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- DIRITTO AMMINISTRATIVO -
- a cura di Franco Gaetano Scoca -
-PARTE 1. AMMINISTRAZIONE
- PARTE E CITTADINO-
1. AMMINISTRAZIONE E CITTADINO -
*RISERVA RELATIVA DI LEGGE : i principi sono stabiliti dalla legge; le fonti secondarie
possono intervenire con la normativa di dettaglio.
5. Fonti. Le FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO sono tutti gli atti e i fatti che
producono norme giuridiche che vanno a disciplinare il sistema della pubblica amministrazione :
Costituzione, leggi (statali e regionali), regolamenti (atti normativi secondari), fonti comunitarie.
I REGOLAMENTI (fonti secondarie) sono lo strumento attraverso cui il Governo e le altre autorità
amministrative esercitano la loro potestà normativa. Tali regolamenti, ove dovessero presentarsi in
contrasto con norme di legge, potranno essere annullati dal giudice amministrativo.
I regolamenti sono atti formalmente amministrativi, ma a contenuto normativo (cioè contengono
precetti generali e astratti in grado di innovare l’ordinamento giuridico). Ciò li differenzia dagli
ATTI SOGGETTIVAMENTE AMMINISTRATIVI, che si distinguono in : 1) ATTI
AMMINISTRATIVI GENERALI (atti non normativi, attraverso cui si predispone una disciplina
giuridica che può anche derogare alle disposizioni contenute nella fonte normativa : ad es. i bandi di
gara); 2) ATTI AMMINISTRATIVI PARTICOLARI (che esplicano la loro efficacia nei confronti
di specifici soggetti : ad es. i provvedimenti amministrativi). Gli atti generali e gli atti particolari
non sono fonti del diritto amministrativo.
Altre fonti secondarie sono gli STATUTI e i REGOLAMENTI degli enti locali (non le Regioni,
però !). Gli STATUTI sono atti normativi che regolamentano l’organizzazione, il
funzionamento dell’ente locale e le linee fondamentali della sua attività. Il T. U. degli enti locali
(d.lgs. 267 / 2000) dispone che lo statuto deve essere approvato con una maggioranza qualificata
dei 2/3 dei consiglieri o, in caso di mancata approvazione, con il voto favorevole della
maggioranza dei consiglieri (da ripetersi due volte). Questo con riferimento alla potestà
normativa degli enti locali (comuni, province, città metropolitane).
Lo statuto regionale invece è un atto normativo primario (quindi è allo stesso livello della
legge), a differenza degli statuti provinciali o comunali che sono appunto atti normativi
secondari. L’approvazione dello statuto regionale è di competenza del Consiglio regionale.
Mentre lo statuto ordinario è adottato e modificato con legge regionale, lo statuto speciale è
adottato e modificato con legge costituzionale.
Con riferimento invece alla potestà regolamentare degli enti locali, questa si estrinseca nella
possibilità di adottare REGOLAMENTI, che sono subordinati allo statuto e disciplinano
l’organizzazione e il funzionamento degli enti locali.
Tra le fonti del diritto amministrativo sono ricompresi anche i “Testi Unici”, atti che raccolgono
norme in origine comprese in atti diversi. Si distinguono in : 1) TESTI UNICI NORMATIVI
(che modificano o abrogano disposizioni di legge vigenti); 2) TESTI UNICI COMPILATIVI (si
limitano a raccogliere in un unico testo delle norme già esistenti, lasciando immutata la
legislazione vigente). Sempre in vista della semplificazione normativa, sono adottati “codici di
settore”, con cui si intende dar luogo, in singole materie, ad un complesso di norme stabili e
armonizzate che garantiscano regole certe (ad es. codice dei contratti pubblici).
Non possono essere, invece, annoverate nel novero delle fonti di diritto amministrativo le
“CIRCOLARI AMMINISTRATIVE”, con cui l’amministrazione fornisce indicazioni relative
alle modalità di comportamento dei dipendenti di una determinata struttura organizzativa o di un
ufficio. La loro efficacia si esplica all’interno dell’amministrazione che le ha emanate.
- APPROFONDIMENTI –
1.LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE. Il diritto regola la vita della
società, intesa come un insieme di persone (fisiche e giuridiche), ognuna delle quali vanta propri
interessi e propri bisogni : queste persone, però, non vivono in modo isolato, ma tendono ad
intrecciare determinate relazioni tra loro : in questo modo, si viene a creare un particolare sistema,
in cui gli interessi e i comportamenti dei singoli soggetti trovano una connessione con gli interessi e
i comportamenti degli altri consociati. In un sistema del genere, il diritto deve tutelare gli interessi
di ogni singolo soggetto, ma deve anche attribuire a questi una qualificazione giuridica. Ed è questa
qualificazione giuridica degli interessi che viene ad assumere i connotati propri di SITUAZIONE
GIURIDICA SOGGETTIVA. Le SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE sono le situazioni o
posizioni in cui vengono a trovarsi determinati soggetti per effetto dell’applicazione di una o più
disposizioni giuridiche. I rapporti giuridici, e quindi le situazioni giuridiche soggettive, sorgono, si
modificano, e si estinguono, al verificarsi di determinate fattispecie, fatti tipici ai quali la norma
collega determinati effetti giuridici. Le situazioni giuridiche soggettive si distinguono in
SITUAZIONI DI VANTAGGIO e di SVANTAGGIO (a seconda che riconoscano utilità o pesi per
il loro titolare. Ad es. il diritto soggettivo è una situazione di vantaggio, l’obbligo è una situazione
di svantaggio). Si distinguono, inoltre, in SITUAZIONI STATICHE (o inattive) e DINAMICHE (o
attive) : le prime prendono in considerazione gli interessi dei singoli soggetti (il cui assetto può
essere definito in quiete, proprio perché statico); le seconde, invece, prendono in considerazione
quei comportamenti giuridicamente rilevanti in grado di modificare precedenti assetti di interessi
(consentendone, perciò la trasformazione). Le SITUAZIONI STATICHE, quindi, assicurano il
godimento di interessi tutelati dall’ordinamento e per il cui esercizio si richiede il compimento di
comportamenti facoltativi o leciti (dunque, non giuridici) : si pensi al diritto soggettivo (sia assoluto
che relativo). Al contrario, le SITUAZIONI DINAMICHE devono esercitarsi con la
predisposizione di appositi “atti giuridici” : il classico esempio di situazione dinamica è il potere.
*diritto assoluto = può essere fatto valere verso tutti (erga omnes); es. proprietà.
*diritto relativo = (inter partes) si possono far valere solo nei confronti di soggetti determinati; es. diritti di credito.
DISPOSIZIONE può aver luogo solo se il titolare del diritto pone in essere “atti giuridici”. Così,
una volta isolato il POTERE (disposizione) dal DIRITTO (godimento), è stato possibile enucleare il
concetto di DIRITTO POTESTATIVO, la cui nozione risulta molto cara al diritto amministrativo,
nel cui ambito questo concetto assume i connotati della “POTESTA’”, o meglio, del c.d. POTERE
AUTORITATIVO. E si tratta di un potere attraverso cui alla pubblica amministrazione viene
concessa la possibilità di porre in essere “atti giuridici unilaterali”, in grado di produrre effetti
giuridici (ampliativi o restrittivi) nella sfera dei destinatari, indipendentemente dal loro consenso.
Tuttavia, questo potere unilaterale deve fare i conti con l’ “interesse legittimo” (interesse a che
l’amministrazione provveda o non provveda, a seconda dei casi) spettante ai cittadini coinvolti, a
vario titolo, nella vicenda amministrativa.
*Diritto potestativo = situazione di “potere” contro una situazione di soggezione. Una parte ha il pieno potere di realizzare
una modificazione giuridica; l’altra parte non può che subirla. E’ proprio del diritto privato (serve a tutelare un interesse
proprio).
situazione giuridica soggettiva di “interesse legittimo”, che ha una struttura e tutela diversa dal
diritto soggettivo; 5) gli atti che ne costituiscono esercizio sono sindacabili dal giudice
amministrativo, anche se con limitazioni, poiché la giurisdizione del Tribunale amministrativo
regionale e del Consiglio di Stato riguarda la “legittimità” (che si articola nei vizi di violazione
di legge, incompetenza ed eccesso di potere).
ministeriale” a quello “a competenze differenziate”. Infatti gli elementi essenziali del “MODELLO
A RESPONSABILITA’ MINISTERIALE” sono :
realizzare “l’interesse pubblico specifico che ha in attribuzione” e che nella realtà non si presenta
isolato, ma insieme ad altri interessi pubblici e privati, per cui la legge non può prevedere tutte le
possibili eventualità che si determinano nella realtà. Non viene, quindi, fissato nella norma il
contenuto degli adottandi provvedimenti e l’amministrazione può scegliere la soluzione più
opportuna per soddisfare l’interesse pubblico. La “DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA”
(o pura) sta in questo potere di scelta. Invece il “POTERE VINCOLATO” si ha quando la norma
risolve, in via generale e astratta, la valutazione degli interessi e stabilisce il contenuto del
provvedimento da adottare allorchè si verifichino i presupposti di fatto previsti dalla norma. La
“DISCREZIONALITA’ TECNICA”, invece, non è espressione di una scelta, ma è il frutto di un
giudizio tecnico (economico, ingegneristico, sanitario, estetico, ecc.) che la norma stabilisce di
effettuare.
conferenza di servizi» per arrivare a una decisione frutto non di un organo che agisce da solo, ma
dell’insieme dei titolari dei diversi interessi pubblici coinvolti, che esprimono il loro avviso in
relazione all’interesse pubblico primario che ognuno ha in cura, per cui il modello della
comparazione degli interessi che si presentano in concreto (“secondari”, pubblici e privati) in
relazione all’“interesse pubblico primario” entra in crisi : nella conferenza di servizi si confrontano
contemporaneamente “più interessi primari coinvolti in una determinata operazione
amministrativa”.
Per concludere, quindi, secondo la tesi prevalente, l’amministrazione è libera di scegliere tra più
soluzioni, tutte ragionevoli e legittime, in base a criteri di opportunità e convenienza, che sono, in
quanto tali, sottratti al sindacato di legittimità.
2.Il problema dei c.d. diritti resistenti. Negli anni ‘70 la Cassazione individuò
diritti non limitabili né estinguibili ad opera dell’amministrazione : si creò così la categoria dei
diritti non degradabili, detti anche “diritti resistenti” (a cui venivano ricondotti quei diritti che
avevano riconoscimento nella Costituzione). L’ipotesi iniziale è quella del diritto alla salute, esteso
anche al diritto all'ambiente salubre.
La presenza di diritti non limitabili e inestinguibili non è tuttavia compatibile con l’attribuzione
all’amministrazione del potere di limitarli e estinguerli. Pertanto l’affermazione del carattere
resistente di un qualsiasi diritto deve logicamente comportare l’assenza di poteri amministrativi che
ne possano determinare l’ablazione. Questa è infatti la giustificazione teorica del carattere
incomprimibile di tali diritti : si assume che l'amministrazione sia priva del potere di comprimere il
diritto soggettivo costituzionalmente garantito. Tuttavia, se tali poteri sono attribuiti
all’amministrazione, non è possibile ipotizzare l’esistenza di diritti resistenti : questo perché nella
collisione tra potere e diritto il secondo cede.
Inoltre l’attribuzione di poteri all'amministrazione è finalizzata alla cura di interessi pubblici, la cui
soddisfazione può confliggere con gli interessi che sono tutelati come diritti soggettivi privati. Il
conflitto tra poteri pubblici e diritti privati è pertanto un conflitto tra interessi pubblici e interessi
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privati : la tutela piena di questi comporta necessariamente l’impossibilità di soddisfare gli interessi
pubblici, e, viceversa.
La Cassazione ha trattato dei diritti resistenti con riferimento a un “problema di giurisdizione",
affermando che le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (giudice
dei diritti soggettivi) e non in quella del giudice amministrativo (giudice degli interessi legittimi).
Quindi, il conflitto tra diritti costituzionalmente garantiti e poteri dell’amministrazione dovrebbe
essere risolto dal giudice ordinario. Tuttavia questo non è possibile, perché la tutela del diritto
soggettivo è diversa dalla tutela dell'interesse legittimo e inoltre il giudice ordinario non ha il potere
di annullare i provvedimenti amministrativi illegittimi (può solo condannare al risarcimento del
danno o applicare misure interdittive degli interventi pubblici).
La categoria dei DIRITTI RESISTENTI non è mai stata riconosciuta dal legislatore, che anzi,
disciplinando i provvedimenti cautelari del giudice amministrativo in tema di «interessi essenziali
della persona» (come il diritto alla salute, all’integrità dell'ambiente, o ad altri beni di rilievo
costituzionale), afferma la “giurisdizione del giudice amministrativo”, negando la giurisdizione del
giudice ordinario e l’esistenza di diritti resistenti. Tuttavia la Cassazione ha
mantenuto fermo il suo orientamento. La Corte costituzionale ha preso posizione sul problema,
affermando che «non è ravvisabile alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi
esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti
costituzionalmente protetti». L’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo
comporta che : 1) sussistono poteri autoritativi dell’amministrazione che incidono sui diritti
costituzionalmente garantiti; 2) nell’esercizio di tali poteri l’amministrazione può adottare
provvedimenti che incidono su questi diritti; 3) la tutela consentita ai titolari di tali diritti è quella
tipica dell’interesse legittimo, basata sulla dimostrazione del cattivo esercizio del potere da parte
dell’amministrazione e sull’invalidità del provvedimento incidente negativamente sul diritto.
controversie si perse la possibilità di farle decidere dai Tribunali del contenzioso amministrativo
(che, con la stessa legge, erano stati aboliti). Cosicché tutti gli interessi non riconosciuti come diritti
soggettivi rimasero senza una tutela giurisdizionale. Questa situazione determinò una seconda
importante riforma, attuata nel 1889 con l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato,
denominata «per la giustizia amministrativa». Il nuovo organo doveva assicurare la tutela «contro
atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa che abbiano per oggetto un interesse legittimo di
individui o di enti morali giuridici».
L’inizio fu burrascoso, perché l’interesse non era riconosciuto nemmeno come situazione giuridica
soggettiva. I primi commentatori della legge del 1889 infatti escludevano che fosse stata creata una
nuova situazione giuridica soggettiva; meno che mai potevano pensare al riconoscimento di nuovi
diritti soggettivi, perché, ove si fosse trattato di diritti, la tutela doveva essere chiesta al giudice
ordinario, in forza della legge del 1865. Per giustificare che fosse data tutela giurisdizionale a
interessi non riconosciuti come diritti soggettivi, si usarono vari espedienti : Meucci ipotizzò che il
ricorso consistesse in un’azione popolare moderata, rispetto a cui l’interesse serviva a circoscrivere
l’ambito dei soggetti legittimati ad esercitarla; sempre Meucci costruì il ricorso come inteso a
tutelare in modo diretto l’interesse pubblico e in modo solo occasionale l’interesse del privato
ricorrente, creando la formula dell’«interesse occasionalmente protetto» (ossia protetto di riflesso,
ove coincidente con l’interesse pubblico); Ranelletti immaginò che l’interesse del privato ricorrente
fosse un vero e proprio diritto soggettivo, «compresso» dagli atti e provvedimenti
dell’amministrazione. L’«interesse legittimo» non era concepito come una situazione giuridica
soggettiva : o era un interesse irrilevante giuridicamente o si identificava con il diritto soggettivo
«compresso».
Un eminente processualcivilista, Chiovenda, all’inizio del ‘900, enunciò la tesi per cui l’’AZIONE
GIURISDIZIONALE deve essere considerata un «diritto» a sè stante, separata dal diritto soggettivo
che essa serve a tutelare; e, a dimostrazione dell’autonomia dell’azione portò ad esempio proprio
«il diritto di chiedere l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi», riferendosi al giudizio
che si svolgeva davanti alla Quarta Sezione. La tesi di Chiovenda non eleva ancora l’interesse
legittimo a situazione giuridica soggettiva, ma elimina un ostacolo importante al suo
riconoscimento come situazione giuridica soggettiva : non ci può essere alcuna situazione giuridica
soggettiva senza che ad essa sia riconosciuta tutela giurisdizionale. Su questa strada si è posta in
seguito la dottrina, sostenendo che l’interesse del privato si riduce a un “interesse processuale” (in
cui il ricorrente trova non il titolo da far valere col ricorso, ma solo la legittimazione per
proporlo) : infatti le norme che regolano l’azione amministrativa servono a tutelare l’interesse
pubblico e l’amministrazione che viola tali norme lede l’interesse pubblico; quindi il giudizio
amministrativo mira a ristabilire l’interesse pubblico leso. Il privato, come tale, non ha il titolo per
dolersi dell’eventuale violazione di norme, ma poiché il suo interesse può risentire uno svantaggio
dall’inosservanza di quelle norme, l’ordinamento si avvale di lui come dello strumento atto a
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*ART. 24 COST. : “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
*ART. 103 COST. : “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la
tutela nei confronti della P.A. degli INTERESSI LEGITTIMI e, in particolari materie indicate dalla legge,
anche dei DIRITTI SOGGETTIVI”.
*ART. 113 COST. : “Contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei DIRITTI e degli
INTERESSI LEGITTIMI davanti agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”.
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vertice del Comune siede il Sindaco, che è nominato dal Governo (dal Re) tra i consiglieri
comunali. Gli enti territoriali minori sono gerarchicamente dipendenti dallo Stato. La struttura
organizzativa di tali enti risponde al criterio dell’uniformità. L’uniformità è anche propria
dell'amministrazione dello Stato : a livello centrale troviamo i Ministeri (suddivisi in direzioni e
sezioni); a livello periferico le Prefetture e le Sottoprefetture. L’amministrazione si presenta come
un corpo compatto governato dal centro e ha carattere fortemente accentrato.
la regola del “parallelismo delle funzioni” fissata nel vecchio testo costituzionale, cioè della loro
corrispondenza alle materie di competenza legislativa (vecchio art. 118 : “Spettano alla Regione le funzioni
amministrative per le materie elencate nel precedente articolo”). Il nuovo criterio di distribuzione delle funzioni
amministrative tra enti territoriali si basa sui principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza : le funzioni amministrative «sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne
l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato» (art. 118,
1°comma).
*POTESTA’ STATUTARIA = potere di autoregolamentarsi.
*L. cost. 3 / 2001 = attribuisce alle Regioni “competenza legislativa residuale” in ordine alle proprie elezioni.
il centro di indirizzo unitario del sistema complessivo), ma le strutture amministrative degli enti
territoriali non sono più considerate amministrazioni indirette dello Stato; 2) il passaggio ad un
sistema «policentrico», ossia articolato in più centri di elaborazione di indirizzi politico-
amministrativi, facente perno sugli enti territoriali cui viene riconosciuta larga autonomia. In questo
quadro lo Stato è solo una delle componenti della Repubblica, formalmente equiparato agli altri enti
territoriali.
La prima tappa inizia con le “riforme crispine” (fine ‘800), si interrompe con il fascismo, e si
conclude con la “Costituzione del 1948”; la seconda si estende nel periodo successivo, trova il suo
pieno riconoscimento con la riforma costituzionale del 2001 (legge cost. n. 3 / 2001) ed è ancora in
corso, non essendo state pienamente attuate le nuove regole costituzionali.
Negli anni '80 dell’800 Crispi rende elettiva la carica di Sindaco nei Comuni maggiori (la riforma
venne poi estesa a tutti i comuni dal Di Rudinì); fatto ciò, Crispi abolisce la Deputazione
provinciale e rende elettiva la carica di Presidente della Provincia. Le due cariche di vertice del
Comune e della Provincia diventano così espressione dei relativi Consigli e viene rotto l’ambiguo
rapporto che intercorreva tra gli organi statali e gli organi degli enti locali. Tuttavia resta inalterata
l’ingerenza dello Stato nell’amministrazione di Comuni e Province, in quanto l’apparato centrale
conservava comunque un influente potere, che veniva esercitato attraverso i penetranti “controlli”,
non solo di legittimità, ma anche di merito, effettuati dal “Prefetto” e dalla “Giunta provinciale
amministrativa”.
La situazione non cambia granchè fino all’avvento del regime fascista, che si ispira di nuovo ai
“principi di gerarchia” e “unità dell’intera amministrazione pubblica”, governata dallo Stato. Il
Sindaco, ora denominato Podestà, torna ad essere nominato dal Governo e alla Provincia viene
preposto il Preside, carica anch’essa di nomina governativa.
Dopo la caduta del regime fascista, nel 1943, vengono ripristinati gli organi elettivi (voluti dalla
riforma Crispi), ma rimasero in vigore i precedenti e penetranti controlli.
E arriviamo così all’avvento della Costituzione del 1948 : essa contiene una norma fondamentale :
«la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5). Ma c’è di più
: l’art. 130 Cost. (oggi abrogato dalla l. cost. 3 / 2001) modifica il sistema dei controlli,
trasformando il “controllo di merito” da sanzionatorio (avente come esito l’annullamento degli atti
controllati) a collaborativo (tendente a richiedere motivatamente agli enti controllati «di
riesaminare la loro deliberazione») e affida alla Regione i controlli sugli enti territoriali minori. Con
la Costituzione si chiude la prima tappa : lo Stato non è più egemone, ma ha ancora un accentuato
predominio nei confronti delle altre amministrazioni pubbliche.
L’istituzione delle Regioni (nel 1970) è stato un passo in avanti nel cammino verso il pieno
riconoscimento dell’autonomia degli enti territoriali minori. Sia il potere statutario, sia la potestà
legislativa in alcune materie, hanno rotto il monopolio statale anche nella determinazione
dell'indirizzo politico-amministrativo. Negli anni '90 la potestà statutaria è stata riconosciuta anche
a Comuni e Province. Nel contempo sono stati ridotti i controlli statali sulle Regioni e i controlli
regionali sugli enti locali.
Il punto di arrivo si ha con la legge cost. n. 3 / 2001, che ha modificato il Titolo V della
Costituzione. L’art. 114, 2°comma recita : «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione» (in tal modo il PRINCIPIO AUTONOMISTICO viene disciplinato in modo concreto).
Esso si realizza attraverso l’attribuzione agli enti autonomi sia della “potestà statutaria”, sia di
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un’ampia “potestà regolamentare”. A prescindere dalle Regioni, che hanno anche “potestà
legislativa”, anche gli enti territoriali (Comuni, Province e le non ancora istituite Città
metropolitane) sono dotati, oltre che di “potestà statutaria”, di “potestà regolamentare” in ordine
alla disciplina della loro organizzazione e dello svolgimento delle loro funzioni.
Un’ulteriore riforma in corso è orientata verso un modello di “FEDERALISMO MODERATO”. In
attuazione del novellato art. 119 Cost., che esalta l’«autonomia finanziaria di entrata e di spesa»
degli enti territoriali, è stata conferita delega al Governo per la realizzazione del c.d. “federalismo
fiscale”, con l’obiettivo di sostituire il vecchio sistema di finanziamento (mediante versamenti
statali) con un nuovo sistema basato sul conferimento agli enti territoriali di un potere impositivo
proprio : l’obiettivo che si intende perseguire è quello di consentire agli enti territoriali di finanziare
la spesa con entrate proprie, sulla base di costi standard.
In tal modo ciascun ente ha 3 tipi di entrate : i tributi e le entrate propri, le compartecipazioni al
gettito di tributi erariali e le erogazioni del fondo perequativo . La riforma si ispira, oltre che al
principio di autonomia, anche a QUELLO DI SOLIDARIETÀ : si prevede la costituzione di un
fondo perequativo a favore dei «territori con minore capacità fiscale per abitante».
Agli enti territoriali vengono trasferiti i beni demaniali e patrimoniali dello Stato. I beni trasferiti
perdono il carattere demaniale, tranne quelli del demanio marittimo, idrico ed aereonautico. Le loro
risorse devono finanziare le funzioni pubbliche attribuite agli enti; è prevista però la possibilità di
indebitamento (ricorso alle banche, al risparmio privato, ecc.) solo per finanziare spese di
investimento, essendo però esclusa ogni garanzia dello Stato su tali prestiti.
*ART. 123 COST. = lo “statuto regionale” è approvato dal Consiglio regionale con un iter aggravato.
*STATUTO REGIONALE = regola la “forma di governo” e l’“organizzazione interna” dell’ente (è una sorta di
Costituzione regionale).
*ART. 117, 1°comma Cost. = la legge statale e quella regionale hanno gli stessi limiti.
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dei soli organismi aventi natura pubblica). La tendenza moderna è che lo Stato e gli altri enti
territoriali dismettano le vesti di operatori economici e acquistino il ruolo di regolatori del mercato;
smettano di essere produttori di servizi e si limitino a svolgere funzioni di indirizzo e sorveglianza
dei privati operatori dei vari settori. A tal fine è stata introdotta l’“Autorità indipendente”, una
struttura diretta da un organo collegiale, che opera al riparo dall’indirizzo politico del Governo,
assicurando in tal modo la massima imparzialità (ad es. l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato o l’Autorità di regolazione dei trasporti).
soggettiva gli atti compiuti (c.d. IMPUTAZIONE). Il problema è il modo in cui le amministrazioni
vengono rese “operatori giuridici”.
Il problema era risolto originariamente con il “MODELLO DELLA RAPPRESENTANZA”, per cui
l’atto giuridico compiuto da una persona fisica «produce direttamente effetto» nei confronti della
persona giuridica. Con il modello della rappresentanza si ha pertanto l’imputazione alla persona
giuridica dei soli “effetti giuridici” prodotti dagli atti compiuti dal rappresentante. Né più né meno di
ciò che accade nella rappresentanza delle persone fisiche incapaci di agire.
Il modello della rappresentanza è però parso inadeguato : 1) per la complessità della struttura
organizzativa della persona giuridica Stato, che era composta da un elevato numero di rappresentanti;
2) perché il modello della rappresentanza non riguardava tutti i “fatti giuridici”, ma solo i fatti
giuridici negoziali e limitava l’imputazione al solo effetto derivante dall'atto giuridico, e non la
estendeva all’atto in quanto tale. L’atto compiuto dal rappresentante restava atto del rappresentante e
non era trattato, quindi, come atto del rappresentato.
Per ovviare a questi inconvenienti fu quindi elaborato un diverso modello di imputazione giuridica,
quello dell’ “ORGANO”, la cui nozione fu concepita nell’ambito della “teoria organicistica dello
Stato” (cioè per risolvere il problema della capacità di agire dello Stato). Con la figura dell’“organo”
si ha un “rapporto di imputazione” più ampio rispetto all’imputazione propria del rapporto di
rappresentanza : infatti alla persona giuridica non viene trasferito solo l’effetto giuridico prodotto, ma
anche l’atto giuridico che lo produce.
Il più intenso contenuto dell’ imputazione, per cui la “persona giuridica” non è solo il soggetto nei cui
confronti si produce l’effetto, ma è anche il soggetto che è divenuto titolare (autore) dell'atto, ha fatto
descrivere il rapporto tra l’organo e la persona giuridica come “rapporto di immedesimazione
organica” (idea però da alcuni contestata). Di immedesimazione organica si può sicuramente parlare a
condizione che la nozione sia svincolata dalla sua concezione originaria, dove essa serviva ad attribuire
la capacità di agire alle persone giuridiche. L’orientamento più moderno nega infatti che le persone
giuridiche abbiano capacità di agire e afferma che esse hanno capacità di imputazione giuridica di atti.
La figura soggettiva diventa sì titolare di atti giuridici, ma non perché sia capace di compierli, ma
perché ad essa vengono attribuiti gli atti compiuti dai suoi organi.
L’idea dell’“IMMEDESIMAZIONE ORGANICA” rende a dovere la differenza tra l’organo e il
rappresentante : l’ORGANO non è un’entità soggettiva distinta dalla persona giuridica. Egli è parte
della persona giuridica che agisce. La persona giuridica infatti si compone di organi che sono formati,
a loro volta, da persone fisiche (che non agiscono in nome e per conto della persona giuridica, ma ne
sono parte integrante). L'organo è quindi inserito nel quadro organizzativo della persona giuridica e,
sotto questo profilo, si presenta come “ufficio”. L’organo, anzi, può essere tale solo in quanto
incardinato nell’ufficio e, quindi, nei limiti della competenza propria dell’ufficio. L’organo è però
necessariamente una o più persone fisiche, poichè solo la persona fisica ha l’ idoneità naturale ad agire,
a compiere atti giuridici, e solo lei, quindi, può imputare alla persona giuridica gli atti giuridici da essa
materialmente compiuti. L’immedesimazione organica fa sì che sia la “persona giuridica” ad essere
giuridicamente considerata l’autore degli atti giuridici materialmente compiuti dalla persona fisica
avente la qualità di organo.
non può sottrarsi alla responsabilità, assumendo che gli atti viziati vadano attribuiti all’organo e non a
se stessa.
Ma dire che l’organo è strumento di imputazione alla figura soggettiva non basta. Occorre anche
individuare quali atti siano oggetto di imputazione. Il problema più rilevante riguarda l’imputazione
alla persona giuridica dei meri “fatti” (e, in particolare, dei fatti illeciti). In merito, mentre si è concordi
sull’imputabilità alla persona giuridica, da parte dell’organo, di “atti precettivi” (negozi, provvedimenti
e atti normativi) e di “meri atti giuridici”, non c’è concordia a proposito dei FATTI GIURIDICI.
1) Secondo alcuni l’imputazione giuridica riguarda “tutti i comportamenti giuridicamente rilevanti”
(leciti e illeciti) e perfino fatti psicologici e di conoscenza (buona o mala fede, conoscenza o ignoranza
di circostanze, ecc.), purché siano fatti umani. 2) Secondo altri l’organo imputa alla persona solo “atti”,
e non fatti, in quanto – come affermava Giannini – “le imputazioni di fattispecie fattuali non
richiedono che il fatto sia naturalisticamente riferibile a un organo” (o, più correttamente, alla persona
fisica avente qualità di organo). La seconda tesi è preferibile dal punto di vista giuridico, per due
motivi : 1) sia perché la nozione di “organo” si riferisce solo alla figura soggettiva intesa come
operatore giuridico (ossia come soggetto, cui il diritto riconosce la possibilità di curare i suoi interessi
attraverso il compimento di “atti”); 2) sia perché per i fatti illeciti si usa la nozione di “imputabilità”,
che è diversa da quella di “imputazione” riferita al rapporto tra l’organo e la persona giuridica. Ciò
trova anche conferma nella lettera della legge : a proposito dei “fatti illeciti civili”, imputabili alle
persone giuridiche, vigono “regole generali” (artt. 2049-2054 c.c.) per tutte le persone giuridiche, o
“regole speciali” per le persone giuridiche pubbliche (ad es. art. 28 Cost.). Tali regole non hanno nulla
a che vedere con la figura dell’organo e con il rapporto di imputazione organica. La responsabilità
delle persone giuridiche connessa a “illeciti penali”, invece, è disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001.
L’imputazione dei fatti illeciti si fonda sul nesso di causalità materiale; i “fatti illeciti” non sono
estrinsecazione della soggettività giuridica, né sono riferibili al soggetto inteso come operatore
giuridico. Anche soggetti giuridicamente incapaci possono infatti essere imputati di fatti illeciti.
Compiere un fatto illecito significa compierlo materialmente; compiere un atto giuridico significa
esserne giuridicamente l’autore.
4. Organo e ufficio. Una particolare attenzione occorre dedicarla alle nozioni di ORGANO
e di UFFICIO. L’ORGANO è un centro operativo (persona fisica o collegio di persone fisiche),
attraverso cui si imputano atti ed effetti alla persona giuridica. Essere uno “strumento di imputazione”
implica che l’organo abbia una sua collocazione nella struttura organizzativa, e poiché qualsiasi
struttura organizzativa si articola in “uffici”, l’organo (considerato sotto il profilo organizzativo) deve
essere considerato un UFFICIO (cioè come un centro di lavoro). Esemplare, al riguardo, è la massima
di Giannini, secondo cui “l’ORGANO è un ufficio di imputazione”. Allora si pone un dilemma : il
“rapporto di imputazione” si radica nell’organo considerato come ufficio o nella persona fisica che è
preposta all’ufficio e che è titolare dell’organo? Il RAPPORTO DI IMPUTAZIONE corre tra la
“persona fisica titolare dell’organo” e la “figura soggettiva”.
L’ORGANO, dal punto di vista strutturale, tecnico è parte integrante della struttura organizzativa della
figura soggettiva : in quanto tale può essere inteso come “ufficio”. Dal punto di vista funzionale, esso è
invece uno “strumento di imputazione”, che si identifica perciò con la persona fisica titolare
dell’organo-ufficio. Non bisogna, quindi, confondere il RAPPORTO DI IMPUTAZIONE (che corre
tra l’organo e la figura soggettiva) con il PROFILO ORGANIZZATIVO, che è l’unico sotto cui
l’organo rileva come ufficio.
Ma quali sono gli atti compiuti dalla persona fisica che vengono imputati alla persona giuridica? La
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risposta si trova nella “delimitazione funzionale” di ciascun organo, che corrisponde all’ambito della
competenza dell’ufficio (cioè, ogni organo può imputare alla persona giuridica solo gli atti che egli
compie nell’ambito della competenza che gli spetta).
*CAPACITA’ GIURIDICA = capacità di essere titolare di diritti ed obblighi (situazioni giuridiche soggettive). Si
acquista con la nascita.
*CAPACITA’ DI AGIRE = capacità di porre in essere atti giuridici validi. Si acquista con la maggiore età.
*IMPUTARE = attribuire.
*ORGANO DI UNA PERSONA GIURIDICA = è la persona fisica o l’insieme delle persone fisiche che agisce per essa,
compiendo atti giuridici.
*PERSONA GIURIDICA = persona “ficta”, finzione che l’ordinamento usa per imputare rapporti giuridici anche a
soggetti diversi dalle persone fisiche.
*INCARDINATO = collocato.
*ORGANO = parte dell’ente. Articolazione interna dell’ente specializzata per un determinato compito che viene
attribuito alle sue competenze.
*IMMEDESIMAZIONE ORGANICA = a differenza della “rappresentanza” (dove ci sono due soggetti), evidenzia
l’esistenza di un solo soggetto. L’organo non è, nello svolgimento delle sue funzioni, diverso dalla persona giuridica. E’
riferito alla capacità di agire della persona giuridica.
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Il c.d. DOVERE D’UFFICIO, inteso come dovere degli addetti di prestare il loro lavoro nella
struttura organizzativa, non deve essere confuso però con la c.d. DOVEROSITÀ DELLA
FUNZIONE, con cui invece ci si riferisce all’azione che l’amministrazione è tenuta a
intraprendere per il perseguimento degli obiettivi prefissati. Quest’ultimo aspetto ci permette
anche di comprendere la differenza che intercorre tra il DOVERE D’UFFICIO e la figura del
MUNUS (o anche “ufficio in senso soggettivo”) : questi infatti, a differenza del titolare
dell’ufficio, è anche titolare della funzione ed è una figura soggettiva a cui è affidata la cura di un
interesse altrui, che può essere un interesse privato (tale è ad esempio la “potestà genitoriale”, che
comprende i diritti e i doveri da gestire nell’interesse dei figli minori) o un interesse pubblico (si
pensi all’attività professionale ausiliaria della funzione giurisdizionale, che viene svolta dai
“consulenti tecnici”).
Il MUNUS è qualsiasi attività da cui derivi l’attuazione di fini pubblici, esercitata da privati
(ossia da persone fisiche che non sono organi di enti statali o pubblici, ma che sono titolari di una
qualche potestà), quindi da persone fisiche investite della cura di interessi altrui. Il titolare di un
munus pubblico, pur mantenendo una natura privatistica, può adottare atti produttivi di effetti
amministrativi, anche se non perfettamente equiparabili agli atti amministrativi (tanto da escludere
per essi la giurisdizione del giudice amministrativo). Indica una funzione di pubblico interesse.
Esempi di munus publicum sono l'attività del tutore che ha la cura del minore, lo rappresenta in
tutti gli atti civili e ne amministra i beni; e l'avvocato nominato d'ufficio per la difesa della parte
ammessa al beneficio del gratuito patrocinio. Sono funzioni pubbliche attribuite ad un privato.
Dal munus va tenuto poi distinto l’OFFICIUM (“ufficio in senso oggettivo”), che è lo strumento
con cui una determinata collettività, priva di personalità giuridica (c.d. ente di fatto) riesce ad
agire giuridicamente. Ciò dimostra che l’officium, a differenza delle figure di ufficio su
analizzate, va considerato come un vero e proprio centro di imputazione, nel senso che gode di
una propria “soggettività”, in forza della quale è titolare anche di una propria legittimazione
sostanziale e processuale per la cura degli interessi affidatigli (si pensi alle rappresentanze
sindacali aziendali); interessi che, a differenza del munus, non sono estranei rispetto alla struttura
organizzativa di queste figure soggettive.
Il RAPPORTO D’UFFICIO è esteso a tutti i componenti dell’ufficio (e, dunque, oltre che al
titolare dell’ufficio, a tutti gli addetti che sono legati all’amministrazione).
Quando investe il titolare, il rapporto d'ufficio assegna anche la qualifica di “organo” : tramite il
rapporto d’ufficio la
persona fisica, che riveste quella posizione all’interno dell'ufficio, imputa gli atti che compie in capo
alla
figura soggettiva.
Il “rapporto d’ufficio” si instaura con l’ATTO DI INVESTITURA DEL TITOLARE, dopo un
procedimento di nomina o mediante un sistema di elezione. La nomina può derivare da una scelta
basata sulla fiducia, scelta a volte effettuata tra una «rosa» di aspiranti indicati dalla legge o da
un’autorità amministrativa (proposta di designazione) in base ai requisiti ritenuti più idonei per quello
specifico ufficio. Quando consegue ad un procedimento elettorale (come per i consiglieri regionali,
provinciali e comunali), la nomina investe rappresentanti del corpo elettorale.
Distinto dal “rapporto d’ufficio” è il “RAPPORTO DI SERVIZIO”, che investe chi è alle dipendenze
dell’ amministrazione pubblica (gli addetti e il titolare dell’ufficio) svolgendo
per la persona giuridica un’attività lavorativa a titolo professionale, ossia in modo
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lavori. La deliberazione si ritiene assunta quando i componenti del collegio esprimono la loro volontà,
e non quando è approvato il verbale della relativa seduta (che di solito è approvato nella seduta
successiva). La verbalizzazione integra, infatti, un’attività successiva, affidata ad un segretario, volta a
tradurre per iscritto lo svolgimento della discussione e il contenuto della decisione assunta.
In dottrina si distingue tra COLLEGI DI PONDERAZIONE, quando si riuniscono in un unico corpo
più capacità professionali, persone che prendono parte al collegio per la loro capacità di valutazione
(ed è proprio per questo che sono detti anche “collegi di valutazione”, composti da persone che, per la
loro professionalità, devono valutare fatti specifici) e COLLEGI DI COMPOSIZIONE, se la ragione
della collegialità è quella di comporre in un’unica sede interessi diversi, eterogenei. I “collegi di
ponderazione" sono composti da persone che vi prendono parte per la loro capacità di valutazione,
mentre nei “collegi di composizione” entrano a far parte i rappresentanti di interessi diversi.
I collegi di ponderazione sono perfetti; quelli di composizione sono invece collegi imperfetti : i primi
funzionano solo con la partecipazione di tutti i componenti (= plenum); i secondi possono funzionare
anche in assenza di alcuni componenti.
5.Il funzionario di fatto. Qualora il titolare dell'ufficio si trovi, nel corso del rapporto,
in situazioni di temporanea incapacità di prestare la propria attività lavorativa (ad es. incarichi fuori
sede o situazioni di carattere personale) l’ordinamento prevede, per assicurare la continuità
dell’esercizio dei compiti dell’ufficio, le due figure della SUPPLENZA e della REGGENZA. Il
supplente (che nella maggior parte dei casi è il titolare di un altro ufficio dell’amministrazione)
subentra automaticamente nella titolarità dell’ufficio al verificarsi della vacanza, senza che sia
necessario uno specifico atto di nomina. La reggenza, invece, entra in gioco solo nel caso in cui non
sia stata disposta la supplenza : in tal caso, si rende necessaria la nomina di un altro titolare
dell’ufficio, specificamente individuato secondo procedure stabilite. Però queste figure (che
regolano le ipotesi in cui il titolare dell’ufficio sia temporaneamente incapace di svolgere le sue
mansioni) non hanno nulla a che vedere con la “CESSAZIONE DEL RAPPORTO D'UFFICIO” :
quest’ultima può essere determinata da cause riguardanti la persona del titolare (ad es. morte o
impedimento permanente) o dalla cessazione del rapporto di lavoro (ad es. per scadenza dello
stesso). In quest’ultimo caso, però, sorge la necessità di assicurare il regolare funzionamento
dell’ufficio : a tal riguardo, in passato, per assicurare la continuità di funzionamento degli uffici, si
permetteva al titolare dell’ufficio di continuare a esercitare il proprio ruolo fino all’insediamento del
successore; una simile possibilità (che veniva fatta rientrare nell’ambito della prorogatio) era però
prevista solo per gli uffici a titolarità politica (ad es. i Consigli comunali e provinciali, una volta
scaduti, restano in carica fino all’elezione dei nuovi); al contrario, per gli uffici a titolarità onoraria
e per tutte le nomine di competenza parlamentare, dopo un incisivo intervento della Corte
costituzionale, il legislatore è intervenuto con una disciplina che, nel ribadire il principio per cui gli
organi amministrativi svolgono «le loro funzioni secondo il termine di durata per ciascuno di essi
previsto ed entro tale termine devono essere ricostituiti», consente, in caso di mancata
ricostituzione, al titolare scaduto di operare in regime di prorogatio per non più di 45 giorni
decorrenti dalla scadenza, adottando solo atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli urgenti e
indifferibili specificamente motivati. Al di fuori di questi confini, gli eventuali atti assunti sono
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determinare il numero e la consistenza degli uffici (ovviamente nel rispetto delle norme di legge).
Una volta stabilito il numero e la consistenza degli uffici, si deve procedere alla loro aggregazione, che può
avvenire secondo due linee di sviluppo : 1) la prima è la LINEA DI SVILUPPO VERTICALE (che si basa
sull’importanza del ruolo ricoperto dagli uffici e dei compiti loro affidati); 2) la seconda è la LINEA DI
SVILUPPO ORIZZONTALE (che si basa sulle diverse attività svolte dai vari uffici). Seguendo queste linee,
emerge una piramide, al cui interno gli uffici sono collocati secondo un “criterio di gerarchia” : si viene così a
creare un “rapporto di autorità-responsabilità” (ove l’autorità spetta agli uffici che hanno supremazia esecutiva,
mentre la responsabilità riguarda gli uffici subordinati ai primi).
Tuttavia, se è vero che ogni ufficio occupa una precisa posizione nella «linea gerarchica» (“ uffici di line ”), è
anche vero che si possono individuare anche uffici solo affidatari di compiti ausiliari (“ uffici di staff”).
A seconda poi del tipo di attività erogata possiamo distinguere tra AMMINISTRAZIONI BUROCRATICHE,
deputate all’esercizio delle funzioni pubbliche, e AMMINISTRAZIONI DAI CARATTERI AZIENDALISTICI
per l’espletamento di pubblici servizi.
La distribuzione del lavoro tra gli uffici avviene in base alla maggiore o minore rilevanza dei compiti loro
affidati (intendendosi come “compiti di maggior rilievo” quelli riguardanti le scelte sui modi e i tempi della
cura degli interessi affidati all’amministrazione competente e come “compiti di minor rilievo” quelli esecutivi).
Così viene definita ACCENTRATA la struttura in cui i compiti del primo tipo vengono assegnati agli uffici di
vertice della c.d. piramide gerarchica (detti “uffici centrali”) e DECENTRATA la struttura i cui compiti sono
assegnati agli uffici di base (detti “uffici periferici”).
Una figura soggettiva poi può presentare : 1) una STRUTTURA ORGANIZZATIVA UNITARIA (o
compatta), costituita da più uffici (a volte articolati in uffici centrali e periferici) sì da mostrare un carattere di
compattezza; questo quando svolge limitate funzioni; 2) qualora, però, sia titolare di numerose e diverse
attribuzioni, cui provvede con diverse strutture organizzative (ciascuna dotata di propri organi e di propri
uffici), l’amministrazione si presenta “DISAGGREGATA”. L’esempio principale è lo Stato che, pur essendo
una persona giuridica unitaria, si presenta come un aggregato di più strutture organizzative (i ministeri) che
esprimono ciascuno una propria attività, con i propri organi.
Le STRUTTURE si dicono, poi, “COMPIUTE” quando sono separate rispetto alle altre strutture facenti capo
ad un’organizzazione complessa (ad esempio quella statale), di cui costituiscono articolazioni organizzative e
sono idonee ad operare con propri organi. Si rinvengono di regola nelle organizzazioni disaggregate, ma sono
riscontrabili anche in quelle compatte. Esse perseguono finalità proprie, sono titolari di situazioni soggettive
proprie, esercitate attraverso organi propri (diversi sia da quelli della struttura principale nelle organizzazioni
compatte, sia da quelli delle altre strutture compiute in cui l’organizzazione complessiva si articola nelle
organizzazioni disaggregate). Si pensi alle amministrazioni statali, ove i singoli ministeri operano come figure
soggettive a sé stanti mediante propri organi, che esercitano un’attività distinta da quella di ogni altra figura
soggettiva facente capo allo Stato.
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*Incardinato = collocato
*Rapporto d’ufficio (o rapporto organico) = pubbliche funzioni svolte. E’ un rapporto non giuridico, ma organizzativo
(perché attiene alle imputazioni giuridiche dell’attività svolta dal titolare dell’organo). Infatti, l’atto compiuto dal
titolare dell’organo viene direttamente imputato all’ente. Sulla base di questo rapporto organico, la persona fisica
acquista la capacità di esercitare i poteri e le funzioni che le norme attribuiscono agli uffici delle pubbliche
amministrazioni.
*Rapporto di servizio = prestazione e retribuzione; è il rapporto di lavoro, di impiego, è un rapporto giuridico.
*Titolare dell’ufficio = o funzionario. Il funzionario è colui che è preposto all’ufficio (ha posizione di preminenza).
*Centro attivo di imputazione = è colui che imputa nel “rapporto di imputazione”.
*Vacante = privo di titolare.
*Quorum strutturale (o costitutivo) = il numero minimo degli aventi diritto che devono essere presenti a una
riunione.
*Quorum funzionale (o deliberativo) = numero di voti favorevoli minimo perché una proposta sia approvata.
*Collegi perfetti = possono deliberare validamente solo se sono presenti tutti i componenti (c.d. plenum).
*Collegi imperfetti = possono deliberare validamente anche se non sono tutti presenti (purchè sia raggiunto il
quorum strutturale).
*Carica onorifica = non prevede retribuzione e non dà effettivi poteri. E’ conferita a titolo di onore, senza gli obblighi
e i diritti inerenti.
*Funzionario di fatto = soggetto non legittimato a esercitare l’azione amministrativa.
*Prorogatio = istituto per cui i titolari degli organi possono continuare a esercitare le loro funzioni nonostante sia
scaduto il loro mandato, in attesa della nomina o dell’elezione dei successori.
Però, l’intensità di questo rapporto non è univoca : è costante quando le strutture interessate (o almeno,
quella subordinata) hanno personalità giuridica; non è costante quando nessuna delle due strutture
interessate ha personalità giuridica (o quando entrambe appartengono alla stessa persona giuridica).
Questa diversa intensità del rapporto esplica particolari effetti anche sul piano dei RIMEDI : infatti, nel
caso di rapporto costante, la struttura subordinata può chiedere la
tutela dell’interesse protetto anche in sede giudiziale; nel caso di rapporto incostante, invece, la
subordinata può ricorrere solo in via amministrativa.
Oltre alle relazioni intercorrenti tra strutture diverse, il nostro sistema disciplina anche le RELAZIONI
TRA GLI UFFICI DI UNA STESSA STRUTTURA ORGANIZZATIVA (relazioni organizzative
interne) : in questi casi, però, i rapporti assumeranno la connotazione di “potestà-soggezione” (e non di
potestà / interesse protetto). Le
relazioni organizzative, quindi, dal punto di vista della loro consistenza giuridica, sono raggruppabili
in due tipi : i rapporti POTESTÀ-INTERESSE PROTETTO e i rapporti POTESTÀ-SOGGEZIONE. Dal
punto di vista, invece, dei termini tra cui esse corrono, possono individuarsi tre tipi : 1) le relazioni tra
uffici della stessa struttura (o della stessa amministrazione), che sono dette “RELAZIONI
INFRASTRUTTURALI”; 2) le relazioni tra strutture (o amministrazioni) diverse, che danno luogo a
“RELAZIONI INTERORGANICHE” (se le amministrazioni interessate non hanno personalità
giuridica) o a “RELAZIONI INTERSOGGETTIVE” (se le amministrazioni interessate hanno
personalità giuridica).
Le relazioni interne alle singole strutture si limitano a sostanziare il rapporto di gerarchia. Le relazioni
tra amministrazioni sono “rapporti giuridici”. L’insieme delle
relazioni esistenti tra le strutture caratterizza la posizione in cui le une si collocano rispetto alle altre.
Tali posizioni relazionali danno luogo a FORMULE ORGANIZZATIVE (o modelli organizzativi) che
sono raggruppabili nella “posizione di autonomia” o di “dipendenza”.
e sono controllabili sotto il profilo della legittimità). La gerarchia è la formula organizzativa che
contiene in sé tutte le POTESTÀ DI SOVRAORDINAZIONE (indirizzo, programmazione, controllo).
Tipica della gerarchia è la POTESTÀ D’ORDINE, cioè la possibilità dell’ufficio sovraordinato di
prescrivere le modalità di comportamento cui l’ufficio subordinato deve attenersi nello svolgimento
della sua attività. Da questo potere derivano altri poteri, come : 1) quello di impartire direttive (in cui
si indicano gli obiettivi da raggiungere) all’ufficio subordinato (lasciando a questo un certo margine di
apprezzamento sulle modalità in cui realizzarli); 2) o il potere di risoluzione dei conflitti che possono
sorgere tra uffici subordinati; 3) o il potere di revoca e riforma degli atti emanati dall’ufficio inferiore.
Pertanto, dal punto di vista giuridico, con il termine “GERARCHIA” si fa riferimento ad una relazione
di sovraordinazione/ subordinazione tra uffici, in base a cui all’ufficio sovraordinato spettano poteri di
ordine (o di comando) nei confronti dell’ufficio subordinato.
La progressiva attenuazione dell’intensità del rapporto gerarchico ha spinto la dottrina a parlare di una
vera e propria “crisi della gerarchia”, da attribuire in primis all’avvento della Costituzione. L’art. 97,
2° comma, Cost., ad es., prevede che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di
competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari» : da ciò emerge non solo una
responsabilità propria del titolare dell’ufficio, diversa e distinta da quella del titolare dell’ufficio
sovraordinato, ma anche una distinzione delle sfere di competenza, il che comporta un’attenuazione
dei poteri di ingerenza dell’ufficio sovraordinato nei confronti di quello sottordinato. La distinzione
delle sfere di competenza mette in crisi il presupposto dell’identità di competenza tra uffici
gerarchicamente ordinati, necessario per dare vita a un rapporto di gerarchia. La responsabilità del
titolare di un ufficio presuppone che la competenza dell’ufficio sia distinta da quella dell’ufficio
sovraordinato. Per tali motivi c’è stato un ripensamento sulla nozione di gerarchia, che ha avuto
importanti svolgimenti anche in sede normativa : in proposito va ricordata la “riforma della dirigenza
statale” che non solo ha attribuito competenze esclusive ai dirigenti, ma ha anche attenuato i poteri
d’ingerenza del Ministro (che non ha più un potere d’ordine generale, ma solo un potere di impartire
direttive agli organi del ministero). Così la gerarchia oggi assume connotati meno intensi, che
l’avvicinano notevolmente al rapporto di direzione.
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Dal punto di vista giuridico i controlli possono essere sia INTERNI, sia INTERORGANICI,
sia INTERSOGGETTIVI e, su questa base, si distinguono i controlli interni (alla stessa
struttura) dai controlli esterni.
A seconda del loro oggetto, invece, i controlli possono essere effettuati SU SINGOLI ATTI
o SULL’INTERA ATTIVITÀ DELL’UFFICIO SOTTOPOSTO AL CONTROLLO.
A loro volta, i “controlli su singoli atti” possono essere PREVENTIVI (nel caso in cui il
controllo sia effettuato prima che l’atto produca i suoi effetti) o SUCCESSIVI (se il controllo
avviene dopo che l’atto è divenuto esecutivo).
A seconda, poi, del parametro usato per la verifica, i controlli possono essere distinti in
“CONTROLLI DI LEGITTIMITÀ” (quando il parametro di riferimento è la legge),
“CONTROLLI DI MERITO” (quando il parametro di riferimento è costituito
dall’opportunità dell’azione amministrativa) e infine “CONTROLLI DI GESTIONE” e
“CONTROLLI STRATEGICI” (che hanno come parametri l’economicità e l’efficienza
dell’attività rispetto ai risultati raggiunti).
Il sistema dei controlli era regolato, fin dall’inizio del '900, dalla “legge generale di contabilità dello
Stato”, dal “testo unico delle leggi sulla Corte dei conti” e dal “testo unico delle leggi comunali e
provinciali”, che avevano incentrato il sistema sul “CONTROLLO ESTERNO”, PREVENTIVO, e
DI LEGITTIMITÀ SUI SINGOLI ATTI (e, in particolare, quello di competenza della Corte dei
conti per gli atti delle amministrazioni statali). I controlli sugli atti dei Comuni e delle Province
erano invece di legittimità (c.d. vigilanza) e di merito (c.d. tutela) ed erano affidati al Prefetto (il
controllo sugli atti dei Comuni) e alla Giunta provinciale amministrativa (quello sugli atti delle
Province).
Le riforme degli ultimi anni hanno completamente sovvertito il disegno originario. La prima
consistente riforma dei controlli era già stata introdotta dalla Costituzione, che, da un lato, aveva
ridotto il “CONTROLLO DI MERITO” a una semplice richiesta di riesame da parte degli enti di
controllo agli enti controllati e, dall'altro, aveva affidato i controlli a organi a composizione tecnica,
a garanzia della loro imparzialità. L’assetto appena delineato aveva resistito fino agli anni '90.
Dopodiché è stato definitivamente abolito, dapprima, il “controllo di merito”; e poi anche il
“controllo di legittimità” è stato eliminato con l’abrogazione degli artt. 125, 1° comma e 130 Cost.
ad opera della legge cost. 3 / 2001.
Ad oggi CONTROLLI PREVENTIVI DI LEGITTIMITÀ ad effetto impeditivo dell’efficacia si
esercitano nei soli confronti degli «atti del Governo», in base all’art. 100, 2°comma Cost., che
attribuisce alla Corti dei conti il relativo potere.
Così, per effetto delle recenti riforme, si è compiuto il passaggio da un SISTEMA BASATO SUI
CONTROLLI DI LEGITTIMITÀ, ESTERNI E SU SINGOLI ATTI, ad un SISTEMA INCENTRATO
SU CONTROLLI INTERNI, aventi ad oggetto non più i singoli atti, ma L’INTERA ATTIVITÀ e
come parametro non la conformità alla legge, ma L’EFFICIENZA GESTIONALE DELL’ENTE
CONTROLLATO. Vediamo ora le tipologie di
“CONTROLLI INTERNI” in vigore :
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Sia alla delegazione che all’utilizzazione degli uffici si può far ricorso solo in presenza di
un’espressa disposizione di legge.
*Art. 125 Cost. = CONTROLLO SUGLI ATTI REGIONALI. Recitava : “Il controllo di legittimità sugli atti amministrativi
della Regione è esercitato da un organo dello Stato. La legge può in determinati casi ammettere il controllo di merito, al
solo effetto di promuovere, con richiesta motivata, il riesame della deliberazione da parte del Consiglio regionale”. E’
stato abrogato dalla L. cost. 3 / 2001.
*Art. 130 Cost. = CONTROLLO SUGLI ATTI DEGLI ENTI LOCALI. Recitava : “Un organo della Regione esercita il
controllo di legittimità sugli atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali . In casi determinati dalla legge può
essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro
deliberazione”. E’ stato abrogato dalla L. cost. 3 / 2001.
*Art. 100, 2°comma Cost. = “La Corte dei conti esercita il “controllo preventivo di legittimità” sugli atti del Governo, e
anche “quello successivo” sulla gestione del bilancio dello Stato”.
- CAPITOLO 5. L’ORGANIZZAZIONE
AMMINISTRATIVA -
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La dottrina ha poi individuato dei “criteri sostanziali”, che però si riferiscono al profilo
funzionale dell’ente : nel senso che l’ente può considerarsi “pubblico” solo se la sua attività è
diretta al perseguimento di un interesse collettivo. Muovendo da queste considerazioni, la
dottrina ha così individuato i caratteri essenziali affinchè un ente possa essere considerato
“pubblico”; essi sono :
dallo Stato, dalla Regione o dall’ente locale per perseguire un determinato interesse
pubblico) dagli enti pubblici economici (creati per lo svolgimento di attività economiche e
operanti, a differenza di quelli non economici, con atti di diritto privato); 3) sotto il
PROFILO DELLA COMPETENZA si distingue, poi, tra amministrazione diretta (formata
da organi le cui attività è imputata direttamente all’ente per cui agiscono) e amministrazione
indiretta, in cui un ente maggiore si serve per il perseguimento dei propri fini di altri
soggetti pubblici, che si pongono in una posizione di strumentalità rispetto al primo (si
pensi, ad es., all’istruzione scolastico-universitaria, in cui il Ministero persegue i propri
obiettivi attraverso l’opera di scuole e università).
avvalgono, per l’esercizio delle loro funzioni, della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Infine al ministero possono essere collegate una o più AGENZIE. Le agenzie sono strutture
che svolgono attività tecniche di interesse nazionale. E’ loro riconosciuta un’autonomia
statutaria, organizzativa, contabile e gestionale, ma esse sono comunque sottoposte ai
“poteri di indirizzo e di vigilanza” del ministero competente (del quale sono un vero e
proprio braccio operativo per le attività tecniche), nonché ai “poteri di controllo” della Corte
dei Conti. Al vertice dell’agenzia c’è un direttore generale, affiancato da un comitato
direttivo composto da 3 dirigenti. Tra le Agenzie presenti nel nostro ordinamento,
particolare importanza rivestono le “Agenzie fiscali”, dotate di personalità giuridica di
diritto pubblico. Alle agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, Agenzia delle dogane, Agenzia
del territorio e Agenzia del demanio), che contano articolazioni regionali, sono attribuite
funzioni riguardanti : 1) «le entrate tributarie erariali» (AGENZIA DELLE ENTRATE); 2)
«i servizi relativi all’amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei diritti doganali»
(AGENZIA DELLE DOGANE); 3) «i servizi relativi al catasto e quelli relativi alle
conservatorie dei registri immobiliari, col compito di costituire l’anagrafe degli immobili
esistenti sul territorio nazionale» (AGENZIA DEL TERRITORIO); 4) «l’amministrazione
dei beni immobili dello Stato, col compito di valorizzarne l’impiego» (AGENZIA DEL
DEMANIO).
*Questore : a capo della polizia di Stato. La questura è l’ufficio della Polizia di stato alle dipendenze del Ministero
dell’Interno. Si trova in Provincia (mentre nei Comuni abbiamo i commissariati).
*Prefettura : è retta da un Prefetto. La Prefettura è un’articolazione territoriale del Ministero dell’Interno; è la
rappresentanza locale dell’esecutivo, del governo sul territorio della provincia. Il questore invece è il capo della polizia.
Il prefetto può disporre dell’aiuto di tutte le forze armate. Il Questore è un organo OPERATIVO, mentre il Prefetto è un
organo POLITICO. Il Prefetto in ambito provinciale rappresenta il Governo nel suo complesso, ed esercita funzioni che
possono riguardare tutti i settori dell'amministrazione dello Stato. Dipende dal Ministero dell'Interno (gerarchicamente),
mentre dal punto di vista funzionale egli è di volta in volta subordinato al Ministero competente nella materia trattata.
E’ Autorità provinciale di Pubblica Sicurezza (la funzione più importante) ed è responsabile della tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblica nella provincia. Per questo viene costantemente informato dal Questore e dal Comandante
provinciale dei Carabinieri e a sua volta informa il Ministero dell’Interno.
La differenza sostanziale è questa : spetta al Prefetto determinare l'indirizzo generale e gli obiettivi delle attività per la
tutela della sicurezza pubblica.
Il prefetto individua gli obiettivi. Al questore poi è attribuito il compito di determinare il modo per raggiungerli.
territoriali in cui si snodano alcuni Ministeri, nonché le Agenzie fiscali. Con questo meccanismo,
infatti, si attua un “decentramento burocratico degli enti che operano sul territorio nazionale”. A
seconda delle attribuzioni loro devolute, si distinguono “ORGANI A COMPETENZA
GENERALE”, che rappresentano lo Stato nella sua totalità, esercitando funzioni di rappresentanza
governativa (come, ad es., le prefetture - UTG) e “ORGANI A COMPETENZA SPECIALE”, che
svolgono specifiche funzioni statali, riguardanti singoli settori (ad es. pubblica sicurezza) su una
frazione di territorio.
Il CONSIGLIO DEI MINISTRI è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri (art.
92 Cost.), che hanno il compito di determinare la politica generale del Governo, fissando
l’indirizzo politico-amministrativo del Paese, nonché la guida politica, normativa e
finanziaria del Governo. Esso si avvale, per il perseguimento delle sue funzioni, di un
Ufficio di segreteria diretto dal “Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio”.
I COMITATI DEI MINISTRI sono composti esclusivamente da ministri, che svolgono
funzioni istruttorie e consultive nei confronti del Governo. Tra questi, ad esempio, c’è il
“Consiglio di Gabinetto”, i cui membri sono nominati dal Presidente del Consiglio per
aiutarlo nei suoi compiti.
I COMITATI INTERMINISTERIALI sono soggetti di raccordo a composizione mista, in
quanto ne fanno parte ministri, esperti e rappresentanti delle amministrazioni di volta in
volta interessate. Si tratta di organi collegiali non necessari del Governo, che possono avere
una “funzione consultiva”, se preparano le deliberazioni del Consiglio dei ministri, o una
“funzione deliberativa” nei casi in cui ex lege possono sostituirsi allo stesso Consiglio nelle
sue deliberazioni. Essi sono 3 : C.I.P.E. (Comitato interministeriale per la programmazione
economica), C.I.C.R. (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) e C.E.S.I.S.
(Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza). Il C.I.P.E. svolge funzioni
di coordinamento in materia di programmazione e di politica economica nazionale, nonché
di coordinamento della politica nazionale con le politiche comunitarie. Il C.I.C.R. ha il
compito di vigilare sulla tutela del risparmio e sull’esercizio del credito.
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*Consiglio di Gabinetto = è un consiglio politico che consente consultazioni più rapide, poi sottoposte al vaglio del
Consiglio dei Ministri. E’ come se fosse un Consiglio dei Ministri ristretto (Presidente del Consiglio e alcuni ministri), che
elabora tematiche che poi sono sottoposte al Consiglio dei Ministri al completo.
CNEL, Consiglio di Stato e Corte dei conti. Accanto agli elementi di raccordo
esterni ai ministeri completano il quadro gli “ORGANI AUSILIARI”, che hanno funzioni
consultive e di controllo sull’attività delle pubbliche amministrazioni. Essi sono :
il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL ; art. 99 Cost.), istituito nel 1957.
Esso è un organo collegiale di 65 membri, composto da esperti e rappresentanti delle
categorie produttive con “funzione di iniziativa legislativa” (limitatamente alle materie di
propria competenza), e “consultiva”. È un organo consultivo del Governo, delle Camere e
delle Regioni, e ha diritto all’iniziativa legislativa, limitatamente alle materie di propria
competenza (le quali sono la legislazione economica e sociale). Con riferimento alla
“funzione consultiva”, il CNEL emette pareri, che nella maggior parte dei casi sono
facoltativi, fatta eccezione per la relazione previsionale e programmatica che il Ministro
dell’economia e delle finanze deve sottoporre in via preventiva al Consiglio, prima
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strategico).
