle formule dell’AZIENDA AUTONOMA prima e dell’ENTE
PUBBLICO ECONOMICO dopo. Questo percorso fu attuato in due tappe : 1) la prima
(“privatizzazione formale”), diretta alla trasformazione, attraverso un provvedimento legislativo,
dell’azienda o dell’ente in s.p.a.; 2) la seconda (“privatizzazione sostanziale”), consistente nel
collocamento sul mercato del pacchetto azionario delle società in mano pubblica.
Il primo settore ad essere interessato dal processo di privatizzazione fu quello bancario. Con la c.d.
legge Amato del 1990 gli enti pubblici creditizi furono trasformati in società per azioni e sottoposti
al controllo degli enti pubblici titolari dell’azienda bancaria (poi definiti Fondazioni bancarie). Per
quanto riguarda, invece, gli altri settori, nel 1991 fu disposta la trasformazione in società per azioni
degli “enti pubblici economici”, delle “aziende autonome” e degli “enti di gestione”. Nel 1992, poi,
è stata realizzata la trasformazione dei maggiori “enti pubblici economici” (IRI, ENI, ENEL, INA)
in società per azioni il cui maggiore azionista è rimasto il soggetto pubblico.
Tuttavia quando lo Stato ha abbandonato il proprio ruolo di imprenditore a favore di un sistema di
mercato concorrenziale, è sorta la necessità di evitare che in quei settori si creasse un vuoto nella
tutela degli interessi pubblici : necessità a cui l’ordinamento ha voluto rispondere con la creazione
di authorities di settore (AMMINISTRAZIONI INDIPENDENTI).
Il processo di “privatizzazione” ha sollevato in dottrina e in giurisprudenza diversi problemi, tra cui
quello scaturente dalla coesistenza tra natura giuridica (privata) delle nuove s.p.a. (ex aziende
autonome ed enti pubblici economici) e finalità perseguite (di interesse pubblico). In questa diatriba
si sono contrapposte due correnti di pensiero : 1) da un lato, i sostenitori della TESI
PRIVATISTICA, per cui, anche se il pacchetto azionario di maggioranza è detenuto da un soggetto
pubblico, queste società sarebbero di diritto privato; 2) dall’altro, i sostenitori della TESI
PUBBLICISTICA, che proprio per la detenzione del pacchetto azionario di maggioranza da parte di
un soggetto pubblico hanno affermato che le neonate società avrebbero dovuto conservare la natura
pubblicistica (nonostante la forma societaria privatistica). La Corte costituzionale ha accolto
quest’ultima tesi, ribadendo l’assoggettamento di tali società al controllo della Corte dei conti, e ciò
anche in considerazione dell’innegabile rilievo pubblicistico che queste società mantengono,
riconducibile alla mancata realizzazione di una “privatizzazione sostanziale” attraverso l’effettiva
dismissione delle quote azionarie in mano pubblica. Quindi, è stato ritenuto che la formula
societaria non incidesse sulla determinazione della “natura giuridica” del soggetto, poiché essa
aveva il solo scopo di migliorare l’efficacia dell’attività svolta dal soggetto nel quadro del mercato
internazionale.

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* IRI = ente pubblico economico, che rispondeva al Ministero delle Partecipazioni Statali. L’IRI non fu privatizzato, ma
smembrato e liquidato e le sue aziende operative vendute. Tra il 1992 ed il 2000 l’IRI vendette partecipazioni e rami
d'azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di miliardi e miliardi di lire.
*ENTI PUBBLICI ECONOMICI = particolare categoria di ente pubblico che opera non in regime di diritto amministrativo
bensì di diritto privato. Tra questi ricordiamo l'INA (1912), l'Iri (1933), l’Eni (1953), l'Enel e le Ferrovie dello Stato (1985).
Questo tipo di ente, essendo separato dall’apparato burocratico della pubblica amministrazione italiana, può adattarsi più
facilmente ai cambiamenti del mercato, anche perché tali enti hanno ad oggetto esclusivo o principale l'esercizio di
un'impresa commerciale e, inoltre, devono iscriversi nel “registro delle imprese”. Essi infatti non fanno parte della P.A.
italiana, ed il rapporto d'impiego del personale presso tali enti è di diritto privato. Ad ogni modo sono spesso legati
alla pubblica amministrazione italiana, in quanto gli organi di vertice sono nominati dai Ministeri competenti per il settore
in cui opera l’ente; ad essi spetta un potere di indirizzo generale e di vigilanza.
Spesso gli enti pubblici economici sono il passaggio intermedio nella trasformazione di un’azienda autonoma in
una società per azioni. Per questi motivi vengono classificati come enti pubblici strumentali in quanto agiscono secondo
gli indirizzi e sotto il controllo di un organo dello stato per svolgere funzioni ausiliarie. Gran parte di essi operavano
come holding di controllo di varie società. Le società controllate, pur avendo la forma privatistica della società per azioni,
erano per lo più possedute totalmente dallo Stato o dagli enti pubblici economici.

*IMPRESA PUBBLICA = è un'impresa il cui capitale o patrimonio è conferito in tutto o in parte da un soggetto pubblico,
ossia dallo stato o altri enti pubblici. Le imprese pubbliche possono essere create direttamente dallo stato o altri enti
pubblici oppure possono nascere come imprese private successivamente acquistate dal soggetto pubblico. L’impresa
pubblica può essere esercitata : 1) da un'amministrazione pubblica con i propri organi; 2) da un’ azienda autonoma; 3)
da un apposito ente pubblico (sono quelli che in Italia prendono il nome di enti pubblici economici)

11. Gli organismi di diritto pubblico. I cambiamenti occorsi nelle pubbliche


amministrazioni dei singoli Stati membri, che presentano strutture organizzative diverse, e
l’affermarsi del diritto comunitario hanno reso sempre più viva l’esigenza di assicurare un’uniforme
applicazione delle regole. Per superare le distinzioni esistenti nelle singole realtà nazionali, il
legislatore comunitario ha elaborato la nozione di “ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO”. La
figura dell’organismo di diritto pubblico è stata introdotta a partire dalla direttiva 89/440/CEE e
comprende tutti i soggetti nazionali, indipendentemente dalla loro natura giuridica, che presentano
caratteristiche tali da operare secondo logiche diverse da un qualsiasi imprenditore privato e che
giustificano l’applicazione della disciplina sull’evidenza pubblica. L’organismo di diritto pubblico è
un «qualsiasi organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare bisogni di interesse
generale aventi carattere non industriale o commerciale, dotato di personalità giuridica e la cui
attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da organismi
di diritto pubblico (oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui
organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri più della metà dei
quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico)». La nozione è
ampia ed è costituita da 3 elementi, la cui presenza deve essere cumulativa : 1) il primo è la natura
dei bisogni alla cui soddisfazione deve mirare il soggetto : «bisogni di interesse generale aventi
carattere non industriale o commerciale»; 2) il secondo è la personalità giuridica : è indifferente
che essa sia di diritto pubblico o di diritto privato; 3) il terzo, infine, è dato dalla presenza di una
serie di elementi che fanno presumere che le decisioni dell’ente siano sotto l’influenza determinante
di un soggetto pubblico e che, di conseguenza, seguono logiche diverse da quelle dell’imprenditore
privato.

12. Soggetti privati esercenti pubbliche funzioni. Un discorso a parte va


condotto per i SOGGETTI PRIVATI ESERCENTI PUBBLICHE FUNZIONI, nel cui novero
assumono un ruolo rilevante le “FONDAZIONI”, presenti in particolare nel “settore della ricerca” e
in “quello bancario” : si tratta di soggetti che si caratterizzano per la prevalenza dell’elemento
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patrimoniale e che devono operare in vista del perseguimento del fine stabilito dal fondatore. Il
patrimonio, quindi, è vincolato allo scopo. Uno scopo che può coincidere in parte con gli scopi
istituzionali degli enti pubblici fondatori (ministero, Regione, Provincia, Comune) e che deve essere
altruistico, non di lucro e di pubblica utilità. La fondazione, disciplinata dal codice civile, si
caratterizza per la presenza di amministratori vincolati al perseguimento dello scopo che viene
assegnato dall’ente fondatore nell’atto di costituzione della fondazione. Sebbene la realtà conosca
fondazioni in cui lo scopo altruistico implica l’esercizio di attività imprenditoriali, non sussiste, per
questo, l’automatica attribuzione della qualità di imprenditore commerciale alla fondazione. La
Cassazione ha chiarito, in merito, che : “le Fondazioni possono perseguire i propri fini anche
svolgendo attività imprenditoriali, a condizione che l’attività imprenditoriale sia : 1) strumentale
alla realizzazione degli scopi istituzionali delle fondazioni; 2) esercitata in via accessoria rispetto
alla loro attività principale” (si pensi all’attività editoriale svolta da una fondazione culturale).
Un settore in cui la presenza della fondazione è assai marcata è quello creditizio, in cui il processo
di privatizzazione ha reso necessaria la creazione di apposite fondazioni bancarie per facilitare la
privatizzazione degli enti pubblici creditizi. A partire dai primi anni 2000 si è poi assistito a un
ampliamento dei settori in cui il legislatore ha previsto la possibilità di creare fondazioni (ad es., la
sicurezza pubblica e l’edilizia popolare).
Accanto alle fondazioni bancarie, un ruolo di primo piano è rivestito dalle “SOCIETÀ
ORGANISMI DI ATTESTAZIONE” (S.O.A.), che sono degli organismi attestatori e certificatori,
soggetti che devono attestare la qualità delle imprese potenziali contraenti della pubblica
amministrazione : organismi certificatori che hanno una natura giuridica privata, il cui scopo è il
rilascio di attestazioni di qualità volte a garantire il possesso, da parte delle imprese, dei requisiti
tecnici e finanziari necessari ad assicurare un determinato livello di qualità nell’esecuzione
dell’appalto. Le S.O.A. possono svolgere la propria attività solo mediante autorizzazione rilasciata
dall’Autorità di vigilanza per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Tale autorizzazione
serve a rendere credibili le S.O.A.
Dal punto di vista strutturale, i requisiti che gli organismi di attestazione devono possedere sono : 1)
la formula societaria (s.p.a.), la cui denominazione sociale deve comprendere espressamente la
locuzione «organismi di attestazione»; 2) la sede nel territorio italiano; 3) un capitale sociale pari a
500 milioni di euro.
A fronte della natura privatistica di queste società, che rilasciano attestazioni di garanzia ai propri
clienti in virtù di rapporti contrattuali e dietro il pagamento di un corrispettivo, l’attività da esse
svolta ha una natura pubblicistica (in quanto si tratta di un’attività di certificazione posta a garanzia
della pubblica fede). Proprio per questo è attribuito all’Autorità : 1) un potere di vigilanza, da
esplicarsi tanto sui soggetti quanto sugli atti da essi emanati (e che si estende fino al loro
annullamento); 2) e un potere sostitutivo nei confronti della S.O.A., che può essere esercitato da
parte dell’Autorità in presenza di due presupposti : l’indicazione dell’atto da adottare e l’inerzia
della S.O.A.

13.Gli enti territoriali e locali. Un ruolo di primo piano nel sistema delle pubbliche
amministrazioni spetta alle AUTONOMIE LOCALI e REGIONALI (Regioni, Città metropolitane,
Comunità montane, Province e Comuni). Il nuovo art. 114 Cost. ha riconosciuto pari dignità
costituzionale a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato come elementi costitutivi
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della Repubblica. L’idea base della legge cost. n. 3 / 2001 è stata quella di portare a compimento la
riforma avviata con il decentramento amministrativo. Il vecchio art. 114 Cost. (anteriore alla l. cost.
3 / 2001), invece, affermava che «la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni ». Nel
nuovo testo dell’art. 114 la prospettiva viene completamente invertita : «la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» e alle autonomie
locali viene riconosciuto un ampio grado di “autonomia”. Inoltre nell’art. 117, comma 2 Cost. la
potestà legislativa statale viene circoscritta alle funzioni fondamentali degli organi di governo (art.
117, 2°comma, lettera p) : “Lo Stato ha legislazione esclusiva per quanto riguarda la legislazione
elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane”), lasciando alle leggi regionali e alla potestà statutaria e regolamentare degli enti
locali l’allocazione (= distribuzione) delle funzioni amministrative di Comuni, Province e Città
metropolitane. Con la riforma del Titolo V gli enti locali hanno funzioni proprie, che trovano il loro
fondamento direttamente nella Costituzione, o sono destinatari di un conferimento di funzioni da
parte dello Stato o della Regione seguendo uno schema allocativo fra i diversi livelli di governo
ispirato al PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ.

La legge 148 / 2011. Il legislatore ha di recente inciso sulla struttura degli enti locali e con
la L. 148 / 2011, ai fini di un contenimento della spesa pubblica, ha statuito, per ciò che riguarda le
Regioni, la riduzione del numero dei consiglieri regionali e una riduzione degli emolumenti previsti
in favore dei consiglieri regionali. Inoltre, la stessa legge ha previsto anche l’istituzione di un
“collegio di revisori dei conti” per le Regioni, che è chiamato a vigilare sulla regolarità gestionale
ed economico-contabile dell’ente.
Di maggiore impatto sono le disposizioni relative ai Comuni e alle Province : per queste ultime, a
parte la previsione della riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori, la riforma incide
pesantemente sulla fisionomia dei piccoli comuni. Si prevede infatti che i Comuni con popolazione
pari o inferiore ai 1.000 abitanti devono esercitare obbligatoriamente le funzioni amministrative e i
servizi pubblici di spettanza comunale in forma associata con altri comuni con popolazione pari o
inferiore a 1000 abitanti, mediante un’“UNIONE DI COMUNI”. La popolazione complessiva
risultante dall’unione deve essere pari ad almeno 5.000 abitanti, (a meno che i Comuni interessati
non appartengano ad una Comunità montana, nel qual caso il numero di abitanti deve essere pari a
3000). Gli organi dell’unione municipale sono il “Consiglio” o assemblea municipale (composto
dai sindaci dei Comuni costituenti l’unione municipale), il “Presidente”, eletto dall’assemblea
municipale fra i sindaci componenti il consiglio, e la “Giunta”, nominata dal Presidente e composta
dal Presidente e da assessori scelti tra i sindaci (= cioè tra i membri dell’assemblea municipale). Il
Consiglio ha le stesse competenze riservate al consiglio comunale (con riferimento, ovviamente,
agli ambiti riservati all’unione) e deve adottare, a maggioranza assoluta dei propri componenti, lo
statuto. La Giunta esercita le stesse competenze delle giunte comunali. Invece, gli organi di
governo dei singoli Comuni facenti parte dell’unione sono il “Consiglio” (cui competono le
funzioni normative in riferimento alle attribuzioni non esercitate mediante l’unione) e il “Sindaco”,
eletto a suffragio universale e diretto (quindi non c’è la giunta).

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13.2. La potestà legislativa delle Regioni e la potestà normativa


delle autonomie locali. Da un punto di vista strutturale, le Regioni, le Province e i
Comuni presentano un “Consiglio”, titolare della potestà legislativa e normativa, una “Giunta”
organo esecutivo (composta dal Presidente della giunta e dagli assessori) e un “Presidente” (che nel
caso dei Comuni è il sindaco), titolare della rappresentanza dell’ente.

Occorre ora soffermarci sul POTERE NORMATIVO che il nostro ordinamento attribuisce a questi
enti : al riguardo, bisogna distinguere tra POTESTA’ LEGISLATIVA delle Regioni e POTESTA’
NORMATIVA degli enti locali.

 Riguardo alla POTESTÀ LEGISLATIVA DELLE REGIONI, con la nuova formulazione


dell’art. 117 Cost. è stato introdotto un sistema in cui Stato e Regioni sono titolari di una
“potestà legislativa esclusiva” per determinate materie, cui si aggiunge una “potestà
legislativa concorrente”. Il sistema di riparto di competenze così delineato vede
l’attribuzione in via esclusiva allo Stato di alcune materie (art. 117, 2°comma, Cost.), come :
1) la politica estera e i rapporti con l’Unione europea; 2) l’immigrazione; 3) l’ordine
pubblico e la sicurezza; 4) la legislazione elettorale; 5) gli organi di governo; 6) e le funzioni
fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane.
Tale previsione è seguita, al 3°comma, da un elenco di materie rientranti nella c.d.
legislazione concorrente, per cui le competenze si dividono tra Stato e Regioni, riservando al
primo la determinazione (attraverso leggi quadro o cornice) dei principi fondamentali e alle
seconde l’emanazione della legislazione di dettaglio.
Il nuovo testo dell’art. 117 Cost., infine, riconosce in capo alle Regioni una potestà
legislativa esclusiva «in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato» : si tratta di una potestà che trova un limite, però, non solo nelle
competenze sulle c.d. “materie trasversali” riconosciute allo Stato (ad es. la materia della
concorrenza), ma anche nel principio di «sussidiarietà legislativa», in base a cui il
legislatore statale può regolare con legge l’esercizio di funzioni amministrative anche in
materie che non rientrano nella sua competenza esclusiva, qualora si debbano garantire le
istanze unitarie dello Stato.
 Per quanto riguarda, invece, la potestà normativa delle autonomie locali, la Costituzione del
1948 non conteneva alcuna disposizione relativa né alla “potestà statutaria”, né a “quella
regolamentare”. Solo con la legge n. 142 / 1990 è stata prevista la possibilità per i Comuni e
le Province di adottare uno “STATUTO” con cui stabilire, nei limiti fissati dalla legge, le
norme fondamentali dell’organizzazione (e in particolare le attribuzioni degli organi) e
l’ordinamento degli uffici. Si prevede poi che gli enti locali possano adottare specifici
“REGOLAMENTI”, che devono essere adottati nelle forme previste dagli statuti.
La legge La Loggia (L. 131 /del 2003), poi, ha individuato i limiti e il contenuto degli statuti
: i primi si rinvengono nel rispetto della Costituzione, dei principi generali in materia di
organizzazione pubblica e dei principi fissati dalla legislazione statale attuativa dell’art. 117,
2° comma Cost. Riguardo, poi, al contenuto necessario dello statuto, la legge La Loggia
dispone che esso stabilisca i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme
controllo, le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare. La legge La
Loggia, poi, stabilisce che i REGOLAMENTI disciplinano sia l’organizzazione degli enti
locali, sia lo svolgimento e la gestione delle funzioni loro attribuite.
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Le funzioni amministrative degli enti locali. Le “funzioni amministrative”


degli enti locali nel vecchio art. 118 Cost. erano attribuite in base al principio del PARALLELISMO
TRA COMPETENZA LEGISLATIVA E COMPETENZA AMMINISTRATIVA (c.d. parallelismo delle
funzioni). Il primo distacco da questo sistema si ha con la legge n. 59 / 1997 (c.d. legge Bassanini),
che prevedeva che alle Regioni e agli enti locali fossero conferite «tutte le funzioni amministrative
relative alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità».
L’assetto delineato dalla legge Bassanini è stato fatto proprio dal legislatore costituzionale ed è la
base del nuovo art. 118 Cost., il cui 1°comma sancisce che “le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza”; quindi attualmente la regola è che le funzioni amministrative spettano “in via diretta
ed esclusiva” dell’ente locale, mentre l’eccezione è la “competenza statale”. Dunque, l’allocazione
delle funzioni tra i vari livelli di governo segue un sistema per cui le funzioni amministrative
dovrebbero possibilmente assegnarsi a quegli enti che, a causa della loro vicinanza ai luoghi e ai
cittadini, sono in grado di far fronte meglio ai bisogni della collettività (SUSSIDIARIETÀ
VERTICALE : le funzioni amministrative devono essere attribuite agli enti più prossimi ai cittadini
: quindi, in linea di massima, ai Comuni). In tal modo le funzioni sono collocate, nella piramide dei
livelli di governo, sì verso il «basso», ma solo laddove il livello del loro esercizio sia ottimale in
termini di efficienza (PRINCIPIO DI ADEGUATEZZA : le funzioni devono essere affidate ad enti
che abbiano requisiti sufficienti di efficienza). Il principio di adeguatezza attenua la portata del
principio di sussidiarietà verticale, nel senso che precisa che l’attribuzione delle funzioni all’ente
più vicino ai cittadini deve essere compatibile con le capacità operative dell’ente : in pratica se un
problema non può essere gestito a livello comunale, occorrerà individuare un livello istituzionale
più adeguato (per esempio provinciale), sempre cercando di allontanarsi solo il necessario dai
cittadini (per es. se un problema non è affrontabile a livello comunale, si dovrà scegliere il livello
provinciale e non quello regionale se il problema è risolvibile dalla Provincia).
Il PRINCIPIO DI DIFFERENZIAZIONE statuisce, invece, che a livelli istituzionali uguali possono
essere distribuite funzioni diverse, in ragione delle diverse caratteristiche demografiche,
territoriali, organizzative e strutturali; quindi riguarda l’allocazione delle funzioni amministrative
tra più enti situati nello stesso livello territoriale (così, ad es., se è idoneo il comune di Milano, non
lo sarà quello di Floresta). Il principio di differenziazione tiene conto che le realtà possono essere
diverse dal punto di vista delle risorse economiche e delle situazioni sociali e demografiche, per cui
certi problemi che alcuni enti possono risolvere, per altri enti dello stesso livello istituzionale
possono risultare ingestibili, e questo richiede delle soluzioni differenziate da caso a caso: in pratica
si potrà decidere di affidare delle funzioni ai Comuni per esempio con più di 100.000 abitanti
perché questi hanno più risorse, mentre ai Comuni più piccoli no ( e quelle funzioni saranno gestite
a livello per esempio provinciale).
L’art. 118, 2° comma Cost. recita : “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari
di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze” Dobbiamo, quindi, individuare le FUNZIONI PROPRIE DEI COMUNI e le
FUNZIONI CONFERITE e distinguerle dalle FUNZIONI FONDAMENTALI DELLE AUTONOMIE
LOCALI (che secondo l’art. 117, 2°comma, lett. p Cost., sono definite dalla legislazione statale
esclusiva). Quanto alle “funzioni fondamentali”, esse sono le funzioni istituzionali, cioè le «funzioni
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essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane». Le “funzioni conferite”


sono, invece, quelle funzioni la cui titolarità appartiene allo Stato o alle Regioni e che sono da
questi (nell’ambito delle materie di loro competenza) «attribuite» agli enti locali (c.d. funzioni
delegate). Da ciò consegue che lo Stato può attribuire agli enti locali sia funzioni fondamentali
(attingendo sia alle materie di competenza legislativa statale che a quelle di competenza legislativa
regionale) sia funzioni conferite (attingendo alle sole materie sottoposte alla sua legislazione
esclusiva). Le stesse considerazioni valgono per le Regioni, che possono conferire funzioni agli enti
locali nell’ambito delle materie di propria competenza legislativa.
Riguardo alle “funzioni proprie”, invece, l’espressione usata dal legislatore ha un carattere
descrittivo, circoscritto alla disposizione contenuta nel 1°comma dell’art. 118 Cost., e cioè : le
autonomie locali sono dotate di “funzioni amministrative” a seconda delle loro rispettive
competenze, funzioni che per i Comuni si atteggiano come funzioni proprie, mentre per le Province
e le Città metropolitane hanno natura di funzioni conferite con legge statale o regionale.
Questa interpretazione infatti sembra migliore rispetto a un’interpretazione estensiva
dell’espressione “funzioni proprie” (e che si avrebbe considerando come funzioni proprie quelle che
erano attribuite ai Comuni quando entrò in vigore la novella costituzionale), interpretazione che va
evitata.
Infine il 4°comma dell’art. 118 Cost. introduce nell’ordinamento il PRINCIPIO DI
SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE : i diversi livelli di governo devono favorire l’iniziativa
autonoma dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale. Quindi, mentre la
“sussidiarietà verticale” riguarda i rapporti all’interno delle istituzioni pubbliche, la “sussidiarietà
orizzontale" riguarda la possibilità che alcune funzioni pubbliche siano esercitate dai cittadini stessi,
in particolare attraverso le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. (per esempio, associazioni di
volontariato, Onlus, ecc.).

*funzioni fondamentali = sono individuate dalla legge statale anche nelle materie di competenza legislativa
regionale. Praticamente se sono funzioni conferite, lo Stato può conferire funzioni agli enti locali nelle
materie di propria competenza legislativa e la Regione anche (possono conferire funzioni nelle materie di
propria competenza legislativa). Invece, per le funzioni fondamentali (che vengono determinate solo dallo
Stato ex art. 117, 2°comma Cost., lo Stato può attribuire queste funzioni agli enti locali anche attingendo a
una materia di competenza regionale). Cioè per le funzioni conferite si rispetta il “riparto di competenza
materiale”.

Gli strumenti di raccordo tra i diversi livelli di governo. Il nuovo


assetto dei livelli di governo delineato dalla legge cost. n. 3 / 2001 ha avuto come conseguenza la
previsione di STRUMENTI DI RACCORDO. In quest’ottica va inquadrata l’integrazione della
“Commissione parlamentare per le questioni regionali” con rappresentanti delle Regioni, delle
Province autonome e degli enti locali nelle ipotesi di progetti di legge riguardanti la determinazione
dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente : in tali ipotesi la Commissione
«integrata» entra a far parte del procedimento legislativo, poichè essa deve necessariamente essere
sentita e il suo eventuale parere contrario comporta conseguenze riguardo al procedimento di
approvazione della legge.
Altre sedi di raccordo dei diversi livelli di governo sono le «CONFERENZE» : la CONFERENZA

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STATO-REGIONI e la CONFERENZA C.D. «UNIFICATA» (risultante dall’unificazione della


Conferenza Stato-Regioni con la Conferenza Stato-città e autonomie locali). Tali istituzioni,
precedenti alla riforma del Titolo V, rafforzano la loro posizione. La CONFERENZA
«UNIFICATA» è la sede privilegiata di definizione dell’indirizzo politico-amministrativo del
governo. Essa infatti rappresenta un momento di concertazione e di governo integrato e condiviso.
Le decisioni della Conferenza devono essere, infatti, assunte con il necessario assenso di tutti i
partecipanti (sarà necessario, cioè, l’assenso del Governo, delle Regioni, delle Province, dei
Comuni e delle Comunità montane). Ma non basta : tutto ciò che riguarda le autonomie e tutte le
decisioni di carattere regionale, interregionale e infraregionale devono necessariamente passare per
la Conferenza.
Anche prima della riforma del Titolo V in quasi tutte le Regioni sono sorti degli organismi di
raccordo (detti “CONFERENZE REGIONI-AUTONOMIE LOCALI” e in alcuni casi
“CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI”). Si tratta di organismi cui è stata attribuita una
funzione consultiva riguardante gli atti regionali di conferimento di funzioni amministrative e gli
atti di programmazione regionale e i piani di sviluppo, nonché l’esercizio del potere sostitutivo
regionale. Il novellato art. 123 Cost. prevede che «in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio
delle autonomie locali, come organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali» : dunque si
prevede un coinvolgimento delle autonomie locali nella vita politica della Regione attraverso
un’attività consultiva che può incidere sull’indirizzo politico-amministrativo della Regione.

14. Gli strumenti di raccordo interno: lo sportello unico. Il c.d.


«SPORTELLO UNICO» è una misura organizzativa (e non un ente) adottata per convogliare in
un’unica struttura diversi procedimenti connessi, struttura a cui imputare l’intera responsabilità e la
gestione del procedimento unico, evitando che dalla sua complessità derivino disfunzioni
nell’azione dell’amministrazione. Dunque, nella struttura confluisce l’esercizio di più poteri,
connessi da un punto di vista teleologico, ma distinti sotto il profilo soggettivo, per garantire una
razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni da parte dei diversi soggetti pubblici coinvolti.
Questa formula organizzativa ha trovato una prima applicazione nel settore delle “attività
produttive”. Essa trova la propria base in una direttiva comunitaria (la c.d. “direttiva-servizi” del
2006), che impone agli Stati membri la predisposizione delle misure necessarie per consentire ai
prestatori di servizi di avvalersi di sportelli unici, descritti come “l’interlocutore unico tramite cui
ogni prestatore di servizi può espletare tutte le procedure e formalità necessarie per svolgere la sua
attività di servizi” (dichiarazioni, notifiche o istanze necessarie a ottenere l’autorizzazione delle
autorità competenti per esercitare la sua attività). Quindi esso è un punto di contatto unico per il
cittadino. La disciplina dello “sportello unico per le attività produttive” si fonda sulla
concentrazione in una sola struttura (istituita al Comune) della responsabilità dell’unico
procedimento attraverso cui i soggetti interessati possono ottenere l’insieme dei provvedimenti
abilitativi per realizzare nuovi insediamenti produttivi, nonché sulla concentrazione nello sportello
unico dell’accesso a tutte le informazioni da parte dei soggetti interessati : ciò per evitare che le
varie competenze e i molteplici interessi pubblici comportino per i cittadini tempi troppo lunghi e
difficoltà di rapporti con le amministrazioni. Lo sportello unico, quindi, è una modalità
organizzativa con cui far confluire in un unico soggetto e in un unico procedimento tutti gli atti e gli
adempimenti oggetto di diverse competenze, che però permangono in capo alle amministrazioni
deputate ex lege. Infatti l’istituzione degli sportelli unici non pregiudica la ripartizione di funzioni e
competenze tra le amministrazioni.
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Oltre che nel settore delle attività produttive, lo sportello unico ha trovato applicazione anche in
altri settori, come quello previdenziale (sportello unico previdenziale), dell’immigrazione (sportello
unico per l’immigrazione) e dell’edilizia (sportello unico per l’edilizia).

*SPORTELLO UNICO = lo “sportello unico delle attività produttive” (S.U.A.P.) ha offerto alle imprese la possibilità di
iniziare le proprie attività economiche evitando iter amministrativi complessi. E’ uno strumento che mira a coordinare tutti
gli adempimenti richiesti per la creazione di imprese. Esso è stato istituito per semplificare le procedure amministrative.
E’ stata così conferita al Comune la competenza di emettere gli atti autorizzativi nei confronti di coloro che formulano
istanze per l’apertura di impianti produttivi e si è stabilito : 1) il ricorso all’autocertificazione; 2) il “silenzio-assenso” nel
caso di inutile decorso dei termini per il rilascio degli atti; 3) il ricorso alla “conferenza di servizi” nel caso in cui non venga
attivata la procedura di autocertificazione e qualora il progetto contrasti con le previsioni di uno strumento urbanistico.
Il legislatore ha fatto confluire in un unico procedimento, gestito dal Comune, la realizzazione di impianti produttivi.
Nel caso in cui si segua il procedimento con autocertificazione, l’impresa presenta tutta la documentazione (corredata
dall’autocertificazione, redatta da professionisti abilitati, che devono attestare la conformità del progetto alle normative
vigenti in materia urbanistica, di sicurezza degli impianti e di tutela sanitaria e ambientale). Il responsabile della struttura,
ricevuta la domanda, compie le verifiche documentali, accerta la veridicità delle dichiarazioni e la conformità del progetto
e trasmette copia della domanda alle Regioni e ai Comuni interessati ed entro un certo termine dalla presentazione della
domanda il procedimento si chiude; qualora, poi, all’imprenditore non venga data alcuna risposta, vige il principio del
silenzio-assenso, col conseguente rilascio dell’autorizzazione.

*SPORTELLO UNICO EDILIZIA (S.U.E.) = è uno sportello rivolto a tutti i cittadini che nel Comune vogliono realizzare un
intervento edilizio.

RIASSUMENDO = Il nuovo art. 117 Cost. in primo luogo introduce la distinzione tra “legislazione
esclusiva” (o primaria) e “concorrente” (o ripartita), riservando alla potestà legislativa esclusiva dello Stato
alcune materie elencate nel 2°comma (cioè legifera solo lo Stato).
La legislazione concorrente, prevista al 3°comma, è impostata sulla formula secondo cui, nelle materie
riferite a tale tipo di legislazione, allo Stato spetta fissare i principi fondamentali, mentre tutto il resto della
legislazione è affidato alle Regioni.
Prima della riforma le materie di competenza delle Regioni erano elencate tassativamente dalla Costituzione;
attualmente la legge di revisione del Titolo V, assumendo un’impostazione tipica degli ordinamenti federali,
provvede invece ad indicare le materie in cui lo Stato ha potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva),
attribuendo alle Regioni la potestà su tutte le materie non espressamente riservate alla legislazione dello
Stato (art. 117, 4°comma : potestà legislativa esclusiva delle Regioni o residuale). Anche le Regioni, così,
hanno una potestà legislativa primaria (= esclusiva delle Regioni), non limitata dai principi fondamentali
della legislazione statale, ma solo da quelli derivanti dalla Costituzione, dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali (art. 117, 1°comma). Si attua così un’equiparazione delle due potestà
legislative, statale e regionale, poichè rispetto ad entrambe vigono gli stessi limiti.
Il secondo elemento riguarda le funzioni amministrative. La disciplina costituzionale delle funzioni
amministrative regionali precedentemente era retta dal c.d. “principio del parallelismo” (vecchio art. 118) :
alle Regioni spettavano tutte le competenze amministrative nelle materie oggetto della loro potestà
legislativa concorrente. Era poi previsto che le Regioni esercitassero normalmente le loro funzioni
“delegandole alle Province e ai Comuni o valendosi dei loro uffici”. L’art. 118, rinnovellato, attualmente
pone come regola generale che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Il terzo elemento riguarda l’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali. Tale materia è disciplinata dal
nuovo art. 119. Si afferma in primo luogo che Regioni ed Enti locali si reggono con la finanza propria,
finanziando le proprie spese di funzionamento, di intervento e di amministrazione con mezzi prelevati
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direttamente dalla propria comunità (fatta salva l’esigenza di perequazione delle situazioni più svantaggiate).
In secondo luogo, “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”
(art. 119, 2°comma).
Ma la norma più importante del nuovo art. 119 è contenuta nel 4°comma, dove si stabilisce che le risorse
economiche di Regioni ed Enti locali devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche”
che a ciascun ente sono attribuite. Tale normativa infatti ha determinato il c.d. “federalismo fiscale”.
Le risorse sono costituite da : 1) tributi ed entrate proprie ; 2) quote del gettito di tributi erariali, riferibili al
territorio di ciascun ente ; 3) trasferimenti statali a carico del fondo perequativo destinato ai “territori con
minore capacità fiscale per abitante”.
Un altro aspetto interessante è quello della configurazione degli equilibri di bilancio imposti agli enti
regionali e locali. Con tale impostazione si afferma un rigoroso principio di equilibrio del bilancio per la
parte corrente; per gli investimenti invece è possibile un disavanzo. Infatti il bilancio di un ente si divide in :
1) “parte corrente” (spese compiute per l’acquisto di beni di consumo : ad es. gli stipendi ai lavoratori); 2) e
“parte in conto capitale” (sono gli investimenti, l’acquisto di beni che producono altri beni : ad es. la
costruzione di un ponte). Gli “sfondamenti” invece sono possibili solo per la via delle “risorse aggiuntive” e
degli “interventi speciali”. Si parla di “sfondamenti” perché per questa via lo Stato può operare in favore di
determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni e per scopi “diversi dal normale esercizio delle
loro funzioni”. Tali operazioni si possono configurare come una sorta di ulteriore strumento perequativo, che
ha un carattere individualizzato, speciale e discrezionale.
L’innovazione più importante della normativa costituzionale è il riconoscimento dell’autonomia finanziaria
delle Regioni e degli Enti locali sia sul versante delle entrate che delle spese. Gli enti dispongono di
un’autonomia tributaria e di risorse autonome, in armonia con la Costituzione e secondo i “principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (* ricordiamo che il “coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario” è una materia di legislazione concorrente). La Costituzione del ’48
riconosceva solo alle Regioni l’autonomia finanziaria. Il nuovo art. 119 Cost. riformula il sistema di
finanziamento degli enti territoriali per ampliare l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli Enti locali. La
struttura del novellato articolo configura un modello normativo che presenta 3 articolazioni fondamentali : 1)
la prima, oggetto dei primi 4 commi, delinea la modalità di finanziamento delle attività degli enti territoriali ;
2) la seconda, contenuta nel 5°comma, specifica un’attività di intervento finanziario dello Stato ad
integrazione delle risorse ordinarie degli enti territoriali. Essa ha una finalità di solidarietà e di sviluppo; 3) la
terza, contenuta nel 6°comma, regola la capacità di indebitamento “autonoma” degli enti territoriali,
limitandola alle spese di investimento.
L’art. 119 realizza il c.d. “federalismo fiscale”. Il modello disegnato nei primi 4 commi dell’art. 119
individua nei tributi ed entrate propri, nella compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al
territorio dell’ente, nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, le fonti di
finanziamento delle attività degli enti territoriali. Chiude il modello così delineato un preciso vincolo,
definito nel 4°comma dell’art. 119, laddove si stabilisce che “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi
precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare
integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.

vecchio art. 114 : «La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni».


vecchio art. 117 : «La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principî
fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato : (….ed elenca 18 materie)».

vecchio art. 118 : «Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente
articolo. La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai
Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici».
vecchio art. 119 : «Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi dello
Stato. Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle
Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali.
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Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato
assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.
La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».

*COSTO STORICO E COSTO STANDARD = riguarda le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. Si è passati dal
criterio del costo storico a quello del costo standard. Costo storico: indica quanto storicamente si è speso per un
determinato servizio. In passato si è seguito il criterio del costo storico: quanto veniva trasferito alle varie Regioni sotto
forma di trasferimenti dipendeva da quanto una Regione aveva speso nell’anno precedente.
Costo standard: indica il costo di un determinato servizio, che avvenga nelle migliori condizioni di efficienza e
appropriatezza, garantendo i livelli essenziali di prestazione. Il costo standard è definito prendendo a riferimento la
Regione più “virtuosa”, vale a dire quella Regione che presta i servizi ai costi “più efficienti”. In sostanza, per il
finanziamento degli enti territoriali, la determinazione dei costi dovrà essere adeguata a una gestione efficiente ed
efficace di Pubblica Amministrazione, tenendo conto di alcuni indici e criteri.
La spesa storica è un criterio per l’assegnazione delle risorse dallo Stato centrale alle Regioni in base al quale chi
ha  speso storicamente di più per erogare servizi riceve l’equivalente per far fronte a tali costi.
Il criterio del costo standard è meno vantaggioso per le amministrazioni poco virtuose che sperperano soldi a proprio
piacimento (col costo storico, se per esempio una regione ha speso storicamente 100 per il trasporto pubblico ne riceve
100, mentre una regione virtuosa che ne spende 60, che è poi il reale costo oggettivo del servizio, ne riceve 60. Risulta
quindi evidente che i 40 di spesa in eccesso che chiede la regione poco virtuosa sono frutto di una cattiva
amministrazione, di sperperi e magari di situazioni penalmente rilevanti). Di qui l’esigenza di introdurre il “costo
standard” che consente di misurare oggettivamente il costo di un servizio tenendo conto delle varie situazioni
regionali. Risulterà infatti evidente che se il costo standard del servizio è 60, la regione può chiedere solo 60 allo stato
centrale. Se continua a spenderne 100, per la sua mala gestione, gli altri 40 dovrà chiederli ai suoi cittadini, imponendo
nuovi tributi (regionali o locali). I cittadini quindi, potranno constatare direttamente l’operato dei loro amministratori
e far pesare in sede elettorale il proprio giudizio. Questo è il principio cardine del federalismo fiscale.

-PARTE 3. ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA-

-CAPITOLO 1. L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA E LA SUA


DISCIPLINA-

1.Verso la costruzione di una disciplina speciale dell’azione


amministrativa.
La disciplina riguardante l’“azione della pubblica amministrazione” ha conosciuto una sua
evoluzione. In un primo periodo (dal 1861 al 1889) dottrina e giurisprudenza ritenevano che la sola
disciplina giuridica applicabile agli atti dell’amministrazione fosse il DIRITTO PRIVATO (o
DIRITTO COMUNE), perché questi atti, dovendo necessitare del consenso dei soggetti privati (che
venivano a intrecciare i loro rapporti con l’attività amministrativa), potevano essere costruiti solo

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come atti consensuali (nella cui struttura, cioè, trovava posto la volontà del privato). Lo schema
consensuale fu ricercato non solo per le concessioni o le autorizzazioni, ma anche per
l’espropriazione per pubblica utilità e per gli atti ablatori (ritenendo, peraltro, per questi ultimi, che
l’assenza della volontà del privato potesse essere compensata dalla volontà della legge). L’atto di
espropriazione, ad esempio, era inteso come “vendita forzata” e la “dichiarazione di pubblica
utilità” era la causa di tale contratto. Una delle conseguenze di questa costruzione era l’acquisto a
titolo derivativo (e non originario) della proprietà da parte del beneficiario dell’espropriazione. Ciò
trovava conferma anche sotto il profilo legislativo, poiché con la Legge del 1865 il legislatore aveva
affidato le controversie tra i privati e l’amministrazione alla giurisdizione del giudice ordinario e ciò
favoriva l’uso di schemi privatistici.
Vi era la distinzione tra atti sovrani (iure imperii) e atti consensuali (iure gestionis), cui si applicava
il diritto privato. L’attività di diritto privato da parte dello Stato era giustificata in vari modi : in un
primo tempo con lo sdoppiamento della personalità tra Stato (ente sovrano) e Fisco (ente senza
sovranità, e quindi idoneo ad operare su base paritetica con i privati); in un secondo tempo, con il
riconoscimento allo Stato di una doppia capacità, di diritto pubblico e di diritto privato. Di qui la
distinzione tra atti d’imperio e atti di gestione.
Questo modus operandi, però, subì un radicale cambiamento con la legge del 1889, che - con
l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato - pose le premesse necessarie alla creazione
del giudice amministrativo : si cominciò a considerare che l’amministrazione, nel perseguimento
dell’interesse pubblico, è titolare di poteri unilaterali, che potevano essere esercitati senza bisogno
del consenso dei destinatari dei provvedimenti. Contemporaneamente si affermò il “principio di
legalità”, per cui l’amministrazione era dotata dei soli poteri unilaterali previsti dalla legge e doveva
esercitarli nel rispetto della legge. Per cui anche la tutela dei privati nei confronti degli atti
unilaterali dell’amministrazione si spostava sotto l’egida (la protezione) del principio di legalità : a
fondare la tutela non era più l’affermazione del diritto del privato, ma l’invocazione delle regole
vincolanti l’azione dell’amministrazione.
Si comprese che l’attività amministrativa non poteva essere disciplinata dal diritto privato, ma dalle
regole predisposte appositamente dalla legge (che trovavano il loro fondamento nel perseguimento
dell’interesse pubblico) : di conseguenza, gli atti posti in essere dall’amministrazione (concessioni,
autorizzazioni, gli atti ablatori, ecc.) furono ritenuti atti unilaterali (e non più consensuali),
espressione dell’esercizio del “potere” (e, in quanto tali, dotati di autoritarietà ed esecutorietà).
Sulla base della struttura unilaterale dell’atto di espropriazione si affermò, ad esempio, che esso dà
luogo all’acquisto della proprietà a titolo originario (con esclusione quindi della sopravvivenza dei
diritti parziali di terzi). L’attività amministrativa, inizialmente disciplinata dal diritto privato, è stata
sottoposta a regole particolari : si è così costruito un diritto speciale dell’amministrazione, una
nuova branca del diritto, un diritto proprio dell’amministrazione : il c.d. “diritto amministrativo”.

2. L'azione amministrativa tra disciplina privatistica e


pubblicistica. Il formarsi del diritto amministrativo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900,
però, non impedì di conciliare l’attività amministrativa e la disciplina privatistica. Ci si rese ben
presto conto che l’attività amministrativa era soggetta in parte al diritto pubblico e in parte al diritto
privato : si determinò cioè un doppio statuto giuridico, con l’enucleazione della nozione di “attività
amministrativa di diritto privato” collocata accanto a quella di “attività amministrativa soggetta al
diritto pubblico”.

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In relazione all’attività amministrativa tout court (quella di diritto pubblico), la dottrina si concentrò
sulla nozione di “provvedimento amministrativo”, mentre con riferimento all’attività
amministrativa di diritto privato si pose il problema della sua rapportabilità alla nozione di
“autonomia privata” : la dottrina si chiese se la P.A. fosse titolare di autonomia privata (cioè, se
quando agiva nelle forme del diritto privato, la sua posizione fosse identica a quella di qualsiasi
soggetto privato). La dottrina riconobbe autonomia privata anche alla P.A., ma la giurisprudenza
seguì la strada del «doppio grado» : cioè esisteva una doppia serie di atti, “quelli che precedevano la
conclusione del contratto”, che erano atti amministrativi e “quelli relativi alla sua stipulazione”, che
furono invece assoggettati alla disciplina privatistica. La tesi giurisprudenziale era un lodevole
compromesso, poiché sottoponeva la formazione del contratto alle regole del diritto pubblico,
qualificando però il contratto come atto di autonomia privata, assoggettato alla disciplina del codice
civile.
Queste posizioni, comunque, furono superate dalla dottrina, che giunse alla conclusione che la P.A.,
nell’esercizio dell’attività di diritto privato, espletava comunque “poteri amministrativi” (e non
poteri di autonomia privata) e che anche l’attività di diritto privato era pienamente assoggettata allo
“statuto speciale dell’azione amministrativa”.
L’attività amministrativa, anche quando si esprime in strumenti privatistici, resta comunque
un’attività “funzionalizzata” e soggetta alle regole generali dell’attività amministrativa. È chiaro
comunque che la legge può creare spazi di autonomia privata, ma ciò accade appunto solo se c’è
una disposizione di legge. Ove manchi, lo statuto dell’attività amministrativa resta intatto.
Successivamente la dottrina fece un altro passo in avanti : si rilevò che il potere amministrativo
(unilaterale) poteva esprimersi non solo in atti unilaterali, ma anche in atti bilaterali (consensuali).
Nell’atto bilaterale convergono poteri diversi, ma coincidenti nel regolamento di interessi (precetto)
cui l’atto vuole dar vita. In questo caso, pertanto, ci si sarebbe trovati di fronte all’esercizio di poteri
diversi (il potere amministrativo e l’autonomia privata della controparte). E’ questo il caso degli
“accordi pubblicistici” e delle “convenzioni pubblicistiche” : tuttavia, pur facendo capo entrambe le
figure a poteri amministrativi, la prima costituisce l’esercizio di poteri autoritativi (idonei a
disciplinare anche interessi altrui), mentre la seconda implica l’esercizio di poteri non autoritativi
(inidonei a regolamentare interessi altrui senza il concorso della controparte).

3. L’attività amministrativa tra autorità e consenso. Esponiamo ora la


concezione attuale che la dottrina ha dell’attività amministrativa. In primo luogo, il termine
“AUTORITA’” vuol dire “eteroregolazione” ( = il potere di disciplinare interessi altrui anche
senza il consenso dei titolari degli interessi). La P.A. ha un potere precettivo : cioè il potere di
regolare sia interessi pubblici, sia interessi privati (che vengono a intrecciarsi con quelli pubblici) e
questo potere precettivo può essere “autoritativo” (ossia capace di eteroregolazione), ma può anche
non esserlo. Nel secondo caso esso comunque è potere amministrativo : resta comunque un potere
assoggettato alla disciplina tipica dell’azione amministrativa.
Il potere autoritativo dell’amministrazione di solito si esprime in atti unilaterali, ma può esprimersi
anche in atti bilaterali (consensuali). Ciò accade con gli “accordi” : in tali atti consensuali
l’amministrazione usa il suo potere autoritativo, poichè può dettare la disciplina degli interessi
privati anche a prescindere dal consenso dei titolari. Il consenso non è necessario.
Il potere amministrativo non è invece autoritativo quando è necessario il consenso del privato (ad
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esempio nei contratti ad evidenza pubblica). Tuttavia, in tutti gli atti consensuali il potere
dell’amministrazione è sempre potere amministrativo, non è mai un potere libero, qualificabile
come autonomia privata. Si tratta sempre di un potere soggetto allo statuto dell’azione
amministrativa. Lo statuto non si limita ad imprimere al potere il c.d. “vincolo di scopo”
(finalizzandolo cioè alla soddisfazione dell’interesse pubblico), ma lo sottopone a una serie di
regole (formali e sostanziali) che possono essere riassunte nel “principio del procedimento” e nel
“principio del rispetto degli amministrati” (cioè i diretti interessati e i terzi).
Quindi l’amministrazione agisce sempre secondo valutazioni discrezionali (e non libere) ed è tenuta
sempre ad applicare i principi vigenti. Se l’azione precettiva dell’amministrazione è disciplinata
dallo statuto, non ci sono ostacoli a che l’azione si concretizzi in atti consensuali. Tuttavia l’azione
consensuale non può essere autonomia contrattuale (poichè l’amministrazione non può liberamente
determinare il contenuto del contratto), ma va invece riguardata come potere amministrativo.

4. L’attività consensuale dell’amministrazione. Il consenso privato può


assumere ruoli diversi: può entrare nella struttura della fattispecie (rendendola consensuale) o può
precederla (assumendo il ruolo di presupposto) o può seguirla (raffigurandosi come condizione di
efficacia). La struttura consensuale è necessaria quando il privato assume obbligazioni nei confronti
dell’amministrazione (come nelle ipotesi di concessione), ma non quando il provvedimento,
favorevole al privato, non obbliga quest’ultimo ad avvalersene (come nelle ipotesi di
autorizzazione).
Le fattispecie consensuali hanno, nel diritto amministrativo, due grandi campi di applicazione :
quello dei “contratti” (dove il consenso del privato è necessario) e quello degli “accordi” (dove il
consenso del privato non è necessario). C’è poi un terzo campo di applicazione : quello degli
“accordi tra autorità amministrative”, ove ciascuna amministrazione esercita i propri poteri
amministrativi.

5. Attività e funzione amministrativa. Il sostantivo «ATTIVITÀ» è inteso come


«insieme di atti a cui l’ordinamento attribuisce rilevanza giuridica nel loro complesso»; l’aggettivo
«amministrativa» vuol dire “cura di interessi alieni” (di interessi pubblici). L’attività
amministrativa, essendo attività di cura di interessi pubblici, è FUNZIONE (cioè attività rivolta a un
fine). Se l’interesse pubblico (che l’amministrazione deve soddisfare) si pone come interesse
esterno all’amministrazione (cioè al soggetto che pone in essere l’attività finalizzata alla sua cura),
occorre chiedersi chi sia il titolare di quest’interesse. Al quesito sono state date due risposte : 1)
secondo la dottrina tradizionale, l’interesse pubblico è l’interesse proprio dell’amministrazione e la
sua cura è affidata al “funzionario” (che opera nell’interesse di cui è titolare l’amministrazione); 2)
per la dottrina contemporanea, invece, i titolari degli interessi pubblici sono le collettività di
riferimento degli apparati amministrativi che li hanno in cura (cioè le comunità territoriali).

6. Modi e forme della rilevanza giuridica dell’attività


amministrativa. L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA consiste in un complesso di atti. Il
diritto può prendere in considerazione l’attività amministrativa nella sua globalità (ossia come

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attività amministrativa tout court : con riferimento a tutte le attività di tutte le pubbliche
amministrazioni) o la sola attività che culmina nell’adozione di un provvedimento, o può dare
rilievo all’attività posta in essere da un ente, da un organo o da un funzionario.
Negli ultimi decenni l’attenzione si è spostata dal singolo procedimento (e dal singolo
provvedimento) all’insieme dei procedimenti (e dei provvedimenti) «riguardanti le stesse attività o
risultati», ossia alla complessiva attività amministrativa necessaria per chiudere un’operazione. Ad
esempio per realizzare un’opera pubblica occorrono diversi provvedimenti (e relativi
procedimenti) : occorre progettarla, finanziarla, acquisire la disponibilità del suolo ove dovrà
sorgere, individuare l’impresa che dovrà realizzarla, valutarne l’impatto ambientale. L’operazione
che l’amministrazione compie è unitaria (realizzazione di un’opera pubblica), ma i procedimenti
necessari per compierla sono molti e rientrano nella competenza di enti ed organi diversi.
Stando così le cose, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre un nuovo istituto (affiancandolo
alla disciplina prevista per il singolo procedimento) : la “conferenza di servizi”, in cui convergono
«più procedimenti amministrativi connessi» e in cui viene in rilievo la nozione di “operazione
amministrativa”, cioè l’insieme delle attività necessarie per conseguire un determinato risultato
concreto.
Un’ultima modalità con cui l’ordinamento prende in considerazione l’attività amministrativa
riguarda il profilo della “responsabilità delle amministrazioni pubbliche” (in relazione all’ illiceità
del loro agire). L’attività viene presa in considerazione se illecita : nella fattispecie dell’illecito
rientra, infatti, non solo l’atto o il provvedimento amministrativo, ma l’intera attività posta in essere
dall’amministrazione : è l’attività a presentarsi come “fatto giuridicamente rilevante”.

-CAPITOLO 2. PRINCIPI E AZIONE AMMINISTRATIVA-


1.I principi generali dell’azione amministrativa. L’art. 1, 1°comma della
“legge sul procedimento amministrativo” (L. 241 / 1990) enuncia i principi ispiratori
dell’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA (*infatti è rubricato proprio “principi generali dell’attività
amministrativa”) : «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai
criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità». L’elencazione dei principi generali è stata
ribadita dalla L. n. 15 / 2005 e ai principi di matrice nazionale sono stati affiancati «i principi
dell’ordinamento comunitario» (*in pratica questo art. 1 della L. 241 / 90 è stato modificato sia
dalla L. 15 / 2005 che dalla L. 69 / 2009). La richiamata elencazione è stata da ultimo integrata con
l’inserimento del principio di imparzialità da parte della L. n. 69 / 2009. Si è in presenza di lievi
modifiche : ai criteri di economicità, efficacia e pubblicità, già previsti come quelli che reggono
l’attività amministrativa, si aggiungono quello della “trasparenza” e dell’ “imparzialità”. Ma in
realtà il primo criterio, che significa conoscibilità esterna dell’azione amministrativa, era già
rinvenibile nel sistema legislativo codificato dal legislatore del 1990. Si tratta quindi di una
modifica priva di un significato innovativo. Il secondo è consacrato a livello costituzionale (all’art.
97 Cost.). Il comma 1-bis della L. 241 / 1990, per cui «la P.A., nell’adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente»,
non introduce un principio nuovo, perché da sempre l’attività amministrativa non autoritativa è retta

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dal diritto privato.


Non maggiore portata innovativa possiede, infine, il comma 1-ter dell’art. 1 della L. 241 / 1990 : «I
soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei
principi di cui al comma 1».
Ciò che invece acquista un’importanza rilevante è che dall’art. 1 della L. 241 / 1990 emerge una
profonda “crisi del principio di legalità” (che è l’unico vero principio generale dell’azione
amministrativa), che risulta contraddetto non solo dalla prevalenza delle fonti comunitarie, ma
anche dalla crescita delle fonti secondarie e dall’elaborazione giurisprudenziale di principi e regole
riguardanti l’attività amministrativa. Urge, pertanto, effettuare un approfondimento sui “principi
generali dell’azione amministrativa”, in modo da ricondurli nell’ambito della legalità
amministrativa.

2. Principio di legalità. Vista l’impossibilità di individuare nella “legge” un elemento di


riferimento cui agganciare l’azione amministrativa, la dottrina ha attribuito al principio di legalità
una portata più ampia (cioè ha inteso il “principio di legalità” in senso più ampio che come mera
attuazione di norme di legge). Così, accanto alla tradizionale “nozione formale del principio di
legalità” (per cui è necessario che l’attribuzione di un potere all’amministrazione trovi la propria
fonte nella legge) è stata aggiunta una “nozione sostanziale del principio di legalità” (in virtù della
quale l’ambito di intervento della legge è stato esteso dalla mera attribuzione del potere alla
disciplina dell’attività amministrativa).
Tuttavia, questo modus operandi da un lato ha comportato la necessità di individuare nella “legge”
criteri e regole utili a guidare l’azione dell’amministrazione e, dall’altro ha fatto sì che si cercasse
di colmare le lacune del sistema legislativo attraverso il ricorso ai “principi generali
dell’ordinamento”.

3. Principi e norme non giuridiche : un dibattito antico. Gli studiosi che


hanno deciso di incentrare il proprio lavoro sulla “discrezionalità amministrativa” hanno dovuto
affrontare anche il problema dei criteri, sociali e morali, che guidano l’azione amministrativa : è
stata dimostrata l’indubbia esistenza di questi criteri, ma anche la difficoltà di individuarli
esattamente (difficoltà dovuta non solo alla loro consistenza numerica, ma anche alla loro facile
mutevolezza). Dall’inizio del ‘900 la dottrina ha rivolto la sua attenzione allo studio delle regole
sociali e dei valori di giustizia in grado di indirizzare l’attività discrezionale della P.A. Negli anni
'20 si inizia a prendere atto del fatto che l’attività della pubblica amministrazione debba essere
vincolata non solo da “norme giuridiche”, ma anche da “norme non giuridiche”, proprio perchè una
buona amministrazione deve essere tale non solo rispetto alla legalità, ma anche al c.d. merito : e
pure riguardo al merito l’attività dell’amministrazione può essere VINCOLATA (quando la legge
impone l’osservanza di una precisa norma non giuridica) o DISCREZIONALMENTE LIBERA
(qualora l’amministrazione abbia la possibilità di decidere, in termini di mera convenienza, se
osservare o meno la norma non giuridica). Questo orientamento fu confermato negli anni ’40 da
Giannini che, dopo aver classificato queste “regole non giuridiche” (regole morali; regole sociali;
regole di buona amministrazione; principi della politica), ha precisato che queste regole, essendo

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molto elastiche, avrebbero potuto spiegare efficacia solo in un “giudizio di merito” (pertanto, se
questo fosse mancato, la loro inosservanza sarebbe rimasta incontrollabile). Questa impostazione, se
riconosceva in queste regole non giuridiche delle linee-guida nelle scelte concrete operate
dall’amministrazione, impediva però di usarle in sede di controllo, come criterio di riferimento su
cui operare il “sindacato di legittimità” e, così, ne limitava l’utilità.
Su questa scia, la dottrina successiva, per garantire una sia pur minima tutela, cercò una diversa
sistemazione teorica, che fosse in grado di affermare la “natura giuridica” di tali regole
extralegislative, in modo da farne risaltare la rilevanza sul piano della “legittimità” (piuttosto che su
quello del merito). Ad esempio per Mortati la rispondenza dell’azione amministrativa al “fine
indicato dalla legge” andava accertata ricorrendo a criteri che non sono incorporati nella legge, ma
che tuttavia devono ritenersi oggetto di implicito rinvio da parte della stessa. La fonte ultima di tali
criteri era individuabile nell’“esperienza”, che si concretava in vere e proprie regole o direttive di
azione elaborate da discipline morali o sociali ; regole ben individuabili e applicabili direttamente
alle singole fattispecie. In altri casi, invece, tali regole non erano rintracciabili, ma comunque
l’esperienza forniva gli elementi sufficienti a estrarne una norma disciplinante il caso concreto.
La dottrina contemporanea è oggi consapevole del fatto che questi “criteri non giuridici” non solo
esistono, ma sono anche capaci di guidare l’azione dell’amministrazione. Tuttavia la dottrina non è
andata mai oltre la semplice affermazione della loro esistenza, perché si è reso conto che è proprio
la natura di questi criteri a renderne impossibile una classificazione. Il carattere flessibile di queste
regole e il loro continuo adattarsi alla realtà mutevole sono elementi che impediscono all’interprete
di procedere a una loro codificazione. Manca infatti ogni certezza che il criterio applicato in un dato
momento storico resterà ancora vigente per la condotta futura dell’amministrazione. Venendo meno
l’attributo della certezza, non si può dire che tali canoni possano essere considerati “norme
giuridiche”. Quindi, queste “regole sociali” (massime di esperienza e criteri e principi scientifici)
possono senza dubbio essere usate nel procedimento amministrativo (e nella ponderazione
discrezionale degli interessi che la P.A. è chiamata ad effettuare) : ciò però non implica che le
stesse possano assurgere al rango di “norme giuridiche”. Per spiegare perché la violazione di regole
e principi scientifici o dell’esperienza assurga a rilievo giuridico in sede di “controllo di legittimità”
(determinando l’annullabilità dell’atto), bisogna osservare che non occorre costruire singole regole
o massime come proposizioni con efficacia derivata da norme giuridiche : l’obbligo della loro
osservanza discende dal fatto che la funzione amministrativa deve svolgersi secondo esigenze di
esattezza e correttezza, che vanno salvaguardate.

4. I principi generali dell'ordinamento. I “PRINCIPI GENERALI


DELL'ORDINAMENTO”, avendo – rispetto ai “criteri di esperienza” – una portata più generale e
occupando un ruolo preciso nella gerarchia delle fonti, sono diventati non solo una vera e propria
guida dell’azione amministrativa, ma anche un parametro di valutazione per gli organi deputati al
controllo. Tali principi, più delle regole o dei criteri di esperienza, hanno ampliato la sfera della
“legalità” e sono stati una guida importante dell’azione amministrativa. Negli ordinamenti di
common law sono proprio i principi generali ad essere il principale, se non l’unico limite, all’azione
discrezionale delle Public Authorities e il fatto che la P.A. debba osservare dei principi-guida
nell’esercizio del suo potere discrezionale è un’esigenza sentita anche in tutti i paesi dell’Unione
europea.
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Perciò l’azione amministrativa deve rispettare non solo le norme giuridiche previste dalla legge, ma
anche una rete di principi generali (alcuni scritti nella Costituzione, altri desumibili da tutto
l’ordinamento), in modo che la scelta operata dalla P.A. sia adeguata al perseguimento del pubblico
interesse. Tuttavia una parte della dottrina sostiene che i “principi generali” non siano norme
giuridiche, ma piuttosto dei modelli organizzativi ; un’altra parte della dottrina, al contrario, ritiene
che essi siano delle vere e proprie “norme giuridiche”, e quindi delle “condizioni di legittimità
dell’atto”. In realtà essi, anziché disciplinare gli elementi del singolo atto amministrativo,
disciplinano l’attività amministrativa che si esercita per quell’atto e, quindi, la condizione di
legittimità della funzione amministrativa.
La nostra giurisprudenza ha comunque riconosciuto che i “principi generali” costituiscono regole
dell’azione amministrativa. Anche il legislatore ha in più occasioni fatto riferimento ai “principi
generali dell’ordinamento” come guida all’azione amministrativa. In ogni caso, a prescindere dalle
diverse posizioni dottrinarie, è evidente che i “principi generali dell’ordinamento” sono, assieme
alla “legge”, una guida e un orientamento per il raggiungimento del fine pubblico positivamente
determinato.

7. I principi di buona amministrazione in particolare. Fra i “principi


generali dell’ordinamento”, un discorso a sé stante meritano i c.d. PRINCIPI DI BUONA
AMMINISTRAZIONE, per l’importanza che occupano ai fini dell’azione amministrativa. Al
riguardo, però, in dottrina si sono registrati diversi orientamenti sul significato da attribuire alla
locuzione “buona amministrazione” : infatti una parte della dottrina esclude che possano essere
considerati come “principi generali dell’ordinamento” e li assimila invece ai criteri di esperienza
diretti a disciplinare alcuni aspetti del merito amministrativo (cioè quei criteri di cui si è parlato
prima). Un’altra parte della dottrina, invece, ritiene (a ragione) che quando si parla di “buona
amministrazione” non si deve far riferimento a una molteplicità di criteri, ma a un unico “principio
giuridico” che regola l’attività della P.A. : non si parla quindi di “principi di buona
amministrazione” ma, al singolare, di principio di buon andamento. Ed è in questo senso che il
principio è stato assunto nella Costituzione, che all’art. 97 dispone che siano assicurati
nell’amministrazione «il buon andamento e l’imparzialità». Entrambi sono principi dell’azione
amministrativa che devono essere seguiti dall’amministrazione nel suo concreto agire. Il “BUON
ANDAMENTO” è il canone attraverso cui l’amministrazione viene vincolata al soddisfacimento
dell’ “interesse pubblico primario” attribuitole dalla legge. Esso è, perciò, il “canone regolativo
primario della funzione amministrativa”. L’“IMPARZIALITA’”, invece, (cioè il canone che
insieme a quello del “buon andamento” compone il “principio di buona amministrazione”) riguarda
il rispetto degli “interessi secondari” ed è il “limite” (rappresentato appunto dagli interessi
secondari) che l’amministrazione deve rispettare nell’esercizio del suo potere, un “argine a quelle
forme di politicità indotta della funzione amministrativa”.
Tuttavia per molto tempo la dottrina prevalente ha considerato il canone del buon andamento come
una nozione attinente alla sola organizzazione degli uffici. Questo orientamento, però, è stato in
seguito superato grazie all’opera di eminenti studiosi, che hanno affermato la valenza del principio
sul piano dell’azione, oltre che su quello dell’organizzazione. E questa tesi è ormai prevalente.
Nella formula costituzionale che esprime il precetto del buon andamento si fondono due nozioni,
quella funzionale e quella strutturale. Non bisogna dubitare che il buon andamento sia anche un
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principio dell’attività amministrativa e che, in tal modo, debba orientare l’esercizio dei pubblici
poteri. Ma a questo punto ci si chiede come l’imparzialità e il buon andamento orientino l’azione. Il
buon andamento esprime un valore giuridico che non condiziona direttamente la discrezionalità
amministrativa nell’adozione dei singoli atti, ma misura l’attività complessiva. (* Il BUON
ANDAMENTO è un principio che obbliga gli impiegati e i funzionari pubblici a svolgere i loro
compiti con diligenza e professionalità, per realizzare in modo efficace ed efficiente gli obiettivi che
l’amministrazione si pone. La P.A. deve agire nel modo più adeguato e conveniente possibile. Tale
principio impone “adeguatezza” e “convenienza” nell’esercizio dell’azione amministrativa : si
fonda sui criteri dell’efficienza (rapporto tra risultati raggiunti e risorse impiegate); economicità
(ottimizzazione dei risultati in relazione ai mezzi a disposizione) ed efficacia (capacità di
conseguire gli obiettivi prefissati) . L’IMPARZIALITA’ è un principio che impone alla P.A. di non
compiere, nello svolgimento delle sue funzioni, discriminazioni arbitrarie).

8. Altri principi. Tra i PRINCIPI CHE GOVERNANO L’AZIONE AMMINISTRATIVA


troviamo : 1) i “principi che garantiscono il raggiungimento del pubblico interesse”; 2) i “principi
che assicurano che l’azione dell’amministrazione sia svolta nel rispetto degli interessi dei privati
coinvolti nell’esercizio del potere”.

Tra i PRINCIPI CHE GARANTISCONO IL RAGGIUNGIMENTO DEL PUBBLICO


INTERESSE troviamo :

 il “principio di buon andamento”.


 il “principio di economicità” : indica l’obbligo dell’amministrazione di usare
diligentemente le proprie risorse. Suoi corollari sono i principi di semplicità e celerità
dell’azione amministrativa. Questi sono a loro volta articolati nel “principio di doverosità
dell’azione amministrativa” (cioè l’obbligo di conclusione del procedimento attraverso
l’emanazione di un provvedimento espresso) e nel “divieto di aggravamento del
procedimento”.
 il “principio di efficacia” : l’idoneità dell'atto a soddisfare l’interesse perseguito. Esso si
distingue, poi, dall’“efficienza” (che viene valutata in relazione al rapporto tra risorse
impiegate e risultati ottenuti).

Tra i PRINCIPI CHE ASSICURANO CHE L’AZIONE AMMINISTRATIVA SIA SVOLTA NEL
RISPETTO DEGLI INTERESSI DEI PRIVATI COINVOLTI NELL’ESERCIZIO DEL POTERE
troviamo :

 il “principio di imparzialità”.
 il “principi di ragionevolezza” : è il canone generale dell’azione amministrativa, i cui esiti
devono essere coerenti rispetto alle premesse fattuali e di diritto poste a base della decisione.
Dunque, la scelta concreta adottata dall’amministrazione deve essere il frutto di una logica
specificazione delle premesse generali di partenza. Essa, pertanto, deve essere non solo
adeguata rispetto al fine, ma anche coerente rispetto agli elementi acquisiti nel corso
dell’istruttoria. (*In pratica, la P.A. deve seguire un canone di razionalità operativa nello
svolgimento della propria azione, per evitare decisioni arbitrarie e irrazionali. Ciò impone la

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corrispondenza dell’azione amministrativa ai fini indicati dalla legge; la coerenza con i


presupposti di fatto assunti a base della decisione amministrativa, la logicità della stessa e la
proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini).
 il “principio di proporzionalità” : è l’adeguatezza della misura rispetto al fine perseguito,
anche avuto riguardo al sacrificio imposto agli interessi dei privati coinvolti nell’esercizio
del potere, nel senso di garanzia del massimo contemperamento degli interessi in gioco (*è
la proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini).
 il “principio di trasparenza” (o pubblicità) : garanzia del diritto ad essere informati, da un
lato, e del diritto di difesa, dall’altro. La sua garanzia deve essere assicurata in ogni fase
dell’azione amministrativa.
 il “principio di tempestività dell’azione amministrativa”.
 il “principio dell’affidamento” : esprime l’obbligo di correttezza e buona fede nei rapporti
tra cittadino e P.A. Il principio dell’affidamento esprime l’esigenza di tutelare gli interessi
privati coinvolti nell’azione amministrativa, specie quando alcuni elementi (precedenti
comportamenti dell’amministrazione, emanazione di direttive o circolari, ecc.) abbiano
ingenerato nel privato un legittimo affidamento a una determinata regolamentazione dei
propri interessi nel provvedimento amministrativo.
 Il “principio di continuità” : indica la garanzia di una continuità nell’esercizio della funzione
amministrativa. La P.A. deve provvedere in maniera continuativa alla cura degli interessi
che le sono stati attribuiti.

-CAPITOLO 3. IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO-


1.La nozione di procedimento amministrativo. Le amministrazioni pubbliche
perseguono i fini pubblici previsti dalla legge. Quando il perseguimento di questi fini avviene
attraverso strumenti autoritativi (poteri e potestà) le P.A. devono porre in essere un procedimento
amministrativo. Quest’ultimo può essere definito come “la serie di atti e attività funzionalizzati
all’adozione del provvedimento amministrativo (che rappresenta l’atto finale di tale sequenza)”.
Dato che il PROVVEDIMENTO è una decisione volta a produrre un determinato assetto di
interessi, il PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO può anche essere definito il “processo
decisionale formalizzato attraverso cui le amministrazioni pubbliche esercitano i poteri ad esse
attribuiti dalla legge”. Questa formalizzazione è necessaria per un semplice motivo : perché il
provvedimento amministrativo è espressione di una potestà attribuita dalla legge per la cura di un
interesse pubblico, che non è scelto liberamente dalle pubbliche amministrazioni, ma è
normativamente indicato; l’esercizio del potere incide in modo autoritativo sulle situazioni
giuridiche dei destinatari e, quindi, è necessario che la decisione assunta con il provvedimento sia
controllabile in sede giurisdizionale. Il procedimento amministrativo serve proprio a verificare in
base a dati oggettivi la legittimità del provvedimento adottato e la sua conformità alle norme e ai
principi che regolano l’azione amministrativa.

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2. La disciplina giuridica del procedimento amministrativo. Nel


nostro ordinamento fino agli anni '90 è mancata una disciplina generale in materia di procedimento
amministrativo : vi erano solo leggi sui singoli procedimenti (ad es. il procedimento di
espropriazione o quello di pianificazione urbanistica). Di conseguenza, i principi e le regole che
guidavano lo svolgimento del procedimento amministrativo erano, di volta in volta, delineati dalla
giurisprudenza amministrativa ed erano ricavati dalle discipline settoriali e dalle norme
costituzionali in tema di pubblica amministrazione. Con la legge n. 241 / 1990 sono state finalmente
emanate norme che disciplinano il “quadro generale in materia di procedimento amministrativo”.
Successivamente il legislatore è più volte intervenuto su questa legge. Gli interventi più significativi
sono stati quelli adottati con la L. n. 15 / 2005 e con la L. n. 69 / 2009.

La competenza legislativa e normativa in materia procedimentale.


Secondo l’art. 29, 1°comma della L. 241 / 1990 “Le disposizioni ivi contenute si applicano solo ai
procedimenti amministrativi che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni statali e degli enti
pubblici nazionali”. Ai sensi dell’art. 29, 2°comma, “Nell’ambito delle rispettive competenze, le
Regioni e gli enti locali regolano le materie disciplinate dalla L. 241/1990 nel rispetto del sistema
costituzionale e delle garanzie del cittadino, così come definite dai principi contenuti nella legge
stessa”. L’art. 29 è il naturale precipitato della riforma del Titolo V Cost., che ha ridefinito il riparto
di competenze legislative tra Stato e Regioni e le funzioni degli enti locali. Il legislatore
costituzionale ha attribuito alla competenza esclusiva statale la sola materia dell’ordinamento e
dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (art. 117, comma 2
Cost.), mentre la competenza legislativa spetta alle Regioni relativamente all’ordinamento e
all’organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici che ad esse fanno capo. Inoltre
egli ha attribuito a Comuni, Province e Città metropolitane la titolarità di funzioni amministrative
proprie e la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite (artt. 117 e 118 Cost.). Alla luce della riforma costituzionale e delle
previsioni dell’art. 29 della L. 241 / 1990, le Regioni e gli enti locali sono autonomi in relazione alla
regolamentazione dei procedimenti di propria competenza. Tuttavia tali soggetti sono tenuti a
regolare questi procedimenti nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei
riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla stessa legge.
Riguardo a queste garanzie, ai sensi dell’art. 29, comma 2-bis e 2-ter, attengono ai “livelli
essenziali delle prestazioni” di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione :

 le disposizioni della L. 241 / 1990 riguardanti gli obblighi per la P.A. di garantire la
partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di
concludere lo stesso entro un termine prefissato e di assicurare l’accesso alla
documentazione amministrativa;
 le disposizioni relative alla durata massima dei procedimenti;
 le disposizioni riguardanti la dichiarazione di inizio attività, il silenzio assenso e la
conferenza dei servizi.

Da ciò discende che le Regioni a statuto ordinario e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti di
loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dall’art. 29,

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commi 2-bis e 2-ter, fermo restando la possibilità di prevedere ulteriori livelli di tutela (art. 29.
comma 2-quater). Invece le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano
adeguano la propria legislazione secondo i rispettivi statuti (art. 29, comma 2-quinquies).
Le disposizioni della L. 241 / 1990 si applicano anche alle società con totale o prevalente capitale
pubblico limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative (art. 29, 1°comma).

3. Struttura e funzione del procedimento amministrativo. Nella L.


241 / 1990 non c’è alcuna indicazione sulla struttura del procedimento amministrativo.
Ciononostante in dottrina il procedimento viene tradizionalmente suddiviso in fasi : una fase di
iniziativa procedimentale, una fase istruttoria e una fase decisoria.
Però la suddivisione in fasi ha un carattere esemplificativo, poiché l’iter procedimentale (che si
conclude con l’adozione del provvedimento) si snoda lungo un continuum di azioni che presentano
un’indubbia unitarietà e che sono tutte compiute in vista della decisione finale. Gli atti che nel
procedimento precedono il provvedimento (c.d. “atti endoprocedimentali”) devono pertanto
considerarsi preparatori rispetto a quest’ultimo. Questa loro caratteristica ha portato ad affermarne
una rilevanza meramente procedimentale : gli atti del procedimento esauriscono la loro portata
giuridica nell’ambito del procedimento, in quanto funzionalizzati solo all’emanazione della
decisione amministrativa. Gli atti endoprocedimentali non possono produrre effetti al di fuori del
procedimento e, dunque, non possono incidere sulla sfera giuridica di soggetti esterni. Infatti
questa prerogativa è riservata solo al provvedimento finale. Pertanto solo il provvedimento potrà
essere impugnato da chi ritenga di aver subito una lesione dall’azione dell’amministrazione (anche
se tale lesione dovesse essere riferibile a un atto del procedimento). L’atto interno al procedimento,
cioè, produce effetti solo nell’ambito di questo e l’eventuale lesione derivante da un atto interno
potrà essere fatta valere solo con l’impugnazione del provvedimento : ad es., nel caso in cui, in un
procedimento per il rilascio di un’autorizzazione da parte dell’amministrazione comunale,
l’adozione del provvedimento sia subordinata al parere (obbligatorio, ma non vincolante)
dell’amministrazione sanitaria, l’eventuale parere negativo, anche se illegittimo, non potrà essere
impugnato in via autonoma, perché esso è un atto endoprocedimentale; al contrario, l’atto che potrà
essere impugnato sarà il “provvedimento di diniego” adottato sulla base del parere negativo fornito
dall’amministrazione sanitaria. Tale regola subisce però delle eccezioni quando l’atto interno al
procedimento ha un’autonoma forza lesiva della posizione giuridica del destinatario . Ad es., nel
caso di una procedura concorsuale, l’esclusione dalla procedura per mancanza dei requisiti di
partecipazione, benchè sia disposta dall’amministrazione procedente con un atto
endoprocedimentale, ha un’autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario, poiché
gli impedisce la partecipazione alla procedura. Pertanto quest’atto potrà essere impugnato
dall’interessato senza attendere la conclusione del procedimento e, dunque, l’adozione del
provvedimento finale.
Oltre che dal punto di vista della struttura, il procedimento può essere analizzato anche dal punto di
vista funzionale. Ogni volta che si apre un procedimento, alla base di tale apertura c’è un fatto che
coinvolge in via principale l’interesse pubblico e in via secondaria gli altri interessi presenti nel
fatto. In tal senso, il procedimento amministrativo serve : 1) a evidenziare il fatto da cui si ricava
l’esigenza di cura dell’interesse pubblico (c.d. interesse primario); 2) ad acquisire gli altri interessi
(pubblici e privati) presenti nel fatto (c.d. interessi secondari); 3) ad accertare l’esistenza e le
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caratteristiche del fatto; 4) a valutare il peso di tutti gli interessi coinvolti e la misura in cui essi
dovranno essere sacrificati o avvantaggiati per la cura dell’interesse pubblico; 5) a individuare le
norme che disciplinano l’esercizio del potere rispetto al caso concreto; 6) ad assumere la decisione
che verrà formalizzata nel provvedimento.

4. L’apertura del procedimento e l’iniziativa procedimentale.


Il procedimento si apre con il primo atto della serie, il c.d. “atto di iniziativa”. Dall’art. 2 della L.
241 / 1990 si ricava che l’avvio del procedimento può avvenire su istanza di parte o d’ufficio. Nel
primo caso l’amministrazione pubblica competente viene sollecitata a procedere da un privato o da
un’altra amministrazione pubblica. Si prospetta invece l’iniziativa d’ufficio quando l’impulso
procedimentale proviene dalla stessa amministrazione procedente (quella cioè competente a
svolgere il procedimento e a emanare il provvedimento). Di regola i procedimenti ad istanza di
parte sono quelli destinati a concludersi con un provvedimento favorevole al destinatario (in quanto
ampliativi della sua sfera giuridica). Tuttavia, l’impulso di parte può provenire anche da un’altra
P.A. : ciò accade quando l’interesse pubblico attribuito in cura all’amministrazione che richiede
l’apertura del procedimento necessita (per il suo soddisfacimento) dell’intervento di un’altra
pubblica amministrazione. In quest’ultimo caso l’atto di iniziativa è detto richiesta.
Al contrario, quando la necessità di provvedere alla cura dell’interesse pubblico è avvertita proprio
dall’amministrazione competente (attraverso una propria valutazione), questa procederà d’ufficio
all’apertura del procedimento (si pensi ad esempio all’espropriazione di un terreno privato che serve
a realizzare un’opera pubblica). In tal caso l’iniziativa procedimentale coinciderà con il primo atto
che l’amministrazione pone in essere per il perseguimento del fine pubblico alla cui cura è preposta.

5. L’istruttoria procedimentale e il responsabile del procedimento.


All’atto di iniziativa procedimentale segue la “FASE ISTRUTTORIA”, nel cui alveo si concentrano
tutte quelle attività che hanno lo scopo di condurre all’adozione della decisione finale. Nel corso
dell’istruttoria la P.A. procedente : a) accerta il fatto e valuta la sua rilevanza per l’interesse
pubblico (e interpreta le norme che disciplinano l’esercizio del potere rispetto al caso concreto); b)
acquisisce eventualmente altri fatti significativi; c) acquisisce tutti gli interessi pubblici e privati
coinvolti; d) valuta comparativamente l’interesse pubblico primario con gli altri interessi in gioco
(nel caso in cui disponga di “poteri discrezionali”).
Deputato ad occuparsi di tutti questi adempimenti è il “responsabile del procedimento”, che è
quindi il vero protagonista della fase istruttoria. Ai sensi dell’art. 4 della L. 241 / 1990, infatti, “ le
pubbliche amministrazioni, ove non sia già stabilito per legge o per regolamento, sono tenute a
determinare per ogni tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa
responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale”.
Ai sensi dell’art. 5, 1° comma, poi, “Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad
assegnare a sé o a un altro dipendente addetto all’unità il ruolo di responsabile del procedimento”.
Ai sensi dell’art. 5, 2°comma, “Finchè non viene effettuata questa assegnazione, è considerato
responsabile del procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa” (= cioè lo stesso
dirigente). Infine, ai sensi dell’art. 5, 3°comma, “L’unità organizzativa competente e il nominativo

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del responsabile del procedimento sono comunicati ai soggetti che hanno il diritto di ricevere
l’avviso di avvio del procedimento, nonché ai terzi interessati”.
Il RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO è quindi, per un verso, il soggetto cui viene affidato
il corretto svolgimento dell’istruttoria e, per altro verso, l’interlocutore privilegiato dei soggetti
coinvolti dall’esercizio dell’azione amministrativa. A lui spettano dunque vari compiti, indicati
nell’art. 6 della L. 241 / 1990. Egli, ai sensi dell’art.6, “valuta i requisiti di legittimazione e i
presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento”; “accerta i fatti adottando ogni misura
per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (ad esempio, può chiedere il rilascio di
dichiarazioni, esperire accertamenti tecnici e ispezioni e ordinare esibizioni documentali); “propone
l’indizione o (se ne ha la competenza), indice egli stesso la conferenza di servizi”.
Compiuta l’istruttoria, il responsabile del procedimento “adotta il provvedimento finale, ove ne
abbia la competenza, o trasmette gli atti del procedimento all’organo competente”. In quest’ultimo
caso l’art. 6 stabilisce che “l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove diverso dal
responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta da
quest’ultimo se non indicandone i motivi nel provvedimento finale”. Tale disposizione, per un
verso, ribadisce che l’organo competente all’adozione del provvedimento finale può essere diverso
dall’ufficio cui è demandata la responsabilità dell’istruttoria; per altro verso, attribuisce alle
risultanze istruttorie la portata di una vera e propria proposta di decisione, con cui il responsabile
del procedimento prospetta all’organo decidente la soluzione che ritiene corretta e da cui
quest’ultimo può discostarsi solo previa adeguata motivazione, pena l’illegittimità del
provvedimento adottato.

6. La partecipazione dei privati al procedimento amministrativo.


Prima della L. 241 / 1990 il procedimento amministrativo era svolto dall’amministrazione
competente senza che fosse previsto il coinvolgimento dei soggetti privati interessati. Tuttavia, già
all’epoca la dottrina riteneva che ciò fosse una grave lacuna, poichè la “partecipazione dei privati al
procedimento” troverebbe un fondamento costituzionale nell’art. 97 Cost. e, in particolare, nel
“principio di imparzialità” : infatti la garanzia di un agire amministrativo imparziale richiede che,
nell’ambito del procedimento, siano valutati tutti gli interessi coinvolti e il modo migliore per
favorire la conoscenza di questi ultimi da parte della P.A. è quella di far partecipare i soggetti che
ne siano titolari al procedimento.
A questa lacuna normativa ha posto riparo la L. 241 / 1990, che ha garantito la
“PARTECIPAZIONE DEI PRIVATI AL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO”. La
partecipazione ha due funzioni : 1) serve alla migliore cura dell’interesse pubblico, poichè il
partecipante, arricchendo con le proprie prospettazioni le informazioni a disposizione della pubblica
amministrazione, mette quest’ultima nella condizione di adottare una decisione meditata (c.d.
funzione di “collaborazione”); 2) inoltre la partecipazione serve a tutelare il privato e l’interesse di
cui è titolare nei confronti dell’esercizio del potere amministrativo (c.d. funzione di “garanzia”).
Alla disciplina della partecipazione procedimentale è dedicato il Capo 3° della L.241 / 1990. Però
la disciplina dedicata alla partecipazione procedimentale non trova applicazione in ogni
circostanza : infatti l’art. 13 della L. 241 / 1990 esclude che la partecipazione si applichi ai
“procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e
programmazione, nonché ai procedimenti tributari”. Inoltre la giurisprudenza amministrativa ha
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aggiunto altre ipotesi in cui la disciplina della partecipazione non si applica : ciò accade per i
procedimenti in cui le “esigenze di segretezza” prevalgono su quelle di “pubblicità” (ad esempio, in
presenza di interessi superiori, come l’ordine pubblico, la sicurezza e la repressione di determinati
reati). Esistono anche
“discipline settoriali della partecipazione” che si applicano a determinati procedimenti : in alcuni
casi la garanzia della partecipazione assume anche una portata più ampia di quella prevista dalla L.
241 / 1990, sia perché tale garanzia è riconosciuta a chiunque voglia intervenire (indipendentemente
dalla titolarità di uno specifico interesse coinvolto nella vicenda procedimentale), sia perché al
privato sono riconosciuti strumenti più incisivi (come la possibilità di interloquire con
l’amministrazione procedente anche oralmente, e non solo tramite la presentazione di memorie
scritte e documenti). Nel primo caso, la partecipazione ha anche una funzione di controllo diffuso
sulla legalità e opportunità dell’azione amministrativa; nel secondo caso, si è in presenza di un vero
e proprio contraddittorio non solo scritto, ma anche orale, che avvicina il procedimento al processo.

7. La comunicazione di avvio del procedimento. La partecipazione al


procedimento richiede innanzitutto che i soggetti interessati siano avvertiti dell’avvio del
procedimento. La conoscenza di tale circostanza viene garantita dalla “COMUNICAZIONE DI
AVVIO DEL PROCEDIMENTO”, prevista dall’art. 7 della L. 241 / 1990. In proposito vi è un vero
e proprio obbligo gravante sulla P.A. e tale obbligo va adempiuto nei confronti di una serie definita
di soggetti mediante comunicazione personale (art. 8, 1°comma) o, se per il numero dei destinatari
tale modalità sia impossibile o particolarmente gravosa, attraverso forme di pubblicità adeguate di
volta in volta stabilite dalla pubblica amministrazione (art. 8, 3°comma).
Tali soggetti sono indicati nell’art. 7, 1°comma : l’avvio del procedimento deve essere comunicato
“a coloro nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, a quelli
che per legge devono intervenirvi, nonché a coloro che potrebbero essere danneggiati dall’adozione
del provvedimento finale”.
Nella prima categoria sono compresi i destinatari del provvedimento finale (si pensi ai proprietari di
un terreno che l’amministrazione vuole espropriare). L’avvio del procedimento va comunicato
anche ai soggetti che devono partecipare al procedimento in virtù di una previsione di legge (ad
esempio le pubbliche amministrazioni, diverse da quella procedente, cui compete l’adozione di un
atto della serie procedimentale). Infine l’avvio del procedimento va comunicato a chi potrebbe
subire un pregiudizio dal provvedimento finale : cioè i soggetti c.d. controinteressati che, pur non
essendo diretti destinatari della decisione amministrativa, potrebbero essere lesi dalla stessa (si
pensi al proprietario di un terreno confinante rispetto a quello oggetto di un intervento edilizio).
L’obbligo di comunicazione subisce delle deroghe : la P.A., infatti, non è tenuta a comunicare
l’avvio del procedimento ove sussistano “ragioni di impedimento derivanti da esigenze di celerità
del procedimento” e, dunque, dall’urgenza del provvedere (art. 7, 1°comma della L. 241 / 1990).
Tuttavia non basta una qualsiasi urgenza, ma un’urgenza «qualificata» (tale cioè da non consentire
l’adempimento dell’obbligo senza che ne risulti compromesso il soddisfacimento dell’interesse
pubblico affidato alle cure dell’amministrazione).
Una seconda deroga è contenuta nell’art. 7, 2°comma : “l’amministrazione pubblica può sempre
adottare, anche prima di effettuare la comunicazione, provvedimenti cautelari”. Rientrano in questa
ipotesi, ad esempio, tutti quei provvedimenti di sospensione dell’efficacia di precedenti
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provvedimenti (ad es. la sospensione di un’autorizzazione a svolgere una determinata attività)


indispensabili per tutelare l’interesse pubblico.
Oltre a queste deroghe legislative, altre ne sono state individuate dalla giurisprudenza
amministrativa : 1) Si è affermata l’irrilevanza della violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio del procedimento ai fini dell’annullabilità del provvedimento finale tutte le volte in cui il
soggetto si è trovato nella condizione di poter comunque partecipare al procedimento (ciò si
verifica, ad esempio, quando il soggetto interessato ha acquisito in altro modo la conoscenza del
procedimento in tempo per esercitare le proprie prerogative di partecipazione; quando abbia
ricevuto un atto equipollente alla comunicazione; o quando il procedimento è iniziato su istanza di
parte). In questi casi la giurisprudenza ha applicato il “principio del raggiungimento dello scopo”:
infatti in tali ipotesi lo scopo è comunque raggiunto.
2) Un secondo gruppo di deroghe si basa sulla funzione della partecipazione al procedimento. Una
parte della giurisprudenza infatti sostiene che la partecipazione debba essere garantita in quanto
utile, oltre che per il partecipante, anche per l’amministrazione procedente. Ne deriva che, quando
attraverso il procedimento amministrativo la P.A. debba esercitare una potestà interamente
vincolata (cioè quella in cui non sono necessarie né valutazioni tecniche né valutazioni
discrezionali), l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non determina
l’annullabilità del provvedimento finale. In questo caso infatti la mancata partecipazione del privato
è ininfluente, poichè quest’ultimo non avrebbe comunque potuto apportare alcun contributo
rilevante per la decisione finale.
Ad ogni modo, le ipotesi enucleate dalla giurisprudenza sono state in seguito accolte dal legislatore,
che all’art. 21-octies della L. 241 / 1990, introdotto dalla L. 15 / 2005, (“Annullabilità del
provvedimento”) statuisce che : “È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza (1°comma).  Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma,
qualora per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato; il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato” (2°comma). Con tale previsione il legislatore ha
voluto affermare la PREVALENZA DELLA SOSTANZA SULLA FORMA, negando l’annullabilità
del provvedimento ogni volta che sia dimostrato che la comunicazione di avvio del procedimento
non avrebbe comunque potuto modificare il contenuto del provvedimento.
Infine l’art. 8, 2°comma della L. 241 / 1990 stabilisce i contenuti della comunicazione : l’atto deve
indicare “l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, l’ufficio e il responsabile del
procedimento, l’ufficio in cui si possono visionare gli atti e il termine di conclusione del
procedimento”. Ai sensi dell’art. 8, 4°comma, l’omissione di una di queste comunicazioni può
essere fatta valere “solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista”. Tuttavia la
giurisprudenza ha assunto un atteggiamento restrittivo sostenendo che il più delle volte queste
omissioni sono delle mere irregolarità, che non incidono sulla validità del provvedimento finale.

8. L’interventore procedimentale. I soggetti a cui deve essere obbligatoriamente


inviata la “comunicazione di avvio del procedimento” possono intervenire nel procedimento. Anzi,
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questi ultimi si trovano in una posizione privilegiata, poichè hanno una conoscenza diretta
dell’apertura del procedimento. Se essi decidono di intervenire, assumono la qualifica di
“INTERVENTORI”. Inoltre la L. 241 / 1990 garantisce la possibilità di partecipare al procedimento
a una cerchia di soggetti più ampia di quelli che hanno il “diritto” di ricevere la comunicazione di
avvio dello stesso. Ai sensi dell’art. 9, 1°comma, infatti, la facoltà di intervenire nel procedimento è
assicurata anche a qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, ai portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento.
Il novero degli interventori dunque è ampio : esso spazia dai diretti destinatari del provvedimento
finale a coloro che possono ricevere un danno dal provvedimento; dai soggetti pubblici ai soggetti
portatori di interessi diffusi (purché si diano un minimo di organizzazione e assumano la forma
dell’associazione o del comitato).
Una delle questioni più rilevanti è se la “legittimazione a intervenire nel procedimento” determini
una corrispondente legittimazione processuale a impugnare il provvedimento finale in sede
giurisdizionale. La giurisprudenza amministrativa ha affermato che la possibilità di intervenire nel
procedimento non determina l’automatica capacità di ricorrere in via processuale contro il
provvedimento, dovendo tale capacità essere riconosciuta sulla base della titolarità di un interesse
legittimo. Solo il partecipante titolare di un interesse legittimo rispetto all’esercizio del potere
amministrativo potrà fare valere in sede processuale la lesione derivante dall’eventuale illegittimità
del provvedimento. La questione si è posta soprattutto riguardo ai soggetti portatori di interessi
diffusi : date le molte limitazioni con cui i soggetti portatori di tali interessi sono ammessi ad
attivare la loro tutela davanti al giudice amministrativo, la dottrina ha cercato di sostenere che,
grazie all’art. 9, 1°comma, gli interessi diffusi avessero trovato piena tutela non solo a livello
procedimentale, ma anche processuale (e dunque aldilà dei settori specifici in cui tale legittimazione
è espressamente prevista dalla legge, come avviene ad esempio in materia ambientale o di tutela
dei consumatori). Questa tesi, però, non è stata accolta dal giudice amministrativo, che anzi ha
affermato che la “legittimazione a partecipare al procedimento”, riconosciuta ai portatori di interessi
diffusi, non implica anche un’automatica “legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale”.
In ogni caso tutti i soggetti legittimati a intervenire (quelli indicati nell’art. 7, 1°comma e quelli
indicati nell’art. 9, 1°comma) possono esercitare gli stessi “diritti”. Ai sensi dell’art.10, 1°comma,
essi hanno il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e il diritto di presentare
memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti
all’oggetto del procedimento. La partecipazione procedimentale si esplica, dunque, in due diversi
modi : 1) il “diritto di visionare gli atti del procedimento”, che permette di venire a conoscenza
dell’oggetto del procedimento e delle valutazioni compiute fino a quel momento. Pertanto il
partecipante, tramite l’“accesso”, acquisisce quel corredo di informazioni necessario per
interloquire con l’ amministrazione procedente; 2) il “diritto di presentare memorie e documenti”,
che consente al partecipante di offrire argomentazioni relative a tutti gli aspetti rilevanti del
procedimento e
di tutelare la propria posizione attraverso la prospettazione di fatti utili all’amministrazione
procedente per l’assunzione della decisione.
Il “DIRITTO DI VISIONARE GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO” è una species del più ampio
genus del “diritto di accesso” di cui all’art. 22 della L. 241 / 1990. Sebbene il primo abbia una
portata più ristretta del secondo, la tutela di entrambi è identica. Infatti, sia la lesione del diritto di

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prendere visione degli atti del procedimento che la lesione del diritto di accesso ai documenti
amministrativi possono essere tutelate in sede giurisdizionale con l’azione prevista dall’art. 25 della
L. 241 / 1990 : è possibile (contro le decisioni della P.A. riguardanti il diritto di accesso) ricorrere
davanti al Tribunale amministrativo regionale competente, che si pronuncia con rito abbreviato.
Per quanto riguarda il “DIRITTO DI PRESENTARE MEMORIE E DOCUMENTI”, il contenuto
della memoria deve essere costituito da asserzioni su fatti rilevanti per lo svolgimento del
procedimento che riguardino la posizione dell’interventore. A queste asserzioni possono essere
allegati documenti che forniscono la prova di quanto asserito. Una volta presentate memorie e
documenti, la P.A. ha l’obbligo di esaminarli ove pertinenti all’oggetto del procedimento. La
“pertinenza” attiene alla rilevanza delle asserzioni dal punto di vista del fatto, dell’interesse vantato
dall’interventore o dell’eventuale contributo all’individuazione e interpretazione delle norme che la
P.A. ritiene di dover applicare al caso concreto. Inoltre, la P.A. deve anche valutare la rilevanza di
quanto affermato per la decisione e di tale giudizio deve essere dato conto. Non è necessaria una
confutazione analitica del contenuto delle memorie e dei documenti, essendo sufficiente che dalla
motivazione del provvedimento siano desumibili le ragioni del non accoglimento di quanto dedotto
dall’interventore.
Attraverso la produzione di memorie e documenti si instaura nel procedimento un contradditorio
scritto tra questi ultimi e l’amministrazione procedente.
Il legislatore nell’art. 10 qualifica le pretese partecipative in termini di “diritti”. Nonostante una
parte della dottrina abbia sostenuto che tali pretese siano diritti soggettivi, la dottrina maggioritaria
ritiene che siano delle facoltà dell’interesse legittimo o delle facoltà di una situazione giuridica
peculiare definibile come “interesse procedimentale”. Quest’ultima posizione è preferibile, poichè
non tutti i soggetti legittimati a partecipare al procedimento sono titolari di un interesse legittimo
(tali sono certamente i diretti destinatari del provvedimento finale e i c.d. controinteressati, ma non i
soggetti indicati nell’art. 9, 1°comma).

9. Istruttoria procedimentale e consulenza di amministrazioni


pubbliche diverse da quella procedente. Nella fase istruttoria può aversi il
coinvolgimento di altre pubbliche amministrazioni. Ciò accade quando la P.A. procedente debba, in
virtù di una previsione normativa, acquisire valutazioni provenienti da altre pubbliche
amministrazioni o ritenga utile per la completezza dell’istruttoria acquisire queste valutazioni. In
questi casi si parla di “ATTIVITA’ CONSULTIVA” e gli atti sono detti “PARERI”. Il ricorso alla
consulenza amministrativa avviene per due ragioni : 1) quando è necessario acquisire e valutare
“interessi pubblici”, coinvolti nel procedimento, che sono attribuiti alla cura di altre pubbliche
amministrazioni; 2) quando bisogna accertare “fatti complessi” rispetto a cui l’amministrazione
procedente non dispone di uffici ed organi con le necessarie conoscenze tecniche e scientifiche.
Ai sensi dell’art. 16, 1°comma della L. 241 / 1990 (rubricato “Attività consultiva”), “Le pubbliche
amministrazioni devono rendere i pareri ad esse obbligatoriamente richiesti entro 20 giorni dal
ricevimento della richiesta. Quando alle stesse siano richiesti pareri facoltativi, esse sono tenute a
comunicare alle pubbliche amministrazioni richiedenti il termine entro cui il parere sarà reso (che
comunque non può superare i 20 giorni dal ricevimento della richiesta)”. Ai sensi dell’art. 16, 2° e
3°comma, “L’infruttuosa decorrenza del termine, senza che la P.A. consultata abbia rilasciato il
parere o abbia espresso esigenze istruttorie per predisporlo, autorizza l’amministrazione a procedere
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indipendentemente dall’acquisizione del parere, salvo che quest’ultimo debba essere rilasciato da
pubbliche amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute
del cittadino”. Infine ai sensi dell’art. 16, 4°comma, “Qualora la P.A. cui è stato chiesto il parere
abbia manifestato esigenze istruttorie (ad esempio l’acquisizione di ulteriori informazioni) il
termine di 20 giorni può essere interrotto una sola volta e il parere deve essere definitivamente reso
entro 15 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori”.

Ai sensi dell’art. 17, 1°comma, “Ove per espressa disposizione di legge o di regolamento sia
previsto che l’adozione di un provvedimento debba avvenire previa acquisizione delle valutazioni
tecniche di altre pubbliche amministrazioni e queste ultime non provvedano in tal senso o non
manifestino esigenze istruttorie nei termini fissati dalla disposizione (o in mancanza entro 90 giorni
dal ricevimento della richiesta), l’amministrazione procedente, tramite il responsabile del
procedimento, deve chiedere queste valutazioni tecniche ad altre pubbliche amministrazioni dotate
di capacità tecnica equipollente o ad istituti universitari”. Ai sensi dell'art. 17, 2°comma, “Questa
disposizione non si applica in caso di valutazioni che devono essere prodotte da amministrazioni
pubbliche preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute del cittadino ”.
Infine l’art. 17, 3°comma rende applicabile l’art. 16, 4°comma alla ipotesi di “richieste istruttorie
formulate dall’amministrazione che deve esprimere le valutazioni tecniche”. Ricaviamo che :

 i pareri vengono richiesti in quanto previsti da una disposizione normativa (“PARERI


OBBLIGATORI”) o in quanto ritenuti utili dall’amministrazione procedente (“PARERI
FACOLTATIVI”) per la decisione finale;
 l’amministrazione procedente può in ogni caso prescindere dall’acquisizione dei pareri e
concludere il procedimento ove i pareri non vengano resi;
 questa possibilità viene meno in relazione a quei pareri obbligatori in cui devono essere
espresse “valutazioni tecniche”, nel qual caso l’amministrazione procedente deve richiedere
l’intervento di altre pubbliche amministrazioni;
 la possibilità di prescindere dai pareri obbligatori richiesti viene meno quando i pareri
devono essere resi dalle amministrazioni preposte alla “tutela ambientale, paesaggistica,
territoriale e della salute dei cittadini”; in questi casi non solo l’amministrazione procedente
deve necessariamente acquisire il parere, ma questo deve essere necessariamente reso dalle
amministrazioni competenti;
 il termine entro cui il parere obbligatorio deve essere rilasciato è fissato in 20 giorni e,
pertanto, il termine per la conclusione del procedimento è sospeso fino al rilascio del parere
(quindi per un periodo massimo di 20 giorni);
 il termine per il rilascio del parere è sospeso quando la P.A. a cui è stato richiesto manifesta
l’esigenza di acquisire altri dati ed informazioni;
 dal momento in cui tali esigenze sono soddisfatte, quest’ultimo deve essere reso entro 15
giorni;
 pertanto, il termine per la conclusione del procedimento resta sospeso per l’ulteriore tempo
necessario a soddisfare le esigenze istruttorie e per un massimo di ulteriori 15 giorni;
 il termine per il rilascio un parere che deve essere obbligatoriamente richiesto in virtù di
“disposizioni di legge e di regolamento” e che esprime “valutazioni tecniche”, è fissato in un
periodo massimo di 90 giorni e, quindi, il termine per la conclusione del procedimento è
sospeso fino al rilascio del parere e comunque per un periodo massimo di 90 giorni.
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Quindi sono garantite sia le esigenze di accuratezza necessarie per adottare una decisione corretta,
sia le esigenze di tempestività dell’azione amministrativa. Infine la presenza della «CLAUSOLA DI
SALVAGUARDIA» (che esclude in determinati casi la possibilità per l’amministrazione
procedente di prescindere dall’acquisizione dei pareri) conferisce un particolare status ad alcuni
interessi pubblici : quelli attinenti all’ambiente, al paesaggio, al territorio e alla salute dei cittadini,
la cui tutela non può essere in alcun modo dimidiata (= dimezzata) per soddisfare altre ragioni (ad
esempio quelle di celere conclusione dei procedimenti).
I pareri si distinguono in OBBLIGATORI e FACOLTATIVI. I primi possono anche essere distinti
in “pareri vincolanti” (quando non possono essere disattesi dall’amministrazione procedente) e
“non vincolanti” (quando questa può discostarsene).
Il “parere vincolante” imprime un indirizzo preciso alla decisione che l’amministrazione dovrà
adottare a conclusione del procedimento. Quindi esso possiede un’autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario della decisione e, pertanto, ove il parere sia viziato esso, pur essendo
un atto formalmente procedimentale, potrà essere autonomamente impugnato. Quando invece il
parere non è vincolante, la P.A. (sia che si tratti di parere obbligatorio che facoltativo) può
discostarsene ai fini della decisione finale. Tuttavia essa deve dare una motivazione nel
provvedimento delle ragioni che giustificano una decisione contraria alle valutazioni espresse nel
parere, pena l’“illegittimità del provvedimento”. Il parere non vincolante, quand’anche affetto da
vizi di legittimità, è un atto endoprocedimentale nella forma e nella sostanza : potendo infatti
l’amministrazione procedente discostarsi dal parere, esso non ha un’autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario. Pertanto il vizio potrà essere fatto valere solo con l’impugnazione
della decisione conclusiva.
L’attività di consulenza è attivata previa richiesta dell’amministrazione procedente. Ma è possibile
che le amministrazioni, diverse da quella procedente, autonomamente decidano di esprimere la
propria posizione su circostanze rilevanti presenti nel procedimento. Infatti ogni P.A. titolare di un
interesse pubblico coinvolto in un procedimento amministrativo può, ai sensi dell'art. 9, 1°comma
della L. 241 / 1990, intervenire nel procedimento ed esercitare le pretese riconosciute dall’art. 10.

10. La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento


dell’istanza. La L. 15 / 2005 ha introdotto, nell’originario corpo della L. 241 / 1990 l’art. 10-
bis. Ai sensi di questo articolo, “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l’organo competente, prima di adottare il provvedimento di diniego, comunica
tempestivamente a coloro che hanno determinato l’avvio del procedimento con la propria istanza i
motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza. Entro 10 giorni dal ricevimento della
comunicazione i destinatari hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni,
eventualmente corredate da documenti. La comunicazione interrompe i termini per la conclusione
del procedimento, che iniziano nuovamente a decorrere dalla scadenza del termine di 10 giorni.
Dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni è data ragione nella motivazione del
provvedimento finale. Queste disposizioni non si applicano alle procedure concorsuali e ai
procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte ”. Infine,
l’art. 10-bis stabilisce che «Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento
della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione».
La norma opera solo nei procedimenti aperti con istanza di parte : si tratta, dunque, di procedimenti
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che, ove conclusi con un provvedimento positivo per il destinatario, ampliano la sua sfera giuridica.
Tuttavia dall’applicazione della norma sono esclusi i “procedimenti concorsuali”, poichè la
partecipazione agli stessi potrebbe coinvolgere un alto numero di soggetti, con un conseguente
aggravio del procedimento e un ritardo quanto alla sua conclusione. Sono anche esclusi dal suo
campo di applicazione i “procedimenti in materia previdenziale e assistenziale” (in tal caso, però,
l’esclusione non appare affatto giustificata).
La ratio della norma è chiara : essa garantisce ai destinatari degli effetti del provvedimento
un’ulteriore fase di contraddittorio scritto con la P.A. Quando quest’ulteriore fase si innesta, però,
non solo la fase istruttoria può dirsi già conclusa, ma anche la fase della decisione. Infatti la P.A.
ha già deciso di non poter accogliere l’istanza. Quindi la funzione di questo ulteriore momento di
partecipazione è di tipo difensivo : al privato infatti viene riconosciuta la possibilità di confutare e
contestare una proposta di provvedimento negativo con la presentazione di apposite asserzioni
miranti a far rilevare l’ILLEGITTIMITA’ DELLA DECISIONE in relazione a qualsiasi profilo
rilevante (l’accertamento del fatto, la ponderazione degli interessi, l’individuazione delle norme
regolative della fattispecie e la loro corretta interpretazione) e a indurre la P.A. ad assumere una
decisione diversa.
La P.A., ove ritenga di non poter accogliere le argomentazioni offerte dal privato (e dunque di non
dover modificare la decisione di rigetto), dovrà motivare la propria posizione.
Inoltre il “PREAVVISO DI DINIEGO” è un atto endoprocedimentale, privo di autonoma capacità
lesiva della sfera giuridica del destinatario, poichè la P.A. potrebbe decidere diversamente da
quanto comunicato e, quindi, non è oggetto di autonoma impugnazione.
Nel caso di omissione del preavviso di diniego la conseguenza dovrebbe essere l’“illegittimità del
provvedimento finale”, ma secondo una parte della giurisprudenza all’art. 10-bis potrebbe applicarsi
in via estensiva l’art. 21-octies, 2°comma (che si riferisce alla “comunicazione di avvio del
procedimento”) : ne deriverebbe che il provvedimento di diniego non sarebbe suscettibile di
annullamento ove la P.A. dimostri in giudizio che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Questa conclusione, però, non sembra si possa accogliere poiché,
essendo l’art. 10-bis una norma posta a tutela del privato, la mancata comunicazione all’interessato
determinerà inevitabilmente l’“illegittimità del provvedimento finale di diniego”.

11. La conclusione del procedimento attraverso l’adozione del


provvedimento. Completata l’istruttoria procedimentale, “l’amministrazione deve decidere
e formalizzare la decisione in un provvedimento amministrativo espresso”. Tale dovere è previsto
dall’art. 2, 1° comma della L. 241 / 1990. Lo svolgimento dell’iter procedimentale (dall’avvio fino
all’adozione del provvedimento) deve essere contenuto in un preciso limite di tempo, limite che
“può essere determinato dalle stesse amministrazioni statali in misura non superiore ai 90 giorni ” e
che “può essere aumentato fino a un massimo di 180 giorni nei casi in cui ciò risulti indispensabile
a causa della natura degli interessi pubblici tutelati o della complessità del procedimento”. In
mancanza di una siffatta determinazione, l’art. 2 prevede che “i procedimenti amministrativi
debbano concludersi entro 30 giorni”. “I termini per la conclusione del procedimento decorrono
dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento dell’istanza di parte”; tali termini “possono
essere sospesi per una sola volta e per un periodo non superiore a 30 giorni qualora sia necessario
acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già
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in possesso dell’amministrazione”.
Nell’art. 2 della L. 241 / 1990 è dunque definito un vero e proprio OBBLIGO per la pubblica
amministrazione DI PROCEDERE E DI PROVVEDERE CON UN PROVVEDIMENTO
ESPRESSO. La norma è la specificazione del “principio della doverosità dell’esercizio della
funzione amministrativa”.
L’obbligo di procedere e poi di provvedere di cui all’art. 2 subisce, però, delle eccezioni. La
giurisprudenza amministrativa infatti ha affermato che la P.A. non è tenuta a dare corso al
procedimento (e ad adottare il provvedimento) : 1) in presenza di reiterate richieste aventi lo stesso
contenuto, qualora sia stata già adottata rispetto al caso concreto un precedente provvedimento
inoppugnato (= non impugnato) e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di
diritto; 2) in presenza di domande manifestamente assurde o infondate; 3) in presenza di domande
illegali.
Inoltre la P.A. può concludere il procedimento con un c.d. “PROVVEDIMENTO IN FORMA
SEMPLIFICATA” (cioè un provvedimento la cui motivazione consiste in un sintetico riferimento al
punto di fatto o di diritto risolutivo): ciò quando ravvisi la manifesta irricevibilità, inammissibilità,
improcedibilità o infondatezza della domanda.
Ma cosa accade se la P.A. non rispetta il termine per la conclusione del procedimento ? La P.A. non
decade dalla possibilità di esercitare il potere, stante in vigore il principio dell’“inesauribilità
dell’esercizio della funzione amministrativa”. La decadenza può determinarsi solo ove una specifica
disposizione di legge la preveda. Tuttavia, ai sensi dell’art. 2-bis, “le pubbliche amministrazioni
sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato per l’inosservanza dolosa o colposa del
termine”. Inoltre l’art. 2-bis ha previsto anche che, “in caso di inosservanza del termine di
conclusione del procedimento ad istanza di parte, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per
mero ritardo” : le somme corrisposte a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.

12. Il silenzio inadempimento. Può capitare che, davanti all’istanza di un privato, la


P.A. non dia corso al procedimento o, pur dandovi corso, non lo porti a termine. Il risultato in
entrambi i casi è lo stesso : il provvedimento finale non viene adottato. Questo fenomeno è detto
“SILENZIO DELLA P.A.”, anche se sarebbe più corretto parlare di inerzia.
Di fronte a questo fenomeno l’ordinamento può prevedere che al silenzio sia attribuito, decorso il
termine per la conclusione del procedimento, o il significato di assenso o di diniego dell’istanza. In
questo caso si dice che “il silenzio è significativo per effetto di una specifica previsione legislativa”.
Quindi dall’inerzia della P.A. vengono fatti discendere effetti giuridici di accoglimento o di diniego
dell’istanza, quegli stessi effetti che scaturirebbero dall’adozione di un provvedimento espresso (ed
è una scelta operata a livello legislativo). Quando però l’inerzia della P.A. non viene qualificata
dalla legge nè termini di assenso che di diniego, si determina una situazione particolarmente grave,
perché l’istanza del privato resta inevasa (= pratica non sbrigata, tenuta in sospeso). In tal caso si
parla di “SILENZIO INADEMPIMENTO” per sottolineare il fatto che la P.A., pur in presenza di
un’istanza del privato (che vale come atto di apertura del procedimento) viene meno all’ “obbligo di
svolgere il procedimento e di concluderlo entro il termine con un provvedimento espresso”.
Il fenomeno determina un pregiudizio per il privato per vari motivi : 1) lo mantiene in una
situazione di incertezza. 2) Gli impedisce di realizzare quanto si propone di fare, nel caso in cui
versi in una situazione che legittima l’adozione di un provvedimento di accoglimento dell’istanza
(si pensi a un imprenditore che chieda un’autorizzazione per svolgere un’attività commerciale che
non può essere intrapresa senza l’assenso della P.A. Se a fronte dell’istanza il procedimento non
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viene concluso, l’imprenditore non sa se potrà avviare o meno l’attività. Se il richiedente è in


possesso di tutti i requisiti per ottenere l’autorizzazione, la mancata adozione di un provvedimento
di accoglimento dell’istanza è lesiva della sua posizione giuridica e può produrre un danno
patrimoniale). 3) Infine può verificarsi il caso in cui, in presenza dell’inerzia, venga modificato il
quadro normativo prevedendo un ulteriore requisito per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale
che il soggetto non possiede. In tal caso, la sopravvenienza normativa impedisce (in virtù del
principio tempus regit actum) che la P.A. possa, sia pure in ritardo, adottare un provvedimento di
accoglimento dell’istanza. Ma ciò non si sarebbe verificato se la P.A. avesse concluso il
procedimento nel termine.
In definitiva, il SILENZIO INADEMPIMENTO è una disfunzione particolarmente grave poiché
comporta tanto la violazione da parte della P.A. dell’ “obbligo di procedere e di provvedere",
quanto la lesione della situazione giuridica del privato.
Per dare una soluzione al problema, l’art. 31 del “codice del processo amministrativo” (rubricato
“azione avverso il silenzio”) al 1°comma prescrive che “decorso il termine per la conclusione del
procedimento, il soggetto interessato può chiedere l’accertamento in sede giurisdizionale
dell’obbligo di provvedere”. Ai sensi dell’art. 31, 2°comma, “l’azione può essere proposta finchè
dura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per la conclusione
del procedimento. In ogni caso (cioè anche dopo la scadenza di un anno) resta salva la
riproponibilità dell’istanza del privato alla pubblica amministrazione”.
Tuttavia, il giudice amministrativo può pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza solo quando si
tratti di un’attività vincolata o quando non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dalla
pubblica amministrazione.
Al di fuori di questi casi, la tutela del privato nei confronti del silenzio si realizza con
l’accertamento dell’inadempimento e la condanna dell’amministrazione a concludere il
procedimento con un provvedimento espresso. In tal caso, resta impregiudicato il contenuto del
provvedimento, nel senso che esso può essere sia di accoglimento che di diniego dell’istanza,
poichè la decisione dipende da valutazioni discrezionali della P.A. Naturalmente, ove il privato
ritenga illegittima la decisione finale, potrà sempre rivolgersi al giudice amministrativo non
attraverso l’azione (speciale) contro il silenzio, ma impugnando il provvedimento illegittimo con il
rito ordinario. Inoltre, dinanzi al silenzio inadempimento il privato può anche chiedere la tutela
risarcitoria a ristoro del danno ingiusto subito : ciò è confermato dal fatto che l’art. 30 del “codice
del processo amministrativo” dispone che il risarcimento può essere riconosciuto non solo nel caso
in cui l’attività amministrativa risulti essere illegittima, ma anche qualora la stessa manchi del tutto
(ossia proprio nel caso di silenzio inadempimento). In tal caso si parla di DANNO DA RITARDO.

TEMPUS REGIT ACTUM : (= il tempo regola l’azione) : l’atto è soggetto alla disciplina vigente al momento del suo
compimento. Sarebbe il “principio di irretroattività”.

-CAPITOLO 4. LA CONFERENZA DI SERVIZI-


SEZIONE I – NATURA GIURIDICA
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1.La conferenza di servizi: genesi della figura. La L. 241 / 1990 include tra gli
strumenti di «semplificazione» un istituto che riguarda le modalità di svolgimento dell’attività
amministrativa : la “CONFERENZA DI SERVIZI”. Essa ha assunto un rilievo crescente, tanto che
il legislatore ha dovuto rivederne più volte la disciplina per correggerne le imperfezioni : ben 10
interventi di riforma hanno infatti interessato la disciplina della conferenza a partire dal 1990. La L.
241 / 1990, quasi a sancire l’importanza dell’istituto, dedica oggi alla conferenza di servizi ben 5
articoli (artt. 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies).
L’espressione scelta dal legislatore, «CONFERENZA DI SERVIZI», fa riferimento alla valutazione
contestuale di più interessi pubblici coinvolti nella soluzione di un problema amministrativo
attraverso una «riunione di persone competenti a trattare il problema» (organi o delegati di
organi). Si pensi, ad esempio, al procedimento di “pianificazione urbanistica”, che tocca tutti gli
interessi pubblici che gravitano sul territorio (ambientali, culturali, attinenti alla viabilità, ai
trasporti, ecc.) : in questo, come in altri casi, la soluzione deve essere trovata tramite una riunione in
cui sono chiamate a partecipare tutte le amministrazioni interessate (rappresentate a loro volta da
persone fisiche deputate a trattare la questione). Il termine “SERVIZI” si riferisce a «strutture
organizzative di diversa dimensione e di diverso livello, dai semplici uffici ad amministrazioni
prese nella loro unitarietà». La disciplina della conferenza di servizi contempla, infatti, sia
“conferenze tra uffici della stessa amministrazione” sia “conferenze tra (organi di) amministrazioni
diverse”.
La conferenza di servizi si affermò inizialmente nella prassi (in particolare nell’ambito dei
«procedimenti di formazione e approvazione dei piani urbanistici») : le parti del procedimento
confrontavano le rispettive posizioni e, anche quando non si raggiungeva un’intesa, la conferenza
era utile, perché serviva a mettere in evidenza i problemi posti sul tavolo conferenziale. Alcune
ipotesi di conferenze di servizi erano contemplate, però, anche dalla legge.
Fino agli anni '80, però, la dottrina non aveva offerto particolari approfondimenti. Solo a partire
dalla seconda metà degli anni '80 si registra un impiego consistente della figura e un suo «rilancio»
da parte del legislatore, giacchè la conferenza fu tipizzata in molte “leggi speciali”. Così la dottrina
finì per sposare l’idea secondo cui la “conferenza di servizi” dovesse essere usata per far fronte ad
opere ed interventi di natura eccezionale e urgente.
L’originalità dell’istituto fece nascere un intenso dibattito sul problema della sua NATURA
GIURIDICA : la dottrina ha oscillato tra la posizione che qualificava la conferenza come uno
strumento avente una rilevanza sul piano delle strutture organizzative (: essa fu assimilata agli
“organi collegiali”) e la posizione che la qualificava come una mera “riunione di organi che
collaborano tra loro per coordinare le rispettive azioni”, senza, però, dar vita ad un organismo
ulteriore, dotato di una separata soggettività.
Furono enfatizzate le finalità di snellimento e accelerazione dell’istituto (al punto da far ritenere che
la conferenza di servizi fosse uno strumento sostitutivo del procedimento amministrativo e tale da
escludere, insieme al procedimento, anche la partecipazione dei privati). Parte della dottrina, invece,
facendo leva sull’accostamento tra “conferenza di servizi” e “organo collegiale”, aveva sostenuto
che la conferenza fosse una forma particolare di collegio e che, di conseguenza, lo svolgimento dei
lavori della conferenza portasse all’adozione di un atto collegiale, imputabile non alle
amministrazioni che esprimono in conferenza il loro assenso, ma alla conferenza, intesa come
“organo autonomo”, cui andrebbe riconosciuta in sede processuale un’autonoma legittimazione
passiva.

