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Riassunto diritto amministrativo scoca 23

Diritto Amministrativo (Università degli Studi di Teramo)

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- DIRITTO AMMINISTRATIVO -
- a cura di Franco Gaetano Scoca -

-PARTE 1. AMMINISTRAZIONE
- PARTE E CITTADINO-
1. AMMINISTRAZIONE E CITTADINO -

CAPITOLO 1. NOZIONI INTRODUTTIVE.


1. La pubblica amministrazione. Il complesso degli uffici cui è demandata la
cura degli interessi pubblici e a cui sono conferiti i relativi doveri e poteri costituiscono la
“pubblica amministrazione”. La P.A. si articola in enti territoriali (Stato, Regioni, Province,
Città metropolitane e Comuni) che costituiscono l’ossatura fondamentale dell’apparato
amministrativo. Accanto a questi enti, c’è un nutrito numero di altri enti pubblici funzionali,
perché finalizzati allo svolgimento di determinate funzioni amministrative.
Mario Nigro ha sostenuto che i modelli di amministrazione emergenti dalle varie norme
costituzionali sono 3, e sono tra loro confliggenti : l’amministrazione si presenterebbe
alternativamente come “apparato servente del Governo” (sulla scorta dell’art. 95 Cost.),
come “complesso autocefalo”, non subordinato al potere politico, ma regolato direttamente
dalla legge (sulla base degli artt. 97 e 98 Cost.) o come “modello autonomistico e
comunitario” (sulla base dell’art. 5 e degli artt. 114 ss. Cost.). Eppure un modello unico di
amministrazione pubblica può ricavarsi dalla Costituzione, se si prende in considerazione
l’intero testo costituzionale, dando peso agli articoli relativi ai principi fondamentali.
Un presupposto necessario da cui partire è la distinzione tra GOVERNO e
AMMINISTRAZIONE. Si è così operata una scissione fondamentale nella “funzione
esecutiva”, propria degli organi del potere esecutivo. La FUNZIONE DI GOVERNO
(fondata sul “principio democratico”) consiste nella determinazione dell’indirizzo politico-
amministrativo, nell’individuazione degli obiettivi da raggiungere e nella valutazione dei
risultati raggiunti. Tale funzione è affidata agli organi di governo, che sono presenti in tutti
gli enti territoriali. La FUNZIONE AMMINISTRATIVA, invece, consiste in un’attività di
gestione, consistente nella cura concreta degli interessi pubblici, ispirata ai principi del buon
andamento e dell’imparzialità e finalizzata al raggiungimento degli obiettivi fissati dagli
organi di governo. Dunque, la scelta degli obiettivi da raggiungere è operata dagli organi di
governo, che devono ispirarsi, per il principio democratico, agli orientamenti delle forze di
maggioranza, e ai quali pertanto non può applicarsi il principio di imparzialità. Invece
l’azione diretta al raggiungimento degli obiettivi, mediante attività concreta, amministrativa,
spetta agli organi amministrativi, che devono attenersi ai principi di imparzialità e buon
andamento. Ne deriva che “funzione di governo” e “funzione amministrativa” sono diverse
e rispondono a principi costituzionali diversi; ciascuna ha apparati ad essa dedicati :
l’apparato amministrativo deve essere autonomo dall’apparato di governo; le relazioni tra i
due apparati sono improntate a collaborazione, e non a subordinazione; il personale
dell’apparato di governo è di estrazione politica, quello dell’apparato amministrativo è
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tecnico. L’amministrazione allora può essere considerata come un’articolata struttura


tecnica, autonoma rispetto agli organi di governo, ma ad essi collegata.

2.L’integrazione amministrativa nell’Unione europea. L’ “integrazione


europea” risale al Trattato di Roma (1957) e inizialmente aveva un ruolo rilevante in settori limitati.
Nel corso dei decenni, con le modifiche apportate dai Trattati successivi, la missione dell’Unione si
è estesa anche a funzioni amministrative. Cosicchè, da un lato, l’Unione si è dotata di ampi
apparati amministrativi e, dall’altro, si è formato un sistema amministrativo integrato tra Unione e
Stati membri, che è stato indicato come “AMMINISTRAZIONE COMUNE
DELL’ORDINAMENTO EUROPEO”. Il continuo ampliamento dei settori di intervento
comunitario (alcuni di competenza esclusiva, altri di competenza concorrente con quella degli Stati
membri) ha comportato un rilevante ampliamento dell’organizzazione amministrativa comunitaria,
che fa capo non solo alla Commissione, ma anche al Consiglio (dei ministri) e al Parlamento
europeo e si articola in “uffici interni di tali organi di vertice” e in numerosi “comitati” e “agenzie”
con rapporti di dipendenza/autonomia rispetto agli organi fondamentali. Anche a causa del dovere
di leale cooperazione tra gli Stati, si sono creati organismi di raccordo tra plessi organizzativi
comunitari e plessi organizzativi statali, tali da far pensare a un sistema organizzativo integrato.
Nello svolgimento dell’azione amministrativa spesso funzioni proprie dell’amministrazione
nazionale sono state trasferite agli organi dell’Unione, cosicchè, per le materie di competenza
comunitaria e concorrente, le amministrazioni italiane, da un lato, operano per la preparazione
istruttoria delle decisioni comunitarie (c.d. fase ascendente) e, dall’altro, si occupano
dell’attuazione nell’ordinamento interno delle decisioni comunitarie (c.d. fase discendente).
Inoltre molte attività rimaste proprie delle amministrazioni interne sono soggette a discipline
comunitarie (ad es. la disciplina dei contratti di appalto, pur essendo contenuta in testi normativi
nazionali, è ispirata da direttive comunitarie).

3. L’oggetto e i caratteri del diritto amministrativo. Il diritto


amministrativo è la branca del diritto pubblico che ha ad oggetto l’apparato amministrativo (profilo
dell’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA), l’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA e la
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA).

4. Le fonti normative. La Costituzione stabilisce che “I pubblici uffici sono organizzati


secondo disposizioni di legge” (art. 97 ), ponendo in tal modo una riserva relativa di legge che, pur
riguardando espressamente solo l’organizzazione degli uffici, è stata interpretata estensivamente,
includendovi anche l’attività amministrativa. Invece per la giustizia amministrativa la riserva è
assoluta in base all’art. 101 Cost.
Le fonti-atto sono le stesse delle altre branche del diritto : la Costituzione, i Trattati comunitari, le
fonti comunitarie derivate (regolamenti, decisioni, direttive), le leggi (statali e regionali), i
regolamenti e infine le fonti interne ai singoli enti (come gli statuti e i regolamenti interni).
La validità delle leggi può essere valutata in più modi : il contrasto con le disposizioni costituzionali
va valutato dalla Corte costituzionale; il contrasto con le disposizioni comunitarie comporta la
disapplicazione della legge interna confliggente; il contrasto con la CEDU, come interpretata dalla
Corte di Strasburgo, va apprezzato dalla Corte Costituzionale.
I regolamenti sono atti amministrativi, anche se hanno un contenuto normativo; pertanto, ove
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vengano ritenuti illegittimi, possono essere impugnati davanti al giudice amministrativo.


La disciplina del diritto amministrativo risponde al PRINCIPIO DI LEGALITA’: l’organizzazione
e l’attività delle amministrazioni devono essere conformi alle leggi e alle altre fonti normative. Il
principio di legalità può essere inteso in senso formale (l’atto-fonte deve autorizzare l’atto
dell’amministrazione, quindi le deve dare il potere di compierlo) o sostanziale (l’atto-fonte, oltre ad
autorizzare l’atto dell’amministrazione, ne deve dettare anche la disciplina sostanziale,
vincolandone il contenuto). I rapporti tra le fonti rispondono ai criteri della GERARCHIA e della
COMPETENZA, il primo basato sulla forza delle fonti, il secondo basato sulla distinzione degli
organi cui è affidato il potere di porle in essere.

*PLESSO : struttura costituita da un insieme di organi che svolgono attività affini.

*RISERVA RELATIVA DI LEGGE : i principi sono stabiliti dalla legge; le fonti secondarie
possono intervenire con la normativa di dettaglio.

*RISERVA ASSOLUTA DI LEGGE : la materia deve essere regolata interamente dalla


legge (e non da una fonte secondaria, ad es. un regolamento).

5. Fonti. Le FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO sono tutti gli atti e i fatti che
producono norme giuridiche che vanno a disciplinare il sistema della pubblica amministrazione :
Costituzione, leggi (statali e regionali), regolamenti (atti normativi secondari), fonti comunitarie.
I REGOLAMENTI (fonti secondarie) sono lo strumento attraverso cui il Governo e le altre autorità
amministrative esercitano la loro potestà normativa. Tali regolamenti, ove dovessero presentarsi in
contrasto con norme di legge, potranno essere annullati dal giudice amministrativo.
I regolamenti sono atti formalmente amministrativi, ma a contenuto normativo (cioè contengono
precetti generali e astratti in grado di innovare l’ordinamento giuridico). Ciò li differenzia dagli
ATTI SOGGETTIVAMENTE AMMINISTRATIVI, che si distinguono in : 1) ATTI
AMMINISTRATIVI GENERALI (atti non normativi, attraverso cui si predispone una disciplina
giuridica che può anche derogare alle disposizioni contenute nella fonte normativa : ad es. i bandi di
gara); 2) ATTI AMMINISTRATIVI PARTICOLARI (che esplicano la loro efficacia nei confronti
di specifici soggetti : ad es. i provvedimenti amministrativi). Gli atti generali e gli atti particolari
non sono fonti del diritto amministrativo.

I REGOLAMENTI AMMINISTRATIVI sono atti generali e astratti provenienti da organi


dell’amministrazione (statale, regionale o altri enti pubblici) attraverso cui l’amministrazione
competente disciplina determinate materie o il proprio funzionamento. Si distinguono in :

 REGOLAMENTI GOVERNATIVI : disciplinati dall’art. 17, 1° comma della L. 400 / 1988,


sono emanati con D.P.R., previa delibera del Consiglio dei ministri e sentito il parere del
Consiglio di Stato, per disciplinare : 1) l’esecuzione di leggi, decreti legislativi o di
regolamenti comunitari (c.d. regolamenti esecutivi); 2) l’attuazione o l’integrazione di leggi
e decreti legislativi che recano norme di principio (c.d. regolamenti attuativi o integrativi);
3) le materie non disciplinate dalla legge o dagli atti con forza di legge, sempre che non si
tratti di materie sottoposte a riserva di legge (c.d. regolamenti indipendenti); 4)

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l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche (c.d. regolamenti di


organizzazione e di funzionamento).
 REGOLAMENTI DI DELEGIFICAZIONE : disciplinati dall’art. 17, 2° comma della L.
400 / 1988, emanati con D.P.R., previa delibera del Consiglio dei ministri, sentito il
Consiglio di Stato e il previo parere delle Commissioni parlamentari competenti in materia;
sono emanati per disciplinare le materie, non coperte da riserva assoluta di legge, per le
quali le leggi, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare di matrice governativa,
determinano le norme regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme di
legge vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari. La delegificazione
infatti è il potere del legislatore di affidare una determinata materia (già disciplinata dalla
legge) alla competenza normativa del potere esecutivo, con conseguente abrogazione delle
norme di legge e loro sostituzione da parte di norme di rango secondario.
 REGOLAMENTI MINISTERIALI e INTERMINISTERIALI : disciplinati dall’art. 17,
3°comma della L. 400 / 1988; vengono emanati con decreto ministeriale o interministeriale.
Essi possono essere adottati, nelle materie di competenza del ministro, solo ove la legge
conferisca espressamente tale potere (ma non possono dettare norme contrarie a quelle
contenute nei regolamenti governativi).
 REGOLAMENTI DI RIORDINO : disciplinati dall’art. 17, comma 4-ter; con essi si
provvede al periodico riordino delle norme regolamentari vigenti.

Altre fonti secondarie sono gli STATUTI e i REGOLAMENTI degli enti locali (non le Regioni,
però !). Gli STATUTI sono atti normativi che regolamentano l’organizzazione, il
funzionamento dell’ente locale e le linee fondamentali della sua attività. Il T. U. degli enti locali
(d.lgs. 267 / 2000) dispone che lo statuto deve essere approvato con una maggioranza qualificata
dei 2/3 dei consiglieri o, in caso di mancata approvazione, con il voto favorevole della
maggioranza dei consiglieri (da ripetersi due volte). Questo con riferimento alla potestà
normativa degli enti locali (comuni, province, città metropolitane).
Lo statuto regionale invece è un atto normativo primario (quindi è allo stesso livello della
legge), a differenza degli statuti provinciali o comunali che sono appunto atti normativi
secondari. L’approvazione dello statuto regionale è di competenza del Consiglio regionale.
Mentre lo statuto ordinario è adottato e modificato con legge regionale, lo statuto speciale è
adottato e modificato con legge costituzionale.
Con riferimento invece alla potestà regolamentare degli enti locali, questa si estrinseca nella
possibilità di adottare REGOLAMENTI, che sono subordinati allo statuto e disciplinano
l’organizzazione e il funzionamento degli enti locali.

Anche le “autorità amministrative indipendenti” hanno potestà normativa, possono quindi


emanare atti normativi, a patto che siano atti aventi contenuto tecnico (non idonei, cioè, a
svolgere funzioni di indirizzo politico nei confronti di altre amministrazioni).

Tra le fonti del diritto amministrativo sono ricompresi anche i “Testi Unici”, atti che raccolgono
norme in origine comprese in atti diversi. Si distinguono in : 1) TESTI UNICI NORMATIVI
(che modificano o abrogano disposizioni di legge vigenti); 2) TESTI UNICI COMPILATIVI (si
limitano a raccogliere in un unico testo delle norme già esistenti, lasciando immutata la
legislazione vigente). Sempre in vista della semplificazione normativa, sono adottati “codici di

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settore”, con cui si intende dar luogo, in singole materie, ad un complesso di norme stabili e
armonizzate che garantiscano regole certe (ad es. codice dei contratti pubblici).

Non possono essere, invece, annoverate nel novero delle fonti di diritto amministrativo le
“CIRCOLARI AMMINISTRATIVE”, con cui l’amministrazione fornisce indicazioni relative
alle modalità di comportamento dei dipendenti di una determinata struttura organizzativa o di un
ufficio. La loro efficacia si esplica all’interno dell’amministrazione che le ha emanate.