La Corte svolge anche compiti tesi a garantire il controllo sulla copertura economica delle
leggi di spesa, per garantire il rispetto degli equilibri finanziari e dei vincoli di bilancio. Gli
esiti di questi controlli sono espressi in una relazione trasmessa al Parlamento e redatta con
cadenza quadrimestrale sulla copertura di spesa delle leggi adottate nel periodo. Essa è
competente anche in merito alla certificazione finanziaria dei contratti collettivi di lavoro.
Quanto, invece, alle “funzioni giurisdizionali”, la Corte dei Conti ha competenza nei giudizi
di conto (giudizi sui conti degli agenti contabili), nei giudizi di responsabilità dei contabili e
in materia pensionistica” (riguardo alla sussistenza del diritto alla pensione ed al suo
ammontare).
Completa il quadro, infine, l’Avvocatura dello Stato, che fa capo al “Segretario generale
della Presidenza del Consiglio dei ministri” e ha il compito di provvedere alla tutela legale
delle amministrazioni dello Stato. Essa è articolata in “Avvocature distrettuali” a livello
regionale, ed è composta da avvocati dello Stato e da personale amministrativo. Al vertice
dell’organo è posto l’Avvocato generale.
chiamata a regolare), la caratteristica propria del modello è rappresentata dalla “titolarità di poteri
normativi, esecutivi e di soluzione dei conflitti”. Tra le amministrazioni indipendenti ricordiamo
inoltre la “Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali” (che ha il compito di valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il
contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati) e l’ “Autorità per l’energia elettrica e il gas”, l’ “Autorità di regolazione
dei trasporti” e la “CONSOB” (Commissione nazionale per le società e la Borsa, la cui attività è
rivolta alla tutela degli investitori e del mercato mobiliare italiano).
8. Gli enti pubblici. Gli “ENTI PUBBLICI” sono quei soggetti creati secondo norme di
diritto pubblico per il perseguimento di determinati fini pubblici. Il settore degli enti pubblici è
caratterizzato da una costante mutevolezza, accentuata dall’esigenza del legislatore di operare un
suo riordino, sia per ragioni di semplificazione che di contenimento della spesa. Di estremo
interesse sono le previsioni della legge n. 70 / 1975 di soppressione degli enti inutili (c.d. legge sul
parastato). La legge individuava i c.d. “enti necessari” (il “parastato”), come l’INPS e l’ACI, per cui
era previsto il mantenimento in vita (attraverso il loro inserimento in un apposito elenco), in quanto
essenziali, poichè svolgevano funzioni strumentali all’attività statale. Accanto agli enti necessari
erano poi individuati quegli “enti non soggetti alla legge sul parastato”, per i quali non era stato
predisposto un elenco dettagliato, essendosi il legislatore limitato a rinviare agli statuti di specie,
cioè alle rispettive norme di disciplina (enti pubblici economici, enti locali territoriali, Camere di
commercio) e “gli altri enti pubblici”, cioè quegli enti che, non considerati necessari, né a statuto di
specie, continuavano ad esistere come enti privati, senza alcun finanziamento statale. Sempre nel
quadro della legge n. 70/1975 erano poi individuati, in via residuale, i c.d. «enti inutili», cioè quegli
enti, non ricompresi nelle categorie menzionate, ritenuti non meritevoli di sopravvivere anche se
autofinanziati e che, pertanto, sono stati soppressi.
Un cambiamento decisivo nel senso del riordino degli enti pubblici si ha negli anni '90, quando, da
un lato, si avvia un serrato percorso di privatizzazione, e dall’altro si afferma la tendenza ad allocare
le funzioni non più in modo accentrato, ma in capo agli enti più vicini alla collettività
(decentramento amministrativo). Il nucleo centrale di questa riforma, che va rintracciato nelle c.d.
leggi Bassanini, mira a garantire sia la semplificazione dell’azione amministrativa sia la
realizzazione di una forma accentuata di federalismo amministrativo. Le “leggi Bassanini” (dette
anche “leggi sulla semplificazione amministrativa”) sono : la L. 59 / 1997 (legge Bassanini semel) ;
L. 127 / 1997 (Bassanini-bis); L. 191 / 1998 (Bassanini-ter) e la L.50 / 1999 (Bassanini – quater).
La prima legge Bassanini riguarda propriamente la semplificazione e il decentramento
amministrativo (Delega al Governo per il conferimento di funzioni alle Regioni e agli enti locali); la
seconda lo snellimento dell’attività amministrativa; la terza contiene alcune modifiche e
integrazioni delle due leggi precedenti; la quarta riguarda la delegificazione.
Il percorso di semplificazione così avviato ha trovato poi un ulteriore sviluppo nella riforma del
Titolo V della Costituzione con la legge cost. n. 3 / 2001, con cui l’organizzazione complessiva
assume un assetto federale, e con la c.d. “legge taglia enti” del 2008, con cui sono stati soppressi gli
enti aventi una dotazione organica (= il personale) inferiore alle 50 unità.
In particolare la legge n. 59 / 1997 (legge Bassanini) ha delegato al Governo l’emanazione di
decreti legislativi per : 1) il riordino degli enti pubblici operanti in settori diversi dall’assistenza e
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*Parastato = è il complesso degli enti soggetti allo “statuto sul parastato”, contenuto nella L. 70 / 1975, che non ha
definito questi enti, ma ha elencato 7 categorie di enti sottoponibili alla disciplina sul parastato, dichiarando tali enti
“necessari”.
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produzione di beni e servizi, sono la figura cardine attraverso cui si realizza l’intervento pubblico
nell’economia. Si tratta di enti pubblici dotati di una propria “personalità giuridica”, di un proprio
“patrimonio” e di proprio “personale dipendente” (che, a differenza di quello degli altri enti
pubblici, è soggetto a un rapporto di impiego di diritto privato) aventi ad oggetto l’esercizio di
un’impresa commerciale. La connotazione privatistica non inficiava, però, i forti legami
pubblicistici, giacchè gli organi di vertice dell’ente, cioè il Presidente e il Consiglio di
amministrazione, erano nominati dal Ministero competente nel settore in cui l’ente svolgeva la
propria attività. Ministero che, tra l’altro, conservava un “potere di indirizzo” e “vigilanza”
sull’attività dell’ente. L’ente pubblico che gestiva l’impresa aveva la qualità di imprenditore e
un’organizzazione assimilabile alla stessa impresa : il Presidente e il Consiglio di amministrazione.
Il primo ente pubblico gestore di un’impresa fu l’INA, l’ “Istituto nazionale delle assicurazioni”,
istituito nel 1912 per creare una sorta di monopolio pubblico nel settore delle assicurazioni sulla
vita. Dopo la grande crisi economica del 1929 il fenomeno della partecipazione pubblica (cioè
dell’acquisizione da parte dello Stato di quote di partecipazione in società private) si è esteso
notevolmente. La crisi del 1929 infatti mise in seria difficoltà il sistema bancario, poiché le banche
detenevano ampi pacchetti azionari delle società che gestivano le imprese manifatturiere, che erano
affette da crisi di sovrapproduzione; di conseguenza, il dissesto di queste finì per coinvolgere tutto il
sistema bancario, esposto al rischio di non recuperare i crediti erogati alle imprese. Quindi, nel 1933
viene costituito l’ IRI (“Istituto per la ricostruzione industriale”), che acquisì i pacchetti azionari
delle imprese private in crisi detenuti dalle banche e diede avvio al ripianamento dei passivi delle
società. L’IRI divenne così una holding (cioè una società finanziaria, un ente di gestione, con un
“potere di direzione” e “controllo” su una gran quantità di imprese private). L’IRI era una holding
in cui le varie imprese possedute dallo Stato furono raggruppate all’interno di holding di settore
(altrettante società finanziarie in comando dell’IRI) per ogni gruppo di attività produttiva. Negli
anni ’60 l’IRI risultava composta da 6 holding di settore : FIMECCANICA nel settore meccanico,
FINELETTRICA in quello dell’elettricità, FINCANTIERI in quello cantieristico, FINMARE in
quello del trasporto marittimo, FINSIDER in quello siderurgico e STET nel settore delle
telecomunicazioni. Fuori dalle holding di settore rimasero, invece, il settore del trasposto aereo
(l’Alitalia), quello radio-televisivo (la Rai) e quello delle autostrade.
L’IRI divenne, quindi, una struttura avente la forma di un ente pubblico, ma la sostanza di una
società finanziaria (cioè, di una società che non svolgeva alcuna attività produttiva, ma deteneva il
capitale di imprese produttive); sul modello dell’IRI nel 1953 venne creato un altro ente pubblico
economico : l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), sotto cui furono raggruppate le società a
partecipazione pubblica operanti nel settore degli idrocarburi. I moduli organizzatori dell’IRI e
dell’ENI si articolavano, dunque, su diversi livelli : il primo, in cui erano collocate le società per
azioni operanti sul mercato; al secondo livello erano collocate le società capogruppo nei vari settori;
al terzo gli enti di gestione (IRI ed ENI), cui spettavano la direzione e il coordinamento dell’azione
imprenditoriale e finanziaria dei gruppi. Trattandosi comunque di soggetti a partecipazione
pubblica, essi dovevano necessariamente operare secondo direttive pubblicistiche impartite dagli
organi statali - il “CIPE” e il “Ministero per le partecipazioni statali”.
L’impresa pubblica, nonostante il processo di privatizzazione, non è scomparsa totalmente dal
panorama organizzativo : in sede comunitaria le IMPRESE PUBBLICHE sono definite come quelle
«imprese su cui le autorità pubbliche possono esercitare un’influenza dominante perché ne hanno
la proprietà o hanno in esse una partecipazione finanziaria. L’INFLUENZA DOMINANTE è
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* IRI = ente pubblico economico, che rispondeva al Ministero delle Partecipazioni Statali. L’IRI non fu privatizzato, ma
smembrato e liquidato e le sue aziende operative vendute. Tra il 1992 ed il 2000 l’IRI vendette partecipazioni e rami
d'azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di miliardi e miliardi di lire.
*ENTI PUBBLICI ECONOMICI = particolare categoria di ente pubblico che opera non in regime di diritto amministrativo
bensì di diritto privato. Tra questi ricordiamo l'INA (1912), l'Iri (1933), l’Eni (1953), l'Enel e le Ferrovie dello Stato (1985).
Questo tipo di ente, essendo separato dall’apparato burocratico della pubblica amministrazione italiana, può adattarsi più
facilmente ai cambiamenti del mercato, anche perché tali enti hanno ad oggetto esclusivo o principale l'esercizio di
un'impresa commerciale e, inoltre, devono iscriversi nel “registro delle imprese”. Essi infatti non fanno parte della P.A.
italiana, ed il rapporto d'impiego del personale presso tali enti è di diritto privato. Ad ogni modo sono spesso legati
alla pubblica amministrazione italiana, in quanto gli organi di vertice sono nominati dai Ministeri competenti per il settore
in cui opera l’ente; ad essi spetta un potere di indirizzo generale e di vigilanza.
Spesso gli enti pubblici economici sono il passaggio intermedio nella trasformazione di un’azienda autonoma in
una società per azioni. Per questi motivi vengono classificati come enti pubblici strumentali in quanto agiscono secondo
gli indirizzi e sotto il controllo di un organo dello stato per svolgere funzioni ausiliarie. Gran parte di essi operavano
come holding di controllo di varie società. Le società controllate, pur avendo la forma privatistica della società per azioni,
erano per lo più possedute totalmente dallo Stato o dagli enti pubblici economici.
*IMPRESA PUBBLICA = è un'impresa il cui capitale o patrimonio è conferito in tutto o in parte da un soggetto pubblico,
ossia dallo stato o altri enti pubblici. Le imprese pubbliche possono essere create direttamente dallo stato o altri enti
pubblici oppure possono nascere come imprese private successivamente acquistate dal soggetto pubblico. L’impresa
pubblica può essere esercitata : 1) da un'amministrazione pubblica con i propri organi; 2) da un’ azienda autonoma; 3)
da un apposito ente pubblico (sono quelli che in Italia prendono il nome di enti pubblici economici)
patrimoniale e che devono operare in vista del perseguimento del fine stabilito dal fondatore. Il
patrimonio, quindi, è vincolato allo scopo. Uno scopo che può coincidere in parte con gli scopi
istituzionali degli enti pubblici fondatori (ministero, Regione, Provincia, Comune) e che deve essere
altruistico, non di lucro e di pubblica utilità. La fondazione, disciplinata dal codice civile, si
caratterizza per la presenza di amministratori vincolati al perseguimento dello scopo che viene
assegnato dall’ente fondatore nell’atto di costituzione della fondazione. Sebbene la realtà conosca
fondazioni in cui lo scopo altruistico implica l’esercizio di attività imprenditoriali, non sussiste, per
questo, l’automatica attribuzione della qualità di imprenditore commerciale alla fondazione. La
Cassazione ha chiarito, in merito, che : “le Fondazioni possono perseguire i propri fini anche
svolgendo attività imprenditoriali, a condizione che l’attività imprenditoriale sia : 1) strumentale
alla realizzazione degli scopi istituzionali delle fondazioni; 2) esercitata in via accessoria rispetto
alla loro attività principale” (si pensi all’attività editoriale svolta da una fondazione culturale).
Un settore in cui la presenza della fondazione è assai marcata è quello creditizio, in cui il processo
di privatizzazione ha reso necessaria la creazione di apposite fondazioni bancarie per facilitare la
privatizzazione degli enti pubblici creditizi. A partire dai primi anni 2000 si è poi assistito a un
ampliamento dei settori in cui il legislatore ha previsto la possibilità di creare fondazioni (ad es., la
sicurezza pubblica e l’edilizia popolare).
Accanto alle fondazioni bancarie, un ruolo di primo piano è rivestito dalle “SOCIETÀ
ORGANISMI DI ATTESTAZIONE” (S.O.A.), che sono degli organismi attestatori e certificatori,
soggetti che devono attestare la qualità delle imprese potenziali contraenti della pubblica
amministrazione : organismi certificatori che hanno una natura giuridica privata, il cui scopo è il
rilascio di attestazioni di qualità volte a garantire il possesso, da parte delle imprese, dei requisiti
tecnici e finanziari necessari ad assicurare un determinato livello di qualità nell’esecuzione
dell’appalto. Le S.O.A. possono svolgere la propria attività solo mediante autorizzazione rilasciata
dall’Autorità di vigilanza per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Tale autorizzazione
serve a rendere credibili le S.O.A.
Dal punto di vista strutturale, i requisiti che gli organismi di attestazione devono possedere sono : 1)
la formula societaria (s.p.a.), la cui denominazione sociale deve comprendere espressamente la
locuzione «organismi di attestazione»; 2) la sede nel territorio italiano; 3) un capitale sociale pari a
500 milioni di euro.
A fronte della natura privatistica di queste società, che rilasciano attestazioni di garanzia ai propri
clienti in virtù di rapporti contrattuali e dietro il pagamento di un corrispettivo, l’attività da esse
svolta ha una natura pubblicistica (in quanto si tratta di un’attività di certificazione posta a garanzia
della pubblica fede). Proprio per questo è attribuito all’Autorità : 1) un potere di vigilanza, da
esplicarsi tanto sui soggetti quanto sugli atti da essi emanati (e che si estende fino al loro
annullamento); 2) e un potere sostitutivo nei confronti della S.O.A., che può essere esercitato da
parte dell’Autorità in presenza di due presupposti : l’indicazione dell’atto da adottare e l’inerzia
della S.O.A.
13.Gli enti territoriali e locali. Un ruolo di primo piano nel sistema delle pubbliche
amministrazioni spetta alle AUTONOMIE LOCALI e REGIONALI (Regioni, Città metropolitane,
Comunità montane, Province e Comuni). Il nuovo art. 114 Cost. ha riconosciuto pari dignità
costituzionale a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato come elementi costitutivi
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della Repubblica. L’idea base della legge cost. n. 3 / 2001 è stata quella di portare a compimento la
riforma avviata con il decentramento amministrativo. Il vecchio art. 114 Cost. (anteriore alla l. cost.
3 / 2001), invece, affermava che «la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni ». Nel
nuovo testo dell’art. 114 la prospettiva viene completamente invertita : «la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» e alle autonomie
locali viene riconosciuto un ampio grado di “autonomia”. Inoltre nell’art. 117, comma 2 Cost. la
potestà legislativa statale viene circoscritta alle funzioni fondamentali degli organi di governo (art.
117, 2°comma, lettera p) : “Lo Stato ha legislazione esclusiva per quanto riguarda la legislazione
elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane”), lasciando alle leggi regionali e alla potestà statutaria e regolamentare degli enti
locali l’allocazione (= distribuzione) delle funzioni amministrative di Comuni, Province e Città
metropolitane. Con la riforma del Titolo V gli enti locali hanno funzioni proprie, che trovano il loro
fondamento direttamente nella Costituzione, o sono destinatari di un conferimento di funzioni da
parte dello Stato o della Regione seguendo uno schema allocativo fra i diversi livelli di governo
ispirato al PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ.
La legge 148 / 2011. Il legislatore ha di recente inciso sulla struttura degli enti locali e con
la L. 148 / 2011, ai fini di un contenimento della spesa pubblica, ha statuito, per ciò che riguarda le
Regioni, la riduzione del numero dei consiglieri regionali e una riduzione degli emolumenti previsti
in favore dei consiglieri regionali. Inoltre, la stessa legge ha previsto anche l’istituzione di un
“collegio di revisori dei conti” per le Regioni, che è chiamato a vigilare sulla regolarità gestionale
ed economico-contabile dell’ente.
Di maggiore impatto sono le disposizioni relative ai Comuni e alle Province : per queste ultime, a
parte la previsione della riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori, la riforma incide
pesantemente sulla fisionomia dei piccoli comuni. Si prevede infatti che i Comuni con popolazione
pari o inferiore ai 1.000 abitanti devono esercitare obbligatoriamente le funzioni amministrative e i
servizi pubblici di spettanza comunale in forma associata con altri comuni con popolazione pari o
inferiore a 1000 abitanti, mediante un’“UNIONE DI COMUNI”. La popolazione complessiva
risultante dall’unione deve essere pari ad almeno 5.000 abitanti, (a meno che i Comuni interessati
non appartengano ad una Comunità montana, nel qual caso il numero di abitanti deve essere pari a
3000). Gli organi dell’unione municipale sono il “Consiglio” o assemblea municipale (composto
dai sindaci dei Comuni costituenti l’unione municipale), il “Presidente”, eletto dall’assemblea
municipale fra i sindaci componenti il consiglio, e la “Giunta”, nominata dal Presidente e composta
dal Presidente e da assessori scelti tra i sindaci (= cioè tra i membri dell’assemblea municipale). Il
Consiglio ha le stesse competenze riservate al consiglio comunale (con riferimento, ovviamente,
agli ambiti riservati all’unione) e deve adottare, a maggioranza assoluta dei propri componenti, lo
statuto. La Giunta esercita le stesse competenze delle giunte comunali. Invece, gli organi di
governo dei singoli Comuni facenti parte dell’unione sono il “Consiglio” (cui competono le
funzioni normative in riferimento alle attribuzioni non esercitate mediante l’unione) e il “Sindaco”,
eletto a suffragio universale e diretto (quindi non c’è la giunta).
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Occorre ora soffermarci sul POTERE NORMATIVO che il nostro ordinamento attribuisce a questi
enti : al riguardo, bisogna distinguere tra POTESTA’ LEGISLATIVA delle Regioni e POTESTA’
NORMATIVA degli enti locali.
*funzioni fondamentali = sono individuate dalla legge statale anche nelle materie di competenza legislativa
regionale. Praticamente se sono funzioni conferite, lo Stato può conferire funzioni agli enti locali nelle
materie di propria competenza legislativa e la Regione anche (possono conferire funzioni nelle materie di
propria competenza legislativa). Invece, per le funzioni fondamentali (che vengono determinate solo dallo
Stato ex art. 117, 2°comma Cost., lo Stato può attribuire queste funzioni agli enti locali anche attingendo a
una materia di competenza regionale). Cioè per le funzioni conferite si rispetta il “riparto di competenza
materiale”.
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Oltre che nel settore delle attività produttive, lo sportello unico ha trovato applicazione anche in
altri settori, come quello previdenziale (sportello unico previdenziale), dell’immigrazione (sportello
unico per l’immigrazione) e dell’edilizia (sportello unico per l’edilizia).
*SPORTELLO UNICO = lo “sportello unico delle attività produttive” (S.U.A.P.) ha offerto alle imprese la possibilità di
iniziare le proprie attività economiche evitando iter amministrativi complessi. E’ uno strumento che mira a coordinare tutti
gli adempimenti richiesti per la creazione di imprese. Esso è stato istituito per semplificare le procedure amministrative.
E’ stata così conferita al Comune la competenza di emettere gli atti autorizzativi nei confronti di coloro che formulano
istanze per l’apertura di impianti produttivi e si è stabilito : 1) il ricorso all’autocertificazione; 2) il “silenzio-assenso” nel
caso di inutile decorso dei termini per il rilascio degli atti; 3) il ricorso alla “conferenza di servizi” nel caso in cui non venga
attivata la procedura di autocertificazione e qualora il progetto contrasti con le previsioni di uno strumento urbanistico.
Il legislatore ha fatto confluire in un unico procedimento, gestito dal Comune, la realizzazione di impianti produttivi.
Nel caso in cui si segua il procedimento con autocertificazione, l’impresa presenta tutta la documentazione (corredata
dall’autocertificazione, redatta da professionisti abilitati, che devono attestare la conformità del progetto alle normative
vigenti in materia urbanistica, di sicurezza degli impianti e di tutela sanitaria e ambientale). Il responsabile della struttura,
ricevuta la domanda, compie le verifiche documentali, accerta la veridicità delle dichiarazioni e la conformità del progetto
e trasmette copia della domanda alle Regioni e ai Comuni interessati ed entro un certo termine dalla presentazione della
domanda il procedimento si chiude; qualora, poi, all’imprenditore non venga data alcuna risposta, vige il principio del
silenzio-assenso, col conseguente rilascio dell’autorizzazione.
*SPORTELLO UNICO EDILIZIA (S.U.E.) = è uno sportello rivolto a tutti i cittadini che nel Comune vogliono realizzare un
intervento edilizio.
RIASSUMENDO = Il nuovo art. 117 Cost. in primo luogo introduce la distinzione tra “legislazione
esclusiva” (o primaria) e “concorrente” (o ripartita), riservando alla potestà legislativa esclusiva dello Stato
alcune materie elencate nel 2°comma (cioè legifera solo lo Stato).
La legislazione concorrente, prevista al 3°comma, è impostata sulla formula secondo cui, nelle materie
riferite a tale tipo di legislazione, allo Stato spetta fissare i principi fondamentali, mentre tutto il resto della
legislazione è affidato alle Regioni.
Prima della riforma le materie di competenza delle Regioni erano elencate tassativamente dalla Costituzione;
attualmente la legge di revisione del Titolo V, assumendo un’impostazione tipica degli ordinamenti federali,
provvede invece ad indicare le materie in cui lo Stato ha potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva),
attribuendo alle Regioni la potestà su tutte le materie non espressamente riservate alla legislazione dello
Stato (art. 117, 4°comma : potestà legislativa esclusiva delle Regioni o residuale). Anche le Regioni, così,
hanno una potestà legislativa primaria (= esclusiva delle Regioni), non limitata dai principi fondamentali
della legislazione statale, ma solo da quelli derivanti dalla Costituzione, dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali (art. 117, 1°comma). Si attua così un’equiparazione delle due potestà
legislative, statale e regionale, poichè rispetto ad entrambe vigono gli stessi limiti.
Il secondo elemento riguarda le funzioni amministrative. La disciplina costituzionale delle funzioni
amministrative regionali precedentemente era retta dal c.d. “principio del parallelismo” (vecchio art. 118) :
alle Regioni spettavano tutte le competenze amministrative nelle materie oggetto della loro potestà
legislativa concorrente. Era poi previsto che le Regioni esercitassero normalmente le loro funzioni
“delegandole alle Province e ai Comuni o valendosi dei loro uffici”. L’art. 118, rinnovellato, attualmente
pone come regola generale che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Il terzo elemento riguarda l’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali. Tale materia è disciplinata dal
nuovo art. 119. Si afferma in primo luogo che Regioni ed Enti locali si reggono con la finanza propria,
finanziando le proprie spese di funzionamento, di intervento e di amministrazione con mezzi prelevati
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direttamente dalla propria comunità (fatta salva l’esigenza di perequazione delle situazioni più svantaggiate).
In secondo luogo, “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”
(art. 119, 2°comma).
Ma la norma più importante del nuovo art. 119 è contenuta nel 4°comma, dove si stabilisce che le risorse
economiche di Regioni ed Enti locali devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche”
che a ciascun ente sono attribuite. Tale normativa infatti ha determinato il c.d. “federalismo fiscale”.
Le risorse sono costituite da : 1) tributi ed entrate proprie ; 2) quote del gettito di tributi erariali, riferibili al
territorio di ciascun ente ; 3) trasferimenti statali a carico del fondo perequativo destinato ai “territori con
minore capacità fiscale per abitante”.
Un altro aspetto interessante è quello della configurazione degli equilibri di bilancio imposti agli enti
regionali e locali. Con tale impostazione si afferma un rigoroso principio di equilibrio del bilancio per la
parte corrente; per gli investimenti invece è possibile un disavanzo. Infatti il bilancio di un ente si divide in :
1) “parte corrente” (spese compiute per l’acquisto di beni di consumo : ad es. gli stipendi ai lavoratori); 2) e
“parte in conto capitale” (sono gli investimenti, l’acquisto di beni che producono altri beni : ad es. la
costruzione di un ponte). Gli “sfondamenti” invece sono possibili solo per la via delle “risorse aggiuntive” e
degli “interventi speciali”. Si parla di “sfondamenti” perché per questa via lo Stato può operare in favore di
determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni e per scopi “diversi dal normale esercizio delle
loro funzioni”. Tali operazioni si possono configurare come una sorta di ulteriore strumento perequativo, che
ha un carattere individualizzato, speciale e discrezionale.
L’innovazione più importante della normativa costituzionale è il riconoscimento dell’autonomia finanziaria
delle Regioni e degli Enti locali sia sul versante delle entrate che delle spese. Gli enti dispongono di
un’autonomia tributaria e di risorse autonome, in armonia con la Costituzione e secondo i “principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (* ricordiamo che il “coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario” è una materia di legislazione concorrente). La Costituzione del ’48
riconosceva solo alle Regioni l’autonomia finanziaria. Il nuovo art. 119 Cost. riformula il sistema di
finanziamento degli enti territoriali per ampliare l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli Enti locali. La
struttura del novellato articolo configura un modello normativo che presenta 3 articolazioni fondamentali : 1)
la prima, oggetto dei primi 4 commi, delinea la modalità di finanziamento delle attività degli enti territoriali ;
2) la seconda, contenuta nel 5°comma, specifica un’attività di intervento finanziario dello Stato ad
integrazione delle risorse ordinarie degli enti territoriali. Essa ha una finalità di solidarietà e di sviluppo; 3) la
terza, contenuta nel 6°comma, regola la capacità di indebitamento “autonoma” degli enti territoriali,
limitandola alle spese di investimento.
L’art. 119 realizza il c.d. “federalismo fiscale”. Il modello disegnato nei primi 4 commi dell’art. 119
individua nei tributi ed entrate propri, nella compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al
territorio dell’ente, nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, le fonti di
finanziamento delle attività degli enti territoriali. Chiude il modello così delineato un preciso vincolo,
definito nel 4°comma dell’art. 119, laddove si stabilisce che “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi
precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare
integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.
vecchio art. 118 : «Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente
articolo. La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai
Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici».
vecchio art. 119 : «Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi dello
Stato. Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle
Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali.
62
Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato
assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.
La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».
*COSTO STORICO E COSTO STANDARD = riguarda le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. Si è passati dal
criterio del costo storico a quello del costo standard. Costo storico: indica quanto storicamente si è speso per un
determinato servizio. In passato si è seguito il criterio del costo storico: quanto veniva trasferito alle varie Regioni sotto
forma di trasferimenti dipendeva da quanto una Regione aveva speso nell’anno precedente.
Costo standard: indica il costo di un determinato servizio, che avvenga nelle migliori condizioni di efficienza e
appropriatezza, garantendo i livelli essenziali di prestazione. Il costo standard è definito prendendo a riferimento la
Regione più “virtuosa”, vale a dire quella Regione che presta i servizi ai costi “più efficienti”. In sostanza, per il
finanziamento degli enti territoriali, la determinazione dei costi dovrà essere adeguata a una gestione efficiente ed
efficace di Pubblica Amministrazione, tenendo conto di alcuni indici e criteri.
La spesa storica è un criterio per l’assegnazione delle risorse dallo Stato centrale alle Regioni in base al quale chi
ha speso storicamente di più per erogare servizi riceve l’equivalente per far fronte a tali costi.
Il criterio del costo standard è meno vantaggioso per le amministrazioni poco virtuose che sperperano soldi a proprio
piacimento (col costo storico, se per esempio una regione ha speso storicamente 100 per il trasporto pubblico ne riceve
100, mentre una regione virtuosa che ne spende 60, che è poi il reale costo oggettivo del servizio, ne riceve 60. Risulta
quindi evidente che i 40 di spesa in eccesso che chiede la regione poco virtuosa sono frutto di una cattiva
amministrazione, di sperperi e magari di situazioni penalmente rilevanti). Di qui l’esigenza di introdurre il “costo
standard” che consente di misurare oggettivamente il costo di un servizio tenendo conto delle varie situazioni
regionali. Risulterà infatti evidente che se il costo standard del servizio è 60, la regione può chiedere solo 60 allo stato
centrale. Se continua a spenderne 100, per la sua mala gestione, gli altri 40 dovrà chiederli ai suoi cittadini, imponendo
nuovi tributi (regionali o locali). I cittadini quindi, potranno constatare direttamente l’operato dei loro amministratori
e far pesare in sede elettorale il proprio giudizio. Questo è il principio cardine del federalismo fiscale.
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come atti consensuali (nella cui struttura, cioè, trovava posto la volontà del privato). Lo schema
consensuale fu ricercato non solo per le concessioni o le autorizzazioni, ma anche per
l’espropriazione per pubblica utilità e per gli atti ablatori (ritenendo, peraltro, per questi ultimi, che
l’assenza della volontà del privato potesse essere compensata dalla volontà della legge). L’atto di
espropriazione, ad esempio, era inteso come “vendita forzata” e la “dichiarazione di pubblica
utilità” era la causa di tale contratto. Una delle conseguenze di questa costruzione era l’acquisto a
titolo derivativo (e non originario) della proprietà da parte del beneficiario dell’espropriazione. Ciò
trovava conferma anche sotto il profilo legislativo, poiché con la Legge del 1865 il legislatore aveva
affidato le controversie tra i privati e l’amministrazione alla giurisdizione del giudice ordinario e ciò
favoriva l’uso di schemi privatistici.
Vi era la distinzione tra atti sovrani (iure imperii) e atti consensuali (iure gestionis), cui si applicava
il diritto privato. L’attività di diritto privato da parte dello Stato era giustificata in vari modi : in un
primo tempo con lo sdoppiamento della personalità tra Stato (ente sovrano) e Fisco (ente senza
sovranità, e quindi idoneo ad operare su base paritetica con i privati); in un secondo tempo, con il
riconoscimento allo Stato di una doppia capacità, di diritto pubblico e di diritto privato. Di qui la
distinzione tra atti d’imperio e atti di gestione.
Questo modus operandi, però, subì un radicale cambiamento con la legge del 1889, che - con
l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato - pose le premesse necessarie alla creazione
del giudice amministrativo : si cominciò a considerare che l’amministrazione, nel perseguimento
dell’interesse pubblico, è titolare di poteri unilaterali, che potevano essere esercitati senza bisogno
del consenso dei destinatari dei provvedimenti. Contemporaneamente si affermò il “principio di
legalità”, per cui l’amministrazione era dotata dei soli poteri unilaterali previsti dalla legge e doveva
esercitarli nel rispetto della legge. Per cui anche la tutela dei privati nei confronti degli atti
unilaterali dell’amministrazione si spostava sotto l’egida (la protezione) del principio di legalità : a
fondare la tutela non era più l’affermazione del diritto del privato, ma l’invocazione delle regole
vincolanti l’azione dell’amministrazione.
Si comprese che l’attività amministrativa non poteva essere disciplinata dal diritto privato, ma dalle
regole predisposte appositamente dalla legge (che trovavano il loro fondamento nel perseguimento
dell’interesse pubblico) : di conseguenza, gli atti posti in essere dall’amministrazione (concessioni,
autorizzazioni, gli atti ablatori, ecc.) furono ritenuti atti unilaterali (e non più consensuali),
espressione dell’esercizio del “potere” (e, in quanto tali, dotati di autoritarietà ed esecutorietà).
Sulla base della struttura unilaterale dell’atto di espropriazione si affermò, ad esempio, che esso dà
luogo all’acquisto della proprietà a titolo originario (con esclusione quindi della sopravvivenza dei
diritti parziali di terzi). L’attività amministrativa, inizialmente disciplinata dal diritto privato, è stata
sottoposta a regole particolari : si è così costruito un diritto speciale dell’amministrazione, una
nuova branca del diritto, un diritto proprio dell’amministrazione : il c.d. “diritto amministrativo”.
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In relazione all’attività amministrativa tout court (quella di diritto pubblico), la dottrina si concentrò
sulla nozione di “provvedimento amministrativo”, mentre con riferimento all’attività
amministrativa di diritto privato si pose il problema della sua rapportabilità alla nozione di
“autonomia privata” : la dottrina si chiese se la P.A. fosse titolare di autonomia privata (cioè, se
quando agiva nelle forme del diritto privato, la sua posizione fosse identica a quella di qualsiasi
soggetto privato). La dottrina riconobbe autonomia privata anche alla P.A., ma la giurisprudenza
seguì la strada del «doppio grado» : cioè esisteva una doppia serie di atti, “quelli che precedevano la
conclusione del contratto”, che erano atti amministrativi e “quelli relativi alla sua stipulazione”, che
furono invece assoggettati alla disciplina privatistica. La tesi giurisprudenziale era un lodevole
compromesso, poiché sottoponeva la formazione del contratto alle regole del diritto pubblico,
qualificando però il contratto come atto di autonomia privata, assoggettato alla disciplina del codice
civile.
Queste posizioni, comunque, furono superate dalla dottrina, che giunse alla conclusione che la P.A.,
nell’esercizio dell’attività di diritto privato, espletava comunque “poteri amministrativi” (e non
poteri di autonomia privata) e che anche l’attività di diritto privato era pienamente assoggettata allo
“statuto speciale dell’azione amministrativa”.
L’attività amministrativa, anche quando si esprime in strumenti privatistici, resta comunque
un’attività “funzionalizzata” e soggetta alle regole generali dell’attività amministrativa. È chiaro
comunque che la legge può creare spazi di autonomia privata, ma ciò accade appunto solo se c’è
una disposizione di legge. Ove manchi, lo statuto dell’attività amministrativa resta intatto.
Successivamente la dottrina fece un altro passo in avanti : si rilevò che il potere amministrativo
(unilaterale) poteva esprimersi non solo in atti unilaterali, ma anche in atti bilaterali (consensuali).
Nell’atto bilaterale convergono poteri diversi, ma coincidenti nel regolamento di interessi (precetto)
cui l’atto vuole dar vita. In questo caso, pertanto, ci si sarebbe trovati di fronte all’esercizio di poteri
diversi (il potere amministrativo e l’autonomia privata della controparte). E’ questo il caso degli
“accordi pubblicistici” e delle “convenzioni pubblicistiche” : tuttavia, pur facendo capo entrambe le
figure a poteri amministrativi, la prima costituisce l’esercizio di poteri autoritativi (idonei a
disciplinare anche interessi altrui), mentre la seconda implica l’esercizio di poteri non autoritativi
(inidonei a regolamentare interessi altrui senza il concorso della controparte).
esempio nei contratti ad evidenza pubblica). Tuttavia, in tutti gli atti consensuali il potere
dell’amministrazione è sempre potere amministrativo, non è mai un potere libero, qualificabile
come autonomia privata. Si tratta sempre di un potere soggetto allo statuto dell’azione
amministrativa. Lo statuto non si limita ad imprimere al potere il c.d. “vincolo di scopo”
(finalizzandolo cioè alla soddisfazione dell’interesse pubblico), ma lo sottopone a una serie di
regole (formali e sostanziali) che possono essere riassunte nel “principio del procedimento” e nel
“principio del rispetto degli amministrati” (cioè i diretti interessati e i terzi).
Quindi l’amministrazione agisce sempre secondo valutazioni discrezionali (e non libere) ed è tenuta
sempre ad applicare i principi vigenti. Se l’azione precettiva dell’amministrazione è disciplinata
dallo statuto, non ci sono ostacoli a che l’azione si concretizzi in atti consensuali. Tuttavia l’azione
consensuale non può essere autonomia contrattuale (poichè l’amministrazione non può liberamente
determinare il contenuto del contratto), ma va invece riguardata come potere amministrativo.
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attività amministrativa tout court : con riferimento a tutte le attività di tutte le pubbliche
amministrazioni) o la sola attività che culmina nell’adozione di un provvedimento, o può dare
rilievo all’attività posta in essere da un ente, da un organo o da un funzionario.
Negli ultimi decenni l’attenzione si è spostata dal singolo procedimento (e dal singolo
provvedimento) all’insieme dei procedimenti (e dei provvedimenti) «riguardanti le stesse attività o
risultati», ossia alla complessiva attività amministrativa necessaria per chiudere un’operazione. Ad
esempio per realizzare un’opera pubblica occorrono diversi provvedimenti (e relativi
procedimenti) : occorre progettarla, finanziarla, acquisire la disponibilità del suolo ove dovrà
sorgere, individuare l’impresa che dovrà realizzarla, valutarne l’impatto ambientale. L’operazione
che l’amministrazione compie è unitaria (realizzazione di un’opera pubblica), ma i procedimenti
necessari per compierla sono molti e rientrano nella competenza di enti ed organi diversi.
Stando così le cose, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre un nuovo istituto (affiancandolo
alla disciplina prevista per il singolo procedimento) : la “conferenza di servizi”, in cui convergono
«più procedimenti amministrativi connessi» e in cui viene in rilievo la nozione di “operazione
amministrativa”, cioè l’insieme delle attività necessarie per conseguire un determinato risultato
concreto.
Un’ultima modalità con cui l’ordinamento prende in considerazione l’attività amministrativa
riguarda il profilo della “responsabilità delle amministrazioni pubbliche” (in relazione all’ illiceità
del loro agire). L’attività viene presa in considerazione se illecita : nella fattispecie dell’illecito
rientra, infatti, non solo l’atto o il provvedimento amministrativo, ma l’intera attività posta in essere
dall’amministrazione : è l’attività a presentarsi come “fatto giuridicamente rilevante”.
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molto elastiche, avrebbero potuto spiegare efficacia solo in un “giudizio di merito” (pertanto, se
questo fosse mancato, la loro inosservanza sarebbe rimasta incontrollabile). Questa impostazione, se
riconosceva in queste regole non giuridiche delle linee-guida nelle scelte concrete operate
dall’amministrazione, impediva però di usarle in sede di controllo, come criterio di riferimento su
cui operare il “sindacato di legittimità” e, così, ne limitava l’utilità.
Su questa scia, la dottrina successiva, per garantire una sia pur minima tutela, cercò una diversa
sistemazione teorica, che fosse in grado di affermare la “natura giuridica” di tali regole
extralegislative, in modo da farne risaltare la rilevanza sul piano della “legittimità” (piuttosto che su
quello del merito). Ad esempio per Mortati la rispondenza dell’azione amministrativa al “fine
indicato dalla legge” andava accertata ricorrendo a criteri che non sono incorporati nella legge, ma
che tuttavia devono ritenersi oggetto di implicito rinvio da parte della stessa. La fonte ultima di tali
criteri era individuabile nell’“esperienza”, che si concretava in vere e proprie regole o direttive di
azione elaborate da discipline morali o sociali ; regole ben individuabili e applicabili direttamente
alle singole fattispecie. In altri casi, invece, tali regole non erano rintracciabili, ma comunque
l’esperienza forniva gli elementi sufficienti a estrarne una norma disciplinante il caso concreto.
La dottrina contemporanea è oggi consapevole del fatto che questi “criteri non giuridici” non solo
esistono, ma sono anche capaci di guidare l’azione dell’amministrazione. Tuttavia la dottrina non è
andata mai oltre la semplice affermazione della loro esistenza, perché si è reso conto che è proprio
la natura di questi criteri a renderne impossibile una classificazione. Il carattere flessibile di queste
regole e il loro continuo adattarsi alla realtà mutevole sono elementi che impediscono all’interprete
di procedere a una loro codificazione. Manca infatti ogni certezza che il criterio applicato in un dato
momento storico resterà ancora vigente per la condotta futura dell’amministrazione. Venendo meno
l’attributo della certezza, non si può dire che tali canoni possano essere considerati “norme
giuridiche”. Quindi, queste “regole sociali” (massime di esperienza e criteri e principi scientifici)
possono senza dubbio essere usate nel procedimento amministrativo (e nella ponderazione
discrezionale degli interessi che la P.A. è chiamata ad effettuare) : ciò però non implica che le
stesse possano assurgere al rango di “norme giuridiche”. Per spiegare perché la violazione di regole
e principi scientifici o dell’esperienza assurga a rilievo giuridico in sede di “controllo di legittimità”
(determinando l’annullabilità dell’atto), bisogna osservare che non occorre costruire singole regole
o massime come proposizioni con efficacia derivata da norme giuridiche : l’obbligo della loro
osservanza discende dal fatto che la funzione amministrativa deve svolgersi secondo esigenze di
esattezza e correttezza, che vanno salvaguardate.
Perciò l’azione amministrativa deve rispettare non solo le norme giuridiche previste dalla legge, ma
anche una rete di principi generali (alcuni scritti nella Costituzione, altri desumibili da tutto
l’ordinamento), in modo che la scelta operata dalla P.A. sia adeguata al perseguimento del pubblico
interesse. Tuttavia una parte della dottrina sostiene che i “principi generali” non siano norme
giuridiche, ma piuttosto dei modelli organizzativi ; un’altra parte della dottrina, al contrario, ritiene
che essi siano delle vere e proprie “norme giuridiche”, e quindi delle “condizioni di legittimità
dell’atto”. In realtà essi, anziché disciplinare gli elementi del singolo atto amministrativo,
disciplinano l’attività amministrativa che si esercita per quell’atto e, quindi, la condizione di
legittimità della funzione amministrativa.
La nostra giurisprudenza ha comunque riconosciuto che i “principi generali” costituiscono regole
dell’azione amministrativa. Anche il legislatore ha in più occasioni fatto riferimento ai “principi
generali dell’ordinamento” come guida all’azione amministrativa. In ogni caso, a prescindere dalle
diverse posizioni dottrinarie, è evidente che i “principi generali dell’ordinamento” sono, assieme
alla “legge”, una guida e un orientamento per il raggiungimento del fine pubblico positivamente
determinato.
principio dell’attività amministrativa e che, in tal modo, debba orientare l’esercizio dei pubblici
poteri. Ma a questo punto ci si chiede come l’imparzialità e il buon andamento orientino l’azione. Il
buon andamento esprime un valore giuridico che non condiziona direttamente la discrezionalità
amministrativa nell’adozione dei singoli atti, ma misura l’attività complessiva. (* Il BUON
ANDAMENTO è un principio che obbliga gli impiegati e i funzionari pubblici a svolgere i loro
compiti con diligenza e professionalità, per realizzare in modo efficace ed efficiente gli obiettivi che
l’amministrazione si pone. La P.A. deve agire nel modo più adeguato e conveniente possibile. Tale
principio impone “adeguatezza” e “convenienza” nell’esercizio dell’azione amministrativa : si
fonda sui criteri dell’efficienza (rapporto tra risultati raggiunti e risorse impiegate); economicità
(ottimizzazione dei risultati in relazione ai mezzi a disposizione) ed efficacia (capacità di
conseguire gli obiettivi prefissati) . L’IMPARZIALITA’ è un principio che impone alla P.A. di non
compiere, nello svolgimento delle sue funzioni, discriminazioni arbitrarie).
Tra i PRINCIPI CHE ASSICURANO CHE L’AZIONE AMMINISTRATIVA SIA SVOLTA NEL
RISPETTO DEGLI INTERESSI DEI PRIVATI COINVOLTI NELL’ESERCIZIO DEL POTERE
troviamo :
il “principio di imparzialità”.
il “principi di ragionevolezza” : è il canone generale dell’azione amministrativa, i cui esiti
devono essere coerenti rispetto alle premesse fattuali e di diritto poste a base della decisione.
Dunque, la scelta concreta adottata dall’amministrazione deve essere il frutto di una logica
specificazione delle premesse generali di partenza. Essa, pertanto, deve essere non solo
adeguata rispetto al fine, ma anche coerente rispetto agli elementi acquisiti nel corso
dell’istruttoria. (*In pratica, la P.A. deve seguire un canone di razionalità operativa nello
svolgimento della propria azione, per evitare decisioni arbitrarie e irrazionali. Ciò impone la
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le disposizioni della L. 241 / 1990 riguardanti gli obblighi per la P.A. di garantire la
partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di
concludere lo stesso entro un termine prefissato e di assicurare l’accesso alla
documentazione amministrativa;
le disposizioni relative alla durata massima dei procedimenti;
le disposizioni riguardanti la dichiarazione di inizio attività, il silenzio assenso e la
conferenza dei servizi.
Da ciò discende che le Regioni a statuto ordinario e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti di
loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dall’art. 29,
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commi 2-bis e 2-ter, fermo restando la possibilità di prevedere ulteriori livelli di tutela (art. 29.
comma 2-quater). Invece le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano
adeguano la propria legislazione secondo i rispettivi statuti (art. 29, comma 2-quinquies).
Le disposizioni della L. 241 / 1990 si applicano anche alle società con totale o prevalente capitale
pubblico limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative (art. 29, 1°comma).
caratteristiche del fatto; 4) a valutare il peso di tutti gli interessi coinvolti e la misura in cui essi
dovranno essere sacrificati o avvantaggiati per la cura dell’interesse pubblico; 5) a individuare le
norme che disciplinano l’esercizio del potere rispetto al caso concreto; 6) ad assumere la decisione
che verrà formalizzata nel provvedimento.
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del responsabile del procedimento sono comunicati ai soggetti che hanno il diritto di ricevere
l’avviso di avvio del procedimento, nonché ai terzi interessati”.
Il RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO è quindi, per un verso, il soggetto cui viene affidato
il corretto svolgimento dell’istruttoria e, per altro verso, l’interlocutore privilegiato dei soggetti
coinvolti dall’esercizio dell’azione amministrativa. A lui spettano dunque vari compiti, indicati
nell’art. 6 della L. 241 / 1990. Egli, ai sensi dell’art.6, “valuta i requisiti di legittimazione e i
presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento”; “accerta i fatti adottando ogni misura
per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (ad esempio, può chiedere il rilascio di
dichiarazioni, esperire accertamenti tecnici e ispezioni e ordinare esibizioni documentali); “propone
l’indizione o (se ne ha la competenza), indice egli stesso la conferenza di servizi”.
Compiuta l’istruttoria, il responsabile del procedimento “adotta il provvedimento finale, ove ne
abbia la competenza, o trasmette gli atti del procedimento all’organo competente”. In quest’ultimo
caso l’art. 6 stabilisce che “l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove diverso dal
responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta da
quest’ultimo se non indicandone i motivi nel provvedimento finale”. Tale disposizione, per un
verso, ribadisce che l’organo competente all’adozione del provvedimento finale può essere diverso
dall’ufficio cui è demandata la responsabilità dell’istruttoria; per altro verso, attribuisce alle
risultanze istruttorie la portata di una vera e propria proposta di decisione, con cui il responsabile
del procedimento prospetta all’organo decidente la soluzione che ritiene corretta e da cui
quest’ultimo può discostarsi solo previa adeguata motivazione, pena l’illegittimità del
provvedimento adottato.
aggiunto altre ipotesi in cui la disciplina della partecipazione non si applica : ciò accade per i
procedimenti in cui le “esigenze di segretezza” prevalgono su quelle di “pubblicità” (ad esempio, in
presenza di interessi superiori, come l’ordine pubblico, la sicurezza e la repressione di determinati
reati). Esistono anche
“discipline settoriali della partecipazione” che si applicano a determinati procedimenti : in alcuni
casi la garanzia della partecipazione assume anche una portata più ampia di quella prevista dalla L.
241 / 1990, sia perché tale garanzia è riconosciuta a chiunque voglia intervenire (indipendentemente
dalla titolarità di uno specifico interesse coinvolto nella vicenda procedimentale), sia perché al
privato sono riconosciuti strumenti più incisivi (come la possibilità di interloquire con
l’amministrazione procedente anche oralmente, e non solo tramite la presentazione di memorie
scritte e documenti). Nel primo caso, la partecipazione ha anche una funzione di controllo diffuso
sulla legalità e opportunità dell’azione amministrativa; nel secondo caso, si è in presenza di un vero
e proprio contraddittorio non solo scritto, ma anche orale, che avvicina il procedimento al processo.
questi ultimi si trovano in una posizione privilegiata, poichè hanno una conoscenza diretta
dell’apertura del procedimento. Se essi decidono di intervenire, assumono la qualifica di
“INTERVENTORI”. Inoltre la L. 241 / 1990 garantisce la possibilità di partecipare al procedimento
a una cerchia di soggetti più ampia di quelli che hanno il “diritto” di ricevere la comunicazione di
avvio dello stesso. Ai sensi dell’art. 9, 1°comma, infatti, la facoltà di intervenire nel procedimento è
assicurata anche a qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, ai portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento.
Il novero degli interventori dunque è ampio : esso spazia dai diretti destinatari del provvedimento
finale a coloro che possono ricevere un danno dal provvedimento; dai soggetti pubblici ai soggetti
portatori di interessi diffusi (purché si diano un minimo di organizzazione e assumano la forma
dell’associazione o del comitato).
Una delle questioni più rilevanti è se la “legittimazione a intervenire nel procedimento” determini
una corrispondente legittimazione processuale a impugnare il provvedimento finale in sede
giurisdizionale. La giurisprudenza amministrativa ha affermato che la possibilità di intervenire nel
procedimento non determina l’automatica capacità di ricorrere in via processuale contro il
provvedimento, dovendo tale capacità essere riconosciuta sulla base della titolarità di un interesse
legittimo. Solo il partecipante titolare di un interesse legittimo rispetto all’esercizio del potere
amministrativo potrà fare valere in sede processuale la lesione derivante dall’eventuale illegittimità
del provvedimento. La questione si è posta soprattutto riguardo ai soggetti portatori di interessi
diffusi : date le molte limitazioni con cui i soggetti portatori di tali interessi sono ammessi ad
attivare la loro tutela davanti al giudice amministrativo, la dottrina ha cercato di sostenere che,
grazie all’art. 9, 1°comma, gli interessi diffusi avessero trovato piena tutela non solo a livello
procedimentale, ma anche processuale (e dunque aldilà dei settori specifici in cui tale legittimazione
è espressamente prevista dalla legge, come avviene ad esempio in materia ambientale o di tutela
dei consumatori). Questa tesi, però, non è stata accolta dal giudice amministrativo, che anzi ha
affermato che la “legittimazione a partecipare al procedimento”, riconosciuta ai portatori di interessi
diffusi, non implica anche un’automatica “legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale”.
In ogni caso tutti i soggetti legittimati a intervenire (quelli indicati nell’art. 7, 1°comma e quelli
indicati nell’art. 9, 1°comma) possono esercitare gli stessi “diritti”. Ai sensi dell’art.10, 1°comma,
essi hanno il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e il diritto di presentare
memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti
all’oggetto del procedimento. La partecipazione procedimentale si esplica, dunque, in due diversi
modi : 1) il “diritto di visionare gli atti del procedimento”, che permette di venire a conoscenza
dell’oggetto del procedimento e delle valutazioni compiute fino a quel momento. Pertanto il
partecipante, tramite l’“accesso”, acquisisce quel corredo di informazioni necessario per
interloquire con l’ amministrazione procedente; 2) il “diritto di presentare memorie e documenti”,
che consente al partecipante di offrire argomentazioni relative a tutti gli aspetti rilevanti del
procedimento e
di tutelare la propria posizione attraverso la prospettazione di fatti utili all’amministrazione
procedente per l’assunzione della decisione.
Il “DIRITTO DI VISIONARE GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO” è una species del più ampio
genus del “diritto di accesso” di cui all’art. 22 della L. 241 / 1990. Sebbene il primo abbia una
portata più ristretta del secondo, la tutela di entrambi è identica. Infatti, sia la lesione del diritto di
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prendere visione degli atti del procedimento che la lesione del diritto di accesso ai documenti
amministrativi possono essere tutelate in sede giurisdizionale con l’azione prevista dall’art. 25 della
L. 241 / 1990 : è possibile (contro le decisioni della P.A. riguardanti il diritto di accesso) ricorrere
davanti al Tribunale amministrativo regionale competente, che si pronuncia con rito abbreviato.
Per quanto riguarda il “DIRITTO DI PRESENTARE MEMORIE E DOCUMENTI”, il contenuto
della memoria deve essere costituito da asserzioni su fatti rilevanti per lo svolgimento del
procedimento che riguardino la posizione dell’interventore. A queste asserzioni possono essere
allegati documenti che forniscono la prova di quanto asserito. Una volta presentate memorie e
documenti, la P.A. ha l’obbligo di esaminarli ove pertinenti all’oggetto del procedimento. La
“pertinenza” attiene alla rilevanza delle asserzioni dal punto di vista del fatto, dell’interesse vantato
dall’interventore o dell’eventuale contributo all’individuazione e interpretazione delle norme che la
P.A. ritiene di dover applicare al caso concreto. Inoltre, la P.A. deve anche valutare la rilevanza di
quanto affermato per la decisione e di tale giudizio deve essere dato conto. Non è necessaria una
confutazione analitica del contenuto delle memorie e dei documenti, essendo sufficiente che dalla
motivazione del provvedimento siano desumibili le ragioni del non accoglimento di quanto dedotto
dall’interventore.
Attraverso la produzione di memorie e documenti si instaura nel procedimento un contradditorio
scritto tra questi ultimi e l’amministrazione procedente.
Il legislatore nell’art. 10 qualifica le pretese partecipative in termini di “diritti”. Nonostante una
parte della dottrina abbia sostenuto che tali pretese siano diritti soggettivi, la dottrina maggioritaria
ritiene che siano delle facoltà dell’interesse legittimo o delle facoltà di una situazione giuridica
peculiare definibile come “interesse procedimentale”. Quest’ultima posizione è preferibile, poichè
non tutti i soggetti legittimati a partecipare al procedimento sono titolari di un interesse legittimo
(tali sono certamente i diretti destinatari del provvedimento finale e i c.d. controinteressati, ma non i
soggetti indicati nell’art. 9, 1°comma).
indipendentemente dall’acquisizione del parere, salvo che quest’ultimo debba essere rilasciato da
pubbliche amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute
del cittadino”. Infine ai sensi dell’art. 16, 4°comma, “Qualora la P.A. cui è stato chiesto il parere
abbia manifestato esigenze istruttorie (ad esempio l’acquisizione di ulteriori informazioni) il
termine di 20 giorni può essere interrotto una sola volta e il parere deve essere definitivamente reso
entro 15 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori”.
Ai sensi dell’art. 17, 1°comma, “Ove per espressa disposizione di legge o di regolamento sia
previsto che l’adozione di un provvedimento debba avvenire previa acquisizione delle valutazioni
tecniche di altre pubbliche amministrazioni e queste ultime non provvedano in tal senso o non
manifestino esigenze istruttorie nei termini fissati dalla disposizione (o in mancanza entro 90 giorni
dal ricevimento della richiesta), l’amministrazione procedente, tramite il responsabile del
procedimento, deve chiedere queste valutazioni tecniche ad altre pubbliche amministrazioni dotate
di capacità tecnica equipollente o ad istituti universitari”. Ai sensi dell'art. 17, 2°comma, “Questa
disposizione non si applica in caso di valutazioni che devono essere prodotte da amministrazioni
pubbliche preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute del cittadino ”.
Infine l’art. 17, 3°comma rende applicabile l’art. 16, 4°comma alla ipotesi di “richieste istruttorie
formulate dall’amministrazione che deve esprimere le valutazioni tecniche”. Ricaviamo che :
Quindi sono garantite sia le esigenze di accuratezza necessarie per adottare una decisione corretta,
sia le esigenze di tempestività dell’azione amministrativa. Infine la presenza della «CLAUSOLA DI
SALVAGUARDIA» (che esclude in determinati casi la possibilità per l’amministrazione
procedente di prescindere dall’acquisizione dei pareri) conferisce un particolare status ad alcuni
interessi pubblici : quelli attinenti all’ambiente, al paesaggio, al territorio e alla salute dei cittadini,
la cui tutela non può essere in alcun modo dimidiata (= dimezzata) per soddisfare altre ragioni (ad
esempio quelle di celere conclusione dei procedimenti).
I pareri si distinguono in OBBLIGATORI e FACOLTATIVI. I primi possono anche essere distinti
in “pareri vincolanti” (quando non possono essere disattesi dall’amministrazione procedente) e
“non vincolanti” (quando questa può discostarsene).
Il “parere vincolante” imprime un indirizzo preciso alla decisione che l’amministrazione dovrà
adottare a conclusione del procedimento. Quindi esso possiede un’autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario della decisione e, pertanto, ove il parere sia viziato esso, pur essendo
un atto formalmente procedimentale, potrà essere autonomamente impugnato. Quando invece il
parere non è vincolante, la P.A. (sia che si tratti di parere obbligatorio che facoltativo) può
discostarsene ai fini della decisione finale. Tuttavia essa deve dare una motivazione nel
provvedimento delle ragioni che giustificano una decisione contraria alle valutazioni espresse nel
parere, pena l’“illegittimità del provvedimento”. Il parere non vincolante, quand’anche affetto da
vizi di legittimità, è un atto endoprocedimentale nella forma e nella sostanza : potendo infatti
l’amministrazione procedente discostarsi dal parere, esso non ha un’autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario. Pertanto il vizio potrà essere fatto valere solo con l’impugnazione
della decisione conclusiva.
L’attività di consulenza è attivata previa richiesta dell’amministrazione procedente. Ma è possibile
che le amministrazioni, diverse da quella procedente, autonomamente decidano di esprimere la
propria posizione su circostanze rilevanti presenti nel procedimento. Infatti ogni P.A. titolare di un
interesse pubblico coinvolto in un procedimento amministrativo può, ai sensi dell'art. 9, 1°comma
della L. 241 / 1990, intervenire nel procedimento ed esercitare le pretese riconosciute dall’art. 10.
che, ove conclusi con un provvedimento positivo per il destinatario, ampliano la sua sfera giuridica.
Tuttavia dall’applicazione della norma sono esclusi i “procedimenti concorsuali”, poichè la
partecipazione agli stessi potrebbe coinvolgere un alto numero di soggetti, con un conseguente
aggravio del procedimento e un ritardo quanto alla sua conclusione. Sono anche esclusi dal suo
campo di applicazione i “procedimenti in materia previdenziale e assistenziale” (in tal caso, però,
l’esclusione non appare affatto giustificata).
La ratio della norma è chiara : essa garantisce ai destinatari degli effetti del provvedimento
un’ulteriore fase di contraddittorio scritto con la P.A. Quando quest’ulteriore fase si innesta, però,
non solo la fase istruttoria può dirsi già conclusa, ma anche la fase della decisione. Infatti la P.A.
ha già deciso di non poter accogliere l’istanza. Quindi la funzione di questo ulteriore momento di
partecipazione è di tipo difensivo : al privato infatti viene riconosciuta la possibilità di confutare e
contestare una proposta di provvedimento negativo con la presentazione di apposite asserzioni
miranti a far rilevare l’ILLEGITTIMITA’ DELLA DECISIONE in relazione a qualsiasi profilo
rilevante (l’accertamento del fatto, la ponderazione degli interessi, l’individuazione delle norme
regolative della fattispecie e la loro corretta interpretazione) e a indurre la P.A. ad assumere una
decisione diversa.
La P.A., ove ritenga di non poter accogliere le argomentazioni offerte dal privato (e dunque di non
dover modificare la decisione di rigetto), dovrà motivare la propria posizione.
Inoltre il “PREAVVISO DI DINIEGO” è un atto endoprocedimentale, privo di autonoma capacità
lesiva della sfera giuridica del destinatario, poichè la P.A. potrebbe decidere diversamente da
quanto comunicato e, quindi, non è oggetto di autonoma impugnazione.
Nel caso di omissione del preavviso di diniego la conseguenza dovrebbe essere l’“illegittimità del
provvedimento finale”, ma secondo una parte della giurisprudenza all’art. 10-bis potrebbe applicarsi
in via estensiva l’art. 21-octies, 2°comma (che si riferisce alla “comunicazione di avvio del
procedimento”) : ne deriverebbe che il provvedimento di diniego non sarebbe suscettibile di
annullamento ove la P.A. dimostri in giudizio che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Questa conclusione, però, non sembra si possa accogliere poiché,
essendo l’art. 10-bis una norma posta a tutela del privato, la mancata comunicazione all’interessato
determinerà inevitabilmente l’“illegittimità del provvedimento finale di diniego”.
in possesso dell’amministrazione”.
Nell’art. 2 della L. 241 / 1990 è dunque definito un vero e proprio OBBLIGO per la pubblica
amministrazione DI PROCEDERE E DI PROVVEDERE CON UN PROVVEDIMENTO
ESPRESSO. La norma è la specificazione del “principio della doverosità dell’esercizio della
funzione amministrativa”.
L’obbligo di procedere e poi di provvedere di cui all’art. 2 subisce, però, delle eccezioni. La
giurisprudenza amministrativa infatti ha affermato che la P.A. non è tenuta a dare corso al
procedimento (e ad adottare il provvedimento) : 1) in presenza di reiterate richieste aventi lo stesso
contenuto, qualora sia stata già adottata rispetto al caso concreto un precedente provvedimento
inoppugnato (= non impugnato) e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di
diritto; 2) in presenza di domande manifestamente assurde o infondate; 3) in presenza di domande
illegali.
Inoltre la P.A. può concludere il procedimento con un c.d. “PROVVEDIMENTO IN FORMA
SEMPLIFICATA” (cioè un provvedimento la cui motivazione consiste in un sintetico riferimento al
punto di fatto o di diritto risolutivo): ciò quando ravvisi la manifesta irricevibilità, inammissibilità,
improcedibilità o infondatezza della domanda.
Ma cosa accade se la P.A. non rispetta il termine per la conclusione del procedimento ? La P.A. non
decade dalla possibilità di esercitare il potere, stante in vigore il principio dell’“inesauribilità
dell’esercizio della funzione amministrativa”. La decadenza può determinarsi solo ove una specifica
disposizione di legge la preveda. Tuttavia, ai sensi dell’art. 2-bis, “le pubbliche amministrazioni
sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato per l’inosservanza dolosa o colposa del
termine”. Inoltre l’art. 2-bis ha previsto anche che, “in caso di inosservanza del termine di
conclusione del procedimento ad istanza di parte, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per
mero ritardo” : le somme corrisposte a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.
TEMPUS REGIT ACTUM : (= il tempo regola l’azione) : l’atto è soggetto alla disciplina vigente al momento del suo
compimento. Sarebbe il “principio di irretroattività”.
1.La conferenza di servizi: genesi della figura. La L. 241 / 1990 include tra gli
strumenti di «semplificazione» un istituto che riguarda le modalità di svolgimento dell’attività
amministrativa : la “CONFERENZA DI SERVIZI”. Essa ha assunto un rilievo crescente, tanto che
il legislatore ha dovuto rivederne più volte la disciplina per correggerne le imperfezioni : ben 10
interventi di riforma hanno infatti interessato la disciplina della conferenza a partire dal 1990. La L.
241 / 1990, quasi a sancire l’importanza dell’istituto, dedica oggi alla conferenza di servizi ben 5
articoli (artt. 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies).