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Con l’introduzione della disciplina della conferenza di servizi nella L. 241 / 1990, la
CONFERENZA DI SERVIZI assurge ad “istituto di carattere generale dell’attività amministrativa”.
Tuttavia, la disciplina originaria di cui alla L. 241 / 1990 era scarna e incompleta, concentrata in un
solo articolo (l’art. 14) in cui era disegnato un modello «puro» di conferenza di servizi : questa era
configurata come un “modulo facoltativo di collaborazione volontaria tra amministrazioni”, in cui
le decisioni potevano essere «concordate» solo all’UNANIMITA’ dei partecipanti – e in cui, quindi,
la facoltà delle amministrazioni invitate alla conferenza di dissentire (motivatamente) dalla
proposta di decisione dell’amministrazione procedente si risolveva in un vero e proprio “potere di
veto” in capo a ciascuna delle amministrazioni partecipanti -.
L’art. 14 della L. 241 / 1990, nella sua prima formulazione, così prevedeva : «1. Qualora sia
opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo, l’amministrazione procedente indice una conferenza di servizi. 2. La conferenza
può essere indetta anche quando l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti,
nulla osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche. 3. Si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione che, regolarmente convocata, non abbia partecipato alla conferenza o vi abbia
partecipato tramite rappresentanti privi della competenza ad esprimerne definitivamente la volontà,
salvo che essa non comunichi all’amministrazione procedente il proprio motivato dissenso entro 20
giorni dalla conferenza o dalla data di ricevimento della comunicazione delle determinazioni
adottate. 4. Le disposizioni di cui al 3°comma non si applicano alle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e alla salute dei cittadini».
Il legislatore ha poi apportato nel 1993 alcune modifiche al testo originario della legge, che però
hanno complicato ulteriormente la materia : 1) da un lato, l’assunzione della decisione in base al
criterio dell’UNANIMITA’ fu disegnata come un’ipotesi solo eventuale; 2) dall’altro fu
riconosciuto in capo al Governo un POTERE SOSTITUTIVO, azionabile «qualora nella conferenza
fosse prevista l’unanimità per la decisione e questa non fosse raggiunta».
*CONCERTO = accordo.

*NULLAOSTA = permesso per compiere un’attività.

*POTERE DI VETO = potere di impedire che venga presa una decisione.

2.L’evoluzione della disciplina giuridica. Tali circostanze hanno ispirato le


riforme varate nel 1997 e nel 2000. La ratio che lega i vari interventi riformatori è la ricerca di un
contemperamento tra esigenze contrapposte : evitare il potere di veto, per favorire il
raggiungimento di un esito positivo della conferenza di servizi, e salvaguardare al contempo il
principio dell’attenta valutazione comparativa degli interessi. La L. 127 / 1997 (la c.d. legge
Bassanini-bis) rappresentò il primo vero tentativo di riforma organica della disciplina della
conferenza di servizi. Essa eliminò il riferimento al criterio dell’UNANIMITA’ e disegnò
meccanismi di superamento del dissenso facenti leva su POTERI SOSTITUTIVI spettanti alle
autorità di vertice dell’apparato statale, regionale e locale; disciplinò le fattispecie dell’ASSENZA e
della PARTECIPAZIONE IRREGOLARE; previde per la prima volta la conferenza destinata a
raccogliere «procedimenti reciprocamente connessi», riguardanti «le stesse attività o risultati».
Restavano però delle ambiguità : da una parte, la conferenza di servizi continuava ad essere uno
strumento facoltativo e, dall’altra, i “meccanismi di superamento del dissenso” contemplavano
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poteri sostitutivi non regolati con precisione.


A queste ambiguità diede una concreta risposta la L. 340 / 2000, in cui fu delineato invece un nuovo
assetto complessivo dell’istituto : la conferenza di servizi, da strumento di natura eccezionale e di
carattere facoltativo (come era configurato nell’assetto normativo precedente) diventava un modo
ordinario di amministrare, una forma obbligata di esercizio di pubbliche funzioni (in presenza di
vicende procedimentali complesse). A partire dal 2000, inoltre, anche le legislazioni di settore
cominciano ad allinearsi alle indicazioni della L. 241 / 1990.
Il perfezionamento della disciplina dell’istituto non si esaurì però con la L. 340 / 2000 : tale legge
infatti aveva suscitato notevoli difficoltà riguardanti il “meccanismo di superamento dei dissensi”,
delineato dall’art. 14-quater, 2°comma (come riscritto dalla L. 340 / 2000). Tale previsione
(abrogata dalla L. 15 / 2005) così recitava : «Se una o più amministrazioni hanno espresso nella
conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assume
comunque la determinazione conclusiva sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in
conferenza». Nel vecchio art. 14-quater si faceva riferimento alla «MAGGIORANZA» delle
posizioni espresse in conferenza; la dottrina prevalente, però, non vi aveva ravvisato uno sviluppo
della disciplina precedente : i più, cioè, avevano interpretato tale riferimento non come un
presupposto legale per attivare il meccanismo di superamento dei dissensi, ma come
l’individuazione del secco “criterio maggioritario" come regola di adozione delle decisioni
conferenziali, tale da trasformare la conferenza in un “organo collegiale”. Si era così riaperto il
dibattito sulla NATURA GIURIDICA DELLA CONFERENZA, che alla fine degli anni '90 era
ormai orientato verso l’abbandono della tesi dell’organo collegiale e l’accoglimento della
ricostruzione della conferenza come un «modulo procedimentale» e di confronto dialettico tra le
diverse amministrazioni; infatti la conferenza non dà vita a un nuovo organo separato dai singoli
partecipanti, con la conseguenza che l’avviso espresso in conferenza dagli organi delle varie
amministrazioni partecipanti è pur sempre una decisione imputabile alle stesse.
Tuttavia la L. 15 / 2005 e il d.l. 78 / 2010 hanno parzialmente ridisegnato il “meccanismo di
superamento dei dissensi” : infatti l’attuale formulazione dell’art. 14-ter, comma 6-bis della L. 241 /
1990 recita : “All’esito dei lavori della conferenza, l’amministrazione procedente, valutate le
risultanze (= i risultati) della conferenza e considerando le posizioni prevalenti espresse in
conferenza, adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento”.
*MODULO = modello.

*DETERMINAZIONE = decisione.

3. Natura giuridica e funzione dell’istituto. Il problema dell’individuazione


della NATURA GIURIDICA DELLA CONFERENZA condizionava l’intera disciplina dell’istituto
: basti pensare al problema dell’individuazione della natura giuridica della «determinazione
conclusiva» dei lavori della conferenza (atto collegiale, accordo tra amministrazioni, fascio di
decisioni o proposta di provvedimento?). Problema che si riflette sul “regime di imputazione”, “di
impugnazione” e sulla disciplina della “validità della decisione”. A partire dagli anni '90 si è
sottolineato che la conferenza non può essere ricondotta nello schema dell’organo collegiale,
respingendo anche la tesi che configurava la decisione assunta in conferenza come atto unitario
(imputabile alla conferenza in quanto tale, considerata come organo separato e autonomo rispetto

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alle amministrazioni partecipanti) : una simile conclusione, infatti, avrebbe dovuto comportare il
trasferimento delle competenze in capo alla conferenza, cosa esclusa anche dalla giurisprudenza
costituzionale.
Inoltre la conferenza di servizi non si inserisce in nessuna delle tipologie di organi conosciute : non
può essere un organo permanente (data la mancanza in essa del carattere della stabilità), né un
organo temporaneo (per mancanza del carattere della temporaneità); né un organo straordinario
(poichè la sua convocazione è un momento fisiologico, e non eccezionale, dell’attività delle
amministrazioni convocate).
Inoltre, la determinazione conclusiva della conferenza può essere impugnata dalle singole
amministrazioni partecipanti alla conferenza : la conferenza di servizi non è pertanto un organo
collegiale, non è anzi nemmeno un organo.
E allora, abbandonata la prospettiva organicistica, la dottrina aveva ravvisato nella conferenza uno
“strumento funzionale alla conclusione di un accordo tra amministrazioni” : tale soluzione trova
appiglio nell’art. 15 della L. 241 / 1990, dedicato agli «accordi tra amministrazioni», ai sensi del
quale «Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 14, le P.A. possono sempre concludere
accordi per disciplinare lo svolgimento di attività di interesse comune». Tale ricostruzione ha però
mostrato i suoi limiti davanti alla possibilità dell’esito positivo della conferenza anche in caso di
dissensi di alcune amministrazioni partecipanti. Si è così preso atto che se è vero che la conferenza
può sfociare in accordi, è vero anche che, essendo questa un’evenienza non costante, la natura della
conferenza deve essere un’altra.
Così, la dottrina – spostando l’attenzione sull’ “attività che le amministrazioni esprimono nella
conferenza” – ha qualificato la CONFERENZA nei seguenti termini : 1) sotto il profilo strutturale,
la conferenza è uno “strumento procedimentale” : una riunione di uffici diversi o di amministrazioni
diverse in un’unica sede di discussione , senza modificazione di competenze (e senza alcun tipo di
trasferimento di competenze dai singoli partecipanti alla riunione ad una, peraltro inesistente,
struttura collegiale). Le decisioni assunte in conferenza vengono concordate tra le varie
amministrazioni, ma non si fondono in una “deliberazione unitaria”. 2) Sul piano funzionale, essa
è un metodo di coordinamento e raccordo di poteri e competenze : non sostituisce i singoli
procedimenti, ma li raccorda per migliorare la funzionalità dell’attività decisionale della P.A. Essa è
una risposta ai problemi connessi al “pluralismo istituzionale” e alla “frammentazione delle
competenze”. Basti pensare ai rischi comportati dal fatto che la valutazione dei singoli interessi
pubblici sia frammentata in procedimenti diversi e non coordinati tra loro : rischi non solo di
valutazione incompleta e non oggettiva dell’interesse pubblico (poichè ciascuna amministrazione è
portata a dare più peso, nella valutazione comparativa, all’interesse di cui è portatrice), ma anche di
adozione di decisioni tra loro contrastanti.
Così intesa, però, la conferenza apporta una significativa modifica alla tradizionale “regola di
esercizio dei poteri discrezionali” : quella della “necessaria ponderazione degli interessi secondari
in ordine all’interesse primario, affidato alla cura dell’amministrazione procedente” (ricordiamo che
la distinzione tra interesse primario e interessi secondari non è assoluta, ma relativa e varia a
seconda del centro organizzativo considerato : «ciò che per un’autorità è interesse primario, per
un’altra è secondario»). Infatti, quando più poteri discrezionali sono esercitati insieme nella
conferenza, cade la distinzione tra “interessi (pubblici) primari” e “interessi (pubblici) secondari” :
infatti, ogni amministrazione deve considerare, oltre al proprio, anche gli interessi pubblici (sempre

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primari) in cura presso le altre amministrazioni, per raggiungere la decisione che soddisfi nel modo
migliore l’insieme degli interessi pubblici.
*FISIOLOGICO = naturale, normale.

*FUNZIONALITA’ = efficienza.

4. Conferenze procedimentali e operazionali. La L. 241 / 1990 distingue vari


“TIPI” di conferenza di servizi : a) quella dedicata all’esame contestuale di più interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo (art. 14, 1°comma); b) quella per l’acquisizione di
«intese, concerti, nulla osta o assensi di altre amministrazioni» (art. 14, 2°comma); c) la conferenza
avente ad oggetto l’esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi
connessi, riguardanti le stesse attività o risultati (art. 14, 3°comma); d) la “conferenza sull’istanza”
(art. 14, 4°comma); e) la “conferenza preliminare” (art. 14-bis); f) e la “ conferenza in materia di
finanza di progetto”(art. 14-quinquies). Le fattispecie disciplinate dall’art. 14 sono state oggetto di
diverse classificazioni da parte della dottrina : alcuni hanno proposto di ricondurre tutte le
fattispecie a un unico modello, invece altri hanno preferito distinguere tra CONFERENZA
ISTRUTTORIA (ex art. 14, 1°comma) e CONFERENZA DECISORIA (altri commi dell’art. 14) o
tra CONFERENZA INTERNA (di uffici) – si tratta sempre delle ipotesi di cui all’art. 14, 1°comma
- e CONFERENZE ESTERNE (tra amministrazioni) – in tutti gli altri casi regolati dall’art.14.
Queste diverse ricostruzioni fanno leva su criteri di classificazione diversi. La distinzione tra
conferenza istruttoria e decisoria si basa su un “criterio funzionale”, mentre la distinzione tra
conferenza interna ed esterna su un “criterio strutturale”. Ove si ritenga, però, che sotto il profilo
funzionale non ci siano differenze tra le varie conferenze (poiché tutte le conferenze riguardano la
vicenda decisionale della “valutazione comparativa degli interessi”), si appanna la validità del
criterio classificatorio funzionale. La classificazione più esauriente è pertanto quella “strutturale” tra
conferenze di uffici e conferenze fra amministrazioni. In questa sede, però, si propone l’adozione di
un diverso “criterio strutturale”, in base a cui possiamo distinguere tra CONFERENZA
PROCEDIMENTALE (quando la conferenza inerisce ad un “singolo procedimento”) e
CONFERENZE OPERAZIONALI (quando la conferenza riguarda un’“operazione amministrativa
complessa”).
Infatti, la conferenza di servizi è un istituto sia di “semplificazione” che di “partecipazione” al
singolo procedimento (art. 14, 1°comma) o all’operazione amministrativa (art. 14, comma 2° e ss.).
Se si considera il rapporto di reciproca implicazione fra il Capo 3° (dedicato alla “partecipazione”)
e il Capo 4° (dedicato alla “semplificazione amministrativa”) della L. 241 / 1990, emerge che :

 La “CONFERENZA PROCEDIMENTALE” (disciplinata dall’art. 14, 1°comma) è un


modulo predisposto per la contestuale valutazione di più interessi pubblici riguardanti un
“singolo procedimento amministrativo” e affidati alla cura di un’ “unica autorità
amministrativa”. L’unica amministrazione procedente è di fronte a un bivio : acquisire gli
interessi attraverso la via ordinaria (avvalendosi degli strumenti previsti nel Capo 3°) o,
quando ravvisi che il ventaglio degli interessi da acquisire sia tale da appesantire molto
l’attività amministrativa, procedere attraverso la conferenza di servizi, optando per un
modulo procedimentale caratterizzato da snellezza e semplificazione. In questo caso, resta
immutata in capo all’amministrazione procedente sia la “titolarità del potere decisionale”
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che l’“unicità del procedimento amministrativo” : l’amministrazione procedente,


nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, individuerà l’interesse pubblico da perseguire in
concreto, effettuando un raffronto tra l’interesse primario (quello che ha in cura) e gli
interessi secondari (pubblici e privati) coinvolti nella questione amministrativa.

 Le “CONFERENZE OPERAZIONALI” si caratterizzano per la presenza di più


amministrazioni, più procedimenti e poteri e più interessi pubblici (primari) coinvolti nella
soluzione del problema. A tal proposito, particolare importanza assumono le conferenze
«operazionali» di cui all’art. 14, 3°comma, che presentano rispetto alle altre caratteri
inediti : esse sono volte a raccordare più procedimenti amministrativi connessi (in quanto
riguardanti le stesse attività o risultati). Di conseguenza, in esse cade la distinzione fra
INTERESSE PRIMARIO e INTERESSI SECONDARI : cambia pertanto la “regola di
esercizio dei poteri discrezionali”, poiché lo scopo che deve essere perseguito è quello di
individuare l’interesse concreto da tutelare (attraverso l’unificazione di tutti i procedimenti
interessati). A differenza della conferenza procedimentale, poi, le conferenze operazionali –
essendo caratterizzate da una contestuale presenza di più amministrazioni pubbliche - si
basano sul CRITERIO DELLA CODECISIONE : ogni amministrazione partecipa ai
procedimenti delle altre amministrazioni aprendo, al contempo, le porte del proprio
procedimento alle altre amministrazioni. Le amministrazioni determinano l’assetto
complessivo degli interessi : si ha così un fenomeno di vera e propria CODECISIONE.
La L. 241 / 1990 rende l’uso delle conferenze operazionali tendenzialmente obbligatorio :
ciò si desume dall’art. 14, 2°comma, che prevede l’obbligatorietà della conferenza (“la
conferenza è sempre indetta” = cioè deve essere sempre indetta) quando, data la complessità
della vicenda procedimentale, l’amministrazione procedente non abbia ottenuto «intese,
concerti, nullaosta o assensi» entro 30 giorni dall’invio della relativa richiesta. Questa
previsione è molto importante, perché qualifica la conferenza come il metodo che
l’amministrazione pubblica è tenuta a seguire in presenza di casi complessi. Di fronte a
“decisioni di routine” l’amministrazione procederà secondo il procedimento tradizionale,
isolato. Invece, in presenza di “decisioni complesse" l’amministrazione eserciterà i poteri
amministrativi in conferenza di servizi. Il legislatore ha individuato nella possibilità di
assumere le decisioni (separatamente) in 30 giorni (previsto per l’acquisizione delle intese,
concerti, ecc.) il criterio normativo di distinzione tra decisioni di routine e decisioni
complesse.

Conferenza di servizi e partecipazione dei privati. L’istituto della


CONFERENZA DI SERVIZI è stato ritenuto, in passato, alternativo al procedimento e, quindi, tale
da escludere anche la partecipazione dei privati. Alla base di tale lettura c’era l’idea per cui gli
“strumenti di semplificazione” (in particolare la conferenza) fossero rivolti a realizzare
l’accelerazione, lo snellimento e l’alleggerimento dell’azione amministrativa. Ciò aveva condotto la
dottrina a concludere che il ricorso alla conferenza comportasse la legittima esclusione della
partecipazione dei privati al procedimento.
Gli approfondimenti successivi hanno evidenziato che fra gli “istituti di partecipazione” e “quelli di
semplificazione” c’è un rapporto di reciproco condizionamento e che la funzione della conferenza

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sta piuttosto nella sua capacità di «razionalizzare l’attività amministrativa» in un contesto


caratterizzato da più istituzioni e più interessi pubblici e privati. Non c’è quindi alcuna
incompatibilità con la partecipazione. Si è chiarito che la partecipazione dei privati al procedimento
non è affatto esclusa, ma deve aver luogo prima che, nella riunione conclusiva, la conferenza
svolga la sua funzione essenziale, rivolta alla determinazione dell’assetto di interessi. Questo
chiarimento riposa sull’idea per cui la conferenza di servizi (in quanto riunione di organi
decisionali) sia aperta alla partecipazione di soli soggetti pubblici e che, di conseguenza, essa abbia
“natura decisionale”, riguardando la valutazione comparativa degli interessi. Non sono in contrasto
con tale impostazione quelle previsioni che sembrano aprire la conferenza alla partecipazione dei
privati o quei casi in cui la conferenza è stata estesa anche all’ingresso di organi tecnici o consultivi.
I privati, come anche gli organi tecnici e consultivi, infatti, non partecipano alla conferenza, ma
sono sentiti dalle amministrazioni riunite in conferenza prima del momento decisionale. La
presenza di soggetti privati ai lavori conferenziali, già prevista prima da alcune discipline settoriali,
è prevista ora espressamente dalla L. 241 / 1990. La possibilità di intervento di soggetti privati o di
organi non decisionali non incide sulla “natura decisoria della conferenza dei servizi”, stante la
precisazione sulla mancanza di diritto di voto. Essa è prevista, piuttosto, per consentire alle
“amministrazioni competenti ad adottare la decisione” di acquisire in tempo reale elementi tecnici
non emersi in fase istruttoria.

5. La c.d. conferenza sull’istanza. La c.d. “CONFERENZA SULL’ISTANZA” è


disciplinata dall’art. 14, 4°comma ( “Quando l’attività del privato è subordinata ad atti di consenso
di competenza di più amministrazioni pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche su
richiesta dell’interessato, dall’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento
finale”). Essa non è un “modello autonomo di conferenza”, ma solo una particolare modalità di
indizione della conferenza, che ricorre quando il privato si rivolge alla P.A. per ottenere «atti di
consenso di competenza di più amministrazioni» necessari per svolgere un’attività.

6. La conferenza di servizi preliminare. La conferenza di servizi «SU ISTANZE


O PROGETTI PRELIMINARI» è disciplinata nell’art. 14-bis della L. 241 / 1990. Essa trova
applicazione non solo nel settore della “realizzazione di opere pubbliche” e “di interesse pubblico”,
ma anche in tutte le fattispecie in cui l’amministrazione è chiamata a decidere su «progetti di
particolare complessità». La “conferenza preliminare” permette di evitare aggravi inutili e sprechi
di risorse, specie in relazione ad attività che richiedano ingenti investimenti economici, offrendo
agli interessati la possibilità di «consultare» l’amministrazione prima di presentare un progetto
definitivo e rischiare di incorrere in un diniego formale. La particolarità di questo tipo di conferenza
sta nel fatto che essa si conclude non con l’adozione di una decisione definitiva, ma con l’adozione
di uno schema di decisione : in tale conferenza, infatti, tutte le amministrazioni coinvolte nella
realizzazione del progetto devono indicare le “condizioni che consentirebbero di ottenere il loro
assenso definitivo alla realizzazione dell’intervento”, con la conseguente impossibilità di esprimere
successivamente ragioni di dissenso non emerse in sede di conferenza preliminare e non legate a
fatti sopravvenuti. Ciò serve a tutelare l’“affidamento dei privati”.
Il ricorso alla conferenza preliminare non è più subordinato, come in passato, alla presentazione del
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(più costoso) “progetto preliminare” : è sufficiente uno «studio di fattibilità». Il ricorso alla
conferenza preliminare è stato reso così meno oneroso per il privato dal punto di vista economico.

Art. 14 (Conferenza di servizi)


1. Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi.

2. La conferenza di servizi è sempre indetta quando l’amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla
osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga entro 30 giorni da quando l'amministrazione
competente abbia ricevuta la richiesta.

3. La conferenza di servizi può essere convocata anche per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più
procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o risultati.

4. Quando l’attività del privato sia subordinata ad atti di consenso di competenza di più amministrazioni pubbliche, la
conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell’interessato, dall’amministrazione competente per l’adozione
del provvedimento finale.

Art. 14-bis (Conferenza di servizi preliminare)


1. La conferenza di servizi può essere convocata per progetti di particolare complessità su motivata richiesta
dell'interessato, documentata (in assenza di un progetto preliminare) da uno studio di fattibilità, prima della
presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, per verificare quali siano le condizioni per ottenere i necessari
atti di consenso. In tale caso la conferenza si pronuncia entro 30 giorni dalla data della richiesta e i relativi costi sono a
carico del richiedente.

SEZIONE II – IL FUNZIONAMENTO
1.La disciplina dei lavori della conferenza di servizi. La versione originaria
della L. 241 / 1990 non disciplinava gli aspetti procedurali della conferenza : non erano fissati tempi
di convocazione, tempi di conclusione dei lavori, schemi di lavoro; non era chiaro il regime
giuridico della partecipazione irregolare (cioè la partecipazione effettuata «tramite rappresentanti
privi della competenza ad esprimere definitivamente la volontà delle amministrazioni partecipanti»)
e dell’assenza; non era disciplinato il dissenso. Le varie riforme poi hanno gradualmente colmato le
lacune. L’art. 14-ter della L. 241 / 1990, dedicato ai «lavori della conferenza di servizi», racchiude
ora tutte le previsioni sullo svolgimento della conferenza; l’art. 14-quater è dedicato, invece, agli
«effetti del dissenso espresso in conferenza». Tuttavia la ripartizione di contenuti suggerita dalla
rubricazione dei due articoli non va intesa in modo rigido : nell’art. 14-quater troviamo infatti anche
alcune previsioni sui lavori della conferenza e nell’art. 14-ter troviamo alcune regole sugli effetti
del dissenso espresso in conferenza.
L’art. 14-ter sancisce, in primo luogo, il DOVERE DELLE AMMINISTRAZIONI CONVOCATE
DI PARTECIPARE ALLA CONFERENZA, prevedendo che la «mancata partecipazione» è
rilevante «ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare o amministrativa, nonché ai fini
dell’attribuzione della retribuzione di risultato», oltre che ai fini della responsabilità per danno da
ritardo. Il dovere di partecipazione è un dovere di partecipazione “regolare” : ossia per mezzo di
soggetti (organi o delegati di organi) legittimati ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell’amministrazione rappresentata sulle decisioni di sua competenza.
L’art. 14-ter disciplina in modo preciso i tempi e le modalità di indizione e di convocazione della
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conferenza : «la prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni o, in caso di
particolare complessità dell’istruttoria, entro 30 giorni dalla data di indizione» (1°comma). E’ posta
così una chiara distinzione tra il momento dell’indizione e quello della convocazione della
conferenza (contrariamente a quanto accadeva in base alla disciplina previgente, in cui si stabiliva
un termine per l’«indizione», ma non per la convocazione) : si vuole così evitare che l’inizio dei
lavori conferenziali possa essere rinviato sine die, cioè a tempo indeterminato.
Il 2°comma contempla la possibilità di concordare, per lo svolgimento della prima riunione della
conferenza, una data diversa da quella fissata dall’amministrazione procedente : si vuole così
evitare l’eventualità di «assenze» causate dall’impossibilità di partecipare alla conferenza.
Per quanto riguarda i tempi, l’art. 14-ter stabilisce che “i lavori della conferenza non possono durare
più di 90 giorni” e regola inoltre il rapporto tra la procedura di valutazione di impatto ambientale
(v.i.a.) e la conferenza di servizi, prevedendo che “il termine di conclusione dei lavori della
conferenza resta sospeso, per un massimo di 90 giorni, nei casi in cui debba essere acquisita al
procedimento la v.i.a.”. Inoltre «per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione competente
al rilascio di provvedimenti in materia ambientale può far eseguire tutte le attività tecnico-istruttorie
non ancora eseguite anche da enti pubblici dotati di capacità tecnica equipollente o da istituti
universitari ».

La conferenza di servizi telematica. L’art. 14-ter, 1°comma della L. 241 / 1990


prevede che «la conferenza di servizi può svolgersi in via telematica». Si deve alla L. 69 / 2009
l’introduzione della possibilità di avvalersi degli strumenti telematici in seno alla conferenza,
aprendo così le porte alla “CONFERENZA TELEMATICA”. Ma anche prima non era preclusa la
possibilità di avvalersi dello strumento telematico : ciò anzi era già previsto dall’art. 14-ter,
2°comma come mezzo per la convocazione delle amministrazioni. Inoltre la L. 15 / 2005 aveva già
introdotto nella L. 241 / 1990 l’art. 3-bis, rubricato «uso della telematica», stabilendo che «per
conseguire una maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano
l’uso della telematica nei rapporti tra loro e nei rapporti tra le amministrazioni e i privati». Tali
disposizioni si inseriscono nel processo di informatizzazione della P.A. Si evitano così gli
spostamenti dei «rappresentanti» delle amministrazioni coinvolte, attraverso la predisposizione di
un «fascicolo informatico», contenente tutti i documenti istruttori che riguardano i lavori
conferenziali.

2. Soggetti legittimati a partecipare alla conferenza di servizi. L’art.


14-ter, 6°comma recita : «Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza attraverso un
unico rappresentante, legittimato dall’organo competente ad esprimere in modo vincolante la
volontà dell’amministrazione su tutte le decisioni di sua competenza».
Il legislatore, quindi, in primo luogo, precisa che alla conferenza di servizi devono partecipare le
AMMINISTRAZIONI CONVOCATE, tramite soggetti (organi o delegati di organi) legittimati
all’adozione della decisione. In secondo luogo, risolve un altro problema : quello dei “LIMITI DI
AMMISSIBILITÀ DELLA DELEGA DA PARTE DELL’ORGANO COMPETENTE” : infatti, le
conferenze tra amministrazioni, pur essendo conferenze tra organi, non precludono la possibilità

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per questi ultimi di delegare altre persone, conferendo loro adeguati poteri.
Inoltre, l’art. 14-ter, 6°comma, - stabilendo che la partecipazione dell’amministrazione alla
conferenza debba avvenire tramite «un unico rappresentante» per «tutte le decisioni di competenza
dell’amministrazione» - risolve un problema quantitativo (relativo cioè al numero dei soggetti che
l’amministrazione convocata deve inviare in conferenza nei casi in cui essa sia chiamata svolgere in
conferenza più competenze e poteri che, se esercitati al di fuori dell’ambito conferenziale,
condurrebbero a una molteplicità di decisioni) : in tali casi l’amministrazione deve essere
rappresentata da un «unico» soggetto munito dagli organi competenti di «tutte» le deleghe
necessarie per l’esercizio della potestà decisionale. Ma da questa disposizione si può ricavare
implicitamente anche che l’art. 14-ter, 6°comma vuole escludere il conferimento di “deleghe
condizionate” (all’assunzione di una decisione predeterminata) o di “deleghe con riserva di
riesame” (della decisione).

3.Modalità alternative di acquisizione degli assensi e disciplina


dell’assenza. Ai sensi dell’art. 14-ter, 7°comma «si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione (comprese quelle preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità,
alla tutela paesaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di
v.i.a., v.a.s. e a.i.a.) il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà
dell’amministrazione rappresentata». Quindi se in conferenza una o più amministrazioni perdono
tempo, restano silenti o non si pronunciano definitivamente né in senso favorevole né in senso
contrario sulla proposta dell’amministrazione procedente, l’esito positivo della conferenza non è
impedito. L’assenso di tali amministrazioni è acquisito per via concludente : il che significa che
l’imputazione della decisione ricade anche su queste amministrazioni.
L’art. 14-ter, 7°comma prende in considerazione solo le “amministrazioni convocate che hanno
partecipato alla conferenza, restando silenti”. Le amministrazioni convocate, «ma risultate assenti»,
tuttavia, sono menzionate nell’art. 14-ter, comma 6-bis, che sancisce l’imputazione anche in capo a
queste dell’assetto di interessi collegato alla determinazione motivata di conclusione del
procedimento. Secondo l’art. 14-ter, comma 6-bis, infatti : è riservata alla sola amministrazione
procedente la competenza ad assumere “la determinazione motivata di conclusione del
procedimento”. Tale determinazione «sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione,
nullaosta o atto di assenso di competenza delle amministrazioni partecipanti o invitate a
partecipare, ma assenti alla conferenza». La fattispecie dell’“assenza” non va però confusa con
quella dell’“AMMINISTRAZIONE PRETERMESSA” : quando un’amministrazione è coinvolta
(dato l’interesse pubblico ad essa affidato in cura) nell’operazione amministrativa, ma
illegittimamente «non è invitata» dall’amministrazione procedente a partecipare alla conferenza.

Art. 14-ter (Lavori della conferenza di servizi)

1. La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni ovvero, in caso di particolare complessità
dell'istruttoria, entro 30 giorni dalla data di indizione.La conferenza di servizi può svolgersi per via telematica.

3. Nella prima riunione della conferenza di servizi le amministrazioni partecipanti determinano il termine per l’adozione
della decisione conclusiva. I lavori della conferenza non possono superare i 90 giorni, salvo quanto previsto dal
4°comma.

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4. Nei casi in cui sia richiesta la VIA, il termine per concludere i lavori resta sospeso, per un massimo di 90 giorni, fino
all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale. Per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione
competente al rilascio dei provvedimenti in materia ambientale può far eseguire anche da altri enti pubblici dotati di
capacità tecnica equipollenti o da istituti universitari tutte le attività tecnico-istruttorie non ancora eseguite.

6. Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza di servizi attraverso un unico rappresentante legittimato,
dall’organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione su tutte le decisioni di
competenza della stessa.

6-bis. All'esito dei lavori della conferenza, l'amministrazione procedente, valutate le specifiche risultanze della
conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede, adotta la determinazione motivata di
conclusione del procedimento che sostituisce a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di
assenso di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti. La
mancata partecipazione alla conferenza o la ritardata o mancata adozione della determinazione conclusiva sono
valutate ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare e amministrativa, nonché ai fini dell'attribuzione della
retribuzione di risultato e della responsabilità per danno da ritardo.

7. Si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione (comprese quelle preposte alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, alla tutela paessaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di
VIA, VAS e AIA) il cui rappresentante, all'esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la
volontà dell'amministrazione rappresentata.

4. I meccanismi di superamento delle ragioni del dissenso.


La versione originaria dell’art. 14 della L. 241 / 1990 aveva adottato un “modello puro di
conferenza”, poiché era previsto che le decisioni che ne scaturivano potevano essere concordate
solo all’unanimità dei partecipanti : di conseguenza, qualora una delle amministrazioni avesse
opposto il proprio dissenso in relazione alla “proposta di decisione dell’amministrazione
procedente”, la conferenza si sarebbe conclusa con esito negativo (c.d. “potere di veto”). Preso atto
di questo inconveniente, allora, il legislatore, attraverso la L. 127 / 1997 (modificativa dell’art. 14),
adottò un “meccanismo di superamento del dissenso” basato sulla sostituzione della determinazione
dell’amministrazione dissenziente con un’altra determinazione, attribuita (nella maggior parte dei
casi) all’amministrazione procedente (in presenza, però, di “dissensi non qualificati”), salva la
possibilità di intervento della competente autorità politica di vertice. Ciò sancì il superamento del
modello «puro» (unanimistico) di conferenza di servizi e la dottrina salutò con favore l’innovazione
legislativa, chiarendo che essa era un meccanismo che consentiva di superare non il dissenso in sé,
ma le ragioni del dissenso. Il “meccanismo di superamento del dissenso” infatti faceva leva
sull’attivazione di un POTERE SOSTITUTIVO.
La possibilità per l’amministrazione «sostituta» di esercitare questi poteri, però, non implicava un
«indebolimento» degli interessi pubblici curati dalle amministrazioni dissenzienti : 1) perché si era
comunque svolta in conferenza la valutazione comparativa degli interessi; 2) perchè «le ragioni del
dissenso» dovevano essere motivate (infatti l’art. 14-quater, 1°comma recita : «il dissenso di uno o
più rappresentanti delle amministrazioni, a pena di inammissibilità, deve essere congruamente
motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non sono oggetto della conferenza e deve
indicare le modifiche progettuali necessarie per l’assenso»); 3) infine, perché comunque
nell’esercizio del potere sostitutivo tali ragioni non potevano essere ignorate, ma solo
«motivatamente superate»; con la conseguenza che, laddove esse non fossero state oggettivamente
superabili, l’amministrazione sostituta non avrebbe potuto adottare la determinazione conclusiva.
Tuttavia, a fronte di tali risvolti positivi, la disciplina del ’97 presentava un grave inconveniente :
non era contemplata alcuna previsione che consentisse di stabilire quale fosse il LIMITE MINIMO
DI ASSENSI necessario per l’attivazione del “meccanismo di superamento dei dissensi”. La
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disciplina allora vigente, infatti, faceva riferimento al dissenso di “una” amministrazione, ma tale
termine era un articolo indeterminativo, e non un aggettivo numerale. Quindi occorreva individuare
un limite minimo di consensi perché l’amministrazione procedente potesse ritenersi investita del
potere sostitutivo : il legislatore, infatti, per evitare il potere di veto delle amministrazioni
dissenzienti e favorire il raggiungimento dell’esito positivo della conferenza era incorso
nell’eccesso opposto : davanti ai dissensi espressi in sede di conferenza dava all’amministrazione
«sostituta» un potere non regolato con precisione (pensiamo al caso limite della determinazione
conclusiva adottata dalla sola amministrazione procedente in presenza del dissenso di tutte le altre
amministrazioni).
La riforma del “meccanismo di superamento dei dissensi” (introdotta dalla L. 340 / 2000) era una
risposta a questo problema: si individuò anche il LIMITE MINIMO DI ASSENSI per l’attivazione
dei poteri sostitutivi dell’amministrazione procedente (e si fissò il limite massimo di dissensi
superabile). Infatti, l’art. 14-quater, 2°comma (previsione introdotta dalla L. 340 / 2000 e poi
abrogata dalla L. 15 / 2005) recitava: «se una o più amministrazioni hanno espresso in conferenza il
proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assume comunque la
determinazione conclusiva in base alla maggioranza delle posizioni espresse in conferenza ». In
dottrina si è evidenziato come il riferimento alla «maggioranza delle posizioni espresse in
conferenza» nell’art. 14-quater, 2°comma non fosse un criterio decisionale , ma un mero fatto
rilevante cui ricollegare l’attivazione dei poteri sostitutivi dell’amministrazione procedente;
viceversa, la presenza di una maggioranza di dissensi impediva l’attivazione di tali poteri e, dunque,
del “meccanismo di superamento dei dissensi”. Pertanto si auspicava una lettura della disciplina
della L. 340 / 2000 che riconoscesse ai MOTIVATI DISSENSI due ruoli : 1) ove i motivati dissensi
siano prevalenti rispetto ai consensi «essi rileveranno formalmente, cioè come elementi che
impediscono il superamento del dissenso; 2) quando i motivati dissensi siano minoritari rispetto ai
consensi, essi avranno anche una rilevanza sostanziale, influendo ciascuno di essi sul contenuto
della determinazione conclusiva : infatti, nell’esercizio dei poteri sostitutivi tali dissensi potranno
essere superati dall’amministrazione procedente, ma solo motivatamente, con la conseguenza che,
laddove essi si mostrino oggettivamente insuperabili, la determinazione conclusiva positiva non
sarà adottata. Si concludeva quindi che la legge non assoggettava l’assunzione delle decisioni al
PRINCIPIO MAGGIORITARIO, ma coniugava DUE CRITERI : uno quantitativo e formale, e
l’altro qualitativo e sostanziale.
Ed è proprio in questi termini che la disciplina attualmente vigente (introdotta grazie alle modifiche
della legge 15 / 2005 e del d.l. 78 / 2010, convertito in L. 122 / 2010) ha accolto tale istituto : infatti
il vigente art. 14-ter, comma 6-bis, recita : «all’esito dei lavori della conferenza, l’amministrazione
procedente, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni
prevalenti espresse in quella sede, adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento». Esso, quindi, prevedendo che la determinazione conclusiva debba essere
«motivata» in relazione alle «specifiche risultanze» della conferenza e alle «posizioni prevalenti in
essa espresse», sancisce il superamento della tesi della “decisione a maggioranza”. Il CRITERIO
DELLA PREVALENZA si riferisce all’importanza delle attribuzioni di ciascuna amministrazione
riguardo alle questioni in oggetto.

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5. I meccanismi di superamento dei dissensi «qualificati». L’art. 14-


quater della L. 241 / 1990 disciplina i meccanismi di superamento dei c.d. «DISSENSI
QUALIFICATI» (cioè quelli che riguardano gli interessi sensibili, a tutela rafforzata e, quindi, non
possono essere superati nella conferenza di servizi). Se sono espressi in conferenza, infatti, la
decisione oggetto della conferenza è rimessa “ad un altro e superiore livello di governo”.
Le riforme degli ultimi anni (a partire dalla L. 15 / 2005) hanno ampliato il novero dei dissensi
«qualificati» in due modi : 1) estendendo la categoria degli «INTERESSI SENSIBILI» (che
comprendeva già quelli relativi alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico e quelli relativi alla tutela della salute) anche a quelli espressi da amministrazioni
preposte alla “pubblica incolumità”; 2) introducendo una disciplina ad hoc per una nuova categoria
di dissensi «qualificati» : quelli espressi (e non necessariamente in relazione a interessi sensibili)
dalle Regioni o dalle Province autonome nelle materie di propria competenza.
La L. 15 / 2005 ha introdotto questa disciplina ad hoc perché all’epoca i dissensi espressi dalle
Regioni in ambiti di competenza costituzionalmente riservata non potevano essere superati col
meccanismo ordinario di superamento dei dissensi (facente perno sui poteri sostitutivi
dell’amministrazione procedente : infatti a questo tipo di dissensi la legge riconosceva la qualifica
di «dissensi oggettivamente insuperabili», quindi la forza di veri e propri veti) : quindi tali dissensi
non potevano essere superati nella “valutazione di primo livello” (cioè dall’amministrazione
procedente), ma non potevano essere nemmeno superati nella “valutazione di secondo
livello”(perché questa disciplina all’epoca era dedicata alla gestione dei soli dissensi c.d. sensibili).
Ma è soprattutto la riforma del Titolo V che ha reso necessario offrire una lettura
costituzionalmente orientata delle varie discipline che contemplavano operazioni amministrative
complesse, coinvolgenti una pluralità di poteri decisionali. Molte di queste discipline, coinvolgendo
ambiti di competenza costituzionalmente riservati alle Regioni, fanno sì che i dissensi regionali
siano spesso “insuperabili” in sede di valutazione di primo livello (quindi, tali da radicare la
necessità di intese c.d. forti) e che, anche nelle valutazioni (sostitutive) di livello superiore esigano
una tutela particolarmente rafforzata.

In ogni caso, data l’importanza di questi interessi (sensibili ed espressi dalle Regioni nelle materie
di propria competenza), per il loro superamento non può essere adottato il meccanismo ordinario di
superamento dei dissensi ex art. 14 ter, comma 6-bis (che fa leva sull’attivazione di poteri
sostitutivi direttamente in capo all’amministrazione procedente). In casi del genere :

1) Se il motivato dissenso verte su INTERESSI SENSIBILI, la disciplina è la seguente = la


questione è rimessa dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei ministri,
che si pronuncia entro 60 giorni :

 previa intesa con le Regioni interessate (in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e
una regionale o tra più amministrazioni regionali);
 previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati (in caso di dissenso tra
un’amministrazione statale o regionale e un ente locale).

Se l’intesa non è raggiunta entro 30 giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può essere
comunque adottata.

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2) Se il motivato dissenso, invece, è espresso DA UNA REGIONE IN UNA DELLE MATERIE DI


PROPRIA COMPETENZA (= cioè in ambiti di competenza costituzionalmente riservata), per
raggiungere l’intesa, entro 30 giorni dalla rimessione della questione alla delibera del Consiglio dei
ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con la partecipazione
della Regione, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico
rappresentante legittimato (dall’organo competente) ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell’amministrazione sulle decisioni di sua competenza. In tale riunione i partecipanti devono
raggiungere un’intesa. Se l’intesa non è raggiunta nel termine di ulteriori 30 giorni, è indetta una
seconda riunione dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con le stesse modalità della prima. Ove
non sia comunque raggiunta l’intesa, in un ulteriore termine di 30 giorni, le trattative sono volte a
individuare i punti di dissenso. Se dopo queste trattative l’intesa non è raggiunta, la deliberazione
del Consiglio dei ministri può essere comunque adottata con la partecipazione dei Presidenti delle
Regioni interessate (art. 14-quater, 3°comma).

Art. 14-quater (Effetti del dissenso espresso in conferenza)


1. Il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni deve essere manifestato nella conferenza di servizi,
deve essere congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della
conferenza medesima e deve recare le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso.

3. Se viene espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione è rimessa
dall'amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il Consiglio dei Ministri si pronuncia entro
60 giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate (in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e
una regionale o tra più amministrazioni regionali) o previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati (in caso di
dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale), motivando un'eventuale decisione in contrasto
con il motivato dissenso. Se l'intesa non è raggiunta entro 30 giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può
essere comunque adottata.

Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria
competenza, per il raggiungimento dell'intesa, entro 30 giorni dalla rimessione della questione alla delibera del
Consiglio dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della
regione o della provincia autonoma, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico
rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione
sulle decisioni di competenza. In tale riunione i partecipanti devono formulare le indicazioni necessarie per individuare
una soluzione condivisa. Se l'intesa non è raggiunta nel termine di ulteriori 30 giorni, è indetta una seconda riunione
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con le stesse modalità della prima. Ove non sia comunque raggiunta l'intesa,
in un ulteriore termine di 30 giorni, le trattative sono finalizzate a individuare e risolvere i punti di dissenso. Se all'esito
delle trattative l'intesa non è raggiunta, la deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata con la
partecipazione dei Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.

La conferenza di servizi. Generalità. Per semplificare l’azione amministrativa, la L. 241 / 1990 ha


generalizzato la figura della “Conferenza di servizi”. L’istituto era già noto alla prassi amministrativa nei
settori della pianificazione urbanistica e delle opere pubbliche ed era già previsto in precedenti “leggi
speciali”. La nascita dell’istituto si deve alla L. 241 / 1990, che per la prima volta ha generalizzato l’istituto,
determinando una profonda innovazione.
La disciplina originaria della conferenza di servizi, ex art. 14 della L. 241 / 1990, era improntata sul c.d.
principio di unanimità : perciò la determinazione conclusiva doveva essere assunta con l’unanimità dei
soggetti intervenuti.
Nel 1993 si è previsto che, in caso di dissenso di un’amministrazione intervenuta, il provvedimento poteva
essere comunque adottato con l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, sollecitato
dall’amministrazione procedente. Questa determinazione faceva, allora, le veci della deliberazione
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unanime della conferenza.


Un’altra modifica si ha con la l. 127 / 1997 (Bassanini-bis), che estende l’operatività della conferenza dei
servizi ai procedimenti complessi e potenzia l’agire dell’amministrazione procedente, mettendola in
condizione di assumere la determinazione conclusiva, nonostante il dissenso di alcune amministrazioni
convocate, a patto però che la decisione sia prima comunicata al Presidente del Consiglio dei Ministri, al
Presidente della Regione e ai Sindaci. Trascorsi 30 giorni dalla comunicazione all’organo di vertice senza che
questi sospenda il procedimento, la deliberazione si intende esecutiva. La sospensione, invece, provoca un
arresto procedimentale che impedisce alla P.A. procedente di emanare il provvedimento, dando luogo alla
necessità di indire una nuova conferenza.
Ulteriori ritocchi sono stati apportati dalla l. 191 / 1998 (Bassanini-ter), che ha disciplinato la situazione che
segue alla sospensione, prevedendo che in tal caso la conferenza può pervenire entro 30 giorni a una nuova
decisione che tenga conto delle osservazioni del Presidente del Consiglio. Decorso inutilmente tale termine,
la conferenza è sciolta.
Successivamente si è giunti alla l. 340 / 2000, con cui il legislatore obbedisce all’esigenza di :

1) rivedere i meccanismi della rimessione della decisione alla Presidenza del Consiglio, divenuta
troppo frequente : a tal fine essa è stata limitata solo ai casi di dissenso delle amministrazioni
preposte alla tutela di interessi sensibili;
2) responsabilizzare le amministrazioni dissenzienti, che tendevano a bloccare i lavori della
conferenza; a tal fine l’art. 14- quater ha previsto che il dissenso doveva essere, a pena di
inammissibilità, congruamente motivato e non si doveva riferire a questioni connesse non oggetto
della conferenza e doveva indicare le modifiche progettuali necessarie per l’assenso;

Le ultime innovazioni riguardanti l’istituto sono racchiuse nella legge n. 15 / 2005. Il criterio maggioritario si
era rivelato di difficile applicazione per la carenza di precisi criteri di conteggio dei voti per formare le
maggioranze e per la difficoltà di identificare le amministrazioni legittimate ad intervenire nelle conferenze.
Per i c.d. dissensi qualificati (che non possono essere superati con la conferenza di servizi, ma solo con lo
spostamento della decisione dall’amministrazione procedente ad un livello politico-amministrativo
superiore) la l. n. 15 / 2005 ha introdotto precise novità. Innanzitutto le amministrazioni legittimate ad
esprimere il dissenso qualificato sono, oltre a quelle preposte alla tutela ambientale, territoriale e del
patrimonio storico-artistico, anche quelle preposte alla tutela della pubblica incolumità. Se il dissenso
qualificato riguarda amministrazioni statali, la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri; in caso di
dissenso qualificato tra amministrazioni statali e regionali, o tra amministrazioni regionali, la decisione è
rimessa alla Conferenza Stato-Regioni; se infine il dissenso si registra tra amministrazioni statali o regionali
e amministrazioni locali, la decisione è rimessa alla Conferenza unificata.
Un meccanismo analogo a quello previsto per i dissensi qualificati è delineato per i dissensi espressi da una
Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza legislativa (esclusiva o
concorrente che sia). Il dissenso, quindi, può riguardare anche materie diverse da quelle cui afferiscono gli
interessi superprimari. In entrambi i casi (dissensi su interessi superprimari o dissensi su materie di
competenza legislativa di regioni o province autonome) il legislatore ha sostituito il criterio della prevalenza
con quello della concertazione.
Non è stata pacifica in dottrina la qualificazione giuridica della conferenza di servizi : si discute se la stessa si
possa qualificare come organo o come semplice modulo procedimentale. Gli autori che propendono per la
prima tesi, riconducono l’istituto nel novero degli organi collegiali, richiamando l’uso nell’ambito della
conferenza di regole ed istituti che richiamano l’attività dei collegi. L’istituto è considerato come un “organo
temporaneo” con una competenza totale su un determinato oggetto. Ne consegue, secondo tale visione,
che il provvedimento scaturisce dalla determinazione finale raggiunta dalla conferenza ed è a questa
imputabile. L’accoglimento di questa tesi implicherebbe, come conseguenza, il riconoscimento della
soggettività giuridica in capo alla Conferenza dei Servizi, la diretta imputabilità in capo alla stessa del
provvedimento con cui si è assunta la determinazione finale, nonché il riconoscimento della legittimazione
a resistere in giudizio in caso di impugnazione del suo provvedimento.
Il secondo orientamento gode di maggiori consensi e interpreta la conferenza di servizi come mero modulo

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organizzatorio con funzione di raccordo tra i vari organi di diverse amministrazioni, privo di una sua
individualità. La giurisprudenza è giunta alla conclusione che la conferenza dei servizi non implica una
modificazione delle originarie competenze, che restano invariate, con la conseguenza che ogni soggetto
partecipante deve imputare a sé gli effetti dell’atto che pone in essere. La tesi è stata avvalorata anche dalla
Corte Costituzionale, che ha escluso la natura di organo collegiale della conferenza, sostenendo la natura di
modulo di semplificazione dell’azione amministrativa finalizzata alla formazione di atti complessi, dove c’è
bisogno del concorso di volontà di più amministrazioni. L’inquadramento della conferenza come modulo
procedimentale comporta l’assenza di una legittimazione processuale passiva; quindi, per la corretta
instaurazione del contraddittorio, le notifiche del ricorso devono essere effettuate a quei soggetti che in
seno alla conferenza hanno manifestato la propria volontà. Occorre dunque notificare il ricorso alle autorità
amministrative partecipanti alla conferenza; inoltre, anche se non si può chiamare in giudizio la conferenza,
ciò non implica che debbano essere chiamati sempre tutti i soggetti che vi hanno partecipato, ma solo quelli
che hanno emanato l’atto che si intende impugnare. La
Conferenza di Servizi rappresenta un modulo dell’azione amministrativa che raccoglie le volontà delle
amministrazioni titolari degli interessi pubblici coinvolti nel procedimento amministrativo; ciò consente ai
soggetti interessati al provvedimento finale di far conoscere il proprio punto di vista attraverso la propria
partecipazione, mantenendo ciascun partecipante la propria autonomia. L’avviso espresso dalle singole
amministrazioni resta imputabile solo a loro.

IL DISSENSO ORDINARIO = La disciplina originaria della conferenza di servizi era basata sul principio dell'unanimità, tanto che la
conferenza veniva paralizzata nell'ipotesi di dissenso manifestato in seno alla conferenza da parte di una P.A. intervenuta.

Nel 1993 si è quindi previsto che, in caso di dissenso di un'amministrazione intervenuta, il provvedimento poteva essere comunque
adottato con l'intervento del presidente del consiglio dei Ministri, sollecitato dall'amministrazione procedente.

Un'ulteriore modificazione venne introdotta dalla L. n. 127/1997, la quale attribuì all'amministrazione procedente il potere di adottare la
statuizione finale nonostante il contrario avviso espresso in seno alla conferenza, a patto che detto provvedimento venisse comunicato
al Presidente del Consiglio dei Ministri alla Regione o al Sindaco.

Successivamente, la L. 340/2000 propose un più radicale strumento di elusione dei dissensi con un meccanismo che abilitava
l'amministrazione procedente, ove l'avesse ritenuto, a recepire la posizione maggioritaria espressa in sede di conferenza.

A sua volta la regola maggioritaria è stata successivamente, almeno in parte, stemperata con la riforma ex lege n. 15/2005, attraverso
l'introduzione del concetto delle posizioni prevalenti.

L'art. 14-quater disciplina gli effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi.

Secondo l'art. 14-quater il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni che siano state regolarmente convocate alla
conferenza di servizi deve essere manifestato, a pena d'inammissibilità, nella conferenza stessa e deve essere congruamente motivato,
non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscano oggetto della conferenza medesima e deve recare la specifica indicazione
delle modifiche progettuali necessarie per l'assenso.
Quindi, il dissenso non può essere puro e semplice ma deve essere accompagnato dalle ragioni di fatto e di diritto idonee a giustificarlo.
Pertanto se nell'ambito della conferenza di servizi una o più amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso sulla proposta
dell'amministrazione procedente, quest'ultima adotta comunque la determinazione motivata di conclusione del procedimento sulla base
delle posizioni prevalenti espresse in sede di conferenza di servizi, e tale decisione è immediatamente esecutiva.

Per stabilire quale sia la posizione prevalente, l'amministrazione procedente dovrà avere riguardo alle singole posizioni che le diverse
amministrazioni assumono in sede di conferenza.
Dal momento che la conferenza non sposta le singole competenze, l'amministrazione dissenziente avrà a disposizione gli strumenti
della tutela giurisdizionale.

IL DISSENSO QUALIFICATO = Non sempre, tuttavia, la conferenza di servizi può concludersi superando autonomamente il dissenso
di alcune amministrazioni coinvolte. Infatti, qualora il motivato dissenso sia qualificato, cioè espresso da talune amministrazioni, titolari
della cura di interessi sensibili, lo stesso non può essere superato in sede di conferenza di servizi e trova una specifica disciplina
nell'art. 14-quater della L. 241/1990.

L'espressione di tale dissenso produce, invece, l'effetto di rimettere la decisione oggetto della conferenza ad altro e superiore livello di
governo.

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Innanzitutto, anche a queste amministrazioni si applica il primo comma dell'art. 14-quater, che disciplina le modalità di manifestazione
del dissenso: infatti, il dissenso espresso dalle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità «deve essere manifestato nella conferenza di servizi, deve essere
congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare
le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso».

Ne discende che anche le amministrazioni titolari della cura di interessi sensibili si devono esprimere in sede di conferenza di servizi.
Nei casi di «motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico - territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità» la decisione finale è rimessa al Consiglio dei Ministri.

-CAPITOLO 5. L’ACCESSO ALLA DOCUMENTAZIONE


AMMINISTRATIVA-

1. Natura giuridica del diritto di accesso. L’art. 22, 1°comma, lett. a) della L.
241 / 1990 definisce il DIRITTO DI ACCESSO come «il diritto degli interessati di prendere visione
e di estrarre copia di documenti amministrativi». Sembrerebbe quindi che il diritto di accesso abbia
natura di “diritto soggettivo perfetto”, ma la questione è ancora controversa. Dopo la promulgazione
della L. 241 / 1990 la giurisprudenza prevalente qualificava il diritto di accesso come “diritto” vero
e proprio, sicché il ricorso proposto a tutela di esso doveva intendersi non come impugnativa di un
provvedimento amministrativo, ma come diretto all’accertamento del diritto e alla condanna del
soggetto obbligato ad esibire i documenti richiesti. Un altro orientamento, minoritario, qualificava
l’accesso come “interesse legittimo”, concludendo che il giudizio proposto contro il diniego di
accesso avrebbe dovuto avere natura impugnatoria. Sottoposta nel 1999 la questione all’Adunanza
Plenaria, il Consiglio di Stato privilegiò la seconda soluzione, sulla base di due motivazioni : 1)
perché il legislatore, pur avendo qualificato l’ “accesso ai documenti” come «diritto», ha disposto
all’art. 25, 5°comma un termine perentorio entro cui è proponibile il ricorso «contro le
determinazioni amministrative riguardanti il diritto di accesso» (ciò per salvaguardare gli interessi
pubblici coinvolti nel procedimento); 2) in tutti i settori in cui le leggi attribuiscono
all’amministrazione il potere di valutare tutti gli interessi coinvolti e di incidere unilateralmente con
un provvedimento autoritativo sulla sfera giuridica altrui, la posizione del soggetto leso è qualificata
come interesse legittimo, tutelabile in sede giurisdizionale con l’impugnazione del provvedimento
lesivo.
Tuttavia anche dopo il 1999, alcune decisioni hanno ribadito la natura di “diritto soggettivo” del
diritto di accesso. Infatti il Consiglio di Stato ha affermato che l’accesso è un “diritto soggettivo”,
sia in base alla sua formale definizione come tale, sia per alcuni profili della sua disciplina, come ad
esempio la mancanza di discrezionalità per le amministrazioni nell’adempiere alla pretesa del
privato, la non necessità che il documento amministrativo riguardi uno specifico procedimento e
l’attribuzione delle controversie in materia alla “giurisdizione esclusiva del giudice
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amministrativo”. Inoltre che si tratti di un “diritto soggettivo”, di cui devono essere garantiti i livelli
essenziali su tutto il territorio nazionale, risulta anche dall’art. 22, 2°comma della L. 241 / 1990, che
qualifica l’accesso come uno strumento di attuazione del principio di imparzialità, imparzialità che
non sarebbe tale se non fosse assicurata in egual modo su tutto il territorio nazionale.
Sulla questione poi è tornata a pronunciarsi l’Adunanza Plenaria nel 2006 : il Consiglio di Stato ha
prima confermato che la tesi che qualifica il diritto di accesso come “diritto soggettivo” è confortata
dalla sua inclusione tra le prestazioni riguardanti i diritti civili e politici, di cui devono essere
assicurati i livelli essenziali su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117 Cost. (ex art. 22,
2°comma della L. 241 / 1990) e dalla riconduzione del giudizio in tema di accesso alla
“giurisdizione amministrativa esclusiva” (prevista dall’art. 25, 5°comma); poi (nel 2011) ha ritenuto
«non utile» prendere posizione sulla questione, perchè il diritto di accesso è una situazione
soggettiva «strumentale» che offre all’interessato «poteri procedimentali» volti alla tutela di un
interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi).

*GIURISDIZIONE ESCLUSIVA : la “giurisdizione esclusiva” è una delle articolazioni della giurisdizione amministrativa nell'ordinamento italiano.
In generale, il giudice amministrativo giudica sulla legittimità dei provvedimenti e dei comportamenti dell'autorità amministrativa lesivi di interessi legittimi.
Per quanto riguarda la tutela dei diritti soggettivi è invece competente il giudice ordinario. In deroga a tale criterio generale di riparto di giurisdizione, l'art.
103 della Costituzione ammette che i TAR e il Consiglio di Stato possano avere, in particolari materie indicate dalla legge, una giurisdizione estesa alla
tutela dei diritti soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione (cd. giurisdizione esclusiva).

2. I soggetti attivi. L’art. 22, 1°comma, lett. b) della L. 241 / 1990 individua i SOGGETTI
«INTERESSATI» ALL’ACCESSO : essi sono «tutti i soggetti privati (compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi) che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso».
L’esigenza che alla base dell’istanza di accesso ci sia un interesse diretto, concreto e attuale serve
ad escludere che l’istituto consenta indistintamente a tutti i privati di esercitare un “controllo
generalizzato e illimitato sull’operato dell’amministrazione”.
C’è tuttavia una prima eccezione, che scaturisce dall’obbligo di adeguamento della legislazione
interna al diritto comunitario. L’art. 3 del d.lgs. 39 / 1997 (attuativo di una direttiva comunitaria del
1990), introduce nel nostro sistema una “fattispecie speciale di accesso in materia ambientale” : per
assicurare la libertà di accesso a tutte le INFORMAZIONI SULL’AMBIENTE in possesso delle
pubbliche amministrazioni, queste hanno l’obbligo di rendere disponibili tali informazioni «a
chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse».
La disciplina è stata confermata dall’art. 3 del d.lgs. 195 / 2005 (in attuazione di una direttiva
comunitaria del 2003) , ma con alcune limitazioni : si esclude il diritto di accesso nei casi in cui : 1)
la richiesta sia manifestamente irragionevole; 2) la richiesta sia troppo generica; 3) la divulgazione
dell’informazione pregiudichi la riservatezza dei dati personali o riguardanti una persona fisica.

Una seconda eccezione è data dall’“ACCESSO CIVICO” (ossia il diritto di richiedere documenti o
informazioni che le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare nei propri siti
istituzionali), disciplinato dall’art. 4 del d. lgs. 33 / 2013, secondo cui la richiesta di accesso civico

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non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, non
deve essere motivata ed è gratuita.

Una forma peculiare di accesso è quella prevista dal “T.U. SUGLI ENTI LOCALI” (d.lgs. 267 /
2000), che consente ai consiglieri comunali di ottenere dagli uffici ed enti dipendenti non solo
l’accesso ai documenti amministrativi, ma anche (ed è questa la particolarità) tutte le informazioni
in loro possesso che siano utili all’espletamento del proprio mandato. Tale diritto serve a
permettere ai consiglieri comunali di effettuare un efficace controllo sull’operato
dell’amministrazione.

Tra gli “interessati all’accesso” figurano anche i «soggetti privati portatori di interessi pubblici o
diffusi» (costituiti in associazioni o enti) : in tal caso, però, l’accesso presuppone, oltre alla
sussistenza dei requisiti dell’ “attualità” e della “concretezza dell’interesse”, anche la verifica della
rappresentatività dell’associazione o dell’ente esponenziale e della pertinenza dei fini statutari
rispetto all’oggetto dell’istanza.

3. I soggetti passivi. L’art. 23 della L. 241 / 1990 stabilisce che “il diritto di accesso si
esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti
pubblici e dei gestori di pubblici servizi”. Proprio con riferimento al settore dei “pubblici servizi”,
la giurisprudenza ha affermato che, indipendentemente dal titolo giuridico in base a cui viene
gestito il servizio pubblico, ciò che attiva il “diritto di accesso” sono le attività correlate al pubblico
servizio : in base a questo orientamento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha inserito
nell’alveo del diritto di accesso anche “l’attività svolta dai soggetti privati che espletano compiti di
interesse pubblico” (ad es. concessionari di pubblici servizi).

4. Oggetto del diritto di accesso. L’art. 22, 3°comma della L. 241 / 1990 dispone
che “Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, eccetto quelli indicati dall’art. 24”. Occorre
chiarire, allora, cosa vuol dire «accessibile», poiché l’art. 10 della L. 241 / 1990 (incluso tra le
“norme sulla partecipazione”) prevede che «I soggetti legittimati a partecipare possono prendere
visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’art. 24». Il problema che si era posto
in passato era se un documento «visionabile» in sede partecipativa fosse, per ciò solo,
«accessibile» : la giurisprudenza ha risposto in modo positivo, affermando che “il diritto di
prendere visione degli atti del procedimento” si configura come lo stesso diritto di accesso di cui
all’art. 22, distinguendosi tra «accesso partecipativo» e «accesso informativo».
Detto ciò, occorre stabilire che cosa si intende per “documento amministrativo” : al riguardo, il
legislatore – nell’originaria formulazione dell’art. 22 (prima della riforma del 2005) – riteneva
accessibili quei “documenti formati dalle amministrazioni” o, comunque, “usati ai fini dell’attività
amministrativa”. La norma, però, non era di facile interpretazione, anche perché in relazione ad essa
in dottrina si pose il problema di stabilire se tra questi atti potessero, ad esempio, essere inclusi i
“pareri dei consulenti di parte” e “quelli dell’Avvocatura di Stato” : del primo quesito si occupò la
giurisprudenza, che stabilì che – riguardo ai “pareri resi dai consulenti” – il “diritto di accesso” era
da escludere, poichè il “segreto professionale” è specificamente tutelato dall’ordinamento. Si
precisò però che l’accesso era consentito in relazione a quei pareri che si inserivano nell’ambito di
una specifica istruttoria procedimentale, perché in tal caso il parere legale sarebbe stato collegato a
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un procedimento amministrativo e avrebbe assunto la configurazione di atto endoprocedimentale.


Per i “pareri resi dall’Avvocatura di Stato”, invece, vigono le regole di cui d.p.c.m. (decreto del
Presidente del Consiglio) 200 / 1996, che elenca gli “atti inaccessibili” perché coperti da segreto, e
gli “atti per i quali le pubbliche amministrazioni possono porre un veto” o “posticiparne l’accesso”.
Ad ogni modo, con la riforma del 2005, la legge ha qualificato come «DOCUMENTO
AMMINISTRATIVO» “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti, detenuti da una P.A. e riguardanti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina”.
Con quest’ultima precisazione il legislatore ha fatto proprio l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa : infatti una questione dibattuta riguardava l’accessibilità agli atti di diritto privato
della P.A. Parte della giurisprudenza aveva affermato l’ostensibilità (= accessibilità) di questi atti,
perché il diritto di accesso sarebbe correlato non agli atti amministrativi, ma all’“attività
amministrativa”, che comprende sia l’attività di diritto amministrativo che quella di diritto privato
della P.A. Un altro orientamento aveva affermato invece che la ratio del diritto di accesso sta
nell’esigenza di perequare (= uguagliare) la posizione dell’amministrato a quella del potere
pubblico sicché, quando l’amministrazione agisce in regime di diritto privato, senza godere della
potestà autoritativa, non è giustificabile l’attribuzione a favore del privato dello strumento
dell’accesso. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha privilegiato la prima soluzione,
affermando che le esigenze di “buon andamento” e di “imparzialità” dell’amministrazione (ex art.
97 Cost.) riguardano sia l’attività volta all’emanazione dei provvedimenti sia quella di diritto
privato.

5. Limiti. La L. 241 / 1990 contempla “3 categorie di limiti all’esercizio del diritto di accesso” :
1) nella prima categoria, contemplata dall’ art. 24, 1°comma della L. 241 / 1990, l’accesso è escluso
per esplicita volontà del legislatore. Il diritto di accesso è escluso : a) per i documenti coperti dal
“segreto di Stato” e per quelli coperti da “divieto di divulgazione” espressamente previsti dalla
legge; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della P.A. volta all’emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti
selettivi (nei confronti di “documenti amministrativi contenenti informazioni psicoattitudinali
relative a terzi”).

2) nella seconda categoria, invece, sono contemplati gli atti che – ai sensi dell’art. 17, 2°comma
della L. 400 / 1988, devono essere individuati con regolamento e in relazione ai quali le singole
amministrazioni possono negare l’accesso. Attualmente, con riferimento a queste ipotesi, vigono le
norme del d.p.r. 352 / 1992, secondo cui l’accesso ai documenti amministrativi può essere negato :
a) quando dalla loro divulgazione possa derivare una lesione alla “sicurezza nazionale”; b) quando
possa compromettere i “processi di attuazione della politica monetaria”; c) quando i documenti
riguardino “le strutture”, “il personale” e le “azioni strumentali alla tutela dell’ordine pubblico e alla
repressione della criminalità”; d) quando i documenti riguardino “la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, di persone giuridiche, di imprese o associazioni”. Quest’ultima ipotesi coinvolge il
rapporto tra ESIGENZE DI INFORMAZIONE, strumentali alla difesa di interessi individuali e
DIRITTO ALLA RISERVATEZZA. Il “diritto alla riservatezza” è una situazione giuridica
soggettiva disciplinata dal “Codice in materia di protezione dei dati personali”. Sul punto, il
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principio guida è quello per cui l’interesse alla riservatezza recede quando l’accesso è esercitato per
difendere un interesse giuridico leso.

3) nella terza categoria, infine, troviamo le ipotesi in cui l’amministrazione può differire (=
rimandare) l’accesso. Il differimento può essere disposto “per un tempo sufficiente ad assicurare
una temporanea tutela agli interessi di cui all’art. 24, 6° comma della L. 241 / 1990” o “per
salvaguardare specifiche esigenze dell’amministrazione” in relazione a documenti la cui
conoscenza possa compromettere il buon andamento dell’azione amministrativa. In ogni caso,
l’atto che dispone il differimento dell’accesso deve indicarne la durata.

6. Esercizio del diritto di accesso. Le MODALITA’ DI ESERCIZIO DEL


DIRITTO DI ACCESSO sono disciplinate dal d.p.r. 184 / 2006. Il diritto di accesso si esercita con
riferimento ai documenti amministrativi esistenti al momento della presentazione della richiesta e
detenuti dalla P.A., nei confronti dell’ “amministrazione che ha formato il documento o lo detiene
stabilmente”.
Ricevuta l’istanza, l’amministrazione, se individua soggetti controinteressati (= cioè tutti i soggetti
che vedrebbero compromesso il loro “diritto alla riservatezza” dall’esercizio del diritto di accesso),
deve darne loro comunicazione, mediante raccomandata con avviso di ricevimento o per via
telematica. Entro 10 giorni dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati possono
presentare una “motivata opposizione alla richiesta di accesso”. Decorso questo termine,
l’amministrazione provvede sulla richiesta, previo accertamento della ricezione della
comunicazione.
Il d.p.r. 184 / 2006 prevede, poi, anche la possibilità, in assenza di controinteressati, di procedere
all’esercizio «DIRITTO DI ACCESSO INFORMALE», mediante richiesta, anche verbale,
all’ufficio competente.

CAPO V
(si veda il regolamento approvato con D.P.R. 184 del 2006)

Art. 22 (Definizioni e principi in materia di accesso)


1° comma : Ai fini del presente capo si intende:

a) per "DIRITTO DI ACCESSO" il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi.
b) per "INTERESSATI" tutti i soggetti privati (compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi) che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso.
c) per "CONTROINTERESSATI" tutti i soggetti che vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza dall’esercizio
del diritto di accesso.
d) per "DOCUMENTO AMMINISTRATIVO" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti (anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento) detenuti da
una P.A. e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della
loro disciplina.
e) per "PUBBLICA AMMINISTRAZIONE" tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla
loro attività di pubblico interesse.

2° comma : L’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa” al fine di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza.

3° comma : Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2,
3, 5 e 6.

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Art. 23 (Ambito di applicazione del diritto di accesso)


1. Il diritto di accesso si esercita nei confronti delle amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti
pubblici e dei gestori di pubblici servizi.

Art. 24 (Esclusione dal diritto di accesso)


1° comma : Il diritto di accesso è escluso: a) Per i documenti coperti da segreto di Stato e nei casi di divieto di
divulgazione espressamente previsti dalla legge. b) Nei procedimenti tributari. c) Nei confronti dell'attività della P.A.
diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione.
d) Nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico-
attitudinale relativi a terzi.

6° comma : Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della L. 400 del 1988, il Governo può
prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi: a) Quando dalla loro divulgazione possa derivare
una lesione alla sicurezza nazionale, all'esercizio della sovranità nazionale e alla continuità delle relazioni
internazionali. b) Quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di determinazione e attuazione della politica
monetaria. c) Quando i documenti riguardino le strutture, il personale e le azioni strumentali alla tutela dell'ordine
pubblico e alla repressione della criminalità. d) Quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni.

Art. 25 (Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi)

1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi. L’esame dei
documenti è gratuito.

2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha
formato il documento o che lo detiene stabilmente.

3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall’articolo 24 e
devono essere motivati.

4. Decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell'accesso, espresso o
tacito, o di differimento dello stesso, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale.

5. Le controversie relative all'accesso ai documenti amministrativi sono disciplinate dal codice del processo
amministrativo.

Cioè…

Art. 116 c.p.a. :  Rito in materia di accesso ai documenti amministrativi

1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso il ricorso è proposto entro 30 giorni 
dalla conoscenza della decisione o dalla formazione del silenzio.

-PARTE 4. PROVVEDIMENTI E
COMPORTAMENTI-

-CAPITOLO 1. IL PROVVEDIMENTO-

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1.Nozione di provvedimento amministrativo. Tra la fine dell’800 e gli inizi


del ‘900 nello studio degli ATTI AMMINISTRATIVI sono stati in un primo tempo usati i risultati
raggiunti dalla dottrina privatistica sui “negozi giuridici privati”. Nei primi decenni del ‘900,
pertanto, gli ATTI AMMINISTRATIVI furono distinti in “meri atti amministrativi” e “negozi di
diritto pubblico” («dichiarazioni di volontà della P.A. volte a conseguire fini determinati,
riconosciuti e tutelati dal diritto») e il criterio discretivo (=distintivo) fu individuato nell’elemento
psichico della “volontà”. Questo indirizzo, però, siccome faceva perno sulla natura negoziale della
volontà dell’amministrazione, è stato superato sulla base delle seguenti argomentazioni :
innanzitutto, la dottrina – avendo posto l’accento sul “contenuto precettivo dell’atto” (ove la
“precettività” era il potere, proprio dell’amministrazione, di realizzare un nuovo assetto di
interessi) prese atto che la “volontà dell’amministrazione” non era più il perno del “negozio di
diritto pubblico”, anche perché quest’ultimo veniva ormai inteso come un atto di
autoregolamentazione di interessi; 2) in secondo luogo, è stato evidenziato che non si può parlare
di “negozio”, atto di autonomia privata, per gli atti che sono esercizio di potere discrezionale (cioè
per la maggior parte degli atti amministrativi); 3) In terzo luogo, per la diversa disciplina relativa
alla “struttura”, alla “validità” e all’“efficacia” del negozio privato rispetto a quella dell’atto
amministrativo.
In definitiva, fermo restando che il “negozio privato” e l’“atto amministrativo” sono entrambi atti a
contenuto precettivo, essi non hanno altro in comune e, quindi, il secondo non può essere
considerato un negozio (sia pure di diritto pubblico). Negli anni '40 la dottrina comincia a parlare, a
proposito dell’atto precettivo dell’amministrazione, di “PROVVEDIMENTO”, volendo indicare
che esso «provvede al soddisfacimento degli interessi pubblici». Cambia anche il criterio di
classificazione degli atti amministrativi : poiché l’azione dell’amministrazione avviene per
sequenze di atti (racchiusi nel procedimento) questi atti furono classificati in base a un criterio
funzionale : si è contrapposto il “provvedimento” (cioè l’atto che chiude il procedimento, fissando
l’assetto di interessi deciso dall’amministrazione) agli “atti endoprocedimentali” che, essendo
finalizzati all’adozione del provvedimento finale, sono atti strumentali.
In virtù di queste considerazioni, negli anni ’50 la dottrina giunse alla compiuta elaborazione della
nozione di PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO : esso è un atto autoritativo (nel senso che è
idoneo a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità del consenso altrui). Sulla base di
questa definizione furono poi individuate le caratteristiche del provvedimento : 1) dal punto di vista
della “struttura”, è un atto unilaterale; 2) dal punto di vista della “funzione”, è un atto diretto alla
cura di interessi pubblici; 3) dal punto di vista della “formazione”, è l’atto finale del procedimento;
4) ed infine è dotato di esecutività.

2. Approfondimenti sulla nozione di provvedimento. Di recente, parte


della dottrina ha escluso dall’ambito dei provvedimenti amministrativi propriamente detti (cioè i
“provvedimenti autoritativi”) i PROVVEDIMENTI CON EFFETTI FAVOREVOLI PER I LORO
DESTINATARI : concessioni, autorizzazioni, permessi. Questo perché si tratta di provvedimenti
che presuppongono la preventiva richiesta e il consenso dell’interessato (ad es. l’amministrazione
non può rilasciare un permesso di costruire senza che l’avente titolo glielo chieda oppure non può
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imporre una “concessione d’uso del suolo demaniale” !). Tuttavia, anche se questi provvedimenti
non sono autoritativi nei confronti di coloro che li hanno richiesti, non può escludersi qualche altro
profilo di autoritarietà : 1) in primo luogo il provvedimento, favorevole nei confronti del
destinatario, può essere sfavorevole nei confronti di soggetti diversi (soggetti terzi) : in tal caso il
provvedimento esprime il carattere autoritativo nei loro confronti; 2)
inoltre, se il provvedimento favorevole non viene rilasciato, colui che lo ha chiesto risente di
conseguenze sfavorevoli e può reagire impugnando il provvedimento negativo. Lo stesso accade se
l’amministrazione non provvede né positivamente né negativamente (ipotesi di silenzio).
Chiarito ciò, c’è un altro problema da risolvere : sempre con riferimento al profilo
dell’autoritarietà, la dottrina ha sollevato qualche dubbio riguardo ai PROVVEDIMENTI
VINCOLATI, che l’amministrazione adotta in esecuzione di disposizioni per essa vincolanti e
senza scelte discrezionali; in questi casi, si afferma che l’ “autoritarietà” non sussisterebbe, in
quanto l’amministrazione si limiterebbe ad attuare norme di rango superiore (leggi, regolamenti).
Tuttavia, anche per questa tipologia di atti è doveroso avanzare qualche osservazione : da un lato,
infatti, anche per i provvedimenti vincolati, occorre verificare se sussistano in concreto i
“presupposti di fatto cui la disposizione collega l’adozione del provvedimento” e tale verifica è
rimessa all’amministrazione, dall’altro l’atto dell’amministrazione è un atto necessario affinché si
verifichi l’effetto disposto dalla disposizione vincolante : anche se l’effetto è disegnato dalla norma,
perché esso si produca concretamente occorre che l’amministrazione adotti l’atto di sua competenza
(quindi l’effetto è “costituito dall’atto”, ma è “determinato dalla disposizione vincolante”). Pertanto,
in caso di provvedimenti vincolati, l’amministrazione ha almeno il potere di costituire l’effetto (è
titolare cioè di potere costitutivo), anche se non ha potere determinante (cioè di determinare
l’effetto dell’atto che compie).
Infine di recente è stata criticata l’autoritarietà/imperatività del provvedimento e si è sostenuto che
il provvedimento, come atto di esercizio del potere, non si differenzia dagli atti privati, esercizio di
poteri privati. Questa teoria, però, non può essere condivisa, anche perché non è difficile rendersi
conto che il “potere” esercitato dall’amministrazione non conosce similitudini con i “poteri privati”
(i c.d. diritti potestativi) : il diritto potestativo presuppone la preesistenza di un rapporto giuridico
tra il titolare del potere e colui che è soggetto a questo potere (rapporto che tra l’altro è nato con il
“consenso della controparte”). Inoltre, il potere è funzionalizzato (= attribuito per una specifica
funzione), il diritto potestativo non lo è ed è anche diversa la situazione giuridica soggettiva che
fronteggia l’uno e l’altro : al potere autoritativo si contrappone l’interesse legittimo, al diritto
potestativo si contrappone la mera soggezione.

3. La struttura del provvedimento. A differenza del “contratto” (per il quale l’art.


1325 c.c. elenca gli “elementi essenziali”), nella disciplina legislativa manca l’indicazione degli
ELEMENTI COSTITUTIVI DEL PROVVEDIMENTO, e tuttavia questa mancanza non è un
problema molto grave, dato che la “validità” (e l’invalidità) del provvedimento è, dalla legge,
parametrata su profili funzionali (e non su quelli strutturali, come accade per il contratto). Gli
“elementi essenziali del provvedimento” sono limitati : sono quelli la cui mancanza dà luogo a
nullità (art. 21 septies L. 241 / 1990). Se ne deduce quindi che a generare la NULLITA’ è solo la
mancanza degli elementi essenziali, e non la loro “illiceità” (come avviene invece per il contratto ex
art. 1418 c.c.).
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Ad ogni modo, in mancanza di un’apposita disciplina, gli “elementi essenziali del provvedimento
amministrativo” sono stati individuati dalla dottrina : il SOGGETTO, l’OGGETTO, il
CONTENUTO, la FORMA e i MOTIVI. Analizziamoli nel dettaglio :
1) Il “soggetto” non può essere considerato propriamente un elemento dell’atto : semmai esso ne è
l’autore e, quindi, se il provvedimento non proviene dall’organo che ha il potere di adottarlo, esso
può essere sì nullo, ma non per mancanza di un elemento essenziale, ma per “difetto assoluto di
attribuzione”.
2) Quanto all’“oggetto”, pur ammettendo che esso sia un elemento del provvedimento (il che è
discutibile), non è la sua mancanza a determinare la nullità del provvedimento, ma la mancanza
della sua individuazione.
3) Quanto ai “motivi” bisogna invece sviluppare un discorso particolare : innanzitutto per molti
decenni la dottrina si è chiesta se per il provvedimento amministrativo, così come per il contratto,
possa parlarsi di “causa” (nel senso di funzione economico-sociale dell’atto) e si è sostenuto che,
poiché i provvedimenti sono “atti tipici” e perseguono gli “interessi pubblici indicati dalla legge”, è
superfluo elevare la “causa” ad elemento essenziale del provvedimento : la funzione del
provvedimento è predeterminata dalla legge e quindi è inutile che nella struttura del provvedimento
venga incluso un elemento che consenta di valutare la “meritevolezza dell’interesse perseguito”.
Tuttavia, questa conclusione merita qualche precisazione : poichè l’interesse pubblico
concretamente perseguito non è direttamente indicato dalla legge, ma è determinato in concreto
dall’amministrazione nel procedimento amministrativo (componendo più interessi pubblici,
astrattamente indicati dalla legge, e considerando anche gli interessi privati coinvolti) può essere
giustificato parlare di “causa del provvedimento” riguardo all’interesse concretamente individuato
e perseguito dall’amministrazione.
Tuttavia, se si accetta una conclusione del genere, bisogna anche tener presente che - a differenza
del contratto (dove solo la “causa” assume importanza, mentre i “motivi” sono irrilevanti) - nel
provvedimento amministrativo i “motivi per cui il provvedimento è adottato” occupano un posto di
primo piano, poiché l’amministrazione ha l’obbligo di indicare sia i presupposti di fatto che le
ragioni giuridiche che determinano l’adozione della decisione. Di conseguenza, è inutile separare la
causa dai motivi, poichè la “causa” è l’ultimo stadio del percorso motivazionale, che è per intero
rilevante. Quindi non è necessario parlare di “causa del provvedimento”, poiché la stessa può essere
tranquillamente incorporata nell’ambito dei motivi (tutti rilevanti) che giustificano l’adozione del
provvedimento.
Per legge, poi, (art. 3 della L. 241 / 1990), una volta indicati i motivi, “la P.A. ha l’obbligo di
esternarli nel provvedimento” : l’ “esternazione dei motivi” (l’indicazione dei presupposti di fatto e
delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione) è detta “motivazione”.
Tuttavia la carenza o l’insufficienza della motivazione non determina la nullità del provvedimento,
ma solo la sua “annullabilità” : quindi se ne deduce che nemmeno la “motivazione” è un elemento
essenziale del provvedimento. Invece, ciò che assume carattere “essenziale” è solo l’“esternazione”
(ossia la manifestazione all’esterno del contenuto decisionale del provvedimento), poichè nessun
atto giuridico può essere definito tale se non ne viene resa possibile la conoscibilità.
4) Non bisogna però confondere l’esternazione con la “forma”, che indica il modo
dell’esternazione. Per i provvedimenti amministrativi vige la regola della “forma scritta”, il che
significa che l’esternazione deve avvenire con la redazione di un testo scritto. Non vige invece
alcuna regola vincolante di forme solenni : è possibile infatti che l’esternazione assuma una certa

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forma (ad esempio, il decreto o l’ordinanza), ma in realtà il provvedimento può essere esternato in
qualsiasi altra forma, purché scritta. In questo senso si può parlare di “libertà delle forme” :
«qualunque modo espressivo del provvedimento scritto è valido».
Si può concludere che elementi essenziali del provvedimento sono solo il CONTENUTO
DECISIONALE e LA SUA ESTERNAZIONE : quindi perché il provvedimento sia considerato
esistente, basta che ci sia un regolamento di interessi (“contenuto decisionale”) in forma conoscibile
(“esternato”) e riferibile ad un organo attributario del potere di adottarlo.

4. Tipi di provvedimenti. I provvedimenti possono essere classificati in base al loro


“contenuto” e ai loro “effetti”.
Il nostro ordinamento conosce diversi CRITERI DI CLASSIFICAZIONE, in virtù dei quali la
dottrina distingue tra :

 “PROVVEDIMENTI COSTITUTIVI” : modificano precedenti assetti di interessi


(determinano la nascita, la modificazione o l’estinzione di situazioni giuridiche soggettive);
invece i PROVVEDIMENTI DICHIARATIVI” : verificano o certificano situazioni di fatto,
requisiti e qualificazioni (personali e reali).
 I “PROVVEDIMENTI GENERALI” : si rivolgono a gruppi indifferenziati di destinatari,
mentre i “PROVVEDIMENTI PARTICOLARI” riguardano destinatari ben individuati.
 I “PROVVEDIMENTI NORMATIVI” contengono precetti astratti e ipotetici (norme),
mentre i “PROVVEDIMENTI PRECETTIVI” contengono precetti concreti e disciplinano
situazioni reali (disposizioni) : ad esempio un regolamento è un atto normativo, mentre un
piano regolatore è un atto precettivo.
 I “PROVVEDIMENTI DI SECONDO GRADO” : sono quelli che hanno ad oggetto
precedenti provvedimenti (es. annullamento d’ufficio) o situazioni create da precedenti
provvedimenti (es. revoca).
 “PROVVEDIMENTI INAUTENTICI” : sono atti che non sono provvedimenti in senso
proprio, ma dal punto di vista giuridico sono trattati come se lo fossero (si pensi ai
“provvedimenti sanzionatori”, il cui compito non è quello di provvedere alla tutela di un
particolare interesse pubblico, ma solo quello di garantire il rispetto delle regole e, in caso di
violazione, sanzionare i comportamenti illeciti; si pensi anche ai “provvedimenti di gestione
di beni pubblici”, il cui compito è quello di assicurare una corretta gestione dei beni facenti
parte del patrimonio, mobiliare o immobiliare, dell’amministrazione).

5.I provvedimenti costitutivi. Essi sono provvedimenti che determinano


modificazioni nelle situazioni giuridiche soggettive e nel patrimonio giuridico dei privati. Queste
modificazioni possono essere favorevoli (ampliano il patrimonio giuridico del privato) o sfavorevoli
(lo impoveriscono). Si distinguono pertanto i PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI e i
PROVVEDIMENTI SFAVOREVOLI per i loro destinatari. In relazione ai provvedimenti
favorevoli, il privato è titolare di “INTERESSI LEGITTIMI PRETENSIVI”; in relazione ai
provvedimenti sfavorevoli è invece titolare di “INTERESSI LEGITTIMI OPPOSITIVI”. I
procedimenti finalizzati all’adozione di provvedimenti favorevoli sono iniziati su istanza di parte. I
procedimenti alla cui conclusione viene adottato un provvedimento sfavorevole sono ad iniziativa

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d’ufficio.
Mentre i PROVVEDIMENTI SFAVOREVOLI vengono inclusi nell’unica categoria dei
“provvedimenti ablatori”, i PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI sono suddivisi in “autorizzazioni”
e “concessioni”. Ma perché le autorizzazioni e le concessioni non sono state ricomprese in un’unica
categoria? La risposta al quesito ci è stata fornita dal Ranelletti : secondo l’autore, con le
“autorizzazioni” si rimuove un ostacolo all’esercizio di un diritto di cui il privato è già titolare ;
tuttavia, nonostante la definizione sia molto chiara, essa va precisata, perché nella realtà ci sono
anche delle ipotesi in cui il privato, prima di chiedere l’autorizzazione, non è già titolare di un
diritto soggettivo : infatti è possibile che una certa attività sia nella DISPONIBILITA’ TEORICA
del privato (che rispetto ad essa può essere titolare di un diritto, di una libertà o di una semplice
possibilità di svolgerla). In tali ipotesi, perciò, affinchè questa disponibilità teorica diventi effettiva,
occorre un “provvedimento autorizzatorio” dell’amministrazione, che, in vista della decisione da
adottare, deve verificare se l’attività che è nella disponibilità teorica del privato possa essere svolta
per non contrastare con interessi pubblici coinvolti.
Invece, per Ranelletti con le “concessioni” si conferiscono al privato nuovi diritti. Anche in questo
caso però dobbiamo fare una precisazione : la concessione, oltre a creare nuovi diritti, può
determinare l’acquisto di utilità diverse (ad es. le onorificenze). In questo caso possiamo dire che
beni e attività non sono nella disponibilità teorica del privato, ma nella disponibilità
dell’amministrazione o addirittura non sono nella disponibilità né del privato né
dell’amministrazione. Trattandosi di beni e attività indisponibili (= indisponibilità teorica), occorre
un provvedimento che crei tale disponibilità nel privato : è necessario, cioè, che l’amministrazione
adotti un “provvedimento concessorio”, in modo da attribuire al privato delle“utilitates” (diritti,
qualità, onorificenze), e ciò a sua volta può avvenire o trasferendo al privato diritti riservati
all’amministrazione o costituendo ex novo nuovi diritti.
Per comprendere meglio la distinzione, esaminiamo la vicenda del “permesso di costruire” : esso
prima era chiamato “licenza edilizia”, in base al presupposto che il diritto di costruire (ius
aedificandi) inerisse al diritto di proprietà : pertanto il provvedimento era necessario solo per
l’esercizio di tale diritto (aveva natura autorizzatoria). Successivamente il legislatore, ritenendo che
il ius aedificandi non attenesse al diritto di proprietà, ha sostituito l’atto autorizzatorio con un atto il
cui effetto era di attribuire il ius aedificandi al privato proprietario dell’area fabbricabile : pertanto
ha cambiato non solo il nome (“concessione di costruzione”), ma ha anche ritenuto che il
provvedimento avesse natura concessoria, affermandone al contempo il carattere oneroso (è stata
imposta infatti la corresponsione di un contributo per il suo rilascio). Tuttavia la Corte
costituzionale successivamente ha affermato che «la concessione a edificare non attribuisce diritti
nuovi, ma presuppone facoltà preesistenti». Cosicché il provvedimento ha conservato carattere di
“autorizzazione” e si è introdotta la nuova dizione di “permesso di costruire”.

6. I provvedimenti autorizzatori. Le “AUTORIZZAZIONI” presuppongono la


presenza, in capo al privato che le richiede, di diritti o facolta’. L’amministrazione, prima di
adottare un provvedimento autorizzatorio, deve valutare la compatibilità tra l’interesse privato e
l’interesse pubblico; tuttavia essa non segue sempre gli stessi parametri valutativi : 1) ci sono casi in
cui l’amministrazione verifica che il richiedente possieda i “requisiti tecnici, professionali o di
moralità cui la legge condiziona il rilascio dell’autorizzazione”. In questi casi, l’amministrazione -
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dovendo solo verificare la sussistenza di dati oggettivi - è “vincolata” al rilascio dell’autorizzazione,


laddove tale verifica si risolva positivamente (si pensi alla patente di guida, al passaporto o al porto
d’armi). 2) In altri casi l’amministrazione va a verificare le “caratteristiche del bene su cui il
richiedente vuole esercitare il suo diritto o la sua facoltà” : tali caratteristiche sono apprezzabili solo
usando criteri soggettivi (quindi variabili) e in questi casi l’amministrazione, a differenza
dell’ipotesi precedente, conserva i suoi “poteri discrezionali” (si pensi alle autorizzazioni
paesaggistiche). 3) Altre volte le autorizzazioni sono dirette ad “attuare programmi o a rispettare
criteri distributivi o contingentamenti” (si pensi alle autorizzazioni per aprire determinati esercizi
commerciali o esercitare determinate attività).
Ma ciò che accomuna le varie specie di autorizzazioni (che nella realtà assumono varie
denominazioni : licenze, permessi, abilitazioni, nullaosta, ecc.) è il particolare rapporto tra interesse
pubblico e interesse privato : con i provvedimenti autorizzatori si persegue l’INTERESSE
PRIVATO in quanto non contrastante con l’interesse pubblico; quindi l’ “interesse privato” assume
il ruolo di interesse principale e da perseguire con il provvedimento e l’“interesse pubblico” il ruolo
di interesse di contenimento o di impedimento.
Le caratteristiche delle autorizzazioni hanno permesso al legislatore di sostituire il rilascio dei
provvedimenti con una dichiarazione dell’interessato (con riferimento, però, alle attività di
carattere economico) : si tratta della “dichiarazione di inizio attività” (d.i.a.), introdotta dalla L.
241 / 1990 e recentemente trasformata in “segnalazione certificata di inizio attività” (s.c.i.a.).
*CONTINGENTAMENTI = limitazione imposta dallo Stato al consumo di determinati prodotti oppure determinazione da
parte dello Stato delle quantità massime in cui una determinata merce può essere importata o esportata.

7. I provvedimenti concessori. L’amministrazione può essere titolare di diverse


utilitates (beni, attività o diritti esclusivi); tuttavia, trattandosi di utilitates di cui solo
l’amministrazione può disporre, il privato che voglia acquisirle deve farne richiesta
all’amministrazione, che deciderà secondo le esigenze dell’interesse pubblico. A differenza di
quanto succede per le autorizzazioni, quindi, nel caso delle concessioni è l’INTERESSE
PUBBLICO ad essere al centro delle valutazioni. Con le concessioni si curano in via principale gli
interessi pubblici : si tiene conto degli interessi privati solo se essi non collidono con quelli
pubblici.
La posizione di predominio dell’amministrazione è evidente se si considerano i possibili oggetti
delle concessioni : 1) quanto ai BENI, essi sono “di proprietà pubblica” (demaniale) e da ciò deriva
il “diritto esclusivo di disporne”; 2) quanto alle ATTIVITA’, sono “attività riservate
all’amministrazione” (ad es. i servizi pubblici o la realizzazione di opere pubbliche); 3) riguardo
alle ALTRE UTILITATES (ad es., onorificenze o ricompense al valore civile e militare), deve
trattarsi di “utilitates che solo l’amministrazione può concedere”.
Se ne deduce, allora, che il privato (che chiede all’amministrazione il rilascio della concessione), a
differenza di quanto previsto per le autorizzazioni, non vanta alcun diritto pregresso su questi beni,
attività o utilitates, ma è solo titolare di “interessi legittimi”, che nascono dopo la presentazione
della domanda di concessione e vivono nel relativo procedimento.
Parte della dottrina ritiene che le concessioni, essendo atti favorevoli al privato, dovrebbero essere
considerate negozi o contratti (e non provvedimenti), ma questa conclusione non può essere
condivisa, perché – pur potendo in teoria l’amministrazione adottare, al posto delle concessioni,
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negozi o contratti (e in passato si sono verificati casi di questo genere), l’assoggettamento degli atti
concessori alla disciplina pubblicistica è stata dettata dall’esigenza di tutelare meglio i privati
interessati : il “richiedente”, infatti, essendo titolare di un interesse legittimo, può sfruttarne gli
strumenti di tutela sia nel procedimento sia contro il provvedimento; inoltre anche il “terzo
contrario al rilascio della concessione” ha titolo a partecipare al procedimento e ad impugnare la
concessione rilasciata ad altri. Queste forme di tutela sarebbero difficilmente concepibili se l’attività
dell’amministrazione si esprimesse in atti negoziali.
Le CONCESSIONI tradizionalmente si distinguono in COSTITUTIVE (quando assegnano
un’utilitas di nuova creazione al concessionario : si pensi ad esempio alla “concessione della
cittadinanza”) e TRASLATIVE (quando trasferiscono al concessionario un’utilitas che è nella
disponibilità dell’amministrazione; ad esempio le “concessioni di diritti di godimento esclusivo su
porzioni di beni demaniali” : suolo pubblico per tavolini di bar o tratti di litorale per stabilimenti
balneari). Le concessioni «non costitutive» ( = traslative) possono essere sostituite da d.i.a. (ora
s.c.i.a.).
Una specie particolare di concessioni sono le SOVVENZIONI, aventi ad oggetto l’erogazione di
danaro pubblico senza che siano previste prestazioni corrispettive da parte del sovvenzionato. Le
sovvenzioni devono rispondere a interessi pubblici (ad esempio, lo sviluppo industriale di un certo
territorio o di un certo settore o l’esigenza di riparare i danni causati da eventi naturali). Se le
finalità di interesse pubblico non vengono realizzate, la sovvenzione va revocata e il denaro erogato
deve essere restituito.
*CANONE = Il canone demaniale è un corrispettivo che il concessionario ha l'obbligo di corrispondere ed è, quanto alla sua
quantificazione, il risultato di una determinazione autoritativa dell'ente concedente. La P.A. esige un dato corrispettivo per l'uso speciale
o per lo sfruttamento commerciale del bene pubblico. Il canone di una concessione demaniale è quindi il corrispettivo per il godimento e
l'uso di un bene pubblico – del demanio o del patrimonio indisponibile - che si è attribuito ad un privato.

8. I provvedimenti ablatori. I PROVVEDIMENTI ABLATORI (dal latino


auferre = togliere) sono l’archetipo dei “provvedimenti autoritativi” e sono provvedimenti con cui
l’amministrazione priva il privato di un’utilitas (di un bene della vita) per esigenze di interesse
pubblico. La dottrina classifica i provvedimenti ablatori in base all’oggetto su cui incidono; essi si
distinguono pertanto in : 1) PROVVEDIMENTI ABLATORI PERSONALI (se incidono su libertà,
su diritti personali o su comportamenti leciti); 2) in PROVVEDIMENTI ABLATORI REALI (se
estinguono o limitano diritti reali); 3) e in PROVVEDIMENTI ABLATORI OBBLIGATORI (se
fanno sorgere obbligazioni a carico dei destinatari).

 I “PROVVEDIMENTI ABLATORI PERSONALI” si esplicano attraverso ordini o divieti


che l’amministrazione emana nei confronti di singoli o di gruppi di individui. Essi possono
incidere su quasi tutte le “liberta’” e i “diritti personali”. Alcune libertà però non possono
essere limitate (ad es., la libertà di professare la propria fede religiosa), altre possono essere
limitate solo con atti del giudice, e non con provvedimenti amministrativi, altre ancora
possono essere limitate con atti giudiziari, e solo in casi di necessità e di urgenza con
provvedimenti ablatori personali (ad esempio, la libertà di circolazione). Gli ordini possono
riguardare anche “comportamenti leciti” (come il non camminare su un lato di una strada).
I provvedimenti ablatori personali sono vari : essi vanno dagli “ordini di polizia” (ad es., di
farsi identificare o fermarsi) agli “ordini e divieti sanitari” (ad es., l’ordine di sottoporsi a
trattamento sanitario obbligatorio), agli “ordini con cui l’amministrazione impone certe

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prescrizioni a determinati soggetti per il rispetto di disposizioni legislative o regolamentari”


(ad es., in materia di sicurezza sul lavoro).
 I “PROVVEDIMENTI ABLATORI REALI” estinguono o limitano i diritti reali dei privati
e ne determinano l’acquisto da parte dell’amministrazione (o di altri beneficiari, anche
privati). Un esempio è l’“espropriazione per pubblica utilità” : con essa viene estinto il
diritto di proprietà del privato, diritto che viene acquisito a titolo originario da beneficiari,
pubblici o privati (i beneficiari cioè possono non coincidere con l’amministrazione
espropriante).
Alla categoria dei provvedimenti ablatori reali appartiene anche la “requisizione”, che ha per
presupposto situazioni di emergenza e di urgente necessità, può avere ad oggetto beni mobili
e immobili, e può riguardare sia la proprietà di essi che il loro uso temporaneo.
 I “PROVVEDIMENTI ABLATORI OBBLIGATORI” producono la nascita di un rapporto
obbligatorio tra l’amministrazione e il privato, in cui la prima ha il ruolo di creditore e il
secondo quello di debitore. La prestazione dedotta in obbligazione consiste in “somme di
denaro” o “prestazioni personali”. Un esempio del primo tipo è il tributo; un esempio del
secondo tipo è la precettazione in caso di sciopero (= provvedimento amministrativo con cui
si impone il termine di uno sciopero). A questi provvedimenti si applica l’art. 23 Cost.,
secondo cui “Le prestazioni personali o patrimoniali possono essere imposte
dall’amministrazione solo se previste dalla legge” : la riserva di legge deve essere ritenuta
relativa, nel senso che la legge non deve necessariamente disciplinare tutti gli aspetti della
prestazione imposta.

*REQUISIZIONE : la requisizione è l'atto giuridico con cui si priva un soggetto dei suoi diritti di possesso (e talvolta
la proprietà) di un bene. È cioè un provvedimento con il quale la P.A. sottrae al privato (in via temporanea o definitiva) il
godimento di un bene, mobile o immobile, a motivo del superiore interesse pubblico, contro un indennizzo.
Si distingue tra “requisizione in proprietà” (riguarda solo i beni mobili ed ha effetti definitivi) e “requisizione in uso” (può
interessare anche i beni immobili ed ha effetti limitati al tempo necessario per l'utilizzo del bene). La requisizione
è consentita solo “quando ricorrano gravi e urgenti necessità pubbliche. Che differenza c’è tra l’ “espropriazione” e la
“requisizione in proprietà”?
In entrambi i casi la persona viene privata della proprietà di un bene, ma la requisizione si differenzia dalla
espropriazione perché non è sufficiente un generico pubblico interesse, ma è necessaria la presenza di gravi e urgenti
necessità, tipiche delle situazioni impreviste o imprevedibili. Inoltre, l’espropriazione può avere ad oggetto beni immobili
(case, terreni ecc.), mentre la requisizione in proprietà esclusivamente beni mobili.

-CAPITOLO 2. IL REGIME DEI PROVVEDIMENTI :


L’EFFICACIA-

1.Nozioni generali. L’“EFFICACIA DI UN ATTO GIURIDICO” è la sua idoneità a


produrre effetti giuridici (cioè la sua capacità di incidere nei rapporti fra le parti o anche nei
confronti di terzi con la produzione di effetti costitutivi, modificativi, estintivi o meramente
dichiarativi). Questa capacità di produrre effetti presuppone la sussistenza di un “rapporto tra due
entità (un valore e un fatto), che però non sempre si completa nella realtà, se l’obbligazione resta
insoddisfatta (ad es. da un contratto stipulato fra due parti scaturisce il dovere di pagare il
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corrispettivo pattuito, ma ciò non implica che la concreta dazione abbia effettivamente luogo).
L’“EFFICACIA” può essere oggetto di una duplice considerazione : riguardo ad uno specifico atto
(e in tal caso assumeranno rilevanza gli effetti tipici, propri di uno specifico atto) e riguardo a una
specifica categoria di atti (e in tal caso, assumeranno rilevanza gli effetti propri dell’intera
categoria di atti con caratteri comuni).
Dal punto di vista temporale, l’efficacia è di regola istantanea, anche se esistono anche fattispecie a
efficacia retroattiva, differita o addirittura sottoposti a condizione sospensiva (in quest’ultimo caso,
però, bisogna tener presente che la sospensione paralizza gli effetti dell’atto, ma non ne pregiudica
la validità : questo perché gli incisi “inefficacia” e “invalidità” attengono a due ambiti diversi;
infatti, mentre l’inefficacia è il “prodotto di alcuni aspetti della volontà delle parti o comunque di
elementi estrinseci al negozio”, l’invalidità è il “portato di vizi intrinseci all’atto”, che è difforme
alle norme giuridiche che lo disciplinano).
Inoltre l’efficacia di un atto presuppone necessariamente la sua validità (perfezione), ma non è vero
il contrario : possono cioè individuarsi atti “validi”, ma inefficaci. Tuttavia l’efficacia di un atto
non è preclusa da “vizi di annullabilità” che, finché non vengono fatti valere, non impediscono la
produzione di effetti giuridici.
L’INEFFICACIA in genere è assoluta (nel senso che può essere opposta a tutti) : ciò significa che
l’atto non può essere fatto valere né a favore, né contro alcuno (= cioè non produce effetti nei
confronti di nessuno). Questa regola, però, conosce delle eccezioni, poiché il nostro ordinamento
contempla alcune ipotesi di “inefficacia relativa”, così denominate perché inficiano l’atto non nei
suoi effetti diretti, ma in quelli riflessi : in tal caso solo i terzi interessati possono far valere
l’inefficacia (l’esempio tipico è il negozio giuridico, che, pur essendo efficace tra le parti contraenti,
non è opponibile a terzi, che proprio per questo motivo, potranno far valere l’inefficacia dello
stesso).
A volte l’efficacia di un atto è subordinata all’adozione di un altro atto, la cui presenza è necessaria
per eliminare un limite legale imposto dall’ordinamento : in questi casi, l’atto ulteriore può essere
preventivo (autorizzazione) o successivo (approvazione, omologazione) : in questi casi si parla di
“ATTI INTEGRATIVI DELL’EFFICACIA”.
Distinguiamo 3 tipi di efficacia :

 L’“EFFICACIA COSTITUTIVA”, si ha quando l’atto è in grado di produrre allo stesso


tempo una molteplicità di effetti, e quindi di costituire, modificare o estinguere situazioni
giuridiche soggettive (ad esempio nell’“espropriazione”, l’adozione del provvedimento
comporta : 1) la perdita del diritto di proprietà e la nascita del diritto ad ottenere
l’indennizzo; 2) l’acquisizione del diritto di proprietà e l’obbligo di indennizzare il soggetto
espropriato).
 L’ “EFFICACIA DICHIARATIVA”, che è propria degli atti per cui l’effetto si produce sì al
momento della loro emanazione, ma non è da essi determinato, poiché essi si limitano a
riconoscere un dato, una qualità che non è l’atto a generare. In dottrina se ne distinguono 3
ipotesi : 1) il RAFFORZAMENTO : l’effetto dell’atto si sostanzia non nel mutamento, ma
nella conferma di una situazione giuridica preesistente; 2) l’AFFIEVOLIMENTO : (che si
contrappone al rafforzamento) l’effetto si sostanzia nella riduzione della forza
dell’originaria situazione giuridica (ad esempio, la cancellazione di un bene demaniale dal
relativo elenco); 3) la SPECIFICAZIONE : l’effetto si sostanzia nella precisazione del
contenuto della situazione giuridica (si pensi agli ordini impartiti dal datore di lavoro ai
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dipendenti sulle diverse circostanze che possano determinarsi durante la prestazione


lavorativa).
 L’’“EFFICACIA PRECLUSIVA”, che si produce quando l’emanazione dell’atto preclude
ogni eventuale contestazione su un fatto della cui verità si dubita. Atti ad effetto preclusivo
sono “quelli di accertamento”, volti a precludere ogni tipo di contestazione.

2. L’efficacia degli atti amministrativi. Rispetto agli “atti giuridici”, gli “atti
amministrativi” e i “provvedimenti amministrativi” sono espressione di un potere pubblico
(normativamente predefinito) il cui esercizio è affidato a organi della P.A. per perseguire
determinati interessi pubblici. Sul piano dell’efficacia, il provvedimento amministrativo – a
differenza degli atti giuridici – è in grado di trasformare il proprio contenuto dispositivo in
conseguenze pratiche (cioè di produrre effetti) anche a prescindere dalla volontà del destinatario (in
tal senso si dice che il provvedimento ha “efficacia unilaterale”).
Tuttavia, l’“incidenza ( = efficacia) unilaterale del provvedimento amministrativo sulla sfera
giuridica altrui” è stata posta in discussione da alcuni studiosi riguardo ai PROVVEDIMENTI
FAVOREVOLI per il destinatario (autorizzazioni e concessioni), il cui rilascio è subordinato ad
un’apposita istanza degli interessati. Questa teoria, tuttavia, non può essere condivisa, in quanto per
questi provvedimenti, pur essendo possibile l’assoluta coincidenza della volontà delle parti (la P.A.
e il privato), l’ “istanza del privato” non può essere equiparata a una “manifestazione di consenso”,
poiché non si realizza una fusione di volontà : questa istanza, piuttosto, deve essere intesa come una
condicio sine qua non, senza la quale l’amministrazione non può attivarsi; inoltre
l’amministrazione, una volta attivatasi, potrà anche discostarsi dalla richiesta dell’interessato, non
solo respingendola, ma anche imponendo una serie di vincoli e limiti (che sono incompatibili con la
logica della parità contrattuale).
Una volta, quindi, confermata l’incidenza unilaterale del provvedimento amministrativo,
bisogna analizzare le caratteristiche di quest’efficacia, così come descritte dalla L. 241 / 1990 :

 L’AUTORITA’ : esprime la capacità, propria del provvedimento, di manifestare in


concreto quella stessa autorità che in astratto è prerogativa degli enti autarchici.
 L’IMPERATIVITA’ (sinonimo di “autorità”) : è l’idoneità del provvedimento
amministrativo ad incidere su situazioni giuridiche soggettive a prescindere dal consenso
del loro titolare.
 L’ESECUTIVITA’ : consiste, invece, nella produzione di effetti da parte di un
provvedimento efficace, a prescindere dalla sua validità.
 L’ESEGUIBILITA’ : indica la possibilità per il provvedimento di produrre i propri effetti
per assenza di cause impeditive.
 L’INOPPUGNABILITA’ : è la caratteristica di un provvedimento di cui sia ormai preclusa
l’impugnazione davanti al giudice amministrativo. Naturalmente, in questi casi nulla esclude
che la stessa amministrazione che ha adottato il provvedimento possa decidere, in
conformità all’interesse pubblico tutelato, di annullare o revocare lo stesso.

3. L’efficacia nello spazio. Lo SPAZIO e il TEMPO sono coordinate che incidono


sull’efficacia degli atti amministrativi. Lo SPAZIO delimita la competenza amministrativa per

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territorio : infatti l’amministrazione competente (che può essere un ente territoriale, un’articolazione
decentrata dell’amministrazione statale, un ente pubblico, ecc.) può emanare atti che hanno
efficacia solo nell’ambito territoriale di propria competenza (si pensi all’ “ordine di demolizione di
costruzione abusiva”, emanato dal sindaco, che non può colpire un manufatto che sorge al di fuori
del Comune). Tuttavia ci sono delle eccezioni : 1) alcuni “atti emanati da organi di un ente
territoriale” esplicano efficacia anche al di fuori del territorio dell’ente (si pensi alla carta di
identità, rilasciata dal Comune e valida su tutto il territorio nazionale); 2) gli “atti concernenti status
o capacità” e i “documenti di riconoscimento”, che vengono rilasciati dagli enti in cui si risiede o
dagli enti che curano appositi albi o registri a cui la persona è iscritta, spiegano effetti anche al di
fuori del territorio di competenza (il certificato rilasciato dalla Camera di commercio di una certa
Provincia legittima a partecipare a gare pubbliche bandite su tutto il territorio nazionale; e
l’architetto iscritto all’ordine degli architetti di Milano può esercitare la sua professione in tutto il
territorio nazionale); 3) i “provvedimenti di polizia”, che non sono sottoposti a limitazioni
territoriali nonostante provengano da organi decentrati (questura, commissariati, ecc.).
La giurisprudenza ritiene che la “violazione di norme sulla competenza territoriale” determini la
NULLITA’ DELL’ATTO.

4. L’efficacia nel tempo. L’ EFFICACIA TEMPORALE rileva sotto due profili : 1)


quello della “decorrenza degli effetti” (cioè, il momento in cui il provvedimento comincia a
produrre i propri effetti); 2) e quello della “durata degli effetti” (fino all’eventuale cessazione).

 Quanto alla DURATA : distinguiamo “atti ad effetto istantaneo” (come l’ordine di


demolizione di un manufatto abusivo), “atti ad effetto prolungato nel tempo” (come la
concessione d’uso di un bene demaniale) e “atti ad effetto permanente” (come gli atti di
certazione : la loro efficacia permane finché non mutano il soggetto, il bene e il rapporto tra
soggetto e bene).

Particolare attenzione deve essere riservata agli effetti che può esplicare un provvedimento
riguardante un “rapporto di durata a cui sia stato apposto un termine ” : è chiaro che l’efficacia nel
tempo di un tale provvedimento si esaurisce allo scadere del termine prescritto; tuttavia essa
(l’efficacia), in presenza di presupposti specifici, può essere prorogata (con un atto che modifichi
la mera durata del rapporto) o rinnovata (con un atto che instauri un nuovo rapporto, uguale al
precedente). Inoltre grazie all’istituto della PROROGATIO, il titolare di un organo continua ad
esercitare le sue funzioni anche dopo la scadenza del mandato e finché non sia nominato o eletto il
suo sostituto. Giustificato in base a esigenze di “continuità dell’esercizio delle funzioni”, l’uso
improprio dell’istituto ha talvolta consentito la proroga sine die (= scadenza a una data indefinita :
cioè i titolari scaduti continuavano a esercitare funzioni amministrative talvolta anche per anni).
Perciò il legislatore ormai regola la prorogatio con la “nullità degli atti posti in essere dopo la
scadenza del mandato” e la Corte Costituzionale ha stabilito che la proroga non può spingersi oltre
i 45 giorni dalla scadenza del mandato.

 E passiamo ora alla DECORRENZA DEGLI EFFETTI DEL PROVVEDIMENTO : al


riguardo, il criterio da seguire è quello contenuto nell’art. 21-bis (introdotto nella L. 241 /
1990 dalla L. 15 / 2005) : questa norma – che si riferisce ai soli “provvedimenti limitativi
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della sfera giuridica dei destinatari” – dispone che “il provvedimento amministrativo
comincia a produrre i suoi effetti nei confronti dei destinatari dal momento della sua
comunicazione”. Quindi, l’“obbligo di comunicare ai destinatari il provvedimento” è una
condicio sine qua non, nel senso che senza la comunicazione il provvedimento non potrà
produrre effetti. Prima dell’entrata in vigore di questa disposizione, la comunicazione del
provvedimento all’interessato era solo la condizione per la decorrenza del termine di
impugnazione dell’atto davanti al giudice amministrativo. L’obbligo di procedere alla
comunicazione come “condizione di efficacia” era affermato solo per i c.d. “atti recettizi”
(atti che determinano l’insorgenza di obblighi in capo ai destinatari).
Dopo la riforma del 2005, la “mancata comunicazione del provvedimento” determina la sua
INEFFICACIA, ma non la sua invalidità : essa infatti agisce in termini di “mancata
produzione degli effetti” e di “mancata decorrenza dei termini per l’impugnazione”. L’art.
21-bis tuttavia limita l’obbligo di comunicazione ai provvedimenti limitativi della sfera
giuridica dei privati : il legislatore ha così voluto escludere dall’ambito di operatività
dell’art. 21-bis i “provvedimenti favorevoli per i destinatari”, perché per questi non si pone
un problema di tutela nei confronti dell’azione amministrativa. Tuttavia, questa conclusione
del legislatore non può essere condivisa, poiché il provvedimento favorevole al destinatario
può comunque incidere negativamente sulla sfera giuridica di terzi (pensiamo a
un’autorizzazione o una concessione che producano, nei confronti dei “terzi
controinteressati”, effetti pregiudizievoli; o, ancora, a un’altra categoria di “terzi” : cioè i
soggetti interessati a ottenere la stessa concessione rilasciata a un privato). Ciò ci fa
comprendere che i “provvedimenti favorevoli” se, da un lato, ampliano la sfera giuridica di
un soggetto (il destinatario), dall’altro impoveriscono la sfera giuridica di altri soggetti, che
proprio per questo motivo devono essere qualificati, anch’essi, come destinatari del
provvedimento : con ciò si vuol dire, in altri termini, che anche i “provvedimenti favorevoli”
sono soggetti all’obbligo di comunicazione ex art. 21-bis (poiché è necessario considerare
non solo il loro profilo ampliativo, ma anche quello limitativo).
Inoltre in dottrina si discute se l’efficacia del “provvedimento con cui l’amministrazione
nega un’istanza volta ad ampliare la sfera giuridica dell’interessato” sia subordinata alla
“comunicazione” allo stesso : al riguardo è preferibile l’orientamento che estende l’obbligo
di comunicazione anche ai dinieghi di provvedimenti ampliativi.
Ad ogni modo, la regola dell’“obbligo di comunicazione come condizione di efficacia”
subisce due eccezioni : 1) la prima, a carattere automatico, riguarda i PROVVEDIMENTI
CAUTELARI E URGENTI, che sono immediatamente efficaci, anche prima che il
destinatario ne abbia ricevuto comunicazione (si pensi ad es. all’ordine di demolizione di un
muro pericolante); 2) la seconda eccezione è rimessa invece a una scelta
dell’amministrazione, che ha la possibilità di inserire nel provvedimento una MOTIVATA
CLAUSOLA DI EFFICACIA IMMEDIATA (purchè, però, non si tratti di “provvedimenti
sanzionatori”).
Di norma la comunicazione va fatta a ciascun destinatario. Ove questo sia irreperibile,
vanno applicate le apposite norme del codice di procedura civile. Nel caso in cui, invece, il
numero dei destinatari sia tale da rendere impossibile o estremamente gravosa la
comunicazione personale, questa ha luogo con forme idonee di pubblicità (ricorso alla
stampa, pubblicazione in gazzette ufficiali, ecc.). Quanto, invece, alle forme della

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comunicazione, l’amministrazione è libera di individuare quelle che reputa più adeguate


(anche il servizio postale o la telematica).
Una particolare attenzione deve essere dedicata al rapporto tra l’EFFICACIA DEL
PROVVEDIMENTO e la sua ESECUZIONE : si tratta di un rapporto disciplinato dall’art.
21-quater della L. 241 / 1990, che stabilisce che : “I provvedimenti amministrativi efficaci
sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal
provvedimento stesso” (in tal modo, il legislatore ha voluto evitare un distacco tra l’efficacia
del provvedimento e la sua esecuzione). Anche questa disposizione, però, conosce delle
eccezioni, poiché vi sono provvedimenti la cui efficacia è sottoposta a “condizione
sospensiva” o a “termine iniziale” : 1) il TERMINE INIZIALE indica un preciso momento
futuro a partire dal quale si produrranno gli effetti del provvedimento;
2) può operare invece come CONDIZIONE SOSPENSIVA il “controllo di legittimità” a cui
è sottoposto il provvedimento amministrativo, poiché solo all’esito positivo della verifica lo
stesso potrà esplicare efficacia. In tal caso, il provvedimento esplicherà i suoi effetti in modo
retroattivo (ossia dal perfezionamento dell’atto).
E chiudiamo proprio riservando qualche accenno alla possibilità, per il provvedimento
amministrativo, di far retroagire i propri effetti : di norma, il provvedimento amministrativo
- stante il “principio di irretroattività degli atti giuridici” di cui all’art. 11 delle Preleggi, e
anche per tutelare la “buona fede” e il “legittimo affidamento” del destinatario di un
precedente provvedimento amministrativo - non può avere efficacia retroattiva (a meno che
non ci sia il consenso del destinatario del provvedimento o il provvedimento non finisca per
esplicare solo effetti favorevoli). Solo in questi casi è legittimata l’adozione di
PROVVEDIMENTI AD EFFICACIA ORA PER ALLORA (retrodatazione) : cioè atti che
avrebbero dovuto essere emanati in un determinato momento, ma che per ragioni diverse
non lo furono. In questi casi, l’amministrazione fa retroagire gli effetti di quei
provvedimenti al momento in cui gli stessi avrebbero dovuto prodursi, benchè l’atto sia stato
adottato solo in seguito. Infine, un’altra importante eccezione alla regola dell’irretroattività è
rappresentata dai “provvedimenti di secondo grado” (che infatti hanno “efficacia
retroattiva”).

*CONDIZIONE SOSPENSIVA = quella da cui dipende l’efficacia dell’atto.

*ATTI DI CERTAZIONE = “atti dichiarativi” che hanno la funzione di attribuire certezza legale ad un dato (un fatto, un
atto, una qualità, uno status, un rapporto). Non si limitano ad attribuire una qualità giuridica ad un’entità giuridica
esistente, ma creano essi stessi delle qualificazioni giuridiche (es. atti costitutivi di uno status).

5. L’efficacia soggettiva. L’EFFICACIA SPAZIALE, oltre ad individuare la


competenza degli enti pubblici, delimita anche l’ambito di soggettività passiva di riferimento.
Mentre il problema è modesto per i “provvedimenti amministrativi” (essendo in essi individuati i
destinatari ed essendo facilmente individuabili i terzi controinteressati), la situazione è più
complessa per gli “atti a contenuto normativo o generale” : questi ultimi hanno come destinatari
tutti quei soggetti che si trovano in rapporto giuridicamente rilevante con il territorio di
riferimento (così un divieto temporaneo di circolazione sul territorio comunale potrà riguardare

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indistintamente tutti gli automobilisti, non solo i residenti). Inoltre, il provvedimento


amministrativo può esprimere la sua efficacia riguardo sia a “figure soggettive individuali” che
“plurime” (private o pubbliche : infatti crescono le ipotesi di provvedimenti amministrativi che
hanno per destinatari altri soggetti pubblici). Proprio in relazione ai provvedimenti amministrativi
che si rivolgono a più soggetti, la dottrina distingue tra :

 L’“ATTO COLLETTIVO” : ha ad oggetto fatti relativi ad ordinamenti particolari o ad


uffici collettivi. Esso produce effetti non solo nei confronti della categoria di riferimento,
ma anche riguardo a ciascun appartenente alla stessa. Sta dunque a ciascuno di questi
soggetti (oltre che ai rappresentanti della categoria) poter reagire attraverso l’esercizio di
un’apposita azione, giudiziaria o meno.
 L’“ATTO PLURIMO” : è quello con cui in un’unica dichiarazione si raccolgono atti rivolti
a più soggetti. Perciò esso è scomponibile in più atti, ciascuno diretto ad uno o più soggetti.
Ne deriva che ciascuna parte interessata potrà reagire proponendo azioni contro quella parte
di provvedimento che colpisce la sua sfera giuridica.
 L’“ATTO GENERALE” : è invece quell’atto che ha come destinatari gruppi indeterminati
di soggetti, a prescindere dall’appartenenza degli stessi a una stessa categoria. Ne discende
che ciascuno dei suoi destinatari è legittimato a reagire allo stesso, se leso in una posizione
giuridica soggettiva di cui sia titolare.