6. L’autonomia privata dell’amministrazione. L’AUTONOMIA PRIVATA


è quella situazione di libertà con cui un soggetto regolamenta i propri interessi, ponendoli in
relazione con quelli di altri soggetti, nel rispetto delle regole poste dall’ordinamento. Tipica
espressione dell’autonomia privata è il contratto (e, più in generale, il negozio giuridico). Non c’è
mai stato dubbio che l’amministrazione possa compiere negozi giuridici o altri atti giuridici
privatistici. L’art. 1, comma 1-bis della L. 241 / 1990 statuisce che «la pubblica amministrazione,
nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che
la legge disponga diversamente». Dalla disposizione si ricava che l’amministrazione può porre in
essere atti di diritto privato. Anche l’ ATTIVITÀ DI DIRITTO PRIVATO deve considerarsi
attività amministrativa, poichè anch’essa è finalizzata alla cura dell’interesse pubblico. È questo un
passaggio fondamentale per capire se si possa parlare di “autonomia privata dell’amministrazione”.
A proposito di tale attività, sostanzialmente amministrativa e formalmente privatistica, sorge infatti
il quesito se all’amministrazione possa essere riconosciuta l’autonomia privata negli stessi termini
in cui è riconosciuta ai privati. Secondo una parte della dottrina, proprio perchè la P.A. può stipulare
e sottoscrivere contratti, la risposta è affermativa . Ma secondo altra dottrina, se per AUTONOMIA
PRIVATA s’intende il potere di regolamentare liberamente i propri interessi, essa non si accorda
con la disciplina tipica dell’attività dell’amministrazione, che è finalisticamente vincolata alla cura
dell’interesse pubblico. Infatti le pubbliche amministrazioni non possono scegliere gli interessi da
perseguire, ma devono solo porre in essere quell’attività necessaria al raggiungimento degli
obiettivi che la legge attribuisce loro. In base a questa argomentazione, la dottrina ha negato che
all’amministrazione possa essere riconosciuta autonomia privata.
Quindi, se si assume una concezione rigorosa di AUTONOMIA PRIVATA, come potere libero di
regolamentare i propri interessi, essa non può essere riconosciuta all’amministrazione, che è
vincolata a curare nel modo migliore possibile gli interessi che le sono affidati. Se invece per
autonomia privata si intende genericamente la capacità di porre in essere atti di natura privatistica,
allora si può ritenere che l’amministrazione ne sia dotata. In ogni caso, anche quando compie atti di
natura privatistica, l’amministrazione deve agire non solo curando l’interesse pubblico, ma anche
seguendo le procedure tipiche previste dalla legge. Ad esempio la stipulazione dei contratti è
preceduta da un articolato procedimento amministrativo, detto “procedimento di evidenza
pubblica”. Dato che l’amministrazione, sia che agisca con atti autoritativi sia che lo faccia con atti
consensuali e privatistici, deve seguire comunque le stesse regole, possiamo dire che alla sua azione
presiede un “unico statuto giuridico” e che ad essa si applicano sempre gli stessi principi (tra cui
quelli di legalità, proporzionalità e imparzialità) e gli stessi criteri generali (tra cui quelli di
economicità, efficacia, efficienza e trasparenza).

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- APPROFONDIMENTI –
1.LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE. Il diritto regola la vita della
società, intesa come un insieme di persone (fisiche e giuridiche), ognuna delle quali vanta propri
interessi e propri bisogni : queste persone, però, non vivono in modo isolato, ma tendono ad
intrecciare determinate relazioni tra loro : in questo modo, si viene a creare un particolare sistema,
in cui gli interessi e i comportamenti dei singoli soggetti trovano una connessione con gli interessi e
i comportamenti degli altri consociati. In un sistema del genere, il diritto deve tutelare gli interessi
di ogni singolo soggetto, ma deve anche attribuire a questi una qualificazione giuridica. Ed è questa
qualificazione giuridica degli interessi che viene ad assumere i connotati propri di SITUAZIONE
GIURIDICA SOGGETTIVA. Le SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE sono le situazioni o
posizioni in cui vengono a trovarsi determinati soggetti per effetto dell’applicazione di una o più
disposizioni giuridiche. I rapporti giuridici, e quindi le situazioni giuridiche soggettive, sorgono, si
modificano, e si estinguono, al verificarsi di determinate fattispecie, fatti tipici ai quali la norma
collega determinati effetti giuridici. Le situazioni giuridiche soggettive si distinguono in
SITUAZIONI DI VANTAGGIO e di SVANTAGGIO (a seconda che riconoscano utilità o pesi per
il loro titolare. Ad es. il diritto soggettivo è una situazione di vantaggio, l’obbligo è una situazione
di svantaggio). Si distinguono, inoltre, in SITUAZIONI STATICHE (o inattive) e DINAMICHE (o
attive) : le prime prendono in considerazione gli interessi dei singoli soggetti (il cui assetto può
essere definito in quiete, proprio perché statico); le seconde, invece, prendono in considerazione
quei comportamenti giuridicamente rilevanti in grado di modificare precedenti assetti di interessi
(consentendone, perciò la trasformazione). Le SITUAZIONI STATICHE, quindi, assicurano il
godimento di interessi tutelati dall’ordinamento e per il cui esercizio si richiede il compimento di
comportamenti facoltativi o leciti (dunque, non giuridici) : si pensi al diritto soggettivo (sia assoluto
che relativo). Al contrario, le SITUAZIONI DINAMICHE devono esercitarsi con la
predisposizione di appositi “atti giuridici” : il classico esempio di situazione dinamica è il potere.
*diritto assoluto = può essere fatto valere verso tutti (erga omnes); es. proprietà.

*diritto relativo = (inter partes) si possono far valere solo nei confronti di soggetti determinati; es. diritti di credito.

2. IL POTERE GIURIDICO. La classica situazione soggettiva dinamica è il POTERE,


che storicamente è nato da una costola del “diritto soggettivo” : infatti in passato il “diritto
soggettivo” era considerato non solo come una situazione soggettiva statica, ma anche dinamica (e,
più precisamente, come una facultas agendi, come situazione relativa all’agire giuridico). Tuttavia,
nel momento in cui si è preso atto che il “diritto soggettivo” avrebbe dovuto essere concepito come
un interesse protetto (con esclusione, quindi, della “facultas agendi” – intesa, questa, come
un’effettiva possibilità di ottenere il riconoscimento giuridico dell’interesse -), ci si è resi conto
dell’esistenza di una nuova situazione giuridica soggettiva : il POTERE. Questa situazione
soggettiva ha cominciato a interessare la dottrina a partire dagli anni ’50 del ‘900 ed è stata studiata,
in origine, prendendo come riferimento i “diritti reali”, e in particolare il DIRITTO DI
PROPRIETÀ : quest’ultimo, essendo il diritto di godere e disporre di cose determinate (art. 832
c.c.), avevano fatto comprendere che i due termini usati dalla norma (il godimento e la disposizione)
erano due situazioni diverse, perché il GODIMENTO presuppone un’attività fattuale, mentre la
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DISPOSIZIONE può aver luogo solo se il titolare del diritto pone in essere “atti giuridici”. Così,
una volta isolato il POTERE (disposizione) dal DIRITTO (godimento), è stato possibile enucleare il
concetto di DIRITTO POTESTATIVO, la cui nozione risulta molto cara al diritto amministrativo,
nel cui ambito questo concetto assume i connotati della “POTESTA’”, o meglio, del c.d. POTERE
AUTORITATIVO. E si tratta di un potere attraverso cui alla pubblica amministrazione viene
concessa la possibilità di porre in essere “atti giuridici unilaterali”, in grado di produrre effetti
giuridici (ampliativi o restrittivi) nella sfera dei destinatari, indipendentemente dal loro consenso.
Tuttavia, questo potere unilaterale deve fare i conti con l’ “interesse legittimo” (interesse a che
l’amministrazione provveda o non provveda, a seconda dei casi) spettante ai cittadini coinvolti, a
vario titolo, nella vicenda amministrativa.
*Diritto potestativo = situazione di “potere” contro una situazione di soggezione. Una parte ha il pieno potere di realizzare
una modificazione giuridica; l’altra parte non può che subirla. E’ proprio del diritto privato (serve a tutelare un interesse
proprio).

*Potestà = serve a tutelare un interesse altrui; è tipica del diritto pubblico.

CAPITOLO 2. SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE


DELL’AMMINISTRAZIONE.
1. Precisazioni sul potere giuridico. Il termine POTERE designa la “situazione
giuridica soggettiva della P.A., che questa esercita come autorità nell’ambito dell’attività
amministrativa”. Il potere che esercita la pubblica amministrazione come autorità si inscrive
nella più generale categoria del POTERE GIURIDICO e presenta propri caratteri distintivi : 1)
non è attribuito a tutti i soggetti dell’ordinamento, ma titolari del potere ne sono solo alcuni,
individuati dalla norma, a differenza di quanto avviene per il potere giuridico, che è conferito a
tutti i soggetti dell’ordinamento. Così, il potere di concludere contratti è manifestazione
dell’autonomia attribuita a tutti i soggetti, mentre il potere di espropriazione può essere
esercitato solo dagli organi individuati come competenti dall’ordinamento; 2) determina gli
effetti giuridici previsti dall’ordinamento, senza che occorra il consenso del destinatario,
costituendo, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive. Invece, nei rapporti tra
i soggetti dell’ordinamento, per trasformare le situazioni giuridiche soggettive occorre il
consenso degli interessati. Il trasferimento del diritto di proprietà su un bene opera, con
l’espropriazione, senza che sia necessario il consenso del suo proprietario e anche contro la sua
volontà. Il passaggio di un bene in proprietà da un soggetto all’altro, invece, interviene se si
incontrano la volontà di chi vuole vendere il bene e quella di chi lo vuole acquistare ; 3) si
esercita attraverso l’adozione di un atto tipico, detto “provvedimento amministrativo”,
disciplinato dalle norme giuridiche quanto a presupposti, procedimento, oggetto ed effetti. Il
potere giuridico, invece, si estrinseca in più atti, tipici e atipici. Esistono infatti negozi tipici,
disciplinati dal codice civile e dalla legge, ma anche atipici, che le parti possono sottoscrivere
stabilendo contenuti ed effetti giuridici non predeterminati dalle norme. L’amministrazione,
invece, nell’esercizio del potere autoritativo può adottare solo atti tipici; 4) si confronta con la

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situazione giuridica soggettiva di “interesse legittimo”, che ha una struttura e tutela diversa dal
diritto soggettivo; 5) gli atti che ne costituiscono esercizio sono sindacabili dal giudice
amministrativo, anche se con limitazioni, poiché la giurisdizione del Tribunale amministrativo
regionale e del Consiglio di Stato riguarda la “legittimità” (che si articola nei vizi di violazione
di legge, incompetenza ed eccesso di potere).

2.Distinzione del potere della P.A. in relazione al contenuto.


L’aspetto più rilevante della disciplina del potere della pubblica amministrazione è il
CONTENUTO (l’assetto di interessi che viene stabilito con l’esercizio del potere), che può
distinguersi sotto 3 profili :
1) POTERI DI TRASFORMAZIONE E POTERI DI CONSERVAZIONE : riguardano i possibili
effetti che può produrre l’esercizio del potere. La TRASFORMAZIONE comporta la costituzione,
modifica, estinzione di situazioni giuridiche soggettive e incide nel reale, perché richiede la
produzione di effetti materiali. La CONSERVAZIONE stabilisce che non si producano
modificazioni del reale e gli effetti si esauriscono solo sul piano giuridico. L’atto espressione del
potere di trasformazione è l’ “atto amministrativo positivo”, mentre quello di conservazione è l’
“atto amministrativo negativo”. Si può pensare al potere di trasformazione volto al rilascio di un
permesso di costruire, che autorizza il destinatario ad eseguire il manufatto richiesto; o al potere di
conservazione che nega il permesso di costruire. Di conseguenza :
 Il rispetto del “PRINCIPIO DI LEGALITA’” vale con maggior rigore per il potere di
trasformazione;
 Gli effetti innovativi di trasformazione sono stabiliti dagli “atti positivi”; mentre quelli non
innovativi, di conservazione, sono stabiliti dagli “atti negativi”.
 Nel caso del SILENZIO-ASSENSO CHE DETERMINA EFFETTI INNOVATIVI, la
trasformazione si produce se vengono rispettate la competenza e le norme sostanziali, ma
saltano tutte le altre regole formali e procedimentali, per cui i terzi lesi dal silenzio-assenso
potranno dedurre in giudizio solo il vizio di “incompetenza” e di “violazione delle norme
sostanziali” (a differenza di quando l’amministrazione adotta un provvedimento positivo,
contro cui è possibile dedurre davanti al giudice tutti i vizi, formali, procedimentali e
sostanziali). Nel SILENZIO-RIFIUTO o RIGETTO, gli effetti di conservazione si
producono anche se non si rispettano le norme sulla competenza e quelle sostanziali, perché
non si ha mutamento della situazione preesistente.
 Il “potere di disapplicazione dell’atto amministrativo” attribuito al giudice ordinario è una
misura idonea a impedire gli effetti del potere di trasformazione, ma non lo è per contrastare
gli effetti del potere di conservazione.
 Il “potere di annullamento” del giudice amministrativo consente un intervento efficace sul
potere di trasformazione senza alcuna limitazione in ordine ai vizi deducibili. Nei confronti
del potere di conservazione è l’azione di adempimento a consentire un’efficiente tutela,
anche se non può intervenire nei confronti del potere discrezionale.

2) POTERI DI INDIRIZZO E POTERI DI GESTIONE : è una distinzione che connota la


distribuzione del potere tra gli organi politici (elettivi) e quelli amministrativi. Gli organi politici
pongono gli indirizzi, gli scopi, i risultati che gli organi amministrativi devono perseguire attraverso
l’esercizio dei loro poteri di gestione. Ciò ha comportato il passaggio dal “modello a responsabilità

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ministeriale” a quello “a competenze differenziate”. Infatti gli elementi essenziali del “MODELLO
A RESPONSABILITA’ MINISTERIALE” sono :

 Tra i dipendenti e l’organo politico (Ministro, a livello centrale; Sindaco, Giunta e


Consiglio, a livello comunale, provinciale e regionale) c’è un “rapporto di gerarchia”;
 I dipendenti, reclutati in base a concorso per merito, sono organizzati in uffici che non hanno
il potere di esternare la volontà dell’amministrazione.
 I dipendenti svolgono attività preparatoria e istruttoria, redigono gli atti e danno ad essi
esecuzione, ma il momento decisionale di ogni singolo atto è di competenza degli organi
politici.
 I dipendenti esercitano a tempo indeterminato le loro funzioni e c’è coincidenza tra il
“rapporto d’ufficio” (pubbliche funzioni svolte) e il “rapporto di servizio” (prestazione e
retribuzione).
 I dipendenti sono “irresponsabili”, poiché gli organi politici sono responsabili degli atti
assunti sul piano civile, amministrativo e penale, nonché sul piano politico.

Per quanto riguarda le “FUNZIONI DIFFERENZIATE” (indirizzo e gestione), gli aspetti


qualificanti sono :

 L’eliminazione della concentrazione negli organi politici dell’attività di indirizzo, di


gestione e di controllo, con l’attribuzione ai dirigenti dei poteri di gestione, mentre gli
organi politici indicano gli obiettivi da perseguire e controllano l’attività dei dirigenti (nel
loro insieme, e non per ogni singolo atto) per verificare il raggiungimento degli obiettivi e
l’efficienza della gestione; dal rapporto di gerarchia si passa a “quello di direzione”.
 I dirigenti vengono distinti da tutti gli altri dipendenti : gli uffici di cui sono titolari
diventano “organi”, potendo impegnare l’amministrazione verso l’esterno.
 I dirigenti diventano responsabili degli atti adottati sul piano amministrativo, civile e penale,
oltre che dell’efficienza della gestione e del raggiungimento degli obiettivi.
 Gli incarichi di “direzione di aree funzionali” possono essere conferiti a tempo determinato,
per cui ai dirigenti può essere attribuito un “incarico di direzione” che comporta la
corresponsione di un trattamento economico aggiuntivo, con ciò operandosi una
differenziazione tra gli emolumenti che il dirigente riceve per le prestazioni normalmente
svolte come dipendente (rapporto di servizio) e quelli che riceve per il particolare incarico
funzionale (rapporto di ufficio). Quindi c’è uno scorporo tra il rapporto d’ufficio e di
servizio.
 L’incarico di “direzione di aree funzionali” (rapporto di ufficio) è a tempo determinato, può
essere rinnovato, ma può motivatamente cessare anzitempo in relazione ai risultati raggiunti
 E’ possibile che venga chiamato un altro soggetto, non dipendente dall’ente, a svolgere le
funzioni dirigenziali (con accesso, quindi, dall’esterno, senza far ricorso a dipendenti
reclutati in base a concorso per merito).