L’espressione scelta dal legislatore, «CONFERENZA DI SERVIZI», fa riferimento alla valutazione
contestuale di più interessi pubblici coinvolti nella soluzione di un problema amministrativo
attraverso una «riunione di persone competenti a trattare il problema» (organi o delegati di
organi). Si pensi, ad esempio, al procedimento di “pianificazione urbanistica”, che tocca tutti gli
interessi pubblici che gravitano sul territorio (ambientali, culturali, attinenti alla viabilità, ai
trasporti, ecc.) : in questo, come in altri casi, la soluzione deve essere trovata tramite una riunione in
cui sono chiamate a partecipare tutte le amministrazioni interessate (rappresentate a loro volta da
persone fisiche deputate a trattare la questione). Il termine “SERVIZI” si riferisce a «strutture
organizzative di diversa dimensione e di diverso livello, dai semplici uffici ad amministrazioni
prese nella loro unitarietà». La disciplina della conferenza di servizi contempla, infatti, sia
“conferenze tra uffici della stessa amministrazione” sia “conferenze tra (organi di) amministrazioni
diverse”.
La conferenza di servizi si affermò inizialmente nella prassi (in particolare nell’ambito dei
«procedimenti di formazione e approvazione dei piani urbanistici») : le parti del procedimento
confrontavano le rispettive posizioni e, anche quando non si raggiungeva un’intesa, la conferenza
era utile, perché serviva a mettere in evidenza i problemi posti sul tavolo conferenziale. Alcune
ipotesi di conferenze di servizi erano contemplate, però, anche dalla legge.
Fino agli anni '80, però, la dottrina non aveva offerto particolari approfondimenti. Solo a partire
dalla seconda metà degli anni '80 si registra un impiego consistente della figura e un suo «rilancio»
da parte del legislatore, giacchè la conferenza fu tipizzata in molte “leggi speciali”. Così la dottrina
finì per sposare l’idea secondo cui la “conferenza di servizi” dovesse essere usata per far fronte ad
opere ed interventi di natura eccezionale e urgente.
L’originalità dell’istituto fece nascere un intenso dibattito sul problema della sua NATURA
GIURIDICA : la dottrina ha oscillato tra la posizione che qualificava la conferenza come uno
strumento avente una rilevanza sul piano delle strutture organizzative (: essa fu assimilata agli
“organi collegiali”) e la posizione che la qualificava come una mera “riunione di organi che
collaborano tra loro per coordinare le rispettive azioni”, senza, però, dar vita ad un organismo
ulteriore, dotato di una separata soggettività.
Furono enfatizzate le finalità di snellimento e accelerazione dell’istituto (al punto da far ritenere che
la conferenza di servizi fosse uno strumento sostitutivo del procedimento amministrativo e tale da
escludere, insieme al procedimento, anche la partecipazione dei privati). Parte della dottrina, invece,
facendo leva sull’accostamento tra “conferenza di servizi” e “organo collegiale”, aveva sostenuto
che la conferenza fosse una forma particolare di collegio e che, di conseguenza, lo svolgimento dei
lavori della conferenza portasse all’adozione di un atto collegiale, imputabile non alle
amministrazioni che esprimono in conferenza il loro assenso, ma alla conferenza, intesa come
“organo autonomo”, cui andrebbe riconosciuta in sede processuale un’autonoma legittimazione
passiva.
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Con l’introduzione della disciplina della conferenza di servizi nella L. 241 / 1990, la
CONFERENZA DI SERVIZI assurge ad “istituto di carattere generale dell’attività amministrativa”.
Tuttavia, la disciplina originaria di cui alla L. 241 / 1990 era scarna e incompleta, concentrata in un
solo articolo (l’art. 14) in cui era disegnato un modello «puro» di conferenza di servizi : questa era
configurata come un “modulo facoltativo di collaborazione volontaria tra amministrazioni”, in cui
le decisioni potevano essere «concordate» solo all’UNANIMITA’ dei partecipanti – e in cui, quindi,
la facoltà delle amministrazioni invitate alla conferenza di dissentire (motivatamente) dalla
proposta di decisione dell’amministrazione procedente si risolveva in un vero e proprio “potere di
veto” in capo a ciascuna delle amministrazioni partecipanti -.
L’art. 14 della L. 241 / 1990, nella sua prima formulazione, così prevedeva : «1. Qualora sia
opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo, l’amministrazione procedente indice una conferenza di servizi. 2. La conferenza
può essere indetta anche quando l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti,
nulla osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche. 3. Si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione che, regolarmente convocata, non abbia partecipato alla conferenza o vi abbia
partecipato tramite rappresentanti privi della competenza ad esprimerne definitivamente la volontà,
salvo che essa non comunichi all’amministrazione procedente il proprio motivato dissenso entro 20
giorni dalla conferenza o dalla data di ricevimento della comunicazione delle determinazioni
adottate. 4. Le disposizioni di cui al 3°comma non si applicano alle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e alla salute dei cittadini».
Il legislatore ha poi apportato nel 1993 alcune modifiche al testo originario della legge, che però
hanno complicato ulteriormente la materia : 1) da un lato, l’assunzione della decisione in base al
criterio dell’UNANIMITA’ fu disegnata come un’ipotesi solo eventuale; 2) dall’altro fu
riconosciuto in capo al Governo un POTERE SOSTITUTIVO, azionabile «qualora nella conferenza
fosse prevista l’unanimità per la decisione e questa non fosse raggiunta».
*CONCERTO = accordo.
*DETERMINAZIONE = decisione.
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alle amministrazioni partecipanti) : una simile conclusione, infatti, avrebbe dovuto comportare il
trasferimento delle competenze in capo alla conferenza, cosa esclusa anche dalla giurisprudenza
costituzionale.
Inoltre la conferenza di servizi non si inserisce in nessuna delle tipologie di organi conosciute : non
può essere un organo permanente (data la mancanza in essa del carattere della stabilità), né un
organo temporaneo (per mancanza del carattere della temporaneità); né un organo straordinario
(poichè la sua convocazione è un momento fisiologico, e non eccezionale, dell’attività delle
amministrazioni convocate).
Inoltre, la determinazione conclusiva della conferenza può essere impugnata dalle singole
amministrazioni partecipanti alla conferenza : la conferenza di servizi non è pertanto un organo
collegiale, non è anzi nemmeno un organo.
E allora, abbandonata la prospettiva organicistica, la dottrina aveva ravvisato nella conferenza uno
“strumento funzionale alla conclusione di un accordo tra amministrazioni” : tale soluzione trova
appiglio nell’art. 15 della L. 241 / 1990, dedicato agli «accordi tra amministrazioni», ai sensi del
quale «Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 14, le P.A. possono sempre concludere
accordi per disciplinare lo svolgimento di attività di interesse comune». Tale ricostruzione ha però
mostrato i suoi limiti davanti alla possibilità dell’esito positivo della conferenza anche in caso di
dissensi di alcune amministrazioni partecipanti. Si è così preso atto che se è vero che la conferenza
può sfociare in accordi, è vero anche che, essendo questa un’evenienza non costante, la natura della
conferenza deve essere un’altra.
Così, la dottrina – spostando l’attenzione sull’ “attività che le amministrazioni esprimono nella
conferenza” – ha qualificato la CONFERENZA nei seguenti termini : 1) sotto il profilo strutturale,
la conferenza è uno “strumento procedimentale” : una riunione di uffici diversi o di amministrazioni
diverse in un’unica sede di discussione , senza modificazione di competenze (e senza alcun tipo di
trasferimento di competenze dai singoli partecipanti alla riunione ad una, peraltro inesistente,
struttura collegiale). Le decisioni assunte in conferenza vengono concordate tra le varie
amministrazioni, ma non si fondono in una “deliberazione unitaria”. 2) Sul piano funzionale, essa
è un metodo di coordinamento e raccordo di poteri e competenze : non sostituisce i singoli
procedimenti, ma li raccorda per migliorare la funzionalità dell’attività decisionale della P.A. Essa è
una risposta ai problemi connessi al “pluralismo istituzionale” e alla “frammentazione delle
competenze”. Basti pensare ai rischi comportati dal fatto che la valutazione dei singoli interessi
pubblici sia frammentata in procedimenti diversi e non coordinati tra loro : rischi non solo di
valutazione incompleta e non oggettiva dell’interesse pubblico (poichè ciascuna amministrazione è
portata a dare più peso, nella valutazione comparativa, all’interesse di cui è portatrice), ma anche di
adozione di decisioni tra loro contrastanti.
Così intesa, però, la conferenza apporta una significativa modifica alla tradizionale “regola di
esercizio dei poteri discrezionali” : quella della “necessaria ponderazione degli interessi secondari
in ordine all’interesse primario, affidato alla cura dell’amministrazione procedente” (ricordiamo che
la distinzione tra interesse primario e interessi secondari non è assoluta, ma relativa e varia a
seconda del centro organizzativo considerato : «ciò che per un’autorità è interesse primario, per
un’altra è secondario»). Infatti, quando più poteri discrezionali sono esercitati insieme nella
conferenza, cade la distinzione tra “interessi (pubblici) primari” e “interessi (pubblici) secondari” :
infatti, ogni amministrazione deve considerare, oltre al proprio, anche gli interessi pubblici (sempre
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primari) in cura presso le altre amministrazioni, per raggiungere la decisione che soddisfi nel modo
migliore l’insieme degli interessi pubblici.
*FISIOLOGICO = naturale, normale.
*FUNZIONALITA’ = efficienza.
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(più costoso) “progetto preliminare” : è sufficiente uno «studio di fattibilità». Il ricorso alla
conferenza preliminare è stato reso così meno oneroso per il privato dal punto di vista economico.
2. La conferenza di servizi è sempre indetta quando l’amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla
osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga entro 30 giorni da quando l'amministrazione
competente abbia ricevuta la richiesta.
3. La conferenza di servizi può essere convocata anche per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più
procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o risultati.
4. Quando l’attività del privato sia subordinata ad atti di consenso di competenza di più amministrazioni pubbliche, la
conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell’interessato, dall’amministrazione competente per l’adozione
del provvedimento finale.
SEZIONE II – IL FUNZIONAMENTO
1.La disciplina dei lavori della conferenza di servizi. La versione originaria
della L. 241 / 1990 non disciplinava gli aspetti procedurali della conferenza : non erano fissati tempi
di convocazione, tempi di conclusione dei lavori, schemi di lavoro; non era chiaro il regime
giuridico della partecipazione irregolare (cioè la partecipazione effettuata «tramite rappresentanti
privi della competenza ad esprimere definitivamente la volontà delle amministrazioni partecipanti»)
e dell’assenza; non era disciplinato il dissenso. Le varie riforme poi hanno gradualmente colmato le
lacune. L’art. 14-ter della L. 241 / 1990, dedicato ai «lavori della conferenza di servizi», racchiude
ora tutte le previsioni sullo svolgimento della conferenza; l’art. 14-quater è dedicato, invece, agli
«effetti del dissenso espresso in conferenza». Tuttavia la ripartizione di contenuti suggerita dalla
rubricazione dei due articoli non va intesa in modo rigido : nell’art. 14-quater troviamo infatti anche
alcune previsioni sui lavori della conferenza e nell’art. 14-ter troviamo alcune regole sugli effetti
del dissenso espresso in conferenza.
L’art. 14-ter sancisce, in primo luogo, il DOVERE DELLE AMMINISTRAZIONI CONVOCATE
DI PARTECIPARE ALLA CONFERENZA, prevedendo che la «mancata partecipazione» è
rilevante «ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare o amministrativa, nonché ai fini
dell’attribuzione della retribuzione di risultato», oltre che ai fini della responsabilità per danno da
ritardo. Il dovere di partecipazione è un dovere di partecipazione “regolare” : ossia per mezzo di
soggetti (organi o delegati di organi) legittimati ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell’amministrazione rappresentata sulle decisioni di sua competenza.
L’art. 14-ter disciplina in modo preciso i tempi e le modalità di indizione e di convocazione della
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conferenza : «la prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni o, in caso di
particolare complessità dell’istruttoria, entro 30 giorni dalla data di indizione» (1°comma). E’ posta
così una chiara distinzione tra il momento dell’indizione e quello della convocazione della
conferenza (contrariamente a quanto accadeva in base alla disciplina previgente, in cui si stabiliva
un termine per l’«indizione», ma non per la convocazione) : si vuole così evitare che l’inizio dei
lavori conferenziali possa essere rinviato sine die, cioè a tempo indeterminato.
Il 2°comma contempla la possibilità di concordare, per lo svolgimento della prima riunione della
conferenza, una data diversa da quella fissata dall’amministrazione procedente : si vuole così
evitare l’eventualità di «assenze» causate dall’impossibilità di partecipare alla conferenza.
Per quanto riguarda i tempi, l’art. 14-ter stabilisce che “i lavori della conferenza non possono durare
più di 90 giorni” e regola inoltre il rapporto tra la procedura di valutazione di impatto ambientale
(v.i.a.) e la conferenza di servizi, prevedendo che “il termine di conclusione dei lavori della
conferenza resta sospeso, per un massimo di 90 giorni, nei casi in cui debba essere acquisita al
procedimento la v.i.a.”. Inoltre «per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione competente
al rilascio di provvedimenti in materia ambientale può far eseguire tutte le attività tecnico-istruttorie
non ancora eseguite anche da enti pubblici dotati di capacità tecnica equipollente o da istituti
universitari ».
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per questi ultimi di delegare altre persone, conferendo loro adeguati poteri.
Inoltre, l’art. 14-ter, 6°comma, - stabilendo che la partecipazione dell’amministrazione alla
conferenza debba avvenire tramite «un unico rappresentante» per «tutte le decisioni di competenza
dell’amministrazione» - risolve un problema quantitativo (relativo cioè al numero dei soggetti che
l’amministrazione convocata deve inviare in conferenza nei casi in cui essa sia chiamata svolgere in
conferenza più competenze e poteri che, se esercitati al di fuori dell’ambito conferenziale,
condurrebbero a una molteplicità di decisioni) : in tali casi l’amministrazione deve essere
rappresentata da un «unico» soggetto munito dagli organi competenti di «tutte» le deleghe
necessarie per l’esercizio della potestà decisionale. Ma da questa disposizione si può ricavare
implicitamente anche che l’art. 14-ter, 6°comma vuole escludere il conferimento di “deleghe
condizionate” (all’assunzione di una decisione predeterminata) o di “deleghe con riserva di
riesame” (della decisione).
1. La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni ovvero, in caso di particolare complessità
dell'istruttoria, entro 30 giorni dalla data di indizione.La conferenza di servizi può svolgersi per via telematica.
3. Nella prima riunione della conferenza di servizi le amministrazioni partecipanti determinano il termine per l’adozione
della decisione conclusiva. I lavori della conferenza non possono superare i 90 giorni, salvo quanto previsto dal
4°comma.
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4. Nei casi in cui sia richiesta la VIA, il termine per concludere i lavori resta sospeso, per un massimo di 90 giorni, fino
all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale. Per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione
competente al rilascio dei provvedimenti in materia ambientale può far eseguire anche da altri enti pubblici dotati di
capacità tecnica equipollenti o da istituti universitari tutte le attività tecnico-istruttorie non ancora eseguite.
6. Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza di servizi attraverso un unico rappresentante legittimato,
dall’organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione su tutte le decisioni di
competenza della stessa.
6-bis. All'esito dei lavori della conferenza, l'amministrazione procedente, valutate le specifiche risultanze della
conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede, adotta la determinazione motivata di
conclusione del procedimento che sostituisce a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di
assenso di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti. La
mancata partecipazione alla conferenza o la ritardata o mancata adozione della determinazione conclusiva sono
valutate ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare e amministrativa, nonché ai fini dell'attribuzione della
retribuzione di risultato e della responsabilità per danno da ritardo.
7. Si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione (comprese quelle preposte alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, alla tutela paessaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di
VIA, VAS e AIA) il cui rappresentante, all'esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la
volontà dell'amministrazione rappresentata.
disciplina allora vigente, infatti, faceva riferimento al dissenso di “una” amministrazione, ma tale
termine era un articolo indeterminativo, e non un aggettivo numerale. Quindi occorreva individuare
un limite minimo di consensi perché l’amministrazione procedente potesse ritenersi investita del
potere sostitutivo : il legislatore, infatti, per evitare il potere di veto delle amministrazioni
dissenzienti e favorire il raggiungimento dell’esito positivo della conferenza era incorso
nell’eccesso opposto : davanti ai dissensi espressi in sede di conferenza dava all’amministrazione
«sostituta» un potere non regolato con precisione (pensiamo al caso limite della determinazione
conclusiva adottata dalla sola amministrazione procedente in presenza del dissenso di tutte le altre
amministrazioni).
La riforma del “meccanismo di superamento dei dissensi” (introdotta dalla L. 340 / 2000) era una
risposta a questo problema: si individuò anche il LIMITE MINIMO DI ASSENSI per l’attivazione
dei poteri sostitutivi dell’amministrazione procedente (e si fissò il limite massimo di dissensi
superabile). Infatti, l’art. 14-quater, 2°comma (previsione introdotta dalla L. 340 / 2000 e poi
abrogata dalla L. 15 / 2005) recitava: «se una o più amministrazioni hanno espresso in conferenza il
proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assume comunque la
determinazione conclusiva in base alla maggioranza delle posizioni espresse in conferenza ». In
dottrina si è evidenziato come il riferimento alla «maggioranza delle posizioni espresse in
conferenza» nell’art. 14-quater, 2°comma non fosse un criterio decisionale , ma un mero fatto
rilevante cui ricollegare l’attivazione dei poteri sostitutivi dell’amministrazione procedente;
viceversa, la presenza di una maggioranza di dissensi impediva l’attivazione di tali poteri e, dunque,
del “meccanismo di superamento dei dissensi”. Pertanto si auspicava una lettura della disciplina
della L. 340 / 2000 che riconoscesse ai MOTIVATI DISSENSI due ruoli : 1) ove i motivati dissensi
siano prevalenti rispetto ai consensi «essi rileveranno formalmente, cioè come elementi che
impediscono il superamento del dissenso; 2) quando i motivati dissensi siano minoritari rispetto ai
consensi, essi avranno anche una rilevanza sostanziale, influendo ciascuno di essi sul contenuto
della determinazione conclusiva : infatti, nell’esercizio dei poteri sostitutivi tali dissensi potranno
essere superati dall’amministrazione procedente, ma solo motivatamente, con la conseguenza che,
laddove essi si mostrino oggettivamente insuperabili, la determinazione conclusiva positiva non
sarà adottata. Si concludeva quindi che la legge non assoggettava l’assunzione delle decisioni al
PRINCIPIO MAGGIORITARIO, ma coniugava DUE CRITERI : uno quantitativo e formale, e
l’altro qualitativo e sostanziale.
Ed è proprio in questi termini che la disciplina attualmente vigente (introdotta grazie alle modifiche
della legge 15 / 2005 e del d.l. 78 / 2010, convertito in L. 122 / 2010) ha accolto tale istituto : infatti
il vigente art. 14-ter, comma 6-bis, recita : «all’esito dei lavori della conferenza, l’amministrazione
procedente, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni
prevalenti espresse in quella sede, adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento». Esso, quindi, prevedendo che la determinazione conclusiva debba essere
«motivata» in relazione alle «specifiche risultanze» della conferenza e alle «posizioni prevalenti in
essa espresse», sancisce il superamento della tesi della “decisione a maggioranza”. Il CRITERIO
DELLA PREVALENZA si riferisce all’importanza delle attribuzioni di ciascuna amministrazione
riguardo alle questioni in oggetto.
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In ogni caso, data l’importanza di questi interessi (sensibili ed espressi dalle Regioni nelle materie
di propria competenza), per il loro superamento non può essere adottato il meccanismo ordinario di
superamento dei dissensi ex art. 14 ter, comma 6-bis (che fa leva sull’attivazione di poteri
sostitutivi direttamente in capo all’amministrazione procedente). In casi del genere :
previa intesa con le Regioni interessate (in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e
una regionale o tra più amministrazioni regionali);
previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati (in caso di dissenso tra
un’amministrazione statale o regionale e un ente locale).
Se l’intesa non è raggiunta entro 30 giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può essere
comunque adottata.
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3. Se viene espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione è rimessa
dall'amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il Consiglio dei Ministri si pronuncia entro
60 giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate (in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e
una regionale o tra più amministrazioni regionali) o previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati (in caso di
dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale), motivando un'eventuale decisione in contrasto
con il motivato dissenso. Se l'intesa non è raggiunta entro 30 giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può
essere comunque adottata.
Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria
competenza, per il raggiungimento dell'intesa, entro 30 giorni dalla rimessione della questione alla delibera del
Consiglio dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della
regione o della provincia autonoma, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico
rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione
sulle decisioni di competenza. In tale riunione i partecipanti devono formulare le indicazioni necessarie per individuare
una soluzione condivisa. Se l'intesa non è raggiunta nel termine di ulteriori 30 giorni, è indetta una seconda riunione
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con le stesse modalità della prima. Ove non sia comunque raggiunta l'intesa,
in un ulteriore termine di 30 giorni, le trattative sono finalizzate a individuare e risolvere i punti di dissenso. Se all'esito
delle trattative l'intesa non è raggiunta, la deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata con la
partecipazione dei Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.
1) rivedere i meccanismi della rimessione della decisione alla Presidenza del Consiglio, divenuta
troppo frequente : a tal fine essa è stata limitata solo ai casi di dissenso delle amministrazioni
preposte alla tutela di interessi sensibili;
2) responsabilizzare le amministrazioni dissenzienti, che tendevano a bloccare i lavori della
conferenza; a tal fine l’art. 14- quater ha previsto che il dissenso doveva essere, a pena di
inammissibilità, congruamente motivato e non si doveva riferire a questioni connesse non oggetto
della conferenza e doveva indicare le modifiche progettuali necessarie per l’assenso;
Le ultime innovazioni riguardanti l’istituto sono racchiuse nella legge n. 15 / 2005. Il criterio maggioritario si
era rivelato di difficile applicazione per la carenza di precisi criteri di conteggio dei voti per formare le
maggioranze e per la difficoltà di identificare le amministrazioni legittimate ad intervenire nelle conferenze.
Per i c.d. dissensi qualificati (che non possono essere superati con la conferenza di servizi, ma solo con lo
spostamento della decisione dall’amministrazione procedente ad un livello politico-amministrativo
superiore) la l. n. 15 / 2005 ha introdotto precise novità. Innanzitutto le amministrazioni legittimate ad
esprimere il dissenso qualificato sono, oltre a quelle preposte alla tutela ambientale, territoriale e del
patrimonio storico-artistico, anche quelle preposte alla tutela della pubblica incolumità. Se il dissenso
qualificato riguarda amministrazioni statali, la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri; in caso di
dissenso qualificato tra amministrazioni statali e regionali, o tra amministrazioni regionali, la decisione è
rimessa alla Conferenza Stato-Regioni; se infine il dissenso si registra tra amministrazioni statali o regionali
e amministrazioni locali, la decisione è rimessa alla Conferenza unificata.
Un meccanismo analogo a quello previsto per i dissensi qualificati è delineato per i dissensi espressi da una
Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza legislativa (esclusiva o
concorrente che sia). Il dissenso, quindi, può riguardare anche materie diverse da quelle cui afferiscono gli
interessi superprimari. In entrambi i casi (dissensi su interessi superprimari o dissensi su materie di
competenza legislativa di regioni o province autonome) il legislatore ha sostituito il criterio della prevalenza
con quello della concertazione.
Non è stata pacifica in dottrina la qualificazione giuridica della conferenza di servizi : si discute se la stessa si
possa qualificare come organo o come semplice modulo procedimentale. Gli autori che propendono per la
prima tesi, riconducono l’istituto nel novero degli organi collegiali, richiamando l’uso nell’ambito della
conferenza di regole ed istituti che richiamano l’attività dei collegi. L’istituto è considerato come un “organo
temporaneo” con una competenza totale su un determinato oggetto. Ne consegue, secondo tale visione,
che il provvedimento scaturisce dalla determinazione finale raggiunta dalla conferenza ed è a questa
imputabile. L’accoglimento di questa tesi implicherebbe, come conseguenza, il riconoscimento della
soggettività giuridica in capo alla Conferenza dei Servizi, la diretta imputabilità in capo alla stessa del
provvedimento con cui si è assunta la determinazione finale, nonché il riconoscimento della legittimazione
a resistere in giudizio in caso di impugnazione del suo provvedimento.
Il secondo orientamento gode di maggiori consensi e interpreta la conferenza di servizi come mero modulo
100
organizzatorio con funzione di raccordo tra i vari organi di diverse amministrazioni, privo di una sua
individualità. La giurisprudenza è giunta alla conclusione che la conferenza dei servizi non implica una
modificazione delle originarie competenze, che restano invariate, con la conseguenza che ogni soggetto
partecipante deve imputare a sé gli effetti dell’atto che pone in essere. La tesi è stata avvalorata anche dalla
Corte Costituzionale, che ha escluso la natura di organo collegiale della conferenza, sostenendo la natura di
modulo di semplificazione dell’azione amministrativa finalizzata alla formazione di atti complessi, dove c’è
bisogno del concorso di volontà di più amministrazioni. L’inquadramento della conferenza come modulo
procedimentale comporta l’assenza di una legittimazione processuale passiva; quindi, per la corretta
instaurazione del contraddittorio, le notifiche del ricorso devono essere effettuate a quei soggetti che in
seno alla conferenza hanno manifestato la propria volontà. Occorre dunque notificare il ricorso alle autorità
amministrative partecipanti alla conferenza; inoltre, anche se non si può chiamare in giudizio la conferenza,
ciò non implica che debbano essere chiamati sempre tutti i soggetti che vi hanno partecipato, ma solo quelli
che hanno emanato l’atto che si intende impugnare. La
Conferenza di Servizi rappresenta un modulo dell’azione amministrativa che raccoglie le volontà delle
amministrazioni titolari degli interessi pubblici coinvolti nel procedimento amministrativo; ciò consente ai
soggetti interessati al provvedimento finale di far conoscere il proprio punto di vista attraverso la propria
partecipazione, mantenendo ciascun partecipante la propria autonomia. L’avviso espresso dalle singole
amministrazioni resta imputabile solo a loro.
IL DISSENSO ORDINARIO = La disciplina originaria della conferenza di servizi era basata sul principio dell'unanimità, tanto che la
conferenza veniva paralizzata nell'ipotesi di dissenso manifestato in seno alla conferenza da parte di una P.A. intervenuta.
Nel 1993 si è quindi previsto che, in caso di dissenso di un'amministrazione intervenuta, il provvedimento poteva essere comunque
adottato con l'intervento del presidente del consiglio dei Ministri, sollecitato dall'amministrazione procedente.
Un'ulteriore modificazione venne introdotta dalla L. n. 127/1997, la quale attribuì all'amministrazione procedente il potere di adottare la
statuizione finale nonostante il contrario avviso espresso in seno alla conferenza, a patto che detto provvedimento venisse comunicato
al Presidente del Consiglio dei Ministri alla Regione o al Sindaco.
Successivamente, la L. 340/2000 propose un più radicale strumento di elusione dei dissensi con un meccanismo che abilitava
l'amministrazione procedente, ove l'avesse ritenuto, a recepire la posizione maggioritaria espressa in sede di conferenza.
A sua volta la regola maggioritaria è stata successivamente, almeno in parte, stemperata con la riforma ex lege n. 15/2005, attraverso
l'introduzione del concetto delle posizioni prevalenti.
L'art. 14-quater disciplina gli effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi.
Secondo l'art. 14-quater il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni che siano state regolarmente convocate alla
conferenza di servizi deve essere manifestato, a pena d'inammissibilità, nella conferenza stessa e deve essere congruamente motivato,
non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscano oggetto della conferenza medesima e deve recare la specifica indicazione
delle modifiche progettuali necessarie per l'assenso.
Quindi, il dissenso non può essere puro e semplice ma deve essere accompagnato dalle ragioni di fatto e di diritto idonee a giustificarlo.
Pertanto se nell'ambito della conferenza di servizi una o più amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso sulla proposta
dell'amministrazione procedente, quest'ultima adotta comunque la determinazione motivata di conclusione del procedimento sulla base
delle posizioni prevalenti espresse in sede di conferenza di servizi, e tale decisione è immediatamente esecutiva.
Per stabilire quale sia la posizione prevalente, l'amministrazione procedente dovrà avere riguardo alle singole posizioni che le diverse
amministrazioni assumono in sede di conferenza.
Dal momento che la conferenza non sposta le singole competenze, l'amministrazione dissenziente avrà a disposizione gli strumenti
della tutela giurisdizionale.
IL DISSENSO QUALIFICATO = Non sempre, tuttavia, la conferenza di servizi può concludersi superando autonomamente il dissenso
di alcune amministrazioni coinvolte. Infatti, qualora il motivato dissenso sia qualificato, cioè espresso da talune amministrazioni, titolari
della cura di interessi sensibili, lo stesso non può essere superato in sede di conferenza di servizi e trova una specifica disciplina
nell'art. 14-quater della L. 241/1990.
L'espressione di tale dissenso produce, invece, l'effetto di rimettere la decisione oggetto della conferenza ad altro e superiore livello di
governo.
101
Innanzitutto, anche a queste amministrazioni si applica il primo comma dell'art. 14-quater, che disciplina le modalità di manifestazione
del dissenso: infatti, il dissenso espresso dalle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità «deve essere manifestato nella conferenza di servizi, deve essere
congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare
le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso».
Ne discende che anche le amministrazioni titolari della cura di interessi sensibili si devono esprimere in sede di conferenza di servizi.
Nei casi di «motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico - territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità» la decisione finale è rimessa al Consiglio dei Ministri.
1. Natura giuridica del diritto di accesso. L’art. 22, 1°comma, lett. a) della L.
241 / 1990 definisce il DIRITTO DI ACCESSO come «il diritto degli interessati di prendere visione
e di estrarre copia di documenti amministrativi». Sembrerebbe quindi che il diritto di accesso abbia
natura di “diritto soggettivo perfetto”, ma la questione è ancora controversa. Dopo la promulgazione
della L. 241 / 1990 la giurisprudenza prevalente qualificava il diritto di accesso come “diritto” vero
e proprio, sicché il ricorso proposto a tutela di esso doveva intendersi non come impugnativa di un
provvedimento amministrativo, ma come diretto all’accertamento del diritto e alla condanna del
soggetto obbligato ad esibire i documenti richiesti. Un altro orientamento, minoritario, qualificava
l’accesso come “interesse legittimo”, concludendo che il giudizio proposto contro il diniego di
accesso avrebbe dovuto avere natura impugnatoria. Sottoposta nel 1999 la questione all’Adunanza
Plenaria, il Consiglio di Stato privilegiò la seconda soluzione, sulla base di due motivazioni : 1)
perché il legislatore, pur avendo qualificato l’ “accesso ai documenti” come «diritto», ha disposto
all’art. 25, 5°comma un termine perentorio entro cui è proponibile il ricorso «contro le
determinazioni amministrative riguardanti il diritto di accesso» (ciò per salvaguardare gli interessi
pubblici coinvolti nel procedimento); 2) in tutti i settori in cui le leggi attribuiscono
all’amministrazione il potere di valutare tutti gli interessi coinvolti e di incidere unilateralmente con
un provvedimento autoritativo sulla sfera giuridica altrui, la posizione del soggetto leso è qualificata
come interesse legittimo, tutelabile in sede giurisdizionale con l’impugnazione del provvedimento
lesivo.
Tuttavia anche dopo il 1999, alcune decisioni hanno ribadito la natura di “diritto soggettivo” del
diritto di accesso. Infatti il Consiglio di Stato ha affermato che l’accesso è un “diritto soggettivo”,
sia in base alla sua formale definizione come tale, sia per alcuni profili della sua disciplina, come ad
esempio la mancanza di discrezionalità per le amministrazioni nell’adempiere alla pretesa del
privato, la non necessità che il documento amministrativo riguardi uno specifico procedimento e
l’attribuzione delle controversie in materia alla “giurisdizione esclusiva del giudice
102
amministrativo”. Inoltre che si tratti di un “diritto soggettivo”, di cui devono essere garantiti i livelli
essenziali su tutto il territorio nazionale, risulta anche dall’art. 22, 2°comma della L. 241 / 1990, che
qualifica l’accesso come uno strumento di attuazione del principio di imparzialità, imparzialità che
non sarebbe tale se non fosse assicurata in egual modo su tutto il territorio nazionale.
Sulla questione poi è tornata a pronunciarsi l’Adunanza Plenaria nel 2006 : il Consiglio di Stato ha
prima confermato che la tesi che qualifica il diritto di accesso come “diritto soggettivo” è confortata
dalla sua inclusione tra le prestazioni riguardanti i diritti civili e politici, di cui devono essere
assicurati i livelli essenziali su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117 Cost. (ex art. 22,
2°comma della L. 241 / 1990) e dalla riconduzione del giudizio in tema di accesso alla
“giurisdizione amministrativa esclusiva” (prevista dall’art. 25, 5°comma); poi (nel 2011) ha ritenuto
«non utile» prendere posizione sulla questione, perchè il diritto di accesso è una situazione
soggettiva «strumentale» che offre all’interessato «poteri procedimentali» volti alla tutela di un
interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi).
*GIURISDIZIONE ESCLUSIVA : la “giurisdizione esclusiva” è una delle articolazioni della giurisdizione amministrativa nell'ordinamento italiano.
In generale, il giudice amministrativo giudica sulla legittimità dei provvedimenti e dei comportamenti dell'autorità amministrativa lesivi di interessi legittimi.
Per quanto riguarda la tutela dei diritti soggettivi è invece competente il giudice ordinario. In deroga a tale criterio generale di riparto di giurisdizione, l'art.
103 della Costituzione ammette che i TAR e il Consiglio di Stato possano avere, in particolari materie indicate dalla legge, una giurisdizione estesa alla
tutela dei diritti soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione (cd. giurisdizione esclusiva).
2. I soggetti attivi. L’art. 22, 1°comma, lett. b) della L. 241 / 1990 individua i SOGGETTI
«INTERESSATI» ALL’ACCESSO : essi sono «tutti i soggetti privati (compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi) che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso».
L’esigenza che alla base dell’istanza di accesso ci sia un interesse diretto, concreto e attuale serve
ad escludere che l’istituto consenta indistintamente a tutti i privati di esercitare un “controllo
generalizzato e illimitato sull’operato dell’amministrazione”.
C’è tuttavia una prima eccezione, che scaturisce dall’obbligo di adeguamento della legislazione
interna al diritto comunitario. L’art. 3 del d.lgs. 39 / 1997 (attuativo di una direttiva comunitaria del
1990), introduce nel nostro sistema una “fattispecie speciale di accesso in materia ambientale” : per
assicurare la libertà di accesso a tutte le INFORMAZIONI SULL’AMBIENTE in possesso delle
pubbliche amministrazioni, queste hanno l’obbligo di rendere disponibili tali informazioni «a
chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse».
La disciplina è stata confermata dall’art. 3 del d.lgs. 195 / 2005 (in attuazione di una direttiva
comunitaria del 2003) , ma con alcune limitazioni : si esclude il diritto di accesso nei casi in cui : 1)
la richiesta sia manifestamente irragionevole; 2) la richiesta sia troppo generica; 3) la divulgazione
dell’informazione pregiudichi la riservatezza dei dati personali o riguardanti una persona fisica.
Una seconda eccezione è data dall’“ACCESSO CIVICO” (ossia il diritto di richiedere documenti o
informazioni che le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare nei propri siti
istituzionali), disciplinato dall’art. 4 del d. lgs. 33 / 2013, secondo cui la richiesta di accesso civico
103
non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, non
deve essere motivata ed è gratuita.
Una forma peculiare di accesso è quella prevista dal “T.U. SUGLI ENTI LOCALI” (d.lgs. 267 /
2000), che consente ai consiglieri comunali di ottenere dagli uffici ed enti dipendenti non solo
l’accesso ai documenti amministrativi, ma anche (ed è questa la particolarità) tutte le informazioni
in loro possesso che siano utili all’espletamento del proprio mandato. Tale diritto serve a
permettere ai consiglieri comunali di effettuare un efficace controllo sull’operato
dell’amministrazione.
Tra gli “interessati all’accesso” figurano anche i «soggetti privati portatori di interessi pubblici o
diffusi» (costituiti in associazioni o enti) : in tal caso, però, l’accesso presuppone, oltre alla
sussistenza dei requisiti dell’ “attualità” e della “concretezza dell’interesse”, anche la verifica della
rappresentatività dell’associazione o dell’ente esponenziale e della pertinenza dei fini statutari
rispetto all’oggetto dell’istanza.
3. I soggetti passivi. L’art. 23 della L. 241 / 1990 stabilisce che “il diritto di accesso si
esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti
pubblici e dei gestori di pubblici servizi”. Proprio con riferimento al settore dei “pubblici servizi”,
la giurisprudenza ha affermato che, indipendentemente dal titolo giuridico in base a cui viene
gestito il servizio pubblico, ciò che attiva il “diritto di accesso” sono le attività correlate al pubblico
servizio : in base a questo orientamento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha inserito
nell’alveo del diritto di accesso anche “l’attività svolta dai soggetti privati che espletano compiti di
interesse pubblico” (ad es. concessionari di pubblici servizi).
4. Oggetto del diritto di accesso. L’art. 22, 3°comma della L. 241 / 1990 dispone
che “Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, eccetto quelli indicati dall’art. 24”. Occorre
chiarire, allora, cosa vuol dire «accessibile», poiché l’art. 10 della L. 241 / 1990 (incluso tra le
“norme sulla partecipazione”) prevede che «I soggetti legittimati a partecipare possono prendere
visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’art. 24». Il problema che si era posto
in passato era se un documento «visionabile» in sede partecipativa fosse, per ciò solo,
«accessibile» : la giurisprudenza ha risposto in modo positivo, affermando che “il diritto di
prendere visione degli atti del procedimento” si configura come lo stesso diritto di accesso di cui
all’art. 22, distinguendosi tra «accesso partecipativo» e «accesso informativo».
Detto ciò, occorre stabilire che cosa si intende per “documento amministrativo” : al riguardo, il
legislatore – nell’originaria formulazione dell’art. 22 (prima della riforma del 2005) – riteneva
accessibili quei “documenti formati dalle amministrazioni” o, comunque, “usati ai fini dell’attività
amministrativa”. La norma, però, non era di facile interpretazione, anche perché in relazione ad essa
in dottrina si pose il problema di stabilire se tra questi atti potessero, ad esempio, essere inclusi i
“pareri dei consulenti di parte” e “quelli dell’Avvocatura di Stato” : del primo quesito si occupò la
giurisprudenza, che stabilì che – riguardo ai “pareri resi dai consulenti” – il “diritto di accesso” era
da escludere, poichè il “segreto professionale” è specificamente tutelato dall’ordinamento. Si
precisò però che l’accesso era consentito in relazione a quei pareri che si inserivano nell’ambito di
una specifica istruttoria procedimentale, perché in tal caso il parere legale sarebbe stato collegato a
104
5. Limiti. La L. 241 / 1990 contempla “3 categorie di limiti all’esercizio del diritto di accesso” :
1) nella prima categoria, contemplata dall’ art. 24, 1°comma della L. 241 / 1990, l’accesso è escluso
per esplicita volontà del legislatore. Il diritto di accesso è escluso : a) per i documenti coperti dal
“segreto di Stato” e per quelli coperti da “divieto di divulgazione” espressamente previsti dalla
legge; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della P.A. volta all’emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti
selettivi (nei confronti di “documenti amministrativi contenenti informazioni psicoattitudinali
relative a terzi”).
2) nella seconda categoria, invece, sono contemplati gli atti che – ai sensi dell’art. 17, 2°comma
della L. 400 / 1988, devono essere individuati con regolamento e in relazione ai quali le singole
amministrazioni possono negare l’accesso. Attualmente, con riferimento a queste ipotesi, vigono le
norme del d.p.r. 352 / 1992, secondo cui l’accesso ai documenti amministrativi può essere negato :
a) quando dalla loro divulgazione possa derivare una lesione alla “sicurezza nazionale”; b) quando
possa compromettere i “processi di attuazione della politica monetaria”; c) quando i documenti
riguardino “le strutture”, “il personale” e le “azioni strumentali alla tutela dell’ordine pubblico e alla
repressione della criminalità”; d) quando i documenti riguardino “la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, di persone giuridiche, di imprese o associazioni”. Quest’ultima ipotesi coinvolge il
rapporto tra ESIGENZE DI INFORMAZIONE, strumentali alla difesa di interessi individuali e
DIRITTO ALLA RISERVATEZZA. Il “diritto alla riservatezza” è una situazione giuridica
soggettiva disciplinata dal “Codice in materia di protezione dei dati personali”. Sul punto, il
105
principio guida è quello per cui l’interesse alla riservatezza recede quando l’accesso è esercitato per
difendere un interesse giuridico leso.
3) nella terza categoria, infine, troviamo le ipotesi in cui l’amministrazione può differire (=
rimandare) l’accesso. Il differimento può essere disposto “per un tempo sufficiente ad assicurare
una temporanea tutela agli interessi di cui all’art. 24, 6° comma della L. 241 / 1990” o “per
salvaguardare specifiche esigenze dell’amministrazione” in relazione a documenti la cui
conoscenza possa compromettere il buon andamento dell’azione amministrativa. In ogni caso,
l’atto che dispone il differimento dell’accesso deve indicarne la durata.
CAPO V
(si veda il regolamento approvato con D.P.R. 184 del 2006)
a) per "DIRITTO DI ACCESSO" il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi.
b) per "INTERESSATI" tutti i soggetti privati (compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi) che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso.
c) per "CONTROINTERESSATI" tutti i soggetti che vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza dall’esercizio
del diritto di accesso.
d) per "DOCUMENTO AMMINISTRATIVO" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti (anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento) detenuti da
una P.A. e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della
loro disciplina.
e) per "PUBBLICA AMMINISTRAZIONE" tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla
loro attività di pubblico interesse.
2° comma : L’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa” al fine di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza.
3° comma : Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2,
3, 5 e 6.
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6° comma : Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della L. 400 del 1988, il Governo può
prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi: a) Quando dalla loro divulgazione possa derivare
una lesione alla sicurezza nazionale, all'esercizio della sovranità nazionale e alla continuità delle relazioni
internazionali. b) Quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di determinazione e attuazione della politica
monetaria. c) Quando i documenti riguardino le strutture, il personale e le azioni strumentali alla tutela dell'ordine
pubblico e alla repressione della criminalità. d) Quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni.
1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi. L’esame dei
documenti è gratuito.
2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha
formato il documento o che lo detiene stabilmente.
3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall’articolo 24 e
devono essere motivati.
4. Decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell'accesso, espresso o
tacito, o di differimento dello stesso, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale.
5. Le controversie relative all'accesso ai documenti amministrativi sono disciplinate dal codice del processo
amministrativo.
Cioè…
Art. 116 c.p.a. : Rito in materia di accesso ai documenti amministrativi
1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso il ricorso è proposto entro 30 giorni
dalla conoscenza della decisione o dalla formazione del silenzio.
-PARTE 4. PROVVEDIMENTI E
COMPORTAMENTI-
-CAPITOLO 1. IL PROVVEDIMENTO-
107
imporre una “concessione d’uso del suolo demaniale” !). Tuttavia, anche se questi provvedimenti
non sono autoritativi nei confronti di coloro che li hanno richiesti, non può escludersi qualche altro
profilo di autoritarietà : 1) in primo luogo il provvedimento, favorevole nei confronti del
destinatario, può essere sfavorevole nei confronti di soggetti diversi (soggetti terzi) : in tal caso il
provvedimento esprime il carattere autoritativo nei loro confronti; 2)
inoltre, se il provvedimento favorevole non viene rilasciato, colui che lo ha chiesto risente di
conseguenze sfavorevoli e può reagire impugnando il provvedimento negativo. Lo stesso accade se
l’amministrazione non provvede né positivamente né negativamente (ipotesi di silenzio).
Chiarito ciò, c’è un altro problema da risolvere : sempre con riferimento al profilo
dell’autoritarietà, la dottrina ha sollevato qualche dubbio riguardo ai PROVVEDIMENTI
VINCOLATI, che l’amministrazione adotta in esecuzione di disposizioni per essa vincolanti e
senza scelte discrezionali; in questi casi, si afferma che l’ “autoritarietà” non sussisterebbe, in
quanto l’amministrazione si limiterebbe ad attuare norme di rango superiore (leggi, regolamenti).
Tuttavia, anche per questa tipologia di atti è doveroso avanzare qualche osservazione : da un lato,
infatti, anche per i provvedimenti vincolati, occorre verificare se sussistano in concreto i
“presupposti di fatto cui la disposizione collega l’adozione del provvedimento” e tale verifica è
rimessa all’amministrazione, dall’altro l’atto dell’amministrazione è un atto necessario affinché si
verifichi l’effetto disposto dalla disposizione vincolante : anche se l’effetto è disegnato dalla norma,
perché esso si produca concretamente occorre che l’amministrazione adotti l’atto di sua competenza
(quindi l’effetto è “costituito dall’atto”, ma è “determinato dalla disposizione vincolante”). Pertanto,
in caso di provvedimenti vincolati, l’amministrazione ha almeno il potere di costituire l’effetto (è
titolare cioè di potere costitutivo), anche se non ha potere determinante (cioè di determinare
l’effetto dell’atto che compie).
Infine di recente è stata criticata l’autoritarietà/imperatività del provvedimento e si è sostenuto che
il provvedimento, come atto di esercizio del potere, non si differenzia dagli atti privati, esercizio di
poteri privati. Questa teoria, però, non può essere condivisa, anche perché non è difficile rendersi
conto che il “potere” esercitato dall’amministrazione non conosce similitudini con i “poteri privati”
(i c.d. diritti potestativi) : il diritto potestativo presuppone la preesistenza di un rapporto giuridico
tra il titolare del potere e colui che è soggetto a questo potere (rapporto che tra l’altro è nato con il
“consenso della controparte”). Inoltre, il potere è funzionalizzato (= attribuito per una specifica
funzione), il diritto potestativo non lo è ed è anche diversa la situazione giuridica soggettiva che
fronteggia l’uno e l’altro : al potere autoritativo si contrappone l’interesse legittimo, al diritto
potestativo si contrappone la mera soggezione.
Ad ogni modo, in mancanza di un’apposita disciplina, gli “elementi essenziali del provvedimento
amministrativo” sono stati individuati dalla dottrina : il SOGGETTO, l’OGGETTO, il
CONTENUTO, la FORMA e i MOTIVI. Analizziamoli nel dettaglio :
1) Il “soggetto” non può essere considerato propriamente un elemento dell’atto : semmai esso ne è
l’autore e, quindi, se il provvedimento non proviene dall’organo che ha il potere di adottarlo, esso
può essere sì nullo, ma non per mancanza di un elemento essenziale, ma per “difetto assoluto di
attribuzione”.
2) Quanto all’“oggetto”, pur ammettendo che esso sia un elemento del provvedimento (il che è
discutibile), non è la sua mancanza a determinare la nullità del provvedimento, ma la mancanza
della sua individuazione.
3) Quanto ai “motivi” bisogna invece sviluppare un discorso particolare : innanzitutto per molti
decenni la dottrina si è chiesta se per il provvedimento amministrativo, così come per il contratto,
possa parlarsi di “causa” (nel senso di funzione economico-sociale dell’atto) e si è sostenuto che,
poiché i provvedimenti sono “atti tipici” e perseguono gli “interessi pubblici indicati dalla legge”, è
superfluo elevare la “causa” ad elemento essenziale del provvedimento : la funzione del
provvedimento è predeterminata dalla legge e quindi è inutile che nella struttura del provvedimento
venga incluso un elemento che consenta di valutare la “meritevolezza dell’interesse perseguito”.
Tuttavia, questa conclusione merita qualche precisazione : poichè l’interesse pubblico
concretamente perseguito non è direttamente indicato dalla legge, ma è determinato in concreto
dall’amministrazione nel procedimento amministrativo (componendo più interessi pubblici,
astrattamente indicati dalla legge, e considerando anche gli interessi privati coinvolti) può essere
giustificato parlare di “causa del provvedimento” riguardo all’interesse concretamente individuato
e perseguito dall’amministrazione.
Tuttavia, se si accetta una conclusione del genere, bisogna anche tener presente che - a differenza
del contratto (dove solo la “causa” assume importanza, mentre i “motivi” sono irrilevanti) - nel
provvedimento amministrativo i “motivi per cui il provvedimento è adottato” occupano un posto di
primo piano, poiché l’amministrazione ha l’obbligo di indicare sia i presupposti di fatto che le
ragioni giuridiche che determinano l’adozione della decisione. Di conseguenza, è inutile separare la
causa dai motivi, poichè la “causa” è l’ultimo stadio del percorso motivazionale, che è per intero
rilevante. Quindi non è necessario parlare di “causa del provvedimento”, poiché la stessa può essere
tranquillamente incorporata nell’ambito dei motivi (tutti rilevanti) che giustificano l’adozione del
provvedimento.
Per legge, poi, (art. 3 della L. 241 / 1990), una volta indicati i motivi, “la P.A. ha l’obbligo di
esternarli nel provvedimento” : l’ “esternazione dei motivi” (l’indicazione dei presupposti di fatto e
delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione) è detta “motivazione”.
Tuttavia la carenza o l’insufficienza della motivazione non determina la nullità del provvedimento,
ma solo la sua “annullabilità” : quindi se ne deduce che nemmeno la “motivazione” è un elemento
essenziale del provvedimento. Invece, ciò che assume carattere “essenziale” è solo l’“esternazione”
(ossia la manifestazione all’esterno del contenuto decisionale del provvedimento), poichè nessun
atto giuridico può essere definito tale se non ne viene resa possibile la conoscibilità.
4) Non bisogna però confondere l’esternazione con la “forma”, che indica il modo
dell’esternazione. Per i provvedimenti amministrativi vige la regola della “forma scritta”, il che
significa che l’esternazione deve avvenire con la redazione di un testo scritto. Non vige invece
alcuna regola vincolante di forme solenni : è possibile infatti che l’esternazione assuma una certa
110
forma (ad esempio, il decreto o l’ordinanza), ma in realtà il provvedimento può essere esternato in
qualsiasi altra forma, purché scritta. In questo senso si può parlare di “libertà delle forme” :
«qualunque modo espressivo del provvedimento scritto è valido».
Si può concludere che elementi essenziali del provvedimento sono solo il CONTENUTO
DECISIONALE e LA SUA ESTERNAZIONE : quindi perché il provvedimento sia considerato
esistente, basta che ci sia un regolamento di interessi (“contenuto decisionale”) in forma conoscibile
(“esternato”) e riferibile ad un organo attributario del potere di adottarlo.
111
d’ufficio.
Mentre i PROVVEDIMENTI SFAVOREVOLI vengono inclusi nell’unica categoria dei
“provvedimenti ablatori”, i PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI sono suddivisi in “autorizzazioni”
e “concessioni”. Ma perché le autorizzazioni e le concessioni non sono state ricomprese in un’unica
categoria? La risposta al quesito ci è stata fornita dal Ranelletti : secondo l’autore, con le
“autorizzazioni” si rimuove un ostacolo all’esercizio di un diritto di cui il privato è già titolare ;
tuttavia, nonostante la definizione sia molto chiara, essa va precisata, perché nella realtà ci sono
anche delle ipotesi in cui il privato, prima di chiedere l’autorizzazione, non è già titolare di un
diritto soggettivo : infatti è possibile che una certa attività sia nella DISPONIBILITA’ TEORICA
del privato (che rispetto ad essa può essere titolare di un diritto, di una libertà o di una semplice
possibilità di svolgerla). In tali ipotesi, perciò, affinchè questa disponibilità teorica diventi effettiva,
occorre un “provvedimento autorizzatorio” dell’amministrazione, che, in vista della decisione da
adottare, deve verificare se l’attività che è nella disponibilità teorica del privato possa essere svolta
per non contrastare con interessi pubblici coinvolti.
Invece, per Ranelletti con le “concessioni” si conferiscono al privato nuovi diritti. Anche in questo
caso però dobbiamo fare una precisazione : la concessione, oltre a creare nuovi diritti, può
determinare l’acquisto di utilità diverse (ad es. le onorificenze). In questo caso possiamo dire che
beni e attività non sono nella disponibilità teorica del privato, ma nella disponibilità
dell’amministrazione o addirittura non sono nella disponibilità né del privato né
dell’amministrazione. Trattandosi di beni e attività indisponibili (= indisponibilità teorica), occorre
un provvedimento che crei tale disponibilità nel privato : è necessario, cioè, che l’amministrazione
adotti un “provvedimento concessorio”, in modo da attribuire al privato delle“utilitates” (diritti,
qualità, onorificenze), e ciò a sua volta può avvenire o trasferendo al privato diritti riservati
all’amministrazione o costituendo ex novo nuovi diritti.
Per comprendere meglio la distinzione, esaminiamo la vicenda del “permesso di costruire” : esso
prima era chiamato “licenza edilizia”, in base al presupposto che il diritto di costruire (ius
aedificandi) inerisse al diritto di proprietà : pertanto il provvedimento era necessario solo per
l’esercizio di tale diritto (aveva natura autorizzatoria). Successivamente il legislatore, ritenendo che
il ius aedificandi non attenesse al diritto di proprietà, ha sostituito l’atto autorizzatorio con un atto il
cui effetto era di attribuire il ius aedificandi al privato proprietario dell’area fabbricabile : pertanto
ha cambiato non solo il nome (“concessione di costruzione”), ma ha anche ritenuto che il
provvedimento avesse natura concessoria, affermandone al contempo il carattere oneroso (è stata
imposta infatti la corresponsione di un contributo per il suo rilascio). Tuttavia la Corte
costituzionale successivamente ha affermato che «la concessione a edificare non attribuisce diritti
nuovi, ma presuppone facoltà preesistenti». Cosicché il provvedimento ha conservato carattere di
“autorizzazione” e si è introdotta la nuova dizione di “permesso di costruire”.
negozi o contratti (e in passato si sono verificati casi di questo genere), l’assoggettamento degli atti
concessori alla disciplina pubblicistica è stata dettata dall’esigenza di tutelare meglio i privati
interessati : il “richiedente”, infatti, essendo titolare di un interesse legittimo, può sfruttarne gli
strumenti di tutela sia nel procedimento sia contro il provvedimento; inoltre anche il “terzo
contrario al rilascio della concessione” ha titolo a partecipare al procedimento e ad impugnare la
concessione rilasciata ad altri. Queste forme di tutela sarebbero difficilmente concepibili se l’attività
dell’amministrazione si esprimesse in atti negoziali.
Le CONCESSIONI tradizionalmente si distinguono in COSTITUTIVE (quando assegnano
un’utilitas di nuova creazione al concessionario : si pensi ad esempio alla “concessione della
cittadinanza”) e TRASLATIVE (quando trasferiscono al concessionario un’utilitas che è nella
disponibilità dell’amministrazione; ad esempio le “concessioni di diritti di godimento esclusivo su
porzioni di beni demaniali” : suolo pubblico per tavolini di bar o tratti di litorale per stabilimenti
balneari). Le concessioni «non costitutive» ( = traslative) possono essere sostituite da d.i.a. (ora
s.c.i.a.).
Una specie particolare di concessioni sono le SOVVENZIONI, aventi ad oggetto l’erogazione di
danaro pubblico senza che siano previste prestazioni corrispettive da parte del sovvenzionato. Le
sovvenzioni devono rispondere a interessi pubblici (ad esempio, lo sviluppo industriale di un certo
territorio o di un certo settore o l’esigenza di riparare i danni causati da eventi naturali). Se le
finalità di interesse pubblico non vengono realizzate, la sovvenzione va revocata e il denaro erogato
deve essere restituito.
*CANONE = Il canone demaniale è un corrispettivo che il concessionario ha l'obbligo di corrispondere ed è, quanto alla sua
quantificazione, il risultato di una determinazione autoritativa dell'ente concedente. La P.A. esige un dato corrispettivo per l'uso speciale
o per lo sfruttamento commerciale del bene pubblico. Il canone di una concessione demaniale è quindi il corrispettivo per il godimento e
l'uso di un bene pubblico – del demanio o del patrimonio indisponibile - che si è attribuito ad un privato.
114
*REQUISIZIONE : la requisizione è l'atto giuridico con cui si priva un soggetto dei suoi diritti di possesso (e talvolta
la proprietà) di un bene. È cioè un provvedimento con il quale la P.A. sottrae al privato (in via temporanea o definitiva) il
godimento di un bene, mobile o immobile, a motivo del superiore interesse pubblico, contro un indennizzo.
Si distingue tra “requisizione in proprietà” (riguarda solo i beni mobili ed ha effetti definitivi) e “requisizione in uso” (può
interessare anche i beni immobili ed ha effetti limitati al tempo necessario per l'utilizzo del bene). La requisizione
è consentita solo “quando ricorrano gravi e urgenti necessità pubbliche. Che differenza c’è tra l’ “espropriazione” e la
“requisizione in proprietà”?
In entrambi i casi la persona viene privata della proprietà di un bene, ma la requisizione si differenzia dalla
espropriazione perché non è sufficiente un generico pubblico interesse, ma è necessaria la presenza di gravi e urgenti
necessità, tipiche delle situazioni impreviste o imprevedibili. Inoltre, l’espropriazione può avere ad oggetto beni immobili
(case, terreni ecc.), mentre la requisizione in proprietà esclusivamente beni mobili.
corrispettivo pattuito, ma ciò non implica che la concreta dazione abbia effettivamente luogo).
L’“EFFICACIA” può essere oggetto di una duplice considerazione : riguardo ad uno specifico atto
(e in tal caso assumeranno rilevanza gli effetti tipici, propri di uno specifico atto) e riguardo a una
specifica categoria di atti (e in tal caso, assumeranno rilevanza gli effetti propri dell’intera
categoria di atti con caratteri comuni).
Dal punto di vista temporale, l’efficacia è di regola istantanea, anche se esistono anche fattispecie a
efficacia retroattiva, differita o addirittura sottoposti a condizione sospensiva (in quest’ultimo caso,
però, bisogna tener presente che la sospensione paralizza gli effetti dell’atto, ma non ne pregiudica
la validità : questo perché gli incisi “inefficacia” e “invalidità” attengono a due ambiti diversi;
infatti, mentre l’inefficacia è il “prodotto di alcuni aspetti della volontà delle parti o comunque di
elementi estrinseci al negozio”, l’invalidità è il “portato di vizi intrinseci all’atto”, che è difforme
alle norme giuridiche che lo disciplinano).
Inoltre l’efficacia di un atto presuppone necessariamente la sua validità (perfezione), ma non è vero
il contrario : possono cioè individuarsi atti “validi”, ma inefficaci. Tuttavia l’efficacia di un atto
non è preclusa da “vizi di annullabilità” che, finché non vengono fatti valere, non impediscono la
produzione di effetti giuridici.
L’INEFFICACIA in genere è assoluta (nel senso che può essere opposta a tutti) : ciò significa che
l’atto non può essere fatto valere né a favore, né contro alcuno (= cioè non produce effetti nei
confronti di nessuno). Questa regola, però, conosce delle eccezioni, poiché il nostro ordinamento
contempla alcune ipotesi di “inefficacia relativa”, così denominate perché inficiano l’atto non nei
suoi effetti diretti, ma in quelli riflessi : in tal caso solo i terzi interessati possono far valere
l’inefficacia (l’esempio tipico è il negozio giuridico, che, pur essendo efficace tra le parti contraenti,
non è opponibile a terzi, che proprio per questo motivo, potranno far valere l’inefficacia dello
stesso).
A volte l’efficacia di un atto è subordinata all’adozione di un altro atto, la cui presenza è necessaria
per eliminare un limite legale imposto dall’ordinamento : in questi casi, l’atto ulteriore può essere
preventivo (autorizzazione) o successivo (approvazione, omologazione) : in questi casi si parla di
“ATTI INTEGRATIVI DELL’EFFICACIA”.
Distinguiamo 3 tipi di efficacia :
2. L’efficacia degli atti amministrativi. Rispetto agli “atti giuridici”, gli “atti
amministrativi” e i “provvedimenti amministrativi” sono espressione di un potere pubblico
(normativamente predefinito) il cui esercizio è affidato a organi della P.A. per perseguire
determinati interessi pubblici. Sul piano dell’efficacia, il provvedimento amministrativo – a
differenza degli atti giuridici – è in grado di trasformare il proprio contenuto dispositivo in
conseguenze pratiche (cioè di produrre effetti) anche a prescindere dalla volontà del destinatario (in
tal senso si dice che il provvedimento ha “efficacia unilaterale”).
Tuttavia, l’“incidenza ( = efficacia) unilaterale del provvedimento amministrativo sulla sfera
giuridica altrui” è stata posta in discussione da alcuni studiosi riguardo ai PROVVEDIMENTI
FAVOREVOLI per il destinatario (autorizzazioni e concessioni), il cui rilascio è subordinato ad
un’apposita istanza degli interessati. Questa teoria, tuttavia, non può essere condivisa, in quanto per
questi provvedimenti, pur essendo possibile l’assoluta coincidenza della volontà delle parti (la P.A.
e il privato), l’ “istanza del privato” non può essere equiparata a una “manifestazione di consenso”,
poiché non si realizza una fusione di volontà : questa istanza, piuttosto, deve essere intesa come una
condicio sine qua non, senza la quale l’amministrazione non può attivarsi; inoltre
l’amministrazione, una volta attivatasi, potrà anche discostarsi dalla richiesta dell’interessato, non
solo respingendola, ma anche imponendo una serie di vincoli e limiti (che sono incompatibili con la
logica della parità contrattuale).
Una volta, quindi, confermata l’incidenza unilaterale del provvedimento amministrativo,
bisogna analizzare le caratteristiche di quest’efficacia, così come descritte dalla L. 241 / 1990 :
117
territorio : infatti l’amministrazione competente (che può essere un ente territoriale, un’articolazione
decentrata dell’amministrazione statale, un ente pubblico, ecc.) può emanare atti che hanno
efficacia solo nell’ambito territoriale di propria competenza (si pensi all’ “ordine di demolizione di
costruzione abusiva”, emanato dal sindaco, che non può colpire un manufatto che sorge al di fuori
del Comune). Tuttavia ci sono delle eccezioni : 1) alcuni “atti emanati da organi di un ente
territoriale” esplicano efficacia anche al di fuori del territorio dell’ente (si pensi alla carta di
identità, rilasciata dal Comune e valida su tutto il territorio nazionale); 2) gli “atti concernenti status
o capacità” e i “documenti di riconoscimento”, che vengono rilasciati dagli enti in cui si risiede o
dagli enti che curano appositi albi o registri a cui la persona è iscritta, spiegano effetti anche al di
fuori del territorio di competenza (il certificato rilasciato dalla Camera di commercio di una certa
Provincia legittima a partecipare a gare pubbliche bandite su tutto il territorio nazionale; e
l’architetto iscritto all’ordine degli architetti di Milano può esercitare la sua professione in tutto il
territorio nazionale); 3) i “provvedimenti di polizia”, che non sono sottoposti a limitazioni
territoriali nonostante provengano da organi decentrati (questura, commissariati, ecc.).
La giurisprudenza ritiene che la “violazione di norme sulla competenza territoriale” determini la
NULLITA’ DELL’ATTO.
Particolare attenzione deve essere riservata agli effetti che può esplicare un provvedimento
riguardante un “rapporto di durata a cui sia stato apposto un termine ” : è chiaro che l’efficacia nel
tempo di un tale provvedimento si esaurisce allo scadere del termine prescritto; tuttavia essa
(l’efficacia), in presenza di presupposti specifici, può essere prorogata (con un atto che modifichi
la mera durata del rapporto) o rinnovata (con un atto che instauri un nuovo rapporto, uguale al
precedente). Inoltre grazie all’istituto della PROROGATIO, il titolare di un organo continua ad
esercitare le sue funzioni anche dopo la scadenza del mandato e finché non sia nominato o eletto il
suo sostituto. Giustificato in base a esigenze di “continuità dell’esercizio delle funzioni”, l’uso
improprio dell’istituto ha talvolta consentito la proroga sine die (= scadenza a una data indefinita :
cioè i titolari scaduti continuavano a esercitare funzioni amministrative talvolta anche per anni).