DESTINATARI DELL’ATTO, ai sensi dell’art. 7 della L. 241 / 1990, sono “tutti i soggetti nella
cui sfera giuridica l’atto è destinato direttamente a produrre effetti”, nonché “coloro che sono stati
legittimati ad intervenire nel relativo procedimento amministrativo”. Tuttavia la giurisprudenza non
riconosce la legittimazione all’azione giurisdizionale a coloro che, pur avendo partecipato al
procedimento amministrativo, non vantano comunque un interesse diretto, personale e attuale.

6. L’efficacia oggettiva. Il provvedimento amministrativo può avere EFFICACIA


COSTITUTIVA, MODIFICATIVA, ESTINTIVA o DICHIARATIVA. Gli atti prodromici (= che
vengono prima) al provvedimento hanno solo una “funzione di supporto”, un effetto strumentale
limitato a situazioni procedimentali. Poiché essi hanno luogo nella fase istruttoria del procedimento,
non sono definitivi (quindi lesivi), poichè il provvedimento finale può discostarsene motivatamente
(a meno che non si tratti di un’attività vincolata e obbligatoria, nel qual caso l’istruttoria, una volta
portata a termine, non lascia all’amministrazione alcun margine di valutazione o di decisione). Sotto
il profilo oggettivo, il provvedimento può produrre EFFETTI REALI (= se l’atto che ha per oggetto
la trasmissione o la costituzione di un diritto reale, ad es. la proprietà) e OBBLIGATORI (= fanno
sorgere un rapporto obbligatorio) : quanto ai primi, si consideri la costituzione della nuova proprietà
dopo l’espropriazione di un bene; quanto agli effetti obbligatori, si pensi all’imposizione di un
tributo. Sempre dal punto di vista dell’ “efficacia oggettiva”, poi – accanto ai “provvedimenti
ampliativi della sfera giuridica dei destinatari” (autorizzazioni, concessioni) – meritano attenzione :

 i “provvedimenti amministrativi diretti alla risoluzione di determinate controversie” (c.d.


“decisioni amministrative contenziose”);
 i “provvedimenti amministrativi deputati ad irrogare sanzioni amministrative”;

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 i “provvedimenti amministrativi che conferiscono qualita’ giuridiche a cose o persone” o


quelli che “costituiscono certezze legali” (c.d. “atti di certazione”).

7. La sospensione dell’efficacia. La riforma della L. 241 / 1990 ha cristallizzato in


un’apposita norma un principio di origine giurisprudenziale : la “SOSPENSIONE
DELL’EFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO”. L’art. 21-quater, 2°comma
dispone che “L’efficacia del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e
per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato o da un altro organo
previsto dalla legge. La sospensione va accompagnata dall’indicazione esplicita del termine, che è
prorogabile o differibile per una sola volta, ma anche riducibile per sopravvenute esigenze”.
Prima della novella della L. 241 / 1990, il potere di sospensione dei provvedimenti amministrativi
rientrava tra i c.d. POTERI IMPLICITI (ossia quelli insiti nella stessa attribuzione di una funzione
pubblica). Ma analizziamo nel dettaglio la disposizione : il limite rigoroso individuato dall’art. 21-
quater, 2°comma riguarda l’“ORGANO COMPETENTE”, che deve coincidere con quello che ha
emanato l’atto o con un altro organo espressamente previsto dalla legge.
La discrezionalità dell’amministrazione sui “presupposti” e sulla “durata della sospensione” è
ampia : i PRESUPPOSTI sono costituiti da «gravi ragioni». Le «gravi ragioni» che legittimano la
sospensione si riferiscono sia a “valutazioni di opportunità operate dall’amministrazione”, sia a
“valutazioni di legittimità di un provvedimento”. La DURATA DELLA SOSPENSIONE si correla
al «tempo strettamente necessario», anche se l’amministrazione può comunque disporre – anche se
per una sola volta – la proroga, il differimento o la riduzione del termine per “esigenze
sopravvenute”. Ma in ogni caso, l’amministrazione, nel procedere alla sospensione dell’efficacia
del provvedimento, è tenuta a indicare il termine finale. La P.A. ha ormai un potere generale di
sospensione dei propri provvedimenti, ma il “procedimento volto all’adozione della sospensione
dell’efficacia di un provvedimento” è assistito comunque da tutte le garanzie previste dall’art. 7
della L. 241 / 1990 : ciò significa che l’amministrazione ha l’obbligo di comunicare l’avvio del
procedimento (a meno che non si tratti di un “provvedimento vincolato” o siano espressamente
indicate nel provvedimento finale le esigenze di celerità che giustificano la mancata comunicazione
di avvio del procedimento).

*DIFFERIRE = rimandare;

*ART. 7, 2°comma = “Nelle ipotesi di comunicazione di avvio del procedimento, resta salva la facoltà
dell’amministrazione di adottare, anche prima dell’effettuazione della comunicazione, provvedimenti
cautelari”.

8. L’esecutorietà del provvedimento amministrativo. Con il


provvedimento amministrativo l’autorità dispone qualcosa, un qualcosa che di solito richiede
un’attività materiale ulteriore (da parte del privato o della stessa autorità). Volendo esemplificare,
in relazione a una prima serie di casi, il privato – dopo l’emanazione del provvedimento – ha la
possibilità di porre in essere una determinata attività : ad es., una volta che gli è stata rilasciata
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un’autorizzazione, il privato può svolgere un’attività che in precedenza gli era vietata (costruire una
casa, ecc.). In altri casi, invece, egli non ha la facoltà, ma l’obbligo di porre in essere un’attività (ad
es. quando gli viene notificato un ordine di demolizione) : in questi casi, se il privato non ottempera,
l’amministrazione può imporre l’ “esecuzione coattiva dell’obbligo inadempiuto”, senza necessità
di rivolgersi al giudice, e ciò in forza di un “principio di esecutorietà degli atti amministrativi”. L’
“ESECUTORIETA’” è l’attitudine di un provvedimento ad essere portato in esecuzione anche
contro la volontà del soggetto obbligato e senza necessità di una pronuncia del giudice.
L’esecutorietà, però, non è una caratteristica di tutti i provvedimenti amministrativi, ma integra uno
specifico “potere che la legge può attribuire all’amministrazione nel regolamentare alcuni
provvedimenti”. Il “principio di legalità” esclude, insomma, che il POTERE DI ESECUZIONE
COATTIVA possa ritenersi compreso nel POTERE DI ADOZIONE DEGLI ATTI.
L’art. 21-ter della L. 241 / 1990 stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni possono imporre
coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti solo nei casi e con i modi previsti
dalla legge, indicando ai destinatari tempi e modalità esecutive” (
= insomma l’ “esecuzione coattiva da parte dell’amministrazione” può essere imposta solo nelle
ipotesi e con i modi previsti dalla legge). Quindi l’“esecutività del provvedimento” presuppone la
sussistenza di un “obbligo”, ed è proprio in relazione al contenuto di quest’obbligo imposto al
destinatario del provvedimento che distinguiamo le seguenti “attività esecutive” :

 per gli OBBLIGHI DI FARE INFUNGIBILI (cioè, che necessitano di un’azione


dell’obbligato) l’amministrazione, nei casi previsti dalla legge, è autorizzata a procedere in
modo coercitivo (ad es., nel caso dell’espulsione del cittadino extracomunitario che si trovi
illegalmente nel territorio dello Stato). In ogni caso, trattandosi di forme di coazione fisica
sulla persona, il ricorso a questi strumenti è eccezionale e viene coinvolta anche l’autorità
giudiziaria;
 per gli OBBLIGHI DI FARE FUNGIBILI, l’amministrazione può procedere d’ufficio (es. :
se il proprietario non procede alla demolizione di un proprio edificio abusivo,
l’amministrazione comunale può, a spese dell’obbligato, sostituirsi allo stesso, eseguendo la
demolizione);
 per gli OBBLIGHI DI CONSEGNA DI UNA COSA, l’amministrazione procede
all’apprensione coattiva del bene;
 per gli OBBLIGHI DI DARE (relativi a somme di denaro), infine, l’amministrazione
procede ad “esecuzione forzata”, mediante apposita iscrizione nei ruoli esattoriali.

*APPRENSIONE = prendere;

*DIFFIDA = formale avvertimento ad un soggetto ad ottemperare ad un obbligo;

*RUOLO ESATTORIALE = atto emesso dalla P.A. contenente l’elenco delle somme dovute per ciascun
contribuente sulla base di un titolo esecutivo. E’ uno strumento con cui la P.A. attiva un “procedimento di
riscossione coatta del credito” vantato nei confronti del contribuente.

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-CAPITOLO 3. L’INVALIDITA’ DEL PROVVEDIMENTO


AMMINISTRATIVO-

1. Validità e invalidità in diritto amministrativo. VALIDITA’ e


INVALIDITA’ indicano una qualità di un oggetto (una res, un atto, una norma) che scaturisce da un
giudizio di conformità di tale oggetto con un modello di riferimento : pertanto, se il giudizio di
conformità è positivo, si avrà una fattispecie VALIDA, se è negativo avremo una fattispecie
INVALIDA. La “validità”, quindi, è la conformità dell’atto al paradigma normativo di riferimento.
Dal punto di vista giuridico, avremo un atto valido o invalido a seconda che ci sia conformità o
difformità dal modello legale. Il “provvedimento amministrativo” è l’oggetto su cui deve essere
appuntato il “giudizio di conformità”. Possono poi aversi, all’interno della più ampia figura
dell’INVALIDITA’, ipotesi di “nullità” e di “annullabilità”.

2. L’annullabilità. Il sistema delle INVALIDITA’ DI DIRITTO AMMINISTRATIVO si è


formato in sede giurisprudenziale, dal momento che la relativa disciplina (processuale) era
contenuta in origine in due disposizioni processuali : l’art. 26 del “t.u. del Consiglio di Stato” (che
individuava i 3 vizi di “incompetenza”, “eccesso di potere” e “violazione di legge”, poi racchiusi
dalla dottrina nella categoria dell’ “ILLEGITTIMITA’”) e l’ art. 45 del t.u. del Consiglio di Stato
(che prevedeva l’annullamento dell’atto invalido-illegittimo impugnato). Recepito questo
orientamento, attualmente il nostro sistema prevede - all’art. 21-octies della L. 241 / 1990
(introdotto dalla L. 15 / 2005) e, dunque, anche sul piano sostanziale - tre “vizi”, cioè tre forme di
invalidità : “incompetenza”, “violazione di legge” ed “eccesso di potere”, ma unico è il regime che
li accomuna : quello, cioè, dell’annullabilità. L’ILLEGITTIMITA’ indica lo stato viziato del
provvedimento, mentre l’ANNULLABILITA’ è la conseguenza giuridica dell’illegittimità.
L’“atto annullabile” è l’atto che, pur essendo invalido, produce i suoi effetti fino a quando non
venga annullato (dal giudice amministrativo) : ciò significa che in quest’intervallo di tempo l’atto
invalido produce i suoi effetti come se fosse valido; ed è proprio per questo che tecnicamente si
parla (il relazione al “provvedimento amministrativo invalido”) del c.d. modo dell’equiparazione
degli effetti dell’atto invalido a quelli dell’atto valido. In questo modo (optando, cioè, per
l’annullabilità), il legislatore ha voluto contemperare le ragioni del cittadino con quelle
dell’amministrazione : dando al primo il potere di impugnare l’atto invalido, ma allo stesso tempo
mantenendo l’efficacia dell’atto fino alla pronuncia del giudice sull’accertamento dell’invalidità.
Se, viceversa, il legislatore avesse optato per il regime della “nullità” (c.d. atto privo di effetti), il
privato avrebbe potuto sottrarsi ai comandi derivanti dall’atto o avrebbe potuto considerarlo
inesistente. Ciononostante, il nostro ordinamento conosce delle “specifiche ipotesi di nullità” (ad
esempio, l’atto emesso in carenza di potere).
Ma tornando all’annullabilità, un’altra precisazione deve essere dedicata al “modo
dell’equiparazione” : la possibilità, riconosciuta al provvedimento invalido, di spiegare effetti
giuridici fino all’eventuale pronuncia del giudice amministrativo è stata usata dalla dottrina per
superare la nozione di “invalidità del provvedimento amministrativo” (in modo da evitare una
sovrapposizione con la categoria dell’“invalidità”, propria del contratto di diritto privato); così
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facendo, la dottrina è giunta alla conclusione che il riconoscimento dell’ idoneità del provvedimento
amministrativo invalido a spiegare effetti giuridici trova la propria ragion d’essere sotto un “profilo
funzionale” (e non strutturale, come avviene per il contratto), in virtù del fatto che il “giudizio di
validità del provvedimento” deve avere come punto di riferimento l’idoneità del comportamento
posto in essere dall’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico. Di conseguenza, basando il
giudizio sul piano della “carenza funzionale”, a scapito di quella “strutturale” (vizi della volontà e
dell’esternazione), si è giunti a rifiutare la categoria dell’INVALIDITA’ (propria del contratto),
perché ritenuta poco aderente al modo di atteggiarsi del “potere amministrativo” : ecco perché in
dottrina si preferì parlare di ILLEGITTIMITA’ / ANNULLABILITA’ : “illegittimità” come vizio
tipico del provvedimento e “annullabilità” come la diretta conseguenza giuridica dell’illegittimità.
La novella del 2005 ha inserito nella L. 241 / 1990 un “Capo 4°-bis” (sull’ “efficacia e l’invalidità
del provvedimento amministrativo”).
L’art. 21-octies, 1°comma (secondo cui «è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza») elenca le CAUSE DI
ILLEGITTIMITA’ (ossia i vizi di violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza); le
CAUSE DI NULLITA’ sono invece elencate nell’art. 21-septies e le IPOTESI DI «NON
ANNULLABILITA’» nell’art. 21-octies, 2°comma.

3. Violazione di legge e incompetenza. La “violazione di legge” e l’


“incompetenza” indicano entrambi casi di difformità dell’atto rispetto alla disciplina normativa.

L’“INCOMPETENZA” deriva dalla violazione delle disposizioni normative (primarie o secondarie)


che assegnano poteri ad organi di un’amministrazione (intesa come “branca” o “ramo
amministrativo”). L’incompetenza è quindi una particolare ipotesi di “violazione di legge” che,
però, ha un rilievo preminente (pertanto ad essa non si può applicare l’art. 21-octies, 2°comma),
poichè il rispetto di queste norme è funzionale all’ordinato svolgimento delle funzioni
amministrative ed è una garanzia per i destinatari dell’atto. Inoltre, parte della giurisprudenza fa
rientrare nell’ambito dell’”incompetenza” anche i vizi relativi alla “struttura degli organi” (come
ad esempio, i vizi relativi al funzionamento degli organi collegiali).
L’INCOMPETENZA deve essere verificata con riferimento alla “branca amministrativa”.

La “VIOLAZIONE DI LEGGE” raccoglie ogni altra violazione di norme giuridiche (siano esse di
rango legislativo o di rango regolamentare). Dopo l’emanazione della L. 241 / 1990 alcune
violazioni (come quelle relative alla “motivazione” o agli “adempimenti procedimentali”), essendo
previste direttamente da norme scritte, sono transitate nella categoria della violazione di legge,
mentre prima rifluivano nell’ambito dell’ECCESSO DI POTERE (che consente un accertamento
del vizio non diretto, ma indiretto o sintomatico) : ciò allo scopo di assicurare loro una più efficace
tutela, dal momento che, in tal caso, il giudice (o la stessa amministrazione in sede di riesame) può
confrontare la fattispecie concreta del provvedimento con la fattispecie normativa e, in conseguenza
di tale confronto, ogni difformità dalla fattispecie legale sarà un “vizio di legittimità”. Però, questa
finalità di tutela si è dimostrata solo apparente : infatti la violazione di legge non comporta sempre
l’“annullamento del provvedimento”. Infatti, ai sensi dell’art. 21-octies, 2°comma “Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
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non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. In secondo luogo, “Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Pertanto, i vizi
che, passando dall’eccesso di potere alla violazione di legge, avrebbero dovuto avere una tutela più
ampia, in realtà sono rimasti com’erano : solo che non sono più considerati come “sintomi di
eccesso di potere”, ma come “sintomi di violazione di legge”.

4. Eccesso di potere. La nozione di ECCESSO DI POTERE si è formata nel tempo,


attraverso un processo evolutivo che ha interessato non solo il settore legislativo, ma anche quello
dottrinario e giurisprudenziale. Nell’idea originaria del legislatore del 1889, l’eccesso di potere
indicava lo STRARIPAMENTO DI POTERE (nell’adozione del provvedimento, l’amministrazione
superava i limiti del potere che la legge le riconosceva e si spingeva in aree riservate ad altri
poteri dello Stato). Fin dalle prime decisioni, però, il giudice amministrativo, discostandosi
dall’orientamento del legislatore, ne individuò il nucleo nello SVIAMENTO DI POTERE (l’utilizzo
del potere amministrativo per scopi e finalità diverse da quelle stabilite dalla legge). Questa svolta,
operata dal Consiglio di Stato, consentì di approfondire ulteriormente la nozione di “eccesso di
potere”. Sulla scia delle suggestioni privatistiche ancora forti all’inizio del ‘900, l’eccesso di potere
fu accostato, da una parte della dottrina, al VIZIO DELLA VOLONTA’ (cioè il vizio fu inteso
come una patologia della formazione del volere dell’amministrazione); un’altra parte della dottrina
invece equiparò l’eccesso al VIZIO DELLA CAUSA DELL’ATTO ( cioè il vizio fu inteso come
una patologia capace di inficiare il perseguimento dell’interesse pubblico curato
dall’amministrazione).
Successivamente l’eccesso di potere fu inteso come VIZIO DELLA FUNZIONE (ossia come un
“vizio dei poteri vincolati nel fine da raggiungere”, cioè una forma di invalidità correlata all’uso
scorretto del potere discrezionale), il cui accertamento implicava un confronto tra il “fine
perseguito” in concreto dall’amministrazione e il “fine da perseguire” imposto dalla legge
all’amministrazione. Questo confronto, però, non era facile, poiché l’accertamento del vizio non
era conoscibile ex se (direttamente) – attraverso il raffronto tra fattispecie astratta (scopi indicati
dalla legge) e fattispecie concreta (fini perseguiti dall’amministrazione), ma al contrario solo
attraverso dei “sintomi”. Si affermò, quindi, la “natura indiretta del vizio”, conoscibile non
direttamente (attraverso il mero riscontro tra fattispecie astratta e fattispecie concreta), ma solo
attraverso “sintomi”, detti appunto «figure sintomatiche», che facevano presumere l’esistenza
dell’eccesso. In tal modo, “sintomi dell’eccesso di potere” furono considerati :

 la contraddittorietà tra due atti del procedimento o tra due provvedimenti con lo stesso
oggetto;
 l’illogicità (= contraddizione) interna allo stesso provvedimento (tra motivazione e
dispositivo);
 la disparità di trattamento, il travisamento dei fatti, l’incompletezza dell'istruttoria e la
manifesta ingiustizia.

Successivamente l’evoluzione dell’eccesso di potere è proseguita lungo diverse direttrici :

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1) Una prima linea evolutiva, facendo leva sui cambiamenti che negli ultimi decenni hanno
interessato le “figure sintomatiche” (tradizionalmente intese come cognizione indiretta
dell’eccesso), ha assegnato al vizio in esame una diversa natura : esemplare, al riguardo, è l’ipotesi
della “disparità di trattamento” : essa fu introdotta tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere
perché si riteneva che il provvedimento fosse viziato qualora la pubblica amministrazione avesse
adottato misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna giustificazione (ad es. due impiegati
incorrono nella stessa infrazione – furto di francobolli – ma mentre ad uno viene inflitta la sanzione
disciplinare più lieve, all’altro viene inflitta quella più grave). In un secondo momento, però, la
giurisprudenza portò avanti un diverso ragionamento : il fatto che un provvedimento abbia un
contenuto diverso da quello di un provvedimento precedente non comporta necessariamente che
esso sia illegittimo; potrebbe infatti essere illegittimo il provvedimento precedente. Quindi
l’indagine comparativa è irrilevante, perché ciò che conta – ai fini della verifica della “disparità di
trattamento”, è verificare se il provvedimento posto al vaglio del giudice sia o meno conforme al
diritto (prescindendo da ciò che l’amministrazione abbia ritenuto di fare in un’altra occasione).
In questa prospettiva, quindi, è cambiata la “natura” dell’eccesso di potere che, da vizio ad
accertamento sintomatico (o a cognizione indiretta : ossia la cui conoscenza si può raggiungere solo
attraverso sintomi) si è andato trasformando in “vizio derivante dalla violazione di principi
generali” (quasi sempre di origine giurisprudenziale), molto simile in ciò alla violazione di legge :
la differenza sta nel fatto che, mentre la violazione di legge deriva dall’inosservanza di regole
scritte, l’eccesso di potere si ha quando la disciplina violata va ricavata da principi che (anche se
scritti in testi legislativi) devono essere resi regole concrete dal giudice. Ad esempio, il “principio di
proporzionalità” (= il perseguimento dell’interesse pubblico col minimo nocumento privato)
impedisce di espropriare 10 ettari se per realizzare l’opera pubblica ne serve uno.
2) Una seconda linea evolutiva, invece, ha evidenziato il fatto che la figura dell’ “eccesso di potere”
contiene in sé delle ipotesi di “violazioni a cognizione non sintomatica”, ma diretta e, dunque,
annoverabili nell’ambito della “violazione di legge”. Esemplare, al riguardo, è la figura dello
“SVIAMENTO DI POTERE” : si tratta di stabilire se lo scopo concretamente perseguito con il
provvedimento è quello indicato dalla legge o è diverso. Si tratta di una valutazione delicatissima
che può arrivare fino all’accertamento delle «intenzioni» effettive dell’amministrazione.
Un’altra figura transitata dall’area dell’accertamento sintomatico a quella dell’accertamento diretto
(ossia dall’eccesso di potere alla violazione di legge) è il “TRAVISAMENTO DEI FATTI” : in
passato, ritenendosi che il giudice amministrativo non poteva accedere alla conoscenza diretta dei
fatti (ma li poteva conoscere solo attraverso ciò che gli veniva «raccontato» dall’amministrazione), i
provvedimenti fondati su presupposti di fatto erronei venivano annullati non per violazione di
legge, ma in quanto - travisando i fatti - l’amministrazione aveva esercitato male il suo potere.
Questo pensiero, però, oggi non può essere più condiviso, perché, dopo le recenti riforme che hanno
interessato il processo amministrativo, il giudice amministrativo può avere conoscenza diretta dei
fatti, senza il tramite dell’amministrazione. Esempio : l’amministrazione ritiene che un palazzo sia
alto 10 metri (invece dei 9 consentiti) e ne ordina la demolizione; tuttavia se il privato ricorrente
riesce a provare in giudizio che il palazzo è alto 9 metri, si ottiene l’annullamento del
provvedimento di demolizione per “violazione di legge”. Allora, in questo caso non ci troviamo di
fronte a un vizio sintomatico (cattivo esercizio del potere), ma ad un vero e proprio vizio di
“violazione di legge”, perché l’errore di fatto in cui è incorsa l’amministrazione è accertato dal
giudice direttamente nel processo : di conseguenza, non si ragiona più secondo la logica del

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travisamento dei fatti (secondo cui la valutazione ha ad oggetto non i fatti, ma il modo in cui
l’amministrazione li ha acquisiti e valutati : il privato doveva chiedere al giudice di invitare
l’amministrazione a rappresentare il modo in cui aveva assunto i fatti nell’istruttoria
procedimentale), ma ora il privato può rappresentare egli stesso i fatti in giudizio.

5. Le ipotesi di nullità. Tra le FORME DI INVALIDITA’ DEL PROVVEDIMENTO,


accanto alla tradizionale figura della “illegittimità / annullabilità”, la L. 15 / 2005 ha introdotto la
figura della “nullità” (recependo, in tal modo, sia l’orientamento della giurisprudenza dominante,
sia di quella parte della dottrina favorevole a un più cospicuo inserimento delle categorie
privatistiche all’interno del fenomeno amministrativo). L’introduzione di questa nuova figura è
abbastanza recente : per lungo tempo, infatti, la categoria della “nullità” è stata vista con sfavore,
perché ritenuta estranea al “sistema delle invalidità del diritto amministrativo”, tant’è che il quadro
di quest’ultimo è stato sempre dominato dalla presenza dei 3 vizi di “incompetenza”, “eccesso di
potere” e “violazione di legge” (raccolti nella categoria dell’illegittimità) e dalla presenza di un
giudice amministrativo (dotato di poteri di annullamento). Perciò, a causa dell’attaccamento all’idea
dell’annullabilità come stato viziato tipico e unico del provvedimento amministrativo, la
giurisprudenza rifiutava l’ammissibilità di ipotesi di “nullità”.
Tra l’altro, questo orientamento è stato anche confermato in una nota sentenza delle sezioni unite
della Cassazione del 1949 : in questa pronuncia infatti la NULLITA’ è stata usata dai giudici non in
“veste sostanziale”, ma per scopi processuali (cioè come elemento necessario a stabilire il riparto
di giurisdizione tra il “giudice amministrativo” e il “giudice ordinario”, e per ampliare l’ambito
della giurisdizione del giudice ordinario). Infatti il “criterio di riparto della giurisdizione” si basava
sulla distinzione tra “carenza” (cioè inesistenza del potere, con giurisdizione del giudice ordinario)
e “cattivo esercizio del potere” (con giurisdizione del giudice amministrativo) : la distinzione si
basava sulla differenza tra “provvedimenti idonei a degradare il diritto soggettivo in interesse
legittimo” (posti sotto la giurisdizione del giudice amministrativo) e “provvedimenti inidonei a
degradarlo” (posti sotto la giurisdizione del giudice ordinario). Il mancato verificarsi della
degradazione, quindi, (e la sopravvivenza del diritto soggettivo) lasciava inalterata la giurisdizione
del giudice ordinario.
Successivamente abbiamo le prime ipotesi testuali : il legislatore vi ha fatto ricorso soprattutto nella
“materia del pubblico impiego” (ove risultano nulle le nomine avvenute senza previo concorso o gli
incarichi conferiti da una P.A. a un dipendente di un’altra amministrazione senza l’autorizzazione
dell’ente di appartenenza); o per quanto riguarda il “regime degli organi in prorogatio”
(disponendosi la nullità di tutti gli atti adottati da organi la cui nomina sia scaduta, salvo quelli di
ordinaria amministrazione o quelli urgenti adottati nel periodo di 45 giorni di proroga dei poteri);
nonché in materia di “interpello del contribuente” (ossia il diritto del contribuente di chiedere
indicazioni all’amministrazione sull’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e
personali), prevedendosi che qualsiasi atto emanato in difformità dalla risposta è nullo.
Davanti al crescente utilizzo, da parte del legislatore, di tali formule, l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato (con varie sentenze del 1992) ha finalmente riconosciuto l’esistenza, nel nostro
ordinamento, di ipotesi di “provvedimenti nulli” cui applicare, data l’assenza di una specifica
regolamentazione, la disciplina del codice civile : si tratta di casi in cui la violazione commessa
inciderebbe su interessi pubblici di primaria rilevanza, per cui non ci sarebbero “soggetti legittimati
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all’impugnazione degli atti” (come avviene invece in regime di annullabilità). In questo modo,
quindi, è stata eliminata la possibilità di condizionare l’eliminazione dell’atto nullo all’attivazione
di un interesse di parte (proprio del regime di annullabilità) ed è stata prevista, sulla base della
disciplina codicistica, l’impossibilità – per il provvedimento amministrativo nullo – di produrre
qualsiasi effetto giuridico (risultando, quindi, insanabile).
Degli sviluppi della giurisprudenza si è fatto carico, di recente, il legislatore, che ha introdotto nella
L. 241 / 1990 una disposizione di carattere generale sulla “NULLITA’ DEL
PROVVEDIMENTO” : l’art. 21 septies (rubricato “nullità del provvedimento” e introdotto dalla L.
15 / 2005), che stabilisce : “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.
L’art. 21-septies individua, quindi, le ipotesi di nullità nella mancanza degli elementi essenziali, nel
difetto assoluto di attribuzione, nel fatto che il provvedimento sia stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi previsti dalla legge.

 la MANCANZA DEGLI ELEMENTI ESSENZIALI corrisponde, a ben vedere, alla


“mancanza dei requisiti essenziali, che rende nullo il contratto” (ex art. 1325 e 1418 c.c.); a
differenza dello schema civilistico, però, (che fissa i requisiti essenziali del contratto), nel
diritto amministrativo manca una norma che disciplini la struttura del provvedimento e che
preveda i suoi elementi essenziali, quindi non è facile stabilire quando l’atto è nullo per
mancanza di un elemento essenziale. E allora in giurisprudenza sono state ricondotte alla
categoria della “NULLITA’ STRUTTURALE” le ipotesi di : 1) indeterminatezza,
impossibilità ed illiceità del contenuto del provvedimento; 2) difetto o illiceità della causa
(intesi come mancata rispondenza dell’atto all’interesse pubblico tutelato); 3) le patologie
relative al soggetto; 4) la mancanza della volontà dell’amministrazione (ad es. violenza
fisica sul funzionario o quando la volontà non si è formata liberamente, ma in ambito
collusivo penalmente rilevante); 5) il difetto della forma essenziale del provvedimento (si
pensi, ad es., alla mancata verbalizzazione delle decisioni degli organi collegiali); 6) e infine
l’inesistenza dell’oggetto (il bene su cui cadono gli effetti dell’atto).
 Con il secondo requisito, quello del DIFETTO ASSOLUTO DI ATTRIBUZIONE (o
incompetenza assoluta), il legislatore ha recepito la figura della “carenza di potere” (coniata
dalla giurisprudenza allo scopo di risolvere il riparto di giurisdizione); tuttavia, la
consacrazione legislativa di questa figura ha finito per creare un particolare problema
interpretativo, dal momento che in dottrina ci si è chiesti se il vizio di “difetto di
attribuzione” sia così diverso dal vizio di “incompetenza” (o incompetenza relativa) da
meritare una disciplina diversa dall’annullabilità. Il DIFETTO ASSOLUTO DI
ATTRIBUZIONE ricorre quando il potere non sussiste in capo ad una determinata
autorità. L’INCOMPETENZA ASSOLUTA, da cui discende la nullità dell’atto, si
determina quando l’organo amministrativo emana un atto in una materia sottratta alla
competenza amministrativa e riservata ad un altro potere dello Stato (straripamento di
potere). Si ha anche quando l’organo amministrativo emana un atto riservato alla
competenza di un settore dell’amministrazione completamente diverso (difetto di
attribuzione).
L’incompetenza è “assoluta” se l’organo che emana l’atto non ha assolutamente la
competenza per emanarlo, in quanto si tratta di un organo appartenente a un potere o
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comunque a un settore dell’amministrazione pubblica completamente diversi (si pensi, ad


esempio, ad una sentenza emanata da un Ministro). L’INCOMPETENZA è RELATIVA,
quando l’organo che emana l’atto, pur facendo parte del settore dell’amministrazione
competente per quel tipo di materia, non è legittimato all’emanazione dell’atto. Quindi il
“difetto assoluto di attribuzione” ricorre quando il potere non sussiste in capo a una
determinata autorità . Il vizio di “incompetenza”, invece, va ad intaccare solo un ramo o
una branca dell’amministrazione. Vanno ricondotte a ipotesi di mera “incompetenza”,
quindi : 1) quando l’organo che ha adottato l’atto avrebbe comunque la competenza a
svolgere determinate funzioni nel settore in questione; 2) l’intervento di un diverso livello
territoriale di governo; 3) l’inosservanza della ripartizione di funzioni all’interno di una
branca organizzativa riconducibile all’amministrazione statale (ministero, agenzie, autorità
indipendenti); 4) o il mancato rispetto della distinzione tra organi di governo e organi
dirigenziali o tra responsabile del procedimento e organo competente all’adozione del
provvedimento.
Il “difetto assoluto di attribuzione” equivale alla carenza di potere in astratto, che ricorre
quando la P.A. esercita un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce.
Invece ricade nell’ambito dell’annullabilità la carenza di potere in concreto, ossia la
“mancanza di un presupposto essenziale per l’esercizio del potere” (es.: la dichiarazione di
pubblica utilità rispetto all’espropriazione). In questo caso il potere esiste, ma viene
esercitato in assenza dei presupposti richiesti dalla legge.
 L’art. 21 septies, infine, prevede la nullità degli ATTI ADOTTATI IN VIOLAZIONE O
ELUSIONE DEL GIUDICATO : anche con questo requisito il legislatore ha recepito
l’ipotesi giurisprudenziale (trasformandola in regola giuridica) della “nullità degli atti
difformi da un giudicato”, qualora da quest’ultimo emerga l’impossibilità, per
l’amministrazione, di usufruire di margini di discrezionalità nella sua successiva azione :
perciò, questa ipotesi di nullità è stata prevista per assicurare al privato la possibilità di
ricorrere al c.d. “giudizio di ottemperanza” (senza imporre, quindi, un nuovo ricorso
ordinario di impugnazione), quando l’atto si pone integralmente in contrasto con il
precedente giudicato.
 L’ultima categoria di atti nulli abbraccia, infine, i “casi espressamente previsti dalla legge”
(ad es. la nullità degli atti posti in essere dopo la scadenza del periodo di prorogatio della
carica o le nullità delle assunzioni senza concorso, ecc.).

*Art. 1325 c.c. (Indicazione dei requisiti). “I requisiti del contratto sono:1) l'accordo delle parti; 2) la causa;
3) l'oggetto; 4) la forma, quando e' prescritta dalla legge a pena di nullita'”.

*Art. 1418 c.c. (CAUSE DI NULLITA' DEL CONTRATTO). “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga


diversamente(1).
Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e 
la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.”

*Art. 21-septies. (Nullità del provvedimento) “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato,
nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

*OTTEMPERANZA = permette alla parte vittoriosa di dare esecuzione a una sentenza del giudice amministrativo,
qualora la P.A. non abbia adempiuto spontaneamente.

*COLLUSIVO = intesa segreta con la parte avversa.

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*ELUDERE = evitare, sfuggire.

6. Vizi che non determinano l’annullabilità del provvedimento.


L’art. 21-octies, 2° comma prevede due ipotesi di «NON ANNULLABILITA’ DEL
PROVVEDIMENTO». Stabilisce, in primo luogo, che «Non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato». L’ipotesi riguarda i soli “PROVVEDIMENTI
VINCOLATI”. Stabilisce poi che il provvedimento amministrativo «non è annullabile per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Si tratta di due previsioni diverse, perché una si applica solo ai PROVVEDIMENTI VINCOLATI,
l’altra a TUTTI I PROVVEDIMENTI. Inoltre la prima dichiara inidonei a determinare
l’annullabilità TUTTI I VIZI FORMALI E PROCEDIMENTALI e la seconda prende in
considerazione il solo vizio della MANCATA COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL
PROCEDIMENTO. Infine nel primo caso, che il contenuto del provvedimento «non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato» deve essere “palese”, mentre nel secondo caso deve
essere dimostrato in giudizio dall’amministrazione.
Quindi la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti (se di natura vincolata),
nonché l’omessa comunicazione al privato dell’avvio dell’iter procedimentale (nella ipotesi di
esercizio anche di potere discrezionale) sono circostanze che rendono comunque il provvedimento
adottato immune da un sindacato giurisdizionale per “violazione di legge” : ciò qualora la P.A. adita
in giudizio renda palese o dimostri che, pur se fosse avvenuto il rispetto delle regole violate, “il
contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Già da tempo dottrina e giurisprudenza si erano mostrate sensibili al problema della non
annullabilità di provvedimenti caratterizzati dalla LEGITTIMITA’ SOSTANZIALE : la strada
seguita era quella del “raggiungimento dello scopo” (l’inosservanza della regola procedimentale
non aveva impedito comunque all’interessato di partecipare al procedimento). Veniva, quindi,
ridimensionata la rilevanza della “legittimità formale”.
La disposizione pone in ogni caso dei problemi in relazione ai «vizi formali e procedimentali» che
non determinano l’annullabilità del provvedimento, con particolare riferimento al requisito della
“partecipazione al procedimento amministrativo” : la partecipazione, infatti, è consacrata non solo
in norme interne di rango primario, ma anche a livello comunitario, ed è proprio per questo che la
dottrina ha sempre auspicato un’interpretazione restrittiva dell’art. 21 octies, 2°comma ed ha
precisato che :

 in relazione alla prima parte della norma non si pongono problematiche di particolare
rilievo, poiché essa si riferisce solo ai PROVVEDIMENTI VINCOLATI (la cui adozione
non lascia margini per la discrezionalità dell’amministrazione); parte della dottrina, però, ha
sottolineato che - anche con riferimento a questo tipo di provvedimenti - la partecipazione
del privato può svolgere un ruolo importante nell’iter decisionale dell’amministrazione
(come ad esempio nei casi in cui la situazione da accertare è complessa). Sicché in questi

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casi anche per i provvedimenti vincolati la partecipazione al procedimento può essere una
condizione di legittimità.
 in relazione, invece, alla seconda parte dell’art. 21 octies, 2°comma, la dottrina è apparsa
molto meno permissiva, affermando che l’«irrilevanza» della MANCATA
COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL PROCEDIMENTO per i provvedimenti discrezionali
risulta difficile da accettare, poichè dovrebbe essere dimostrata dal giudice sulla base di un
giudizio prognostico (che nella maggior parte dei casi è impossibile da porre in essere).

Un secondo problema affrontato dalla dottrina, poi, ha riguardato il fatto che la norma, usando
l’inciso “annullabilità”, senza alcun riferimento all’ “illegittimità”, ha fatto sorgere la necessità
di verificare se, in relazione all’ “invalidità amministrativa”, sia ancora possibile considerare l’
“illegittimità” come lo stato viziato tipico del provvedimento : in altri termini, ci si è chiesti se i
provvedimenti «non annullabili» ex art.21-octies, 2° comma debbano essere considerati
illegittimi o semplicemente irregolari. Infatti mentre alcuni ritennero che la norma
avesse semplicemente previsto la non annullabilità dei suddetti provvedimenti, altri spiegarono
il divieto di annullamento nei termini di una dequalificazione del vizio, nel senso che quando un
provvedimento, pur essendo stato emesso in violazione di norme procedurali e sulla forma degli
atti, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, il legislatore avrebbe degradato il vizio di
“violazione di legge” ad una mera irregolarità del provvedimento, coerentemente imponendo la
preservazione dell’atto, dato che la semplice irregolarità di un atto amministrativo, a differenza
della sua invalidità, non ne comporta l’annullamento. Bisogna, invece, concordare con chi
ritiene che l’ “illegittimità” sia il pilastro del sistema dell’invalidità amministrativa, e che i
provvedimenti non annullabili ai sensi del 2°comma siano illegittimi (così come lo sono quelli
ex art. 21 octies, 1°comma) e che, però, la loro illegittimità venga «superata» attraverso una
«sanatoria processuale». Questa soluzione trova conferma anche nel dato normativo : nell’art.
21-nonies (dedicato all’annullamento d’ufficio) si stabilisce, infatti, che il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell’art.21-octies può essere annullato d’ufficio, se ricorrono
determinate condizioni. Questo articolo menziona l’illegittimità del provvedimento e lo fa
rinviando all’art. 21- octies nella sua interezza, cioè sia al 1°comma (all’ipotesi di annullabilità)
sia al 2°comma (alle ipotesi di non annullabilità).
*Il dibattito si è accentrato sulla natura processuale o sostanziale della disposizione :
la giurisprudenza amministrativa ha sostenuto la natura processuale della disposizione, che comporta che: 1) la
disposizione non si occupa della disciplina sostanziale dell’atto amministrativo, che resta invalido, ma esclusivamente
della sanzione dell’annullamento, che rimane in concreto esclusa; 2) la disposizione è rivolta al giudice, e non
all’amministrazione, quindi il suo naturale terreno di elezione è il processo amministrativo; 3) la disposizione non
preclude, quindi, l’annullamento in autotutela, né la disapplicazione da parte del giudice ordinario, nè il risarcimento
del danno da provvedimento illegittimo.

*In sostanza, il provvedimento amministrativo che la norma vieta di annullare è e resta un atto invalido (poiché
comunque emesso in violazione di legge) ed il divieto di annullarlo trova la sua ratio non nel fatto che il legislatore lo
ritenga meritevole di essere conservato, ma nell’esigenza di evitare che, continuando i giudici ad annullare i
provvedimenti amministrativi per motivi puramente formali, prosegua il deleterio fenomeno del ricorso alla giustizia
amministrativa finalizzato all’inutile eliminazione di atti destinati ad essere riadottati con lo stesso contenuto.

*Art. 21-octies. (Annullabilità del provvedimento) 1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in


violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.

2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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7. Invalidità successiva e derivata. L’INVALIDITA’ può essere TOTALE o


PARZIALE. L’invalidità di una singola clausola o di singoli elementi del provvedimento è idonea
ad invalidarlo nella sua interezza solo se questi assumono un carattere essenziale (cioè quando
senza di essi il provvedimento non sarebbe stato adottato con quel contenuto). Tuttavia, l’
“invalidità parziale” va tenuta distinta da altri tipi di invalidità, come l’invalidità che colpisce i c.d.
“ATTI SCINDIBILI”, cioè atti formalmente unitari (come una graduatoria) ma sostanzialmente
plurimi, cioè con molti contenuti (ad es., i singoli giudizi espressi) e molti destinatari : in tal caso, il
“vizio che colpisce la singola porzione di atto” (nell’esempio il singolo giudizio) non inficia anche
altre valutazioni, a meno che nei confronti di quel singolo giudizio non venga sollevata una censura
procedimentale (ad esempio l’illegittima composizione della commissione) : in tal caso,
l’accoglimento di questa censura, investendo l’intero procedimento, travolgerà il provvedimento
nella sua totalità.
In secondo luogo, bisogna precisare che, in ossequio al principio “tempus regit actum”, la validità di
un provvedimento va verificata in base alla normativa vigente nel momento in cui il provvedimento
viene adottato. A questo punto, però, dobbiamo chiederci cosa accade al provvedimento in presenza
di “norme sopravvenute”. La risposta non è semplice, giacchè in proposito l’orientamento della
giurisprudenza non è univoco : infatti, anche se la giurisprudenza prevalente segue la tesi
dell’assoggettabilità delle fasi procedimentali (che hanno portato all’adozione del provvedimento)
alla “normativa precedentemente in vigore”, ci sono alcune pronunce secondo cui, al contrario, si
applicherebbero le norme sopravvenute : ciò si verificherebbe ad esempio quando, in esecuzione di
un giudicato, l’amministrazione debba adottare un nuovo provvedimento (in tal caso, infatti, la
disciplina da applicare non sarà quella vigente al momento dell’avvio del procedimento, ma quella
vigente al momento in cui la decisione del giudice viene notificata). Sembra, pertanto, non accolta
la tesi, avanzata in dottrina, per cui l’«apertura» del procedimento determinerebbe una
cristallizzazione delle regole applicabili all’intera fattispecie procedimentale.
Ora, tenuto conto di quanto detto (cioè che, di norma, la “legittimità” o l’ “illegittimità” del
provvedimento deve essere valutata in relazione al quadro normativo in vigore al momento in cui
questo viene adottato), è difficile configurare nel nostro ordinamento la categoria della c.d.
INVALIDITA’ SOPRAVVENUTA; nonostante ciò, però, dottrina e giurisprudenza sono riuscite a
individuare delle ipotesi in cui è possibile l’ “invalidazione successiva di un atto originariamente
valido” : si pensi ad esempio a una legge retroattiva che modifica i presupposti o i requisiti
dell’atto, o alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in base a cui l’atto era stato
adottato).
Infine, i provvedimenti possono essere legati tra loro da un “NESSO DI PRESUPPOSIZIONE” : in
tal caso occorre distinguere tra invalidità (derivata) ad effetto viziante e ad effetto caducante.
L’invalidità del PROVVEDIMENTO PRESUPPOSTO (= precedente), se è caducante, comporta
che l’atto successivo (= presupponente) venga travolto automaticamente dall’annullamento di
quello precedente. Perché ciò si verifichi occorre che tra i due atti ci sia un legame molto intenso
(ad es., atti della stessa fattispecie procedimentale). In tutti gli altri casi, in cui non c’è un legame
altrettanto stringente (= stretto), l’invalidità del provvedimento presupposto ha carattere solo
viziante.

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8.Irregolarità. Alcune ipotesi non danno luogo all’invalidità dell’atto, ma a una semplice
IRREGOLARITA’, ossia a una difformità che non comporta conseguenze sul “regime giuridico
dell’atto”, che resta valido. L’irregolarità può determinare altre conseguenze per gli autori dell’atto,
ad esempio di tipo sanzionatorio (disciplinare o risarcitorio). Si tratta della violazione di “regole
formali sulla corretta redazione dell’atto” (come quelle sulla data, sulla sottoscrizione non
decifrabile, o sull’omessa indicazione del responsabile del procedimento). In ossequio al principio
del “buon andamento dell’azione amministrativa”, l’irregolarità dovrebbe essere sanata per evitare
che ricadano sul cittadino gli effetti sfavorevoli di questi errori ascrivibili all’amministrazione.

9.Vizi di merito e principio di efficacia. Un’ultima questione che deve essere


affrontata è quella riguardante i c.d. “vizi di merito” (e, in particolare, la loro capacità di invalidare
o meno il provvedimento amministrativo). Il problema, che non ha trovato ancora un’adeguata
soluzione, si inquadra nell’ambito degli studi sulla rilevanza del PRINCIPIO DI EFFICACIA
(*corollario del principio di “buon andamento dell’azione amministrativa” ex art. 97 Cost. =
capacità di raggiungere l’obiettivo prefissato) e della sua collocazione nell’area della legittimità o
del merito. Il dilemma se introdurre o meno nel “giudizio di validità / invalidità del provvedimento”
anche una valutazione dell’opportunità della scelta discrezionale operata dall’amministrazione
riguardo all’interesse pubblico perseguito ha risentito non solo dei dubbi nell’individuazione dei
parametri di riferimento (rinvenuti in norme non giuridiche sull’azione amministrativa), ma anche
del fatto che di regola questo vizio non determina l’annullamento dell’atto. In ogni caso, l’opinione
comune è, giacchè il PRINCIPIO DI EFFICACIA è stato elevato dalla legge a criterio-guida
dell’azione amministrativa, se ne deve dedurre che il “dovere di buona amministrazione” (implicito
nella formula costituzionale del “buon andamento”) deve essere considerato il parametro di
valutazione della validità dell’azione amministrativa. Il principio di efficacia, così, viene
consegnato all’area della “legittimità”. Tale soluzione appare convincente e risulta anche
confermata dal fatto che il “principio di efficacia” indica una relazione che intercorre tra i contenuti
dell’atto e i risultati ottenuti (che devono essere diretti al perseguimento dell’interesse pubblico
affidato alle cure dell’amministrazione); ciò significa che il “controllo che viene operato
sull’efficacia o meno di un provvedimento” si risolve in un “controllo sulla buona qualità della
scelta operata dall’amministrazione” (e verificabile attraverso la figura dell’“eccesso di potere”) :
quindi, il “principio di efficacia” entra pienamente nell’ambito della “legittimità”, dal momento che
l’azione amministrativa è vincolata, per legge, oltre che nel perseguimento dei fini, anche nel
risultato.

****RIASSUMENDO : L’atto amministrativo è INVALIDO se è affetto da “vizi di


legittimità” o “di merito”. Mentre i VIZI DI MERITO sono determinati dall’inosservanza
delle c.d. “norme di buona amministrazione”, di opportunità o di convenienza cui
l’azione della P.A. deve attenersi, i VIZI DI LEGITTIMITA’ sono dovuti alla mancata
conformità dell’atto alle prescrizioni stabilite nelle norme giuridiche. I vizi di legittimità
sono classificati in tre categorie: l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di
legge. Tutti e tre i vizi possono condurre all’annullamento dell’atto. L’incompetenza
deve essere relativa (l’assoluta comporta la nullità dell’atto), causata cioè
dall’invasione della sfera di competenza di una autorità amministrativa ad opera di
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un’altra autorità amministrativa, la cui funzione sia diversa per grado o per materia. 
I vizi dell'atto amministrativo possono distinguersi in due categorie, vizi di legittimità e
vizi di merito e possono dar luogo all'invalidità dell'atto amministrativo. Legittimità e
merito rappresentano, in sostanza, i due requisiti dell'azione amministrativa indicati
nell'art. 97  Cost. ove la legalità e la buona amministrazione sono i parametri cui deve
ispirarsi l'operato della PA.
L'atto amministrativo può, dunque, presentare vizi di legittimità (quando
risulta difforme da norme giuridiche) o vizi di merito (quando l'atto non è conforme
a regole non giuridiche, c.d. norme di buona amministrazione, e che determinano un
contrasto tra il mezzo in concreto usato dalla PA ed il  mezzo che sarebbe stato idoneo
al perseguimento ottimale del fine cui l'esercizio del potere deve tendere). I vizi di
merito dell'atto amministrativo possono naturalmente configurarsi solo nell'ambito
dell'azione amministrativa discrezionale poichè, con riferimento agli atti vincolati, il
mancato raggiungimento dello scopo è indice della violazione di una norma giuridica
(della difformità, cioè, dell'atto dal modello normativo). 
Dalla categoria dell'invalidità, deve essere mantenuta distinta quella
dell'IRREGOLARITA’che riguarda quelle violazioni meramente formali inidonee a
viziare l'atto amministrativo (esse sono suscettibili di rettifica).
La normativa cui occorre ancorare il giudizio sulla validità del provvedimento
amministrativo è quella vigente al momento del suo “perfezionamento” e non quella
(eventualmente diversa) vigente al momento del dispiegarsi dei suoi effetti.
I VIZI DI LEGITTIMITA’, a seconda degli elementi sui quali incidono, possono
determinare diverse forme di invalidità dell'atto amministrativo, possono, cioè, dar
luogo a: 1) nullità :qualora l'atto manchi di requisiti essenziali, contrasti con
precedente giudicato o lo eluda, sia stato adottato in difetto assoluto di attribuzione o
negli altri casi previsti dalla legge (art 21 septies L. n. 241 del 1990); 2) annullabilità :
qualora sussista incompetenza relativa, violazione di legge o eccesso di potere (art. 21
octies L. n. 241 del 1990).
Si distingue, inoltre tra INVALIDITA’ TOTALE o PARZIALE dell'atto amministrativo, a
seconda che il vizio riguardi tutto l'atto amministrativo o solo una parte di esso
(singole clausole o atti endoprocedimentali). Con riferimento all'invalidità parziale
occorrerà indagare se, dopo l’annullamento parziale dell'atto amministrativo, questo
possa essere conservato per la parte residua.
Con riferimento alla fonte dell'invalidità dell’atto, si usa distinguere tra un’INVALIDITA’
TESTUALE (nel caso in cui sia la norma giuridica che disponga testualmente l'invalidità
dell'atto) e un' INVALIDITA’ VIRTUALE (nel caso in cui l'invalidità, non espressamente
prevista, si desuma dall'ordinamento giuridico per violazione di una norma
imperativa).
Si distingue anche tra un' INVALIDITA’ DIRETTA (che colpisce l'atto in sé) ed
un'INVALIDITA’ DERIVATA : quando all'atto si propagano gli effetti invalidanti e vizianti
di precedenti atti amministrativi autonomi (atti presupposti) o relativi allo stesso
procedimento esitato nel provvedimento viziato (atti endoprocedimentali). Con
riferimento all'invalidità derivata dei provvedimenti amministrativi, si usa distinguere
tra l'effetto caducante che si realizza automaticamente dopo l'annullamento di un
diverso atto amministrativo con cui l'atto caducato è vincolato da un legame di stretta
interdipendenza (in tal caso, non è necessario procedere ad autonoma impugnativa
dell'atto caducato) e l'effetto viziante (che si realizza quando sussiste un legame meno
saldo tra l'atto presupposto e l'atto successivo, per il quale è necessario procedere ad
autonoma impugnativa per ottenere l'annullamento dell'atto successivo dopo
l'annullamento dell'atto presupposto). 

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-CAPITOLO 4. I PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI


SECONDO GRADO-

1. Considerazioni introduttive.
a) I provvedimenti di secondo grado come esplicazione del principio di buona
amministrazione. I “PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI SECONDO GRADO” sono
quei provvedimenti che hanno ad oggetto un precedente provvedimento amministrativo o il
silenzio-assenso (art. 20 della L. 241 / 1990), sicché essi curano l’interesse pubblico intervenendo
su un “provvedimento” o su un “fatto produttivo di effetti giuridici”. Ora, il primo problema da
affrontare ci viene posto dall’art. 19 della L. 241 / 1990, che sembrerebbe averne ampliato l’ambito
di operatività, avendo previsto in capo alla P.A. competente poteri di REVOCA e di
ANNULLAMENTO D’UFFICIO anche in materia di d.i.a (dichiarazione di inizio attività), oggi
s.c.i.a. (segnalazione certificata di inizio attività). Tuttavia, se si osserva bene, quello che stiamo
esaminando è un falso problema, perchè revoca e annullamento non sembrano applicabili alla
d.i.a. : in questo caso infatti la dichiarazione del privato sostituisce un atto amministrativo di
assenso, sicché manca il provvedimento amministrativo da revocare o annullare.
La seconda tematica riguarda, invece, il dubbio sul fatto se sia o meno possibile considerare come
“provvedimento di secondo grado” il c.d. RECESSO DELL’AMMINISTRAZIONE DAGLI
ACCORDI CON I PRIVATI (siano essi integrativi o sostitutivi di un provvedimento) : questo
quesito deve trovare una risposta affermativa, dato che, se si riconosce all’accordo natura
pubblicistica (e la dottrina prevalente è orientata in tal senso), il recesso dovrà assumere “natura
provvedimentale” (è la manifestazione unilaterale di un potere autoritativo); e dunque è assimilabile
alla “revoca”. Inoltre, così come la revoca incide sull’efficacia di un precedente provvedimento,
così il recesso incide sull’efficacia di un accordo. Se dunque recesso e revoca condividono la stessa
natura provvedimentale e la stessa funzione, è ragionevole configurare anche il recesso come
provvedimento di secondo grado.
Il nostro ordinamento conosce diversi tipi di “provvedimenti di secondo grado” :

 alcuni incidono sugli effetti di un precedente provvedimento, sospendendoli, prorogandoli o


eliminandoli (sospensione, proroga, revoca) o di un accordo, eliminandoli (recesso);
 altri incidono sul provvedimento precedente, eliminando o il provvedimento (annullamento)
o il vizio di legittimità che lo inficia, rendendolo inattaccabile in sede giurisdizionale
(convalida);
 altri incidono sul contenuto del provvedimento o confermandolo (conferma) o
modificandolo (riforma).

Nonostante queste differenze, tutte queste figure hanno un denominatore comune : il potere
(esercitato dall’amministrazione per emanare il precedente provvedimento) non deve essersi
esaurito, perché è solo in questo modo che l’amministrazione potrà esercitarlo di nuovo nel caso in
cui il provvedimento risulti “illegittimo” o “inopportuno” (non più adeguato alla cura dell’interesse
pubblico perseguito). Quindi i provvedimenti di secondo grado non possono essere emanati in tutti
quei casi in cui, con l’emanazione del primo atto, l’amministrazione ha consumato il relativo potere.

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Inoltre, l’amministrazione – per poter esercitare di nuovo il potere – deve non solo verificare l’
“invalidita’” del provvedimento in questione, ma deve anche valutare se sussistono o meno
particolari “esigenze di cura dell’interesse pubblico”, tali da richiedere un suo nuovo intervento.
Ecco perché i poteri nel cui esercizio vengono emanati i provvedimenti di secondo grado sono una
delle esplicazioni del “principio di efficacia” (espressione del principio di “buona
amministrazione”), inteso in termini di adeguatezza; perciò tali provvedimenti vanno ricondotti
nell’area dell’amministrazione attiva piuttosto che in quella dell’autotutela (dove sono stati
tradizionalmente inquadrati) : infatti, attraverso il provvedimento emesso, la P.A. realizza un
particolare assetto di interessi (che deve essere diretto al soddisfacimento dell’interesse pubblico
che ha in cura) : pertanto, è solo nel momento in cui viene a mancare questa “adeguatezza” (cioè il
soddisfacimento dell’interesse attraverso il provvedimento) che l’amministrazione è abilitata a
esercitare nuovamente il proprio potere.

b) Il problema del fondamento giuridico. Il problema del fondamento giuridico dei poteri di
secondo grado è stato in passato risolto ricorrendo a 4 diversi principi : 1) il “principio di
autotutela”,; 2) il “principio della specialità del diritto amministrativo”; 3) la consuetudine; 4) e il
“principio gerarchico”. In particolare, il richiamo all’autotutela è stato criticato, poichè non solo
insufficiente a fondare questi provvedimenti (e quindi a conciliarli con il “principio di legalità”), ma
anche perché l’amministrazione, quando emana un provvedimento di secondo grado, non tutela se
stessa, nè si fa giustizia da sé, ma cura sempre un interesse pubblico).
Il potere dell’amministrazione, pertanto, non può avere altro fondamento che nella “legge” : più
attento a rendere questi poteri compatibili con il “principio di legalità” è l’orientamento che li
configura come espressione dello stesso potere esercitato dall’amministrazione per emanare il
primo provvedimento e ne rinviene il fondamento giuridico nella “norma attributiva del potere di
primo grado”.
In ogni caso, la codificazione - con la L. 15 / 2005 - di alcuni provvedimenti di secondo grado
(revoca, convalida e annullamento d’ufficio) ha risolto il problema del loro fondamento giuridico e,
di conseguenza, della loro compatibilità con il “principio di legalità”. La legge ha anche confermato
l’ancoraggio dei provvedimenti di secondo grado al “principio di efficacia”, riconducendoli
nell’area dell’amministrazione attiva.

c) La distinzione tra atti di riesame e atti di revisione, tra atti ad esito eliminatorio e
atti ad esito conservativo. Parte della dottrina distingue i “provvedimenti di secondo grado” in
“ATTI DI RIESAME” e “ATTI DI REVISIONE”. Mentre i primi (annullamento, convalida,
conferma, ratifica) hanno ad oggetto il provvedimento sotto il profilo della validità, i secondi
(revoca, recesso, proroga, sospensione) incidono sull’efficacia del precedente provvedimento (o
dell’accordo) o sul rapporto giuridico scaturito dal provvedimento di primo grado (o dall’accordo).
In senso contrario, un’altra parte della dottrina (oggi dominante) configura tutti questi
provvedimenti come “ATTI DI RIESAME” e li distingue in “atti ad esito conservativo” (conferma,
convalida, ratifica, riforma, conversione, proroga) ed “atti ad esito eliminatorio” (annullamento,
revoca, recesso). Tra l’altro, tra gli “atti ad esito eliminatorio” alcuni autori includono anche l’
“ABROGAZIONE” (provvedimento di secondo grado con cui si elimina, con efficacia ex nunc, un
precedente provvedimento, legittimo al momento della sua emanazione , ma la cui legittimità in
seguito viene meno per il decadere dei presupposti indicati dalla legge) e la “SOSPENSIONE”
(istituto con cui l’amministrazione sospende per un certo lasso di tempo l’efficacia o l’esecuzione
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di un precedente provvedimento). Pertanto, la sospensione non elimina nessun atto, quindi la sua
riconduzione tra gli atti ad esito eliminatorio può spiegarsi solo per la sua strumentalità rispetto
agli istituti dell’annullamento e della revoca.

d) Provvedimenti ad esito eliminatorio e tutela del legittimo affidamento. Nel momento


in cui l’amministrazione emana i provvedimenti di secondo grado (in particolare “quelli ad esito
eliminatorio”), sorge il problema di come tutelare il cittadino che, in precedenza, aveva fatto
affidamento sulla certezza e stabilità delle decisioni assunte in precedenza dall’amministrazione
nei suoi confronti. La “CERTEZZA DEI RAPPORTI GIURIDICI” è infatti (insieme al “principio
di legalità” e al “buon andamento”) uno dei principi fondanti del nostro ordinamento : perciò, il
problema può essere risolto solo procedendo a un contemperamento tra le istanze di certezza del
concreto assetto di interessi (definito sulla base del provvedimento di primo grado) e le esigenze di
“legalità” e di “efficacia” dell’azione amministrativa.
In ogni caso, il tema della tutela del “legittimo affidamento” (e, in particolare della tutela delle
situazioni favorevoli - diritti e interessi legittimi - sorte dal provvedimento di primo grado) è stato
risolto, a livello legislativo, dalla L. 15 / 2005, anche se solo per la REVOCA (e ancor prima - in
relazione agli ACCORDI - perchè già la L. 241 / 1990 aveva imposto all’amministrazione che, in
presenza di interessi pubblici sopravvenuti, receda unilateralmente dall’accordo, l’obbligo di
indennizzare il privato per il danno subito a causa del recesso).

e) Provvedimenti di secondo grado e omessa comunicazione di avvio del procedimento.


Ai “provvedimenti di secondo grado” non si applica l’art. 21-octies, 2° comma, in base a cui
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non produce l’annullabilità del provvedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che l’apporto del privato sarebbe stato comunque
ininfluente, poiché il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Tuttavia, proprio nei “procedimenti di secondo grado” la
PARTECIPAZIONE può rivelarsi determinante, specie nella fase della comparazione degli
interessi in gioco, poiché permette ai privati di manifestare i loro interessi e all’amministrazione di
valutare meglio tutti gli interessi coinvolti nel procedimento. Ciò significa che la “partecipazione
del privato ai procedimenti di secondo grado” è essenziale, poiché in questo tipo di procedimenti si
assiste a uno scontro tra l’“interesse pubblico” (all’eliminazione di un atto illegittimo o alla
sospensione dell’efficacia di un provvedimento) e l’“interesse del privato” (che mira alla
conservazione delle posizioni favorevoli acquisite col provvedimento di primo grado).

*EX NUNC = (lett. “da ora”), è sinonimo di “non retroattività” : un dato atto esplica i suoi effetti solo dal momento in
cui viene posto in essere. L’espressione ex tunc, invece, (lett. “da allora”), è adoperata come sinonimo di
“retroattività” per indicare che un atto esplica i suoi effetti non dal momento in cui viene posto in essere, ma da un
momento anteriore

*PRINCIPIO DI AUTOTUTELA = potere della P.A. di annullare e revocare i provvedimenti adottati; possibilità per la P.A.
di risolvere i conflitti attuali o potenziali con i destinatari dei suoi provvedimenti senza l’intervento del giudice.

*RECESSO = potere di recedere da un accordo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico.

*REVOCA = atto che elimina gli effetti di un precedente provvedimento perché viziato nel merito (e, quindi,
inopportuno, inadeguato o ingiusto).

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f) Procedimento di riesame e istanza dell’interessato. Qualora il privato interessato richieda


la “revoca” o l’“annullamento” di un provvedimento sfavorevole non impugnato (e divenuto
inoppugnabile per scadenza dei termini), l’amministrazione – ad avviso di dottrina e giurisprudenza
– non è obbligata ad avviare un procedimento di riesame : infatti, essendo i “poteri di riesame”
discrezionali, il relativo esercizio è per l’amministrazione una facoltà, e non un obbligo. Se si
ammettesse quest’obbligo, verrebbero scardinati sia il “principio di inoppugnabilità dei
provvedimenti una volta scaduto il termine per la loro impugnazione”, sia il convincimento che i
poteri di riesame sono discrezionali : allora, se ne deve dedurre che il privato (anche in pendenza
del termine per impugnare) può solo sollecitarne l’esercizio con un’istanza, configurandosi in capo
all’amministrazione competente una mera facoltà. Quanto detto implica un’ulteriore conseguenza :
e cioè che, laddove l’amministrazione, a seguito di un’istanza di riesame presentata dal privato, si
rifiuti di avviare il procedimento di riesame, questo “rifiuto” assume i connotati di un “atto
meramente confermativo di un precedente provvedimento ”, e pertanto non è impugnabile in via
autonoma.

2. I provvedimenti ad esito eliminatorio. L’annullamento d’ufficio.


I “provvedimenti ad esito eliminatorio” sono l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO e la REVOCA. Il
primo comporta l’eliminazione del provvedimento illegittimo e in contrasto con l’interesse
pubblico; la seconda comporta la cessazione degli effetti di un provvedimento che, pur essendo
legittimo, non è più idoneo alla cura dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione. Alla
categoria è stata ricondotta anche la SOSPENSIONE, con cui viene temporaneamente sospesa, per
motivi cautelari, l’efficacia di un provvedimento.
L’annullamento d’ufficio e la revoca sono stati sempre studiati in relazione l’uno all’altro.
Inizialmente associati dal fatto di incidere su un precedente atto, alla fine dell’800 iniziarono ad
assumere una connotazione autonoma, fino all’assoluta autonomia. Tale distinzione si è, tuttavia,
attenuata con la L. 15 / 2005 che, disciplinando l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO (art. 21-nonies)
e stabilendo che “l’atto illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico”, ha comportato un riavvicinamento tra i due istituti (l’annullamento e la revoca),
perchè ha accentuato il profilo discrezionale dell’annullamento, mettendo in risalto il suo carattere
di strumento funzionale alla cura dell’interesse pubblico (così come la revoca). Tuttavia, la
previsione introdotta dalla L. 15 / 2005 non ha rappresentato una novità, in quanto anche prima la
giurisprudenza era giunta a una conclusione simile : si era ritenuto, infatti, che affinchè il
provvedimento amministrativo potesse essere annullato, fosse necessaria non solo la sua
illegittimità (per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere), ma anche (e soprattutto) la
sua inopportunità (= il suo contenuto non è più idoneo a soddisfare l’interesse pubblico in concreto
perseguito). L’“illegittimità” non è, quindi, sufficiente da sola a giustificare l’annullamento
d’ufficio, ma occorre anche un interesse pubblico concreto e attuale, di cui deve darsi conto nella
motivazione dell’atto. Il principio è stato ora codificato dall’art. 21-nonies, secondo cui l’atto
illegittimo può essere annullato sussistendone le «ragioni di interesse pubblico». Ciò ci aiuta a
qualificare l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO come quel provvedimento di secondo grado,
attraverso cui l’amministrazione (nel perseguire l’interesse pubblico affidatole) è abilitata a
esercitare nuovamente il potere che le è stato attribuito, nelle stesse forme e con la ripetizione dello
stesso procedimento che ha portato all’adozione del provvedimento di primo grado (oggetto di
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annullamento).
Però, affinchè l’amministrazione possa procedere all’annullamento dell’atto (tornando sui suoi
passi), è necessaria anche una terza condizione : infatti, intorno all’ “interesse pubblico
all’annullamento dell’atto” ruotano non solo gli “interessi pubblici secondari”, ma anche gli
“interessi privati dei destinatari e dei controinteressati” (cioè di coloro che sono interessati alla
conservazione dell’atto o alla sua rimozione); perciò, qualora il provvedimento che
l’amministrazione intende annullare favorisca il destinatario, questi avrà interesse a conservarlo in
vita; se invece lo danneggia, egli avrà interesse a che sia eliminato. Opposta è invece la posizione
dei “controinteressati”, cioè di coloro che hanno un “interesse antagonistico” a quello del
destinatario (interesse all’annullamento dell’atto nel primo caso, o alla sua conservazione nel
secondo caso). Pertanto, per procedere all’annullamento, è anche necessario che l’amministrazione
proceda a un bilanciamento l’interesse pubblico all’eliminazione e gli altri interessi, pubblici e
privati, coinvolti nella scelta amministrativa : da questo bilanciamento (mediante il quale
l’amministrazione accerta l’interesse prevalente), l’interesse pubblico deve risultare vittorioso. Ciò
ci permette, tra l’altro, di qualificare ulteriormente l’ “annullamento d’ufficio” come un vero e
proprio provvedimento discrezionale (a differenza dell’ “annullamento giurisdizionale”, che è atto
di natura vincolata) e proprio per questo il “provvedimento di annullamento” deve essere sorretto da
un’ampia motivazione.
L’area di operatività dell’annullamento d’ufficio coincide con quella dell’ILLEGITTIMITA’
(violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere), con esclusione quindi dei vizi di merito.
Però, l’amministrazione - nell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio - non è tenuta ad
applicare i parametri di cui all’art. 21-octies, 2°comma : infatti la disposizione introduce,
nell’ambito di un “giudizio di legittimità sull’atto”, tecniche dirette ad evidenziare l’irrilevanza del
vizio sul contenuto dispositivo, impedendo l’annullamento giudiziale dell’atto in presenza di
elementi che convincono il giudice della “correttezza sostanziale dell’atto”. L’atto, però, pur non
potendo essere annullato dal giudice in sede giurisdizionale, resta comunque “illegittimo” e,
pertanto, annullabile dalla stessa amministrazione in sede di annullamento d’ufficio.
Quanto invece all’oggetto dell’annullamento, può essere annullato qualunque tipo di
provvedimento, a condizione che il potere che l’amministrazione ha esercitato nell’emanazione
dello stesso non si sia esaurito : ciò accade ad esempio nel caso degli “atti consultivi”, “di
controllo” o delle “decisioni sui ricorsi amministrativi”).
Il POTERE DI ANNULLAMENTO non è soggetto a prescrizione, ma deve essere esercitato entro
un «termine ragionevole», la cui valutazione spetta all’amministrazione. La valutazione di
ragionevolezza deve essere fatta caso per caso, considerando vari fattori, tra cui il fatto che il
decorso del tempo, da un lato, incide sull’ attualità dell’interesse pubblico (attenua un interesse
pubblico all’eliminazione di un provvedimento), dall’altro, consolida gli interessi nel frattempo
sorti sulla base dell’atto che si vuole annullare.
Dopo che l’amministrazione ha annullato il provvedimento di primo grado, però, bisogna stabilire il
momento a partire dal quale far decorrere i relativi effetti : il problema è stato risolto dalla dottrina
che, facendo leva sul fatto che l’illegittimità colpisce l’atto fin dal momento della sua emanazione,
ha sempre sostenuto la tesi della RETROATTIVITA’ come caratteristica di ogni tipo di
annullamento (dell’ “annullamento giurisdizionale”, di “quello su ricorso amministrativo”, e quindi
anche di “quello d’ufficio”), col solo limite del principio “factum infectum fieri nequit”, sicché non
potranno essere annullati quegli effetti irreversibili che si sono completamente concretizzati prima

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dell’eliminazione dell’atto viziato (es., il pubblico impiegato il cui atto di nomina sia stato annullato
non dovrà restituire i compensi percepiti). Ma in ogni caso, la teoria della retroattività degli effetti
non può escludere a propri la possibilità di far decorrere gli effetti dell’annullamento a partire dal
momento dell’eliminazione del provvedimento : tale possibilità infatti non solo non viene negata
dal legislatore (in quanto l’art. 21 nonies non fa alcun espresso riferimento all’ “effetto retroattivo”),
ma inoltre bisogna anche pensare che la retroattività ha un senso nell’“annullamento
giurisdizionale” o “su ricorso amministrativo”, poiché è posta a garanzia del ricorrente contro i
tempi lunghi del processo o del procedimento, ma non nell’annullamento d’ufficio : anzi le esigenze
del cittadino, che mira alla conservazione dell’atto, sono diametralmente opposte :
quindi poichè si pone un problema di “tutela del legittimo affidamento del privato nella certezza e
stabilità del precedente assetto di interessi a lui favorevole”, non ci sono ragioni per escludere la
decorrenza degli effetti dell’annullamento solo per il futuro.
Un’ultima considerazione occorre dedicarla alla “competenza ad annullare il provvedimento” : in
base all’art. 21-nonies, la competenza spetta all’organo che ha emanato l’atto invalido (“auto-
annullamento”), all’autorità cui è eventualmente trasferita la competenza o ad un altro organo
espressamente indicato dalla legge (il riferimento alla «legge» va inteso in senso ampio,
indicandosi anche le fonti normative di secondo grado). In assenza di una previsione di legge,
pertanto, l’annullamento non può essere disposto dall’ “organo gerarchicamente superiore a quello
che ha emanato l’atto”, nè “da un organo appartenente a un ente territoriale diverso” : così, ad
esempio, l’ “ANNULLAMENTO STRAORDINARIO”, entro 10 anni, da parte della Regione, dei
titoli edilizi illegittimi rilasciati dai Comuni è infatti espressamente previsto dal “t.u. edilizia”.
Il discorso invece cambia per gli “atti illegittimi degli enti locali”, il cui annullamento – sulla base
di quanto disposto dal d.lgs. 267 / 2000 (c.d. testo unico degli enti locali) - potrà essere disposto
solo dal Governo (ciò per tutelare l’unità dell’ordinamento); inoltre al Governo è attribuita anche la
competenza ad annullare gli “atti illegittimi di qualunque amministrazione” (fatta eccezione per gli
atti delle Regioni e delle Province autonome), in virtù di quanto stabilito dalla L. 400 / 1988.
Il potere di annullamento deve svolgersi secondo le forme e le garanzie del procedimento che ha
portato all’emanazione dell’atto (oggetto di annullamento) : la natura discrezionale, inoltre, ne
postula un’adeguata “motivazione”, sia sotto il profilo dell’illegittimità che rende l’atto viziato sia
riguardo alle ragioni di pubblico interesse che ne giustificano la rimozione.
Tuttavia, a differenza di quanto previsto per la revoca, l’annullamento d’ufficio non comporta la
corresponsione di alcun “indennizzo a favore del privato danneggiato”, a meno che ad essere
annullati non siano «quei provvedimenti illegittimi che vanno ad incidere su rapporti contrattuali
con privati» : si pensi, ad esempio, all’aggiudicazione.

2.1. La revoca. Attraverso la REVOCA l’amministrazione competente elimina, ma solo per


il futuro (con efficacia ex nunc) un provvedimento i cui effetti sono considerati “inopportuni”,
perché non più adeguati alla cura dell’interesse pubblico che esso mirava a soddisfare : in questo
modo, il provvedimento viene privato della possibilità di spiegare, per il futuro, ulteriori effetti (la
revoca, quindi, opera con “efficacia ex nunc”). A differenza dell’annullamento d’ufficio, la revoca,
quindi, prescinde dall’esistenza di un VIZIO DI LEGITTIMITA’ DELL’ATTO (l’atto revocato,
cioè, può essere legittimo), ma mira solo a garantire – sulla base del “principio di efficacia” – un
equilibrato rapporto tra l’adeguatezza della scelta operata dall’amministrazione e l’interesse
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pubblico in concreto perseguito. Il fatto che la revoca venga ancorata all’interesse pubblico ci
consente di collocarla nell’area dell’“amministrazione attiva” (e di escluderne l’appartenenza
all’autotutela) e ci permette anche di distinguerla da quegli istituti che solo impropriamente sono
denominati “revoche” (come la “revoca degli assessori”, il cui presupposto risiede in una
valutazione di opportunità politica, o la “revoca del Presidente del Consiglio comunale”, il cui
presupposto risiede nella violazione dei doveri istituzionali) : proprio perché sono fattispecie diverse
dalla revoca, a queste ipotesi non si applica l’art. 21-quinquies.
In ogni caso, nell’esercitare i poteri di revoca, l’amministrazione è tenuta ad effettuare un
bilanciamento tra le “ragioni di interesse pubblico” e le “ragioni del privato” (che ritiene di subire
un pregiudizio dalla revoca) : questo bilanciamento è necessario soprattutto quando è trascorso
molto tempo tra l’adozione del provvedimento e la sua revoca (in quanto il decorso del tempo può
aver consolidato situazioni giuridiche soggettive favorevoli al privato).
L’art. 21-quinquies (modificato dalla L. 40 / 2007, che vi ha aggiunto il comma 1-bis) disciplina la
REVOCA. Ai sensi di questa disposizione, è stabilito innanzitutto che la revoca può essere disposta
dall’organo che ha emanato l’atto o da altro organo indicato dalla legge (anche qui il riferimento
alla «legge» va inteso in senso ampio, intendendosi anche le fonti di secondo grado).
Tra l’altro, la Corte costituzionale ha stabilito che la revoca può essere disposta, oltre che con un
“atto amministrativo”, anche con “legge”.
Analizziamo ora i presupposti che giustificano il ricorso alla revoca; stando all’art. 21 quinquies,
l’esercizio del potere di revoca è ammesso in 3 ipotesi : 1) per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse; 2) per un mutamento della situazione di fatto che rende il provvedimento incompatibile
con l’assetto di interessi originariamente definito; 3) per una diversa valutazione delle ragioni di
pubblico interesse in base a cui l’amministrazione aveva adottato il provvedimento. La norma
indica, quindi, 3 ipotesi che possono, tuttavia, ricondursi a due fattispecie :

 la “REVOCA PER SOPRAVVENIENZA” : fondata su un mutamento della situazione di


fatto che la rende incompatibile con l’assetto di interessi definito dal provvedimento;
 la “REVOCA IUS POENITENDI” : espressione di una diversa valutazione degli interessi
in base a cui l’amministrazione aveva adottato il provvedimento.

La REVOCA PER SOPRAVVENIENZA comprenderebbe, quindi, sia la “revoca per sopravvenuti


motivi di pubblico interesse” (che si verifica, ad es., quando un’area destinata a verde agricolo viene
modificata a seguito della prospettiva di un grosso insediamento industriale, per la cui costruzione
non vi è disponibilità di un’altra area) che “quella ancorata al mutamento della situazione di fatto”
(che si verifica, ad es., quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, accordato per investire
in una determinata produzione, distolga le somme dalla destinazione prevista).
Quanto, invece, alla REVOCA IUS POENITENDI (c.d. revoca per ripensamento), questa
comprende le ipotesi in cui l’amministrazione procede a una diversa valutazione degli interessi che
le avevano consigliato, all’inizio, di adottare il provvedimento. Dopo la riforma del 2005, che ha
codificato tale forma di revoca, questa è stata duramente criticata dalla dottrina, perchè la revoca
per ripensamento sembra violare “principi fondamentali dell’ordinamento” (come l’affidamento
nella certezza e stabilità delle situazioni giuridiche nate dall’atto oggetto di revoca) : e allora, per
consentire una lettura legittima di questo tipo di revoca, è stato affermato che il ricorso alla stessa
può essere giustificato solo quando si venga a conoscenza di fatti sconosciuti al momento
dell’emanazione dell’atto oggetto di revoca : si pensi, ad es., al caso in cui un permesso di costruire
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venga revocato, poiché – in virtù di un’indagine successiva al suo rilascio – viene accertata una
condizione di instabilità geologica dell’area interessata.
Per quel che riguarda, invece, l’oggetto, la revoca - secondo l’art. 21-quinquies - può avere ad
oggetto solo PROVVEDIMENTI AD EFFICACIA DUREVOLE, quindi sono irrevocabili gli atti i
cui effetti si sono realizzati ed esauriti o siano divenuti irreversibili. Gli “atti ad efficacia
istantanea” non sono, pertanto, revocabili.
Inoltre, avendo la revoca carattere discrezionale, sono irrevocabili anche i “provvedimenti
vincolati”, le “decisioni su ricorso amministrativo”, gli “atti di controllo” e i “pareri” (tutti atti per
cui non è possibile svolgere una valutazione, discrezionale, di opportunità).
Per quanto riguarda gli aspetti temporali della revoca, in mancanza di un’apposita previsione
normativa (il legislatore del 2005 infatti tace sul momento entro cui può essere adottato un
provvedimento di revoca), trova conferma l’orientamento giurisprudenziale, che considera il potere
di revoca esercitabile in ogni tempo, con il solo limite dell’attualità dell’interesse pubblico che
giustifica l’esercizio del potere : ciò significa che la P.A. potrà revocare un suo precedente
provvedimento solo nel caso in cui l’assetto di interessi (emergente da quest’ultimo) non appaia più
adeguato alla cura dell’interesse pubblico. Tuttavia, parte della dottrina ha precisato che l’assenza
di un preciso limite temporale può essere coerente con la REVOCA PER SOPRAVVENIENZA
(poichè non possono porsi limiti temporali alle sopravvenienze di pubblico interesse), ma non con
la REVOCA IUS POENITENDI, che si fonda su valutazioni soggettive. Per quanto riguarda la
decorrenza degli effetti, secondo l’art. 21-quinquies «la revoca determina l’inidoneità del
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti», con ciò confermando l’orientamento per cui
gli effetti della revoca operano ex nunc (a partire dal momento in cui la stessa è stata disposta).
Quanto alle “situazioni giuridiche soggettive favorevoli del privato” nate dall’atto revocando,
queste non sono un limite all’esercizio del potere di revoca : solo che la loro esistenza postula
l’applicazione di regole di bilanciamento tra l’interesse pubblico e le ragioni del privato, nonché
un’adeguata motivazione (specie se, a causa del tempo trascorso, tali situazioni si sono consolidate,
determinando un legittimo affidamento alla loro conservazione).
Inoltre, l’art. 21-quinquies ha disciplinato le conseguenze patrimoniali della revoca dei
provvedimenti, prevedendo un INDENNIZZO per compensare il danno economico subito dal
privato destinatario di un legittimo atto di revoca, e assegnando al giudice amministrativo la
giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di “determinazione e corresponsione
dell’indennizzo” (disposizione, questa, abrogata ed ora confluita nel codice del processo
amministrativo). Per quanto riguarda la commisurazione del quantum dell’indennizzo, sono state
prospettate due soluzioni :

 o ritenere che esso vada commisurato alla PERDITA SUBITA (c.d. danno emergente), con
esclusione del c.d. lucro cessante (mancato guadagno) : ciò per evitare di creare confusione
tra l’indennizzo (che presuppone una revoca legittima) e il risarcimento (che, al contrario,
presuppone una revoca illegittima);
 o agganciare il quantum dell’indennizzo alla disposizione del «codice dei contratti pubblici»
che riguarda la “revoca della concessione di lavori nel quadro di un project financing”, che
nell’indennizzo, oltre al DANNO EMERGENTE, ricomprende anche una quota pari al 10%
DEL LUCRO CESSANTE.

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Ad ogni modo, il problema della quantificazione dell’indennizzo, lasciato all’interpretazione della


dottrina e della giurisprudenza per le REVOCHE RIGUARDANTI I RAPPORTI
AMMINISTRATIVI, è stato invece risolto dal legislatore per le REVOCHE RIGUARDANTI I
RAPPORTI NEGOZIALI : la L. 40 / 2007 ha aggiunto all’art. 21-quinquies il comma 1-bis
(riguardante la quantificazione dell’indennizzo per i danni subiti dai privati nei casi di revoca di un
«atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea» incidente su “rapporti negoziali”). Si tratta,
in particolare, di revoche relative alla concessione di lavori pubblici. In queste ipotesi l’indennizzo
deve essere parametrato solo al «DANNO EMERGENTE», con esclusione del lucro cessante,
perchè – trattandosi di “revoche legittime” – gli eventuali danni devono essere indennizzati solo con
riferimento alle spese effettivamente sostenute dall’interessato, che ha fatto affidamento
sull’efficacia del provvedimento (oggetto di revoca).
Prendendo spunto dal comma 1-bis, sembra ormai sostenibile la prima opzione a cui si è accennato,
cioè quella per cui anche nelle ipotesi di “revoche di provvedimenti incidenti su rapporti
amministrativi”, l’indennizzo deve essere commisurato al solo DANNO EMERGENTE.
L’art. 21 quinquies indica inoltre due circostanze che possono determinare una diminuzione
dell’indennizzo :

 qualora il privato fosse a conoscenza della «contrarietà» dell’atto revocando «all’interesse


pubblico»: cosa che lascia perplessi, perché così ragionando il privato viene affiancato
all’amministrazione nella scelta relativa alla cura concreta dell’interesse pubblico, scelta che
è prerogativa dell’amministrazione (rientrando, infatti, nel c.d. “merito amministrativo”).
 qualora il contraente o altri soggetti concorrano nell’erronea valutazione della compatibilità
dell’atto con l’interesse pubblico». Anche questa previsione suscita qualche dubbio : se il
richiamo ai principi civilistici sul concorso nell’erronea valutazione dell’amministrazione
può giustificarsi per il destinatario dell’atto (incidendo sulla consistenza del suo
affidamento), lo stesso non può dirsi quando alla produzione del danno abbia concorso un
terzo con la propria attività, ma all’insaputa del destinatario (perché il destinatario subirebbe
una diminuzione dell’indennizzo per colpe non sue).

Inoltre la giurisprudenza ha escluso la possibilità di cumulo delle domande di indennizzo e di


risarcimento del danno : le due domande sono, infatti, incompatibili, poichè la prima presuppone
una revoca legittima, mentre la seconda presuppone una revoca illegittima.
Infine, un ultimo accenno occorre dedicarlo al rapporto che intercorre tra l’istanza di revoca
avanzata da un privato e la sussistenza o meno dell’obbligo, in capo all’amministrazione, di
avviare il relativo procedimento : in presenza di una situazione del genere, di regola
l’amministrazione non è obbligata a procedere, ma ha la mera facoltà (o il dovere morale) di
procedere. Tuttavia, se consideriamo che con l’esercizio del potere, l’amministrazione ha l’
“obbligo di perseguire l’interesse pubblico affidato alle sue cure” (e che nel far ciò deve anche
considerare gli altri interessi – pubblici secondari e privati – coinvolti), possiamo concludere che,
ove il privato presenti un’istanza di revoca di un provvedimento per lui pregiudizievole, e tale
istanza sia fondata su fatti sopravvenuti o su fatti che, anche se preesistenti, non potevano essere da
lui conosciuti, l’amministrazione dovrebbe essere obbligata ad avviare il procedimento e a
concluderlo con un provvedimento espresso.

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3. I provvedimenti ad esito conservativo : proroga e atti ad effetto


sanante. I PROVVEDIMENTI AD ESITO CONSERVATIVO sono gli atti che mirano a
mantenere in vita un precedente atto o eliminando il vizio che lo intacca (con efficacia ex tunc) o
accertando la sua validità. Per giustificare gli atti del primo tipo (eliminazione del vizio inficiante)
viene richiamato il “PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE DEI VALORI GIURIDICI
DELL’ORDINAMENTO” (che è un’ esplicazione del “PRINCIPIO DI ECONOMICITÀ”). Il
principio di economicità postula che l’amministrazione, prima di eliminare un atto illegittimo o
inopportuno, valuti la possibilità di mantenerlo in vita.
Nella categoria rientrano la CONVALIDA, la RETTIFICA, la RATIFICA, la CONFERMA, la
CONVERSIONE e la RIFORMA.

In questa categoria parte della dottrina fa rientrare anche la PROROGA : ciò perché tale istituto, pur
non producendo tecnicamente “effetti conservativi”, consente comunque di protrarre gli effetti di
un provvedimento oltre il termine di durata previsto dallo stesso. Qualche problema, tuttavia, è
sorto in relazione al fondamento giuridico della proroga, poichè non c’è unanimità in dottrina :
mentre alcuni configurano la proroga come espressione di un potere generale, altri la ammettono
solo nei casi previsti dalla legge. Da questi orientamenti si discosta, poi, la giurisprudenza, che
invece inquadra la proroga nell’ambito dello stesso potere che l’amministrazione ha esercitato in
vista dell’adozione del provvedimento (sottoposto a proroga) : potere che può essere esercitato solo
prima della scadenza del termine finale (cioè in un momento in cui il provvedimento produce
ancora i suoi effetti). Con la scadenza del termine, se non è consentita la proroga, è comunque
ammessa la RINNOVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO : anche la rinnovazione è una tecnica
con cui è consentita la prosecuzione dell’originario rapporto, ma a differenza della proroga (che
non richiede una nuova ponderazione degli interessi in gioco), la rinnovazione richiede invece
l’adozione di un “nuovo provvedimento” (e quindi, la ripetizione di tutte le fasi procedimentali e
una nuova valutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto rilevanti, attuata attraverso la
ponderazione dei vari interessi pubblici e privati coinvolti).

Un accenno va dedicato poi ai c.d. “ATTI AD EFFETTO SANANTE”, che pur avendo un effetto
conservativo, non sono provvedimenti di secondo grado, trattandosi di meri atti interni al
procedimento : questi atti – che rientrano nella competenza di un’amministrazione diversa da quella
competente ad emanare il provvedimento finale - vengono emessi dopo l’emanazione del
provvedimento (cioè in un momento successivo a quello in cui avrebbero dovuto essere emanati).
Di conseguenza, una volta emessi, tali atti vanno a sanare il vizio che inficiava il provvedimento
(c.d. funzione servente). Tuttavia, questa inversione dell’ordine procedimentale non è sempre
ammessa : se ad esempio non c’è dubbio sull’ “efficacia sanante” esercitata da una richiesta, una
proposta o un atto di assenso tardivo (nullaosta, autorizzazioni, ecc.), altrettanto non può dirsi per
il parere obbligatorio, poiché sarebbe irragionevole che un atto destinato a orientare la decisione
della P.A. intervenisse dopo che questa ha posto in essere l’atto per cui è stato chiesto il parere.
L’“emanazione tardiva dell’atto omesso, con effetto sanante” quindi è ammessa in tutti i casi in cui
l’atto non può incidere, modificandolo, sul contenuto della decisione assunta in sua mancanza.
Mentre è esclusa dal legislatore quando sono in gioco “interessi primari” (ad es., il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria è escluso).

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3.1. La convalida e la rettifica. La CONVALIDA - come l’annullamento d’ufficio -


ha ad oggetto un provvedimento illegittimo ma, mentre l’annullamento elimina l’atto, la convalida
rimuove il vizio che lo inficia, consolidandone gli effetti e rendendo l’atto inattaccabile per il
futuro.
L’istituto è regolato dall’art. 21-nonies che, dopo aver disciplinato al 1°comma l’annullamento
d’ufficio, fa salva «la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole». La disposizione si preoccupa
innanzitutto di delimitare l’ambito di operatività della convalida ai soli provvedimenti annullabili,
cioè ai provvedimenti affetti da un “vizio di legittimità” (con esclusione, quindi, dei provvedimenti
“nulli” o “inopportuni”), ma contiene una disciplina molto scarna dell’istituto, lacune che però sono
state colmate dal lavoro della giurisprudenza.
Per ciò che riguarda, invece, la competenza, in diritto amministrativo l’eliminazione del vizio
attraverso la convalida spetta allo stesso organo che ha emanato l’atto viziato, all’organo che ne ha
l’effettiva competenza (nel caso del vizio di “incompetenza relativa”) o anche ad altro organo
espressamente previsto dalla legge (diversamente da quanto prevede l’art.1444 c.c. per il contratto
di diritto privato, in cui è sancita la competenza della parte che ne potrebbe far valere
l’annullabilità).
Quanto ai “vizi emendabili con la convalida”, sono stati ricondotti al suo ambito di operatività, oltre
al vizio di incompetenza relativa, i VIZI FORMALI (come l’insufficienza del quorum negli organi
collegiali, la carenza o l’insufficienza della motivazione), mentre si sono ritenuti non convalidabili i
VIZI SOSTANZIALI, incidenti sul contenuto dell’atto (come ad esempio l’eccesso di potere per
sviamento : in tal caso infatti la convalida finirebbe per emendare - cioè per rimuovere il vizio di -
un atto adottato per un fine diverso da quello perseguito dall’amministrazione).
Tuttavia, la restante parte della norma desta qualche perplessità : in primis non è chiaro cosa si
debba intendere per “ragioni di pubblico interesse” (infatti l’interesse pubblico che giustifica la
convalida potrebbe anche coincidere col fatto che attraverso la convalida si evitano gli effetti
negativi dell’illegittimità dell’atto); pertanto, per risolvere il problema bisogna ricorrere ai “principi
valevoli per tutti i provvedimenti di secondo grado” : così, la convalida sarà ammessa solo nel caso
in cui L’INTERESSE ALLA CONVALIDA risulti prevalente, dopo un confronto comparativo, su
tutti gli altri interessi coinvolti (“interessi pubblici secondari” e “interessi privati”). Da qui anche
l’esigenza di un’adeguata motivazione.
Per quanto riguarda gli aspetti temporali, dottrina e giurisprudenza riconoscono alla convalida
“efficacia retroattiva”, sicché il vizio verrebbe sanato ex tunc (fin dal momento dell’emanazione
dell’atto), con la conseguenza che la giurisprudenza esclude la “convalida in corso di giudizio” :
ove si ammettesse la convalida di un provvedimento già impugnato, infatti, ne risulterebbe
vanificata la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi in violazione degli artt. 24 e
113 Cost.
La convalida deve intervenire “entro un termine ragionevole” : al riguardo occorre fare una
distinzione sulla base dei “termini previsti per l’impugnazione”. Pertanto :

 se il termine per impugnare è scaduto (e quindi si è consolidato il pregiudizio relativo alla


situazione soggettiva), la convalida è sempre ammessa;
 se il termine non è scaduto, la convalida potrà essere attivata solo dopo la scadenza del
termine.

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Dalla convalida si distingue la “RETTIFICA”, che ha ad oggetto provvedimenti non viziati (quindi
perfettamente validi), ma irregolari. Con la rettifica viene eliminato, con efficacia retroattiva, il c.d.
errore materiale in cui è incappata l’amministrazione (ad esempio l’errore può riguardare il
domicilio del destinatario dell’atto o l’ubicazione di un bene).

3.2. La ratifica. Così come la “convalida del vizio di incompetenza relativa”, la


“RATIFICA” è un istituto che mira alla conservazione dell’atto adottato; mentre però la convalida
sana l’atto eliminando il vizio, con la ratifica l’amministrazione competente fa proprio,
stabilizzandone definitivamente gli effetti (con efficacia ex tunc) un atto adottato da un organo che
– pur non essendo competente – è stato legittimato dalla legge all’adozione dell’atto , data la
presenza di particolari circostanze di urgenza. L’esistenza di tali circostanze (insieme alle “ragioni
di pubblico interesse” sottese all’adozione dell’atto) deve esse verificata al momento della ratifica.

3.3. Conferma e atto meramente confermativo.


Tra i “provvedimenti ad esito conservativo” va ricompresa anche la conferma. Si ha
“CONFERMA” quando l’amministrazione, dopo un’istanza di riesame (di un precedente
provvedimento negativo non più impugnabile), ribadisce la precedente decisione, confermandone
la validità, sulla base di una nuova valutazione degli interessi in gioco. Dalla conferma differisce il
c.d. atto meramente confermativo. Si ha un “ATTO MERAMENTE CONFERMATIVO” quando la
conferma della precedente decisione avviene senza una nuova valutazione degli interessi coinvolti,
ma solo rigettando le osservazioni dell’interessato e ribadendo la validità del proprio precedente
atto.
Quanto detto ci fa comprendere che solo la “CONFERMA” può essere annoverata tra i
“provvedimenti di secondo grado”, perché essa è quel provvedimento che viene adottato al termine
di un nuovo procedimento (un procedimento di riesame), mediante il quale l’amministrazione
(nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali) afferma la “legittimità” o l’ “opportunità” di un atto
(sfavorevole per il destinatario), confermandone il contenuto. La CONFERMA presuppone quindi
l’apertura di un nuovo procedimento, di un’ulteriore istruttoria e una nuova valutazione degli
interessi in gioco. La CONFERMA ha “natura discrezionale”; inoltre – trattandosi di un vero e
proprio provvedimento – la conferma sostituisce (con efficacia ex nunc) il precedente
provvedimento ed è autonomamente impugnabile sia in sede sia giurisdizionale che amministrativa.
Invece, l’ATTO MERAMENTE CONFERMATIVO richiama il precedente provvedimento,
limitandosi a riportarne il contenuto : di conseguenza, esso non è autonomamente impugnabile,
poichè è solo un atto di conferma, attraverso cui l’amministrazione decide di non riesaminare il
proprio precedente provvedimento (e, quindi, di non tornare sui suoi passi, rivalutando la decisione
adottata).
La ratio di questa distinzione sta nell’esigenza di evitare - attraverso l’impugnazione di un atto
meramente confermativo di un precedente provvedimento sfavorevole non più impugnabile per
scadenza del termine - l’elusione del termine di decadenza per impugnare l’atto. Tale orientamento
è stato, però, criticato poichè, negando l’impugnabilità dell’atto meramente confermativo, premia
l’amministrazione inattiva e impudente, mentre, affermando l’impugnabilità dell’atto di conferma,

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penalizza l’amministrazione che, prima di emanare un atto negativo, prende in considerazione


l’istanza del privato.
Ma anche dal punto di vista della tutela del privato la teoria non è convincente, poiché sottrae alle
garanzie dell’art. 113 Cost. gli atti meramente confermativi (finendo, così, per far dipendere la loro
impugnabilità da una scelta dell’amministrazione) : la non impugnabilità dell’atto meramente
confermativo infatti non solo impedisce al cittadino di dimostrare in giudizio che la situazione
(disciplinata dall’originario provvedimento) è cambiata, ma anche di far emergere l’illegittimo
comportamento dell’amministrazione che – senza alcuna giustificazione – non ha dato avvio al
“procedimento di riesame” come da lui richiesto. Da qui la proposta di rivedere la nozione di
ATTO MERAMENTE CONFERMATIVO, che fa dipendere l’impugnabilità di un atto da una mera
scelta dell’amministrazione. In ogni caso, la soluzione al problema è facile : in presenza di
circostanze di fatto o di diritto sopravvenute o qualora ci si trovi davanti ad una situazione che è
mutata, l’amministrazione è obbligata ad aprire il procedimento di riesame e a concluderlo con un
provvedimento espresso”. Con la conseguenza che sarà impugnabile sia la semplice “inerzia
dell’amministrazione”, sia l’ “atto meramente confermativo con cui l’amministrazione declina
l’istanza di riesame del privato, confermando semplicemente la precedente decisione adottata”.

3.4. La conversione. A differenza della sanatoria, la “CONVERSIONE” non mira ad


eliminare un vizio dell’atto invalido (così da sanarlo), ma al contrario punta a conservarne alcuni
effetti (con efficacia ex tunc) : attraverso la CONVERSIONE (che - pur essendo stata positivizzata
dal legislatore solo per i “negozi di diritto privato” dall’art. 1424 c.c., secondo cui “un negozio nullo
può essere convertito in un altro valido del quale abbia tutti gli elementi” - si ritiene applicabile
anche al provvedimento amministrativo), si concede a un atto “nullo” o “illegittimo” la possibilità
di produrre produrre gli effetti di un altro atto, purché ricorrano 3 condizioni :

 che l’atto nullo presenti tutti i requisiti (formali e sostanziali) del nuovo atto;
 che l’amministrazione dimostri che, se avesse conosciuto l’invalidità del primo, avrebbe
certamente adottato il nuovo atto;
 che la funzione dell’atto convertendo sia affine a quella dell’atto da convertire (ricorra, cioè,
una certa omogeneità degli interessi pubblici perseguiti) : si pensi ad esempio alla
conversione del “decreto di espropriazione definitiva” in “decreto di occupazione
temporanea”.

La competenza ad effettuare la conversione spetta all’organo che ha emanato l’atto, mentre la


dottrina esclude che la conversione possa essere effettuata dall’ “organo gerarchicamente
superiore”, in quanto l’auto-interpretazione che si compie con l’adozione dell’atto di conversione
presuppone l’identità tra il “soggetto che ha emanato l’atto convertendo” e l’“autorità che procede
alla conversione”. Si esclude, inoltre, che la conversione possa avvenire da parte del giudice
amministrativo dopo l’annullamento del provvedimento illegittimo : se così fosse infatti si
assisterebbe a un’inammissibile interferenza del giudice nella scelta discrezionale
dell’amministrazione.

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3.5. La riforma. Ai “provvedimenti di secondo grado ad effetti conservativi” può ascriversi


anche la “RIFORMA”. Un procedimento di riesame può concludersi, infatti (oltre che con la
conferma o la rimozione degli effetti del precedente provvedimento) con la loro riforma o modifica.
La RIFORMA – che ha efficacia ex nunc - può avere ad oggetto qualsiasi atto, purchè il relativo
contenuto non sia stato stabilito direttamente dalla legge (si pensi ad es. alla patente di guida) e più
precisamente :

 atti ad efficacia continuata (in tal caso si parla di varianti);


 atti di tipo programmatico (ad es., un piano regolatore);
 atti di tipo puntuale (ad es., un permesso di costruire).

La riforma può trovare collocazione sia nell’ambito di un “procedimento di annullamento” (e in tal


caso produrrà un annullamento parziale) sia nell’ambito di un “procedimento di revoca” (e in tal
caso produrrà una revoca parziale). La dottrina distingue anche tra RIFORMA «SOSTITUTIVA»
(quando con la riforma viene sostituita una parte dell’atto) e RIFORMA «AGGIUNTIVA»
(quando con la riforma viene aggiunta una parte nuova all’atto).
Infine la riforma è una delle classiche espressioni della “potestà d’ordine” (che rappresenta a sua
volta il nucleo fondante della gerarchia) : tuttavia, poiché la “gerarchia” (intesa in senso stretto)
non presenta più alcuna attualità, il “potere di riforma” è ormai rimasto racchiuso nell’ambito del
ricorso gerarchico, con cui un privato, allegando “motivi di legittimità” o “di merito”, richiede
all’ufficio superiore l’annullamento o la riforma di un atto di un ufficio subordinato.

*Art. 21-quinquies. (Revoca del provvedimento) Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o nel caso di
mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento o (salvo che per i
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici) di nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario, il “provvedimento amministrativo ad efficacia durevole” può essere revocato da parte dell'organo che lo ha
emanato o da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a
produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati,
l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo.

1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali,
l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo “danno emergente” e tiene conto sia
dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di
revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della
compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico.

*Art. 21-nonies. (Annullamento d'ufficio)


1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies (esclusi i casi di cui all’articolo 21-octies,
comma 2) può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a 18 mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato o da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.

2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico
ed entro un termine ragionevole.

*PRINCIPIO DEL “CONTRARIUS ACTUS” = l’atto di secondo grado deve seguire lo stesso procedimento del
provvedimento annullato.

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*FACTUM INFECTUM FIERI NEQUIT = ciò che è fatto non può essere considerato non fatto.

*IRREVERSIBILE = Che non si può invertire, e quindi non ammette correzioni, rifacimenti.

*EMENDARE = modificare, correggere, togliere difetti e imperfezioni.

- CAPITOLO 5. COMPORTAMENTI NON


PROVVEDIMENTALI PRODUTTIVI DI EFFETTI
GIURIDICI –
1. La segnalazione certificata di inizio attività. Evoluzione
dell’istituto. La segnalazione certificata di inizio attività («s.c.i.a.») - già «dichiarazione di
inizio attività» e, ancor prima, «denuncia» («d.i.a.») - contemplata dall’art. 19 della L. 241 / 1990, è
un istituto di c.d. semplificazione procedimentale. La L. 241 / 1990 ne ha disegnato una disciplina
generale, più volte modificata. La s.c.i.a. nasce nel 2010 (dopo 20 anni di d.i.a.) e viene «ritoccata»
nel 2011.
Il fondamento dell’istituto sta nel fatto che il privato può «sostituire» a tutta una serie di
provvedimenti autorizzatori una segnalazione, corredata di (= insieme a) autocertificazioni che
attestano il possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento di un’attività soggetta a un regime
autorizzatorio.

 La versione originaria dell’art. 19 prevedeva che “un REGOLAMENTO GOVERNATIVO


(cioè il d.p.r. 300 / 1992) individuasse i casi in cui l’esercizio di un’attività privata,
subordinato ad autorizzazione, licenza, nullaosta, permesso o altro atto di consenso, può
essere intrapreso su denuncia di inizio dell’attività da parte dell’interessato
all’amministrazione competente. In tali casi spetta all’amministrazione competente
verificare d’ufficio la SUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI DI LEGGE
RICHIESTI e disporre, se del caso, con provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione
dell’attività e la rimozione degli effetti, salvo che l’interessato non provveda a conformare
l’attività alla normativa vigente”. Il regolamento doveva anche prevedere i “casi in cui si
poteva iniziare l’attività subito dopo la presentazione della denuncia” oppure “dopo il
decorso di un termine fissato per categorie di atti”. La norma, infine, circoscriveva l’ambito
di applicazione dell’istituto ai casi in cui «il rilascio dell’atto di assenso
dell’amministrazione dipenda esclusivamente dall’ACCERTAMENTO DEI
PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI PRESCRITTI, senza l’esperimento di prove a ciò
destinate, non sia previsto alcun limite o contingente per il rilascio dell’atto e non ne derivi
pregiudizio alla tutela dei valori storico-artistici e ambientali e siano rispettate le norme a
tutela del lavoratore sul luogo di lavoro». In pratica : si demanda l’individuazione delle attività che
avrebbero potuto iniziare l’esercizio con Dia ad un apposito Regolamento. Si stabiliscono due tipi di Dia: 1)
per attività cui può darsi inizio immediatamente dopo la presentazione della denuncia (DIA AD EFFICACIA
IMMEDIATA); 2) per attività cui può darsi inizio dopo il decorso di un termine fissato per categorie di atti (DIA
AD EFFICACIA DIFFERITA).

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 Con la L. 537 / 1993 si sostituì l’art. 19 con il testo seguente : «In TUTTI I CASI in cui
l’esercizio di un’attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, nullaosta,
permesso o altro atto di consenso (ad esclusione delle “concessioni edilizie” e delle
“autorizzazioni paesaggistiche”) il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall’ACCERTAMENTO DEI PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI DI LEGGE, senza
l’esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali , e
non sia previsto alcun limite o contingente per il rilascio degli atti, l’atto di consenso si
intende sostituito da una DENUNCIA DI INIZIO DI ATTIVITÀ da parte dell’interessato
alla P.A. competente, attestante l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In tali
casi, spetta all’amministrazione, entro 60 giorni dalla denuncia, verificare d’ufficio la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con
provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione degli effetti,
salvo che l’interessato non provveda a conformare l’attività alla normativa vigente». Veniva
così ribaltata l’impostazione originaria dell’istituto :
1) nella prima formulazione, le attività esercitabili previa presentazione di d.i.a. erano
indicate espressamente nel regolamento governativo (d.p.r. 300 / 1992);
2) ora, invece, (ad esclusione dei casi in cui i titoli dovevano essere rilasciati previa
“valutazione tecnica” o previo “apprezzamento discrezionale” - e al di fuori delle
materie «sensibili» dell’edilizia e della tutela dei beni paesaggistici e ambientali -) tutte
le attività soggette al rilascio di un titolo abilitativo diventavano esercitabili con la
presentazione della d.i.a. (con l’unico limite del decorso dello spatium deliberandi di 60
giorni concessi all’amministrazione per verificare i presupposti e i requisiti richiesti).

In pratica : Nel 1993 la legge finanziaria, modificando l’art. 19 della L. 241/1990, capovolge
l’impostazione della disciplina e quella che prima era una eccezione diventa la regola: le attività che
possono essere avviate con Dia non devono essere più individuate, ma la normativa si riferisce a “tutti i
casi” in cui il rilascio del provvedimento dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dai
requisiti di legge e : 1) senza l’esperimento di prova a ciò destinate (che comportino valutazioni tecniche
discrezionali); 2) non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti . Non si fa
più riferimento al pregiudizio dei valori storico-artistici e al rispetto delle norme a tutela dei lavoratori.
Viene però detto che la Dia non si applica alle attività edilizie. Con la legge n. 537/1993, quindi, l’iniziativa
privata è suscettibile di incondizionata applicazione a materie soggette a TITOLI AUTORIZZATIVI
VINCOLATI. Alla normativa regolamentare viene così assegnato il compito di fissare i casi eccezionali in
cui la Dia non trova applicazione. Scompare anche la distinzione tra dia ad efficacia immediata e differita
e resta solo la “DIA AD EFFICACIA IMMEDIATA”.

 La norma è rimasta invariata fino all’entrata in vigore della L. 80 / 2005, che ha riscritto
l’art. 19, prevedendo che : “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nullaosta (comprese le DOMANDE PER LE ISCRIZIONI IN ALBI
O RUOLI richieste per esercitare un’attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) - il
cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o
di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente per
il rilascio degli atti - è sostituito da una “dichiarazione” dell’interessato corredata delle
certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste”. La novella del 2005 consentiva
di iniziare l’attività dopo 30 giorni dalla data di presentazione della dichiarazione
all’amministrazione (DIA AD EFFICACIA DIFFERITA), con l’obbligo dell’interessato di
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comunicarlo all’amministrazione «contestualmente all’inizio dell’attività». Il potere di


controllo dell’amministrazione doveva esercitarsi entro 30 giorni dal ricevimento della
comunicazione di avvio dell’attività (= quella fatta contemporaneamente all’inizio
dell’attività). In caso di accertamento positivo, l’amministrazione «adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti, salvo che
l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente l’attività entro un termine fissato
dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a 30 giorni». Novità di assoluto rilievo
(mantenuta nel testo vigente dell’art. 19) è la previsione del potere dell’amministrazione di
assumere determinazioni in via di AUTOTUTELA, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-
nonies (revoca e annullamento d’ufficio).
Infine, “ove la legge prevedesse l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, il termine
per l’adozione dei “provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei
suoi effetti” restava sospeso fino all’acquisizione degli atti consultivi; il periodo di
sospensione non poteva superare i 30 giorni, decorsi i quali l’amministrazione poteva
adottare i propri provvedimenti indipendentemente dall’acquisizione del parere”.

In pratica : la L. 80/2005 ha trasformato la Denuncia in Dichiarazione, attribuendole in via generale solo


un’efficacia differita.

2. Il regime giuridico della s.c.i.a. L’art. 19 è stato integralmente sostituito dalla L.


122 / 2010 (di conversione del d.l. 78 / 2010), che ha sostituito la d.i.a. con la S.C.I.A.
In questa prospettiva, il nuovo art. 19 stabilisce :

 “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta


comunque denominato (comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per
l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) - il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti
amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente
complessivo per il rilascio degli atti stessi - è sostituito da una SEGNALAZIONE
DELL’INTERESSATO.
 “La s.c.i.a. deve essere corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, nonché
dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati,   o dalle dichiarazioni di conformità rese
dall’Agenzia delle imprese, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti
per l’avvio dell’attività. Tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati
tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in
cui la normativa vigente prevede l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, o
l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni,
attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche
successive degli organi e delle amministrazioni competenti”. →  Qui si semplifica il regime
delle fattispecie in cui la legge prevede l’acquisizione di PARERI OBBLIGATORI. Prima
l’art. 19 stabiliva che il termine per l’adozione degli eventuali provvedimenti inibitori
dell’amministrazione restasse sospeso fino all’acquisizione dei pareri, e per un periodo non
superiore a 30 giorni (decorso il quale l’amministrazione era legittimata ad adottare i propri
provvedimenti indipendentemente dall’acquisizione degli atti consultivi). Ora, con la
novella del 2010 si è previsto che, quando la LEGGE prevede la necessità di acquisire
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PARERI o eseguire «VERIFICHE PREVENTIVE», essi sono « comunque» sostituiti dalle


autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni che devono corredare la
s.c.i.a., fatte salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.
Ciò desta perplessità, poiché un atto come il “parere”, il cui scopo è quello di realizzare
un’approfondita istruttoria, non può essere sostituito da “autocertificazioni o asseverazioni
di parte”. La disposizione è stata, poi, parzialmente modificata nel 2012 : essa prevede ora
che «Nei casi in cui la NORMATIVA VIGENTE prevede l’acquisizione di pareri di organi
o enti appositi o l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle
autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni, salve le verifiche successive
degli organi e delle amministrazioni competenti» : modifica, questa, in parte
pericolosamente ampliativa (perché la possibilità di sostituzione è oggi consentita non solo
nei casi in cui i pareri siano previsti dalla “legge”, ma anche dalla “normativa vigente”, e
quindi anche da fonti secondarie) e in parte inutile (perché la salvezza delle “verifiche
successive” da parte delle amministrazioni competenti sussisteva già in origine, in virtù del
potere di autotutela di cui godono le amministrazioni).
 “Sono esclusi dalla disciplina sulla s.c.i.a. i casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali; nonché gli atti rilasciati dalle pubbliche amministrazioni preposte
alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’amministrazione della giustizia,
all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza (e, infine, gli atti previsti dalla normativa per le
costruzioni in zone sismiche” = quest’ultima previsione è stata aggiunta nel 2011).
 “L’attività può essere iniziata (a differenza di quanto disposto dalla normativa precedente)
dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente”.

 “L’amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine
di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione (non più 30 giorni, come avveniva in
precedenza), adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi, salvo che l’interessato non provveda a conformare
l’attività alla normativa vigente entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso
non inferiore a 30 giorni”. → Ora i privati possono iniziare l’attività oggetto di s.c.i.a. fin
dalla data della presentazione all’amministrazione competente, ma è stato elevato a 60 il
numero dei giorni di cui l’amministrazione dispone per adottare provvedimenti inibitori e
ripristinatori. Tale termine è perentorio. Per la “s.c.i.a. in materia edilizia”, però,
l’amministrazione ha solo 30 giorni per emanare provvedimenti inibitori o ripristinatori.
 “E’ fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”.

 “Decorso il termine di 60 giorni per l’adozione dei provvedimenti inibitori e ripristinatori,


all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il
patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali
interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente”. → Quindi,
una volta scaduto il termine di 60 giorni, l’amministrazione
resta titolare di un “POTERE DI CONTROLLO EX POST” molto circoscritto : una volta
scaduti i 60 giorni, essa può intervenire solo a salvaguardia degli “interessi sensibili”.

 “la disciplina della s.c.i.a. «attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell’art. 117,
2°comma, lettera e) Cost. e costituisce livello essenziale delle prestazioni riguardanti i
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diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) dello stesso comma”.


→ Questa previsione è stata sospettata di illegittimità : la Corte costituzionale ha affermato
che il richiamo alla materia della CONCORRENZA è «inappropriato», poiché la s.c.i.a. ha
un ambito di applicazione diretto a tutti i cittadini (e, perciò, va oltre la materia della
concorrenza). Ha invece ritenuto infondata la violazione dell’art. 117 in relazione ai livelli
essenziali delle prestazioni, poichè l’“attività amministrativa” può essere qualificata come
«PRESTAZIONE», della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale : sicché
la disciplina prevede che gli interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale,
possano iniziare una determinata attività, salvo il controllo successivo
dell’amministrazione : si tratta quindi di una PRESTAZIONE SPECIFICA, circoscritta
all’inizio della fase procedimentale e finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41
Cost.).

Resta il problema dei limiti applicativi dell’art. 19 : al riguardo, una parte della dottrina ritiene che
le fattispecie previste dall’art. 19, facendo riferimento solo agli “atti amministrativi vincolati”, siano
caratterizzate dall’assenza di esercizio di “discrezionalità amministrativa” da parte
dell’amministrazione. Questa conclusione, però, non può essere condivisa : infatti, il fatto che l’art.
19 si applichi ad «ogni atto» ampliativo della sfera giuridica del privato, il cui rilascio dipenda solo
dall’accertamento dei REQUISITI E PRESUPPOSTI DI LEGGE, non esclude che tra tali «atti»
figurino provvedimenti discrezionali. In primo luogo, qualsiasi provvedimento (vincolato o
discrezionale) deve essere assunto nel rispetto dei «presupposti di legge» : è il PRINCIPIO DI
LEGALITÀ che lo impone. In secondo luogo, l’art. 19 si applica anche alle «CONCESSIONI NON
COSTITUTIVE», che impongono un apprezzamento discrezionale : ad esempio, tra le “concessioni
non costitutive” rientra anche la “concessione demaniale marittima”, che l’amministrazione può
rilasciare compatibilmente “con le esigenze d’uso pubblico”; l’accertamento della compatibilità
della concessione con le esigenze d’uso pubblico è un “presupposto di legge” per il rilascio della
concessione, ma l’accertamento di questo presupposto impone un apprezzamento discrezionale.
Se, quindi, l’art. 19 con il sostantivo «ACCERTAMENTO» sembra evocare la nozione di “attività
amministrativa c.d. vincolata”, il riferimento alla categoria delle «concessioni non costitutive» è
sufficiente a contraddire tale suggestione.

L’altra questione che è stata affrontata riguarda invece l’ “effetto giuridico collegato alla
presentazione della segnalazione” : in quest’ottica, alcuni autori ad esempio hanno configurato la
s.c.i.a. come un “fenomeno caratterizzato da una duplice rilevanza giuridica” (cioè, ha due effetti :
è un fatto che legittima l’esercizio di un’attività, ma dà anche avvio ad un procedimento
amministrativo di verifica); altri l’hanno definita come una “fattispecie che da un lato ha
connotazioni privatistiche (poiché legittima l’interessato a esercitare un’attività) e dall’altro profili
pubblicistici” (dati dall’attivazione dei poteri amministrativi di verifica). Ma, in ogni caso,
nonostante la validità delle tesi prospettate, lo stato delle cose non cambia : cioè, se
l’amministrazione non interviene con il divieto di prosecuzione dell’attività (potere di verifica), o
non interviene in via di autotutela, questa potrà essere lecitamente svolta.

Infine, l’ultima problematica sorta riguarda l’EDILIZIA. Infatti, stando alla formulazione del nuovo
art. 19, “Le espressioni “Segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono le
espressioni “Dichiarazione di inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, e la disciplina della Scia si
sostituisce a quella della Dia in qualsiasi normativa (nazionale e regionale) che richiami la Dia”.
Quindi, una delle prime problematiche aperte dall’introduzione della disciplina della s.c.i.a. era la
sua applicabilità alla NORMATIVA EDILIZIA. Andava chiarito se la Scia si applicasse anche alle
discipline speciali, quali quella edilizia. Il primo punto di domanda riguardava, quindi, la
sostituzione della S.c.i.a. (e della relativa disciplina) alla D.i.a. edilizia. La prima lettura della norma
declinava a favore della sostituzione della D.i.a. edilizia con la S.c.i.a. di cui all’art. 19 : “la
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disciplina della Scia sostituisce direttamente la disciplina della Dia in ogni normativa, statale e
regionale”. La sostituzione dovrebbe quindi riguardare anche la disciplina speciale, come quella
edilizia. Infatti il “testo unico dell’edilizia” (d.p.r. 380 / 2001) è una disciplina speciale.
Alcune Regioni invece sostenevano che la S.c.i.a. non si applicasse all’edilizia ed hanno impugnato
la norma davanti alla Corte costituzionale : i dubbi di legittimità costituzionale riguardavano la
possibile violazione della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia edilizia. Il
problema però è stato in parte risolto dalla L. 106 / 2011 (di conversione del d.l. sviluppo 70 /
2011), che ha stabilito che : “L’art. 19 si applica alle denunce di inizio attività in materia edilizia,
ma ad esclusione dei casi in cui le denunce siano alternative o sostitutive del “permesso di
costruire” (quindi non si ritiene estensibile l’ambito applicativo della Scia agli altri titoli abilitativi
edilizi, come il “permesso di costruire” : in pratica la scia può applicarsi sì al settore edilizio, ad
esempio per opere di restauro o ristrutturazione edilizia, ma non per le nuove costruzioni e gli
ampliamenti).

In pratica : si stabilisce che : 1) il nuovo art. 19 della L. 241/1990 è dettato dallo Stato, per tutelare la concorrenza (materia di
competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 2, lett. e); b) il nuovo art. 19 della L. 241/1990 è dettato dallo
Stato, per stabilire il livello essenziale dei diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117 Cost.,
comma 2, lett. m); c) le espressioni “Segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono le espressioni “Dichiarazione di
inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, e la disciplina della Scia si sostituisce a quella della Dia in qualsiasi normativa, nazionale e
regionale, che richiami la Dia.