3) DISCREZIONALITA’ PURA, DISCREZIONALITA’ TECNICA E POTERE VINCOLATO : la


più importante distinzione del potere della P.A. è quella tra “potere vincolato”, “discrezionale puro”
e “discrezionale tecnico”. La P.A. esegue, come la giurisdizione, la legge, applicandola, per cui il
contenuto del provvedimento (= l’assetto di interessi) dovrebbe essere lo specchio della previsione
normativa. Ma così non è. L’amministrazione, infatti, opera nel concreto della realtà fattuale e deve
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realizzare “l’interesse pubblico specifico che ha in attribuzione” e che nella realtà non si presenta
isolato, ma insieme ad altri interessi pubblici e privati, per cui la legge non può prevedere tutte le
possibili eventualità che si determinano nella realtà. Non viene, quindi, fissato nella norma il
contenuto degli adottandi provvedimenti e l’amministrazione può scegliere la soluzione più
opportuna per soddisfare l’interesse pubblico. La “DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA”
(o pura) sta in questo potere di scelta. Invece il “POTERE VINCOLATO” si ha quando la norma
risolve, in via generale e astratta, la valutazione degli interessi e stabilisce il contenuto del
provvedimento da adottare allorchè si verifichino i presupposti di fatto previsti dalla norma. La
“DISCREZIONALITA’ TECNICA”, invece, non è espressione di una scelta, ma è il frutto di un
giudizio tecnico (economico, ingegneristico, sanitario, estetico, ecc.) che la norma stabilisce di
effettuare.

3.Potere vincolato e potere discrezionale puro. Se la norma disciplina


compiutamente l’azione amministrativa e, nel concreto, non ci sono spazi di scelta, si è in presenza
di un “POTERE VINCOLATO”; se invece la norma non opera la scelta, che deve essere effettuata
dall’amministrazione nel concreto, oppure la realtà pone un’evenienza non prevista, si è di fronte a
un “POTERE DISCREZIONALE”.
La dottrina ha cercato le “regole che l’amministrazione deve seguire nell’esercizio del suo potere di
scelta”. Infatti, se nelle norme di diritto positivo non si rinviene una disciplina sull’esercizio del
potere, si apre l’alternativa o di ritenerlo insindacabile o di individuare un metro di giudizio che non
è nelle norme, ma in altri valori, che possono essere i più diversi. Infatti il giudice amministrativo
svolge un giudizio sulla “legittimità”, e non sul “merito-opportunità”, comparando l’azione
amministrativa con ciò che prevede la norma, per cui ciò che non è predeterminato dalle norme è
insindacabile.
La dottrina ha individuato il “processo decisionale che porta la pubblica amministrazione ad operare
la scelta” : l’amministrazione deve agire per il soddisfacimento dell’interesse pubblico specifico di
cui è attributaria (“interesse primario”) o che la norma, in quel caso, le impone di perseguire, e la
scelta va eseguita valutando comparativamente tutti gli “interessi secondari” (pubblici e privati)
presenti nella concreta fattispecie alla luce dell’interesse pubblico primario, per poi decidere
l’assetto degli interessi, a seconda dell’interesse ritenuto prevalente nel singolo caso. Si è
individuata, cioè, la “corretta modalità con cui la P.A. deve procedere nell’esercizio del potere
discrezionale”, ma l’assetto degli interessi viene lasciato alla soluzione dettata dalla singola
concreta fattispecie, che può portare anche a ritenere recessivo (= che arretra) e a sacrificare
l’interesse pubblico primario in ragione di altro interesse, ritenuto dominante in quella particolare
evenienza.
L’evoluzione normativa ha indotto a criticare l’affermazione che la P.A. debba perseguire
l’interesse pubblico specifico che la legge le attribuisce o che la singola disposizione normativa le
impone di realizzare. Infatti, gli “enti a fini generali” (Regioni, Province, Comuni e gli altri enti
territoriali a fini generali) non hanno in attribuzione uno specifico interesse pubblico, ma tutti gli
interessi pubblici. Fa eccezione lo Stato, che presenta un’organizzazione a grosse branche, i
ministeri, che hanno in attribuzione un interesse pubblico ben individuato. Da questo punto di vista,
assume valenza solo teorica l’affermazione che si persegua l'interesse pubblico fissato dalla legge,
se quest’ultima attribuisce all’amministrazione i più ampi fini generali che si collegano al territorio
di governo. Sotto un’altra ottica, quando in un procedimento amministrativo è opportuno «effettuare
un esame contestuale di vari interessi pubblici», l’amministrazione procedente «indice una
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conferenza di servizi» per arrivare a una decisione frutto non di un organo che agisce da solo, ma
dell’insieme dei titolari dei diversi interessi pubblici coinvolti, che esprimono il loro avviso in
relazione all’interesse pubblico primario che ognuno ha in cura, per cui il modello della
comparazione degli interessi che si presentano in concreto (“secondari”, pubblici e privati) in
relazione all’“interesse pubblico primario” entra in crisi : nella conferenza di servizi si confrontano
contemporaneamente “più interessi primari coinvolti in una determinata operazione
amministrativa”.
Per concludere, quindi, secondo la tesi prevalente, l’amministrazione è libera di scegliere tra più
soluzioni, tutte ragionevoli e legittime, in base a criteri di opportunità e convenienza, che sono, in
quanto tali, sottratti al sindacato di legittimità.

4.La disciplina del contenuto del potere discrezionale. Un’altra dottrina,


rimasta minoritaria, elimina il merito della scelta amministrativa come sfera inviolabile dell’agire
libero dell'amministrazione. Si afferma che la P.A. non può determinare liberamente “i criteri che
regolano le scelte discrezionali”, perché questi sono espressione di scienze sociali, la cui
applicazione vincola l’amministrazione e la conduce a una soluzione obbligata, con la conseguenza
della piena “sindacabilità del potere discrezionale”, che deve essere esercitato in applicazione di
altre discipline, soprattutto sociali, e che sono date per presupposte (= scontate) dalla norma. Ma la
giurisprudenza amministrativa ha sempre affermato di non poter svolgere un “sindacato
sull’opportunità della scelta rimessa alla P.A.”, tranne che nelle materie, espressamente indicate
dalla legge, in cui esercita la più ampia giurisdizione estesa al merito. Ciononostante, la
giurisprudenza ritiene che il POTERE DISCREZIONALE sia comunque sottoposto al “sindacato di
legittimità”, che svolge attraverso le figure sintomatiche dell’eccesso di potere. In tal modo, la
giurisprudenza ha costruito dei “criteri che la discrezionalità deve rispettare”, pur in assenza di
espressa previsione normativa. Si tratta di “principi sull’attività amministrativa” che nascono dalla
valutazione giudiziaria del caso concreto e che si ispirano a valori desunti dall’ordinamento
giuridico (non contraddittorietà, conseguenzialità logica tra presupposti e conseguenze, ecc.), dal
precedente della stessa P.A., che si autovincola per la successiva azione (di qui alcune regole, come
la preventiva contestazione, la non disparità di trattamento, ecc.). Così, la giurisprudenza ha
individuato un metro per giudicare il contenuto del potere discrezionale della P.A., siccome la
disciplina dettata dalla norma giuridica, premessa maggiore del sillogismo giudiziale (previsione
normativa - fattispecie concreta - confronto di quest’ultima con la prima, per giungere alla
conclusione della “legittimità”, se conforme, o dell’ “illegittimità”, se difforme), manca nel potere
discrezionale. Il giudice amministrativo è venuto così a creare una griglia di regole disciplinanti
l’esercizio del potere discrezionale a cui la P.A. è vincolata per evitare l’annullamento, in caso di
impugnativa, e lo stesso giudice nelle sue sentenze le assume come principi che causano
l’illegittimità del provvedimento.
In sostanza, il giudice, in assenza di previsione normativa disciplinante l’esercizio del potere
discrezionale, ha costruito le proprie norme. Allo stato, il potere discrezionale è disciplinato da un
“reticolo di norme di origine giurisprudenziale”, espressione dei “principi sull’attività
amministrativa”, e l’agire libero della P.A. è confinato in ambiti sempre più ristretti. Tuttavia il
giudice non può ripetere lo svolgimento dell’AZIONE AMMINISTRATIVA, ponendosi al posto
della P.A. e valutando tutti gli apprezzamenti eseguiti, perché questa indagine è ritenuta appartenere
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al merito dell’attività amministrativa e, come tale, è insindacabile nella “giurisdizione di


legittimità”.

5.La discrezionalità tecnica. La DISCREZIONALITÀ TECNICA in origine era


riferita alla “norma c.d. imprecisa”, ossia quella che può dar luogo ad apprezzamenti soggettivi, non
univoci, per le aggettivazioni usate (evento «grave», pericolo «imminente», ecc.) e che sono definiti
fatti complessi rispetto a quelli “semplici” per i quali c’è un mero accertamento, senza valutazione
dell’«intensità» del fatto (l’altezza di un manufatto; la lunghezza di una strada, ecc.). La dottrina ha
evidenziato che l’accertamento del fatto e la sua valutazione è un’attività che la P.A. svolge dopo
aver interpretato la norma e, quindi, riconducendo il fatto alla norma, con un’attività identica a
quella necessaria in presenza di una norma precisa, per cui è palese la differenza con la
“discrezionalità amministrativa”. Tuttavia, il trattamento giuridico della “norma imprecisa” e di
“quella che attribuisce un potere discrezionale alla P.A.” è lo stesso : l’insindacabilità.
Fatto ancora più complesso ricorre quando la norma stabilisce che si debbano operare valutazioni
che trovano il loro parametro in scienze esatte o umanistiche (ad esempio, quando si attribuisce alla
P.A. il potere di vietare la vendita di sostanze tossiche : la tossicità va apprezzata applicando
conoscenze riferibili alla chimica, alla medicina, ecc.). In tutti questi casi si parla di
DISCREZIONALITA’ TECNICA, perché il giudice amministrativo la ritiene sindacabile, in sede
di “legittimità”, solo negli stessi modi con cui va a sindacare la discrezionalità amministrativa, e
cioè attraverso le figure c.d. sintomatiche dell’eccesso di potere. Ma la dottrina ha avvertito che in
queste ipotesi si è in presenza di una «pseudo-discrezionalità», che implica solo un “giudizio”, e
non è espressione di una scelta, come nella discrezionalità amministrativa. La
DISCREZIONALITA’ TECNICA è la manifestazione di un giudizio, che si ha dopo un
accertamento di fatto basato su regole tecniche e scientifiche. Tali regole sono richiamate dalla
norma, che non le espone, ma le dà per presupposte e conosciute.
La dottrina ha affermato che gli “apprezzamenti tecnici” non possono essere posti sullo stesso piano
della “ponderazione di interessi”, poiché sono questioni di diritto, poiché riguardano
l’interpretazione della norma che “incorpora” la tecnica, con conseguente necessaria
sottoposizione a verifica diretta da parte del giudice.
1) Per rimarcare l’ingiustificata chiusura del giudice amministrativo nel sindacare la discrezionalità
tecnica, si è sottolineato che il giudice ordinario conosce degli apprezzamenti tecnici della P.A.,
disponendo consulenze tecniche che vanno a rivalutare le operazioni eseguite.
2) Una parte della dottrina, invece, condivide la giurisprudenza del giudice amministrativo (cioè
condivide l’insindacabilità) : il giudice ordinario, si è detto, conosce del diritto soggettivo e deve
valutare se sia stato leso dall’attività della P.A. che, se convenuta davanti al giudice ordinario, non
ha agito nell’esercizio del potere, per cui è in posizione paritetica con l’attore, quindi è necessario
un accertamento del rapporto a tutto campo, anche in ordine agli accertamenti tecnici. Il giudice
amministrativo, invece, conosce di interessi legittimi incisi dall’atto della P.A., che si presenta come
«soggetto a cui spetta il potere di valutare una certa situazione», con la conseguenza che se il
giudice, invece di limitarsi a sindacare la correttezza dell’accertamento e delle valutazioni
compiute dalla P.A., si sostituisse ad essa, ne invaderebbe il campo.
Il giudice amministrativo ha perso la sua granitica posizione in ordine all’insindacabilità della
discrezionalità tecnica, con un’importante pronuncia della “quarta Sezione del Consiglio di Stato”,
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(sent. 601 / 1999) che si è pronunciata a favore della SINDACABILITÀ ed ha distinto


l’“opportunità” (propria della valutazione di merito) dall’“opinabilità di alcuni giudizi tecnici” : la
prima è una scelta tra più soluzioni per la cura di un interesse pubblico, la seconda è espressione
soggettiva di un giudizio tecnico relativo al fatto, non all’interesse pubblico. Da qui la possibilità di
un SINDACATO INTRINSECO, che affondi la sua indagine fino alla verifica della “correttezza del
criterio tecnico individuato” e del “procedimento seguito dall’autorità per applicarlo”. Allo stato,
c’è un filone giurisprudenziale che segue la stessa impostazione, anche se sono ancora dominanti le
decisioni che assimilano la discrezionalità tecnica a quella amministrativa quanto alla sindacabilità.
Si è affermato un orientamento che distingue tra giudizi tecnici opinabili (e quindi “soggettivi”) e
giudizi che si basano su dati non opinabili (e quindi “oggettivi”); per i secondi è previsto un
sindacato «forte», per cui il giudice può sostituirsi all’amministrazione nell’esprimere il giudizio;
mentre per i primi è previsto un sindacato «debole», attraverso l’eccesso di potere e le sue figure
c.d. sintomatiche, non essendo possibile sostituire il giudizio soggettivo e opinabile del giudice a
quello altrettanto opinabile dell’amministrazione.
Ma il sindacato del giudice non può escludersi nemmeno in presenza di un provvedimento
amministrativo che applica un parametro tecnico opinabile che fa parte della fattispecie normativa
da applicare al caso concreto. L’amministrazione non fa altro che interpretare il dato normativo,
accertare il fatto e valutare, secondo i “parametri tecnici della scienza richiamata dalla norma”,
senza dover eseguire alcuna valutazione di opportunità o di merito; nella stessa posizione
dell’amministrazione è il giudice rispetto alla norma nel momento in cui la interpreta, accerta il
fatto e valuta il dato tecnico richiamato nella norma. Non si può affermare, quindi, che il giudice
esprima un giudizio riservato al potere dell’amministrazione. Il giudice, se compie UN’INDAGINE
PIENA E DIRETTA SULLA VALUTAZIONE TECNICA, dà semplicemente esecuzione alla norma,
anche quando i parametri da applicare sono opinabili.

CAPITOLO 3. LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE


DEI PRIVATI.