Perciò il legislatore ormai regola la prorogatio con la “nullità degli atti posti in essere dopo la
scadenza del mandato” e la Corte Costituzionale ha stabilito che la proroga non può spingersi oltre
i 45 giorni dalla scadenza del mandato.
della sfera giuridica dei destinatari” – dispone che “il provvedimento amministrativo
comincia a produrre i suoi effetti nei confronti dei destinatari dal momento della sua
comunicazione”. Quindi, l’“obbligo di comunicare ai destinatari il provvedimento” è una
condicio sine qua non, nel senso che senza la comunicazione il provvedimento non potrà
produrre effetti. Prima dell’entrata in vigore di questa disposizione, la comunicazione del
provvedimento all’interessato era solo la condizione per la decorrenza del termine di
impugnazione dell’atto davanti al giudice amministrativo. L’obbligo di procedere alla
comunicazione come “condizione di efficacia” era affermato solo per i c.d. “atti recettizi”
(atti che determinano l’insorgenza di obblighi in capo ai destinatari).
Dopo la riforma del 2005, la “mancata comunicazione del provvedimento” determina la sua
INEFFICACIA, ma non la sua invalidità : essa infatti agisce in termini di “mancata
produzione degli effetti” e di “mancata decorrenza dei termini per l’impugnazione”. L’art.
21-bis tuttavia limita l’obbligo di comunicazione ai provvedimenti limitativi della sfera
giuridica dei privati : il legislatore ha così voluto escludere dall’ambito di operatività
dell’art. 21-bis i “provvedimenti favorevoli per i destinatari”, perché per questi non si pone
un problema di tutela nei confronti dell’azione amministrativa. Tuttavia, questa conclusione
del legislatore non può essere condivisa, poiché il provvedimento favorevole al destinatario
può comunque incidere negativamente sulla sfera giuridica di terzi (pensiamo a
un’autorizzazione o una concessione che producano, nei confronti dei “terzi
controinteressati”, effetti pregiudizievoli; o, ancora, a un’altra categoria di “terzi” : cioè i
soggetti interessati a ottenere la stessa concessione rilasciata a un privato). Ciò ci fa
comprendere che i “provvedimenti favorevoli” se, da un lato, ampliano la sfera giuridica di
un soggetto (il destinatario), dall’altro impoveriscono la sfera giuridica di altri soggetti, che
proprio per questo motivo devono essere qualificati, anch’essi, come destinatari del
provvedimento : con ciò si vuol dire, in altri termini, che anche i “provvedimenti favorevoli”
sono soggetti all’obbligo di comunicazione ex art. 21-bis (poiché è necessario considerare
non solo il loro profilo ampliativo, ma anche quello limitativo).
Inoltre in dottrina si discute se l’efficacia del “provvedimento con cui l’amministrazione
nega un’istanza volta ad ampliare la sfera giuridica dell’interessato” sia subordinata alla
“comunicazione” allo stesso : al riguardo è preferibile l’orientamento che estende l’obbligo
di comunicazione anche ai dinieghi di provvedimenti ampliativi.
Ad ogni modo, la regola dell’“obbligo di comunicazione come condizione di efficacia”
subisce due eccezioni : 1) la prima, a carattere automatico, riguarda i PROVVEDIMENTI
CAUTELARI E URGENTI, che sono immediatamente efficaci, anche prima che il
destinatario ne abbia ricevuto comunicazione (si pensi ad es. all’ordine di demolizione di un
muro pericolante); 2) la seconda eccezione è rimessa invece a una scelta
dell’amministrazione, che ha la possibilità di inserire nel provvedimento una MOTIVATA
CLAUSOLA DI EFFICACIA IMMEDIATA (purchè, però, non si tratti di “provvedimenti
sanzionatori”).
Di norma la comunicazione va fatta a ciascun destinatario. Ove questo sia irreperibile,
vanno applicate le apposite norme del codice di procedura civile. Nel caso in cui, invece, il
numero dei destinatari sia tale da rendere impossibile o estremamente gravosa la
comunicazione personale, questa ha luogo con forme idonee di pubblicità (ricorso alla
stampa, pubblicazione in gazzette ufficiali, ecc.). Quanto, invece, alle forme della
119
*ATTI DI CERTAZIONE = “atti dichiarativi” che hanno la funzione di attribuire certezza legale ad un dato (un fatto, un
atto, una qualità, uno status, un rapporto). Non si limitano ad attribuire una qualità giuridica ad un’entità giuridica
esistente, ma creano essi stessi delle qualificazioni giuridiche (es. atti costitutivi di uno status).
120
DESTINATARI DELL’ATTO, ai sensi dell’art. 7 della L. 241 / 1990, sono “tutti i soggetti nella
cui sfera giuridica l’atto è destinato direttamente a produrre effetti”, nonché “coloro che sono stati
legittimati ad intervenire nel relativo procedimento amministrativo”. Tuttavia la giurisprudenza non
riconosce la legittimazione all’azione giurisdizionale a coloro che, pur avendo partecipato al
procedimento amministrativo, non vantano comunque un interesse diretto, personale e attuale.
121
*DIFFERIRE = rimandare;
*ART. 7, 2°comma = “Nelle ipotesi di comunicazione di avvio del procedimento, resta salva la facoltà
dell’amministrazione di adottare, anche prima dell’effettuazione della comunicazione, provvedimenti
cautelari”.
un’autorizzazione, il privato può svolgere un’attività che in precedenza gli era vietata (costruire una
casa, ecc.). In altri casi, invece, egli non ha la facoltà, ma l’obbligo di porre in essere un’attività (ad
es. quando gli viene notificato un ordine di demolizione) : in questi casi, se il privato non ottempera,
l’amministrazione può imporre l’ “esecuzione coattiva dell’obbligo inadempiuto”, senza necessità
di rivolgersi al giudice, e ciò in forza di un “principio di esecutorietà degli atti amministrativi”. L’
“ESECUTORIETA’” è l’attitudine di un provvedimento ad essere portato in esecuzione anche
contro la volontà del soggetto obbligato e senza necessità di una pronuncia del giudice.
L’esecutorietà, però, non è una caratteristica di tutti i provvedimenti amministrativi, ma integra uno
specifico “potere che la legge può attribuire all’amministrazione nel regolamentare alcuni
provvedimenti”. Il “principio di legalità” esclude, insomma, che il POTERE DI ESECUZIONE
COATTIVA possa ritenersi compreso nel POTERE DI ADOZIONE DEGLI ATTI.
L’art. 21-ter della L. 241 / 1990 stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni possono imporre
coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti solo nei casi e con i modi previsti
dalla legge, indicando ai destinatari tempi e modalità esecutive” (
= insomma l’ “esecuzione coattiva da parte dell’amministrazione” può essere imposta solo nelle
ipotesi e con i modi previsti dalla legge). Quindi l’“esecutività del provvedimento” presuppone la
sussistenza di un “obbligo”, ed è proprio in relazione al contenuto di quest’obbligo imposto al
destinatario del provvedimento che distinguiamo le seguenti “attività esecutive” :
*APPRENSIONE = prendere;
*RUOLO ESATTORIALE = atto emesso dalla P.A. contenente l’elenco delle somme dovute per ciascun
contribuente sulla base di un titolo esecutivo. E’ uno strumento con cui la P.A. attiva un “procedimento di
riscossione coatta del credito” vantato nei confronti del contribuente.
123
facendo, la dottrina è giunta alla conclusione che il riconoscimento dell’ idoneità del provvedimento
amministrativo invalido a spiegare effetti giuridici trova la propria ragion d’essere sotto un “profilo
funzionale” (e non strutturale, come avviene per il contratto), in virtù del fatto che il “giudizio di
validità del provvedimento” deve avere come punto di riferimento l’idoneità del comportamento
posto in essere dall’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico. Di conseguenza, basando il
giudizio sul piano della “carenza funzionale”, a scapito di quella “strutturale” (vizi della volontà e
dell’esternazione), si è giunti a rifiutare la categoria dell’INVALIDITA’ (propria del contratto),
perché ritenuta poco aderente al modo di atteggiarsi del “potere amministrativo” : ecco perché in
dottrina si preferì parlare di ILLEGITTIMITA’ / ANNULLABILITA’ : “illegittimità” come vizio
tipico del provvedimento e “annullabilità” come la diretta conseguenza giuridica dell’illegittimità.
La novella del 2005 ha inserito nella L. 241 / 1990 un “Capo 4°-bis” (sull’ “efficacia e l’invalidità
del provvedimento amministrativo”).
L’art. 21-octies, 1°comma (secondo cui «è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza») elenca le CAUSE DI
ILLEGITTIMITA’ (ossia i vizi di violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza); le
CAUSE DI NULLITA’ sono invece elencate nell’art. 21-septies e le IPOTESI DI «NON
ANNULLABILITA’» nell’art. 21-octies, 2°comma.
La “VIOLAZIONE DI LEGGE” raccoglie ogni altra violazione di norme giuridiche (siano esse di
rango legislativo o di rango regolamentare). Dopo l’emanazione della L. 241 / 1990 alcune
violazioni (come quelle relative alla “motivazione” o agli “adempimenti procedimentali”), essendo
previste direttamente da norme scritte, sono transitate nella categoria della violazione di legge,
mentre prima rifluivano nell’ambito dell’ECCESSO DI POTERE (che consente un accertamento
del vizio non diretto, ma indiretto o sintomatico) : ciò allo scopo di assicurare loro una più efficace
tutela, dal momento che, in tal caso, il giudice (o la stessa amministrazione in sede di riesame) può
confrontare la fattispecie concreta del provvedimento con la fattispecie normativa e, in conseguenza
di tale confronto, ogni difformità dalla fattispecie legale sarà un “vizio di legittimità”. Però, questa
finalità di tutela si è dimostrata solo apparente : infatti la violazione di legge non comporta sempre
l’“annullamento del provvedimento”. Infatti, ai sensi dell’art. 21-octies, 2°comma “Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
125
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. In secondo luogo, “Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Pertanto, i vizi
che, passando dall’eccesso di potere alla violazione di legge, avrebbero dovuto avere una tutela più
ampia, in realtà sono rimasti com’erano : solo che non sono più considerati come “sintomi di
eccesso di potere”, ma come “sintomi di violazione di legge”.
la contraddittorietà tra due atti del procedimento o tra due provvedimenti con lo stesso
oggetto;
l’illogicità (= contraddizione) interna allo stesso provvedimento (tra motivazione e
dispositivo);
la disparità di trattamento, il travisamento dei fatti, l’incompletezza dell'istruttoria e la
manifesta ingiustizia.
126
1) Una prima linea evolutiva, facendo leva sui cambiamenti che negli ultimi decenni hanno
interessato le “figure sintomatiche” (tradizionalmente intese come cognizione indiretta
dell’eccesso), ha assegnato al vizio in esame una diversa natura : esemplare, al riguardo, è l’ipotesi
della “disparità di trattamento” : essa fu introdotta tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere
perché si riteneva che il provvedimento fosse viziato qualora la pubblica amministrazione avesse
adottato misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna giustificazione (ad es. due impiegati
incorrono nella stessa infrazione – furto di francobolli – ma mentre ad uno viene inflitta la sanzione
disciplinare più lieve, all’altro viene inflitta quella più grave). In un secondo momento, però, la
giurisprudenza portò avanti un diverso ragionamento : il fatto che un provvedimento abbia un
contenuto diverso da quello di un provvedimento precedente non comporta necessariamente che
esso sia illegittimo; potrebbe infatti essere illegittimo il provvedimento precedente. Quindi
l’indagine comparativa è irrilevante, perché ciò che conta – ai fini della verifica della “disparità di
trattamento”, è verificare se il provvedimento posto al vaglio del giudice sia o meno conforme al
diritto (prescindendo da ciò che l’amministrazione abbia ritenuto di fare in un’altra occasione).
In questa prospettiva, quindi, è cambiata la “natura” dell’eccesso di potere che, da vizio ad
accertamento sintomatico (o a cognizione indiretta : ossia la cui conoscenza si può raggiungere solo
attraverso sintomi) si è andato trasformando in “vizio derivante dalla violazione di principi
generali” (quasi sempre di origine giurisprudenziale), molto simile in ciò alla violazione di legge :
la differenza sta nel fatto che, mentre la violazione di legge deriva dall’inosservanza di regole
scritte, l’eccesso di potere si ha quando la disciplina violata va ricavata da principi che (anche se
scritti in testi legislativi) devono essere resi regole concrete dal giudice. Ad esempio, il “principio di
proporzionalità” (= il perseguimento dell’interesse pubblico col minimo nocumento privato)
impedisce di espropriare 10 ettari se per realizzare l’opera pubblica ne serve uno.
2) Una seconda linea evolutiva, invece, ha evidenziato il fatto che la figura dell’ “eccesso di potere”
contiene in sé delle ipotesi di “violazioni a cognizione non sintomatica”, ma diretta e, dunque,
annoverabili nell’ambito della “violazione di legge”. Esemplare, al riguardo, è la figura dello
“SVIAMENTO DI POTERE” : si tratta di stabilire se lo scopo concretamente perseguito con il
provvedimento è quello indicato dalla legge o è diverso. Si tratta di una valutazione delicatissima
che può arrivare fino all’accertamento delle «intenzioni» effettive dell’amministrazione.
Un’altra figura transitata dall’area dell’accertamento sintomatico a quella dell’accertamento diretto
(ossia dall’eccesso di potere alla violazione di legge) è il “TRAVISAMENTO DEI FATTI” : in
passato, ritenendosi che il giudice amministrativo non poteva accedere alla conoscenza diretta dei
fatti (ma li poteva conoscere solo attraverso ciò che gli veniva «raccontato» dall’amministrazione), i
provvedimenti fondati su presupposti di fatto erronei venivano annullati non per violazione di
legge, ma in quanto - travisando i fatti - l’amministrazione aveva esercitato male il suo potere.
Questo pensiero, però, oggi non può essere più condiviso, perché, dopo le recenti riforme che hanno
interessato il processo amministrativo, il giudice amministrativo può avere conoscenza diretta dei
fatti, senza il tramite dell’amministrazione. Esempio : l’amministrazione ritiene che un palazzo sia
alto 10 metri (invece dei 9 consentiti) e ne ordina la demolizione; tuttavia se il privato ricorrente
riesce a provare in giudizio che il palazzo è alto 9 metri, si ottiene l’annullamento del
provvedimento di demolizione per “violazione di legge”. Allora, in questo caso non ci troviamo di
fronte a un vizio sintomatico (cattivo esercizio del potere), ma ad un vero e proprio vizio di
“violazione di legge”, perché l’errore di fatto in cui è incorsa l’amministrazione è accertato dal
giudice direttamente nel processo : di conseguenza, non si ragiona più secondo la logica del
127
travisamento dei fatti (secondo cui la valutazione ha ad oggetto non i fatti, ma il modo in cui
l’amministrazione li ha acquisiti e valutati : il privato doveva chiedere al giudice di invitare
l’amministrazione a rappresentare il modo in cui aveva assunto i fatti nell’istruttoria
procedimentale), ma ora il privato può rappresentare egli stesso i fatti in giudizio.
all’impugnazione degli atti” (come avviene invece in regime di annullabilità). In questo modo,
quindi, è stata eliminata la possibilità di condizionare l’eliminazione dell’atto nullo all’attivazione
di un interesse di parte (proprio del regime di annullabilità) ed è stata prevista, sulla base della
disciplina codicistica, l’impossibilità – per il provvedimento amministrativo nullo – di produrre
qualsiasi effetto giuridico (risultando, quindi, insanabile).
Degli sviluppi della giurisprudenza si è fatto carico, di recente, il legislatore, che ha introdotto nella
L. 241 / 1990 una disposizione di carattere generale sulla “NULLITA’ DEL
PROVVEDIMENTO” : l’art. 21 septies (rubricato “nullità del provvedimento” e introdotto dalla L.
15 / 2005), che stabilisce : “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.
L’art. 21-septies individua, quindi, le ipotesi di nullità nella mancanza degli elementi essenziali, nel
difetto assoluto di attribuzione, nel fatto che il provvedimento sia stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi previsti dalla legge.
*Art. 1325 c.c. (Indicazione dei requisiti). “I requisiti del contratto sono:1) l'accordo delle parti; 2) la causa;
3) l'oggetto; 4) la forma, quando e' prescritta dalla legge a pena di nullita'”.
*Art. 21-septies. (Nullità del provvedimento) “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato,
nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.
*OTTEMPERANZA = permette alla parte vittoriosa di dare esecuzione a una sentenza del giudice amministrativo,
qualora la P.A. non abbia adempiuto spontaneamente.
130
in relazione alla prima parte della norma non si pongono problematiche di particolare
rilievo, poiché essa si riferisce solo ai PROVVEDIMENTI VINCOLATI (la cui adozione
non lascia margini per la discrezionalità dell’amministrazione); parte della dottrina, però, ha
sottolineato che - anche con riferimento a questo tipo di provvedimenti - la partecipazione
del privato può svolgere un ruolo importante nell’iter decisionale dell’amministrazione
(come ad esempio nei casi in cui la situazione da accertare è complessa). Sicché in questi
131
casi anche per i provvedimenti vincolati la partecipazione al procedimento può essere una
condizione di legittimità.
in relazione, invece, alla seconda parte dell’art. 21 octies, 2°comma, la dottrina è apparsa
molto meno permissiva, affermando che l’«irrilevanza» della MANCATA
COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL PROCEDIMENTO per i provvedimenti discrezionali
risulta difficile da accettare, poichè dovrebbe essere dimostrata dal giudice sulla base di un
giudizio prognostico (che nella maggior parte dei casi è impossibile da porre in essere).
Un secondo problema affrontato dalla dottrina, poi, ha riguardato il fatto che la norma, usando
l’inciso “annullabilità”, senza alcun riferimento all’ “illegittimità”, ha fatto sorgere la necessità
di verificare se, in relazione all’ “invalidità amministrativa”, sia ancora possibile considerare l’
“illegittimità” come lo stato viziato tipico del provvedimento : in altri termini, ci si è chiesti se i
provvedimenti «non annullabili» ex art.21-octies, 2° comma debbano essere considerati
illegittimi o semplicemente irregolari. Infatti mentre alcuni ritennero che la norma
avesse semplicemente previsto la non annullabilità dei suddetti provvedimenti, altri spiegarono
il divieto di annullamento nei termini di una dequalificazione del vizio, nel senso che quando un
provvedimento, pur essendo stato emesso in violazione di norme procedurali e sulla forma degli
atti, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, il legislatore avrebbe degradato il vizio di
“violazione di legge” ad una mera irregolarità del provvedimento, coerentemente imponendo la
preservazione dell’atto, dato che la semplice irregolarità di un atto amministrativo, a differenza
della sua invalidità, non ne comporta l’annullamento. Bisogna, invece, concordare con chi
ritiene che l’ “illegittimità” sia il pilastro del sistema dell’invalidità amministrativa, e che i
provvedimenti non annullabili ai sensi del 2°comma siano illegittimi (così come lo sono quelli
ex art. 21 octies, 1°comma) e che, però, la loro illegittimità venga «superata» attraverso una
«sanatoria processuale». Questa soluzione trova conferma anche nel dato normativo : nell’art.
21-nonies (dedicato all’annullamento d’ufficio) si stabilisce, infatti, che il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell’art.21-octies può essere annullato d’ufficio, se ricorrono
determinate condizioni. Questo articolo menziona l’illegittimità del provvedimento e lo fa
rinviando all’art. 21- octies nella sua interezza, cioè sia al 1°comma (all’ipotesi di annullabilità)
sia al 2°comma (alle ipotesi di non annullabilità).
*Il dibattito si è accentrato sulla natura processuale o sostanziale della disposizione :
la giurisprudenza amministrativa ha sostenuto la natura processuale della disposizione, che comporta che: 1) la
disposizione non si occupa della disciplina sostanziale dell’atto amministrativo, che resta invalido, ma esclusivamente
della sanzione dell’annullamento, che rimane in concreto esclusa; 2) la disposizione è rivolta al giudice, e non
all’amministrazione, quindi il suo naturale terreno di elezione è il processo amministrativo; 3) la disposizione non
preclude, quindi, l’annullamento in autotutela, né la disapplicazione da parte del giudice ordinario, nè il risarcimento
del danno da provvedimento illegittimo.
*In sostanza, il provvedimento amministrativo che la norma vieta di annullare è e resta un atto invalido (poiché
comunque emesso in violazione di legge) ed il divieto di annullarlo trova la sua ratio non nel fatto che il legislatore lo
ritenga meritevole di essere conservato, ma nell’esigenza di evitare che, continuando i giudici ad annullare i
provvedimenti amministrativi per motivi puramente formali, prosegua il deleterio fenomeno del ricorso alla giustizia
amministrativa finalizzato all’inutile eliminazione di atti destinati ad essere riadottati con lo stesso contenuto.
2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
132
133
8.Irregolarità. Alcune ipotesi non danno luogo all’invalidità dell’atto, ma a una semplice
IRREGOLARITA’, ossia a una difformità che non comporta conseguenze sul “regime giuridico
dell’atto”, che resta valido. L’irregolarità può determinare altre conseguenze per gli autori dell’atto,
ad esempio di tipo sanzionatorio (disciplinare o risarcitorio). Si tratta della violazione di “regole
formali sulla corretta redazione dell’atto” (come quelle sulla data, sulla sottoscrizione non
decifrabile, o sull’omessa indicazione del responsabile del procedimento). In ossequio al principio
del “buon andamento dell’azione amministrativa”, l’irregolarità dovrebbe essere sanata per evitare
che ricadano sul cittadino gli effetti sfavorevoli di questi errori ascrivibili all’amministrazione.
un’altra autorità amministrativa, la cui funzione sia diversa per grado o per materia.
I vizi dell'atto amministrativo possono distinguersi in due categorie, vizi di legittimità e
vizi di merito e possono dar luogo all'invalidità dell'atto amministrativo. Legittimità e
merito rappresentano, in sostanza, i due requisiti dell'azione amministrativa indicati
nell'art. 97 Cost. ove la legalità e la buona amministrazione sono i parametri cui deve
ispirarsi l'operato della PA.
L'atto amministrativo può, dunque, presentare vizi di legittimità (quando
risulta difforme da norme giuridiche) o vizi di merito (quando l'atto non è conforme
a regole non giuridiche, c.d. norme di buona amministrazione, e che determinano un
contrasto tra il mezzo in concreto usato dalla PA ed il mezzo che sarebbe stato idoneo
al perseguimento ottimale del fine cui l'esercizio del potere deve tendere). I vizi di
merito dell'atto amministrativo possono naturalmente configurarsi solo nell'ambito
dell'azione amministrativa discrezionale poichè, con riferimento agli atti vincolati, il
mancato raggiungimento dello scopo è indice della violazione di una norma giuridica
(della difformità, cioè, dell'atto dal modello normativo).
Dalla categoria dell'invalidità, deve essere mantenuta distinta quella
dell'IRREGOLARITA’che riguarda quelle violazioni meramente formali inidonee a
viziare l'atto amministrativo (esse sono suscettibili di rettifica).
La normativa cui occorre ancorare il giudizio sulla validità del provvedimento
amministrativo è quella vigente al momento del suo “perfezionamento” e non quella
(eventualmente diversa) vigente al momento del dispiegarsi dei suoi effetti.
I VIZI DI LEGITTIMITA’, a seconda degli elementi sui quali incidono, possono
determinare diverse forme di invalidità dell'atto amministrativo, possono, cioè, dar
luogo a: 1) nullità :qualora l'atto manchi di requisiti essenziali, contrasti con
precedente giudicato o lo eluda, sia stato adottato in difetto assoluto di attribuzione o
negli altri casi previsti dalla legge (art 21 septies L. n. 241 del 1990); 2) annullabilità :
qualora sussista incompetenza relativa, violazione di legge o eccesso di potere (art. 21
octies L. n. 241 del 1990).
Si distingue, inoltre tra INVALIDITA’ TOTALE o PARZIALE dell'atto amministrativo, a
seconda che il vizio riguardi tutto l'atto amministrativo o solo una parte di esso
(singole clausole o atti endoprocedimentali). Con riferimento all'invalidità parziale
occorrerà indagare se, dopo l’annullamento parziale dell'atto amministrativo, questo
possa essere conservato per la parte residua.
Con riferimento alla fonte dell'invalidità dell’atto, si usa distinguere tra un’INVALIDITA’
TESTUALE (nel caso in cui sia la norma giuridica che disponga testualmente l'invalidità
dell'atto) e un' INVALIDITA’ VIRTUALE (nel caso in cui l'invalidità, non espressamente
prevista, si desuma dall'ordinamento giuridico per violazione di una norma
imperativa).
Si distingue anche tra un' INVALIDITA’ DIRETTA (che colpisce l'atto in sé) ed
un'INVALIDITA’ DERIVATA : quando all'atto si propagano gli effetti invalidanti e vizianti
di precedenti atti amministrativi autonomi (atti presupposti) o relativi allo stesso
procedimento esitato nel provvedimento viziato (atti endoprocedimentali). Con
riferimento all'invalidità derivata dei provvedimenti amministrativi, si usa distinguere
tra l'effetto caducante che si realizza automaticamente dopo l'annullamento di un
diverso atto amministrativo con cui l'atto caducato è vincolato da un legame di stretta
interdipendenza (in tal caso, non è necessario procedere ad autonoma impugnativa
dell'atto caducato) e l'effetto viziante (che si realizza quando sussiste un legame meno
saldo tra l'atto presupposto e l'atto successivo, per il quale è necessario procedere ad
autonoma impugnativa per ottenere l'annullamento dell'atto successivo dopo
l'annullamento dell'atto presupposto).
135
1. Considerazioni introduttive.
a) I provvedimenti di secondo grado come esplicazione del principio di buona
amministrazione. I “PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI SECONDO GRADO” sono
quei provvedimenti che hanno ad oggetto un precedente provvedimento amministrativo o il
silenzio-assenso (art. 20 della L. 241 / 1990), sicché essi curano l’interesse pubblico intervenendo
su un “provvedimento” o su un “fatto produttivo di effetti giuridici”. Ora, il primo problema da
affrontare ci viene posto dall’art. 19 della L. 241 / 1990, che sembrerebbe averne ampliato l’ambito
di operatività, avendo previsto in capo alla P.A. competente poteri di REVOCA e di
ANNULLAMENTO D’UFFICIO anche in materia di d.i.a (dichiarazione di inizio attività), oggi
s.c.i.a. (segnalazione certificata di inizio attività). Tuttavia, se si osserva bene, quello che stiamo
esaminando è un falso problema, perchè revoca e annullamento non sembrano applicabili alla
d.i.a. : in questo caso infatti la dichiarazione del privato sostituisce un atto amministrativo di
assenso, sicché manca il provvedimento amministrativo da revocare o annullare.
La seconda tematica riguarda, invece, il dubbio sul fatto se sia o meno possibile considerare come
“provvedimento di secondo grado” il c.d. RECESSO DELL’AMMINISTRAZIONE DAGLI
ACCORDI CON I PRIVATI (siano essi integrativi o sostitutivi di un provvedimento) : questo
quesito deve trovare una risposta affermativa, dato che, se si riconosce all’accordo natura
pubblicistica (e la dottrina prevalente è orientata in tal senso), il recesso dovrà assumere “natura
provvedimentale” (è la manifestazione unilaterale di un potere autoritativo); e dunque è assimilabile
alla “revoca”. Inoltre, così come la revoca incide sull’efficacia di un precedente provvedimento,
così il recesso incide sull’efficacia di un accordo. Se dunque recesso e revoca condividono la stessa
natura provvedimentale e la stessa funzione, è ragionevole configurare anche il recesso come
provvedimento di secondo grado.
Il nostro ordinamento conosce diversi tipi di “provvedimenti di secondo grado” :
Nonostante queste differenze, tutte queste figure hanno un denominatore comune : il potere
(esercitato dall’amministrazione per emanare il precedente provvedimento) non deve essersi
esaurito, perché è solo in questo modo che l’amministrazione potrà esercitarlo di nuovo nel caso in
cui il provvedimento risulti “illegittimo” o “inopportuno” (non più adeguato alla cura dell’interesse
pubblico perseguito). Quindi i provvedimenti di secondo grado non possono essere emanati in tutti
quei casi in cui, con l’emanazione del primo atto, l’amministrazione ha consumato il relativo potere.
136
Inoltre, l’amministrazione – per poter esercitare di nuovo il potere – deve non solo verificare l’
“invalidita’” del provvedimento in questione, ma deve anche valutare se sussistono o meno
particolari “esigenze di cura dell’interesse pubblico”, tali da richiedere un suo nuovo intervento.
Ecco perché i poteri nel cui esercizio vengono emanati i provvedimenti di secondo grado sono una
delle esplicazioni del “principio di efficacia” (espressione del principio di “buona
amministrazione”), inteso in termini di adeguatezza; perciò tali provvedimenti vanno ricondotti
nell’area dell’amministrazione attiva piuttosto che in quella dell’autotutela (dove sono stati
tradizionalmente inquadrati) : infatti, attraverso il provvedimento emesso, la P.A. realizza un
particolare assetto di interessi (che deve essere diretto al soddisfacimento dell’interesse pubblico
che ha in cura) : pertanto, è solo nel momento in cui viene a mancare questa “adeguatezza” (cioè il
soddisfacimento dell’interesse attraverso il provvedimento) che l’amministrazione è abilitata a
esercitare nuovamente il proprio potere.
b) Il problema del fondamento giuridico. Il problema del fondamento giuridico dei poteri di
secondo grado è stato in passato risolto ricorrendo a 4 diversi principi : 1) il “principio di
autotutela”,; 2) il “principio della specialità del diritto amministrativo”; 3) la consuetudine; 4) e il
“principio gerarchico”. In particolare, il richiamo all’autotutela è stato criticato, poichè non solo
insufficiente a fondare questi provvedimenti (e quindi a conciliarli con il “principio di legalità”), ma
anche perché l’amministrazione, quando emana un provvedimento di secondo grado, non tutela se
stessa, nè si fa giustizia da sé, ma cura sempre un interesse pubblico).
Il potere dell’amministrazione, pertanto, non può avere altro fondamento che nella “legge” : più
attento a rendere questi poteri compatibili con il “principio di legalità” è l’orientamento che li
configura come espressione dello stesso potere esercitato dall’amministrazione per emanare il
primo provvedimento e ne rinviene il fondamento giuridico nella “norma attributiva del potere di
primo grado”.
In ogni caso, la codificazione - con la L. 15 / 2005 - di alcuni provvedimenti di secondo grado
(revoca, convalida e annullamento d’ufficio) ha risolto il problema del loro fondamento giuridico e,
di conseguenza, della loro compatibilità con il “principio di legalità”. La legge ha anche confermato
l’ancoraggio dei provvedimenti di secondo grado al “principio di efficacia”, riconducendoli
nell’area dell’amministrazione attiva.
c) La distinzione tra atti di riesame e atti di revisione, tra atti ad esito eliminatorio e
atti ad esito conservativo. Parte della dottrina distingue i “provvedimenti di secondo grado” in
“ATTI DI RIESAME” e “ATTI DI REVISIONE”. Mentre i primi (annullamento, convalida,
conferma, ratifica) hanno ad oggetto il provvedimento sotto il profilo della validità, i secondi
(revoca, recesso, proroga, sospensione) incidono sull’efficacia del precedente provvedimento (o
dell’accordo) o sul rapporto giuridico scaturito dal provvedimento di primo grado (o dall’accordo).
In senso contrario, un’altra parte della dottrina (oggi dominante) configura tutti questi
provvedimenti come “ATTI DI RIESAME” e li distingue in “atti ad esito conservativo” (conferma,
convalida, ratifica, riforma, conversione, proroga) ed “atti ad esito eliminatorio” (annullamento,
revoca, recesso). Tra l’altro, tra gli “atti ad esito eliminatorio” alcuni autori includono anche l’
“ABROGAZIONE” (provvedimento di secondo grado con cui si elimina, con efficacia ex nunc, un
precedente provvedimento, legittimo al momento della sua emanazione , ma la cui legittimità in
seguito viene meno per il decadere dei presupposti indicati dalla legge) e la “SOSPENSIONE”
(istituto con cui l’amministrazione sospende per un certo lasso di tempo l’efficacia o l’esecuzione
137
di un precedente provvedimento). Pertanto, la sospensione non elimina nessun atto, quindi la sua
riconduzione tra gli atti ad esito eliminatorio può spiegarsi solo per la sua strumentalità rispetto
agli istituti dell’annullamento e della revoca.
*EX NUNC = (lett. “da ora”), è sinonimo di “non retroattività” : un dato atto esplica i suoi effetti solo dal momento in
cui viene posto in essere. L’espressione ex tunc, invece, (lett. “da allora”), è adoperata come sinonimo di
“retroattività” per indicare che un atto esplica i suoi effetti non dal momento in cui viene posto in essere, ma da un
momento anteriore
*PRINCIPIO DI AUTOTUTELA = potere della P.A. di annullare e revocare i provvedimenti adottati; possibilità per la P.A.
di risolvere i conflitti attuali o potenziali con i destinatari dei suoi provvedimenti senza l’intervento del giudice.
*REVOCA = atto che elimina gli effetti di un precedente provvedimento perché viziato nel merito (e, quindi,
inopportuno, inadeguato o ingiusto).
138
annullamento).
Però, affinchè l’amministrazione possa procedere all’annullamento dell’atto (tornando sui suoi
passi), è necessaria anche una terza condizione : infatti, intorno all’ “interesse pubblico
all’annullamento dell’atto” ruotano non solo gli “interessi pubblici secondari”, ma anche gli
“interessi privati dei destinatari e dei controinteressati” (cioè di coloro che sono interessati alla
conservazione dell’atto o alla sua rimozione); perciò, qualora il provvedimento che
l’amministrazione intende annullare favorisca il destinatario, questi avrà interesse a conservarlo in
vita; se invece lo danneggia, egli avrà interesse a che sia eliminato. Opposta è invece la posizione
dei “controinteressati”, cioè di coloro che hanno un “interesse antagonistico” a quello del
destinatario (interesse all’annullamento dell’atto nel primo caso, o alla sua conservazione nel
secondo caso). Pertanto, per procedere all’annullamento, è anche necessario che l’amministrazione
proceda a un bilanciamento l’interesse pubblico all’eliminazione e gli altri interessi, pubblici e
privati, coinvolti nella scelta amministrativa : da questo bilanciamento (mediante il quale
l’amministrazione accerta l’interesse prevalente), l’interesse pubblico deve risultare vittorioso. Ciò
ci permette, tra l’altro, di qualificare ulteriormente l’ “annullamento d’ufficio” come un vero e
proprio provvedimento discrezionale (a differenza dell’ “annullamento giurisdizionale”, che è atto
di natura vincolata) e proprio per questo il “provvedimento di annullamento” deve essere sorretto da
un’ampia motivazione.
L’area di operatività dell’annullamento d’ufficio coincide con quella dell’ILLEGITTIMITA’
(violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere), con esclusione quindi dei vizi di merito.
Però, l’amministrazione - nell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio - non è tenuta ad
applicare i parametri di cui all’art. 21-octies, 2°comma : infatti la disposizione introduce,
nell’ambito di un “giudizio di legittimità sull’atto”, tecniche dirette ad evidenziare l’irrilevanza del
vizio sul contenuto dispositivo, impedendo l’annullamento giudiziale dell’atto in presenza di
elementi che convincono il giudice della “correttezza sostanziale dell’atto”. L’atto, però, pur non
potendo essere annullato dal giudice in sede giurisdizionale, resta comunque “illegittimo” e,
pertanto, annullabile dalla stessa amministrazione in sede di annullamento d’ufficio.
Quanto invece all’oggetto dell’annullamento, può essere annullato qualunque tipo di
provvedimento, a condizione che il potere che l’amministrazione ha esercitato nell’emanazione
dello stesso non si sia esaurito : ciò accade ad esempio nel caso degli “atti consultivi”, “di
controllo” o delle “decisioni sui ricorsi amministrativi”).
Il POTERE DI ANNULLAMENTO non è soggetto a prescrizione, ma deve essere esercitato entro
un «termine ragionevole», la cui valutazione spetta all’amministrazione. La valutazione di
ragionevolezza deve essere fatta caso per caso, considerando vari fattori, tra cui il fatto che il
decorso del tempo, da un lato, incide sull’ attualità dell’interesse pubblico (attenua un interesse
pubblico all’eliminazione di un provvedimento), dall’altro, consolida gli interessi nel frattempo
sorti sulla base dell’atto che si vuole annullare.
Dopo che l’amministrazione ha annullato il provvedimento di primo grado, però, bisogna stabilire il
momento a partire dal quale far decorrere i relativi effetti : il problema è stato risolto dalla dottrina
che, facendo leva sul fatto che l’illegittimità colpisce l’atto fin dal momento della sua emanazione,
ha sempre sostenuto la tesi della RETROATTIVITA’ come caratteristica di ogni tipo di
annullamento (dell’ “annullamento giurisdizionale”, di “quello su ricorso amministrativo”, e quindi
anche di “quello d’ufficio”), col solo limite del principio “factum infectum fieri nequit”, sicché non
potranno essere annullati quegli effetti irreversibili che si sono completamente concretizzati prima
140
dell’eliminazione dell’atto viziato (es., il pubblico impiegato il cui atto di nomina sia stato annullato
non dovrà restituire i compensi percepiti). Ma in ogni caso, la teoria della retroattività degli effetti
non può escludere a propri la possibilità di far decorrere gli effetti dell’annullamento a partire dal
momento dell’eliminazione del provvedimento : tale possibilità infatti non solo non viene negata
dal legislatore (in quanto l’art. 21 nonies non fa alcun espresso riferimento all’ “effetto retroattivo”),
ma inoltre bisogna anche pensare che la retroattività ha un senso nell’“annullamento
giurisdizionale” o “su ricorso amministrativo”, poiché è posta a garanzia del ricorrente contro i
tempi lunghi del processo o del procedimento, ma non nell’annullamento d’ufficio : anzi le esigenze
del cittadino, che mira alla conservazione dell’atto, sono diametralmente opposte :
quindi poichè si pone un problema di “tutela del legittimo affidamento del privato nella certezza e
stabilità del precedente assetto di interessi a lui favorevole”, non ci sono ragioni per escludere la
decorrenza degli effetti dell’annullamento solo per il futuro.
Un’ultima considerazione occorre dedicarla alla “competenza ad annullare il provvedimento” : in
base all’art. 21-nonies, la competenza spetta all’organo che ha emanato l’atto invalido (“auto-
annullamento”), all’autorità cui è eventualmente trasferita la competenza o ad un altro organo
espressamente indicato dalla legge (il riferimento alla «legge» va inteso in senso ampio,
indicandosi anche le fonti normative di secondo grado). In assenza di una previsione di legge,
pertanto, l’annullamento non può essere disposto dall’ “organo gerarchicamente superiore a quello
che ha emanato l’atto”, nè “da un organo appartenente a un ente territoriale diverso” : così, ad
esempio, l’ “ANNULLAMENTO STRAORDINARIO”, entro 10 anni, da parte della Regione, dei
titoli edilizi illegittimi rilasciati dai Comuni è infatti espressamente previsto dal “t.u. edilizia”.
Il discorso invece cambia per gli “atti illegittimi degli enti locali”, il cui annullamento – sulla base
di quanto disposto dal d.lgs. 267 / 2000 (c.d. testo unico degli enti locali) - potrà essere disposto
solo dal Governo (ciò per tutelare l’unità dell’ordinamento); inoltre al Governo è attribuita anche la
competenza ad annullare gli “atti illegittimi di qualunque amministrazione” (fatta eccezione per gli
atti delle Regioni e delle Province autonome), in virtù di quanto stabilito dalla L. 400 / 1988.
Il potere di annullamento deve svolgersi secondo le forme e le garanzie del procedimento che ha
portato all’emanazione dell’atto (oggetto di annullamento) : la natura discrezionale, inoltre, ne
postula un’adeguata “motivazione”, sia sotto il profilo dell’illegittimità che rende l’atto viziato sia
riguardo alle ragioni di pubblico interesse che ne giustificano la rimozione.
Tuttavia, a differenza di quanto previsto per la revoca, l’annullamento d’ufficio non comporta la
corresponsione di alcun “indennizzo a favore del privato danneggiato”, a meno che ad essere
annullati non siano «quei provvedimenti illegittimi che vanno ad incidere su rapporti contrattuali
con privati» : si pensi, ad esempio, all’aggiudicazione.
pubblico in concreto perseguito. Il fatto che la revoca venga ancorata all’interesse pubblico ci
consente di collocarla nell’area dell’“amministrazione attiva” (e di escluderne l’appartenenza
all’autotutela) e ci permette anche di distinguerla da quegli istituti che solo impropriamente sono
denominati “revoche” (come la “revoca degli assessori”, il cui presupposto risiede in una
valutazione di opportunità politica, o la “revoca del Presidente del Consiglio comunale”, il cui
presupposto risiede nella violazione dei doveri istituzionali) : proprio perché sono fattispecie diverse
dalla revoca, a queste ipotesi non si applica l’art. 21-quinquies.
In ogni caso, nell’esercitare i poteri di revoca, l’amministrazione è tenuta ad effettuare un
bilanciamento tra le “ragioni di interesse pubblico” e le “ragioni del privato” (che ritiene di subire
un pregiudizio dalla revoca) : questo bilanciamento è necessario soprattutto quando è trascorso
molto tempo tra l’adozione del provvedimento e la sua revoca (in quanto il decorso del tempo può
aver consolidato situazioni giuridiche soggettive favorevoli al privato).
L’art. 21-quinquies (modificato dalla L. 40 / 2007, che vi ha aggiunto il comma 1-bis) disciplina la
REVOCA. Ai sensi di questa disposizione, è stabilito innanzitutto che la revoca può essere disposta
dall’organo che ha emanato l’atto o da altro organo indicato dalla legge (anche qui il riferimento
alla «legge» va inteso in senso ampio, intendendosi anche le fonti di secondo grado).
Tra l’altro, la Corte costituzionale ha stabilito che la revoca può essere disposta, oltre che con un
“atto amministrativo”, anche con “legge”.
Analizziamo ora i presupposti che giustificano il ricorso alla revoca; stando all’art. 21 quinquies,
l’esercizio del potere di revoca è ammesso in 3 ipotesi : 1) per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse; 2) per un mutamento della situazione di fatto che rende il provvedimento incompatibile
con l’assetto di interessi originariamente definito; 3) per una diversa valutazione delle ragioni di
pubblico interesse in base a cui l’amministrazione aveva adottato il provvedimento. La norma
indica, quindi, 3 ipotesi che possono, tuttavia, ricondursi a due fattispecie :
venga revocato, poiché – in virtù di un’indagine successiva al suo rilascio – viene accertata una
condizione di instabilità geologica dell’area interessata.
Per quel che riguarda, invece, l’oggetto, la revoca - secondo l’art. 21-quinquies - può avere ad
oggetto solo PROVVEDIMENTI AD EFFICACIA DUREVOLE, quindi sono irrevocabili gli atti i
cui effetti si sono realizzati ed esauriti o siano divenuti irreversibili. Gli “atti ad efficacia
istantanea” non sono, pertanto, revocabili.
Inoltre, avendo la revoca carattere discrezionale, sono irrevocabili anche i “provvedimenti
vincolati”, le “decisioni su ricorso amministrativo”, gli “atti di controllo” e i “pareri” (tutti atti per
cui non è possibile svolgere una valutazione, discrezionale, di opportunità).
Per quanto riguarda gli aspetti temporali della revoca, in mancanza di un’apposita previsione
normativa (il legislatore del 2005 infatti tace sul momento entro cui può essere adottato un
provvedimento di revoca), trova conferma l’orientamento giurisprudenziale, che considera il potere
di revoca esercitabile in ogni tempo, con il solo limite dell’attualità dell’interesse pubblico che
giustifica l’esercizio del potere : ciò significa che la P.A. potrà revocare un suo precedente
provvedimento solo nel caso in cui l’assetto di interessi (emergente da quest’ultimo) non appaia più
adeguato alla cura dell’interesse pubblico. Tuttavia, parte della dottrina ha precisato che l’assenza
di un preciso limite temporale può essere coerente con la REVOCA PER SOPRAVVENIENZA
(poichè non possono porsi limiti temporali alle sopravvenienze di pubblico interesse), ma non con
la REVOCA IUS POENITENDI, che si fonda su valutazioni soggettive. Per quanto riguarda la
decorrenza degli effetti, secondo l’art. 21-quinquies «la revoca determina l’inidoneità del
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti», con ciò confermando l’orientamento per cui
gli effetti della revoca operano ex nunc (a partire dal momento in cui la stessa è stata disposta).
Quanto alle “situazioni giuridiche soggettive favorevoli del privato” nate dall’atto revocando,
queste non sono un limite all’esercizio del potere di revoca : solo che la loro esistenza postula
l’applicazione di regole di bilanciamento tra l’interesse pubblico e le ragioni del privato, nonché
un’adeguata motivazione (specie se, a causa del tempo trascorso, tali situazioni si sono consolidate,
determinando un legittimo affidamento alla loro conservazione).
Inoltre, l’art. 21-quinquies ha disciplinato le conseguenze patrimoniali della revoca dei
provvedimenti, prevedendo un INDENNIZZO per compensare il danno economico subito dal
privato destinatario di un legittimo atto di revoca, e assegnando al giudice amministrativo la
giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di “determinazione e corresponsione
dell’indennizzo” (disposizione, questa, abrogata ed ora confluita nel codice del processo
amministrativo). Per quanto riguarda la commisurazione del quantum dell’indennizzo, sono state
prospettate due soluzioni :
o ritenere che esso vada commisurato alla PERDITA SUBITA (c.d. danno emergente), con
esclusione del c.d. lucro cessante (mancato guadagno) : ciò per evitare di creare confusione
tra l’indennizzo (che presuppone una revoca legittima) e il risarcimento (che, al contrario,
presuppone una revoca illegittima);
o agganciare il quantum dell’indennizzo alla disposizione del «codice dei contratti pubblici»
che riguarda la “revoca della concessione di lavori nel quadro di un project financing”, che
nell’indennizzo, oltre al DANNO EMERGENTE, ricomprende anche una quota pari al 10%
DEL LUCRO CESSANTE.
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In questa categoria parte della dottrina fa rientrare anche la PROROGA : ciò perché tale istituto, pur
non producendo tecnicamente “effetti conservativi”, consente comunque di protrarre gli effetti di
un provvedimento oltre il termine di durata previsto dallo stesso. Qualche problema, tuttavia, è
sorto in relazione al fondamento giuridico della proroga, poichè non c’è unanimità in dottrina :
mentre alcuni configurano la proroga come espressione di un potere generale, altri la ammettono
solo nei casi previsti dalla legge. Da questi orientamenti si discosta, poi, la giurisprudenza, che
invece inquadra la proroga nell’ambito dello stesso potere che l’amministrazione ha esercitato in
vista dell’adozione del provvedimento (sottoposto a proroga) : potere che può essere esercitato solo
prima della scadenza del termine finale (cioè in un momento in cui il provvedimento produce
ancora i suoi effetti). Con la scadenza del termine, se non è consentita la proroga, è comunque
ammessa la RINNOVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO : anche la rinnovazione è una tecnica
con cui è consentita la prosecuzione dell’originario rapporto, ma a differenza della proroga (che
non richiede una nuova ponderazione degli interessi in gioco), la rinnovazione richiede invece
l’adozione di un “nuovo provvedimento” (e quindi, la ripetizione di tutte le fasi procedimentali e
una nuova valutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto rilevanti, attuata attraverso la
ponderazione dei vari interessi pubblici e privati coinvolti).
Un accenno va dedicato poi ai c.d. “ATTI AD EFFETTO SANANTE”, che pur avendo un effetto
conservativo, non sono provvedimenti di secondo grado, trattandosi di meri atti interni al
procedimento : questi atti – che rientrano nella competenza di un’amministrazione diversa da quella
competente ad emanare il provvedimento finale - vengono emessi dopo l’emanazione del
provvedimento (cioè in un momento successivo a quello in cui avrebbero dovuto essere emanati).
Di conseguenza, una volta emessi, tali atti vanno a sanare il vizio che inficiava il provvedimento
(c.d. funzione servente). Tuttavia, questa inversione dell’ordine procedimentale non è sempre
ammessa : se ad esempio non c’è dubbio sull’ “efficacia sanante” esercitata da una richiesta, una
proposta o un atto di assenso tardivo (nullaosta, autorizzazioni, ecc.), altrettanto non può dirsi per
il parere obbligatorio, poiché sarebbe irragionevole che un atto destinato a orientare la decisione
della P.A. intervenisse dopo che questa ha posto in essere l’atto per cui è stato chiesto il parere.
L’“emanazione tardiva dell’atto omesso, con effetto sanante” quindi è ammessa in tutti i casi in cui
l’atto non può incidere, modificandolo, sul contenuto della decisione assunta in sua mancanza.
Mentre è esclusa dal legislatore quando sono in gioco “interessi primari” (ad es., il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria è escluso).
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Dalla convalida si distingue la “RETTIFICA”, che ha ad oggetto provvedimenti non viziati (quindi
perfettamente validi), ma irregolari. Con la rettifica viene eliminato, con efficacia retroattiva, il c.d.
errore materiale in cui è incappata l’amministrazione (ad esempio l’errore può riguardare il
domicilio del destinatario dell’atto o l’ubicazione di un bene).
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che l’atto nullo presenti tutti i requisiti (formali e sostanziali) del nuovo atto;
che l’amministrazione dimostri che, se avesse conosciuto l’invalidità del primo, avrebbe
certamente adottato il nuovo atto;
che la funzione dell’atto convertendo sia affine a quella dell’atto da convertire (ricorra, cioè,
una certa omogeneità degli interessi pubblici perseguiti) : si pensi ad esempio alla
conversione del “decreto di espropriazione definitiva” in “decreto di occupazione
temporanea”.
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*Art. 21-quinquies. (Revoca del provvedimento) Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o nel caso di
mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento o (salvo che per i
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici) di nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario, il “provvedimento amministrativo ad efficacia durevole” può essere revocato da parte dell'organo che lo ha
emanato o da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a
produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati,
l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo.
1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali,
l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo “danno emergente” e tiene conto sia
dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di
revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della
compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico
ed entro un termine ragionevole.
*PRINCIPIO DEL “CONTRARIUS ACTUS” = l’atto di secondo grado deve seguire lo stesso procedimento del
provvedimento annullato.
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*FACTUM INFECTUM FIERI NEQUIT = ciò che è fatto non può essere considerato non fatto.
*IRREVERSIBILE = Che non si può invertire, e quindi non ammette correzioni, rifacimenti.
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Con la L. 537 / 1993 si sostituì l’art. 19 con il testo seguente : «In TUTTI I CASI in cui
l’esercizio di un’attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, nullaosta,
permesso o altro atto di consenso (ad esclusione delle “concessioni edilizie” e delle
“autorizzazioni paesaggistiche”) il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall’ACCERTAMENTO DEI PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI DI LEGGE, senza
l’esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali , e
non sia previsto alcun limite o contingente per il rilascio degli atti, l’atto di consenso si
intende sostituito da una DENUNCIA DI INIZIO DI ATTIVITÀ da parte dell’interessato
alla P.A. competente, attestante l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In tali
casi, spetta all’amministrazione, entro 60 giorni dalla denuncia, verificare d’ufficio la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con
provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione degli effetti,
salvo che l’interessato non provveda a conformare l’attività alla normativa vigente». Veniva
così ribaltata l’impostazione originaria dell’istituto :
1) nella prima formulazione, le attività esercitabili previa presentazione di d.i.a. erano
indicate espressamente nel regolamento governativo (d.p.r. 300 / 1992);
2) ora, invece, (ad esclusione dei casi in cui i titoli dovevano essere rilasciati previa
“valutazione tecnica” o previo “apprezzamento discrezionale” - e al di fuori delle
materie «sensibili» dell’edilizia e della tutela dei beni paesaggistici e ambientali -) tutte
le attività soggette al rilascio di un titolo abilitativo diventavano esercitabili con la
presentazione della d.i.a. (con l’unico limite del decorso dello spatium deliberandi di 60
giorni concessi all’amministrazione per verificare i presupposti e i requisiti richiesti).
In pratica : Nel 1993 la legge finanziaria, modificando l’art. 19 della L. 241/1990, capovolge
l’impostazione della disciplina e quella che prima era una eccezione diventa la regola: le attività che
possono essere avviate con Dia non devono essere più individuate, ma la normativa si riferisce a “tutti i
casi” in cui il rilascio del provvedimento dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dai
requisiti di legge e : 1) senza l’esperimento di prova a ciò destinate (che comportino valutazioni tecniche
discrezionali); 2) non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti . Non si fa
più riferimento al pregiudizio dei valori storico-artistici e al rispetto delle norme a tutela dei lavoratori.
Viene però detto che la Dia non si applica alle attività edilizie. Con la legge n. 537/1993, quindi, l’iniziativa
privata è suscettibile di incondizionata applicazione a materie soggette a TITOLI AUTORIZZATIVI
VINCOLATI. Alla normativa regolamentare viene così assegnato il compito di fissare i casi eccezionali in
cui la Dia non trova applicazione. Scompare anche la distinzione tra dia ad efficacia immediata e differita
e resta solo la “DIA AD EFFICACIA IMMEDIATA”.
La norma è rimasta invariata fino all’entrata in vigore della L. 80 / 2005, che ha riscritto
l’art. 19, prevedendo che : “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nullaosta (comprese le DOMANDE PER LE ISCRIZIONI IN ALBI
O RUOLI richieste per esercitare un’attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) - il
cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o
di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente per
il rilascio degli atti - è sostituito da una “dichiarazione” dell’interessato corredata delle
certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste”. La novella del 2005 consentiva
di iniziare l’attività dopo 30 giorni dalla data di presentazione della dichiarazione
all’amministrazione (DIA AD EFFICACIA DIFFERITA), con l’obbligo dell’interessato di
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“L’amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine
di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione (non più 30 giorni, come avveniva in
precedenza), adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi, salvo che l’interessato non provveda a conformare
l’attività alla normativa vigente entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso
non inferiore a 30 giorni”. → Ora i privati possono iniziare l’attività oggetto di s.c.i.a. fin
dalla data della presentazione all’amministrazione competente, ma è stato elevato a 60 il
numero dei giorni di cui l’amministrazione dispone per adottare provvedimenti inibitori e
ripristinatori. Tale termine è perentorio. Per la “s.c.i.a. in materia edilizia”, però,
l’amministrazione ha solo 30 giorni per emanare provvedimenti inibitori o ripristinatori.
“E’ fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”.
“la disciplina della s.c.i.a. «attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell’art. 117,
2°comma, lettera e) Cost. e costituisce livello essenziale delle prestazioni riguardanti i
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Resta il problema dei limiti applicativi dell’art. 19 : al riguardo, una parte della dottrina ritiene che
le fattispecie previste dall’art. 19, facendo riferimento solo agli “atti amministrativi vincolati”, siano
caratterizzate dall’assenza di esercizio di “discrezionalità amministrativa” da parte
dell’amministrazione. Questa conclusione, però, non può essere condivisa : infatti, il fatto che l’art.
19 si applichi ad «ogni atto» ampliativo della sfera giuridica del privato, il cui rilascio dipenda solo
dall’accertamento dei REQUISITI E PRESUPPOSTI DI LEGGE, non esclude che tra tali «atti»
figurino provvedimenti discrezionali. In primo luogo, qualsiasi provvedimento (vincolato o
discrezionale) deve essere assunto nel rispetto dei «presupposti di legge» : è il PRINCIPIO DI
LEGALITÀ che lo impone. In secondo luogo, l’art. 19 si applica anche alle «CONCESSIONI NON
COSTITUTIVE», che impongono un apprezzamento discrezionale : ad esempio, tra le “concessioni
non costitutive” rientra anche la “concessione demaniale marittima”, che l’amministrazione può
rilasciare compatibilmente “con le esigenze d’uso pubblico”; l’accertamento della compatibilità
della concessione con le esigenze d’uso pubblico è un “presupposto di legge” per il rilascio della
concessione, ma l’accertamento di questo presupposto impone un apprezzamento discrezionale.
Se, quindi, l’art. 19 con il sostantivo «ACCERTAMENTO» sembra evocare la nozione di “attività
amministrativa c.d. vincolata”, il riferimento alla categoria delle «concessioni non costitutive» è
sufficiente a contraddire tale suggestione.
L’altra questione che è stata affrontata riguarda invece l’ “effetto giuridico collegato alla
presentazione della segnalazione” : in quest’ottica, alcuni autori ad esempio hanno configurato la
s.c.i.a. come un “fenomeno caratterizzato da una duplice rilevanza giuridica” (cioè, ha due effetti :
è un fatto che legittima l’esercizio di un’attività, ma dà anche avvio ad un procedimento
amministrativo di verifica); altri l’hanno definita come una “fattispecie che da un lato ha
connotazioni privatistiche (poiché legittima l’interessato a esercitare un’attività) e dall’altro profili
pubblicistici” (dati dall’attivazione dei poteri amministrativi di verifica). Ma, in ogni caso,
nonostante la validità delle tesi prospettate, lo stato delle cose non cambia : cioè, se
l’amministrazione non interviene con il divieto di prosecuzione dell’attività (potere di verifica), o
non interviene in via di autotutela, questa potrà essere lecitamente svolta.
Infine, l’ultima problematica sorta riguarda l’EDILIZIA. Infatti, stando alla formulazione del nuovo
art. 19, “Le espressioni “Segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono le
espressioni “Dichiarazione di inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, e la disciplina della Scia si
sostituisce a quella della Dia in qualsiasi normativa (nazionale e regionale) che richiami la Dia”.
Quindi, una delle prime problematiche aperte dall’introduzione della disciplina della s.c.i.a. era la
sua applicabilità alla NORMATIVA EDILIZIA. Andava chiarito se la Scia si applicasse anche alle
discipline speciali, quali quella edilizia. Il primo punto di domanda riguardava, quindi, la
sostituzione della S.c.i.a. (e della relativa disciplina) alla D.i.a. edilizia. La prima lettura della norma
declinava a favore della sostituzione della D.i.a. edilizia con la S.c.i.a. di cui all’art. 19 : “la
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disciplina della Scia sostituisce direttamente la disciplina della Dia in ogni normativa, statale e
regionale”. La sostituzione dovrebbe quindi riguardare anche la disciplina speciale, come quella
edilizia. Infatti il “testo unico dell’edilizia” (d.p.r. 380 / 2001) è una disciplina speciale.
Alcune Regioni invece sostenevano che la S.c.i.a. non si applicasse all’edilizia ed hanno impugnato
la norma davanti alla Corte costituzionale : i dubbi di legittimità costituzionale riguardavano la
possibile violazione della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia edilizia. Il
problema però è stato in parte risolto dalla L. 106 / 2011 (di conversione del d.l. sviluppo 70 /
2011), che ha stabilito che : “L’art. 19 si applica alle denunce di inizio attività in materia edilizia,
ma ad esclusione dei casi in cui le denunce siano alternative o sostitutive del “permesso di
costruire” (quindi non si ritiene estensibile l’ambito applicativo della Scia agli altri titoli abilitativi
edilizi, come il “permesso di costruire” : in pratica la scia può applicarsi sì al settore edilizio, ad
esempio per opere di restauro o ristrutturazione edilizia, ma non per le nuove costruzioni e gli
ampliamenti).
In pratica : si stabilisce che : 1) il nuovo art. 19 della L. 241/1990 è dettato dallo Stato, per tutelare la concorrenza (materia di
competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 2, lett. e); b) il nuovo art. 19 della L. 241/1990 è dettato dallo
Stato, per stabilire il livello essenziale dei diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117 Cost.,
comma 2, lett. m); c) le espressioni “Segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono le espressioni “Dichiarazione di
inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, e la disciplina della Scia si sostituisce a quella della Dia in qualsiasi normativa, nazionale e
regionale, che richiami la Dia.
IL CONTENUTO : Il contenuto della Segnalazione è molto più ampio di quello della Dia. La “Dichiarazione” doveva essere corredata
dalle CERTIFICAZIONI e dalle ATTESTAZIONI RICHIESTE DALLA NORMATIVA. Pareri e altri atti di consenso previsti dalle normative di
settore, dovevano essere acquisiti presso le Pubbliche amministrazioni competenti e allegati alla Dia. Con la Scia, la vera novità è
l’ampio ricorso all’autocertificazione e all’asseverazione del rispetto di normative tecniche. Appare proprio questo aspetto
l’elemento di maggiore novità (tanto quanto la possibilità dell’avvio immediato). Infatti, onde evitare dubbi, la norma stabilisce che
“nei casi in cui la legge prevede l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi
sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma”.
Coerentemente, scompare la fase di “sospensione del procedimento” (in precedenza prevista) in attesa di eventuali pareri di
Pubbliche amministrazioni quando esso fosse previsto dalle leggi, in quanto i pareri sono sostituiti dalle “autocertificazioni”.
L’EFFICACIA IMMEDIATA : si stabilisce “l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della
Segnalazione all’Amministrazione competente”. La Dia “ad efficacia differita” (= l’attività può essere avviata decorsi 30 giorni dalla
presentazione della Dia) di cui alla precedente formulazione dell’art. 19 scompare a favore della Scia “ad efficacia immediata”. La
semplificazione è notevole, perché oltre a consentire l’avvio immediato dell’attività, elimina l’obbligo della comunicazione ulteriore,
da inviare all’amministrazione competente, contestualmente all’inizio effettivo dell’attività.
IL CONTROLLO : 1) l’amministrazione competente, per l’esecuzione dei controlli, avrà 60 giorni di tempo (e non più solo 30, come
stabilito dalla disciplina precedente); 2) se dai controlli dovessero risultare carenze dei requisiti e dei presupposti oggetto della
Segnalazione e delle autocertificazioni, attestazioni e documentazioni allegate, entro 60 giorni, l’amministrazione competente deve
adottare “motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali EFFETTI DANNOSI di essa”. La
novità introdotta dalla nuova disciplina consiste nella previsione della rimozione dei soli effetti “dannosi” e non di tutti gli effetti
prodotti dall’attività illegittimamente avviata. Basta quindi stabilire il divieto di prosecuzione dell’attività, senza la rimozione degli
effetti da essa prodotti, a meno che - appunto - non siano “dannosi”. All’amministrazione competente, rimane la possibilità di non
prescrivere l’interruzione dell’attività, ma di richiedere all’interessato di conformare l’attività alle norme, stabilendo un periodo
congruo, non inferiore a 30 giorni, quando tale conformazione sia possibile. In ogni caso, si fa salvo “il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela. ma si limita questa possibilità al caso in cui si presenti un “pericolo di
danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla
normativa vigente”. Ciò significa che non costituiscono motivo sufficiente per la REVOCA del “provvedimento tacito”, che si è
formato con la decorrenza dei 60 giorni dalla presentazione della Scia, “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” o un
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“mutamento della situazione di fatto” o una “nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”, basati su interessi generali
diversi da quelli sopra descritti. Altrettanto, per L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO del “provvedimento” amministrativo, che si è
formato con la decorrenza dei 60 giorni dalla presentazione della Scia, non è sufficiente la verifica della semplice illegittimità,
questa condizione deve anche creare un pericolo di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale. Questi limiti, quindi, impongono al responsabile del procedimento un esame approfondito
e conclusivo entro i 60 giorni a disposizione per effettuare i controlli e adottare i provvedimenti conseguenti.
4. IMPORTANTE !!!!!!! = (modificato nel 2015) “Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma
3 (= i 60 giorni per adottare i provvedimenti inibitori) ovvero di cui al comma 6-bis (= i 30 giorni in materia di scia
edilizia), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal comma 3 in presenza delle
condizioni previste dall'articolo 21-nonies”. (Comma sostituito nel 2015) → ( La legge 122 / 2010 diceva invece : 3°
comma = “L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di
60 giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e
di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa…….. E ' fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.
4°comma = Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, all’amministrazione è consentito
intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la
salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare
comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente).
6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di 60 giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a 30
giorni.