IL CONTENUTO : Il contenuto della Segnalazione è molto più ampio di quello della Dia. La “Dichiarazione” doveva essere corredata
dalle CERTIFICAZIONI e dalle ATTESTAZIONI RICHIESTE DALLA NORMATIVA. Pareri e altri atti di consenso previsti dalle normative di
settore, dovevano essere acquisiti presso le Pubbliche amministrazioni competenti e allegati alla Dia. Con la Scia, la vera novità è
l’ampio ricorso all’autocertificazione e all’asseverazione del rispetto di normative tecniche. Appare proprio questo aspetto
l’elemento di maggiore novità (tanto quanto la possibilità dell’avvio immediato). Infatti, onde evitare dubbi, la norma stabilisce che
“nei casi in cui la legge prevede l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi
sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma”.
Coerentemente, scompare la fase di “sospensione del procedimento” (in precedenza prevista) in attesa di eventuali pareri di
Pubbliche amministrazioni quando esso fosse previsto dalle leggi, in quanto i pareri sono sostituiti dalle “autocertificazioni”.

L’EFFICACIA IMMEDIATA : si stabilisce “l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della
Segnalazione all’Amministrazione competente”. La Dia “ad efficacia differita” (= l’attività può essere avviata decorsi 30 giorni dalla
presentazione della Dia) di cui alla precedente formulazione dell’art. 19 scompare a favore della Scia “ad efficacia immediata”. La
semplificazione è notevole, perché oltre a consentire l’avvio immediato dell’attività, elimina l’obbligo della comunicazione ulteriore,
da inviare all’amministrazione competente, contestualmente all’inizio effettivo dell’attività.

IL CONTROLLO : 1) l’amministrazione competente, per l’esecuzione dei controlli, avrà 60 giorni di tempo (e non più solo 30, come
stabilito dalla disciplina precedente); 2) se dai controlli dovessero risultare carenze dei requisiti e dei presupposti oggetto della
Segnalazione e delle autocertificazioni, attestazioni e documentazioni allegate, entro 60 giorni, l’amministrazione competente deve
adottare “motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali EFFETTI DANNOSI di essa”. La
novità introdotta dalla nuova disciplina consiste nella previsione della rimozione dei soli effetti “dannosi” e non di tutti gli effetti
prodotti dall’attività illegittimamente avviata. Basta quindi stabilire il divieto di prosecuzione dell’attività, senza la rimozione degli
effetti da essa prodotti, a meno che - appunto - non siano “dannosi”. All’amministrazione competente, rimane la possibilità di non
prescrivere l’interruzione dell’attività, ma di richiedere all’interessato di conformare l’attività alle norme, stabilendo un periodo
congruo, non inferiore a 30 giorni, quando tale conformazione sia possibile. In ogni caso, si fa salvo “il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela. ma si limita questa possibilità al caso in cui si presenti un “pericolo di
danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla
normativa vigente”. Ciò significa che non costituiscono motivo sufficiente per la REVOCA del “provvedimento tacito”, che si è
formato con la decorrenza dei 60 giorni dalla presentazione della Scia, “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” o un
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“mutamento della situazione di fatto” o una “nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”, basati su interessi generali
diversi da quelli sopra descritti. Altrettanto, per L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO del “provvedimento” amministrativo, che si è
formato con la decorrenza dei 60 giorni dalla presentazione della Scia, non è sufficiente la verifica della semplice illegittimità,
questa condizione deve anche creare un pericolo di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale. Questi limiti, quindi, impongono al responsabile del procedimento un esame approfondito
e conclusivo entro i 60 giorni a disposizione per effettuare i controlli e adottare i provvedimenti conseguenti.

Art.   19   (Segnalazione   certificata   di   inizio   attività   -   SCIA)


1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta (comprese le domande per le
iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) il cui rilascio
dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a
contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti, è sostituito da
una SEGNALAZIONE DELL’INTERESSATO (con la sola esclusione dei casi in cui sussistano VINCOLI AMBIENTALI,
PAESAGGISTICI O CULTURALI e degli atti rilasciati dalle AMMINISTRAZIONI PREPOSTE ALLA DIFESA NAZIONALE, ALLA
PUBBLICA SICUREZZA, ALL’IMMIGRAZIONE, ALL’ASILO, ALLA CITTADINANZA, ALL’AMMINISTRAZIONE DELLA
GIUSTIZIA, ALL’AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE, compresi gli atti previsti dalla normativa per le costruzioni in
zone sismiche). La segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, nonché dalle attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati o dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle imprese, relative alla
sussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati
tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la
normativa vigente prevede l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, o l'esecuzione di verifiche preventive,
essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente
comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.
2. L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione
all’amministrazione competente. 3.
L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel
termine di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati “provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell'attività” e “di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa”. Qualora sia possibile conformare l'attività
intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a
provvedere, disponendo la sospensione dell'attività e prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine
non inferiore a 30 giorni per la loro adozione. In mancanza di adozione delle misure, decorso il suddetto termine,
l'attività si intende vietata.

4. IMPORTANTE !!!!!!! = (modificato nel 2015) “Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma
3 (= i 60 giorni per adottare i provvedimenti inibitori) ovvero di cui al comma 6-bis (= i 30 giorni in materia di scia
edilizia), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal comma 3 in presenza delle
condizioni previste dall'articolo 21-nonies”. (Comma sostituito nel 2015) → ( La legge 122 / 2010 diceva invece : 3°
comma = “L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di
60 giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e
di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa…….. E ' fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.
4°comma = Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, all’amministrazione è consentito
intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la
salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare
comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente).

6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di 60 giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a 30
giorni.

6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire solo l'azione contro il silenzio inadempimento.

*ASSEVERAZIONE = dichiarazione, certificazione con cui ci si fa garanti della veridicità di quanto asserito.

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*CONTINGENTAMENTO = alcuni settori appaiono come un mercato chiuso e le licenze in tali settori hanno un valore
molto alto.

*CONCESSIONI NON COSTITUTIVE (TRASLATIVE) = le concessioni possono essere “traslative” o “costitutive” a


seconda che la posizione giuridica attribuita venga costituita ex novo o sia semplicemente trasferita.

3. Natura giuridica del c.d. effetto abilitativo della s.c.i.a.


Con la presentazione della “segnalazione certificata” il privato è molto più libero nei confronti
dell’amministrazione, in quanto ad un’ “autorizzazione” (o a un altro “atto di consenso preventivo”)
che può anche tardare o essere negato (impedendo, così, lo svolgimento dell’attività) si sostituisce
un c.d. “controllo successivo” all’avvio dell’attività, da esercitarsi entro 60 giorni, decorsi i quali si
consolida il diritto del privato a svolgere l’attività. Però, questo consolidamento non è definitivo,
poiché l’amministrazione ha sempre il “potere di assumere determinazioni in via di autotutela”
(annullamento e revoca) ex art. 19, 3°comma; la formulazione di questa norma, però, appare
impropria, poiché essa – attribuendo all’amministrazione il potere di revocare o annullare
(attribuendo, cioè, un potere di intervento su atti precedenti) – sembrerebbe presupporre che nella
s.c.i.a. vi sia un “atto di assenso tacito”. Ma ciò, se fosse vero, sarebbe in contrasto proprio con
quanto stabilito dall’art. 19, nella parte in cui ricollega l’inizio dell’attività al momento della
presentazione della comunicazione da parte del privato, e non invece all’assenso
dell’amministrazione : diversamente, non ci sarebbe alcuna differenza tra s.c.i.a. e silenzio-assenso.
La s.c.i.a. invece deve considerarsi un “atto del privato”. Del resto, in linea con questo orientamento
dottrinario, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (2009) ha affermato che - essendo la s.c.i.a. un
atto di un soggetto privato, e non di una pubblica amministrazione (che ne è invece destinataria) – il
privato potrà esercitare l’attività non sulla base dell’emanazione di un “atto di consenso
dell’amministrazione”, ma in forza della legge : il soggetto è abilitato a svolgere l’attività
direttamente dalla legge, che disciplina direttamente l’esercizio del diritto, eliminando di
conseguenza l’intermediazione del “potere autorizzatorio dell’amministrazione”.
Nonostante questa pronuncia, però, la questione è rimasta controversa e il Consiglio di Stato ne ha
rimesso la soluzione all’Adunanza Plenaria, che ha disposto quanto segue :

 La s.ci.a. ha natura privata, dato che l’attività – per essere intrapresa – non necessita del
consenso espresso dell’amministrazione, ma esige solo la sussistenza dei “presupposti
indicati ex lege”;
 il denunciante è titolare di una “posizione soggettiva originaria”, che trova il suo
fondamento nella legge, purchè ricorrano i presupposti normativi per esercitare l’attività;
 il potere che spetta all’amministrazione è solo quello, successivo, di “verificare la
conformità a legge dell’attività denunciata” con l’uso degli strumenti inibitori e repressivi.
 Decorsi i 60 giorni per adottare tali provvedimenti, si consuma il “potere vincolato di
controllo con esito inibitorio” e viene in rilievo il solo “potere discrezionale di autotutela”
(annullamento e revoca).

Quindi, secondo il Consiglio di Stato, il regime della s.c.i.a. è sì sottoposto a un regime


amministrativo, ma con la significativa differenza che questo regime non prevede un “assenso
preventivo di natura autorizzatoria”, ma un controllo da esercitarsi entro un termine perentorio, con
l’attivazione di un procedimento teso a verificare la sussistenza dei presupposti per esercitare
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l’attività dichiarata. Pertanto, laddove l’amministrazione non eserciti i poteri inibitori o repressivi
nel termine perentorio previsto dalla legge, si forma un c.d. “provvedimento tacito di diniego”
(all’adozione degli atti inibitori o repressivi), attraverso cui l’amministrazione, in modo implicito,
riconosce la legittimità dell’attività intrapresa.
Di conseguenza, secondo tale pronuncia, ove il “terzo controinteressato” assumesse di essere stato
leso dagli effetti della s.c.i.a., egli non potrebbe far ricorso contro l’ “assenso tacito all’esercizio
dell’attività”, ma dovrebbe impugnare l’ “inerzia dell’amministrazione” che, omettendo di
esercitare i propri poteri inibitori, ha determinato la formazione di un “provvedimento tacito di
diniego all’adozione di un atto inibitorio” (legittimando, così, l’attività intrapresa dal privato).
Nel 2011 è stato aggiunto all’art. 19 il comma 6-ter, con cui si è espressamente previsto che «la
s.c.i.a. non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile». Gli interessati possono
sollecitare le verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire solo l’AZIONE
CONTRO IL SILENZIO-INADEMPIMENTO.

*In pratica : Il legislatore recepisce l’orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della S.C.I.A., come ATTO
PRIVATO NON IMMEDIATAMENTE IMPUGNABILE. Il Consiglio di Stato aveva stabilito che la scia non costituisce un
provvedimento tacito di assenso formatosi per il decorso del termine, essendo invece una mera “dichiarazione del
privato” rivolta all’amministrazione competente. Pertanto, l’oggetto del giudizio che vede come ricorrente il terzo leso
dagli effetti della scia, non può essere l’assenso tacito dell’amministrazione all’esercizio dell’attività, ma il terzo avrà
l’onere d’impugnare l’inerzia dell’amministrazione, che, omettendo di esercitare i propri poteri inibitori, ha
determinato la formazione di un “PROVVEDIMENTO TACITO DI DINIEGO DI ADOZIONE DI TALI PROVVEDIMENTI
INIBITORI”.
Con l’articolo 19, comma 6 ter della L. 241/1990 il legislatore disconosce la natura di provvedimento tacito
direttamente impugnabile dai terzi della SCIA. La Scia è quindi un atto del privato, e non un provvedimento
amministrativo riconducibile a una manifestazione di volontà della P.A. Conseguentemente, la tutela dei terzi non si
esplica attraverso un giudizio impugnatorio, ma attraverso la previsione dell’articolo 31 del codice del processo
amministrativo (Art. 31 = Azione avverso il silenzio” : d ecorsi i termini per la conclusione del procedimento
amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere). In
altri termini, il terzo leso dalla Scia potrà solo esperire l’azione sul silenzio dell’amministrazione, con l’avvertenza però
che tale azione presuppone la sussistenza di un obbligo dell’amministrazione di adottare le misure richieste dal terzo,
obbligo che tuttavia non può ritenersi esistente allorché il potere di cui s’invoca l’esercizio si consumi per effetto del
decorso del termine perentorio previsto dalla legge per il suo esercizio. Tale assetto sembrerebbe privilegiare il
consolidamento della posizione del soggetto che inizia l’attività economica.

Secondo tale impostazione il comma 6 ter della L. 241/1990,” pone a carico della PA un OBBLIGO DI PROVVEDERE
SULLE DOMANDE TESE A PROVOCARE L’ESERCIZIO DELLE VERIFICHE SULLA SCIA. Si tratta di un obbligo diverso rispetto
al dovere di controllo previsto dal 3° comma del predetto articolo, in quanto non trae origine dalla presentazione della
Scia, ma da un’istanza formulata da chi abbia interesse all’adozione delle misure inibitorie dell’attività. In tal modo, la
P.A., a seguito dell’istanza, sarebbe obbligata ad aprire un nuovo procedimento di controllo e a concluderlo con un
provvedimento espresso impugnabile direttamente dal privato.

4. Il silenzio assenso. A differenza della s.c.i.a. (che presuppone la presentazione di una


comunicazione con cui il privato informa l’amministrazione di voler intraprendere una certa
attività), il c.d. “SILENZIO ASSENSO” invece presuppone la presentazione di un’istanza, con cui
il privato – chiedendo all’amministrazione il rilascio di un titolo abilitativo – ottiene l’accoglimento
tacito della domanda laddove l’amministrazione non si pronunci nel termine stabilito per la
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conclusione del procedimento. Prima di essere disciplinato dall’art. 20 della L. 241 / 1990, esso era
un istituto previsto da alcune discipline settoriali, tra cui il c.d. «decreto Nicolazzi» del 1982, il cui
art. 7 stabiliva che alcuni trascurabili tipi di interventi sul territorio fossero soggetti ad
“autorizzazione gratuita”, purché conformi alle prescrizioni urbanistiche comunali e non sottoposti
a vincoli storici, culturali e paesaggistici : per tali interventi si stabiliva che «l’istanza per
l’autorizzazione del sindaco ad eseguire i lavori si intende accolta se il sindaco non si pronuncia
entro 60 giorni. In tal caso il richiedente può dar corso ai lavori comunicando al sindaco il loro
inizio». L’art. 8 poi prevedeva che la “domanda di concessione ad edificare per interventi edilizi
diretti alla costruzione di abitazioni” si intendeva accolta se entro 90 giorni dalla presentazione
della domanda non fosse stato comunicato un “provvedimento motivato di diniego”.
Sulla base di queste discipline settoriali, il Consiglio di Stato ha successivamente enucleato una
serie di “principi in materia di SILENZIO ASSENSO” :

 la disciplina sul c.d. silenzio assenso, in quanto derogatoria del regime ordinario di “rilascio
del titolo”, deve ritenersi eccezionale (motivo per cui essa deve ritenersi soggetta a “stretta
interpretazione”);
 il silenzio assenso si forma con il decorso del tempo stabilito dalla legge (e sempre che la
domanda del privato sia completa di tutta la documentazione);
 il silenzio assenso si produce solo in presenza di tutti i presupposti stabiliti dalla legge;
 il silenzio assenso non è un provvedimento implicito, ma una «FATTISPECIE LEGALE
PERMISSIVA», che in ogni caso non impedisce all’amministrazione di esercitare i “poteri
di autotutela” (annullamento e revoca). Si è così escluso che nel silenzio assenso possa
ravvisarsi un fenomeno di finzione giuridica (provvedimento implicito, comportamento
concludente, ecc.);
 il silenzio assenso è rigorosamente soggetto al “principio di legalità”, con la conseguenza
che fattispecie tipiche di silenzio assenso non possono essere introdotte per via
regolamentare.

5. Il silenzio assenso nella legge generale sul procedimento. L’art. 20


della L. 241 / 1990, nella sua versione originaria, attribuiva a un “REGOLAMENTO
GOVERNATIVO” (si tratta del d.p.r. 300 / 1992) il compito di individuare i casi in cui la domanda
di rilascio di un’autorizzazione, licenza, abilitazione, nullaosta, permesso o un altro atto di consenso
potesse considerarsi accolta, laddove l’amministrazione non avesse comunicato all’interessato il
PROVVEDIMENTO DI DINIEGO entro un termine fissato dal regolamento per le varie categorie
di atti. L’art. 20 faceva comunque salva la possibilità per l’amministrazione adìta di annullare
«l’atto di assenso formatosi illegittimamente », a meno che il privato non avesse provveduto, entro
un termine fissato dall’amministrazione, a sanare i vizi riscontrati.
Era un REGOLAMENTO DI DELEGIFICAZIONE, quindi, ad individuare tassativamente i “casi
di silenzio assenso” : regolamento che, però, secondo il Consiglio di Stato, non poteva consentire la
produzione dell’effetto legale tipico di atti per cui fosse previsto l’esperimento di prove, o atti il cui
rilascio potesse compromettere i valori storico-artistici o ambientali, o il rispetto delle norme a
tutela del lavoratore sul luogo di lavoro. Sempre secondo il Consiglio di Stato altre ipotesi di
silenzio assenso non potevano essere introdotte con norme regolamentari, emanate al di fuori

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dell’apposito procedimento previsto dall’art. 20.


Nel 2005, però, l’art. 20 della L. 241 / 1990 è stato modificato dalla L. 80 / 2005, e ora dispone che
«Salvo il regime della d.i.a. (s.c.i.a.) di cui all’art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il
rilascio di provvedimenti amministrativi il “silenzio dell’amministrazione competente” equivale a
“provvedimento di accoglimento della domanda”, se l’amministrazione non comunica
all’interessato il “provvedimento di diniego” nel termine fissato con regolamento per le singole
tipologie di provvedimenti o, in mancanza, nel termine massimo di 90 giorni oppure se non indice,
entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, una “conferenza di servizi”». L’effetto legale tipico
di ASSENSO si forma, quindi, se l’amministrazione non comunica il “diniego” nei termini di cui
all’art. 2, comma 2° o 3° (e quindi o nel termine fissato con regolamento per singoli tipi di
provvedimenti o nel termine massimo di 90 giorni) : se quindi un’amministrazione comunale
particolarmente incline a favorire la diffusione di esercizi per la somministrazione di alimenti e
bevande dovesse fissare, con regolamento, un termine di conclusione del procedimento per il
rilascio del titolo pari a 15 giorni, il privato potrà aprire un ristorante o un bar nell’arco di due
settimane dalla presentazione dell’istanza, se entro quest’arco temporale l’amministrazione non
istruisce la pratica e non adotta l’eventuale motivato diniego. L’alternativa all’adozione del diniego
è l’indizione di una conferenza di servizi.
In ogni caso il SILENZIO ASSENSO nei “procedimenti che iniziano su istanza parte”, da istituto
di carattere eccezionale (versione originaria dell’art. 20), dopo la riforma del 2005, è divenuto un
istituto di carattere generale : il REGOLAMENTO GOVERNATIVO, che originariamente era
chiamato, ex art. 20, ad individuare i “casi di ammissibilità dell’istituto”, in virtù della novella del
2005 è chiamato ora ad individuare i casi in cui esso non si applica.
Comunque l’art. 20 ribadisce che l’amministrazione può agire in via di AUTOTUTELA : ciò
significa che l’amministrazione – in presenza dei presupposti richiesti dagli artt. 21-quinquies e 21-
nonies – può revocare o annullare l’ “atto di assenso tacito”. Infine – in applicazione di quanto già
stabilito in sede giurisprudenziale – la normativa esclude l’applicabilità del silenzio assenso alle
“materie sensibili” (cioè agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico,
l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, la salute e l’incolumità pubblica), ai casi in
cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali e ai casi
in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come “rigetto dell’istanza”.

Art. 20 (Silenzio assenso).


1. Nei “procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi” il SILENZIO
DELL'AMMINISTRAZIONE COMPETENTE equivale a PROVVEDIMENTO DI ACCOGLIMENTO DELLA DOMANDA,
senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se l’amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui
all'articolo 2 (commi 2 o 3) il provvedimento di diniego.

2. L'amministrazione competente può indire, entro 30 giorni dalla presentazione dell'istanza una conferenza di servizi,
anche tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati.

3. Nei casi in cui il SILENZIO DELL'AMMINISTRAZIONE equivale ad ACCOGLIMENTO DELLA DOMANDA,


l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-
nonies.

4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità,
ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge
qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza.

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5-bis. Ogni controversia relativa all'applicazione del presente articolo è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.

*STRETTA INTERPRETAZIONE = divieto di interpretazione analogica.

*DIFFIDA = avvertimento formale a un soggetto di ottemperare a un obbligo.

- PARTE 5. AMMINISTRAZIONE
CONSENSUALE -

- CAPITOLO 1. GLI ACCORDI -

1. Accordo amministrativo ed esercizio della funzione pubblica.


L’art. 11 della L. 241 / 1990 (modificato dalla L. 15 / 2005), disciplinando gli
“ACCORDI TRA AMMINISTRAZIONE E PRIVATI”, consente alla parte pubblica di
esercitare la funzione amministrativa attraverso l’uso di moduli consensuali.
L’uso di moduli convenzionali era già previsto in normative di settore che
disciplinavano specifici procedimenti : ad esempio, la normativa
sull’espropriazione prevede la “cessione volontaria del bene espropriando”
(che è un atto convenzionale che sostituisce il provvedimento di
espropriazione); o in ambito urbanistico, dove sono previste le “convenzioni di
lottizzazione”, per programmare l’urbanizzazione e l’edificazione di aree
edificabili.
Nonostante moduli convenzionali fossero già previsti prima dell’entrata in
vigore della L. 241/1990, l’art. 11 è stato innovativo : esso, infatti, ha
consentito un’alternativa al modello tradizionale di amministrazione, fondato
sull’esercizio unilaterale e imperativo del potere amministrativo : al principio
tradizionale del “binario unico” (quello fondato sull’esercizio unilaterale del
potere) si sostituisce il “principio del doppio binario” (per cui l’amministrazione
può scegliere sia la tradizionale linea autoritativa, che la nuova linea
convenzionale : cioè gli “accordi”).
In ogni caso, se è vero che gli ACCORDI sono una fattispecie radicalmente
diversa dal provvedimento, è anche vero che gli stessi non possono essere
ricondotti, sic et simpliciter, nella categoria del “contratto di diritto privato”.
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Pertanto occorre partire dalla seguente definizione : gli ACCORDI costituiscono


una particolare modalità di esercizio del potere amministrativo, in quanto -
essendo disciplinati dalla “Legge sul procedimento” - possono essere conclusi
solo nell’ambito di un procedimento amministrativo avviato (cioè nell’ambito
del concreto esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione). Senza un
PROCEDIMENTO e un presupposto POTERE AUTORITATIVO attribuito
dall’ordinamento all’amministrazione non può esserci alcun accordo : la tipicità
degli accordi è, quindi, legata alla tipicità del potere di provvedere. Ciò
consente di escludere che gli accordi possano essere ricondotti all’attività di
diritto privato dell’amministrazione.
Infatti, indubbiamente l’amministrazione ha PIENA CAPACITÀ DI DIRITTO
PRIVATO e può stipulare contratti (essendo in ciò soggetta al solo vincolo del
“perseguimento dei fini istituzionali”), tuttavia – nell’esercitare la sua attività di
diritto privato – l’amministrazione, non potendo usufruire del suo “potere
autoritativo” (che è in grado di produrre effetti giuridici unilaterali nella sfera
del privato), è obbligata ad agire su un piano paritetico con il privato. Difatti, in
mancanza del mutuo (= reciproco) consenso tra amministrazione e privato non
si produrranno effetti giuridici nella sfera del privato (potendo essere solo il
contratto la fonte di questi effetti).
Da ciò emerge la notevole differenza che corre tra i “contratti ad evidenza
pubblica” e gli “accordi” ex art. 11 : mentre i primi infatti sono dei veri e propri
contratti (in quanto tali, soggetti all’integrale disciplina codicistica), gli accordi
ex art. 11, trovando il loro presupposto nel concreto esercizio di un potere
autoritativo, non possono essere disciplinati per intero dalle regole del codice
civile (ad essi si applicano solo “i principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti” in quanto compatibili : art. 11, 2°comma). L'accordo si
colloca in seno all’esercizio di un’attività che l’amministrazione svolge in veste
di “autorità” e che, in assenza dell’accordo, tenderebbe a concludersi con
l’emanazione di un provvedimento in grado di produrre effetti giuridici nella
sfera del privato. Negli accordi il potere autoritativo viene esercitato attraverso
“atti bilaterali”, laddove la volontà del privato non è necessaria per il
confezionamento della fattispecie. Gli accordi nascono, dunque, dalla fusione di
potere (dell’amministrazione) e autonomia privata (del privato).

2. Tipologia e ambito applicativo degli accordi.


L’art. 11 della L. 241 / 1990 prevede due tipi di accordo tra amministrazione e
privato : 1) l’ “ACCORDO PROCEDIMENTALE” (detto anche ACCORDO
INTEGRATIVO); 2) e quello “SOSTITUTIVO DEL PROVVEDIMENTO”.

 ACCORDI INTEGRATIVI : è stata prevista la loro generale applicazione fin


dall’originaria formulazione dell’art. 11. Essi sono conclusi per
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale : con l’
“accordo integrativo” l’amministrazione si obbliga ad esercitare il potere

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con l’emanazione di un provvedimento, il cui contenuto, però, è


determinato dal previo accordo con il privato; una volta sottoscritto
l’accordo, il “contenuto del provvedimento” diviene vincolato, perché
esso deve essere conforme all’accordo (se è difforme, il provvedimento è
illegittimo). Quindi l’ “accordo procedimentale” è un atto consensuale
che, intervenendo all’interno del procedimento, condiziona l’adozione del
provvedimento, perché quest’ultimo è tenuto a riprodurre il “contenuto
del previo accordo”.
 ACCORDI SOSTITUTIVI : l’ “accordo sostitutivo”, invece, comporta la
conclusione del procedimento, determinando (in sostituzione del
provvedimento, che, in questo caso, non viene emanato perché sostituito
dall’accordo) l’assetto degli interessi in gioco. La L. 15/2005 ha
riconosciuto loro una “generale applicazione”, invertendo la disciplina
previgente che li aveva, al contrario, “tipizzati”. Tuttavia l’atipicità ora
riconosciuta agli accordi sostitutivi è solo parziale : si tratta, infatti, di
un’atipicità nell’an (un’atipicità, cioè, che consente di concludere il
procedimento con un accordo, anziché con l’adozione del tradizionale
provvedimento, senza che sia necessaria un’apposita previsione
legislativa). L'accordo (sia quello sostitutivo che quello integrativo) resta
tipico, perchè assorbe la tipicità del provvedimento corrispondente.

L’art. 11, 3°comma («Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti


agli stessi controlli previsti per questi ultimi») si riferisce solo agli ACCORDI
SOSTITUTIVI : ciò, però, non determina una diversa disciplina tra accordo
sostitutivo e procedimentale, anzi ne conferma il carattere unitario,
riconducendo gli “accordi sostitutivi” alla disciplina dei controlli del
provvedimento sostituito, così come ne è soggetto il “provvedimento che
segue a un accordo procedimentale”.
Tuttavia ci sono delle DIFFERENZE STRUTTURALI : mentre l’accordo
procedimentale è un atto che interviene nel procedimento e all’interno di
questo esaurisce i suoi effetti (si tratta, cioè, di un atto interno al
procedimento e strumentale al provvedimento), l’accordo sostitutivo,
invece, conclude il procedimento, determinando l’assetto di interessi al
posto del provvedimento. Nel primo caso l’accordo non conclude il
procedimento ed è necessario il provvedimento finale (il cui contenuto è
però vincolato dall’accordo), nel secondo caso l’accordo determina la
chiusura del procedimento, senza l’emanazione di alcun provvedimento. Il
tratto comune tra le due specie di accordo è l’obbligo per entrambe le parti
di dare esecuzione a quanto pattuito.
L’ambito di applicazione degli accordi subisce varie limitazioni : 1) l’oggetto
dell’accordo non può essere l’esercizio di un “potere vincolato” : ciò è vero
sia per gli “accordi procedimentali” (che hanno ad oggetto proprio la
determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento finale) che
per “quelli sostitutivi” (perché la predeterminazione normativa dell’assetto
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degli interessi non potrebbe consentire alcuna definizione concordata del


procedimento); 2) un altro limite è previsto dall’art. 13 della L. 241/1990,
che esclude l’applicabilità dell’intero “Capo sulla partecipazione” (e, quindi,
anche dell’art. 11) per l’attività della P.A. diretta all’emanazione di atti
normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione,
per i quali “restano ferme le particolari norme che ne regolano la
formazione”. Ciò però non esclude che determinate “discipline di settore”
possano prevedere l’uso di moduli convenzionali anche in questi ambiti
(come avviene con le “convenzioni di lottizzazione” in materia urbanistica,
che sono atti programmatici : atti consensuali predisposti allo scopo di
programmare l’urbanizzazione e l’edificazione di aree individuate dal piano
regolatore come edificabili, in alternativa ad “atti unilaterali”, come i “piani
di lottizzazione).

3. La formazione degli accordi e il vincolo di «non negoziabilità


dell’interesse pubblico». Si è detto che gli accordi non sarebbero
ammissibili perchè la P.A. non può negoziare l’interesse pubblico affidato alle
sue cure. Ma la negoziazione non determina per l’amministrazione la rinuncia
al perseguimento dell’interesse pubblico, ma ne fissa solo le modalità del
perseguimento. La L. 241 / 1990 infatti prevede che «l’accordo può essere
concluso esclusivamente nel perseguimento del pubblico interesse», stabilendo
che la rinuncia all’unilateralità non implica la rinuncia alla soddisfazione
dell’interesse pubblico.
Il “perseguimento dell’interesse pubblico”, quindi, è la CAUSA DELL’ACCORDO
e ne determina anche il regime pubblicistico. Condivisibilmente, secondo parte
della dottrina, la figura degli accordi è stata introdotta dal legislatore per
concedere alle parti un’utilità ulteriore rispetto a quella che può essere fornita
dal tradizionale provvedimento unilaterale : infatti, se è vero che l’accordo può
essere concluso solo nel perseguimento del “pubblico interesse”, è comunque
impensabile che i contraenti privati impegnino tempo e denaro per uno
strumento che non consenta loro di introdurre i propri interessi e, anzi, li
costringa a perseguire un pubblico interesse anziché il proprio.
In realtà, la contraddizione insita nella fusione tra POTERE AMMINISTRATIVO e
AUTONOMIA PRIVATA è solo apparente, se si inserisce nell’ambito della
“partecipazione al procedimento”. Gli accordi, infatti, non sono solo un istituto
del procedimento amministrativo, ma anche un istituto di partecipazione al
procedimento : si consente al privato di incidere (tramite la manifestazione dei
propri interessi) non solo sulla “formazione della decisione”, ma anche sulla
“determinazione del contenuto della decisione”, codeterminando la definizione
di un assetto di interessi vincolante sia per l’amministrazione che per
l’interessato. Infatti il POTERE AMMINISTRATIVO si esercita attraverso il
confronto con gli INTERESSI PRIVATI, e ciò rappresenta la ratio della
partecipazione al procedimento amministrativo. Gli accordi consentono
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all’INTERESSE PRIVATO di svolgere un ruolo ancora più incisivo nella


realizzazione di tale confronto, definendo un assetto di interessi (compatibile
con il perseguimento dell’interesse pubblico) condiviso e vincolante per le
parti. Infatti negli accordi amministrativi l’amministrazione non dispone dello
scopo normativamente imposto (di cui essa è anzi garante), ma degli interessi
coinvolti in coerenza allo scopo dato.
La TRATTATIVA PER DEFINIRE L’ACCORDO è, del resto, inclusa dal 1°comma tra
le “facoltà partecipative del privato” (“la proposta del privato viene presentata
nell’ambito della partecipazione”) e l’ISTANZA DI ACCORDO presentata dal
privato è, anzi, un’espressione qualificata di partecipazione al procedimento,
poiché impone all’amministrazione di valutare l’istanza contenente lo schema
del «definitivo» assetto di interessi in gioco.
La L. 15/2005, introducendo il comma 4-bis nell’art. 11 della L. 241 / 1990, ha
previsto che «a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione
amministrativa, in tutti i casi in cui una P.A. conclude accordi, la stipulazione
dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe
competente per l’adozione del provvedimento». La disposizione conferma la
natura pubblicistica della FASE DI FORMAZIONE DEGLI ACCORDI : l’ “obbligo,
per l’amministrazione, di perseguire l’interesse pubblico” dimostra come la
scelta dell’accordo sia frutto di una sua valutazione discrezionale.
L'amministrazione deve valutare e motivare, alla stregua dell’interesse
pubblico, non solo la scelta di stipulare l’accordo (come prevede il comma 4-
bis), ma anche quella di rifiutare la proposta avanzata dal privato.
Conseguentemente, la posizione del privato proponente è giuridicamente
protetta non solo nell’ESECUZIONE DI UN ACCORDO GIÀ CONCLUSO, ma anche
RIGUARDO ALLA SUA FORMAZIONE, in quanto egli è titolare di un “interesse
legittimo pretensivo” (interesse a che l’accordo sia concluso), tutelabile davanti
al giudice amministrativo in caso di “rifiuto” o “silenzio”.
Un motivo di riflessione è poi l’eventuale mancanza della determinazione
motivata dell’amministrazione rispetto a un accordo comunque concluso : la
“determinazione pubblica” segue la fase della “trattativa” (in cui
l’amministrazione riceve, valuta e contratta la proposta del privato e raggiunge
un’intesa sul contenuto dell’accordo). Tuttavia, secondo il comma 4-bis,
l’accordo si perfeziona «solo dopo la formale determinazione dell’organo
competente ad emanare il provvedimento» e questa decisione è l’unica forma
legittima per manifestare l’adesione della P.A. Laddove l’amministrazione, dopo
aver raggiunto l’intesa con il privato, non adotti la determinazione e non
proceda alla stipula, dovrà riconoscersi al privato la possibilità di attivare un
SINDACATO DI LEGITTIMITÀ SULL’INERZIA O SUL RIFIUTO
DELL’AMMINISTRAZIONE (ancora più incisivo di quello riconosciuto al mero
istante) e di conseguire l’eventuale esecuzione coattiva della stipula.

*STIPULARE = concludere formalmente un contratto tramite la redazione del documento nelle forme dovute.

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*ACCORDI CONCLUSI TRA PRIVATI E P.A. : è un modulo di esercizio del potere, alternativo alla tipologia
dei provvedimenti. Gli accordi rientrano nelle attività discrezionali della P.A. e restano distinti dall’ordinaria attività iure
privatorum. L’assetto scaturente dall’accordo (incontro della manifestazione di volontà della parte pubblica e di quella
privata) consente di realizzare contemporaneamente sia l’interesse della collettività che quello del singolo. Tali accordi,
a differenza dei contratti tra privati, generalmente irrilevanti per coloro che non sono parti, possono incidere, come
tutti i provvedimenti autoritativi, sulle sfere giuridiche dei terzi. Questi ove subiscano lesioni nei
propri interessi legittimi potranno impugnare o il provvedimento finale (in caso di accordo integrativo) o l’accordo
sostitutivo davanti al giudice amministrativo.
La procedimentalizzazione degli accordi ex art. 11 prevede che l’accordo venga preceduto da una DETERMINAZIONE A
CONTRARRE, attraverso la quale la P.A. esterni le ragioni a fondamento della decisione di contrarre. Quindi la scelta di
giungere all’accordo deve essere giustificata.

Art. 11 (Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento)
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate dal privato, l’amministrazione può concludere, senza
pregiudizio dei diritti dei terzi e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati per
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale oppure in sostituzione di questo.

1-bis. Per favorire la conclusione degli accordi, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di
incontri cui invita il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati.

2. Gli accordi devono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi
si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Gli accordi di cui al
presente articolo devono essere motivati.

3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti agli stessi controlli previsti per questi ultimi.

4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo
di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato.

4-bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica
amministrazione conclude accordi, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che
sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.

4. L'esecuzione degli accordi. Dopo la conclusione dell’accordo, la


disciplina del rapporto che ne nasce è ricavabile dai “PRINCIPI DEL CODICE
CIVILE IN MATERIA DI OBBLIGAZIONI E CONTRATTI”, in quanto compatibili.
Tuttavia, la tutela del “pubblico interesse” comporta la necessaria
combinazione tra “PRINCIPI DI DIRITTO PUBBLICO” (in base a cui
l’amministrazione non solo decide di accordarsi, ma può eccezionalmente
esercitare poteri unilaterali “estintivi” o “sospensivi del rapporto contrattuale”)
e “PRINCIPI DI DIRITTO PRIVATO”(che costituiscono la disciplina generale del
rapporto e in base a cui l’amministrazione è obbligata a dare esecuzione a ciò
che ha concordato).

4.1. Il recesso dell’amministrazione. In quest’ottica, assume una certa


rilevanza l’istituto dello scioglimento unilaterale del vincolo da parte
dell’amministrazione (c.d. RECESSO). L’art. 11, 4°comma dispone che «Per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede
unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di
un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno al
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privato». La previsione del RECESSO DELLA P.A. PER SOPRAVVENUTI MOTIVI DI


PUBBLICO INTERESSE conferma il carattere vincolante e impegnativo
dell’accordo e allo stesso tempo il suo assoggettamento al vincolo funzionale
del perseguimento dell’interesse pubblico. Il “recesso” può essere configurato
come riemersione del potere pubblico che, pur limitato dal pactum, non si
consuma con l’adesione ad esso e, in presenza di ragioni di pubblico interesse,
prevale sul vincolo contrattuale. La decisione pubblica di sciogliere l’accordo si
concreta in un provvedimento unilaterale e imperativo : il provvedimento,
intervenendo nella fase esecutiva, permette alla P.A. di intervenire quando
l’assetto di interessi determinato consensualmente contrasti, dopo fatti
sopravvenuti, con l’interesse pubblico.
Tuttavia il potere di recesso è soggetto a stringenti LIMITI : 1) il primo limite
consiste nella sua FUNZIONALIZZAZIONE ALLA CURA DEL PUBBLICO INTERESSE
: ciò comporta che la “decisione di recedere” deve essere preceduta da un
procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio, deve essere motivata
ed è soggetta al sindacato del giudice amministrativo. Infatti, poiché il recesso
è esercizio di un potere discrezionale (e non di un diritto potestativo civilistico,
come nel diritto privato), l’amministrazione deve indicare le “ragioni di pubblico
interesse che non le permettono di dar seguito a quanto concordato”; 2)
un’altra conseguenza della natura pubblicistica del recesso è la sua
INDISPONIBILITÀ NEGOZIALE (= perché la P.A. non può recedere a suo
piacimento, ma solo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico). Per tali
caratteri il “recesso dall’accordo” si differenzia dal “recesso dal contratto”; 3)
un altro limite alla possibilità di recesso è che i MOTIVI DI PUBBLICO INTERESSE
devono essere «SOPRAVVENUTI» : ciò non significa che l’amministrazione può
recedere perché - dopo la stipulazione dell’accordo - ha valutato in modo
diverso l’interesse pubblico (c.d. ius poenitendi), ma significa, invece, che
dopo la stipulazione dell’accordo sono maturati “nuovi elementi” (che al
momento della stipulazione dell’accordo non erano né conosciuti, né
conoscibili) che non le permettono di portare avanti il rapporto contrattuale, in
virtù del contrasto (successivo) che si è venuto a creare tra il “contenuto
dell’accordo” e il “nuovo assetto degli interessi pubblici in gioco”.
Il recesso ex art. 11 si avvicina per molti versi alla REVOCA DEL
PROVVEDIMENTO : infatti i due istituti hanno in comune la liquidazione di un
indennizzo, il perseguimento dell’interesse pubblico e l’efficacia ex nunc. La
differenza, però, sta nel fatto che mentre il recesso dall’accordo può essere
giustificato solo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, il provvedimento
può essere revocato (oltre che «per sopravvenuti motivi di pubblico interesse»)
anche nel caso di un mutamento della situazione di fatto o di una nuova
valutazione dell’interesse pubblico. Quindi il recesso è un istituto proprio degli
accordi amministrativi, che non corrisponde al RECESSO CIVILISTICO e si
differenzia anche dalla REVOCA DEL PROVVEDIMENTO.
Ad ogni modo, avendo chiarito che il RECESSO è un atto unilaterale e
imperativo che agisce sugli effetti giuridici sorti dall’accordo, estinguendoli ex
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nunc, se ne deve dedurre che – nel caso in cui l’amministrazione eserciti


“illegittimamente” la facoltà di recesso (per “mancanza dei presupposti” o
perché il provvedimento non è “motivato” in modo adeguato o perché non
rispetti le “regole sul procedimento per la sua emanazione”) – il privato potrà
contestarne la “legittimità” con un ricorso al giudice amministrativo. Al
contempo il privato potrà proporre un’azione per il risarcimento del danno
derivante dall’inadempimento contrattuale della P.A.
Dopo un recesso di cui il contraente non intenda contestare la legittimità o che
non sia illegittimo, l’art. 11, 4°comma garantisce al privato la liquidazione di un
indennizzo (“qualora ci siano i presupposti per avere un recesso legittimo, la
P.A. ha l’obbligo di indennizzare la controparte ”). L'indennizzo è la tutela
minima che la legge prevede per la situazione di affidamento del privato.

*RECESSO CIVILISTICO = Il diritto di recesso è il diritto di una parte di sciogliersi dal vincolo contrattuale : si è,
quindi, innanzi ad un “negozio giuridico unilaterale recettizio”. Il recesso è un diritto potestativo, ossia esercitabile
discrezionalmente dal legittimato nei casi previsti dalla legge o dal contratto.

4.2. L'inadempimento dell’amministrazione. Il RECESSO ILLEGITTIMO


non è l’unica ipotesi di “inadempimento della P.A.”. L’amministrazione, nella
fase esecutiva di un “ACCORDO PROCEDIMENTALE”, potrebbe emanare un
provvedimento diverso all’accordo oppure potrebbe non emanare il
provvedimento concordato : entrambi i casi sono ipotesi di “INADEMPIMENTO
DALL’ACCORDO PROCEDIMENTALE”. Allo stesso modo può aversi
“INADEMPIMENTO DELL’ACCORDO SOSTITUTIVO”, quando l’amministrazione
emana un successivo provvedimento il cui contenuto è in contrasto con
l’assetto di interessi definito con l’accordo.
Detto ciò, la dottrina ha avanzato due opposte teorie riguardo l’
“inadempimento dell’accordo procedimentale” (con particolare riferimento alla
“mancata adozione del provvedimento”) :
 la prima ritiene che il privato sia titolare di una situazione di INTERESSE
LEGITTIMO, tutelabile attraverso il “ricorso contro il silenzio” previsto
dall’art. 31 c.p.a.
 la seconda, invece, ritiene che il privato possa far ricorso all’
“esecuzione forzata in forma specifica” a tutela del contratto preliminare
ex art. 2932 c.c. (in questo modo, la sequenza “accordo-provvedimento”
assumerebbe le sembianze della sequenza “contratto preliminare-
contratto definitivo”).

Tuttavia, mentre la prima tesi è accettabile, poichè l’azione che il privato


esperisce obbliga l’amministrazione a pronunciarsi espressamente (sull’esatto
adempimento o sull’esercizio del potere di recesso), la seconda non lo è :
infatti l’art. 2932 c.c. non è applicabile alla sequenza “accordo-
provvedimento”, poiché comunque gli “accordi” sono contratti stipulati
nell’interesse pubblico, quindi la sentenza (che va a dar seguito all’esecuzione

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forzata) non può sostituirsi al provvedimento non emanato (infatti quest’ultimo


implica sempre l’esercizio di poteri autoritativi, e questi poteri possono essere
esercitati solo dall’amministrazione, e non dal giudice).
Quanto, invece, all’ “inadempimento dell’accordo sostitutivo”, se
l’amministrazione emana un successivo provvedimento difforme da quanto
pattuito con l’accordo, il privato (titolare di un “interesse legittimo”) potrà
chiedere ed ottenere non solo l’annullamento del provvedimento nella parte
difforme dall’accordo (o l’annullamento di tutto il provvedimento, se la
difformità si appalesa in modo particolarmente grave), ma anche il
risarcimento dei danni.

*ART. 2932 c.c. = “Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte può
ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso” = è un caso di ESECUZIONE FORZATA IN
FORMA SPECIFICA. L’esecuzione forzata in forma specifica riguarda le obbligazioni di consegnare, di fare e di non fare
e consiste nel conseguimento coatto di quanto dedotto in prestazione. Particolare caso di esecuzione in forma specifica
è quello relativo all' OBBLIGO DI CONTRARRE, che si attua con una sentenza che ha lo stesso valore del contratto
promesso ma non concluso (articolo 2932 c.c.).

*Art. 31 c.p.a. (Azione avverso il silenzio)


1. Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere
l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere.

4.3. La patologia del rapporto. Con riferimento al tema relativo alla


PATOLOGIA DELL’ACCORDO, possono riscontrarsi sia i “vizi del contratto” che i
“vizi del provvedimento”. L’impugnazione non può essere limitata solo ai “vizi
di validità” dell’accordo in base alle norme codicistiche, ma va estesa a tutti i
“vizi legittimità”, secondo le norme che riguardano i provvedimenti
amministrativi. Infatti gli accordi, in quanto sostitutivi o integrativi di
provvedimenti amministrativi, devono essere sindacati alla stregua dei
provvedimenti : se così non fosse, la conclusione di un accordo al posto
dell’emanazione di un provvedimento danneggerebbe la posizione dei terzi. Ciò
comporta che non vengono salvaguardati solo i “diritti dei terzi”, ma anche i
loro “interessi legittimi”.
In relazione ai profili privatistici, invece, applicabile all’accordo sarà l’istituto
della “NULLITÀ DEL CONTRATTO” (art. 1418 c.c. ss.), per : la contrarietà a
norme imperative, l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi o la mancanza dei
requisiti dell’oggetto.
Il “sindacato sull’accordo” è attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.

*ART. 1418 c.c. Cause di nullità del contratto.


Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei
requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi e la mancanza dei requisiti dell'oggetto. Il
contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.

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5. La tutela del terzo. Anche se l’accordo concluso tra amministrazione e


privato non può pregiudicare i “diritti dei terzi” (ossia di coloro che non
partecipano all’accordo) e non produce effetti giuridici diretti nella sfera dei
terzi, può comunque pregiudicarne la “posizione”, accrescendo la sfera
giuridica del contraente (basti pensare agli effetti pregiudizievoli che gli accordi
che hanno ad oggetto concessioni o autorizzazioni amministrative possono
produrre in capo a soggetti posti in condizione di concorrenza con i beneficiari).
Pertanto, ove l’amministrazione, nell’esercizio del proprio potere, leda
illegittimamente la posizione giuridica del terzo (illegittimità che si può
manifestare sia nell’adesione all’accordo, che nella determinazione del
contenuto dell’accordo), il terzo potrà impugnare l’accordo davanti al giudice
amministrativo (perché portatore di “interessi legittimi”).
A questo punto, però, dobbiamo chiederci quale sia l’atto che il terzo è
legittimato a impugnare. La soluzione è rinvenibile nella distinzione tra le due
fattispecie di accordo, dato che : 1) l’ACCORDO SOSTITUTIVO sostituisce il
provvedimento unilaterale (dunque esso - avendo efficacia non solo inter
partes, ma anche esterna - potrà essere impugnato; 2) l’ACCORDO
PROCEDIMENTALE, producendo effetti obbligatori tra le parti, non può esplicare
effetti all’esterno, almeno fino al momento in cui l’amministrazione non emana
il provvedimento (perciò, sarà solo quest’ultimo provvedimento a produrre
effetti esterni e ad attivare di conseguenza l’ “interesse a ricorrere del terzo”).

-CAPITOLO 2. I CONTRATTI DELLA PUBBLICA


AMMINISTRAZIONE-

1. Diritto privato e diritto pubblico nell’attività contrattuale delle


pubbliche amministrazioni. Le amministrazioni, in qualità di soggetti
dell’ordinamento, godono di CAPACITÀ GIURIDICA GENERALE ex art. 11 c.c. :
ciò significa che esse possono stipulare qualunque tipo di contratto disciplinato
dal codice civile, contratti nominati, innominati o misti (risultanti, cioè, dalla
combinazione di contratti diversi). Esse, tuttavia, non godono di “AUTONOMIA
PRIVATA” in senso pieno, poiché anche l’attività contrattuale deve essere
sempre funzionalizzata alla cura di interessi pubblici. La possibilità di stipulare
contratti, comunque, conosce due limiti : 1) le amministrazioni non possono
stipulare quei contratti che presuppongono lo “corporeità del soggetto” (si
pensi ad esempio al testamento); 2) i fini perseguiti attraverso il contratto
devono essere compatibili con i fini pubblici che le amministrazioni devono
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perseguire. Se ne deduce che il “diritto privato” (che disciplina i contratti delle


pubbliche amministrazioni) è comunque condizionato da “elementi
pubblicistici”, il cui obiettivo è, da un lato, quello di assicurare anche
nell’ambito di rapporti consensuali il raggiungimento del fine pubblico (proprio
dell’azione amministrativa) e, dall’altro, quello di garantire che tale attività si
svolga nel rispetto dei principi costituzionali di “legalità”, “imparzialità” e
“buon andamento”. A tal fine si è sviluppato nel tempo un complesso “regime
dei contratti in cui è parte una P. A.” : si tratta di un regime al cui interno
operano, in veste di specialità, norme di diritto amministrativo che, integrando
la disciplina codicistica, hanno lo scopo di regolare le c.d. “procedure di
evidenza pubblica” (queste, a loro volta, sono procedimenti che precedono o
seguono la stipulazione del contratto e sono : la “deliberazione a contrattare”,
il “bando di gara”, la “scelta del contraente”, l’ “aggiudicazione”, i “pareri”, i
“controlli”e le “approvazioni sui contratti”). Ne consegue che l’“evidenza
pubblica” rappresenta non un tipo di contratto, ma una complessa categoria
procedimentale, che risulta applicabile a tutti i contratti della pubblica
amministrazione,
fatta eccezione per i CONTRATTI IN ECONOMIA - che giacchè non superano una
certa soglia predeterminata dalle normative di settore, non richiedono
particolari formalità pubblicistiche e per cui, al contrario, sono stati previsti due
diversi moduli, e cioè :

 l’“amministrazione diretta” (per l’acquisto di beni di consumo, come


penne, carta, stampanti, ecc.);
 il “cottimo fiduciario” (acquisizione di lavori, servizi, e forniture
attraverso la stipulazione di contratti con imprenditori già conosciuti).

L’“interesse pubblico” rileva anche nella fase di ESECUZIONE DEL CONTRATTO


e si esprime in “norme che derogano alle regole codicistiche” e attribuiscono
all’amministrazione dei poteri capaci di incidere unilateralmente sul rapporto
contrattuale, poteri che si risolvono in una posizione di supremazia
dell’amministrazione sull’altro contraente : ad esempio la figura del
«CONTRATTO CLAUDICANTE» deroga al diritto privato e alla posizione paritaria
tra i contraenti : dopo la stipulazione del contratto, infatti, solo il privato è
immediatamente vincolato, mentre per l’amministrazione il vincolo
contrattuale sorge solo dopo l“approvazione del contratto da parte dell’autorità
competente”.
In ogni caso, questo intreccio tra disciplina pubblicistica e disciplina codicistica
non incide sulla NATURA GIURIDICA DEI CONTRATTI DELLE AMMINISTRAZIONI in
quanto questi, una volta conclusi, sono veri e propri contratti di diritto privato
(aventi, tuttavia, lo scopo di perseguire il pubblico interesse).
L’importanza dei contratti nel diritto amministrativo è andata col tempo
aumentando; il contratto è usato in molti ambiti, alcuni dei quali prima ne
erano esclusi, come il “rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni” :

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prima della privatizzazione (1993), infatti, questo era un “rapporto di diritto


pubblico”; oggi, invece, i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni
sono disciplinati quasi per intero dal codice civile.
Dalla stipulazione dei contratti, le amministrazioni possono essere esposte ad
esborsi di denaro pubblico (ed in questo caso parleremo di CONTRATTI
PASSIVI : si pensi, ad esempio, al contratto attraverso cui l’amministrazione
acquista, da soggetti terzi, energie lavorative, beni e servizi) oppure possono
ricavarne un’entrata (e in tal caso parleremo di CONTRATTI ATTIVI : si pensi, ad
esempio, all’alienazione di beni immobili).

2. Il quadro normativo. La disciplina si ricava da più fonti :


 Nell’ambito dei contratti che le amministrazioni sono abilitate a
stipulare, la prima fonte che va presa in considerazione è il CODICE
CIVILE. Infatti l’art. 11 c.c. (rubricato “persone giuridiche pubbliche”),
attribuendo all’ente pubblico “capacità giuridica generale”, concede al
medesimo la possibilità per esso di stipulare, «nei limiti imposti dalla
legge», contratti «per costituire regolare o estinguere un rapporto
giuridico patrimoniale» (art. 1321 c.c.). A tal fine, il codice civile (artt.
1325 : “requisiti del contratto”) disciplina gli ELEMENTI ESSENZIALI DEL
CONTRATTO (accordo, causa, forma e volontà), gli EFFETTI (art. 1372), le
CAUSE DI INVALIDITÀ (art. 1418), l’INTERPRETAZIONE, le CLAUSOLE
VESSATORIE, la FASE DI ESECUZIONE DEL VINCOLO CONTRATTUALE e la
FASE DI ATTUAZIONE COATTIVA.
Particolare importanza rivestono anche i principi di BUONA FEDE, di
DILIGENZA e di CORRETTEZZA, che devono guidare i comportamenti
delle parti, e dunque anche dell’amministrazione (nella fase delle
“trattative” e della “formazione del contratto”, sicché nei confronti
dell’amministrazione opera l’istituto della “responsabilità
precontrattuale”).

 La seconda fonte che, in materia di contratti stipulati dalle pubbliche


amministrazioni, va presa in considerazione è la “legge di contabilità
generale dello stato” (r.d. 2440/1923) e il suo “regolamento di
attuazione” : la normativa contiene tutte quelle regole pubblicistiche che
l’amministrazione deve rispettare nel processo di stipulazione del
contratto (un processo che si svolge attraverso le c.d. PROCEDURE DI
EVIDENZA PUBBLICA, il cui fine è, da un lato, quello di tutelare
l’interesse pubblico aggiudicando il contratto al soggetto che ha
presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa per
l’amministrazione, e dall’altro quello di evitare favoritismi nella scelta

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dell’altro contraente, garantendo a tutti i soggetti interessati di


partecipare alla gara in condizioni di parità).

 Un’altra fonte essenziale è, poi, l’art. 1, comma 1-bis della L. 241/1990,


secondo cui «L’amministrazione, nell’adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le regole e i principi del diritto privato,
salvo che la legge disponga diversamente» : queste regole trovano la
loro ragion d’essere in quella parte della disposizione che esclude
dall’ambito del diritto privato gli “atti autoritativi” (cioè i provvedimenti,
che sono invece assoggettati alla disciplina di cui all’art. 1, comma 1
della L. 241 / 1990).

 il d.lgs. 163/2006, c.d. “codice dei contratti pubblici” contiene una


disciplina specifica per i “contratti di appalto” e di “concessione” aventi
ad oggetto l’acquisizione di servizi o forniture o l’esecuzione di lavori;

 anche il CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO contiene alcune


disposizioni in materia di appalti pubblici;

 il DIRITTO COMUNITARIO : molte direttive comunitarie hanno introdotto


in materia di appalti modifiche di grande spessore (come ad esempio
quelle relative all’allargamento della platea delle imprese ammesse a
partecipare alla gara). Infatti è stato proprio il diritto europeo a facilitare
il passaggio dalla tradizionale “normativa contabilistica” (che mirava a
garantire il migliore risultato economico per l’amministrazione)
all’attuale normativa (che, invece, mira ad assicurare la concorrenza tra
gli operatori economici nazionali e quelli degli altri Stati membri);

 la L. 106 /2011, di conversione del c.d. «decreto sviluppo» (d.l. 70/2011),


che ha novellato molte disposizioni del “codice appalti”;

 nell’ambito dei contratti delle amministrazioni, l’ultima fonte che va


menzionata sono i c.d. “CAPITOLATI D’ONERI”, documenti che
contengono prescrizioni volte a determinare il contenuto dei futuri
contratti (prescrizioni che impongono determinati obblighi o oneri =
perciò capitolati d’oneri). Essi possono essere : 1) CAPITOLATI D’ONERI
GENERALI, il cui contenuto consiste nelle «condizioni che possono
applicarsi indistintamente a un determinato genere di contratto». Essi
non sono redatti in occasione di un singolo contratto, ma si riferiscono
ad una serie indeterminata di rapporti, in un dato settore : il contenuto
del contratto deve adeguarsi alle loro prescrizioni. 2) CAPITOLATI

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D’ONERI SPECIALI, il cui contenuto, invece, consiste nelle «condizioni che


possono applicarsi a uno specifico contratto». Essi vengono predisposti
in occasione del singolo contratto e diventano parte integrante dello
stesso, costituendone uno degli allegati più importanti.
Quanto alla natura giuridica dei capitolati, ad avviso della dottrina
prevalente i “capitolati generali adottati dal ministro competente” hanno
natura regolamentare, mentre gli altri “capitolati generali” hanno natura
negoziale (ciò significa che essi possono essere derogati dal contratto e
l’amministrazione può non osservarli, salvo adeguata motivazione).
Quanto ai “capitolati speciali” (adottati dalle singole amministrazioni), se
ne afferma la natura contrattuale, dato che essi sono atti contenenti
“condizioni generali dello specifico contratto”.

2.1. Il codice dei contratti pubblici di appalto e di concessione di


lavori, servizi e forniture. Il “CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI” (d.lgs.
163 / 2006) è stato emanato in attuazione di due direttive comunitarie (le
direttive 17 e 18 CE del 2004) che disciplinano le procedure di appalto nei c.d.
“SETTORI SPECIALI” (gas, acqua, energia, servizi postali e di trasporto) e le
procedure di appalto nei “SETTORI ORDINARI” (= tutti gli altri settori). Il codice
raccoglie in un unico testo la disciplina dell’intero comparto degli APPALTI
PUBBLICI (sopra e sotto la soglia di rilevanza comunitaria), nonché la disciplina
dei CONTRATTI DI CONCESSIONE DI LAVORI PUBBLICI E DI SERVIZI.
Con questo nuovo codice il legislatore, in sintonia con i principi di derivazione
comunitaria, non vuole più tutelare solo l’interesse pubblico
dell’amministrazione contraente, ma anche “interessi generali” (come la tutela
della concorrenza, la parità di trattamento degli operatori economici, la
trasparenza, la non discriminazione e l’apertura degli appalti pubblici nazionali
agli imprenditori dei vari Stati europei), per assicurare un mercato
concorrenziale e competitivo degli appalti.
Quanto all’ambito oggettivo di applicazione, l’art. 3, 3° comma c.c.p. ha
specificato che per «CONTRATTI PUBBLICI» devono intendersi, oltre ai
“contratti di appalto di lavori, servizi e forniture” (sopra e sotto la soglia di
rilevanza comunitaria), anche i contratti di concessione di lavori e servizi.

 L’APPALTO è il contratto con cui una parte (APPALTATORE) assume il


compimento di un’opera o di un servizio su incarico di un COMMITTENTE
(= o APPALTANTE) contro un corrispettivo in danaro, con organizzazione
dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio. L’amministrazione
riveste il ruolo di “committente” o di “stazione appaltante”.
 La “CONCESSIONE DI LAVORI” è un contratto a titolo oneroso, che
richiede per la sua conclusione la forma scritta; la sua durata non può
essere superiore ai 30 anni (a meno che – per salvaguardare gli interessi
economici del concessionario – non sia prevista una durata superiore). La
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particolarità di questo contratto sta nel fatto che l’imprenditore


(concessionario) non si limita solo a progettare ed eseguire l’opera, ma si
adopera anche nella gestione della stessa per tutto il lasso di tempo
prestabilito (si pensi, ad esempio, alla costruzione e alla gestione di
un’autostrada); ed è proprio il riconoscimento di questo “diritto di
gestione” che costituisce il corrispettivo a favore del concessionario (che,
inoltre, a volte può essere accompagnato da un certo prezzo). Tra l’altro,
per la scelta del contraente l’amministrazione può solo usufruire di
procedure aperte e ristrette, mentre il “criterio di aggiudicazione
ammesso” è solo quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
 La “CONCESSIONE DI SERVIZI” è un contratto a titolo oneroso stipulato
per iscritto, con cui un’amministrazione affida a un operatore economico
l’erogazione e la gestione di servizi, ove il corrispettivo consiste o solo
nel diritto di gestire i servizi oppure in tale diritto accompagnato da un
prezzo). La “concessione di servizi” è un contratto che ha le stesse
caratteristiche dell’appalto pubblico di servizi; se ne differenzia solo per il
fatto che il compenso della prestazione dei servizi è solo il diritto di
gestirli per un determinato periodo (in alcuni casi accompagnato da un
prezzo).

Infine il codice, per contenere il costo dei contratti, favorisce il ricorso agli
“strumenti telematici”, sia per quel che riguarda le pubblicazioni e le
comunicazioni (si pensi, ad esempio, alla pubblicazione via internet di
capitolati, bandi di gara e la loro comunicazione all’UE), sia per quanto riguarda
la presentazione delle offerte : ed è proprio in quest’ottica che sono state
predisposte particolari “procedure negoziali” (si pensi, ad esempio, alle aste
elettroniche e ai sistemi dinamici di acquisizione).

 Art.    3. del codice appalti. (Definizioni). 

1. Ai fini del presente codice si applicano le definizioni che seguono.

2. Il «codice» è il : CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI DI LAVORI, SERVIZI, FORNITURE.

3. I «CONTRATTI PUBBLICI» sono i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di
forniture, oppure l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai
soggetti aggiudicatori.

4. I «SETTORI ORDINARI» sono i settori diversi da quelli del gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi
postali.

5. I «SETTORI SPECIALI» sono i settori del gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi postali.

6. Gli «APPALTI PUBBLICI» sono i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una STAZIONE APPALTANTE o un
ENTE AGGIUDICATORE e uno o più OPERATORI ECONOMICI, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di
prodotti o la prestazione di servizi.

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2.2. La definizione degli ambiti di competenza statale e regionale


nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Il “CODICE DEI
CONTRATTI PUBBLICI” ha superato il vaglio della Corte costituzionale che, con
due sentenze del 2007 ne ha confermato la conformità alla Costituzione per
quanto riguarda il riparto delle competenze dell’art. 4 , 3°comma c.c.p. (che
definisce gli AMBITI DI COMPETENZA DELLO STATO E DELLE REGIONI,
privilegiando lo Stato). L’art. 4, infatti, per i “contratti di interesse regionale” ha
sottratto alla competenza regionale la disciplina di alcuni aspetti centrali (come
la selezione dei concorrenti, le procedure di affidamento, i criteri di
aggiudicazione, la stipulazione e l’esecuzione del contratto e il contenzioso) e
ha disposto che “per questi oggetti, le Regioni non possono prevedere una
disciplina diversa da quella introdotta dal codice”.
La Corte, dunque, con queste due pronunce del 2007 ha affermato la
compatibilità costituzionale della “riserva allo Stato” della parte più consistente
della disciplina degli appalti pubblici : ciò perchè questi aspetti sono
riconducibili alla TUTELA DELLA CONCORRENZA, all’ORDINAMENTO CIVILE e
alla TUTELA GIURISDIZIONALE (materie che il nuovo art. 117 Cost. ha attribuito
alla “potestà esclusiva del legislatore statale”, esercitata appunto con il d.lgs.
163/2006). Secondo
la Corte le disposizioni contenute nel d.lgs. 163/2006, per la molteplicità degli
interessi perseguiti e degli oggetti implicati, non si riferiscono a un unico
ambito materiale : ad esempio, il fatto che l’art. 117 Cost. non abbia incluso i
“LAVORI PUBBLICI” né tra le materie oggetto di “legislazione esclusiva dello
Stato” nè tra quelle oggetto di “legislazione concorrente”, non implica che essi
siano oggetto di “potestà legislativa residuale (= esclusiva) delle Regioni”,
poiché si tratta di “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria
materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto a cui si riferiscono”
(assistenza ospedaliera, difesa militare, beni culturali, ecc.), e quindi possono
essere attribuiti, di volta in volta, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato o
a quella concorrente.
Volendo entrare nello specifico delle questioni sollevate dalle Regioni, in
relazione alla “TUTELA DELLA CONCORRENZA”, la Corte ha precisato che “gli
istituti indicati nella norma impugnata - riguardanti la scelta del contraente - (la
selezione dei concorrenti, le procedure di affidamento e i criteri di
aggiudicazione), collocandosi nella fase della “procedura di evidenza pubblica”,
mirano a garantire la più ampia apertura del mercato degli appalti pubblici a
tutti gli operatori economici, nel rispetto dei principi comunitari di “parità di
trattamento”, di “non discriminazione” e di “trasparenza”, e in attuazione dei
principi costituzionali di “imparzialità” e “buon andamento” : ciò significa che,
in linea con la nozione comunitaria di “concorrenza per il mercato” (che è
delineata anche nell’art. 117, 2°comma, lett. e) Cost., che attribuisce la
materia “tutela della concorrenza" all’esclusiva competenza dello Stato), il
contraente deve essere scelto mediante procedure di gara, tali da garantire il

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rispetto dei su menzionati principi (comunitari e costituzionali)”.


E’ il carattere «trasversale» della tutela della concorrenza che implica che la
stessa possa incidere anche su materie attribuite alla competenza legislativa
(concorrente o residuale) delle Regioni e che consente al legislatore statale di
dettare sia “norme di principio” che “norme di dettaglio”, inderogabili da parte
del legislatore regionale. Così ragionando, la Corte ha rigettato anche le
“censure di legittimità” contro il riparto di competenze sulla POTESTÀ
REGOLAMENTARE : secondo la Corte, infatti, «una volta riconosciuto che
l’intervento del legislatore statale è giustificato da esigenze di TUTELA DELLA
CONCORRENZA, allo stesso legislatore spetta il potere di dettare la
regolamentazione del settore, anche con norme di dettaglio poste da
disposizioni regolamentari (regolamentazione che vincola le Regioni)».
Alla materia «ORDINAMENTO CIVILE», invece, sono stati ricondotti quegli istituti
che si collocano nella fase relativa all’esecuzione del contratto e che inizia con
la “stipulazione” : in questo caso, la riserva allo Stato è legittimata
dall’esigenza (sottesa al principio costituzionale di “eguaglianza”) di garantire
l’uniformità di trattamento, in tutto il territorio nazionale, della disciplina sulla
conclusione ed esecuzione dei contratti di appalto.
Di tutte le “questioni di legittimità” sollevate dalle Regioni riguardo alle varie
norme del codice, la Corte ne ha accolto solo due :

 la questione relativa all’art. 84 c.c.p., riguardante la COMPOSIZIONE e le


MODALITÀ DI NOMINA DEI COMPONENTI DELLA COMMISSIONE
GIUDICATRICE, chiamata ad esprimersi nei casi in cui l’aggiudicazione sia
effettuata con l’uso del criterio dell’“offerta economicamente più
vantaggiosa” : si tratta di aspetti organizzativi, che in quanto tali –
secondo la Corte – non possono essere esclusi dalla “potestà legislativa
regionale”, sicché questa disposizione è illegittima perché non ha
carattere suppletivo (= che supplisce) rispetto a una normativa regionale
che disponga una disciplina diversa;
 l’altra questione ritenuta fondata dalla Corte ha riguardato, invece, l’art.
98 c.c.p., che stabilisce che “l’approvazione dei PROGETTI DEFINITIVI da
parte del consiglio comunale costituisce variante urbanistica a tutti gli
effetti” : infatti la materia in esame tocca il “GOVERNO DEL TERRITORIO”,
che è una materia di “competenza ripartita tra Stato e Regioni” (quindi -
in sintonia con quanto stabilito dall’art. 117, 3°comma - spetta allo Stato
il potere di fissare i principi fondamentali e alle Regioni quello di emanare
la normativa di dettaglio).

Art. 4. del codice appalti. (Competenze legislative di Stato e regioni).

3°comma = “Le Regioni, nel rispetto dell'art. 117, 2°comma Cost., non possono prevedere una disciplina diversa da
quella del presente codice in relazione: 1) alla selezione dei concorrenti; 2) ai criteri di aggiudicazione;
3) al subappalto; 4) ai poteri di vigilanza sul mercato degli appalti affidati all'Autorità per la vigilanza sui contratti

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pubblici di lavori, servizi e forniture; 5) alle attività di progettazione e ai piani di sicurezza;


6) alla stipulazione e all'esecuzione dei contratti; 7) al contenzioso”.

ART. 117 COST. (commi 6 e 7) : “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva,
salva delega alle Regioni.
La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”.

3. La sfera soggettiva di applicazione. Il codice dei contratti pubblici, in


linea con la normativa comunitaria, ha ampliato la SFERA SOGGETTIVA DI
APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA SUGLI APPALTI, attraendo nel suo ambito di
operatività i contratti di quei soggetti che, aldilà della loro qualificazione
formale (pubblica o privata) hanno tuttavia una “sostanza pubblicistica”. Tali
soggetti sono riconducibili a 3 categorie :

 le “AMMINISTRAZIONI AGGIUDICATRICI”, categoria in cui sono inclusi,


oltre allo Stato, agli enti pubblici territoriali e agli altri enti pubblici non
economici, anche gli organismi di diritto pubblico;
 gli “ENTI AGGIUDICATORI”, categoria a cui si riconducono le imprese
pubbliche e i concessionari di lavori e servizi pubblici;
 i c.d. “SOGGETTI REALIZZATORI”, e cioè quegli operatori privati che
ricevono sovvenzioni ( = contributo, sostegno finanziario) per la
realizzazione di lavori.

Attraverso la figura dell’“ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO” si è voluto evitare


che lo Stato e gli enti territoriali si sottraggano alle “procedure concorrenziali
dell’evidenza pubblica” (e, quindi, ai principi di parità, concorrenza e non
discriminazione nella scelta del contraente) avvalendosi di società o enti che,
per il fatto di avere natura privata, non rientrerebbero tra le amministrazioni
tenute ad osservare queste procedure. Ricorrendo alla nozione di organismo di
diritto pubblico (fondata non su elementi formali, ma sostanziali) si è così
ampliata la categoria dei SOGGETTI TENUTI AD AGGIUDICARE (= assegnare)
GLI APPALTI PUBBLICI ATTRAVERSO PROCEDURE DI GARA.  

ART. 3 codice appalti. (DEFINIZIONI).

“L'«ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO» è qualsiasi organismo : 1) istituito per soddisfare esigenze di interesse
generale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato o dagli
enti pubblici territoriali oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo
d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato,
o dagli enti pubblici territoriali.

Gli «ENTI AGGIUDICATORI» comprendono le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese pubbliche, e i soggetti che,
non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi
loro dall'autorità competente (= in pratica chi ha avuto una concessione di lavori o servizi dalla P.A)”.

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*STAZIONE APPALTANTE = è l'amministrazione che propone l'appalto.


Es. la provincia di Milano emana un bando per il rifacimento dei muri degli istituti scolastici. Quando fa ciò, assume le
vesti della stazione appaltante.
AMMINISTRAZIONE AGGIUDICATRICE = è il soggetto di diritto pubblico che ha la facoltà di aggiudicare appalti
pubblici.
Insomma, stazione appaltante e amministrazione aggiudicatrice sono quasi sinonimi, senonché la prima definizione
assume rilevanza in fase di pre-aggiudicazione, mentre la seconda in fase di post-aggiudicazione.

*AGGIUDICATARIO = è il soggetto che, avendo vinto l'appalto, sottoscrive il contratto con l'ente appaltante (detto
anche ente aggiudicatore, che è l'ente pubblico che ha bandito la gara d'appalto).

4. La rilevanza del valore per determinare la disciplina applicabile


alle fattispecie contrattuali. L’AMBITO OGGETTIVO DI APPLICAZIONE DEL
“CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI” :

 regola le procedure di appalto dei settori ordinari e di quelli speciali;


 disciplina sia gli appalti di rilevanza comunitaria che i c.d. appalti «sotto-
soglia»;
 si occupa, infine, non solo dei contratti di appalto, ma di tutti i contratti
stipulati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli altri soggetti tenuti
all’osservanza delle norme del codice.

Con riferimento al «VALORE» (importo) DELL’APPALTO, l’art. 28 c.c.p. fissa le


c.d. “soglie che determinano l’applicazione della disciplina comunitaria” (e,
conseguentemente, l’applicazione integrale delle disposizioni del codice). Tali
soglie, espresse in euro, sono determinate direttamente dall’Unione europea.
Infatti, i valori indicati dall’art. 28 c.c.p. si intendono automaticamente
rettificati in caso di emanazione di regolamenti comunitari in materia.
Il c.c.p. contiene invece una “disciplina specifica” per i CONTRATTI PUBBLICI
AVENTI AD OGGETTO LAVORI, SERVIZI E FORNITURE DI IMPORTO INFERIORE
ALLE SOGLIE DI RILEVANZA COMUNITARIA : il “Titolo 2° della Parte Seconda”
(ad essi, tuttavia, si applicano comunque le disposizioni del c.c.p. riguardanti i
principi comuni, quelle relative al contenzioso e le disposizioni transitorie e
finali).
Di seguito saranno esaminate le “disposizioni generali” (applicabili a tutti gli
appalti a prescindere dal loro valore), nonché le disposizioni riferibili solo agli
“appalti di rilevanza comunitaria”.
*APPALTI SOPRA UNA CERTA SOGLIA = hanno una rilevanza comunitaria. La “soglia” è un valore determinato in euro.
Gli appalti al di sopra di quella cifra hanno una data legislazione, sotto quella cifra ne hanno una semplificata.

5. La formazione del contratto e le fasi del procedimento ad


evidenza pubblica. Deliberazione a contrattare, progetto di
contratto e bando di gara. L’autonomia contrattuale della P.A. non è
piena, ma è limitata sotto il profilo della libertà di giungere a un contratto, della
scelta dell’altro contraente e dell’individuazione delle condizioni contrattuali.
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L’attività contrattuale si articola in due fasi, una FASE PROCEDIMENTALE (che


ha luogo prima della stipulazione del contratto), e una FASE NEGOZIALE (che si
sviluppa dopo la stipulazione).
La “FASE PROCEDIMENTALE” è diretta alla formazione della volontà
dell’amministrazione e alla scelta del contraente privato; essa inizia con la
“DELIBERAZIONE A CONTRATTARE”, che è l’atto con cui inizia la “procedura di
evidenza pubblica” : attraverso la deliberazione, infatti, l’amministrazione
esplicita le ragioni di pubblico interesse che la inducono a stipulare un certo
contratto. La disciplina della deliberazione a contrarre non è contenuta in un
solo testo, ma in 3 specifiche normative, e cioè :

 per i “contratti di appalto delle pubbliche amministrazioni relativi a


lavori, servizi e forniture”, essa è disciplinata dall’art. 11, 2°comma
c.c.p., che usa le espressioni «determinazione» e «delibera a contrarre»;
la disposizione individua il contenuto della deliberazione negli elementi
essenziali del contratto e nei criteri di selezione dei contraenti privati e
delle offerte ;
 per i “contratti dei Comuni e delle Province”, la deliberazione a
contrattare è disciplinata dall’art. 192 del t.u.e.l. (Testo unico degli enti
locali), che però non parla di “deliberazione”, ma usa l’inciso
«determinazione»; tuttavia questo testo è il più completo, perché
contiene (rispetto al codice dei contratti pubblici) un elenco più
esauriente dei contenuti della deliberazione, individuandoli nel il fine,
nell’oggetto, nella forma, nelle modalità di scelta del contraente e nelle
clausole essenziali del contratto.
 Per i “contratti dello Stato”, la deliberazione è disciplinata dalla “legge di
contabilità dello Stato” del 1923, che però non parla di deliberazione, ma
di «progetto di contratto». Tuttavia la giurisprudenza e la dottrina
preferiscono usare la locuzione «deliberazione a contrattare» per indicare
l’atto con cui l’amministrazione statale esplica la volontà di giungere ad
un certo contratto.

Sul piano dell’efficacia, sia la “deliberazione a contrarre” che il “progetto di


contratto” sono considerati atti amministrativi interni (aventi “efficacia
programmatica”), e come tali irrilevanti per i soggetti terzi, ai quali dunque
viene preclusa la possibilità di impugnarli. Tuttavia, per tutelare i terzi, il
Consiglio di Stato ha precisato che la “deliberazione a contrattare” ha
efficacia esterna in tutti i casi in cui l’amministrazione abbia fatto –
illegittimamente - ricorso alla trattativa privata al posto dell’asta pubblica o
della licitazione privata, riconoscendo agli imprenditori operanti nel settore
la legittimazione ad impugnarla per ottenere l’indizione di una gara.
L’adozione della deliberazione a contrarre spetta a livello statale ai
“dirigenti generali” e agli “altri dirigenti amministrativi”; invece per i

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contratti di Comuni e Province spetta ai “dirigenti che hanno «la


responsabilità delle procedure di appalto»”.

Il bando di gara. La “determinazione a contrarre” viene pubblicizzata con


il “bando di gara”, che è l’atto con cui l’amministrazione rende pubblica la
volontà di stipulare un contratto. Il BANDO DI GARA (disciplinato dall’art. 64
c.c.p.), quindi, si colloca in un momento successivo all’adozione della
deliberazione di contrattare. Esso deve indicare :

 i dati relativi all’amministrazione contraente (compreso il


“responsabile del procedimento”);
 le condizioni essenziali del futuro contratto;
 i requisiti per la partecipazione;
 l’oggetto;
 la documentazione da presentare;
 le modalità di scelta del contraente;
 il criterio di aggiudicazione;
 i termini.

Però, la L. 106/2011, aggiungendo all’art. 64 il comma 4-bis - secondo cui le


“stazioni appaltanti” (cioè le amministrazioni contraenti) devono predisporre i
bandi di gara in base a modelli standard (bandi-tipo) approvati dall’ “Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici” – ha finito per limitare la discrezionalità
dell’amministrazione : infatti ciò significa che, ove le amministrazioni intendano
apportare specifiche deroghe al bando-tipo, esse dovranno essere
espressamente motivate nella “delibera a contrarre”.
Generalmente si dice che il “bando di gara” è la lex specialis che regolamenta
il procedimento di gara : con quest’espressione si vuole intendere che le
prescrizioni contenute nel bando vincolano non solo le imprese partecipanti e
la commissione di gara, ma anche l’amministrazione, che non ha alcuna
discrezionalità nella loro concreta attuazione, né può disapplicarle.
Secondo il Consiglio di Stato, le “prescrizioni (o clausole) del bando” devono
essere interpretate non nel significato che ad esse viene attribuito da un
“imprenditore particolarmente avveduto” (il c.d. agente modello), ma nel
significato che ad esse viene attribuito dalla maggior parte dei soggetti che
operano in uno specifico settore e che siano interessati a stipulare un contratto
con una P.A. (c.d. agente concreto); seguendo questo percorso, quindi, si è
precisato che :

 le clausole del bando devono ritenersi “di stretta interpretazione”, quindi


nel caso di “clausole equivoche” (o comunque di dubbio significato) si
deve preferire l’interpretazione che favorisce la massima partecipazione.

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A tutela dell’affidamento degli interessati in buona fede, poi, deve


essere, in ogni caso, preferita un’interpretazione letterale;
 allo stesso modo, ove siano state poste “clausole a pena di esclusione”,
queste devono essere chiare, precise e puntuali (e, in caso di incertezza
interpretativa, dovrà essere favorita un’interpretazione meno restrittiva
delle stesse, nel rispetto del “principio della par condicio tra i
concorrenti”).

Per quel che riguarda, invece, la “natura giuridica del bando”, gli orientamenti
sono vari :

 la dottrina e la giurisprudenza prevalente , assimilando il bando a un


ATTO AMMINISTRATIVO, finiscono per assoggettarlo al relativo regime (il
che comporta, dunque, non solo la possibilità di procedere, qualora il
bando risulti illegittimo, al suo “annullamento d’ufficio”, ma anche alla
sua “revoca”, purché la revoca sia motivata richiamando un preciso
interesse pubblico; inoltre ciò comporta anche che il bando illegittimo
sarà impugnabile davanti al giudice amministrativo da parte degli
interessati);
 altra parte della dottrina, assimilando il bando ad un’ OFFERTA AL
PUBBLICO, finisce per inquadrarlo nei termini di una proposta di contratto
(rivolta ad una generalità di destinatari);
 un’altra parte della dottrina, infine, assimila il “bando di gara” ad un’
INVITATIO AD OFFERENDUM (cioè un invito agli interessati a fare
un’offerta, con l’indicazione di tutti gli elementi del contratto che
l’amministrazione non ha indicato, sicché è l’amministrazione che,
accettando la proposta della controparte, giunge alla conclusione del
contratto).

Nel bando di gara può essere poi inserito un PATTO DI INTEGRITA’ (cioè un
accordo tra partecipanti e amministrazione con cui si stabiliscono alcune regole
e doveri comportamentali per garantire il corretto svolgimento della gara).
Ad ogni modo, il bando - in conformità ai principi comunitari - è soggetto a
varie forme di pubblicità (ciò per consentire anche alle imprese europee di
partecipare alla gara) : esso deve essere pubblicato nella “Gazzetta ufficiale
della Repubblica italiana”, nella “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”, su
siti informatici e su giornali quotidiani o periodici.

Art. 11 c.c.p.  (Fasi delle procedure di affidamento).


2. Prima dell'avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici determinano
di contrarre, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle
offerte.

Art. 192 tuel (Determinazioni a contrattare)

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1. La stipulazione dei contratti deve essere preceduta da apposita determinazione del responsabile del procedimento di
spesa indicante :
a) il fine che con il contratto si intende perseguire;
b) l'oggetto del contratto, la sua forma e le clausole essenziali;
c) le modalità di scelta del contraente.

Art. 64 c.c.p.  (Bando di gara).


1. Le stazioni appaltanti che intendono aggiudicare un appalto pubblico rendono nota tale intenzione con un bando di
gara.

4-bis. I bandi sono predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli (bandi - tipo) approvati dall'Autorità,
previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sentite le categorie professionali interessate. Le stazioni
appaltanti nella delibera a contrarre motivano espressamente in ordine alle deroghe al bando - tipo.

6. La scelta del contraente. Procedure aperte e procedure ristrette.


Nella “normativa di contabilità dello Stato” la scelta del contraente è affidata a
“PROCEDURE DI GARA” (asta pubblica, licitazione privata e appalto concorso).
Riservata a casi eccezionali è invece la “trattativa privata”.

 L’ASTA PUBBLICA (o pubblici incanti) rappresenta una procedura aperta :


è una gara a cui sono ammessi a partecipare tutti gli operatori economici
che, in possesso dei requisiti indicati nel bando, siano interessati a
presentare un’offerta. Tale procedura, che in origine era obbligatoria per
“tutti i contratti dello Stato”, oggi è richiesta solo per i “contratti attivi”
(dai quali deriva un’entrata), mentre è facoltativa per i “contratti passivi”
(dai quali deriva una spesa), potendo infatti l’amministrazione scegliere
in questi casi tra l’asta pubblica e la licitazione privata.
 La LICITAZIONE PRIVATA (che è una procedura ristretta) è una gara a cui
possono partecipare solo le ditte invitate con un’apposita lettera-invito,
perché ritenute in grado di concludere il miglior contratto per
l’amministrazione. La limitazione dei soggetti ammessi alla gara era in
origine rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione, perciò poteva
essere foriera di possibili abusi e favoritismi; di conseguenza, il
legislatore ha ritenuto opportuno modificare l’istituto, introducendo una
“fase di preselezione”, sulla base della quale l’amministrazione – invece
di diramare direttamente le lettere-invito – pubblica un preventivo
“avviso di gara” (ex art. 55 c.c.p.), contenente l’indicazione dell’oggetto,
dell’importo del contratto e dei requisiti di partecipazione. Una volta
pubblicato l’ “avviso di gara”, le imprese che intendano partecipare e
siano in possesso dei requisiti richiesti possono chiedere di essere
invitate entro il termine stabilito nell’avviso; a questo punto, la stazione
appaltante invita tutte le imprese che hanno chiesto di partecipare,
previa verifica del possesso dei requisiti. Tuttavia questa regola conosce
un’importante eccezione : la stazione appaltante, se l’oggetto del
contratto è molto complesso, può diramare gli inviti solo ai candidati

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ritenuti idonei, nel rispetto dei “principi di non discriminazione” e “di


proporzionalità”.

Questi criteri di scelta del contraente, ASTA PUBBLICA e LICITAZIONE PRIVATA,


nel c.c.p. (art. 54) hanno trovato corrispondenza nella PROCEDURA APERTA e
nella PROCEDURA RISTRETTA.

 La PROCEDURA APERTA è una gara a cui possono partecipare tutti gli


operatori economici interessati a presentare un’offerta, purché in
possesso dei requisiti indicati nel bando.
 La PROCEDURA RISTRETTA è una gara aperta solo agli operatori
economici invitati dalla stazione appaltante, dopo la loro richiesta di
partecipazione.

In ogni caso, sia con riferimento alle “procedure aperte” che a “quelle
ristrette”, l’art. 85 c.c.p. dispone che, in presenza di determinate condizioni,
l’aggiudicazione dell’appalto deve avvenire mediante un sistema
automatizzato di scelta del contraente : si tratta della c.d. “ASTA
ELETTRONICA”, il cui obiettivo non è solo quello di contenere le spese, ma
anche quello di accelerare la procedura di gara.
Il codice dei contratti pubblici non prende, invece, in considerazione, per la
scelta del contraente, l’APPALTO CONCORSO, che infatti è disciplinato solo
dalla “normativa di contabilità di Stato” del 1923 : esso è una gara su invito, a
cui l’amministrazione può ricorrere quando necessita dell’apporto di ditte
ritenute particolarmente idonee a predisporre “progetti di opere” che, per la
loro complessità tecnica, artistica o scientifica, richiedono una particolare
capacità costruttiva. In questo caso, l’amministrazione - dopo aver predisposto
un’“idea di progetto” - chiede alle imprese (invitate) di stabilire il contenuto del
contratto, di indicare “specifiche soluzioni progettuali” e di fissare il “prezzo
per l’esecuzione dei lavori”. Fatto ciò, per la scelta del contraente viene
nominata una “commissione” che, in base a un giudizio discrezionale, individua
il contraente ritenuto più idoneo a soddisfare le esigenze dell’amministrazione.
Comunque, il codice dei contratti, pur non disciplinando espressamente
l’appalto concorso, prevede due istituti che in qualche modo possono essere
ricondotti al suo schema : l’ “APPALTO INTEGRATO TIPICO" e l’ “APPALTO
INTEGRATO COMPLESSO”.

 L’APPALTO INTEGRATO TIPICO (art. 53, lett. b, c.c.p.) è un contratto che


ha ad oggetto la progettazione e l’esecuzione dei lavori e si caratterizza
per il fatto che il “progetto definitivo” è predisposto dall’amministrazione
ed è posto a base della gara;
 L’APPALTO INTEGRATO COMPLESSO (art. 53, lett. c, c.c.p.) è invece un
contratto in cui all’appaltatore spetta - oltre alla progettazione e
all’esecuzione dei lavori - anche la “progettazione definitiva”, che

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avviene al momento dell’offerta sulla base di un progetto preliminare


dell’amministrazione.

PROCEDURA APERTA : tutti gli operatori interessati possono presentare un’offerta.

PROCEDURA RISTRETTA : gli operatori interessati possono presentare domanda di partecipazione, ma solo gli
operatori invitati possono poi presentare un’offerta.

7. La partecipazione alla gara. Per quanto riguarda i SOGGETTI CHE


POSSONO PARTECIPARE A UNA GARA PER L’AGGIUDICAZIONE DI UN
CONTRATTO PUBBLICO, sotto la spinta del diritto comunitario la platea di tali
soggetti si è nel tempo ampliata. Infatti inizialmente vigeva una disciplina che
consentiva la partecipazione alle sole imprese iscritte all’Albo nazionale
costruttori - iscritte però per un certo importo (sicchè non era loro consentita la
partecipazione a gare d’appalto di importo più elevato) e per una determinata
specializzazione (ad es., strade, dighe, gasdotti, ecc). Inoltre venivano favorite
certe aree del Paese (ad es. il Mezzogiorno) o particolari categorie di imprese.
Questo meccanismo comportava, poi, anche l’esclusione delle imprese
straniere. Perciò il legislatore, in conformità alle “direttive UE”, ha predisposto
una disciplina tesa ad incentivare la partecipazione alle gare di appalto, oltre
che di singole imprese, anche di “gruppi di imprese” : in questa prospettiva, si
è affermato l’istituto del “RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO DI IMPRESE” (art.
37 c.c.p.), che risponde a esigenze di tutela della concorrenza e favorisce
l’ingresso nel mercato di piccole e medie imprese, altrimenti destinate a
rimanerne fuori. Si tratta di un’unione, temporanea e occasionale, fondata su
un accordo tra più operatori economici, per l’acquisizione e l’esecuzione
congiunta di un contratto pubblico. Però tale unione non dà luogo a un rapporto
associativo, né a un soggetto giuridico distinto, poiché ogni impresa mantiene
la sua autonomia imprenditoriale nell’esecuzione del contratto.
Dal punto di vista esecutivo, invece, la “ripartizione dei compiti” può essere
orizzontale (le imprese forniscono lo stesso bene, o rendono lo stesso servizio,
o realizzano lo stesso tipo di lavoro) o verticale (quando una delle imprese
realizza i lavori della categoria prevalente e le altre imprese i lavori c.d.
scorporabili o - per i “servizi e le forniture” - una delle imprese realizza le
prestazioni principali e le altre quelle secondarie). L’impresa capogruppo, su
mandato conferito dagli altri operatori economici presenta l’offerta,
determinando con ciò la “responsabilità solidale dei mandanti nei confronti
della stazione appaltante”. Tuttavia nel raggruppamento verticale, le imprese
che assumono lavori scorporabili (o, nel caso di servizi e forniture, prestazioni
secondarie) rispondono solo dell’esecuzione delle prestazioni di loro
competenza. Al mandatario spetta la “rappresentanza esclusiva (anche
processuale) dei mandanti rispetto alla stazione appaltante”, ma ciò non

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preclude la legittimazione attiva delle singole imprese mandanti ad impugnare


in via autonoma gli atti della gara.

*SCORPORO = divisione;

*LAVORI SCORPORABILI = i lavori non appartenenti alla categoria prevalente e così definiti nel bando di gara,
assumibili da uno dei mandanti;

*MANDATO = un soggetto, detto mandatario, assume l'obbligazione di compiere uno o più atti giuridici per conto di un
altro soggetto, detto mandante.

8. Requisiti soggettivi e documentazione antimafia. L'art. 38 c.c.p.


subordina la PARTECIPAZIONE ALLA GARA al possesso di determinati “requisiti
di ordine generale”, che dimostrano l’affidabilità dell’operatore economico. Tra
questi requisiti, alcuni sono diretti a evitare che la P.A. instauri rapporti con
operatori che non siano nelle condizioni di dimostrare la loro solidità
economico-finanziaria (perché, ad es., si trovano in stato di fallimento) o che
non abbiano rispettato degli obblighi imposti dalla legge o che abbiano svolto
con negligenza altre prestazioni loro affidate in precedenza. Tra i requisiti di
ordine generale sono molto importanti quelli attestati da una specifica
documentazione (oggi disciplinata dal “codice antimafia” del 2011) che serve a
far conoscere in via preliminare alla P.A. l’esistenza, a carico delle imprese, dei
divieti posti dalla legge per poter intrattenere rapporti contrattuali con
l’amministrazione, così da contrastare il fenomeno dell’ “imprenditorialità
mafiosa”. Infatti, nel caso in cui si accerti l’esistenza di eventuali tentativi di
infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte delle imprese
interessate, l’impresa non potrà partecipare alla gara.
La disciplina sulla documentazione antimafia si articola in due momenti
successivi : in primo luogo essa consente di individuare «requisiti soggettivi di
ordine pubblico», che gli operatori economici devono possedere per
partecipare ad una procedura di affidamento delle concessioni e degli appalti,
di lavori, servizi e forniture (art. 38 c.c.p.); in un secondo momento sono
richieste «ulteriori garanzie» per procedere alla successiva stipulazione dei
contratti con l’impresa che si è vista aggiudicare il contratto. Tali garanzie
costituiscono l’oggetto della “documentazione antimafia”, ossia : la non
pendenza di un procedimento per l’irrogazione di una misura di prevenzione o
l’inesistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato per reati di
partecipazione a un’organizzazione criminale o per corruzione, frode o
riciclaggio. Si tratta di requisiti che assumono la valenza di “cause di esclusione
dalle procedure”, nonché di “incapacità a contrarre con una P.A.”, il cui
possesso va verificato fin dalla fase di ammissione alla gara.
Il possesso dei «requisiti di ordine pubblico» deve essere accertato nel
momento dell’accesso alla gara e attestato dal candidato con una

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«dichiarazione sostitutiva», in sede di presentazione della domanda :


l’interessato, infatti, può comprovare con una propria dichiarazione sottoscritta
(in sostituzione delle normali certificazioni) di non aver riportato condanne
penali, di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano
l’applicazione di misure di prevenzione e di non essere a conoscenza di essere
sottoposto a procedimenti penali. La mancanza anche di uno solo di questi
requisiti impedisce la partecipazione del concorrente alla procedura selettiva e
- qualora la stessa sia accertata durante la procedura - comporta l’esclusione
automatica e - allorché sopravvenga all’aggiudicazione definitiva - legittima il
rifiuto dell’amministrazione alla stipulazione del contratto.
Diversamente, l’acquisizione da parte della stazione appaltante della
“documentazione antimafia” (che si articola nella «COMUNICAZIONE
ANTIMAFIA» e nell’ «INFORMAZIONE ANTIMAFIA») avviene dopo
l’aggiudicazione definitiva e precede la stipulazione del contratto. Sicché la
stessa riguarda solo i “concorrenti aggiudicatari”, con la conseguenza che
l’emanazione di un “provvedimento che dispone in via definitiva l’applicazione
di una misura di prevenzione” o il “passaggio in giudicato di una sentenza di
condanna per reati definitivamente accertati”, comporta la risoluzione del
contratto già stipulato : decisione che prima era frutto di una valutazione
discrezionale del responsabile del procedimento, mentre oggi la stazione
appaltante ha l’obbligo di recedere dal contratto, fatto salvo il pagamento del
valore delle opere eseguite e il rimborso delle spese sostenute. Con due
eccezioni : 1) che l’opera sia quasi ultimata; 2) che ragioni di pubblico
interesse postulino l’esigenza di non interrompere un servizio essenziale e il
soggetto che lo fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi.

Ma la vera novità è la previsione – da parte della L. 106 / 2011 (di conversione


del d.l. sviluppo 70 / 2011) - delle c.d. WHITE LIST (le “liste delle imprese
virtuose”) : si tratta di un elenco (istituito presso ogni prefettura) di fornitori di
beni, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a rischio di
infiltrazione mafiosa. Le singole prefetture devono eseguire sia le “verifiche sul
possesso dei requisiti cui è subordinata l’iscrizione”, sia il “controllo periodico
sulla persistenza dei requisiti” (con la conseguente cancellazione dell’impresa
dall’elenco in caso di esito negativo). L’iscrizione delle imprese nelle white list
ne attesta l’estraneità alla criminalità organizzata e la possibilità per le stazioni
appaltanti di procedere alla stipulazione dei contratti con l’aggiudicatario senza
la preventiva acquisizione della documentazione antimafia. La “legge
anticorruzione del 2012” ha specificato meglio l’ambito di operatività e gli
effetti giuridici che derivano dall’iscrizione nelle white list. Quanto all’AMBITO
DI OPERATIVITÀ, la novità rispetto al passato è che la loro operatività è limitata
solo alle attività considerate più esposte al rischio di infiltrazioni mafiose.
Quanto agli EFFETTI GIURIDICI, l’iscrizione delle imprese negli elenchi della
prefettura competente «soddisfa i requisiti per l’informazione antimafia» : in
pratica, l’iscrizione in tali elenchi certifica la non appartenenza dell’impresa alla
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criminalità organizzata, consentendole di essere ammessa alla stipulazione del


contratto senza la preventiva attivazione del procedimento per il rilascio
dell’informazione antimafia, con il solo obbligo di comunicare alle prefetture
ogni variazione dell’assetto proprietario entro 30 giorni dalla data di modifica,
pena la cancellazione dall’iscrizione. Tale iscrizione è infatti condizionata
all’impegno delle imprese a non pagare il pizzo, a denunciare le intimidazioni e
le estorsioni subite e alla trasparenza dell’assetto societario.
La legge ha inoltre risolto i problemi relativi al MECCANISMO DI
FUNZIONAMENTO DELL’ISTITUTO, su base obbligatoria o volontaria, preferendo
quest’ultima : in questa prospettiva, lo strumento delle white list si aggiunge,
ma non sostituisce l’attuale sistema della documentazione antimafia, che
continua a operare nei casi in cui l’impresa aggiudicataria abbia scelto di non
iscriversi nella “white list”.
La “legge anticorruzione” prevede anche il c.d. RATING DI LEGALITÀ : esso è
uno strumento volto alla promozione di principi di comportamento etico in
ambito aziendale, tramite l’assegnazione di un “riconoscimento” (misurato in
“stellette”)  che indica il  rispetto della legalità da parte delle imprese che ne
abbiano fatto richiesta.  All’attribuzione del rating l’ordinamento ricollega
vantaggi in sede di concessione di finanziamenti pubblici e agevolazioni per
l’accesso al credito bancario. Per quanto riguarda i rapporti tra le white list e il
rating di legalità, anche se entrambi gli istituti hanno una funzione premiale,
mentre le white list sono alternative all’informazione antimafia, con il rating di
legalità le imprese ottengono una specifica attestazione che non sostituisce il
documento antimafia, ma è il presupposto per beneficiare di agevolazioni
economiche.
*PREFETTURA = organo periferico del Ministero dell'Interno che ha funzioni di rappresentanza generale del governo sul
territorio della provincia; ha sede nel capoluogo.

*PIZZO = forma di estorsione che consiste nel pretendere il versamento di una percentuale dell'incasso da parte di
esercenti di attività commerciali ed imprenditoriali, in cambio di una supposta "protezione" dell'attività.

9. I criteri di aggiudicazione. Per quanto riguarda i METODI DI


SVOLGIMENTO DELLA GARA e i CRITERI DI AGGIUDICAZIONE, la “Legge di
contabilità dello Stato” del 1923 prevede per l’aggiudicazione dell’asta
pubblica (ma anche della licitazione privata) il metodo del «pubblico banditore»
(per i contratti attivi) e quello delle «offerte segrete da confrontarsi con il
prezzo prestabilito dall’amministrazione in una scheda segreta» (per i contratti
passivi) : in entrambi i casi, l’aggiudicazione avviene automaticamente e il
“prezzo” è l’elemento decisivo nell’individuazione dell’offerta migliore.
Il codice dei contratti pubblici prevede (sia per le procedure aperte che per
quelle ristrette) due criteri di aggiudicazione :

 il primo è il CRITERIO DEL PREZZO PIÙ BASSO (art. 82 c.c.p.), in virtù del
quale, sulla base di una valutazione automatica del prezzo, è individuata
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l’offerta più conveniente. Quindi esso si risolve nell’ uso di regole


matematiche. Però, se è vero che questo criterio è quello che risponde
meglio alle esigenze di “imparzialità” e “trasparenza” delle operazioni
concorsuali, esso non assicura però (soprattutto quando il prezzo è
troppo basso) la qualità della prestazione (sotto il profilo, ad esempio,
della buona esecuzione del lavoro, dei tempi di realizzazione, del
materiale usato, ecc.) : così, per evitare questi problemi, in presenza di
offerte anomale, dopo l’individuazione delle offerte, si procede
all’apertura di un sub-procedimento, al cui interno la “commissione
aggiudicatrice”, in contraddittorio con l’offerente, va ad accertare
l’offerta anormalmente bassa in base ad “indici predefiniti” : fatto ciò, la
stessa, dopo aver esaminato le “giustificazioni addotte dall’impresa
offerente”, procede all’esclusione dell’offerta, ove la stessa dovesse
risultare inaffidabile e in contrasto con l’interesse pubblico alla migliore e
più celere esecuzione del contratto (a questo proposito, data la
“discrezionalità tecnica” che connota la verifica dell’anomalia dell’offerta,
una parte della giurisprudenza considera il “giudizio di anomalia/non
anomalia” insindacabile, a meno che lo stesso non sia frutto di
valutazioni irrazionali, arbitrarie, o fondate su errori di fatto).
 Il secondo criterio è, invece, quello dell’OFFERTA ECONOMICAMENTE PIÙ
VANTAGGIOSA (art. 83 c.c.p.), che a differenza del precedente, aggiunge
all’ “elemento quantitativo” (il prezzo) determinati “elementi qualitativi”
(come, ad esempio, i tempi di esecuzione o il termine di consegna, la
qualità, ecc). Sicché l’offerta prescelta deve assicurare il migliore
rapporto qualità/prezzo in relazione all’oggetto del contratto. L’offerta,
inoltre, deve essere anche affidabile : in quest’ottica il Consiglio di Stato
ha precisato che, anche nelle gare da aggiudicarsi in base al metodo dell’
“offerta economicamente più vantaggiosa”, l’amministrazione, in caso di
“offerte anomale”, deve avviare il sub procedimento e svolgere la
verifica di anomalia dell’offerta.

Per la valutazione delle offerte, è prevista la nomina di un’apposita


“commissione giudicatrice” (art. 84 c.c.p.).
La scelta tra i due criteri di aggiudicazione è rimessa ai poteri discrezionali
dell’amministrazione in base alle caratteristiche del contratto.

*PUBBLICO BANDITORE = nel giorno, ora e luogo indicati nell’avviso d’asta, il pubblico banditore a viva voce raccoglie
le offerte degli intervenuti. Ogni partecipante fa la propria offerta o migliora il prezzo base indicato dal banditore.
Ognuno ha la facoltà di migliorare continuamente la propria offerta e quella degli altri, finchè il presidente dell’asta non
fa dare il segnale di aggiudicazione dal banditore. A differenza degli altri sistemi, qui l’aggiudicazione è definitiva al
primo incanto.

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10. L’aggiudicazione provvisoria e l’aggiudicazione definitiva. Il


“procedimento di evidenza pubblica” termina con l’AGGIUDICAZIONE DEL
CONTRATTO all’impresa vincitrice (che è un atto amministrativo con cui si
conclude il procedimento di gara).
Particolari problemi sono sorti riguardo alla natura giuridica
dell’“AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA”: la giurisprudenza la qualifica come
“atto endoprocedimentale”, dagli effetti provvisori, inidoneo a produrre effetti
costitutivi a favore del destinatario, ma semplicemente prodromico alla
definizione del procedimento di gara (che avviene con l’aggiudicazione
definitiva). L'AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA, invece, non è un atto meramente
confermativo dell’aggiudicazione provvisoria, ma postula il rinnovato esame
(da parte dell’organo amministrativo) delle valutazioni compiute dall’organo
tecnico in sede di selezione della migliore offerta, nonché una nuova
valutazione dell’interesse pubblico.

Ma procediamo con ordine. Dopo che il competente funzionario ha redatto il


“processo verbale” delle operazioni di gara, il procedimento di evidenza
pubblica termina con l’AGGIUDICAZIONE DEL CONTRATTO all’impresa
vincitrice. Prima del codice dei contratti pubblici, la giurisprudenza affermava la
“natura negoziale” dell’aggiudicazione (di atto, cioè, con cui l’amministrazione
- una volta accettata la proposta contrattuale e proclamato il vincitore -
manifesta la sua volontà di costituire il vincolo contrattuale) : ciò sulla base
dell’art. 16, 4°comma della “legge di contabilità di Stato” del 1923, secondo cui
«i processi verbali di aggiudicazione equivalgono per ogni effetto legale al
contratto». Così ragionando, però, veniva privata di significato la fase
stipulatoria (infatti la “stipulazione” avrebbe avuto un valore meramente
riproduttivo di un vincolo già sorto in sede di “aggiudicazione”). Inoltre, nella
“normativa di contabilità di Stato” l’AGGIUDICAZIONE presenta carattere
provvisorio : ciò significa che essa deve essere seguita dall’aggiudicazione
definitiva (e ciò sia nel caso in cui si renda necessario un qualche «esperimento
di miglioria», sia nel caso in cui sia prevista la sola approvazione del “verbale di
aggiudicazione”). A
differenza della “legge di contabilità del 1923”, il codice dei contratti pubblici
del 2006, invece, non solo ha attribuito diversa natura all’aggiudicazione, ma
ha anche dettato una disciplina compiuta del relativo procedimento. Il codice
infatti articola il “procedimento di aggiudicazione” in due fasi :

 La prima è quella dell’“aggiudicazione provvisoria”. L’art. 11, 4°comma


del c.c.p. dispone che “una volta selezionata la migliore offerta secondo il
criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, la stazione appaltante dichiara a favore del migliore
offerente l’“AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA”. L’aggiudicazione
provvisoria deve essere approvata dall’organo competente.

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 Effettuata l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, la stazione


appaltante provvede ad adottare l’“AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA”, per la
quale tuttavia il codice non prevede un termine specifico. L’art. 11,
6°comma stabilisce che “l’offerta è vincolante per l’offerente per tutto il
periodo stabilito dal bando di gara o dalla lettera-invito, e comunque per
un periodo di 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la
presentazione dell’offerta” : quindi mentre l’amministrazione non è
obbligata ad adottare l’aggiudicazione definitiva entro un termine certo,
il privato, al contrario, resta vincolato alla propria offerta per un periodo
fino a 180 giorni.

Per ciò che riguarda la natura negoziale, questa è venuta meno, perché l’art.
11, 7°comma, c.c.p. dispone che - in relazione ai contratti disciplinati dal codice
- «l’accettazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta» : ciò
significa che l’aggiudicazione non è più idonea a far sorgere il vincolo
contrattuale (che, al contrario, sorge con la “stipulazione”). In questa
prospettiva, l’aggiudicazione definitiva chiude la fase pubblicistica, preordinata
alla scelta del contraente; mentre la stipulazione (con la costituzione del
vincolo contrattuale) avvia la fase privatistica.
Nonostante il PROVVEDIMENTO DI AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA sia l’atto
conclusivo della serie procedimentale, il codice dei contratti pubblici non
prevede un termine entro cui esso debba essere adottato : anzi è possibile che
ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di
appalto, ma ciò secondo la giurisprudenza è inidoneo a ingenerare un
affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non
sussista nessuna illegittimità nell’operato della P.A.”. La mancanza di un
termine entro cui adottare l’aggiudicazione definitiva espone l’impresa
all’incertezza sulla definitiva aggiudicazione, senza che possa vantare alcuna
pretesa nei confronti dell’amministrazione.

11. Trattativa privata, procedure negoziate e dialogo competitivo.


La “TRATTATIVA PRIVATA” nella “legge di contabilità di Stato” del 1923 è un
metodo negoziato di scelta del contraente che contrasta con il “principio di
concorrenza” e, pertanto, è limitato a casi tassativamente indicati dalla legge
(perchè le stazioni appaltanti, nella scelta del contraente, devono dare la
preferenza alle procedure aperte e ristrette). Questi casi tassativi sono:

 che la gara sia andata deserta (= asta in cui non si è presentato nessuno
degli aventi titolo);
 che l’oggetto del contratto abbia caratteristiche tali per cui solo una ditta
possa fornirlo;
 in casi di urgenza e in ogni altro caso in cui ricorrano eccezionali
esigenze.
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Nella trattativa privata l’amministrazione negozia le condizioni del contratto


con il soggetto prescelto, senza essere vincolata all’osservanza di particolari
regole procedimentali. Il “procedimento di aggiudicazione” manca nella
trattativa privata, e il vincolo contrattuale sorge solo dopo la stipulazione. Nella
trattativa privata prevale il diritto privato, ma - poiché l’attività è comunque
funzionalizzata al pubblico interesse - la formazione del contratto deve essere
comunque preceduta e seguita da un atto amministrativo : dalla
DELIBERAZIONE A CONTRARRE, in cui l’amministrazione deve dar conto dei
motivi che l’hanno indotta ad adottare questo metodo di contrattazione
(impugnabile dagli imprenditori che sarebbero interessati a partecipare alla
gara); e dall’APPROVAZIONE DEL CONTRATTO (una volta stipulato). In ogni
caso nella trattativa privata trovano piena applicazione i principi privatistici in
materia di obbligazioni e contratti, tra cui il “principio di buona fede”.
Ad ogni modo, come previsto dalla “Legge di contabilità”, la trattativa privata
può essere preceduta da una GARA INFORMALE TRA PIÙ IMPRESE IN
COMPETIZIONE TRA LORO : laddove si opti per questa soluzione,
l’amministrazione indicherà i criteri (vincolanti per entrambe le parti) che
devono essere osservati nella trattativa. Essendo vincolanti per entrambe le
parti, la violazione di questi criteri può pregiudicare la posizione dei
partecipanti alla gara, che vanteranno un “interesse legittimo”, tutelabile
davanti al giudice amministrativo.
Anche il “t.u.e.l.” (per gli enti locali) disciplina la figura della “trattativa privata”
ed anche in questo caso, per la sua attivazione, è necessaria non solo la previa
e motivata “determinazione a contrarre”, ma soprattutto che sussista
l’impossibilità di ricorrere all’uso di procedure aperte o ristrette.
Nel codice dei contratti pubblici, invece, la trattativa privata ha trovato
corrispondenza nella “PROCEDURA NEGOZIATA”, che è stata articolata in due
moduli, a seconda che sia preceduta o meno dalla pubblicazione di un bando di
gara (artt. 56 e 57) :

 la PROCEDURA NEGOZIATA PRECEDUTA DAL BANDO, che in realtà si


allontana dalla “trattativa privata” e si avvicina molto a una gara
pubblica : in questo caso, infatti, le stazioni appaltanti, dopo aver
selezionato gli operatori economici ritenuti idonei, negoziano (con uno o
più di essi) le “condizioni dell’appalto”. Fatto ciò, si procede all’
“aggiudicazione del contratto” (secondo il criterio del prezzo più basso o
dell’offerta economicamente più vantaggiosa).
 la PROCEDURA NEGOZIATA NON PRECEDUTA DAL BANDO DI GARA
corrisponde, invece, alla “trattativa privata” : qui la stazione appaltante
negozia le “condizioni del contratto” direttamente con un solo operatore
economico, una volta accertatane l’idoneità in base ad informazioni
desunte dal mercato. Essa comunque è ammessa solo in casi di estrema
urgenza ed è circondata da particolari garanzie procedurali volte
assicurare il rispetto, nella selezione dell’altro contraente, dei “principi di
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trasparenza”, “concorrenza” e “rotazione” (con il divieto, quindi, di


negoziare sempre con gli stessi soggetti).

Il “DIALOGO COMPETITIVO” (art. 58 c.c.p.) è una nuova procedura di scelta del


contraente caratterizzata dal dialogo fra le parti nella “fase progettuale”.
L’istituto permette all’amministrazione di avviare un dialogo con gli operatori
economici che hanno chiesto di partecipare alla procedura per individuare
insieme, attraverso lo scambio reciproco di informazioni, una o più soluzioni
progettuali idonee a soddisfare le necessità rappresentate nel bando. I
candidati idonei saranno poi selezionati sulla base delle soluzioni che hanno
prospettato e saranno invitati a presentare le loro offerte. In ogni caso, per
l’attivazione della procedura (e anche qui i casi sono tassativamente indicati ex
lege) occorre che l’appalto sia «particolarmente complesso» ed è richiesto,
inoltre, il parere del “Consiglio superiore dei lavori pubblici”.
Il ricorso alla PROCEDURA NEGOZIATA (con o senza bando) e al DIALOGO
COMPETITIVO è ammesso solo nei casi espressamente previsti dalla legge,
poiché la stazione appaltante, nella scelta del contraente, deve dare la
preferenza alle procedure aperte e ristrette.

PROCEDURA NEGOZIATA : la Stazione Appaltante consulta un numero limitato di operatori economici selezionati
(generalmente da un elenco costituito presso una stazione appaltante), dotati delle caratteristiche adatte
all'affidamento di un determinato appalto, con i quali "negozia" le condizioni dell'appalto. L'appalto viene infine affidato
all'operatore che negozia le condizioni più vantaggiose, in base al criterio di aggiudicazione scelto (prezzo più basso o
offerta economicamente più vantaggiosa). La Procedura negoziata può essere adottata sia con, sia senza preventiva
pubblicazione di un bando.

DIALOGO COMPETITIVO : procedura in cui la stazione appaltante, in caso di “appalti particolarmente complessi”, avvia
un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, per elaborare una o più soluzioni progettuali idonee a soddisfare
le sue necessità e sulla base delle quali i candidati selezionati saranno invitati a presentare le offerte.

12. Centrali di committenza, accordi quadro, sistemi dinamici di


acquisizione e project financing. I vincoli posti alla finanza pubblica
nazionale, discendenti dall’adesione dell’Italia al sistema monetario dell’euro,
hanno comportato l’introduzione nell’ambito dell’attività contrattuale delle
pubbliche amministrazioni di nuovi istituti per il contenimento della spesa
pubblica. In questa prospettiva è stato introdotto nell’ordinamento italiano un
“sistema unificato degli acquisti delle amministrazioni”, in base ad apposite
“CONVENZIONI-QUADRO” stipulate dalla CONSIP (“concessionaria servizi
informatici pubblici”) con quelle imprese (individuate in base alle regole
dell’evidenza pubblica sulla scelta del contraente) che si impegnano, per il
periodo di tempo stabilito, ad accettare ordinativi di forniture di beni e servizi
entro limiti quantitativi massimi ivi stabiliti. Il modello CONSIP, basato su
“procedure comuni di acquisto”, è stato legittimato dal diritto comunitario
(direttiva 18 / 2004) e recepito dal c.c.p. (art. 33), attraverso la previsione di
“CENTRALI DI COMMITTENZA”, organismi creati appositamente per
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concentrare più commesse (= ordinazioni di merci) su un unico soggetto, per la


riduzione dei costi legati allo svolgimento delle gare. Il meccanismo consente
infatti a più stazioni appaltanti, associate (nella centrale di committenza), di
stipulare contratti per l’acquisto di lavori, servizi e forniture con l’impresa
scelta (sulla base delle regole dell’evidenza pubblica) dalla centrale di
committenza. Ciò consente alle amministrazioni di ottenere dai fornitori
prestazioni di qualità a prezzi più vantaggiosi.
L' “ACCORDO-QUADRO”, anch’esso previsto dal diritto comunitario e
disciplinato dal codice dei contratti pubblici all’art. 59, è un modulo
contrattuale (facoltativo) che serve alle amministrazioni per semplificare le
procedure contrattuali in caso di “prestazioni ripetitive” e per individuare in
anticipo i costi cui far fronte (in relazione ad un programma d’investimenti).
Con l’accordo-quadro - che può essere concluso da una stazione appaltante
con uno o più operatori economici (in quest’ultimo caso, devono essere almeno
3), scelti secondo le regole dell’evidenza pubblica, vengono stabilite le
“clausole relative ai futuri appalti” (cioè a quegli appalti che devono essere
aggiudicati entro un periodo massimo di tempo, in genere 4 anni), specie per
quanto riguarda i prezzi e le quantità previste.
Il “SISTEMA DINAMICO DI ACQUISIZIONE” (art. 60 c.c.p.) è un processo
interamente elettronico ammesso per acquistare beni e servizi standardizzati
di uso corrente. L'istituzione del sistema segue le regole dell’evidenza pubblica,
fino al momento dell’attribuzione degli appalti. Il sistema è aperto per tutta la
sua durata (che non può superare i 4 anni) a tutti gli operatori economici che
soddisfino i criteri di selezione e che abbiano presentato un’offerta adeguata a
quella prospettata nel bando di gara. Una volta che un’impresa è stata inclusa
nel sistema, essa ha il “diritto di essere invitata dalla stazione appaltante in
occasione di ogni appalto specifico che abbia ad oggetto i beni o servizi in
funzione dei quali il sistema è stato creato” e di “presentare, per questi, una
determinata offerta”. Fatto ciò, l’amministrazione aggiudica l’appalto
all’operatore che ha presentato l’offerta migliore in base ai criteri enunciati nel
bando di gara.
Il “PROJECT FINANCING” (o “finanza di progetto”), introdotto nel 1998 dalla c.d.
legge Merloni-ter (le cui disposizioni sono confluite negli artt. 153-159 del
c.c.p.) è una tecnica di finanziamento delle opere pubbliche che prevede il
coinvolgimento del capitale privato nella realizzazione, in concessione, del
lavoro (di conseguenza, dando ai privati la possibilità di partecipare alla
spesa,l’istituto si prefigge lo scopo di contenere il debito pubblico).
Il codice dei contratti prevede due ipotesi di “project financing” :

 il “PROJECT FINANCING RELATIVO ALLA REALIZZAZIONE DI OPERE GIÀ


PROGRAMMATE” : la stazione appaltante sollecita la presentazione delle
offerte mediante un “bando pubblico”; successivamente i privati
interessati presentano un’offerta (che deve essere accompagnata da uno
“studio di fattibilità” che ne dimostri l’utilità sociale e da un “piano
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economico-finanziario”). Le offerte pervenute vengono valutate


comparativamente e il soggetto che ha presentato l’offerta
economicamente più vantaggiosa viene nominato “promotore”. Dopo che
è stato approvato il “progetto preliminare” (con le eventuali modifiche
progettuali richieste), viene stipulato il “contratto di concessione” con il
promotore o con il concorrente risultato aggiudicatario (e in tal caso il
promotore ha diritto al pagamento delle spese sostenute, che sono a
carico dell’aggiudicatario,).
 il “PROJECT FINANCING RELATIVO ALLA REALIZZAZIONE DI OPERE NON
PROGRAMMATE” : qui il “progetto preliminare” (dopo essere stato
approvato con le eventuali modifiche progettuali richieste
dall’amministrazione) viene inserito negli “strumenti di programmazione”
ed è posto a base della gara per l’affidamento della concessione, alla
quale è invitato il “proponente-promotore” che, avendo presentato il
progetto, gode del diritto di prelazione.

Le due ipotesi si differenziano per il fatto che, mentre nella prima è


l’amministrazione che sollecita la presentazione di offerte, attraverso un bando
pubblico, nella seconda la proposta è di iniziativa dell’operatore economico (il
proponente-promotore). In entrambi i casi, comunque, sia l’offerta che la
proposta dei privati devono contenere un progetto preliminare, una bozza di
convenzione e un piano economico finanziario, asseverato da un istituto di
credito.

*COMMESSA = commissione, ordinazione di merci, di prodotti, ordinativo.


*ORDINATIVO = ordinazione di merce.
*ASSEVERATO = certificato, attestato.

*CONVENZIONI-QUADRO = le convenzioni sono accordi-quadro, sulla base dei quali le imprese


(aggiudicatarie di gare indette dalla Consip su singole categorie merceologiche) - s'impegnano ad
accettare (alle condizioni e ai prezzi stabiliti in gara e in base agli standard di qualità previsti nei
capitolati) ordinativi di fornitura da parte delle Pubbliche Amministrazioni, fino al limite massimo previsto
(il c.d. massimale). Le convenzioni attivate da Consip riguardano una
spesa standard, cioè l'acquisto di quei beni e servizi che vengono largamente usati da tutte le
amministrazioni (computer, stampanti, buoni pasto, telefonia mobile e fissa ecc.). Acquistando
attraverso la convenzione Consip, tutte le amministrazioni possono evitare di sostenere i costi di una gara
d'appalto e possono ottenere notevoli risparmi sull’acquisto dei beni.