1.Diritti soggettivi dei privati nei confronti dell’amministrazione. I


soggetti privati possono essere titolari, nei confronti dell'amministrazione, sia di diritti soggettivi
che di interessi legittimi. Al privato che sia proprietario di un bene l’amministrazione deve il
rispetto che è dovuto da tutti i soggetti dell'ordinamento. Se, per esigenze di pubblica utilità, il bene
deve essere espropriato, l'amministrazione deve agire nel rispetto del PRINCIPIO DI LEGALITA’ :
l'amministrazione ha il potere di estinguere il diritto di proprietà, ma deve esercitare il suo potere in
presenza dei presupposti previsti dalla legge e con le modalità e i tempi che la legge prescrive.
Finchè il provvedimento di espropriazione non diventa efficace, il diritto del privato permane.
I diritti soggettivi dei privati sono tali anche nei confronti dell’amministrazione, che ha il potere di
limitarli o estinguerli. La coesistenza di diritti (privati) e di poteri (pubblici) idonei a incidere sui
diritti non è contraddittoria : le due situazioni soggettive entrano in collisione solo nel momento in
cui l'amministrazione esercita il suo potere. Poiché l'esercizio del potere avviene mediante l’iter
procedimentale, è con l'apertura del procedimento che lo stato di collisione inizia a concretizzarsi.
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Tuttavia, se l'amministrazione ha il potere di limitare o estinguere il diritto, quest’ultimo non può


trovare tutela nei confronti dell’amministrazione : non possono essere contemporaneamente tutelati
il “diritto soggettivo” e il “potere di limitare o estinguere quel diritto”. Tuttavia il privato, titolare
del diritto soggettivo, non può rimanere senza tutela : così l’ordinamento attribuisce al titolare del
diritto una diversa situazione giuridica soggettiva, l’ interesse legittimo, che gli consente di
partecipare al procedimento e far valere le sue ragioni, per evitare o per ridimensionare l’incidenza
negativa sul suo diritto.
Il fenomeno dell’estinzione del diritto e della nascita dell’interesse legittimo è stato visto per anni
come “degradazione del diritto soggettivo”, intendendo che quest’ultimo si trasforma in interesse
legittimo. Ma non c’è alcuna trasformazione. L’interesse legittimo nasce con l'inizio del
procedimento, il diritto soggettivo si estingue solo alla conclusione di esso e solo nel caso che il
provvedimento sia sfavorevole per il privato. Non può quindi parlarsi di “trasformazione” del diritto
in interesse legittimo. Si tratta di due vicende separate che fanno sì che, per tutta la durata del
procedimento, coesistano entrambe le situazioni soggettive. Così il privato, da un lato, continua nel
godimento del bene di sua proprietà, e dall'altro, esercita la sua difesa nel procedimento
amministrativo di espropriazione.
Per contrastare l’esercizio del potere di estinguere il diritto, il privato non può invocare la titolarità
del diritto, poichè non si tratta di reagire ad una lesione del diritto; deve provvedervi usando
l'interesse legittimo : la tutela consentita non è l’opposizione all’amministrazione con
l’affermazione della titolarità del diritto, ma è il dialogo con l'amministrazione nel procedimento
per far sì che il potere sia esercitato in modo legittimo e proporzionato alle esigenze di pubblico
interesse.
Il diritto soggettivo può essere tutelato come tale (ossia, come diritto soggettivo) solo se il potere
autoritativo di limitarlo o estinguerlo non sussiste : ciò accade quando il soggetto pubblico che
adotta provvedimenti ablatori non è titolare di tale potere. Si ha allora la nullità del provvedimento
adottato in carenza di potere (che la legge denomina «difetto assoluto di attribuzione»).

2.Il problema dei c.d. diritti resistenti. Negli anni ‘70 la Cassazione individuò
diritti non limitabili né estinguibili ad opera dell’amministrazione : si creò così la categoria dei
diritti non degradabili, detti anche “diritti resistenti” (a cui venivano ricondotti quei diritti che
avevano riconoscimento nella Costituzione). L’ipotesi iniziale è quella del diritto alla salute, esteso
anche al diritto all'ambiente salubre.
La presenza di diritti non limitabili e inestinguibili non è tuttavia compatibile con l’attribuzione
all’amministrazione del potere di limitarli e estinguerli. Pertanto l’affermazione del carattere
resistente di un qualsiasi diritto deve logicamente comportare l’assenza di poteri amministrativi che
ne possano determinare l’ablazione. Questa è infatti la giustificazione teorica del carattere
incomprimibile di tali diritti : si assume che l'amministrazione sia priva del potere di comprimere il
diritto soggettivo costituzionalmente garantito. Tuttavia, se tali poteri sono attribuiti
all’amministrazione, non è possibile ipotizzare l’esistenza di diritti resistenti : questo perché nella
collisione tra potere e diritto il secondo cede.
Inoltre l’attribuzione di poteri all'amministrazione è finalizzata alla cura di interessi pubblici, la cui
soddisfazione può confliggere con gli interessi che sono tutelati come diritti soggettivi privati. Il
conflitto tra poteri pubblici e diritti privati è pertanto un conflitto tra interessi pubblici e interessi
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privati : la tutela piena di questi comporta necessariamente l’impossibilità di soddisfare gli interessi
pubblici, e, viceversa.
La Cassazione ha trattato dei diritti resistenti con riferimento a un “problema di giurisdizione",
affermando che le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (giudice
dei diritti soggettivi) e non in quella del giudice amministrativo (giudice degli interessi legittimi).
Quindi, il conflitto tra diritti costituzionalmente garantiti e poteri dell’amministrazione dovrebbe
essere risolto dal giudice ordinario. Tuttavia questo non è possibile, perché la tutela del diritto
soggettivo è diversa dalla tutela dell'interesse legittimo e inoltre il giudice ordinario non ha il potere
di annullare i provvedimenti amministrativi illegittimi (può solo condannare al risarcimento del
danno o applicare misure interdittive degli interventi pubblici).
La categoria dei DIRITTI RESISTENTI non è mai stata riconosciuta dal legislatore, che anzi,
disciplinando i provvedimenti cautelari del giudice amministrativo in tema di «interessi essenziali
della persona» (come il diritto alla salute, all’integrità dell'ambiente, o ad altri beni di rilievo
costituzionale), afferma la “giurisdizione del giudice amministrativo”, negando la giurisdizione del
giudice ordinario e l’esistenza di diritti resistenti. Tuttavia la Cassazione ha
mantenuto fermo il suo orientamento. La Corte costituzionale ha preso posizione sul problema,
affermando che «non è ravvisabile alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi
esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti
costituzionalmente protetti». L’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo
comporta che : 1) sussistono poteri autoritativi dell’amministrazione che incidono sui diritti
costituzionalmente garantiti; 2) nell’esercizio di tali poteri l’amministrazione può adottare
provvedimenti che incidono su questi diritti; 3) la tutela consentita ai titolari di tali diritti è quella
tipica dell’interesse legittimo, basata sulla dimostrazione del cattivo esercizio del potere da parte
dell’amministrazione e sull’invalidità del provvedimento incidente negativamente sul diritto.

3.L’interesse legittimo. L’INTERESSE LEGITTIMO permette al privato di difendere il


suo patrimonio giuridico dall’azione intrusiva dell’amministrazione o di sollecitare e sostenere
l’azione dell’amministrazione diretta all’ampliamento dello stesso patrimonio. Nel primo caso,
l’interesse legittimo si dice oppositivo, mentre nel secondo si dice pretensivo. L’interesse oppositivo
si ha, ad esempio, contro l’azione dell’amministrazione diretta a espropriare un bene immobile di
proprietà privata; l’interesse è invece pretensivo quando il privato richiede un provvedimento
amministrativo a sé favorevole (ad esempio, la concessione in uso esclusivo di una porzione di bene
demaniale).
Alla formazione del Regno d’Italia (1861) la tutela dei privati nei confronti dell’amministrazione
aveva carattere amministrativo, in omaggio al principio della separazione dei poteri, che impediva
che gli atti del potere esecutivo potessero essere giudicati da organi del potere giurisdizionale.
L’amministrazione si divideva allora in “amministrazione pura”, comprendente gli organi di
amministrazione attiva, e in “amministrazione contenziosa”, cui facevano capo i Tribunali del
contenzioso amministrativo. In occasione della “Legge di unificazione amministrativa” (L. 2248 /
1865), superando la rigorosa concezione della separazione dei poteri, si volle cambiare radicalmente
il sistema di tutela, affidando al giudice ordinario la tutela dei diritti soggettivi che i privati
ritenevano lesi dall’amministrazione. Ma la riforma non diede i risultati sperati, perché le
controversie con l’amministrazione non riguardavano sempre diritti soggettivi, e per queste
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controversie si perse la possibilità di farle decidere dai Tribunali del contenzioso amministrativo
(che, con la stessa legge, erano stati aboliti). Cosicché tutti gli interessi non riconosciuti come diritti
soggettivi rimasero senza una tutela giurisdizionale. Questa situazione determinò una seconda
importante riforma, attuata nel 1889 con l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato,
denominata «per la giustizia amministrativa». Il nuovo organo doveva assicurare la tutela «contro
atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa che abbiano per oggetto un interesse legittimo di
individui o di enti morali giuridici».

4.L’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva. C’è un


lungo percorso : dapprima l’INTERESSE è considerato : 1) una situazione giuridica soggettiva; 2)
poi una situazione giuridica soggettiva di diritto sostanziale; 3) e infine una situazione giuridica
soggettiva risarcibile.

L’inizio fu burrascoso, perché l’interesse non era riconosciuto nemmeno come situazione giuridica
soggettiva. I primi commentatori della legge del 1889 infatti escludevano che fosse stata creata una
nuova situazione giuridica soggettiva; meno che mai potevano pensare al riconoscimento di nuovi
diritti soggettivi, perché, ove si fosse trattato di diritti, la tutela doveva essere chiesta al giudice
ordinario, in forza della legge del 1865. Per giustificare che fosse data tutela giurisdizionale a
interessi non riconosciuti come diritti soggettivi, si usarono vari espedienti : Meucci ipotizzò che il
ricorso consistesse in un’azione popolare moderata, rispetto a cui l’interesse serviva a circoscrivere
l’ambito dei soggetti legittimati ad esercitarla; sempre Meucci costruì il ricorso come inteso a
tutelare in modo diretto l’interesse pubblico e in modo solo occasionale l’interesse del privato
ricorrente, creando la formula dell’«interesse occasionalmente protetto» (ossia protetto di riflesso,
ove coincidente con l’interesse pubblico); Ranelletti immaginò che l’interesse del privato ricorrente
fosse un vero e proprio diritto soggettivo, «compresso» dagli atti e provvedimenti
dell’amministrazione. L’«interesse legittimo» non era concepito come una situazione giuridica
soggettiva : o era un interesse irrilevante giuridicamente o si identificava con il diritto soggettivo
«compresso».
Un eminente processualcivilista, Chiovenda, all’inizio del ‘900, enunciò la tesi per cui l’’AZIONE
GIURISDIZIONALE deve essere considerata un «diritto» a sè stante, separata dal diritto soggettivo
che essa serve a tutelare; e, a dimostrazione dell’autonomia dell’azione portò ad esempio proprio
«il diritto di chiedere l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi», riferendosi al giudizio
che si svolgeva davanti alla Quarta Sezione. La tesi di Chiovenda non eleva ancora l’interesse
legittimo a situazione giuridica soggettiva, ma elimina un ostacolo importante al suo
riconoscimento come situazione giuridica soggettiva : non ci può essere alcuna situazione giuridica
soggettiva senza che ad essa sia riconosciuta tutela giurisdizionale. Su questa strada si è posta in
seguito la dottrina, sostenendo che l’interesse del privato si riduce a un “interesse processuale” (in
cui il ricorrente trova non il titolo da far valere col ricorso, ma solo la legittimazione per
proporlo) : infatti le norme che regolano l’azione amministrativa servono a tutelare l’interesse
pubblico e l’amministrazione che viola tali norme lede l’interesse pubblico; quindi il giudizio
amministrativo mira a ristabilire l’interesse pubblico leso. Il privato, come tale, non ha il titolo per
dolersi dell’eventuale violazione di norme, ma poiché il suo interesse può risentire uno svantaggio
dall’inosservanza di quelle norme, l’ordinamento si avvale di lui come dello strumento atto a
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promuovere la restaurazione dell’interesse pubblico leso. L’interesse legittimo resta privo di


qualsiasi rilevanza giuridica sul piano sostanziale, ma acquista rilievo sul piano processuale. Quindi
viene elevato a fatto integrante la legittimazione ad agire (o come “potere di agire in giudizio”).

5.L’interesse legittimo come situazione giuridica sostanziale. Inteso


come situazione processuale, l’interesse legittimo nasce dopo l’adozione del provvedimento
sfavorevole. Non sussistendo prima dell’adozione di quest’ultimo, non ha nulla a che fare con il
procedimento e le facoltà che, nell’ambito del procedimento, sono attribuite al privato e che gli
consentono di influire sul modo in cui l’amministrazione esercita il suo potere.
Per ritenere sussistente una SITUAZIONE DI DIRITTO SOSTANZIALE, occorre che essa abbia
riconoscimento e tutela anche fuori (e prima) del processo : non può trattarsi semplicemente di un
potere di reazione in sede processuale.
Alla costruzione dell'interesse legittimo ostava una circostanza fondamentale : l’interesse del
privato può legittimamente non essere soddisfatto dall’azione dell’amministrazione. Se ne
deduceva, quindi, che non potesse essere ritenuto protetto giuridicamente un interesse di cui
l’ordinamento non garantiva la soddisfazione. Allora l’interesse legittimo fu concepito come
“interesse alla legittimità dell’azione amministrativa” (Tosato). Tuttavia la “LEGITTIMITÀ” è un
valore oggettivo e astratto, che mal si presta ad essere l’oggetto di una situazione soggettiva.
Occorre un aggancio di questo valore astratto a qualcosa di concreto cui il soggetto aspira : occorre
cioè rendere individuale e soggettivo l’“interesse alla legittimità”.
La dottrina comincia a rendersi conto che l’INTERESSE ALLA LEGITTIMITA’ è un interesse
strumentale, che va collegato con un altro interesse, che sia sostanziale (interesse a un bene della
vita) e sia inoltre proprio di determinati soggetti (ossia relativo a un bene della vita, che essi
vogliono acquisire o non perdere). In questo modo si può spiegare il “carattere soggettivo
dell’interesse legittimo”. Si è cercato
poi di esaminare quale possa essere l’oggetto dell’interesse legittimo ed è stato individuato
nell’AZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE, in quanto strumentale ad acquisire (o a non perdere)
un bene della vita : poiché lo strumento di soddisfazione dell’interesse al bene della vita è il
comportamento dell'amministrazione, è logico ritenere che l’oggetto sia proprio tale comportamento
(Scoca). Secondo altri, tuttavia, sarebbe preferibile indicare come oggetto dell’interesse legittimo
direttamente il BENE DELLA VITA (Miele). A sanzionare definitivamente il carattere di
situazione sostanziale dell’interesse legittimo è stata la Costituzione : l’art. 24, collocando gli
interessi legittimi accanto ai diritti soggettivi, presuppone che i primi siano, come i secondi,
situazioni giuridiche soggettive di diritto sostanziale; e alla stessa conclusione portano gli artt. 103
e 113 Cost. Il contenuto sostanziale dell’interesse legittimo è stato trasfuso in disposizioni
legislative con la “legge sul procedimento amministrativo” (L. 241 / 1990) : si tratta di facoltà che
attengono al procedimento. “L’interesse legittimo vive nel procedimento”. Dopo l’adozione del
provvedimento che chiude il procedimento, se l’interesse legittimo si ritiene violato, sorge il potere
di tutela giurisdizionale, che si esplica con l’impugnazione del provvedimento davanti al giudice
amministrativo.

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6.L’interesse legittimo come situazione giuridica risarcibile. Una


volta affermato il carattere sostanziale dell’interesse legittimo, avrebbe dovuto derivarne come
immediata conseguenza la sua risarcibilità in caso di violazione da parte dell’amministrazione, sia
per il “mancato o ritardato esercizio del potere” (per l’assenza o la tardiva adozione del
provvedimento richiesto), sia per l’“illegittimo esercizio del potere” (e per l’adozione di
provvedimenti illegittimi sfavorevoli per il loro destinatario o per soggetti terzi). Ciononostante la
giurisprudenza non ha ritenuto ammissibile il risarcimento del danno fino alla fine del secolo scorso
: la resistenza della giurisprudenza, dovuta all’orientamento della Cassazione, non aveva un
fondamento giuridico e rispondeva solo alla preoccupazione di tutelare le finanze pubbliche, non
esponendole a esborsi da risarcimento. A convincere la Cassazione dell’insostenibilità del suo
orientamento è stata la pressione del diritto comunitario, che ha affermato, in tema di appalti
pubblici, il principio per cui è risarcibile qualsiasi danno provocato dal comportamento illecito
dell’amministrazione, anche se ad essere lesi sono interessi legittimi. Cosicché l’INTERESSE
LEGITTIMO ha visto completata la sua evoluzione e presentarsi finalmente come situazione
giuridica soggettiva, sostanziale e risarcibile. Tuttavia : 1) se si assume che l’interesse legittimo ha
ad oggetto il “bene della vita” a cui il suo titolare aspira (o il bene che egli teme di perdere), la
misura del risarcimento deve parametrarsi al valore del bene illecitamente perduto o illecitamente
non acquisito. 2) Se invece si assume che l’interesse legittimo ha ad oggetto il “comportamento
dell’amministrazione”, che è lo strumento necessario per acquisire un nuovo bene della vita
(interesse pretensivo) o per non perdere un bene già facente parte del patrimonio giuridico del
privato (interesse oppositivo), la misura del danno risarcibile riguarda solo il valore dell’ interesse,
leso da comportamenti procedimentali illegittimi.