6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire solo l'azione contro il silenzio inadempimento.
*ASSEVERAZIONE = dichiarazione, certificazione con cui ci si fa garanti della veridicità di quanto asserito.
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*CONTINGENTAMENTO = alcuni settori appaiono come un mercato chiuso e le licenze in tali settori hanno un valore
molto alto.
La s.ci.a. ha natura privata, dato che l’attività – per essere intrapresa – non necessita del
consenso espresso dell’amministrazione, ma esige solo la sussistenza dei “presupposti
indicati ex lege”;
il denunciante è titolare di una “posizione soggettiva originaria”, che trova il suo
fondamento nella legge, purchè ricorrano i presupposti normativi per esercitare l’attività;
il potere che spetta all’amministrazione è solo quello, successivo, di “verificare la
conformità a legge dell’attività denunciata” con l’uso degli strumenti inibitori e repressivi.
Decorsi i 60 giorni per adottare tali provvedimenti, si consuma il “potere vincolato di
controllo con esito inibitorio” e viene in rilievo il solo “potere discrezionale di autotutela”
(annullamento e revoca).
l’attività dichiarata. Pertanto, laddove l’amministrazione non eserciti i poteri inibitori o repressivi
nel termine perentorio previsto dalla legge, si forma un c.d. “provvedimento tacito di diniego”
(all’adozione degli atti inibitori o repressivi), attraverso cui l’amministrazione, in modo implicito,
riconosce la legittimità dell’attività intrapresa.
Di conseguenza, secondo tale pronuncia, ove il “terzo controinteressato” assumesse di essere stato
leso dagli effetti della s.c.i.a., egli non potrebbe far ricorso contro l’ “assenso tacito all’esercizio
dell’attività”, ma dovrebbe impugnare l’ “inerzia dell’amministrazione” che, omettendo di
esercitare i propri poteri inibitori, ha determinato la formazione di un “provvedimento tacito di
diniego all’adozione di un atto inibitorio” (legittimando, così, l’attività intrapresa dal privato).
Nel 2011 è stato aggiunto all’art. 19 il comma 6-ter, con cui si è espressamente previsto che «la
s.c.i.a. non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile». Gli interessati possono
sollecitare le verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire solo l’AZIONE
CONTRO IL SILENZIO-INADEMPIMENTO.
*In pratica : Il legislatore recepisce l’orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della S.C.I.A., come ATTO
PRIVATO NON IMMEDIATAMENTE IMPUGNABILE. Il Consiglio di Stato aveva stabilito che la scia non costituisce un
provvedimento tacito di assenso formatosi per il decorso del termine, essendo invece una mera “dichiarazione del
privato” rivolta all’amministrazione competente. Pertanto, l’oggetto del giudizio che vede come ricorrente il terzo leso
dagli effetti della scia, non può essere l’assenso tacito dell’amministrazione all’esercizio dell’attività, ma il terzo avrà
l’onere d’impugnare l’inerzia dell’amministrazione, che, omettendo di esercitare i propri poteri inibitori, ha
determinato la formazione di un “PROVVEDIMENTO TACITO DI DINIEGO DI ADOZIONE DI TALI PROVVEDIMENTI
INIBITORI”.
Con l’articolo 19, comma 6 ter della L. 241/1990 il legislatore disconosce la natura di provvedimento tacito
direttamente impugnabile dai terzi della SCIA. La Scia è quindi un atto del privato, e non un provvedimento
amministrativo riconducibile a una manifestazione di volontà della P.A. Conseguentemente, la tutela dei terzi non si
esplica attraverso un giudizio impugnatorio, ma attraverso la previsione dell’articolo 31 del codice del processo
amministrativo (Art. 31 = Azione avverso il silenzio” : d ecorsi i termini per la conclusione del procedimento
amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere). In
altri termini, il terzo leso dalla Scia potrà solo esperire l’azione sul silenzio dell’amministrazione, con l’avvertenza però
che tale azione presuppone la sussistenza di un obbligo dell’amministrazione di adottare le misure richieste dal terzo,
obbligo che tuttavia non può ritenersi esistente allorché il potere di cui s’invoca l’esercizio si consumi per effetto del
decorso del termine perentorio previsto dalla legge per il suo esercizio. Tale assetto sembrerebbe privilegiare il
consolidamento della posizione del soggetto che inizia l’attività economica.
Secondo tale impostazione il comma 6 ter della L. 241/1990,” pone a carico della PA un OBBLIGO DI PROVVEDERE
SULLE DOMANDE TESE A PROVOCARE L’ESERCIZIO DELLE VERIFICHE SULLA SCIA. Si tratta di un obbligo diverso rispetto
al dovere di controllo previsto dal 3° comma del predetto articolo, in quanto non trae origine dalla presentazione della
Scia, ma da un’istanza formulata da chi abbia interesse all’adozione delle misure inibitorie dell’attività. In tal modo, la
P.A., a seguito dell’istanza, sarebbe obbligata ad aprire un nuovo procedimento di controllo e a concluderlo con un
provvedimento espresso impugnabile direttamente dal privato.
conclusione del procedimento. Prima di essere disciplinato dall’art. 20 della L. 241 / 1990, esso era
un istituto previsto da alcune discipline settoriali, tra cui il c.d. «decreto Nicolazzi» del 1982, il cui
art. 7 stabiliva che alcuni trascurabili tipi di interventi sul territorio fossero soggetti ad
“autorizzazione gratuita”, purché conformi alle prescrizioni urbanistiche comunali e non sottoposti
a vincoli storici, culturali e paesaggistici : per tali interventi si stabiliva che «l’istanza per
l’autorizzazione del sindaco ad eseguire i lavori si intende accolta se il sindaco non si pronuncia
entro 60 giorni. In tal caso il richiedente può dar corso ai lavori comunicando al sindaco il loro
inizio». L’art. 8 poi prevedeva che la “domanda di concessione ad edificare per interventi edilizi
diretti alla costruzione di abitazioni” si intendeva accolta se entro 90 giorni dalla presentazione
della domanda non fosse stato comunicato un “provvedimento motivato di diniego”.
Sulla base di queste discipline settoriali, il Consiglio di Stato ha successivamente enucleato una
serie di “principi in materia di SILENZIO ASSENSO” :
la disciplina sul c.d. silenzio assenso, in quanto derogatoria del regime ordinario di “rilascio
del titolo”, deve ritenersi eccezionale (motivo per cui essa deve ritenersi soggetta a “stretta
interpretazione”);
il silenzio assenso si forma con il decorso del tempo stabilito dalla legge (e sempre che la
domanda del privato sia completa di tutta la documentazione);
il silenzio assenso si produce solo in presenza di tutti i presupposti stabiliti dalla legge;
il silenzio assenso non è un provvedimento implicito, ma una «FATTISPECIE LEGALE
PERMISSIVA», che in ogni caso non impedisce all’amministrazione di esercitare i “poteri
di autotutela” (annullamento e revoca). Si è così escluso che nel silenzio assenso possa
ravvisarsi un fenomeno di finzione giuridica (provvedimento implicito, comportamento
concludente, ecc.);
il silenzio assenso è rigorosamente soggetto al “principio di legalità”, con la conseguenza
che fattispecie tipiche di silenzio assenso non possono essere introdotte per via
regolamentare.
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2. L'amministrazione competente può indire, entro 30 giorni dalla presentazione dell'istanza una conferenza di servizi,
anche tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità,
ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge
qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza.
160
5-bis. Ogni controversia relativa all'applicazione del presente articolo è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
- PARTE 5. AMMINISTRAZIONE
CONSENSUALE -
162
*STIPULARE = concludere formalmente un contratto tramite la redazione del documento nelle forme dovute.
165
*ACCORDI CONCLUSI TRA PRIVATI E P.A. : è un modulo di esercizio del potere, alternativo alla tipologia
dei provvedimenti. Gli accordi rientrano nelle attività discrezionali della P.A. e restano distinti dall’ordinaria attività iure
privatorum. L’assetto scaturente dall’accordo (incontro della manifestazione di volontà della parte pubblica e di quella
privata) consente di realizzare contemporaneamente sia l’interesse della collettività che quello del singolo. Tali accordi,
a differenza dei contratti tra privati, generalmente irrilevanti per coloro che non sono parti, possono incidere, come
tutti i provvedimenti autoritativi, sulle sfere giuridiche dei terzi. Questi ove subiscano lesioni nei
propri interessi legittimi potranno impugnare o il provvedimento finale (in caso di accordo integrativo) o l’accordo
sostitutivo davanti al giudice amministrativo.
La procedimentalizzazione degli accordi ex art. 11 prevede che l’accordo venga preceduto da una DETERMINAZIONE A
CONTRARRE, attraverso la quale la P.A. esterni le ragioni a fondamento della decisione di contrarre. Quindi la scelta di
giungere all’accordo deve essere giustificata.
Art. 11 (Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento)
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate dal privato, l’amministrazione può concludere, senza
pregiudizio dei diritti dei terzi e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati per
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale oppure in sostituzione di questo.
1-bis. Per favorire la conclusione degli accordi, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di
incontri cui invita il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati.
2. Gli accordi devono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi
si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Gli accordi di cui al
presente articolo devono essere motivati.
3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti agli stessi controlli previsti per questi ultimi.
4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo
di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato.
4-bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica
amministrazione conclude accordi, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che
sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.
*RECESSO CIVILISTICO = Il diritto di recesso è il diritto di una parte di sciogliersi dal vincolo contrattuale : si è,
quindi, innanzi ad un “negozio giuridico unilaterale recettizio”. Il recesso è un diritto potestativo, ossia esercitabile
discrezionalmente dal legittimato nei casi previsti dalla legge o dal contratto.
168
*ART. 2932 c.c. = “Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte può
ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso” = è un caso di ESECUZIONE FORZATA IN
FORMA SPECIFICA. L’esecuzione forzata in forma specifica riguarda le obbligazioni di consegnare, di fare e di non fare
e consiste nel conseguimento coatto di quanto dedotto in prestazione. Particolare caso di esecuzione in forma specifica
è quello relativo all' OBBLIGO DI CONTRARRE, che si attua con una sentenza che ha lo stesso valore del contratto
promesso ma non concluso (articolo 2932 c.c.).
169
171
172
173
Infine il codice, per contenere il costo dei contratti, favorisce il ricorso agli
“strumenti telematici”, sia per quel che riguarda le pubblicazioni e le
comunicazioni (si pensi, ad esempio, alla pubblicazione via internet di
capitolati, bandi di gara e la loro comunicazione all’UE), sia per quanto riguarda
la presentazione delle offerte : ed è proprio in quest’ottica che sono state
predisposte particolari “procedure negoziali” (si pensi, ad esempio, alle aste
elettroniche e ai sistemi dinamici di acquisizione).
Art. 3. del codice appalti. (Definizioni).
3. I «CONTRATTI PUBBLICI» sono i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di
forniture, oppure l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai
soggetti aggiudicatori.
4. I «SETTORI ORDINARI» sono i settori diversi da quelli del gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi
postali.
5. I «SETTORI SPECIALI» sono i settori del gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi postali.
6. Gli «APPALTI PUBBLICI» sono i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una STAZIONE APPALTANTE o un
ENTE AGGIUDICATORE e uno o più OPERATORI ECONOMICI, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di
prodotti o la prestazione di servizi.
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3°comma = “Le Regioni, nel rispetto dell'art. 117, 2°comma Cost., non possono prevedere una disciplina diversa da
quella del presente codice in relazione: 1) alla selezione dei concorrenti; 2) ai criteri di aggiudicazione;
3) al subappalto; 4) ai poteri di vigilanza sul mercato degli appalti affidati all'Autorità per la vigilanza sui contratti
177
ART. 117 COST. (commi 6 e 7) : “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva,
salva delega alle Regioni.
La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”.
“L'«ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO» è qualsiasi organismo : 1) istituito per soddisfare esigenze di interesse
generale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato o dagli
enti pubblici territoriali oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo
d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato,
o dagli enti pubblici territoriali.
Gli «ENTI AGGIUDICATORI» comprendono le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese pubbliche, e i soggetti che,
non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi
loro dall'autorità competente (= in pratica chi ha avuto una concessione di lavori o servizi dalla P.A)”.
178
*AGGIUDICATARIO = è il soggetto che, avendo vinto l'appalto, sottoscrive il contratto con l'ente appaltante (detto
anche ente aggiudicatore, che è l'ente pubblico che ha bandito la gara d'appalto).
180
181
Per quel che riguarda, invece, la “natura giuridica del bando”, gli orientamenti
sono vari :
Nel bando di gara può essere poi inserito un PATTO DI INTEGRITA’ (cioè un
accordo tra partecipanti e amministrazione con cui si stabiliscono alcune regole
e doveri comportamentali per garantire il corretto svolgimento della gara).
Ad ogni modo, il bando - in conformità ai principi comunitari - è soggetto a
varie forme di pubblicità (ciò per consentire anche alle imprese europee di
partecipare alla gara) : esso deve essere pubblicato nella “Gazzetta ufficiale
della Repubblica italiana”, nella “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”, su
siti informatici e su giornali quotidiani o periodici.
182
1. La stipulazione dei contratti deve essere preceduta da apposita determinazione del responsabile del procedimento di
spesa indicante :
a) il fine che con il contratto si intende perseguire;
b) l'oggetto del contratto, la sua forma e le clausole essenziali;
c) le modalità di scelta del contraente.
4-bis. I bandi sono predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli (bandi - tipo) approvati dall'Autorità,
previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sentite le categorie professionali interessate. Le stazioni
appaltanti nella delibera a contrarre motivano espressamente in ordine alle deroghe al bando - tipo.
183
In ogni caso, sia con riferimento alle “procedure aperte” che a “quelle
ristrette”, l’art. 85 c.c.p. dispone che, in presenza di determinate condizioni,
l’aggiudicazione dell’appalto deve avvenire mediante un sistema
automatizzato di scelta del contraente : si tratta della c.d. “ASTA
ELETTRONICA”, il cui obiettivo non è solo quello di contenere le spese, ma
anche quello di accelerare la procedura di gara.
Il codice dei contratti pubblici non prende, invece, in considerazione, per la
scelta del contraente, l’APPALTO CONCORSO, che infatti è disciplinato solo
dalla “normativa di contabilità di Stato” del 1923 : esso è una gara su invito, a
cui l’amministrazione può ricorrere quando necessita dell’apporto di ditte
ritenute particolarmente idonee a predisporre “progetti di opere” che, per la
loro complessità tecnica, artistica o scientifica, richiedono una particolare
capacità costruttiva. In questo caso, l’amministrazione - dopo aver predisposto
un’“idea di progetto” - chiede alle imprese (invitate) di stabilire il contenuto del
contratto, di indicare “specifiche soluzioni progettuali” e di fissare il “prezzo
per l’esecuzione dei lavori”. Fatto ciò, per la scelta del contraente viene
nominata una “commissione” che, in base a un giudizio discrezionale, individua
il contraente ritenuto più idoneo a soddisfare le esigenze dell’amministrazione.
Comunque, il codice dei contratti, pur non disciplinando espressamente
l’appalto concorso, prevede due istituti che in qualche modo possono essere
ricondotti al suo schema : l’ “APPALTO INTEGRATO TIPICO" e l’ “APPALTO
INTEGRATO COMPLESSO”.
184
PROCEDURA RISTRETTA : gli operatori interessati possono presentare domanda di partecipazione, ma solo gli
operatori invitati possono poi presentare un’offerta.
185
*SCORPORO = divisione;
*LAVORI SCORPORABILI = i lavori non appartenenti alla categoria prevalente e così definiti nel bando di gara,
assumibili da uno dei mandanti;
*MANDATO = un soggetto, detto mandatario, assume l'obbligazione di compiere uno o più atti giuridici per conto di un
altro soggetto, detto mandante.
186
*PIZZO = forma di estorsione che consiste nel pretendere il versamento di una percentuale dell'incasso da parte di
esercenti di attività commerciali ed imprenditoriali, in cambio di una supposta "protezione" dell'attività.
il primo è il CRITERIO DEL PREZZO PIÙ BASSO (art. 82 c.c.p.), in virtù del
quale, sulla base di una valutazione automatica del prezzo, è individuata
188
*PUBBLICO BANDITORE = nel giorno, ora e luogo indicati nell’avviso d’asta, il pubblico banditore a viva voce raccoglie
le offerte degli intervenuti. Ogni partecipante fa la propria offerta o migliora il prezzo base indicato dal banditore.
Ognuno ha la facoltà di migliorare continuamente la propria offerta e quella degli altri, finchè il presidente dell’asta non
fa dare il segnale di aggiudicazione dal banditore. A differenza degli altri sistemi, qui l’aggiudicazione è definitiva al
primo incanto.
189
190
Per ciò che riguarda la natura negoziale, questa è venuta meno, perché l’art.
11, 7°comma, c.c.p. dispone che - in relazione ai contratti disciplinati dal codice
- «l’accettazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta» : ciò
significa che l’aggiudicazione non è più idonea a far sorgere il vincolo
contrattuale (che, al contrario, sorge con la “stipulazione”). In questa
prospettiva, l’aggiudicazione definitiva chiude la fase pubblicistica, preordinata
alla scelta del contraente; mentre la stipulazione (con la costituzione del
vincolo contrattuale) avvia la fase privatistica.
Nonostante il PROVVEDIMENTO DI AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA sia l’atto
conclusivo della serie procedimentale, il codice dei contratti pubblici non
prevede un termine entro cui esso debba essere adottato : anzi è possibile che
ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di
appalto, ma ciò secondo la giurisprudenza è inidoneo a ingenerare un
affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non
sussista nessuna illegittimità nell’operato della P.A.”. La mancanza di un
termine entro cui adottare l’aggiudicazione definitiva espone l’impresa
all’incertezza sulla definitiva aggiudicazione, senza che possa vantare alcuna
pretesa nei confronti dell’amministrazione.
che la gara sia andata deserta (= asta in cui non si è presentato nessuno
degli aventi titolo);
che l’oggetto del contratto abbia caratteristiche tali per cui solo una ditta
possa fornirlo;
in casi di urgenza e in ogni altro caso in cui ricorrano eccezionali
esigenze.
191
PROCEDURA NEGOZIATA : la Stazione Appaltante consulta un numero limitato di operatori economici selezionati
(generalmente da un elenco costituito presso una stazione appaltante), dotati delle caratteristiche adatte
all'affidamento di un determinato appalto, con i quali "negozia" le condizioni dell'appalto. L'appalto viene infine affidato
all'operatore che negozia le condizioni più vantaggiose, in base al criterio di aggiudicazione scelto (prezzo più basso o
offerta economicamente più vantaggiosa). La Procedura negoziata può essere adottata sia con, sia senza preventiva
pubblicazione di un bando.
DIALOGO COMPETITIVO : procedura in cui la stazione appaltante, in caso di “appalti particolarmente complessi”, avvia
un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, per elaborare una o più soluzioni progettuali idonee a soddisfare
le sue necessità e sulla base delle quali i candidati selezionati saranno invitati a presentare le offerte.
*CENTRALE DI COMMITTENZA = è una stazione appaltante che gestisce gare d'appalto per conto di
più enti pubblici.
196
198
Terminati i controlli (o, nei casi di urgenza, anche prima – su richiesta della
stazione appaltante : e in tal caso parleremo di c.d. “esecuzione anticipata”), il
contratto acquista efficacia e può essere eseguito dalle parti, nel rispetto delle
norme del codice civile (data la sua natura di contratto di diritto comune). La
FASE DI ESECUZIONE infatti è disciplinata dal diritto privato, anche se le leggi
riconoscono all’amministrazione speciali poteri di intervento, in funzione della
tutela del pubblico interesse (si pensi, ad esempio, in materia di appalti, al
potere, riconosciuto all’amministrazione, di risoluzione del contratto per grave
inadempimento o ritardo nell’esecuzione dei lavori). In ogni caso, questi
speciali poteri di intervento, secondo la giurisprudenza, non hanno natura
provvedimentale, ma sono comunque “atti di natura privatistica” (sicché la
giurisdizione sulle controversie relative all’esercizio di questi poteri spetta al
“giudice ordinario”).
L’art. 21-sexies della L. 241/1990 (aggiunto dalla L. 15/2005) prevede il
“RECESSO” DELL’AMMINISTRAZIONE DAI CONTRATTI STIPULATI (nei casi
previsti dalla legge o dal contratto). L'amministrazione può, quindi, rivedere le
proprie scelte contrattuali ma solo usando le norme del codice civile. Anche il
recesso, ad ogni modo, deve essere subordinato alla sussistenza di particolari
esigenze di pubblico interesse : con ciò, tuttavia, non si vuole attribuire al
recesso carattere pubblicistico (difatti il recesso non è espressione di un
pubblico potere, ma è una “dichiarazione negoziale di diritto privato”,
espressione di un diritto potestativo riconosciuto dalla legge o dal contratto).
*TERMINE DILATORIO = fanno sì che un atto non possa produrre effetti prima che il relativo termine sia decorso.
*ROGARE = stipulare un contratto alla presenza di un notaio. Nella pubblica amministrazione l'ufficiale rogante è
un funzionario autorizzato a rogare (ossia redigere) documenti in forma pubblica amministrativa, aventi efficacia
di atto pubblico come quelli rogati da un notaio.
*MESSA IN MORA = Con la lettera di messa in mora, il privato avverte l’amministrazione che, in caso di mancato
adempimento del contratto, decorsi i giorni indicati, instaurerà un vero e proprio processo dinanzi al giudice (oppure,
per esempio, agirà con ricorso per decreto ingiuntivo) per ottenere coattivamente la soddisfazione delle proprie
pretese.
“Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal
contratto”.
200
Ad ogni modo, entrambi i problemi sono stati risolti dal legislatore dopo la
“direttiva-ricorsi del 2007” : con questo intervento, il legislatore nel codice di
procedura amministrativa, dopo aver affermato che “l’annullamento
dell’aggiudicazione produce l’inefficacia del contratto” (risolvendo, in questo
modo, il primo problema), ha specificato che “l’annullamento
dell’aggiudicazione e la pronuncia sull’inefficacia del contratto spettano al
giudice amministrativo” (risolvendo il secondo problema). L’art. 133, 1°comma
del c.p.a. (in cui è confluito l’art. 244 c.c.p.), tra le materie devolute alla
“giurisdizione esclusiva” indica anche le controversie riguardanti le procedure
di evidenza pubblica (incluse quelle risarcitorie e quelle relative alla
dichiarazione di inefficacia del contratto dopo l’annullamento
dell’aggiudicazione) : è bene precisare, però, che la “giurisdizione
amministrativa” non si estende agli “altri vizi del contratto”, che restano
sottoposti alla cognizione del “giudice ordinario”, essendo il contratto
sottoposto alle norme di diritto privato.
204
-PARTE 6. RISORSE-
1.La genesi del rapporto di pubblico impiego. Per svolgere le loro funzioni,
le amministrazioni pubbliche si sono sempre servite dell’opera di persone fisiche titolari di uffici.
Fino al 18°sec., però, la gran parte dei pubblici uffici era affidata a personale «onorario», e non
professionale : ciò significa che i funzionari (i dipendenti dell’amministrazione) erano scelti
206
all’interno di un ristretto ceto sociale, in virtù del loro rapporto con il monarca-sovrano. A metà
Ottocento, invece, prende avvio un processo di formazione della c.d. “burocrazia professionale in
senso proprio” e si assiste al massiccio ingresso negli apparati pubblici di una classe di funzionari
professionali, mentre la titolarità onoraria degli uffici viene drasticamente circoscritta alle sole
posizioni di vertice. È proprio con la trasformazione del personale da onorario a professionale che si
può iniziare a parlare di “RAPPORTO DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLE PUBBLICHE
AMMINISTRAZIONI” : quel rapporto in forza del quale un soggetto pone volontariamente la
propria prestazione professionale al servizio di un ente pubblico per il conseguimento dei fini
istituzionali di quest’ultimo, ricevendo come corrispettivo una retribuzione.
2960, entrambi del 1923), il primo sull’ “ordinamento gerarchico delle amministrazioni statali” e il
secondo sullo “stato giuridico degli impiegati statali” : queste norme rappresentano il momento di
“DEFINITIVA PUBBLICIZZAZIONE DEI RAPPORTI DI PUBBLICO IMPIEGO”.
Del resto, negli anni dell’avvento del regime fascista, la ricostruzione del rapporto di impiego con le
amministrazioni pubbliche fu usata anche per supportare il nuovo “autoritarismo dello Stato” : si
affermava che il contenuto del rapporto di pubblico impiego non era la prestazione professionale,
ma l’assunzione di un obbligo etico, in virtù del quale l’impiegato si impegnava a porre tutte le sue
energie a disposizione dell’autorità.
Ancor più dei condizionamenti politici, in favore della divaricazione definitiva tra rapporti di lavoro
privato e rapporti di pubblico impiego giocò l’istituzione della “giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo” sulle controversie relative al pubblico impiego nel 1923. Dopo la sottrazione delle
controversie di lavoro pubblico alla cognizione del giudice ordinario (che aveva la giurisdizione
sulle controversie di lavoro privato), infatti, si determinò una differenziazione di trattamento
giurisprudenziale : sotto la spinta della giurisprudenza amministrativa si affermarono principi molto
diversi da quelli che nel frattempo andava elaborando il giudice civile per il rapporto di lavoro
privato. Con due diverse serie di norme e con due diversi ordini di giudici chiamati a dirimere le
rispettive controversie, la separazione tra rapporti di pubblico impiego e rapporti di lavoro privato
divenne insuperabile.
predisporre un’apposita disciplina speciale, derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune, nè
tantomeno ha affermato la natura pubblicistica di questi rapporti di lavoro. La stessa Corte
costituzionale ha sottolineato che non c’è alcuna esigenza di una «diversificazione del regime del
rapporto» e che la «scelta tra l’uno e l’altro regime resta affidata alla discrezionalità del
legislatore» : ciò significa che questi potrà anche decidere di optare per l’applicabilità delle norme
del codice civile al rapporto di pubblico impiego (non essendoci alcun conflitto tra queste e i
“principi di imparzialità” e “buon andamento”).
Tuttavia negli anni successivi alla Costituzione, non si riuscì a superare la tradizionale
diversificazione di disciplina dei rapporti di impiego pubblico rispetto ai rapporti di lavoro privato.
Basti pensare, infatti, che con il “t.u. degli impiegati civili dello Stato” del 1957 il personale
pubblico fu suddiviso in 4 «carriere» (direttiva, di concetto, esecutiva e ausiliaria) e si ridusse il
numero di gradi : ma questo non cambiò la sostanza dei fatti, dal momento che il legislatore, con
questo testo unico, si era solo limitato a recepire l’orientamento della giurisprudenza amministrativa
e a confermare, quindi, la “CONNOTAZIONE PUBBLICISTICA DEI RAPPORTI DI PUBBLICO
IMPIEGO”. Questa connotazione pubblicistica restò immutata anche dopo le innovazioni degli anni
'70. E lo stesso discorso vale per le riforme degli anni '80 : infatti in questi anni il legislatore,
abbandonando la tradizionale prospettiva pubblicistica, tutta incentrata sulla natura pubblica
dell’ente datore di lavoro, ha spostato la propria attenzione sull’oggetto e sulla qualità della
prestazione professionale richiesta al pubblico dipendente (fu in questo modo che si ottenne il
definitivo superamento delle «carriere» e l’avvento della c.d. «qualifica funzionale»). Inoltre, la L.
93 /1983 (c.d. legge quadro sul pubblico impiego) ricostruiva il quadro normativo del pubblico
impiego in modo da affiancare, alle “previsioni di rango legislativo” (sempre speciali e derogatorie
rispetto alla disciplina di diritto comune) uno spazio lasciato libero alla “disciplina negoziale di
natura privata” (contrattazione collettiva). Però, le iniziali ispirazioni di queste riforme furono in
breve tempo tradite, in parte a causa della reintroduzione, nel tempo, di “meccanismi di
progressione” mediante il passaggio da una qualifica all’altra (tipici del precedente inquadramento
per carriere) e in parte a causa delle innumerevoli invasioni della legge nell’area riservata al
contratto.
5. Il ritorno al diritto comune. Le riforme degli anni '80, pur non avendo prodotto
risultati pratici soddisfacenti, hanno fatto comprendere l’inutilità dell’assoluta distinzione tra
“impiego pubblico” e “impiego privato”. Preso atto di ciò, il legislatore degli anni ’90, con il d.lgs.
29 / 1993 (ora confluito nel d.lgs. 165 / 2001) ha stabilito, in relazione alla materia del “pubblico
impiego”, quanto segue :
sul piano delle fonti, è stata sancita la prevalenza della disciplina dettata dalla
“contrattazione collettiva nazionale”;
sul piano degli atti, è stata affermata la natura privatistica degli atti di costituzione,
modificazione ed estinzione del rapporto di lavoro;
sul piano dei poteri, è stata affermata l’impossibilità, per le amministrazioni, di usufruire di
“poteri pubblicistici”, in considerazione del fatto che le stesse sono chiamate ad operare
«con i poteri del privato datore di lavoro»;
sul piano dei controlli, è stato escluso il controllo della Corte dei Conti sugli “atti relativi ai
rapporti individuali di lavoro”;
sul piano processuale, è stata sancita la giurisdizione del giudice del lavoro.
209
Il d.lgs. 165 / 2001 ha prodotto la “privatizzazione del pubblico impiego”. Tuttavia la c.d.
«privatizzazione» non è stata generalizzata, poiché ancora oggi vi sono dei rapporti di impiego che,
nonostante tutto, hanno conservato il “regime di diritto pubblico” (infatti restano disciplinati dai
rispettivi ordinamenti : i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori
dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia, il personale della carriera diplomatica e
prefettizia, il personale del Corpo dei vigili del fuoco, i professori e ricercatori universitari).
Fatta eccezione per queste categorie, l’avvento della c.d. “privatizzazione del rapporto di pubblico
impiego” ha comportato la necessità di modificare anche il “sistema delle fonti” : in conseguenza
della riforma, infatti, i diritti e i doveri delle parti trovano la propria fonte nel “Libro sul lavoro del
codice civile” (il libro quinto), nelle “leggi speciali sul rapporto di lavoro subordinato” e soprattutto
nei “contratti collettivi di lavoro”. Non si individua più nella legge lo strumento esclusivo di
regolamentazione del rapporto di pubblico impiego : le principali fonti legislative (e quindi
unilaterali) di disciplina del rapporto sono le stesse fonti legislative che regolano i rapporti di lavoro
privato, ma la fonte principale di regolamentazione è comunque la “contrattazione” (collettiva e
individuale).
Però, anche se l’incidenza della “legge” sul rapporto di pubblico impiego era stata ridotta, l’area
riservata alla “contrattazione collettiva” non è stata del tutto posta al riparo da ripensamenti
espansionistici del legislatore successivo. Infatti la “riforma del 2009” (d.lgs. n. 150 /2009) ha
nuovamente modificato il quadro normativo, innovando la disciplina del rapporto di pubblico
impiego (intervenendo direttamente sul d.lgs. 165 /2001) ed ha attuato una “rilegificazione della
materia”, attraverso un ridimensionamento dell’incidenza della contrattazione collettiva e una
ripubblicizzazione di alcuni istituti che erano stati consegnati al diritto privato.
210
Per quanto riguarda il procedimento volto a stipulare i contratti collettivi nella materia del pubblico
impiego, la fase della contrattazione vede come parti, da un lato, l’ “Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni” (ARAN) e, dall’altro, le “organizzazioni sindacali più
rappresentative sul piano nazionale”. L’ARAN ha “personalità giuridica di diritto pubblico” ed
autonomia organizzativa e contabile. Essa può definire con propri “regolamenti” le norme
riguardanti la sua organizzazione interna, il suo funzionamento e la sua gestione finanziaria.
La sua struttura di vertice è composta da un “Presidente” (che è nominato con d.p.r. fra persone
esperte in materie giuridico-economiche; questo rappresenta l’Agenzia nei rapporti esterni e dura in
carica 4 anni) e da un “Collegio di indirizzo e controllo” [costituito da 4 membri, di cui due
designati con “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” e altri due nominati dall’ANCI
(Associazione nazionale dei Comuni italiani), dall’UPI (Unione delle Province italiane) e dalla
“Conferenza delle Regioni e delle Province autonome”]. Il collegio delibera a maggioranza dei suoi
membri, che durano in carica 4 anni.
I compiti primari dell’ARAN sono «la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni in
sede di stipulazione dei contratti collettivi nazionali» e «ogni attività relativa alle relazioni sindacali,
alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini
dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi». Essa può inoltre assistere le amministrazioni nel
corso della contrattazione integrativa, qualora esse lo ritengano necessario.
Nell’esercizio della sua funzione rappresentativa, l’ARAN è soggetta all’indirizzo delle pubbliche
amministrazioni, espresso attraverso appositi “comitati di settore”.
Controparti negoziali dell’ARAN (nel procedimento diretto alla stipulazione dei contratti collettivi
pubblici) sono le “organizzazioni sindacali” che siano in possesso dei requisiti indicati dall’art. 43
del d.lgs.165 /2001. Più precisamente l’ARAN :
ammette alla “contrattazione collettiva nazionale” le «sigle sindacali che aventi (all’interno
del comparto) una rappresentatività non inferiore al 5%», nonché le “Confederazioni ad esse
affiliate”;
ammette alla “contrattazione collettiva quadro” le “Confederazioni sindacali alle quali siano
affiliate, in almeno due comparti, organizzazioni sindacali rappresentative”.
I soggetti ammessi alla “contrattazione integrativa” sono invece individuati dai contratti
collettivi nazionali.
211
l’ARAN acquisisce gli indirizzi dei comitati di settore (previamente approvati dal Governo);
entro 10 giorni dall’acquisizione, formula un’ “ipotesi di accordo” da trasmettere ai comitati
di settore, che sono chiamati ad esprimere il loro parere;
acquisito il parere favorevole dei Comitati, l’ARAN ne invia il testo alla Corte dei conti,
affinché ne certifichi la compatibilità finanziaria entro 15 giorni (lo stesso discorso non può
essere fatto invece per i “contratti integrativi”, per i quali infatti il controllo è devoluto al
“collegio dei revisori dei conti”, al “collegio sindacale” e agli “uffici centrali di bilancio”);
ove la Corte si esprima positivamente, il Presidente dell’ARAN sottoscrive il “contratto
collettivo”, che è poi pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana (viceversa,
nel caso in cui la Corte dovesse pronunciarsi negativamente, le parti contraenti devono
riaprire le trattative e raggiungere un nuovo accordo).
Dopo che i contratti collettivi sono stati sottoscritti dalle parti, le pubbliche amministrazioni
adempiono agli obblighi assunti con i “contratti collettivi nazionali” o “integrativi” dalla data della
sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza. Se l’applicazione dei “contratti collettivi”
crea problemi interpretativi, le parti contraenti devono definire consensualmente il significato delle
clausole equivoche, in modo che l’ “accordo di interpretazione autentica” sostituisca la clausola
contrattuale dubbia «fin dall’inizio della vigenza del contratto». L’ARAN è inoltre legittimata a
intervenire in qualunque processo davanti al giudice del lavoro, qualora sia necessario garantire la
corretta interpretazione e l’uniforme applicazione dei contratti collettivi da essa stipulati.
*Il contratto individuale deve richiamare obbligatoriamente il contratto collettivo, che viene dunque a rappresentare la
principale fonte regolativa del rapporto. L’ARAN stipula i contratti collettivi sulla base di apposite “direttive” ad essa
impartite dalle pubbliche amministrazioni interessate. Sono previsti due livelli di contrattazione : “contratti collettivi
212
nazionali di comparto” e “contratti integrativi” (stipulati dalle singole amministrazioni). Con apposito “contratto
quadro” si definiscono i diversi “comparti di contrattazione nazionale” (che sono ad es. Agenzie fiscali, enti pubblici
non economici, Istituti di ricerca, Ministeri, Regioni ed enti locali, Servizio sanitario nazionale, Scuola università :
contratto quadro per il quadriennio 2006-2009).
Nello svolgimento delle procedure selettive tese a reclutare il proprio personale amministrativo, gli
enti pubblici devono osservare i seguenti principi (art. 35, 3°comma) : 1) pubblicizzare
adeguatamente la “selezione” e le “modalità di svolgimento del concorso”; 2) adottare meccanismi
oggettivi e trasparenti nella verifica del “possesso dei requisiti richiesti”; 3) rispettare il “principio
delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori”; 4) decentrare le procedure di reclutamento; 4)
garantire che le commissioni siano composte solo da esperti di comprovata competenza nelle
materie di concorso (e che non siano appartenenti all’ambiente politico o sindacale).
Però, la regola generale per cui il reclutamento del personale degli enti pubblici deve avvenire
mediante “concorso” concosce un’eccezione, giacchè l’art. 35 del d.lgs. 165 /2001 aggiunge che
“l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche può avvenire anche mediante avviamento degli
iscritti nelle liste di collocamento o per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di
collocamento”.
Dopo il positivo superamento del concorso e l’approvazione della graduatoria finale, l’art. 35 del
d.lgs. 165 /2001 precisa che «l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto
individuale di lavoro» : ciò ci deve far comprendere che la “costituzione del rapporto di lavoro
pubblico” non è più la conseguenza dell’esercizio di un potere unilaterale dell’amministrazione, ma
è il risultato di un “atto negoziale” concluso tra due parti (il privato e l’ente pubblico) in posizione
paritaria.
Come ogni rapporto di lavoro subordinato, anche l’impiego pubblico genera diritti e doveri in capo
ai dipendenti delle varie amministrazioni. I diritti si suddividono in “diritti patrimoniali” e “non
patrimoniali”.
Tra i “diritti patrimoniali” ricordiamo il “diritto alla retribuzione” che, ai sensi dell’art. 36
Cost., deve essere «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» svolto dal dipendente e
«sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». L’art. 45,
1°comma del d.lgs. 165 /2001 rimette comunque alla contrattazione collettiva il compito di
definire il “trattamento economico fondamentale” e “accessorio” dei dipendenti pubblici. La
retribuzione è composta sia da “componenti fisse” (come ad es., la c.d. tredicesima
mensilità) che da “componenti eventuali” (come ad es., il c.d. compenso per il “lavoro
straordinario” : per il lavoro, cioè, svolto fuori dall’orario di lavoro).
213
Quanto ai “diritti non patrimoniali”, la legge disciplina solo il “diritto alle mansioni”,
precisando che “il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per cui è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente
acquisito” (art. 52, 1°comma del d.lgs. 165 /2001). Tuttavia l’impiegato pubblico non vanta
alcuna pretesa ad essere assegnato a un ufficio piuttosto che a un altro, giacché
l’amministrazione può sempre attribuirgli le mansioni ritenute più idonee in base alle
proprie esigenze organizzative. I dipendenti pubblici sono inquadrati in “3 diverse aree
funzionali”, in relazione alle quali vige una particolare disciplina concernente la
“progressione” (cioè il passaggio dall’area di competenza a quella successiva). In
conseguenza di ciò :
1) le “progressioni all’interno della stessa area” avvengono secondo “criteri di selettività
specifici”, in funzione delle qualità professionali, dell’attività svolta e dei risultati
raggiunti, attraverso l’attribuzione di “fasce di merito”.
2) Le “progressioni fra aree diverse” avvengono invece tramite “concorso pubblico”.
In ogni caso, il dipendente pubblico non può mai essere adibito a svolgere mansioni
inferiori a quelle corrispondenti alla sua posizione giuridica; viceversa, è possibile che egli
venga adibito allo svolgimento di funzioni superiori (ma solo in ipotesi tassative, cioè nel
caso di «vacanza di posto in organico per non più di 6 mesi, prorogabili fino a 12», o nel
caso di «sostituzione di un altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto»
(art. 52, 2°comma del d.lgs. 165 /2001). Fuori dalle ipotesi di cui al 2°comma,
l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori è nulla. Nel caso di assegnazione a
mansioni superiori, il dipendente pubblico ha diritto al trattamento economico previsto per
la qualifica superiore a cui è stato adibito.
Tra i “diritti non patrimoniali” rientrano i c.d. “diritti sindacali” (come il diritto di
associazione e di assemblea o il diritto di sciopero). Non sono invece diritti non patrimoniali
il c.d. “diritto alla progressione in carriera” e il c.d. “diritto alla sede” : il primo è infatti
subordinato a una valutazione discrezionale dell’amministrazione o al superamento di prove
selettive interne. Quanto al secondo, invece, è più corretto parlare di un “interesse legittimo
alla conservazione della sede”, giacchè l’amministrazione può sempre valutare la necessità
di trasferire il dipendente in un’altra sede quando ricorrono determinate evenienze di
pubblico interesse.
Per quanto riguarda i “doveri dei dipendenti” (enunciati nel “Codice di comportamento” redatto dal
Ministro della funzione pubblica), gli stessi non si discostano dai classici “doveri che gravano sui
lavoratori del settore privato” : si pensi, ad esempio, al dovere di obbedienza e diligenza, al dovere
di fedeltà nei confronti dell’ente pubblico di appartenenza o al dovere di buona condotta. Inoltre
ciascuna pubblica amministrazione definisce un proprio codice di comportamento, che integra e
specifica questo codice di comportamento generale.
La violazione di questi obblighi determina la “responsabilità disciplinare del dipendente pubblico”,
come stabilito dall’art. 55 del d.lgs. 165 /2001, e la conseguente irrogazione di particolari
“sanzioni” nei suoi confronti (come il “rimprovero”, sia verbale che scritto, la “multa”, la
“sospensione dal lavoro e dalla retribuzione” e il “licenziamento”). Il “procedimento disciplinare” è
214
disciplinato dall’art. 55-bis del d.lgs. 165 /2001 : questa norma stabilisce che, per le “infrazioni
meno gravi”, il dirigente competente deve contestare l’addebito al dipendente entro 10 giorni e poi
convocarlo ad una riunione, in cui egli può essere assistito da un procuratore o da un rappresentante
sindacale. Dopo aver concluso l’istruttoria, il dirigente conclude il procedimento disciplinare,
irrogando entro 60 giorni la “sanzione prevista dal contratto collettivo” o archiviando il caso (ove
non siano emersi elementi di prova a sostegno della responsabilità disciplinare del dipendente). Per
le “infrazioni più gravi”, viceversa, è stabilito che «ciascuna amministrazione individua l’ufficio
competente, che contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa,
istruisce e conclude il procedimento».
La violazione dei termini prescritti comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione
disciplinare, o per il dipendente la decadenza dall’esercizio del diritto di difesa. La contrattazione
collettiva non può istituire procedure d’impugnazione dei provvedimenti disciplinari, ma può
disciplinare “procedure di conciliazione non obbligatoria” (fuori dei casi per cui è prevista la
sanzione disciplinare del licenziamento) da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore
a 30 giorni dalla contestazione dell’addebito : la sanzione concordemente determinata all’esito di
tali procedure non può essere diversa da quella prevista (dalla legge o dal contratto collettivo) per
l’infrazione per cui si procede e non è soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento
disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a
decorrere in caso di conclusione con esito negativo.
Anche il rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. può subire nel corso del suo svolgimento
delle “modifiche” : si pensi al “distacco presso un’altra amministrazione”, al “collocamento fuori
ruolo”, all’ “aspettativa per infermità fisica”o all’ “aspettativa sindacale”.
Quanto all’ “estinzione del rapporto di pubblico impiego”, esso tende a coincidere con l’età
lavorativa del dipendente. Tuttavia l’estinzione del rapporto di pubblico impiego può conseguire
anche ad altri eventi, come le “dimissioni volontarie del dipendente”, il “collocamento a riposo”
(per il raggiungimento dell’età pensionabile), la “dispensa per inidoneità psicofisica”, o il
“licenziamento per motivi disciplinari”.
Detto ciò, analizziamo ora la “struttura della dirigenza pubblica” : la dirigenza pubblica è articolata
in due fasce con proprie funzioni : la “dirigenza generale” e “quella non generale”. Inoltre presso
ogni amministrazione dello Stato è istituito il “ruolo dei dirigenti”, suddiviso in prima e seconda
fascia. Il presupposto per lo svolgimento delle funzioni dirigenziali è costituito dal superamento di
un “pubblico concorso”.
Nella “prima fascia” sono inseriti i “dirigenti generali” (che sono così chiamati perché non
solo possono formulare proposte al Ministro competente, ma devono anche attuare i piani e i
programmi definiti dal Ministro) e i “dirigenti assunti con un concorso pubblico per titoli ed
esami” indetto dalle singole amministrazioni in base ai criteri generali stabiliti con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri.
I dirigenti della “seconda fascia” sono invece reclutati tramite un «concorso per esami»
indetto dalle singole amministrazioni o per «corso-concorso selettivo di formazione»
bandito dalla “Scuola superiore della pubblica amministrazione”.
Una volta reclutati, ai dirigenti è conferito l’incarico con un provvedimento (a cui poi accede il
contratto individuale). In quest’ottica, l’art. 19 del d.lgs. 165 / 2001 stabilisce che il “provvedimento
di conferimento dell’incarico” deve individuare :
l’oggetto dell’incarico;
gli obiettivi da perseguire (nel rispetto dei programmi definiti dall’organo di vertice);
la durata dell'incarico (che non può essere inferiore a 3 anni e superiore a 5 anni).
Per quanto riguarda la “revoca dall’incarico dirigenziale”, l’attuale disciplina prevede due diverse
fattispecie : 1) la prima, applicabile ai “dirigenti apicali”, è costituita dallo “spoils system” (sistema
che subordina la revoca al voto di fiducia al Governo : si pensi ad esempio ai “Segretari generali dei
Ministeri” o ai “direttori degli uffici dirigenziali generali”, che decadono automaticamente dalla
carica entro 90 giorni dal voto sulla fiducia al Governo); 2) la seconda, valida per “tutti gli altri
dirigenti” (e regolata dall’art. 21 del d.lgs. 165 /2001) prevede che “gli incarichi dirigenziali
possono essere revocati solo nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale”
(si pensi, ad esempio, al “mancato raggiungimento degli obiettivi”, all’ “inosservanza delle direttive
impartite al dirigente” o alla “colpevole violazione del dovere di vigilare sul rispetto (da parte del
personale assegnato ai propri uffici) degli standard fissati dall’amministrazione”). In tutte queste
ipotesi comunque la legge permette al dirigente pubblico di tutelare i propri diritti davanti al
“giudice del lavoro”. Infatti la riforma del pubblico impiego ha devoluto alla giurisdizione civile
tutte le controversie relative al rapporto di pubblico impiego : più precisamente, l’art. 63 del d.lgs.
165 /2001 riserva alla “cognizione del giudice del lavoro” le controversie riguardanti i rapporti
d’impiego pubblico (incluse quelle riguardanti l’assunzione, il conferimento e la revoca degli
incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale).
*Ruolo = registro in cui sono elencati nominativi o raccolti dati; nell'amministrazione, composizione e ordinamento del personale.
Il nostro Paese, con la L. 39 / 2011 ha modificato il “ciclo di bilancio” adeguandolo a queste nuove
regole comunitarie.
Nel 2011 è stato poi adottato il c.d. “Patto Euro Plus”, con la finalità di fare un salto di qualità nel
coordinamento delle politiche economiche.
Sempre nel 2011 è stato adottato un pacchetto di sei misure (c.d. “Six-pack” : composto da 5
regolamenti e una direttiva), che :
217
ha imposto ai Paesi che hanno un rapporto debito / PIL superiore al 60% di ridurre
progressivamente la parte eccedente di 1/20 all’anno;
ha imposto l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del “pareggio di
bilancio” con un miglioramento annuale dei saldi di bilancio pari ad almeno lo 0,5% ;
ha previsto un semi-automatismo delle procedure per l’irrogazione delle sanzioni per i Paesi
che violano le regole del Patto.
L’aggravarsi della crisi ha portato nel 2012 all’adozione di un Trattato, il c.d. “Fiscal compact” :
esso è un accordo che formalmente non fa parte del corpus normativo dell’UE e che :
comporta, per gli Stati che lo hanno ratificato, la possibilità di poter beneficiare del “Fondo
salva-Stati” previsto dal Trattato istitutivo del MES (“Meccanismo europeo di stabilità”);
conferma l’obbligo per i Paesi contraenti con un debito pubblico superiore al 60% del PIL
di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni (a un ritmo pari ad 1/20 dell’eccedenza in
ciascuna annualità);
conferma l’obbligo di mantenere il deficit pubblico (cioè il disavanzo annuale) sempre al di
sotto del 3% del PIL;
impone (e questa è la novità più importante) ai vari Stati di inserire la regola del “pareggio
di bilancio” (cioè del sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) in «disposizioni vincolanti
e di natura permanente - preferibilmente costituzionale» (in Italia la regola è stata inserita in
Costituzione con la legge cost. n. 1 / 2012, che ha modificato l’art. 81; infatti l’art. 81,
1°comma Cost. prevede ora che : “Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del
proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo
economico”);
prevede l’istituzione di un organismo indipendente di sorveglianza responsabile, a livello
nazionale, del rispetto dei vincoli comunitari;
prevede 1’impegno di inserire le nuove regole nella legislazione nazionale (l’Italia vi ha
adempiuto con L. cost. 1 / 2012).
Va infine segnalato il “Two Pack” (entrato in vigore nel 2013) : esso si compone di due regolamenti
ed ha rafforzato il Six Pack. Il "Two-pack" introduce un calendario e regole di bilancio comuni per
gli Stati membri dell’eurozona. In virtù di queste nuove norme :
gli Stati devono presentare il “progetto di bilancio” per l’anno successivo alla Commissione
entro il 15 ottobre (quindi prima che sia approvato da parte dei singoli Parlamenti nazionali);
la Commissione, entro il 30 novembre, valuterà i progetti di bilancio, verificando la loro
conformità alle raccomandazioni formulate dalle istituzioni comunitarie nell’ambito del
Semestre europeo : se dovesse riscontrarsi un’inosservanza particolarmente grave degli
obblighi assunti nel Patto di stabilità e crescita, potranno essere chieste delle modifiche del
progetto di bilancio per tener conto delle osservazioni formulate dalla Commissione;
la legge di bilancio annuale dovrà poi essere approvata entro i1 31 dicembre.
L’art. 23 Cost., che introduce una riserva di legge (relativa) in materia tributaria (“Nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”).
218
L’art. 53 Cost., che prevede l’obbligo, gravante su tutti i cittadini, della contribuzione, in
base alla propria capacità contributiva, imponendo un sistema orientato alla “progressività
delle imposte”, che garantisce un maggior sacrificio fiscale ai contribuenti con un reddito
più alto (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).
L’art.100 Cost., che disciplina i controlli esercitati dalla Corte dei conti (come il “controllo
preventivo di legittimità” sugli atti del Governo e il “controllo successivo sulla gestione del
bilancio statale”;
L’art. 72, 4°comma Cost., che statuisce che per i “disegni di legge relativi ai bilanci e ai
consuntivi” deve essere seguita la procedura normale di approvazione diretta da parte delle
Camere;
L’art. 75, 2°comma Cost., che esclude la possibilità che la “legge di bilancio” possa essere
sottoposta a referendum (“Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di
bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione alla ratifica dei trattati
internazionali”).
La disposizione più importante è però l’art. 81 Cost. : si tratta di una norma fondamentale che di
recente, dopo gli impegni che il nostro Paese ha assunto in ambito comunitario con il c.d. “Fiscal
compact”, è stata riscritta con la legge cost. 1 / 2012 (che è rubricata «introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»).
1. L’art. 81, 1°comma Cost., come riscritto dalla riforma costituzionale del 2012, dispone che
“lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio , tenendo conto
delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”.
2. L’art. 81, 2°comma dispone che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo per
considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a
maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali” :
dunque, si può ricorrere all’indebitamento in considerazione degli effetti del ciclo
economico e al verificarsi di eventi eccezionali (in quest’ultimo caso, però, è necessaria una
maggioranza qualificata del Parlamento : cioè la maggioranza assoluta dei componenti delle
due Camere). Per eventi eccezionali si intendono i «periodi di grave recessione economica»
e «gli eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato (come ad esempio una
calamità naturali) con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria del Paese».
3. Il nuovo art. 81 Cost. riprende poi testualmente molte disposizioni già contenute nella sua
vecchia formulazione. Così, anticipa al 3°comma un principio fondamentale (prima
contenuto nell’ultimo comma dell’art. 81 Cost.), cioè “l’obbligo della copertura finanziaria
per qualsiasi legge che comporti nuovi o maggiori oneri” (la vecchia formulazione parlava
di “spese”) : ciascuna previsione legislativa che comporti delle spese deve indicare, quindi, i
mezzi per far fronte all’accresciuto fabbisogno, con la conseguenza che è incostituzionale
una “legge di spesa” che non indichi i mezzi di copertura. Rispetto alla formulazione
precedente, è scomparso il riferimento ad «ogni altra legge», con l’importante conseguenza
che questa prescrizione costituzionale riguarda anche la legge di bilancio (che prima della
novella dell’art. 81 Cost., non poteva introdurre nuove spese).
Infatti il 3°comma dell’art. 81 Cost., nella precedente formulazione, disponeva che con la
219
legge di approvazione del bilancio non si potevano stabilire nuovi tributi e nuove spese : di
questa previsione non c’è più traccia nel nuovo art. 81 Cost.; ne consegue che con la legge
di bilancio è possibile introdurre nuove disposizioni di entrata e di spesa.
4. Il 4°comma dell’attuale art. 81 Cost. dispone che «le Camere approvano ogni anno il
bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo» (riprendendo così un principio
contenuto nel 1°comma del vecchio art. 81 Cost.) : da questa disposizione si evince che la
“legge di bilancio” è una legge ad approvazione annuale (anche se oggi essa ha un respiro
triennale). La norma chiarisce anche che il bilancio deve essere predisposto e presentato dal
Governo, ma la sua approvazione spetta al Parlamento.
5. Il 5°comma dell’attuale art. 81 Cost. disciplina il ricorso all’ “esercizio provvisorio”
(riprendendo quanto stabilito dal 2°comma del vecchio art. 81 Cost.) : infatti la “legge di
bilancio” è una legge obbligatoria, perchè la sua approvazione è necessaria per autorizzare
la gestione della spesa. Ne consegue che, se il bilancio non viene approvato entro il 31
dicembre, il Governo non è autorizzato ad effettuare nessun pagamento, nemmeno quelli di
carattere obbligatorio (come la corresponsione degli stipendi agli impiegati pubblici). Per
evitare la paralisi nella gestione finanziaria in caso di mancata approvazione della legge di
bilancio, si prevede quindi l’esercizio provvisorio, con due vincoli : uno formale (perchè
l’autorizzazione può essere concessa solo con legge), l’altro sostanziale (poiché l’esercizio
provvisorio non può essere di durata superiore a 4 mesi).
6. Infine, il 6°comma del nuovo art. 81 Cost. prevede che con “legge approvata a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera”, si stabiliscano il contenuto della legge di
bilancio e le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le
spese dei bilanci e la sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni.
Oltre a riscrivere l’art. 81 Cost., la legge cost. 1 / 2012 ha modificato anche altre disposizioni
costituzionali. In particolare :
L’art. 119 Cost. è particolarmente importante perché, dopo la legge cost. 3 / 2001, ha introdotto il
c.d. “federalismo fiscale”. L’art. 119 Cost., al 1°comma, stabilisce che “gli enti locali e le Regioni
hanno “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Il 2°comma prevede che gli enti territoriali
220
VECCHIO ART. 81 COST. = 1°comma : «Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati
dal governo.
2°comma : L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a 4 mesi.
3° comma : Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
4° comma : Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».
NUOVO ART. 81 COST. = 1°comma : «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio,
tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
2°comma : Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa
autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi
eccezionali.
3°comma : Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
4° comma : Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
5° comma : L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a quattro mesi.
6° comma : Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le
entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti
con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principî definiti con
legge costituzionale».
La normativa ordinaria. Con riguardo alla normativa ordinaria, si sono susseguite negli
anni numerose “leggi di riforma della contabilità pubblica”.
Tra quelle più remote va segnalato il r.d. 2440 / 1923 (c.d. legge di contabilità dello Stato); mentre
tra le più importanti va ricordata la legge 468 / 1978, con cui il legislatore ha riformato la
“contabilità dello Stato” in materia di bilancio. È stata poi emanata la c.d. «legge di contabilità e
finanza pubblica» (L. 196 / 2009) : questa legge riproduce in parte il modello della L. 468 / 1978
(che sostituisce, abrogandola), tenendo conto però dell’evoluzione intervenuta in campo europeo e
raccordandosi con quanto previsto per gli enti territoriali dalla L. 42 / 2009 in materia di
federalismo fiscale.
221
Il “bilancio di previsione” dello Stato - che va redatto “a legislazione vigente” (secondo le leggi in
vigore) e sulla base di alcuni “parametri indicati nel DEF” (Documento di Economia e Finanza) -
con la L. 196 / 2009 ha assunto un respiro triennale : per cui, oltre alle previsioni di entrata e di
spesa del primo anno, devono essere indicate anche quelle relative al secondo e al terzo anno (anche
se la funzione di “autorizzazione per le spese” è limitata alle sole previsioni del primo anno).
Es. = Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2016 e bilancio pluriennale per il
triennio 2016-2018.
nel “BILANCIO DI COMPETENZA” vengono riportate le entrate e le spese nella loro fase
iniziale; In questo bilancio si fa riferimento al momento in cui sorge l’obbligazione (che
consiste per le spese nell’ “impegno di pagamento” e per le entrate nell’ “accertamento delle
stesse”). In pratica, il “bilancio di competenza” riporta le entrate che si ha diritto di
riscuotere e il limite massimo degli impegni di pagamento che l’amministrazione può
assumere.
nel “BILANCIO DI CASSA” si registrano le entrate e le spese nella loro fase finale. In
questo bilancio si fa riferimento al momento in cui avviene l’effettivo movimento di denaro
dalle casse dell’amministrazione (per le spese il momento del pagamento, per le entrate il
momento del versamento). In pratica, il “bilancio di cassa” indica le entrate che si prevede
effettivamente di riscuotere e il limite massimo delle spese che possono essere realmente
sostenute.
Dal 1978 il bilancio dello Stato è un “bilancio misto” (cioè di cassa e di competenza). La L. 196 /
2009 conteneva inizialmente una norma di delega al Governo per il passaggio da un bilancio misto
a un bilancio di sola cassa, ma la L. 39 / 2011 ha modificato questa norma di delega, prevedendo di
nuovo un bilancio misto.
Tuttavia, dato che l’iter procedimentale delle entrate e delle spese può (come accade spesso) non
concludersi entro l’anno finanziario, possono in questo caso formarsi dei “residui”, che si
distinguono in attivi (quando si ha un’entrata accertata, ma non versata nel corso dell’anno
finanziario) o passivi (in caso di spesa impegnata, ma non pagata nel corso dell’anno). Quindi,
accanto alle previsioni di entrata e di spesa, nel “BILANCIO FINANZIARIO DELLO STATO”
devono essere riportati anche i valori dei residui attivi e passivi.
Differente dal “bilancio previsionale” è, invece, il “BILANCIO PLURIENNALE”, che è un
bilancio programmatico : esso espone le previsioni relative alle entrate e alle spese tenendo conto
degli effetti degli interventi programmati nel DEF. Il bilancio pluriennale è stato introdotto per la
prima volta con la L. 468 / 1978. Oggi il bilancio pluriennale copre un periodo di 3 anni e coincide
con il bilancio di previsione, anch’esso triennale. Esso non comporta autorizzazione a riscuotere le
entrate e ad eseguire le spese ivi contemplate.
3. La struttura del bilancio statale. Il “bilancio (di previsione) dello Stato” risulta
formato – dopo l’entrata in vigore della L. 196 / 2009 - da un unico “stato di previsione” per
l’entrata, da tanti “stati di previsione” della spesa quanti sono i ministeri, e da un “quadro generale
riassuntivo relativo al triennio”.
All’interno degli “stati di previsione”, la parte di ENTRATA è scomposta in :
223
1. TITOLI : (cioè la fonte di provenienza), distinti a seconda che abbiano natura tributaria,
extra-tributaria o provengano dall’alienazione di beni patrimoniali, dalla riscossione di
crediti o dall’accensione di prestiti;
2. RICORRENTI o NON RICORRENTI, a seconda che la loro acquisizione sia prevista “a
regime” o sia limitata ad uno o più esercizi;
3. TIPOLOGIE, ai fini dell’approvazione parlamentare (cioè sono le unità di voto
parlamentari per le entrate);
4. CATEGORIE, secondo la natura dei cespiti;
5. CAPITOLI : ai fini della rendicontazione, i quali possono essere eventualmente suddivisi in
articoli secondo il rispettivo “oggetto”.
1. MISSIONI : con cui si indicano gli obiettivi fondamentali che devono essere perseguiti con
la spesa pubblica;
3.CAPITOLI : (secondo l’oggetto della spesa ); essi sono le unità elementari del bilancio, che
descrivono l’oggetto di ogni somma iscritta.
L’approvazione parlamentare si ferma a livello delle “tipologie” (per l’entrata) e dei “programmi”
(per la spesa) : ciò ci permette di distinguere tra un “BILANCIO POLITICO” (quello oggetto di
approvazione parlamentare e dotato di un numero inferiore di voci) e un “BILANCIO
AMMINISTRATIVO” (più analitico).
La legge rinforzata 243 / 2012 ha disciplinato il contenuto della “legge di bilancio dello Stato”,
dettando norme che entreranno in vigore dal 1° gennaio 2016. La struttura del bilancio è nella
sostanza confermata, articolandosi il bilancio :
dal lato delle ENTRATE in titoli, entrate ricorrenti e non ricorrenti e tipologie;
dal lato delle SPESE, in missioni e programmi.
Le unità di voto parlamentare continuano ad essere costituite : 1) per le ENTRATE, dalle tipologie;
2) per la SPESA, dai programmi.
Ma la vera novità è rappresentata dal fatto che il contenuto dell’attuale “legge di stabilità”
confluisce nella “legge di bilancio”; è previsto infatti che la “legge di bilancio” si suddivida in due
sezioni : 1) la prima sezione contiene grosso modo il contenuto dell’attuale legge di stabilità); 2) la
seconda sezione contiene invece le previsioni di entrata e di spesa formate in base alla legislazione
vigente (quindi le previsioni dell’attuale legge di bilancio). Entrambe le sezioni sono redatte sia in
termini di “competenza” che di “cassa”.
224
4. I principi del bilancio. Il “bilancio dello Stato” deve essere redatto sulla base dei
seguenti principi :
il PRINCIPIO DELL’ANNUALITÀ : (ex art. 81, 4° Cost.), anche se oggi il bilancio copre
un periodo di 3 anni;
il PRINCIPIO DELL’UNITÀ : secondo cui il totale delle entrate deve finanziare il totale
delle spese;
il PRINCIPIO DELL’UNIVERSALITÀ : tutte le entrate e tutte le spese devono confluire
necessariamente nel bilancio (ad eccezione dei casi di gestione fuori bilancio consentiti
dalla legge);
il PRINCIPIO DELL’INTEGRITÀ : le entrate e le spese devono essere iscritte nel loro
importo integrale (ossia al lordo);
il PRINCIPIO DELLA SPECIALIZZAZIONE : impone di ripartire le entrate e le spese per
consentire un effettivo controllo del Parlamento;
il PRINCIPIO DELLA VERIDICITÀ : il bilancio deve contenere una rappresentazione
veritiera del quadro economico di riferimento;
il PRINCIPIO DELLA PUBBLICITÀ : il bilancio deve essere reso noto a tutti i cittadini e,
perciò, deve essere pubblicato nella Gazzetta ufficiale;
il PRINCIPIO DEL PAREGGIO (o meglio, dell’equilibrio tendenziale) DI BILANCIO.
Il “ciclo di bilancio” inizia con la presentazione alle Camere, entro il 10 aprile, del “documento di
economia e finanza” (DEF) : si tratta di un documento di programmazione finanziaria e di bilancio
introdotto dalla L. 39 / 2011, che sostituisce la “decisione di finanza pubblica” (che, a sua volta,
sostituiva il “documento di programmazione economica e finanziaria”). Il DEF si articola in 3
sezioni : 1) la prima reca il programma di stabilità; 2) la seconda è dedicata all’analisi delle
tendenze della finanza pubblica; 3) la terza si occupa del programma nazionale di riforma.