*ACCORDI-QUADRO = l'Accordo-quadro è uno strumento innovativo di contrattazione, che stabilisce le


regole relative ad appalti da aggiudicare durante un periodo massimo di 4 anni.
Gli Accordi quadro (aggiudicati da Consip a più fornitori a seguito della pubblicazione di specifici Bandi)
definiscono le “clausole generali” che, in un determinato periodo temporale, regolano i contratti da
stipulare. Nell’ambito poi dell’Accordo quadro, le Amministrazioni, attraverso la contrattazione di "appalti
specifici", provvedono poi a negoziare i singoli contratti, personalizzati sulla base delle proprie esigenze.

*SISTEMA DINAMICO DI ACQUISIZIONE DELLA P.A. = il Sistema Dinamico di Acquisizione è un processo


di acquisizione interamente telematico, il cui utilizzo è previsto per le forniture di beni e servizi
standardizzati di uso corrente. È una procedura sempre aperta, a cui i fornitori che soddisfano i requisiti
richiesti possono, in qualsiasi momento, richiedere l’ammissione. Il Sistema dinamico è caratterizzato da
una procedura bifasica : 1) Fase 1: pubblicazione da parte di Consip di un bando istitutivo per una
specifica categoria merceologica a cui i fornitori possono abilitarsi. 2) Fase 2 : pubblicazione e
aggiudicazione di appalti specifici in cui le Amministrazioni, avviando una procedura concorrenziale,
definiscono i quantitativi, il valore e le caratteristiche specifiche dell’appalto.
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*CENTRALE DI COMMITTENZA = è una stazione appaltante che gestisce gare d'appalto per conto di
più enti pubblici.

*PROJECT FINANCING = è una tecnica di finanziamento di un “progetto” in cui il ristoro del


finanziamento è garantito dai flussi di cassa previsti dall’attività di gestione dell'opera. Il
coinvolgimento dei soggetti privati nella realizzazione, nella gestione e soprattutto
nell'accollo totale o parziale dei costi di opere pubbliche, in vista di entrate economiche future,
rappresenta la caratteristica principale del project financing. Attraverso la creazione di
una “SOCIETÀ DI PROGETTO” si opera la separazione giuridica e finanziaria del progetto dai
partner. Inoltre la partecipazione di più soggetti consente un'allocazione dei rischi verso i soci.
La "società di progetto" (o "concessionario") è il soggetto giuridico costituito per mantenere
separati i capitali destinati al progetto da quelli dei soggetti proponenti l'iniziativa
d'investimento (i c.d. "promotori"). In Italia, la finanza di progetto ha trovato spazio
prevalentemente nella realizzazione di opere di pubblica utilità. In questa configurazione
di project financing i soggetti promotori propongono alla Pubblica amministrazione la
"PROPOSTA"di finanziare, eseguire e gestire un'opera pubblica, il cui progetto è stato già
approvato, o sarà approvato, in cambio degli utili che deriveranno dai flussi di cassa (cash
flow) generati dalla gestione dell'opera. La procedura prevede tre fasi: progettazione,
costruzione e gestione. 1) Fase preliminare : le amministrazioni (statali e non statali) devono
pubblicare periodicamente, in occasione della programmazione triennale, un avviso che indichi
quali opere pubbliche programmate sono realizzabili con capitali privati, in quanto suscettibili
di gestione economica. I soggetti «promotori» presentano alle amministrazioni proposte
relative alla realizzazione di lavori pubblici o di pubblica utilità inseriti nella programmazione
triennale. 2) Fase di gara : una volta valutate le proposte pervenute, l'Amministrazione
individua i soggetti competitori con il promotore attraverso una gara ad evidenza pubblica
(normalmente trattasi di licitazione privata) per scegliere le due migliori offerte, ponendo a
base d'asta il progetto presentato dal promotore ed esaminando tutte le offerte pervenute e
comparandole con la proposta del promotore. Al termine di tale fase, l'Amministrazione
intraprende una procedura negoziata tra il promotore e i due competitori risultati vincitori della
gara; si giunge così alla scelta dell'aggiudicatario, secondo il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa. Tuttavia, il soggetto promotore ha una sorta di diritto
di prelazione sull'aggiudicazione della procedura : cioè se all'esito della procedura negoziata un
soggetto competitore dovesse presentare un'offerta migliore di quella del promotore,
quest'ultimo potrà sempre adeguare la propria proposta a quella (dell'altro soggetto) ritenuta
più conveniente dall'Amministrazione, aggiudicandosi così in ogni caso il project financing. 3)
Fase di costruzione e gestione : il bando di gara per l’affidamento di una concessione
per project financing deve prevedere la facoltà dell’aggiudicatario della concessione di
costituire una “società di progetto” in forma di società per azioni o a responsabilità limitata. La
società di progetto diventa a tutti gli effetti concessionaria, subentrando nel rapporto di
concessione dell’aggiudicatario. La durata della concessione deve remunerare la quota di
capitale privato investita, i canoni di concessione allo Stato, e un'adeguata redditività.
La proprietà dell'opera realizzata, di regola (ma non sempre) è dell'ente pubblico. La normativa
in vigore prevede una separazione fra proprietà e gestione, ma la proprietà pubblica può
essere successivamente privatizzata, in particolare attraverso la vendita allo stesso
concessionario che già ne detiene la gestione.
Ogni anno, il privato paga un canone di concessione (in percentuale sul fatturato) al
proprietario dell'opera. Nel project
financing abbiamo quindi : 1) il promotore: colui che dà forma all'idea e la fa diventare
progetto. 2) e la società di progetto: a cui viene assegnato il compito dell'esecuzione del
progetto.

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13. Stipulazione, approvazione, controllo ed esecuzione del


contratto. L’AGGIUDICAZIONE DEL CONTRATTO segna il momento finale
della “fase pubblicistica” ed è seguita dalla stipulazione. Con la STIPULAZIONE
DEL CONTRATTO inizia la fase, “di natura negoziale”, relativa all’esecuzione del
contratto. La stipulazione, nella “normativa di
contabilità di Stato” del 1923, non era richiesta nel caso in cui la fase di
formazione del contratto si fosse conclusa con il “verbale di aggiudicazione”,
che “equivale per ogni effetto legale al contratto” (art. 16, 4°comma) : essa era
quindi necessaria nella trattativa privata, dove mancava l’aggiudicazione.
Per cui, in relazione ai “contratti previsti dalla Legge di contabilita” del 1923, la
stipulazione (se prevista) assume un mero valore riproduttivo di un atto già
perfezionatosi in sede di aggiudicazione (era in questo senso, tra l’altro, che la
giurisprudenza attribuiva all’ “aggiudicazione” natura negoziale). Al contrario,
la stipulazione assume valore vincolante in tutti i casi in cui è prevista in via
obbligatoria (come nella trattativa privata, in cui non c’è la fase di
aggiudicazione).
Diversa prospettiva ha assunto invece la giurisprudenza in relazione ai
“contratti disciplinati dal codice dei contratti pubblici” : in relazione a questo
tipo di contratti, la giurisprudenza – abbandonando il precedente orientamento
attributivo della natura negoziale all’ “aggiudicazione” – ha stabilito che la
“stipulazione” segna l’inizio della fase (di natura negoziale) relativa
all’esecuzione del contratto : in questa prospettiva, l’art. 11 c.c.p. ha dettato una
disciplina completa della “fase di stipulazione”, intendendo la stessa come atto
necessario a produrre la conclusione del contratto.

La STIPULAZIONE DEL CONTRATTO deve avvenire entro 60 giorni (art. 11,


9°comma c.c.p.), decorrenti dal momento in cui l’aggiudicazione definitiva
acquista efficacia. In caso di mancata osservanza di questo termine da parte
dell’amministrazione, l’aggiudicatario può sciogliersi dal vincolo contrattuale.
Tuttavia, il d.lgs. 53/2010 (attuativo della “direttiva ricorsi” del 2007 e
modificativo dell’art. 11 c.c.p.) ha introdotto, nella fase intercorrente tra
l’aggiudicazione definitiva e la stipulazione del contratto, dei meccanismi di
“standstill”, cioè di sospensione legale del termine per stipulare il contratto,
per tutelare il contraente non prescelto dall’amministrazione :

 il primo “meccanismo di standstill” (art. 11, comma 10°, c.c.p.) prevede


che l’amministrazione non può stipulare il contratto prima di 35 giorni
dalla comunicazione (a tutti i concorrenti ammessi alla gara) del
provvedimento di “aggiudicazione definitiva”. La previsione del termine
dilatorio (c.d. standstill) è stata introdotta per risolvere il difficile rapporto
tra il contratto stipulato e l’eventuale successivo annullamento
dell’aggiudicazione : il problema era stabilire quale fosse la sorte del
contratto che l’amministrazione avesse già stipulato con l’impresa
aggiudicataria nel caso in cui, su ricorso presentato da un’altra impresa,
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il giudice avesse successivamente annullato il “provvedimento di


aggiudicazione”.
I 35 giorni di standstill assicurano che il contratto si possa stipulare con la
certezza di non dover subire poi l’instaurazione di un giudizio di
annullamento del “provvedimento di aggiudicazione”, poichè il termine
per la proposizione del ricorso in materia di contratti è pari a 30 giorni.
Inoltre, esso consente agli interessati di valutare l’opportunità o meno di
proporre un ricorso giurisdizionale, con la garanzia che – nel relativo
lasso di tempo – non si giungerà alla stipulazione del contratto (che
potrebbe per loro risultare pregiudizievole).
Il comma 10-bis dell’art. 11 dispone, però, delle deroghe, che sono
tassative (“Il termine dilatorio di cui al comma 10 non si applica nei
seguenti casi) : 1) se, dopo la pubblicazione del bando di gara o l’inoltro
degli inviti, è stata presentata o è stata ammessa una sola offerta e il
bando o la lettera-invito non sono state tempestivamente impugnate
oppure queste impugnazioni risultano già respinte con decisione
definitiva; sicché le parti hanno la certezza che nessuno potrà mai
chiedere l’annullamento dell’aggiudicazione; 2) nel caso in cui si tratti di
un appalto basato su un “accordo-quadro” o su un “sistema dinamico di
acquisizione”.
 Il secondo meccanismo di standstill è previsto dal comma 10-ter dell’art.
11 c.c.p., che prende in considerazione l’ipotesi dell’ “instaurazione di un
ricorso giurisdizionale contro l’aggiudicazione definitiva, con contestuale
DOMANDA CAUTELARE” : in tal caso, il contratto non può essere stipulato
dal momento in cui l’istanza cautelare viene notificata alla stazione
appaltante e per i successivi 20 giorni; sarà poi il giudice a stabilire se la
sospensione deve essere protratta fino alla decisione cautelare o di
merito. Lo scopo è di impedire che nelle more del “giudizio contro
l’aggiudicazione definitiva” la stazione appaltante stipuli in ogni caso il
contratto, rendendo così vana l’aspettativa del ricorrente (eventualmente
vittorioso) di stipulare il contratto.

La STIPULAZIONE, che oggi è di competenza dei “dirigenti pubblici”, può


avvenire in tre forme : 1) forma pubblica amministrativa (a mezzo di ufficiale
rogante); 2) atto pubblico notarile; 3) scrittura privata (in caso di “trattativa
privata”).

Dopo la stipulazione, il contratto è soggetto all’eventuale APPROVAZIONE da


parte dell’organo competente entro il termine previsto dalle singole discipline
contrattuali o, in mancanza, entro 30 giorni dal ricevimento del contratto (art.
12, 2°comma c.c.p.). Decorso questo termine il contratto si intende approvato
e diventa efficace. Quanto alla “natura
giuridica” dell’APPROVAZIONE, essa è una fattispecie che integra l’efficacia del
contratto, quindi è una condicio iuris cui è subordinata la produzione degli

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effetti del contratto (ciò significa che, in mancanza dell’approvazione, il


contratto non potrà esplicare effetti e subirà la caducazione).
Dal punto di vista funzionale, l’approvazione si estrinseca in un “controllo”, che
può essere sia “di legittimità” (riguardante la conformità del contratto alle
norme, alla deliberazione a contrarre, al bando, al sistema di scelta del
contraente, ecc.), sia “di merito” (perché l’approvazione può anche essere
negata, ad esempio, per mancanza della copertura finanziaria o per gravi
motivi di pubblico interesse).
Trattandosi di un “atto di controllo”, l’APPROVAZIONE è irrevocabile.
Nel momento in cui il contratto viene sottoposto ad approvazione, le parti
(amministrazione e privato contraente) si trovano nella situazione che abbiamo
definito come “CONTRATTO CLAUDICANTE” : mentre infatti il vincolo
contrattuale per il privato nasce al momento della stipulazione,
l’amministrazione potrà ritenersi vincolata solo dopo l’esito positivo
dell’approvazione. Dunque, in questa ipotesi, all’amministrazione è
riconosciuta una “posizione di supremazia”, contro cui però il privato è titolare
di un’adeguata tutela : il privato, infatti, non solo può mettere in mora
l’amministrazione inadempiente, ma può anche recedere dal contratto alla
scadenza del termine previsto per l’approvazione. Questa situazione di
privilegio dell’amministrazione ha determinato in passato la tendenza
all’espunzione (= soppressione) dell’APPROVAZIONE dall’ordinamento; tuttavia
l’art. 12, 2°comma del c.c.p. continua a contemplare l’istituto dell’
approvazione, fissando solo il termine entro cui essa deve intervenire e
stabilendo anche che, ove non intervenuta nei termini, il contratto si intende
approvato. Il codice ripropone questa situazione di privilegio quando statuisce
(art. 11, 7°comma c.c.p.) che, mentre per l’amministrazione
«l’AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA non equivale ad accettazione dell’offerta»,
l’offerta dell’aggiudicatario «è irrevocabile» finchè non siano trascorsi i 60
giorni previsti per la stipulazione del contratto e i successivi 30 giorni per
l’approvazione dello stesso (nel corso dei quali l’amministrazione può
esercitare anche i poteri di autotutela : annullamento e revoca). Ne consegue,
pertanto, che solo alla scadenza di questi termini senza che il contratto sia
stato stipulato o approvato, il contraente privato può sciogliersi dal vincolo
contrattuale o recedere dal contratto (stipulato, ma non approvato), attraverso
un atto notificato alla stazione appaltante.

Il contratto, una volta approvato, è soggetto ad un PROCEDIMENTO DI


CONTROLLO, sia per i “contratti dello Stato” (per i quali il controllo si sostanzia
nella forma del visto di registrazione della Corte dei conti), sia per i “contratti
degli enti locali”, sia per i “contratti di appalto di lavori, servizi e forniture” : si
tratta di un “controllo preventivo di legittimità”, diretto a dare esecutività al
contratto.
Un ruolo importante nel controllo sui contratti pubblici svolge l’“Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici”. Infatti l’Autorità deve :
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 verificare la correttezza e la trasparenza delle procedure di affidamento;


 garantire che l’esecuzione del contratto avvenga nel rispetto dei “principi
di economicità” ed “efficienza”;
 assicurare l’osservanza delle regole della concorrenza nelle singole
procedure.

Terminati i controlli (o, nei casi di urgenza, anche prima – su richiesta della
stazione appaltante : e in tal caso parleremo di c.d. “esecuzione anticipata”), il
contratto acquista efficacia e può essere eseguito dalle parti, nel rispetto delle
norme del codice civile (data la sua natura di contratto di diritto comune). La
FASE DI ESECUZIONE infatti è disciplinata dal diritto privato, anche se le leggi
riconoscono all’amministrazione speciali poteri di intervento, in funzione della
tutela del pubblico interesse (si pensi, ad esempio, in materia di appalti, al
potere, riconosciuto all’amministrazione, di risoluzione del contratto per grave
inadempimento o ritardo nell’esecuzione dei lavori). In ogni caso, questi
speciali poteri di intervento, secondo la giurisprudenza, non hanno natura
provvedimentale, ma sono comunque “atti di natura privatistica” (sicché la
giurisdizione sulle controversie relative all’esercizio di questi poteri spetta al
“giudice ordinario”).
L’art. 21-sexies della L. 241/1990 (aggiunto dalla L. 15/2005) prevede il
“RECESSO” DELL’AMMINISTRAZIONE DAI CONTRATTI STIPULATI (nei casi
previsti dalla legge o dal contratto). L'amministrazione può, quindi, rivedere le
proprie scelte contrattuali ma solo usando le norme del codice civile. Anche il
recesso, ad ogni modo, deve essere subordinato alla sussistenza di particolari
esigenze di pubblico interesse : con ciò, tuttavia, non si vuole attribuire al
recesso carattere pubblicistico (difatti il recesso non è espressione di un
pubblico potere, ma è una “dichiarazione negoziale di diritto privato”,
espressione di un diritto potestativo riconosciuto dalla legge o dal contratto).

*CADUCARE = annullare, privare di efficacia giuridica.

*TERMINE DILATORIO = fanno sì che un atto non possa produrre effetti prima che il relativo termine sia decorso.

*ROGARE = stipulare un contratto alla presenza di un notaio. Nella pubblica amministrazione l'ufficiale rogante è
un funzionario autorizzato a rogare (ossia redigere) documenti in forma pubblica amministrativa, aventi efficacia
di atto pubblico come quelli rogati da un notaio.

*IRREVOCABILE = che non può essere revocato, cioè annullato.

*MESSA IN MORA = Con la lettera di messa in mora, il privato avverte l’amministrazione che, in caso di mancato
adempimento del contratto, decorsi i giorni indicati, instaurerà un vero e proprio processo dinanzi al giudice (oppure,
per esempio, agirà con ricorso per decreto ingiuntivo) per ottenere coattivamente la soddisfazione delle proprie
pretese.

Art. 21-sexies L. 241 / 1990 (Recesso dai contratti)

“Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal
contratto”.

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14. II regime giuridico degli atti amministrativi dell’evidenza


pubblica. La giurisprudenza configura gli ATTI DI EVIDENZA PUBBLICA
(deliberazione a contrarre, bando di gara, aggiudicazione) come
“provvedimenti amministrativi”, come tali assoggettati al relativo regime.
Quindi gli stessi possono essere, in primo luogo, “annullati” o “revocati” in
autotutela. La giurisprudenza, però (a tutela dell’affidamento dei partecipanti),
circonda l’esercizio dei poteri di autotutela di particolari garanzie : così, per
l’annullamento d’ufficio (o per la revoca) di una gara pubblica, si richiede
un’adeguata “motivazione” sulle ragioni di pubblico interesse per cui
l’amministrazione ritiene opportuno agire in autotutela. In secondo luogo,
l’esercizio dei poteri di “annullamento” e di “revoca” deve essere preceduto, a
pena di illegittimità, dalla previa “comunicazione di avvio del relativo
procedimento”, dovendosi garantire all’interessato il contraddittorio
procedimentale.
Riguardo all’applicazione ai procedimenti di evidenza pubblica dell’art.10-bis
della L. 241/1990 (per cui “le amministrazioni devono rispettare l’obbligo di
comunicare al destinatario del provvedimento finale il c.d. PREAVVISO DI
RIGETTO, ad eccezione dei procedimenti concorsuali per esigenze di celerità”),
la giurisprudenza, in base a un’ interpretazione estensiva dell’espressione
«procedure concorsuali», ne ha escluso l’applicazione anche alle gare di
appalto.
Al di là dell’autotutela, poi, gli ATTI DI EVIDENZA PUBBLICA, in quanto
provvedimenti, possono anche essere sospesi o annullati dal giudice
amministrativo.
In particolare, riguardo all’“aggiudicazione”, il Consiglio di Stato ha precisato
che l’AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA è un atto endoprocedimentale, inidoneo a
produrre la lesione definitiva dell’impresa non aggiudicataria, sicché la stessa
non può essere impugnata (tranne quando, per i suoi contenuti, essa impedisce
all’impresa non aggiudicataria l’ulteriore partecipazione al procedimento di
gara). L’AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA è invece sempre impugnabile (anche se
non era stata in precedenza impugnata quella provvisoria) : si tratta infatti di
due atti diversi per soggetto, forma e contenuto. Diversamente, se in
precedenza è stata impugnata l’aggiudicazione provvisoria, diviene allora
obbligatorio impugnare quella definitiva (pena l’improcedibilità del ricorso
proposto contro l’aggiudicazione provvisoria per sopravvenuta carenza di
interesse). La proposizione del “ricorso contro l’aggiudicazione definitiva”
comporta la sospensione automatica del termine per la stipulazione del
contratto fino alla decisione cautelare o di merito sull’impugnazione.
Quindi, dal punto di vista processuale, la regola che bisogna seguire è quella
dell’ “impugnabilità dell’aggiudicazione definitiva” (perché questo è l’atto
conclusivo della gara e, quindi, suscettibile di ledere la situazione soggettiva
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dell’interessato). Però, anche gli ATTI DELLA PROCEDURA DIVERSI


DALL’AGGIUDICAZIONE possono essere impugnati se suscettibili di generare
una lesione immediata, diretta e attuale alla situazione soggettiva di un
soggetto, suscitando così il suo “interesse ad impugnare”. In particolare :

 il BANDO DI GARA si ritiene impugnabile insieme agli atti che ne fanno


applicazione, poiché sono questi che individuano in concreto il “soggetto
leso dal provvedimento” e rendono attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva dell’interessato.
Le “clausole del bando che prescrivono requisiti soggettivi di
partecipazione a una gara la cui carenza determini l’esclusione dalla
gara” sono idonee a generare una lesione immediata, diretta e attuale
alla situazione soggettiva dell’interessato che sia privo di quei requisiti e
a suscitare un suo “interesse all’impugnazione del bando” : la
giurisprudenza, così, afferma l’onere di immediata impugnazione delle
c.d. “clausole escludenti del bando” (configurando il “provvedimento di
esclusione emanato in loro applicazione” come meramente ricognitivo –
cioè che serve ad accertare - di una lesione già prodotta con le clausole
escludenti e, come tale, non autonomamente impugnabile).
Infine il bando può essere impugnato anche quando gli obblighi imposti
all’interessato siano eccessivi rispetto ai contenuti della gara, così da
rendere impossibile per l’interessato accedere alla gara.
 Nel novero degli atti che possono essere impugnati troviamo anche
l’ATTO CHE VA A CONCLUDERE IL SUB-PROCEDIMENTO DI VERIFICA
DELL’OFFERTA ANOMALA : tuttavia, siccome questo procedimento
presuppone un giudizio discrezionale (da parte della commissione
aggiudicatrice), il giudice dovrà appuntare il suo giudizio verificando la
“logicità”, la “ragionevolezza” e la “congruità” delle regole tecniche
usate nel sub procedimento.
 Infine, la giurisprudenza, per tutelare l’iniziativa economica e la libertà di
concorrenza, ha riconosciuto anche la possibilità di impugnare la
DETERMINAZIONE A CONTRARRE nel caso in cui l’amministrazione abbia
illegittimamente deliberato il ricorso alla trattativa privata, frustrando con
ciò l’aspettativa di gara degli interessati.

*ART. 11 CODICE APPALTI : rubricato “Fasi delle procedure di affidamento”.

15. Annullamento degli atti della procedura. Un problema dibattuto è


stato per lungo tempo quello degli effetti dell’ANNULLAMENTO DEGLI ATTI DEL
PROCEDIMENTO DI EVIDENZA PUBBLICA (e in particolare dell’aggiudicazione
definitiva) sul contratto già stipulato, magari in corso di esecuzione. Collegato a
tale problema è quello relativo all’individuazione del giudice (ordinario o
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amministrativo) competente a conoscere delle controversie insorte sulla sorte


del contratto. Il problema della sorte del contratto stipulato in caso di
annullamento dell’aggiudicazione ha trovato oggi una disciplina più compiuta
nell’art. 11 c.c.p., come modificato dal d.lgs. 53/2010 (che ha recepito la c.d.
“direttiva-ricorsi”, le cui disposizioni sono ora confluite nel codice del processo
amministrativo). Vediamo sinteticamente le soluzioni in precedenza proposte
dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Per quanto riguarda il primo problema (gli
effetti dell’annullamento degli atti di evidenza pubblica sul contratto) :

1. Secondo un orientamento consolidato del giudice ordinario,


l’annullamento, con efficacia ex tunc, di un “atto del procedimento di
evidenza pubblica” incide sulla “validità” del contratto, determinandone
l’annullabilità (per un vizio del consenso, per legale incapacità
dell’amministrazione di contrattare, per un difetto di legittimazione in
relazione a quel determinato contratto). Poiché però l’art. 1441 c.c.
dispone che l’azione di annullabilità può essere esperita davanti al
“giudice ordinario” solo dalla parte interessata e la parte interessata è
l’amministrazione, il contratto è annullabile solo su iniziativa dell’ente
pubblico, la cui volontà contrattuale si è formata in modo viziato.
Giustamente, però, questo orientamento è stato criticato perché,
rimettendo le sorti del contratto alla sola iniziativa della parte che ha
provocato l’illegittimità del provvedimento, va a frustrare le aspettative
dei soggetti interessati che, pur avendo ottenuto con l’annullamento
ragione da parte del “giudice amministrativo”, si vedono soddisfatti solo
formalmente (cioè perché l’atto è stato annullato dal giudice
amministrativo) e possono rimanere privi di risultati utili.

2. Il giudice amministrativo ha offerto altre soluzioni. Secondo una prima


soluzione, il contratto sarebbe NULLO per contrasto con norme
imperative (art. 1418 c.c.), quali sono le “norme dell’evidenza pubblica”,
e quindi inidoneo a produrre effetti giuridici nei confronti dell’altro
contraente. Ma questa tesi pregiudica la certezza dei rapporti giuridici.

3. Con riferimento specifico all’AGGIUDICAZIONE, il Consiglio di Stato, prima


dell’emanazione del “codice dei contratti pubblici”, basando il proprio
ragionamento sulla “duplice natura dell’aggiudicazione” (come atto
conclusivo della procedura di scelta del contraente e come atto di
accettazione dell’offerta), ha affermato che il suo annullamento
priverebbe il contratto dell’elemento essenziale dell’ “accordo delle parti”
(art. 1325 c.c.), con conseguente NULLITÀ, rilevabile d’ufficio, senza
un’apposita richiesta da parte del ricorrente. Questa tesi, però, è venuta
a cadere dopo l’emanazione del codice dei contratti pubblici, il cui art.
11, 7° comma dispone che «l’aggiudicazione definitiva non equivale ad
accettazione dell’offerta».
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4. un altro orientamento giurisprudenziale, facendo leva sul meccanismo


dell’INVALIDITÀ AD EFFETTO CADUCANTE, ha precisato che, laddove
sussista l’interesse del ricorrente, l’annullamento di un “atto della
procedura di gara” determina - oltre all’annullamento per illegittimità
derivata degli atti ulteriori del procedimento - la caducazione automatica
del contratto stipulato, senza la necessità che venga promossa un’azione
giudiziaria (questa tesi fonda la propria ragion d’essere sul rapporto di
«consequenzialità» che sussiste tra gli “atti di evidenza pubblica” – in
qualità di presupposto - e il “contratto” – in qualità di atto
consequenziale). Altra giurisprudenza, viceversa, ha stabilito che l’
“annullamento dell’atto” comporta la caducazione non del contratto, ma
dei suoi effetti (ma ad eccezione delle prestazioni già eseguite e facendo
comunque salva la tutela del terzo in buona fede).

Per quanto riguarda, invece, il secondo problema (il giudice competente a


pronunciarsi sulle sorti del contratto), il Consiglio di Stato e la Cassazione –
facendo leva sull’art. 244 del c.c.p. (secondo cui “al giudice amministrativo
sono devolute tutte le controversie riguardanti le procedure di affidamento ”) –
hanno attribuito al “giudice ordinario” le controversie relative al contratto e
alla sua esecuzione, in quanto relative alla fase privatistica.

Ad ogni modo, entrambi i problemi sono stati risolti dal legislatore dopo la
“direttiva-ricorsi del 2007” : con questo intervento, il legislatore nel codice di
procedura amministrativa, dopo aver affermato che “l’annullamento
dell’aggiudicazione produce l’inefficacia del contratto” (risolvendo, in questo
modo, il primo problema), ha specificato che “l’annullamento
dell’aggiudicazione e la pronuncia sull’inefficacia del contratto spettano al
giudice amministrativo” (risolvendo il secondo problema). L’art. 133, 1°comma
del c.p.a. (in cui è confluito l’art. 244 c.c.p.), tra le materie devolute alla
“giurisdizione esclusiva” indica anche le controversie riguardanti le procedure
di evidenza pubblica (incluse quelle risarcitorie e quelle relative alla
dichiarazione di inefficacia del contratto dopo l’annullamento
dell’aggiudicazione) : è bene precisare, però, che la “giurisdizione
amministrativa” non si estende agli “altri vizi del contratto”, che restano
sottoposti alla cognizione del “giudice ordinario”, essendo il contratto
sottoposto alle norme di diritto privato.

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16. Responsabilità della pubblica amministrazione e tutela


giurisdizionale. In relazione alle “procedure di evidenza pubblica” la
pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere degli eventuali
danni cagionati a titolo di responsabilità precontrattuale, contrattuale ed
extracontrattuale.

 La RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE ricorre quando


l’amministrazione viola l’art. 1337 c.c. (e, quindi, nel caso in cui abbia
tenuto un comportamento contrario a buona fede e correttezza). In
particolare, la responsabilità precontrattuale assume rilievo nell’ambito
delle “procedure c.d. negoziate” (tra cui la trattativa privata) : si pensi, ad
esempio, al caso in cui l’amministrazione decida di recedere, senza alcun
motivo, dalle trattative ormai giunte a una fase tale da ingenerare nel
privato un ragionevole affidamento alla stipulazione del contratto. Ma
l’amministrazione risponde dei danni causati a titolo di responsabilità
precontrattuale anche nelle “procedure aperte” (in cui i criteri per la scelta
del contraente sono disciplinati dalla legge) : in questi casi, secondo la
giurisprudenza, la responsabilità precontrattuale è configurabile in tutti i
casi in cui l’amministrazione non rispetti i “principi di correttezza” e
“buona fede” durante il procedimento di scelta del contraente -
indipendentemente dal fatto che rispetti le regole sull’evidenza pubblica e
sul procedimento.
 La RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE si ha, invece, quando
l’amministrazione non dà esecuzione a un contratto già concluso : in tal
caso essa risponde del proprio inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. ;
deve, però, trattarsi di un “inadempimento che non sia sorretto da ragioni
di interesse pubblico”.
 La RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE si ha quando il danno subito
dal privato non deriva dalla violazione degli obblighi contrattuali, ma dalla
violazione del “principio del neminem laedere”. Ad esempio,
l’amministrazione potrebbe essere chiamata a rispondere a titolo di
responsabilità extracontrattuale nel caso in cui sia annullata la “revoca
illegittima dell’aggiudicazione”.

Quanto al giudice competente, il “codice del processo amministrativo”


include tra le controversie devolute alla “giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo” «tutte le controversie relative alle procedure di
affidamento di lavori, servizi e forniture» (art. 133 c.p.a.). Da ciò dobbiamo
dedurre che :

 le questioni relative al “risarcimento del danno da responsabilità


precontrattuale” sono devolute al giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva;
 le questioni relative al “risarcimento del danno da responsabilità
contrattuale” sono, invece, devolute al giudice ordinario, visto che in
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questo caso ci troviamo nella fase di esecuzione del contratto (che è


assoggettata alle regole di diritto comune);
 le questioni relative al “risarcimento del danno da responsabilità
extracontrattuale” sono devolute al giudice amministrativo, se il
danno deriva da un comportamento riconducibile all’esercizio di un
potere; sono invece devolute al giudice ordinario, se il danno deriva
da un comportamento di mero fatto.

Art. 1337 c.c.


Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.

Art. 1218 c.c.


Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che
l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non
imputabile.

Art. 133 c.p.a.


Materie di giurisdizione esclusiva
“Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge:
(…)
e) le controversie:
1) relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture (ivi incluse quelle risarcitorie).

-PARTE 6. RISORSE-

-CAPITOLO 1. LE RISORSE UMANE-

1.La genesi del rapporto di pubblico impiego. Per svolgere le loro funzioni,
le amministrazioni pubbliche si sono sempre servite dell’opera di persone fisiche titolari di uffici.
Fino al 18°sec., però, la gran parte dei pubblici uffici era affidata a personale «onorario», e non
professionale : ciò significa che i funzionari (i dipendenti dell’amministrazione) erano scelti

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all’interno di un ristretto ceto sociale, in virtù del loro rapporto con il monarca-sovrano. A metà
Ottocento, invece, prende avvio un processo di formazione della c.d. “burocrazia professionale in
senso proprio” e si assiste al massiccio ingresso negli apparati pubblici di una classe di funzionari
professionali, mentre la titolarità onoraria degli uffici viene drasticamente circoscritta alle sole
posizioni di vertice. È proprio con la trasformazione del personale da onorario a professionale che si
può iniziare a parlare di “RAPPORTO DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLE PUBBLICHE
AMMINISTRAZIONI” : quel rapporto in forza del quale un soggetto pone volontariamente la
propria prestazione professionale al servizio di un ente pubblico per il conseguimento dei fini
istituzionali di quest’ultimo, ricevendo come corrispettivo una retribuzione.

2. L’impiego pubblico come rapporto di diritto civile speciale. La


“QUALIFICAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLE
AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE” è però controversa. I rapporti di lavoro con le
amministrazioni pubbliche infatti, fin dal loro sorgere non sono mai stati interamente disciplinati
dalle “norme di diritto comune” (codice civile, leggi speciali, contrattazione collettiva) che
regolano invece i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro privati. La posizione di “privilegio” (o di
“specialità”) delle amministrazioni pubbliche portava a ritenere che i rapporti professionali che si
costituivano con queste non potessero ricondursi al genus dei comuni rapporti di lavoro subordinato
stipulati tra datori e prestatori di lavoro privati. Il legislatore, quindi, ha confezionato man mano una
disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella di diritto comune. A partire dall’unità d’Italia, il
rapporto di impiego con lo Stato o con gli enti pubblici era considerato come un comune “rapporto
di lavoro di diritto privato” (o, per essere più precisi, come un “rapporto di diritto civile speciale”).
In questo periodo, l’attenzione della dottrina era concentrata soprattutto sulla distinzione tra
“rapporto d’ufficio” e “rapporto di servizio”. Gli atti relativi al “rapporto d’ufficio” (come ad
esempio l’incardinamento nell’ufficio o l’attribuzione di funzioni) erano considerati “provvedimenti
autoritativi” (quindi soggetti alle norme amministrativistiche); viceversa, gli atti relativi al “rapporto
di servizio” (ad esempio, quelli di costituzione, modificazione o estinzione del rapporto o quelli
relativi alla retribuzione) erano invece considerati “atti di natura contrattuale” (assoggettati alle
norme di diritto privato).

3. L’impiego alle dipendenze di amministrazioni pubbliche come


rapporto di diritto pubblico. Agli inizi del ‘900, però, la qualificazione dei rapporti
di pubblico impiego come “rapporti di diritto civile speciale” viene abbandonata e si assiste alla
“pubblicizzazione di questi rapporti”. Infatti è proprio in questo periodo che si registra un
particolare interesse del legislatore nei confronti della “disciplina speciale dell’impiego pubblico” (a
differenza di quanto mostrato dallo stesso nei confronti della disciplina tradizionale dei rapporti di
lavoro privato) : ci si riferisce, in particolare, a quella serie di norme (relative all’ammissione agli
impieghi, al sistema delle carriere, all’avanzamento, alle dimissioni, ecc.) che andarono a costituire
la base di un vero e proprio “statuto dei dipendenti pubblici” (cioè lo “Statuto degli impiegati civili
dello Stato” del 1908).
Una testimonianza importante di quanto fosse ormai avanzata la percezione della differenza fra
rapporti di pubblico impiego e rapporti di impiego privato sono i due progetti elaborati dalla
Commissione guidata da Ranelletti (che poi divennero due decreti legislativi : il n. 2395 e il n.
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2960, entrambi del 1923), il primo sull’ “ordinamento gerarchico delle amministrazioni statali” e il
secondo sullo “stato giuridico degli impiegati statali” : queste norme rappresentano il momento di
“DEFINITIVA PUBBLICIZZAZIONE DEI RAPPORTI DI PUBBLICO IMPIEGO”.
Del resto, negli anni dell’avvento del regime fascista, la ricostruzione del rapporto di impiego con le
amministrazioni pubbliche fu usata anche per supportare il nuovo “autoritarismo dello Stato” : si
affermava che il contenuto del rapporto di pubblico impiego non era la prestazione professionale,
ma l’assunzione di un obbligo etico, in virtù del quale l’impiegato si impegnava a porre tutte le sue
energie a disposizione dell’autorità.
Ancor più dei condizionamenti politici, in favore della divaricazione definitiva tra rapporti di lavoro
privato e rapporti di pubblico impiego giocò l’istituzione della “giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo” sulle controversie relative al pubblico impiego nel 1923. Dopo la sottrazione delle
controversie di lavoro pubblico alla cognizione del giudice ordinario (che aveva la giurisdizione
sulle controversie di lavoro privato), infatti, si determinò una differenziazione di trattamento
giurisprudenziale : sotto la spinta della giurisprudenza amministrativa si affermarono principi molto
diversi da quelli che nel frattempo andava elaborando il giudice civile per il rapporto di lavoro
privato. Con due diverse serie di norme e con due diversi ordini di giudici chiamati a dirimere le
rispettive controversie, la separazione tra rapporti di pubblico impiego e rapporti di lavoro privato
divenne insuperabile.

4.L’impiego pubblico nella Costituzione e nella successiva


evoluzione legislativa. La Costituzione non si occupa direttamente del tema, anche se
nelle sue disposizioni a volte si fa riferimento ai funzionari, altre volte agli impiegati, altre volte
ancora ai dipendenti. Anche se manca una disciplina organica del “rapporto di impiego pubblico”,
ciò non significa che non ci siano previsioni costituzionali molto rilevanti sull’argomento.
Sovviene, in primo luogo, la prescrizione riguardante le “modalità di accesso ai pubblici uffici” che,
secondo l’art. 51, 1°comma Cost., deve avvenire per tutti i cittadini “in condizioni di eguaglianza”
e, secondo l’art. 97, 3°comma Cost., «mediante concorso». Tali previsioni sono delle specificazioni
del “principio di imparzialità”, in virtù del quale il reclutamento di personale pubblico deve
avvenire in base a criteri «neutrali» (come la parità di trattamento, la professionalità e il merito) e
non sulla base di rapporti di fiducia personale o di affinità politica con i vertici delle
amministrazioni. Si cerca così di arginare un problema antico : quello della separazione tra politica
e amministrazione (che a sua volta trova la propria ragion d’essere nell’enunciazione dell’art. 98
Cost., secondo cui “gli impiegati pubblici sono «al servizio esclusivo della Nazione»”). Un’altra
importante disposizione costituzionale è quella dell’art. 28 Cost., riguardante la “responsabilità che
gli impiegati pubblici assumono nei confronti dei terzi”, qualora essi abbiano tenuto, nell’esercizio
del proprio ufficio, una condotta illecita. Infine, devono ritenersi applicabili all’impiego pubblico
tutte le garanzie costituzionali poste a tutela dei lavoratori, per il corretto svolgimento della
contrattazione collettiva e per il libero svolgimento dell’azione sindacale, di cui agli artt. 35, 36 e
39 Cost.
Le norme costituzionali che abbiamo passato in rassegna ci fanno capire che, se da un lato il
Costituente non ha ignorato l’esistenza di “profili di specialità” nei rapporti di pubblico impiego
(specialità derivante dall’oggetto della prestazione professionale e che consiste nell’esercizio della
pubblica funzione e nel soddisfacimento degli interessi pubblici), non ha però sentito la necessità di
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predisporre un’apposita disciplina speciale, derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune, nè
tantomeno ha affermato la natura pubblicistica di questi rapporti di lavoro. La stessa Corte
costituzionale ha sottolineato che non c’è alcuna esigenza di una «diversificazione del regime del
rapporto» e che la «scelta tra l’uno e l’altro regime resta affidata alla discrezionalità del
legislatore» : ciò significa che questi potrà anche decidere di optare per l’applicabilità delle norme
del codice civile al rapporto di pubblico impiego (non essendoci alcun conflitto tra queste e i
“principi di imparzialità” e “buon andamento”).
Tuttavia negli anni successivi alla Costituzione, non si riuscì a superare la tradizionale
diversificazione di disciplina dei rapporti di impiego pubblico rispetto ai rapporti di lavoro privato.
Basti pensare, infatti, che con il “t.u. degli impiegati civili dello Stato” del 1957 il personale
pubblico fu suddiviso in 4 «carriere» (direttiva, di concetto, esecutiva e ausiliaria) e si ridusse il
numero di gradi : ma questo non cambiò la sostanza dei fatti, dal momento che il legislatore, con
questo testo unico, si era solo limitato a recepire l’orientamento della giurisprudenza amministrativa
e a confermare, quindi, la “CONNOTAZIONE PUBBLICISTICA DEI RAPPORTI DI PUBBLICO
IMPIEGO”. Questa connotazione pubblicistica restò immutata anche dopo le innovazioni degli anni
'70. E lo stesso discorso vale per le riforme degli anni '80 : infatti in questi anni il legislatore,
abbandonando la tradizionale prospettiva pubblicistica, tutta incentrata sulla natura pubblica
dell’ente datore di lavoro, ha spostato la propria attenzione sull’oggetto e sulla qualità della
prestazione professionale richiesta al pubblico dipendente (fu in questo modo che si ottenne il
definitivo superamento delle «carriere» e l’avvento della c.d. «qualifica funzionale»). Inoltre, la L.
93 /1983 (c.d. legge quadro sul pubblico impiego) ricostruiva il quadro normativo del pubblico
impiego in modo da affiancare, alle “previsioni di rango legislativo” (sempre speciali e derogatorie
rispetto alla disciplina di diritto comune) uno spazio lasciato libero alla “disciplina negoziale di
natura privata” (contrattazione collettiva). Però, le iniziali ispirazioni di queste riforme furono in
breve tempo tradite, in parte a causa della reintroduzione, nel tempo, di “meccanismi di
progressione” mediante il passaggio da una qualifica all’altra (tipici del precedente inquadramento
per carriere) e in parte a causa delle innumerevoli invasioni della legge nell’area riservata al
contratto.

5. Il ritorno al diritto comune. Le riforme degli anni '80, pur non avendo prodotto
risultati pratici soddisfacenti, hanno fatto comprendere l’inutilità dell’assoluta distinzione tra
“impiego pubblico” e “impiego privato”. Preso atto di ciò, il legislatore degli anni ’90, con il d.lgs.
29 / 1993 (ora confluito nel d.lgs. 165 / 2001) ha stabilito, in relazione alla materia del “pubblico
impiego”, quanto segue :

 sul piano delle fonti, è stata sancita la prevalenza della disciplina dettata dalla
“contrattazione collettiva nazionale”;
 sul piano degli atti, è stata affermata la natura privatistica degli atti di costituzione,
modificazione ed estinzione del rapporto di lavoro;
 sul piano dei poteri, è stata affermata l’impossibilità, per le amministrazioni, di usufruire di
“poteri pubblicistici”, in considerazione del fatto che le stesse sono chiamate ad operare
«con i poteri del privato datore di lavoro»;
 sul piano dei controlli, è stato escluso il controllo della Corte dei Conti sugli “atti relativi ai
rapporti individuali di lavoro”;
 sul piano processuale, è stata sancita la giurisdizione del giudice del lavoro.
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Il d.lgs. 165 / 2001 ha prodotto la “privatizzazione del pubblico impiego”. Tuttavia la c.d.
«privatizzazione» non è stata generalizzata, poiché ancora oggi vi sono dei rapporti di impiego che,
nonostante tutto, hanno conservato il “regime di diritto pubblico” (infatti restano disciplinati dai
rispettivi ordinamenti : i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori
dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia, il personale della carriera diplomatica e
prefettizia, il personale del Corpo dei vigili del fuoco, i professori e ricercatori universitari).

Fatta eccezione per queste categorie, l’avvento della c.d. “privatizzazione del rapporto di pubblico
impiego” ha comportato la necessità di modificare anche il “sistema delle fonti” : in conseguenza
della riforma, infatti, i diritti e i doveri delle parti trovano la propria fonte nel “Libro sul lavoro del
codice civile” (il libro quinto), nelle “leggi speciali sul rapporto di lavoro subordinato” e soprattutto
nei “contratti collettivi di lavoro”. Non si individua più nella legge lo strumento esclusivo di
regolamentazione del rapporto di pubblico impiego : le principali fonti legislative (e quindi
unilaterali) di disciplina del rapporto sono le stesse fonti legislative che regolano i rapporti di lavoro
privato, ma la fonte principale di regolamentazione è comunque la “contrattazione” (collettiva e
individuale).
Però, anche se l’incidenza della “legge” sul rapporto di pubblico impiego era stata ridotta, l’area
riservata alla “contrattazione collettiva” non è stata del tutto posta al riparo da ripensamenti
espansionistici del legislatore successivo. Infatti la “riforma del 2009” (d.lgs. n. 150 /2009) ha
nuovamente modificato il quadro normativo, innovando la disciplina del rapporto di pubblico
impiego (intervenendo direttamente sul d.lgs. 165 /2001) ed ha attuato una “rilegificazione della
materia”, attraverso un ridimensionamento dell’incidenza della contrattazione collettiva e una
ripubblicizzazione di alcuni istituti che erano stati consegnati al diritto privato.

6. La contrattazione collettiva. Il centro principale della disciplina del pubblico


impiego è costituito dalla c.d. “CONTRATTAZIONE COLLETTIVA”, il cui compito precipuo è
non solo quello di determinare i diritti e gli obblighi riguardanti il rapporto di lavoro, ma anche
quello di regolamentare le relazioni sindacali. Però, dalla contrattazione collettiva sono escluse, per
legge, le materie riguardanti l’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione
sindacale, quelle relative alle prerogative dirigenziali e la materia del conferimento e della revoca
degli incarichi dirigenziali (materie che sono rimesse alla disciplina unilaterale).
Analizziamo adesso la “struttura della contrattazione collettiva” : il “primo livello di contrattazione”
previsto dalla legge (= cioè al vertice dei livelli di contrattazione) è la c.d. “CONTRATTAZIONE
QUADRO” che, secondo l’art. 40 del d.lgs. 165 /2001, ha il compito :

 di definire «fino a un massimo di 4 comparti di contrattazione collettiva nazionale (ad es.


ministeri, regioni ed enti locali, scuola, sanità, università, enti pubblici non economici,
aziende, ecc.) all’interno dei quali devono essere collocati i dipendenti pubblici» (suddivisi
per settori) : in tal modo, i pubblici dipendenti sono raggruppati in “comparti di
contrattazione”, che comprendono settori omogenei;
 di disciplinare “la struttura contrattuale” e la “durata dei contratti collettivi” (nazionali e
integrativi).

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In sostanza la “CONTRATTAZIONE QUADRO” regola il rapporto di lavoro all’interno di ciascun


comparto e fissa “le materie e i limiti a cui deve attenersi la contrattazione integrativa”.
La “CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA” deve poi completare la disciplina dello status
giuridico e del trattamento economico dei pubblici dipendenti in coerenza con le altre fonti
(normative e contrattuali) e con i vincoli di bilancio dell’amministrazione. Essa si svolge solo «nelle
materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali» (= le pubbliche amministrazioni
stipulano contratti integrativi, nel rispetto delle materie e dei limiti prefissati dai contratti nazionali
di comparto).

Per quanto riguarda il procedimento volto a stipulare i contratti collettivi nella materia del pubblico
impiego, la fase della contrattazione vede come parti, da un lato, l’ “Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni” (ARAN) e, dall’altro, le “organizzazioni sindacali più
rappresentative sul piano nazionale”. L’ARAN ha “personalità giuridica di diritto pubblico” ed
autonomia organizzativa e contabile. Essa può definire con propri “regolamenti” le norme
riguardanti la sua organizzazione interna, il suo funzionamento e la sua gestione finanziaria.
La sua struttura di vertice è composta da un “Presidente” (che è nominato con d.p.r. fra persone
esperte in materie giuridico-economiche; questo rappresenta l’Agenzia nei rapporti esterni e dura in
carica 4 anni) e da un “Collegio di indirizzo e controllo” [costituito da 4 membri, di cui due
designati con “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” e altri due nominati dall’ANCI
(Associazione nazionale dei Comuni italiani), dall’UPI (Unione delle Province italiane) e dalla
“Conferenza delle Regioni e delle Province autonome”]. Il collegio delibera a maggioranza dei suoi
membri, che durano in carica 4 anni.
I compiti primari dell’ARAN sono «la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni in
sede di stipulazione dei contratti collettivi nazionali» e «ogni attività relativa alle relazioni sindacali,
alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini
dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi». Essa può inoltre assistere le amministrazioni nel
corso della contrattazione integrativa, qualora esse lo ritengano necessario.
Nell’esercizio della sua funzione rappresentativa, l’ARAN è soggetta all’indirizzo delle pubbliche
amministrazioni, espresso attraverso appositi “comitati di settore”.
Controparti negoziali dell’ARAN (nel procedimento diretto alla stipulazione dei contratti collettivi
pubblici) sono le “organizzazioni sindacali” che siano in possesso dei requisiti indicati dall’art. 43
del d.lgs.165 /2001. Più precisamente l’ARAN :

 ammette alla “contrattazione collettiva nazionale” le «sigle sindacali che aventi (all’interno
del comparto) una rappresentatività non inferiore al 5%», nonché le “Confederazioni ad esse
affiliate”;
 ammette alla “contrattazione collettiva quadro” le “Confederazioni sindacali alle quali siano
affiliate, in almeno due comparti, organizzazioni sindacali rappresentative”.

I soggetti ammessi alla “contrattazione integrativa” sono invece individuati dai contratti
collettivi nazionali.

Passando ora ad analizzare il PROCEDIMENTO VOLTO A CONCLUDERE I CONTRATTI


COLLETTIVI NAZIONALI NEL SETTORE DEL PUBBLICO IMPIEGO, in virtù dell’art. 47 del
d.lgs. 165 /2001 :

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 l’ARAN acquisisce gli indirizzi dei comitati di settore (previamente approvati dal Governo);
 entro 10 giorni dall’acquisizione, formula un’ “ipotesi di accordo” da trasmettere ai comitati
di settore, che sono chiamati ad esprimere il loro parere;
 acquisito il parere favorevole dei Comitati, l’ARAN ne invia il testo alla Corte dei conti,
affinché ne certifichi la compatibilità finanziaria entro 15 giorni (lo stesso discorso non può
essere fatto invece per i “contratti integrativi”, per i quali infatti il controllo è devoluto al
“collegio dei revisori dei conti”, al “collegio sindacale” e agli “uffici centrali di bilancio”);
 ove la Corte si esprima positivamente, il Presidente dell’ARAN sottoscrive il “contratto
collettivo”, che è poi pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana (viceversa,
nel caso in cui la Corte dovesse pronunciarsi negativamente, le parti contraenti devono
riaprire le trattative e raggiungere un nuovo accordo).

Dopo che i contratti collettivi sono stati sottoscritti dalle parti, le pubbliche amministrazioni
adempiono agli obblighi assunti con i “contratti collettivi nazionali” o “integrativi” dalla data della
sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza. Se l’applicazione dei “contratti collettivi”
crea problemi interpretativi, le parti contraenti devono definire consensualmente il significato delle
clausole equivoche, in modo che l’ “accordo di interpretazione autentica” sostituisca la clausola
contrattuale dubbia «fin dall’inizio della vigenza del contratto». L’ARAN è inoltre legittimata a
intervenire in qualunque processo davanti al giudice del lavoro, qualora sia necessario garantire la
corretta interpretazione e l’uniforme applicazione dei contratti collettivi da essa stipulati.

*CONTRATTAZIONE COLLETTIVA = La “contrattazione collettiva” è finalizzata al raggiungimento di un accordo


(cd. contratto collettivo) tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed un'organizzazione sindacale, allo
scopo di stabilire il “trattamento minimo garantito” e le “condizioni di lavoro” alle quali dovranno conformarsi i singoli
contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.
La contrattazione collettiva, pertanto, costituisce il compito principale delle associazioni sindacali.
Con il D.Lgs. 29/1993 la “contrattazione collettiva” viene recepita come fonte di regolamentazione per tutte le materie
relative al rapporto di lavoro dei dipendenti delle P.A. e alle relazioni sindacali.
Attualmente l'art. 40 D.Lgs. 165/2001 (che ha coordinato in un unico testo normativo le disposizioni del d.lgs. 29/1993
e le successive modificazioni e integrazioni) stabilisce che la contrattazione collettiva si svolge su tutte le materie
attinenti il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali. A differenza del sistema precedente, il contratto collettivo, una
volta concluso, è fonte autonoma e diretta di disciplina del rapporto di lavoro, così come accade nel settore privato.
I livelli della contrattazione collettiva corrispondono ai seguenti:
— contratti collettivi nazionali di comparto;
— contratti integrativi.
La contrattazione nazionale si fonda in via principale sui “CONTRATTI COLLETTIVI DI COMPARTO”. I “comparti”
sono settori omogenei o affini della P.A.
I contratti collettivi di comparto sono stipulati dall'Agenzia suddetta, per la parte pubblica, e dalle organizzazioni
sindacali che abbiano nel comparto interessato una rappresentatività non inferiore al 5% (considerando a tal fine la
media tra il dato associativo e il dato elettorale).
Possono, poi, essere stipulati “CONTRATTI COLLETTIVI INTEGRATIVI” (nel rispetto delle materie e dei limiti
prefissati dai contratti nazionali di comparto che, quindi, si pongono come fonte normativa di grado superiore).
Sicché alla contrattazione collettiva nazionale vengono riservate la scelta delle materie negoziabili in sede integrativa,
nonché la definizione delle procedure negoziali e dei soggetti tra i quali si svolgerà la contrattazione integrativa. I
contratti integrativi non possono contenere clausole in contrasto con vincoli risultanti dai contratti nazionali. La
sanzione per l'eventuale difformità è costituita dalla nullità delle clausole in questione.

*Il contratto individuale deve richiamare obbligatoriamente il contratto collettivo, che viene dunque a rappresentare la
principale fonte regolativa del rapporto. L’ARAN stipula i contratti collettivi sulla base di apposite “direttive” ad essa
impartite dalle pubbliche amministrazioni interessate. Sono previsti due livelli di contrattazione : “contratti collettivi

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nazionali di comparto” e “contratti integrativi” (stipulati dalle singole amministrazioni). Con apposito “contratto
quadro” si definiscono i diversi “comparti di contrattazione nazionale” (che sono ad es. Agenzie fiscali, enti pubblici
non economici, Istituti di ricerca, Ministeri, Regioni ed enti locali, Servizio sanitario nazionale, Scuola università :
contratto quadro per il quadriennio 2006-2009).

7. Le vicende e i contenuti del rapporto di lavoro con la P.A. In virtù


dell’art. 97, 3°comma Cost., l’accesso al pubblico impiego deve avvenire mediante un “concorso
pubblico” (che deve essere aperto a tutti i cittadini in possesso dei requisiti richiesti per la
partecipazione). Il concorso pubblico può essere di vari tipi (per titoli, per esami, per titoli ed esami,
per corso-concorso) e mira «all’accertamento della professionalità richiesta dall’amministrazione»
(art. 35, 1°comma del d.lgs. 165 /2001, cioè il “t.u. sul pubblico impiego”). Il corso-concorso
consiste nella partecipazione ad un corso previa valutazione di ammissione, effettuata in base a un
concorso per titoli ed esami, destinato a concludersi con prove finali, scritte e orali.

Nello svolgimento delle procedure selettive tese a reclutare il proprio personale amministrativo, gli
enti pubblici devono osservare i seguenti principi (art. 35, 3°comma) : 1) pubblicizzare
adeguatamente la “selezione” e le “modalità di svolgimento del concorso”; 2) adottare meccanismi
oggettivi e trasparenti nella verifica del “possesso dei requisiti richiesti”; 3) rispettare il “principio
delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori”; 4) decentrare le procedure di reclutamento; 4)
garantire che le commissioni siano composte solo da esperti di comprovata competenza nelle
materie di concorso (e che non siano appartenenti all’ambiente politico o sindacale).
Però, la regola generale per cui il reclutamento del personale degli enti pubblici deve avvenire
mediante “concorso” concosce un’eccezione, giacchè l’art. 35 del d.lgs. 165 /2001 aggiunge che
“l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche può avvenire anche mediante avviamento degli
iscritti nelle liste di collocamento o per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di
collocamento”.
Dopo il positivo superamento del concorso e l’approvazione della graduatoria finale, l’art. 35 del
d.lgs. 165 /2001 precisa che «l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto
individuale di lavoro» : ciò ci deve far comprendere che la “costituzione del rapporto di lavoro
pubblico” non è più la conseguenza dell’esercizio di un potere unilaterale dell’amministrazione, ma
è il risultato di un “atto negoziale” concluso tra due parti (il privato e l’ente pubblico) in posizione
paritaria.
Come ogni rapporto di lavoro subordinato, anche l’impiego pubblico genera diritti e doveri in capo
ai dipendenti delle varie amministrazioni. I diritti si suddividono in “diritti patrimoniali” e “non
patrimoniali”.

 Tra i “diritti patrimoniali” ricordiamo il “diritto alla retribuzione” che, ai sensi dell’art. 36
Cost., deve essere «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» svolto dal dipendente e
«sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». L’art. 45,
1°comma del d.lgs. 165 /2001 rimette comunque alla contrattazione collettiva il compito di
definire il “trattamento economico fondamentale” e “accessorio” dei dipendenti pubblici. La
retribuzione è composta sia da “componenti fisse” (come ad es., la c.d. tredicesima
mensilità) che da “componenti eventuali” (come ad es., il c.d. compenso per il “lavoro
straordinario” : per il lavoro, cioè, svolto fuori dall’orario di lavoro).

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 Quanto ai “diritti non patrimoniali”, la legge disciplina solo il “diritto alle mansioni”,
precisando che “il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per cui è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente
acquisito” (art. 52, 1°comma del d.lgs. 165 /2001). Tuttavia l’impiegato pubblico non vanta
alcuna pretesa ad essere assegnato a un ufficio piuttosto che a un altro, giacché
l’amministrazione può sempre attribuirgli le mansioni ritenute più idonee in base alle
proprie esigenze organizzative. I dipendenti pubblici sono inquadrati in “3 diverse aree
funzionali”, in relazione alle quali vige una particolare disciplina concernente la
“progressione” (cioè il passaggio dall’area di competenza a quella successiva). In
conseguenza di ciò :
1) le “progressioni all’interno della stessa area” avvengono secondo “criteri di selettività
specifici”, in funzione delle qualità professionali, dell’attività svolta e dei risultati
raggiunti, attraverso l’attribuzione di “fasce di merito”.
2) Le “progressioni fra aree diverse” avvengono invece tramite “concorso pubblico”.

In ogni caso, il dipendente pubblico non può mai essere adibito a svolgere mansioni
inferiori a quelle corrispondenti alla sua posizione giuridica; viceversa, è possibile che egli
venga adibito allo svolgimento di funzioni superiori (ma solo in ipotesi tassative, cioè nel
caso di «vacanza di posto in organico per non più di 6 mesi, prorogabili fino a 12», o nel
caso di «sostituzione di un altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto»
(art. 52, 2°comma del d.lgs. 165 /2001). Fuori dalle ipotesi di cui al 2°comma,
l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori è nulla. Nel caso di assegnazione a
mansioni superiori, il dipendente pubblico ha diritto al trattamento economico previsto per
la qualifica superiore a cui è stato adibito.
Tra i “diritti non patrimoniali” rientrano i c.d. “diritti sindacali” (come il diritto di
associazione e di assemblea o il diritto di sciopero). Non sono invece diritti non patrimoniali
il c.d. “diritto alla progressione in carriera” e il c.d. “diritto alla sede” : il primo è infatti
subordinato a una valutazione discrezionale dell’amministrazione o al superamento di prove
selettive interne. Quanto al secondo, invece, è più corretto parlare di un “interesse legittimo
alla conservazione della sede”, giacchè l’amministrazione può sempre valutare la necessità
di trasferire il dipendente in un’altra sede quando ricorrono determinate evenienze di
pubblico interesse.

Per quanto riguarda i “doveri dei dipendenti” (enunciati nel “Codice di comportamento” redatto dal
Ministro della funzione pubblica), gli stessi non si discostano dai classici “doveri che gravano sui
lavoratori del settore privato” : si pensi, ad esempio, al dovere di obbedienza e diligenza, al dovere
di fedeltà nei confronti dell’ente pubblico di appartenenza o al dovere di buona condotta. Inoltre
ciascuna pubblica amministrazione definisce un proprio codice di comportamento, che integra e
specifica questo codice di comportamento generale.
La violazione di questi obblighi determina la “responsabilità disciplinare del dipendente pubblico”,
come stabilito dall’art. 55 del d.lgs. 165 /2001, e la conseguente irrogazione di particolari
“sanzioni” nei suoi confronti (come il “rimprovero”, sia verbale che scritto, la “multa”, la
“sospensione dal lavoro e dalla retribuzione” e il “licenziamento”). Il “procedimento disciplinare” è
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disciplinato dall’art. 55-bis del d.lgs. 165 /2001 : questa norma stabilisce che, per le “infrazioni
meno gravi”, il dirigente competente deve contestare l’addebito al dipendente entro 10 giorni e poi
convocarlo ad una riunione, in cui egli può essere assistito da un procuratore o da un rappresentante
sindacale. Dopo aver concluso l’istruttoria, il dirigente conclude il procedimento disciplinare,
irrogando entro 60 giorni la “sanzione prevista dal contratto collettivo” o archiviando il caso (ove
non siano emersi elementi di prova a sostegno della responsabilità disciplinare del dipendente). Per
le “infrazioni più gravi”, viceversa, è stabilito che «ciascuna amministrazione individua l’ufficio
competente, che contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa,
istruisce e conclude il procedimento».
La violazione dei termini prescritti comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione
disciplinare, o per il dipendente la decadenza dall’esercizio del diritto di difesa. La contrattazione
collettiva non può istituire procedure d’impugnazione dei provvedimenti disciplinari, ma può
disciplinare “procedure di conciliazione non obbligatoria” (fuori dei casi per cui è prevista la
sanzione disciplinare del licenziamento) da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore
a 30 giorni dalla contestazione dell’addebito : la sanzione concordemente determinata all’esito di
tali procedure non può essere diversa da quella prevista (dalla legge o dal contratto collettivo) per
l’infrazione per cui si procede e non è soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento
disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a
decorrere in caso di conclusione con esito negativo.
Anche il rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. può subire nel corso del suo svolgimento
delle “modifiche” : si pensi al “distacco presso un’altra amministrazione”, al “collocamento fuori
ruolo”, all’ “aspettativa per infermità fisica”o all’ “aspettativa sindacale”.
Quanto all’ “estinzione del rapporto di pubblico impiego”, esso tende a coincidere con l’età
lavorativa del dipendente. Tuttavia l’estinzione del rapporto di pubblico impiego può conseguire
anche ad altri eventi, come le “dimissioni volontarie del dipendente”, il “collocamento a riposo”
(per il raggiungimento dell’età pensionabile), la “dispensa per inidoneità psicofisica”, o il
“licenziamento per motivi disciplinari”.

8. La dirigenza pubblica. La DIRIGENZA PUBBLICA ha trovato un primo


riconoscimento normativo col d.p.r. 748 / 1972. In seguito tutta la materia è stata riorganizzata dal
d.lgs. 165 /2001. L’intento del legislatore è stato quello di attuare una separazione tra “politica” e
“amministrazione” e distinguere tra le “funzioni di indirizzo e controllo” (spettanti agli organi di
governo) e le “funzioni di gestione amministrativa” (spettanti ai dirigenti). Secondo l’art. 4. del
d.lgs. 165 /2001, «gli organi di governo (cioè i Ministri competenti) esercitano le “funzioni di
indirizzo politico-amministrativo”, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare, e verificano la
rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti». I
dirigenti pubblici sono invece responsabili dell’attività amministrativa e del suo risultato : la cura
concreta degli interessi pubblici, nel rispetto degli indirizzi e degli obiettivi fissati dagli organi
politici. Questi, però, non possono «revocare, riformare, avocare a sé o adottare provvedimenti di
competenza dei dirigenti» (art. 14 del d.lgs. 165 /2001) : infatti, in caso di inerzia o ritardo
nell’adozione di questi provvedimenti, il Ministro può fissare un termine perentorio entro cui il
dirigente deve adottare i provvedimenti e, ove l’inerzia persista, il Ministro può nominare un
“commissario ad acta” (cioè il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia).
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Detto ciò, analizziamo ora la “struttura della dirigenza pubblica” : la dirigenza pubblica è articolata
in due fasce con proprie funzioni : la “dirigenza generale” e “quella non generale”. Inoltre presso
ogni amministrazione dello Stato è istituito il “ruolo dei dirigenti”, suddiviso in prima e seconda
fascia. Il presupposto per lo svolgimento delle funzioni dirigenziali è costituito dal superamento di
un “pubblico concorso”.

 Nella “prima fascia” sono inseriti i “dirigenti generali” (che sono così chiamati perché non
solo possono formulare proposte al Ministro competente, ma devono anche attuare i piani e i
programmi definiti dal Ministro) e i “dirigenti assunti con un concorso pubblico per titoli ed
esami” indetto dalle singole amministrazioni in base ai criteri generali stabiliti con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri.
 I dirigenti della “seconda fascia” sono invece reclutati tramite un «concorso per esami»
indetto dalle singole amministrazioni o per «corso-concorso selettivo di formazione»
bandito dalla “Scuola superiore della pubblica amministrazione”.

Una volta reclutati, ai dirigenti è conferito l’incarico con un provvedimento (a cui poi accede il
contratto individuale). In quest’ottica, l’art. 19 del d.lgs. 165 / 2001 stabilisce che il “provvedimento
di conferimento dell’incarico” deve individuare :

 l’oggetto dell’incarico;
 gli obiettivi da perseguire (nel rispetto dei programmi definiti dall’organo di vertice);
 la durata dell'incarico (che non può essere inferiore a 3 anni e superiore a 5 anni).

Per quanto riguarda la “revoca dall’incarico dirigenziale”, l’attuale disciplina prevede due diverse
fattispecie : 1) la prima, applicabile ai “dirigenti apicali”, è costituita dallo “spoils system” (sistema
che subordina la revoca al voto di fiducia al Governo : si pensi ad esempio ai “Segretari generali dei
Ministeri” o ai “direttori degli uffici dirigenziali generali”, che decadono automaticamente dalla
carica entro 90 giorni dal voto sulla fiducia al Governo); 2) la seconda, valida per “tutti gli altri
dirigenti” (e regolata dall’art. 21 del d.lgs. 165 /2001) prevede che “gli incarichi dirigenziali
possono essere revocati solo nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale”
(si pensi, ad esempio, al “mancato raggiungimento degli obiettivi”, all’ “inosservanza delle direttive
impartite al dirigente” o alla “colpevole violazione del dovere di vigilare sul rispetto (da parte del
personale assegnato ai propri uffici) degli standard fissati dall’amministrazione”). In tutte queste
ipotesi comunque la legge permette al dirigente pubblico di tutelare i propri diritti davanti al
“giudice del lavoro”. Infatti la riforma del pubblico impiego ha devoluto alla giurisdizione civile
tutte le controversie relative al rapporto di pubblico impiego : più precisamente, l’art. 63 del d.lgs.
165 /2001 riserva alla “cognizione del giudice del lavoro” le controversie riguardanti i rapporti
d’impiego pubblico (incluse quelle riguardanti l’assunzione, il conferimento e la revoca degli
incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale).

*Ruolo = registro in cui sono elencati nominativi o raccolti dati; nell'amministrazione, composizione e ordinamento del personale.

-CAPITOLO 2. LE RISORSE FINANZIARIE-


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1. Le fonti. Le disposizioni comunitarie. Per poter perseguire i fini pubblici è


necessario un elemento fondamentale : le risorse finanziarie. Sul rapporto tra “entrate che
finanziano le spese pubbliche” si sviluppa l’attività finanziaria pubblica. Le entrate sono conseguite
prevalentemente attraverso il prelievo fiscale e, in minima parte, attraverso la gestione dei beni
appartenenti al patrimonio pubblico.
L’acquisizione e la gestione di risorse finanziarie trova la sua disciplina nella Costituzione e nella
normativa ordinaria. Ma, dopo l’introduzione della moneta unica, le “politiche di bilancio” degli
Stati membri dell’UE sono condizionate anche dal diritto europeo. Infatti a partire dal Trattato di
Maastricht del 1992 (entrato in vigore nel 1993) sono stati introdotti numerosi vincoli a tutela del
Sistema Monetario Europeo, che hanno riguardato in particolare il deficit (cioè il disavanzo annuale
di uno Stato)  e il debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo (il rapporto deficit / PIL deve
essere contenuto entro il 3% e il rapporto debito pubblico / PIL entro il 60%) : tali vincoli servono a
far sì che gli Stati raggiungano condizioni finanziarie stabili. In seguito è stato adottato il “Patto di
stabilità e crescita” (1997), che impone agli Stati aderenti all’euro di impegnarsi a raggiungere un
saldo di bilancio “prossimo al pareggio” o “positivo”.
Nel Patto del 1997 l’Unione si è dotata degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni
agli Stati che non rispettino i vincoli imposti nel 1993. Negli ultimi anni, dopo la crisi finanziaria
del 2008, i vincoli all’attività finanziaria degli Stati membri sono diventati sempre più stringenti : le
istituzioni comunitarie controllano non più solo successivamente, ma anche preventivamente le
politiche di bilancio nazionali, per raggiungere la stabilità finanziaria nell’eurozona.
Con il “Consiglio ECOFIN del 2010” è stato introdotto - allo scopo di coordinare le politiche
economiche degli Stati membri - il «Semestre europeo», che prevede la trasmissione alla
Commissione europea degli “obiettivi programmatici di finanza pubblica” e delle “politiche
economiche e di bilancio” di ciascun Paese prima della loro attuazione a livello nazionale.

 Il «semestre europeo» inizia a gennaio, quando la Commissione, nell’analizzare la crescita,


avanza le “proposte strategiche per l’economia europea”;
 fatto ciò, nel mese di marzo la Commissione predispone un “rapporto” in base a cui il
Consiglio dell’UE indica i principali obiettivi di politica economica che gli Stati membri
dovranno perseguire;
 ad aprile, gli Stati membri, sulla base delle indicazioni del Consiglio, comunicano alla
Commissione i propri obiettivi;
 a giugno e luglio, il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri finanziari, dopo aver
valutato i programmi presentati dagli Stati membri, forniscono delle indicazioni specifiche a
ciascun Paese (invitando gli stessi, se necessario, a rivedere gli obiettivi programmati);
 nei mesi successivi, gli Stati membri, sulla base delle raccomandazioni del Consiglio e della
Commissione, predispongono il bilancio e le misure necessarie per realizzare la manovra di
finanza pubblica.

Il nostro Paese, con la L. 39 / 2011 ha modificato il “ciclo di bilancio” adeguandolo a queste nuove
regole comunitarie.

Nel 2011 è stato poi adottato il c.d. “Patto Euro Plus”, con la finalità di fare un salto di qualità nel
coordinamento delle politiche economiche.
Sempre nel 2011 è stato adottato un pacchetto di sei misure (c.d. “Six-pack” : composto da 5
regolamenti e una direttiva), che :
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 ha imposto ai Paesi che hanno un rapporto debito / PIL superiore al 60% di ridurre
progressivamente la parte eccedente di 1/20 all’anno;
 ha imposto l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del “pareggio di
bilancio” con un miglioramento annuale dei saldi di bilancio pari ad almeno lo 0,5% ;
 ha previsto un semi-automatismo delle procedure per l’irrogazione delle sanzioni per i Paesi
che violano le regole del Patto.
L’aggravarsi della crisi ha portato nel 2012 all’adozione di un Trattato, il c.d. “Fiscal compact” :
esso è un accordo che formalmente non fa parte del corpus normativo dell’UE e che :
 comporta, per gli Stati che lo hanno ratificato, la possibilità di poter beneficiare del “Fondo
salva-Stati” previsto dal Trattato istitutivo del MES (“Meccanismo europeo di stabilità”);
 conferma l’obbligo per i Paesi contraenti con un debito pubblico superiore al 60% del PIL
di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni (a un ritmo pari ad 1/20 dell’eccedenza in
ciascuna annualità);
 conferma l’obbligo di mantenere il deficit pubblico (cioè il disavanzo annuale) sempre al di
sotto del 3% del PIL;
 impone (e questa è la novità più importante) ai vari Stati di inserire la regola del “pareggio
di bilancio” (cioè del sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) in «disposizioni vincolanti
e di natura permanente - preferibilmente costituzionale» (in Italia la regola è stata inserita in
Costituzione con la legge cost. n. 1 / 2012, che ha modificato l’art. 81; infatti l’art. 81,
1°comma Cost. prevede ora che : “Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del
proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo
economico”);
 prevede l’istituzione di un organismo indipendente di sorveglianza responsabile, a livello
nazionale, del rispetto dei vincoli comunitari;
 prevede 1’impegno di inserire le nuove regole nella legislazione nazionale (l’Italia vi ha
adempiuto con L. cost. 1 / 2012).
Va infine segnalato il “Two Pack” (entrato in vigore nel 2013) : esso si compone di due regolamenti
ed ha rafforzato il Six Pack. Il "Two-pack" introduce un calendario e regole di bilancio comuni per
gli Stati membri dell’eurozona. In virtù di queste nuove norme :
 gli Stati devono presentare il “progetto di bilancio” per l’anno successivo alla Commissione
entro il 15 ottobre (quindi prima che sia approvato da parte dei singoli Parlamenti nazionali);
 la Commissione, entro il 30 novembre, valuterà i progetti di bilancio, verificando la loro
conformità alle raccomandazioni formulate dalle istituzioni comunitarie nell’ambito del
Semestre europeo : se dovesse riscontrarsi un’inosservanza particolarmente grave degli
obblighi assunti nel Patto di stabilità e crescita, potranno essere chieste delle modifiche del
progetto di bilancio per tener conto delle osservazioni formulate dalla Commissione;
 la legge di bilancio annuale dovrà poi essere approvata entro i1 31 dicembre.

Le disposizioni costituzionali. Tra le disposizioni costituzionali più rilevanti per


l’attività finanziaria ricordiamo :

 L’art. 41 Cost., che - regolamentando l’attività economica - fa emergere la necessità di una


sua “programmazione” (“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché
l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”).

 L’art. 23 Cost., che introduce una riserva di legge (relativa) in materia tributaria (“Nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”).

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 L’art. 53 Cost., che prevede l’obbligo, gravante su tutti i cittadini, della contribuzione, in
base alla propria capacità contributiva, imponendo un sistema orientato alla “progressività
delle imposte”, che garantisce un maggior sacrificio fiscale ai contribuenti con un reddito
più alto (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).

 L’art.100 Cost., che disciplina i controlli esercitati dalla Corte dei conti (come il “controllo
preventivo di legittimità” sugli atti del Governo e il “controllo successivo sulla gestione del
bilancio statale”;
 L’art. 72, 4°comma Cost., che statuisce che per i “disegni di legge relativi ai bilanci e ai
consuntivi” deve essere seguita la procedura normale di approvazione diretta da parte delle
Camere;
 L’art. 75, 2°comma Cost., che esclude la possibilità che la “legge di bilancio” possa essere
sottoposta a referendum (“Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di
bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione alla ratifica dei trattati
internazionali”).

La disposizione più importante è però l’art. 81 Cost. : si tratta di una norma fondamentale che di
recente, dopo gli impegni che il nostro Paese ha assunto in ambito comunitario con il c.d. “Fiscal
compact”, è stata riscritta con la legge cost. 1 / 2012 (che è rubricata «introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»).

1. L’art. 81, 1°comma Cost., come riscritto dalla riforma costituzionale del 2012, dispone che
“lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio , tenendo conto
delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”.
2. L’art. 81, 2°comma dispone che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo per
considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a
maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali” :
dunque, si può ricorrere all’indebitamento in considerazione degli effetti del ciclo
economico e al verificarsi di eventi eccezionali (in quest’ultimo caso, però, è necessaria una
maggioranza qualificata del Parlamento : cioè la maggioranza assoluta dei componenti delle
due Camere). Per eventi eccezionali si intendono i «periodi di grave recessione economica»
e «gli eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato (come ad esempio una
calamità naturali) con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria del Paese».
3. Il nuovo art. 81 Cost. riprende poi testualmente molte disposizioni già contenute nella sua
vecchia formulazione. Così, anticipa al 3°comma un principio fondamentale (prima
contenuto nell’ultimo comma dell’art. 81 Cost.), cioè “l’obbligo della copertura finanziaria
per qualsiasi legge che comporti nuovi o maggiori oneri” (la vecchia formulazione parlava
di “spese”) : ciascuna previsione legislativa che comporti delle spese deve indicare, quindi, i
mezzi per far fronte all’accresciuto fabbisogno, con la conseguenza che è incostituzionale
una “legge di spesa” che non indichi i mezzi di copertura. Rispetto alla formulazione
precedente, è scomparso il riferimento ad «ogni altra legge», con l’importante conseguenza
che questa prescrizione costituzionale riguarda anche la legge di bilancio (che prima della
novella dell’art. 81 Cost., non poteva introdurre nuove spese).
Infatti il 3°comma dell’art. 81 Cost., nella precedente formulazione, disponeva che con la
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legge di approvazione del bilancio non si potevano stabilire nuovi tributi e nuove spese : di
questa previsione non c’è più traccia nel nuovo art. 81 Cost.; ne consegue che con la legge
di bilancio è possibile introdurre nuove disposizioni di entrata e di spesa.
4. Il 4°comma dell’attuale art. 81 Cost. dispone che «le Camere approvano ogni anno il
bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo» (riprendendo così un principio
contenuto nel 1°comma del vecchio art. 81 Cost.) : da questa disposizione si evince che la
“legge di bilancio” è una legge ad approvazione annuale (anche se oggi essa ha un respiro
triennale). La norma chiarisce anche che il bilancio deve essere predisposto e presentato dal
Governo, ma la sua approvazione spetta al Parlamento.
5. Il 5°comma dell’attuale art. 81 Cost. disciplina il ricorso all’ “esercizio provvisorio”
(riprendendo quanto stabilito dal 2°comma del vecchio art. 81 Cost.) : infatti la “legge di
bilancio” è una legge obbligatoria, perchè la sua approvazione è necessaria per autorizzare
la gestione della spesa. Ne consegue che, se il bilancio non viene approvato entro il 31
dicembre, il Governo non è autorizzato ad effettuare nessun pagamento, nemmeno quelli di
carattere obbligatorio (come la corresponsione degli stipendi agli impiegati pubblici). Per
evitare la paralisi nella gestione finanziaria in caso di mancata approvazione della legge di
bilancio, si prevede quindi l’esercizio provvisorio, con due vincoli : uno formale (perchè
l’autorizzazione può essere concessa solo con legge), l’altro sostanziale (poiché l’esercizio
provvisorio non può essere di durata superiore a 4 mesi).
6. Infine, il 6°comma del nuovo art. 81 Cost. prevede che con “legge approvata a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera”, si stabiliscano il contenuto della legge di
bilancio e le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le
spese dei bilanci e la sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni.

Oltre a riscrivere l’art. 81 Cost., la legge cost. 1 / 2012 ha modificato anche altre disposizioni
costituzionali. In particolare :

 ha premesso al 1°comma dell’art. 97 Cost. la seguente previsione : «le pubbliche


amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano
l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»;
 ha modificato l’art. 117 Cost., trasferendo alla competenza esclusiva dello Stato
l’“armonizzazione dei bilanci pubblici” (materia prima attribuita alla competenza
legislativa concorrente Stato-Regioni);
 ha integrato l’art. 119 Cost., stabilendo che gli enti locali e le Regioni devono esercitare
l’autonomia di entrata e di spesa “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”,
aggiungendo anche che essi “concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e
finanziari derivanti dall’ordinamento comunitario”;
 ha integrato il 6°comma dell’art. 119 Cost., dove si stabilisce che gli enti locali e le Regioni
possono ricorrere all’ “indebitamento” solo per finanziare spese di investimento,
aggiungendo che il ricorso all’indebitamento è possibile «a condizione che per il complesso
degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio».

L’art. 119 Cost. è particolarmente importante perché, dopo la legge cost. 3 / 2001, ha introdotto il
c.d. “federalismo fiscale”. L’art. 119 Cost., al 1°comma, stabilisce che “gli enti locali e le Regioni
hanno “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Il 2°comma prevede che gli enti territoriali

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abbiano risorse autonome, a cui si aggiungono le compartecipazioni al gettito di tributi erariali


riferibili al loro territorio ( sempre 2°comma) e quelle derivanti dal “fondo perequativo”, istituito
dallo Stato e diretto a soccorrere i territori con minore capacità fiscale per abitante (3°comma). Al
4°comma si statuisce il PRINCIPIO DI “AUTOSUFFICIENZA FINANZIARIA”, disponendo che
le suddette fonti di finanziamento consentono agli enti territoriali di finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite. Al 5°comma, infine, si dispone che lo Stato può destinare
“risorse aggiuntive” ed effettuare “interventi speciali a favore di determinati enti territoriali” per
promuovere lo sviluppo economico e la solidarietà sociale. Il 6°comma precisa che Regioni ed enti
locali possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare “spese di investimento”.
L’AUTONOMIA DI ENTRATA E DI SPESA e l’AUTOSUFFICIENZA FINANZIARIA degli enti
territoriali hanno trovato attuazione con la L. 42 / 2009 : questa, nell’ambito della cornice
costituzionale dettata dall’art. 119 Cost., delega il Governo a realizzare il federalismo fiscale.

VECCHIO ART. 81 COST. = 1°comma : «Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati
dal governo.
2°comma : L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a 4 mesi.
3° comma : Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
4° comma : Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».

NUOVO ART. 81 COST. = 1°comma : «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio,
tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
2°comma : Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa
autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi
eccezionali.
3°comma : Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
4° comma : Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
5° comma : L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a quattro mesi.
6° comma : Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le
entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti
con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principî definiti con
legge costituzionale».

La normativa ordinaria. Con riguardo alla normativa ordinaria, si sono susseguite negli
anni numerose “leggi di riforma della contabilità pubblica”.
Tra quelle più remote va segnalato il r.d. 2440 / 1923 (c.d. legge di contabilità dello Stato); mentre
tra le più importanti va ricordata la legge 468 / 1978, con cui il legislatore ha riformato la
“contabilità dello Stato” in materia di bilancio. È stata poi emanata la c.d. «legge di contabilità e
finanza pubblica» (L. 196 / 2009) : questa legge riproduce in parte il modello della L. 468 / 1978
(che sostituisce, abrogandola), tenendo conto però dell’evoluzione intervenuta in campo europeo e
raccordandosi con quanto previsto per gli enti territoriali dalla L. 42 / 2009 in materia di
federalismo fiscale.

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Il processo di riforma è proseguito con la L. 39 / 2011, che ha modificato la L. 196 / 2009,


recependo le nuove regole poste a livello comunitario con il c.d. «semestre europeo».
Dopo la riforma costituzionale introdotta con la legge cost. 1 / 2012, è stata emanata la L. 243 /
2012, che è una «norma interposta», vista la maggioranza qualificata richiesta per la sua
approvazione (maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera). Questa legge, in
ottemperanza a quanto stabilito dalla legge cost. 1 / 2012 : 1) individua le “norme fondamentali” e i
“criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci pubblici e la sostenibilità
del debito delle pubbliche amministrazioni”; 2) disciplina la facoltà degli enti locali e delle Regioni
di ricorrere all’indebitamento ex art. 119, 6°comma Cost.; 3) disciplina il contenuto della legge di
bilancio dello Stato e detta le norme per l’istituzione e il funzionamento, presso le Camere, di un
organismo indipendente, che ha il compito di valutare l’osservanza delle regole di bilancio.
I “principi fondamentali in materia di bilancio e contabilità delle Regioni” sono contenuti nel d.lgs.
76 / 2000; mentre l’ “ordinamento finanziario e contabile degli enti locali” è disciplinato dal d.lgs.
267 / 2000 (“t.u. degli enti locali”).

2. Il bilancio dello Stato. Il BILANCIO DELLO STATO è un importante documento


contabile (approvato con legge) con cui il Parlamento autorizza il Governo ad effettuare le spese.
Esso, pur avendo un “carattere preventivo” (è adottato, cioè, prima dell’inizio del ciclo di gestione),
non svolge solo una “funzione previsionale”, ma (almeno per quanto riguarda le spese) esercita
anche un’importante “funzione autorizzatoria” : infatti l’amministrazione può effettuare solo le
SPESE previste in bilancio e nei limiti quantitativi dello stanziamento, a differenza delle ENTRATE,
per cui le indicazioni di bilancio sono solo una mera previsione (poiché la loro acquisizione è
autorizzata da altre leggi). [*Ricordiamo che : esistono due tipi di bilancio : il “BILANCIO DI
PREVISIONE” (che registra le operazioni che si prevede di realizzare nel corso dell’anno) e il
“BILANCIO CONSUNTIVO” o rendiconto (che riguarda le operazioni effettivamente realizzate).]
Il “bilancio di previsione” è costituito da un “bilancio annuale” (avente una funzione autorizzatoria)
e da un “bilancio pluriennale” (avente solo una funzione programmatoria) e questi due bilanci sono
approvati insieme.

Il “bilancio di previsione” dello Stato - che va redatto “a legislazione vigente” (secondo le leggi in
vigore) e sulla base di alcuni “parametri indicati nel DEF” (Documento di Economia e Finanza) -
con la L. 196 / 2009 ha assunto un respiro triennale : per cui, oltre alle previsioni di entrata e di
spesa del primo anno, devono essere indicate anche quelle relative al secondo e al terzo anno (anche
se la funzione di “autorizzazione per le spese” è limitata alle sole previsioni del primo anno).
Es. = Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2016 e bilancio pluriennale per il
triennio 2016-2018.

Il bilancio può essere di tipo :

1) FINANZIARIO : se registra tutti i fatti di gestione che comportano un movimento di


denaro (sia in entrata che in uscita); in pratica, segnala le spese e le entrate riferibili
a un certo esercizio finanziario.
2) PATRIMONIALE : se riporta i fatti di gestione che incidono sul patrimonio; in
pratica, dice se c’è stato un arricchimento o un impoverimento.
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3) ECONOMICO : se prende in considerazione i costi e i ricavi; in pratica, spiega


perché il patrimonio è aumentato o diminuito, verificando quanta ricchezza è
imputabile a un determinato fattore produttivo.

Il bilancio dello Stato è innanzitutto un “BILANCIO FINANZIARIO”, ma è anche un “bilancio


economico” e un “bilancio patrimoniale”.
I BILANCI FINANZIARI possono essere redatti in termini di “competenza” e di “cassa” :

 nel “BILANCIO DI COMPETENZA” vengono riportate le entrate e le spese nella loro fase
iniziale; In questo bilancio si fa riferimento al momento in cui sorge l’obbligazione (che
consiste per le spese nell’ “impegno di pagamento” e per le entrate nell’ “accertamento delle
stesse”). In pratica, il “bilancio di competenza” riporta le entrate che si ha diritto di
riscuotere e il limite massimo degli impegni di pagamento che l’amministrazione può
assumere.
 nel “BILANCIO DI CASSA” si registrano le entrate e le spese nella loro fase finale. In
questo bilancio si fa riferimento al momento in cui avviene l’effettivo movimento di denaro
dalle casse dell’amministrazione (per le spese il momento del pagamento, per le entrate il
momento del versamento). In pratica, il “bilancio di cassa” indica le entrate che si prevede
effettivamente di riscuotere e il limite massimo delle spese che possono essere realmente
sostenute.

Dal 1978 il bilancio dello Stato è un “bilancio misto” (cioè di cassa e di competenza). La L. 196 /
2009 conteneva inizialmente una norma di delega al Governo per il passaggio da un bilancio misto
a un bilancio di sola cassa, ma la L. 39 / 2011 ha modificato questa norma di delega, prevedendo di
nuovo un bilancio misto.

Tuttavia, dato che l’iter procedimentale delle entrate e delle spese può (come accade spesso) non
concludersi entro l’anno finanziario, possono in questo caso formarsi dei “residui”, che si
distinguono in attivi (quando si ha un’entrata accertata, ma non versata nel corso dell’anno
finanziario) o passivi (in caso di spesa impegnata, ma non pagata nel corso dell’anno). Quindi,
accanto alle previsioni di entrata e di spesa, nel “BILANCIO FINANZIARIO DELLO STATO”
devono essere riportati anche i valori dei residui attivi e passivi.
Differente dal “bilancio previsionale” è, invece, il “BILANCIO PLURIENNALE”, che è un
bilancio programmatico : esso espone le previsioni relative alle entrate e alle spese tenendo conto
degli effetti degli interventi programmati nel DEF. Il bilancio pluriennale è stato introdotto per la
prima volta con la L. 468 / 1978. Oggi il bilancio pluriennale copre un periodo di 3 anni e coincide
con il bilancio di previsione, anch’esso triennale. Esso non comporta autorizzazione a riscuotere le
entrate e ad eseguire le spese ivi contemplate.

3. La struttura del bilancio statale. Il “bilancio (di previsione) dello Stato” risulta
formato – dopo l’entrata in vigore della L. 196 / 2009 - da un unico “stato di previsione” per
l’entrata, da tanti “stati di previsione” della spesa quanti sono i ministeri, e da un “quadro generale
riassuntivo relativo al triennio”.
All’interno degli “stati di previsione”, la parte di ENTRATA è scomposta in :

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1. TITOLI : (cioè la fonte di provenienza), distinti a seconda che abbiano natura tributaria,
extra-tributaria o provengano dall’alienazione di beni patrimoniali, dalla riscossione di
crediti o dall’accensione di prestiti;
2. RICORRENTI o NON RICORRENTI, a seconda che la loro acquisizione sia prevista “a
regime” o sia limitata ad uno o più esercizi;
3. TIPOLOGIE, ai fini dell’approvazione parlamentare (cioè sono le unità di voto
parlamentari per le entrate);
4. CATEGORIE, secondo la natura dei cespiti;
5. CAPITOLI : ai fini della rendicontazione, i quali possono essere eventualmente suddivisi in
articoli secondo il rispettivo “oggetto”.

Invece la parte relativa alla SPESA è ripartita in :

1. MISSIONI : con cui si indicano gli obiettivi fondamentali che devono essere perseguiti con
la spesa pubblica;

2. PROGRAMMI, ai fini dell’approvazione parlamentare (cioè sono le unità di voto


parlamentari per le spese). I programmi sono suddivisi in aggregati omogenei di attività svolte
all’interno di ogni singolo Ministero;

3.CAPITOLI : (secondo l’oggetto della spesa ); essi sono le unità elementari del bilancio, che
descrivono l’oggetto di ogni somma iscritta.

L’approvazione parlamentare si ferma a livello delle “tipologie” (per l’entrata) e dei “programmi”
(per la spesa) : ciò ci permette di distinguere tra un “BILANCIO POLITICO” (quello oggetto di
approvazione parlamentare e dotato di un numero inferiore di voci) e un “BILANCIO
AMMINISTRATIVO” (più analitico).

La legge rinforzata 243 / 2012 ha disciplinato il contenuto della “legge di bilancio dello Stato”,
dettando norme che entreranno in vigore dal 1° gennaio 2016. La struttura del bilancio è nella
sostanza confermata, articolandosi il bilancio :

 dal lato delle ENTRATE in titoli, entrate ricorrenti e non ricorrenti e tipologie;
 dal lato delle SPESE, in missioni e programmi.

Le unità di voto parlamentare continuano ad essere costituite : 1) per le ENTRATE, dalle tipologie;
2) per la SPESA, dai programmi.

Ma la vera novità è rappresentata dal fatto che il contenuto dell’attuale “legge di stabilità”
confluisce nella “legge di bilancio”; è previsto infatti che la “legge di bilancio” si suddivida in due
sezioni : 1) la prima sezione contiene grosso modo il contenuto dell’attuale legge di stabilità); 2) la
seconda sezione contiene invece le previsioni di entrata e di spesa formate in base alla legislazione
vigente (quindi le previsioni dell’attuale legge di bilancio). Entrambe le sezioni sono redatte sia in
termini di “competenza” che di “cassa”.

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4. I principi del bilancio. Il “bilancio dello Stato” deve essere redatto sulla base dei
seguenti principi :

 il PRINCIPIO DELL’ANNUALITÀ : (ex art. 81, 4° Cost.), anche se oggi il bilancio copre
un periodo di 3 anni;
 il PRINCIPIO DELL’UNITÀ : secondo cui il totale delle entrate deve finanziare il totale
delle spese;
 il PRINCIPIO DELL’UNIVERSALITÀ : tutte le entrate e tutte le spese devono confluire
necessariamente nel bilancio (ad eccezione dei casi di gestione fuori bilancio consentiti
dalla legge);
 il PRINCIPIO DELL’INTEGRITÀ : le entrate e le spese devono essere iscritte nel loro
importo integrale (ossia al lordo);
 il PRINCIPIO DELLA SPECIALIZZAZIONE : impone di ripartire le entrate e le spese per
consentire un effettivo controllo del Parlamento;
 il PRINCIPIO DELLA VERIDICITÀ : il bilancio deve contenere una rappresentazione
veritiera del quadro economico di riferimento;
 il PRINCIPIO DELLA PUBBLICITÀ : il bilancio deve essere reso noto a tutti i cittadini e,
perciò, deve essere pubblicato nella Gazzetta ufficiale;
 il PRINCIPIO DEL PAREGGIO (o meglio, dell’equilibrio tendenziale) DI BILANCIO.

5. Il ciclo di bilancio. La “gestione finanziaria dello Stato” si realizza attraverso una


sequenza di atti e documenti concatenati che, nel loro insieme, rappresentano il c.d. “CICLO DI
BILANCIO”. I principali documenti che fanno parte del ciclo di bilancio sono i seguenti :

 il “documento di economia e finanza” (DEF), da presentare alle Camere entro il 10 aprile di


ogni anno;
 la “nota di aggiornamento del DEF”, da presentare alle Camere entro il 20 settembre di ogni
anno;
 il “disegno di legge di stabilità”, da presentare alle Camere entro il 15 ottobre di ogni anno;
 il “disegno di legge del bilancio dello Stato”, da presentare alle Camere entro il 15 ottobre di
ogni anno;
 il “disegno di legge di assestamento”, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni
anno;
 gli eventuali “disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica”, da presentare alle
Camere entro il mese di gennaio di ogni anno;
 il “rendiconto generale dello Stato”, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni
anno.

Il “ciclo di bilancio” inizia con la presentazione alle Camere, entro il 10 aprile, del “documento di
economia e finanza” (DEF) : si tratta di un documento di programmazione finanziaria e di bilancio
introdotto dalla L. 39 / 2011, che sostituisce la “decisione di finanza pubblica” (che, a sua volta,
sostituiva il “documento di programmazione economica e finanziaria”). Il DEF si articola in 3
sezioni : 1) la prima reca il programma di stabilità; 2) la seconda è dedicata all’analisi delle
tendenze della finanza pubblica; 3) la terza si occupa del programma nazionale di riforma.
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Il DEF è predisposto dal Governo e inviato alle Camere. Superato il vaglio del Parlamento, il DEF
va inviato, entro il 30 aprile, alle istituzioni comunitarie : il “Consiglio europeo” e il “Consiglio dei
ministri finanziari” valutano, così, preventivamente gli obiettivi programmatici e le misure che ogni
Paese intende adottare e possono eventualmente invitare lo Stato membro a rivedere il programma
presentato.
Nel mese di aprile-maggio il “Ministero dell’economia e delle finanze” invia ai Ministeri una
circolare invitandoli a formulare i propri “stati di previsione” (in vista degli obiettivi da
raggiungere). I Ministri indicano gli obiettivi di ciascun dicastero e quantificano le risorse
necessarie per il loro raggiungimento; così, presentate le richieste, il “Ministro dell’economia e
delle finanze” procede alla loro dettagliata analisi.
Entro il 20 settembre, il Governo invia alle Camere la “nota di aggiornamento del DEF” : questa
nota non è più facoltativa (come nella precedente disciplina), ma è obbligatoria : lo scopo di tale
inoltro è quello di consentire un rapido aggiornamento degli obiettivi programmatici (tenendo
conto delle maggiori informazioni disponibili sull’andamento del quadro macroeconomico).
Entro il 15 ottobre di ogni anno il Governo deve presentare alle Camere due importanti disegni di
legge, che compongono la “manovra triennale di finanza pubblica” : il disegno di “legge di
stabilità" e il disegno di “legge di bilancio”. Infatti, a partire dalla riforma del 2009 la manovra
prende in considerazione un periodo triennale (anche se comunque viene presentata annualmente).
Sempre entro il 15 ottobre questi documenti devono essere inviati alle istituzioni comunitarie per un
controllo preventivo (così come imposto dal c.d. “Two Pack”).
La “legge di stabilità” sostituisce la “legge finanziaria”, con alcune novità (come quella di riferirsi
non più a uno scenario annuale, ma triennale). La “legge finanziaria” fu introdotta dalla L. 468 /
1978, con il compito di definire il quadro finanziario e raccordare il bilancio con la legislazione di
spesa. La sua primitiva formulazione consentiva l’aggiramento dell’art. 81, 3°comma Cost. (cioè il
divieto per la legge di bilancio di introdurre nuovi tributi e nuove spese). La “legge di stabilità” (ex
legge finanziaria) indica :

 il livello massimo del ricorso al mercato finanziario (cioè l’entità del disavanzo da coprire
tramite prestiti);
 la differenza tra spese e entrate fiscali per ciascuno degli anni considerati dal bilancio
pluriennale;
 le variazioni delle aliquote, delle detrazioni e degli scaglioni riguardanti imposte dirette e
indirette, tasse, canoni e contributi in vigore;
 norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa;
 le norme necessarie a garantire l’attuazione del “Patto di stabilità interno” (cioè l’insieme
delle disposizioni con cui lo Stato Italiano definisce gli impegni che gli enti locali devono
rispettare, affinché il Paese possa mantenere l’impegno assunto con l’adesione “Patto di
Stabilità e crescita”).;

 gli stanziamenti necessari per finanziare le spese deliberate da leggi;

La legge di stabilità (insieme ai “collegati”) consente di realizzare concretamente la “manovra di


finanza pubblica delineata dal DEF” : annovera, infatti, le disposizioni necessarie per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Più in particolare, la legge di stabilità contiene
norme tese a regolare la “politica economica del Paese” per un triennio (cioè il“triennio

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considerato dal bilancio pluriennale”). Non può contenere, invece, “norme di delega” o di
“carattere ordinamentale” o “organizzatorio”, né “interventi locali” o “micro-settoriali”. Le
disposizioni di carattere ordinamentale, organizzatorio e di rilancio dell’economia che non possono
essere accolte nella legge di stabilità, trovano spazio nei disegni di legge “collegati” alla manovra di
finanza pubblica, che devono essere presentati alle Camere entro il successivo mese di gennaio
(quindi dopo la sessione di bilancio).
Entro il 31 dicembre, la legge di stabilità e il bilancio dello Stato devono essere approvati (in caso
contrario si va all’esercizio provvisorio). Si chiude così la “fase preparatoria del bilancio” e si
passa alla “fase gestionale” (in quest’ottica, una volta approvato il bilancio, dal 1° gennaio
l’amministrazione può procedere all’esecuzione dello stesso, effettuando le spese e riscuotendo le
entrate).
E’ possibile, però, che nel corso dell’esercizio finanziario (che inizia il 1° gennaio e si conclude il
31 dicembre) emerga la necessità di apportare “variazioni al bilancio” : proprio per questo, entro il
30 giugno, deve essere presentato al Parlamento il c.d. “disegno di legge di assestamento”, al cui
interno sono riportate le “modifiche al bilancio (resesi necessarie per sopravvenute vicende
economiche).
Si giunge così alla terza ed ultima fase del “ciclo di bilancio”, quella della c.d. “rendicontazione” :
entro il 30 giugno dell’anno finanziario successivo a quello considerato, il Governo deve presentare
al Parlamento il “rendiconto”, che si compone di due parti :

 il “CONTO DEL BILANCIO” : che illustra i risultati della gestione finanziaria rispetto alle
previsioni;
 il “CONTO DEL PATRIMONIO” : in cui sono descritte le variazioni intervenute nel
patrimonio dello Stato e la situazione patrimoniale finale.

Il rendiconto, una volta approvato, è intangibile : non può più essere sottoposto a modifiche. Con
l’approvazione del rendiconto da parte del Parlamento, si conclude il “ciclo di bilancio”.

Le fasi per l’approvazione del “rendiconto dello Stato” sono le seguenti :

 al termine dell’anno finanziario ogni Ministero compila il proprio “conto del bilancio” e il
“conto del patrimonio”;
 entro i1 30 aprile il tutto deve essere trasmesso al Ministero dell’economia;
 entro il 31 maggio, il Ministro dell’economia trasmette alla Corte dei conti il “rendiconto
generale dell’esercizio scaduto”, per la c.d. parificazione (cioè, il giudizio volto ad
accertare la conformità dei risultati del rendiconto dello Stato alla legge di bilancio);
 la Corte dei conti, parificato il rendiconto generale, lo trasmette al Ministro dell’economia
per la successiva presentazione alle Camere, che deve avvenire entro i1 30 giugno.

6. L’esecuzione del bilancio. L’ “esecuzione del bilancio” si articola in un duplice


procedimento : il “PROCEDIMENTO DI ENTRATA” e quello “DI SPESA”. A sua volta, il
“procedimento di entrata” si suddivide in 3 fasi : l’accertamento, la riscossione e il versamento.

1. L’ACCERTAMENTO è la fase attraverso cui lo Stato appura l’esistenza del “diritto


a riscuotere una determinata somma” e individua con precisione il soggetto debitore.
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2. La RISCOSSIONE è la fase in cui il debitore paga la somma dovuta allo Stato ai c.d.
“agenti della riscossione”.
3. Il VERSAMENTO è la fase che conclude il procedimento di entrata e si estrinseca
nel versamento (presso le Tesorerie dello Stato) delle somme riscosse dagli agenti.

Il “procedimento di spesa”, invece, si articola in 4 fasi : l’impegno, la liquidazione, l’ordinazione e


il pagamento.

1. L’IMPEGNO è la fase giuridica in cui sorge per lo Stato l’obbligo di pagare una
certa somma a un creditore specificamente individuato. L’impegno può derivare da
diverse fonti : da leggi che dispongono determinate spese (impegni legislativi); da
contratti stipulati dall’amministrazione (impegni contrattuali); da atti amministrativi
(impegni amministrativi); da sentenze passate in giudicato che condannano lo Stato a
pagare una certa somma (impegni giudiziali).
La “fase integrativa dell’efficacia dell’atto di impegno” si perfeziona attraverso il
“controllo degli uffici della Ragioneria”, fase che culmina con la registrazione
dell’atto di impegno e che produce l’impegno della relativa spesa. Il controllo degli
uffici è diretto a verificare sia il profilo della “legalità” (poiché la spesa deve trovare
il proprio fondamento nella legge), sia la “regolarità della documentazione”, sia la
“disponibilità dei fondi” (all’interno dell’apposito capitolo di bilancio).
La L. 196 / 2009 dispone che solo i dirigenti possono impegnare le spese, nei limiti
delle risorse assegnate in bilancio. Gli impegni possono riferirsi solo all’esercizio in
corso : solo previo assenso del “Ministero dell’economia e delle finanze” possono
essere assunti impegni a carico di esercizi successivi, nei limiti delle risorse stanziate
nel bilancio pluriennale a legislazione vigente. Alla chiusura dell’esercizio
finanziario (il 31 dicembre), nessun impegno può essere assunto a carico
dell’esercizio scaduto.
2. La LIQUIDAZIONE rappresenta, invece, tutto quel complesso di operazioni con cui
si determina l’importo della somma da pagare e si individua l’identità del
beneficiario (creditore).
3. L’ORDINAZIONE è la fase in cui si ordina alla Tesoreria di pagare la somma
liquidata. Viene, dunque, emesso un titolo di spesa che dispone il pagamento (il c.d.
“ordinativo di pagamento”).
4. Il PAGAMENTO è la fase conclusiva del procedimento di spesa, con cui si procede
all’erogazione del denaro (da parte della Tesoreria) a favore del beneficiario. In
questa fase l’obbligazione pecuniaria si estingue.

7. Analisi e valutazione della spesa. L’art. 39 della L. 196 / 2009 prevede un


articolato meccanismo di «ANALISI E VALUTAZIONE DELLA SPESA» (fondato sulla
collaborazione del “Ministero dell’economia e delle finanze” con le “amministrazioni centrali dello
Stato”), predisposto per verificare i risultati raggiunti rispetto all’ obiettivo del contenimento del
deficit pubblico, per monitorare l’efficacia delle misure rivolte al loro conseguimento e rendere
più efficiente l’attività dell’amministrazione pubblica. Tale attività trova attuazione nell’ambito di

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“appositi nuclei di analisi e valutazione della spesa”. Sulla base delle attività svolte dai nuclei, il
Ministero dell’economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato -
elabora, con cadenza triennale, un “rapporto sulla spesa delle amministrazioni dello Stato”, che
illustra la composizione e l’evoluzione della spesa e i risultati conseguiti.
Infine l’art. 49 della L. 196 / 2009 ha anche delegato il Governo ad adottare uno o più decreti
legislativi «per il potenziamento dell’attività di analisi e valutazione della spesa e per la riforma del
controllo di regolarità amministrativa e contabile» (cioè i controlli di ragioneria). Tale delega è
stata attuata con il d.lgs. 123 / 2011, che ha implementato i compiti del “dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato” (ricordiamo che il “dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato” e le “Ragionerie territoriali dello Stato” sono «organi di controllo» della regolarità
amministrativa e contabile).
L’“ANALISI E LA VALUTAZIONE DELLA SPESA” consiste nell’«analisi della
programmazione e della gestione delle risorse finanziarie e nell’analisi dei risultati conseguiti dai
“programmi di spesa” : essa è finalizzata al miglioramento del grado di efficienza della spesa
pubblica. E’ svolta secondo un programma triennale, i cui risultati confluiscono nel “rapporto
triennale sulla spesa”.

-CAPITOLO 3. I BENI DI PROPRIETA’ PUBBLICA-


1. Nozioni generali. I beni pubblici sono quei beni appartenenti alle organizzazioni
pubbliche (REQUISITO SOGGETTIVO) e destinati alla cura di interessi pubblici (REQUISITO
OGGETTIVO). L’art.42 Cost. afferma che “la proprietà è pubblica o privata” e che “i beni
economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, ponendo il fondamento per una distinzione
tra il “regime giuridico dei beni privati” e “quello dei beni pubblici”. Infatti, mentre i soggetti
privati possono godere e disporre liberamente dei propri beni (secondo il “principio dell’autonomia
privata”), i beni affidati alle amministrazioni devono essere usati per il perseguimento dei fini
istituzionali attribuiti dalla legge alle amministrazioni (secondo il principio della
“funzionalizzazione dell’attività amministrativa”). In conseguenza della distinzione tra proprietà
pubblica e proprietà privata, il legislatore ha predisposto per i beni pubblici una “disciplina
speciale” rispetto a quella dettata per i beni privati : ciò è confermato dal fatto che nel 3° libro del
codice civile, la disciplina dei beni pubblici è collocata nel “Titolo 1°” (e non nel Titolo 2°, relativo
alla “proprietà privata”).

2. La disciplina del codice civile. I beni demaniali. Tradizionalmente i


beni pubblici vengono distinti in BENI DEMANIALI e BENI PATRIMONIALI (indisponibili e
disponibili).

 beni demaniali (art. 822 c.c.);


 beni patrimoniali indisponibili (art. 826 c.c.);
 beni patrimoniali disponibili.

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A ogni categoria corrisponde un diverso regime giuridico. IL “DEMANIO” è l’insieme dei beni
inalienabili che appartengono allo Stato. I BENI DEMANIALI sono contraddistinti da due
caratteristiche : 1) sono sempre beni immobili o universalità di mobili (e mai beni mobili); 2)
appartengono necessariamente allo Stato o ad altri enti pubblici territoriali (Regioni, Province,
Comuni).

I beni demaniali sono suddivisi in altre sottocategorie, e cioè :

1) DEMANIO NECESSARIO : è costituito dai beni che appartengono necessariamente allo


Stato (cioè i beni che - a causa delle loro caratteristiche oggettive e intrinseche - sono
necessariamente beni demaniali) : si tratta, in particolare, dei beni del c.d. “demanio
marittimo” (il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti), del “demanio idrico” (i fiumi, i
torrenti e i laghi) e del “demanio militare” (le opere destinate alla difesa nazionale : come
fortezze, piazzeforti o installazioni missilistiche).
2) DEMANIO ACCIDENTALE : è composto dai beni che possono appartenere anche a
privati e che sono demaniali solo se appartengono allo Stato (o ad altri enti pubblici
territoriali) : tale categoria comprende il “demanio stradale”, “ferroviario”, “aeronautico” e
“culturale” ( : immobili di interesse storico, archeologico e artistico e le raccolte dei musei,
delle pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche).

ART. 822 c.c. (rubrucato «Demanio pubblico») = 1° comma (demanio necessario) : “Appartengono allo Stato e
fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre
acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.
2° comma (demanio eventuale) : Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le
strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse
storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli
archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio
pubblico.

Un’altra distinzione significativa è quella tra :

o beni del demanio naturale : costituito da quei beni che sono demaniali per natura; essi
acquistano e perdono la propria identità fisica per fatti naturali(es. le spiagge o i fiumi);
o beni del demanio artificiale : costituito da quei beni costruiti perlopiù dall’amministrazione
pubblica e destinati ad una specifica funzione pubblica; essi acquistano e perdono la propria
identità fisica per opera dell’uomo (es. strade o acquedotti).

Distinguiamo inoltre tra “demanio regionale”, “provinciale” e “comunale”.

La “condizione giuridica dei beni demaniali” è stabilita dall’art. 823 c.c., ove è previsto, al
1°comma che «i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono
formare oggetto di diritti a favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li
riguardano». Dunque i beni demaniali non possono essere alienati (a pena di nullità del
trasferimento per impossibilità dell’oggetto ex art. 1418 c.c.); sono imprescrittibili (= diritti che non
si estinguono anche se non sono esercitati per lungo tempo); non sono suscettibili di acquisto per
usucapione, di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità. Ciò significa che i beni
demaniali sono incommerciabili ed i terzi possono acquistare diritti sui beni solo alla luce di
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un’apposita concessione e nei soli casi stabiliti dalla legge (ferma restando, però, la loro titolarità
pubblica) : si pensi, ad esempio, alla concessione delle spiagge a favore di gestori privati di
stabilimenti balneari, contro il pagamento di un canone).

Per quanto riguarda la loro “tutela”, il 2°comma dell’art. 823 dispone che l’autorità amministrativa
competente provvede alla tutela dei beni demaniali sia con i “mezzi ordinari a difesa della proprietà
e del possesso” previsti dal codice civile (tutela in via ordinaria con giurisdizione del giudice
ordinario), sia “in via amministrativa” : si tratta di un’ipotesi di AUTOTUTELA ESECUTIVA.
Poiché la disposizione è formulata in termini generici, senza tipizzare i poteri che possono essere
esercitati dalla P.A., la maggior parte della dottrina le assegna una valenza meramente ricognitiva
degli specifici poteri di autotutela dei beni demaniali già previsti nelle singole discipline di settore.
Ma la giurisprudenza ritiene che questa disposizione consenta all’amministrazione di esercitare i
c.d. «poteri di polizia demaniale» (ad es., provvedimenti inibitori, di sgombero, di rilascio, o di
riduzione in pristino).

Art. 823 c.c. (rubricato “Condizione giuridica del demanio pubblico”) : I beni che fanno parte del demanio pubblico
sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi
che li riguardano.
Spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di
procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal
presente codice.

Per quanto riguarda, infine, l’ “inizio” e la “cessazione del carattere demaniale” dei beni pubblici :
1) i BENI DEL DEMANIO NATURALE : acquistano tale qualità per il solo fatto di venire ad
esistenza con le loro caratteristiche fisiche (così, una spiaggia acquista la qualità di bene demaniale
per il solo fatto che essa è sorta come tale). Allo stesso modo, questi beni perdono il loro carattere
demaniale qualora perdano le loro caratteristiche fisiche (c.d. sdemanializzazione per fatto
naturale : es., una spiaggia cessa di essere un bene demaniale qualora non sia più configurabile
come tale dal punto di vista fisico); i BENI DEL DEMANIO ARTIFICIALE : acquistano tale
qualità al verificarsi di una duplice condizione : 1) essi devono venire ad esistenza (per opera
dell’uomo) con le caratteristiche oggettive stabilite dalla legge; 2) essi devono risultare
effettivamente destinati al soddisfacimento dell’interesse pubblico previste dalla legge, sulla base di
una manifestazione di volontà, espressa o tacita, da parte dell’amministrazione. Tale manifestazione
di volontà, quindi, non deve necessariamente essere esternata da parte della P.A., ma può essere
anche implicita (cioè racchiusa nella stessa decisione della P.A. di realizzare il bene : ad esempio,
nella decisione di costruire un porto). Analogamente, questi beni perdono il carattere della
demanialità non solo qualora perdano le caratteristiche oggettive stabilite dalla legge (ad es.
distruzione di un acquedotto), ma anche qualora non risultino più destinati da parte della P.A. al
perseguimento delle esigenze di pubblico interesse (ad es., questo è il caso di una fortezza militare,
che cessi la propria destinazione militare in conseguenza della costruzione di una nuova fortezza in
sua sostituzione).

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3.I beni patrimoniali. I beni patrimoniali si distinguono in beni patrimoniali


indisponibili e beni patrimoniali disponibili.

I BENI PATRIMONIALI INDISPONIBILI sono quei beni che hanno un’immediata ed effettiva
destinazione ad una finalità pubblica. Essi sono individuati dall’art. 826 (commi 2° e 3° c.c.). Ai
sensi del 2°comma, fanno parte del PATRIMONIO INDISPONIBILE DELLO STATO : 1) le
foreste, le miniere, le cave e torbiere; 2) le cose di interesse storico, archeologico, artistico e
paleontologico (ritrovate nel sottosuolo); 3) i beni che costituiscono la dotazione della Presidenza
della Repubblica; 4) le caserme, gli armamenti e le navi da guerra. Il 3°comma dispone, inoltre,
che fanno parte del PATRIMONIO INDISPONIBILE DELLO STATO (o DELLE PROVINCE E
DEI COMUNI, a seconda della loro appartenenza) : 1) gli edifici destinati a sede di pubblici uffici
(con i loro arredi); 2) e gli altri beni destinati ad un pubblico servizio.

Infine, in materia vige l’art. 11 della L. 281 / 1970, che, con alcune previsioni abrogative dell’art.
826, 2°comma, dispone che “sono trasferite alle Regioni e fanno parte del PATRIMONIO
INDISPONIBILE REGIONALE : 1) le foreste appartenenti allo Stato ; 2) le cave e le torbiere; 3)
le acque minerali e termali; 4) gli edifici (con i loro arredi) e gli altri beni destinati a uffici e servizi
pubblici di spettanza regionale.

ART. 826 c.c. (rubricato “Patrimonio dello Stato, delle Province e dei Comuni”) : 1°comma = I beni appartenenti allo
Stato, alle province e ai comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il
patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni.
2° comma = Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato : le foreste che a norma delle leggi in materia
costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al
proprietario del fondo, le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e
in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme,
gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.
3°comma = Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo
la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico
servizio.

Il regime giuridico dei “beni patrimoniali indisponibili” è dettato dall’art. 828, 2°comma c.c.: «i
beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro
destinazione, se non nei modi stabiliti dalla legge». Tale regime giuridico ha una pregnanza
pubblicistica più attenuata rispetto a quello dei beni demaniali : ciò significa che questi beni non
sono assolutamente incommerciabili, poiché, pur non potendo essere sottratti alla loro destinazione
a finalità pubbliche, possono comunque essere oggetto di “atti costitutivi di diritti a favore di terzi”.
Ci sono, però, delle eccezioni : le miniere, ad esempio, sono assolutamente incommerciabili.
Per quanto riguarda l’“acquisto” e la “perdita del carattere indisponibile dei beni”, si rinvia alle
regole dettate per i beni demaniali, precisando che anche in tal caso si dovrà distinguere tra beni
naturali e artificiali, ma evidenziando che ciò che rileva in modo decisivo ai fini dell’
“indisponibilità” è l’ effettiva destinazione dei beni a finalità pubbliche. In particolare, affinché un
bene possa rivestire il carattere proprio dei “beni patrimoniali indisponibili”, deve sussistere: 1) un
atto da cui si evinca la volontà dell’amministrazione di destinare quel determinato bene a un
pubblico servizio; 2) e l’effettiva destinazione del bene al servizio pubblico (si pensi, ad esempio,
agli edifici destinati a un pubblico servizio).

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I BENI PATRIMONIALI DISPONIBILI : gli altri beni che appartengono allo Stato o agli altri enti
pubblici territoriali fanno parte del “PATRIMONIO DISPONIBILE”, cioè di cui lo Stato, il
Comune, la Provincia o la Regione possono disporre liberamente. Essi quindi sono soggetti alle
regole del codice civile (alienazione, diritti di uso e godimento), a meno che una legge speciale non
disponga diversamente, imponendo vincoli o oneri particolari sul bene pubblico. La principale
caratteristica dei beni del patrimonio disponibile è quella di avere un rilievo economico : essi
producono reddito. Oltre ai beni immobili, fanno parte del patrimonio disponibile alcuni mobili
(come obbligazioni, titoli, partecipazioni azionarie dello Stato in società pubbliche e società private
per azioni).
La loro individuazione avviene, quindi, con un criterio di “residualità” : sono tali, infatti, tutti i beni
appartenenti a soggetti pubblici diversi dai “beni demaniali” e dai “beni patrimoniali
indisponibili”. Beni patrimoniali disponibili per eccellenza sono le somme di denaro appartenenti
alle amministrazioni pubbliche (che, però, assumono la qualità di “beni patrimoniali indisponibili”
quando è impressa loro una precisa destinazione a particolari fini). I beni del patrimonio
disponibile sono disciplinati dalle norme di diritto privato, e possono quindi essere alienati,
sequestrati, pignorati, fatti oggetto di diritti di uso o godimento a favore di terzi. Quindi, l’attributo
di «pubblici» ha un carattere solo descrittivo per questi beni (indica, cioè, che appartengono a
soggetti pubblici), perché il loro regime giuridico è lo stesso dei beni appartenenti ai privati.

*Ricorda che : i “beni demaniali” appartengono solo allo Stato o agli altri enti territoriali; invece i “beni patrimoniali”
possono appartenere anche ad altri enti pubblici.

4. Uso dei beni pubblici. I beni pubblici possono essere oggetto di uso diretto, uso
promiscuo, uso generale e uso particolare.

 USO DIRETTO : vi rientrano quei beni che sono usati direttamente dalle pubbliche
amministrazioni proprietarie per lo svolgimento delle proprie attività (si pensi, ad esempio,
all’uso delle sedi dei pubblici uffici);
 USO PROMISCUO : quando il bene viene usato “direttamente” dall’amministrazione
proprietaria, ma può essere usato anche da altri soggetti, pubblici o privati : ad es. le
“strade militari” possono essere usate non solo dalle amministrazioni militari, ma anche per
soddisfare l’interesse generale alla pubblica circolazione;
 USO GENERALE : vi rientrano quei beni che vengono usati per soddisfare in primo luogo
i bisogni della collettività, e non quelli dell’amministrazione pubblica che ne è titolare; per
questo, il loro uso è consentito a tutti i membri della collettività (si pensi alle spiagge libere
o alle strade pubbliche);
 USO PARTICOLARE : vi rientrano quei beni che, data la loro scarsità, vengono attribuiti
“nei casi stabiliti dalla legge” a singoli soggetti privati, tramite “provvedimenti
amministrativi concessori” e contro la corresponsione di un canone : si pensi, ad esempio,
alla concessione di coltivazione di miniere.

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5. I diritti demaniali su beni altrui e gli usi civici. L’art. 825 c.c. assoggetta
allo stesso regime giuridico dei beni demaniali anche i diritti reali (che spettano allo Stato, alle
Province e ai Comuni) su beni appartenenti ad altri soggetti (sia pubblici che privati), ma solo nel
caso in cui sussistano due requisiti, e cioè quando questi diritti : 1) o sono costituiti per l’utilità di
beni demaniali; 2) o sono costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse.