*ART. 24 COST. : “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.

*ART. 103 COST. : “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la
tutela nei confronti della P.A. degli INTERESSI LEGITTIMI e, in particolari materie indicate dalla legge,
anche dei DIRITTI SOGGETTIVI”.

*ART. 113 COST. : “Contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei DIRITTI e degli
INTERESSI LEGITTIMI davanti agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”.

-PARTE II. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA -


- 2. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA-

CAPITOLO 1. LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E LA


SUA EVOLUZIONE.

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1. L'unificazione amministrativa. Con la formazione politica del Regno d’Italia


come Stato unitario le singole discipline amministrative vigenti negli Stati preunitari, molto diverse
tra loro, si sono uniformate al diritto vigente in Piemonte (infatti per l’unificazione amministrativa
si è parlato di «piemontesizzazione»). Le ragioni dell’uniformazione al sistema piemontese, e non
ad altri, sotto certi aspetti più progrediti (quello lombardo, toscano o napoletano) sono due : 1) il
Regno sabaudo era il solo Stato costituzionale al momento della formazione del Regno d’Italia, per
cui i temi di fondo (rapporti tra Parlamento ed Esecutivo, relazioni tra Governo e apparato
amministrativo, poteri del Sovrano) dovevano per forza ispirarsi al modello piemontese; 2) nel 1859
il Governo piemontese, usufruendo dei poteri che gli erano stati attribuiti in occasione della seconda
guerra di indipendenza, aveva promulgato leggi molto importanti; sempre nel 1859, inoltre, erano
stati pubblicati il codice penale, di procedura penale e di procedura civile, cosicché l’ordinamento
piemontese era il più aggiornato.
Tuttavia, la sostituzione del vecchio sistema con il diritto amministrativo piemontese avvenne, nelle
varie zone del Regno, in tempi e modi diversi : infatti, mentre nei ducati di Parma e Modena, il
reggente Farini decise di introdurre quasi subito il sistema piemontese, in Toscana il Ricasoli,
convinto della superiorità del sistema vigente nel Granducato, ritenne necessario mantenere in vita
le vecchie istituzioni (in tal modo, l’uniformazione del diritto avvenne qui per fasi successive). Per
ciò che riguarda invece la Lombardia (ove pure si era convinti della superiorità del sistema in vigore
precedentemente), nel 1860 si ebbe una brusca introduzione del sistema piemontese (anche se fu
previsto un periodo di transizione voluto da Cavour). Molto più difficile fu, al contrario,
l’introduzione del modello piemontese nel sistema napoletano e in quello siciliano, in cui fu
necessario il susseguirsi di diversi governi (dalla dittatura Garibaldi alla luogotenenza Cialdini) :
proprio per tale motivo, l’autonomia organizzativa del Mezzogiorno durò fino al 1° novembre del
1861. L’“unificazione amministrativa” fu attuata in via definitiva solo con la L. 2248 / 1865,
approvata su pressione del Governo La Marmora : tale legge era costituita da un articolo e da 6
allegati (relativi all’amministrazione provinciale e comunale, alla sicurezza, alla sanità pubblica, al
Consiglio di Stato, all’abolizione del contenzioso amministrativo e alle opere pubbliche).

2. La fisionomia originaria della amministrazione pubblica


italiana. L’organizzazione amministrativa piemontese presentava i caratteri della semplicità,
dell’uniformità, dell’accentramento e della gerarchia. Quindi era del tutto diversa da quella attuale.
Gli stessi caratteri sono stati trasmessi all’organizzazione amministrativa del Regno d’Italia. Le
strutture organizzative sono concentrate negli enti territoriali : Stato, Provincia e Comune. Sono
pochi gli enti pubblici diversi dagli enti territoriali e quelli che ci sono hanno origini antiche e
struttura associativa (ad es. gli ordini professionali e le camere di commercio).
Le Province e i Comuni, pur essendo dotati di personalità giuridica propria, sono considerati
«membra dello Stato». Poiché l’intera “organizzazione pubblica” è organizzazione dello Stato,
occorre distinguerla in AMMINISTRAZIONE DIRETTA (se fa capo alla persona giuridica Stato) e in
AMMINISTRAZIONE INDIRETTA (se attiene agli enti territoriali minori).
L’organizzazione interna della Provincia e del Comune è dominata da organi dello Stato : al vertice
della Provincia è posto un organo collegiale, la Deputazione provinciale, presieduta dal Prefetto. Al
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vertice del Comune siede il Sindaco, che è nominato dal Governo (dal Re) tra i consiglieri
comunali. Gli enti territoriali minori sono gerarchicamente dipendenti dallo Stato. La struttura
organizzativa di tali enti risponde al criterio dell’uniformità. L’uniformità è anche propria
dell'amministrazione dello Stato : a livello centrale troviamo i Ministeri (suddivisi in direzioni e
sezioni); a livello periferico le Prefetture e le Sottoprefetture. L’amministrazione si presenta come
un corpo compatto governato dal centro e ha carattere fortemente accentrato.

3. Evoluzione dei modelli organizzativi. Un sistema così semplice, uniforme e


accentrato (in cui lo Stato era l’assoluto dominante) non poteva reggere all’aumento delle funzioni
assegnate all’amministrazione pubblica. Così le strutture organizzative originarie (dello Stato e
degli enti territoriali minori) si sono dilatate; contemporaneamente sono aumentati gli enti pubblici
ausiliari e sono stati introdotti nuovi modelli. Alla fine dell’800 fu introdotto il modello
dell’AZIENDA AUTONOMA, inserita in ambito ministeriale, ma dotata di autonomia gestionale e
finanziaria : in pratica, attraverso l’azienda autonoma lo Stato assunse il compito di erogare in
modo diretto servizi ai cittadini (si pensi all’istituzione dell’ “Azienda autonoma Ferrovie dello
Stato”, conseguente alla nazionalizzazione di buona parte delle strade ferrate, prima gestite da
società private in base a concessioni).
Le originarie strutture ministeriali infatti non erano adatte a svolgere compiti di carattere aziendale e
si dovette introdurre un modello organizzativo aziendale. La stessa esigenza è alla base
dell’introduzione, all’inizio del ‘900, dell’“AZIENDA MUNICIPALIZZATA”, articolazione del
Comune e della Provincia, finalizzata alla gestione di vari servizi (dall’illuminazione del tessuto
stradale, agli acquedotti, al trasporto pubblico). Inoltre in epoca fascista furono istituiti anche i c.d.
“ENTI PUBBLICI FUNZIONALI”, strutture organizzative dotate di personalità giuridica di
diritto pubblico e destinate a svolgere funzioni specifiche : tra questi ricordiamo
l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), l’Istituto nazionale assistenza infortuni sul
lavoro (INAIL) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI).

4. L'ordinamento regionale. La Costituzione del 1948 ha arricchito il panorama degli


enti territoriali, inserendovi la REGIONE, ente dotato di “potere legislativo” in determinate
materie (elencate nell’art. 117 Cost.), nonché di “potere statutario”, con funzioni amministrative
nelle stesse materie devolute alla sua competenza legislativa. Si prevedeva che la Regione dovesse
esercitare le sue funzioni amministrative non direttamente, ma mediante delega alle Province e ai
Comuni o avvalendosi dei loro uffici : si voleva così evitare che la Regione divenisse un “ente di
gestione”, rimanendo un centro di indirizzo e coordinamento di attività demandate ad enti già
esistenti. Ma una volta istituite le Regioni (1970), l’originario disegno costituzionale è andato
perduto. Le Regioni, invece di delegare le loro funzioni amministrative agli enti locali o di avvalersi
dei loro uffici, hanno sviluppato proprie strutture operative, esercitando direttamente le loro
funzioni (e ciò ha finito per appesantire il quadro dell’organizzazione pubblica).
Per quel che riguarda, invece, la funzione legislativa, con la riforma del Titolo V, Parte II della
Costituzione (legge cost. 3 / 2001) è stato stabilito che la loro potestà legislativa si estende «ad ogni
materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, 4°comma). Si è cioè
invertito il vecchio sistema che lasciava allo Stato la competenza generale e residuale e attribuiva
alle Regioni potestà legislativa solo nelle materie tassativamente elencate (vecchio art. 117 : “La Regione
emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”). Una
grande modifica ha riguardato poi le funzioni amministrative delle Regioni : infatti è stata superata
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la regola del “parallelismo delle funzioni” fissata nel vecchio testo costituzionale, cioè della loro
corrispondenza alle materie di competenza legislativa (vecchio art. 118 : “Spettano alla Regione le funzioni
amministrative per le materie elencate nel precedente articolo”). Il nuovo criterio di distribuzione delle funzioni
amministrative tra enti territoriali si basa sui principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza : le funzioni amministrative «sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne
l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato» (art. 118,
1°comma).
*POTESTA’ STATUTARIA = potere di autoregolamentarsi.

*STATUTO = disciplina l’organizzazione e il funzionamento di un ente.

*L. cost. 3 / 2001 = attribuisce alle Regioni “competenza legislativa residuale” in ordine alle proprie elezioni.

*ART. 117, 4 comma = potestà legislativa residuale, esclusiva delle Regioni.

5. Le riforme dell'ultimo decennio dello scorso secolo. Vari episodi di


riforma dell’amministrazione pubblica si sono avuti negli anni '90. L’innovazione maggiore
riguarda la distinzione tra funzioni politico-amministrative (indirizzo e controllo) e quelle
prettamente amministrative (gestione amministrativa, finanziaria e tecnica) : in base a tale
distinzione gli organi di ogni amministrazione si distinguono in organi politico-amministrativi
(organi di governo) e organi tecnico-amministrativi (dirigenti).
Per quanto riguarda l’apparato ministeriale, è stata riordinata la Presidenza del Consiglio, struttura
destinata ad assicurare l’unità di indirizzo politico e amministrativo del Governo, con compiti di
impulso, indirizzo e coordinamento ed è stata rivista l’organizzazione interna dei ministeri. Lo
schema organizzativo del ministero prevede strutture di primo livello, che possono essere o i
“dipartimenti” o le “direzioni generali”. Viene disciplinata la figura del “Segretario generale”, ma
solo per i ministeri articolati in direzioni generali.
Sono state inoltre introdotte le “agenzie”, strutture organizzative dotate di piena autonomia che
svolgono attività tecnico-operative di interesse nazionale, operano al servizio di amministrazioni
pubbliche e sono sottoposte ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministro.
A livello periferico, invece, è stata disposta la trasformazione della “Prefettura” in “Ufficio
territoriale del Governo” (UTG), al quale inizialmente erano state attribuite tutte le competenze
periferiche dello Stato, ma poi esso è stato ridimensionato ad ufficio con meri compiti di
coordinamento degli altri uffici periferici dello Stato.
Agli enti territoriali minori, Province e Comuni, è stata attribuita fin dal 1990 potestà statutaria, ma
anche autonomia «normativa, amministrativa, impositiva e finanziaria».
Il quadro dell’amministrazione pubblica oggi è assai diverso dal quadro originario : alla semplicità è
seguita la complicazione; all’uniformità la differenziazione dei modelli; all’accentramento il
decentramento.

6. Lo sviluppo delle autonomie e il federalismo. Gli enti territoriali minori,


da «membra dello Stato» si evolvono in enti autonomi e, da una posizione di “subordinazione
gerarchica” rispetto allo Stato, sono elevati ad enti ad esso equiordinati. Nel processo evolutivo
individuiamo due tappe fondamentali : 1) il passaggio dal sistema originario, totalmente statuale
(statocentrico), ad un sistema in cui lo Stato conserva una posizione dominante (nel senso che resta
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il centro di indirizzo unitario del sistema complessivo), ma le strutture amministrative degli enti
territoriali non sono più considerate amministrazioni indirette dello Stato; 2) il passaggio ad un
sistema «policentrico», ossia articolato in più centri di elaborazione di indirizzi politico-
amministrativi, facente perno sugli enti territoriali cui viene riconosciuta larga autonomia. In questo
quadro lo Stato è solo una delle componenti della Repubblica, formalmente equiparato agli altri enti
territoriali.
La prima tappa inizia con le “riforme crispine” (fine ‘800), si interrompe con il fascismo, e si
conclude con la “Costituzione del 1948”; la seconda si estende nel periodo successivo, trova il suo
pieno riconoscimento con la riforma costituzionale del 2001 (legge cost. n. 3 / 2001) ed è ancora in
corso, non essendo state pienamente attuate le nuove regole costituzionali.
Negli anni '80 dell’800 Crispi rende elettiva la carica di Sindaco nei Comuni maggiori (la riforma
venne poi estesa a tutti i comuni dal Di Rudinì); fatto ciò, Crispi abolisce la Deputazione
provinciale e rende elettiva la carica di Presidente della Provincia. Le due cariche di vertice del
Comune e della Provincia diventano così espressione dei relativi Consigli e viene rotto l’ambiguo
rapporto che intercorreva tra gli organi statali e gli organi degli enti locali. Tuttavia resta inalterata
l’ingerenza dello Stato nell’amministrazione di Comuni e Province, in quanto l’apparato centrale
conservava comunque un influente potere, che veniva esercitato attraverso i penetranti “controlli”,
non solo di legittimità, ma anche di merito, effettuati dal “Prefetto” e dalla “Giunta provinciale
amministrativa”.
La situazione non cambia granchè fino all’avvento del regime fascista, che si ispira di nuovo ai
“principi di gerarchia” e “unità dell’intera amministrazione pubblica”, governata dallo Stato. Il
Sindaco, ora denominato Podestà, torna ad essere nominato dal Governo e alla Provincia viene
preposto il Preside, carica anch’essa di nomina governativa.
Dopo la caduta del regime fascista, nel 1943, vengono ripristinati gli organi elettivi (voluti dalla
riforma Crispi), ma rimasero in vigore i precedenti e penetranti controlli.
E arriviamo così all’avvento della Costituzione del 1948 : essa contiene una norma fondamentale :
«la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5). Ma c’è di più
: l’art. 130 Cost. (oggi abrogato dalla l. cost. 3 / 2001) modifica il sistema dei controlli,
trasformando il “controllo di merito” da sanzionatorio (avente come esito l’annullamento degli atti
controllati) a collaborativo (tendente a richiedere motivatamente agli enti controllati «di
riesaminare la loro deliberazione») e affida alla Regione i controlli sugli enti territoriali minori. Con
la Costituzione si chiude la prima tappa : lo Stato non è più egemone, ma ha ancora un accentuato
predominio nei confronti delle altre amministrazioni pubbliche.
L’istituzione delle Regioni (nel 1970) è stato un passo in avanti nel cammino verso il pieno
riconoscimento dell’autonomia degli enti territoriali minori. Sia il potere statutario, sia la potestà
legislativa in alcune materie, hanno rotto il monopolio statale anche nella determinazione
dell'indirizzo politico-amministrativo. Negli anni '90 la potestà statutaria è stata riconosciuta anche
a Comuni e Province. Nel contempo sono stati ridotti i controlli statali sulle Regioni e i controlli
regionali sugli enti locali.
Il punto di arrivo si ha con la legge cost. n. 3 / 2001, che ha modificato il Titolo V della
Costituzione. L’art. 114, 2°comma recita : «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione» (in tal modo il PRINCIPIO AUTONOMISTICO viene disciplinato in modo concreto).
Esso si realizza attraverso l’attribuzione agli enti autonomi sia della “potestà statutaria”, sia di