225
Il DEF è predisposto dal Governo e inviato alle Camere. Superato il vaglio del Parlamento, il DEF
va inviato, entro il 30 aprile, alle istituzioni comunitarie : il “Consiglio europeo” e il “Consiglio dei
ministri finanziari” valutano, così, preventivamente gli obiettivi programmatici e le misure che ogni
Paese intende adottare e possono eventualmente invitare lo Stato membro a rivedere il programma
presentato.
Nel mese di aprile-maggio il “Ministero dell’economia e delle finanze” invia ai Ministeri una
circolare invitandoli a formulare i propri “stati di previsione” (in vista degli obiettivi da
raggiungere). I Ministri indicano gli obiettivi di ciascun dicastero e quantificano le risorse
necessarie per il loro raggiungimento; così, presentate le richieste, il “Ministro dell’economia e
delle finanze” procede alla loro dettagliata analisi.
Entro il 20 settembre, il Governo invia alle Camere la “nota di aggiornamento del DEF” : questa
nota non è più facoltativa (come nella precedente disciplina), ma è obbligatoria : lo scopo di tale
inoltro è quello di consentire un rapido aggiornamento degli obiettivi programmatici (tenendo
conto delle maggiori informazioni disponibili sull’andamento del quadro macroeconomico).
Entro il 15 ottobre di ogni anno il Governo deve presentare alle Camere due importanti disegni di
legge, che compongono la “manovra triennale di finanza pubblica” : il disegno di “legge di
stabilità" e il disegno di “legge di bilancio”. Infatti, a partire dalla riforma del 2009 la manovra
prende in considerazione un periodo triennale (anche se comunque viene presentata annualmente).
Sempre entro il 15 ottobre questi documenti devono essere inviati alle istituzioni comunitarie per un
controllo preventivo (così come imposto dal c.d. “Two Pack”).
La “legge di stabilità” sostituisce la “legge finanziaria”, con alcune novità (come quella di riferirsi
non più a uno scenario annuale, ma triennale). La “legge finanziaria” fu introdotta dalla L. 468 /
1978, con il compito di definire il quadro finanziario e raccordare il bilancio con la legislazione di
spesa. La sua primitiva formulazione consentiva l’aggiramento dell’art. 81, 3°comma Cost. (cioè il
divieto per la legge di bilancio di introdurre nuovi tributi e nuove spese). La “legge di stabilità” (ex
legge finanziaria) indica :
il livello massimo del ricorso al mercato finanziario (cioè l’entità del disavanzo da coprire
tramite prestiti);
la differenza tra spese e entrate fiscali per ciascuno degli anni considerati dal bilancio
pluriennale;
le variazioni delle aliquote, delle detrazioni e degli scaglioni riguardanti imposte dirette e
indirette, tasse, canoni e contributi in vigore;
norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa;
le norme necessarie a garantire l’attuazione del “Patto di stabilità interno” (cioè l’insieme
delle disposizioni con cui lo Stato Italiano definisce gli impegni che gli enti locali devono
rispettare, affinché il Paese possa mantenere l’impegno assunto con l’adesione “Patto di
Stabilità e crescita”).;
226
considerato dal bilancio pluriennale”). Non può contenere, invece, “norme di delega” o di
“carattere ordinamentale” o “organizzatorio”, né “interventi locali” o “micro-settoriali”. Le
disposizioni di carattere ordinamentale, organizzatorio e di rilancio dell’economia che non possono
essere accolte nella legge di stabilità, trovano spazio nei disegni di legge “collegati” alla manovra di
finanza pubblica, che devono essere presentati alle Camere entro il successivo mese di gennaio
(quindi dopo la sessione di bilancio).
Entro il 31 dicembre, la legge di stabilità e il bilancio dello Stato devono essere approvati (in caso
contrario si va all’esercizio provvisorio). Si chiude così la “fase preparatoria del bilancio” e si
passa alla “fase gestionale” (in quest’ottica, una volta approvato il bilancio, dal 1° gennaio
l’amministrazione può procedere all’esecuzione dello stesso, effettuando le spese e riscuotendo le
entrate).
E’ possibile, però, che nel corso dell’esercizio finanziario (che inizia il 1° gennaio e si conclude il
31 dicembre) emerga la necessità di apportare “variazioni al bilancio” : proprio per questo, entro il
30 giugno, deve essere presentato al Parlamento il c.d. “disegno di legge di assestamento”, al cui
interno sono riportate le “modifiche al bilancio (resesi necessarie per sopravvenute vicende
economiche).
Si giunge così alla terza ed ultima fase del “ciclo di bilancio”, quella della c.d. “rendicontazione” :
entro il 30 giugno dell’anno finanziario successivo a quello considerato, il Governo deve presentare
al Parlamento il “rendiconto”, che si compone di due parti :
il “CONTO DEL BILANCIO” : che illustra i risultati della gestione finanziaria rispetto alle
previsioni;
il “CONTO DEL PATRIMONIO” : in cui sono descritte le variazioni intervenute nel
patrimonio dello Stato e la situazione patrimoniale finale.
Il rendiconto, una volta approvato, è intangibile : non può più essere sottoposto a modifiche. Con
l’approvazione del rendiconto da parte del Parlamento, si conclude il “ciclo di bilancio”.
al termine dell’anno finanziario ogni Ministero compila il proprio “conto del bilancio” e il
“conto del patrimonio”;
entro i1 30 aprile il tutto deve essere trasmesso al Ministero dell’economia;
entro il 31 maggio, il Ministro dell’economia trasmette alla Corte dei conti il “rendiconto
generale dell’esercizio scaduto”, per la c.d. parificazione (cioè, il giudizio volto ad
accertare la conformità dei risultati del rendiconto dello Stato alla legge di bilancio);
la Corte dei conti, parificato il rendiconto generale, lo trasmette al Ministro dell’economia
per la successiva presentazione alle Camere, che deve avvenire entro i1 30 giugno.
2. La RISCOSSIONE è la fase in cui il debitore paga la somma dovuta allo Stato ai c.d.
“agenti della riscossione”.
3. Il VERSAMENTO è la fase che conclude il procedimento di entrata e si estrinseca
nel versamento (presso le Tesorerie dello Stato) delle somme riscosse dagli agenti.
1. L’IMPEGNO è la fase giuridica in cui sorge per lo Stato l’obbligo di pagare una
certa somma a un creditore specificamente individuato. L’impegno può derivare da
diverse fonti : da leggi che dispongono determinate spese (impegni legislativi); da
contratti stipulati dall’amministrazione (impegni contrattuali); da atti amministrativi
(impegni amministrativi); da sentenze passate in giudicato che condannano lo Stato a
pagare una certa somma (impegni giudiziali).
La “fase integrativa dell’efficacia dell’atto di impegno” si perfeziona attraverso il
“controllo degli uffici della Ragioneria”, fase che culmina con la registrazione
dell’atto di impegno e che produce l’impegno della relativa spesa. Il controllo degli
uffici è diretto a verificare sia il profilo della “legalità” (poiché la spesa deve trovare
il proprio fondamento nella legge), sia la “regolarità della documentazione”, sia la
“disponibilità dei fondi” (all’interno dell’apposito capitolo di bilancio).
La L. 196 / 2009 dispone che solo i dirigenti possono impegnare le spese, nei limiti
delle risorse assegnate in bilancio. Gli impegni possono riferirsi solo all’esercizio in
corso : solo previo assenso del “Ministero dell’economia e delle finanze” possono
essere assunti impegni a carico di esercizi successivi, nei limiti delle risorse stanziate
nel bilancio pluriennale a legislazione vigente. Alla chiusura dell’esercizio
finanziario (il 31 dicembre), nessun impegno può essere assunto a carico
dell’esercizio scaduto.
2. La LIQUIDAZIONE rappresenta, invece, tutto quel complesso di operazioni con cui
si determina l’importo della somma da pagare e si individua l’identità del
beneficiario (creditore).
3. L’ORDINAZIONE è la fase in cui si ordina alla Tesoreria di pagare la somma
liquidata. Viene, dunque, emesso un titolo di spesa che dispone il pagamento (il c.d.
“ordinativo di pagamento”).
4. Il PAGAMENTO è la fase conclusiva del procedimento di spesa, con cui si procede
all’erogazione del denaro (da parte della Tesoreria) a favore del beneficiario. In
questa fase l’obbligazione pecuniaria si estingue.
228
“appositi nuclei di analisi e valutazione della spesa”. Sulla base delle attività svolte dai nuclei, il
Ministero dell’economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato -
elabora, con cadenza triennale, un “rapporto sulla spesa delle amministrazioni dello Stato”, che
illustra la composizione e l’evoluzione della spesa e i risultati conseguiti.
Infine l’art. 49 della L. 196 / 2009 ha anche delegato il Governo ad adottare uno o più decreti
legislativi «per il potenziamento dell’attività di analisi e valutazione della spesa e per la riforma del
controllo di regolarità amministrativa e contabile» (cioè i controlli di ragioneria). Tale delega è
stata attuata con il d.lgs. 123 / 2011, che ha implementato i compiti del “dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato” (ricordiamo che il “dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato” e le “Ragionerie territoriali dello Stato” sono «organi di controllo» della regolarità
amministrativa e contabile).
L’“ANALISI E LA VALUTAZIONE DELLA SPESA” consiste nell’«analisi della
programmazione e della gestione delle risorse finanziarie e nell’analisi dei risultati conseguiti dai
“programmi di spesa” : essa è finalizzata al miglioramento del grado di efficienza della spesa
pubblica. E’ svolta secondo un programma triennale, i cui risultati confluiscono nel “rapporto
triennale sulla spesa”.
229
A ogni categoria corrisponde un diverso regime giuridico. IL “DEMANIO” è l’insieme dei beni
inalienabili che appartengono allo Stato. I BENI DEMANIALI sono contraddistinti da due
caratteristiche : 1) sono sempre beni immobili o universalità di mobili (e mai beni mobili); 2)
appartengono necessariamente allo Stato o ad altri enti pubblici territoriali (Regioni, Province,
Comuni).
ART. 822 c.c. (rubrucato «Demanio pubblico») = 1° comma (demanio necessario) : “Appartengono allo Stato e
fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre
acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.
2° comma (demanio eventuale) : Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le
strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse
storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli
archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio
pubblico.
o beni del demanio naturale : costituito da quei beni che sono demaniali per natura; essi
acquistano e perdono la propria identità fisica per fatti naturali(es. le spiagge o i fiumi);
o beni del demanio artificiale : costituito da quei beni costruiti perlopiù dall’amministrazione
pubblica e destinati ad una specifica funzione pubblica; essi acquistano e perdono la propria
identità fisica per opera dell’uomo (es. strade o acquedotti).
La “condizione giuridica dei beni demaniali” è stabilita dall’art. 823 c.c., ove è previsto, al
1°comma che «i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono
formare oggetto di diritti a favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li
riguardano». Dunque i beni demaniali non possono essere alienati (a pena di nullità del
trasferimento per impossibilità dell’oggetto ex art. 1418 c.c.); sono imprescrittibili (= diritti che non
si estinguono anche se non sono esercitati per lungo tempo); non sono suscettibili di acquisto per
usucapione, di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità. Ciò significa che i beni
demaniali sono incommerciabili ed i terzi possono acquistare diritti sui beni solo alla luce di
230
un’apposita concessione e nei soli casi stabiliti dalla legge (ferma restando, però, la loro titolarità
pubblica) : si pensi, ad esempio, alla concessione delle spiagge a favore di gestori privati di
stabilimenti balneari, contro il pagamento di un canone).
Per quanto riguarda la loro “tutela”, il 2°comma dell’art. 823 dispone che l’autorità amministrativa
competente provvede alla tutela dei beni demaniali sia con i “mezzi ordinari a difesa della proprietà
e del possesso” previsti dal codice civile (tutela in via ordinaria con giurisdizione del giudice
ordinario), sia “in via amministrativa” : si tratta di un’ipotesi di AUTOTUTELA ESECUTIVA.
Poiché la disposizione è formulata in termini generici, senza tipizzare i poteri che possono essere
esercitati dalla P.A., la maggior parte della dottrina le assegna una valenza meramente ricognitiva
degli specifici poteri di autotutela dei beni demaniali già previsti nelle singole discipline di settore.
Ma la giurisprudenza ritiene che questa disposizione consenta all’amministrazione di esercitare i
c.d. «poteri di polizia demaniale» (ad es., provvedimenti inibitori, di sgombero, di rilascio, o di
riduzione in pristino).
Art. 823 c.c. (rubricato “Condizione giuridica del demanio pubblico”) : I beni che fanno parte del demanio pubblico
sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi
che li riguardano.
Spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di
procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal
presente codice.
Per quanto riguarda, infine, l’ “inizio” e la “cessazione del carattere demaniale” dei beni pubblici :
1) i BENI DEL DEMANIO NATURALE : acquistano tale qualità per il solo fatto di venire ad
esistenza con le loro caratteristiche fisiche (così, una spiaggia acquista la qualità di bene demaniale
per il solo fatto che essa è sorta come tale). Allo stesso modo, questi beni perdono il loro carattere
demaniale qualora perdano le loro caratteristiche fisiche (c.d. sdemanializzazione per fatto
naturale : es., una spiaggia cessa di essere un bene demaniale qualora non sia più configurabile
come tale dal punto di vista fisico); i BENI DEL DEMANIO ARTIFICIALE : acquistano tale
qualità al verificarsi di una duplice condizione : 1) essi devono venire ad esistenza (per opera
dell’uomo) con le caratteristiche oggettive stabilite dalla legge; 2) essi devono risultare
effettivamente destinati al soddisfacimento dell’interesse pubblico previste dalla legge, sulla base di
una manifestazione di volontà, espressa o tacita, da parte dell’amministrazione. Tale manifestazione
di volontà, quindi, non deve necessariamente essere esternata da parte della P.A., ma può essere
anche implicita (cioè racchiusa nella stessa decisione della P.A. di realizzare il bene : ad esempio,
nella decisione di costruire un porto). Analogamente, questi beni perdono il carattere della
demanialità non solo qualora perdano le caratteristiche oggettive stabilite dalla legge (ad es.
distruzione di un acquedotto), ma anche qualora non risultino più destinati da parte della P.A. al
perseguimento delle esigenze di pubblico interesse (ad es., questo è il caso di una fortezza militare,
che cessi la propria destinazione militare in conseguenza della costruzione di una nuova fortezza in
sua sostituzione).
231
I BENI PATRIMONIALI INDISPONIBILI sono quei beni che hanno un’immediata ed effettiva
destinazione ad una finalità pubblica. Essi sono individuati dall’art. 826 (commi 2° e 3° c.c.). Ai
sensi del 2°comma, fanno parte del PATRIMONIO INDISPONIBILE DELLO STATO : 1) le
foreste, le miniere, le cave e torbiere; 2) le cose di interesse storico, archeologico, artistico e
paleontologico (ritrovate nel sottosuolo); 3) i beni che costituiscono la dotazione della Presidenza
della Repubblica; 4) le caserme, gli armamenti e le navi da guerra. Il 3°comma dispone, inoltre,
che fanno parte del PATRIMONIO INDISPONIBILE DELLO STATO (o DELLE PROVINCE E
DEI COMUNI, a seconda della loro appartenenza) : 1) gli edifici destinati a sede di pubblici uffici
(con i loro arredi); 2) e gli altri beni destinati ad un pubblico servizio.
Infine, in materia vige l’art. 11 della L. 281 / 1970, che, con alcune previsioni abrogative dell’art.
826, 2°comma, dispone che “sono trasferite alle Regioni e fanno parte del PATRIMONIO
INDISPONIBILE REGIONALE : 1) le foreste appartenenti allo Stato ; 2) le cave e le torbiere; 3)
le acque minerali e termali; 4) gli edifici (con i loro arredi) e gli altri beni destinati a uffici e servizi
pubblici di spettanza regionale.
ART. 826 c.c. (rubricato “Patrimonio dello Stato, delle Province e dei Comuni”) : 1°comma = I beni appartenenti allo
Stato, alle province e ai comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il
patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni.
2° comma = Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato : le foreste che a norma delle leggi in materia
costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al
proprietario del fondo, le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e
in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme,
gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.
3°comma = Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo
la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico
servizio.
Il regime giuridico dei “beni patrimoniali indisponibili” è dettato dall’art. 828, 2°comma c.c.: «i
beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro
destinazione, se non nei modi stabiliti dalla legge». Tale regime giuridico ha una pregnanza
pubblicistica più attenuata rispetto a quello dei beni demaniali : ciò significa che questi beni non
sono assolutamente incommerciabili, poiché, pur non potendo essere sottratti alla loro destinazione
a finalità pubbliche, possono comunque essere oggetto di “atti costitutivi di diritti a favore di terzi”.
Ci sono, però, delle eccezioni : le miniere, ad esempio, sono assolutamente incommerciabili.
Per quanto riguarda l’“acquisto” e la “perdita del carattere indisponibile dei beni”, si rinvia alle
regole dettate per i beni demaniali, precisando che anche in tal caso si dovrà distinguere tra beni
naturali e artificiali, ma evidenziando che ciò che rileva in modo decisivo ai fini dell’
“indisponibilità” è l’ effettiva destinazione dei beni a finalità pubbliche. In particolare, affinché un
bene possa rivestire il carattere proprio dei “beni patrimoniali indisponibili”, deve sussistere: 1) un
atto da cui si evinca la volontà dell’amministrazione di destinare quel determinato bene a un
pubblico servizio; 2) e l’effettiva destinazione del bene al servizio pubblico (si pensi, ad esempio,
agli edifici destinati a un pubblico servizio).
232
I BENI PATRIMONIALI DISPONIBILI : gli altri beni che appartengono allo Stato o agli altri enti
pubblici territoriali fanno parte del “PATRIMONIO DISPONIBILE”, cioè di cui lo Stato, il
Comune, la Provincia o la Regione possono disporre liberamente. Essi quindi sono soggetti alle
regole del codice civile (alienazione, diritti di uso e godimento), a meno che una legge speciale non
disponga diversamente, imponendo vincoli o oneri particolari sul bene pubblico. La principale
caratteristica dei beni del patrimonio disponibile è quella di avere un rilievo economico : essi
producono reddito. Oltre ai beni immobili, fanno parte del patrimonio disponibile alcuni mobili
(come obbligazioni, titoli, partecipazioni azionarie dello Stato in società pubbliche e società private
per azioni).
La loro individuazione avviene, quindi, con un criterio di “residualità” : sono tali, infatti, tutti i beni
appartenenti a soggetti pubblici diversi dai “beni demaniali” e dai “beni patrimoniali
indisponibili”. Beni patrimoniali disponibili per eccellenza sono le somme di denaro appartenenti
alle amministrazioni pubbliche (che, però, assumono la qualità di “beni patrimoniali indisponibili”
quando è impressa loro una precisa destinazione a particolari fini). I beni del patrimonio
disponibile sono disciplinati dalle norme di diritto privato, e possono quindi essere alienati,
sequestrati, pignorati, fatti oggetto di diritti di uso o godimento a favore di terzi. Quindi, l’attributo
di «pubblici» ha un carattere solo descrittivo per questi beni (indica, cioè, che appartengono a
soggetti pubblici), perché il loro regime giuridico è lo stesso dei beni appartenenti ai privati.
*Ricorda che : i “beni demaniali” appartengono solo allo Stato o agli altri enti territoriali; invece i “beni patrimoniali”
possono appartenere anche ad altri enti pubblici.
4. Uso dei beni pubblici. I beni pubblici possono essere oggetto di uso diretto, uso
promiscuo, uso generale e uso particolare.
USO DIRETTO : vi rientrano quei beni che sono usati direttamente dalle pubbliche
amministrazioni proprietarie per lo svolgimento delle proprie attività (si pensi, ad esempio,
all’uso delle sedi dei pubblici uffici);
USO PROMISCUO : quando il bene viene usato “direttamente” dall’amministrazione
proprietaria, ma può essere usato anche da altri soggetti, pubblici o privati : ad es. le
“strade militari” possono essere usate non solo dalle amministrazioni militari, ma anche per
soddisfare l’interesse generale alla pubblica circolazione;
USO GENERALE : vi rientrano quei beni che vengono usati per soddisfare in primo luogo
i bisogni della collettività, e non quelli dell’amministrazione pubblica che ne è titolare; per
questo, il loro uso è consentito a tutti i membri della collettività (si pensi alle spiagge libere
o alle strade pubbliche);
USO PARTICOLARE : vi rientrano quei beni che, data la loro scarsità, vengono attribuiti
“nei casi stabiliti dalla legge” a singoli soggetti privati, tramite “provvedimenti
amministrativi concessori” e contro la corresponsione di un canone : si pensi, ad esempio,
alla concessione di coltivazione di miniere.
233
5. I diritti demaniali su beni altrui e gli usi civici. L’art. 825 c.c. assoggetta
allo stesso regime giuridico dei beni demaniali anche i diritti reali (che spettano allo Stato, alle
Province e ai Comuni) su beni appartenenti ad altri soggetti (sia pubblici che privati), ma solo nel
caso in cui sussistano due requisiti, e cioè quando questi diritti : 1) o sono costituiti per l’utilità di
beni demaniali; 2) o sono costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse.
Nella prima ipotesi (“diritti costituiti per l’utilità di beni demaniali”) si è in presenza di veri e propri
DIRITTI DEMANIALI SU BENI ALTRUI. Poiché la norma ne prevede la costituzione per l’utilità
di beni demaniali - che sono tutti beni immobili - la dottrina qualifica questi diritti come “servitù
prediali pubbliche” (ad es. la servitù costituita su un fondo privato a favore di un acquedotto
pubblico che lo attraversa o la “servitù di via alzaia”, in forza della quale i proprietari di fondi
adiacenti a corsi d’acqua navigabili devono consentire il transito delle persone su apposite strisce
di terra). Le servitù prediali pubbliche possono essere costituite sia consensualmente sia, nei casi
previsti dalla legge, con un provvedimento amministrativo.
Alla seconda ipotesi (“diritti costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse”)
corrispondono, invece, i DIRITTI DI USO PUBBLICO, che si differenziano dalle servitù prediali
pubbliche perché sono costituiti (con le stesse modalità di queste ultime) non per l’utilità di un bene
demaniale, ma a favore di una determinata collettività : pensiamo ad esempio, al diritto di visitare
aree private di particolare interesse storico-culturale o alle c.d. “strade vicinali”, che sono strade di
proprietà privata su cui, però, è consentito il pubblico transito, regolato dal Comune (che concorre
anche alle spese di manutenzione). Un particolare modo di costituzione dei “diritti di uso pubblico”
è la c.d. dicatio ad patriam, che ricorre quando il proprietario di un bene privato mette
volontariamente e continuativamente il bene a favore della collettività, assoggettandolo al relativo
uso.
Una considerazione a parte, invece, va riservata agli USI CIVICI : si tratta di “diritti reali” di
antichissima origine (molti risalgono al medioevo) di cui sono titolari determinate collettività
stanziate sul territorio (anche organizzate in associazioni agrarie, come le c.d. «università agrarie»).
Questi diritti hanno ad oggetto il godimento di terreni (adibiti a pascolo, caccia, legnatico o
macchiatico) di proprietà dei Comuni, delle Regioni, dello Stato o anche di soggetti privati. La loro
disciplina è contenuta nella L. 1766 / 1927. Gli “usi civici” vanno inglobati nei “diritti spettanti alla
collettività” : ai singoli membri che compongono la collettività “uti cives” spetta l’esercizio di
alcuni diritti; tali diritti si sostanziano in un godimento su un bene fondiario per soddisfare i bisogni
primari della collettività (si pensi ad es. ai diritti di uso civico di legnatico, di erbatico, di fungatico
e di pesca). Tale istituto è nato per dare un sostentamento vitale alle popolazioni in un momento
storico in cui la “terra” era l’unico elemento da cui queste potevano ricavare i prodotti per
sopravvivere. La materia è tuttora regolata dalla L. 1766 / 1927 (riguardante il “riordinamento degli
usi civici nel Regno”). Però attualmente è in corso la “liquidazione” degli usi civici che gravano sui
beni privati : nel dettaglio, il procedimento di liquidazione inizia con l’accertamento della
sussistenza dell’uso civico vantato dalla collettività; fatto ciò, nel caso in cui l’esito
dell’accertamento sia positivo, il procedimento si conclude con l’affrancazione dei fondi privati
interessati dagli usi civici, mediante il distacco di una parte di essi (che viene ceduta in proprietà ai
Comuni o alle stesse associazioni agrarie).
234
ART. 825 c.c. (rubricato “Diritti demaniali su beni altrui”) : Sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti
reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono
costituiti per l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti (2) o per il conseguimento di fini di pubblico
interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi.
autonoma in ente pubblico economico : l’ «Ente Ferrovie dello Stato», dotato di “personalità
giuridica”. Ciò comportò la sdemanializzazione della rete ferroviaria, la cui disciplina è stata, così,
ricondotta a un regime giuridico analogo a quello dei “beni patrimoniali indisponibili” : infatti l’art.
15 della L. 210 / 1985 dispose che «i beni dell’Ente Ferrovie dello Stato destinati a pubblico
servizio non possono essere sottratti alla loro destinazione senza il consenso dell’Ente». A
discapito di quanto detto, però, nel 1992 l’“Ente Ferrovie dello Stato” è stato trasformato in società
per azioni : si è posto, quindi - per la rete ferroviaria - il problema della permanenza o meno del
regime giuridico dei beni patrimoniali indisponibili. La soluzione non si è fatta attendere: nel 1993
il legislatore ha, infatti, attribuito alla neo-istituita “Ente Ferrovie dello Stato s.p.a.” lo stesso ambito
di applicazione ricoperto dall’art. 15 della L. 210 / 1985. Tra il 1998 e il 1999, però, per attuare il
principio comunitario di separazione tra “la proprietà e la gestione delle reti” e l’ “erogazione dei
relativi servizi”, è stata costituita una nuova società per azioni : “Rete Ferroviaria Italiana - R.F.I.”;
a questa nuova società è stata conferita non solo la rete ferroviaria (prima intestata a Ferrovie dello
Stato s.p.a.), ma anche il ruolo di gestore dell’infrastruttura. L’ultimo intervento in materia è stato
predisposto poi nel 2003 : si tratta del d.lgs. 188 / 2003, che, benchè non individui con precisione il
soggetto proprietario della rete ferroviaria (che, quindi, può anche essere un soggetto privato), è
molto importante, perchè detta una disciplina della rete di evidente impronta pubblicistica (sul piano
del “vincolo di destinazione” riguardante l’attività).
RETE ELETTRICA : di una vicenda analoga è stata oggetto anche la “rete di trasmissione
elettrica nazionale”, giacchè in origine tale rete era inserita nell’ambito dei “beni patrimoniali
indisponibili” e apparteneva all’ente pubblico economico “Enel”. Ma dopo la trasformazione di
Enel in “società per azioni”( Enel s.p.a.) nel 1992, questa è stata obbligata nel 1999 ha costituire
altre società separate, in modo da affidare a ciascuna di esse lo svolgimento delle attività di
produzione, distribuzione e vendita di energia elettrica, nonché dell’attività relativa all’esercizio
dei diritti di proprietà della rete. In questa prospettiva, allora, Enel s.p.a. ha costituito un’apposita
società (la società “Terna s.p.a.”), a cui è stata conferita, in un primo tempo, la sola “rete di
trasmissione elettrica nazionale”, ma non anche la gestione della rete (che è stata rimessa in via
normativa ad un’altra società costituita anch’essa da Enel s.p.a. : il “Gestore della rete di
trasmissione elettrica nazionale - G.R.T.N. s.p.a.”. Successivamente nel 2003 è stata unificata la
proprietà e la gestione della rete elettrica nazionale e nel 2004 si è individuato in “Terna s.p.a.” il
soggetto risultante dall’unificazione, disponendone anche la privatizzazione sostanziale. Anche in
questo caso si è in presenza di un organismo societario (non più totalmente in mano pubblica) il cui
diritto di proprietà sulla rete di trasmissione elettrica nazionale (che ora comprende anche le
«facoltà» relative alla sua gestione) è sottoposto a una stringente “regolazione amministrativa”, per
renderlo funzionale alla sua vocazione pubblicistica.
RETE TELEFONICA : analoghe considerazioni possono essere svolte anche per la “rete
telefonica pubblica”. Il legislatore nel 1992 affidò ad un’apposita società per azioni (la “Telecom
Italia s.p.a.”) non solo i servizi di telecomunicazione ad uso pubblico, ma anche l’installazione e
l’esercizio dei relativi impianti (che fino a quel momento erano stati gestiti dall’ “Azienda di Stato
per i servizi telefonici” e dall’ “Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni”). A partire
dal 1997, “Telecom Italia s.p.a.” è stata poi oggetto di un processo di privatizzazione sostanziale,
ma non per questo è venuta meno una regolamentazione amministrativa della rete telefonica di sua
236
proprietà, volta ad assicurare a tutti gli operatori del mercato (nel frattempo liberalizzato) l’accesso
ad essa.
essere oggetto di cartolarizzazione. Nonostante, infatti, la legge disponga che l’inclusione dei “beni
immobili” nei decreti ministeriali «produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile», la
dottrina ritiene - a ragione - che tali decreti non siano idonei a produrre, da soli, l’effetto costitutivo
di declassare i beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili in “beni patrimoniali disponibili” :
se così fosse, infatti, si dovrebbe giungere alla conclusione che, ad esempio, tutte le spiagge, tutti i
laghi, tutti i fiumi, ecc., potrebbero essere cartolarizzati (quindi venduti a soggetti privati) sulla sola
base di un decreto del Ministro dell’economia. Perciò, i decreti adottati dal Ministro esplicano una
mera efficacia dichiarativa, analoga a quella degli “atti amministrativi” previsti dall’art. 829 c.c. :
ciò significa che i beni demaniali e patrimoniali indisponibili possono essere inclusi nei decreti solo
se hanno già perso le proprie caratteristiche.
Un’altra procedura di conferimento di beni pubblici a soggetti privati è poi quella che vede
protagonista la società per azioni “Patrimonio dello Stato s.p.a.”, istituita dal d.l. 63 / 2002 per la
valorizzazione, gestione e alienazione del patrimonio dello Stato. Anche questo organismo
societario presenta dei profili pubblicistici : 1) è stato istituito direttamente dalla legge; 2) le azioni
sono attribuite al Ministero dell’economia; 3) opera secondo gli “indirizzi strategici” stabiliti dal
Ministero dell’economia.
A “Patrimonio dello Stato s.p.a.” possono essere trasferiti diritti (pieni o parziali) sui “beni
immobili” facenti parte non solo del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato, ma anche
del demanio statale. Le modalità di trasferimento sono definite con decreto del Ministero
dell’economia e si prevede, inoltre, che “Patrimonio dello Stato s.p.a.” possa effettuare operazioni
di cartolarizzazione. Nel caso in cui vengano trasferiti immobili facenti parte del “demanio statale”,
è previsto che questo trasferimento «non modifica il regime giuridico (previsto dagli arti. 823 e 829,
1°comma c.c.) dei beni demaniali trasferiti» : ciò significa che, riguardo ai “beni demaniali” che le
vengono trasferiti, “Patrimonio dello Stato s.p.a.” potrà svolgere solo attività di gestione o di
valorizzazione (e non di alienazione). Per ciò che riguarda, invece, il trasferimento a “Patrimonio
dello Stato s.p.a.” dei “beni patrimoniali indisponibili”, restano fermi i vincoli gravanti sui beni
trasferiti, tra cui il “vincolo di destinazione” ex art. 828, 2°comma c.c.
238
pubblico” : in questo caso, queste società mettono i beni in esame a disposizione dei gestori
incaricati della gestione del servizio, a fronte di un canone.
10. Il federalismo demaniale. In attuazione delle nuove norme contenute nel Titolo V
della Costituzione, il legislatore ha provveduto a modificare in modo significativo la materia dei
“beni pubblici”. Il tutto ha preso avvio con la L. 42 / 2009 (in materia di «federalismo fiscale»), che
- nel dare attuazione all’art. 119 Cost. - ha delegato il Governo ad adottare alcuni decreti legislativi,
con cui attribuire «risorse autonome» ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle
Regioni, stabilendone le modalità di attribuzione. Queste disposizioni danno avvio ad una vera e
propria «devoluzione» del patrimonio dello Stato e a una dissoluzione del demanio statale a favore
dei diversi demani o patrimoni degli enti territoriali. Così, in esecuzione della L. 42 / 2009, il
Governo ha adottato il d.lgs. 85 / 2010, con cui sono stati individuati i «beni statali che possono
essere attribuiti a titolo non oneroso a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». L’art. 5,
1°comma del d.lgs. 85 / 2010 stabilisce che i beni trasferibili agli enti locali sono : i “beni demaniali
marittimi”, i “beni del demanio idrico” (esclusi però i fiumi e i laghi sovra-regionali), gli aeroporti
regionali o locali appartenenti al “demanio aereonautico”, le “miniere” e gli “altri beni immobili
dello Stato classificati come trasferibili agli enti territoriali”. Non sono, invece, in alcun modo
trasferibili agli enti locali (art. 5, 2°comma del d.lgs. 85 / 2010) : gli “immobili usati dalle
amministrazioni statali per svolgere i propri fini istituzionali”, i “porti e gli aeroporti nazionali e
internazionali”, i “beni culturali” e i “parchi nazionali e le riserve naturali statali”.
Quanto al procedimento di trasferimento dei beni pubblici, è statuito che il Presidente del Consiglio
deve stilare un elenco dei “beni che possono essere trasferiti agli enti territoriali”. Questi ultimi, ove
intendano acquisire i beni contenuti nell’elenco formato dal Governo, devono inoltrare un’apposita
domanda all’Agenzia del demanio, in cui è specificato l’uso che intendono fare del bene. Una volta
concluso l’iter istruttorio, il Presidente del Consiglio adotta il “provvedimento di assegnazione”.
Una volta che i beni sono stati assegnati agli enti locali, essi entrano a far parte del loro “patrimonio
disponibile” dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni , ad eccezione di
quelli appartenenti al “demanio marittimo”, “idrico” e “aeroportuale” (che restano assoggettati al
regime stabilito dal codice civile e dalle altre leggi di settore). In presenza di particolari circostanze
di pubblico interesse, però, il Governo può disporre il mantenimento di questi beni nel “demanio” o
la loro inclusione nel “patrimonio indisponibile”.
239
“provvedimento di annullamento”, che andava ad incidere sull’atto controllato. Questo sistema ( dei
c.d. “controlli preventivi di legittimità”) col passare del tempo, però, si è mostrato inadeguato, in
quanto i controlli preventivi di legittimità erano troppo spesso fondati su riscontri meramente
cartolari, e i controlli di opportunità erano ancorati a valutazioni soggettive e incidevano troppo
sull’acquisita autonomia degli enti territoriali minori controllati. Così, sotto la spinta della rilevanza
data dal diritto positivo al «risultato», il legislatore ha rivisto profondamente l’assetto tradizionale
dei controlli ed ha spostato l’attenzione dal singolo provvedimento all’attività amministrativa nel
suo complesso.
In questo modo, ci si rese conto che era possibile :
Tali valutazioni, che investono l’intera attività amministrativa, consentono – qualora l’esito del
controllo sia negativo – di adottare misure non più autoritative e sanzionatorie, ma collaborative e
correttive, che si sostanziano nella predisposizione (dopo la fase di valutazione dell’attività svolta)
di una «relazione» che esplicherà i suoi effetti su diversi piani : infatti l’esito negativo del controllo
determinerà, oltre alla “responsabilità dei soggetti coinvolti nell’attività controllata”, l’attivazione di
“meccanismi di autocorrezione”. Le soluzioni prospettabili per soddisfare queste esigenze erano due
:
La prima soluzione è stata fatta propria dalla L. 20 / 1994 che - riformando il sistema dei “controlli
della Corte dei conti” - ha decretato il passaggio verso “un sistema che si impernia sul controllo
concomitante e posteriore sull’intera gestione” : con questa riforma si afferma un controllo
sull’attività complessivamente svolta dall’amministrazione che coinvolge l’efficienza, l’efficacia (i
risultati) e l’economicità (il rapporto costi-benefici), ma che include anche la legalità (la legittimità
e correttezza dell’azione amministrativa). Questo controllo è detto CONTROLLO SULLA
GESTIONE e i suoi parametri vengono definiti dalla Corte dei conti, che deve stendere
annualmente un programma in cui individua i “settori” e le “attività” da sottoporre a verifica.
La seconda soluzione si è concretizzata nel sistema delineato nel d.lgs. 286 / 1999, in cui erano
originariamente previsti 4 diversi tipi di controllo interno alle singole amministrazioni. C’è
un’evidente differenza rispetto al controllo di gestione demandato alla Corte dei conti : infatti
mentre nel “controllo di gestione” la legittimità (dei singoli atti) è oggetto di verifica esplicita, nei
“controlli interni”, la valutazione della legittimità non è oggetto diretto del giudizio, che invece ha
come fine immediato la valutazione di altri oggetti.
241
Ogni tipo di controllo aveva una finalità diversa ed era demandato alla competenza di strutture
diverse : ciò sia per evitare che compiti eterogenei fossero affidati alle stesse strutture sia per
assicurare il collegamento tra controlli interni e controllo esterno sulla gestione delle
amministrazioni pubbliche svolto dalla Corte dei conti.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 150 / 2009, questi controlli restano in piedi nelle loro linee
generali (anche se modificati a livello normativo), ma devono essere armonizzati con il “c.d. ciclo
della performance” disegnato nel d.lgs. 150 / 2009.
gestione” (che comunque rimane ancora in vigore) emerge che ogni amministrazione pubblica : 1)
deve individuare le unità responsabili di questa forma di controllo (= gli uffici responsabili del
controllo) e le unità organizzative sottoposte a controllo; 2) e deve definire degli «indicatori
specifici per misurare efficacia, efficienza ed economicità.
Laddove il controllo si concluda con esito negativo, il d.lgs. 286 / 1999 impone la predisposizione
di una “relazione” (da trasmettere al dirigente interessato), al cui interno sono indicati i punti critici
rinvenuti e le consequenziali proposte risolutive (aventi l’obiettivo di ottimizzare la funzione
amministrativa).
La previsione di una forma di “verifica dell’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione
amministrativa” non ha rappresentato una novità assoluta nel nostro ordinamento, essendo stata
anticipata dall’entrata in vigore della L. 20 / 1994 : quest’ultima, infatti, nel modificare il “sistema
dei controlli demandati alla Corte dei Conti” ha decretato il passaggio da un modello di controllo su
singoli atti a un modello di controllo (esterno) sull’intera gestione. Dunque, la dottrina, per
raccordare il controllo «di» gestione (interno a ciascun amministrazione) con il controllo (esterno)
«sulla» gestione demandato alla Corte dei conti (per tutte le amministrazione pubbliche), ha
proposto di ipotizzare un c.d. «sistema globale integrato di controlli» (interni ed esterni), che
avrebbe la funzione di integrare i risultati (nel senso che gli organi controllori collaborano e i
risultati dell’azione di un organo vengono usati successivamente da altri organi, senza ripetere
attività già svolte). Operando in tal modo, il controllo (esterno) demandato alla Corte dei conti
dovrebbe, quindi, differenziarsi dal controllo di gestione (interno all’ente), per la diversità dei
parametri di riferimento (normativi per la Corte, e non normativi per il controllo interno), ma anche
dal punto di vista funzionale : infatti il controllo interno di gestione, essendo volto ad indicare le
misure correttive da attuare per migliorare l’attività, esplica efficacia sull’esercizio dell’azione
amministrativa; viceversa, il controllo della Corte comporta l’obbligo, per le amministrazioni
sottoposte a controllo, non solo di procedere a un accurato riesame della propria attività, ma anche
di comunicare alla Corte le misure consequenzialmente adottate.
243
identificare gli eventuali “fattori ostativi”, le eventuali “responsabilità per la mancata attuazione
degli obiettivi prefissati” e i “possibili rimedi”. Nel quadro normativo attuale tale attività dovrebbe
essere svolta dall’“organismo indipendente di valutazione” (OIV).
Un momento fondamentale di quest’attività è la previsione di una valutazione anche «preventiva»
(oltre che successiva) della congruenza tra fini e scelte operative (valutazione che deve “ricostruire”
idealmente l’ambiente e le circostanze in cui è maturata la scelta). L’analisi poi si sposta sull’esame
dei “risultati finali ottenuti”, in modo da individuare gli «eventuali fattori ostativi» al
raggiungimento degli obiettivi. Questo sistema permette di distinguere le ipotesi in cui le scelte
operative effettuate non sono adeguate al raggiungimento degli obiettivi prefissati (con la
conseguente responsabilità dei dirigenti che hanno effettuato tali scelte) dalle ipotesi in cui il
mancato raggiungimento degli obiettivi è stato decretato da altri fattori, che hanno prevaricato sulle
pur adeguate scelte operative effettuate.
La «PERFORMANCE» è il contributo che un soggetto (che può essere inteso come “sistema”,
come “organizzazione”, come “unità organizzativa” o come “singolo individuo”) apporta, mediante
la propria opera, per il perseguimento degli obiettivi e dei fini attribuiti all’amministrazione di
appartenenza. Strettamente connessa con la valutazione della performance è l’introduzione di
“standard dell’azione amministrativa” (che vengono fissati coerentemente con le “linee guida”
definite dalla CIVIT) e che sono oggetto della valutazione delle performance : infatti la violazione
degli standard è uno dei presupposti per esercitare l’ “azione per l’efficienza delle amministrazioni e
dei concessionari dei servizi pubblici” e la “colpevole violazione del dovere dirigenziale di vigilare
sul rispetto degli standard da parte del personale assegnato ai propri uffici” determina la
decurtazione della retribuzione di risultato del dirigente.
Il d.lgs. 150 / 2009 ha introdotto il c.d. CICLO DI GESTIONE DELLA PERFORMANCE : ogni
amministrazione pubblica(sulla base delle norme contenute nel d.lgs. 150 / 2009) ha così l’obbligo
di implementare il “ciclo di gestione della performance” attraverso le seguenti fasi 1) definizione e
assegnazione degli obiettivi da raggiungere; 2) collegamento tra gli obiettivi prefissati e le risorse
allocate; 3) monitoraggio durante l’esercizio e attivazione di eventuali interventi correttivi; 4)
misurazione e valutazione della “performance” (sia organizzativa che individuale); 5) uso di
“sistemi premiali”, secondo criteri di valorizzazione del merito; 6) rendicontazione dei risultati
244
ottenuti agli organi politici, ai vertici delle amministrazioni, agli organi esterni competenti, ai
cittadini e agli utenti e ai destinatari dei servizi.
Il d.lgs. 150 / 2009 ha introdotto delle innovazioni anche per quel che riguarda i “documenti da
redigere”; più precisamente, la riforma prevede 3 diversi tipi di documenti :
Sia il “Piano” che la “Relazione” devono essere immediatamente trasmessi alla CIVIT e al
Ministero dell’economia. In caso di mancata adozione del “Piano della performance”, le
amministrazioni pubbliche non possono erogare la retribuzione di risultato ai dirigenti e non
possono assumere personale.
Gli “obiettivi” sono programmati su base triennale e definiti dagli organi di indirizzo politico-
amministrativo, sentiti i vertici dell’amministrazione che, a loro volta, consultano i dirigenti o i
responsabili delle unità organizzative; essi vengono definiti in coerenza con quelli di bilancio.
L’ “oggetto della valutazione” è costituito da : 1) l’attuazione di Piani e dei Programmi nel rispetto
dei tempi previsti, degli “standard” (qualitativi e quantitativi) definiti e del livello previsto di
assorbimento delle risorse; 2) la rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e
dei servizi; 3) il miglioramento qualitativo dell’organizzazione; 4) l’efficienza nell’impiego delle
risorse.
La misurazione e la valutazione della “performance individuale dei dirigenti”, invece, è collegata al
raggiungimento di specifici obiettivi individuali, alle competenze professionali e manageriali
dimostrate e alla capacità di valutazione dei propri collaboratori.
Il rispetto della disciplina della “misurazione e valutazione della performance” è una «condizione
necessaria per l’erogazione di premi legati al merito ed alla perfomance», e gli esiti di questa
attività rilevano per le progressioni di carriera, ai fini della “responsabilità disciplinare” (e, per i
dirigenti, ai fini di “quella dirigenziale”).
247
ampi consensi, soprattutto perché essa presentava dei vantaggi non secondari per il “terzo
danneggiato”, che non era tenuto ad individuare l’autore materiale responsabile all’interno della
struttura organizzativa pubblica, ma poteva citare in giudizio direttamente l’amministrazione (il che
assicurava un vantaggio anche sul piano economico, giacchè si citava in giudizio un soggetto molto
più solvibile).
In questo contesto, il soggetto agente non aveva responsabilità verso l’esterno : esso era chiamato a
rispondere solo nei confronti dell’amministrazione attraverso un’ “azione di regresso” esperita da
quest’ultima. La responsabilità dell’agente era, quindi, ritenuta “assorbita” da quella
dell’amministrazione.
*RESPONSABILITA’ CIVILE = responsabilità derivante da fatto illecito della quale il codice civile tratta (negli art. 2043-
2059). Si parla di responsabile civile per indicare il soggetto che è tenuto al “risarcimento del danno cagionato da un
altro soggetto”.
*ART. 2043 c.c. = “Qualunque fatto (doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno”.
*Per RESPONSABILITÀ SOLIDALE si intende la situazione in cui due o più soggetti sono obbligati a una medesima
prestazione. Ai sensi dell’art. 1292 c.c., ciascun debitore può essere costretto all’adempimento per la totalità della
prestazione e in tal caso, l’adempimento da parte di un coobbligato libera tutti gli altri.
Il debitore che ha pagato l’intero debito può rivalersi verso gli altri, ripetendo da ciascuno solo la parte per cui è obbligato
(cd. azione di regresso). La responsabilità solidale mira a rafforzare il credito, in quanto attribuisce al creditore la facoltà
di chiedere l'adempimento della prestazione ad uno qualunque dei debitori.
“ragioni economiche” : cioè, di salvaguardia dei bilanci pubblici (si voleva evitare che lo
Stato fosse esposto a esborsi di denaro);
una “ragione sostanziale” : la giurisprudenza tendeva a costruire l’“interesse legittimo”
come una situazione avente natura puramente processuale (l’interesse legittimo, cioè, era
249
considerato uno strumento con cui si concedeva al privato solo la possibilità di proporre ricorso
giurisdizionale, in vista dell’annullamento dell’atto). Quindi un problema di risarcibilità era da
escludersi : Infatti, il problema della risarcibilità del danno da lesione dell’interesse legittimo
poteva porsi solo se l’interesse legittimo fosse stato ritenuto una situazione giuridica soggettiva di
natura sostanziale e solo se tale situazione sostanziale avesse presentato quei caratteri idonei ad
esporla, in caso di lesione, ad un “pregiudizio patrimoniale”. Se si considera che la stessa
giurisprudenza amministrativa solo a partire dagli anni '80 ha aderito alla concezione sostanziale
dell’interesse legittimo, si comprende come l’orientamento della Cassazione fosse condizionato
dall’incertezza sulla natura dell’interesse legittimo. Se, però, questa era la ragione più profonda
dell’orientamento tradizionale della Cassazione, la ragione su cui essa fondava espressamente la
non risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi risiedeva in una particolare interpretazione
del sintagma «danno ingiusto» di cui all’art. 2043 c.c. Questa disposizione recita “Qualunque
fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il
fatto a risarcire il danno”. Secondo la Cassazione per «danno ingiusto» era da intendersi solo quello
derivante dalla lesione di un diritto soggettivo. In questo modo, la Cassazione faceva intendere che,
a suo avviso, gli eventuali danni derivanti dalla lesione di un interesse legittimo non erano idonei a
determinare l’integrazione di uno degli elementi costitutivi della fattispecie di “responsabilità
extracontrattuale” (l’ingiustizia del danno) e, quindi, la lesione dell’interesse legittimo produceva
non dei danni ingiusti risarcibili, ma solo dei pregiudizi patrimoniali, irrilevanti per il diritto.
una “ragione processuale” : la posizione della Cassazione riposava anche su ragioni
processuali, e cioè che - anche volendo ritenere «ingiusto» (e quindi risarcibile), il danno da lesione
dell’interesse legittimo - sarebbe stato impossibile garantirne la risarcibilità effettiva, non
essendovi un giudice da poter adire. Trattandosi, infatti, di un “danno derivante dalla lesione
dell’interesse legittimo”, si riteneva che il giudice ordinario (giudice delle controversie relative ai
diritti soggettivi) fosse privo di giurisdizione in materia. Ma nemmeno il giudice amministrativo
poteva pronunciarsi sulla controversia risarcitoria, perché privo del potere di condannare la P.A. al
risarcimento del danno.
In ogni caso, la regola dell’ “irrisarcibilità del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi”
non si applicava letteralmente : dal suo novero, infatti, erano esclusi i c.d. “interessi legittimi
oppositivi” : in questi casi, l’ordinamento riconosceva all’interno di tali interessi la sussistenza di un
“nucleo sostanziale” qualificabile come diritto soggettivo. La Cassazione riteneva che – in presenza
di “interessi legittimi oppositivi” - l’annullamento dell’atto illegittimo da parte del giudice
amministrativo avrebbe fatto riemergere il diritto sostanziale del privato, sulla cui risarcibilità si
sarebbe poi pronunciato il “giudice ordinario”. Ma, in ogni caso, la risarcibilità veniva qui garantita
perché la lesione intaccava non l’interesse legittimo, ma il diritto soggettivo (riemerso dopo
l’annullamento dell’atto).
Restavano invece senza tutela risarcitoria i danni derivanti dalla lesione dei c.d. “interessi legittimi
pretensivi” (anche se la Cassazione aveva individuato delle figure che, pur non potendo essere
qualificate come diritti soggettivi, venivano mascherate come tali per permetterne la risarcibilità :
ad es., il soggetto leso poteva esperire l’azione risarcitoria nei confronti della pubblica
amministrazione, qualora il danno sofferto fosse stato causato da un “comportamento doloso del
pubblico funzionario” integrante gli estremi del reato). Inoltre, la Cassazione fu obbligata a
concedere “tutela risarcitoria” anche a quelle ipotesi, qualificate come interessi legittimi, enucleate
dalla Corte di Giustizia UE (ad es., in materia di “appalti pubblici”). Ciò, però, creò un vero e
250
proprio paradosso nel nostro ordinamento, in cui vi erano, da un lato, gli “interessi legittimi
pretensivi nel settore degli appalti pubblici”, per i quali era ormai riconosciuta la risarcibilità, e
dall’altro gli “interessi legittimi pretensivi negli altri settori”, per i quali la tutela risarcitoria era
invece esclusa.
*Art. 2043 c.c. = responsabilità aquiliana (extracontrattuale).
Però, la Cassazione, preoccupata delle possibili interpretazioni ampliative che la decisione in esame
avrebbe potuto scatenare, ha immediatamente precisato che, con la sentenza, non ha voluto
ammettere un’indiscriminata risarcibilità dei “danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi”,
ma ha solo voluto concedere tutela al “danno derivante dalla lesione di interessi meritevoli di
tutela” : di conseguenza, essa ha fatto intendere che affinchè la “lesione dell’interesse legittimo”
possa essere risarcita, non basta che il danno sia “ingiusto” (ai sensi dell’art. 2043 c.c.), ma deve
essere soprattutto dimostrata la “meritevolezza di tutela” (che viene in rilievo ove si accerti che
l’attività illegittima dell’amministrazione sia andata ad intaccare l’ “interesse del privato al c.d.
bene della vita”). Secondo la Corte, cioè, la lesione dell’interesse legittimo è una condizione
necessaria, ma non sufficiente per giungere al risarcimento del danno ex 2043 c.c., poiché occorre
anche che l’attività illegittima della P.A. determini la lesione dell’ “interesse al bene della vita a cui
l’interesse legittimo si collega” (interesse ad acquisire o a non perdere un bene ritenuto essenziale
251
per il privato) : pertanto, l’ingiustizia del danno non è data solo dalla lesione di un interesse
legittimo, ma anche dalla contemporanea lesione di un diverso interesse ad un bene della vita, che
deve essere a sua volta meritevole di tutela (cioè deve essere giuridicamente tutelato). Questa
conclusione, però, non è convincente, perché - visto che la Corte riconosce
l’interesse legittimo come una situazione giuridica sostanziale - si deve ritenere che qualsiasi
lesione (ovviamente “ingiusta”) di questo interesse debba essere risarcibile, laddove abbia
provocato un danno. Dunque, sembrerebbe più opportuno affermare che, per il riconoscimento della
risarcibilità, quel che rileva è l’accertamento della lesione ingiusta.
La Cassazione, però, non è giunta a questa conclusione; essa, al contrario, ha fatto riferimento – ai
fini della risarcibilità del danno – al bene della vita (in qualità di “oggetto dell’interesse legittimo”),
e ciò ne ha condizionato l’impostazione : la Cassazione aderisce a quella particolare teoria
dottrinaria dell’ “interesse legittimo” come situazione giuridica soggettiva che ha ad oggetto (non,
come sembra preferibile, l’interesse al provvedimento o al comportamento della P.A.), ma
direttamente l’ “interesse al bene della vita” (“interesse al bene della vita” che è fatto oggetto di
esercizio del potere amministrativo). Ciò condiziona il suo pensiero : se l’interesse legittimo è una
situazione giuridica soggettiva avente ad oggetto l’interesse a un bene della vita che è oggetto di
esercizio di potere amministrativo → e se questa situazione non garantisce la realizzazione
dell’interesse al bene, ma la rende solo possibile → la lesione di questo interesse potrà essere
risarcita solo se si dimostra che al privato spettava nel caso concreto l’effettiva realizzazione
dell’interesse al bene della vita (protetto come “interesse legittimo”).
Così, la Cassazione ha introdotto la distinzione tra “interessi legittimi incondizionatamente
risarcibili” e “interessi legittimi risarcibili in presenza di altre circostanze”. In quest’ottica:
nel novero degli «interessi incondizionatamente risarcibili» sono stati fatti rientrare gli
interessi legittimi oppositivi, perché per essi ricorre una “posizione giuridica di vantaggio”,
considerata meritevole di tutela. Infatti, il soggetto che vanta questi interessi si trova a dover
fronteggiare il “potere amministrativo”, che può limitare o anche sacrificare un “interesse ad un
bene essenziale”, che già si trova nella disponibilità del privato (destinatario, ad es., di un
provvedimento espropriativo). Poichè gli interessi legittimi oppositivi fronteggiano un “potere” che
può sacrificare un interesse a un bene della vita già rientrante nella sfera giuridica del privato,
l’accertamento della lesione dell’interesse legittimo derivante da un provvedimento illegittimo
evidenzia la «spettanza effettiva» dell’interesse al bene in capo al privato (cioè che tale interesse
non poteva essere sacrificato dalla P.A.).
al contrario, nella categoria degli «interessi risarcibili in presenza di altre circostanze»
sono stati inclusi gli interessi legittimi pretensivi, in quanto in questi casi l’interesse a cui aspira il
privato non si trova nella sua sfera di disponibilità : l’interesse al bene della vita, in questi casi, non
è un mero interesse di conservazione della sfera giuridica soggettiva, ma è un interesse di
espansione di tale sfera soggettiva; il suo soddisfacimento dipende, pertanto, dalle “modalità di
esercizio del potere amministrativo”. Così, ad esempio, laddove il privato richieda il rilascio di un
provvedimento ampliativo (ad es., una “concessione edilizia”) e l’amministrazione emetta un
“provvedimento di diniego”, per affermare la risarcibilità del danno il giudice, sulla base di un
giudizio prognostico, dovrà accertare non solo l’ “illegittimità del provvedimento negativo”, ma
anche la “fondatezza dell’istanza presentata dal privato e non accolta dall’amministrazione”. Però,
la Cassazione, ragionando così, ha finito per delimitare la “risarcibilità dei danni derivanti dalla
252
lesione di interessi legittimi pretensivi” solo alle ipotesi di “attività amministrative vincolate” : le
uniche che, infatti, ammettono la possibilità di avviare un «giudizio prognostico».
Se si fosse adottata, invece, la concezione dell’interesse legittimo qui accolta, che vi ravvisa lo
schema di protezione dell’interesse al provvedimento (e, più in generale, ad un comportamento
favorevole della P.A.), si sarebbe giunti ad affermare la risarcibilità del danno come conseguenza
naturale e costante della lesione dell’interesse legittimo in quanto tale.
5. Profili processuali. La sentenza n. 500 / 1999 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione aveva affrontato anche l’annosa questione riguardante la “competenza del giudice”; in
quest’ottica, la Corte aveva precisato, in primis, che sulle “controversie aventi ad oggetto la tutela
risarcitoria dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi”, competente a pronunciarsi doveva
essere il “giudice ordinario” (tranne che nelle materie devolute ex lege alla “giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo”). La giurisdizione del “giudice ordinario” si giustificava in
considerazione del fatto che la “pretesa risarcitoria” che il privato faceva valere veniva qualificata
come “diritto soggettivo” : si trattava di una pretesa che presentava le caratteristiche tipiche di un
“diritto” (nel nostro caso, le caratteristiche di un “diritto di credito al risarcimento del danno”).
In secondo luogo, la Cassazione statuì che il giudice ordinario potesse pronunciarsi sulla domanda
di risarcimento dei danni anche prima che, nel giudizio di annullamento dell’atto, fosse intervenuta
la pronuncia del giudice amministrativo eventualmente adìto : in tal modo, la Corte, separando l’
“azione di annullamento del provvedimento amministrativo” dall’ “azione di risarcimento dei
danni” (c.d. rapporto di autonomia), aveva finito per far crollare la teoria della “pregiudizialità
della domanda di annullamento”, garantendo al privato una posizione di vantaggio, poiché gli si
evitava l’onere di dover affrontare due processi davanti a due giudici diversi.
La disciplina enucleata in sede giurisprudenziale fu, però, soppiantata dopo l’intervento del
legislatore che, nel cercare di canalizzare l’ “azione demolitoria” (diretta all’annullamento dell’atto)
e “quella risarcitoria” in capo al giudice amministrativo, stabilì – con la L. 205 / 2000 - che la
“tutela risarcitoria dell’interesse legittimo”, costituendo uno strumento ulteriore rispetto a quello
demolitorio, doveva essere richiesta non al giudice ordinario, ma al “giudice amministrativo”. ,
essendo uno «strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio». L'articolo così
recita : «Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di
tutte le questioni relative al risarcimento del danno ».
Così, in questo rinnovato quadro normativo, si aprì un acceso dibattito sul tema della
“pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione risarcitoria”. In questa
prospettiva, si formarono due orientamenti :
Da un lato, la Cassazione, abbracciando la teoria dell’ “autonomia delle due azioni”, nel
2006 ha affermato che la “domanda di risarcimento” può essere proposta davanti al giudice
amministrativo anche senza la previa “domanda di annullamento del provvedimento lesivo”;
La tesi della Cassazione si fonda sul presupposto che la c.d. “pregiudiziale amministrativa” non
trova fondamento in nessuna norma di diritto positivo (cioè, non ha alcun fondamento giuridico) :
per ammettere il risarcimento del danno bisogna solo verificare l’illegittimità del comportamento
253
254
L’interpretazione del Consiglio di Stato, però, non è condivisibile : infatti l’art. 30, 3°comma
stabilisce che il giudice deve escludere «il risarcimento dei “danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza”, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti».
Secondo la sentenza l’ordinaria diligenza comporterebbe l’esperimento di tutti gli strumenti di
tutela, sia sostanziali (ricorsi amministrativi, richiesta di esercizio dell’autotutela) che processuali
(impugnazione, con richiesta di annullamento e di sospensione cautelare del provvedimento). Ma in
questo caso l’unica “danneggiante” è l’amministrazione. Al danneggiato (creditore) si chiede solo
di non aggravare i danni causati dall’amministrazione. Quindi dovrebbe essere sufficiente che il
danneggiato renda nota all’amministrazione l’ “illiceità della sua condotta”, il che può avvenire
attraverso l’esperimento anche di uno solo degli strumenti di tutela previsti, sia esso “sostanziale”
(come ad es. un ricorso amministrativo) o “processuale” (come, ad es. l’impugnazione dell’atto) o
anche attraverso una “semplice comunicazione” all’amministrazione danneggiante (tutte ipotesi
sufficienti ad integrare un comportamento di “ordinaria diligenza”). Pertanto, ove il danneggiato
avverta l’amministrazione della dannosità della sua condotta, non gli si può chiedere nient’altro in
nome dell’«ordinaria diligenza». Il che ci porta a concludere che l’esperimento dell’ “azione di
annullamento” non è affatto obbligatorio.
*RICORSO AMMINISTRATIVO = Il ricorso amministrativo è un rimedio amministrativo per risolvere una controversia
che normalmente fa seguito a un’istanza diretta a ottenere l’annullamento, la revoca o la riforma di un atto
amministrativo che il ricorrente considera lesivo dei propri interessi. La decisione che interviene sui ricorsi amministrativi
è espressione della funzione giustiziale dell’amministrazione : attraverso questa si consente all’amministrazione di
risolvere nel proprio seno eventuali controversie e al tempo stesso si offre agli amministrati una sede amministrativa
(pertanto meno dispendiosa) per tutelare i propri interessi; infine, attraverso il ricorso in sede amministrativa (in
particolare, nel ricorso gerarchico), possono essere valutate ragioni attinenti al “merito dell’azione amministrativa”, che in
sede giurisdizionale non potrebbero essere considerate. Il “ricorso gerarchico” è un rimedio amministrativo che consiste
nell’impugnativa di un atto non definitivo da parte dell’interessato all’organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a
quello che ha emanato l’atto.
255
1. il primo aspetto è quello che fa riferimento alla violazione delle “regole di imparzialità,
correttezza e buona amministrazione” : In realtà la violazione di queste regole è già compresa
nell’ambito dell’ “eccesso di potere” e si traduce, quindi, in un “vizio di legittimità”. Il che ci fa
comprendere che queste regole non possono essere presentate in questo contesto (riguardo alla
fattispecie della responsabilità); né, d’altra parte, può ritenersi che la Cassazione - riferendosi a
queste regole - abbia voluto delimitare la sussistenza della colpa della P.A. ai soli casi in cui
ricorrano «vizi particolarmente gravi» del provvedimento (sia perché non esiste nel nostro
ordinamento una norma che limiti la responsabilità della P.A. ai casi di “colpa grave”, sia perché,
accogliendo questa interpretazione, si darebbe alla “responsabilità civile della P.A.” una funzione
prevalentemente sanzionatoria, anzichè riparatoria del danno ingiusto). Pertanto, si deve ritenere
che le regole enunciate dalla Cassazione nella sent. 500 / 1999 non sono state poste come un “limite
esterno della discrezionalità”, ma come un “limite esterno della diligenza” : cioè, la Corte avrebbe
affermato che la “colpa dell’amministrazione” è esclusa tutte le volte in cui l’amministrazione sia
incorsa in un errore scusabile (derivante ad esempio dalla formulazione incerta delle norme
applicate, da oscillazioni interpretative della giurisprudenza o dai comportamenti di altri soggetti).