Nella prima ipotesi (“diritti costituiti per l’utilità di beni demaniali”) si è in presenza di veri e propri
DIRITTI DEMANIALI SU BENI ALTRUI. Poiché la norma ne prevede la costituzione per l’utilità
di beni demaniali - che sono tutti beni immobili - la dottrina qualifica questi diritti come “servitù
prediali pubbliche” (ad es. la servitù costituita su un fondo privato a favore di un acquedotto
pubblico che lo attraversa o la “servitù di via alzaia”, in forza della quale i proprietari di fondi
adiacenti a corsi d’acqua navigabili devono consentire il transito delle persone su apposite strisce
di terra). Le servitù prediali pubbliche possono essere costituite sia consensualmente sia, nei casi
previsti dalla legge, con un provvedimento amministrativo.

Alla seconda ipotesi (“diritti costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse”)
corrispondono, invece, i DIRITTI DI USO PUBBLICO, che si differenziano dalle servitù prediali
pubbliche perché sono costituiti (con le stesse modalità di queste ultime) non per l’utilità di un bene
demaniale, ma a favore di una determinata collettività : pensiamo ad esempio, al diritto di visitare
aree private di particolare interesse storico-culturale o alle c.d. “strade vicinali”, che sono strade di
proprietà privata su cui, però, è consentito il pubblico transito, regolato dal Comune (che concorre
anche alle spese di manutenzione). Un particolare modo di costituzione dei “diritti di uso pubblico”
è la c.d. dicatio ad patriam, che ricorre quando il proprietario di un bene privato mette
volontariamente e continuativamente il bene a favore della collettività, assoggettandolo al relativo
uso.

Una considerazione a parte, invece, va riservata agli USI CIVICI : si tratta di “diritti reali” di
antichissima origine (molti risalgono al medioevo) di cui sono titolari determinate collettività
stanziate sul territorio (anche organizzate in associazioni agrarie, come le c.d. «università agrarie»).
Questi diritti hanno ad oggetto il godimento di terreni (adibiti a pascolo, caccia, legnatico o
macchiatico) di proprietà dei Comuni, delle Regioni, dello Stato o anche di soggetti privati. La loro
disciplina è contenuta nella L. 1766 / 1927. Gli “usi civici” vanno inglobati nei “diritti spettanti alla
collettività” : ai singoli membri che compongono la collettività “uti cives” spetta l’esercizio di
alcuni diritti; tali diritti si sostanziano in un godimento su un bene fondiario per soddisfare i bisogni
primari della collettività (si pensi ad es. ai diritti di uso civico di legnatico, di erbatico, di fungatico
e di pesca). Tale istituto è nato per dare un sostentamento vitale alle popolazioni in un momento
storico in cui la “terra” era l’unico elemento da cui queste potevano ricavare i prodotti per
sopravvivere. La materia è tuttora regolata dalla L. 1766 / 1927 (riguardante il “riordinamento degli
usi civici nel Regno”). Però attualmente è in corso la “liquidazione” degli usi civici che gravano sui
beni privati : nel dettaglio, il procedimento di liquidazione inizia con l’accertamento della
sussistenza dell’uso civico vantato dalla collettività; fatto ciò, nel caso in cui l’esito
dell’accertamento sia positivo, il procedimento si conclude con l’affrancazione dei fondi privati
interessati dagli usi civici, mediante il distacco di una parte di essi (che viene ceduta in proprietà ai
Comuni o alle stesse associazioni agrarie).
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ART. 825 c.c. (rubricato “Diritti demaniali su beni altrui”) : Sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti
reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono
costituiti per l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti (2) o per il conseguimento di fini di pubblico
interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi.

6. I processi di privatizzazione (formale e sostanziale). Al di là delle


disposizioni del codice civile, la materia dei “beni pubblici” è disciplinata anche da varie
“normative speciali” che (a differenza delle previsioni codicistiche) privilegiano il versante
“oggettivo e funzionale” della nozione di bene pubblico (rispetto a quello “soggettivo” :
appartenenza a soggetti pubblici). Così, puntando su un’accezione «oggettiva» dei beni pubblici, si
può ipotizzare una forma alternativa di tutela, che - prescindendo dall’appartenenza al soggetto
pubblico - riesca a porre l’accento sul c.d. “vincolo di destinazione”. In quest’ottica, le legislazioni
di settore, per raggiungere questo obiettivo, hanno deciso di usare le due tipiche forme di
«privatizzazione» dei beni pubblici : 1) la trasformazione degli enti pubblici (proprietari dei beni) in
società per azioni; 2) l’istituzione di nuovi organismi societari (sempre regolati dal diritto privato) a
cui vengono trasferiti beni prima appartenenti a soggetti pubblici. L’evoluzione dei beni pubblici,
quindi, si intreccia con la «privatizzazione» che ha interessato l’assetto organizzativo delle
amministrazioni pubbliche e con la distinzione tra«privatizzazione formale» e «privatizzazione
sostanziale». La PRIVATIZZAZIONE FORMALE si realizza nei casi in cui si ritiene che la veste
privatistica del soggetto (al posto di quella pubblicistica) sia più idonea a soddisfare i canoni
dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità della gestione. Però, il mutamento del soggetto, in
questi casi, non modifica lo “scopo dell’attività”, che deve essere sempre diretta al soddisfacimento
del pubblico interesse (non varia la “funzionalizzazione dell’attività al perseguimento di interessi
pubblici”). In conseguenza di ciò, non varia nemmeno il “regime di circolazione dei beni”, il cui
“vincolo di destinazione”, non a caso, rimane pubblico.
La PRIVATIZZAZIONE SOSTANZIALE consiste, invece, in un vero e proprio arretramento della
sfera pubblica da un certo settore, il cui funzionamento viene affidato in toto ai soggetti privati
operanti nel mercato : anche qui, però, la privatizzazione non sempre comporta la cessazione del
preesistente “vincolo di destinazione” dei beni a finalità pubbliche.

7. La trasformazione di enti pubblici proprietari di beni pubblici in


società per azioni. Nell’affrontare il tema della PRIVATIZZAZIONE, va posta
l’attenzione innanzitutto sul “regime giuridico” di alcuni beni (appartenenti in origine a soggetti
pubblici e, adesso, a soggetti privati) che sono di fondamentale importanza nell’erogazione dei
servizi pubblici essenziali : le “RETI” (ferroviaria, elettrica, telefonica e stradale).

 RETE FERROVIARIA : secondo l’art. 822, 2°comma c.c., le “strade ferrate” di


appartenenza dello Stato rientrano nel “demanio statale eventuale”. Questo è stato il regime
giuridico della rete ferroviaria fino al 1985 : essa era di proprietà dello Stato, che era anche gestore
diretto della stessa (lo Stato gestiva la rete attraverso un suo organo : l’ “Azienda autonoma delle
Ferrovie dello Stato”). Ma in quell’anno la L. 210 / 1985 dispose la trasformazione dell’Azienda
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autonoma in ente pubblico economico : l’ «Ente Ferrovie dello Stato», dotato di “personalità
giuridica”. Ciò comportò la sdemanializzazione della rete ferroviaria, la cui disciplina è stata, così,
ricondotta a un regime giuridico analogo a quello dei “beni patrimoniali indisponibili” : infatti l’art.
15 della L. 210 / 1985 dispose che «i beni dell’Ente Ferrovie dello Stato destinati a pubblico
servizio non possono essere sottratti alla loro destinazione senza il consenso dell’Ente». A
discapito di quanto detto, però, nel 1992 l’“Ente Ferrovie dello Stato” è stato trasformato in società
per azioni : si è posto, quindi - per la rete ferroviaria - il problema della permanenza o meno del
regime giuridico dei beni patrimoniali indisponibili. La soluzione non si è fatta attendere: nel 1993
il legislatore ha, infatti, attribuito alla neo-istituita “Ente Ferrovie dello Stato s.p.a.” lo stesso ambito
di applicazione ricoperto dall’art. 15 della L. 210 / 1985. Tra il 1998 e il 1999, però, per attuare il
principio comunitario di separazione tra “la proprietà e la gestione delle reti” e l’ “erogazione dei
relativi servizi”, è stata costituita una nuova società per azioni : “Rete Ferroviaria Italiana - R.F.I.”;
a questa nuova società è stata conferita non solo la rete ferroviaria (prima intestata a Ferrovie dello
Stato s.p.a.), ma anche il ruolo di gestore dell’infrastruttura. L’ultimo intervento in materia è stato
predisposto poi nel 2003 : si tratta del d.lgs. 188 / 2003, che, benchè non individui con precisione il
soggetto proprietario della rete ferroviaria (che, quindi, può anche essere un soggetto privato), è
molto importante, perchè detta una disciplina della rete di evidente impronta pubblicistica (sul piano
del “vincolo di destinazione” riguardante l’attività).

 RETE ELETTRICA : di una vicenda analoga è stata oggetto anche la “rete di trasmissione
elettrica nazionale”, giacchè in origine tale rete era inserita nell’ambito dei “beni patrimoniali
indisponibili” e apparteneva all’ente pubblico economico “Enel”. Ma dopo la trasformazione di
Enel in “società per azioni”( Enel s.p.a.) nel 1992, questa è stata obbligata nel 1999 ha costituire
altre società separate, in modo da affidare a ciascuna di esse lo svolgimento delle attività di
produzione, distribuzione e vendita di energia elettrica, nonché dell’attività relativa all’esercizio
dei diritti di proprietà della rete. In questa prospettiva, allora, Enel s.p.a. ha costituito un’apposita
società (la società “Terna s.p.a.”), a cui è stata conferita, in un primo tempo, la sola “rete di
trasmissione elettrica nazionale”, ma non anche la gestione della rete (che è stata rimessa in via
normativa ad un’altra società costituita anch’essa da Enel s.p.a. : il “Gestore della rete di
trasmissione elettrica nazionale - G.R.T.N. s.p.a.”. Successivamente nel 2003 è stata unificata la
proprietà e la gestione della rete elettrica nazionale e nel 2004 si è individuato in “Terna s.p.a.” il
soggetto risultante dall’unificazione, disponendone anche la privatizzazione sostanziale. Anche in
questo caso si è in presenza di un organismo societario (non più totalmente in mano pubblica) il cui
diritto di proprietà sulla rete di trasmissione elettrica nazionale (che ora comprende anche le
«facoltà» relative alla sua gestione) è sottoposto a una stringente “regolazione amministrativa”, per
renderlo funzionale alla sua vocazione pubblicistica.

 RETE TELEFONICA : analoghe considerazioni possono essere svolte anche per la “rete
telefonica pubblica”. Il legislatore nel 1992 affidò ad un’apposita società per azioni (la “Telecom
Italia s.p.a.”) non solo i servizi di telecomunicazione ad uso pubblico, ma anche l’installazione e
l’esercizio dei relativi impianti (che fino a quel momento erano stati gestiti dall’ “Azienda di Stato
per i servizi telefonici” e dall’ “Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni”). A partire
dal 1997, “Telecom Italia s.p.a.” è stata poi oggetto di un processo di privatizzazione sostanziale,
ma non per questo è venuta meno una regolamentazione amministrativa della rete telefonica di sua
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proprietà, volta ad assicurare a tutti gli operatori del mercato (nel frattempo liberalizzato) l’accesso
ad essa.

 RETE STRADALE E AUTOSTRADALE : un ultimo accenno va infine dedicato al regime


giuridico della “rete stradale e autostradale nazionale”. Questi beni, ove appartengano allo Stato,
fanno parte del “demanio statale eventuale”. Essi sono appartenuti allo Stato fino al 2002, anno in
cui si è disposta la trasformazione dell’ente pubblico economico “A.N.A.S.” in “società per azioni”,
attribuendole non solo le stesse funzioni già di competenza dell’ente trasformato, ma anche la
gestione e la proprietà della rete autostradale e stradale nazionale, precisando però che «questo
trasferimento non modificava il regime demaniale (cioè quello ex art. 823 e 829, 1°comma c.c.) dei
beni trasferiti». In questa ipotesi, dunque, viene meno la tradizionale relazione tra beni demaniali e
loro appartenenza ad enti territoriali, essendo normativamente previsto che questi beni
appartengano ad un soggetto privato (Anas s.p.a.). In realtà, però, sono molti i profili pubblicistici
dettati nei confronti di A.N.A.S. s.p.a., come ad esempio, il fatto che lo statuto è approvato con
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti; il fatto che le azioni sono attribuite al
Ministro dell’economia, che esercita i diritti dell’azionista di concerto con il Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti; o il fatto che “Anas s.p.a.” è sottoposto al controllo della Corte dei
conti.

8. L’istituzione di appositi organismi societari a cui vengono


conferiti beni pubblici.
 A tal proposito occorre considerare in primis la “vendita di beni pubblici” attraverso la c.d.
CARTOLARIZZAZIONE. In questa prospettiva, nel 2001 è stato stabilito che l’“Agenzia del
demanio” individua i beni immobiliari dello Stato e degli enti pubblici territoriali, distinguendoli in
“beni demaniali”, “patrimoniali indisponibili” e “patrimoniali disponibili”. Fatto ciò, il Ministero
dell’economia deve procedere alla costituzione di apposite società a responsabilità limitata (delle
società-veicolo c.d. «s.c.i.p.», acronimo di «società per la cartolarizzazione degli immobili
pubblici»), aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di operazioni di cartolarizzazione dei
proventi derivanti dalla dismissione degli immobili individuati dall’Agenzia del demanio. Queste
operazioni constano di due fasi : 1) nella prima fase gli immobili pubblici vengono trasferiti alle
s.c.i.p. con dei decreti adottati dal Ministro dell’economia, che determinano anche il “prezzo
iniziale” che le s.c.i.p devono corrispondere allo Stato e agli altri enti pubblici per il trasferimento
dei beni. Le s.c.i.p., per far fronte al pagamento immediato del prezzo, possono assumere
“finanziamenti” o (e in tal caso vi è la vera e propria cartolarizzazione) emettere “titoli
obbligazionari” sul mercato. 2) Nella seconda fase, le s.c.i.p. - in vista del rimborso del
finanziamento o dei titoli emessi – procedono alla rivendita sul mercato degli immobili acquistati
precedentemente. Ove, poi, residuino delle somme dalla differenza tra il “ricavo delle vendite”, da
un lato, e i “rimborsi” e la “provvigione corriposta alle s.c.i.p. a titolo di remunerazione per
l’attività compiuta”, dall’altro, queste somme devono essere versate allo Stato o agli altri enti
pubblici ex proprietari.
Si tratta di “procedure di vendita indirette”, il cui pregio è quello di consentire allo Stato e agli altri
enti pubblici di incassare fin da subito il prezzo degli immobili trasferiti alle s.c.i.p., senza dover
attendere che queste ultime li cedano ai soggetti privati. Tuttavia, non tutti i beni pubblici possono
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essere oggetto di cartolarizzazione. Nonostante, infatti, la legge disponga che l’inclusione dei “beni
immobili” nei decreti ministeriali «produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile», la
dottrina ritiene - a ragione - che tali decreti non siano idonei a produrre, da soli, l’effetto costitutivo
di declassare i beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili in “beni patrimoniali disponibili” :
se così fosse, infatti, si dovrebbe giungere alla conclusione che, ad esempio, tutte le spiagge, tutti i
laghi, tutti i fiumi, ecc., potrebbero essere cartolarizzati (quindi venduti a soggetti privati) sulla sola
base di un decreto del Ministro dell’economia. Perciò, i decreti adottati dal Ministro esplicano una
mera efficacia dichiarativa, analoga a quella degli “atti amministrativi” previsti dall’art. 829 c.c. :
ciò significa che i beni demaniali e patrimoniali indisponibili possono essere inclusi nei decreti solo
se hanno già perso le proprie caratteristiche.
 Un’altra procedura di conferimento di beni pubblici a soggetti privati è poi quella che vede
protagonista la società per azioni “Patrimonio dello Stato s.p.a.”, istituita dal d.l. 63 / 2002 per la
valorizzazione, gestione e alienazione del patrimonio dello Stato. Anche questo organismo
societario presenta dei profili pubblicistici : 1) è stato istituito direttamente dalla legge; 2) le azioni
sono attribuite al Ministero dell’economia; 3) opera secondo gli “indirizzi strategici” stabiliti dal
Ministero dell’economia.
A “Patrimonio dello Stato s.p.a.” possono essere trasferiti diritti (pieni o parziali) sui “beni
immobili” facenti parte non solo del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato, ma anche
del demanio statale. Le modalità di trasferimento sono definite con decreto del Ministero
dell’economia e si prevede, inoltre, che “Patrimonio dello Stato s.p.a.” possa effettuare operazioni
di cartolarizzazione. Nel caso in cui vengano trasferiti immobili facenti parte del “demanio statale”,
è previsto che questo trasferimento «non modifica il regime giuridico (previsto dagli arti. 823 e 829,
1°comma c.c.) dei beni demaniali trasferiti» : ciò significa che, riguardo ai “beni demaniali” che le
vengono trasferiti, “Patrimonio dello Stato s.p.a.” potrà svolgere solo attività di gestione o di
valorizzazione (e non di alienazione). Per ciò che riguarda, invece, il trasferimento a “Patrimonio
dello Stato s.p.a.” dei “beni patrimoniali indisponibili”, restano fermi i vincoli gravanti sui beni
trasferiti, tra cui il “vincolo di destinazione” ex art. 828, 2°comma c.c.

 Nel 2011 si è attribuito al Ministero dell’economia il compito di costituire una “Società di


Gestione del Risparmio” (SGR), da esso interamente partecipata, avente come oggetto sociale la
costituzione di un fondo immobiliare che partecipi ai fondi immobiliari promossi da Regioni ed enti
locali. La previsione di questa nuova società detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze
ha portato alla soppressione e messa in liquidazione della “Patrimonio s.p.a.”.
 Un ultimo accenno, infine, va dedicato alle s.t.u. (“società di trasformazione urbana”) : le
s.t.u. sono delle società a capitale misto pubblico-privato, articolate su base locale; sono organismi
costituiti tra Comuni e privati (ma a cui possono partecipare anche Province, Regioni e Stato) il cui
obiettivo è quello di progettare e realizzare “interventi di trasformazione urbana” attraverso la
preventiva acquisizione degli immobili interessati dall’intervento e infine di vendere le opere
realizzate. Alle s.t.u. possono essere conferiti, a titolo di “concessione”, singoli beni immobili dello
Stato, ma il trasferimento non modifica il regime giuridico dei beni trasferiti : ragion per cui resta
ferma la loro connotazione pubblicistica o, per meglio dire, il loro “vincolo”.
 Infine vengono in rilievo i “beni integranti gli impianti e le reti destinati all’esercizio dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Essi devono appartenere necessariamente agli enti
locali, a meno che questi non decidano di conferirli a “società il cui capitale è interamente

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pubblico” : in questo caso, queste società mettono i beni in esame a disposizione dei gestori
incaricati della gestione del servizio, a fronte di un canone.

9. La trasformazione del concetto di res a destinazione pubblica.


Le vicende della “privatizzazione” che hanno interessato i beni pubblici dimostrano il superamento
della distinzione tra “beni demaniali” e “beni appartenenti al patrimonio indisponibile” : sulla base
di questo dato, perciò, si può ipotizzare il tramonto del tradizionale “vincolo d’inalienabilità” con
cui il codice civile ha contrassegnato i beni demaniali, a favore di un più flessibile “vincolo di
destinazione” che si limita a preservare la fruizione collettiva del bene, a prescindere dalla natura
pubblica o privata del proprietario.

10. Il federalismo demaniale. In attuazione delle nuove norme contenute nel Titolo V
della Costituzione, il legislatore ha provveduto a modificare in modo significativo la materia dei
“beni pubblici”. Il tutto ha preso avvio con la L. 42 / 2009 (in materia di «federalismo fiscale»), che
- nel dare attuazione all’art. 119 Cost. - ha delegato il Governo ad adottare alcuni decreti legislativi,
con cui attribuire «risorse autonome» ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle
Regioni, stabilendone le modalità di attribuzione. Queste disposizioni danno avvio ad una vera e
propria «devoluzione» del patrimonio dello Stato e a una dissoluzione del demanio statale a favore
dei diversi demani o patrimoni degli enti territoriali. Così, in esecuzione della L. 42 / 2009, il
Governo ha adottato il d.lgs. 85 / 2010, con cui sono stati individuati i «beni statali che possono
essere attribuiti a titolo non oneroso a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». L’art. 5,
1°comma del d.lgs. 85 / 2010 stabilisce che i beni trasferibili agli enti locali sono : i “beni demaniali
marittimi”, i “beni del demanio idrico” (esclusi però i fiumi e i laghi sovra-regionali), gli aeroporti
regionali o locali appartenenti al “demanio aereonautico”, le “miniere” e gli “altri beni immobili
dello Stato classificati come trasferibili agli enti territoriali”. Non sono, invece, in alcun modo
trasferibili agli enti locali (art. 5, 2°comma del d.lgs. 85 / 2010) : gli “immobili usati dalle
amministrazioni statali per svolgere i propri fini istituzionali”, i “porti e gli aeroporti nazionali e
internazionali”, i “beni culturali” e i “parchi nazionali e le riserve naturali statali”.
Quanto al procedimento di trasferimento dei beni pubblici, è statuito che il Presidente del Consiglio
deve stilare un elenco dei “beni che possono essere trasferiti agli enti territoriali”. Questi ultimi, ove
intendano acquisire i beni contenuti nell’elenco formato dal Governo, devono inoltrare un’apposita
domanda all’Agenzia del demanio, in cui è specificato l’uso che intendono fare del bene. Una volta
concluso l’iter istruttorio, il Presidente del Consiglio adotta il “provvedimento di assegnazione”.
Una volta che i beni sono stati assegnati agli enti locali, essi entrano a far parte del loro “patrimonio
disponibile” dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni , ad eccezione di
quelli appartenenti al “demanio marittimo”, “idrico” e “aeroportuale” (che restano assoggettati al
regime stabilito dal codice civile e dalle altre leggi di settore). In presenza di particolari circostanze
di pubblico interesse, però, il Governo può disporre il mantenimento di questi beni nel “demanio” o
la loro inclusione nel “patrimonio indisponibile”.

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-PARTE 7. CONTROLLI E RESPONSABILITA’-

-CAPITOLO 1. I CONTROLLI DI EFFICIENZA-

1.L’evoluzione del sistema dei controlli amministrativi. Il termine


“CONTROLLO” assume importanza sotto diversi profili :

 sotto il profilo oggettivo, il controllo si concreta in una serie di operazioni di riesame di


atti ed attività di un soggetto;
 sotto il profilo soggettivo, il controllo presuppone l’attivazione di un altro soggetto a ciò
espressamente autorizzato e può essere “interno” (cioè esercitato dalla stessa amministrazione
controllata) o “esterno all’amministrazione” (cioè implicante l’intervento di enti di
“valutazione esterni”);
 sotto il profilo giuridico, il controllo è distinto in interno ed esterno all’amministrazione
di riferimento;
 sotto il profilo temporale, il controllo può essere preventivo o successivo (a seconda che
sia effettuato prima o dopo l’adozione dell’atto);
 sotto il profilo tecnico, per il controllo può essere “di legittimità” (ove il parametro di
riferimento sia la conformità alla legge e alle norme riguardanti l’attività amministrativa),
“di merito” (qualora il parametro di riferimento sia costituito dall’opportunità dell’attività
amministrativa), o infine “di gestione” e “strategico” (ove i parametri siano costituiti
dall’economicità, dall’efficacia e dalla congruità dell’attività posta in essere rispetto ai
risultati raggiunti).

Nell’ultimo decennio si è passati dal sistema tradizionale dei “CONTROLLI PREVENTIVI DI


LEGITTIMITÀ” ai “CONTROLLI c.d. DI EFFICIENZA”, fino ad arrivare alla recente
introduzione del c.d. “CICLO DELLA PERFORMANCE” (ossia di un meccanismo idoneo ad
incentivare anche il merito e la qualità delle prestazioni, sia individuali che organizzative ). In Italia,
il tradizionale sistema dei controlli - facendo leva sulla centralità del provvedimento amministrativo
- prevedeva una “verifica di legittimità” (e, a volte, anche “di merito”) sui singoli atti
amministrativi adottati dagli organi di governo, da parte di un’amministrazione diversa : cosicchè,
in caso di riscontro negativo, l’attività di controllo si concludeva con l’emanazione di un
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“provvedimento di annullamento”, che andava ad incidere sull’atto controllato. Questo sistema ( dei
c.d. “controlli preventivi di legittimità”) col passare del tempo, però, si è mostrato inadeguato, in
quanto i controlli preventivi di legittimità erano troppo spesso fondati su riscontri meramente
cartolari, e i controlli di opportunità erano ancorati a valutazioni soggettive e incidevano troppo
sull’acquisita autonomia degli enti territoriali minori controllati. Così, sotto la spinta della rilevanza
data dal diritto positivo al «risultato», il legislatore ha rivisto profondamente l’assetto tradizionale
dei controlli ed ha spostato l’attenzione dal singolo provvedimento all’attività amministrativa nel
suo complesso.
In questo modo, ci si rese conto che era possibile :

 verificare la rispondenza del risultato raggiunto rispetto all’interesse pubblico tutelato


(EFFICACIA);
 verificare la rispondenza del risultato raggiunto rispetto all’obiettivo predefinito
(ADEGUATEZZA);
 verificare l’equilibrio tra le risorse usate per il perseguimento del fine e quelle
predeterminate (ECONOMICITÀ);
 verificare la razionalità delle scelte organizzative effettuate per il raggiungimento
dell’obiettivo (EFFICIENZA).

Tali valutazioni, che investono l’intera attività amministrativa, consentono – qualora l’esito del
controllo sia negativo – di adottare misure non più autoritative e sanzionatorie, ma collaborative e
correttive, che si sostanziano nella predisposizione (dopo la fase di valutazione dell’attività svolta)
di una «relazione» che esplicherà i suoi effetti su diversi piani : infatti l’esito negativo del controllo
determinerà, oltre alla “responsabilità dei soggetti coinvolti nell’attività controllata”, l’attivazione di
“meccanismi di autocorrezione”. Le soluzioni prospettabili per soddisfare queste esigenze erano due
:

 la previsione di CONTROLLI ESTERNI che aggiungesse al riscontro della “legittimità”


quello dell’ “efficienza”;
 l’articolazione di un sistema di CONTROLLI INTERNI, diversi dal “controllo preventivo di
legittimità”.

La prima soluzione è stata fatta propria dalla L. 20 / 1994 che - riformando il sistema dei “controlli
della Corte dei conti” - ha decretato il passaggio verso “un sistema che si impernia sul controllo
concomitante e posteriore sull’intera gestione” : con questa riforma si afferma un controllo
sull’attività complessivamente svolta dall’amministrazione che coinvolge l’efficienza, l’efficacia (i
risultati) e l’economicità (il rapporto costi-benefici), ma che include anche la legalità (la legittimità
e correttezza dell’azione amministrativa). Questo controllo è detto CONTROLLO SULLA
GESTIONE e i suoi parametri vengono definiti dalla Corte dei conti, che deve stendere
annualmente un programma in cui individua i “settori” e le “attività” da sottoporre a verifica.
La seconda soluzione si è concretizzata nel sistema delineato nel d.lgs. 286 / 1999, in cui erano
originariamente previsti 4 diversi tipi di controllo interno alle singole amministrazioni. C’è
un’evidente differenza rispetto al controllo di gestione demandato alla Corte dei conti : infatti
mentre nel “controllo di gestione” la legittimità (dei singoli atti) è oggetto di verifica esplicita, nei
“controlli interni”, la valutazione della legittimità non è oggetto diretto del giudizio, che invece ha
come fine immediato la valutazione di altri oggetti.
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2. I controlli interni. Il sistema dei CONTROLLI INTERNI è stato riordinato dal


d.lgs. 286 / 1999, con cui il legislatore ha scomposto l’unitaria figura del “controllo interno” in 4
diversi momenti di verifica e di valutazione dell’attività svolta; nel dettaglio, questi “momenti di
verifica” si sostanziano :

 in un controllo di regolarità amministrativa e contabile; (art. 2)


 in un controllo di gestione; (art. 4)
 nella valutazione del personale con incarico dirigenziale; (art. 5)
 nell’ attività di valutazione e in un controllo strategico. (art. 6)

Ogni tipo di controllo aveva una finalità diversa ed era demandato alla competenza di strutture
diverse : ciò sia per evitare che compiti eterogenei fossero affidati alle stesse strutture sia per
assicurare il collegamento tra controlli interni e controllo esterno sulla gestione delle
amministrazioni pubbliche svolto dalla Corte dei conti.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 150 / 2009, questi controlli restano in piedi nelle loro linee
generali (anche se modificati a livello normativo), ma devono essere armonizzati con il “c.d. ciclo
della performance” disegnato nel d.lgs. 150 / 2009.

 IL CONTROLLO DI REGOLARITA’ AMMINISTRATIVA E CONTABILE : dall’art.


2 del d.lgs. 286 / 1999 emerge che il “controllo di regolarità amministrativa e contabile” è volto a
garantire la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa. Esso ha l’obiettivo
di garantire la “legittimità degli atti amministrativi” e la “regolarità contabile” dei provvedimenti di
spesa rispetto alle previsioni di bilancio. Esso si svolge in via preventiva o successiva rispetto al
momento in cui l’atto di spesa spiega i suoi effetti ed è attualmente disciplinato dal d.lgs. 123 /
2011. Questo tipo di controllo, una volta concluso, non può esplicare effetti sanzionatori, poiché il
suo unico scopo è quello di indirizzare al meglio le scelte degli organi di governo e degli organi di
gestione : ciò emerge dalla formulazione dello stesso art. 2 che, non solo esclude che questa forma
di controllo possa essere un controllo repressivo o sanzionatorio dal cui esito dipenda l’ “efficacia”
dell’atto sottoposto a controllo, ma sancisce anche il principio della “prevalenza delle decisioni
dell’organo amministrativo responsabile”, per evitare di paralizzare l’attività amministrativa
(qualora il controllo dovesse avere un esito negativo). Infatti, il “controllo di regolarità
amministrativa e contabile” si concretizza, nella maggior parte dei casi, nell’emissione di “pareri” o
“proposte” che non sono mai vincolanti per l’organo a cui vengono resi.

 IL CONTROLLO DI GESTIONE : il “controllo di gestione” rappresenta la novità più


importante del d.lgs. 286 / 1999, in quanto, con la sua introduzione, il legislatore -stabilendo che
questo controllo è diretto a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione
amministrativa, per ottimizzare il rapporto tra “costi” e “risultati” - ha mostrato di voler porre al
centro dell’indagine l’attività amministrativa considerata nel suo complesso (cioè, come attività che
comprende sia gli “atti emanati dall’amministrazione”, sia quelli “omessi” e sia i “risultati
raggiunti”). In questa prospettiva, il sostantivo «gestione» (che è l’oggetto del controllo) va inteso
nel significato di attività amministrativa posta in essere da un soggetto dell’amministrazione in un
arco temporale prefissato (che può coincidere, ad esempio, con l’esercizio finanziario o con un
diverso intervallo di tempo stabilito). Dall’esame della regolamentazione dedicata al “controllo di
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gestione” (che comunque rimane ancora in vigore) emerge che ogni amministrazione pubblica : 1)
deve individuare le unità responsabili di questa forma di controllo (= gli uffici responsabili del
controllo) e le unità organizzative sottoposte a controllo; 2) e deve definire degli «indicatori
specifici per misurare efficacia, efficienza ed economicità.
Laddove il controllo si concluda con esito negativo, il d.lgs. 286 / 1999 impone la predisposizione
di una “relazione” (da trasmettere al dirigente interessato), al cui interno sono indicati i punti critici
rinvenuti e le consequenziali proposte risolutive (aventi l’obiettivo di ottimizzare la funzione
amministrativa).
La previsione di una forma di “verifica dell’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione
amministrativa” non ha rappresentato una novità assoluta nel nostro ordinamento, essendo stata
anticipata dall’entrata in vigore della L. 20 / 1994 : quest’ultima, infatti, nel modificare il “sistema
dei controlli demandati alla Corte dei Conti” ha decretato il passaggio da un modello di controllo su
singoli atti a un modello di controllo (esterno) sull’intera gestione. Dunque, la dottrina, per
raccordare il controllo «di» gestione (interno a ciascun amministrazione) con il controllo (esterno)
«sulla» gestione demandato alla Corte dei conti (per tutte le amministrazione pubbliche), ha
proposto di ipotizzare un c.d. «sistema globale integrato di controlli» (interni ed esterni), che
avrebbe la funzione di integrare i risultati (nel senso che gli organi controllori collaborano e i
risultati dell’azione di un organo vengono usati successivamente da altri organi, senza ripetere
attività già svolte). Operando in tal modo, il controllo (esterno) demandato alla Corte dei conti
dovrebbe, quindi, differenziarsi dal controllo di gestione (interno all’ente), per la diversità dei
parametri di riferimento (normativi per la Corte, e non normativi per il controllo interno), ma anche
dal punto di vista funzionale : infatti il controllo interno di gestione, essendo volto ad indicare le
misure correttive da attuare per migliorare l’attività, esplica efficacia sull’esercizio dell’azione
amministrativa; viceversa, il controllo della Corte comporta l’obbligo, per le amministrazioni
sottoposte a controllo, non solo di procedere a un accurato riesame della propria attività, ma anche
di comunicare alla Corte le misure consequenzialmente adottate.

 L’ATTIVITA’ DI VALUTAZIONE E CONTROLLO STRATEGICO : questo tipo di


controllo era la vera novità della riforma attuata con il d.lgs. 286 / 1999. Il “controllo strategico”
integra quell’attività volta a verificare l’«effettiva attuazione delle scelte contenute nelle direttive,
nei piani, nei programmi e in tutti gli altri atti di indirizzo politico emanati dai competenti organi
di governo», in termini di “adeguatezza” (cioè di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi
predefiniti). Tuttavia, attraverso questo tipo di controllo, l’intenzione del legislatore non è stata
quella di introdurre un meccanismo volto a verificare la rispondenza dell’attività amministrativa
(posta in essere dai dirigenti) con la programmazione di indirizzo politico (enucleata in sede
politica), ma quello di verificare la ragionevolezza delle decisioni amministrative assunte sulla base
degli indirizzi indicati a livello politico (cioè la coerenza dei risultati conseguiti rispetto agli
obiettivi prefissati), in modo da assicurare allo stesso tempo sia l’ “autonomia decisionale dei
dirigenti” che la “responsabilità politica degli organi di governo nella fissazione degli obiettivi”.
L’attività di “valutazione e controllo strategico” è un’attività (successiva all’espletamento delle
funzioni dirigenziali) che ha (come gli altri controlli interni) un carattere collaborativo e assume
come parametri : 1) «le missioni affidate dalle norme» ai dicasteri; 2) «gli obiettivi prescelti»; 3) «le
scelte effettuate e le risorse umane, finanziarie e materiali assegnate» ai soggetti responsabili della
realizzazione degli obiettivi. Quest’attività di valutazione è completata poi da un’attività volta a

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identificare gli eventuali “fattori ostativi”, le eventuali “responsabilità per la mancata attuazione
degli obiettivi prefissati” e i “possibili rimedi”. Nel quadro normativo attuale tale attività dovrebbe
essere svolta dall’“organismo indipendente di valutazione” (OIV).
Un momento fondamentale di quest’attività è la previsione di una valutazione anche «preventiva»
(oltre che successiva) della congruenza tra fini e scelte operative (valutazione che deve “ricostruire”
idealmente l’ambiente e le circostanze in cui è maturata la scelta). L’analisi poi si sposta sull’esame
dei “risultati finali ottenuti”, in modo da individuare gli «eventuali fattori ostativi» al
raggiungimento degli obiettivi. Questo sistema permette di distinguere le ipotesi in cui le scelte
operative effettuate non sono adeguate al raggiungimento degli obiettivi prefissati (con la
conseguente responsabilità dei dirigenti che hanno effettuato tali scelte) dalle ipotesi in cui il
mancato raggiungimento degli obiettivi è stato decretato da altri fattori, che hanno prevaricato sulle
pur adeguate scelte operative effettuate.

3. Il ciclo di gestione della performance. La riforma introdotta dal d.lgs. 286 /


1999 ha sollevato alcuni problemi che ne hanno impedito una piena attuazione (come, ad esempio,
la difficoltà della messa a regime del “sistema dei controlli interni” e la mancanza di un’adeguata
pubblicizzazione e trasparenza dei risultati conseguiti). Da qui l’intervento di cui al d.lgs. 150 /
2009 (c.d. “decreto Brunetta”), che contiene un’articolata disciplina del sistema di valutazione
(delle strutture e dei dipendenti pubblici), con lo scopo di assicurare elevati standard qualitativi ed
economici del servizio, attraverso la valorizzazione dei “risultati” e della “performance”
(organizzativa ed individuale). Dunque, la “misurazione” e la “valutazione della performance” sono
volte non solo al miglioramento della qualità dei servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni, ma
anche alla crescita delle competenze professionali, attraverso la valorizzazione del merito e
l’erogazione dei “premi” (per i risultati conseguiti dai singoli e dalle unità organizzative).

La «PERFORMANCE» è il contributo che un soggetto (che può essere inteso come “sistema”,
come “organizzazione”, come “unità organizzativa” o come “singolo individuo”) apporta, mediante
la propria opera, per il perseguimento degli obiettivi e dei fini attribuiti all’amministrazione di
appartenenza. Strettamente connessa con la valutazione della performance è l’introduzione di
“standard dell’azione amministrativa” (che vengono fissati coerentemente con le “linee guida”
definite dalla CIVIT) e che sono oggetto della valutazione delle performance : infatti la violazione
degli standard è uno dei presupposti per esercitare l’ “azione per l’efficienza delle amministrazioni e
dei concessionari dei servizi pubblici” e la “colpevole violazione del dovere dirigenziale di vigilare
sul rispetto degli standard da parte del personale assegnato ai propri uffici” determina la
decurtazione della retribuzione di risultato del dirigente.

Il d.lgs. 150 / 2009 ha introdotto il c.d. CICLO DI GESTIONE DELLA PERFORMANCE : ogni
amministrazione pubblica(sulla base delle norme contenute nel d.lgs. 150 / 2009) ha così l’obbligo
di implementare il “ciclo di gestione della performance” attraverso le seguenti fasi 1) definizione e
assegnazione degli obiettivi da raggiungere; 2) collegamento tra gli obiettivi prefissati e le risorse
allocate; 3) monitoraggio durante l’esercizio e attivazione di eventuali interventi correttivi; 4)
misurazione e valutazione della “performance” (sia organizzativa che individuale); 5) uso di
“sistemi premiali”, secondo criteri di valorizzazione del merito; 6) rendicontazione dei risultati

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ottenuti agli organi politici, ai vertici delle amministrazioni, agli organi esterni competenti, ai
cittadini e agli utenti e ai destinatari dei servizi.

Il d.lgs. 150 / 2009 ha introdotto delle innovazioni anche per quel che riguarda i “documenti da
redigere”; più precisamente, la riforma prevede 3 diversi tipi di documenti :

 il “PROGRAMMA TRIENNALE DELLA TRASPARENZA E DELL’INTEGRITÀ” :


ogni amministrazione adotta un “Programma triennale per la trasparenza e l’integrità” (da
aggiornare annualmente) che indica le iniziative (compresi i modi, i tempi di attuazione, le
risorse necessarie e gli strumenti di verifica dell’efficacia delle iniziative) previste per garantire
un adeguato livello di trasparenza, nonché la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità.
Tale programma deve indicare le modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli
obiettivi collegati con il “Piano della performance”. Le amministrazioni pubbliche devono
garantire la massima trasparenza in ogni fase del “ciclo di gestione della performance”. Il
Programma triennale per la trasparenza e l’integrità deve essere pubblicato da ogni P.A. sul
proprio sito istituzionale nella sezione "amministrazione trasparente". In caso di mancata
adozione e realizzazione del “Programma triennale per la trasparenza e l’integrità” o di mancata
pubblicazione sul sito istituzionale, è vietata l’erogazione della “retribuzione di risultato” ai
dirigenti preposti agli uffici coinvolti.
 Il “PIANO DELLA PERFORMANCE” è un documento programmatico triennale, che da
un lato individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici e operativi e, dall’altro, definisce gli
“indicatori sulla cui base procedere alla misurazione e alla valutazione della performance
dell’amministrazione” (nonché gli “obiettivi assegnati al personale dirigenziale” e i relativi
indicatori). Esso va adottato entro il 31 gennaio.
 La “RELAZIONE SULLA PERFORMANCE”, che riassume i risultati (organizzativi e
individuali) raggiunti rispetto ai singoli obiettivi programmati e alle risorse allocate, rilevando gli
eventuali scostamenti. Essa va adottata entro il 30 giugno.

Sia il “Piano” che la “Relazione” devono essere immediatamente trasmessi alla CIVIT e al
Ministero dell’economia. In caso di mancata adozione del “Piano della performance”, le
amministrazioni pubbliche non possono erogare la retribuzione di risultato ai dirigenti e non
possono assumere personale.
Gli “obiettivi” sono programmati su base triennale e definiti dagli organi di indirizzo politico-
amministrativo, sentiti i vertici dell’amministrazione che, a loro volta, consultano i dirigenti o i
responsabili delle unità organizzative; essi vengono definiti in coerenza con quelli di bilancio.
L’ “oggetto della valutazione” è costituito da : 1) l’attuazione di Piani e dei Programmi nel rispetto
dei tempi previsti, degli “standard” (qualitativi e quantitativi) definiti e del livello previsto di
assorbimento delle risorse; 2) la rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e
dei servizi; 3) il miglioramento qualitativo dell’organizzazione; 4) l’efficienza nell’impiego delle
risorse.
La misurazione e la valutazione della “performance individuale dei dirigenti”, invece, è collegata al
raggiungimento di specifici obiettivi individuali, alle competenze professionali e manageriali
dimostrate e alla capacità di valutazione dei propri collaboratori.

Nel “processo di misurazione e valutazione della performance (organizzativa e individuale)” delle


amministrazioni pubbliche intervengono vari organi :
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 la “Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni


pubbliche” (CIVIT) : la “CIVIT” è un’autorità amministrativa indipendente (*anche se ora non
esiste più, poiché il Governo Renzi nel 2014 ha soppresso l’Autorità facendone confluire strutture e
personale nella “Autorità Nazionale Anti-corruzione” (ANAC). E’ stata anche soppressa l’“Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, le cui funzioni e personale sono
stati trasferiti all'ANAC : L’ANAC è nata dalla trasformazione della CIVIT e si è fusa poi con
l’“Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, di cui eredita anche
le funzioni). La CIVIT opera in posizione di indipendenza di giudizio e in piena autonomia,
collaborando con la Presidenza del Consiglio dei ministri e con il Ministero dell’economia. Il suo
scopo è quello di fornire un supporto tecnico all’attuazione delle varie fasi del “ciclo di gestione
della performance”. La CIVIT : 1) definisce le “modalità di redazione del Piano e della Relazione”;
2) definisce i “parametri del sistema di misurazione e valutazione della performance”; 3) adotta le
“linee guida” per la predisposizione del “Programma triennale per la trasparenza e l’integrità”; 4)
verifica la corretta predisposizione del Piano e della Relazione delle amministrazioni centrali; 5) e
predispone una “relazione annuale sulla performance delle amministrazioni centrali”, pubblicandola
sul proprio sito istituzionale.

 gli “organismi indipendenti di valutazione della performance” (OIV) : ogni


amministrazione si dota di un “organismo indipendente di valutazione della performance” (OIV),
che riferisce direttamente all’organo di indirizzo politico-amministrativo ed è nominato da
quest’ultimo per un periodo di 3 anni. La finalità di questo organismo è quella di controllare il
funzionamento del “sistema di valutazione, della trasparenza e dell’integrità dei controlli interni”
(elaborando, a tal fine, un’apposita “relazione annuale”). Inoltre l’OIV : 1) comunica i punti critici
riscontrati ai competenti organi di governo e amministrazione; 2) convalida la Relazione sulla
performance e ne assicura la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione; 3) è
responsabile della corretta applicazione delle “linee guida” predisposte dalla CIVIT; 4) propone
all’organo di indirizzo politico-amministrativo la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e
l’attribuzione dei premi; 5) cura annualmente la realizzazione di indagini sul personale dipendente
per rilevare il livello di benessere organizzativo.
In sostanza, quindi, la valutazione delle strutture spetta all’OIV, mentre il personale non
dirigenziale è valutato dai dirigenti.
 l’organo di indirizzo politico-amministrativo di ogni amministrazione;
 i dirigenti di ogni amministrazione.

Il rispetto della disciplina della “misurazione e valutazione della performance” è una «condizione
necessaria per l’erogazione di premi legati al merito ed alla perfomance», e gli esiti di questa
attività rilevano per le progressioni di carriera, ai fini della “responsabilità disciplinare” (e, per i
dirigenti, ai fini di “quella dirigenziale”).

-CAPITOLO 2. LA RESPONSABILITA’ DELLA PUBBLICA


AMMINISTRAZIONE-
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1. Dall’immunità alla responsabilità della P.A. Per molto tempo in Italia


all’amministrazione pubblica è stata riservata, sul piano della “RESPONSABILITÀ CIVILE”, una
posizione di “immunità” (o, comunque, di “privilegio”), tale da garantire alla stessa una totale o
parziale inapplicabilità delle norme di diritto civile relative alla “responsabilità”. Anche se il tema
della “responsabilità della pubblica amministrazione per i fatti illeciti commessi dai propri
dipendenti” ha cominciato ad essere studiato tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, questa
evoluzione è stata gestita soprattutto dalla giurisprudenza, che, per salvaguardare il bilancio dello
Stato e degli enti pubblici, ha ritardato l’affermazione, a favore dei privati, di strumenti di tutela
(come la “tutela risarcitoria”) che potessero comportare esborsi monetari da parte dello Stato. Di
conseguenza, non ci si può stupire del fatto che il nostro ordinamento, fino alla metà del secolo
scorso (‘900), non prevedeva al suo interno né una “norma di carattere generale sulla tematica della
responsabilità della pubblica amministrazione”, né una “disciplina ad hoc” diretta a regolare la
responsabilità civile dei suoi dipendenti per i “danni arrecati ai terzi nell’esercizio illegittimo delle
loro funzioni”.
In una fase iniziale (anni '70 dell’800), anche la dottrina negava l’assoggettabilità
dell’amministrazione alla “RESPONSABILITÀ CIVILE” : si ammetteva la “responsabilità
dell’amministrazione” nei casi in cui questa avesse agito iure privatorum (avesse, cioè, agito
utilizzando gli strumenti classici del diritto privato), ma si escludeva la sussistenza di una qualsiasi
responsabilità ove l’amministrazione avesse posto in essere atti iure imperii, (cioè avesse agito
nell’esercizio del suo “potere d’imperio”, poiché tale potere la poneva in una posizione di
“supremazia”).
L’ostacolo principale che si frapponeva al riconoscimento della “responsabilità civile della P.A.”
era la problematicità dei tentativi di applicare alla stessa la disciplina codicistica della responsabilità
civile, che era incentrata sul profilo della “colpa” : sicché, per superare questo impaccio, una parte
della dottrina propose di costruire un’autonoma fattispecie di responsabilità : una “responsabilità
speciale di diritto pubblico”, disancorata dall’elemento soggettivo del “dolo” e della “colpa” (propri
della “responsabilità civile” di diritto comune); in questo modo, si prospettava un’ipotesi di
“responsabilità oggettiva”, fondata sull’elemento (oggettivo) dell’illegittimità della condotta.
Questo indirizzo di pensiero, però, non fu accolto dalla giurisprudenza, che al contrario precisò che
– ferma restando l’irresponsabilità dell’amministrazione per i danni arrecati nell’esercizio del suo
“potere autoritativo” – negli altri casi (cioè per i danni provocati da attività non legittimate da un
provvedimento efficace) se di responsabilità doveva parlarsi, questa andava inquadrata nell’ambito
della “responsabilità civile”, essendo l’amministrazione (sotto il profilo della responsabilità)
assoggettata alle “norme comuni”, come tutti gli altri soggetti dell’ordinamento.
Successivamente, studiosi e giudici incentrarono il dibattito sul carattere “diretto” o “indiretto”
della responsabilità della P.A. : in quest’ottica, alcuni – inquadrandola come “responsabilità
indiretta” (o per fatto altrui) – affermarono che l’amministrazione, in quanto “persona giuridica”,
poteva agire solo attraverso le persone fisiche che la componevano; in tal modo, si profilava una
“responsabilità indiretta dell’amministrazione”
(sottoposta alle regole del codice civile riguardanti la “responsabilità per fatto altrui”).
Altri studiosi, invece, facendo leva sulla “teoria dell’immedesimazione organica” (in base a cui si
consente all’ente pubblico di far proprie le volontà delle persone fisiche operanti al suo interno),
postularono una «responsabilità diretta» dell’amministrazione per il fatto illecito commesso dai suoi
dipendenti (anche detta “responsabilità per fatto proprio”). E fu proprio tale teoria a ricevere i più

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ampi consensi, soprattutto perché essa presentava dei vantaggi non secondari per il “terzo
danneggiato”, che non era tenuto ad individuare l’autore materiale responsabile all’interno della
struttura organizzativa pubblica, ma poteva citare in giudizio direttamente l’amministrazione (il che
assicurava un vantaggio anche sul piano economico, giacchè si citava in giudizio un soggetto molto
più solvibile).
In questo contesto, il soggetto agente non aveva responsabilità verso l’esterno : esso era chiamato a
rispondere solo nei confronti dell’amministrazione attraverso un’ “azione di regresso” esperita da
quest’ultima. La responsabilità dell’agente era, quindi, ritenuta “assorbita” da quella
dell’amministrazione.

*RESPONSABILITA’ CIVILE = responsabilità derivante da fatto illecito della quale il codice civile tratta (negli art. 2043-
2059). Si parla di responsabile civile per indicare il soggetto che è tenuto al “risarcimento del danno cagionato da un
altro soggetto”.

*ART. 2043 c.c. = “Qualunque fatto (doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno”.

2. La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici


nell’art. 28 Cost. Solo nel 1948, con l’art. 28 Cost., si è dettata una norma che ha preso in
considerazione la “RESPONSABILITÀ DELL’AMMINISTRAZIONE” e “DEI SUOI AGENTI” :
«i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo
le leggi civili, penali e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In questi casi la
responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Secondo la dottrina, la disposizione
costituzionale è chiara nell’affermare la «responsabilità diretta del funzionario e del dipendente
dell’amministrazione». Solo in via sussidiaria o solidale, infatti, è richiamata la “responsabilità
dell’ente pubblico”, che sembrerebbe doversi qualificare come responsabilità «indiretta» o per fatto
altrui (si tratta, cioè, di una responsabilità che, in assenza di quella del dipendente o del funzionario,
non sussiste affatto). Non si tratta, quindi, di una responsabilità della persona giuridica
(amministrazione) parallela a quella della persona fisica, ma di una responsabilità che vi trova il
proprio fondamento. Tale lettura, tuttavia, non è stata accolta dalla Cassazione, che ha ritenuto che
con l’art. 28 Cost. «non si è voluto sopprimere la responsabilità diretta della P.A. per fatti illeciti
dei suoi funzionari e dipendenti per affermare la sua responsabilità indiretta, ma si è voluto solo
sancire - accanto alla “responsabilità dell’ente” - anche “quella del singolo dipendente autore del
fatto dannoso”, che in passato era ritenuta assorbita dalla responsabilità dell’amministrazione».
Ragionando in questi termini, parte della dottrina, dato l’ambiguo tenore dell’art. 28 Cost., ha fatto
leva su altre norme costituzionali per affermare la “responsabilità diretta dell’ente”, che va ad
aggiungersi a “quella diretta del funzionario” : l’art. 113 Cost. e l’art. 103 Cost. In questo modo,
l’amministrazione ha continuato ad essere ritenuta direttamente responsabile nei confronti dei terzi.
Tuttavia, la disputa sulla natura “diretta” o “indiretta” della responsabilità dell’amministrazione non
ha comportato conseguenze sul piano pratico : quando si configurano le condizioni per l’insorgenza
della responsabilità del dipendente pubblico, l’art. 28 Cost. consente al “terzo danneggiato” di citare
in giudizio, comunque, anche l’amministrazione pubblica per il “risarcimento del danno”; con l’art.
28 Cost. il costituente mirava a responsabilizzare maggiormente il dipendenti pubblico, ma nella
realtà accade esattamente l’opposto. Infatti, nella maggior parte dei casi, quando si presentano le
condizioni per l’applicazione dell’art. 28, il “terzo danneggiato” tende a citare in giudizio
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l’amministrazione (e non il funzionario o il dipendente). Questa scelta si fonda su due ragioni : 1)


innanzitutto, la P.A. risponde anche a titolo di colpa lieve, mentre per il dipendente la soglia della
responsabilità è innalzata alla colpa grave ; 2) in secondo luogo, qualora l’amministrazione, in
conseguenza della citazione, venga condannata, il danneggiato potrà godere di un “integrale ristoro
economico” (beninteso, in caso di condanna, l’amministrazione potrà esercitare l’ “azione di
regresso” nei confronti dei suoi agenti, ma non a titolo di “responsabilità civile solidale”, ma a titolo
di “responsabilità amministrativa”) . Pertanto, non è vantaggioso convenire in giudizio il
funzionario (da solo o insieme all’amministrazione). Tra l’altro, in alcuni casi, il legislatore ha
espressamente escluso la possibilità di chiamare in giudizio direttamente l’agente pubblico : si
pensi, ad esempio, alla disciplina sulla “responsabilità dei magistrati” o a quella relativa al
“personale scolastico”, ipotesi in cui l’azione può essere promossa solo contro lo Stato.

*Per RESPONSABILITÀ SOLIDALE si intende la situazione in cui due o più soggetti sono obbligati a una medesima
prestazione. Ai sensi dell’art. 1292 c.c., ciascun debitore può essere costretto all’adempimento per la totalità della
prestazione e in tal caso, l’adempimento da parte di un coobbligato libera tutti gli altri.
Il debitore che ha pagato l’intero debito può rivalersi verso gli altri, ripetendo da ciascuno solo la parte per cui è obbligato
(cd. azione di regresso). La responsabilità solidale mira a rafforzare il credito, in quanto attribuisce al creditore la facoltà
di chiedere l'adempimento della prestazione ad uno qualunque dei debitori.

3. La responsabilità per i danni da lesione dell’interesse legittimo.


Una volta riconosciuto che anche l’amministrazione è sottoponibile al “principio di responsabilità”,
si è posto un altro problema : quello dell’irrisarcibilità o meno dei danni derivanti dalla lesione
degli interessi legittimi. Nell’affrontare il problema, la diatriba dottrinaria sviluppatasi intorno agli
anni '60, si incentrava sull’individuazione dell’esatto significato di «danno ingiusto», di cui all’art.
2043 c.c. All’inizio, dottrina e giurisprudenza erano concordi nel riconoscere l’ “ingiustizia del
danno” solo nel caso in cui questo avesse intaccato un diritto soggettivo : di conseguenza l’azione
di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno era offerta solo a tutela dei diritti
soggettivi. Per l’interesse legittimo, invece, si riteneva sufficiente la tutela offerta dall’
“annullamento dell’atto amministrativo” impugnato. Pertanto, mentre il titolare di un diritto
soggettivo danneggiato da un provvedimento amministrativo aveva a disposizione due mezzi di
tutela, sia pure da usare in sequenza (prima davanti al giudice amministrativo, e poi davanti al
giudice ordinario), cioè l’azione di annullamento del provvedimento e l’azione di risarcimento del
danno sofferto per la lesione del diritto soggettivo (illegittimamente compresso dal provvedimento
illegittimo), il titolare dell’interesse legittimo aveva a disposizione solo una tutela dimezzata, cioè
solo un mezzo di tutela (l’azione di annullamento).
Alla base dell’orientamento tradizionale della Cassazione (sostenitrice dell’irrisarcibilità dei danni
derivanti dalla lesione di interessi legittimi), riposavano varie ragioni :

 “ragioni economiche” : cioè, di salvaguardia dei bilanci pubblici (si voleva evitare che lo
Stato fosse esposto a esborsi di denaro);
 una “ragione sostanziale” : la giurisprudenza tendeva a costruire l’“interesse legittimo”
come una situazione avente natura puramente processuale (l’interesse legittimo, cioè, era

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considerato uno strumento con cui si concedeva al privato solo la possibilità di proporre ricorso
giurisdizionale, in vista dell’annullamento dell’atto). Quindi un problema di risarcibilità era da
escludersi : Infatti, il problema della risarcibilità del danno da lesione dell’interesse legittimo
poteva porsi solo se l’interesse legittimo fosse stato ritenuto una situazione giuridica soggettiva di
natura sostanziale e solo se tale situazione sostanziale avesse presentato quei caratteri idonei ad
esporla, in caso di lesione, ad un “pregiudizio patrimoniale”. Se si considera che la stessa
giurisprudenza amministrativa solo a partire dagli anni '80 ha aderito alla concezione sostanziale
dell’interesse legittimo, si comprende come l’orientamento della Cassazione fosse condizionato
dall’incertezza sulla natura dell’interesse legittimo. Se, però, questa era la ragione più profonda
dell’orientamento tradizionale della Cassazione, la ragione su cui essa fondava espressamente la
non risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi risiedeva in una particolare interpretazione
del sintagma «danno ingiusto» di cui all’art. 2043 c.c. Questa disposizione recita “Qualunque
fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il
fatto a risarcire il danno”. Secondo la Cassazione per «danno ingiusto» era da intendersi solo quello
derivante dalla lesione di un diritto soggettivo. In questo modo, la Cassazione faceva intendere che,
a suo avviso, gli eventuali danni derivanti dalla lesione di un interesse legittimo non erano idonei a
determinare l’integrazione di uno degli elementi costitutivi della fattispecie di “responsabilità
extracontrattuale” (l’ingiustizia del danno) e, quindi, la lesione dell’interesse legittimo produceva
non dei danni ingiusti risarcibili, ma solo dei pregiudizi patrimoniali, irrilevanti per il diritto.
 una “ragione processuale” : la posizione della Cassazione riposava anche su ragioni
processuali, e cioè che - anche volendo ritenere «ingiusto» (e quindi risarcibile), il danno da lesione
dell’interesse legittimo - sarebbe stato impossibile garantirne la risarcibilità effettiva, non
essendovi un giudice da poter adire. Trattandosi, infatti, di un “danno derivante dalla lesione
dell’interesse legittimo”, si riteneva che il giudice ordinario (giudice delle controversie relative ai
diritti soggettivi) fosse privo di giurisdizione in materia. Ma nemmeno il giudice amministrativo
poteva pronunciarsi sulla controversia risarcitoria, perché privo del potere di condannare la P.A. al
risarcimento del danno.

In ogni caso, la regola dell’ “irrisarcibilità del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi”
non si applicava letteralmente : dal suo novero, infatti, erano esclusi i c.d. “interessi legittimi
oppositivi” : in questi casi, l’ordinamento riconosceva all’interno di tali interessi la sussistenza di un
“nucleo sostanziale” qualificabile come diritto soggettivo. La Cassazione riteneva che – in presenza
di “interessi legittimi oppositivi” - l’annullamento dell’atto illegittimo da parte del giudice
amministrativo avrebbe fatto riemergere il diritto sostanziale del privato, sulla cui risarcibilità si
sarebbe poi pronunciato il “giudice ordinario”. Ma, in ogni caso, la risarcibilità veniva qui garantita
perché la lesione intaccava non l’interesse legittimo, ma il diritto soggettivo (riemerso dopo
l’annullamento dell’atto).
Restavano invece senza tutela risarcitoria i danni derivanti dalla lesione dei c.d. “interessi legittimi
pretensivi” (anche se la Cassazione aveva individuato delle figure che, pur non potendo essere
qualificate come diritti soggettivi, venivano mascherate come tali per permetterne la risarcibilità :
ad es., il soggetto leso poteva esperire l’azione risarcitoria nei confronti della pubblica
amministrazione, qualora il danno sofferto fosse stato causato da un “comportamento doloso del
pubblico funzionario” integrante gli estremi del reato). Inoltre, la Cassazione fu obbligata a
concedere “tutela risarcitoria” anche a quelle ipotesi, qualificate come interessi legittimi, enucleate
dalla Corte di Giustizia UE (ad es., in materia di “appalti pubblici”). Ciò, però, creò un vero e
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proprio paradosso nel nostro ordinamento, in cui vi erano, da un lato, gli “interessi legittimi
pretensivi nel settore degli appalti pubblici”, per i quali era ormai riconosciuta la risarcibilità, e
dall’altro gli “interessi legittimi pretensivi negli altri settori”, per i quali la tutela risarcitoria era
invece esclusa.
*Art. 2043 c.c. = responsabilità aquiliana (extracontrattuale).

4. L’evoluzione giurisprudenziale. Una spinta fondamentale al riconoscimento


della “tutela risarcitoria” del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi è stata data dal
legislatore, che con l’art. 35 del d.lgs. 80 / 1998 ha statuito che «il giudice amministrativo, nelle
controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, può disporre, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto». Con questa disposizione fu
quindi conferito al giudice amministrativo un ampio potere, non più limitato alla condanna
dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro di cui la stessa risultava debitrice, ma
esteso alla possibilità di condannare la P.A. al risarcimento di qualsiasi danno ingiusto, anche
attraverso la “reintegrazione in forma specifica”. L’attivazione del legislatore ha finito, così, per far
uscire la giurisprudenza da quell’ottica restrittiva che l’aveva, fino a quel momento, caratterizzata :
tant’è vero che le Sezioni Unite della Cassazione, con due sentenze (nn. 500 e 501 del 1999) hanno
statuito, dopo decenni, che i «danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi» possono essere
risarciti, purchè sussistano le seguenti condizioni :

 un concreto ed effettivo pregiudizio per il privato ricorrente;


 l’«ingiustizia» del danno;
 la sussistenza del dolo o della colpa dell’amministrazione, intesa nel suo apparato
complessivo (non viene, dunque, in rilievo la “responsabilità del singolo agente pubblico”);
 il nesso di causalità tra il danno provocato e la condotta dell’amministrazione.

Nella sentenza n. 500 / 1999 la Cassazione ha seguito questo percorso argomentativo :

o il danno è ingiusto ove sia leso un “interesse giuridicamente rilevante”;


o l’“interesse legittimo” è un interesse giuridicamente rilevante;
o dunque è “ingiusto” il danno contrassegnato dalla lesione di un interesse legittimo (a meno
che non sussista una “causa di giustificazione”).

Però, la Cassazione, preoccupata delle possibili interpretazioni ampliative che la decisione in esame
avrebbe potuto scatenare, ha immediatamente precisato che, con la sentenza, non ha voluto
ammettere un’indiscriminata risarcibilità dei “danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi”,
ma ha solo voluto concedere tutela al “danno derivante dalla lesione di interessi meritevoli di
tutela” : di conseguenza, essa ha fatto intendere che affinchè la “lesione dell’interesse legittimo”
possa essere risarcita, non basta che il danno sia “ingiusto” (ai sensi dell’art. 2043 c.c.), ma deve
essere soprattutto dimostrata la “meritevolezza di tutela” (che viene in rilievo ove si accerti che
l’attività illegittima dell’amministrazione sia andata ad intaccare l’ “interesse del privato al c.d.
bene della vita”). Secondo la Corte, cioè, la lesione dell’interesse legittimo è una condizione
necessaria, ma non sufficiente per giungere al risarcimento del danno ex 2043 c.c., poiché occorre
anche che l’attività illegittima della P.A. determini la lesione dell’ “interesse al bene della vita a cui
l’interesse legittimo si collega” (interesse ad acquisire o a non perdere un bene ritenuto essenziale

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per il privato) : pertanto, l’ingiustizia del danno non è data solo dalla lesione di un interesse
legittimo, ma anche dalla contemporanea lesione di un diverso interesse ad un bene della vita, che
deve essere a sua volta meritevole di tutela (cioè deve essere giuridicamente tutelato). Questa
conclusione, però, non è convincente, perché - visto che la Corte riconosce
l’interesse legittimo come una situazione giuridica sostanziale - si deve ritenere che qualsiasi
lesione (ovviamente “ingiusta”) di questo interesse debba essere risarcibile, laddove abbia
provocato un danno. Dunque, sembrerebbe più opportuno affermare che, per il riconoscimento della
risarcibilità, quel che rileva è l’accertamento della lesione ingiusta.
La Cassazione, però, non è giunta a questa conclusione; essa, al contrario, ha fatto riferimento – ai
fini della risarcibilità del danno – al bene della vita (in qualità di “oggetto dell’interesse legittimo”),
e ciò ne ha condizionato l’impostazione : la Cassazione aderisce a quella particolare teoria
dottrinaria dell’ “interesse legittimo” come situazione giuridica soggettiva che ha ad oggetto (non,
come sembra preferibile, l’interesse al provvedimento o al comportamento della P.A.), ma
direttamente l’ “interesse al bene della vita” (“interesse al bene della vita” che è fatto oggetto di
esercizio del potere amministrativo). Ciò condiziona il suo pensiero : se l’interesse legittimo è una
situazione giuridica soggettiva avente ad oggetto l’interesse a un bene della vita che è oggetto di
esercizio di potere amministrativo → e se questa situazione non garantisce la realizzazione
dell’interesse al bene, ma la rende solo possibile → la lesione di questo interesse potrà essere
risarcita solo se si dimostra che al privato spettava nel caso concreto l’effettiva realizzazione
dell’interesse al bene della vita (protetto come “interesse legittimo”).
Così, la Cassazione ha introdotto la distinzione tra “interessi legittimi incondizionatamente
risarcibili” e “interessi legittimi risarcibili in presenza di altre circostanze”. In quest’ottica:

 nel novero degli «interessi incondizionatamente risarcibili» sono stati fatti rientrare gli
interessi legittimi oppositivi, perché per essi ricorre una “posizione giuridica di vantaggio”,
considerata meritevole di tutela. Infatti, il soggetto che vanta questi interessi si trova a dover
fronteggiare il “potere amministrativo”, che può limitare o anche sacrificare un “interesse ad un
bene essenziale”, che già si trova nella disponibilità del privato (destinatario, ad es., di un
provvedimento espropriativo). Poichè gli interessi legittimi oppositivi fronteggiano un “potere” che
può sacrificare un interesse a un bene della vita già rientrante nella sfera giuridica del privato,
l’accertamento della lesione dell’interesse legittimo derivante da un provvedimento illegittimo
evidenzia la «spettanza effettiva» dell’interesse al bene in capo al privato (cioè che tale interesse
non poteva essere sacrificato dalla P.A.).
 al contrario, nella categoria degli «interessi risarcibili in presenza di altre circostanze»
sono stati inclusi gli interessi legittimi pretensivi, in quanto in questi casi l’interesse a cui aspira il
privato non si trova nella sua sfera di disponibilità : l’interesse al bene della vita, in questi casi, non
è un mero interesse di conservazione della sfera giuridica soggettiva, ma è un interesse di
espansione di tale sfera soggettiva; il suo soddisfacimento dipende, pertanto, dalle “modalità di
esercizio del potere amministrativo”. Così, ad esempio, laddove il privato richieda il rilascio di un
provvedimento ampliativo (ad es., una “concessione edilizia”) e l’amministrazione emetta un
“provvedimento di diniego”, per affermare la risarcibilità del danno il giudice, sulla base di un
giudizio prognostico, dovrà accertare non solo l’ “illegittimità del provvedimento negativo”, ma
anche la “fondatezza dell’istanza presentata dal privato e non accolta dall’amministrazione”. Però,
la Cassazione, ragionando così, ha finito per delimitare la “risarcibilità dei danni derivanti dalla

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lesione di interessi legittimi pretensivi” solo alle ipotesi di “attività amministrative vincolate” : le
uniche che, infatti, ammettono la possibilità di avviare un «giudizio prognostico».

Se si fosse adottata, invece, la concezione dell’interesse legittimo qui accolta, che vi ravvisa lo
schema di protezione dell’interesse al provvedimento (e, più in generale, ad un comportamento
favorevole della P.A.), si sarebbe giunti ad affermare la risarcibilità del danno come conseguenza
naturale e costante della lesione dell’interesse legittimo in quanto tale.

5. Profili processuali. La sentenza n. 500 / 1999 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione aveva affrontato anche l’annosa questione riguardante la “competenza del giudice”; in
quest’ottica, la Corte aveva precisato, in primis, che sulle “controversie aventi ad oggetto la tutela
risarcitoria dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi”, competente a pronunciarsi doveva
essere il “giudice ordinario” (tranne che nelle materie devolute ex lege alla “giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo”). La giurisdizione del “giudice ordinario” si giustificava in
considerazione del fatto che la “pretesa risarcitoria” che il privato faceva valere veniva qualificata
come “diritto soggettivo” : si trattava di una pretesa che presentava le caratteristiche tipiche di un
“diritto” (nel nostro caso, le caratteristiche di un “diritto di credito al risarcimento del danno”).
In secondo luogo, la Cassazione statuì che il giudice ordinario potesse pronunciarsi sulla domanda
di risarcimento dei danni anche prima che, nel giudizio di annullamento dell’atto, fosse intervenuta
la pronuncia del giudice amministrativo eventualmente adìto : in tal modo, la Corte, separando l’
“azione di annullamento del provvedimento amministrativo” dall’ “azione di risarcimento dei
danni” (c.d. rapporto di autonomia), aveva finito per far crollare la teoria della “pregiudizialità
della domanda di annullamento”, garantendo al privato una posizione di vantaggio, poiché gli si
evitava l’onere di dover affrontare due processi davanti a due giudici diversi.
La disciplina enucleata in sede giurisprudenziale fu, però, soppiantata dopo l’intervento del
legislatore che, nel cercare di canalizzare l’ “azione demolitoria” (diretta all’annullamento dell’atto)
e “quella risarcitoria” in capo al giudice amministrativo, stabilì – con la L. 205 / 2000 - che la
“tutela risarcitoria dell’interesse legittimo”, costituendo uno strumento ulteriore rispetto a quello
demolitorio, doveva essere richiesta non al giudice ordinario, ma al “giudice amministrativo”. ,
essendo uno «strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio». L'articolo così
recita : «Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di
tutte le questioni relative al risarcimento del danno ».
Così, in questo rinnovato quadro normativo, si aprì un acceso dibattito sul tema della
“pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione risarcitoria”. In questa
prospettiva, si formarono due orientamenti :

 Da un lato, la Cassazione, abbracciando la teoria dell’ “autonomia delle due azioni”, nel
2006 ha affermato che la “domanda di risarcimento” può essere proposta davanti al giudice
amministrativo anche senza la previa “domanda di annullamento del provvedimento lesivo”;
La tesi della Cassazione si fonda sul presupposto che la c.d. “pregiudiziale amministrativa” non
trova fondamento in nessuna norma di diritto positivo (cioè, non ha alcun fondamento giuridico) :
per ammettere il risarcimento del danno bisogna solo verificare l’illegittimità del comportamento

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dell’amministrazione; ma non è necessario annullare l’atto illegittimo, perché ciò significherebbe


restringere la portata della tutela risarcitoria spettante al privato.
 Dall’altro lato, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2007, invece, abbracciando
l’opposta tesi della “pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto alla tutela risarcitoria”,
statuì che il privato poteva richiedere il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi solo
laddove lo stesso avesse in precedenza impugnato il provvedimento lesivo (entro i termini) e solo
nel caso in cui tale provvedimento fosse stato annullato dal giudice amministrativo. Il Consiglio di
Stato fondava il suo orientamento su due principi specifici : 1) il c.d. “principio della certezza delle
situazioni giuridiche soggettive di diritto pubblico” (che, però, non era idoneo a giustificare la
subordinazione dell’azione risarcitoria all’azione di annullamento, perché l’ “azione risarcitoria”
non mira a demolire l’assetto di interessi costituito dal provvedimento, ma solo ad alleviare la
sofferenza economico-patrimoniale patita dal danneggiato per effetto dell’illecito perpetrato
dall’amministrazione); 2) il “divieto, per il giudice amministrativo, di disapplicare gli atti
amministrativi” (anche questo criterio non sembrava, però, giustificare la posizione del Consiglio,
poiché, nel momento in cui il giudice viene adìto per pronunciarsi sulla “richiesta di risarcimento”,
egli non è chiamato a
disapplicare il provvedimento, ma solo a prendere in considerazione gli “effetti del provvedimento
che possono andare ad incidere sulla sfera patrimoniale del privato”).
In ogni caso, queste questioni hanno trovato finalmente una soluzione con l’entrata in vigore del
codice del processo amministrativo (d.lgs. 104 / 2010), che ha stabilito, all’art. 30, che “l’azione di
condanna al risarcimento del danno può essere proposta, in caso di lesione di interessi legittimi,
anche in via autonoma, benché entro il termine di decadenza di 120 giorni, decorrente dal giorno
in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente
da questo”. In tal modo, il codice ha sancito l’autonomia della “domanda di risarcimento” rispetto a
“quella di demolizione dell’atto amministrativo”. La soluzione recepita dal codice è, però, una
soluzione di compromesso : nell’affermare l’ “autonomia delle due azioni” (e dunque l’abbandono
della regola della pregiudizialità), infatti, è stata contestualmente prevista una drastica riduzione del
“termine entro cui la domanda di risarcimento può essere proposta” a soli 120 giorni (mentre prima
il termine era di 5 anni, se all’ “illecito perpetrato dall’amministrazione” fosse stata attribuita
natura extracontrattuale, o di 10 anni, se all’illecito fosse stata attribuita natura contrattuale).
Inoltre, l’art. 30, 3°comma del codice impone al giudice amministrativo di escludere «il
risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ “ordinaria diligenza”, anche
attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti» (in altri termini, anche attraverso
l’esperimento dell’ “azione di annullamento dell’atto”) : ciò significa che il mancato esperimento
dell’azione di annullamento fa correre al danneggiato il rischio di vedersi escluso il risarcimento del
danno. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2011 ha optato per un’interpretazione di
questa disposizione molto severa per il danneggiato, sancendo che : “il soggetto che si reputi
danneggiato da un provvedimento amministrativo, è tenuto ad assumere – in ossequio ai principi
del codice civile – una condotta conforme al “principio di buona fede” e al parametro della
“diligenza”. In conseguenza di ciò, egli deve “esperire tutti gli strumenti di tutela che
l’ordinamento pone a sua disposizione e, in particolare, deve impugnare il provvedimento e
chiederne l’annullamento, altrimenti non avrà il ristoro dei danni che l’annullamento avrebbe
evitato»; anzi, «occorre anche che egli chieda la “tutela cautelare”, perché di per sè la domanda
di annullamento non fa cessare gli effetti dannosi riconducibili all’esecuzione del provvedimento».

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L’interpretazione del Consiglio di Stato, però, non è condivisibile : infatti l’art. 30, 3°comma
stabilisce che il giudice deve escludere «il risarcimento dei “danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza”, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti».
Secondo la sentenza l’ordinaria diligenza comporterebbe l’esperimento di tutti gli strumenti di
tutela, sia sostanziali (ricorsi amministrativi, richiesta di esercizio dell’autotutela) che processuali
(impugnazione, con richiesta di annullamento e di sospensione cautelare del provvedimento). Ma in
questo caso l’unica “danneggiante” è l’amministrazione. Al danneggiato (creditore) si chiede solo
di non aggravare i danni causati dall’amministrazione. Quindi dovrebbe essere sufficiente che il
danneggiato renda nota all’amministrazione l’ “illiceità della sua condotta”, il che può avvenire
attraverso l’esperimento anche di uno solo degli strumenti di tutela previsti, sia esso “sostanziale”
(come ad es. un ricorso amministrativo) o “processuale” (come, ad es. l’impugnazione dell’atto) o
anche attraverso una “semplice comunicazione” all’amministrazione danneggiante (tutte ipotesi
sufficienti ad integrare un comportamento di “ordinaria diligenza”). Pertanto, ove il danneggiato
avverta l’amministrazione della dannosità della sua condotta, non gli si può chiedere nient’altro in
nome dell’«ordinaria diligenza». Il che ci porta a concludere che l’esperimento dell’ “azione di
annullamento” non è affatto obbligatorio.

*RICORSO AMMINISTRATIVO  =   Il ricorso amministrativo è un rimedio amministrativo per risolvere una controversia
che normalmente fa seguito a un’istanza diretta a ottenere l’annullamento, la revoca o la riforma di un atto
amministrativo che il ricorrente considera lesivo dei propri interessi. La decisione che interviene sui ricorsi amministrativi
è espressione della funzione giustiziale dell’amministrazione : attraverso questa si consente all’amministrazione di
risolvere nel proprio seno eventuali controversie e al tempo stesso si offre agli amministrati una sede amministrativa
(pertanto meno dispendiosa) per tutelare i propri interessi; infine, attraverso il ricorso in sede amministrativa (in
particolare, nel ricorso gerarchico), possono essere valutate ragioni attinenti al “merito dell’azione amministrativa”, che in
sede giurisdizionale non potrebbero essere considerate. Il “ricorso gerarchico” è un rimedio amministrativo che consiste
nell’impugnativa di un atto non definitivo da parte dell’interessato all’organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a
quello che ha emanato l’atto.

6. Colpa della pubblica amministrazione e onere della prova. La


Corte di Cassazione, con la sentenza n. 500 / 1999, ha anche avuto modo di pronunciarsi (ribaltando
il suo precedente orientamento) sulla tematica relativa all’“elemento soggettivo della responsabilità
della P.A.”. A differenza delle pronunce anteriori al 1999, in cui la Corte attribuiva
all’amministrazione la “culpa in re ipsa” (cioè la presunzione di colpa) laddove la stessa avesse
adottato o dato esecuzione ad un atto amministrativo illegittimo, con la sent. 500 / 1999, invece la
Corte ha affermato la necessità di accertare effettivamente la “colpa dell’amministrazione,
precisando che questa “colpa” non deve essere confusa né con l’ “illegittimità del provvedimento”,
né con la “colpa individuale del singolo funzionario agente”.
Ragionando in questi termini, la Cassazione si è espressa nel modo seguente : “Per accertare l’
“elemento soggettivo”, il giudice deve svolgere un’indagine non limitata al solo accertamento dell’
“illegittimità del provvedimento”, ma estesa anche alla “valutazione della colpa”, non del
funzionario, ma dell’amministrazione intesa come “apparato”; colpa che sarà configurabile nel
caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia
avvenuta in violazione delle regole di “imparzialità”, “correttezza” e “buona amministrazione”,
alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice può valutare, in

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quanto si pongono come “limiti esterni alla discrezionalità”.


Dobbiamo soffermarci su tre aspetti :

1. il primo aspetto è quello che fa riferimento alla violazione delle “regole di imparzialità,
correttezza e buona amministrazione” : In realtà la violazione di queste regole è già compresa
nell’ambito dell’ “eccesso di potere” e si traduce, quindi, in un “vizio di legittimità”. Il che ci fa
comprendere che queste regole non possono essere presentate in questo contesto (riguardo alla
fattispecie della responsabilità); né, d’altra parte, può ritenersi che la Cassazione - riferendosi a
queste regole - abbia voluto delimitare la sussistenza della colpa della P.A. ai soli casi in cui
ricorrano «vizi particolarmente gravi» del provvedimento (sia perché non esiste nel nostro
ordinamento una norma che limiti la responsabilità della P.A. ai casi di “colpa grave”, sia perché,
accogliendo questa interpretazione, si darebbe alla “responsabilità civile della P.A.” una funzione
prevalentemente sanzionatoria, anzichè riparatoria del danno ingiusto). Pertanto, si deve ritenere
che le regole enunciate dalla Cassazione nella sent. 500 / 1999 non sono state poste come un “limite
esterno della discrezionalità”, ma come un “limite esterno della diligenza” : cioè, la Corte avrebbe
affermato che la “colpa dell’amministrazione” è esclusa tutte le volte in cui l’amministrazione sia
incorsa in un errore scusabile (derivante ad esempio dalla formulazione incerta delle norme
applicate, da oscillazioni interpretative della giurisprudenza o dai comportamenti di altri soggetti).
2. il secondo aspetto da analizzare è quello che fa riferimento alla “P.A. come apparato” :
qui bisognerebbe individuare il significato del concetto di “apparato”. Il punto è il seguente : dato
che l’amministrazione può violare le regole di “imparzialità”, “correttezza” e “buona
amministrazione” sia in presenza di “disfunzioni amministrative dovute a carenze organizzativo-
funzionali”, sia in presenza di “eventi ad essa non imputabili” (perché generati e, dunque,
imputabili a un altro ente pubblico), bisogna stabilire con precisione il significato del termine
“apparato”. In questo modo, ove per «apparato» si intenda il solo “ente competente ad adottare il
provvedimento”, questi principi potrebbero essere violati anche in assenza di «colpa»
dell’organismo agente); ove, al contrario, per apparato, si intenda “l’insieme degli organismi
amministrativi che hanno partecipato all’adozione del provvedimento” (come accade, ad esempio,
nella conferenza di servizi), qualsiasi violazione delle “regole di correttezza, imparzialità e buona
amministrazione” integrerebbe la «colpa d’apparato». In ogni caso, è “colposa” la condotta della
P.A. in tutte le ipotesi in cui l’illegittimità dell’azione amministrativa deriva da disfunzioni dovute a
carenze organizzativo-funzional (infatti in questi casi, non si può escludere la responsabilità della
P.A., poiché le carenze organizzative evocano una «concezione oggettiva» di colpa);
3. L’ultima questione che bisogna considerare è, infine, quella dell’“onere della prova” :
riguardo all’onere della prova dell’elemento soggettivo, la Cassazione, annoverando l’illecito della
P.A. nel raggio di azione dell’art. 2043 c.c. (“responsabilità aquiliana”), pone l’incombenza
dell’onere probatorio a carico del privato (è il danneggiato a dover provare la “colpa dell’ente
pubblico”) : infatti in ambito aquiliano grava sul danneggiato la prova degli “elementi costitutivi
della fattispecie illecita”. Tuttavia, si tratta di un onere probatorio che può essere molto gravoso per
il privato, specie nei casi in cui la “colpa dell’amministrazione” dipende da carenze organizzative o
da altri fatti non noti al privato. A ciò si aggiunga che, sulla questione, è intervenuta la Corte di
giustizia UE che - riguardo alle “controversie in tema di appalti pubblici” - ha affermato
l’incompatibilità con il diritto comunitario della normativa nazionale, che prevede che al
danneggiato possa essere riconosciuto il risarcimento solo nel caso in cui lo stesso riesca a
dimostrare la “colpa del dipendente pubblico”. Per queste ragioni, la giurisprudenza amministrativa
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ha cercato di facilitare il compito del danneggiato, statuendo che il privato può assolvere l’“onere
della prova” anche mediante l’utilizzo di “presunzioni semplici”, attraverso l’allegazione dei “vizi
di legittimità dell’atto”, considerati degli indizi della colpa dell’amministrazione (indizio della colpa
della P.A., ad esempio, può essere considerato l’“illegittimo diniego del bene della vita”, a mano
che l’amministrazione non riesca a dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile). Inoltre,
vanno considerati anche i recenti orientamenti che qualificano la “responsabilità della pubblica
amministrazione per lesione di interessi legittimi” come responsabilità contrattuale : però, ove si
opti per questa soluzione, sarà l’amministrazione (debitrice) a dover dimostrare che
l’inadempimento è dipeso da causa ad essa non imputabile (ex art. 1218 c.c.); infatti, nell’ambito
della “responsabilità contrattuale”, spetta al debitore provare che l’inadempimento è dipeso da una
causa a lui non imputabile.

*ART. 1218 c.c. (RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE) = “il debitore che non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

*presunzioni semplici = quelle che la legge lascia al libero apprezzamento del giudice (al contrario delle “presunzioni
legali”, che sono quelle il cui valore probatorio è riconosciuto automaticamente dalla legge, senza che il giudice le possa
valutare liberamente e che si dividono in “relative” e “assolute”).

7. La natura della responsabilità della P.A. L’ultimo problema da affrontare è


quello legato alla determinazione della natura della “responsabilità da lesione di interessi legittimi”
(poiché da ciò discendono rilevanti conseguenze sotto il profilo sia “sostanziale” che
“processuale” : pensiamo ad es. alla diversa distribuzione dell’onere della prova). La giurisprudenza
è sempre stata incline ad inquadrare questo tipo di responsabilità nell’ambito dell’ “illecito
extracontrattuale”, ma lo schema dell’illecito aquiliano (art. 2043 c.c.) non è del tutto adeguato : il
dato che caratterizza la “responsabilità extracontrattuale” è, infatti, l’estraneità tra soggetto
danneggiante e danneggiato, estraneità che non sussiste quando il danno è causato da un
“provvedimento amministrativo” : infatti, essendo sia l’amministrazione danneggiante che il privato
danneggiato entrambi parti di un procedimento amministrativo, tra essi si instaura un “rapporto
giuridico”, che fa sorgere precisi “doveri” in capo alla P.A. e “interessi legittimi” in capo al privato.
Ragionando in questi termini, perciò, la recente giurisprudenza ha preferito inquadrare la
“responsabilità dell’amministrazione per i danni da lesione di interessi legittimi” nella categoria
della c.d. “responsabilità contrattuale”. A differenza, però, dello schema della responsabilità
contrattuale, il rapporto che si instaura tra la P.A. e i privati nell’ambito del procedimento è più
stretto rispetto a quello che si instaura tra le parti di una trattativa contrattuale : infatti, mentre nelle
trattative contrattuali viene in rilievo il solo “dovere di buona fede” tra i contraenti, nel rapporto
amministrativo tra il privato e l’amministrazione si instaura un rapporto più complesso, poiché
l’amministrazione è tenuta a rispettare tutti i “principi che ne caratterizzano l’attività” (ad es. “buon
andamento”, “imparzialità”, “contemperamento degli interessi in gioco”, ecc.). Aderire alla tesi
della natura contrattuale invece che a quella aquiliana comporta significative conseguenze, poichè
le differenze sono molte : ad es., quella relativa all’onere probatorio, oppure quella relativa al
danno risarcibile (che nella responsabilità contrattuale è limitato ai soli danni prevedibili), o al
termine di prescrizione, ecc. Infine, oltre al binomio “responsabilità contrattuale-
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extracontrattuale”, di recente parte della dottrina ha inquadrato la “responsabilità amministrativa”


nel modello precontrattuale (artt. 1337 ss. c.c.); mentre un’altra parte ha proposto di distinguere la
natura della responsabilità a seconda che siano lesi “interessi legittimi oppositivi” (nel qual caso, si
dovrebbe optare per la natura aquiliana della responsabilità) o “interessi legittimi pretensivi” (nel
qual caso si avrebbe una responsabilità contrattuale). Quindi, la questione resta ancora aperta.

*responsabilità aquiliana = extracontrattuale.

ART. 1337 c.c. (responsabilità precontrattuale) = “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione
del contratto, devono comportarsi secondo buona fede” : cioè la violazione del “dovere di buone fede” genera
RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE. Le condotte che possono integrarla sono ad es. : abbandonare le trattative
senza giusta causa, quando queste siano giunte ad un punto tale da far confidare la controparte sulla conclusione del
contratto; non rendere note alla controparte cause di invalidità del contratto conosciute, indurre la controparte a stipulare
un contratto con inganno, ecc.

8. La responsabilità da attività lecita. L’interesse pubblico, in determinate


situazioni, può essere soddisfatto solo attraverso l’esercizio di “poteri” che comportano il sacrificio
degli interessi dei privati. In alcuni casi la Costituzione e le leggi prevedono espressamente che
l’esercizio di poteri amministrativi produttivi di effetti sfavorevoli per il destinatario sia
accompagnato dalla previsione di un «indennizzo», con finalità di ristoro del sacrificio
legittimamente arrecato all’interesse del privato nell’interesse pubblico. Queste ipotesi sono
ricondotte nell’ambito della categoria della «RESPONSABILITÀ DA ATTIVITÀ LECITA». Ma
c’è un dibattito, tuttora aperto in dottrina, che verte sulla seguente alternativa : il diritto
all’indennizzo è riconosciuto dall’ordinamento nelle sole ipotesi espressamente e tassativamente
previste o è un «principio» da cui discende un “obbligo indennitario” anche al di là delle espresse
previsioni (cioè anche nel silenzio della legge) ? Alcuni recenti studi propendono per questa
seconda ipotesi, ravvisando il fondamento di quest’obbligo in irrinunciabili esigenze di equità e, sul
piano costituzionale, nei principi di solidarietà e di uguaglianza (artt. 2 e 3 Cost.).

-CAPITOLO 3. LA RESPONSABILITA’ DEI FUNZIONARI E


DEI DIRIGENTI-

1. Inquadramento della materia. Nella “prima legislazione unitaria” (1862), nei


confronti dell’amministrazione era concepita solo la RESPONSABILITÀ CONTABILE : ossia la
responsabilità dei soli agenti contabili (funzionari che hanno il maneggio di denaro pubblico), e
non di tutti i dipendenti pubblici. Ciò fino al 1869, anno in cui con la “legge di contabilità di Stato”
è stata introdotta la c.d. RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA, per tutti i dipendenti pubblici
che avessero cagionato danni alle amministrazioni - statali - di appartenenza. In entrambi i casi, la
cognizione delle controversie di responsabilità (sia contabile che amministrativa) era ed è affidata
alla Corte dei conti. L’evoluzione successiva, negli anni ’70, ha allargato l’ambito delle categorie di
soggetti tenuti a rispondere dei danni provocati all’amministrazione : sono stati via via assoggettati
alla “responsabilità amministrativa” i dipendenti e gli amministratori degli enti c.d. parastatali, delle
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Regioni, delle aziende sanitarie e degli enti territoriali minori. Alla fine del processo di espansione,
la “responsabilità amministrativa” è diventata un istituto applicabile a tutti gli amministratori e
dipendenti di qualsiasi ente pubblico. L’allargamento poi si è esteso a “soggetti esterni
all’amministrazione”, legati ad essa da un rapporto di servizio (di norma coincidente con un
“rapporto di concessione”) : in tal modo sono state sottoposte alla responsabilità amministrativa
persone giuridiche anche private (ad esempio, società concessionarie di servizi pubblici), nonché i
loro amministratori e dipendenti. Per “rapporto di servizio” si deve intendere «una relazione con
l’amministrazione, che investe un soggetto ad essa estraneo, del compito di porre in essere in sua
vece una specifica attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura
(provvedimento, convenzione o contratto), né quella del soggetto che la riceve (privata o
pubblica)». Quindi, per i soggetti «interni» all’amministrazione, il presupposto per essere sottoposti
alla responsabilità amministrativa consiste semplicemente nel loro status di amministratori o di
dipendenti; mentre per i soggetti «esterni» occorre un legame con l’amministrazione, che viene
detto «rapporto di servizio».
E veniamo ai giorni nostri : di recente, sono stati assoggettati alla “responsabilità amministrativa”
anche gli amministratori e i dipendenti degli enti pubblici economici , nonché le società a
partecipazione pubblica. In particolare :

 Per gli “ENTI PUBBLICI ECONOMICI”, il problema dell’assoggettabilità derivava dalla


loro attività (ossia dall’essere imprenditori operanti nel mercato, pur avendo natura pubblica).
Poichè il giudice della “responsabilità amministrativa” è la Corte dei conti, l’individuazione dei
soggetti tenuti a risponderne si presenta anche come una questione di giurisdizione, nel senso che vi
è coincidenza tra l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina della responsabilità
amministrativa e l’ambito (processuale) della giurisdizione della Corte dei conti. E’ stata la
Cassazione a risolvere questi due problemi. Per quanto riguarda gli enti pubblici economici, fino al
2003 i loro amministratori e dipendenti erano sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti (e
quindi non erano soggetti alla responsabilità amministrativa) per quanto riguarda le “attività
imprenditoriali”; dal 2003 la Cassazione ha modificato il suo orientamento e ha esteso la disciplina
della responsabilità amministrativa anche a questi soggetti, sottolineando il fatto che gli “enti
pubblici economici” sono comunque enti pubblici che usano risorse pubbliche.
 Per quanto riguarda le “SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA”, nonostante la
loro natura privata e il carattere imprenditoriale, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei
Conti è stato giustificato legandole alla figura dell’“impresa pubblica”, così come delineata dal
diritto comunitario, ossia come impresa posta sotto il controllo dell’amministrazione. Si è anche
specificato che il “controllo” non dipende solo dal possesso del pacchetto azionario di maggioranza,
ma anche di un pacchetto inferiore al 50%, purché consenta all’amministrazione di avere il
controllo dell’impresa.

In ultima analisi, il criterio per fondare la giurisdizione della Corte dei conti si è spostato dalla
qualità del soggetto alla natura del danno e degli scopi perseguiti : in questo modo anche il
«rapporto di servizio» viene interpretato in senso lato, cosicché anche il privato che abbia ottenuto
un contributo da un ente pubblico per uno scopo di interesse pubblico risponde di “responsabilità
amministrativa” ove realizzi un danno per l’ente pubblico sovvenzionatore (ad esempio per non
aver raggiunto lo scopo per cui il contributo era stato erogato).

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2. La disciplina della responsabilità amministrativa. Il r.d. 2440 / 1923


(“legge di contabilità di Stato”) contemplava una sola forma di “responsabilità pubblica” : quella
dei dipendenti dello Stato che, nell’esercizio delle loro funzioni, avessero cagionato un danno allo
Stato. Si trattava di una “responsabilità c.d. parziaria”, in quanto era espressamente stabilito che, nel
caso in cui il fatto illecito fosse stato commesso da più soggetti, ogni dipendente avrebbe risposto
del fatto in relazione al tipo di partecipazione (avrebbe, cioè, risposto solo per la parte da lui
svolta). Nel corso del “giudizio risarcitorio”, inoltre, al giudice era anche riconosciuto il c.d. “potere
riduttivo” : egli, cioè, poteva decidere di condannare il dipendente anche a una somma inferiore
alla misura del danno cagionato.
In virtù di queste considerazioni, si rese allora necessario inquadrare la “responsabilità dei
dipendenti dello Stato” nell’alveo della “responsabilità civile”; la Corte dei conti si orientò prima
verso il modello della responsabilità contrattuale, fondando questa scelta :

 sul “rapporto d’impiego” tra il danneggiante (l’impiegato) e il danneggiato


(l’amministrazione datrice di lavoro);
 sulla maggiore lunghezza del “termine di prescrizione del diritto al risarcimento” rispetto a
quello previsto per la responsabilità extracontrattuale (10 anni anziché 5);
 e sul diverso regime dell’onere della prova (posto in capo al danneggiante).

La “responsabilità contrattuale”, però, presentava un limite, e cioè non consentiva di perseguire i


dipendenti di un’amministrazione che avessero cagionato dei danni ad un’altra amministrazione :
non c’era infatti il presupposto del “rapporto d’impiego”. In questo senso si espresse la Corte
costituzionale, affermando che i pubblici dipendenti, per i danni cagionati ad amministrazioni
diverse da quelle a cui sono legati da un rapporto d’impiego rispondono a titolo di “responsabilità
civile extracontrattuale” davanti al giudice ordinario.
In tal modo, il dibattito è proseguito fino agli anni ’90 : abbiamo dovuto attendere infatti la L. 20
/1994, attraverso la quale il legislatore ha dettato finalmente la disciplina della “responsabilità
amministrativa”. La fattispecie che genera la responsabilità resta quella tipica della “responsabilità
civile”, anche se vengono introdotti degli elementi diversi. Occorrono infatti :

 il comportamento illecito (viene, però, precisato che le “scelte discrezionali compiute dal
soggetto” non possono essere sindacate sotto il profilo del merito, ma solo sotto il profilo
della legittimità);
 l’elemento soggettivo (si precisa, però, che la responsabilità viene limitata al “dolo” e alla
“colpa grave”, con esclusione, quindi, della colpa lieve);
 il danno (si precisa, però, che il danno deve essere quantificato tenendo conto dei «vantaggi
comunque conseguiti dall’amministrazione» e diventa risarcibile anche il danno provocato
ad amministrazioni diverse da quella di appartenenza);
 il nesso di causalità tra la condotta del soggetto e il danno.

Della vecchia disciplina è rimasto il carattere personale della responsabilità, per cui, in caso di
comportamenti dannosi compiuti da più soggetti, «ciascuno risponde per la parte da lui svolta». È
stato conservato anche il potere del giudice contabile di ridurre la misura del risarcimento rispetto al
danno cagionato ed è stato chiarito che il diritto al risarcimento si prescrive in 5 anni.
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A proposito del potere riduttivo, la Corte costituzionale ha chiarito che si tratta di una terminologia
impropria : la disciplina della RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA infatti distingue il «danno
subito dall’amministrazione» dal «danno addossato al responsabile» : la relativa sentenza di
condanna è pertanto costitutiva del debito risarcitorio.
In definitiva, la disciplina della RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA è stata concepita in
modo profondamente diverso da quella della “responsabilità civile”. Il legislatore ha creato una
nuova e autonoma forma di responsabilità.
Tre sono le funzioni che caratterizzano qualsiasi tipo di responsabilità : 1) la sanzione dell’illecito;
2) il risarcimento del danno; 3) la dissuasione dal commettere ulteriori illeciti. Nella “responsabilità
amministrativa” prevale il terzo profilo funzionale : essa serve a scoraggiare comportamenti illeciti.
Inoltre la nuova disciplina ha consentito di superare la vecchia distinzione tra responsabilità
contabile (ossia degli agenti contabili, di coloro che hanno «il maneggio di denaro») e
responsabilità amministrativa : c’è ormai una sola disciplina sia per gli agenti contabili che per tutti
gli altri soggetti che danneggino l’amministrazione (e sia che siano legati all’amministrazione per il
loro status di amministratori o dipendenti sia che lo siano in base a un “rapporto di servizio”).

4.Il condono erariale. La “legge finanziaria per il 2006” ha introdotto un istituto nuovo,
il c.d. “CONDONO ERARIALE”. Si tratta di questo : coloro nei cui confronti sia stata pronunciata
“in primo grado” una sentenza di condanna da parte di una “Sezione regionale della Corte dei conti”
possono chiedere, durante il processo di appello, la definizione della controversia mediante il
pagamento di una somma non inferiore al 10% e non superiore al 20% del “danno quantificato nella
sentenza impugnata”. Competente a decidere in merito alla richiesta avanzata dal soggetto
interessato è la Sezione di appello, che, dopo aver sentito il pubblico ministero, delibera con
“decreto” assunto in camera di consiglio sulla richiesta di condono e, in caso di accoglimento,
determina la somma dovuta «in misura non superiore al 30% del danno quantificato nella sentenza
di primo grado, stabilendo il termine per il versamento». Una volta effettuato il versamento, il
giudizio di appello si conclude con il deposito della relativa ricevuta presso la “Segreteria della
Sezione”. Il condono può essere richiesto solo se la condotta illecita è antecedente all’entrata in
vigore della legge. Le
disposizioni sul «condono erariale» sono state poste al vaglio della Corte costituzionale per presunta
violazione del “principio di uguaglianza” (art. 3 Cost.), del “principio di buon andamento” (art. 97
Cost.) e del “principio del libero convincimento del giudice” (art. 101 Cost.), poichè il condono
determinerebbe un «effetto premiale ingiustificato» per il richiedente. La Corte costituzionale nel
2007 ha giudicato infondate le questioni di legittimità costituzionale, sulla base di questo
ragionamento :
 in primo luogo, le disposizioni sul condono «non impediscono al giudice contabile di
valutare gli elementi che hanno condotto alla condanna del richiedente (in primo grado); ragion
per cui egli può decidere, sulla base di tale valutazione, se accordare o meno la richiesta
avanzata;
 in secondo luogo la Corte costituzionale ha statuito che il condono erariale non comporta
«alcuna deroga al sistema della responsabilità amministrativa» e non produce «alcun
ingiustificato effetto premiale», poiché si limita solo ad accertare, «con un rito abbreviato,

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quanto è dovuto dai responsabili in base alle norme proprie del sistema della responsabilità
amministrativa».

Queste affermazioni della Corte costituzionale sono molto rilevanti, perché la Corte sorpassa, per
così dire, il “nocciolo della questione” (costituzionalità del condono erariale) e va a definire i tratti
caratteristici della “responsabilità amministrativa”. Infatti la Corte prosegue dicendo : «l’intero
“danno subito dall’amministrazione” non è di per sé risarcibile e costituisce solo il presupposto con
cui si concede al pubblico ministero di esercitare l’azione di responsabilità . Al contrario, a
determinare il “danno risarcibile” sarà il giudice contabile, attraverso una valutazione
«discrezionale ed equitativa». La
distinzione tra “danno provocato” (subito dall’amministrazione) e “danno risarcibile” (addossato al
responsabile) è uno degli elementi che differenziano la “responsabilità amministrativa” dalla
“responsabilità civile”. Ma se il condono erariale non comporta alcuna deroga al sistema della
“responsabilità amministrativa” - così come afferma la Corte - non si capisce perché abilitati a
richiedere tale condono siano solo i soggetti che abbiano posto in essere la condotta illecita nel
periodo antecedente all’entrata in vigore della legge che disciplina l’istituto. Si dovrebbe ritenere,
seguendo le argomentazioni della Corte, che il condono erariale non sia un istituto transitorio, in
quanto pienamente armonico con la disciplina della responsabilità amministrativa. Di diverso
avviso è stata, tuttavia, la Corte dei conti che, infatti, ha qualificato il condono come un istituto del
tutto eccezionale derogatorio dell’ordinaria disciplina processuale.

4.La responsabilità dirigenziale. La RESPONSABILITA’ DIRIGENZIALE


colpisce il dirigente che dimostri di non essere all’altezza dell’incarico che gli è stato affidato. Essa
trova fondamento nell’art. 21, 1° e 2° comma del d.lgs. 165 / 2001 (così come modificato dal d.lgs.
150 / 2009). Questa responsabilità trova giustificazione nella distinzione tra “attività di indirizzo e
controllo” (che spetta agli organi di governo politico dell’ente) ed “attività di gestione” (che,
invece, spetta ai dirigenti) : così, l’organo di governo individua gli obiettivi dell’azione
amministrativa e le risorse necessarie, mentre il dirigente deve svolgere l’attività gestionale per il
conseguimento degli obiettivi, nel rispetto delle risorse assegnate. L’art. 21 del d.lgs. 165 / 2001
(“t.u. sul pubblico impiego”), quindi, disciplina i casi di “responsabilità dirigenziale”. Al 1°comma
dell’art. 21 sono contemplate due ipotesi :

 il “mancato raggiungimento degli obiettivi” (c.d. violazione di obblighi di risultato),


accertati con il metodo della performance;
 l’“inosservanza delle direttive imputabili al dirigente” (c.d. violazione di obblighi di mezzi).

Per entrambe queste ipotesi la norma prevede, come conseguenza :

 «previa contestazione e ferma restando l’eventuale “responsabilità disciplinare” secondo


la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovare l’incarico
dirigenziale.
 A seconda della gravità dei casi, inoltre, l’amministrazione può, previa contestazione e nel
rispetto del principio del contraddittorio, revocare l’incarico dirigenziale o recedere dal
rapporto di lavoro».

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La responsabilità dirigenziale è, in ogni caso, da tenere distinta dalle altre forme di responsabilità
(civili, penali e amministrativo-disciplinari) che gravano sui dipendenti pubblici e, quindi, anche sui
dirigenti, ma che presuppongono fatti illeciti. Inoltre, mentre la
RESPONSABILITÀ DIRIGENZIALE non sorge dalla violazione di canoni normativi di
comportamento, ma solo dal “mancato raggiungimento dei risultati prodotti dal settore
organizzativo” (posto sotto la guida del dirigente), e si determina, quindi, anche in assenza di colpa,
la RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVO-DISCIPLINARE scaturisce, invece, dal
“comportamento illecito del dipendente” (e quindi colposo).
Però, la differenza tra “responsabilità dirigenziale” e “responsabilità amministrativa” si attenua se
spostiamo l’attenzione sulla terza ipotesi di responsabilità dirigenziale, introdotta al comma 1-bis
dell’art. 21 dal d.lgs. n. 150 / 2009, secondo cui “in base alla gravità della violazione e sentito il
“Comitato dei garanti”, può essere operata una decurtazione di una quota fino all’ 80% della
“retribuzione di risultato” a carico del dirigente nei cui confronti sia stata accertata - previa
contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio - la colpevole violazione del dovere di
vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard fissati
dall’amministrazione”.
Infine, secondo autorevole e condivisibile dottrina, le tre fattispecie di responsabilità dirigenziale
devono essere ricondotte nella sfera di operatività della “responsabilità contrattuale”, in quanto
sussiste un «vincolo» tra il “soggetto cui viene imputata la responsabilità” (il titolare dell’ufficio
dirigenziale) ed il “soggetto che ha diritto alla prestazione” (salvo verificare se l’avente diritto alla
prestazione sia direttamente l’organo politico o l’ente per cui l’uno e l’altro operano). La
responsabilità dirigenziale è una “responsabilità interna all’amministrazione”, che dovrebbe
sussistere nei confronti dell’ente, titolare della pretesa alla «prestazione» del dirigente, poichè il
“rapporto d’ufficio” interessa persona giuridica e persona fisica addetta ad un ufficio. Quindi, la
responsabilità, incidendo sul rapporto d’ufficio che lega il titolare dell’ufficio e la figura giuridica
soggettiva (titolare del diritto alle prestazioni lavorative del dirigente), coinvolge la figura
soggettiva : questa conclusione è avvalorata dall’art. 21, in cui si precisa che è «l’amministrazione»
a «recedere» dal rapporto di lavoro, e non l’organo di governo.

*Il pubblico dipendente nell’esercizio delle proprie funzioni, può incorrere in cinque tipi di responsabilità: quella civile,
penale (se pone in essere reati), amministrativo-contabile (se arreca un danno erariale all’amministrazione di
appartenenza o ad altra amministrazione), disciplinare (se viola obblighi previsti dalla contrattazione collettiva, dalla
legge o dal codice di comportamento) e dirigenziale (per il solo personale dirigenziale, che non raggiunga i risultati posti
dal vertice politico o si discosti dalle direttive dell’organo politico).

*La “RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE”: è quella forma di responsabilità (aggiuntiva rispetto a quella penale, civile,
amministrativo-contabile e dirigenziale) in cui incorre il lavoratore, pubblico o privato, che non osserva obblighi
contrattualmente assunti, fissati nel contratto collettivo nazionale e recepiti nel contratto individuale. Tale responsabilità
comporta l’applicazione da parte del datore di lavoro di sanzioni (richiamo, multa, sospensione dal servizio e dalla
retribuzione, licenziamento).

*RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA E CONTABILE : i dipendenti della Pubblica Amministrazione possono


incorrere, qualora arrechino un danno patrimoniale (erariale) alla propria amministrazione o ad un alto ente pubblico,
nella responsabilità amministrativa e contabile.
Per "responsabilità amministrativa" si intende la responsabilità per i danni causati all’ente nell’ambito o in occasione del
rapporto d’ufficio: affinché un soggetto possa essere chiamato a rispondere in sede di responsabilità amministrativa
occorre che lo stesso, con una condotta dolosa o gravemente colposa inerente al rapporto esistente con

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l’amministrazione, abbia causato un danno pubblico risarcibile che si ponga come conseguenza diretta e immediata di
detta condotta. Chi ha arrecato il danno (erariale) deve risarcirlo.

-PARTE 8. POTERI PUBBLICI ED


ECONOMIA-

-CAPITOLO 1. LE FUNZIONI DI REGOLAZIONE DEL


MERCATO-

1.Ordine economico e funzione amministrativa. La relazione tra POTERE


PUBBLICO ed ECONOMIA è condizionata dalle modalità con cui ogni singolo ordinamento (sulla
base dei fattori che lo caratterizzano) intende disciplinare tale rapporto. Di conseguenza, è essenziale
verificare la “portata di questi fattori” e – per far ciò – è necessario analizzare le relazioni che
intercorrono tra NORMA GIURIDICA e FATTO ECONOMICO. Al riguardo si registrano due diverse
impostazioni dottrinarie :
 la prima impostazione, ritenendo che la “norma giuridica” non influisca sul “fatto economico”
(data la sua neutralità), afferma che la norma è solo uno dei tanti elementi che il consociato deve
prendere in considerazione per effettuare una scelta. La norma è un semplice presupposto del
comportamento del privato, che resta libero nella determinazione dei fini; la “norma”, ponendosi in
una posizione di neutralità rispetto al “fatto economico”, si limita solo a predisporre un terreno che sia
in grado di consentire al fatto di esplicare i propri effetti (si pensi, ad esempio, alle scelte operate dal
singolo imprenditore nel rispetto dei “principi sanciti a livello giuridico”);
 la seconda impostazione, invece, fondando la propria ragion d’essere sulla
“funzionalità della norma giuridica”, e ritenendo che la norma perde la sua neutralità nel momento in
cui il legislatore la formula, le attribuisce la funzione di presupposto del “fatto economico” : in
quest’ottica il diritto, riducendo ad unità Stato (espresso nella norma) ed economia (intesa come
soggetto da regolamentare), si impone sulla vita economica, determinandone il corso, condizionando
anche le scelte del singolo (si pensi, ad esempio, alla regolamentazione dell’economia nei sistemi
socialisti).

Tuttavia, anche se in astratto è possibile accettare l’ipotesi che la “norma giuridica” (o il “sistema
giuridico”) non vada ad influenzare in funzionamento del “settore economico” (e, quindi, la norma può
certamente assumere un valore neutrale), in concreto ciò deve essere verificato caso per caso, ponendo
(a base del relativo giudizio) il “modello di politica economica che ogni ordinamento decide di
adottare” : si pensi, ad esempio, al nostro ordinamento, che (sotto il profilo della politica economica)
avendo posto a proprio fondamento il “principio concorrenziale”, impone al legislatore il compito di
predisporre un “complesso normativo condizionante” che sia in grado, da un lato, di assicurare il
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funzionamento del sistema economico (e in questo senso un ruolo predominante è svolto dalla
“Costituzione economica”) e, dall’altro, di garantire la correttezza dei rapporti tra tutti i consociati
(mediante la predisposizione di un corpus normativo capace di “coordinare le diverse attività” e di
“risolvere gli eventuali conflitti”).

2. Ordine economico e pluralismo dei valori. Se spostiamo l’attenzione sul piano


concreto e osserviamo la realtà giuridica che ci circonda ci si potrà rendere conto di come sia
impossibile, in concreto, adottare uno specifico “modello di politica economica”, sulla base del quale
disegnare non solo la “Costituzione economica” (cioè la disciplina costituzionale dell’economia), ma
anche il ruolo dello Stato nell’economia : una tale operazione, infatti, è possibile solo nel caso in cui ci
si trovi in presenza di un “modello costituzionale dichiaratamente politico” (come ad esempio quello
cinese o quello cubano). Al contrario, se prendiamo a modello le “esperienze costituzionali
dell’Europa continentale” (come, ad esempio, quella italiana), è subito evidente che una scelta del
“modello economico” operata direttamente a livello costituzionale contrasterebbe con la
caratterizzazione democratico-pluralista che le contraddistingue : in un sistema democratico-pluralista
la scelta del “modello economico” è il frutto delle scelte operate non solo dalle forze politiche, ma
anche da quelle sociali. Pertanto, il “modello di politica economica” non può essere determinato in
modo tassativo a livello costituzionale, perché se così fosse i “rapporti tra Stato ed economia”
risulterebbero rigidi e, perciò, poco propensi ad adattarsi alla mutevolezza della realtà sociale. Il
compito dello Stato, perciò, deve essere solo quello di offrire (mediante la predisposizione delle
“norme costituzionali) le coordinate essenziali della disciplina economica e del proprio ruolo
nell’economia, nel rispetto dei “diritti fondamentali dell’individuo”. L’organizzazione economica (così
come quella politica e sociale) deve essere tale da garantire il rispetto dei “diritti fondamentali”
contenuti nella Costituzione, che sono un vero e proprio limite per il legislatore anche nella
determinazione del “ruolo dello Stato nell’economia”. Un ruolo che può oscillare tra due estremi : un
sistema in cui il mercato concorrenziale può essere limitato a favore di un incisivo intervento pubblico
nell’economia (“Stato imprenditore”) o, viceversa, un sistema di mercato concorrenziale, rispetto a cui
le norme giuridiche si pongono al servizio del mercato, per garantire il suo corretto funzionamento
(“Stato regolatore”).

3.La disciplina costituzionale dei rapporti economici. Per quanto riguarda


la nostra esperienza costituzionale, la disciplina dei “RAPPORTI ECONOMICI” (artt. 35-47 Cost.) è
tra quelle più innovative della Costituzione, essendo nata dal compromesso tra le diverse forze
politiche presenti nell’Assemblea costituente : il costituente, dopo aver consacrato il principio liberale
della “libertà di iniziativa economica” (art. 41, 1°comma), ha inserito determinati limiti, attraverso cui
è stata concessa ai soggetti pubblici, da un lato, la possibilità di orientare i privati nell’esercizio della
“libertà di iniziativa economica” (in tal senso, si spiegano ad esempio, le sovvenzioni previste a
favore di specifiche categorie di imprese) e, dall’altro, la possibilità di partecipare in modo diretto alla
vita economica (art. 43 Cost.), anche in situazioni di “monopolio” (riserva al soggetto pubblico di
determinati settori di attività : c.d. nazionalizzazione) : si pensi all’esperienza, ormai tramontata, della
nazionalizzazione del settore dell’energia elettrica.
Dato che l’impianto costituzionale è incentrato sull’importanza della “persona umana”, il costituente
non poteva non assegnare (nell’ambito della disciplina dedicata ai “rapporti economici”) un ruolo di
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rilievo al lavoro, inteso come principale strumento per la realizzazione dell’individuo nella società :
proprio per questo motivo, dunque, il lavoratore risulta essere titolare di “diritti”, sia come singolo sia
all’interno di organizzazioni (nelle quali esercita la sua attività).
Nel Titolo 3° (dedicato ai “Rapporti economici”) alle norme riguardanti il “lavoro” fanno poi seguito
quelle riguardanti la “proprietà privata”, riconosciuta ex art. 42 Cost. Anche la proprietà non è
configurata in termini assoluti, come piena ed esclusiva, ma come «socialmente funzionalizzata», a
causa della coesistenza, nello stesso “diritto”, di due distinti interessi : «individuale» e «sociale» :
l’interesse sociale, ove in contrasto con quello individuale, è destinato a prevalere.
L’art. 42, 3° comma Cost. prevede che la legge determini i modi di acquisto e di godimento e anche i
limiti della proprietà, allo scopo di assicurarne la “funzione sociale” e di renderla accessibile a tutti.

*NAZIONALIZZAZIONE = processo che attribuisce allo Stato la gestione e la proprietà di un'impresa privata che,
generalmente, produce beni e servizi di interesse pubblico.

4. Modelli di organizzazione del mercato. I rapporti tra Stato ed economia sono


disciplinati, nella nostra Costituzione, agli artt. 41, 43 e 45 Cost., che descrivono 3 diversi modelli
economici :

 il primo modello è ispirato, ai sensi dell’art. 41 Cost., al “PRINCIPIO DEL LIBERO


MERCATO” (secondo lo schema proprio delle costituzioni liberali) : però il costituente, nel
regolamentare questo principio, ha operato un’importante graduazione, dal momento che – dopo aver
sancito all’art. 41, 1°comma la “libertà di iniziativa economica” – ne ha poi (implicitamente)
individuato un limite generale, rinvenibile nei “diritti fondamentali degli altri soggetti” (infatti la
“libertà di iniziativa economica” non può in nessun modo svolgersi in modo da violare le libertà civili,
la sicurezza economica dei lavoratori o la salute della collettività, né tantomeno può svolgersi in modo
da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, o in modo da porsi in contrasto con
l’utilità sociale : art. 41, 2°comma Cost.). In questa prospettiva, dunque, il legislatore – sulla base di
quanto disposto dai commi 2° e 3° dell’art. 41 – è abilitato a limitare la “libertà di iniziativa
economica” sia dal punto di vista soggettivo (si pensi, ad es., alla previsione di “specifici requisiti
professionali” per svolgere determinate attività) che dal punto di vista oggettivo (si pensi, ad es., alla
fissazione di “standards tecnici di produzione”). Si tratta di limiti che possono giungere fino a
sopprimere totalmente la “libertà di iniziativa economica”(ciò può accadere, ad esempio, quando
l’utilità individuale cui essa è finalizzata si pone in contrasto con l’utilità sociale o nei casi in cui
l’iniziativa privata danneggi la sicurezza, la libertà o la dignità umana).
 Il secondo modello è quello del c.d. “MONOPOLIO PUBBLICO” : l’art. 43 Cost. prevede una
riserva originaria o di trasferimento (mediante espropriazione e salvo indennizzo) a favore dello Stato,
di enti pubblici o di comunità di lavoratori o utenti, di quelle prestazioni di “rilevante interesse
pubblico”, la cui erogazione nei confronti della collettività si rende necessaria e va sempre garantita
in quanto relativa a “bisogni fondamentali” (come la salute e la sicurezza pubblica) : si pensi, ad es., ai
“servizi pubblici essenziali”, alle “fonti di energia” e alle “situazioni di monopolio”. All’art. 43 Cost. è
da ricondurre, ad esempio, la riserva a favore dell’Enel (operata con la L. 1643 / 1962) dell’esercizio
dell’attività di trasformazione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica (e il cui superamento si è

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verificato solo a partire dagli anni '90, con il c.d. “processo di privatizzazione”). L’art. 43 Cost.,
quindi, contiene una deroga al principio generale consacrato nell’art. 41, 1°comma Cost. ed è una vera
e propria specificazione dell’art. 42, 2°comma Cost.
 Il terzo modello è, infine, quello c.d. di “AUTOPRODUZIONE” (art. 45 Cost.), attraverso cui
il legislatore riconosce, come forme di autoproduzione, sia l’artigianato che la cooperazione a
carattere di mutualità senza fini di speculazione privata (di cui viene espressamente menzionata la
“funzione sociale”) : cooperazione che può riguardare sia l’offerta della forza lavoro che l’acquisto di
beni.

*ART. 45 COST. = “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di
speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e
le finalità.
La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato.

*SOCIETÀ COOPERATIVA = una società costituita per gestire in comune un'impresa che si prefigge lo scopo di fornire
agli stessi soci (scopo mutualistico) quei beni o servizi per il conseguimento dei quali la cooperativa è sorta. La
cooperativa è un'impresa - in forma di società - nella quale il fine è il soddisfacimento dei bisogni della persona (il socio).
Mentre il fine ultimo sia delle società di persone che delle società di capitali è la realizzazione del lucro e si concretizza
nel riparto degli utili patrimoniali, le “cooperative” hanno invece uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo
di cooperativa - nell'assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che
otterrebbero dal libero mercato. Il tratto che accomuna tutte le cooperative è quello dello scopo mutualistico e
dell'assenza di speculazione per il singolo: la società cooperativa persegue il fine di ottenere un guadagno mentre il
singolo socio no (a differenza delle altre forme societarie).

*Nell'impresa artigiana l'opera è prestata in prevalenza dal lavoro personale del singolo secondo un processo non
standardizzato, cioè nel quale, di regola, ciascun prodotto è un pezzo unico, in quanto lavorato singolarmente. Ciò comporta
un costo maggiore di questi prodotti rispetto a quelli di derivazione industriale e, quindi, la necessità di predisporre forme
maggiori di tutela a favore della categoria

5. I principi comunitari. L’ordinamento comunitario si basa sul “principio dell’economia


di mercato”, che a sua volta trova la propria fonte nel rispetto della “libertà di concorrenza”, che è un
elemento indispensabile per realizzare sia i fini economici (e cioè la realizzazione del “mercato
comune”) che quelli sociali. Pilastri della politica della concorrenza sono le disposizioni contenute nel
Titolo 7° del TFUE, che riguardano le “regole di concorrenza applicabili alle imprese” (artt. 101-106
TFUE) e le “regole di concorrenza applicabili agli Stati” (artt. 107-109 TFUE). Le prime (le “regole
di concorrenza applicabili alle imprese”) sono riconducibili ai seguenti divieti :

 il divieto di “INTESE CHE PREGIUDICANO LA CONCORRENZA” ex art. 101 TFUE, ai


sensi del quale sono incompatibili con il mercato comune (e quindi vietati) «tutti gli accordi tra
imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che possono pregiudicare il
commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il
gioco della concorrenza nel mercato». Si tratta di 3 diversi tipi di “intese” (accordi tra imprese,
pratiche concordate e decisioni di associazione tra imprese) che vanno dall’accordo vero e proprio (le
parti si accordano per comportarsi nel mercato in un certo modo) a forme più blande (*deboli) in cui,
pur non essendovi un accordo specifico, sussistono comunque forme di collaborazione tra le imprese
(desumibili anche dai loro comuni comportamenti che pregiudicano la concorrenza).