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un’ampia “potestà regolamentare”. A prescindere dalle Regioni, che hanno anche “potestà
legislativa”, anche gli enti territoriali (Comuni, Province e le non ancora istituite Città
metropolitane) sono dotati, oltre che di “potestà statutaria”, di “potestà regolamentare” in ordine
alla disciplina della loro organizzazione e dello svolgimento delle loro funzioni.
Un’ulteriore riforma in corso è orientata verso un modello di “FEDERALISMO MODERATO”. In
attuazione del novellato art. 119 Cost., che esalta l’«autonomia finanziaria di entrata e di spesa»
degli enti territoriali, è stata conferita delega al Governo per la realizzazione del c.d. “federalismo
fiscale”, con l’obiettivo di sostituire il vecchio sistema di finanziamento (mediante versamenti
statali) con un nuovo sistema basato sul conferimento agli enti territoriali di un potere impositivo
proprio : l’obiettivo che si intende perseguire è quello di consentire agli enti territoriali di finanziare
la spesa con entrate proprie, sulla base di costi standard.
In tal modo ciascun ente ha 3 tipi di entrate : i tributi e le entrate propri, le compartecipazioni al
gettito di tributi erariali e le erogazioni del fondo perequativo . La riforma si ispira, oltre che al
principio di autonomia, anche a QUELLO DI SOLIDARIETÀ : si prevede la costituzione di un
fondo perequativo a favore dei «territori con minore capacità fiscale per abitante».
Agli enti territoriali vengono trasferiti i beni demaniali e patrimoniali dello Stato. I beni trasferiti
perdono il carattere demaniale, tranne quelli del demanio marittimo, idrico ed aereonautico. Le loro
risorse devono finanziare le funzioni pubbliche attribuite agli enti; è prevista però la possibilità di
indebitamento (ricorso alle banche, al risparmio privato, ecc.) solo per finanziare spese di
investimento, essendo però esclusa ogni garanzia dello Stato su tali prestiti.
*ART. 123 COST. = lo “statuto regionale” è approvato dal Consiglio regionale con un iter aggravato.

*STATUTO REGIONALE = regola la “forma di governo” e l’“organizzazione interna” dell’ente (è una sorta di
Costituzione regionale).

*TRIBUTI ERARIALI = da versare allo Stato.

*ART. 117, 1°comma Cost. = la legge statale e quella regionale hanno gli stessi limiti.

7. Le società pubbliche e a partecipazione pubblica. La P.A. si articola in


“SOGGETTI PUBBLICI”; tuttavia essa si è circondata di “SOGGETTI PRIVATI” (ad es. di
società) per esigenze diverse. La prima esigenza fu l’intervento dello Stato in economia,
determinata dalla profonda crisi del 1929. Lo Stato rilevò il pacchetto azionario di molte società per
non farle fallire e raccolse le partecipazioni azionarie in capo a un ente pubblico istituito
appositamente, l’IRI, “Istituto per la ricostruzione industriale”. Si realizzò così la figura dello
STATO IMPRENDITORE. Mentre originariamente lo Stato e gli altri enti pubblici investivano in
ogni campo dell’imprenditoria privata, successivamente si orientarono verso la gestione dei servizi
pubblici (sia statali che locali). Ciò comportò, da un lato, l’eliminazione del “sistema delle
partecipazioni statali”, e, dall’altro, l’affidamento dei servizi pubblici a società a partecipazione
pubblica (sia statale, sia regionale, sia locale). Nascono così le società per azioni Ferrovie dello
Stato, Poste italiane, ENEL, ANAS, ecc. Le “aziende municipalizzate” si trasformano anch’esse in
società per la gestione dei servizi pubblici locali.
Alla fine del secolo vengono costituite per legge “società a prevalente o esclusiva partecipazione
statale”, per le quali vengono dettate disposizioni derogatorie rispetto a quelle contenute nel codice
civile. Si è posto quindi il problema della natura pubblica o privata di queste società e, per alcune
di esse, è prevalsa l’idea che abbiano natura pubblica : sarebbero “enti pubblici con struttura
societaria”. Ad es., sono state ritenute pubbliche Patrimonio dello Stato s.p.a. e Riscossione s.p.a.
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(attualmente detta Equitalia). Secondo la giurisprudenza, le società avrebbero natura pubblica in


presenza dei seguenti elementi : 1) istituzione per legge; 2) partecipazione totalitaria o maggioritaria
di enti pubblici; 3) carattere pubblico dei compiti da perseguire; 4) poteri di indirizzo da parte di
autorità pubbliche; 5) soggezione a disciplina in parte diversa da quella codicistica; 6) irrilevanza
dello scopo di lucro.
Occorre tenere distinte le “SOCIETÀ PUBBLICHE”, che sono enti pubblici, dalle “SOCIETÀ A
PARTECIPAZIONE PUBBLICA”, che sono soggetti privati, anche se a loro possono applicarsi
alcune norme dettate per l’amministrazione pubblica. In tempi recenti, si supera la figura dello
“Stato imprenditore” e si afferma lo “STATO REGOLATORE” : lo Stato deve limitarsi a dettare le
regole per il corretto sviluppo dell’economia. Si fa strada quindi l’idea di restringere la possibilità
per gli enti pubblici di partecipare a società che gestiscono servizi pubblici, poichè anche questi
devono essere lasciati alla libera concorrenza tra imprese private. Negli ultimi tempi
l’atteggiamento del legislatore nei confronti delle società a partecipazione pubblica è cambiato :
poichè esse non hanno determinato una maggiore efficienza nella gestione dei servizi e ne hanno
anzi aumentato i costi, si è fatto molto più severo. Ad esempio sono state poste forti limitazioni alla
costituzione di nuove società ed è stata prevista la dismissione della partecipazione pubblica nelle
società in perdita.
*NAZIONALIZZAZIONE = passaggio alla proprietà e al controllo dello Stato di “servizi di pubblica utilità” o “imprese”
prima gestite da privati. E’ l’opposto di PRIVATIZZAZIONE, DISMISSIONE.

*DISMISSIONE = cessione, vendita a privati; privatizzazione.

8. La fisionomia attuale dell'amministrazione pubblica. Perfezionatosi


il passaggio da un’amministrazione tutta concentrata nello Stato al sistema attuale, caratterizzato dal
“principio autonomistico”, il quadro che ne risulta è comunque insoddisfacente, troppo complesso e
poco efficiente.
Le amministrazioni pubbliche sono tutte le amministrazioni dello Stato, comprese le Regioni, le
Province, i Comuni, le Comunità montane, le scuole, le istituzioni universitarie, le Camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura, tutti gli enti pubblici non economici, le aziende e gli
enti del Servizio sanitario nazionale, e le Agenzie.
Il panorama dell’amministrazione pubblica è sovraccarico : esso si impernia sugli “enti territoriali”,
che ne costituiscono la spina dorsale. Intorno agli enti territoriali operano poi innumerevoli strutture
pubbliche e private, che però non sempre si dimostrano efficienti (autorità indipendenti, agenzie,
enti pubblici, imprese pubbliche e società pubbliche e a partecipazione pubblica).
Proprio per questo, negli ultimi decenni è stato avviato un processo di PRIVATIZZAZIONE, che ha
comportato la trasformazione di molti enti pubblici e di tutte le aziende autonome statali e delle
aziende municipalizzate in società private (normalmente in società per azioni). Tale processo non ha
però dato luogo ad una completa privatizzazione, poichè tali società restano soggette sotto molti
aspetti a discipline pubblicistiche (ad es., per quel che riguarda il controllo della Corte dei Conti e il
modo di concludere i contratti).
Quindi gli organismi che curano gli interessi pubblici non hanno tutti natura pubblica, e,
ciononostante, sono tenuti a rispettare, almeno in parte, la disciplina pubblicistica. Per indicare
questo fenomeno si parla di “P.A. in senso sostanziale” (la “P.A. in senso formale” è il complesso

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dei soli organismi aventi natura pubblica). La tendenza moderna è che lo Stato e gli altri enti
territoriali dismettano le vesti di operatori economici e acquistino il ruolo di regolatori del mercato;
smettano di essere produttori di servizi e si limitino a svolgere funzioni di indirizzo e sorveglianza
dei privati operatori dei vari settori. A tal fine è stata introdotta l’“Autorità indipendente”, una
struttura diretta da un organo collegiale, che opera al riparo dall’indirizzo politico del Governo,
assicurando in tal modo la massima imparzialità (ad es. l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato o l’Autorità di regolazione dei trasporti).

- CAPITOLO 2. LE AMMINISTRAZIONI COME


OPERATORI GIURIDICI -

1. Le amministrazioni come figure soggettive. Finora le amministrazioni sono


state prese in considerazione come “STRUTTURE ORGANIZZATIVE”. Ora dobbiamo considerarle
come “OPERATORI GIURIDICI” : le amministrazioni hanno il compito di curare gli interessi
pubblici usando strumenti giuridici, ossia operando con atti giuridici. Da questo punto di vista, le
amministrazioni si presentano come figure giuridiche soggettive, ossia come centri di riferimento di
situazioni giuridiche soggettive. Tuttavia, le amministrazioni, pur essendo figure soggettive, non sono
necessariamente anche persone giuridiche, dal momento che la “PERSONALITÀ GIURIDICA”
implica non solo la sussistenza di un “centro di azione” (elemento comune sia alla figura soggettiva
che alla persona giuridica), ma anche di un “centro di responsabilità” (elemento che, invece,
caratterizza solo la persona giuridica). Quanto detto trova conferma nell’ampio panorama che ci offre
l’organizzazione pubblica : se è vero infatti che nel nostro sistema giuridico è elevato il numero di
pubbliche amministrazioni con personalità giuridica (si pensi allo Stato agli enti pubblici, sia
territoriali che funzionali), ancora più numerose sono le amministrazioni che, pur avendo la qualità di
soggetti, sono prive di personalità giuridica : ad es. lo Stato è una persona giuridica, ma è articolato in
molte amministrazioni che sono semplici soggetti (come i ministeri e alcune agenzie).
Le persone giuridiche sono caratterizzate da una disciplina speciale, rilevante soprattutto sul piano
della responsabilità patrimoniale : la persona giuridica risponde delle sue obbligazioni nei limiti del
suo patrimonio. Ciò è rilevante per le persone giuridiche che sono destinate a operare nel mondo degli
affari come operatori economici (ad es., le società), ma non dove la responsabilità patrimoniale conta
meno, come nei “rapporti di diritto pubblico”. Da ciò discende un dato importante : nel settore
pubblico, mentre è essenziale la nozione di SOGGETTO GIURIDICO (figura soggettiva), è meno
rilevante la nozione di PERSONA GIURIDICA : ciò che conta è che vi siano “centri di imputazione
delle attività dirette alla cura degli interessi pubblici”. Si spiega così anche come, con semplici tratti
della penna del legislatore, le amministrazioni possano acquistare o perdere la personalità giuridica
senza conseguenze di rilievo.

2. L’imputazione giuridica. Le pubbliche amministrazioni, in quanto figure soggettive,


possono svolgere azioni giuridiche rilevanti, mediante la predisposizione di atti giuridici : tutto ciò,
però, può avvenire solo grazie all’intervento di persone fisiche che, agendo, imputano alla figura
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soggettiva gli atti compiuti (c.d. IMPUTAZIONE). Il problema è il modo in cui le amministrazioni
vengono rese “operatori giuridici”.
Il problema era risolto originariamente con il “MODELLO DELLA RAPPRESENTANZA”, per cui
l’atto giuridico compiuto da una persona fisica «produce direttamente effetto» nei confronti della
persona giuridica. Con il modello della rappresentanza si ha pertanto l’imputazione alla persona
giuridica dei soli “effetti giuridici” prodotti dagli atti compiuti dal rappresentante. Né più né meno di
ciò che accade nella rappresentanza delle persone fisiche incapaci di agire.
Il modello della rappresentanza è però parso inadeguato : 1) per la complessità della struttura
organizzativa della persona giuridica Stato, che era composta da un elevato numero di rappresentanti;
2) perché il modello della rappresentanza non riguardava tutti i “fatti giuridici”, ma solo i fatti
giuridici negoziali e limitava l’imputazione al solo effetto derivante dall'atto giuridico, e non la
estendeva all’atto in quanto tale. L’atto compiuto dal rappresentante restava atto del rappresentante e
non era trattato, quindi, come atto del rappresentato.
Per ovviare a questi inconvenienti fu quindi elaborato un diverso modello di imputazione giuridica,
quello dell’ “ORGANO”, la cui nozione fu concepita nell’ambito della “teoria organicistica dello
Stato” (cioè per risolvere il problema della capacità di agire dello Stato). Con la figura dell’“organo”
si ha un “rapporto di imputazione” più ampio rispetto all’imputazione propria del rapporto di
rappresentanza : infatti alla persona giuridica non viene trasferito solo l’effetto giuridico prodotto, ma
anche l’atto giuridico che lo produce.
Il più intenso contenuto dell’ imputazione, per cui la “persona giuridica” non è solo il soggetto nei cui
confronti si produce l’effetto, ma è anche il soggetto che è divenuto titolare (autore) dell'atto, ha fatto
descrivere il rapporto tra l’organo e la persona giuridica come “rapporto di immedesimazione
organica” (idea però da alcuni contestata). Di immedesimazione organica si può sicuramente parlare a
condizione che la nozione sia svincolata dalla sua concezione originaria, dove essa serviva ad attribuire
la capacità di agire alle persone giuridiche. L’orientamento più moderno nega infatti che le persone
giuridiche abbiano capacità di agire e afferma che esse hanno capacità di imputazione giuridica di atti.
La figura soggettiva diventa sì titolare di atti giuridici, ma non perché sia capace di compierli, ma
perché ad essa vengono attribuiti gli atti compiuti dai suoi organi.
L’idea dell’“IMMEDESIMAZIONE ORGANICA” rende a dovere la differenza tra l’organo e il
rappresentante : l’ORGANO non è un’entità soggettiva distinta dalla persona giuridica. Egli è parte
della persona giuridica che agisce. La persona giuridica infatti si compone di organi che sono formati,
a loro volta, da persone fisiche (che non agiscono in nome e per conto della persona giuridica, ma ne
sono parte integrante). L'organo è quindi inserito nel quadro organizzativo della persona giuridica e,
sotto questo profilo, si presenta come “ufficio”. L’organo, anzi, può essere tale solo in quanto
incardinato nell’ufficio e, quindi, nei limiti della competenza propria dell’ufficio. L’organo è però
necessariamente una o più persone fisiche, poichè solo la persona fisica ha l’ idoneità naturale ad agire,
a compiere atti giuridici, e solo lei, quindi, può imputare alla persona giuridica gli atti giuridici da essa
materialmente compiuti. L’immedesimazione organica fa sì che sia la “persona giuridica” ad essere
giuridicamente considerata l’autore degli atti giuridici materialmente compiuti dalla persona fisica
avente la qualità di organo.