2. il secondo aspetto da analizzare è quello che fa riferimento alla “P.A. come apparato” :
qui bisognerebbe individuare il significato del concetto di “apparato”. Il punto è il seguente : dato
che l’amministrazione può violare le regole di “imparzialità”, “correttezza” e “buona
amministrazione” sia in presenza di “disfunzioni amministrative dovute a carenze organizzativo-
funzionali”, sia in presenza di “eventi ad essa non imputabili” (perché generati e, dunque,
imputabili a un altro ente pubblico), bisogna stabilire con precisione il significato del termine
“apparato”. In questo modo, ove per «apparato» si intenda il solo “ente competente ad adottare il
provvedimento”, questi principi potrebbero essere violati anche in assenza di «colpa»
dell’organismo agente); ove, al contrario, per apparato, si intenda “l’insieme degli organismi
amministrativi che hanno partecipato all’adozione del provvedimento” (come accade, ad esempio,
nella conferenza di servizi), qualsiasi violazione delle “regole di correttezza, imparzialità e buona
amministrazione” integrerebbe la «colpa d’apparato». In ogni caso, è “colposa” la condotta della
P.A. in tutte le ipotesi in cui l’illegittimità dell’azione amministrativa deriva da disfunzioni dovute a
carenze organizzativo-funzional (infatti in questi casi, non si può escludere la responsabilità della
P.A., poiché le carenze organizzative evocano una «concezione oggettiva» di colpa);
3. L’ultima questione che bisogna considerare è, infine, quella dell’“onere della prova” :
riguardo all’onere della prova dell’elemento soggettivo, la Cassazione, annoverando l’illecito della
P.A. nel raggio di azione dell’art. 2043 c.c. (“responsabilità aquiliana”), pone l’incombenza
dell’onere probatorio a carico del privato (è il danneggiato a dover provare la “colpa dell’ente
pubblico”) : infatti in ambito aquiliano grava sul danneggiato la prova degli “elementi costitutivi
della fattispecie illecita”. Tuttavia, si tratta di un onere probatorio che può essere molto gravoso per
il privato, specie nei casi in cui la “colpa dell’amministrazione” dipende da carenze organizzative o
da altri fatti non noti al privato. A ciò si aggiunga che, sulla questione, è intervenuta la Corte di
giustizia UE che - riguardo alle “controversie in tema di appalti pubblici” - ha affermato
l’incompatibilità con il diritto comunitario della normativa nazionale, che prevede che al
danneggiato possa essere riconosciuto il risarcimento solo nel caso in cui lo stesso riesca a
dimostrare la “colpa del dipendente pubblico”. Per queste ragioni, la giurisprudenza amministrativa
256
ha cercato di facilitare il compito del danneggiato, statuendo che il privato può assolvere l’“onere
della prova” anche mediante l’utilizzo di “presunzioni semplici”, attraverso l’allegazione dei “vizi
di legittimità dell’atto”, considerati degli indizi della colpa dell’amministrazione (indizio della colpa
della P.A., ad esempio, può essere considerato l’“illegittimo diniego del bene della vita”, a mano
che l’amministrazione non riesca a dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile). Inoltre,
vanno considerati anche i recenti orientamenti che qualificano la “responsabilità della pubblica
amministrazione per lesione di interessi legittimi” come responsabilità contrattuale : però, ove si
opti per questa soluzione, sarà l’amministrazione (debitrice) a dover dimostrare che
l’inadempimento è dipeso da causa ad essa non imputabile (ex art. 1218 c.c.); infatti, nell’ambito
della “responsabilità contrattuale”, spetta al debitore provare che l’inadempimento è dipeso da una
causa a lui non imputabile.
*ART. 1218 c.c. (RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE) = “il debitore che non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
*presunzioni semplici = quelle che la legge lascia al libero apprezzamento del giudice (al contrario delle “presunzioni
legali”, che sono quelle il cui valore probatorio è riconosciuto automaticamente dalla legge, senza che il giudice le possa
valutare liberamente e che si dividono in “relative” e “assolute”).
ART. 1337 c.c. (responsabilità precontrattuale) = “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione
del contratto, devono comportarsi secondo buona fede” : cioè la violazione del “dovere di buone fede” genera
RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE. Le condotte che possono integrarla sono ad es. : abbandonare le trattative
senza giusta causa, quando queste siano giunte ad un punto tale da far confidare la controparte sulla conclusione del
contratto; non rendere note alla controparte cause di invalidità del contratto conosciute, indurre la controparte a stipulare
un contratto con inganno, ecc.
Regioni, delle aziende sanitarie e degli enti territoriali minori. Alla fine del processo di espansione,
la “responsabilità amministrativa” è diventata un istituto applicabile a tutti gli amministratori e
dipendenti di qualsiasi ente pubblico. L’allargamento poi si è esteso a “soggetti esterni
all’amministrazione”, legati ad essa da un rapporto di servizio (di norma coincidente con un
“rapporto di concessione”) : in tal modo sono state sottoposte alla responsabilità amministrativa
persone giuridiche anche private (ad esempio, società concessionarie di servizi pubblici), nonché i
loro amministratori e dipendenti. Per “rapporto di servizio” si deve intendere «una relazione con
l’amministrazione, che investe un soggetto ad essa estraneo, del compito di porre in essere in sua
vece una specifica attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura
(provvedimento, convenzione o contratto), né quella del soggetto che la riceve (privata o
pubblica)». Quindi, per i soggetti «interni» all’amministrazione, il presupposto per essere sottoposti
alla responsabilità amministrativa consiste semplicemente nel loro status di amministratori o di
dipendenti; mentre per i soggetti «esterni» occorre un legame con l’amministrazione, che viene
detto «rapporto di servizio».
E veniamo ai giorni nostri : di recente, sono stati assoggettati alla “responsabilità amministrativa”
anche gli amministratori e i dipendenti degli enti pubblici economici , nonché le società a
partecipazione pubblica. In particolare :
In ultima analisi, il criterio per fondare la giurisdizione della Corte dei conti si è spostato dalla
qualità del soggetto alla natura del danno e degli scopi perseguiti : in questo modo anche il
«rapporto di servizio» viene interpretato in senso lato, cosicché anche il privato che abbia ottenuto
un contributo da un ente pubblico per uno scopo di interesse pubblico risponde di “responsabilità
amministrativa” ove realizzi un danno per l’ente pubblico sovvenzionatore (ad esempio per non
aver raggiunto lo scopo per cui il contributo era stato erogato).
259
il comportamento illecito (viene, però, precisato che le “scelte discrezionali compiute dal
soggetto” non possono essere sindacate sotto il profilo del merito, ma solo sotto il profilo
della legittimità);
l’elemento soggettivo (si precisa, però, che la responsabilità viene limitata al “dolo” e alla
“colpa grave”, con esclusione, quindi, della colpa lieve);
il danno (si precisa, però, che il danno deve essere quantificato tenendo conto dei «vantaggi
comunque conseguiti dall’amministrazione» e diventa risarcibile anche il danno provocato
ad amministrazioni diverse da quella di appartenenza);
il nesso di causalità tra la condotta del soggetto e il danno.
Della vecchia disciplina è rimasto il carattere personale della responsabilità, per cui, in caso di
comportamenti dannosi compiuti da più soggetti, «ciascuno risponde per la parte da lui svolta». È
stato conservato anche il potere del giudice contabile di ridurre la misura del risarcimento rispetto al
danno cagionato ed è stato chiarito che il diritto al risarcimento si prescrive in 5 anni.
260
A proposito del potere riduttivo, la Corte costituzionale ha chiarito che si tratta di una terminologia
impropria : la disciplina della RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA infatti distingue il «danno
subito dall’amministrazione» dal «danno addossato al responsabile» : la relativa sentenza di
condanna è pertanto costitutiva del debito risarcitorio.
In definitiva, la disciplina della RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA è stata concepita in
modo profondamente diverso da quella della “responsabilità civile”. Il legislatore ha creato una
nuova e autonoma forma di responsabilità.
Tre sono le funzioni che caratterizzano qualsiasi tipo di responsabilità : 1) la sanzione dell’illecito;
2) il risarcimento del danno; 3) la dissuasione dal commettere ulteriori illeciti. Nella “responsabilità
amministrativa” prevale il terzo profilo funzionale : essa serve a scoraggiare comportamenti illeciti.
Inoltre la nuova disciplina ha consentito di superare la vecchia distinzione tra responsabilità
contabile (ossia degli agenti contabili, di coloro che hanno «il maneggio di denaro») e
responsabilità amministrativa : c’è ormai una sola disciplina sia per gli agenti contabili che per tutti
gli altri soggetti che danneggino l’amministrazione (e sia che siano legati all’amministrazione per il
loro status di amministratori o dipendenti sia che lo siano in base a un “rapporto di servizio”).
4.Il condono erariale. La “legge finanziaria per il 2006” ha introdotto un istituto nuovo,
il c.d. “CONDONO ERARIALE”. Si tratta di questo : coloro nei cui confronti sia stata pronunciata
“in primo grado” una sentenza di condanna da parte di una “Sezione regionale della Corte dei conti”
possono chiedere, durante il processo di appello, la definizione della controversia mediante il
pagamento di una somma non inferiore al 10% e non superiore al 20% del “danno quantificato nella
sentenza impugnata”. Competente a decidere in merito alla richiesta avanzata dal soggetto
interessato è la Sezione di appello, che, dopo aver sentito il pubblico ministero, delibera con
“decreto” assunto in camera di consiglio sulla richiesta di condono e, in caso di accoglimento,
determina la somma dovuta «in misura non superiore al 30% del danno quantificato nella sentenza
di primo grado, stabilendo il termine per il versamento». Una volta effettuato il versamento, il
giudizio di appello si conclude con il deposito della relativa ricevuta presso la “Segreteria della
Sezione”. Il condono può essere richiesto solo se la condotta illecita è antecedente all’entrata in
vigore della legge. Le
disposizioni sul «condono erariale» sono state poste al vaglio della Corte costituzionale per presunta
violazione del “principio di uguaglianza” (art. 3 Cost.), del “principio di buon andamento” (art. 97
Cost.) e del “principio del libero convincimento del giudice” (art. 101 Cost.), poichè il condono
determinerebbe un «effetto premiale ingiustificato» per il richiedente. La Corte costituzionale nel
2007 ha giudicato infondate le questioni di legittimità costituzionale, sulla base di questo
ragionamento :
in primo luogo, le disposizioni sul condono «non impediscono al giudice contabile di
valutare gli elementi che hanno condotto alla condanna del richiedente (in primo grado); ragion
per cui egli può decidere, sulla base di tale valutazione, se accordare o meno la richiesta
avanzata;
in secondo luogo la Corte costituzionale ha statuito che il condono erariale non comporta
«alcuna deroga al sistema della responsabilità amministrativa» e non produce «alcun
ingiustificato effetto premiale», poiché si limita solo ad accertare, «con un rito abbreviato,
261
quanto è dovuto dai responsabili in base alle norme proprie del sistema della responsabilità
amministrativa».
Queste affermazioni della Corte costituzionale sono molto rilevanti, perché la Corte sorpassa, per
così dire, il “nocciolo della questione” (costituzionalità del condono erariale) e va a definire i tratti
caratteristici della “responsabilità amministrativa”. Infatti la Corte prosegue dicendo : «l’intero
“danno subito dall’amministrazione” non è di per sé risarcibile e costituisce solo il presupposto con
cui si concede al pubblico ministero di esercitare l’azione di responsabilità . Al contrario, a
determinare il “danno risarcibile” sarà il giudice contabile, attraverso una valutazione
«discrezionale ed equitativa». La
distinzione tra “danno provocato” (subito dall’amministrazione) e “danno risarcibile” (addossato al
responsabile) è uno degli elementi che differenziano la “responsabilità amministrativa” dalla
“responsabilità civile”. Ma se il condono erariale non comporta alcuna deroga al sistema della
“responsabilità amministrativa” - così come afferma la Corte - non si capisce perché abilitati a
richiedere tale condono siano solo i soggetti che abbiano posto in essere la condotta illecita nel
periodo antecedente all’entrata in vigore della legge che disciplina l’istituto. Si dovrebbe ritenere,
seguendo le argomentazioni della Corte, che il condono erariale non sia un istituto transitorio, in
quanto pienamente armonico con la disciplina della responsabilità amministrativa. Di diverso
avviso è stata, tuttavia, la Corte dei conti che, infatti, ha qualificato il condono come un istituto del
tutto eccezionale derogatorio dell’ordinaria disciplina processuale.
262
La responsabilità dirigenziale è, in ogni caso, da tenere distinta dalle altre forme di responsabilità
(civili, penali e amministrativo-disciplinari) che gravano sui dipendenti pubblici e, quindi, anche sui
dirigenti, ma che presuppongono fatti illeciti. Inoltre, mentre la
RESPONSABILITÀ DIRIGENZIALE non sorge dalla violazione di canoni normativi di
comportamento, ma solo dal “mancato raggiungimento dei risultati prodotti dal settore
organizzativo” (posto sotto la guida del dirigente), e si determina, quindi, anche in assenza di colpa,
la RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVO-DISCIPLINARE scaturisce, invece, dal
“comportamento illecito del dipendente” (e quindi colposo).
Però, la differenza tra “responsabilità dirigenziale” e “responsabilità amministrativa” si attenua se
spostiamo l’attenzione sulla terza ipotesi di responsabilità dirigenziale, introdotta al comma 1-bis
dell’art. 21 dal d.lgs. n. 150 / 2009, secondo cui “in base alla gravità della violazione e sentito il
“Comitato dei garanti”, può essere operata una decurtazione di una quota fino all’ 80% della
“retribuzione di risultato” a carico del dirigente nei cui confronti sia stata accertata - previa
contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio - la colpevole violazione del dovere di
vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard fissati
dall’amministrazione”.
Infine, secondo autorevole e condivisibile dottrina, le tre fattispecie di responsabilità dirigenziale
devono essere ricondotte nella sfera di operatività della “responsabilità contrattuale”, in quanto
sussiste un «vincolo» tra il “soggetto cui viene imputata la responsabilità” (il titolare dell’ufficio
dirigenziale) ed il “soggetto che ha diritto alla prestazione” (salvo verificare se l’avente diritto alla
prestazione sia direttamente l’organo politico o l’ente per cui l’uno e l’altro operano). La
responsabilità dirigenziale è una “responsabilità interna all’amministrazione”, che dovrebbe
sussistere nei confronti dell’ente, titolare della pretesa alla «prestazione» del dirigente, poichè il
“rapporto d’ufficio” interessa persona giuridica e persona fisica addetta ad un ufficio. Quindi, la
responsabilità, incidendo sul rapporto d’ufficio che lega il titolare dell’ufficio e la figura giuridica
soggettiva (titolare del diritto alle prestazioni lavorative del dirigente), coinvolge la figura
soggettiva : questa conclusione è avvalorata dall’art. 21, in cui si precisa che è «l’amministrazione»
a «recedere» dal rapporto di lavoro, e non l’organo di governo.
*Il pubblico dipendente nell’esercizio delle proprie funzioni, può incorrere in cinque tipi di responsabilità: quella civile,
penale (se pone in essere reati), amministrativo-contabile (se arreca un danno erariale all’amministrazione di
appartenenza o ad altra amministrazione), disciplinare (se viola obblighi previsti dalla contrattazione collettiva, dalla
legge o dal codice di comportamento) e dirigenziale (per il solo personale dirigenziale, che non raggiunga i risultati posti
dal vertice politico o si discosti dalle direttive dell’organo politico).
*La “RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE”: è quella forma di responsabilità (aggiuntiva rispetto a quella penale, civile,
amministrativo-contabile e dirigenziale) in cui incorre il lavoratore, pubblico o privato, che non osserva obblighi
contrattualmente assunti, fissati nel contratto collettivo nazionale e recepiti nel contratto individuale. Tale responsabilità
comporta l’applicazione da parte del datore di lavoro di sanzioni (richiamo, multa, sospensione dal servizio e dalla
retribuzione, licenziamento).
263
l’amministrazione, abbia causato un danno pubblico risarcibile che si ponga come conseguenza diretta e immediata di
detta condotta. Chi ha arrecato il danno (erariale) deve risarcirlo.
Tuttavia, anche se in astratto è possibile accettare l’ipotesi che la “norma giuridica” (o il “sistema
giuridico”) non vada ad influenzare in funzionamento del “settore economico” (e, quindi, la norma può
certamente assumere un valore neutrale), in concreto ciò deve essere verificato caso per caso, ponendo
(a base del relativo giudizio) il “modello di politica economica che ogni ordinamento decide di
adottare” : si pensi, ad esempio, al nostro ordinamento, che (sotto il profilo della politica economica)
avendo posto a proprio fondamento il “principio concorrenziale”, impone al legislatore il compito di
predisporre un “complesso normativo condizionante” che sia in grado, da un lato, di assicurare il
264
funzionamento del sistema economico (e in questo senso un ruolo predominante è svolto dalla
“Costituzione economica”) e, dall’altro, di garantire la correttezza dei rapporti tra tutti i consociati
(mediante la predisposizione di un corpus normativo capace di “coordinare le diverse attività” e di
“risolvere gli eventuali conflitti”).
rilievo al lavoro, inteso come principale strumento per la realizzazione dell’individuo nella società :
proprio per questo motivo, dunque, il lavoratore risulta essere titolare di “diritti”, sia come singolo sia
all’interno di organizzazioni (nelle quali esercita la sua attività).
Nel Titolo 3° (dedicato ai “Rapporti economici”) alle norme riguardanti il “lavoro” fanno poi seguito
quelle riguardanti la “proprietà privata”, riconosciuta ex art. 42 Cost. Anche la proprietà non è
configurata in termini assoluti, come piena ed esclusiva, ma come «socialmente funzionalizzata», a
causa della coesistenza, nello stesso “diritto”, di due distinti interessi : «individuale» e «sociale» :
l’interesse sociale, ove in contrasto con quello individuale, è destinato a prevalere.
L’art. 42, 3° comma Cost. prevede che la legge determini i modi di acquisto e di godimento e anche i
limiti della proprietà, allo scopo di assicurarne la “funzione sociale” e di renderla accessibile a tutti.
*NAZIONALIZZAZIONE = processo che attribuisce allo Stato la gestione e la proprietà di un'impresa privata che,
generalmente, produce beni e servizi di interesse pubblico.
266
verificato solo a partire dagli anni '90, con il c.d. “processo di privatizzazione”). L’art. 43 Cost.,
quindi, contiene una deroga al principio generale consacrato nell’art. 41, 1°comma Cost. ed è una vera
e propria specificazione dell’art. 42, 2°comma Cost.
Il terzo modello è, infine, quello c.d. di “AUTOPRODUZIONE” (art. 45 Cost.), attraverso cui
il legislatore riconosce, come forme di autoproduzione, sia l’artigianato che la cooperazione a
carattere di mutualità senza fini di speculazione privata (di cui viene espressamente menzionata la
“funzione sociale”) : cooperazione che può riguardare sia l’offerta della forza lavoro che l’acquisto di
beni.
*ART. 45 COST. = “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di
speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e
le finalità.
La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato.
*SOCIETÀ COOPERATIVA = una società costituita per gestire in comune un'impresa che si prefigge lo scopo di fornire
agli stessi soci (scopo mutualistico) quei beni o servizi per il conseguimento dei quali la cooperativa è sorta. La
cooperativa è un'impresa - in forma di società - nella quale il fine è il soddisfacimento dei bisogni della persona (il socio).
Mentre il fine ultimo sia delle società di persone che delle società di capitali è la realizzazione del lucro e si concretizza
nel riparto degli utili patrimoniali, le “cooperative” hanno invece uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo
di cooperativa - nell'assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che
otterrebbero dal libero mercato. Il tratto che accomuna tutte le cooperative è quello dello scopo mutualistico e
dell'assenza di speculazione per il singolo: la società cooperativa persegue il fine di ottenere un guadagno mentre il
singolo socio no (a differenza delle altre forme societarie).
*Nell'impresa artigiana l'opera è prestata in prevalenza dal lavoro personale del singolo secondo un processo non
standardizzato, cioè nel quale, di regola, ciascun prodotto è un pezzo unico, in quanto lavorato singolarmente. Ciò comporta
un costo maggiore di questi prodotti rispetto a quelli di derivazione industriale e, quindi, la necessità di predisporre forme
maggiori di tutela a favore della categoria
267
l’ “ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE” (art. 102 TFUE), che però non è sanzionato per la
semplice acquisizione di una posizione dominante, ma per lo sfruttamento abusivo di tale posizione
(quando il soggetto pone in essere un comportamento che, proprio grazie alla sua posizione
privilegiata sul mercato, può pregiudicare il commercio tra gli Stati membri).
le “IMPRESE PUBBLICHE” (art. 106 TFUE) : il legislatore comunitario le equipara a quelle
private, nel senso di assoggettarle alle norme del Trattato (ed in particolare agli artt. 101 e 102) come
un qualsiasi operatore privato. Infatti, all’art. 106 è fatto espresso divieto agli Stati membri di emanare
o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche, “misure che restringono la concorrenza”, in
contrasto con le norme comunitarie (l’unica eccezione riguarda le “imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico generale”, per le quali le regole della concorrenza non trovano
applicazione ove la loro osservanza ostacoli l’adempimento della loro funzione).
In relazione, invece, alle “regole di concorrenza applicabili agli Stati”, le stesse sono riconducibili ad
un unico divieto (art. 107, par. 1 TFUE) : quello di concedere aiuti, sia diretti (incentivi, sovvenzioni),
sia indiretti (sgravi fiscali) ad imprese o a categorie di imprese, che in tal modo risulterebbero
ingiustificatamente avvantaggiate rispetto alle imprese concorrenti. Proprio per evitare l’“aiuto di
Stato”, la Commissione e la Corte di giustizia hanno elaborato un particolare sistema di analisi,
indicato con l’acronimo v.i.s.t. (vantaggio, incidenza, selettività, trasferimento), teso a verificare se
l’aiuto concesso possa essere qualificato come “aiuto di Stato”. Si tratta di un giudizio fondato su 4
elementi : 1) il «vantaggio economico» (che può consistere tanto nell’erogazione di risorse a favore
di un’impresa, quanto nella rinuncia ad un introito da parte dello Stato); 2) la sua «incidenza» sul
commercio intracomunitario (nel senso che il vantaggio che il destinatario ne ricava deve essere tale da
falsare la concorrenza, ad esempio rafforzando la posizione dell’impresa beneficiaria rispetto ai suoi
concorrenti); 3) la «selettività» dell’aiuto : infatti l’aiuto non sempre è incompatibile con i principi
comunitari, ma lo diventa se è tale da favorire solo alcune imprese operanti in un certo settore, e non
tutte le imprese; 4) il «trasferimento», cioè la provenienza dell’aiuto (che non deve necessariamente
essere accordato direttamente dallo Stato, potendo trattarsi anche di agevolazioni erogate da enti
pubblici territoriali o da società controllate dallo Stato). In ogni caso, questo sistema conosce anche
delle deroghe, contemplate ai commi 2 e 3 dell’art. 107 TFUE : si tratta di deroghe che trovano la
propria ragion d’essere nelle finalità degli aiuti (si pensi, ad esempio, agli aiuti aventi carattere sociale
o agli aiuti destinati ad ovviare ai danni cagionati da calamità naturali).
Alla disciplina richiamata si aggiungono le disposizioni contenute nel regolamento n. 139 / 2004,
relativo alle «CONCENTRAZIONI», che si hanno quando «due o più imprese procedono a una
fusione, o quando una o più persone che detengono il controllo di almeno un’impresa acquistano il
controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese». Le concentrazioni devono essere
preventivamente autorizzate dalla Commissione, che accerta la loro compatibilità o incompatibilità
con il mercato comune.
vertiginoso innalzamento del debito pubblico) : fenomeno che la dottrina ha descritto nei termini di un
passaggio dalla formula dello “Stato sociale” a quella dello “Stato assistenziale”. In questa prospettiva
si sono sviluppate, accanto alle “forme di intervento diretto dello Stato”, anche specifici “strumenti di
regolamentazione del mercato”, tesi ad orientare l’iniziativa privata verso gli obiettivi prefissati a
livello statale (attraverso la previsione di forme di vigilanza e controllo, nonchè di incentivazione delle
attività private). La dottrina, riguardo al “settore bancario”, aveva individuato 3 diversi tipi di controllo
:
Nei casi esaminati assumono rilievo lo “strumento programmatorio” e “pianificatorio”, che sono
mezzi con cui lo Stato pone l’economia al servizio del progresso sociale e civile del Paese. La
funzione programmatoria ha trovato il proprio fulcro nel CIPE e in altri Comitati interministeriali a cui
è stata demandata la determinazione degli “obiettivi di sviluppo economico” e dei connessi “strumenti
di direzione dell’economia”. Accanto agli atti di programmazione e pianificazione, importanti sono le
“attività di coordinamento”, attuate mediante direttive, sanzioni e controlli. Si tratta, quindi, di un
complesso di attività pubbliche, che possono essere indicate come “FORME DI
REGOLAMENTAZIONE DELL’ECONOMIA”, che implicano non solo la diretta erogazione del
servizio da parte del soggetto pubblico, ma anche lo svolgimento di attività di controllo, direzione e
governo dei singoli settori considerati, tese ad operare un’eterodeterminazione dei “fini” perseguiti
dai singoli operatori (che, pertanto, non sono totalmente liberi di operare sul mercato).
*POLIZIA ECONOMICO-FINANZIARIA = (guardia di finanza) la “polizia economico-finanziaria” si distingue nelle due aree:
1) finanziaria : per la protezione delle entrate e delle spese pubbliche dell’Unione Europea, dello Stato e degli Enti locali
(contrasto all’evasione fiscale, al riciclaggio, e a tutte le altre forme di crimini finanziari); 2) economica : per la salvaguardia
del corretto funzionamento dei mercati e delle regole della concorrenza, anche con riferimento alle possibili infiltrazioni o
inquinamenti di organizzazioni criminali nei mercati.
269
privata sono libere» ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge.
Fanno eccezione a tale obbligo, però :
30 / CE (per il settore del gas naturale) hanno innescato un processo di liberalizzazione; tali direttive
sono il primo passo, sul piano della normativa comunitaria, del processo per la realizzazione di un
mercato concorrenziale.
1) innanzitutto l’attività di “produzione di energia elettrica”, che è libera. Però, per poter
costruire “nuovi impianti di produzione” è necessaria un’apposita “autorizzazione”, rilasciata - per gli
impianti che usano combustibili fossili - dal “Ministero per lo sviluppo economico” (previa intesa con
la Regione interessata); per gli impianti alimentati da fonti rinnovabili (e cioè, quelli che sfruttano
particolari risorse naturali, come il sole o il vento) rilasciata dalle Regioni.
2) Sono libere anche le attività di “importazione ed esportazione di energia elettrica”.
3) Viceversa, le attività di “trasmissione” (cioè il trasporto di energia elettrica su reti ad alta
tensione) e di “dispacciamento” (l’insieme delle funzioni dirette a coordinare il trasporto
dell’energia), avendo carattere di monopolio naturale (dato che la rete elettrica non è duplicabile),
sono affidate in concessione ad un soggetto ad hoc, individuato ex lege : il «gestore della rete» (che
oggi è anche proprietario della rete) : si tratta della società per azioni Terna (già in mano di Enel
s.p.a.). Il “gestore della rete” ha l’obbligo di connettere alla rete tutti i soggetti che ne facciano
richiesta, purché siano rispettate le condizioni (determinate dall’“Autorità per l’energia elettrica e il
gas”) atte a garantire a tutti gli utenti la libertà di accesso alla rete a parità di condizioni.
4) Anche l’attività di “distribuzione” (cioè il trasporto di energia elettrica su reti in media e bassa
tensione) per la consegna ai clienti finali, avendo carattere di monopolio naturale, è sottoposta ad un
“regime concessorio” : il rilascio delle concessioni avviene mediante un’apposita gara, le cui modalità
sono determinate con regolamento dal “Ministero dello sviluppo economico”.
5) Infine, l’attività di “vendita dell’energia elettrica” è dichiarata «libera». Qui dobbiamo
distinguere tra due categorie di acquirenti : 1) i c.d. “clienti idonei”, che consumano gradi quantità di
energia (in genere sono le grandi imprese industriali), che possono scegliere liberamente il proprio
fornitore e acquistare energia elettrica o mediante una “contrattazione bilaterale” con un determinato
venditore (società di produzione o società di vendita) o con il «sistema delle offerte» (che è un mercato
all’ingrosso basato su un meccanismo di asta : c.d. borsa elettrica); 2) i c.d. “clienti vincolati” sono,
invece, tutti gli altri consumatori di energia elettrica (piccole imprese e utenti civili); per i clienti
domestici e le piccole imprese è garantito il regime di «maggior tutela» (ossia il diritto di essere
riforniti di energia elettrica con una tariffa stabilita dall’ “Autorità per l’energia elettrica e il gas”);
questi clienti, per poter acquistare energia elettrica, stipulano appositi “contratti di fornitura” con una
specifica s.p.a. controllata dallo Stato (il c.d. “Acquirente unico s.p.a.”).
271
Quanto al settore del GAS NATURALE, la direttiva 98 / 30 / CE, con cui si è avviato il
processo di liberalizzazione del settore, è stata successivamente sostituita (seconda fase) dalla direttiva
2003 / 55 / CE e infine dalla direttiva 2009 / 73 / CE. L’attuazione della normativa comunitaria è
avvenuta, una prima volta, con il d.lgs. 164 / 2000 e poi con la L. 239 / 2004 e il d.lgs. 93 / 2011. Le
attività di importazione ed esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e vendita di
gas naturale sono dichiarate libere. Viceversa, l’attività di “stoccaggio del gas” (cioè, il deposito in
strutture del sottosuolo del gas naturale prelevato dalla rete di trasporto nazionale e successivamente
reimmesso nella rete in funzione delle richieste del mercato) è un’attività sottoposta a riserva statale e
lo Stato ne attribuisce l’esercizio in “regime di concessione”.
In chiusura, un accenno va dedicato alle “funzioni di regolazione” e “di garanzia” (entrambe affidate ai
pubblici poteri) : esse sono distribuite tra il Governo, il Ministero dello sviluppo economico e
l’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
(*percorsi) che, essendo divenute antieconomiche (per via del processo di liberalizzazione) potrebbero
essere abbandonate dai vettori - stabilisce anche dei “principi generali per gli oneri di servizio
pubblico” : l’ “onere di servizio pubblico” e’ una procedura con cui uno Stato membro può imporre su
determinate rotte lo svolgimento di un particolare servizio aereo; si prevede, però, che questi “oneri”
possano essere imposti dagli Stati membri solo nella misura necessaria a garantire che su rotte
antieconomiche siano prestati servizi aerei minimi rispondenti a criteri di continuità e regolarità.
Quanto alla determinazione del “prezzo” dei servizi aerei, il regolamento conferma il principio della
piena libertà tariffaria.
Nel settore del trasporto aereo, un ruolo centrale è rivestito dall’“Ente nazionale per l’aviazione civile”
(ente pubblico soggetto all’indirizzo e alla vigilanza del Ministero dei trasporti), che deve garantire la
sicurezza e la tutela dei diritti dei passeggeri, e dall’ “Enav s.p.a.” (Società nazionale per l’assistenza
al volo), che è responsabile del controllo del traffico aereo e della navigazione terminale in aereoporto
(*trasferimento dei passeggeri dal sistema di trasporto terrestre a quello aeronautico e viceversa).
Il settore dei TRASPORTI FERROVIARI è attualmente disciplinato dalle direttive CE nn. 12,
13 e 14 /2001, recepite con il d.lgs. 188 / 2003. Poiché anche la rete ferroviaria, non essendo
duplicabile, attiene ad un monopolio naturale, è prevista la separazione tra il “soggetto gestore della
rete” e i “soggetti erogatori del servizio di trasporto” (che, per accedere all’infrastruttura ed
esercitare così la relativa attività, devono ottenere una “licenza” da parte del “Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti”, il cui rilascio, però, non è discrezionale (essendo subordinato
all’accertamento dei requisiti di capacità professionale e finanziaria stabiliti dalla legge).
Il “gestore della rete”, invece, è tenuto ad assegnare la capacità di infrastruttura ferroviaria e a
rilasciare il certificato di sicurezza, che è un titolo necessario per poter svolgere l’attività di trasporto
ferroviario.
La progressiva liberalizzazione del mercato del trasporto ferroviario ha imposto una riorganizzazione
della società Ferrovie dello Stato s.p.a., (già ente pubblico economico e monopolista del settore) : essa
ha conferito la gestione della rete ferroviaria alla società Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e lo
svolgimento dei servizi di trasporto alla società Trenitalia s.p.a. Tuttavia questo modello non è in
linea con le direttive comunitarie (disciplinanti la liberalizzazione del settore), perché entrambe queste
società sono attualmente partecipate, per la totalità del capitale azionario, dalla stessa Ferrovie dello
Stato s.p.a. (che a sua volta è totalmente partecipata dallo Stato).
Per il settore del TRASPORTO MARITTIMO valgono principi analoghi a quelli illustrati a
proposito del trasporto aereo : tra questi, in particolare, la libertà di accesso al servizio, subordinata
solo al rilascio di “autorizzazioni non discrezionali”. A tutela della sicurezza e della concorrenza è
stata istituita un’apposita autorità di settore (l’“Agenzia europea per la sicurezza marittima”).
A livello nazionale, è stata istituita l’“Autorità di regolazione dei trasporti”. L’Autorità, che opera in
piena autonomia e indipendenza di giudizio e valutazione, svolge compiti importanti in materia di
regolazione, promozione e tutela della concorrenza. All’Autorità spetta : 1) garantire “condizioni di
accesso eque e non discriminatorie” alle infrastrutture ferroviarie, portuali, aeroportuali e alle reti
autostradali; 2) stabilire gli “standards minimi di qualità dei servizi di trasporto sottoposti ad oneri di
servizio pubblico”; 3) definire i “criteri per la determinazione delle tariffe”; 4) tutelare i “diritti degli
273
utenti”; 5) definire gli “schemi dei bandi di gara”. L’Autorità è dotata di poteri di vigilanza e controllo,
poteri di ispezione e poteri sanzionatori in caso di inosservanza dei propri provvedimenti. L’Autorità
si compone del Presidente e di 2 membri, nominati con d.p.r.
274
275
La tutela giurisdizionale sugli atti dell’Agcm, invece, è accordata davanti al giudice amministrativo e
segue le regole processuali del codice del processo amministrativo.
Definire la “natura giuridica” dell’Agcm non è facile : sembra, però, che si possa sposare la tesi di
quella parte della dottrina secondo cui la legge, attribuendo all’Agcm la cura di vari interessi pubblici ,
le riconosce anche un correlato potere «politico» nella ponderazione degli stessi (da esercitarsi,
quest’ultimo, attraverso potestà tecnico-discrezionali), piuttosto che la tesi che la vede titolare solo di
“poteri di vigilanza” e “controllo” sul mercato e di “poteri sanzionatori” per punire atti e condotte
illecite (poichè anti-concorrenziali). Infatti, dato che l’Autorità è chiamata a tutelare un interesse
pubblico primario (cioè, l’interesse alla concorrenza ed al mercato) mediante l’uso di “concetti
giuridici generici” (il gioco della concorrenza, le intese, l’abuso di posizione dominante),
nell’applicare il precetto, dovrà «riempire» quel precetto. Ed è proprio in virtù di queste considerazioni
che possiamo, quindi, qualificare l’attività dell’Agcm come attività amministrativa (e non
paragiurisdizionale, come sostenuto da una parte della dottrina) : infatti, l’individuazione e la
codificazione del precetto normativo (sia pure limitata al singolo caso) obbliga l’Autorità a scegliere
fra diverse regole (tra loro alternative) e, quindi, a ponderare gli interessi in gioco e ad una
conseguente scelta «politica» sull’assetto di interessi che si intende promuovere. La natura dell’Agcm
è, dunque, amministrativa, e non para-giurisdizionale : nell’esercizio dei suoi poteri l’Autorità non si
trova in una posizione di indifferenza verso gli interessi coinvolti, avendo istituzionalmente in carico la
cura dell’interesse pubblico primario alla tutela del mercato.
9.2. Il credito e il risparmio. La disciplina di riferimento del “settore del credito e del
risparmio” è contenuta nel d.lgs. 385 / 1993 (“testo unico bancario”), in base a cui le “funzioni di
vigilanza” e di “garanzia” sono suddivise tra il “Comitato interministeriale per il credito e il
risparmio” (CICR), la Banca d’Italia e il Ministero dell’economia.
Il ruolo principale è, tuttavia, assunto dalla Banca d’Italia`. Quest’ultima è un ente pubblico con
capitale diviso in quote, che possono appartenere solo a società bancarie e a istituti di previdenza e di
assicurazione. Essa si compone di 5 organi : 1) l’ASSEMBLEA GENERALE DEI PARTECIPANTI,
che è tenuta ad approvare il bilancio e a nominare i membri del collegio sindacale; 2) il CONSIGLIO
SUPERIORE, che ha il compito di amministrare la Banca, ma anche di nominare uno o più “comitati”
per specifiche materie e di contribuire alla nomina del Governatore (esprimendo un parere); 3) il
276
Più limitate, invece, sono le funzioni del CICR e del Ministero dell’economia. Al primo
compete l’alta vigilanza in materia di credito e di tutela del risparmio, ma può deliberare in materia
solo su proposta della Banca d’Italia. Al Ministero competono, invece, diversi poteri normativi e
amministrativi (tra cui, ad esempio, le decisioni sull’apertura dei procedimenti di amministrazione
straordinaria e di liquidazione coatta delle banche).
9.3. I mercati finanziari. La materia è disciplinata dal d.lgs. 58 / 1998 (“testo unico delle
norme in materia di intermediazione finanziaria”). Le funzioni di vigilanza e garanzia in questi settori
sono suddivise tra la Consob (“Commissione nazionale per le società e la borsa”) e la Banca d’Italia
(ma un ruolo importante è assunto anche dal Ministero dell’economia, a cui è riconosciuta l’«alta
vigilanza» sui mercati). Con l’espressione MERCATI FINANZIARI ci riferiamo a 3 settori :
1) quello degli INTERMEDIARI FINANZIARI (promotori finanziari, ecc.) : in questo settore, la Banca
d’Italia e la Consob svolgono in concorso una “funzione di vigilanza”, che a sua volta viene attuata
mediante l’esercizio dei seguenti poteri : 1) poteri di “autorizzazione preventiva” agli operatori; 2)
poteri di “regolamentazione” (mediante i quali si stabiliscono i requisiti di solidità finanziaria che gli
operatori devono possedere); 3) poteri “ispettivi” (assunzione di informazioni sull’attività degli
operatori); 4) poteri di “intervento diretto” sugli organi degli operatori (ad esempio, la convocazione
degli organi collegiali delle società per correggere le disfunzioni);
gestione e, una volta rilasciata l’autorizzazione, vigilare sulla gestione del mercato da parte delle
società.
*MERCATO REGOLAMENTATO = luogo di negoziazione di prodotti e strumenti finanziari per cui la legge prevede una
specifica e dettagliata regolamentazione relativa all’organizzazione e al funzionamento. Ad es. la “Borsa valori” è un mercato
regolamentato dove vengono scambiati valori mobiliari e valute estere.
Il nuovo Istituto svolge sostanzialmente le stesse funzioni che facevano capo al precedente Isvap :
per la rappresentanza degli interessi dei consumatori”) hanno la facoltà di proporre “reclamo”
all’Ivass per l’accertamento dell’osservanza delle disposizioni previste dal Codice nei confronti delle
imprese di assicurazione.
Tuttavia l’Ivass non ha competenze in materia antitrust, poiché queste sono rimesse, anche per il
settore assicurativo, all’Agcm (che, però, prima di esercitare il relativo potere, è tenuta a chiedere il
preventivo parere – obbligatorio, ma non vincolate - dell’Ivass).
1. Il servizio pubblico. Un dato costante caratterizza ogni trattazione sui “servizi pubblici”
: la ricerca di una definizione precisa di “servizio pubblico”. La dottrina (data l’assenza di un
intervento da parte del legislatore, nel corso del tempo, ha elaborato molte definizioni di “servizio
pubblico”, che però possono essere ricondotte a due categorie generali, riassumibili nella dicotomia tra
la concezione c.d. “soggettiva” e quella “oggettiva” del servizio pubblico.
Dal momento che il concetto di “servizio pubblico” è stato studiato nell’ambito di diverse discipline
scientifiche (a partire da quelle giuridiche fino a giungere a quelle economiche), una parte della
dottrina ritiene che la concezione di “servizio pubblico” possa essere mutuata da altri settori
disciplinari (e, più precisamente, dal diritto penale) e trasposta nel diritto amministrativo : nel diritto
penale la nozione di “servizio pubblico” si ricava dagli artt. 357 e 358 c.p., recanti, rispettivamente, la
nozione di «pubblico ufficiale» e di «incaricato di pubblico servizio», ma questa teoria non può essere
condivisa, poichè la nozione derivante da queste norme è valida ai soli effetti della legge penale, e non
può essere trasposta, in modo automatico, nell’ambito del diritto amministrativo. La ricerca di una
definizione del servizio pubblico, pertanto, parte dall’esame della c.d. “concezione soggettiva”, fino
all’analisi della c.d. “concezione oggettiva” : andremo a ricostruire l’iter dottrinale, cercando di non
compiere una scelta netta a favore dell’uno o dell’altro filone dottrinario. Infatti, allo stato attuale, non
si può ancora esprimere una preferenza a favore dell’una o dell’altra concezione di servizio pubblico
(ma al massimo una tendenziale preferenza, a seconda delle fattispecie di volta in volta considerate),
poiché entrambe le nozioni coesistono.
280
infatti, la norma prevede la possibilità di riservare (o di trasferire) “imprese che si riferiscano a servizi
pubblici essenziali” (a condizione che sussistano «fini di utilità generale») non solo allo Stato (o ad
altri enti pubblici), ma anche a comunità di lavoratori o di utenti. Possono, di conseguenza, esistere
servizi pubblici essenziali gestiti legittimamente da privati e che la legge non conferisce in mano
pubblica. La Costituzione, quindi, ammette che un “servizio pubblico” sia svolto da organismi non di
pubblica amministrazione e che, ciononostante, continui a mantenere tale connotazione.
Ad integrare le conclusioni tratte dall’art. 43 Cost. interviene anche l’art. 41, 3°comma Cost. : la legge
può indirizzare sia l’attività pubblica che quella privata al conseguimento di fini sociali,
determinando «i programmi e i controlli opportuni». Così, sia i “servizi pubblici essenziali che la
legge affida alla gestione di organi della P.A.”, sia i “servizi pubblici essenziali gestiti da privati” sono
assoggettati alla disciplina dettata dall’art. 41, 3°comma Cost. Quindi, secondo la “teoria oggettiva”,
ciò che conta – ai fini dell’inquadramento del “servizio pubblico” – non è tanto il soggetto cui viene
affidata l’attività (che può essere sia pubblico che privato, e in entrambi i casi comunque vige la stessa
disciplina), ma la sua funzionalizzazione alla soddisfazione dei bisogni collettivi. Oggi la concezione
oggettiva è quella che riceve i più ampi consensi da parte della dottrina : del resto, questa conclusione
trova conferma se si dà uno sguardo all’esperienza delle “privatizzazioni dei grandi servizi pubblici a
rete”, che sono riusciti a conservare il loro carattere «pubblico» anche dopo il passaggio dalla mano
pubblica a quella privata (ciò in virtù del fatto che l’attività che li caratterizza è diretta al
soddisfacimento di bisogni che, in quanto primari, vanno considerati “oggettivamente pubblici”). Ad
ogni modo - anche se quelli elencati rappresentano i tratti caratteristici del “servizio pubblico” - non si
può propendere per un’assoluta accettazione della “concezione oggettiva”, anche perché anche la “tesi
soggettiva”, dopo aver abbandonato l’idea per cui un servizio pubblico è tale solo perché gestito da un
soggetto pubblico, ha spostato il carattere della «pubblicità» dal soggetto gestore al beneficiario del
servizio (la collettività), incentrando nel “profilo organizzativo” il vero elemento soggettivo.
ART. 43 COST. = “A fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e
salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di
imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale”.
ART. 41, 3°comma COST. = “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica
e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
la prima (che si fonda sul “testo unico degli enti locali” : d.lgs. 267 / 2000, t.u.e.l.), è
considerata dalla dottrina come la normativa su cui si può giustificare la validità sia della “tesi
soggettiva” che di “quella oggettiva”;
281
la seconda prospettiva, invece, tende a tralasciare le “linee-guida” fornite dal legislatore, per
verificare se sia possibile enucleare una nozione di “servizio pubblico locale” distinta da quella
generale, fin qui fornita (o se ne sia invece una species).
Per risolvere la questione, il primo dato che occorre analizzare è l’art. 112 t.u.e.l. (rubricato «servizi
pubblici locali»), che al 1°comma stabilisce : «gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze,
provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e di
attività volte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità
locali». Ciò che emerge dalla lettura della norma è l’assenza, anche in questo caso, di un’espressa
definizione del “servizio pubblico”; nonostante ciò, però, dalla disposizione emergono elementi che
possono essere ricondotti sia al “profilo soggettivo” che a quello “oggettivo” della nozione di carattere
generale : il “profilo soggettivo” viene alla ribalta nella parte in cui la norma richiama l’idea dell’ente
locale che provveda alla gestione del servizio pubblico; al contrario, il “profilo oggettivo” viene in
rilievo nella parte in cui la norma esprime il “dato finalistico”, che funge da presupposto in presenza
del quale l’ente pubblico istituisce e organizza il servizio pubblico. In questo modo, emerge la
relazione che si viene ad instaurare tra le due nozioni (quella oggettiva e quella soggettiva) e la non
esclusività dell’una rispetto all’altra.
Ma c’è un’altra questione che, riguardo al servizio pubblico locale, sembra avere maggiore preminenza
: la distinzione tra «servizi di rilevanza economica» (art. 113 t.u.e.l.) e «privi di rilevanza economica»
(art. 113-bis t.u.e.l.). Si tratta di una distinzione in relazione a cui, ancora una volta, si è rivelato
essenziale l’apporto della dottrina. Infatti, data l’assenza - anche in questo caso - di una definizione
normativa, è toccato all’interprete assumere il compito di individuare il discrimine tra ciò che può
essere ritenuto “di rilevanza economica” e ciò che, invece, non lo è. In questo modo, alla categoria di
cui all’art.113 (servizi di rilevanza economica) sono stati ricondotti i «grandi» settori dell’energia
elettrica, del gas, dell’acqua, dei rifiuti e dei trasporti, identificati in quest’ambito per la rilevante
organizzazione di uomini e mezzi, per l’impegno di capitali richiesto dall’attività, per la complessità
del processo di gestione e per la loro sottoposizione alle regole proprie del mercato. Al contrario,
nell’ambito dei “servizi privi di rilevanza economica” sono stati ricondotti i c.d. “servizi sociali”,
poiché questi sono rivolti alla soddisfazione dei bisogni primari della persona e hanno ad oggetto
«attività volte a realizzare fini sociali e promuovere lo sviluppo economico e civile della società» (art.
112 t.u.e.l.). Tuttavia, dato che questi servizi, per la loro natura particolare, consentono una
“disciplina speciale e derogatoria rispetto alle regole della concorrenza”, una parte della dottrina ritiene
che la loro specificità risieda nel “dato finalistico” (cioè, nello scopo da essi perseguito), e non tanto
nel tipo di attività esercitata : ragion per cui non sembra possibile accettare l’idea di una completa
identificazione tra i “servizi sociali” e i “servizi privi di rilevanza economica” (infatti può accadere che
il servizio sociale, sottratto alle regole del mercato, venga gestito comunque in forma di impresa e, di
conseguenza, attratto nell’ambito dei “servizi di rilevanza economica”).
sostanziale” espresso dall’art. 3, 2°comma Cost. e che postula tra i mezzi con cui «rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale», un’azione amministrativa che si esplichi anche mediante
l’organizzazione e la predisposizione di pubblici servizi. Inoltre, l’art. 3, 2°comma Cost. - ai sensi del
quale «lo Stato si impegna a garantire la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
economica del Paese» - va collegato all’art. 43 Cost., nella parte in cui riconosce la possibilità di
«riservare (ab origine) o trasferire a comunità di lavoratori le imprese che si riferiscono a servizi
pubblici essenziali».
Infine la materia dei “servizi pubblici” si inserisce nel nuovo assetto dei rapporti tra il centro (lo Stato)
e la periferia (le Regioni), così come disegnato dalla riforma del Titolo V della Costituzione : in
quest’ottica, a venire in rilievo è soprattutto il canone dell’ “equità sociale” (formulato all’interno degli
artt. 41, 3°comma e 43 Cost.), che trova una corrispondenza immediata nell’art. 117, comma 1°, lett. l)
Cost.; infatti questa disposizione affida allo Stato il compito di determinare i «livelli essenziali delle
prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale». Secondo la Corte costituzionale, però, non si tratterebbe di una materia in senso stretto, ma
di una competenza «idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore deve porre le
norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni
garantite, come contenuto essenziale di tali diritti» (con esclusione, quindi, di un qualsiasi intervento
da parte del legislatore regionale). La «clausola» dei «livelli essenziali delle prestazioni» si presta,
così, ad incidere in maniera trasversale sulle materie rimesse alla potestà legislativa regionale (anche
esclusiva) nei limiti tracciati dalla Consulta. Spetta infatti ad una legge dello Stato compiere le scelte
necessarie ad assicurare quest’uniformità di trattamento.
Strettamente collegato con il canone dell’ “equità sociale” è, poi, il «principio della tutela della
concorrenza» (art. 117, lett. e Cost.), che – soprattutto sotto il profilo dei “servizi pubblici” – appare
direttamente connesso con la necessità di garantire (attraverso l’intervento del legislatore nazionale) i
«livelli essenziali delle prestazioni». Ancora una volta, non si è in presenza di una materia in senso
stretto, dai confini ben delineati; la norma sembra piuttosto indicare un obiettivo alla cui realizzazione
deve mirare l’azione statale, con possibili ricadute anche su settori rimessi alla legislazione regionale
(concorrente o esclusiva). In quest’ottica, la Corte Costituzionale ha ribadito che
la tutela della concorrenza (da parte del legislatore statale) non si concretizza solo in interventi di
regolazione svolti in chiave repressiva, ma esige «misure pubbliche rivolte a ridurre squilibri, a
favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato e ad instaurare assetti anti-
concorrenziali». Pertanto, la presenza di questi “standard di tutela uniformi” (affidati al legislatore
nazionale) riduce il rischio di un’eccessiva frammentazione della legislazione in quei settori rimessi
alla potestà legislativa regionale concorrente (molti dei quali assumono una certa importanza nello
studio dei “servizi pubblici”) : si pensi ai c.d. “servizi pubblici a rete”, la cui regolamentazione può
andare a incidere su materie comprese nella “potestà legislativa concorrente”, come il «governo del
territorio» o la «tutela della salute» (tali sono, ad es., la distribuzione dell’energia elettrica o lo
sviluppo dei sistemi di telecomunicazioni). In questi casi, perciò, la Consulta, chiamata ad effettuare un
bilanciamento tra gli “interessi regionali” e quelli “nazionali”, ha risolto il problema affidando alle
Regioni la disciplina della localizzazione degli impianti (data la loro competenza in materia di governo
del territorio), a condizione però che «i criteri localizzativi e gli standard urbanistici rispettino le
esigenze di pianificazione nazionale degli impianti».
Le norme del Titolo V, infine, hanno però il merito di aver codificato, a livello costituzionale, il
“principio di sussidiarietà”, di particolare rilievo rispetto ai servizi pubblici. Le disposizioni derivanti
283
dal combinato disposto degli artt. 43 e 41 Cost. sono state lette infatti come affermazione di un più
generale “principio di sussidiarietà” dell’azione statale nel settore dei servizi pubblici, laddove il
mercato si dimostri inadeguato a soddisfare i bisogni della collettività.
In relazione all’art. 118 Cost., una volta superato il “parallelismo tra funzioni amministrative e
legislative” (che caratterizzava l’assetto costituzionale previgente), i giudici della Consulta hanno
legittimato la scelta del legislatore statale non solo di attribuire a livello centrale “peculiari funzioni
amministrative”, ma di disciplinarne anche l’esercizio, sebbene in difformità dai criteri di riparto di cui
all’art. 117 Cost. Emerge, pertanto, un “concetto dinamico di sussidiarietà”, capace anche di attrarre la
“funzione legislativa” dello Stato, per non sacrificare le «istanze di unificazione presenti nei vari
contesti della vita»». Tuttavia le sole “esigenze di unificazione” da sole non sono sufficienti a rendere
costituzionalmente legittimi tali «spostamenti» : in più occasioni, infatti, la Corte ha avallato simili
scelte solo se espresse in una legge statale improntata ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, il
cui intervento sia limitato a quanto strettamente indispensabile a garantire le istanze unitarie per cui è
stata emanata. Tali leggi, inoltre, devono essere oggetto di un “accordo” con la Regione interessata.
accessibile - impongono ai medesimi di agire, in determinate situazioni, fuori dalle logiche di mercato,
con il conseguente rischio di non coprire i costi con i ricavi (si pensi, ad es., all’obbligo per i gestori
dei “servizi di telecomunicazioni” di assicurare un congruo numero di telefoni pubblici). Proprio
perché l’obbligo del servizio universale sottintende l’accessibilità alle tariffe (che impone che il
servizio di interesse economico generale sia offerto a prezzi in grado di renderlo accessibile a tutti), per
scongiurare rischi economici al gestore sono assicurate delle “compensazioni economiche”, che gli
permettono di preservare il proprio equilibrio economico-finanziario. Queste compensazioni, però, ai
sensi dell’art. 106 TFUE, non devono essere tali da alterare il principio della concorrenza, cui sono
comunque sottoposti i gestori. In particolare, quest’ultima questione è stata affrontata dalla Corte di
Giustizia nel 2003 (caso Altmark), che ha sottolineato che i “finanziamenti pubblici” non rientrano
nella disciplina europea degli “aiuti di Stato” laddove possano essere considerati come delle
“compensazioni” (che rappresentano la contropartita delle imprese beneficiarie per adempiere agli
obblighi di servizio pubblico).
A differenza dei «servizi di interesse economico generale» (forniti dietro corrispettivo), i «SERVIZI
NON ECONOMICI DI INTERESSE GENERALE» rappresentano quelle attività che si pongono fuori
dal mercato e sono servizi prestati senza corrispettivo. Si è posta, però, qualche difficoltà, in relazione
alla collocazione di alcuni tipi di servizi (ad es., la cultura, la sanità, l’istruzione e i servizi sociali) :
per risolvere il problema, la Consulta ha precisato che “spetta al giudice nazionale verificare, nel caso
concreto, se l’attività abbia o meno carattere economico, tenendo conto, in particolare, dell’ assenza di
uno scopo puramente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività e
dell’eventuale finanziamento pubblico dell’attività».
la modalità c.d. “in via diretta” (o in economia), con cui l’ente locale affidava il pubblico
servizio non ad una struttura creata ad hoc, ma agli stessi uffici presenti al suo interno;
la modalità delle aziende municipalizzate;
l’affidamento del servizio mediante concessione a terzi.
285
286
“proprietà delle reti” preordinate all’ erogazione del servizio. Quanto invece alla gestione del servizio
pubblico locale, il legislatore ha previsto due diverse forme di “affidamento in forma diretta”, quella
c.d. in house e quella a società mista :
la c.d. “SOCIETA’ IN HOUSE” : l’art. 113 consente all’ente locale di affidare la gestione del
servizio pubblico ad una società direttamente controllata dall’ente locale. Dunque qui ci troviamo in
presenza di una soluzione antitetica rispetto alla regola della c.d. “esternalizzazione”, poichè consente
all’amministrazione di affidare il servizio ad una società che agisce in qualità di longa manus dell’ente
pubblico.
Tra l’altro, all’interno della categoria dell’in house è possibile distinguere il modello c.d. dell’ «in
house in senso stretto» (quando l’amministrazione affida lo svolgimento del servizio ad un suo ente
strumentale non dotato di personalità giuridica) e il modello c.d. dell’«in house in senso lato» (in cui
l’autorità stipula direttamente il contratto di affidamento del servizio con società controllate, ma
giuridicamente autonome e dotate di personalità giuridica). Ad ogni modo, il modello dell’in house
può essere usato solo in presenza dei presupposti enucleati nel 1999 dalla Corte di Giustizia che, in
occasione del c.d. caso Teckal, è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’in house,
precisando che l’“affidamento in house” è consentito solo nel caso in cui l’amministrazione
aggiudicatrice sia in grado di esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi : ciò
significa che tra l’amministrazione e il soggetto affidatario deve sussistere un “rapporto di
subordinazione”, che abilita la prima a determinare in modo unilaterale gli “obiettivi che la struttura
chiamata a gestire il servizio deve perseguire” (esercitando un’ingerenza dominante sulle decisioni più
importanti). Inoltre, la Corte ha sancito anche che l’affidamento in house è consentito solo laddove la
“destinazione prevalente dell’attività societaria” abbia luogo con l’ente pubblico che lo rappresenta :
in questa prospettiva, la Corte ha specificato che con l’inciso “destinazione prevalente dell’attività” si
vuole indicare un’attività che viene svolta prevalentemente a favore o per conto dell’autorità
controllante. In definitiva, le società in house si presentano come vere e proprie articolazioni interne
dell’amministrazione, quasi si trattasse di una mera prosecuzione dell’amministrazione : proprio per
questo, la Corte di Giustizia (in una sentenza successiva : il c.d. caso Stadt Halle), nel cercare di
contenere al massimo la diffusione del modello, ha precisato che l’affidamento diretto è consentito
solo qualora vi sia una totale partecipazione pubblica alla società cui viene affidata la gestione del
servizio (tuttavia la stessa Corte di recente ha ritenuto di dover mitigare quest’orientamento,
ammettendo la possibilità di inserire determinate “clausole statutarie” in grado di consentire l’ingresso
nella società di soci privati, subordinando quest’opzione alla revoca dell’affidamento in via diretta per
consentire questo ingresso dopo una “procedura di evidenza pubblica” finalizzata all’individuazione
del soggetto privato).
le c.d. “SOCIETÀ MISTE” : la seconda forma di affidamento è, invece, rappresentata dalla
c.d. “società mista”, che si caratterizza per il fatto che il “soggetto che gestisce il servizio” gode, da
ogni punto di vista, di una totale autonomia rispetto all’ente pubblico erogatore, nei cui confronti egli
(il gestore) assume un “ruolo di terzietà” (e non di immedesimazione) : proprio per garantire questa
finalità, l’art. 23-bis del d.l. del giugno 2008 (abrogato dal referendum del 2011) aveva introdotto dei
“requisiti in grado di assicurare un ruolo di primo piano ai soci privati presenti all’interno della società
mista”. In quest’ottica, il legislatore ha individuato la differenza tra la “società mista” e l’“affidamento
in house”, stabilendo all’art. 1 del “codice dei contratti pubblici” (d.lgs. 163 / 2006) che «nei casi in
cui le norme vigenti consentano la costituzione di società miste per la gestione di un servizio, la scelta
del socio privato avviene con procedura di evidenza pubblica» : di conseguenza,
287
in virtù di questa disposizione, il Consiglio di Stato (nel 2007) ha precisato che, per poter adottare
questa “forma di gestione”, è necessario innanzitutto che la “procedura di evidenza pubblica”, bandita
per individuare il socio privato, attribuisca allo stesso un ruolo operativo; in secondo luogo, è
necessario che nel bando siano indicati i limiti temporali entro cui deve avvenire questa
partecipazione, onde evitare una presenza stabile del partner privato nella “società di gestione del
servizio”.
stabilisce che in sede di stipula dei contratti di servizio gli enti locali devono inserire nel testo del
contratto :
la previsione dell’obbligo per il gestore di emanare una «Carta della qualità dei servizi»
(recante gli standard di qualità e di quantità in base a cui erogare le relative prestazioni);
la consultazione obbligatoria delle “associazioni dei consumatori”;
la previsione di una “verifica periodica”, volta a controllare l’adeguatezza dei parametri fissati
nel contratto alle esigenze dell’utenza;
la previsione di un “sistema di monitoraggio” volto a verificare il rispetto dei parametri fissati
nel contratto;
l’istituzione di una “sessione annuale” volta a verificare il funzionamento dei servizi forniti.
In virtù di queste indicazioni, si può tracciare una definizione del “contratto di servizio” : esso è un
atto consensuale diretto alla costituzione del servizio e il suo scopo è quello di soddisfare gli interessi
pubblici sottesi alla sua esecuzione (con la conclusione del contratto, quindi, l’amministrazione
assolve ai propri doveri istituzionali, mentre il gestore vede definiti i propri diritti e i propri obblighi
verso l’amministrazione).
Il punto controverso sta nell’individuazione della “natura giuridica” del contratto di servizio, in
relazione a cui sono state prospettate in dottrina due diverse e valide teorie :
Il rapporto tra il soggetto gestore e l’utenza si esprime, invece, nel “CONTRATTO DI UTENZA”. In
ogni caso, questo contratto può avere ad oggetto solo i “servizi a domanda individuale” (con
esclusione, quindi, dei c.d. “servizi indivisibili”) :
infatti l’attività svolta dai gestori del servizio può essere destinata a tutti i cittadini (c.d. servizi
indivisibili) o ai singoli utenti che ne facciano richiesta (c.d. servizi a domanda individuale); nel primo
caso non si costituisce alcun rapporto giuridico tra i soggetti coinvolti, escludendo così a priori il
ricorso alla formula del contratto di utenza. Quest’ultima, quindi, si applica solo ai servizi a domanda
individuale, la cui fruizione da parte del singolo utente determina l’insorgere di un rapporto giuridico
vero e proprio con il soggetto erogatore.
La disciplina del rapporto che si costituisce dopo la stipulazione del “contratto di utenza” non si
differenzia da un comune “contratto di adesione” : ragion per cui è del tutto giustificata l’applicazione
di alcuni istituti di diritto privato, in primis quello dell’“obbligo a contrarre” ex art. 2597 c.c. (che
obbliga il gestore a erogare la prestazione a chiunque ne faccia richiesta, nel rispetto dei principi di
“parità di trattamento” e di “non discriminazione). Così ragionando, al contratto di utenza può essere
applicato l’art. 1679 c.c. : quest’ultimo, infatti - stabilendo che “i concessionari di servizi di linea per
il trasporto di persone o di cose sono obbligati ad accettare le richieste di trasporto compatibili con i
mezzi ordinari dell’impresa” - può fungere da paradigma generale del contratto di utenza.
Aldilà delle norme del codice civile, il “contratto di utenza” conosce anche altre due specifiche fonti :
gli “atti di regolazione dell’Authority sul contratto di utenza” e le “Carte dei servizi pubblici”. In
relazione alla prima fonte, va detto che l’Autorità garante può, innanzitutto, modificare o integrare le
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“condizioni generali di contratto” predisposte dal gestore (procedendo ad esempio a fissare le “tariffe-
base” o i “parametri di determinazione dei prezzi praticati”); in secondo luogo, l’Autorità esercita un
“potere di controllo sull’erogazione del servizio” (essa, cioè, controlla le “misure adottate dal gestore”,
in modo da garantire la parità di trattamento e la qualità delle prestazioni).
Infine, l’aspetto qualitativo della prestazione - e passiamo, così, ad analizzare l’ultima fonte del
contratto di utenza - viene curato anche dalle normative che impongono l’adozione della c.d. “Carta
dei servizi pubblici”, con cui il gestore assume unilateralmente una serie di obbligazioni volte a
garantire determinati livelli di qualità del servizio offerto. La carta dei servizi pubblici è stata
introdotta in Italia nel 1993 e si articola in 3 parti, in virtù delle quali il gestore si impegna :
ad enunciare i principi sulla cui base poter procedere all’erogazione dei servizi pubblici;
ad individuare gli strumenti idonei ad attuare tali principi (anche mediante l’adozione di
standard qualitativi e quantitativi del servizio);
a determinare i “meccanismi di tutela” volti ad assicurare la concreta attuazione dei principi
enunciati nella Carta (ad esempio, l’istituzione, per ogni ente erogatore, di un “ufficio interno di
controllo” che deve ricevere i reclami presentati dagli utenti).
*CONTRATTO IN FAVORE DI TERZI = è il contratto in cui due parti si accordano affinchè una di loro esegua una
prestazione ad un terzo.
*CONTRATTO PER ADESIONE = contratto caratterizzato dalla predisposizione unilaterale da parte di uno dei contraenti
del contenuto del contratto; si caratterizza per la mancanza di possibilità per l'altro contraente di intervenire su tale
contenuto. Nel contratto per adesione la parte che non predispone il contratto ha, dunque, solo la possibilità di scegliere se
stipulare il contratto o meno, ma non quella di determinarne il contenuto.
*MONITORAGGIO = controllo.
CULTURALI «le cose immobili e mobili che - ai sensi degli artt. 10 e 11 - presentano interesse
storico, artistico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico , nonché tutte le
altre cose individuate dalla legge o in base alla legge come testimonianze aventi valore di civiltà».