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 l’ “ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE” (art. 102 TFUE), che però non è sanzionato per la
semplice acquisizione di una posizione dominante, ma per lo sfruttamento abusivo di tale posizione
(quando il soggetto pone in essere un comportamento che, proprio grazie alla sua posizione
privilegiata sul mercato, può pregiudicare il commercio tra gli Stati membri).
 le “IMPRESE PUBBLICHE” (art. 106 TFUE) : il legislatore comunitario le equipara a quelle
private, nel senso di assoggettarle alle norme del Trattato (ed in particolare agli artt. 101 e 102) come
un qualsiasi operatore privato. Infatti, all’art. 106 è fatto espresso divieto agli Stati membri di emanare
o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche, “misure che restringono la concorrenza”, in
contrasto con le norme comunitarie (l’unica eccezione riguarda le “imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico generale”, per le quali le regole della concorrenza non trovano
applicazione ove la loro osservanza ostacoli l’adempimento della loro funzione).

In relazione, invece, alle “regole di concorrenza applicabili agli Stati”, le stesse sono riconducibili ad
un unico divieto (art. 107, par. 1 TFUE) : quello di concedere aiuti, sia diretti (incentivi, sovvenzioni),
sia indiretti (sgravi fiscali) ad imprese o a categorie di imprese, che in tal modo risulterebbero
ingiustificatamente avvantaggiate rispetto alle imprese concorrenti. Proprio per evitare l’“aiuto di
Stato”, la Commissione e la Corte di giustizia hanno elaborato un particolare sistema di analisi,
indicato con l’acronimo v.i.s.t. (vantaggio, incidenza, selettività, trasferimento), teso a verificare se
l’aiuto concesso possa essere qualificato come “aiuto di Stato”. Si tratta di un giudizio fondato su 4
elementi : 1) il «vantaggio economico» (che può consistere tanto nell’erogazione di risorse a favore
di un’impresa, quanto nella rinuncia ad un introito da parte dello Stato); 2) la sua «incidenza» sul
commercio intracomunitario (nel senso che il vantaggio che il destinatario ne ricava deve essere tale da
falsare la concorrenza, ad esempio rafforzando la posizione dell’impresa beneficiaria rispetto ai suoi
concorrenti); 3) la «selettività» dell’aiuto : infatti l’aiuto non sempre è incompatibile con i principi
comunitari, ma lo diventa se è tale da favorire solo alcune imprese operanti in un certo settore, e non
tutte le imprese; 4) il «trasferimento», cioè la provenienza dell’aiuto (che non deve necessariamente
essere accordato direttamente dallo Stato, potendo trattarsi anche di agevolazioni erogate da enti
pubblici territoriali o da società controllate dallo Stato). In ogni caso, questo sistema conosce anche
delle deroghe, contemplate ai commi 2 e 3 dell’art. 107 TFUE : si tratta di deroghe che trovano la
propria ragion d’essere nelle finalità degli aiuti (si pensi, ad esempio, agli aiuti aventi carattere sociale
o agli aiuti destinati ad ovviare ai danni cagionati da calamità naturali).
Alla disciplina richiamata si aggiungono le disposizioni contenute nel regolamento n. 139 / 2004,
relativo alle «CONCENTRAZIONI», che si hanno quando «due o più imprese procedono a una
fusione, o quando una o più persone che detengono il controllo di almeno un’impresa acquistano il
controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese». Le concentrazioni devono essere
preventivamente autorizzate dalla Commissione, che accerta la loro compatibilità o incompatibilità
con il mercato comune.

6. Evoluzione delle forme di intervento statale nell’economia. A partire


dalla grande crisi del 1929 l’intervento dello Stato nell’economia è stato sempre più massiccio ed è
perdurato anche nei primi 50 anni della storia repubblicana. In questo periodo, infatti, si è registrato un
penetrante intervento dello Stato nell’economia sia nel settore imprenditoriale che in quello dei servizi
(il che ha inevitabilmente comportato una moltiplicazione degli apparati pubblici e un conseguente
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vertiginoso innalzamento del debito pubblico) : fenomeno che la dottrina ha descritto nei termini di un
passaggio dalla formula dello “Stato sociale” a quella dello “Stato assistenziale”. In questa prospettiva
si sono sviluppate, accanto alle “forme di intervento diretto dello Stato”, anche specifici “strumenti di
regolamentazione del mercato”, tesi ad orientare l’iniziativa privata verso gli obiettivi prefissati a
livello statale (attraverso la previsione di forme di vigilanza e controllo, nonchè di incentivazione delle
attività private). La dottrina, riguardo al “settore bancario”, aveva individuato 3 diversi tipi di controllo
:

 il CONTROLLO-VIGILANZA : in cui lo Stato interveniva semplicemente per verificare che i


soggetti ponessero in essere la loro attività nel rispetto delle regole predisposte dai pubblici poteri
(questa vigilanza si attuava attraverso un’attività di polizia economica predisposta a tutela del
“risparmiatore”);
 il CONTROLLO-DIREZIONE : attraverso cui lo Stato non solo vigilava sull’osservanza delle
regole predisposte (per tutelare il risparmiatore), ma “dirigeva” anche le attività del settore, in modo
da garantirne la stabilità e il corretto funzionamento (questa “direzione” si concretizzava in
un’eteroimposizione dei fini perseguiti);
 il CONTROLLO-REGOLAZIONE : attraverso cui lo Stato, sempre per «tutelare il
risparmiatore», effettuava anche un “controllo”, che tuttavia assumeva le sembianze di un
coordinamento amministrativo (in tal modo, quindi, si lasciava integra la sostanza dell’attività
controllata).

Nei casi esaminati assumono rilievo lo “strumento programmatorio” e “pianificatorio”, che sono
mezzi con cui lo Stato pone l’economia al servizio del progresso sociale e civile del Paese. La
funzione programmatoria ha trovato il proprio fulcro nel CIPE e in altri Comitati interministeriali a cui
è stata demandata la determinazione degli “obiettivi di sviluppo economico” e dei connessi “strumenti
di direzione dell’economia”. Accanto agli atti di programmazione e pianificazione, importanti sono le
“attività di coordinamento”, attuate mediante direttive, sanzioni e controlli. Si tratta, quindi, di un
complesso di attività pubbliche, che possono essere indicate come “FORME DI
REGOLAMENTAZIONE DELL’ECONOMIA”, che implicano non solo la diretta erogazione del
servizio da parte del soggetto pubblico, ma anche lo svolgimento di attività di controllo, direzione e
governo dei singoli settori considerati, tese ad operare un’eterodeterminazione dei “fini” perseguiti
dai singoli operatori (che, pertanto, non sono totalmente liberi di operare sul mercato).

*POLIZIA ECONOMICO-FINANZIARIA = (guardia di finanza) la “polizia economico-finanziaria” si distingue nelle due aree:
1) finanziaria : per la protezione delle entrate e delle spese pubbliche dell’Unione Europea, dello Stato e degli Enti locali
(contrasto all’evasione fiscale, al riciclaggio, e a tutte le altre forme di crimini finanziari); 2) economica : per la salvaguardia
del corretto funzionamento dei mercati e delle regole della concorrenza, anche con riferimento alle possibili infiltrazioni o
inquinamenti di organizzazioni criminali nei mercati.

6.1. La disciplina contenuta nella L. 148 / 2011. Significativa è la riforma


realizzata con il d.l. 138 / 2011 (convertito nella L. 148 / 2011), il cui articolo 3, 1°comma impone
l’obbligo per Comuni, Province, Regioni e Stato di adeguare - entro un anno dall’entrata in vigore
della legge - i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui «l’iniziativa e l’attività economica

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privata sono libere» ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge.
Fanno eccezione a tale obbligo, però :

1) le attività sottoposte a “vincoli imposti dall’ordinamento comunitario” e dagli “impegni


internazionali”;
2) le iniziative e le attività in contrasto con i “principi fondamentali della Costituzione”;
3) le attività poste in danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e in contrasto con
l’utilità sociale;
4) le attività in contrasto con le “norme riguardanti la protezione della salute umana,
dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale”;
5) le attività in contrasto con le “norme aventi effetti sulla finanza pubblica”.

7. La funzione di regolazione dei mercati. A partire dagli anni '90 si è assistito ad


un’implementazione del “modello liberista” : l’opzione per un “modello concorrenziale” ha
comportato l’arretramento del pubblico dall’erogazione dei servizi a favore della collettività. Si è
passati dalla “regolamentazione del mercato” (in cui i fini degli operatori sono eterodeterminati dal
soggetto pubblico) alla “regolazione del mercato”
(in cui la presenza del soggetto pubblico nel mercato è ispirata a finalità diverse, tese a garantirne la
stabilità e il corretto funzionamento).
La regolazione designa una forma di intervento pubblico realizzata da un soggetto pubblico
(un’amministrazione indipendente), con cui lo Stato garantisce il governo giuridico centralizzato di
specifiche attività, attraverso la statuizione e l’applicazione di regole di condotta. La «regolazione» si
delinea come quell’attività (amministrativa) svolta da un soggetto pubblico per il corretto
funzionamento e la stabilità del mercato (per garantire la concorrenzialità e la stabilità del mercato).
Dunque, una funzione amministrativa che si distingue dalla “regolamentazione”, poichè è espressione
di un “mercato concorrenziale”. La “regolazione” si riferisce ad attività affidate ai privati rispetto alle
quali lo Stato (l’amministrazione indipendente) si limita a stabilire le “regole che fungono da condicio
sine qua non per un funzionamento efficiente di queste attività” (e, quindi, dei settori cui esse
ineriscono), ponendosi come garante del rispetto di queste regole da parte dei soggetti operanti nel
sistema regolato, attraverso un complesso di poteri di “controllo” e di “vigilanza”, nonché
“sanzionatori” e “di soluzione dei conflitti”.

8. Regolazione nei mercati dei servizi di pubblica utilità.


8.1. I settori energetici : l’energia elettrica e il gas naturale. Il settore
dell’ENERGIA ELETTRICA e quello del GAS NATURALE sono stati progressivamente aperti al
mercato concorrenziale per effetto della normativa comunitaria. Nel caso dell’energia elettrica, il
monopolio pubblico era gestito dall’Enel (ente pubblico economico istituito con la L. 1643 / 1962, poi
trasformato in società per azioni nel 1992) ; nel caso del gas naturale, dall’Eni (anch’esso nella forma
dell’ente pubblico monopolista e anch’esso trasformato in società per azioni nel 1992). Infatti con la L.
1643 / 1962, la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia elettrica furono riservate allo
Stato (e il relativo servizio fu affidato, in regime di monopolio, all’Enel, in virtù del principio ex art. 43
Cost.). In seguito, però, la direttiva 96 / 92 / CE (per il settore dell’energia elettrica) e la direttiva 98 /
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30 / CE (per il settore del gas naturale) hanno innescato un processo di liberalizzazione; tali direttive
sono il primo passo, sul piano della normativa comunitaria, del processo per la realizzazione di un
mercato concorrenziale.

 Quanto al settore dell’ ENERGIA ELETTRICA la direttiva 96 / 92 / CE è stata sostituita dalla


successiva direttiva 2003 / 54 / CE (seconda fase) e poi dalla direttiva 2009 / 72 / CE (terza fase); a
ciascun atto comunitario è seguita l’adozione, sul piano interno, dei provvedimenti di attuazione :
rispettivamente, il d.lgs. 79 / 1999, la L. 239 / 2004 e infine il d.lgs. 93 / 2011. Queste direttive hanno
separato le varie “fasi del ciclo del mercato elettrico ” in diversi segmenti, dichiarando libere le attività
di produzione, importazione, acquisto e vendita e mantenendo la riserva allo Stato solo per la
trasmissione, il dispacciamento (*attività che gestisce e monitora i flussi di elettricità e gas sulla rete
di trasporto) e la distribuzione dell’energia. Il mercato elettrico è quindi suddiviso in diversi
“segmenti” :

1) innanzitutto l’attività di “produzione di energia elettrica”, che è libera. Però, per poter
costruire “nuovi impianti di produzione” è necessaria un’apposita “autorizzazione”, rilasciata - per gli
impianti che usano combustibili fossili - dal “Ministero per lo sviluppo economico” (previa intesa con
la Regione interessata); per gli impianti alimentati da fonti rinnovabili (e cioè, quelli che sfruttano
particolari risorse naturali, come il sole o il vento) rilasciata dalle Regioni.
2) Sono libere anche le attività di “importazione ed esportazione di energia elettrica”.
3) Viceversa, le attività di “trasmissione” (cioè il trasporto di energia elettrica su reti ad alta
tensione) e di “dispacciamento” (l’insieme delle funzioni dirette a coordinare il trasporto
dell’energia), avendo carattere di monopolio naturale (dato che la rete elettrica non è duplicabile),
sono affidate in concessione ad un soggetto ad hoc, individuato ex lege : il «gestore della rete» (che
oggi è anche proprietario della rete) : si tratta della società per azioni Terna (già in mano di Enel
s.p.a.). Il “gestore della rete” ha l’obbligo di connettere alla rete tutti i soggetti che ne facciano
richiesta, purché siano rispettate le condizioni (determinate dall’“Autorità per l’energia elettrica e il
gas”) atte a garantire a tutti gli utenti la libertà di accesso alla rete a parità di condizioni.
4) Anche l’attività di “distribuzione” (cioè il trasporto di energia elettrica su reti in media e bassa
tensione) per la consegna ai clienti finali, avendo carattere di monopolio naturale, è sottoposta ad un
“regime concessorio” : il rilascio delle concessioni avviene mediante un’apposita gara, le cui modalità
sono determinate con regolamento dal “Ministero dello sviluppo economico”.
5) Infine, l’attività di “vendita dell’energia elettrica” è dichiarata «libera». Qui dobbiamo
distinguere tra due categorie di acquirenti : 1) i c.d. “clienti idonei”, che consumano gradi quantità di
energia (in genere sono le grandi imprese industriali), che possono scegliere liberamente il proprio
fornitore e acquistare energia elettrica o mediante una “contrattazione bilaterale” con un determinato
venditore (società di produzione o società di vendita) o con il «sistema delle offerte» (che è un mercato
all’ingrosso basato su un meccanismo di asta : c.d. borsa elettrica); 2) i c.d. “clienti vincolati” sono,
invece, tutti gli altri consumatori di energia elettrica (piccole imprese e utenti civili); per i clienti
domestici e le piccole imprese è garantito il regime di «maggior tutela» (ossia il diritto di essere
riforniti di energia elettrica con una tariffa stabilita dall’ “Autorità per l’energia elettrica e il gas”);
questi clienti, per poter acquistare energia elettrica, stipulano appositi “contratti di fornitura” con una
specifica s.p.a. controllata dallo Stato (il c.d. “Acquirente unico s.p.a.”).

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 Quanto al settore del GAS NATURALE, la direttiva 98 / 30 / CE, con cui si è avviato il
processo di liberalizzazione del settore, è stata successivamente sostituita (seconda fase) dalla direttiva
2003 / 55 / CE e infine dalla direttiva 2009 / 73 / CE. L’attuazione della normativa comunitaria è
avvenuta, una prima volta, con il d.lgs. 164 / 2000 e poi con la L. 239 / 2004 e il d.lgs. 93 / 2011. Le
attività di importazione ed esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e vendita di
gas naturale sono dichiarate libere. Viceversa, l’attività di “stoccaggio del gas” (cioè, il deposito in
strutture del sottosuolo del gas naturale prelevato dalla rete di trasporto nazionale e successivamente
reimmesso nella rete in funzione delle richieste del mercato) è un’attività sottoposta a riserva statale e
lo Stato ne attribuisce l’esercizio in “regime di concessione”.

In chiusura, un accenno va dedicato alle “funzioni di regolazione” e “di garanzia” (entrambe affidate ai
pubblici poteri) : esse sono distribuite tra il Governo, il Ministero dello sviluppo economico e
l’Autorità per l’energia elettrica e il gas.

 Il Governo determina gli «obiettivi generali di politica energetica» e stabilisce i “criteri


generali che l’Autorità per l’energia elettrica e il gas deve osservare nella determinazione delle tariffe
da applicare”.
 Il Ministero dello sviluppo economico deve invece provvedere alla sicurezza e all’economicità
del “sistema elettrico nazionale” : a tal fine svolge molte funzioni tecniche (ad esempio controlla le
attività di manutenzione della rete elettrica).
 Infine, l’“Autorità per l’energia elettrica e il gas” ha il compito di garantire la promozione della
concorrenza e dell’efficienza nel settore elettrico, tutelando, al contempo, gli interessi degli utenti e i
livelli di qualità dei servizi. A tali fini, è dotata di rilevanti poteri, tra cui spiccano la determinazione
delle tariffe, nonché compiti di vigilanza e monitoraggio. Essa è un’autorità amministrativa
indipendente - composta da 2 membri e da un Presidente, nominati con d.p.r. - che deve operare «in
piena autonomia e con indipendenza di giudizio e valutazione».

8.2. Il settore dei trasporti. Il “processo di liberalizzazione” imposto dall’ordinamento


comunitario ha riguardato anche il “SETTORE DEI TRASPORTI” (contraddistinto anch’esso dalla
presenza di molti monopoli pubblici) : in virtù del processo di liberalizzazione è stata concessa la
possibilità agli operatori privati di accedere ai relativi mercati in condizioni di parità e in regime di
concorrenza. Detto ciò, analizziamo 3 diversi “settori” del mercato dei trasporti :

 Il settore dei TRASPORTI AEREI in ambito comunitario è attualmente disciplinato dal


regolamento CE n. 1008 / 2008. Il regolamento vigente disciplina il rilascio delle licenze ai vettori
aerei comunitari, l’accesso alle rotte e la determinazione del prezzo dei servizi aerei. Riguardo al primo
profilo, il regolamento ha stabilito che l’attività di “vettore aereo” può essere esercitata solo nel
momento in cui l’interessato riesca ad ottenere un’apposita “licenza”, che gli Stati membri rilasciano
nel caso in cui il richiedente dimostri di essere in possesso dei requisiti tecnici, di sicurezza, e di
professionalità e di capacità finanziaria (da ciò si intuisce, quindi, che il rilascio della “licenza”non
presenta carattere discrezionale, ma vincolato).
Riguardo all’accesso alle rotte, il regolamento sancisce la libertà di prestazione del servizio aereo
intracomunitario : infatti, i vettori aerei comunitari possono prestare “servizi intracomunitari” e gli
Stati membri devono astenersi dal subordinare il servizio a qualsivoglia permesso o autorizzazione. Il
regolamento, però - per garantire la continuità del servizio pubblico in relazione a quelle tratte
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(*percorsi) che, essendo divenute antieconomiche (per via del processo di liberalizzazione) potrebbero
essere abbandonate dai vettori - stabilisce anche dei “principi generali per gli oneri di servizio
pubblico” : l’ “onere di servizio pubblico” e’ una procedura con cui uno Stato membro può imporre su
determinate rotte lo svolgimento di un particolare servizio aereo; si prevede, però, che questi “oneri”
possano essere imposti dagli Stati membri solo nella misura necessaria a garantire che su rotte
antieconomiche siano prestati servizi aerei minimi rispondenti a criteri di continuità e regolarità.
Quanto alla determinazione del “prezzo” dei servizi aerei, il regolamento conferma il principio della
piena libertà tariffaria.
Nel settore del trasporto aereo, un ruolo centrale è rivestito dall’“Ente nazionale per l’aviazione civile”
(ente pubblico soggetto all’indirizzo e alla vigilanza del Ministero dei trasporti), che deve garantire la
sicurezza e la tutela dei diritti dei passeggeri, e dall’ “Enav s.p.a.” (Società nazionale per l’assistenza
al volo), che è responsabile del controllo del traffico aereo e della navigazione terminale in aereoporto
(*trasferimento dei passeggeri dal sistema di trasporto terrestre a quello aeronautico e viceversa).

 Il settore dei TRASPORTI FERROVIARI è attualmente disciplinato dalle direttive CE nn. 12,
13 e 14 /2001, recepite con il d.lgs. 188 / 2003. Poiché anche la rete ferroviaria, non essendo
duplicabile, attiene ad un monopolio naturale, è prevista la separazione tra il “soggetto gestore della
rete” e i “soggetti erogatori del servizio di trasporto” (che, per accedere all’infrastruttura ed
esercitare così la relativa attività, devono ottenere una “licenza” da parte del “Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti”, il cui rilascio, però, non è discrezionale (essendo subordinato
all’accertamento dei requisiti di capacità professionale e finanziaria stabiliti dalla legge).
Il “gestore della rete”, invece, è tenuto ad assegnare la capacità di infrastruttura ferroviaria e a
rilasciare il certificato di sicurezza, che è un titolo necessario per poter svolgere l’attività di trasporto
ferroviario.
La progressiva liberalizzazione del mercato del trasporto ferroviario ha imposto una riorganizzazione
della società Ferrovie dello Stato s.p.a., (già ente pubblico economico e monopolista del settore) : essa
ha conferito la gestione della rete ferroviaria alla società Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e lo
svolgimento dei servizi di trasporto alla società Trenitalia s.p.a. Tuttavia questo modello non è in
linea con le direttive comunitarie (disciplinanti la liberalizzazione del settore), perché entrambe queste
società sono attualmente partecipate, per la totalità del capitale azionario, dalla stessa Ferrovie dello
Stato s.p.a. (che a sua volta è totalmente partecipata dallo Stato).

 Per il settore del TRASPORTO MARITTIMO valgono principi analoghi a quelli illustrati a
proposito del trasporto aereo : tra questi, in particolare, la libertà di accesso al servizio, subordinata
solo al rilascio di “autorizzazioni non discrezionali”. A tutela della sicurezza e della concorrenza è
stata istituita un’apposita autorità di settore (l’“Agenzia europea per la sicurezza marittima”).

A livello nazionale, è stata istituita l’“Autorità di regolazione dei trasporti”. L’Autorità, che opera in
piena autonomia e indipendenza di giudizio e valutazione, svolge compiti importanti in materia di
regolazione, promozione e tutela della concorrenza. All’Autorità spetta : 1) garantire “condizioni di
accesso eque e non discriminatorie” alle infrastrutture ferroviarie, portuali, aeroportuali e alle reti
autostradali; 2) stabilire gli “standards minimi di qualità dei servizi di trasporto sottoposti ad oneri di
servizio pubblico”; 3) definire i “criteri per la determinazione delle tariffe”; 4) tutelare i “diritti degli

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utenti”; 5) definire gli “schemi dei bandi di gara”. L’Autorità è dotata di poteri di vigilanza e controllo,
poteri di ispezione e poteri sanzionatori in caso di inosservanza dei propri provvedimenti. L’Autorità
si compone del Presidente e di 2 membri, nominati con d.p.r.

8.3. Il settore delle telecomunicazioni. Il SETTORE DELLE


TELECOMUNICAZIONI è disciplinato dal d.lgs. 259 / 2003 («codice delle comunicazioni
elettroniche»), che si ispira a due fondamentali principi : 1) il principio della libertà di accesso al
mercato e di tutela della concorrenza; 2) e il principio di garanzia dei diritti degli utenti dei servizi.
Per quanto riguarda la disciplina dell’accesso al mercato, l’attività di fornitura di reti o di servizi di
comunicazione elettronica (telefonia, internet, ecc.) è subordinata al rilascio di un’autorizzazione
(avente natura non discrezionale), rilasciata dal “Ministero dello sviluppo economico” in base ad una
procedura modellata sull’art. 19 della L. 241 / 1990. Lo stesso Ministero vigila anche
sull’adempimento degli obblighi derivanti dalle autorizzazioni e sul rispetto della normativa di settore.
La funzione di regolazione del settore è rimessa in parte al “Ministero dello sviluppo economico” e in
parte all’Agcom (Autorità per le garanzie nel settore delle comunicazioni). L’Agcom è scissa in 2
Commissioni (costituite, ciascuna, da 2 commissari), oltre il Presidente dell’Autorità. Quest’ultimo è
nominato con d.p.r., su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri. I 4 commissari sono eletti
per metà dalla Camera dei deputati e per metà dal Senato e nominati con d.p.r.

 Il compito dell’Agcom è innanzitutto quello di tutelare la concorrenza : in questa prospettiva,


l’Agcom - sulla base di quanto stabilito dalla Commissione europea - individua i mercati geografici da
sottoporre, per la loro rilevanza, ad accurata analisi; qualora a seguito di quest’analisi, l’Autorità si
renda conto che il mercato non è concorrenziale, essa individua le “imprese che hanno più potere sul
mercato” e dispone, nei loro confronti, l’applicazione di adeguate “misure atte a ripristinare la
concorrenza”. Le relative controversie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
 Il secondo compito che il legislatore ha devoluto all’Agcom è, invece, quello di garantire il
“servizio universale” (cioè il servizio minimo di prestazioni che tutti gli utenti hanno il diritto di
esigere : ad es., il diritto di godere di una connessione, in postazione fissa, alla rete telefonica o il
diritto di godere di una connessione a internet). A tal fine, l’Agcom dispone di penetranti poteri, tra cui
: 1) il potere di individuare gli operatori tenuti agli obblighi di servizio universale; 2) quello di imporre
agli operatori di rendere pubbliche le informazioni sulla qualità dei servizi offerti; 3) e quello di fissare
“tariffe minime” per tutelare gli utenti con un basso reddito.
 La terza funzione attribuita all’Agcom è infine quella relativa alla risoluzione di controversie :
occorre distinguere, però, tra le “controversie che sorgono tra gli operatori” in relazione agli obblighi
previsti dal “Codice delle comunicazioni” (che riguardano la funzione di regolazione vera e propria,
perché l’Autorità è chiamata a decidere nel merito sulla base di quanto disposto dal Codice) e le
“controversie tra operatori e utenti” (che assumono connotazioni paragiurisdizionali, in quanto,
esperito infruttuosamente un “tentativo obbligatorio di conciliazione”, le parti - ove non intendano
adire la giustizia ordinaria - possono devolvere la definizione della controversia all’Agcom, che si
pronuncia entro 150 giorni, sentite le parti, con «atto vincolante», impugnabile davanti al giudice
amministrativo).

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Per quanto riguarda specificamente il “SETTORE DELLA RADIOTELEVISIONE”, anche qui le


competenze sono ripartite tra l’Agcom e il Ministero dello sviluppo economico. Nel dettaglio :
 l’Agcom vigila (con relativo potere sanzionatorio) sul rispetto della disciplina in tema di
pubblicità, di par condicio e di tutela dei minori;
 al Ministero dello sviluppo economico spetta invece il potere di adottare il “piano di
ripartizione delle frequenze” e il rilascio dei “titoli abilitativi per la radiotelevisione”.
 Spettano, infine, alla “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei
servizi radiotelevisivi” poteri di indirizzo, di controllo, regolamentari e consultivi sulla RAI.

9. Tutela della concorrenza e vigilanza dei mercati.


9.1. La tutela della concorrenza. La “tutela della concorrenza” nel nostro Paese è
affidata all’“Autorità garante della concorrenza e del mercato” (Agcm : c.d. Antitrust), che è il
prototipo di autorità amministrativa indipendente. Istituita dalla L. 287 / 1990, l’Agcm è un organo
collegiale, dotato di piena “autonomia” ed “indipendenza” di giudizio e valutazione. L’Agcm è
formato da un Presidente (scelto tra persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto incarichi
istituzionali di grande rilievo) e da 2 membri (scelti tra persone di notoria indipendenza che abbiano
ricoperto il ruolo di professori ordinari in materie giuridico-economiche o di magistrati) : sia il
Presidente che i 2 membri sono nominati con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della
Camera e del Senato. Essi durano in carica 7 anni e non possono essere confermati.
L’Agcm delibera le regole riguardanti la propria organizzazione e il proprio funzionamento ed ha piena
“autonomia di spesa” nei limiti di un fondo stanziato nel bilancio dello Stato.
Giacchè la funzione dell’Agcm è quella di tutelare la concorrenza ed il mercato, la sua attività si
dirama lungo due confini :

1) il primo settore di intervento è relativo alle “INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA”


(come, ad es., la fissazione dei prezzi di acquisto o di vendita) e all’ “ABUSO DI POSIZIONE
DOMINANTE” : in questi casi, laddove l’Agcm ravvisi un’ipotesi di presunta infrazione, notifica
l’apertura del “procedimento istruttorio” alle imprese interessate, le quali hanno non solo il diritto di
essere sentite (entro un termine prefissato), ma anche quello di presentare memorie, deduzioni, pareri e
di essere nuovamente sentite prima della chiusura dell’istruttoria. Dal canto suo, l’Agcm può assumere
informazioni o chiedere l’esibizione di documenti ed ha “poteri ispettivi”. Nei casi di urgenza può
anche adottare “misure cautelari”. Una volta conclusa l’istruttoria, se l’Agcm ravvisa l’esistenza
dell’infrazione, impone alle imprese interessate di provvedere all’eliminazione della stessa entro un
termine (fissato dalla stessa Autorità) e, nei casi più gravi, applica “sanzioni amministrative
pecuniarie”.

2) il secondo settore di intervento è, invece, relativo alle “CONCENTRAZIONI TRA IMPRESE” :


anche in tale ipotesi, si applica lo stesso “procedimento istruttorio”
(con la differenza, però, che in questo caso sono le “imprese che intendono procedere all’operazione di
concentrazione” a doverne dare preventiva comunicazione all’Agcm). Sono previsti, poi, analoghi
“poteri cautelari” e analoghi “poteri sanzionatori”.

Aldilà di queste funzioni, l’Agcm, inoltre, ha altri poteri :

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 il potere di segnalare al Parlamento e al Governo l’esistenza di provvedimenti legislativi,


regolamentari e amministrativi che siano in grado di ostacolare la concorrenza;
 il potere di esprimere pareri - ove lo ritenga opportuno - su problemi riguardanti la
concorrenza e il mercato;
 l’obbligo di presentare annualmente una “relazione” sull’attività svolta al Presidente del
Consiglio, affinché egli la trasmetta al Parlamento.
 è legittimata ad agire davanti al TAR contro gli “atti amministrativi generali”, i “regolamenti”
e i “provvedimenti” di qualsiasi amministrazione che violino le “norme a tutela della concorrenza”. In
tal caso l’Autorità invia all’amministrazione interessata un parere motivato in cui indica le violazioni
riscontrate. Se l’amministrazione non si conforma al parere entro 60 giorni, l’Autorità può presentare,
entro i successivi 30 giorni, ricorso al TAR.

La tutela giurisdizionale sugli atti dell’Agcm, invece, è accordata davanti al giudice amministrativo e
segue le regole processuali del codice del processo amministrativo.
Definire la “natura giuridica” dell’Agcm non è facile : sembra, però, che si possa sposare la tesi di
quella parte della dottrina secondo cui la legge, attribuendo all’Agcm la cura di vari interessi pubblici ,
le riconosce anche un correlato potere «politico» nella ponderazione degli stessi (da esercitarsi,
quest’ultimo, attraverso potestà tecnico-discrezionali), piuttosto che la tesi che la vede titolare solo di
“poteri di vigilanza” e “controllo” sul mercato e di “poteri sanzionatori” per punire atti e condotte
illecite (poichè anti-concorrenziali). Infatti, dato che l’Autorità è chiamata a tutelare un interesse
pubblico primario (cioè, l’interesse alla concorrenza ed al mercato) mediante l’uso di “concetti
giuridici generici” (il gioco della concorrenza, le intese, l’abuso di posizione dominante),
nell’applicare il precetto, dovrà «riempire» quel precetto. Ed è proprio in virtù di queste considerazioni
che possiamo, quindi, qualificare l’attività dell’Agcm come attività amministrativa (e non
paragiurisdizionale, come sostenuto da una parte della dottrina) : infatti, l’individuazione e la
codificazione del precetto normativo (sia pure limitata al singolo caso) obbliga l’Autorità a scegliere
fra diverse regole (tra loro alternative) e, quindi, a ponderare gli interessi in gioco e ad una
conseguente scelta «politica» sull’assetto di interessi che si intende promuovere. La natura dell’Agcm
è, dunque, amministrativa, e non para-giurisdizionale : nell’esercizio dei suoi poteri l’Autorità non si
trova in una posizione di indifferenza verso gli interessi coinvolti, avendo istituzionalmente in carico la
cura dell’interesse pubblico primario alla tutela del mercato.

9.2. Il credito e il risparmio. La disciplina di riferimento del “settore del credito e del
risparmio” è contenuta nel d.lgs. 385 / 1993 (“testo unico bancario”), in base a cui le “funzioni di
vigilanza” e di “garanzia” sono suddivise tra il “Comitato interministeriale per il credito e il
risparmio” (CICR), la Banca d’Italia e il Ministero dell’economia.

 Il ruolo principale è, tuttavia, assunto dalla Banca d’Italia`. Quest’ultima è un ente pubblico con
capitale diviso in quote, che possono appartenere solo a società bancarie e a istituti di previdenza e di
assicurazione. Essa si compone di 5 organi : 1) l’ASSEMBLEA GENERALE DEI PARTECIPANTI,
che è tenuta ad approvare il bilancio e a nominare i membri del collegio sindacale; 2) il CONSIGLIO
SUPERIORE, che ha il compito di amministrare la Banca, ma anche di nominare uno o più “comitati”
per specifiche materie e di contribuire alla nomina del Governatore (esprimendo un parere); 3) il
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COLLEGIO SINDACALE, che esercita il controllo contabile; 4) il DIRETTORIO, a cui è devoluta la


direzione della Banca; 5) il GOVERNATORE, la cui nomina è disposta con d.p.r., su proposta del
Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore.
A parte la partecipazione al procedimento di nomina del Governatore, il Governo non ha alcun “potere
di direzione” o di “indirizzo” sulla Banca d’Italia (del resto, se così non fosse, non la si potrebbe
considerare un’ autorità amministrativa indipendente !). Il compito principale della Banca d’Italia è
quello di vigilare e controllare le banche : a tal fine, essa dispone di penetranti “poteri ispettivi” e
“sanzionatori” che mirano a garantire la stabilità, l’efficienza e la competitività del sistema.
E’significativo che le funzioni di “tutela della concorrenza” siano sottratte, in questo settore,
all’Autorità antitrust : ciò per l’esigenza, avvertita come preminente rispetto alla tutela della
concorrenza, di garantire la stabilità nel “settore del credito”.

 Più limitate, invece, sono le funzioni del CICR e del Ministero dell’economia. Al primo
compete l’alta vigilanza in materia di credito e di tutela del risparmio, ma può deliberare in materia
solo su proposta della Banca d’Italia. Al Ministero competono, invece, diversi poteri normativi e
amministrativi (tra cui, ad esempio, le decisioni sull’apertura dei procedimenti di amministrazione
straordinaria e di liquidazione coatta delle banche).

9.3. I mercati finanziari. La materia è disciplinata dal d.lgs. 58 / 1998 (“testo unico delle
norme in materia di intermediazione finanziaria”). Le funzioni di vigilanza e garanzia in questi settori
sono suddivise tra la Consob (“Commissione nazionale per le società e la borsa”) e la Banca d’Italia
(ma un ruolo importante è assunto anche dal Ministero dell’economia, a cui è riconosciuta l’«alta
vigilanza» sui mercati). Con l’espressione MERCATI FINANZIARI ci riferiamo a 3 settori :

1) quello degli INTERMEDIARI FINANZIARI (promotori finanziari, ecc.) : in questo settore, la Banca
d’Italia e la Consob svolgono in concorso una “funzione di vigilanza”, che a sua volta viene attuata
mediante l’esercizio dei seguenti poteri : 1) poteri di “autorizzazione preventiva” agli operatori; 2)
poteri di “regolamentazione” (mediante i quali si stabiliscono i requisiti di solidità finanziaria che gli
operatori devono possedere); 3) poteri “ispettivi” (assunzione di informazioni sull’attività degli
operatori); 4) poteri di “intervento diretto” sugli organi degli operatori (ad esempio, la convocazione
degli organi collegiali delle società per correggere le disfunzioni);

2) quello degli EMITTENTI STRUMENTI FINANZIARI (società di capitali) : in questo settore, la


“funzione di vigilanza” è svolta dalla Consob (a meno che i soggetti emittenti non siano banche,
perché in tal caso la competenza è esclusiva della Banca d’Italia). La “funzione di vigilanza sugli
emittenti” si articola in : 1) “poteri regolamentari” e “ispettivi”; 2) poteri volti ad accertare i requisiti
di solidità finanziaria delle società emittenti, in presenza dei quali le stesse sono ammesse a
quotazione nei “mercati regolamentati”;

3) quello delle SOCIETÀ DI GESTIONE DEI MERCATI REGOLAMENTATI (borse) : in questo


settore, la “funzione di vigilanza” spetta alla Consob (salvo la competenza della Banca d’Italia sulla
liquidazione delle società e sul mercato all’ingrosso dei titoli di Stato). I “mercati regolamentati” sono
gestiti da “società per azioni” private, che a tal fine devono ottenere una previa “autorizzazione” della
Consob, che deve accertare la sussistenza dei requisiti patrimoniali e organizzativi di queste società di
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gestione e, una volta rilasciata l’autorizzazione, vigilare sulla gestione del mercato da parte delle
società.

La Consob è dotata di personalità giuridica e di «piena autonomia». Essa è composta da un


Presidente e da 4 membri (ridotti però dal decreto “Salva-Italia” del 2011 a 2 con norma che diverrà
gradualmente operativa con la scadenza e le dimissioni dei commissari in carica ), nominati con d.p.r.
su proposta del Presidente del Consiglio; essi durano in carica 7 anni senza possibilità di rinnovo.

*MERCATO REGOLAMENTATO = luogo di negoziazione di prodotti e strumenti finanziari per cui la legge prevede una
specifica e dettagliata regolamentazione relativa all’organizzazione e al funzionamento. Ad es. la “Borsa valori” è un mercato
regolamentato dove vengono scambiati valori mobiliari e valute estere.

9.4. Il mercato delle assicurazioni. La funzione di vigilanza e controllo nel settore


delle assicurazioni era attribuita all’Isvap (“Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di
interesse collettivo”). Nel 2013 le funzioni dell’Isvap sono state trasferite all’Ivass (“Istituto per
vigilanza sulle assicurazioni”), succeduto al primo in tutti i suoi rapporti. L’Istituto si connota per una
più spiccata autonomia e indipendenza rispetto al precedente Isvap, non solo perché la legge sancisce
che esso opera senza essere sottoposto ad alcuna direttiva di altri soggetti, ma soprattutto perché i suoi
organi sono indipendenti dall’esecutivo. Inoltre, poichè l’Ivass è stato istituito per una più proficua
collaborazione con l’“Autorità di vigilanza del settore bancario”, questa sua funzione emerge anche
dal suo disegno organizzativo : infatti, mentre l’Isvap era una sorta di ente-organo di carattere tecnico
del Ministero dell’Industria (ora Ministero dello sviluppo economico), l’odierno Ivass presenta una
nuova struttura organizzativa. Esso si compone dei seguenti organi : 1) PRESIDENTE : il Presidente
dell’Ivass è il direttore generale della Banca d’Italia. Egli è il legale rappresentante dell’Istituto e
presiede il Consiglio; 2) CONSIGLIO : il Consiglio è composto dal Presidente e da 2 consiglieri,
nominati con d.p.r., su iniziativa del Presidente del Consiglio (su proposta del governatore della Banca
d’Italia). Essi restano in carica 6 anni, con possibilità di rinnovo per un ulteriore mandato. Al
Consiglio è affidato il compito di amministrare l’Ivass; 3) il DIRETTORIO : il Direttorio (che opera in
composizione integrata con i 2 membri del Consiglio) è costituito dal governatore della Banca d’Italia
(che lo presiede), dal direttore generale della Banca d’Italia (presidente dell’Ivass) e dai 3 vice-direttori
generali della Banca d’Italia. Al direttorio integrato spetta l’attività di indirizzo e direzione strategica
dell’Ivass, nonché la competenza ad assumere gli “atti di rilevanza esterna” relativi all’esercizio delle
funzioni di vigilanza assicurativa.

Il nuovo Istituto svolge sostanzialmente le stesse funzioni che facevano capo al precedente Isvap :

 svolge le “funzioni di vigilanza” nel settore assicurativo, mediante l’esercizio di poteri


autorizzativi, prescrittivi, accertativi e repressivi. La funzione di vigilanza si svolge attraverso il
controllo (supportato da penetranti “poteri ispettivi” e “sanzionatori”) sulla gestione tecnica,
finanziaria, patrimoniale e contabile delle imprese assicuratrici.
 adotta “regolamenti” diretti a salvaguardare la prudente gestione delle imprese sottoposte a
vigilanza e la trasparenza e correttezza dei comportamenti dei soggetti vigilati;
 effettua le attività necessarie per proteggere il consumatore. Infatti, il “Codice delle
assicurazioni private” prevede che le persone fisiche e giuridiche (nonché le “associazioni riconosciute
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per la rappresentanza degli interessi dei consumatori”) hanno la facoltà di proporre “reclamo”
all’Ivass per l’accertamento dell’osservanza delle disposizioni previste dal Codice nei confronti delle
imprese di assicurazione.

Tuttavia l’Ivass non ha competenze in materia antitrust, poiché queste sono rimesse, anche per il
settore assicurativo, all’Agcm (che, però, prima di esercitare il relativo potere, è tenuta a chiedere il
preventivo parere – obbligatorio, ma non vincolate - dell’Ivass).

-CAPITOLO 2. I SERVIZI PUBBLICI-

1. Il servizio pubblico. Un dato costante caratterizza ogni trattazione sui “servizi pubblici”
: la ricerca di una definizione precisa di “servizio pubblico”. La dottrina (data l’assenza di un
intervento da parte del legislatore, nel corso del tempo, ha elaborato molte definizioni di “servizio
pubblico”, che però possono essere ricondotte a due categorie generali, riassumibili nella dicotomia tra
la concezione c.d. “soggettiva” e quella “oggettiva” del servizio pubblico.
Dal momento che il concetto di “servizio pubblico” è stato studiato nell’ambito di diverse discipline
scientifiche (a partire da quelle giuridiche fino a giungere a quelle economiche), una parte della
dottrina ritiene che la concezione di “servizio pubblico” possa essere mutuata da altri settori
disciplinari (e, più precisamente, dal diritto penale) e trasposta nel diritto amministrativo : nel diritto
penale la nozione di “servizio pubblico” si ricava dagli artt. 357 e 358 c.p., recanti, rispettivamente, la
nozione di «pubblico ufficiale» e di «incaricato di pubblico servizio», ma questa teoria non può essere
condivisa, poichè la nozione derivante da queste norme è valida ai soli effetti della legge penale, e non
può essere trasposta, in modo automatico, nell’ambito del diritto amministrativo. La ricerca di una
definizione del servizio pubblico, pertanto, parte dall’esame della c.d. “concezione soggettiva”, fino
all’analisi della c.d. “concezione oggettiva” : andremo a ricostruire l’iter dottrinale, cercando di non
compiere una scelta netta a favore dell’uno o dell’altro filone dottrinario. Infatti, allo stato attuale, non
si può ancora esprimere una preferenza a favore dell’una o dell’altra concezione di servizio pubblico
(ma al massimo una tendenziale preferenza, a seconda delle fattispecie di volta in volta considerate),
poiché entrambe le nozioni coesistono.

2. La concezione soggettiva. In Italia l’assenza di una definizione di “servizio pubblico”


fece emergere in dottrina la necessità di inquadrare determinate attività che, pur essendo estranee al
concetto tradizionale di “funzione”, erano comunque riconducibili alla pubblica amministrazione.
Bisognava, dunque, individuare una “categoria comune” all’interno della quale poter ricondurre una
parte dell’“attività amministrativa”, non autoritativa, che pian piano si diffondeva sempre di più a
causa dell’assunzione di nuovi compiti da parte dello Stato. A tal fine, l’occasione fu data dalla “legge
c.d. sulle municipalizzazioni” (L. 103 / 1903), che all’art. 1 qualificava come “servizi pubblici” (da
affidare ai Comuni) una serie di attività eterogenee : a partire dalla costruzione di acquedotti, fontane e
distribuzione di acqua potabile fino allo «stabilimento e alla vendita di semenzai e vivai di viti ed altre
piante arboree e fruttifere»). Data la diversità delle fattispecie elencate nella norma, si pose il
problema se i Comuni potessero assumere la “gestione diretta” anche di attività non comprese in quella
lista, ma ascrivibili comunque al genus del “servizio pubblico”, in modo da elaborare una nozione più
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generale. In questo terreno maturò la c.d. “CONCEZIONE NOMINALISTICA” (prodromica alla


successiva “nozione soggettiva del servizio pubblico”), secondo cui doveva considerarsi pubblico solo
quel servizio assunto dallo Stato o da un altro ente pubblico (che ne acquistava la titolarità e, in alcuni
casi, provvedeva anche al suo esercizio), che lo avesse dichiarato tale in forza di un provvedimento
legislativo o amministrativo. Una concezione soggettiva, dunque, per l’attenzione prestata al soggetto
pubblico cui imputare l’attività, e nominalistica in virtù dello specifico atto necessario a dichiarare
come tale il servizio pubblico.
Tuttavia la sola natura del soggetto non poteva essere l’unico elemento discriminante fra il servizio
pubblico e un’attività analoga svolta dal soggetto privato : per questa via, ogni attività economica
affidata alla pubblica amministrazione avrebbe potuto essere qualificata come “servizio pubblico”. In
secondo luogo, la teoria nominalistica riusciva ad offrire solo un “criterio identificativo ex post ”, che
consentiva di classificare una determinata attività come “servizio pubblico” solo qualora
l’amministrazione avesse provveduto alla sua assunzione. Si intuì, pertanto, che ciò che mancava era
una soluzione che permettesse di descrivere ex ante la categoria : cioè una soluzione che riassumesse
le caratteristiche necessarie per ascrivere una specifica attività nel novero dei “servizi pubblici ”.
Perciò, la teoria nominalistica fu rielaborata : la dottrina, comprendendo che il fine da perseguire
doveva essere quello di lavorare sul concetto di «pubblico», pervenne alla soluzione di trasporre il
termine dal singolo soggetto alla collettività (che fruiva del servizio) : così, il “servizio pubblico” fu
qualificato come un servizio diretto a soddisfare un interesse della collettività e la cui cura rientrava
tra i compiti dell’amministrazione. L’assunzione del servizio da parte dell’amministrazione è
funzionale alla realizzazione di questi interessi.
Il concetto di “assunzione”, però, non deve essere identificato con quello di gestione del servizio
(infatti il servizio pubblico può essere anche gestito da soggetti privati), ma esprime la scelta
dell’amministrazione di considerare come proprie determinate attività (poichè connesse alle esigenze
della collettività). Così, affinché possa esistere un servizio pubblico è necessario che concorrano
insieme 3 elementi : 1) l’imputabilità o la titolarità del servizio alla P.A. che assuma il servizio; 2) le
finalità a cui il servizio risponde, che devono soddisfare le esigenze della collettività; 3) la presenza di
un determinato tipo di “organizzazione del servizio”, che assicuri specifiche modalità gestorie.
Si parla allora di “servizio pubblico” come un concetto che può ricomprendere tratti tipici della
funzione amministrativa, ma anche di attività tipicamente private, come «modello composito di attività
amministrativa, distinguibile soprattutto per i connotati organizzativi».
*assunzione = atto con cui ci si accolla qualcosa.

3. Il servizio pubblico in senso oggettivo. La c.d. “CONCEZIONE


OGGETTIVA”, ha conosciuto il suo avvento negli anni ’60 del ‘900, grazie all’opera di Pototschnig
(“I servizi pubblici”), che, per riportare il tema dei servizi pubblici all’attenzione degli studiosi del
diritto amministrativo, riuscì a superare lo iato tra il crescente rilievo delle attività amministrative
definite come “servizi pubblici” e la scarsa attenzione ad esse prestata dalla dottrina. In quest’ottica, le
basi della “TEORIA OGGETTIVA” hanno trovato riconoscimento nell’ambito dell’art. 43 Cost.,
secondo cui «a fini di utilità generale, la legge può riservare allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di
lavoratori o utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a “servizi pubblici
essenziali” o a “fonti di energia” o a “situazioni di monopolio” ed abbiano carattere di preminente
interesse generale». Ed è proprio sulla base dell’art. 43 Cost. che l’autore annuncia il «crollo della
concezione tradizionale dei servizi pubblici», poichè l’articolo smentisce il “principio nominalistico” :

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infatti, la norma prevede la possibilità di riservare (o di trasferire) “imprese che si riferiscano a servizi
pubblici essenziali” (a condizione che sussistano «fini di utilità generale») non solo allo Stato (o ad
altri enti pubblici), ma anche a comunità di lavoratori o di utenti. Possono, di conseguenza, esistere
servizi pubblici essenziali gestiti legittimamente da privati e che la legge non conferisce in mano
pubblica. La Costituzione, quindi, ammette che un “servizio pubblico” sia svolto da organismi non di
pubblica amministrazione e che, ciononostante, continui a mantenere tale connotazione.
Ad integrare le conclusioni tratte dall’art. 43 Cost. interviene anche l’art. 41, 3°comma Cost. : la legge
può indirizzare sia l’attività pubblica che quella privata al conseguimento di fini sociali,
determinando «i programmi e i controlli opportuni». Così, sia i “servizi pubblici essenziali che la
legge affida alla gestione di organi della P.A.”, sia i “servizi pubblici essenziali gestiti da privati” sono
assoggettati alla disciplina dettata dall’art. 41, 3°comma Cost. Quindi, secondo la “teoria oggettiva”,
ciò che conta – ai fini dell’inquadramento del “servizio pubblico” – non è tanto il soggetto cui viene
affidata l’attività (che può essere sia pubblico che privato, e in entrambi i casi comunque vige la stessa
disciplina), ma la sua funzionalizzazione alla soddisfazione dei bisogni collettivi. Oggi la concezione
oggettiva è quella che riceve i più ampi consensi da parte della dottrina : del resto, questa conclusione
trova conferma se si dà uno sguardo all’esperienza delle “privatizzazioni dei grandi servizi pubblici a
rete”, che sono riusciti a conservare il loro carattere «pubblico» anche dopo il passaggio dalla mano
pubblica a quella privata (ciò in virtù del fatto che l’attività che li caratterizza è diretta al
soddisfacimento di bisogni che, in quanto primari, vanno considerati “oggettivamente pubblici”). Ad
ogni modo - anche se quelli elencati rappresentano i tratti caratteristici del “servizio pubblico” - non si
può propendere per un’assoluta accettazione della “concezione oggettiva”, anche perché anche la “tesi
soggettiva”, dopo aver abbandonato l’idea per cui un servizio pubblico è tale solo perché gestito da un
soggetto pubblico, ha spostato il carattere della «pubblicità» dal soggetto gestore al beneficiario del
servizio (la collettività), incentrando nel “profilo organizzativo” il vero elemento soggettivo.

ART. 43 COST. = “A fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e
salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di
imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale”.

ART. 41, 3°comma COST. = “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica
e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

4. La nozione di servizio pubblico locale. Per comprendere quale sia il concetto


di “servizio pubblico” che meglio si attaglia al nostro ordinamento, bisogna concludere questo
excursus esponendo le problematiche riguardanti la definizione dei “SERVIZI PUBBLICI LOCALI”.
Esistono due diverse prospettive sotto cui analizzare la questione della definizione del “servizio
pubblico locale” :

 la prima (che si fonda sul “testo unico degli enti locali” : d.lgs. 267 / 2000, t.u.e.l.), è
considerata dalla dottrina come la normativa su cui si può giustificare la validità sia della “tesi
soggettiva” che di “quella oggettiva”;

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 la seconda prospettiva, invece, tende a tralasciare le “linee-guida” fornite dal legislatore, per
verificare se sia possibile enucleare una nozione di “servizio pubblico locale” distinta da quella
generale, fin qui fornita (o se ne sia invece una species).

Per risolvere la questione, il primo dato che occorre analizzare è l’art. 112 t.u.e.l. (rubricato «servizi
pubblici locali»), che al 1°comma stabilisce : «gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze,
provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e di
attività volte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità
locali». Ciò che emerge dalla lettura della norma è l’assenza, anche in questo caso, di un’espressa
definizione del “servizio pubblico”; nonostante ciò, però, dalla disposizione emergono elementi che
possono essere ricondotti sia al “profilo soggettivo” che a quello “oggettivo” della nozione di carattere
generale : il “profilo soggettivo” viene alla ribalta nella parte in cui la norma richiama l’idea dell’ente
locale che provveda alla gestione del servizio pubblico; al contrario, il “profilo oggettivo” viene in
rilievo nella parte in cui la norma esprime il “dato finalistico”, che funge da presupposto in presenza
del quale l’ente pubblico istituisce e organizza il servizio pubblico. In questo modo, emerge la
relazione che si viene ad instaurare tra le due nozioni (quella oggettiva e quella soggettiva) e la non
esclusività dell’una rispetto all’altra.
Ma c’è un’altra questione che, riguardo al servizio pubblico locale, sembra avere maggiore preminenza
: la distinzione tra «servizi di rilevanza economica» (art. 113 t.u.e.l.) e «privi di rilevanza economica»
(art. 113-bis t.u.e.l.). Si tratta di una distinzione in relazione a cui, ancora una volta, si è rivelato
essenziale l’apporto della dottrina. Infatti, data l’assenza - anche in questo caso - di una definizione
normativa, è toccato all’interprete assumere il compito di individuare il discrimine tra ciò che può
essere ritenuto “di rilevanza economica” e ciò che, invece, non lo è. In questo modo, alla categoria di
cui all’art.113 (servizi di rilevanza economica) sono stati ricondotti i «grandi» settori dell’energia
elettrica, del gas, dell’acqua, dei rifiuti e dei trasporti, identificati in quest’ambito per la rilevante
organizzazione di uomini e mezzi, per l’impegno di capitali richiesto dall’attività, per la complessità
del processo di gestione e per la loro sottoposizione alle regole proprie del mercato. Al contrario,
nell’ambito dei “servizi privi di rilevanza economica” sono stati ricondotti i c.d. “servizi sociali”,
poiché questi sono rivolti alla soddisfazione dei bisogni primari della persona e hanno ad oggetto
«attività volte a realizzare fini sociali e promuovere lo sviluppo economico e civile della società» (art.
112 t.u.e.l.). Tuttavia, dato che questi servizi, per la loro natura particolare, consentono una
“disciplina speciale e derogatoria rispetto alle regole della concorrenza”, una parte della dottrina ritiene
che la loro specificità risieda nel “dato finalistico” (cioè, nello scopo da essi perseguito), e non tanto
nel tipo di attività esercitata : ragion per cui non sembra possibile accettare l’idea di una completa
identificazione tra i “servizi sociali” e i “servizi privi di rilevanza economica” (infatti può accadere che
il servizio sociale, sottratto alle regole del mercato, venga gestito comunque in forma di impresa e, di
conseguenza, attratto nell’ambito dei “servizi di rilevanza economica”).

5. Principi costituzionali in materia di servizi pubblici. Dal momento che i


“servizi pubblici” rientrano nel genus dell’“attività amministrativa”, sono soggetti al “principio del
buon andamento” (art. 97 Cost.), il quale a sua volta si scinde nei “principi di economicità”,
“efficacia” ed “efficienza” (sulla base di quanto stabilito dalla L. 241 / 1990).
Attraverso il servizio pubblico, inoltre, lo Stato si fa garante di quel principio di “uguaglianza
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sostanziale” espresso dall’art. 3, 2°comma Cost. e che postula tra i mezzi con cui «rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale», un’azione amministrativa che si esplichi anche mediante
l’organizzazione e la predisposizione di pubblici servizi. Inoltre, l’art. 3, 2°comma Cost. - ai sensi del
quale «lo Stato si impegna a garantire la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
economica del Paese» - va collegato all’art. 43 Cost., nella parte in cui riconosce la possibilità di
«riservare (ab origine) o trasferire a comunità di lavoratori le imprese che si riferiscono a servizi
pubblici essenziali».
Infine la materia dei “servizi pubblici” si inserisce nel nuovo assetto dei rapporti tra il centro (lo Stato)
e la periferia (le Regioni), così come disegnato dalla riforma del Titolo V della Costituzione : in
quest’ottica, a venire in rilievo è soprattutto il canone dell’ “equità sociale” (formulato all’interno degli
artt. 41, 3°comma e 43 Cost.), che trova una corrispondenza immediata nell’art. 117, comma 1°, lett. l)
Cost.; infatti questa disposizione affida allo Stato il compito di determinare i «livelli essenziali delle
prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale». Secondo la Corte costituzionale, però, non si tratterebbe di una materia in senso stretto, ma
di una competenza «idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore deve porre le
norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni
garantite, come contenuto essenziale di tali diritti» (con esclusione, quindi, di un qualsiasi intervento
da parte del legislatore regionale). La «clausola» dei «livelli essenziali delle prestazioni» si presta,
così, ad incidere in maniera trasversale sulle materie rimesse alla potestà legislativa regionale (anche
esclusiva) nei limiti tracciati dalla Consulta. Spetta infatti ad una legge dello Stato compiere le scelte
necessarie ad assicurare quest’uniformità di trattamento.
Strettamente collegato con il canone dell’ “equità sociale” è, poi, il «principio della tutela della
concorrenza» (art. 117, lett. e Cost.), che – soprattutto sotto il profilo dei “servizi pubblici” – appare
direttamente connesso con la necessità di garantire (attraverso l’intervento del legislatore nazionale) i
«livelli essenziali delle prestazioni». Ancora una volta, non si è in presenza di una materia in senso
stretto, dai confini ben delineati; la norma sembra piuttosto indicare un obiettivo alla cui realizzazione
deve mirare l’azione statale, con possibili ricadute anche su settori rimessi alla legislazione regionale
(concorrente o esclusiva). In quest’ottica, la Corte Costituzionale ha ribadito che
la tutela della concorrenza (da parte del legislatore statale) non si concretizza solo in interventi di
regolazione svolti in chiave repressiva, ma esige «misure pubbliche rivolte a ridurre squilibri, a
favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato e ad instaurare assetti anti-
concorrenziali». Pertanto, la presenza di questi “standard di tutela uniformi” (affidati al legislatore
nazionale) riduce il rischio di un’eccessiva frammentazione della legislazione in quei settori rimessi
alla potestà legislativa regionale concorrente (molti dei quali assumono una certa importanza nello
studio dei “servizi pubblici”) : si pensi ai c.d. “servizi pubblici a rete”, la cui regolamentazione può
andare a incidere su materie comprese nella “potestà legislativa concorrente”, come il «governo del
territorio» o la «tutela della salute» (tali sono, ad es., la distribuzione dell’energia elettrica o lo
sviluppo dei sistemi di telecomunicazioni). In questi casi, perciò, la Consulta, chiamata ad effettuare un
bilanciamento tra gli “interessi regionali” e quelli “nazionali”, ha risolto il problema affidando alle
Regioni la disciplina della localizzazione degli impianti (data la loro competenza in materia di governo
del territorio), a condizione però che «i criteri localizzativi e gli standard urbanistici rispettino le
esigenze di pianificazione nazionale degli impianti».
Le norme del Titolo V, infine, hanno però il merito di aver codificato, a livello costituzionale, il
“principio di sussidiarietà”, di particolare rilievo rispetto ai servizi pubblici. Le disposizioni derivanti

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dal combinato disposto degli artt. 43 e 41 Cost. sono state lette infatti come affermazione di un più
generale “principio di sussidiarietà” dell’azione statale nel settore dei servizi pubblici, laddove il
mercato si dimostri inadeguato a soddisfare i bisogni della collettività.
In relazione all’art. 118 Cost., una volta superato il “parallelismo tra funzioni amministrative e
legislative” (che caratterizzava l’assetto costituzionale previgente), i giudici della Consulta hanno
legittimato la scelta del legislatore statale non solo di attribuire a livello centrale “peculiari funzioni
amministrative”, ma di disciplinarne anche l’esercizio, sebbene in difformità dai criteri di riparto di cui
all’art. 117 Cost. Emerge, pertanto, un “concetto dinamico di sussidiarietà”, capace anche di attrarre la
“funzione legislativa” dello Stato, per non sacrificare le «istanze di unificazione presenti nei vari
contesti della vita»». Tuttavia le sole “esigenze di unificazione” da sole non sono sufficienti a rendere
costituzionalmente legittimi tali «spostamenti» : in più occasioni, infatti, la Corte ha avallato simili
scelte solo se espresse in una legge statale improntata ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, il
cui intervento sia limitato a quanto strettamente indispensabile a garantire le istanze unitarie per cui è
stata emanata. Tali leggi, inoltre, devono essere oggetto di un “accordo” con la Regione interessata.

6. I servizi pubblici nell’ordinamento comunitario. Il concetto di servizio


pubblico ha un significato ambiguo anche in sede comunitaria. L’Unione ha scelto di evitare nei propri
atti l’uso della locuzione “servizio pubblico”, per non creare «confusione». Pertanto, nel diritto
comunitario si usa una diversa terminologia che, però, non sembra realizzare in toto le esigenze di
chiarezza perseguite. Il “Trattato sull’Unione europea” fa riferimento (pur senza preoccuparsi di darne
una definizione) ai c.d. «servizi di interesse economico generale» (artt. 14 e 106), in opposizione ai
quali la legislazione comunitaria pone i c.d. “servizi non economici di interesse generale”. In ogni
caso, entrambe le tipologie di servizi sono racchiuse nella categoria dei “SERVIZI DI INTERESSE
GENERALE” : si tratta di una locuzione coniata dalla Commissione europea, che ricomprende quel
fascio di situazioni giuridiche che devono essere garantite sia dagli operatori non economici che da
quelli operanti nel mercato, in quanto entrambi sono tenuti ad assicurare l’accesso degli utenti al
servizio, nel rispetto dei “principi di non discriminazione” e di “libertà di circolazione delle
persone”. La differenza tra i due tipi di servizi sta nel tipo di attività economica (o non economica)
svolta : in particolare, per “economica” si intende quell’«attività che consiste nell’offrire beni o servizi
in un determinato mercato», mentre l’attività “non economica” è quell’«attività che si pone fuori dal
mercato». Il problema definitorio risponde a una specifica esigenza, quella di individuare il regime
giuridico dei servizi di interesse generale, dal momento che l’ordinamento comunitario prevede
conseguenze giuridiche diverse in relazione alla singola tipologia di servizio.
La Commissione considera come «SERVIZI DI INTERESSE ECONOMICO» quelli forniti dalle
grandi industrie di rete (telecomunicazioni, servizi postali, elettricità, gas e trasporti) come pure quelli
riguardanti la gestione dei rifiuti e l’approvvigionamento idrico. Questi servizi, rientrando nella logica
di mercato, sono soggetti alle “regole di concorrenza” e, in particolare, al c.d. “divieto di aiuti di Stato”
(divieto che può assumere un certo rilievo in relazione alle compensazioni di cui i gestori dei servizi
beneficiano). Infatti i gestori dei “servizi di interesse economico generale” non agiscono totalmente
sulla base del “principio della domanda” e “dell’offerta” (proprio di un regime perfettamente
concorrenziale), ma sono sottoposti, viceversa, ai c.d. “obblighi di servizio universale”, che - ponendo
in capo ai “gestori” il compito di fornire alcune prestazioni a tutti gli utenti e consumatori finali ad un
livello qualitativo prefissato, a prescindere dalla loro ubicazione geografica e ad un prezzo
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accessibile - impongono ai medesimi di agire, in determinate situazioni, fuori dalle logiche di mercato,
con il conseguente rischio di non coprire i costi con i ricavi (si pensi, ad es., all’obbligo per i gestori
dei “servizi di telecomunicazioni” di assicurare un congruo numero di telefoni pubblici). Proprio
perché l’obbligo del servizio universale sottintende l’accessibilità alle tariffe (che impone che il
servizio di interesse economico generale sia offerto a prezzi in grado di renderlo accessibile a tutti), per
scongiurare rischi economici al gestore sono assicurate delle “compensazioni economiche”, che gli
permettono di preservare il proprio equilibrio economico-finanziario. Queste compensazioni, però, ai
sensi dell’art. 106 TFUE, non devono essere tali da alterare il principio della concorrenza, cui sono
comunque sottoposti i gestori. In particolare, quest’ultima questione è stata affrontata dalla Corte di
Giustizia nel 2003 (caso Altmark), che ha sottolineato che i “finanziamenti pubblici” non rientrano
nella disciplina europea degli “aiuti di Stato” laddove possano essere considerati come delle
“compensazioni” (che rappresentano la contropartita delle imprese beneficiarie per adempiere agli
obblighi di servizio pubblico).
A differenza dei «servizi di interesse economico generale» (forniti dietro corrispettivo), i «SERVIZI
NON ECONOMICI DI INTERESSE GENERALE» rappresentano quelle attività che si pongono fuori
dal mercato e sono servizi prestati senza corrispettivo. Si è posta, però, qualche difficoltà, in relazione
alla collocazione di alcuni tipi di servizi (ad es., la cultura, la sanità, l’istruzione e i servizi sociali) :
per risolvere il problema, la Consulta ha precisato che “spetta al giudice nazionale verificare, nel caso
concreto, se l’attività abbia o meno carattere economico, tenendo conto, in particolare, dell’ assenza di
uno scopo puramente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività e
dell’eventuale finanziamento pubblico dell’attività».

7. Le forme di gestione : origini della classificazione. Per procedere alla


ricostruzione delle “modalità di gestione dei servizi pubblici” è necessario partire dalla L. 103 / 1903,
con cui si è fissata una disciplina organica della materia, incentrata sulla figura delle c.d. “AZIENDE
MUNICIPALIZZATE” (figura a cui i Comuni e le Province avrebbero potuto affidare l’erogazione dei
servizi pubblici locali).
Si affermò, in particolare, la figura dell’“AZIENDA SPECIALE”, che veniva delineata come un
organo dell’ente locale privo di personalità giuridica, ma a cui veniva riconosciuta ampia autonomia
(amministrativa e contabile) : un soggetto distinto dall’amministrazione (che lo aveva istituito), dotato
di un proprio “bilancio” con cui gestire le entrate e le uscite interamente destinate a soddisfare i
bisogni della collettività locale. Queste caratteristiche furono precisate meglio dal “testo unico della
legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province” (approvato nel
1925), con cui il legislatore, per individuare precisamente le “forme di gestione del servizio pubblico”,
incentrò l’attenzione su 3 diverse modalità con cui l’ente locale poteva decidere di affidare i pubblici
servizi :

 la modalità c.d. “in via diretta” (o in economia), con cui l’ente locale affidava il pubblico
servizio non ad una struttura creata ad hoc, ma agli stessi uffici presenti al suo interno;
 la modalità delle aziende municipalizzate;
 l’affidamento del servizio mediante concessione a terzi.

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8. L’evoluzione del modello e la disciplina attuale. Anche se le forme appena


descritte hanno mantenuto la propria validità per più di mezzo secolo, il tema riguardante la “gestione
dei servizi pubblici”, in concomitanza con l’aumentare delle necessità e del numero dei cittadini
(sempre più bisognosi di usufruire di prestazioni impegnative, sia in termini di qualità che di costi), ha
comportato l’ingresso nel settore non solo di “istituti privatistici”, ma anche di principi derivanti dalle
scienze aziendalistiche. E’ proprio in questo senso che si spiegano le novità introdotte dalla L. 142 /
1990 : il primo intervento ha riguardato la figura dell’AZIENDA SPECIALE, a cui il legislatore ha
riconosciuto la “personalità giuridica” e, di conseguenza, un certo grado di autonomia; nonostante tale
riconoscimento, però, le aziende speciali sono comunque rimaste strumentalmente collegate all’ente (il
Comune o la Provincia) che, in tal modo, ha continuato a decidere sulla loro attivazione e a
controllarne il funzionamento, attraverso l’approvazione degli atti posti in essere dalle stesse (del resto,
è proprio con la predisposizione di quest’impianto che l’amministrazione ha mantenuto la “gestione in
forma diretta del servizio”). Quindi, l’AZIENDA SPECIALE è un “ente strumentale dell’ente locale,
dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto, approvato dal
consiglio comunale o provinciale”. Accanto alla
trasformazione dell’“azienda speciale”, la L. 142 / 1990 ha anche introdotto nel nostro ordinamento la
“SOCIETÀ PER AZIONI PUBBLICA” (figura che in precedenza non era stata mai usata per erogare i
pubblici servizi locali) : benchè originariamente fosse stato predisposto un modello societario che
prevedeva che la “maggioranza delle azioni” dovesse essere posseduta dall’ente locale, nel 1992 il
legislatore ha modificato tale scelta, consentendo anche la costituzione di società per azioni «senza il
vincolo della proprietà maggioritaria».
La riforma del ’90 non ha, invece, modificato l’istituto della “CONCESSIONE DI PUBBLICI
SERVIZI”, che ha continuato ad essere inteso come quel provvedimento discrezionale, emanato sulla
base di “criteri predeterminati dall’amministrazione” (istitutrice del servizio) con cui si riconoscono
al concessionario alcuni vantaggi sul piano della remunerazione economica.
L’obiettivo del legislatore, nella disciplina dell’ “affidamento dei servizi pubblici locali” è stato,
quindi, quello di favorirne un’apertura verso l’esterno attraverso la tecnica della c.d.
“esternalizzazione” (* o outsourcing : procedura con cui un’azienda conferisce ad un'altra azienda
esterna la fornitura di un servizio). In quest’ottica, le scelte adottate nel ’90 sono state recepite nel
t.u.e.l., (d.lgs. 267 / 2000). Nel 2001 si è poi operata una distinzione tra “servizi pubblici locali a
rilevanza industriale” (connotati dalla presenza di reti e impianti, ex art. 113 t.u.e.l.) e “servizi pubblici
non industriali” (art. 113-bis t.u.e.1.) : con la prima categoria il legislatore ha cercato di assicurare una
maggiore concorrenza tra gli operatori, subordinando la scelta del soggetto cui affidare lo svolgimento
del servizio ad una “procedura di evidenza pubblica”; con la seconda categoria, invece, data
l’irrilevanza economica del servizio, i controlli pubblicistici sono stati assicurati prevedendo specifiche
forme di “affidamento diretto”, da affiancare alle figure delle «aziende speciali» e delle «società per
azioni pubbliche». Nel 2003, il legislatore, per adeguare la normativa interna a quella comunitaria, ha
poi riscritto gli artt. 113 e 113-bis t.u.e.l., contrapponendo alla categoria dei “servizi a rilevanza
economica” quella dei “servizi a rilevanza non economica”. L’art. 113-bis t.u.e.l. è stato poi dichiarato
costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale nel 2004.
L’attuale panorama legislativo, così come derivante dall’art. 113 t.u.e.l. rivela, pertanto, la scelta di
aprire alle “regole del mercato” la sola attività di erogazione, mantenendo al soggetto pubblico la
“proprietà delle reti” (onde tutelare gli interessi che il servizio è chiamato a soddisfare) : in tal senso,
l’art. 113, comma 13, t.u.e.1. riserva all’ente locale o a una società interamente a capitale pubblico la

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“proprietà delle reti” preordinate all’ erogazione del servizio. Quanto invece alla gestione del servizio
pubblico locale, il legislatore ha previsto due diverse forme di “affidamento in forma diretta”, quella
c.d. in house e quella a società mista :

 la c.d. “SOCIETA’ IN HOUSE” : l’art. 113 consente all’ente locale di affidare la gestione del
servizio pubblico ad una società direttamente controllata dall’ente locale. Dunque qui ci troviamo in
presenza di una soluzione antitetica rispetto alla regola della c.d. “esternalizzazione”, poichè consente
all’amministrazione di affidare il servizio ad una società che agisce in qualità di longa manus dell’ente
pubblico.
Tra l’altro, all’interno della categoria dell’in house è possibile distinguere il modello c.d. dell’ «in
house in senso stretto» (quando l’amministrazione affida lo svolgimento del servizio ad un suo ente
strumentale non dotato di personalità giuridica) e il modello c.d. dell’«in house in senso lato» (in cui
l’autorità stipula direttamente il contratto di affidamento del servizio con società controllate, ma
giuridicamente autonome e dotate di personalità giuridica). Ad ogni modo, il modello dell’in house
può essere usato solo in presenza dei presupposti enucleati nel 1999 dalla Corte di Giustizia che, in
occasione del c.d. caso Teckal, è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’in house,
precisando che l’“affidamento in house” è consentito solo nel caso in cui l’amministrazione
aggiudicatrice sia in grado di esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi : ciò
significa che tra l’amministrazione e il soggetto affidatario deve sussistere un “rapporto di
subordinazione”, che abilita la prima a determinare in modo unilaterale gli “obiettivi che la struttura
chiamata a gestire il servizio deve perseguire” (esercitando un’ingerenza dominante sulle decisioni più
importanti). Inoltre, la Corte ha sancito anche che l’affidamento in house è consentito solo laddove la
“destinazione prevalente dell’attività societaria” abbia luogo con l’ente pubblico che lo rappresenta :
in questa prospettiva, la Corte ha specificato che con l’inciso “destinazione prevalente dell’attività” si
vuole indicare un’attività che viene svolta prevalentemente a favore o per conto dell’autorità
controllante. In definitiva, le società in house si presentano come vere e proprie articolazioni interne
dell’amministrazione, quasi si trattasse di una mera prosecuzione dell’amministrazione : proprio per
questo, la Corte di Giustizia (in una sentenza successiva : il c.d. caso Stadt Halle), nel cercare di
contenere al massimo la diffusione del modello, ha precisato che l’affidamento diretto è consentito
solo qualora vi sia una totale partecipazione pubblica alla società cui viene affidata la gestione del
servizio (tuttavia la stessa Corte di recente ha ritenuto di dover mitigare quest’orientamento,
ammettendo la possibilità di inserire determinate “clausole statutarie” in grado di consentire l’ingresso
nella società di soci privati, subordinando quest’opzione alla revoca dell’affidamento in via diretta per
consentire questo ingresso dopo una “procedura di evidenza pubblica” finalizzata all’individuazione
del soggetto privato).
 le c.d. “SOCIETÀ MISTE” : la seconda forma di affidamento è, invece, rappresentata dalla
c.d. “società mista”, che si caratterizza per il fatto che il “soggetto che gestisce il servizio” gode, da
ogni punto di vista, di una totale autonomia rispetto all’ente pubblico erogatore, nei cui confronti egli
(il gestore) assume un “ruolo di terzietà” (e non di immedesimazione) : proprio per garantire questa
finalità, l’art. 23-bis del d.l. del giugno 2008 (abrogato dal referendum del 2011) aveva introdotto dei
“requisiti in grado di assicurare un ruolo di primo piano ai soci privati presenti all’interno della società
mista”. In quest’ottica, il legislatore ha individuato la differenza tra la “società mista” e l’“affidamento
in house”, stabilendo all’art. 1 del “codice dei contratti pubblici” (d.lgs. 163 / 2006) che «nei casi in
cui le norme vigenti consentano la costituzione di società miste per la gestione di un servizio, la scelta
del socio privato avviene con procedura di evidenza pubblica» : di conseguenza,
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in virtù di questa disposizione, il Consiglio di Stato (nel 2007) ha precisato che, per poter adottare
questa “forma di gestione”, è necessario innanzitutto che la “procedura di evidenza pubblica”, bandita
per individuare il socio privato, attribuisca allo stesso un ruolo operativo; in secondo luogo, è
necessario che nel bando siano indicati i limiti temporali entro cui deve avvenire questa
partecipazione, onde evitare una presenza stabile del partner privato nella “società di gestione del
servizio”.

9. La disciplina attuale dopo il referendum abrogativo del 2011 e i


successivi interventi della Corte costituzionale. La disciplina relativa
all’affidamento e alla gestione dei servizi pubblici locali è stata modificata sia a causa dell’abrogazione
nel 2011 dell’art. 23-bis del d.l. del giugno 2008, sia dopo vari interventi della Consulta, che ha
ritenuto costituzionalmente illegittime alcune disposizioni contenute nella riforma successiva (cioè la
L. 148 / 2011). Nel ribadire la prevalenza del “principio di liberalizzazione” e di “gestione
concorrenziale dei servizi pubblici locali” (così come codificati dall’ordinamento comunitario e
interpretati dalla Corte di giustizia), che aveva per certi aspetti le stesse regole già contenute
nell’abrogato art. 23-bis. Di qui un nuovo intervento del legislatore con la L. 221 / 2012, che contiene
in buona parte l’attuale disciplina della materia : viene imposto all’ente affidante di indicare e motivare
(dandone adeguata pubblicità) i “criteri per individuare il soggetto affidatario del servizio”,
riservandogli comunque la scelta tra affidamento c.d. in house o all’esito di una procedura di gara. Le
nuove disposizioni, quindi, assegnano alle “forme di gestione diretta” pari valore rispetto a quelle
frutto di una “procedura concorrenziale” : però la scelta di ricorrere al “sistema in house” deve essere
adeguatamente motivata in ordine alle ragioni che - in termini di convenienza economica e gestionale
-inducono l’ente locale a non ricorrere alla “procedura di evidenza pubblica”. Infine, è stata
confermata la non applicazione di queste regole al “servizio di distribuzione del gas naturale”, al
“servizio di distribuzione dell’energia elettrica” e alla “gestione delle farmacie comunali”
(confermando così l’esclusione di settori speciali, già oggetto di discipline specifiche).

*CONCESSIONARIO: Chi ha ricevuto una concessione dalla pubblica amministrazione.

10. Il contratto di servizio e il contratto di utenza. Il “CONTRATTO DI


SERVIZIO” prende in considerazione il rapporto tra l’amministrazione responsabile e il soggetto
gestore. Il “CONTRATTO DI UTENZA”, invece, disciplina i rapporti tra il gestore e gli utenti. Si
tratta di strumenti convenzionali rispetto a cui il legislatore non ha ancora approntato una disciplina
compiuta. Per quanto riguarda il “CONTRATTO DI SERVIZIO” (che trova la propria
regolamentazione in una serie di fonti nazionali e comunitarie), l’art. 113, comma 11 t.u.e.l. stabilisce
che - per i “servizi a rilevanza economica” - «i rapporti degli enti locali con le società di erogazione del
servizio, nonchè con le società di gestione delle reti sono regolati da “contratti di servizio”, allegati ai
capitolati di gara». A sua volta, l’art. 113-bis, al comma 5 (quando era ancora in vigore, perché è stato
abrogato in seguito a una pronuncia di incostituzionalità), in tema di “servizi di rilevanza non
economica”, stabiliva che «i rapporti tra gli enti locali e i soggetti erogatori dovevano essere regolati
con il contratto di servizio».
Il contenuto necessario del “contratto di servizio” è desumibile dalla legge finanziaria per il 2008, che
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stabilisce che in sede di stipula dei contratti di servizio gli enti locali devono inserire nel testo del
contratto :

 la previsione dell’obbligo per il gestore di emanare una «Carta della qualità dei servizi»
(recante gli standard di qualità e di quantità in base a cui erogare le relative prestazioni);
 la consultazione obbligatoria delle “associazioni dei consumatori”;
 la previsione di una “verifica periodica”, volta a controllare l’adeguatezza dei parametri fissati
nel contratto alle esigenze dell’utenza;
 la previsione di un “sistema di monitoraggio” volto a verificare il rispetto dei parametri fissati
nel contratto;
 l’istituzione di una “sessione annuale” volta a verificare il funzionamento dei servizi forniti.

In virtù di queste indicazioni, si può tracciare una definizione del “contratto di servizio” : esso è un
atto consensuale diretto alla costituzione del servizio e il suo scopo è quello di soddisfare gli interessi
pubblici sottesi alla sua esecuzione (con la conclusione del contratto, quindi, l’amministrazione
assolve ai propri doveri istituzionali, mentre il gestore vede definiti i propri diritti e i propri obblighi
verso l’amministrazione).
Il punto controverso sta nell’individuazione della “natura giuridica” del contratto di servizio, in
relazione a cui sono state prospettate in dottrina due diverse e valide teorie :

 la prima teoria assimila il contratto di servizio ad un vero e proprio “contratto di diritto


privato”, in particolare al “contratto a favore di terzi” (artt. 1411-1413 c.c.).
 La seconda teoria, invece, facendo leva sulla “natura pubblicistica” degli interessi che il
contratto è chiamato a soddisfare, assimila la figura all’accordo amministrativo (di cui all’art. 11 della
L. 241 / 1990).

Il rapporto tra il soggetto gestore e l’utenza si esprime, invece, nel “CONTRATTO DI UTENZA”. In
ogni caso, questo contratto può avere ad oggetto solo i “servizi a domanda individuale” (con
esclusione, quindi, dei c.d. “servizi indivisibili”) :
infatti l’attività svolta dai gestori del servizio può essere destinata a tutti i cittadini (c.d. servizi
indivisibili) o ai singoli utenti che ne facciano richiesta (c.d. servizi a domanda individuale); nel primo
caso non si costituisce alcun rapporto giuridico tra i soggetti coinvolti, escludendo così a priori il
ricorso alla formula del contratto di utenza. Quest’ultima, quindi, si applica solo ai servizi a domanda
individuale, la cui fruizione da parte del singolo utente determina l’insorgere di un rapporto giuridico
vero e proprio con il soggetto erogatore.
La disciplina del rapporto che si costituisce dopo la stipulazione del “contratto di utenza” non si
differenzia da un comune “contratto di adesione” : ragion per cui è del tutto giustificata l’applicazione
di alcuni istituti di diritto privato, in primis quello dell’“obbligo a contrarre” ex art. 2597 c.c. (che
obbliga il gestore a erogare la prestazione a chiunque ne faccia richiesta, nel rispetto dei principi di
“parità di trattamento” e di “non discriminazione). Così ragionando, al contratto di utenza può essere
applicato l’art. 1679 c.c. : quest’ultimo, infatti - stabilendo che “i concessionari di servizi di linea per
il trasporto di persone o di cose sono obbligati ad accettare le richieste di trasporto compatibili con i
mezzi ordinari dell’impresa” - può fungere da paradigma generale del contratto di utenza.
Aldilà delle norme del codice civile, il “contratto di utenza” conosce anche altre due specifiche fonti :
gli “atti di regolazione dell’Authority sul contratto di utenza” e le “Carte dei servizi pubblici”. In
relazione alla prima fonte, va detto che l’Autorità garante può, innanzitutto, modificare o integrare le
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“condizioni generali di contratto” predisposte dal gestore (procedendo ad esempio a fissare le “tariffe-
base” o i “parametri di determinazione dei prezzi praticati”); in secondo luogo, l’Autorità esercita un
“potere di controllo sull’erogazione del servizio” (essa, cioè, controlla le “misure adottate dal gestore”,
in modo da garantire la parità di trattamento e la qualità delle prestazioni).
Infine, l’aspetto qualitativo della prestazione - e passiamo, così, ad analizzare l’ultima fonte del
contratto di utenza - viene curato anche dalle normative che impongono l’adozione della c.d. “Carta
dei servizi pubblici”, con cui il gestore assume unilateralmente una serie di obbligazioni volte a
garantire determinati livelli di qualità del servizio offerto. La carta dei servizi pubblici è stata
introdotta in Italia nel 1993 e si articola in 3 parti, in virtù delle quali il gestore si impegna :

 ad enunciare i principi sulla cui base poter procedere all’erogazione dei servizi pubblici;
 ad individuare gli strumenti idonei ad attuare tali principi (anche mediante l’adozione di
standard qualitativi e quantitativi del servizio);
 a determinare i “meccanismi di tutela” volti ad assicurare la concreta attuazione dei principi
enunciati nella Carta (ad esempio, l’istituzione, per ogni ente erogatore, di un “ufficio interno di
controllo” che deve ricevere i reclami presentati dagli utenti).

*CONTRATTO IN FAVORE DI TERZI = è il contratto in cui due parti si accordano affinchè una di loro esegua una
prestazione ad un terzo.

*CONTRATTO PER ADESIONE = contratto caratterizzato dalla predisposizione unilaterale da parte di uno dei contraenti
del contenuto del contratto; si caratterizza per la mancanza di possibilità per l'altro contraente di intervenire su tale
contenuto. Nel contratto per adesione la parte che non predispone il contratto ha, dunque, solo la possibilità di scegliere se
stipulare il contratto o meno, ma non quella di determinarne il contenuto.

*MONITORAGGIO = controllo.

-PARTE 9. POTERI PUBBLICI E TERRITORIO-

- CAPITOLO 1. BENI CULTURALI, BENI


PAESAGGISTICI E TUTELA DELL’AMBIENTE-

1. La nozione di bene culturale dalla L. 1089 / 1939 al t.u. 490 /


1999 al codice del 2004. La categoria giuridica dei BENI CULTURALI è oggi regolata
dal d.lgs. 42 / 2004 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio” : codice che ha sostituito il t.u.
490 / 1999 in materia di “beni culturali e ambientali”), che individua i BENI CULTURALI usando
un “metodo tipologico” : l’art. 2, 2°comma del codice stabilisce infatti che sono BENI
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CULTURALI «le cose immobili e mobili che - ai sensi degli artt. 10 e 11 - presentano interesse
storico, artistico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico , nonché tutte le
altre cose individuate dalla legge o in base alla legge come testimonianze aventi valore di civiltà».
Questa disciplina si differenzia in parte da quella contenuta nella previgente (e ormai abrogata) L.
1089 / 1939 («Tutela delle cose di interesse storico e artistico») : infatti il d.lgs. 42 / 2004, da un
lato, ha enucleato (in sintonia con quanto previsto dalla Legge del 1939) la nozione di “BENE
CULTURALE” mediante l’individuazione delle “res” (cioè delle cose mobili o immobili) che
presentano uno specifico valore culturale, ma dall’altro ha anche allargato il campo di applicazione
con il riferimento alle «altre cose» individuate dalla legge o in base alla legge come testimonianze
aventi valore di civiltà (evitando di fissare un’elencazione tassativa).

2. Beni culturali di appartenenza pubblica e privata. Per quanto riguarda


il regime soggettivo di appartenenza, i BENI CULTURALI si distinguono in “BENI PUBBLICI”
(se appartengono ad enti pubblici o persone giuridiche private senza scopo di lucro) e “BENI
PRIVATI” (se i proprietari sono soggetti privati).

Ora, in relazione ai primi, bisogna distinguere tra :

 I beni che, solo se presentano l’interesse culturale (che deve essere accertato
dall’amministrazione) sono soggetti al regime del “demanio pubblico” : ci riferiamo, in particolare,
ai beni elencati all’art. 10, 1°comma del Codice del 2004, che infatti statuisce che : “sono BENI
CULTURALI le cose (mobili e immobili) appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti
pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente pubblico e a persone giuridiche private senza scopo di
lucro, che presentano interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico”.
 I beni che appartengono di per sé al “demanio pubblico ”: ci riferiamo ai beni elencati all’art.
10, 2°comma del Codice (tra cui ricordiamo : “le raccolte di musei, pinacoteche e gallerie dello
Stato, delle Regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente pubblico”),
nonché a quelli elencati all’art. 822, 2°comma c.c. (che stabilisce che fanno parte del demanio c.d.
eventuale “gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle
leggi in materia e le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche”).
Il discorso è, invece, diverso per quel che riguarda i “BENI PRIVATI” : per essi il “codice” dispone
che l’interesse culturale deve essere dichiarato da un “provvedimento amministrativo”; in tal caso,
il bene resta d’appartenenza privata, ma le facoltà del privato proprietario sono soggette a dei limiti
(ad es. il privato non può apportare modifiche in contrasto con l’interesse culturale, non può
distogliere la cosa dalla sua destinazione, non può alterarla o trasferirla).

3. La verifica dell’interesse culturale. Per verificare la sussistenza dell’interesse


culturale, il regime in vigore fino al 1999 prevedeva l’obbligo per gli enti pubblici (ad eccezione
dello Stato) di formare degli elenchi contenenti la descrizione delle cose di loro proprietà che, a loro
avviso, potevano presentare un interesse culturale; una volta formati gli elenchi, gli stessi andavano
trasmessi al “Ministero per i beni e le attività culturali”, che così avrebbe potuto valutare la
concreta sussistenza dell’interesse culturale : qualora la valutazione avesse dato esiti positivi, la
decisione veniva notificata al soggetto proprietario (ente pubblico). La storia (e ci riferiamo alle
numerose decisioni giurisprudenziali in merito) ci ha, però, dimostrato che questo procedimento, in
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realtà, non è stato mai attuato nella pratica, poichè per sottoporre i BENI PUBBLICI a vincolo
storico-artistici si è sempre ritenuto che, a prescindere dall’inserimento dei beni all’interno degli
elenchi, la pubblica amministrazione (il Ministero) avrebbe dovuto effettuare anche una valutazione
in merito al “pregio del bene”, mediante l’adozione di un “provvedimento di accertamento
costitutivo”. Perciò il legislatore, abbandonando il sistema previgente, con l’art. 12 del codice del
2004, ha introdotto un nuovo “meccanismo di verifica dell’esistenza dell’interesse culturale”,
statuendo che :

 i “BENI PRIVATI” sono tutti assoggettati alla valutazione circa la sussistenza dell’interesse
culturale per l’adozione dell’eventuale “dichiarazione di interesse culturale”;
 per i “BENI PUBBLICI”, invece, sono stati predisposti 3 meccanismi valutativi : 1) quello
ope legis (per i beni di cui all’art. 10, 2°comma); 2) quello che necessita della “dichiarazione
dell’interesse culturale” ex art. 13 del codice; 3) quello c.d. residuale della “verifica” di cui all’art.
12 del codice.

4. La dichiarazione dell’interesse culturale. In relazione ai “BENI DI


PROPRIETA’ PRIVATA - ai fini dell’imposizione del “vincolo di indisponibilità” su una cosa di
valore storico-artistico - il r.d. 363 / 1913 sanciva come necessaria la sola “notificazione del
vincolo” (ai soggetti proprietari), e non richiedeva anche la “dichiarazione di notevole interesse
pubblico alla conservazione dei beni”. Tale “dichiarazione di notevole interesse pubblico” è stata
introdotta solo con la L. 778 / 1922. Tuttavia l’espressa previsione normativa non ha risolto tutti i
problemi in merito : ad ingenerare dubbi di significato tra «dichiarazione» e «notificazione» ha
contribuito anche la successiva L. 1089 / 1939 (rimasta in vigore fino al 1999), che infatti,
definendo la «notificazione» come un “provvedimento all’interno del quale l’amministrazione
esprime un giudizio sulla base non solo di valutazioni tecniche, ma anche di apprezzamenti
discrezionali”, ha finito per confondere i piani di operatività tra i due istituti. Così, a questo
inconveniente ha cercato di porre riparo il Codice del 2004, che infatti ha distinto opportunamente
la “dichiarazione” (all’art. 15) dalla “notificazione” (all’art. 13). Il “procedimento di dichiarazione”
è disciplinato dall’art. 14 del codice : questa norma stabilisce che, una volta comunicato l’avvio del
procedimento, l’amministrazione è tenuta ad adottare specifiche “misure di vigilanza e di
protezione” (aventi lo scopo di evitare che il proprietario proceda all’alienazione del bene, o a sue
modifiche o a demolizioni non autorizzate previamente); concluso il procedimento,
l’amministrazione procede alla «dichiarazione dell’interesse».

5. La tutela dei beni culturali. Il “POTERE DI VIGILANZA” sui beni culturali


appartiene esclusivamente al Ministro, con il temperamento però che, per le cose mobili e immobili
indicate all’art. 10, 1°comma del codice (che siano opera di autore non più in vita e la cui
esecuzione risalga a più di 50 anni), che appartengono alle Regioni o agli altri enti territoriali, il
Ministero procede anche attraverso forme di “intesa” e di “coordinamento con gli enti interessati”
(art. 18 del codice).
L’art. 19 del codice disciplina, invece, i “POTERI ISPETTIVI”, di cui sono titolari i Soprintendenti
: questi, in particolare, possono procedere «in ogni tempo» ad “ispezioni” finalizzate ad accertare la
sussistenza e lo stato di conservazione e di custodia dei beni culturali (per poter far ciò, però, i
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soprintendenti sono obbligati ad inviare un “preavviso”agli interessati almeno 5 giorni prima).


Gli artt. da 20 a 28 del codice si occupano, infine, delle “MISURE DI PROTEZIONE”, tra cui
ricordiamo le seguenti :

 è vietato distruggere, danneggiare o adibire i beni culturali ad usi non compatibili con il loro
dichiarato carattere storico o artistico;
 alcuni interventi sono ammissibili previa “autorizzazione ministeriale”;
 l’amministrazione può anche adottare “misure cautelari” e “preventive” per bloccare
interventi vietati o difformi dall’autorizzazione ricevuta dal Ministero.

*SOPRINTENDENZE : organi periferici del “Ministero per i Beni e le Attività Culturali”.

6. Circolazione dei beni culturali. Per quanto riguarda la disciplina relativa


all’“alienabilità dei beni culturali”, il codice del 2004 stabilisce, in primis, che i “beni culturali
appartenenti allo Stato, alle Regioni ed agli altri enti pubblici territoriali” di cui all’art. 822 c.c.
«costituiscono il demanio culturale» (art. 53) : il che significa che gli stessi non possono essere
alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi (se non nei modi previsti dal codice).
L’art. 54 prevede, poi, anche altre categorie di “beni inalienabili” (anche se possono essere
trasferiti da un ente pubblico territoriale all’altro) :

 gli immobili e le aree di interesse archeologico;


 gli immobili riconosciuti ex lege come “monumenti nazionali”;
 le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie, biblioteche e archivi;

Alcune deroghe sono invece consentite (salvo autorizzazione ministeriale) per i “beni culturali
immobili non dichiarati extra commercium” (artt. 55 e 56). Al riguardo, un particolare accenno
merita il “DIRITTO DI PRELAZIONE”, che spetta all’amministrazione in caso di alienazione a
titolo oneroso. La c.d. «prelazione culturale» è un istituto centrale nel regime della circolazione dei
beni culturali. La Corte costituzionale ne ha sancito la legittimità precisando che “l’istituto della
PRELAZIONE, presentando le caratteristiche tipiche del regime giuridico fissato per le cose di
interesse storico e artistico (regime che trova il suo fondamento nell’art. 9 Cost.) è un istituto ben
distinto dagli ordinari provvedimenti espropriativi, ai quali non può essere comparata”.
Per quanto riguarda, invece, il procedimento, l’art. 61 del codice prevede che la prelazione va
esercitata entro il “termine perentorio” di 60 giorni dalla ricezione della denuntiatio obbligatoria
che il proprietario è tenuto ad effettuare ex art. 59 : entro questo termine, l’atto di esercizio della
prelazione deve essere non solo emanato, ma anche notificato all’alienante e all’acquirente. Però, in
caso di “omessa denuncia” o di “denuncia tardiva” da parte del proprietario, la prelazione va
esercitata entro 180 giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha
comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa (nell’ipotesi di “omessa denuncia”).

*Art. 9 Cost. = “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione”.
*DIRITTO DI PRELAZIONE = diritto ad essere preferito, rispetto ad un altro a parità di condizioni, nella costituzione di
un negozio giuridico.

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7. Paesaggio e ambiente. Prima dell’avvento del t.u. 490 / 1999, la “materia


paesaggistico-ambientale” era frammentata in due distinte, anche se correlate, discipline : ci
riferiamo alla L. 1497 / 1939 sulla «protezione delle bellezze naturali» e alla L. 1089 / 1939 a tutela
delle «cose d’arte». Tuttavia, anche se il “testo unico del 1999” era riuscito a superare questa
diversità, mediante una reductio ad unum, permasero alcune ambiguità : sotto il Titolo 3° del t.u.
del 1999, intitolato ai «beni paesaggistici e ambientali», la norma d’apertura era l’art. 138, intitolata
(non ai beni paesaggistici ma) ai «beni ambientali», quasi a voler equiparare le nozioni di
«paesaggio» e «ambiente». Del resto, il collegamento tra tutela dell’ambiente e quella del
patrimonio paesaggistico permaneva anche nella L. 349 / 1986 (istitutiva del “Ministero
dell’ambiente”), anche se il nuovo dicastero era chiamato a tutelare un interesse pubblico a sé
stante.
Un diverso approccio al tema, viceversa, è stato quello mostrato dalla Corte costituzionale, che ha
definito l’AMBIENTE come un “bene immateriale unitario”, che si compone di diversi elementi,
ciascuno dei quali, pur potendo essere tutelato singolarmente, fa parte comunque di un novero
unitario. La Corte ha precisato che “il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in diversi modi,
così come possa essere oggetto di varie norme, non fa venir meno la sua natura di bene unitario”.
Per quanto riguarda, invece, il «PAESAGGIO», la Consulta, chiamata a pronunciarsi sul rapporto
intercorrente tra il “regime sanzionatorio” previsto dalla c.d. «legge Galasso» del 1985 e quello
predisposto dalla L. 1497 / 1939 nei confronti di chi compia opere di trasformazione non
autorizzate in zona vincolata, ha affermato che i due sistemi normativi non possono essere
comparati, poiché mentre l’impianto dell’abrogata L. 1497 / 1939 ci presenta un “profilo statico e
conservativo” della tutela paesaggistica (essendo quest’ultima diretta alla preservazione di cose e
località di particolare pregio estetico isolatamente considerate), la legge del 1985 ci presenta, al
contrario, un “profilo dinamico” (l’intervento umano è, cioè, valutato positivamente se è controllato
e mirato), perchè introduce una tutela del paesaggio improntata ai criteri dell’integrità e della
globalità. Ed è proprio in questa prospettiva, dunque, che il codice del 2004 ha finito per accogliere
una nozione di paesaggio (e della sua tutela) «statico-dinamica» : il che trova conferma nell’ art.
131, 1°comma : «per PAESAGGIO si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano
dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni». A fronte dell’ampia nozione di
«ambiente», quella di «PAESAGGIO» assume quindi una connotazione che partecipa sia
dell’esigenza di cura dell’interesse di singoli beni, sia di quella di non trascurare l’interesse alla
tutela dell’ambiente, sia, infine, della più ampia attenzione all’ordinato sviluppo del territorio (e
quindi alla materia dell’urbanistica).

8. I beni paesaggistici. L’art. 134 del Codice del 2004 suddivide i BENI
PAESAGGISTICI in 3 categorie :

 nella prima categoria troviamo “gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico” : sono
tali, ad esempio, gli immobili che presentano cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità
geologica, le ville, i giardini e i parchi che si caratterizzano per la loro non comune bellezza e le
bellezze panoramiche.

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 nella seconda categoria, invece, troviamo “le aree tutelate ex lege” : si pensi, ad esempio, ai
territori costieri, alle acque pubbliche, alle montagne, ai ghiacciai o alle riserve - nazionali o
regionali - ai vulcani e alle zone di interesse archeologico.
 nella terza categoria, infine, troviamo “gli immobili e le aree che i piani paesaggistici
previsti dagli artt. 143 e 156 del codice sottopongono a tutela”.

9. L’autorizzazione paesaggistica. Tra gli “istituti di controllo e gestione” (dei


beni sottoposti a tutela paesaggistica) disciplinati dal Codice del 2004, una particolare attenzione
deve essere dedicata alla c.d. “AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA”. In quest’ottica, il Codice
stabilisce innanzitutto che i proprietari, i possessori o i detentori di immobili di notevole interesse
pubblico non possono distruggere gli stessi, né apportarvi modificazioni che siano idonee a
pregiudicare il loro valore, posto sotto tutela; questi soggetti, però, possono presentare alla Regione
(o all’ente locale a cui la Regione ha delegato le funzioni) i “progetti delle opere che vogliono
eseguire sul bene”, insieme alla documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità
paesaggistica e sia rilasciata l’“autorizzazione a realizzarli”. In ogni caso, l’“autorizzazione
paesaggistica” non può essere rilasciata a posteriori (cioè successivamente all’intrapresa dell’opera)
: c.d. “autorizzazione in sanatoria”.
Quanto al procedimento, l’art. 146 del Codice stabilisce che l’“autorizzazione” produce effetti una
volta che siano decorsi 30 giorni dalla sua emanazione : in quest’arco di tempo, l’autorizzazione
deve essere trasmessa alla Soprintendenza (che ha emesso il parere nel corso del procedimento),
alla Regione e agli enti locali interessati. Però, l’autorizzazione, anche se rilasciata, può essere
annullata in “autotutela”, qualora non sia conforme alle prescrizioni poste a tutela del paesaggio.

10. La tutela dell’ambiente nel sistema costituzionale del riparto di


competenze legislative tra Stato e Regioni. Occorre esaminare l’attuale
sistema di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni sulla «materia ambiente» : in
materia ambientale, le “competenze legislative” sono ripartite tra lo Stato e le Regioni. Ai sensi
dell’art. 117, 2°comma, lett. s), Cost., lo Stato ha LEGISLAZIONE ESCLUSIVA nelle seguenti
materie : “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. La Corte
costituzionale, però, ha specificato che non tutti gli ambiti materiali specificati nel 2°comma
dell’art. 117 possono configurarsi come «materie» in senso stretto, poiché in alcuni casi si tratta più
esattamente di “competenze” del legislatore statale idonee ad investire più materie : con ciò la Corte
è giunta alla conclusione di escludere la “tutela dell’ambiente” dal novero delle “materie in senso
stretto”. Ciò perché questa materia non rientra in modo esclusivo nella sfera di competenza statale,
ma si intreccia anche con altri interessi e competenze. Nella giurisprudenza della Corte,
l’“AMBIENTE” è una materia «trasversale», in relazione a cui si manifestano competenze diverse
(che possono anche essere regionali). Pertanto, il compito dello Stato si sostanzierebbe nel dare una
risposta solo a quelle esigenze che richiedono di essere disciplinate in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale; alle Regioni, invece, spetterebbe, in via concorrente, il compito di curare gli
interessi ambientali connessi alle esigenze proprie del territorio.
Ma, in ogni caso, secondo la Corte, la caratterizzazione «trasversale» della «materia ambiente» non

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comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi a stabilire solo norme di principio, lasciando
sempre spazio a un’ulteriore normativa regionale.

11. Valutazioni di impatto ambientale (v.i.a.). Il GOVERNO DEL


TERRITORIO non si esaurisce con le scelte espresse negli strumenti di “pianificazione territoriale”,
ma si estende alle valutazioni di sostenibilità ambientale di interventi di portata più o meno ampia,
per cui occorre calibrare le esigenza di “tutela dell’ambiente” con l’obiettivo di una crescita
economica virtuosa : c.d. SVILUPPO SOSTENIBILE.
Tra i principali strumenti che le amministrazioni sono tenute a impiegare c’è la «valutazione di
impatto ambientale» (v.i.a.) : un procedimento tecnico-amministrativo capace di individuare
preventivamente gli effetti che determinati progetti (pubblici o privati) possono comportare
sull’ambiente, per giudicarne la compatibilità con l’ambiente e individuare le soluzioni più adatte a
uno sviluppo sostenibile. L’istituto è una fase preliminare e necessaria nell’ambito del
procedimento principale (autorizzatorio o concessorio), per consentire una considerazione
contemporanea dei vari interessi coinvolti e capace di condizionare l’opera fin dal momento della
sua progettazione : ciò perchè, avendo lo scopo di valutare gli effetti di un’opera sull’ambiente,
permette di risolvere ex ante i contrasti tra i vari interessi concorrenti con l’adozione di tecniche che
permettano di conciliare le esigenze sottese all’opera da realizzare con la protezione dell’ambiente.
La valutazione non è una semplice verifica tecnica sulla compatibilità ambientale dell’opera, ma
implica un’approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio imposto all’ambiente
rispetto all’utilità socio-economica (tenuto conto anche delle alternative possibili).
Per «IMPATTO AMBIENTALE» si intende l’alterazione (qualitativa o quantitativa, diretta o
indiretta, permanente o temporanea) dell’ambiente, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di
piani, programmi o progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione. La
v.i.a. si conclude con un “provvedimento obbligatorio” - espresso e motivato - che è il risultato di
una specifica “istruttoria tecnica”. L’esito di tale provvedimento è vincolante per la conclusione del
“procedimento di autorizzazione”, poichè in caso di esito negativo il progetto non può essere
autorizzato, mentre in caso di esito positivo l’autorizzazione deve recepirne tutte le prescrizioni. Tra
l’altro, il provvedimento di v.i.a., oltre a concludere il procedimento, è dotato dell’efficacia di
sostituire o coordinare tutte le autorizzazioni, le concessioni, le licenze, i pareri, i nulla osta
(praticamente ogni atto amministrativo di consenso) in materia ambientale : in tal senso l’istituto si
trasforma in un vero e proprio procedimento autorizzatorio.
La nascita della v.i.a. risale al 1969, quando negli Stati Uniti, con il c.d. «National Environmental
Policy Act» (NEPA), il Congresso impose al Governo federale di accertare anticipatamente gli
effetti negativi che derivavano all’ecosistema dalla realizzazione di determinate opere e progetti . In
pochi anni fiorirono omologhe disposizioni legislative in Paesi particolarmente sensibili alla
protezione delle risorse naturali. Ciò portò la Comunità europea a emanare la c.d. “Direttiva v.i.a.”
337 del 1985 (riguardante la valutazione dell’impatto ambientale di determinati “progetti” pubblici
e privati). Tale direttiva è stata nel tempo modificata e infine è stata abrogata dalla direttiva 2011 /
92 / UE : secondo quest’ultima direttiva, specifici “progetti” (pubblici o privati) appartenenti a
determinate “classi” e che hanno ripercussioni significative sull’ambiente devono essere per
principio sottoposti a una valutazione.
Secondo la direttiva la v.i.a. individua e valuta gli effetti di un progetto sui seguenti fattori : a)
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l’uomo, la flora e la fauna; b) il suolo, l’acqua, l’aria, il clima e il paesaggio; c) il patrimonio


culturale. La direttiva prevede anche che - per progetti che appartengono ad altre classi e che non
hanno necessariamente ripercussioni rilevanti sull’ambiente - si provvede a una valutazione solo se
gli Stati membri ritengano che le loro caratteristiche lo esigano. I progetti per i quali si prevede un
notevole impatto sull’ambiente sono elencati nell’allegato I (opere caratterizzate da possibili
impatti rilevanti) : per questi, le norme della direttiva sono immediatamente applicabili e
obbligatorie. Per i progetti indicati nell’allegato II, sono i singoli Stati membri, invece, a
determinare se la procedura di v.i.a. sia necessaria o meno (esaminando il progetto «caso per caso»
o fissando essi stessi dei “criteri” in merito). In casi eccezionali è consentito esentare uno «specifico
progetto» dall’applicazione della v.i.a., ma in tal caso gli Stati membri : 1) devono esaminare se è
opportuna un’altra forma di valutazione; 2) devono mettere a disposizione del pubblico le
informazioni relative alla decisione di esenzione e le ragioni per cui è stata concessa; 3) devono
informare la Commissione dei motivi che giustificano l’esenzione accordata.
Gli Stati membri possono decidere, dopo una valutazione caso per caso, di non applicare la
direttiva a “progetti destinati a scopi di difesa nazionale”, qualora ritengano che l’applicazione
possa pregiudicare tali scopi.
Le informazioni essenziali che il committente deve fornire per attivare una procedura di v.i.a.
riguardano : 1) il progetto, la sua ubicazione e dimensione; 2) le misure di mitigazione degli impatti
negativi; 3) i dati per valutare i principali effetti del progetto sull’ambiente;

Nel 2012 la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione della vigente direttiva
2011 / 92 / UE. Il nuovo testo prevede alcuni punti chiave, ad esempio : 1) la possibilità di deroga
viene limitata ai “progetti che riguardano la difesa nazionale” ed è estesa alla “protezione civile”; 2)
è fissata una scadenza per la conclusione della procedura di v.i.a.; 3) è prevista l’obbligatorietà del
monitoraggio ex post per i progetti che avranno significativi effetti negativi sull’ambiente.

La revisione della Direttiva 2011 / 92 / UE è stata adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio
nel 2014 : è la Direttiva 2014 / 52 / UE (“nuova direttiva VIA” di modifica alla direttiva 2011 / 92 /
UE).

*COMMITTENTE = chi commissiona, ordina ad altri l’esecuzione di un lavoro.

12. La disciplina nazionale sulla valutazione di impatto


ambientale. Il percorso di recepimento degli atti comunitari nell’ordinamento italiano è stato
lungo e difficoltoso : esso è iniziato dopo l’approvazione della direttiva 85 / 337 / CEE, che è stata
recepita con la L. 349 / 1986 (istitutiva del Ministero dell’ambiente), che ha introdotto nel nostro
ordinamento la “valutazione di impatto ambientale”. Nel 2004 il Governo è stato delegato ad
adottare dei decreti legislativi di riordino e coordinamento delle disposizioni legislative in diverse
materie ambientali, tra cui la v.i.a., la v.a.s. (valutazione ambientale strategica) e l’a.i.a.
(autorizzazione ambientale integrata). In conseguenza di tale delega, è stato emanato il d.lgs. 152 /
2006 (il c.d. “CODICE DELL’AMBIENTE”), anche se l’entrata in vigore della seconda parte
(riguardante la v.i.a.) è stata prorogata al 2007 poiché si era ravvisata la necessità di introdurvi delle
disposizioni correttive. Fu poi promulgato il d.lgs. 4 / 2008, contenente «ulteriori disposizioni
correttive e integrative del codice dell’ambiente». Infine nel 2009 il Governo è stato nuovamente
delegato ad adottare dei decreti legislativi correttivi dei decreti precedenti : così è stato emanato il
d.lgs. 128 / 2010.
Il c.d. terzo decreto correttivo al codice dell’ambiente ribadisce la funzione della v.i.a. di assicurare
che - nella fase di formazione delle decisioni per la realizzazione dei progetti contemplati negli
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allegati I e II delle direttive comunitarie - siano adeguatamente considerati la protezione della


salute, dell’ambiente e dell’ecosistema. Per conseguire questo obiettivo, la v.i.a. valuta gli effetti
del progetto sull’uomo, la flora, la fauna, il suolo, le acque, l’aria, il clima e sul patrimonio
culturale.
Il d.lgs. 128 / 2010 ha apportato numerose innovazioni : 1) viene sviluppato un maggior
coordinamento tra v.i.a., a.i.a. e v.a.s.; 2) la v.i.a. viene specificamente applicata per impatti
«significativi e negativi per l’ambiente»; 3) vengono ridotti i termini di procedura e decisione.
Con le modifiche operate con il d.lgs. 128 / 2010 la procedura di “valutazione di impatto
ambientale” diventa un procedimento più articolato e complesso : il provvedimento di v.i.a. diventa
una sorta di «autorizzazione unica» in materia ambientale; infatti sostituisce o coordina tutte le
autorizzazioni, concessioni, licenze, pareri e nullaosta in materia ambientale (la v.i.a., in tal modo,
acquisisce anche un effetto autorizzatorio). E se le autorizzazioni ambientali che la v.i.a. sostituisce
sono “autorizzazioni alla realizzazione” o “al funzionamento di un impianto o di un’attività”, il
provvedimento di valutazione positiva dell’impatto ambientale acquisisce ex lege tutti i connotati
dell’atto che ha sostituito.
Inoltre il decreto stabilisce che la procedura di v.i.a. è effettuata non più sul progetto preliminare,
ma sul “progetto definitivo”, mentre il progetto preliminare è necessario per attivare la c.d.
procedura di screening.
Grande rilievo è attribuito all’informazione e alla partecipazione del pubblico, che sono estese a
tutte le fasi del procedimento e rese effettive con l’uso di tutti i mezzi di informazione disponibili.
Infine l’introduzione di un “sistema di monitoraggi, controlli e sanzioni” rende effettiva la
possibilità di assicurare l’efficienza ambientale del progetto giudicato compatibile dopo
l’espletamento della procedura di v.i.a. o anche di screening.
Un dato molto importante, inoltre, è l’introduzione della validità temporale del provvedimento di
valutazione dell’impatto ambientale : infatti le opere devono essere realizzate entro 5 anni dalla
pubblicazione del provvedimento.
Il decreto conferma anche l’impostazione delle direttive comunitarie, che assegnano una funzione
preventiva alla v.i.a. nei confronti di determinati “progetti” qualora questi «possano avere impatti
significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale» :

 per le opere elencate negli allegati 2 e 3 del d.lgs. 152 / 2006 è sempre richiesto il
procedimento di v.i.a., poiché l’effetto di «impatto significativo e negativo» è assistito da una
presunzione iuris et de iure (*presunzione legale che non ammette prova contraria);
 per le opere menzionate nell’allegato 4 l’assoggettabilità alla v.i.a. è oggetto di un
procedimento di verifica caso per caso.

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione del procedimento di valutazione di impatto


ambientale, sono assoggettati all’obbligo (di “competenza statale”) le opere e i progetti elencati
nell’allegato 2, mentre i progetti elencati negli allegati 3 e 4 ricadono nella “competenza regionale”.
La v.i.a. è anche necessaria in caso di modifiche sostanziali (non tutte le modifiche, quindi, ma solo
quelle sostanziali : cioè quelle che possono comportare effetti negativi e significativi sull’ambiente)
o di estensioni da apportare ad impianti ed opere esistenti.

*VAS : la v.a.s. è un procedimento di analisi preventiva dell’impatto ambientale derivante dall’attuazione degli strumenti
di pianificazione. In linea generale il procedimento di v.a.s. precede, ma non necessariamente determina, una procedura
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di v.i.a. Le due tipologie di valutazione (vas e via) agiscono in due fasi diverse su due oggetti diversi : mentre la v.a.s. è
una procedura che agisce per valutare gli effetti ambientali prodotti da piani o programmi, la v.i.a. è una procedura che
agisce per valutare gli impatti ambientali causati da progetti o opere. La vas riguarda piani urbanistici e di settore (rifiuti,
energia, viabilità,ecc.). Lo scopo è quello di migliorare le caratteristiche dei progetti e dei piani per garantire un’adeguata
protezione dell’ambiente ex-ante.

*AIA : (“autorizzazione integrata ambientale”) è l'autorizzazione di cui necessitano alcune aziende per uniformarsi ai
principi di integrated pollution prevention and control (IPPC) dettati dall’Unione europea : serve per valutare
anticipatamente le ricadute negative sull’ambiente causate dall’esercizio di specifiche attività industriali . E’ un
provvedimento che autorizza l’esercizio di un impianto ed è obbligatorio per legge per le aziende rientranti nell’allegato 8
del Testo Unico dell’Ambiente.

*SCREENING : (c.d. verifica di assoggettabilità a v.i.a.). La procedura di verifica preliminare (o screening) è una
procedura tecnico - amministrativa volta ad effettuare una valutazione preliminare della significatività dell’impatto
ambientale di un progetto, determinando se lo stesso richieda, in relazione alle possibili ripercussioni sull’ambiente, lo
svolgimento successivo della procedura di v.i.a.

*SCOPING : la “procedura di delimitazione del campo di indagine” (o scoping) è una procedura tecnico - amministrativa
volta a valutare la proposta dei contenuti del successivo Studio di Impatto Ambientale (in sigla S.I.A.) per indirizzare il
committente di un’opera alla completa analisi delle componenti ambientali interessate dal progetto. E’ la fase che serve a
definire l’ambito delle indagini necessarie per la valutazione.

*SIA : “studio di impatto ambientale” che viene redatto da esperti su incarico del committente. Lo Studio di Impatto
Ambientale (SIA) è il documento tecnico redatto da tecnici incaricati dal committente, in cui è presentata una descrizione
approfondita delle caratteristiche del progetto e delle principali interazioni dell’opera con l’ambiente circostante. Nel SIA
deve essere fatto un quadro completo della situazione precedente la realizzazione dell’opera e una previsione della
situazione successiva alla realizzazione. Lo studio di impatto ambientale è predisposto a cura e spese del committente.

*VIA : in molti casi essa è specificatamente prevista come passaggio importante all’interno delle procedure autorizzative
per la realizzazione di opere pubbliche, ma lo è anche per la realizzazione di progetti privati, specie quando questi
abbiano una dimensione considerevole e possano provocare un potenziale impatto ambientale significativo.

-CAPITOLO 2. GOVERNO DEL TERRITORIO-

1. L’art. 117 Cost. e la materia «governo del territorio». L’art. 117,


2°comma Cost. indica il «GOVERNO DEL TERRITORIO» come «materia di legislazione
concorrente». Il concetto di GOVERNO DEL TERRITORIO non è, però, di agevole perimetrazione
se si considera che l’art. 117 Cost. individua come altre, rispetto al “governo del territorio”, materie
che incidono sulla disciplina del territorio. Di queste materie a sé, diverse da quella del governo del
territorio, alcune sono attribuite dall’art. 117 Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato,
mentre altre sono attribuite alla potestà legislativa concorrente.
Il primo dubbio derivante dalla locuzione «governo del territorio» usata dal legislatore
costituzionale del 2001 è se essa sia sinonimo di quella (usata nel vecchio art. 117 Cost.) di
«URBANISTICA» (per cui era fissata la competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni,
così com’è ora per il «governo del territorio»,). Se si ritenesse che il “governo del territorio” sia una
materia diversa dall’ “urbanistica”, la conseguenza sarebbe che quest’ultima (in quanto non
compresa né tra le materie di competenza legislativa statale esclusiva né in quelle di competenza
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legislativa concorrente) rientrerebbe tra le materie di competenza legislativa regionale esclusiva ex


art. 117, 4°comma Cost. Questo dubbio è stato risolto dalla Corte costituzionale - che con la
sentenza n. 303 / 2003 - dopo aver constatato che «la parola “URBANISTICA” non compare nel
nuovo testo dell’art. 117 Cost.», afferma che «ciò non autorizza a ritenere che la relativa materia
non sia più compresa nell’elenco del 3°comma dell’art. 117 Cost. : essa fa parte del “governo del
territorio”». Quindi il governo del territorio comprende l’urbanistica : neppure
dell’URBANISTICA, però, è agevole la delimitazione, e ciò a causa delle diverse discipline
legislative che si sono succedute nel tempo.