3. L'organo come strumento di imputazione . Con l’IMPUTAZIONE


ORGANICA tutti gli atti e gli effetti giuridici posti in essere materialmente dalla persona fisica (in
veste di organo) sono imputati alla figura soggettiva. Ciò è molto utile dal punto di vista pratico,
poiché la tutela di coloro che entrano in rapporto con la figura soggettiva si rafforza, dato che questa
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non può sottrarsi alla responsabilità, assumendo che gli atti viziati vadano attribuiti all’organo e non a
se stessa.
Ma dire che l’organo è strumento di imputazione alla figura soggettiva non basta. Occorre anche
individuare quali atti siano oggetto di imputazione. Il problema più rilevante riguarda l’imputazione
alla persona giuridica dei meri “fatti” (e, in particolare, dei fatti illeciti). In merito, mentre si è concordi
sull’imputabilità alla persona giuridica, da parte dell’organo, di “atti precettivi” (negozi, provvedimenti
e atti normativi) e di “meri atti giuridici”, non c’è concordia a proposito dei FATTI GIURIDICI.
1) Secondo alcuni l’imputazione giuridica riguarda “tutti i comportamenti giuridicamente rilevanti”
(leciti e illeciti) e perfino fatti psicologici e di conoscenza (buona o mala fede, conoscenza o ignoranza
di circostanze, ecc.), purché siano fatti umani. 2) Secondo altri l’organo imputa alla persona solo “atti”,
e non fatti, in quanto – come affermava Giannini – “le imputazioni di fattispecie fattuali non
richiedono che il fatto sia naturalisticamente riferibile a un organo” (o, più correttamente, alla persona
fisica avente qualità di organo). La seconda tesi è preferibile dal punto di vista giuridico, per due
motivi : 1) sia perché la nozione di “organo” si riferisce solo alla figura soggettiva intesa come
operatore giuridico (ossia come soggetto, cui il diritto riconosce la possibilità di curare i suoi interessi
attraverso il compimento di “atti”); 2) sia perché per i fatti illeciti si usa la nozione di “imputabilità”,
che è diversa da quella di “imputazione” riferita al rapporto tra l’organo e la persona giuridica. Ciò
trova anche conferma nella lettera della legge : a proposito dei “fatti illeciti civili”, imputabili alle
persone giuridiche, vigono “regole generali” (artt. 2049-2054 c.c.) per tutte le persone giuridiche, o
“regole speciali” per le persone giuridiche pubbliche (ad es. art. 28 Cost.). Tali regole non hanno nulla
a che vedere con la figura dell’organo e con il rapporto di imputazione organica. La responsabilità
delle persone giuridiche connessa a “illeciti penali”, invece, è disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001.
L’imputazione dei fatti illeciti si fonda sul nesso di causalità materiale; i “fatti illeciti” non sono
estrinsecazione della soggettività giuridica, né sono riferibili al soggetto inteso come operatore
giuridico. Anche soggetti giuridicamente incapaci possono infatti essere imputati di fatti illeciti.
Compiere un fatto illecito significa compierlo materialmente; compiere un atto giuridico significa
esserne giuridicamente l’autore.

4. Organo e ufficio. Una particolare attenzione occorre dedicarla alle nozioni di ORGANO
e di UFFICIO. L’ORGANO è un centro operativo (persona fisica o collegio di persone fisiche),
attraverso cui si imputano atti ed effetti alla persona giuridica. Essere uno “strumento di imputazione”
implica che l’organo abbia una sua collocazione nella struttura organizzativa, e poiché qualsiasi
struttura organizzativa si articola in “uffici”, l’organo (considerato sotto il profilo organizzativo) deve
essere considerato un UFFICIO (cioè come un centro di lavoro). Esemplare, al riguardo, è la massima
di Giannini, secondo cui “l’ORGANO è un ufficio di imputazione”. Allora si pone un dilemma : il
“rapporto di imputazione” si radica nell’organo considerato come ufficio o nella persona fisica che è
preposta all’ufficio e che è titolare dell’organo? Il RAPPORTO DI IMPUTAZIONE corre tra la
“persona fisica titolare dell’organo” e la “figura soggettiva”.
L’ORGANO, dal punto di vista strutturale, tecnico è parte integrante della struttura organizzativa della
figura soggettiva : in quanto tale può essere inteso come “ufficio”. Dal punto di vista funzionale, esso è
invece uno “strumento di imputazione”, che si identifica perciò con la persona fisica titolare
dell’organo-ufficio. Non bisogna, quindi, confondere il RAPPORTO DI IMPUTAZIONE (che corre
tra l’organo e la figura soggettiva) con il PROFILO ORGANIZZATIVO, che è l’unico sotto cui
l’organo rileva come ufficio.
Ma quali sono gli atti compiuti dalla persona fisica che vengono imputati alla persona giuridica? La
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risposta si trova nella “delimitazione funzionale” di ciascun organo, che corrisponde all’ambito della
competenza dell’ufficio (cioè, ogni organo può imputare alla persona giuridica solo gli atti che egli
compie nell’ambito della competenza che gli spetta).

*CAPACITA’ GIURIDICA = capacità di essere titolare di diritti ed obblighi (situazioni giuridiche soggettive). Si
acquista con la nascita.

*CAPACITA’ DI AGIRE = capacità di porre in essere atti giuridici validi. Si acquista con la maggiore età.

*SOGGETTO GIURIDICO = qualsiasi centro di imputazione giuridica.

*RAPPRESENTANTE = agisce in nome e per conto del rappresentato.

*IMPUTARE = attribuire.

*ORGANO DI UNA PERSONA GIURIDICA = è la persona fisica o l’insieme delle persone fisiche che agisce per essa,
compiendo atti giuridici.

*PERSONA FISICA = essere umano.

*PERSONA GIURIDICA = persona “ficta”, finzione che l’ordinamento usa per imputare rapporti giuridici anche a
soggetti diversi dalle persone fisiche.

*INCARDINATO = collocato.

*SITUAZIONI GIURIDICHE INATTIVE = statiche.

*SITUAZIONI GIURIDICHE ATTIVE = dinamiche.

*UFFICIO = unità organizzativa di un ente.

*ORGANO = parte dell’ente. Articolazione interna dell’ente specializzata per un determinato compito che viene
attribuito alle sue competenze.

*TITOLARE DELL’UFFICIO = colui che è preposto all’ufficio.

*ART. 28 COST. = “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili,


secondo le leggi penali, civili e amministrative , degli atti compiuti in violazione di diritti . In tali casi la “responsabilità
civile” si estende allo Stato e agli enti pubblici ”. In pratica sancisce la DUPLICE RESPONSABILITA’ (DIRETTA E
SOLIDALE) TRA ENTE ED ORGANO.

*IMMEDESIMAZIONE ORGANICA = a differenza della “rappresentanza” (dove ci sono due soggetti), evidenzia
l’esistenza di un solo soggetto. L’organo non è, nello svolgimento delle sue funzioni, diverso dalla persona giuridica. E’
riferito alla capacità di agire della persona giuridica.

- CAPITOLO 3. LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE -

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1. Il disegno organizzativo delle strutture. Le AMMINISTRAZIONI, in quanto


strutture organizzative, sono delle vere e proprie macchine ideate per lo svolgimento di attività
complesse, in vista del perseguimento di un risultato. L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA è
interamente disciplinata da norme giuridiche, di rango anche costituzionale. Le strutture organizzative
pubbliche sono : 1) “ORGANIZZAZIONI FORMALI”, ossia costituite per raggiungere determinati
scopi; 2) e “BUROCRATICHE”, poichè l’attività lavorativa, che viene svolta al loro interno, è alquanto
articolata : a cominciare dall’assunzione dell’iniziativa, passando per l’acquisizione dei dati, fino alla
decisione finale.
L’ORGANIZZAZIONE DELLE AMMINISTRAZIONI si articola in c.d. “centri di lavoro” che ne
costituiscono le unità strutturali elementari, detti uffici, posti tra loro in una qualche relazione che li metta
«a sistema». Sicché il disegno organizzativo è composto non solo dalla somma degli uffici, ma anche dai
compiti assegnati a ciascuno di essi e dalla loro rete di relazioni. L’indicazione del numero, della
dimensione e del ruolo degli uffici acquista dignità giuridica in quanto il “principio di legalità” impone
che tale disegno sia fissato con norme giuridiche.

2. La nozione di ufficio. Le unità elementari di qualsiasi struttura organizzativa sono gli


UFFICI. Essi investono solo il piano organizzativo, essendo estranei al problema della soggettività e delle
imputazioni. Perciò, la nozione di UFFICIO (riferita all’organizzazione strutturale delle amministrazioni)
deve essere tenuta distinta da quella di ORGANO (riferita alla soggettività giuridica delle
amministrazioni). Organo e ufficio sono quindi nozioni riguardanti profili diversi (l’uno riguarda il tema
della SOGGETTIVITÀ GIURIDICA delle organizzazioni, l’altro quello della loro ARTICOLAZIONE
ORGANIZZATIVA). Gli “uffici”, quindi sono articolazioni organizzative che hanno la funzione di
preparare l’attività a rilevanza esterna propria degli organi e che, quindi, svolgono compiti di rilevanza
meramente interna. La valorizzazione della sostanza meramente organizzativa dell'ufficio, inteso come
centro di lavoro, ha posto la premessa per qualificarlo come “predeterminazione di un’attività lavorativa
che, coordinata con le attività degli altri centri di lavoro (uffici), consente all’amministrazione di svolgere
le proprie funzioni”. In tal senso si può dire che gli uffici sono “sede e punto di svolgimento della
funzione”. Inoltre ciascun ufficio è dotato di un proprio ruolo. Le norme giuridiche possono disegnare
uffici con più ruoli o distribuire uno stesso ruolo su più uffici.

3. Rapporto d'ufficio. Dovere d'ufficio. Rapporto di servizio.


Munus e officium. L’ufficio si compone di persone fisiche che, ivi incardinate, prestano
la propria attività lavorativa : esse sono gli ADDETTI, tra cui si distingue, per la sua posizione
preminente, il TITOLARE DELL’UFFICIO. Questo è la persona fisica che, assegnando compiti
specifici agli addetti, dirige il lavoro dell’ufficio e ne è responsabile anche nei rapporti con gli
altri uffici. Si delinea, quindi, all’interno dell’ufficio, una gerarchia.
Su ciascuno degli addetti e sul titolare dell’ufficio grava l’OBBLIGO DI PRESTARE IL
PROPRIO LAVORO PROFESSIONALE, consistente nel compimento delle attività che sono
demandate all’ufficio. A fronte di tale obbligo sta il DIRITTO DELL’AMMINISTRAZIONE DI
RICEVERE LA PRESTAZIONE LAVORATIVA. Tale diritto è il lato passivo del rapporto che
corre tra l’amministrazione e la persona fisica (addetto), denominato “RAPPORTO D’UFFICIO”.
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Il c.d. DOVERE D’UFFICIO, inteso come dovere degli addetti di prestare il loro lavoro nella
struttura organizzativa, non deve essere confuso però con la c.d. DOVEROSITÀ DELLA
FUNZIONE, con cui invece ci si riferisce all’azione che l’amministrazione è tenuta a
intraprendere per il perseguimento degli obiettivi prefissati. Quest’ultimo aspetto ci permette
anche di comprendere la differenza che intercorre tra il DOVERE D’UFFICIO e la figura del
MUNUS (o anche “ufficio in senso soggettivo”) : questi infatti, a differenza del titolare
dell’ufficio, è anche titolare della funzione ed è una figura soggettiva a cui è affidata la cura di un
interesse altrui, che può essere un interesse privato (tale è ad esempio la “potestà genitoriale”, che
comprende i diritti e i doveri da gestire nell’interesse dei figli minori) o un interesse pubblico (si
pensi all’attività professionale ausiliaria della funzione giurisdizionale, che viene svolta dai
“consulenti tecnici”).
Il MUNUS è qualsiasi attività da cui derivi l’attuazione di fini pubblici, esercitata da privati
(ossia da persone fisiche che non sono organi di enti statali o pubblici, ma che sono titolari di una
qualche potestà), quindi da persone fisiche investite della cura di interessi altrui. Il titolare di un
munus pubblico, pur mantenendo una natura privatistica, può adottare atti produttivi di effetti
amministrativi, anche se non perfettamente equiparabili agli atti amministrativi (tanto da escludere
per essi la giurisdizione del giudice amministrativo). Indica una funzione di pubblico interesse.
Esempi di munus publicum sono l'attività del tutore che ha la cura del minore, lo rappresenta in
tutti gli atti civili e ne amministra i beni; e l'avvocato nominato d'ufficio per la difesa della parte
ammessa al beneficio del gratuito patrocinio. Sono funzioni pubbliche attribuite ad un privato.
Dal munus va tenuto poi distinto l’OFFICIUM (“ufficio in senso oggettivo”), che è lo strumento
con cui una determinata collettività, priva di personalità giuridica (c.d. ente di fatto) riesce ad
agire giuridicamente. Ciò dimostra che l’officium, a differenza delle figure di ufficio su
analizzate, va considerato come un vero e proprio centro di imputazione, nel senso che gode di
una propria “soggettività”, in forza della quale è titolare anche di una propria legittimazione
sostanziale e processuale per la cura degli interessi affidatigli (si pensi alle rappresentanze
sindacali aziendali); interessi che, a differenza del munus, non sono estranei rispetto alla struttura
organizzativa di queste figure soggettive.
Il RAPPORTO D’UFFICIO è esteso a tutti i componenti dell’ufficio (e, dunque, oltre che al
titolare dell’ufficio, a tutti gli addetti che sono legati all’amministrazione).
Quando investe il titolare, il rapporto d'ufficio assegna anche la qualifica di “organo” : tramite il
rapporto d’ufficio la
persona fisica, che riveste quella posizione all’interno dell'ufficio, imputa gli atti che compie in capo
alla
figura soggettiva.
Il “rapporto d’ufficio” si instaura con l’ATTO DI INVESTITURA DEL TITOLARE, dopo un
procedimento di nomina o mediante un sistema di elezione. La nomina può derivare da una scelta
basata sulla fiducia, scelta a volte effettuata tra una «rosa» di aspiranti indicati dalla legge o da
un’autorità amministrativa (proposta di designazione) in base ai requisiti ritenuti più idonei per quello
specifico ufficio. Quando consegue ad un procedimento elettorale (come per i consiglieri regionali,
provinciali e comunali), la nomina investe rappresentanti del corpo elettorale.
Distinto dal “rapporto d’ufficio” è il “RAPPORTO DI SERVIZIO”, che investe chi è alle dipendenze
dell’ amministrazione pubblica (gli addetti e il titolare dell’ufficio) svolgendo
per la persona giuridica un’attività lavorativa a titolo professionale, ossia in modo

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continuativo ed esclusivo dietro corresponsione di una retribuzione.


Tale rapporto racchiude tutto ciò che attiene al trattamento
economico della persona fisica (che è anche impiegato) che presta la propria attività lavorativa e al suo
stato giuridico (qualifica, anzianità, mansioni, ecc.). In ogni caso, le vicende dell’uno e dell’altro
rapporto, sebbene distinte, incontrano momenti di collegamento, come nel caso in cui per poter essere
preposti ad
un ufficio è necessario possedere determinate qualifiche nell’ambito del rapporto di
lavoro.