Questa disciplina si differenzia in parte da quella contenuta nella previgente (e ormai abrogata) L.
1089 / 1939 («Tutela delle cose di interesse storico e artistico») : infatti il d.lgs. 42 / 2004, da un
lato, ha enucleato (in sintonia con quanto previsto dalla Legge del 1939) la nozione di “BENE
CULTURALE” mediante l’individuazione delle “res” (cioè delle cose mobili o immobili) che
presentano uno specifico valore culturale, ma dall’altro ha anche allargato il campo di applicazione
con il riferimento alle «altre cose» individuate dalla legge o in base alla legge come testimonianze
aventi valore di civiltà (evitando di fissare un’elencazione tassativa).
I beni che, solo se presentano l’interesse culturale (che deve essere accertato
dall’amministrazione) sono soggetti al regime del “demanio pubblico” : ci riferiamo, in particolare,
ai beni elencati all’art. 10, 1°comma del Codice del 2004, che infatti statuisce che : “sono BENI
CULTURALI le cose (mobili e immobili) appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti
pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente pubblico e a persone giuridiche private senza scopo di
lucro, che presentano interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico”.
I beni che appartengono di per sé al “demanio pubblico ”: ci riferiamo ai beni elencati all’art.
10, 2°comma del Codice (tra cui ricordiamo : “le raccolte di musei, pinacoteche e gallerie dello
Stato, delle Regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente pubblico”),
nonché a quelli elencati all’art. 822, 2°comma c.c. (che stabilisce che fanno parte del demanio c.d.
eventuale “gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle
leggi in materia e le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche”).
Il discorso è, invece, diverso per quel che riguarda i “BENI PRIVATI” : per essi il “codice” dispone
che l’interesse culturale deve essere dichiarato da un “provvedimento amministrativo”; in tal caso,
il bene resta d’appartenenza privata, ma le facoltà del privato proprietario sono soggette a dei limiti
(ad es. il privato non può apportare modifiche in contrasto con l’interesse culturale, non può
distogliere la cosa dalla sua destinazione, non può alterarla o trasferirla).
realtà, non è stato mai attuato nella pratica, poichè per sottoporre i BENI PUBBLICI a vincolo
storico-artistici si è sempre ritenuto che, a prescindere dall’inserimento dei beni all’interno degli
elenchi, la pubblica amministrazione (il Ministero) avrebbe dovuto effettuare anche una valutazione
in merito al “pregio del bene”, mediante l’adozione di un “provvedimento di accertamento
costitutivo”. Perciò il legislatore, abbandonando il sistema previgente, con l’art. 12 del codice del
2004, ha introdotto un nuovo “meccanismo di verifica dell’esistenza dell’interesse culturale”,
statuendo che :
i “BENI PRIVATI” sono tutti assoggettati alla valutazione circa la sussistenza dell’interesse
culturale per l’adozione dell’eventuale “dichiarazione di interesse culturale”;
per i “BENI PUBBLICI”, invece, sono stati predisposti 3 meccanismi valutativi : 1) quello
ope legis (per i beni di cui all’art. 10, 2°comma); 2) quello che necessita della “dichiarazione
dell’interesse culturale” ex art. 13 del codice; 3) quello c.d. residuale della “verifica” di cui all’art.
12 del codice.
è vietato distruggere, danneggiare o adibire i beni culturali ad usi non compatibili con il loro
dichiarato carattere storico o artistico;
alcuni interventi sono ammissibili previa “autorizzazione ministeriale”;
l’amministrazione può anche adottare “misure cautelari” e “preventive” per bloccare
interventi vietati o difformi dall’autorizzazione ricevuta dal Ministero.
Alcune deroghe sono invece consentite (salvo autorizzazione ministeriale) per i “beni culturali
immobili non dichiarati extra commercium” (artt. 55 e 56). Al riguardo, un particolare accenno
merita il “DIRITTO DI PRELAZIONE”, che spetta all’amministrazione in caso di alienazione a
titolo oneroso. La c.d. «prelazione culturale» è un istituto centrale nel regime della circolazione dei
beni culturali. La Corte costituzionale ne ha sancito la legittimità precisando che “l’istituto della
PRELAZIONE, presentando le caratteristiche tipiche del regime giuridico fissato per le cose di
interesse storico e artistico (regime che trova il suo fondamento nell’art. 9 Cost.) è un istituto ben
distinto dagli ordinari provvedimenti espropriativi, ai quali non può essere comparata”.
Per quanto riguarda, invece, il procedimento, l’art. 61 del codice prevede che la prelazione va
esercitata entro il “termine perentorio” di 60 giorni dalla ricezione della denuntiatio obbligatoria
che il proprietario è tenuto ad effettuare ex art. 59 : entro questo termine, l’atto di esercizio della
prelazione deve essere non solo emanato, ma anche notificato all’alienante e all’acquirente. Però, in
caso di “omessa denuncia” o di “denuncia tardiva” da parte del proprietario, la prelazione va
esercitata entro 180 giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha
comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa (nell’ipotesi di “omessa denuncia”).
*Art. 9 Cost. = “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione”.
*DIRITTO DI PRELAZIONE = diritto ad essere preferito, rispetto ad un altro a parità di condizioni, nella costituzione di
un negozio giuridico.
293
8. I beni paesaggistici. L’art. 134 del Codice del 2004 suddivide i BENI
PAESAGGISTICI in 3 categorie :
nella prima categoria troviamo “gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico” : sono
tali, ad esempio, gli immobili che presentano cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità
geologica, le ville, i giardini e i parchi che si caratterizzano per la loro non comune bellezza e le
bellezze panoramiche.
294
nella seconda categoria, invece, troviamo “le aree tutelate ex lege” : si pensi, ad esempio, ai
territori costieri, alle acque pubbliche, alle montagne, ai ghiacciai o alle riserve - nazionali o
regionali - ai vulcani e alle zone di interesse archeologico.
nella terza categoria, infine, troviamo “gli immobili e le aree che i piani paesaggistici
previsti dagli artt. 143 e 156 del codice sottopongono a tutela”.
295
comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi a stabilire solo norme di principio, lasciando
sempre spazio a un’ulteriore normativa regionale.
Nel 2012 la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione della vigente direttiva
2011 / 92 / UE. Il nuovo testo prevede alcuni punti chiave, ad esempio : 1) la possibilità di deroga
viene limitata ai “progetti che riguardano la difesa nazionale” ed è estesa alla “protezione civile”; 2)
è fissata una scadenza per la conclusione della procedura di v.i.a.; 3) è prevista l’obbligatorietà del
monitoraggio ex post per i progetti che avranno significativi effetti negativi sull’ambiente.
La revisione della Direttiva 2011 / 92 / UE è stata adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio
nel 2014 : è la Direttiva 2014 / 52 / UE (“nuova direttiva VIA” di modifica alla direttiva 2011 / 92 /
UE).
per le opere elencate negli allegati 2 e 3 del d.lgs. 152 / 2006 è sempre richiesto il
procedimento di v.i.a., poiché l’effetto di «impatto significativo e negativo» è assistito da una
presunzione iuris et de iure (*presunzione legale che non ammette prova contraria);
per le opere menzionate nell’allegato 4 l’assoggettabilità alla v.i.a. è oggetto di un
procedimento di verifica caso per caso.
*VAS : la v.a.s. è un procedimento di analisi preventiva dell’impatto ambientale derivante dall’attuazione degli strumenti
di pianificazione. In linea generale il procedimento di v.a.s. precede, ma non necessariamente determina, una procedura
298
di v.i.a. Le due tipologie di valutazione (vas e via) agiscono in due fasi diverse su due oggetti diversi : mentre la v.a.s. è
una procedura che agisce per valutare gli effetti ambientali prodotti da piani o programmi, la v.i.a. è una procedura che
agisce per valutare gli impatti ambientali causati da progetti o opere. La vas riguarda piani urbanistici e di settore (rifiuti,
energia, viabilità,ecc.). Lo scopo è quello di migliorare le caratteristiche dei progetti e dei piani per garantire un’adeguata
protezione dell’ambiente ex-ante.
*AIA : (“autorizzazione integrata ambientale”) è l'autorizzazione di cui necessitano alcune aziende per uniformarsi ai
principi di integrated pollution prevention and control (IPPC) dettati dall’Unione europea : serve per valutare
anticipatamente le ricadute negative sull’ambiente causate dall’esercizio di specifiche attività industriali . E’ un
provvedimento che autorizza l’esercizio di un impianto ed è obbligatorio per legge per le aziende rientranti nell’allegato 8
del Testo Unico dell’Ambiente.
*SCREENING : (c.d. verifica di assoggettabilità a v.i.a.). La procedura di verifica preliminare (o screening) è una
procedura tecnico - amministrativa volta ad effettuare una valutazione preliminare della significatività dell’impatto
ambientale di un progetto, determinando se lo stesso richieda, in relazione alle possibili ripercussioni sull’ambiente, lo
svolgimento successivo della procedura di v.i.a.
*SCOPING : la “procedura di delimitazione del campo di indagine” (o scoping) è una procedura tecnico - amministrativa
volta a valutare la proposta dei contenuti del successivo Studio di Impatto Ambientale (in sigla S.I.A.) per indirizzare il
committente di un’opera alla completa analisi delle componenti ambientali interessate dal progetto. E’ la fase che serve a
definire l’ambito delle indagini necessarie per la valutazione.
*SIA : “studio di impatto ambientale” che viene redatto da esperti su incarico del committente. Lo Studio di Impatto
Ambientale (SIA) è il documento tecnico redatto da tecnici incaricati dal committente, in cui è presentata una descrizione
approfondita delle caratteristiche del progetto e delle principali interazioni dell’opera con l’ambiente circostante. Nel SIA
deve essere fatto un quadro completo della situazione precedente la realizzazione dell’opera e una previsione della
situazione successiva alla realizzazione. Lo studio di impatto ambientale è predisposto a cura e spese del committente.
*VIA : in molti casi essa è specificatamente prevista come passaggio importante all’interno delle procedure autorizzative
per la realizzazione di opere pubbliche, ma lo è anche per la realizzazione di progetti privati, specie quando questi
abbiano una dimensione considerevole e possano provocare un potenziale impatto ambientale significativo.
luogo, oltre che alla proliferazione di piani e di strumenti programmatori eterogenei, alla
sovrapposizione di competenze e ad enormi difficoltà di coordinamento. A queste difficoltà ha
cercato di ovviare il d.lgs. 112 / 1998, il cui art. 57 dispone che «il “piano territoriale di
coordinamento provinciale” può assumere il valore e gli effetti dei piani di tutela dell’ambiente,
delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sulla base di intese tra la
Provincia e le amministrazioni competenti». Quindi è prevista la crasi in un unico piano della
disciplina urbanistica e delle discipline differenziate : crasi (*fusione) possibile attraverso l’intesa
tra amministrazioni diverse. Solo nel caso in cui l’intesa non venga raggiunta, «i piani di tutela di
settore conservano il valore e gli effetti assegnati ad essi dalla rispettiva normativa nazionale e
regionale». In base a questa norma, è così possibile enucleare il concetto di GOVERNO DEL
TERRITORIO come “ambito disciplinare in cui confluiscono competenze amministrative diverse,
facenti capo sia a soggetti cui è attribuita la potestà urbanistica classica, sia a soggetti cui sono
attribuite altre potestà amministrative, volte alla protezione di interessi settoriali, che comunque
incidono sulla regolazione del territorio”.
ricade nella materia del “governo del territorio” (attribuita alla “legislazione concorrente”); 3) il
terzo, che riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica, ricade
nella “competenza residuale (esclusiva) delle Regioni”.
Infine, con la sentenza n. 303 / 2003, seguendo un itinerario argomentativo che porta ad individuare
una dimensione dinamica e a valenza procedimentale dei “principi di sussidiarietà” e di
“adeguatezza” ex art. 118 Cost., la Corte ha sancito che «non si può limitare l’attività dello Stato
alle sole materie espressamente attribuitegli in “potestà esclusiva” o alla determinazione dei principi
nelle materie di “potestà concorrente” : ciò significherebbe sì circondare le competenze legislative
delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare le istanze unitarie che
giustificano, a determinate condizioni, una deroga al normale riparto di competenze». La Corte
osserva che «nel nostro ordinamento sono presenti dei congegni per rendere più flessibile un
disegno che - in ambiti in cui si intrecciano attribuzioni e funzioni diverse - rischierebbe di
vanificarne le istanze di esercizio unitario». Uno di questi elementi di flessibilità è il “principio di
sussidiarietà” ex art. 118, 1°comma Cost. : esso «agisce come sussidio quando un livello di governo
è inadeguato alle finalità che si vogliono raggiungere ed ha un’attitudine ascensionale, consentendo
che la funzione amministrativa possa essere esercitata dallo Stato per esigenze di esercizio
unitario». Il principio di sussidiarietà, seppur riferito esplicitamente alle funzioni amministrative,
deroga anche al normale “riparto delle competenze legislative” stabilito nell’art. 117 Cost.» ed ha
«una vocazione dinamica» : infatti «poiché anche le funzioni assunte per sussidiarietà devono
essere regolate dalla legge (per il “principio di legalità”), le singole Regioni non possono regolare,
con discipline differenziate, funzioni amministrative attratte a livello nazionale».
Tuttavia, nonostante la sussidiarietà consenta di derogare al normale riparto di competenze, questa
deroga può giustificarsi «solo previo accordo stipulato con la Regione interessata» : quindi i
principi di sussidiarietà e adeguatezza, oltre ad avere una dimensione dinamica, hanno anche «una
valenza procedimentale», perché «l’esigenza di esercizio unitario che permette di attrarre - insieme
alla funzione amministrativa - anche quella legislativa, può superare il vaglio di legittimità
costituzionale solo in presenza di un’ intesa». Ciò perché « l’attrazione allo Stato di funzioni
amministrative da regolare con legge non è giustificabile solo invocando l’interesse a un loro
esercizio centralizzato, ma è anche necessario coinvolgere i soggetti titolari delle attribuzioni
attratte, salvaguardandone la posizione costituzionale».
INDIRETTA : condotta, cioè, attraverso l’allocazione di risorse sul territorio (infatti dagli
“atti di programmazione dei finanziamenti europei” è possibile ricavare il disegno del futuro uso
del suolo su cui saranno realizzate le opere;
DIRETTA : in quanto il Consiglio, deliberando all’unanimità (secondo una procedura
legislativa speciale), previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e
sociale e del Comitato delle Regioni, può adottare «misure che incidono sull’assetto territoriale e
sulla destinazione dei suoli».
302
Gli artt. 5 e 6 della “legge urbanistica” (L. 1150 / 1942) pongono, come primo e più generale
livello di pianificazione, il “PIANO TERRITORIALE REGIONALE” : tale strumento si limita ad
indicazioni di carattere assai generale (e, quindi, non detta disposizioni che entrano nel dettaglio o
che contengono previsioni immediatamente precettive sul territorio). Questo livello di
pianificazione è stato introdotto con lo scopo di fornire una serie di indicazioni e di direttive
indirizzate agli enti territoriali investiti della pianificazione territoriale vera e propria e di quella di
dettaglio o attuativa (quindi le Province e i Comuni). Sono poi le “leggi urbanistiche regionali” a
precisare il grado di dettaglio di tale “potere di indirizzo”, che, però, deve comunque rispettare il
limite delle attribuzioni regionali garantito dalla Costituzione; l’unica eccezione a questa regola è
consentita nel caso di inerzia di tali enti : in tal caso infatti è consentito che la “legislazione
regionale” attribuisca poteri sostitutivi alle Regioni.
Nel 1990, poi, è stato attribuito alle Province il compito di adottare “PIANI
TERRITORIALI DI COORDINAMENTO”, oggi disciplinati dall’art. 20 del d.lgs. 267 / 2000 (“t.u.
enti locali”) e, in dettaglio, dalle “leggi regionali delle singole Regioni” (che dovranno prevedere
anche le modalità procedimentali per la predisposizione di questi piani) : siamo in presenza di un
atto di «programmazione intermedia» tra gli indirizzi del piano regionale e le disposizioni di
dettaglio contenute nei piani regolatori generali di competenza comunale, che individua le
maggiori infrastrutture e le principali reti che dovranno insistere sul territorio, le aree che dovranno
conservare una destinazione naturalistica (anche con l’istituzione di parchi e riserve naturali) e
precisa anche le linee-guida per l’assetto idrico del territorio interessato. I piani di livello
provinciale non contengono disposizioni che entrano nel dettaglio o che recano previsioni
immediatamente precettive sul territorio.
303
1) l’adozione del piano da parte del Comune : con una delibera di indirizzo il Consiglio fissa le
“linee-guida della politica urbanistica”, a cui si dà una prima attuazione nella redazione tecnica del
progetto di piano, che viene poi recepito con una delibera di adozione da parte del Consiglio
comunale.
2) la fase delle osservazioni dei privati sul piano adottato : il piano adottato viene depositato presso
la Casa comunale e tale deposito viene comunicato alla popolazione tramite pubblicazione e altre
forme di pubblicità, per consentire che tutti gli interessati possano formulare entro un termine
preciso le proprie osservazioni e fornire il proprio apporto partecipativo, con funzione collaborativa
o oppositiva (a tutela di specifiche situazioni giuridiche soggettive di vantaggio).
3) l’approvazione del piano e la sua pubblicazione : allo scadere del termine per il deposito delle
osservazioni l’amministrazione comunale esamina tali documenti, decidendo, con delibera del
Consiglio, le eventuali modifiche da apportare al “progetto di piano” adottato e incarica gli uffici
tecnici di apportare le modifiche conseguenti per consentire la definitiva approvazione da parte
dell’organo consiliare regionale (o comunale) competente per legge. Il piano così approvato viene
infine pubblicato e può iniziare a produrre i suoi effetti.
Il piano regolatore generale, però, non è l’ultimo strumento di pianificazione : pur avendo una
valenza immediatamente precettiva, infatti, esso non contiene quelle prescrizioni di dettaglio o
attuative che sono rimesse a specifici strumenti, propriamente esecutivi.
Nel disegno della legge urbanistica (L. 1150 / 1942), il piano attuativo più comune avrebbe dovuto
304
*LOTTIZZAZIONE = è l’operazione che consiste nel frazionamento di un terreno agricolo o improduttivo in lotti edificabili,
ossia in superfici idonee per un’edificazione sistematica.
artt. 2 e 4 del “t.u. in materia edilizia” (d.p.r. 380 / 2001) : esso deve contenere la “disciplina delle
modalità costruttive” (le norme tecnico-estetiche, igienico sanitarie, di sicurezza e di vivibilità degli
immobili). Si tratta di un contenuto ben più limitato di quello imposto al “regolamento edilizio”
dalla legge urbanistica del 1942, che poteva avere una portata più ampia e contenere anche
previsioni proprie della pianificazione urbanistica (di cui aveva anche funzione sostitutiva in
assenza del “piano regolatore"). Nell’attuale prospettiva, quindi, il “regolamento edilizio” è un atto
regolamentare che affianca le previsioni del “piano regolatore generale” e disciplina specificamente
l’attività edilizia, incidendo anche nei rapporti di diritto privato tra i proprietari delle aree.
I titoli edilizi. Il quadro attuale trova una sintesi nelle previsioni del “testo unico in materia
edilizia” (d.p.r. 380 / 2001).
306
attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano eseguite in aree esterne
al centro edificato.
Ai sensi dell’art. 22 del t.u., sono realizzabili mediante DENUNCIA DI INIZIO
ATTIVITA’ (d.i.a.) : 1) gli interventi non riconducibili all’elenco di cui agli artt. 6 (attività libera) e
10 (attività subordinata al rilascio del permesso di costruire), che siano conformi alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della “disciplina urbanistico-edilizia” vigente;
2) le varianti a “permessi di costruire” che non incidono sulle volumetrie, che non modificano la
destinazione d’uso, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le prescrizioni contenute nel
permesso di costruire.
Quanto alla “DENUNCIA DI INIZIO DI ATTIVITÀ”, l’art. 23 del t.u. prevede che il proprietario
dell’immobile - almeno 30 giorni prima che inizino i lavori – deve presentare all’amministrazione
comunale la denuncia; questa deve essere accompagnata da una “relazione” firmata da un
progettista abilitato e dagli opportuni “elaborati progettuali” che attesti la conformità delle opere da
realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme
di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. La denuncia di inizio attività è corredata dall’indicazione
dell’impresa cui si intende affidare i lavori ed è sottoposta al termine massimo di efficacia di 3 anni.
* BARRIERA ARCHITETTONICA = una barriera architettonica è un qualunque elemento costruttivo che impedisce o
limita gli spostamenti (può essere, ad esempio, una scala, un gradino, una rampa troppo ripida).
* GEOGNOSTICO= Che riguarda lo studio delle caratteristiche del terreno (in vista di lavori stradali, ingegneristici o
edilizi).
*Permesso di Costruire = è un provvedimento amministrativo che viene rilasciato, su richiesta, dal Comune e che
abilita all’esecuzione di un intervento edilizio. Ha sostituito la Concessione edilizia (prima ancora chiamata Licenza
Edilizia). Il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un CONTRIBUTO, commisurato
all'incidenza degli “oneri di urbanizzazione” e al “costo di costruzione”.
*lottizzazione = dividere in lotti (il “lotto” è ognuno degli appezzamenti di terreno in cui viene suddivisa, per uso edilizio,
un’area fabbricabile).
In base a quanto disposto dall’art. 42, 2°comma Cost., è stata superata la «concezione
individualistica del diritto di proprietà privata», che non può più venire inteso come dominio
assoluto e illimitato sui propri beni, essendo invece sottoposto nel suo contenuto a un regime che la
Costituzione lascia determinare al legislatore. Il “principio di legalità” e la “riserva di legge” di cui
all’art. 42, 2°comma Cost. impongono che solo la legge possa delineare il “regime del diritto di
proprietà sui beni”, conformandone il contenuto alla funzione sociale predicata nella Costituzione :
nel far ciò, la legge può incidere sul modo di godimento dei beni e imporre “limiti” al diritto di
proprietà privata : quando la legge dispone in tal senso, si parla di “VINCOLI ALLA PROPRIETA’
PRIVATA”. La Corte Costituzionale ha
chiarito che solo nel caso cui la legge stabilisca una “disciplina limitativa del diritto di proprietà” in
via generale e con riferimento a una categoria di beni «identificabile per caratteristiche
intrinseche», i limiti così posti ineriscono alla struttura del diritto di proprietà privata sui beni che
appartengono alla categoria tipizzata dalla legge.
Sono «normali e connaturati alla proprietà» i limiti previsti dalla legge «che riguardino in modo
oggettivo “intere categorie di beni” e, perciò, interessino tutti i soggetti sottoponendoli in modo
indifferenziato ad un particolare regime giuridico, secondo le caratteristiche intrinseche del bene».
Si può trattare sia di “vincoli che riguardano i modi di godimento di intere categorie di beni” che di
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“vincoli che derivano dalla relazione che i beni hanno rispetto ad altri beni o a interessi pubblici
preminenti”.
Nel tipizzare una categoria di beni e nel dettarne il regime giuridico, la legge può introdurre limiti
così radicali da escludere, per i beni inclusi in quella categoria, il “diritto di proprietà privata”, pur
in precedenza ammesso da un’altra legge.
*VINCOLI EX LEGE : ad es. : 1) i “vincoli sui beni di interesse paesaggistico”; 2) i “vincoli sui beni culturali”;
3) i “vincoli cimiteriali” (con lo scopo di vietare la costruzione di edifici nel raggio di 200 m dal perimetro
cimiteriale, per ragioni igienico-sanitarie); 4) i “vincoli imposti dal codice della strada” (che individua delle
fasce di rispetto per le nuove costruzioni che fronteggiano la strada, per ragioni di sicurezza stradale); 5) o i
“vincoli di distanze minime tra le farmacie” (per garantire una loro corretta distribuzione sul territorio e
tutelare, così, le esigenze degli utenti).
della proprietà e per i quali non è previsto l’indennizzo), non potendosi dubitare che la funzione
sociale della proprietà richieda una disciplina dell’assetto dei centri abitati e dello sviluppo
urbanistico”. La Consulta ha anche specificato che sono «normali e connaturati alla proprietà i
limiti non ablatori posti nei “regolamenti edilizi” o nella “pianificazione e programmazione
urbanistica”» (come i limiti di altezza, di superficie coperta, le distanze tra gli edifici, ecc.).
Al concetto di “VINCOLI SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI” non possono poi essere
ricondotti gli “atti di pianificazione territoriale” che, individuando le aree suscettibili di
trasformazioni urbanistiche o edilizie, non vi ricomprendano determinate aree, destinate così
all’inedificabilità ( c.d. “vincoli di zonizzazione”) : infatti delle aree non ricomprese è sì esclusa
l’edificabilità, ma non in forza di un “vincolo imposto a titolo particolare su beni determinati” e
comportante l’inedificabilità assoluta. Quindi
non tutti i vincoli urbanistici che incidono in modo significativo sul contenuto del diritto di
proprietà sono “SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI” (tali da realizzare, cioè,
l’espropriazione non traslativa del diritto).
I VINCOLI SOSTANZIALMENTE ESPROPRIATIVI sono solo quelli che comportano «uno
svuotamento di rilevante entità del contenuto della proprietà, tramite l’imposizione,
immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti
l’inedificabilità assoluta».
Secondo la Corte, però, né i “vincoli urbanistici espropriativi in senso stretto” né “quelli
sostanzialmente espropriativi” sono immediatamente indennizzabili : occorre infatti che essi
«superino la durata determinata dal legislatore come limite alla sopportabilità del vincolo
urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene (colpito dal vincolo)». Secondo la
Consulta, dunque, la legge deve fissare la “durata dei vincoli urbanistici” e il termine di durata è
sufficiente a garantire la proprietà privata e si pone come garanzia alternativa all’indennizzo per
lo svuotamento del diritto di proprietà : quindi “temporaneità” e “indennizzabilità” sono tra loro
alternative.
Sia i “vincoli urbanistici espropriativi” che “quelli sostanzialmente espropriativi” possono essere
reiterati dalla pubblica amministrazione che li ha imposti (tenuta però a motivare le ragioni della
reiterazione), così come la loro durata temporale può essere prorogata dalla legge. Tuttavia
l’esercizio della potestà (amministrativa) di reiterare i vincoli o di quella (del legislatore) di
prorogarne nel tempo la durata produce nella pratica l’indeterminatezza temporale dei vincoli
urbanistici, che è una situazione «incompatibile con la garanzia della proprietà privata». Assume
dunque carattere patologico «l’indefinita reiterazione o la proroga sine die : in questi casi, superato
il periodo di durata tollerabile fissato dalla legge (c.d. "periodo di franchigia"), opera l’obbligo di
indennizzo».
Il legislatore ha stabilito - con l’art. 39 del “t.u. sulle espropriazioni” (d.p.r. 327 / 2001) che, “in
caso di reiterazione di un vincolo (sia esso “preordinato all’espropriazione”, sia esso
“sostanzialmente espropriativo”), l’amministrazione deve indennizzare il proprietario del suolo a
causa della diminuzione arrecata al suo diritto di proprietà ”. La previsione dell’indennizzo non
condiziona però la validità del provvedimento reiterativo del vincolo. L’indennizzo è commisurato
all’entità del danno effettivamente prodotto, e le contestazioni al riguardo sono devolute alla
giurisdizione del “giudice ordinario” e rimesse alla competenza della “Corte d’appello”. Non si
tratta dell’indennità cui il privato ha diritto per l’espropriazione in senso tecnico (che il vincolo, di
per sé, non realizza affatto), ma di un’indennità legata alla limitazione delle facoltà che integrano il
311
diritto di proprietà e alla diminuzione del valore di scambio delle aree gravate dal vincolo
reiterato.
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313
che è connotata dal fatto che l’intervento espropriativo avviene in funzione surrogatoria
dell’inerzia dei privati. Essendo questa la ragione dell’intervento autoritativo in funzione
espropriativa, si dovrebbe concludere che anche questo debba cessare in qualsiasi momento in cui i
privati si attivino per attuare il disegno pianificatorio generale : si dovrebbe ritenere cioè che anche
il procedimento espropriativo avviato dai Comuni in surrogazione dei privati inerti debba cessare -
oltre che nell’ipotesi (la sola tipizzata dalla legge) della “cessione volontaria dei beni espropriandi”
- anche nel caso in cui venga meno la sua particolare funzione.
L’art. 7 del “t.u. espropri” riconosce ai Comuni anche il potere di disporre l’espropriazione delle
costruzioni che divengano in contrasto con le destinazioni di zona impresse in sede di
“pianificazione generale”, e ciò per consentire l’attuazione delle previsioni del nuovo strumento
urbanistico : si tratta di una previsione normativa di dubbia ragionevolezza, poichè sancisce
l’espropriabilità anche di costruzioni che il proprietario utilizza e che sono state legittimamente
realizzate in attuazione della disciplina pianificatoria previgente.
*CALMIERATO = di cui la legge fissa il tetto massimo; contenuto. Fissare per legge un prezzo massimo di vendita.
* PIANO REGOLATORE GENERALE = il “piano regolatore generale comunale” è uno strumento urbanistico che regola
l'attività edificatoria all'interno di un territorio comunale, di cui ogni comune italiano deve dotarsi, ai sensi di legge. Può
essere adottato comunemente da più comuni; in questo caso si parla di piano regolatore generale intercomunale.
-CAPITOLO 4. LE ESPROPRIAZIONI-
della persona è fondamentale per determinare quali sono i limiti del “potere di sottrarlo al titolare” :
infatti la “Corte europea dei diritti dell’uomo”, pur riconoscendo che l’ingerenza dello Stato sul
diritto di proprietà è ammessa dall’art. 1 del Primo Protocollo della Cedu, afferma che la privazione
della proprietà può essere disposta solo alle condizioni previste dalla legge, e sempre che ricorrano
causa di pubblica utilità o scopi di interesse generale.
Nel nostro ordinamento, al contrario, il potere di disporre l’ablazione dell’altrui diritto di proprietà,
pur potendo essere esercitato in modo diretto dal legislatore (c.d. “espropriazione ope legis”), nella
maggior parte dei casi viene conferito ex lege ad un’amministrazione pubblica, per perseguire scopi
di interesse generale : per garantire la soddisfazione del creditore di fronte all’accertato
inadempimento del debitore; per realizzare scopi di pubblica utilità; per privare il proprietario di
cose che, provenendo da illeciti penali, mantengono viva l’idea del reato; quest’ultima figura di
sottrazione del diritto di proprietà, detta “confisca”, è disciplinata dal codice penale e colpisce beni
legati da un nesso indissolubile con il reato. L’espropriazione in funzione satisfattiva del creditore
trova il suo fondamento nel codice civile ed è disciplinata dal codice di procedura civile : essa
attiene all’attuazione coattiva (nell’esercizio di un potere processuale che si esercita con
l’esperimento dell’“azione esecutiva”) di un diritto ed è una sorta di sanzione che presidia il corretto
funzionamento dei rapporti obbligatori. L’espropriazione per il perseguimento di un fine di
pubblica utilità è invece compresa nell’ambito del diritto amministrativo, perché il potere di
disporla è attribuito dalla legge al soggetto istituzionalmente deputato alla cura dell’interesse
pubblico (ossia alla pubblica amministrazione) che esercita il potere per perseguire la sua funzione
istituzionale. Tratti comuni a queste figure di espropriazione sono : 1) la sottrazione autoritativa del
diritto di proprietà al suo titolare; 2) e l’attribuzione di quel diritto a un altro soggetto. Laddove si
realizzi, oltre all’ablazione di un diritto, anche il suo trasferimento in capo a un altro soggetto, si
individua la figura dell’ “ESPROPRIAZIONE TRASLATIVA”; le figure con cui si realizza la
sottrazione autoritativa di un diritto al suo titolare, ma non anche il trasferimento di quel diritto in
capo a un altro soggetto, si indicano invece con la locuzione di “ESPROPRIAZIONE NON
TRASLATIVA”.
In diritto amministrativo, la considerazione del profilo funzionale dei provvedimenti che realizzano
sia l’ablazione del diritto di proprietà sia il trasferimento del diritto in capo ad un altro soggetto per
il perseguimento, in via esclusiva, di fini di utilità pubblica, conduce a enucleare la categoria dei
“provvedimenti espropriativi traslativi in senso stretto”, che sono oggetto di una disciplina
legislativa uniforme. Questa terminologia viene usata per distinguere questi provvedimenti da altri
che solo in senso lato possono essere ricompresi nel novero degli atti espropriativi : ci riferiamo alle
figure attraverso cui si realizza la c.d. sottrazione autoritativa di un diritto al suo titolare e il
relativo trasferimento a un soggetto diverso : si pensi ad es., ai provvedimenti che determinano
l’acquisizione al patrimonio comunale delle opere realizzate senza il permesso edilizio (in effetti
tali atti, pur producendo sia l’ablazione del diritto di proprietà che il suo trasferimento in capo
all’amministrazione, sono qualificati ex lege come “provvedimenti sanzionatori”, dal momento che
il loro scopo non è quello di perseguire l’interesse generale, ma quello di reprimere gli abusi
edilizi).
La denominazione di “PROVVEDIMENTI ESPROPRIATIVI” (siano essi traslativi o non traslativi
del diritto di proprietà) è dunque attribuita dalla legge ai provvedimenti ablatori che sono
direttamente funzionalizzati al perseguimento di fini di pubblica utilità : è a questi provvedimenti
che si riferisce la Costituzione nel disporre che «la proprietà privata può essere, nei casi previsti
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dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale» (art. 42, 3°comma
Cost.). La norma, oltre che conferire copertura costituzionale al potere espropriativo, sancisce che il
suo esercizio è possibile solo nei casi previsti dalla legge (c.d. riserva di legge) e solo per il
perseguimento dell’interesse generale e l’espropriato deve essere indennizzato dell’ablazione
subita. Tale potere è attribuito dalla legge all’amministrazione e si esprime, dopo un articolato
procedimento amministrativo, in un provvedimento amministrativo : la legge disciplina sia il
procedimento espropriativo che il provvedimento che lo conclude. Il rispetto delle regole stabilite
dalla legge assurge a parametro di valutazione della “legittimità del provvedimento espropriativo”
(che pertanto può essere annullato dal giudice amministrativo ove accerti la violazione di queste
regole).
Inoltre, poiché l’art. 42 Cost. stabilisce che la proprietà privata può essere espropriata solo «per
motivi di interesse generale», una legge che prevedesse l’espropriabilità della proprietà privata per
motivi estranei all’interesse generale potrebbe essere espunta dall’ordinamento perché
incostituzionale. Infine, secondo la “Corte europea dei diritti dell’uomo” l’espropriazione per il
perseguimento di un fine di interesse generale non deve condurre ad un sacrificio irragionevole o
sproporzionato (intendendosi come irragionevole e sproporzionato il sacrificio subito dal
proprietario espropriato che si veda corrispondere, a titolo di indennizzo, una somma non adeguata).
*ART. 42, 2°comma Cost. = “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
316
*SPECIFICAZIONE = modo di acquisto della proprietà a titolo originario, per cui chi - lavorando sull’altrui materia prima
generica - ne trae una cosa nuova specifica, diventa proprietario di questa, pagando al proprietario della materia prima il
giusto prezzo.
3. L’espropriazione ope legis. L’art. 43 Cost. prevede che possa essere direttamente la
legge a disporre l’attribuzione a un soggetto determinato di un diritto di cui era già titolare un soggetto
diverso. La legge emanata in base all’art. 43 Cost. (che dispone essa stessa, cioè, l’espropriazione,
detta perciò “espropriazione ope legis”) è denominata “legge-provvedimento”. La Costituzione impone
al legislatore, che intenda disporre l’espropriazione di beni, una serie di limiti :
317
limiti funzionali, perché l’espropriazione ope legis può essere disposta solo per fini di utilità
generale;
limiti oggettivi, perché essa può avere ad oggetto (cioè possono essere trasferite) solo imprese o
categorie di imprese «che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a
situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale»;
limiti contenutistici, perché la legge che dispone l’espropriazione deve rispettare il diritto del
soggetto espropriato all’indennizzo.
espropriati solo previo accordo con la Santa Sede – nonché dei beni aperti al culto - che possono
essere espropriati solo previo accordo con la competente autorità religiosa).
Per quanto riguarda, invece, le competenze, l’art. 6 stabilisce come “regola generale” quella della
“concentrazione delle competenze” : l’autorità competente alla realizzazione di un’opera pubblica o
di pubblica utilità è competente anche ad emanare gli atti del procedimento espropriativo (necessario
per la sua realizzazione); l’art. 6 reca anche una disposizione di natura organizzatoria, per la quale le
amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti pubblici devono
organizzare un “ufficio per le espropriazioni" o, in alternativa, attribuire i relativi poteri a un ufficio già
esistente, cui va preposto un dirigente, deputato all’emanazione del provvedimento conclusivo del
procedimento. Infine, la norma contempla la possibilità, riconosciuta all’amministrazione titolare del
potere espropriativo, di delegare l’esercizio dello stesso a soggetti privati : ciò può accadere solo nel
caso in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità (per realizzare la quale è necessaria l’espropriazione)
debba essere necessariamente realizzata da un concessionario o da un contraente generale.
Secondo l’art. 3, il soggetto che dispone l’espropriazione e il soggetto «beneficiario
dell’espropriazione» non necessariamente coincidono : infatti il beneficiario può essere sia un
soggetto pubblico che un soggetto privato; l’art. 3 dispone poi che l’autorità competente a disporre
l’espropriazione può provvedervi di sua iniziativa o su richiesta di un terzo («promotore» : che può
essere anch’esso sia un soggetto pubblico che un soggetto privato).
L’art. 2 dispone che il “provvedimento espropriativo” può essere emanato dopo lo svolgimento di una
serie di procedimenti, che sono «ispirati ai principi di economicità, efficacia, efficienza, pubblicità e di
semplificazione dell’azione amministrativa» : beninteso, questi non sono i tradizionali principi atti a
guidare l’amministrazione nell’esercizio del relativo potere, ma sono i principi cui si è attenuto il
legislatore nel dettare la disciplina posta con il t.u.
E veniamo ad analizzare il procedimento che porterà all’adozione del “decreto di esproprio” : in
quest’ottica, l’art. 8 prevede e disciplina i “procedimenti che precedono l’emanazione del
provvedimento espropriativo”, suddividendoli in 3 sub-procedimenti :
319
anche essere determinata, ex art. 22 del t.u., nel “procedimento che conduce all’adozione del
provvedimento di espropriazione” : in particolare, ciò accade nei casi in cui, per ragioni di urgenza, ci
sia la necessità di determinare l’indennità senza il preliminare avvio di indagini o di altre formalità
burocratiche; quindi l’amministrazione provvederà, con un unico atto, sia a determinarne l’ammontare
dell’indennità che a disporre l’espropriazione).
Fatto ciò, si può procedere (entro il termine di efficacia della “dichiarazione di pubblica utilità”)
all’emanazione del “decreto di esproprio”.
Deve quindi ritenersi invalido il provvedimento conclusivo di una fase procedimentale emanato dopo
che sia decorso il “termine di efficacia” del provvedimento che conclude la fase anteriore : invalidità
che si ripercuote sul provvedimento conclusivo dell’intera sequenza (ossia sul “provvedimento
espropriativo”). Anche la mancanza di una fase vizia il procedimento e dà luogo all’illegittimità del
“provvedimento che dispone l’espropriazione”.
5. La cessione volontaria. L’art. 45 del t.u. del 2001 stabilisce che, una volta intervenuta
la “dichiarazione di pubblica utilità”, il procedimento espropriativo può concludersi anche con un atto
diverso dal “decreto di esproprio”, e precisamente con un atto bilaterale detto CESSIONE
VOLONTARIA : si tratta di atto con cui l’espropriando trasferisce la proprietà del suo bene in capo
al beneficiario e questo assume, nei confronti del primo, l’obbligazione di pagare una somma di
denaro entro un termine concordato dalle parti. La cessione volontaria è quindi un atto bilaterale in
cui sono riconoscibili i tratti tipici del “contratto a prestazioni corrispettive”; ed è importante
sottolineare che l’art. 45 riconosce in capo all’espropriando il “diritto di addivenire alla cessione
volontaria del suo bene”. Quindi se l’espropriando - dopo la “dichiarazione di pubblica utilità” e prima
che inizi il procedimento volto a determinare l’indennità provvisoria di espropriazione - decide di
avvalersi del “diritto alla cessione volontaria” e si giunge alla stipula dell’atto di cessione, non solo il
procedimento non potrà svolgersi (poiché si dovrà solo determinare la somma da corrispondere al
cedente), ma non potrà essere emanato neppure il “provvedimento di esproprio”.
Tuttavia, l’art. 45 stabilisce che la “cessione volontaria” è un atto che può essere stipulato anche dopo
l’emanazione del “decreto di esproprio”, purché non sia ancora intervenuta la sua esecuzione (che si
realizza con la redazione - entro il termine perentorio di 2 anni - del “verbale di immissione nel
possesso del bene”). Quanto detto ci fa comprendere, a contrario, che il “decreto di esproprio”, ove
emanato non produce effetti immediati, ma - finchè non viene eseguito - è sottoposto a una “condicio
iuris risolutiva”, poiché esso viene meno laddove, entro 2 anni (o comunque prima della redazione del
relativo verbale), l’espropriando decida di usufruire del diritto riconosciutogli dall’art. 45.
Poiché l’art. 45 qualifica come “diritto dell’espropriando” quello di giungere alla cessione
volontaria del suo bene, il soggetto beneficiario dell’espropriazione (l’amministrazione) versa in una
posizione di obbligo : obbligo di giungere alla stipula dell’atto di cessione.
Nel caso in cui l’espropriando abbia estrinsecato la volontà di avvalersi del suo “diritto alla cessione
volontaria” e abbia posto in essere tutti gli adempimenti posti a suo carico dalla legge, si deve
escludere che l’amministrazione sia libera di non stipulare l’atto di cessione e di decretare comunque
l’espropriazione, perché così lederebbe il “diritto dell’espropriando alla cessione volontaria del bene”.
L’art. 45 stabilisce che la “cessione volontaria” produce gli stessi effetti del “decreto di esproprio" : ciò
significa che l’atto bilaterale produce, innanzitutto, l’effetto di traslazione del diritto, con la differenza
non secondaria, però, che la “cessione volontaria” non è subordinata alla previa redazione del “verbale
di immissione nel possesso” (essendo, quest’ultima, una “condizione sospensiva” prevista per il solo
320
321
*ART. 9 = Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all'esproprio quando diventa efficace l'atto di approvazione del
“piano urbanistico generale”, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica
utilità.
Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento
che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera.
Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell'opera, il vincolo preordinato all'esproprio decade.
Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato.
*ART. 10 = 1. Se la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità non è prevista dal piano urbanistico generale,
il vincolo preordinato all'esproprio può essere disposto mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma,
un’ intesa ovvero un altro atto che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico.
322
*ACCORDO DI PROGRAMMA = convenzione tra enti territoriali (regioni, province o comuni) ed altre amministrazioni
pubbliche mediante la quale le parti coordinano le loro attività per la realizzazione di opere, interventi o programmi di
intervento.
urgenza nell’avvio dei lavori da eseguire) o può essere un procedimento che deroga per molti aspetti
alle regole stabilite per quello ordinario (e che si svolge se c’è l’urgenza).
Il PROCEDIMENTO ORDINARIO (disciplinato dall’art. 20 del t.u. del 2001) prende avvio su
iniziativa dell’autorità espropriante che, dopo aver compilato l’ “elenco dei beni da espropriare” (e dei
relativi proprietari), deve notificare lo stesso ai proprietari (ovviamente, solo per la parte che li
riguarda). Fatto ciò, agli interessati (i proprietari inclusi nell’elenco) è concessa la possibilità di
presentare, entro un termine perentorio (che comincia a decorrere dal momento della notificazione)
osservazioni scritte e documenti. Non solo : ove lo ritenga opportuno, l’autorità può anche invitare il
proprietario (incluso nell’elenco) o il beneficiario dell’espropriazione (se diverso dall’autorità
espropriante) a indicare quale sia, a suo avviso, il “valore dell’area da espropriare”.
Successivamente, l’autorità espropriante accerta il valore dell’area e determina, in via provvisoria, la
“misura dell’indennità”, notificandone – tramite ufficiale giudiziario – l’atto al proprietario (nonché al
beneficiario, se diverso dall’autorità espropriante).
A questo punto il proprietario espropriando può manifestare - entro il termine perentorio di 30 giorni
dalla notificazione della determinazione dell’indennità provvisoria - la propria accettazione (e la sua
dichiarazione è irrevocabile) oppure non dichiarare nulla : in quest’ultimo caso, la determinazione
dell’indennità si intende “non concordata”. Se l’espropriando resta inerte (così che la determinazione
dell’indennità provvisoria si intende da lui non condivisa) il procedimento espropriativo prosegue :
l’amministrazione, nei successivi 30 giorni, provvede a depositare la somma calcolata in sede di
determinazione dell’indennità provvisoria e ad emanare il “decreto di esproprio”.
Però, fino a quando il decreto non trova esecuzione, il proprietario può sempre decidere di esercitare il
suo “diritto alla cessione volontaria”.
Al contrario, ove il proprietario decida di accettare l’indennità provvisoria (comunicando tale scelta
all’autorità), il procedimento espropriativo si blocca e si producono i seguenti effetti :
1) l’indennità provvisoria si cristallizza, in quanto appunto condivisa e accettata;
2) nasce l’obbligo, in capo al proprietario, di acconsentire all’immissione nel possesso del suo
bene da parte dell’amministrazione;
3) nasce l’obbligo, sempre in capo all’espropriando, di depositare gli “atti che comprovano la
sua proprietà sul bene” : obbligo dal cui adempimento deriva il suo diritto a vedersi
corrisposto, nei successivi 60 giorni, l’intero importo dell’indennità.
da esporlo al risarcimento del danno arrecato alla controparte) solo quando egli abbia percepito la
somma a lui spettante a titolo di indennità. Inoltre, nel caso di ingiustificato rifiuto del proprietario di
stipulare la cessione volontaria, il “decreto di esproprio” può essere comunque emanato.
Tuttavia l’art. 20, comma 11 del t.u. dispone che l’amministrazione può procedere all’emanazione e
all’esecuzione del “decreto di esproprio” anche qualora il proprietario abbia manifestato la volontà di
esercitare il suo diritto di addivenire alla cessione volontaria (ed abbia anche eseguito tutti gli obblighi
posti a suo carico). Il tenore di questa norma, però, è fuorviante, perchè sembrerebbe configurare la
stipula dell’ “atto di cessione volontaria”, da parte del beneficiario dell’espropriazione, come una mera
facoltà (cosa inconciliabile con la qualificazione in termini di diritto della posizione
dell’espropriando) : quindi bisogna ritenere che lex minus dixit quam voluit (la legge ha detto meno di
quanto ha voluto; c.d. interpretazione estensiva) e concludere che l’amministrazione possa disporre
comunque l’espropriazione solo quando, valutate le circostanze del singolo caso, ritenga che la
“cessione volontaria” non possa essere stipulata con la celerità occorrente in relazione all’urgenza
dell’esecuzione dei lavori.
325
326
di inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità”, che si produrrebbe in tutti i casi in cui non si dia
esecuzione al “decreto di esproprio” entro il termine della sua efficacia (ossia entro i 2 anni).
Gli artt. 46 e 47 t.u. disciplinano, invece, l’istituto della RETROCESSIONE (o “restituzione”) – totale
o parziale – DEI BENI ESPROPRIATI. In particolare, quanto alla RETROCESSIONE TOTALE,
l’art. 46 t.u. stabilisce che “se entro 10 anni dall’esecuzione del “decreto di esproprio” l’opera pubblica
(o di pubblica utilità) non viene realizzata (e neppure iniziata) oppure se anche prima dei 10 anni
risulta l’impossibilità della sua realizzazione, l’espropriato può chiedere che venga dichiarata la
“decadenza della dichiarazione di pubblica utilità”, che il bene espropriato gli venga restituito e che
gli sia corrisposta un’indennità. La “retrocessione totale” configura per il soggetto inutilmente
espropriato un vero e proprio diritto. Il fondamento della retrocessione totale deve rinvenirsi in ciò :
dato che l’espropriazione del bene era stata disposta per realizzare un’opera, e questa non è stata
iniziata o è stata, in ogni caso, accertata l’impossibilità della sua realizzazione, viene meno la causa
dell’espropriazione e, quindi, il soggetto che l’ha subita ha “diritto a vedersi restituito il bene” di cui
era stato privato, oltre che ad essere indennizzato per la limitazione inutilmente patita della sua sfera
patrimoniale.
Diverso è invece il fondamento giuridico della RETROCESSIONE PARZIALE : l’art. 47 t.u. dispone
che se l’opera pubblica (o di pubblica utilità) è stata realizzata, ma una parte del bene non è stata
utilizzata, l’espropriato può chiedere la restituzione di questa parte (inutilizzata). Tuttavia, affinchè la
retrocessione parziale possa operare, occorre che il beneficiario dell’espropriazione individui i beni
che, non essendo funzionali alla realizzazione dell’opera, possono essere ritrasferiti all’espropriato :
quest’ultimo, però, per ottenerne la restituzione, deve versare una somma di denaro a titolo di
corrispettivo. Dunque, la ratio della retrocessione parziale va rinvenuta nel “principio di
proporzionalità”, poiché il sacrificio imposto all’espropriato non è proporzionato all’esigenza di
pubblico interesse : l’opera pubblica è stata eseguita, ma per la sua realizzazione è stata espropriata
un’area di dimensioni eccessive. E’ però irragionevole che l’espropriato, per ottenere il ritrasferimento
del bene, debba corrispondere all’amministrazione una somma di denaro a titolo di «corrispettivo» :
giustificabile è solo il fatto che egli debba restituire l’ “indennità di espropriazione” percepita per la
porzione di area che gli viene restituita. Altrettanto irragionevole è l’art. 48 t.u., che al 3°comma
stabilisce che, sui beni suscettibili di essere retrocessi all’espropriato, e dopo che questo abbia avviato
il procedimento per ottenerne la restituzione, il Comune nel cui territorio si trovano i beni ha su di essi
il diritto di prelazione : tale diritto non ha alcuna ragion d’essere, poiché non si comprende perché il
Comune debba essere posto in posizione privilegiata, soprattutto se si considera che ciò andrebbe a
scalfire la posizione dell’espropriato, che ha tutto l’interesse a vedersi restituito quanto gli è stato tolto
inutilmente (attraverso l’espropriazione).
*DIRITTO DI PRELAZIONE = diritto ad essere preferito, rispetto ad un altro soggetto a parità di condizioni, nella costituzione
di un negozio giuridico.
327
22-bis t.u.) consiste nell’occupazione anticipata (rispetto al normale iter) dei beni da espropriare :
l’espropriante può occupare l’area prima dell’emissione del “decreto di esproprio” (vale a dire, prima
di acquisirne la proprietà). L’“occupazione d’urgenza” è disposta con un “decreto”, che consente
l’immissione nel possesso dei beni espropriandi prima dell’emanazione del “decreto di esproprio” e
che sottrae quindi al proprietario il possesso (non anche la proprietà) dei beni. Comportando
un’anticipata immissione nel possesso dei beni, questo istituto può essere usato solo nei casi indicati
dall’art. 22-bis, e cioè :
qualora l’avvio dei lavori sia particolarmente urgente e tale da non consentire l’applicazione
del “procedimento ordinario di determinazione dell’indennità provvisoria” ex art. 20 t.u.; [1°comma
dell’art. 22-bis];
per gli interventi (opere strategiche) di cui alla “legge-obiettivo” (L. 443 / 2001 ); [2°comma
dell’art. 22-bis];
quando il numero dei destinatari della procedura espropriativa sia superiore a 50 ; [2°comma
dell’art. 22-bis];
In tutti questi casi, può essere emanato – senza particolari indagini o formalità – un “decreto” che
determina, in via provvisoria, l’indennità di espropriazione e che dispone l’occupazione anticipata
dei beni. Il “decreto” che dispone l’occupazione d’urgenza deve essere motivato e deve contenere la
determinazione provvisoria dell’ “indennità di espropriazione” (la mancanza di questi elementi incide
sulla legittimità del provvedimento). La motivazione deve dar conto della sussistenza delle “condizioni
indicate dall’art. 22-bis”, dato che solo in presenza di queste l’amministrazione può disporre
l’occupazione d’urgenza. Tuttavia, la giurisprudenza ritiene che, nelle ipotesi indicate dal 2°comma, la
motivazione non sia necessaria, perché il legislatore avrebbe effettuato esso stesso, riguardo ad esse, la
valutazione della “sussistenza delle condizioni per procedere all’occupazione d’urgenza”. Il Consiglio
di Stato, in particolare, ritiene che sia stata la norma - nella parte in cui consente l’occupazione
d’urgenza se il numero degli espropriandi è superiore a 50 - a valutare che «l’espletamento del
procedimento ordinario di determinazione dell’indennità di espropriazione per un numero così alto di
destinatari ritarderebbe troppo l’effettiva esecuzione delle opere». Ma dalla formulazione letterale
della norma si ricava solo che l’alto numero di espropriandi potrebbe (nel singolo caso) essere tale da
ritardare l’effettivo avvio dei lavori ove nei confronti di ciascuno dovesse seguirsi il “procedimento
ordinario di determinazione dell’indennità provvisoria”. Alla valutazione compiuta in astratto dalla
legge deve seguire una valutazione in concreto (relativa, cioè, al singolo caso) da parte
dell’amministrazione, poiché è necessario che questa verifichi se effettivamente, in relazione alla
specifica situazione considerata, l’elevato numero di espropriandi sia tale da ritardare l’avvio dei
lavori. Quindi, questo orientamento giurisprudenziale non è giustificato dal tenore letterale della
norma, che semplicemente facultizza l’amministrazione all’immissione anticipata nel possesso dei beni
espropriandi e rimette a questa l’effettuazione di una scelta : che, come tutte le scelte discrezionali
riservate all’amministrazione deve essere motivata.
simbolico) del sacrificio imposto al privato in forza dell’espropriazione del suo bene, per la sua
determinazione il legislatore ha introdotto criteri così restrittivi e penalizzanti per i proprietari
espropriati da escludere che l’“indennità” corrispondesse a un serio ristoro dei beni espropriati. Basti
pensare, al riguardo, che il d.p.r. 327 / 2001 (Testo unico delle espropriazioni) - richiamando l’art. 5-
bis del d.l. 333 / 1992 - prevedeva, in origine, quanto segue :
Tuttavia la Corte costituzionale ha per lungo tempo avallato (*approvato) le scelte del legislatore. Nel
1993 la Corte ha affermato che la disciplina dei criteri di quantificazione dell’indennità di
espropriazione delle aree edificabili è rispettosa del «canone di adeguatezza dell’indennità» ex art. 42,
3° comma Cost. Secondo la Corte l’indennizzo, per essere serio, non può essere sganciato dal “valore
venale del bene”, ma non può neppure corrispondervi; e poiché l’art. 5-bis assumeva come parametro
per la quantificazione dell’indennizzo relativo alle aree edificabili il “valore venale del bene”, la
disciplina non era incostituzionale nemmeno quando la norma disponeva che il parametro
rappresentato dal valore venale si combinasse con altri elementi, da essa indicati, in modo tale da
determinarne l’abbattimento dei 2/3. Secondo la Corte «l’indennizzo resta serio, sufficiente e congruo,
in quanto pur sempre agganciato al valore del bene». Nel 1997 la Corte ha affermato che un’identica
disciplina - per la “determinazione dell’indennità di esproprio” – sia per le aree agricole sia per le aree
non edificabili non è irragionevole, e neppure viola un serio ed effettivo ristoro del proprietario, poiché
è ancorata al “valore agricolo medio”.
Davanti all’avallo che la Corte costituzionale aveva fornito alle scelte legislative, gli espropriati che
ritenevano di aver subito una lesione del diritto di proprietà (che integra un diritto fondamentale
secondo la CEDU) a causa di un’indennità così esigua da rappresentare un ristoro meramente
simbolico del sacrificio loro imposto, si sono rivolti alla Corte di Strasburgo, che in più occasioni ha
accertato la «sistematica violazione» da parte dell’Italia del “diritto al rispetto dei beni” garantito dalla
Convenzione, perché con le sue leggi non consentiva un serio ristoro dell’espropriazione subita.
La Corte costituzionale, nuovamente investita - dopo la pronuncia della Corte europea Scordino c.
Italia del 2006 - della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni recate dall’art. 5-bis in
relazione alle aree edificabili, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nel 2007 (per la violazione
dell’art. 117, 1°comma Cost., che impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) : e poiché le disposizioni dell’art. 5-bis
relative alla quantificazione dell’indennità per le aree edificabili erano state riprodotte nell’art. 37 del
“t.u. espropri”, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche di queste disposizioni. Solo
nel 2011 poi la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni dell’art. 5-bis
relative alla determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree agricole e per quelle non
edificabili, accertando che «il criterio stabilito è astratto ed esclude il legame con il valore di mercato,
prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo» : nella stessa pronuncia si è dichiarata
329
l’incostituzionalità dell’art. 40 del “t.u. espropri” (che riproduceva la disciplina dell’art. 5-bis).
Le pronunce della Corte costituzionale non travolgono però il complessivo impianto del t.u. riguardo
alla “DETERMINAZIONE DELL’INDENNITÀ DI ESPROPRIO”. Dalla giurisprudenza della Corte
di Strasburgo emerge che l’“indennizzo” rappresenta un serio ristoro se viene determinato assumendo
come parametro non il mero valore venale, ma il valore effettivo che il singolo bene espropriato ha per
il suo proprietario (anche a causa dell’utilizzo che egli ne faccia e della possibilità, per lui, di reperirne
un altro equivalente).
Il t.u. pone innanzitutto le “regole generali” che presiedono alla quantificazione dell’indennità,
disponendo che essa va quantificata in base alle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di
cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio; deve essere valutata l’incidenza dei vincoli non
espropriativi gravanti sul bene, mentre non va considerata l’incidenza del “vincolo che lo ha
preordinato all’espropriazione”, né vanno considerate le migliorie apportatevi all’evidente scopo
di aumentare l’indennità (art. 32).
Per la concreta quantificazione dell’indennità, si distinguono :
330
incostituzionalità anche alla norma che - per le aree agricole adibite ad uso agricolo - stabilisce si
tenga conto, oltre che del valore agricolo medio, anche delle colture praticate e dei manufatti
esistenti. La lacuna che la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40 ha indotto nella disciplina
della determinazione dell’indennità di espropriazione dovrà essere colmata dal legislatore : che, ove
volesse attenersi ai principi affermati dalla Corte di Strasburgo, dovrebbe imporre che l’indennizzo
vada fissato in relazione al valore effettivo (e non solo venale) dei beni espropriati.
Le AREE LEGALMENTE EDIFICATE : se si tratta di area legalmente edificata,
l’indennità era (ed è) pari al “valore venale del bene” (art. 38). Questo non significa, però, che
l’indennità rappresenti un serio ristoro del sacrificio imposto al proprietario, perché la norma non
impone di tener conto della sua specificità : infatti il sacrificio può essere particolarmente
consistente per il proprietario, in relazione all’uso che egli faccia del suo bene. Ed è l’effettiva
dimensione del sacrificio (indotta dalla specificità della singola proprietà espropriata) che la Corte
di Strasburgo impone di considerare affinché l’indennizzo rappresenti un serio ristoro. Nella
giurisprudenza della Corte EDU infatti prevale una visione funzionale della proprietà, capace di
vedere il bene non in base alla sua oggettiva rilevanza economica, ma in base all’uso che ne fa il
proprietario.
*REDDITO DOMINICALE = il reddito dominicale è l’entrata che proviene dalla proprietà di un terreno. Quando si parla di
“reddito dei terreni” è bene distinguere fra reddito agrario e reddito dominicale. Mentre, infatti, il REDDITO AGRARIO
indica quella parte di reddito fondiario proveniente dall’esercizio dell’attività agricola, il REDDITO DOMINICALE è quello
relativo esclusivamente alla proprietà.
l’amministrazione avesse disposto l’acquisizione del bene al suo patrimonio. Quindi l’art. 43
precludeva definitivamente la possibilità di configurare come causa dell’acquisto della proprietà di
un bene in capo all’amministrazione il fatto che questa lo utilizzi e che l’abbia irreversibilmente
trasformato pure quando il provvedimento espropriativo è inefficace, inesistente o oggetto di
accertamento giudiziale di invalidità. L'art. 43 era una norma che estrinsecava le regole generali
(imposte dai precetti costituzionali, convenzionali e comunitari) applicabili quando il bene, pur
occupato o anche trasformato per scopi di pubblica utilità, non fosse mai uscito dalla proprietà
privata, perché non c’era stato un valido ed efficace provvedimento espropriativo o perché il
provvedimento che ne disponeva l’espropriazione era stato annullato giudizialmente.
Sennonché la Corte costituzionale nel 2010 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 43 per avere il
legislatore delegato (cioè è il legislatore del t.u. espropri) ecceduto dai limiti impostigli dalla legge -
delega, che era stata conferita «per il riordino e il coordinamento delle disposizioni vigenti,
apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza della normativa» : secondo la Corte
l’istituto era connotato da numerosi aspetti di novità ed eccedeva, perciò, dai limiti della delega.
Così, la pronuncia della Corte costituzionale ha indotto il legislatore a intervenire per colmare la
lacuna e nel 2011 è stato introdotto nel t.u. espropri l’art. 42-bis, rubricato «utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». La nuova norma riproduce l’impianto dell’art. 43,
delineando però con maggiore precisione i presupposti in presenza dei quali l’amministrazione può
disporre che sia acquisito al suo “patrimonio indisponibile” un bene da essa usato per scopi di
interesse pubblico, che sia stato modificato senza un valido o efficace “provvedimento di esproprio”
o “dichiarativo di pubblica utilità”, oppure in forza di un provvedimento di esproprio, di un
vincolo espropriativo o di una dichiarazione di pubblica utilità che siano stati oggetto di
caducazione giudiziale. La norma dispone che l’acquisto si produce in forza di questo
“provvedimento” e il privato (nei cui confronti sia emanato il “provvedimento che dispone
l’acquisto del bene”) ha diritto alla corresponsione di un indennizzo per il ristoro del pregiudizio sia
patrimoniale che non patrimoniale subito. Il “danno non patrimoniale” va liquidato in via forfetaria
(*in misura prestabilita), assumendo come parametro il valore venale del bene. Anche l’indennizzo
per il “pregiudizio patrimoniale” subito va determinato in misura corrispondente al valore venale
del bene.
L’art. 42-bis specifica che il “provvedimento che dispone l’acquisizione del bene” deve indicare le
circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione del bene e deve recare la liquidazione
dell’indennizzo dovuto al proprietario (che deve essere a lui pagato nei 30 giorni successivi). Esso
può essere emanato solo se sussistono attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che
giustificano che il bene - anziché essere restituito al proprietario - venga acquisito
dall’amministrazione e sempre che queste eccezionali ragioni, valutate con gli interessi contrapposti
del proprietario, siano ritenute “prevalenti” : di ciò l’amministrazione deve dare conto in sede di
motivazione del “provvedimento che dispone l’acquisizione”.
La disciplina risolve definitivamente il problema indotto dal riconoscimento, con l’espropriazione
c.d. indiretta, di un modo di acquisto della proprietà per fatto illecito : infatti essa poggia sul
presupposto che l’ “espropriazione indiretta” è un illecito, come tale fonte del diritto del
danneggiato a essere ristorato del pregiudizio patito. Non è invece del tutto soddisfacente (perché
non pienamente allineata alla giurisprudenza della Corte europea) la disciplina dettata per il ristoro
del danneggiato : l’indennizzo a lui spettante per il “danno patrimoniale” subito viene infatti
ancorato al valore venale del bene, mentre quello spettante per il “danno morale” è determinato
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dalla legge forfetariamente, sempre in base al valore venale. Ma il parametro del “valore venale”
non è sufficiente, perché il risarcimento del danno patrimoniale deve coprire il pregiudizio
effettivamente patito, e il risarcimento del danno morale è liquidabile in via equitativa (e non
meramente forfetaria).
*A FORFAIT = prestabilito.
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