2. La materia dell’urbanistica nella giurisprudenza della Corte


costituzionale. Nel 1958, la Corte costituzionale, poggiando sulla disciplina introdotta
dalla L. 1150 / 1942 (la c.d. “legge fondamentale dell’urbanistica”), delinea l’URBANISTICA
come “materia che disciplina l’uso del territorio in funzione della regolazione dell’attività edilizia”.
L’art. 1 della legge infatti dispone che «la presente legge disciplina l’assetto e l’incremento edilizio
dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico nel territorio». Questa concezione dell’URBANISTICA è
stata criticata dalla dottrina perché ritenuta riduttiva, ma la Corte è rimasta fedele nel tempo ad essa.
Infatti nel decidere nel 1972 numerose questioni di legittimità costituzionale sollevate riguardo alle
disposizioni del d.p.r. 8 / 1972 (di trasferimento delle “funzioni amministrative statali” in materia di
urbanistica) la Corte afferma sì l’«inscindibilità esistente tra l’attività urbanistica e la tutela delle
bellezze naturali», ma continua ad asserire che «l’urbanistica come materia è un’attività che
riguarda l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati : così viene definita dalle leggi c.d.
urbanistiche (e soprattutto dall’art. 1 della L. 1150 / 1942) e così è stata considerata dall’art. 117
Cost.». Però nel 1982, la Corte accoglie una nozione diversa e più estesa della materia
«urbanistica», a ciò indotta dall’art. 80 del d.p.r. 616 / 1977, che ha ridefinito l’URBANISTICA
come “la disciplina dell’uso del territorio che comprende tutti gli aspetti riguardanti la salvaguardia
e la trasformazione del suolo, nonché la protezione dell’ambiente» : così, «si deve ritenere che
l’urbanistica comprende tutto ciò che riguarda l’uso dell’intero territorio (e non solo degli
aggregati urbani)». Tuttavia, nonostante l’art. 80 del d.p.r. 616 / 1977 completi la definizione
dell’urbanistica (aggiungendo la previsione della protezione dell’ambiente), per la Corte, intesa in
senso lato, l’urbanistica comprende, «oltre che la protezione ambientale collegata all’assetto
urbanistico del territorio, anche la tutela del paesaggio, la tutela della salute nonché la difesa del
suolo, dell’aria e dell’acqua dall’inquinamento». In conclusione, quindi, «la stessa zona di
territorio può essere oggetto di provvedimenti normativi relativi al paesaggio o riguardanti
l’urbanistica (provvedimenti che sono attribuiti alla competenza di soggetti diversi) : bisogna
quindi individuare un criterio distintivo, che è fornito dal contenuto e dallo scopo dell’atto (che
qualificano l’atto e ne determinano l’appartenenza all’una o all’altra materia»). L’URBANISTICA,
quindi, è sì una materia che comprende, oltre alla trasformazione dei suoli, la loro salvaguardia e la
protezione dell’ambiente, ma è variamente articolata a seconda del diverso contenuto e del diverso
scopo degli atti normativi di volta in volta rilevanti : ed è in base al peculiare contenuto e al
peculiare scopo di questi che ne va fissata la pertinenza all’una o all’altra materia (ciascuna
assoggettata a una peculiare disciplina).
Tuttavia la concorrenza tra la disciplina urbanistica in senso stretto (che si esprime negli atti di
pianificazione territoriale) e le discipline differenziate - tutte riguardanti lo stesso territorio - dà
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luogo, oltre che alla proliferazione di piani e di strumenti programmatori eterogenei, alla
sovrapposizione di competenze e ad enormi difficoltà di coordinamento. A queste difficoltà ha
cercato di ovviare il d.lgs. 112 / 1998, il cui art. 57 dispone che «il “piano territoriale di
coordinamento provinciale” può assumere il valore e gli effetti dei piani di tutela dell’ambiente,
delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sulla base di intese tra la
Provincia e le amministrazioni competenti». Quindi è prevista la crasi in un unico piano della
disciplina urbanistica e delle discipline differenziate : crasi (*fusione) possibile attraverso l’intesa
tra amministrazioni diverse. Solo nel caso in cui l’intesa non venga raggiunta, «i piani di tutela di
settore conservano il valore e gli effetti assegnati ad essi dalla rispettiva normativa nazionale e
regionale». In base a questa norma, è così possibile enucleare il concetto di GOVERNO DEL
TERRITORIO come “ambito disciplinare in cui confluiscono competenze amministrative diverse,
facenti capo sia a soggetti cui è attribuita la potestà urbanistica classica, sia a soggetti cui sono
attribuite altre potestà amministrative, volte alla protezione di interessi settoriali, che comunque
incidono sulla regolazione del territorio”.

3. La delimitazione della materia del governo del territorio nella


giurisprudenza della Corte costituzionale. Alla luce del nuovo art. 117 Cost.,
che individua il «GOVERNO DEL TERRITORIO» come materia (attribuita alla competenza
legislativa concorrente), si potrebbe avanzare l’ipotesi che questa materia includa tutti gli interessi
che si esprimono sul territorio e prospettarne una “disciplina unitaria” (e non differenziata per
interessi o qualità di specifici luoghi). Sennonché la Corte costituzionale - pur avendo affermato che
il “governo del territorio” non si limita alla sola urbanistica – basandosi, però, sulla pertinenza
dell’interesse perseguito ad altre materie (diverse dal “governo del territorio” ed espressamente
menzionate nell’art. 117 Cost.), ha sancito il fondamento costituzionale di discipline diverse. Ad
esempio la Corte, pur avendo sempre precisato che la materia dell’urbanistica (e quindi quella del
governo del territorio) comprende l’edilizia, afferma anche che «la regolazione delle distanze tra
fabbricati (che è un atto di esercizio della potestà urbanistica) si inquadra nella materia
«ORDINAMENTO CIVILE» (di “competenza legislativa esclusiva dello Stato”), perché riguarda
in via primaria i rapporti tra i proprietari di fondi limitrofi e ha la sua collocazione innanzitutto nel
codice civile». Poiché, però, «i fabbricati insistono su un territorio che può avere delle specifiche
caratteristiche, la disciplina che li riguarda può toccare anche interessi pubblici, inerendo così alla
materia del “governo del territorio”». Ciò però solo se c’è «l’esigenza di soddisfare interessi
pubblici legati al governo del territorio» : quindi il legislatore regionale (titolare di competenza
legislativa concorrente in materia) può intervenire sulla disciplina delle distanze minime tra
costruzioni «solo ove persegua finalità di carattere urbanistico.
Riguardo invece all’ “EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA”, la Corte ha affermato che - anche
se si tratta di una materia non contemplata nei commi 2 e 3 dell’art. 117 Cost. - non per questo essa
è attribuita alla competenza residuale delle Regioni ex art. 117, 4°comma Cost. Questa infatti è una
materia «trasversale» e può essere suddivisa in tre nuclei : 1) il primo, che riguarda la
determinazione dell’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno
abbienti e la fissazione di principi che garantiscano l’uniformità dei criteri di assegnazione degli
alloggi su tutto il territorio nazionale, rientra nella “competenza legislativa statale esclusiva”; 2) il
secondo, che riguarda la programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica,
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ricade nella materia del “governo del territorio” (attribuita alla “legislazione concorrente”); 3) il
terzo, che riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica, ricade
nella “competenza residuale (esclusiva) delle Regioni”.
Infine, con la sentenza n. 303 / 2003, seguendo un itinerario argomentativo che porta ad individuare
una dimensione dinamica e a valenza procedimentale dei “principi di sussidiarietà” e di
“adeguatezza” ex art. 118 Cost., la Corte ha sancito che «non si può limitare l’attività dello Stato
alle sole materie espressamente attribuitegli in “potestà esclusiva” o alla determinazione dei principi
nelle materie di “potestà concorrente” : ciò significherebbe sì circondare le competenze legislative
delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare le istanze unitarie che
giustificano, a determinate condizioni, una deroga al normale riparto di competenze». La Corte
osserva che «nel nostro ordinamento sono presenti dei congegni per rendere più flessibile un
disegno che - in ambiti in cui si intrecciano attribuzioni e funzioni diverse - rischierebbe di
vanificarne le istanze di esercizio unitario». Uno di questi elementi di flessibilità è il “principio di
sussidiarietà” ex art. 118, 1°comma Cost. : esso «agisce come sussidio quando un livello di governo
è inadeguato alle finalità che si vogliono raggiungere ed ha un’attitudine ascensionale, consentendo
che la funzione amministrativa possa essere esercitata dallo Stato per esigenze di esercizio
unitario». Il principio di sussidiarietà, seppur riferito esplicitamente alle funzioni amministrative,
deroga anche al normale “riparto delle competenze legislative” stabilito nell’art. 117 Cost.» ed ha
«una vocazione dinamica» : infatti «poiché anche le funzioni assunte per sussidiarietà devono
essere regolate dalla legge (per il “principio di legalità”), le singole Regioni non possono regolare,
con discipline differenziate, funzioni amministrative attratte a livello nazionale».
Tuttavia, nonostante la sussidiarietà consenta di derogare al normale riparto di competenze, questa
deroga può giustificarsi «solo previo accordo stipulato con la Regione interessata» : quindi i
principi di sussidiarietà e adeguatezza, oltre ad avere una dimensione dinamica, hanno anche «una
valenza procedimentale», perché «l’esigenza di esercizio unitario che permette di attrarre - insieme
alla funzione amministrativa - anche quella legislativa, può superare il vaglio di legittimità
costituzionale solo in presenza di un’ intesa». Ciò perché « l’attrazione allo Stato di funzioni
amministrative da regolare con legge non è giustificabile solo invocando l’interesse a un loro
esercizio centralizzato, ma è anche necessario coinvolgere i soggetti titolari delle attribuzioni
attratte, salvaguardandone la posizione costituzionale».

4. Governo del territorio e politiche dell’Unione europea. L’incidenza


delle politiche dell’Unione sul “governo del territorio” può essere :

 INDIRETTA : condotta, cioè, attraverso l’allocazione di risorse sul territorio (infatti dagli
“atti di programmazione dei finanziamenti europei” è possibile ricavare il disegno del futuro uso
del suolo su cui saranno realizzate le opere;
 DIRETTA : in quanto il Consiglio, deliberando all’unanimità (secondo una procedura
legislativa speciale), previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e
sociale e del Comitato delle Regioni, può adottare «misure che incidono sull’assetto territoriale e
sulla destinazione dei suoli».

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5. La funzione di governo del territorio attraverso gli atti di


pianificazione. Il “governo del territorio” si concreta attraverso diversi atti giuridici di
carattere più o meno generale, cioè gli “STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE” : atti che, con un
disegno razionale, assegnano o riconoscono in via preventiva le caratteristiche e le potenzialità di
impiego delle diverse porzioni di un certo territorio , determinandone le potenzialità di sviluppo.
Il legislatore ricorse agli strumenti di pianificazione fin dalle “leggi di unificazione nazionale” del
1865. Però solo con la “c.d. legge urbanistica” (L. 1150 / 1942) nel nostro ordinamento fu introdotto
un sistema di piani con funzioni diverse, affidate alla competenza dei diversi livelli di governo in
cui era articolata l’amministrazione del tempo. L’avvento delle Regioni e le competenze ad esse
attribuite dalla Costituzione in materia di governo del territorio hanno poi determinato una
frammentazione della disciplina urbanistica : la “legge urbanistica” da quel momento si declinò al
plurale, con una diversa legge urbanistica in ogni Regione a integrazione della disciplina della legge
statale (che comunque è rimasta in vigore). Il principale tratto unificante sta proprio nella “funzione
di pianificazione”, una funzione che è sempre stata considerata la massima espressione del potere
discrezionale delle pubbliche amministrazioni. Tuttavia nell’ambito della pianificazione urbanistica
il margine di discrezionalità è fortemente contenuto sia dai “vincoli legali” che dai “vincoli
derivanti dalla natura delle cose”.

La pianificazione sovracomunale di area vasta e di settore. I diversi


“livelli di pianificazione” si dispongono in una sequenza a cascata, partendo dal generale e
scendendo fino al massimo grado di dettaglio.

 Gli artt. 5 e 6 della “legge urbanistica” (L. 1150 / 1942) pongono, come primo e più generale
livello di pianificazione, il “PIANO TERRITORIALE REGIONALE” : tale strumento si limita ad
indicazioni di carattere assai generale (e, quindi, non detta disposizioni che entrano nel dettaglio o
che contengono previsioni immediatamente precettive sul territorio). Questo livello di
pianificazione è stato introdotto con lo scopo di fornire una serie di indicazioni e di direttive
indirizzate agli enti territoriali investiti della pianificazione territoriale vera e propria e di quella di
dettaglio o attuativa (quindi le Province e i Comuni). Sono poi le “leggi urbanistiche regionali” a
precisare il grado di dettaglio di tale “potere di indirizzo”, che, però, deve comunque rispettare il
limite delle attribuzioni regionali garantito dalla Costituzione; l’unica eccezione a questa regola è
consentita nel caso di inerzia di tali enti : in tal caso infatti è consentito che la “legislazione
regionale” attribuisca poteri sostitutivi alle Regioni.
 Nel 1990, poi, è stato attribuito alle Province il compito di adottare “PIANI
TERRITORIALI DI COORDINAMENTO”, oggi disciplinati dall’art. 20 del d.lgs. 267 / 2000 (“t.u.
enti locali”) e, in dettaglio, dalle “leggi regionali delle singole Regioni” (che dovranno prevedere
anche le modalità procedimentali per la predisposizione di questi piani) : siamo in presenza di un
atto di «programmazione intermedia» tra gli indirizzi del piano regionale e le disposizioni di
dettaglio contenute nei piani regolatori generali di competenza comunale, che individua le
maggiori infrastrutture e le principali reti che dovranno insistere sul territorio, le aree che dovranno
conservare una destinazione naturalistica (anche con l’istituzione di parchi e riserve naturali) e
precisa anche le linee-guida per l’assetto idrico del territorio interessato. I piani di livello
provinciale non contengono disposizioni che entrano nel dettaglio o che recano previsioni
immediatamente precettive sul territorio.

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La pianificazione comunale generale e di attuazione. Lo strumento di


pianificazione territoriale più significativo resta quindi il “PIANO REGOLATORE GENERALE”,
di competenza dei Comuni : è infatti tale piano a contenere una puntuale disciplina precettiva
sull’impiego, la tutela e le potenzialità di sviluppo del territorio comunale; previsioni che possono
incidere sulla “sfera giuridica soggettiva” dei singoli (cittadini, imprese o altre persone giuridiche).
Il contenuto essenziale del PIANO REGOLATORE GENERALE è l’articolazione del territorio
comunale in diverse zone (c.d. zonizzazione), ciascuna con una propria vocazione funzionale in
base alle sue caratteristiche fisiche, alle esigenze di conservazione e alle potenzialità di sviluppo.
Ciascuna zona dovrà avere una “destinazione d’uso” che individui la funzione assegnata a quella
porzione di territorio : avremo così porzioni di centro storico (zona A), di completamento e di
espansione dell’abitato (zone B e C), aree a vocazione industriale o agricola (zone D ed E), o
destinate a infrastrutture (zone F). Il piano regolatore deve individuare anche le aree da destinare ad
opere pubbliche di urbanizzazione (come strade, parcheggi, rete fognaria,ecc.) o ad altre opere
pubbliche o di interesse collettivo (piste ciclabili, piscine, impianti sportivi, ecc.) : c.d.
“urbanizzazione primaria” e “secondaria”. Per ogni zona il piano dovrà indicare anche le “regole di
edificazione” (cioè la superficie e i volumi edificabili, l’altezza degli edifici e le distanze tra di essi
e gli eventuali “vincoli” di carattere storico, artistico o ambientale che insistono su ciascuna zona).
Ciascuna zona potrà a sua volta essere articolata in c.d «sottozone» con destinazioni diverse (come
ad esempio abitazioni, uffici, negozi, ecc).
La procedura di formazione del PIANO REGOLATORE GENERALE varia a seconda delle
previsioni delle leggi regionali. Il procedimento si articola sostanzialmente in tre fasi :

1) l’adozione del piano da parte del Comune : con una delibera di indirizzo il Consiglio fissa le
“linee-guida della politica urbanistica”, a cui si dà una prima attuazione nella redazione tecnica del
progetto di piano, che viene poi recepito con una delibera di adozione da parte del Consiglio
comunale.

2) la fase delle osservazioni dei privati sul piano adottato : il piano adottato viene depositato presso
la Casa comunale e tale deposito viene comunicato alla popolazione tramite pubblicazione e altre
forme di pubblicità, per consentire che tutti gli interessati possano formulare entro un termine
preciso le proprie osservazioni e fornire il proprio apporto partecipativo, con funzione collaborativa
o oppositiva (a tutela di specifiche situazioni giuridiche soggettive di vantaggio).

3) l’approvazione del piano e la sua pubblicazione : allo scadere del termine per il deposito delle
osservazioni l’amministrazione comunale esamina tali documenti, decidendo, con delibera del
Consiglio, le eventuali modifiche da apportare al “progetto di piano” adottato e incarica gli uffici
tecnici di apportare le modifiche conseguenti per consentire la definitiva approvazione da parte
dell’organo consiliare regionale (o comunale) competente per legge. Il piano così approvato viene
infine pubblicato e può iniziare a produrre i suoi effetti.

Il piano regolatore generale, però, non è l’ultimo strumento di pianificazione : pur avendo una
valenza immediatamente precettiva, infatti, esso non contiene quelle prescrizioni di dettaglio o
attuative che sono rimesse a specifici strumenti, propriamente esecutivi.
Nel disegno della legge urbanistica (L. 1150 / 1942), il piano attuativo più comune avrebbe dovuto

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essere il PIANO PARTICOLAREGGIATO : questo piano è uno strumento che - seguendo le


indicazioni del “piano regolatore generale” - detta disposizioni di dettaglio o esecutive ad esso
conformi; l’obiettivo del piano particolareggiato é di precisare in dettaglio l’assetto definitivo delle
sistemazioni delle singole zone, determinando i “limiti” e i “vincoli” che devono essere osservati dai
privati nelle nuove costruzioni o nelle trasformazioni e delimitando le aree soggette ad esproprio o a
vincoli. Esso è lo strumento tipico di attuazione del “piano regolatore generale”, anche se nella
prassi la pianificazione particolareggiata non ha trovato grande spazio, e ciò sia per il carattere di
sufficiente dettaglio dei piani regolatori generali (e quindi del carattere autoesecutivo delle relative
prescrizioni) che per l’onere economico derivante dallo svolgimento di un ulteriore procedimento di
pianificazione di dettaglio non strettamente necessario. Quanto al procedimento, esso è di
competenza dell’amministrazione comunale e l’iter procedimentale si compone di : 1) una fase di
redazione e di adozione; 2) di una fase di partecipazione dei privati anche in funzione oppositiva; 3)
e di una fase di definitiva approvazione e pubblicazione.
Maggior successo pratico hanno avuto gli strumenti di attuazione di iniziativa privata : i c.d. PIANI
DI LOTTIZZAZIONE DI INIZIATIVA PRIVATA : si tratta di forme di pianificazione che - nel
rispetto delle prescrizioni generali contenute nel “piano regolatore” - prevedono il frazionamento di
un terreno in tanti diversi lotti edificabili necessari a porre in essere una pluralità di edifici
residenziali, turistici ed industriali e a predisporre le opere di urbanizzazione occorrenti alle
necessità primarie e secondarie dell’insediamento. Ciò su base consensuale (perché devono essere
approvati dal Consiglio comunale) e su proposta delle parti private interessate allo sviluppo di
determinate zone oggetto della pianificazione generale. Come accade per i piani particolareggiati, il
piano di lottizzazione dovrà indicare la distribuzione degli interventi edificatori su un determinato
territorio (con la precisa indicazione delle superfici e dei volumi), nonché la localizzazione delle
opere di urbanizzazione previste - tra cui necessariamente le c.d. opere di “urbanizzazione
primaria”, che includono la rete stradale, quella idrica e quella fognaria (i cui oneri saranno
addossati per intero in capo ai proponenti il piano di lottizzazione insieme a una quota degli oneri
per le opere di “urbanizzazione secondaria”). Per l’attuazione del piano di lottizzazione, deve
stipularsi una “convenzione” (c.d. “CONVENZIONE DI LOTTIZZAZIONE”), in cui i lottizzandi
si impegnano a cedere gratuitamente le aree per la realizzazione di opere di “urbanizzazione
primaria” e “secondaria” e a corrispondere gli oneri per la realizzazione completa
dell’urbanizzazione primaria e parte della secondaria. L’esecuzione del piano di lottizzazione dovrà
intervenire in un termine preciso (non superiore ai 10 anni) e dovrà essere assistita dalla prestazione
di idonee garanzie finanziarie da parte dei proponenti privati per assicurare l’adempimento delle
obbligazioni poste a loro carico.
Altri piani attuativi che hanno avuto successo sono poi i “piani di edilizia residenziale pubblica”
(e.r.p.) e i “piani per gli insediamenti produttivi” (p.i.p.).

*L'urbanistica differenzia le “opere di urbanizzazione” in due specie, le opere di urbanizzazione primaria (quali, strade,


fognature, luci, acquedotti) e le opere di urbanizzazione secondaria (quali, scuole, uffici pubblici, negozi, ecc).

*LOTTIZZAZIONE = è l’operazione che consiste nel frazionamento di un terreno agricolo o improduttivo in lotti edificabili,
ossia in superfici idonee per un’edificazione sistematica.

Il regolamento edilizio. Lo strumento di pianificazione più antico è il


REGOLAMENTO EDILIZIO : secondo le prescrizioni dell’art. 34 della “legge urbanistica” 1150 /
1942, nei Comuni sprovvisti della pianificazione urbanistica generale l’attività edilizia dovrà
comunque rispettare le norme dettate nel “regolamento edilizio” (che, prima della legge urbanistica
del 1942, era l’unica disciplina che regolasse l’attività edilizia).
Il regolamento edilizio - prima disciplinato dall’art. 33 della legge urbanistica - è oggi previsto dagli
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artt. 2 e 4 del “t.u. in materia edilizia” (d.p.r. 380 / 2001) : esso deve contenere la “disciplina delle
modalità costruttive” (le norme tecnico-estetiche, igienico sanitarie, di sicurezza e di vivibilità degli
immobili). Si tratta di un contenuto ben più limitato di quello imposto al “regolamento edilizio”
dalla legge urbanistica del 1942, che poteva avere una portata più ampia e contenere anche
previsioni proprie della pianificazione urbanistica (di cui aveva anche funzione sostitutiva in
assenza del “piano regolatore"). Nell’attuale prospettiva, quindi, il “regolamento edilizio” è un atto
regolamentare che affianca le previsioni del “piano regolatore generale” e disciplina specificamente
l’attività edilizia, incidendo anche nei rapporti di diritto privato tra i proprietari delle aree.

6. La funzione di controllo dell’attività edilizia. Per garantire l’effettività


delle prescrizioni di “piano”, il legislatore ha previsto una funzione di CONTROLLO
PREVENTIVO attraverso il rilascio di “autorizzazioni” per le attività edilizie : l’attività edilizia non
è un’attività libera e i proprietari non possono liberamente costruire fabbricati nei propri fondi o
modificare fabbricati già esistenti di loro proprietà senza un previo titolo che li abiliti a ciò, titolo
rilasciato dal Comune dopo aver verificato che l’intervento edilizio sia conforme alle “previsioni di
piano” e alle “norme edilizie” vigenti. È dal 1935 che il legislatore ha disposto che la realizzazione
di nuove costruzioni o la modifica di costruzioni esistenti sia sottoposta al preventivo controllo
dell’amministrazione comunale. Dopo la “legge urbanistica” del 1942 c’è stato un progressivo
ampliamento delle attività edificatorie sottoposte al regime autorizzatorio, con un costante
mutamento del nomen di tali titoli (chiamati prima “licenze edilizie”, poi “concessioni edilizie” e
infine “autorizzazioni edilizie”). E la fervida immaginazione dei giuristi ipotizzò che al mutamento
del nome seguisse un mutamento della sostanza dei titoli abilitativi e del contenuto del “diritto di
proprietà”. Dagli anni '90 ad oggi, l’ordinamento ha ridotto il numero di interventi edilizi per cui si
debba preventivamente conseguire un titolo abilitativo (collocando alcuni interventi nel novero
dell’attività libera), ha ricondotto altri interventi fra quelli suscettibili di essere realizzati previa
segnalazione al Comune (tramite d.i.a.). Per gli interventi più significativi, invece, è rimasto in
vigore un regime abilitativo che ne subordina l’avvio al conseguimento di un “permesso di
costruire”.

I titoli edilizi. Il quadro attuale trova una sintesi nelle previsioni del “testo unico in materia
edilizia” (d.p.r. 380 / 2001).

 Secondo l’art. 10 del t.u., costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia


del territorio e sono subordinati al PERMESSO DI COSTRUIRE : 1) gli interventi di nuova
costruzione; 2) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; 3) gli interventi di ristrutturazione
edilizia che comportino l’aumento delle unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma o
delle superfici degli immobili preesistenti.
 Ai sensi dell’art. 6 del t.u., invece, rientrano nell’ATTIVITÀ LIBERA e possono essere
eseguiti senza titolo abilitativo : 1) gli interventi di manutenzione ordinaria; 2) gli interventi volti
all’eliminazione di “barriere architettoniche” che non comportino la realizzazione di rampe o di
ascensori esterni o di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio; 3) le opere temporanee per

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attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano eseguite in aree esterne
al centro edificato.
 Ai sensi dell’art. 22 del t.u., sono realizzabili mediante DENUNCIA DI INIZIO
ATTIVITA’ (d.i.a.) : 1) gli interventi non riconducibili all’elenco di cui agli artt. 6 (attività libera) e
10 (attività subordinata al rilascio del permesso di costruire), che siano conformi alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della “disciplina urbanistico-edilizia” vigente;
2) le varianti a “permessi di costruire” che non incidono sulle volumetrie, che non modificano la
destinazione d’uso, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le prescrizioni contenute nel
permesso di costruire.

Quanto al “PERMESSO DI COSTRUIRE”, ai sensi dell’art. 9 del t.u., il proprietario dell’immobile


potrà conseguire il permesso laddove : 1) l’intervento edificatorio (per cui è richiesto) risulti
conforme alle previsioni degli “strumenti urbanistici generali e attuativi” applicabili all’area oggetto
dell’intervento, nonché alle previsioni del “regolamento edilizio”; 2) e siano già esistenti le opere di
c.d. “urbanizzazione primaria” (o vi sia l’impegno del Comune a realizzarle nei successivi 3 anni).
Il rilascio del permesso abilita il proprietario a realizzare l’intervento edificatorio in conformità al
progetto approvato, con un termine di inizio dei lavori di non oltre 1 anno dal rilascio e uno di
conclusione di non oltre 3 anni dall’avvio dei lavori.

Quanto alla “DENUNCIA DI INIZIO DI ATTIVITÀ”, l’art. 23 del t.u. prevede che il proprietario
dell’immobile - almeno 30 giorni prima che inizino i lavori – deve presentare all’amministrazione
comunale la denuncia; questa deve essere accompagnata da una “relazione” firmata da un
progettista abilitato e dagli opportuni “elaborati progettuali” che attesti la conformità delle opere da
realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme
di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. La denuncia di inizio attività è corredata dall’indicazione
dell’impresa cui si intende affidare i lavori ed è sottoposta al termine massimo di efficacia di 3 anni.

* BARRIERA ARCHITETTONICA = una barriera architettonica è un qualunque elemento costruttivo che impedisce o
limita gli spostamenti (può essere, ad esempio, una scala, un gradino, una rampa troppo ripida).

* GEOGNOSTICO= Che riguarda lo studio delle caratteristiche del terreno (in vista di lavori stradali, ingegneristici o
edilizi).

*Permesso di Costruire = è un provvedimento amministrativo che viene rilasciato, su richiesta, dal Comune e che
abilita all’esecuzione di un intervento edilizio. Ha sostituito la Concessione edilizia (prima ancora chiamata Licenza
Edilizia). Il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un CONTRIBUTO, commisurato
all'incidenza degli “oneri di urbanizzazione” e al “costo di costruzione”.

7. La funzione di vigilanza e le sanzioni. L’amministrazione comunale -


attraverso gli uffici competenti - vigila sull’“attività urbanistico-edilizia” nel territorio comunale per
assicurarne la rispondenza alle leggi e ai regolamenti, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e
alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. L’art. 27 del “t.u. sull’edilizia”, infatti, prevede
che - quando si accerta l’esecuzione di opere sprovviste di titolo abilitativo su aree assoggettate a
“vincolo di inedificabilità” o destinate ad opere e spazi pubblici o a interventi di edilizia
residenziale pubblica (e in tutti gli altri casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle
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prescrizioni degli strumenti urbanistici) - il responsabile dell’ufficio comunale provvede alla


demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Il “t.u. sull’edilizia” indica poi le diverse
“SANZIONI AMMINISTRATIVE” che verranno irrogate insieme alla demolizione, mentre per
quelle più gravi, ferme restando le sanzioni amministrative, si applicano anche “SANZIONI
PENALI” : in quest’ottica, è prevista un’ammenda per l’inosservanza delle norme previste dal “t.u.
sull’edilizia”, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire. È
invece previsto l’arresto fino a 2 anni (più un’ammenda) nei casi di esecuzione dei lavori in totale
difformità o assenza del permesso; e l’arresto fino a 2 anni (e un’ammenda più cospicua) nel caso di
lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio.

*lottizzazione = dividere in lotti (il “lotto” è ognuno degli appezzamenti di terreno in cui viene suddivisa, per uso edilizio,
un’area fabbricabile).

-CAPITOLO 3. VINCOLI SULLA PROPRIETA’ PRIVATA-

1.I vincoli alla proprietà privata nella giurisprudenza della Corte


costituzionale. L’art. 42, 1°comma Cost. dispone che «la proprietà è pubblica o privata»;
l’art. 42, 2°comma Cost. dispone che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che
ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti per assicurarne la funzione sociale e
renderla accessibile a tutti»; e l’art. 42, 3°comma Cost., stabilisce che «la proprietà privata può
essere espropriata per motivi di interesse generale nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo».

In base a quanto disposto dall’art. 42, 2°comma Cost., è stata superata la «concezione
individualistica del diritto di proprietà privata», che non può più venire inteso come dominio
assoluto e illimitato sui propri beni, essendo invece sottoposto nel suo contenuto a un regime che la
Costituzione lascia determinare al legislatore. Il “principio di legalità” e la “riserva di legge” di cui
all’art. 42, 2°comma Cost. impongono che solo la legge possa delineare il “regime del diritto di
proprietà sui beni”, conformandone il contenuto alla funzione sociale predicata nella Costituzione :
nel far ciò, la legge può incidere sul modo di godimento dei beni e imporre “limiti” al diritto di
proprietà privata : quando la legge dispone in tal senso, si parla di “VINCOLI ALLA PROPRIETA’
PRIVATA”. La Corte Costituzionale ha
chiarito che solo nel caso cui la legge stabilisca una “disciplina limitativa del diritto di proprietà” in
via generale e con riferimento a una categoria di beni «identificabile per caratteristiche
intrinseche», i limiti così posti ineriscono alla struttura del diritto di proprietà privata sui beni che
appartengono alla categoria tipizzata dalla legge.
Sono «normali e connaturati alla proprietà» i limiti previsti dalla legge «che riguardino in modo
oggettivo “intere categorie di beni” e, perciò, interessino tutti i soggetti sottoponendoli in modo
indifferenziato ad un particolare regime giuridico, secondo le caratteristiche intrinseche del bene».
Si può trattare sia di “vincoli che riguardano i modi di godimento di intere categorie di beni” che di
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“vincoli che derivano dalla relazione che i beni hanno rispetto ad altri beni o a interessi pubblici
preminenti”.
Nel tipizzare una categoria di beni e nel dettarne il regime giuridico, la legge può introdurre limiti
così radicali da escludere, per i beni inclusi in quella categoria, il “diritto di proprietà privata”, pur
in precedenza ammesso da un’altra legge.

2. Vincoli indennizzabili e non. Dopo aver individuato la figura generale dei


“BENI DI PROPRIETÀ PRIVATA”, il cui regime giuridico è connotato dall’inclusione di “limiti”
o “vincoli” nella struttura del diritto di proprietà, la Corte costituzionale precisa che, laddove la
figura ricorra, non si può riconoscere al titolare del diritto un indennizzo per i limiti che il suo
diritto strutturalmente incontra : il diritto infatti «è nato con il corrispondente limite e con quel
limite vive». Il limite può essere anche successivo alla nascita del diritto (ma deve sempre derivare
dal “regime giuridico che la legge introduce in via generale per una categoria di beni” tipizzata dalla
legge in termini oggettivi) e può essere così radicale da comportare la sottrazione al suo titolare del
diritto di proprietà su quel bene. Infatti il diritto all’indennizzo è sancito dall’art. 42, 3°comma Cost.
per il caso di ESPROPRIAZIONE della proprietà privata, e questa si realizza solo nel «caso del
sacrificio di una situazione patrimoniale, sacrificio che : 1) è imposto sul bene a titolo particolare
(per singoli soggetti); 2) è imposto per il perseguimento di un interesse pubblico estrinseco al
regime giuridico del bene. Pertanto non si ha espropriazione nell’accezione dell’art. 42, 3°comma
Cost. (e cioè con diritto all’indennizzo per la perdita del diritto di proprietà) quando il bene cessa di
appartenere al privato perché è incluso dalla legge, in via generale per tutti i consociati, in una
categoria di beni di cui, a causa delle loro “caratteristiche oggettive” o “funzionali”, la legge
escluda la proprietà privata per fini di interesse generale.
La Corte comunque sottolinea che la “logica del sistema” è imperniata sulla GARANZIA DELLA
PROPRIETÀ PRIVATA di cui all’art. 42, 1°comma Cost. e che tale garanzia viene violata non solo
nei casi in cui è posta in essere una traslazione del diritto, ma anche nei casi in cui, pur restando
intatta la titolarità del diritto di proprietà, questo diritto viene annullato o menomato senza
indennizzo : anche in questi casi, infatti, pur non realizzandosi la traslazione del diritto, se ne
delinea l’espropriazione e sussiste, quindi, per il proprietario, il “diritto all’indennizzo” : accanto
all’ ESPROPRIAZIONE TRASLATIVA del diritto di proprietà, quindi, la Corte individua l’
ESPROPRIAZIONE NON TRASLATIVA.
L’annullamento o la menomazione del diritto integra la c.d. “ESPROPRIAZIONE NON
TRASLATIVA DEL DIRITTO” (cui è correlato il “diritto all'indennizzo”) : 1) quando viene
«ridotto l’uso di un bene originariamente a godimento integrale»; 2) o a causa di «incisioni sul
godimento di un bene che ne annullino o diminuiscano notevolmente il valore di scambio». In ogni
caso, la figura dell’espropriazione non traslativa si delinea solo quando la limitazione del diritto di
proprietà avviene per realizzare uno scopo che è sì di interesse generale, ma è estrinseco rispetto al
bene e alla funzione sociale cui esso è vocato dalla legge. Quindi, in presenza di “limiti” o “vincoli”
imposti alla proprietà privata che siano connaturati al regime giuridico del bene, non può mai essere
riconosciuta la figura dell’espropriazione (e di conseguenza, il proprietario del bene non può essere
indennizzato). Se invece vengono in considerazione “limiti” o “vincoli” stabiliti singulatim (=
singolarmente) su beni determinati o stabiliti per fini di interesse generale estrinseci rispetto bene e
alla funzione sociale cui esso sia vocato dalla legge, essi non sono strutturali al diritto di proprietà
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su quei beni : di conseguenza, essi rientrano nella figura generale dell’espropriazione ed è


necessario un indennizzo.

3. Vincoli ex lege e vincoli derivanti da atto amministrativo. In


alcuni casi la legge - nel dettare il regime della proprietà su categorie di beni a causa delle loro
“caratteristiche oggettive” o “funzionali” - fissa essa stessa i “vincoli” e i “limiti” che connotano il
diritto di proprietà su quei beni : sono i c.d. “VINCOLI EX LEGE”. Tali sono ad esempio i vincoli
che gravano sui beni paesaggistici indicati dal “codice dei beni culturali e del paesaggio”.
In altri casi la legge si limita a individuare - sempre a causa delle loro “caratteristiche oggettive” o
“funzionali”, delle categorie di beni e a stabilire quali sono i “limiti gravanti sui beni che possono
essere inclusi in quella categoria”, demandando all’amministrazione il compito di accertare le
caratteristiche di singoli beni per includerli in concreto nella “categoria tipizzata dalla legge” : in
questi casi gli atti amministrativi sono essi stessi impositivi di vincoli, anche se la Corte
costituzionale ha precisato che si tratta di meri “atti amministrativi ricognitivi” (= di accertamento)
della sussistenza della qualitas cui è connesso quel determinato regime del bene o di “atti
amministrativi volti al completamento (mediante un particolare procedimento amministrativo) di
limiti previsti dalla legge”. Tali sono, ad esempio, i vincoli che derivano dai provvedimenti
dichiarativi dell’interesse culturale.
Nell’uno e nell’altro caso si tratta di “vincoli connaturati al regime giuridico dei beni che ne sono
gravati”, con la conseguenza che il loro proprietario non è assistito dalla garanzia costituzionale
dell’indennizzo.
In altri casi ancora la legge stabilisce che la pubblica amministrazione - nell’assolvere alle sue
funzioni in materia di “governo del territorio” - possa imprimere su beni immobili di proprietà
privata dei “vincoli di varia natura” : sono i c.d. “VINCOLI URBANISTICI” (perché derivanti da
atti o provvedimenti amministrativi di esercizio della potestà urbanistica).

*VINCOLI EX LEGE : ad es. : 1) i “vincoli sui beni di interesse paesaggistico”; 2) i “vincoli sui beni culturali”;
3) i “vincoli cimiteriali” (con lo scopo di vietare la costruzione di edifici nel raggio di 200 m dal perimetro
cimiteriale, per ragioni igienico-sanitarie); 4) i “vincoli imposti dal codice della strada” (che individua delle
fasce di rispetto per le nuove costruzioni che fronteggiano la strada, per ragioni di sicurezza stradale); 5) o i
“vincoli di distanze minime tra le farmacie” (per garantire una loro corretta distribuzione sul territorio e
tutelare, così, le esigenze degli utenti).

4. I vincoli urbanistici. I VINCOLI URBANISTICI sono tutti imposti in via singolare


su “beni determinati” per il perseguimento di fini di interesse generale estrinseci al regime giuridico
dei beni che ne sono gravati. In base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, essi sono
suddivisi in VINCOLI ESPROPRIATIVI (che preordinano il bene all’espropriazione) e VINCOLI
SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI, che riducono in modo incisivo le facoltà di godimento
del proprietario (finanche ad azzerare il valore di scambio dei beni) : questi ultimi, infatti, sono da
ricondurre nella figura dell’ “espropriazione non traslativa”.
Però, secondo la Corte costituzionale, “la legge urbanistica contiene dei limiti al diritto di proprietà,
poichè disciplina lo “ius aedificandi” : tali limiti rientrano tra quelli previsti dall’art. 42, 2°comma
Cost. (ossia, tra i limiti, strutturali al regime giuridico dei beni, che realizzano la funzione sociale
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della proprietà e per i quali non è previsto l’indennizzo), non potendosi dubitare che la funzione
sociale della proprietà richieda una disciplina dell’assetto dei centri abitati e dello sviluppo
urbanistico”. La Consulta ha anche specificato che sono «normali e connaturati alla proprietà i
limiti non ablatori posti nei “regolamenti edilizi” o nella “pianificazione e programmazione
urbanistica”» (come i limiti di altezza, di superficie coperta, le distanze tra gli edifici, ecc.).
Al concetto di “VINCOLI SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI” non possono poi essere
ricondotti gli “atti di pianificazione territoriale” che, individuando le aree suscettibili di
trasformazioni urbanistiche o edilizie, non vi ricomprendano determinate aree, destinate così
all’inedificabilità ( c.d. “vincoli di zonizzazione”) : infatti delle aree non ricomprese è sì esclusa
l’edificabilità, ma non in forza di un “vincolo imposto a titolo particolare su beni determinati” e
comportante l’inedificabilità assoluta. Quindi
non tutti i vincoli urbanistici che incidono in modo significativo sul contenuto del diritto di
proprietà sono “SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI” (tali da realizzare, cioè,
l’espropriazione non traslativa del diritto).
I VINCOLI SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI sono solo quelli che comportano «uno
svuotamento di rilevante entità del contenuto della proprietà, tramite l’imposizione,
immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti
l’inedificabilità assoluta».
Secondo la Corte, però, né i “vincoli urbanistici espropriativi in senso stretto” né “quelli
sostanzialmente espropriativi” sono immediatamente indennizzabili : occorre infatti che essi
«superino la durata determinata dal legislatore come limite alla sopportabilità del vincolo
urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene (colpito dal vincolo)». Secondo la
Consulta, dunque, la legge deve fissare la “durata dei vincoli urbanistici” e il termine di durata è
sufficiente a garantire la proprietà privata e si pone come garanzia alternativa all’indennizzo per
lo svuotamento del diritto di proprietà : quindi “temporaneità” e “indennizzabilità” sono tra loro
alternative.
Sia i “vincoli urbanistici espropriativi” che “quelli sostanzialmente espropriativi” possono essere
reiterati dalla pubblica amministrazione che li ha imposti (tenuta però a motivare le ragioni della
reiterazione), così come la loro durata temporale può essere prorogata dalla legge. Tuttavia
l’esercizio della potestà (amministrativa) di reiterare i vincoli o di quella (del legislatore) di
prorogarne nel tempo la durata produce nella pratica l’indeterminatezza temporale dei vincoli
urbanistici, che è una situazione «incompatibile con la garanzia della proprietà privata». Assume
dunque carattere patologico «l’indefinita reiterazione o la proroga sine die : in questi casi, superato
il periodo di durata tollerabile fissato dalla legge (c.d. "periodo di franchigia"), opera l’obbligo di
indennizzo».
Il legislatore ha stabilito - con l’art. 39 del “t.u. sulle espropriazioni” (d.p.r. 327 / 2001) che, “in
caso di reiterazione di un vincolo (sia esso “preordinato all’espropriazione”, sia esso
“sostanzialmente espropriativo”), l’amministrazione deve indennizzare il proprietario del suolo a
causa della diminuzione arrecata al suo diritto di proprietà ”. La previsione dell’indennizzo non
condiziona però la validità del provvedimento reiterativo del vincolo. L’indennizzo è commisurato
all’entità del danno effettivamente prodotto, e le contestazioni al riguardo sono devolute alla
giurisdizione del “giudice ordinario” e rimesse alla competenza della “Corte d’appello”. Non si
tratta dell’indennità cui il privato ha diritto per l’espropriazione in senso tecnico (che il vincolo, di
per sé, non realizza affatto), ma di un’indennità legata alla limitazione delle facoltà che integrano il

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diritto di proprietà e alla diminuzione del valore di scambio delle aree gravate dal vincolo
reiterato.

5. I c.d. vincoli da pianificazione urbanistica. La legislazione urbanistica


prevede che i “PIANI URBANISTICI GENERALI” possono imporre la formazione di PIANI
URBANISTICI ATTUATIVI per dare attuazione alle previsioni del piano generale relativamente
ad ambiti territoriali da questo delimitati e assoggettati a trasformazione tendenzialmente unitaria o
uniforme. Nel caso in cui il PIANO URBANISTICO GENERALE subordini le trasformazioni da
esso ammesse alla previa formazione di un piano attuativo, quindi, le trasformazioni non sono
immediatamente attuabili dai proprietari, ma sono vincolate alla previa formazione e approvazione
dei “piani urbanistici attuativi”. Questi piani possono essere rimessi - quanto all’iniziativa per la
loro formazione e quanto alla loro attuazione - ai “privati proprietari dei suoli interessati” (c.d.
“PIANI URBANISTICI ATTUATIVI DI INIZIATIVA PRIVATA”) o all’“amministrazione” (c.d.
“PIANI URBANISTICI D’UFFICIO”). La distinzione tra le due species di piani attuativi rileva non
solo per quanto riguarda l’iniziativa procedimentale (cioè chi promuove il procedimento), ma anche
per quanto riguarda la determinazione del loro contenuto e la loro attuazione (cui provvedono i
privati per i “piani urbanistici di iniziativa privata” e l’amministrazione - previa espropriazione
delle aree occorrenti - per i “piani urbanistici d’ufficio”).

 I “PIANI URBANISTICI ATTUATIVI D’UFFICIO” sono di categorie diverse, a seconda


che siano fungibili (= sostituibili) o meno con i “piani attuativi di iniziativa privata”. Se la
fungibilità manca, si parla di PIANI ATTUATIVI D’UFFICIO “NECESSARI” : sono i piani
attuativi dei quali la legge riserva esclusivamente all’amministrazione la formazione, la
determinazione del contenuto e l’attuazione. In quanto indicati dalla legge, i piani attuativi d’ufficio
necessari rappresentano un numerus clausus. I più importanti sono i “piani per l’edilizia economica
e popolare” (p.e.e.p.) e i “piani per gli insediamenti produttivi” (p.i.p.). La riserva stabilita dalla
legge riflette l’intensità dell’interesse pubblico che questi piani sono destinati a realizzare : si tratta
dei piani che la legge ha funzionalizzato al perseguimento di finalità ulteriori rispetto alla mera
attuazione delle previsioni del piano generale, e specificamente : alla dotazione di alloggi a prezzi
calmierati per i soggetti appartenenti a categorie sociali disagiate (quanto ai p.e.e.p.) e al
raggiungimento di obiettivi di incentivazione alle imprese, mettendo a loro disposizione delle aree
per il loro insediamento a prezzi calmierati (quanto ai p.i.p.). Ecco perchè la legge dispone che la
realizzazione di questi piani attuativi sia riservata esclusivamente all’amministrazione, e che questa
possa procedervi solo previa espropriazione delle aree occorrenti : la legge dispone in tal modo in
quanto questi piani attuativi servono ad assolvere finalità di particolare rilievo economico-sociale e
la loro “approvazione” costituisce dichiarazione di pubblica utilità degli insediamenti da essi
previsti.
 I PIANI ATTUATIVI D’UFFICIO “NON NECESSARI”, invece, hanno una funzione
puramente urbanistica (cioè hanno solo la funzione di attuare le previsioni del piano urbanistico
generale : non sono diretti anche a soddisfare altri interessi generali). Le trasformazioni previste dai
piani generali che abbiano una funzione prettamente urbanistica, proprio perché non dirette a
soddisfare interessi generali ulteriori, possono essere realizzate sia dai privati che
dall’amministrazione.

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La scelta se procedere alla pianificazione attuativa d’ufficio o su iniziativa privata è rimessa al


titolare del potere di pianificazione generale, ossia al Comune. Ove il Comune riservi
all’amministrazione l’attuazione delle previsioni del “piano urbanistico generale”, l’approvazione
del piano attuativo ha efficacia di dichiarazione di pubblica utilità. Però, ove il Comune riservi la
pianificazione attuativa all’iniziativa pubblica (escludendo quella privata), deve estrinsecare, in sede
di motivazione del piano generale, le ragioni di questa scelta (cioè, le ragioni di pubblico interesse
per cui ritenga di dover gestire esso stesso le trasformazioni urbanistiche attuative dello
“strumento urbanistico generale”) : ciò perché si tratta di trasformazioni urbanistiche non riservate
dalla legge all’amministrazione e che, quindi, sarebbero suscettibili di essere promosse e attuate sia
dall’amministrazione che dai privati proprietari dei suoli.
Quando i Comuni, nell’esercizio del potere pianificatorio generale, prevedono (relativamente a un
determinato territorio) la necessità della formazione di piani urbanistici d’ufficio che non siano ex
lege necessari, essi introducono i c.d. “VINCOLI STRUMENTALI DA PIANIFICAZIONE” :
Non si tratta di vincoli preordinati all’espropriazione; ci si è chiesti, però, se essi siano qualificabili
come “vincoli sostanzialmente espropriativi”; la risposta è negativa : non si tratta di vincoli
sostanzialmente espropriativi perché essi non vanno a svuotare il diritto proprietà neppure ove
reiterati; e ciò perché, davanti all’inerzia dell’amministrazione che non provveda alla pianificazione
attuativa che si è riservata, i privati dispongono sia di “strumenti procedimentali sollecitatori”, sia di
un rimedio giurisdizionale ad hoc (si tratta del rimedio previsto per tutelare chi si reputa leso
dall’inerzia dell’amministrazione, che può condurre - ove il ricorso venga accolto - all’accertamento
dell’inadempimento dell’amministrazione all’ “obbligo di provvedere” e alla fissazione giudiziale
di un termine entro cui essa è tenuta a provvedere). Non si tratta dunque di vincoli assoggettati a
decadenza, e neppure di vincoli indennizzabili ove reiterati.
In applicazione dei criteri di economicità, adeguatezza e proporzionalità, si dovrebbe riconoscere
che, quando un piano attuativo d’ufficio “non necessario” sia stato approvato (con conseguente
dichiarazione di pubblica utilità degli interventi da esso previsti e avvio del procedimento
espropriativo), il procedimento espropriativo debba cessare allorché il soggetto espropriando si
assuma nei confronti dell’amministrazione l’obbligo di realizzare - entro i termini da questa stabiliti
- questi interventi : in altri termini, si dovrebbe riconoscere che la “cessazione del procedimento
espropriativo” possa prodursi non solo in forza della cessione volontaria dei beni espropriandi (che
è il solo strumento all’uopo previsto dalla legge), ma anche quando ci sia la certezza, per
l’amministrazione, del raggiungimento del risultato perseguito, pur in forza dell’intervento del
privato.
Allorché l’attuazione delle trasformazioni urbanistico-edilizie previste dal piano generale sia
rimessa ai privati (e sia perciò prevista la formazione di un “piano attuativo di iniziativa privata”),
può accadere, però, che questi restino inerti o che non riescano a formare un “consorzio di
comparto” (che è il soggetto giuridico unitario che raggruppa vari proprietari di aree assoggettate
a trasformazione unitaria in forza del conseguimento di un unico titolo abilitativo edilizio) entro i
termini stabiliti dall’amministrazione. Davanti all’inerzia dei proprietari o alla mancata formazione
tra loro del consorzio di comparto entro i termini stabiliti, l’art. 7 del “t.u. delle espropriazioni”
stabilisce che “i Comuni possono disporre l’espropriazione delle aree alla cui trasformazione i
privati mostrino di non essere in grado di pervenire”. Si tratta di una FIGURA PARTICOLARE DI
ESPROPRIAZIONE : figura particolare perché preordinata sì alla realizzazione di fini di interesse
generale (l’attuazione delle trasformazioni urbanistiche previste dal piano regolatore generale), ma

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che è connotata dal fatto che l’intervento espropriativo avviene in funzione surrogatoria
dell’inerzia dei privati. Essendo questa la ragione dell’intervento autoritativo in funzione
espropriativa, si dovrebbe concludere che anche questo debba cessare in qualsiasi momento in cui i
privati si attivino per attuare il disegno pianificatorio generale : si dovrebbe ritenere cioè che anche
il procedimento espropriativo avviato dai Comuni in surrogazione dei privati inerti debba cessare -
oltre che nell’ipotesi (la sola tipizzata dalla legge) della “cessione volontaria dei beni espropriandi”
- anche nel caso in cui venga meno la sua particolare funzione.
L’art. 7 del “t.u. espropri” riconosce ai Comuni anche il potere di disporre l’espropriazione delle
costruzioni che divengano in contrasto con le destinazioni di zona impresse in sede di
“pianificazione generale”, e ciò per consentire l’attuazione delle previsioni del nuovo strumento
urbanistico : si tratta di una previsione normativa di dubbia ragionevolezza, poichè sancisce
l’espropriabilità anche di costruzioni che il proprietario utilizza e che sono state legittimamente
realizzate in attuazione della disciplina pianificatoria previgente.

*CALMIERATO = di cui la legge fissa il tetto massimo; contenuto. Fissare per legge un prezzo massimo di vendita.

* PIANO REGOLATORE GENERALE = il “piano regolatore generale comunale” è uno strumento urbanistico che regola
l'attività edificatoria all'interno di un territorio comunale, di cui ogni comune italiano deve dotarsi, ai sensi di legge. Può
essere adottato comunemente da più comuni; in questo caso si parla di piano regolatore generale intercomunale.

-CAPITOLO 4. LE ESPROPRIAZIONI-

1.I diversi significati del termine espropriazione. Le espropriazioni


in senso stretto. Il termine “ESPROPRIAZIONE” indica la sottrazione al suo titolare del
diritto di proprietà, attuata mediante un intervento autoritativo. Nel nostro ordinamento, ispirato ai
principi dello “Stato di diritto”, il “PRINCIPIO DI LEGALITÀ” impone che la “sottrazione del
diritto di proprietà” al titolare si possa produrre solo per le cause indicate dalla legge, nel rispetto
delle regole da questa stabilite e ad opera del soggetto cui la legge abbia conferito questo potere
(art. 42, 2°comma Cost.). Il principio di legalità e la riserva di legge in materia di ablazione del
diritto di proprietà sono sanciti anche all’interno della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione”
( che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati) e dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla
“Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (che
reca un catalogo di diritti fondamentali che fanno parte del diritto dell’Unione come principi
generali) : entrambe le disposizioni affermano che ognuno ha il diritto di godere e disporre dei
propri beni, potendo esserne privato solo per cause di pubblico interesse e con le modalità
prescritte dalla legge. Però, anche se sia l’ordinamento interno che quello sovranazionale
qualificano la “proprietà” come diritto e stabiliscono che essa può esser sottratta al titolare solo nel
rigoroso rispetto delle regole fissate dalla legge, i due ordinamenti pongono questo diritto su un
piano diverso : infatti la Costituzione riconosce e garantisce il “diritto di proprietà” nel Titolo 3°
(Dei rapporti economici), mentre l’ordinamento sovranazionale eleva la “proprietà” a diritto
fondamentale della persona. La connotazione del diritto di proprietà come diritto fondamentale
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della persona è fondamentale per determinare quali sono i limiti del “potere di sottrarlo al titolare” :
infatti la “Corte europea dei diritti dell’uomo”, pur riconoscendo che l’ingerenza dello Stato sul
diritto di proprietà è ammessa dall’art. 1 del Primo Protocollo della Cedu, afferma che la privazione
della proprietà può essere disposta solo alle condizioni previste dalla legge, e sempre che ricorrano
causa di pubblica utilità o scopi di interesse generale.
Nel nostro ordinamento, al contrario, il potere di disporre l’ablazione dell’altrui diritto di proprietà,
pur potendo essere esercitato in modo diretto dal legislatore (c.d. “espropriazione ope legis”), nella
maggior parte dei casi viene conferito ex lege ad un’amministrazione pubblica, per perseguire scopi
di interesse generale : per garantire la soddisfazione del creditore di fronte all’accertato
inadempimento del debitore; per realizzare scopi di pubblica utilità; per privare il proprietario di
cose che, provenendo da illeciti penali, mantengono viva l’idea del reato; quest’ultima figura di
sottrazione del diritto di proprietà, detta “confisca”, è disciplinata dal codice penale e colpisce beni
legati da un nesso indissolubile con il reato. L’espropriazione in funzione satisfattiva del creditore
trova il suo fondamento nel codice civile ed è disciplinata dal codice di procedura civile : essa
attiene all’attuazione coattiva (nell’esercizio di un potere processuale che si esercita con
l’esperimento dell’“azione esecutiva”) di un diritto ed è una sorta di sanzione che presidia il corretto
funzionamento dei rapporti obbligatori. L’espropriazione per il perseguimento di un fine di
pubblica utilità è invece compresa nell’ambito del diritto amministrativo, perché il potere di
disporla è attribuito dalla legge al soggetto istituzionalmente deputato alla cura dell’interesse
pubblico (ossia alla pubblica amministrazione) che esercita il potere per perseguire la sua funzione
istituzionale. Tratti comuni a queste figure di espropriazione sono : 1) la sottrazione autoritativa del
diritto di proprietà al suo titolare; 2) e l’attribuzione di quel diritto a un altro soggetto. Laddove si
realizzi, oltre all’ablazione di un diritto, anche il suo trasferimento in capo a un altro soggetto, si
individua la figura dell’ “ESPROPRIAZIONE TRASLATIVA”; le figure con cui si realizza la
sottrazione autoritativa di un diritto al suo titolare, ma non anche il trasferimento di quel diritto in
capo a un altro soggetto, si indicano invece con la locuzione di “ESPROPRIAZIONE NON
TRASLATIVA”.
In diritto amministrativo, la considerazione del profilo funzionale dei provvedimenti che realizzano
sia l’ablazione del diritto di proprietà sia il trasferimento del diritto in capo ad un altro soggetto per
il perseguimento, in via esclusiva, di fini di utilità pubblica, conduce a enucleare la categoria dei
“provvedimenti espropriativi traslativi in senso stretto”, che sono oggetto di una disciplina
legislativa uniforme. Questa terminologia viene usata per distinguere questi provvedimenti da altri
che solo in senso lato possono essere ricompresi nel novero degli atti espropriativi : ci riferiamo alle
figure attraverso cui si realizza la c.d. sottrazione autoritativa di un diritto al suo titolare e il
relativo trasferimento a un soggetto diverso : si pensi ad es., ai provvedimenti che determinano
l’acquisizione al patrimonio comunale delle opere realizzate senza il permesso edilizio (in effetti
tali atti, pur producendo sia l’ablazione del diritto di proprietà che il suo trasferimento in capo
all’amministrazione, sono qualificati ex lege come “provvedimenti sanzionatori”, dal momento che
il loro scopo non è quello di perseguire l’interesse generale, ma quello di reprimere gli abusi
edilizi).
La denominazione di “PROVVEDIMENTI ESPROPRIATIVI” (siano essi traslativi o non traslativi
del diritto di proprietà) è dunque attribuita dalla legge ai provvedimenti ablatori che sono
direttamente funzionalizzati al perseguimento di fini di pubblica utilità : è a questi provvedimenti
che si riferisce la Costituzione nel disporre che «la proprietà privata può essere, nei casi previsti

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dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale» (art. 42, 3°comma
Cost.). La norma, oltre che conferire copertura costituzionale al potere espropriativo, sancisce che il
suo esercizio è possibile solo nei casi previsti dalla legge (c.d. riserva di legge) e solo per il
perseguimento dell’interesse generale e l’espropriato deve essere indennizzato dell’ablazione
subita. Tale potere è attribuito dalla legge all’amministrazione e si esprime, dopo un articolato
procedimento amministrativo, in un provvedimento amministrativo : la legge disciplina sia il
procedimento espropriativo che il provvedimento che lo conclude. Il rispetto delle regole stabilite
dalla legge assurge a parametro di valutazione della “legittimità del provvedimento espropriativo”
(che pertanto può essere annullato dal giudice amministrativo ove accerti la violazione di queste
regole).
Inoltre, poiché l’art. 42 Cost. stabilisce che la proprietà privata può essere espropriata solo «per
motivi di interesse generale», una legge che prevedesse l’espropriabilità della proprietà privata per
motivi estranei all’interesse generale potrebbe essere espunta dall’ordinamento perché
incostituzionale. Infine, secondo la “Corte europea dei diritti dell’uomo” l’espropriazione per il
perseguimento di un fine di interesse generale non deve condurre ad un sacrificio irragionevole o
sproporzionato (intendendosi come irragionevole e sproporzionato il sacrificio subito dal
proprietario espropriato che si veda corrispondere, a titolo di indennizzo, una somma non adeguata).

*ART. 42, 2°comma Cost. = “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

*ABLAZIONE = procedimento che priva qualcuno di un diritto.

2. L’espropriazione indiretta. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che


l’espropriazione possa essere disposta nei casi e modi previsti dalla legge, ma anche laddove si
verifichi la trasformazione irreversibile del bene di proprietà privata, e questa irreversibilità si
manifesterebbe qualora l’ablazione fosse disposta per perseguire un’utilità pubblica. Secondo la
giurisprudenza, questa trasformazione irreversibile potrebbe realizzarsi in 3 ipotesi specifiche, e cioè :
 laddove manchi il “provvedimento espropriativo”, espressione del potere dell’amministrazione (in
tal caso, si parla anche di “occupazione usurpativa”);
 nel caso in cui, pur in presenza di un “provvedimento efficace”, lo stesso venga in seguito
annullato, con efficacia ex tunc, dal giudice (in tal caso, si parla anche di “occupazione
appropriativa”);
 nel caso in cui vi sia un valido “atto di avvio del procedimento espropriativo”, ma questi non giunga
a conclusione nei termini stabiliti.

In tutti questi casi si produrrebbero comunque gli “effetti dell’espropriazione” e si parla di


“ESPROPRIAZIONE INDIRETTA” : espressione con cui si intende che la perdita del diritto di
proprietà e il suo trasferimento in capo a un altro soggetto non si producono direttamente in forza di un
“provvedimento amministrativo”, ma indirettamente, cioè a causa dell’irreversibile trasformazione del
bene. Ciò significa che il bene subisce una modifica, in conseguenza della quale viene a mutare anche
la sua destinazione funzionale (diretta, dopo la trasformazione, a perseguire una pubblica utilità).
La figura dell’ESPROPRIAZIONE INDIRETTA si articola nelle due species dell’ “occupazione

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usurpativa” (conseguente a un’irreversibile trasformazione del bene in mancanza di atti ablativi) e


dell’ “occupazione appropriativa” (conseguente a un’irreversibile trasformazione realizzata in forza
di un atto amministrativo invalido e quindi colpito da caducazione giudiziale, o del quale sia
sopravvenuta l’inefficacia per decorso dei termini).
L’espropriazione indiretta, riconosciuta e ammessa dalla prevalente giurisprudenza, non è però
ammissibile : essa è infatti in contrasto con il “principio di legalità” e con la riserva di legge stabilita
dall’art. 42, 3°comma Cost. e dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU : ed è proprio
per questo che la “Corte europea dei diritti dell’uomo” ha stabilito che le ipotesi in cui la
giurisprudenza interna ammette l’espropriazione indiretta sono tutte da ritenersi una violazione del
diritto fondamentale della persona al rispetto dei propri beni (in altri termini, un illecito), da cui
deriva il diritto del soggetto passivo all’integrale ristoro del pregiudizio subito.
La configurazione dell’ESPROPRIAZIONE INDIRETTA come fatto illecito è stata accolta anche da
una parte della nostra giurisprudenza, secondo cui “l’illecito compiuto dall’amministrazione non fa
venir meno il diritto del privato alla restituzione del suo bene”. In senso contrario, invece, si è espressa
un’altra parte della nostra giurisprudenza, che ha riconosciuto la “validità” dell’espropriazione
indiretta : si segnalano infatti alcune pronunce secondo cui l’irreversibile trasformazione del fondo
produce l’acquisto della proprietà in capo all’ente pubblico in forza dell’istituto della “specificazione”
di cui all’art. 940 c.c. e non integra, quindi, un illecito. Ma questa soluzione non regge : sia perché
questo istituto civilistico si riferisce all’acquisto di cose mobili; sia perché non considera la
giurisprudenza della Corte europea, per cui il “diritto al rispetto dei beni", che è un diritto
fondamentale della persona, impone che ogni sua incisione avvenga nel rigoroso rispetto della legge.
Inoltre, l’istituto civilistico prescinde dalla considerazione della funzione per il perseguimento della
quale esso si produce, mentre l’acquisizione della proprietà altrui da parte della pubblica
amministrazione può avvenire solo per il perseguimento di fini di interesse generale. Pertanto
l’espropriazione indiretta non è nient’altro che un fatto illecito. Ne consegue che le sole species di
espropriazione delineabili in senso tecnico sono l’ESPROPRIAZIONE DISPOSTA CON LEGGE e
l’ESPROPRIAZIONE DISPOSTA CON PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO. Esse sono
accomunate dagli effetti prodotti (sottrazione al titolare del diritto di proprietà o di un altro diritto
reale e acquisto di quel diritto in capo a un altro soggetto); la Costituzione traccia per entrambe un
limite funzionale, potendo essere disposte l’una (nei soli casi previsti dalla legge) «per motivi di
interesse generale» (art. 42, 3°comma Cost.), l’altra (direttamente dalla legge) «a fini di utilità
generale» (art. 43 Cost.); sia per l’una che per l’altra, infine, la Costituzione e la Convenzione europea
stabiliscono che il soggetto che subisce l’espropriazione ha diritto all’indennizzo per la perdita del suo
diritto di proprietà.

*SPECIFICAZIONE = modo di acquisto della proprietà a titolo originario, per cui chi - lavorando sull’altrui materia prima
generica - ne trae una cosa nuova specifica, diventa proprietario di questa, pagando al proprietario della materia prima il
giusto prezzo.

3. L’espropriazione ope legis. L’art. 43 Cost. prevede che possa essere direttamente la
legge a disporre l’attribuzione a un soggetto determinato di un diritto di cui era già titolare un soggetto
diverso. La legge emanata in base all’art. 43 Cost. (che dispone essa stessa, cioè, l’espropriazione,
detta perciò “espropriazione ope legis”) è denominata “legge-provvedimento”. La Costituzione impone
al legislatore, che intenda disporre l’espropriazione di beni, una serie di limiti :

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 limiti funzionali, perché l’espropriazione ope legis può essere disposta solo per fini di utilità
generale;
 limiti oggettivi, perché essa può avere ad oggetto (cioè possono essere trasferite) solo imprese o
categorie di imprese «che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a
situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale»;
 limiti contenutistici, perché la legge che dispone l’espropriazione deve rispettare il diritto del
soggetto espropriato all’indennizzo.

Un esempio di “espropriazione ope legis” è la legge istitutiva dell’Enel, che ha disposto il


trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche.
L’espropriazione ope legis, però, fa sorgere il problema dell’assoggettabilità a sindacato
giurisdizionale dell’atto giuridico che la dispone (cioè la legge) : proprio perché l’espropriazione è
disposta con legge, il soggetto passivo, ove ritenga di essere stato leso illegittimamente dall’atto, non
può accedere in via diretta al sindacato giurisdizionale. Perciò, per trovare una soluzione, l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato (1952) ha dichiarato che le espropriazioni disposte con legge sono,
sostanzialmente, dei “provvedimenti amministrativi”, in quanto tali assoggettati al sindacato del
giudice amministrativo e suscettibili di essere, da questo, annullati ove illegittimi. Questa teoria, però,
non è stata avallata dalla Cassazione, che ha statuito il difetto assoluto di giurisdizione del giudice
amministrativo a conoscere delle c.d. leggi-provvedimento. Se ne deve dedurre, pertanto, che, ad oggi,
l’unico organo abilitato a sindacare tali questioni è la Corte costituzionale, in quanto giudice delle
leggi.
*DIFETTO DI GIURISDIZIONE = impossibilità per un giudice di esplicare la propria funzione giurisdizionale, in quanto
devoluta dalla legge ad altri giudici (cioè a giudici appartenenti non semplicemente ad altri uffici, ma ad altri sistemi giudiziali
o ad altri poteri pubblici).

4. L’espropriazione disposta con provvedimento amministrativo.


La fonte della disciplina generale dell’ESPROPRIAZIONE DISPOSTA CON PROVVEDIMENTO
AMMINISTRATIVO è il d.p.r. 327 / 2001 (“t.u. delle espropriazioni”), il cui art. 58 dispone – in via
di semplificazione - l’abrogazione delle numerosissime disposizioni normative che disciplinavano il
“potere ablatorio dell’amministrazione”. Però, è doveroso puntualizzare 3 cose : in primis, le norme di
cui al t.u. possono non trovare applicazione laddove vigano disposizioni particolari introdotte da leggi
speciali. In secondo luogo, lo stesso t.u. prevede specifiche norme particolari, che derogano
parzialmente a quelle generali; in terzo luogo, le disposizioni operanti prima dell’entrata in vigore del
t.u. del 2001 continuano ad applicarsi ai procedimenti espropriativi riguardo ai quali già fosse stata
emanata, al momento dell’entrata in vigore del t.u., la “dichiarazione di pubblica utilità”.
Detto ciò, analizziamo ora le norme del t.u. : la prima norma da prendere in considerazione è l’art. 1,
che individua i “diritti che possono essere espropriati”; essi sono : il diritto di proprietà e gli altri
diritti reali relativi a beni immobili. La stessa norma dispone che, sotto il profilo funzionale,
l’espropriazione è disposta allo scopo di eseguire opere pubbliche o di pubblica utilità, in favore della
collettività.
L’art. 4 individua, invece, sia i beni non espropriabili (si tratta dei beni demaniali, finchè non ne
intervenga la sdemanializzazione), sia i beni espropriabili sotto condizione (si tratta dei beni
appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici - che infatti possono
essere espropriati solo per «perseguire un interesse pubblico superiore a quello soddisfatto con la
precedente destinazione» - ; si tratta anche dei beni appartenenti alla Santa Sede - che possono essere
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espropriati solo previo accordo con la Santa Sede – nonché dei beni aperti al culto - che possono
essere espropriati solo previo accordo con la competente autorità religiosa).
Per quanto riguarda, invece, le competenze, l’art. 6 stabilisce come “regola generale” quella della
“concentrazione delle competenze” : l’autorità competente alla realizzazione di un’opera pubblica o
di pubblica utilità è competente anche ad emanare gli atti del procedimento espropriativo (necessario
per la sua realizzazione); l’art. 6 reca anche una disposizione di natura organizzatoria, per la quale le
amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti pubblici devono
organizzare un “ufficio per le espropriazioni" o, in alternativa, attribuire i relativi poteri a un ufficio già
esistente, cui va preposto un dirigente, deputato all’emanazione del provvedimento conclusivo del
procedimento. Infine, la norma contempla la possibilità, riconosciuta all’amministrazione titolare del
potere espropriativo, di delegare l’esercizio dello stesso a soggetti privati : ciò può accadere solo nel
caso in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità (per realizzare la quale è necessaria l’espropriazione)
debba essere necessariamente realizzata da un concessionario o da un contraente generale.
Secondo l’art. 3, il soggetto che dispone l’espropriazione e il soggetto «beneficiario
dell’espropriazione» non necessariamente coincidono : infatti il beneficiario può essere sia un
soggetto pubblico che un soggetto privato; l’art. 3 dispone poi che l’autorità competente a disporre
l’espropriazione può provvedervi di sua iniziativa o su richiesta di un terzo («promotore» : che può
essere anch’esso sia un soggetto pubblico che un soggetto privato).
L’art. 2 dispone che il “provvedimento espropriativo” può essere emanato dopo lo svolgimento di una
serie di procedimenti, che sono «ispirati ai principi di economicità, efficacia, efficienza, pubblicità e di
semplificazione dell’azione amministrativa» : beninteso, questi non sono i tradizionali principi atti a
guidare l’amministrazione nell’esercizio del relativo potere, ma sono i principi cui si è attenuto il
legislatore nel dettare la disciplina posta con il t.u.
E veniamo ad analizzare il procedimento che porterà all’adozione del “decreto di esproprio” : in
quest’ottica, l’art. 8 prevede e disciplina i “procedimenti che precedono l’emanazione del
provvedimento espropriativo”, suddividendoli in 3 sub-procedimenti :

 il primo è il procedimento che si conclude con il PROVVEDIMENTO APPOSITIVO DEL


VINCOLO PREORDINATO ALL’ESPROPRIO (cioè il vincolo predetermina quale bene sarà
soggetto ad espropriazione); il “vincolo” (che ha efficacia limitata nel tempo) funge soprattutto da
presupposto della successiva “dichiarazione di pubblica utilità” (o della sua efficacia);
 il secondo è il procedimento che si conclude con il PROVVEDIMENTO CHE DICHIARA LA
PUBBLICA UTILITA’ dell’opera (o dell’intervento di pubblica utilità da eseguire); la “dichiarazione
di pubblica utilità” è un provvedimento che può essere emanato solo laddove non sia già decorso il
“termine di efficacia” dell’atto appositivo del vincolo : tuttavia, l’art. 12, 3°comma del t.u. dispone
che la “dichiarazione di pubblica utilità” può intervenire anche se il vincolo non sia stato ancora
apposto (in tal caso, però, la “dichiarazione” potrà spiegare efficacia solo dopo l’imposizione del
vincolo). Dunque la fase dell’apposizione del vincolo non può mai mancare, ma non è necessario - per
la legittimità del procedimento e del provvedimento che dispone l’espropriazione - che essa sia
anteriore alla “dichiarazione di pubblica utilità”, potendo intervenire anche dopo : fermo restando che,
finchè il vincolo non sia efficacemente imposto, la dichiarazione di pubblica utilità non consegue
efficacia (e, quindi, il “decreto di esproprio” non può essere legittimamente emanato);
 il terzo sub-procedimento è quello che si conclude con la DETERMINAZIONE
DELL’INDENNITA’ PROVVISORIA DI ESPROPRIAZIONE (tuttavia, questa indennità può

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anche essere determinata, ex art. 22 del t.u., nel “procedimento che conduce all’adozione del
provvedimento di espropriazione” : in particolare, ciò accade nei casi in cui, per ragioni di urgenza, ci
sia la necessità di determinare l’indennità senza il preliminare avvio di indagini o di altre formalità
burocratiche; quindi l’amministrazione provvederà, con un unico atto, sia a determinarne l’ammontare
dell’indennità che a disporre l’espropriazione).
Fatto ciò, si può procedere (entro il termine di efficacia della “dichiarazione di pubblica utilità”)
all’emanazione del “decreto di esproprio”.

Deve quindi ritenersi invalido il provvedimento conclusivo di una fase procedimentale emanato dopo
che sia decorso il “termine di efficacia” del provvedimento che conclude la fase anteriore : invalidità
che si ripercuote sul provvedimento conclusivo dell’intera sequenza (ossia sul “provvedimento
espropriativo”). Anche la mancanza di una fase vizia il procedimento e dà luogo all’illegittimità del
“provvedimento che dispone l’espropriazione”.

5. La cessione volontaria. L’art. 45 del t.u. del 2001 stabilisce che, una volta intervenuta
la “dichiarazione di pubblica utilità”, il procedimento espropriativo può concludersi anche con un atto
diverso dal “decreto di esproprio”, e precisamente con un atto bilaterale detto CESSIONE
VOLONTARIA : si tratta di atto con cui l’espropriando trasferisce la proprietà del suo bene in capo
al beneficiario e questo assume, nei confronti del primo, l’obbligazione di pagare una somma di
denaro entro un termine concordato dalle parti. La cessione volontaria è quindi un atto bilaterale in
cui sono riconoscibili i tratti tipici del “contratto a prestazioni corrispettive”; ed è importante
sottolineare che l’art. 45 riconosce in capo all’espropriando il “diritto di addivenire alla cessione
volontaria del suo bene”. Quindi se l’espropriando - dopo la “dichiarazione di pubblica utilità” e prima
che inizi il procedimento volto a determinare l’indennità provvisoria di espropriazione - decide di
avvalersi del “diritto alla cessione volontaria” e si giunge alla stipula dell’atto di cessione, non solo il
procedimento non potrà svolgersi (poiché si dovrà solo determinare la somma da corrispondere al
cedente), ma non potrà essere emanato neppure il “provvedimento di esproprio”.
Tuttavia, l’art. 45 stabilisce che la “cessione volontaria” è un atto che può essere stipulato anche dopo
l’emanazione del “decreto di esproprio”, purché non sia ancora intervenuta la sua esecuzione (che si
realizza con la redazione - entro il termine perentorio di 2 anni - del “verbale di immissione nel
possesso del bene”). Quanto detto ci fa comprendere, a contrario, che il “decreto di esproprio”, ove
emanato non produce effetti immediati, ma - finchè non viene eseguito - è sottoposto a una “condicio
iuris risolutiva”, poiché esso viene meno laddove, entro 2 anni (o comunque prima della redazione del
relativo verbale), l’espropriando decida di usufruire del diritto riconosciutogli dall’art. 45.
Poiché l’art. 45 qualifica come “diritto dell’espropriando” quello di giungere alla cessione
volontaria del suo bene, il soggetto beneficiario dell’espropriazione (l’amministrazione) versa in una
posizione di obbligo : obbligo di giungere alla stipula dell’atto di cessione.
Nel caso in cui l’espropriando abbia estrinsecato la volontà di avvalersi del suo “diritto alla cessione
volontaria” e abbia posto in essere tutti gli adempimenti posti a suo carico dalla legge, si deve
escludere che l’amministrazione sia libera di non stipulare l’atto di cessione e di decretare comunque
l’espropriazione, perché così lederebbe il “diritto dell’espropriando alla cessione volontaria del bene”.
L’art. 45 stabilisce che la “cessione volontaria” produce gli stessi effetti del “decreto di esproprio" : ciò
significa che l’atto bilaterale produce, innanzitutto, l’effetto di traslazione del diritto, con la differenza
non secondaria, però, che la “cessione volontaria” non è subordinata alla previa redazione del “verbale
di immissione nel possesso” (essendo, quest’ultima, una “condizione sospensiva” prevista per il solo
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decreto di esproprio). Pertanto, l’atto di cessione volontaria colloca l’acquirente (l’amministrazione)


in una posizione più vantaggiosa, perché sarà esentato dall’onere di redigere il “verbale di
immissione”. Tuttavia l’espropriazione produce, oltre alla translatio del diritto, anche altri effetti,
come l’estinzione automatica di tutti gli altri diritti (reali o personali) gravanti sul bene
espropriato. Dopo la trascrizione del “decreto di esproprio” tutti i diritti di terzi relativi al bene
espropriato possono essere fatti valere sull’indennità. Quindi l’art. 45, nel disporre che l’atto di
cessione volontaria produce gli stessi effetti del decreto di esproprio, conferisce anche all’atto
bilaterale un’efficacia estintiva di diritti altrui sui beni.
Quanto alla “natura” dell’istituto, una parte della dottrina assimila la “cessione volontaria” ad un
“contratto a prestazioni corrispettive”, mentre un’altra parte ad un “accordo sostitutivo di
provvedimento”, ex art. 11 della L. 241 / 1990. Quest’ultima conclusione, però, non è condivisibile, se
solo si considerano che l’amministrazione - per adottare un “accordo sostitutivo di provvedimento” - è
chiamata ad effettuare una valutazione discrezionale in merito alla sussistenza di un “interesse
pubblico” che giustifichi un suo intervento provvedimentale (e anche la scelta di perseguire
quell’interesse usando il modulo dell’ “accordo sostitutivo di provvedimento”). Infatti, poiché
l’art. 45 riconosce all’espropriando il diritto di giungere alla cessione volontaria, è plausibile che la
posizione di obbligo in cui versa l’amministrazione escluda sia la possibilità della sua scelta
discrezionale sull’uso del “modulo dell’accordo sostitutivo di provvedimento”, sia la possibilità di
una sua valutazione discrezionale sulla rispondenza dell’accordo al pubblico interesse. Infatti, con
l’attribuire all’espropriando il “diritto alla cessione volontaria”, è stata la legge ad effettuare scelte e
valutazioni che, negli accordi sostitutivi, sono rimesse all’amministrazione. Quindi, la “cessione
volontaria”, non presentando le caratteristiche degli accordi sostitutivi di provvedimento, è
apostrofabile come un “contratto a prestazioni corrispettive”, con cui si attua il passaggio del diritto di
proprietà in favore di un soggetto (l’amministrazione) che, dal canto suo, assume l’obbligazione di
pagare il corrispettivo pattuito.
In contrasto con la figura del contratto, tuttavia, si presenta il 3°comma dell’art. 45, che stabilisce che
l’atto di cessione non perde i suoi effetti (che sono gli effetti del decreto di espropriazione) se
l’acquirente (l’amministrazione) «non corrisponde la somma da lui dovuta entro il termine
concordato»; questa norma ha lo scopo di non permettere all’alienante (espropriando) di agire per la
risoluzione (della cessione volontaria) ove l’acquirente non ottemperi all’obbligo di pagare la somma
dovuta. Ma ciò non è assolutamente giustificabile, anche perchè si accorda un ingiustificato privilegio
alla parte inadempiente. Così, è possibile dubitare della legittimità costituzionale (per irragionevolezza
e per la compressione del diritto di difesa della parte che subisce l’inadempimento) dell’ultimo comma
dell’art. 45. Infine, pur nel silenzio della legge, si deve ritenere che l’alienante - di fronte
all’inadempimento dell’acquirente all’obbligo di pagare la somma dovuta entro il termine concordato -
abbia comunque il diritto di agire per ottenere sia l’adempimento che il risarcimento del danno
eventualmente subito.

*CONTRATTO A PRESTAZIONI CORRISPETTIVE = (o sinallagmatico) contratto in cui ciascuna parte contraente ha il


diritto di ricevere una prestazione in quanto questa costituisce la remunerazione della prestazione dovuta all’altra parte
contraente.
*CONDIZIONE SOSPENSIVA = quella da cui dipende l'efficacia del negozio (ad esempio :" ti darò 100 se verrà la nave
dall'Asia").
*CONDIZIONE RISOLUTIVA = quando gli effetti del negozio si producono fino al verificarsi della condizione (ad esempio: "
ti permetto di occupare il mio appartamento fino a quando mi sposerò").

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6. I procedimenti di apposizione del vincolo espropriativo. Il


“VINCOLO PREORDINATO ALL’ESPROPRIO” (cioè il vincolo che preordina il bene
all’espropriazione) rappresenta il collegamento tra la “pianificazione urbanistica” e l’“espropriazione”:
infatti, secondo gli artt. 9 e 10 del t.u. del 2001, la sottoposizione del bene al vincolo preordinato
all’esproprio è condizionata all’ “atto di approvazione del piano urbanistico generale” (che
contempli la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità localizzandola sul territorio) o di
una sua “variante” (cioè provvedimenti che introducano una variante al “piano urbanistico generale”
per la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, sempre localizzandola sul territorio)
oppure di “atti equivalenti” (si pensi, ad es., ad una conferenza di servizi, a un’intesa, ad un accordo
di programma o comunque a qualsiasi atto a cui la legge attribuisce valenza di variante allo strumento
urbanistico). La fase volta
all’“apposizione del vincolo espropriativo” si chiude con l’emanazione del “provvedimento che
conclude il procedimento di pianificazione generale del territorio”: quest’ultimo non è un atto che si
occupa esclusivamente dell’espropriazione, ma è un provvedimento attraverso cui l’amministrazione
competente (il Comune) traccia le “linee-guida” dirette a disciplinare l’utilizzo del territorio di
propria competenza. Nell’esercizio di questo potere (cioè, il c.d. “potere conformativo dell’uso dei
suoli”), il Comune è tenuto anche ad individuare le aree in cui ritiene necessaria la realizzazione di
opere pubbliche o di pubblica utilità, provvedendovi mediante l’apposizione di “vincoli”, che
preordinano le stesse all’espropriazione (il che, conseguentemente, esclude la possibilità, per i privati,
di utilizzare tali aree per l’edificazione).
L’art. 9 precisa che il “vincolo” non ha durata illimitata, ma ha un’efficacia che si protrae per un
periodo di 5 anni, che cominciano a decorrere dall’approvazione del “piano urbanistico” : perciò, se
entro questo termine non viene emessa la “dichiarazione di pubblica utilità” (dell’opera da eseguire), il
“vincolo” decade (il che significa che la “dichiarazione” sarà illegittima se emanata a vincolo scaduto).
Tuttavia, il “vincolo preordinato all’esproprio” può anche essere motivatamente reiterato, ma
l’amministrazione, in questo caso, è tenuta ad indennizzare il proprietario del suolo, dal momento che
questi subisce una “diminuzione del suo diritto di proprietà”.
Per l’art. 10, il “vincolo preordinato all’esproprio” può derivare - oltre che da disposizioni del “piano
urbanistico generale - anche da “altri atti cui la legge attribuisce valenza di varianti di questo” : si deve
trattare, però, di varianti introdotte per la realizzazione di un’opera pubblica (o di pubblica utilità) e
che effettuino la localizzazione dell’opera sul territorio.

*ART. 9 = Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all'esproprio quando diventa efficace l'atto di approvazione del
“piano urbanistico generale”, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica
utilità.
Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento
che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera.
Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell'opera, il vincolo preordinato all'esproprio decade.
Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato.

*ART. 10 = 1. Se la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità non è prevista dal piano urbanistico generale,
il vincolo preordinato all'esproprio può essere disposto mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma,
un’ intesa ovvero un altro atto che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico.

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*ACCORDO DI PROGRAMMA = convenzione tra enti territoriali (regioni, province o comuni) ed altre amministrazioni
pubbliche mediante la quale le parti coordinano le loro attività per la realizzazione di opere, interventi o programmi di
intervento.

7. La dichiarazione di pubblica utilità . La “DICHIARAZIONE DI PUBBLICA


UTILITÀ” è il provvedimento (che deve intervenire prima che decada il “vincolo preordinato
all’esproprio”) con cui l’amministrazione è abilitata a emanare (nel termine dalla stessa fissato o, in
mancanza, entro 5 anni) il “decreto espropriativo”. L’art. 12 del t.u. del 2001 stabilisce che la
“dichiarazione di pubblica utilità” si intende disposta quando l’autorità espropriante :

 approva il “progetto definitivo dell’opera pubblica” (o di pubblica utilità);


 approva un “piano urbanistico attuativo che abbia per legge efficacia di dichiarazione
di pubblica utilità”;
 approva un altro “provvedimento a cui la legge attribuisca questa efficacia”.

La DICHIARAZIONE DI PUBBLICA UTILITÀ rende possibile l’emanazione del “decreto di


esproprio” : nel provvedimento che comporta la “dichiarazione di pubblica utilità” dell’opera può
essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va emanato. Se manca l’espressa
determinazione del termine, il “decreto di esproprio” può essere emanato entro il 5 anni dalla data in
cui diventa efficace l’ “atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera” (art. 13).
Il “progetto definitivo” può essere approvato solo nel caso in cui si tratti di un’opera conforme alle
previsioni del “piano urbanistico generale”: ciò significa che, affinchè l’approvazione possa essere
disposta (e la “dichiarazione di pubblica utilità” pronunciata), il “piano urbanistico” deve imporre,
sull’area interessata dal progetto, un vincolo che la preordina all’espropriazione. Nel caso in cui il
“piano urbanistico generale” non rechi un vincolo che preordini all’espropriazione una determinata
area, è comunque possibile che intervenga l’“approvazione del progetto dell’opera” (con efficacia
dichiarativa della pubblica utilità) : tuttavia, questo meccanismo può essere attivato solo apportando
delle “varianti” allo strumento urbanistico, mediante l’indicazione al suo interno del vincolo che
preordina l’area interessata all’espropriazione (ovviamente, fino al momento in cui il “vincolo” non
sia inserito nel piano, l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità resta sospesa).
La “dichiarazione di pubblica utilità” può essere disposta, in secondo luogo, quando l’autorità
espropriante adotta “specifici provvedimenti urbanistici” (che possono comportare la dichiarazione di
pubblica utilità), denominati “piani urbanistici attuativi”, il cui scopo è quello di dare attuazione a
quelle previsioni (inserite all’interno del “piano urbanistico generale”) riguardanti particolari ambiti
territoriali, per i quali il piano generale prevede una trasformazione. A loro volta, questi “piani
attuativi” possono essere rimessi sia all’iniziativa dei privati proprietari dei suoli interessati (e allora si
parlerà di “piani attuativi di iniziativa privata”), sia all’amministrazione (c.d. “piani attuativi
d’ufficio”).

8. La determinazione dell’indennità provvisoria di espropriazione.


Prima che l’amministrazione sia legittimata ad emettere l’atto espropriativo, è necessario avviare un
procedimento atto a determinare la c.d. “indennità (provvisoria) di espropriazione” : questo
procedimento, a sua volta, può essere ordinario (ad esso si fa ricorso ove non ci sia una particolare
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urgenza nell’avvio dei lavori da eseguire) o può essere un procedimento che deroga per molti aspetti
alle regole stabilite per quello ordinario (e che si svolge se c’è l’urgenza).

 Il PROCEDIMENTO ORDINARIO (disciplinato dall’art. 20 del t.u. del 2001) prende avvio su
iniziativa dell’autorità espropriante che, dopo aver compilato l’ “elenco dei beni da espropriare” (e dei
relativi proprietari), deve notificare lo stesso ai proprietari (ovviamente, solo per la parte che li
riguarda). Fatto ciò, agli interessati (i proprietari inclusi nell’elenco) è concessa la possibilità di
presentare, entro un termine perentorio (che comincia a decorrere dal momento della notificazione)
osservazioni scritte e documenti. Non solo : ove lo ritenga opportuno, l’autorità può anche invitare il
proprietario (incluso nell’elenco) o il beneficiario dell’espropriazione (se diverso dall’autorità
espropriante) a indicare quale sia, a suo avviso, il “valore dell’area da espropriare”.
Successivamente, l’autorità espropriante accerta il valore dell’area e determina, in via provvisoria, la
“misura dell’indennità”, notificandone – tramite ufficiale giudiziario – l’atto al proprietario (nonché al
beneficiario, se diverso dall’autorità espropriante).
A questo punto il proprietario espropriando può manifestare - entro il termine perentorio di 30 giorni
dalla notificazione della determinazione dell’indennità provvisoria - la propria accettazione (e la sua
dichiarazione è irrevocabile) oppure non dichiarare nulla : in quest’ultimo caso, la determinazione
dell’indennità si intende “non concordata”. Se l’espropriando resta inerte (così che la determinazione
dell’indennità provvisoria si intende da lui non condivisa) il procedimento espropriativo prosegue :
l’amministrazione, nei successivi 30 giorni, provvede a depositare la somma calcolata in sede di
determinazione dell’indennità provvisoria e ad emanare il “decreto di esproprio”.
Però, fino a quando il decreto non trova esecuzione, il proprietario può sempre decidere di esercitare il
suo “diritto alla cessione volontaria”.
Al contrario, ove il proprietario decida di accettare l’indennità provvisoria (comunicando tale scelta
all’autorità), il procedimento espropriativo si blocca e si producono i seguenti effetti :
1) l’indennità provvisoria si cristallizza, in quanto appunto condivisa e accettata;
2) nasce l’obbligo, in capo al proprietario, di acconsentire all’immissione nel possesso del suo
bene da parte dell’amministrazione;
3) nasce l’obbligo, sempre in capo all’espropriando, di depositare gli “atti che comprovano la
sua proprietà sul bene” : obbligo dal cui adempimento deriva il suo diritto a vedersi
corrisposto, nei successivi 60 giorni, l’intero importo dell’indennità.

Laddove il proprietario non ottemperi all’obbligo di depositare i documenti, l’autorità ha il potere di


emettere e di eseguire il “decreto di esproprio”.
Viceversa, qualora il proprietario ottemperi con puntualità agli obblighi posti a suo carico, si procede
alla stipula (tra lui e il beneficiario dell’espropriazione) dell’ “atto di cessione volontaria del bene”, che
pone fine al procedimento espropriativo e deve essere trascritto nei registri immobiliari «a cura e a
spese dell’acquirente».
Quanto detto ci fa comprendere l’importanza della scelta del proprietario di accettare l’importo
dell’indennità : la comunicazione di “condivisione dell’indennità provvisoria” permette
all’espropriando di evitare l’espropriazione e di stipulare, al suo posto, l’ “atto di cessione volontaria”.
Però il proprietario, nel manifestare la volontà di avvalersi del diritto di cui all’art. 45 t.u., non può in
seguito ritrattare questa decisione, poichè la stipula dell’“atto di cessione volontaria” integra un
obbligo giuridico la cui violazione è sanzionata con l’esposizione alla “responsabilità risarcitoria”.
Tuttavia il rifiuto dell’espropriando di stipulare la cessione volontaria si ritiene “ingiustificato” (e tale
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da esporlo al risarcimento del danno arrecato alla controparte) solo quando egli abbia percepito la
somma a lui spettante a titolo di indennità. Inoltre, nel caso di ingiustificato rifiuto del proprietario di
stipulare la cessione volontaria, il “decreto di esproprio” può essere comunque emanato.
Tuttavia l’art. 20, comma 11 del t.u. dispone che l’amministrazione può procedere all’emanazione e
all’esecuzione del “decreto di esproprio” anche qualora il proprietario abbia manifestato la volontà di
esercitare il suo diritto di addivenire alla cessione volontaria (ed abbia anche eseguito tutti gli obblighi
posti a suo carico). Il tenore di questa norma, però, è fuorviante, perchè sembrerebbe configurare la
stipula dell’ “atto di cessione volontaria”, da parte del beneficiario dell’espropriazione, come una mera
facoltà (cosa inconciliabile con la qualificazione in termini di diritto della posizione
dell’espropriando) : quindi bisogna ritenere che lex minus dixit quam voluit (la legge ha detto meno di
quanto ha voluto; c.d. interpretazione estensiva) e concludere che l’amministrazione possa disporre
comunque l’espropriazione solo quando, valutate le circostanze del singolo caso, ritenga che la
“cessione volontaria” non possa essere stipulata con la celerità occorrente in relazione all’urgenza
dell’esecuzione dei lavori.

 Il PROCEDIMENTO URGENTE di determinazione dell’indennità provvisoria è disciplinato


dall’art. 22 del t.u. del 2001 e può svolgersi solo quando l’avvio dei lavori sia particolarmente
urgente. Ricorrendo questa particolare urgenza (di cui l’amministrazione deve dar conto in sede di
motivazione del provvedimento), la determinazione dell’indennità provvisoria è effettuata in via
d’urgenza (cioè senza particolari indagini o formalità) e l’autorità espropriante può anche emettere il
“decreto di esproprio” e darvi immediata esecuzione, invitando l’espropriato a comunicare entro un
termine perentorio (che decorre dall’immissione in possesso) se intende o meno accettare l’indennità
provvisoria. Ove l’indennità sia accettata, e siano inoltre depositati i documenti comprovanti la piena
disponibilità del bene dell’espropriato, egli ha diritto alla corresponsione dell’indennità nei 60 giorni
successivi. Viceversa, se egli non accetta l’indennità, può richiedere - entro un termine perentorio che
decorre dalla notifica del “decreto di esproprio” - che la stima dei beni sia effettuata da una
commissione di tecnici (art. 21 t.u.), mentre se non avanza tale richiesta, l’indennità definitiva viene
determinata dalla Commissione provinciale Espropri (art. 41 t.u.). Ad ogni modo, il “procedimento
urgente” è stato anche tipizzato dal legislatore : infatti esso può essere sempre attivato laddove gli
interventi da eseguire riguardino le infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi di cui alla
c.d. “legge-obiettivo” (L. 443 / 2001), nonchè nei casi in cui il numero dei proprietari (interessati
dalla procedura espropriativa) sia superiore a 50 : per questi casi c’è una valutazione legale di urgenza
dei lavori, che facultizza l’amministrazione a dar luogo al “procedimento urgente”. In ogni caso, ove
l’amministrazione dovesse decidere, nei casi in esame, di ricorrere al procedimento urgente, la stessa
sarà tenuta ad esporre, in sede di motivazione, le “ragioni per cui ha ritenuto di seguire questa
procedura”. L’amministrazione deve indicare e dimostrare l’effettiva sussistenza dell’“urgenza
dell’avvio dei lavori”, essendo queste delle fattispecie in cui l’urgenza è semplicemente considerata dal
legislatore, con una valutazione generale e astratta, come normalmente possibile. L’obbligo di
motivazione discende dal fatto che, decidendo di ricorrere al “procedimento urgente”,
l’amministrazione effettua una scelta discrezionale : e le scelte discrezionali devono essere motivate.
E’ comunque irragionevole che la norma acconsenta allo svolgimento del procedimento urgente
semplicemente sul presupposto che la procedura espropriativa interessi un numero di soggetti
superiore a 50 : tale previsione introduce un’evidente disuguaglianza di trattamento, fondata su un

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elemento meramente quantitativo.


Inoltre la scansione procedimentale tracciata per la determinazione urgente dell’indennità provvisoria
(secondo cui questa viene indicata in sede di “decreto di esproprio”) non lascia spazio all’esercizio del
diritto dell’espropriando alla “cessione volontaria” : ciò a causa della mancanza del presupposto
procedimentale (la comunicazione dell’indennità provvisoria, disgiunta dal “decreto di esproprio”) cui
la legge ancora la possibilità della “cessione volontaria”. Poiché, però, non si può escludere
l’esercitabilità del diritto alla cessione volontaria, è necessario concludere che il proprietario possa
comunque vincolarsi a questa nei confronti dell’amministrazione, anche indipendentemente dalla
sussistenza del presupposto procedimentale (la comunicazione della sola indennità provvisoria).
Però l’art. 22 consente che si proceda alla determinazione in via d’urgenza dell’indennità provvisoria
anche subito dopo che la “dichiarazione di pubblica utilità” abbia conseguito efficacia : ove così
l’amministrazione si determinasse, sotto il profilo temporale non ci sarebbe alcuno spazio per la
“cessione volontaria” come mezzo alternativo a un esproprio che già sarebbe subito : e ciò induce a
dubitare della ragionevolezza di questa disciplina.

9. Il decreto di espropriazione e la retrocessione. Il procedimento


espropriativo si conclude con l’emissione, nel periodo di efficacia della “dichiarazione di pubblica
utilità”, del DECRETO DI ESPROPRIAZIONE, attraverso cui si realizza il passaggio del “diritto di
proprietà” a favore del beneficiario (art. 23). Però, il decreto, per poter dispiegare efficacia, deve essere
notificato all’espropriato, dopo di che – nel termine perentorio di 2 anni dalla notificazione del
“decreto di esproprio” – deve essere eseguito (tramite la redazione del verbale di immissione in
possesso). L’efficacia del “decreto di esproprio” è, quindi, sottoposta a due “condizioni sospensive” (la
notificazione al destinatario e l’esecuzione), qualificate come elementi integrativi dell’efficacia del
decreto. L’esecuzione si attua mediante la redazione del “verbale di immissione nel possesso del bene”
: però, il verbale, in quanto atto formale, può anche essere redatto non contestualmente all’immissione
nel possesso del bene; perciò, ove l’immissione nel possesso dovesse avvenire dopo la redazione del
verbale, il bene potrà ancora essere usato dal soggetto che ne era, in precedenza, proprietario. Ove la
materiale immissione in possesso sia differita rispetto alla redazione del “verbale di immissione in
possesso”, il “decreto di esproprio” si intende comunque eseguito. Poiché la legge differisce
l’efficacia traslativa del diritto (propria del “decreto di esproprio”) alla sua esecuzione,
l’espropriazione diventa inefficace in modo definitivo, se i 2 anni decorrono senza che l’immissione in
possesso sia avvenuta. Ove ciò accada, però, l’art. 24, 7°comma del t.u. abilita l’amministrazione a
reiterare, nei 3 anni successivi, la “dichiarazione di pubblica utilità” : tuttavia, il tenore di questa
norma non è propriamente accettabile, in quanto - dato che è possibile che la “dichiarazione di
pubblica utilità” sia ancora temporalmente valida nel momento in cui diviene definitivamente
inefficace il “decreto di esproprio” - non si capisce perchè la legge disponga che a poter essere
reiterata sia la dichiarazione di pubblica utilità, dato che sarebbe stato più semplice concedere
all’autorità la possibilità di emettere un nuovo “decreto di esproprio” (ove sia ancora efficace la
dichiarazione di pubblica utilità) e, per contro, ammettere anche la reiterabilità della dichiarazione di
pubblica utilità qualora, oltre all’inefficacia del decreto di esproprio, fosse intervenuta anche
l’inefficacia della dichiarazione (per decorso del termine). Se, invece, non si accetta questa
interpretazione, si deve giungere alla conclusione che l’art. 24, 7°comma tipizza un’autonoma “causa

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di inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità”, che si produrrebbe in tutti i casi in cui non si dia
esecuzione al “decreto di esproprio” entro il termine della sua efficacia (ossia entro i 2 anni).

Gli artt. 46 e 47 t.u. disciplinano, invece, l’istituto della RETROCESSIONE (o “restituzione”) – totale
o parziale – DEI BENI ESPROPRIATI. In particolare, quanto alla RETROCESSIONE TOTALE,
l’art. 46 t.u. stabilisce che “se entro 10 anni dall’esecuzione del “decreto di esproprio” l’opera pubblica
(o di pubblica utilità) non viene realizzata (e neppure iniziata) oppure se anche prima dei 10 anni
risulta l’impossibilità della sua realizzazione, l’espropriato può chiedere che venga dichiarata la
“decadenza della dichiarazione di pubblica utilità”, che il bene espropriato gli venga restituito e che
gli sia corrisposta un’indennità. La “retrocessione totale” configura per il soggetto inutilmente
espropriato un vero e proprio diritto. Il fondamento della retrocessione totale deve rinvenirsi in ciò :
dato che l’espropriazione del bene era stata disposta per realizzare un’opera, e questa non è stata
iniziata o è stata, in ogni caso, accertata l’impossibilità della sua realizzazione, viene meno la causa
dell’espropriazione e, quindi, il soggetto che l’ha subita ha “diritto a vedersi restituito il bene” di cui
era stato privato, oltre che ad essere indennizzato per la limitazione inutilmente patita della sua sfera
patrimoniale.
Diverso è invece il fondamento giuridico della RETROCESSIONE PARZIALE : l’art. 47 t.u. dispone
che se l’opera pubblica (o di pubblica utilità) è stata realizzata, ma una parte del bene non è stata
utilizzata, l’espropriato può chiedere la restituzione di questa parte (inutilizzata). Tuttavia, affinchè la
retrocessione parziale possa operare, occorre che il beneficiario dell’espropriazione individui i beni
che, non essendo funzionali alla realizzazione dell’opera, possono essere ritrasferiti all’espropriato :
quest’ultimo, però, per ottenerne la restituzione, deve versare una somma di denaro a titolo di
corrispettivo. Dunque, la ratio della retrocessione parziale va rinvenuta nel “principio di
proporzionalità”, poiché il sacrificio imposto all’espropriato non è proporzionato all’esigenza di
pubblico interesse : l’opera pubblica è stata eseguita, ma per la sua realizzazione è stata espropriata
un’area di dimensioni eccessive. E’ però irragionevole che l’espropriato, per ottenere il ritrasferimento
del bene, debba corrispondere all’amministrazione una somma di denaro a titolo di «corrispettivo» :
giustificabile è solo il fatto che egli debba restituire l’ “indennità di espropriazione” percepita per la
porzione di area che gli viene restituita. Altrettanto irragionevole è l’art. 48 t.u., che al 3°comma
stabilisce che, sui beni suscettibili di essere retrocessi all’espropriato, e dopo che questo abbia avviato
il procedimento per ottenerne la restituzione, il Comune nel cui territorio si trovano i beni ha su di essi
il diritto di prelazione : tale diritto non ha alcuna ragion d’essere, poiché non si comprende perché il
Comune debba essere posto in posizione privilegiata, soprattutto se si considera che ciò andrebbe a
scalfire la posizione dell’espropriato, che ha tutto l’interesse a vedersi restituito quanto gli è stato tolto
inutilmente (attraverso l’espropriazione).

*REITERARE = Rinnovare, rifare, ripetere.

*DIRITTO DI PRELAZIONE = diritto ad essere preferito, rispetto ad un altro soggetto a parità di condizioni, nella costituzione
di un negozio giuridico.

10. L’occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione.


L’OCCUPAZIONE D’URGENZA PREORDINATA ALL’ESPROPRIAZIONE (introdotta dall’art.

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22-bis t.u.) consiste nell’occupazione anticipata (rispetto al normale iter) dei beni da espropriare :
l’espropriante può occupare l’area prima dell’emissione del “decreto di esproprio” (vale a dire, prima
di acquisirne la proprietà). L’“occupazione d’urgenza” è disposta con un “decreto”, che consente
l’immissione nel possesso dei beni espropriandi prima dell’emanazione del “decreto di esproprio” e
che sottrae quindi al proprietario il possesso (non anche la proprietà) dei beni. Comportando
un’anticipata immissione nel possesso dei beni, questo istituto può essere usato solo nei casi indicati
dall’art. 22-bis, e cioè :

 qualora l’avvio dei lavori sia particolarmente urgente e tale da non consentire l’applicazione
del “procedimento ordinario di determinazione dell’indennità provvisoria” ex art. 20 t.u.; [1°comma
dell’art. 22-bis];
 per gli interventi (opere strategiche) di cui alla “legge-obiettivo” (L. 443 / 2001 ); [2°comma
dell’art. 22-bis];
 quando il numero dei destinatari della procedura espropriativa sia superiore a 50 ; [2°comma
dell’art. 22-bis];

In tutti questi casi, può essere emanato – senza particolari indagini o formalità – un “decreto” che
determina, in via provvisoria, l’indennità di espropriazione e che dispone l’occupazione anticipata
dei beni. Il “decreto” che dispone l’occupazione d’urgenza deve essere motivato e deve contenere la
determinazione provvisoria dell’ “indennità di espropriazione” (la mancanza di questi elementi incide
sulla legittimità del provvedimento). La motivazione deve dar conto della sussistenza delle “condizioni
indicate dall’art. 22-bis”, dato che solo in presenza di queste l’amministrazione può disporre
l’occupazione d’urgenza. Tuttavia, la giurisprudenza ritiene che, nelle ipotesi indicate dal 2°comma, la
motivazione non sia necessaria, perché il legislatore avrebbe effettuato esso stesso, riguardo ad esse, la
valutazione della “sussistenza delle condizioni per procedere all’occupazione d’urgenza”. Il Consiglio
di Stato, in particolare, ritiene che sia stata la norma - nella parte in cui consente l’occupazione
d’urgenza se il numero degli espropriandi è superiore a 50 - a valutare che «l’espletamento del
procedimento ordinario di determinazione dell’indennità di espropriazione per un numero così alto di
destinatari ritarderebbe troppo l’effettiva esecuzione delle opere». Ma dalla formulazione letterale
della norma si ricava solo che l’alto numero di espropriandi potrebbe (nel singolo caso) essere tale da
ritardare l’effettivo avvio dei lavori ove nei confronti di ciascuno dovesse seguirsi il “procedimento
ordinario di determinazione dell’indennità provvisoria”. Alla valutazione compiuta in astratto dalla
legge deve seguire una valutazione in concreto (relativa, cioè, al singolo caso) da parte
dell’amministrazione, poiché è necessario che questa verifichi se effettivamente, in relazione alla
specifica situazione considerata, l’elevato numero di espropriandi sia tale da ritardare l’avvio dei
lavori. Quindi, questo orientamento giurisprudenziale non è giustificato dal tenore letterale della
norma, che semplicemente facultizza l’amministrazione all’immissione anticipata nel possesso dei beni
espropriandi e rimette a questa l’effettuazione di una scelta : che, come tutte le scelte discrezionali
riservate all’amministrazione deve essere motivata.

11. La quantificazione dell’indennità di espropriazione. La disciplina


legislativa della “quantificazione dell’indennità di espropriazione” ha dato origine a un contenzioso di
dimensioni inusitate, perché pur dovendo l’indennità rappresentare un serio ristoro (non meramente
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simbolico) del sacrificio imposto al privato in forza dell’espropriazione del suo bene, per la sua
determinazione il legislatore ha introdotto criteri così restrittivi e penalizzanti per i proprietari
espropriati da escludere che l’“indennità” corrispondesse a un serio ristoro dei beni espropriati. Basti
pensare, al riguardo, che il d.p.r. 327 / 2001 (Testo unico delle espropriazioni) - richiamando l’art. 5-
bis del d.l. 333 / 1992 - prevedeva, in origine, quanto segue :

 per le AREE EDIFICABILI, l’indennità di espropriazione doveva essere quantificata in un importo


pari al 30% del valore del bene espropriato : inadeguata a ristorare il sacrificio imposto al proprietario;
 per le AREE NON EDIFICABILI (categoria che comprende anche le “aree agricole”), era fissato
un criterio astratto, identificato nel “valore agricolo medio” della coltura in atto o della coltura più
redditizia nell’area da espropriare : senza distinguere, dunque, un’area agricola da un’area non
edificabile : infatti un’ “area non edificabile” è suscettibile di utilizzazioni economicamente appetibili,
diverse da quelle praticabili sui “suoli agricoli” e il suo valore di scambio può essere di gran lunga
superiore a quello di un’area agricola.

Tuttavia la Corte costituzionale ha per lungo tempo avallato (*approvato) le scelte del legislatore. Nel
1993 la Corte ha affermato che la disciplina dei criteri di quantificazione dell’indennità di
espropriazione delle aree edificabili è rispettosa del «canone di adeguatezza dell’indennità» ex art. 42,
3° comma Cost. Secondo la Corte l’indennizzo, per essere serio, non può essere sganciato dal “valore
venale del bene”, ma non può neppure corrispondervi; e poiché l’art. 5-bis assumeva come parametro
per la quantificazione dell’indennizzo relativo alle aree edificabili il “valore venale del bene”, la
disciplina non era incostituzionale nemmeno quando la norma disponeva che il parametro
rappresentato dal valore venale si combinasse con altri elementi, da essa indicati, in modo tale da
determinarne l’abbattimento dei 2/3. Secondo la Corte «l’indennizzo resta serio, sufficiente e congruo,
in quanto pur sempre agganciato al valore del bene». Nel 1997 la Corte ha affermato che un’identica
disciplina - per la “determinazione dell’indennità di esproprio” – sia per le aree agricole sia per le aree
non edificabili non è irragionevole, e neppure viola un serio ed effettivo ristoro del proprietario, poiché
è ancorata al “valore agricolo medio”.
Davanti all’avallo che la Corte costituzionale aveva fornito alle scelte legislative, gli espropriati che
ritenevano di aver subito una lesione del diritto di proprietà (che integra un diritto fondamentale
secondo la CEDU) a causa di un’indennità così esigua da rappresentare un ristoro meramente
simbolico del sacrificio loro imposto, si sono rivolti alla Corte di Strasburgo, che in più occasioni ha
accertato la «sistematica violazione» da parte dell’Italia del “diritto al rispetto dei beni” garantito dalla
Convenzione, perché con le sue leggi non consentiva un serio ristoro dell’espropriazione subita.
La Corte costituzionale, nuovamente investita - dopo la pronuncia della Corte europea Scordino c.
Italia del 2006 - della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni recate dall’art. 5-bis in
relazione alle aree edificabili, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nel 2007 (per la violazione
dell’art. 117, 1°comma Cost., che impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) : e poiché le disposizioni dell’art. 5-bis
relative alla quantificazione dell’indennità per le aree edificabili erano state riprodotte nell’art. 37 del
“t.u. espropri”, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche di queste disposizioni. Solo
nel 2011 poi la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni dell’art. 5-bis
relative alla determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree agricole e per quelle non
edificabili, accertando che «il criterio stabilito è astratto ed esclude il legame con il valore di mercato,
prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo» : nella stessa pronuncia si è dichiarata
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l’incostituzionalità dell’art. 40 del “t.u. espropri” (che riproduceva la disciplina dell’art. 5-bis).
Le pronunce della Corte costituzionale non travolgono però il complessivo impianto del t.u. riguardo
alla “DETERMINAZIONE DELL’INDENNITÀ DI ESPROPRIO”. Dalla giurisprudenza della Corte
di Strasburgo emerge che l’“indennizzo” rappresenta un serio ristoro se viene determinato assumendo
come parametro non il mero valore venale, ma il valore effettivo che il singolo bene espropriato ha per
il suo proprietario (anche a causa dell’utilizzo che egli ne faccia e della possibilità, per lui, di reperirne
un altro equivalente).

Il t.u. pone innanzitutto le “regole generali” che presiedono alla quantificazione dell’indennità,
disponendo che essa va quantificata in base alle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di
cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio; deve essere valutata l’incidenza dei vincoli non
espropriativi gravanti sul bene, mentre non va considerata l’incidenza del “vincolo che lo ha
preordinato all’espropriazione”, né vanno considerate le migliorie apportatevi all’evidente scopo
di aumentare l’indennità (art. 32).
Per la concreta quantificazione dell’indennità, si distinguono :

 Le AREE EDIFICABILI : quelle per cui sussista l’effettiva possibilità di edificazione al


momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione (art. 37). Per le aree
edificabili, l’art. 37 prevedeva che l’indennità fosse quantificata in un importo pari alla somma del
“valore venale” e del “reddito dominicale”, diviso per due e con la decurtazione del 40%
(1°comma); decurtazione non applicabile solo nel caso in cui l’espropriando fosse addivenuto alla
“cessione volontaria” o nel caso in cui questa non fosse stata stipulata per fatto a lui non imputabile
(2°comma). Entrambe queste disposizioni sono state dichiarate incostituzionali dalla Corte
Costituzionale e il legislatore è subito intervenuto a colmare la lacuna con L. 244 / 2007
(finanziaria per il 2008), che dispone la sostituzione dei primi due commi dell’art. 37. Il nuovo
comma 1 dell’art. 37 stabilisce che l’indennità di esproprio è determinata nella misura pari al valore
venale del bene; però, se l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-
sociale, l’indennità è ridotta del 25%. Il nuovo comma 2 stabilisce che, se è stato concluso
l’accordo di cessione o se la mancata conclusione di questo non sia imputabile all’espropriato,
l’indennità è aumentata del 10%.
Anche nella nuova disciplina continua dunque a mancare il riferimento alla specifica
funzionalizzazione della proprietà espropriata, che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo è
invece un parametro che occorre considerare affinché il sacrificio imposto all’espropriato possa
essere ritenuto ragionevole.
 Le AREE NON EDIFICABILI : le aree gravate da “vincoli di inedificabilità”, nonché le
aree che sono sì edificabili, ma non per edificazione privata (ad esempio, le aree destinate a p.e.e.p.
o p.i.p., trattandosi di aree sì edificabili, ma solo in forza dell’intervento dell’amministrazione). Per
le aree non edificabili (categoria che comprende anche le aree agricole), l’art. 40 disponeva che
l’indennità – ove si fosse trattato di area non adibita ad uso agricolo - fosse quantificata applicando
il criterio del valore agricolo medio, mentre - laddove si fosse trattato di area destinata ad uso
agricolo – per il calcolo dell’indennità bisognava tener conto, oltre al valore agricolo medio, anche
le colture praticate e i manufatti esistenti. Questa disciplina è stata dichiarata incostituzionale (e
quindi espunta dall’ordinamento) quanto al criterio indennitario identificato unicamente nel valore
agricolo medio, mentre la Corte ha ritenuto di non dover estendere la declaratoria di

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incostituzionalità anche alla norma che - per le aree agricole adibite ad uso agricolo - stabilisce si
tenga conto, oltre che del valore agricolo medio, anche delle colture praticate e dei manufatti
esistenti. La lacuna che la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40 ha indotto nella disciplina
della determinazione dell’indennità di espropriazione dovrà essere colmata dal legislatore : che, ove
volesse attenersi ai principi affermati dalla Corte di Strasburgo, dovrebbe imporre che l’indennizzo
vada fissato in relazione al valore effettivo (e non solo venale) dei beni espropriati.
 Le AREE LEGALMENTE EDIFICATE : se si tratta di area legalmente edificata,
l’indennità era (ed è) pari al “valore venale del bene” (art. 38). Questo non significa, però, che
l’indennità rappresenti un serio ristoro del sacrificio imposto al proprietario, perché la norma non
impone di tener conto della sua specificità : infatti il sacrificio può essere particolarmente
consistente per il proprietario, in relazione all’uso che egli faccia del suo bene. Ed è l’effettiva
dimensione del sacrificio (indotta dalla specificità della singola proprietà espropriata) che la Corte
di Strasburgo impone di considerare affinché l’indennizzo rappresenti un serio ristoro. Nella
giurisprudenza della Corte EDU infatti prevale una visione funzionale della proprietà, capace di
vedere il bene non in base alla sua oggettiva rilevanza economica, ma in base all’uso che ne fa il
proprietario.

*VALORE VENALE = valore di mercato, commerciale.

*REDDITO DOMINICALE = il reddito dominicale è l’entrata che proviene dalla proprietà di un terreno. Quando si parla di
“reddito dei terreni” è bene distinguere fra reddito agrario e reddito dominicale. Mentre, infatti, il REDDITO AGRARIO
indica quella parte di reddito fondiario proveniente dall’esercizio dell’attività agricola, il REDDITO DOMINICALE è quello
relativo esclusivamente alla proprietà.

12. I rimedi previsti per l’illecito denominato “espropriazione


indiretta”. L’ESPROPRIAZIONE INDIRETTA, figura che determina la perdita del diritto
di proprietà e il suo acquisto in capo a un altro soggetto per effetto dell’ irreversibile
trasformazione di un fondo, non avrebbe mai dovuto trovare riconoscimento giurisprudenziale : sia
perché in contrasto con il “principio di legalità” che governa i modi di acquisto e di perdita della
proprietà (e specificamente con la “riserva di legge” stabilita dall’art. 42, 2°comma Cost.), sia
perché in contrasto con la “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” e con il diritto comunitario.
Nel senso del riconoscimento dell’ESPROPRIAZIONE INDIRETTA come fenomeno di acquisto
della proprietà alla mano pubblica, si è formata una vera e propria prassi giurisprudenziale interna,
che ha dato luogo a varie condanne dell’Italia da parte della Corte e.d.u. per «la sistematica
violazione di un diritto riconosciuto nella Convenzione». Così, per adeguare la disciplina legislativa
alla giurisprudenza della Corte europea, il legislatore aveva dettato, nell’art. 43 t.u., la disciplina
della fattispecie in cui un bene immobile sia stato trasformato e venga usato per scopi di interesse
pubblico senza un “decreto di esproprio” valido ed efficace o senza una “dichiarazione di pubblica
utilità” valida ed efficace, nonché della fattispecie in cui sia stato giudizialmente annullato l’atto
che ha impresso il “vincolo preordinato all’espropriazione”, quello che ha dichiarato la
pubblica utilità, e quello che ha decretato l’espropriazione : ricorrendo una di queste fattispecie,
l’amministrazione che usava il bene poteva emanare un “provvedimento” che ne disponesse
l’acquisizione al suo “patrimonio indisponibile” e che disponesse inoltre che al proprietario fossero
risarciti i danni subiti : ciò dopo aver valutato gli interessi in conflitto (quello dell’amministrazione
a continuare a usare il bene ed acquisirlo al suo patrimonio e quello del proprietario ad ottenerne la
restituzione). Il passaggio del “diritto di proprietà” si sarebbe prodotto con il provvedimento con cui
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l’amministrazione avesse disposto l’acquisizione del bene al suo patrimonio. Quindi l’art. 43
precludeva definitivamente la possibilità di configurare come causa dell’acquisto della proprietà di
un bene in capo all’amministrazione il fatto che questa lo utilizzi e che l’abbia irreversibilmente
trasformato pure quando il provvedimento espropriativo è inefficace, inesistente o oggetto di
accertamento giudiziale di invalidità. L'art. 43 era una norma che estrinsecava le regole generali
(imposte dai precetti costituzionali, convenzionali e comunitari) applicabili quando il bene, pur
occupato o anche trasformato per scopi di pubblica utilità, non fosse mai uscito dalla proprietà
privata, perché non c’era stato un valido ed efficace provvedimento espropriativo o perché il
provvedimento che ne disponeva l’espropriazione era stato annullato giudizialmente.
Sennonché la Corte costituzionale nel 2010 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 43 per avere il
legislatore delegato (cioè è il legislatore del t.u. espropri) ecceduto dai limiti impostigli dalla legge -
delega, che era stata conferita «per il riordino e il coordinamento delle disposizioni vigenti,
apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza della normativa» : secondo la Corte
l’istituto era connotato da numerosi aspetti di novità ed eccedeva, perciò, dai limiti della delega.
Così, la pronuncia della Corte costituzionale ha indotto il legislatore a intervenire per colmare la
lacuna e nel 2011 è stato introdotto nel t.u. espropri l’art. 42-bis, rubricato «utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». La nuova norma riproduce l’impianto dell’art. 43,
delineando però con maggiore precisione i presupposti in presenza dei quali l’amministrazione può
disporre che sia acquisito al suo “patrimonio indisponibile” un bene da essa usato per scopi di
interesse pubblico, che sia stato modificato senza un valido o efficace “provvedimento di esproprio”
o “dichiarativo di pubblica utilità”, oppure in forza di un provvedimento di esproprio, di un
vincolo espropriativo o di una dichiarazione di pubblica utilità che siano stati oggetto di
caducazione giudiziale. La norma dispone che l’acquisto si produce in forza di questo
“provvedimento” e il privato (nei cui confronti sia emanato il “provvedimento che dispone
l’acquisto del bene”) ha diritto alla corresponsione di un indennizzo per il ristoro del pregiudizio sia
patrimoniale che non patrimoniale subito. Il “danno non patrimoniale” va liquidato in via forfetaria
(*in misura prestabilita), assumendo come parametro il valore venale del bene. Anche l’indennizzo
per il “pregiudizio patrimoniale” subito va determinato in misura corrispondente al valore venale
del bene.
L’art. 42-bis specifica che il “provvedimento che dispone l’acquisizione del bene” deve indicare le
circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione del bene e deve recare la liquidazione
dell’indennizzo dovuto al proprietario (che deve essere a lui pagato nei 30 giorni successivi). Esso
può essere emanato solo se sussistono attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che
giustificano che il bene - anziché essere restituito al proprietario - venga acquisito
dall’amministrazione e sempre che queste eccezionali ragioni, valutate con gli interessi contrapposti
del proprietario, siano ritenute “prevalenti” : di ciò l’amministrazione deve dare conto in sede di
motivazione del “provvedimento che dispone l’acquisizione”.
La disciplina risolve definitivamente il problema indotto dal riconoscimento, con l’espropriazione
c.d. indiretta, di un modo di acquisto della proprietà per fatto illecito : infatti essa poggia sul
presupposto che l’ “espropriazione indiretta” è un illecito, come tale fonte del diritto del
danneggiato a essere ristorato del pregiudizio patito. Non è invece del tutto soddisfacente (perché
non pienamente allineata alla giurisprudenza della Corte europea) la disciplina dettata per il ristoro
del danneggiato : l’indennizzo a lui spettante per il “danno patrimoniale” subito viene infatti
ancorato al valore venale del bene, mentre quello spettante per il “danno morale” è determinato

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dalla legge forfetariamente, sempre in base al valore venale. Ma il parametro del “valore venale”
non è sufficiente, perché il risarcimento del danno patrimoniale deve coprire il pregiudizio
effettivamente patito, e il risarcimento del danno morale è liquidabile in via equitativa (e non
meramente forfetaria).

*IN VIA EQUITATIVA = determinato dal giudice.

*A FORFAIT = prestabilito.

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