4. Uffici monopersonali e pluripersonali. Se un ufficio si compone di più persone


fisiche, acquisisce il carattere della COLLEGIALITA’, che però comporta la necessità di ridurre a
unità le opinioni dei singoli componenti del collegio : a tal fine, l’ordinamento ha fissato delle regole
destinate a regolare la costituzione dell’ufficio e la deliberazione della decisione.
Per la COSTITUZIONE DEL COLLEGIO è necessaria la presenza di un certo numero di componenti
(c.d. quorum strutturale) stabilito dalla legge che, in assenza di diverse previsioni, si ritiene integrato
con la presenza della metà dei componenti del collegio più uno, e che deve permanere per tutta la
durata della seduta : si pensi, ad esempio, ad un consiglio comunale formato da 40 consiglieri, al cui
interno il quorum strutturale sussiste quando sono presenti almeno 21 di essi.
Se la normativa prevede l’obbligatoria presenza di tutti i componenti del collegio per la validità della
riunione, il collegio si dice “PERFETTO” : si pensi ad esempio ai tribunali penali, civili e
amministrativi.
Una volta costituito, il collegio delibera (secondo i punti indicati nel c.d. ordine del giorno della
seduta) sulla “proposta di delibera” emersa all’esito della discussione. La “proposta di delibera”
diventa “delibera del collegio” solo quando si sono espressi favorevolmente su di essa i componenti
del collegio nel numero richiesto dalla norma, variabile a seconda del tipo di collegio o del tipo di
delibera da adottare (c.d. quorum funzionale), ma che, in assenza di precise disposizioni, corrisponde
alla metà dei membri votanti più uno (c.d. maggioranza semplice), sebbene spesso siano previste
maggioranze qualificate : pertanto, se un consiglio comunale è composto da 40 persone, il quorum
strutturale è di 21 membri, mentre quello funzionale dipenderà dal numero dei presenti (così, ad es., se
alla seduta sono presenti 30 componenti, il quorum funzionale sarà di 16 voti : la metà più uno dei
presenti).
Durante la votazione può accadere che uno dei componenti si astenga : in tal caso, salvo diversa
indicazione normativa, l’astenuto viene computato tra i votanti e, quindi, viene computato nel quorum
strutturale (e dunque tra i presenti).
I collegi sono costituiti da un numero fisso di persone, anche se ci sono casi in cui la composizione è
variabile in relazione a fatti oggettivi (ad es. il numero di candidati da esaminare, come nel caso della
commissione per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato) o se sono chiamati a
parteciparvi tutti coloro che hanno una particolare qualifica (ad es. tutti i professori di ruolo di
un’università).
I componenti del collegio devono esprimere il loro voto sulla base dei punti indicati nel c.d. “ordine
del giorno” (che racchiude l’elenco degli argomenti su cui il collegio dovrà deliberare) : l’ordine del
giorno deve essere fissato dal Presidente, che convoca e presiede l’adunanza, con il relativo ordine dei
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lavori. La deliberazione si ritiene assunta quando i componenti del collegio esprimono la loro volontà,
e non quando è approvato il verbale della relativa seduta (che di solito è approvato nella seduta
successiva). La verbalizzazione integra, infatti, un’attività successiva, affidata ad un segretario, volta a
tradurre per iscritto lo svolgimento della discussione e il contenuto della decisione assunta.
In dottrina si distingue tra COLLEGI DI PONDERAZIONE, quando si riuniscono in un unico corpo
più capacità professionali, persone che prendono parte al collegio per la loro capacità di valutazione
(ed è proprio per questo che sono detti anche “collegi di valutazione”, composti da persone che, per la
loro professionalità, devono valutare fatti specifici) e COLLEGI DI COMPOSIZIONE, se la ragione
della collegialità è quella di comporre in un’unica sede interessi diversi, eterogenei. I “collegi di
ponderazione" sono composti da persone che vi prendono parte per la loro capacità di valutazione,
mentre nei “collegi di composizione” entrano a far parte i rappresentanti di interessi diversi.
I collegi di ponderazione sono perfetti; quelli di composizione sono invece collegi imperfetti : i primi
funzionano solo con la partecipazione di tutti i componenti (= plenum); i secondi possono funzionare
anche in assenza di alcuni componenti.

5.Il funzionario di fatto. Qualora il titolare dell'ufficio si trovi, nel corso del rapporto,
in situazioni di temporanea incapacità di prestare la propria attività lavorativa (ad es. incarichi fuori
sede o situazioni di carattere personale) l’ordinamento prevede, per assicurare la continuità
dell’esercizio dei compiti dell’ufficio, le due figure della SUPPLENZA e della REGGENZA. Il
supplente (che nella maggior parte dei casi è il titolare di un altro ufficio dell’amministrazione)
subentra automaticamente nella titolarità dell’ufficio al verificarsi della vacanza, senza che sia
necessario uno specifico atto di nomina. La reggenza, invece, entra in gioco solo nel caso in cui non
sia stata disposta la supplenza : in tal caso, si rende necessaria la nomina di un altro titolare
dell’ufficio, specificamente individuato secondo procedure stabilite. Però queste figure (che
regolano le ipotesi in cui il titolare dell’ufficio sia temporaneamente incapace di svolgere le sue
mansioni) non hanno nulla a che vedere con la “CESSAZIONE DEL RAPPORTO D'UFFICIO” :
quest’ultima può essere determinata da cause riguardanti la persona del titolare (ad es. morte o
impedimento permanente) o dalla cessazione del rapporto di lavoro (ad es. per scadenza dello
stesso). In quest’ultimo caso, però, sorge la necessità di assicurare il regolare funzionamento
dell’ufficio : a tal riguardo, in passato, per assicurare la continuità di funzionamento degli uffici, si
permetteva al titolare dell’ufficio di continuare a esercitare il proprio ruolo fino all’insediamento del
successore; una simile possibilità (che veniva fatta rientrare nell’ambito della prorogatio) era però
prevista solo per gli uffici a titolarità politica (ad es. i Consigli comunali e provinciali, una volta
scaduti, restano in carica fino all’elezione dei nuovi); al contrario, per gli uffici a titolarità onoraria
e per tutte le nomine di competenza parlamentare, dopo un incisivo intervento della Corte
costituzionale, il legislatore è intervenuto con una disciplina che, nel ribadire il principio per cui gli
organi amministrativi svolgono «le loro funzioni secondo il termine di durata per ciascuno di essi
previsto ed entro tale termine devono essere ricostituiti», consente, in caso di mancata
ricostituzione, al titolare scaduto di operare in regime di prorogatio per non più di 45 giorni
decorrenti dalla scadenza, adottando solo atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli urgenti e
indifferibili specificamente motivati. Al di fuori di questi confini, gli eventuali atti assunti sono

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sanzionati con la nullità.


In ogni caso, la figura del titolare prorogato non ha nulla a che vedere con quella del
“FUNZIONARIO DI FATTO”, che invece è quel soggetto che pone in essere un atto senza esserne
legittimato, in quanto il suo atto di investitura è illegittimo, nullo, o addirittura mancante : in casi
del genere, le regole sull’ invalidità dell’atto di investitura dovrebbero comportare l’invalidità di
tutti gli atti adottati dal funzionario di fatto; il che, però, cagionerebbe un danno ai destinatari
dell’azione amministrativa (che infatti, non essendo a conoscenza dell’investitura, non possono
controllarne la validità). Per risolvere l’inconveniente, pertanto, si è formata nel tempo la regola per
cui tutti gli atti posti in essere dal titolare di un ufficio il cui atto di investitura sia illegittimo o
manchi del tutto sono validi, fino a quando l’atto di investitura non venga annullato : in questo
modo si è cercato di salvaguardare la “buona fede” dei soggetti che, rivolgendosi
all’amministrazione, fanno affidamento su persone che paiono titolari dei loro uffici.
Distinta dalla figura del funzionario di fatto è quella dell’“USURPATORE DI UFFICIO”, colui che
con coscienza e volontà assume la titolarità dell’ufficio in assenza di una valida investitura (al
contrario, il funzionario di fatto agisce in mancanza di una volontà usurpatrice).

5.1. Lo SPOILS SYSTEM. Lo SPOILS SYSTEM (sistema del bottino) è la pratica


politica secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare
del governo. Le forze politiche al governo scelgono i dirigenti, affidano dunque la guida della
complessa macchina amministrativa a dirigenti che ritengono che non solo possano, ma anche
vogliano far loro raggiungere gli obiettivi politici. Nell’accezione più negativa, le forze politiche al
governo distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti le varie cariche istituzionali, la titolarità
di uffici pubblici e posizioni di potere, in modo da garantire gli interessi di chi li ha investiti
dell’incarico. Sebbene le linee generali di questa pratica si possano ricondurre alla nozione
di “clientelismo” (pratica consistente nel concedere vantaggi a chi può offrire un contraccambio),
l’espressione spoils system non implica, originariamente, una connotazione negativa o l’idea che
tale distribuzione di cariche sia necessariamente un abuso : si tratta di un’espressione che descrive
una prassi formalmente riconosciuta, e apertamente applicata in vari Paesi. Allo spoils system si
contrappone spesso il merit system (letteralmente: sistema del merito) in base al quale la titolarità
degli uffici pubblici viene assegnata a seguito di una valutazione oggettiva della capacità di
svolgere le relative funzioni, senza tenere conto dell' affiliazione politica dei candidati agli uffici.
Un tipico esempio attraverso il quale si realizza il merit system è un concorso pubblico.
A partire dagli anni ‘90, l’espressione “spoils system” è entrata in uso anche in italiano, per indicare
l’insieme dei poteri che consentono agli organi politici di scegliere le figure di vertice
come segretari generali, capi di dipartimento, segretari comunali, ecc.
Lo spoils system è stato regolato in via legislativa regolato nel 2002 e nel 2006, prevedendosi la
cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza nella pubblica amministrazione
passati 90 giorni dalla fiducia al nuovo esecutivo (cioè la nomina di un nuovo governo).
L’istituto ha come ratio la necessità di fiducia e armonia fra l’amministrazione e la politica come
elemento necessario per il buon andamento della pubblica amministrazione.
La questione ha dato luogo a numerosi pronunciamenti della Corte Costituzionale. La Corte
costituzionale, nel 2006, ha confermato la validità del sistema dello spoils system, affermando come
la necessità del buon andamento della pubblica amministrazione sia prioritaria rispetto al “principio
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di imparzialità” (che in teoria escluderebbe vertici amministrativi "parziali" verso l’esecutivo); la


corte ha però anche affermato come tale sistema non possa infrangere lo spazio riservato
all’indipendenza della pubblica amministrazione (generalmente, quello più strettamente legato
all’attività della stessa) limitando quindi lo spoils system solo alle posizioni apicali ed escludendo la
media dirigenza ed i vertici delle società pubbliche; essa affermò anche come il sistema non potesse
concretizzarsi in una precarietà inaccettabile della dirigenza, escludendo quindi il possibile
azzeramento dei vertici delle amministrazioni, cosa che creerebbe anche una pericolosa dipendenza
dell’amministrazione verso la politica. Per quanto riguarda l’individuazione precisa dei vertici
amministrativi interessati dallo spoils system, la Corte non ha fornito criteri capaci di individuarli
con precisione; si può solo intuire come siano le posizioni più a stretto contatto con gli organi
politici.
Tra il 2007 e il 2008 la Corte ha sanzionato con l’illegittimità le varie disposizioni di legge (statali e
regionali) che prevedevano meccanismi di cessazione automatica degli incarichi dirigenziali in caso
di “avvicendamento politico”. Tali disposizioni (quando non si tratti di posizioni dirigenziali di
vertice) contrastano con il “principio di continuità dell’azione amministrativa”, che è strettamente
correlato a quello di “buon andamento” (Corte Cost., 2007). La revoca delle funzioni
legittimamente conferite a un dirigente può essere conseguenza solo di un’accertata responsabilità
dirigenziale, in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia.

6. L'ufficio del responsabile del procedimento. Un esempio di concentrazione di più


ruoli in un unico ufficio è costituito dalla figura del RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO. Il
RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO è il responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento
procedimentale; questa figura è disciplinata dalla L. 241 / 1990 ed è stata istituita per garantire la funzionalità e
la trasparenza dell’azione amministrativa. Egli svolge numerosi compiti : valuta i presupposti, accerta i fatti,
svolge l’istruttoria, informa i destinatari del provvedimento e gli altri interessati e, ove ne abbia la
competenza, adotta il provvedimento finale. Tutti questi compiti, distribuiti ai vari uffici coinvolti nelle attività
procedimentali, sono accorpati in un ulteriore ufficio, quello del responsabile appunto, uni-personale (in quanto
composto da una sola persona fisica), che viene in vita ogniqualvolta prende avvio un procedimento.
Gli uffici sono riuniti sotto un dirigente cui è assegnato il compito di dirigere l’unità, compiendo tutti gli atti
necessari allo svolgimento di tale compito, primo fra tutti l’individuazione del responsabile del procedimento
ogniqualvolta un procedimento appartenente alla competenza dell’unità organizzativa prende avvio. Il dirigente
dell’unità organizzativa, quando un procedimento prende avvio, individua il responsabile del procedimento,
assegnando a sé o ad un altro dipendente addetto all’unità la responsabilità dell’istruttoria e di ogni altro
adempimento inerente il singolo procedimento (nonché, eventualmente, dell’adozione del provvedimento).
Fino a tale assegnazione è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all’unità
organizzativa. Responsabile può essere, dunque, sia il titolare dell’ufficio sia uno qualsiasi degli addetti
all’ufficio, scelto nell’ambito di uno degli uffici interessati dall’attività procedimentale (o anche, ma di rado, al
di fuori di essi). Si tratta, quindi, di un ufficio dotato di un proprio ruolo, diverso dal ruolo dell’ufficio cui la
persona appartiene e costituito dal singolo procedimento concreto.

7. Le fonti e i criteri di organizzazione. Le amministrazioni, in quanto “organizzazioni


complesse” (perché formate da più uffici preposti al raggiungimento di uno scopo), sono disciplinate con leggi,
regolamenti e atti organizzativi (adottati dalle singole amministrazioni). Gli atti organizzativi, con cui le
strutture sono concretamente gestite, sono adottati dalle singole amministrazioni interessate. E sono proprio
questi atti ad assumere un’importanza basilare, perché servono a stabilire le piante organiche, essenziali per
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determinare il numero e la consistenza degli uffici (ovviamente nel rispetto delle norme di legge).
Una volta stabilito il numero e la consistenza degli uffici, si deve procedere alla loro aggregazione, che può
avvenire secondo due linee di sviluppo : 1) la prima è la LINEA DI SVILUPPO VERTICALE (che si basa
sull’importanza del ruolo ricoperto dagli uffici e dei compiti loro affidati); 2) la seconda è la LINEA DI
SVILUPPO ORIZZONTALE (che si basa sulle diverse attività svolte dai vari uffici). Seguendo queste linee,
emerge una piramide, al cui interno gli uffici sono collocati secondo un “criterio di gerarchia” : si viene così a
creare un “rapporto di autorità-responsabilità” (ove l’autorità spetta agli uffici che hanno supremazia esecutiva,
mentre la responsabilità riguarda gli uffici subordinati ai primi).
Tuttavia, se è vero che ogni ufficio occupa una precisa posizione nella «linea gerarchica» (“ uffici di line ”), è
anche vero che si possono individuare anche uffici solo affidatari di compiti ausiliari (“ uffici di staff”).
A seconda poi del tipo di attività erogata possiamo distinguere tra AMMINISTRAZIONI BUROCRATICHE,
deputate all’esercizio delle funzioni pubbliche, e AMMINISTRAZIONI DAI CARATTERI AZIENDALISTICI
per l’espletamento di pubblici servizi.
La distribuzione del lavoro tra gli uffici avviene in base alla maggiore o minore rilevanza dei compiti loro
affidati (intendendosi come “compiti di maggior rilievo” quelli riguardanti le scelte sui modi e i tempi della
cura degli interessi affidati all’amministrazione competente e come “compiti di minor rilievo” quelli esecutivi).
Così viene definita ACCENTRATA la struttura in cui i compiti del primo tipo vengono assegnati agli uffici di
vertice della c.d. piramide gerarchica (detti “uffici centrali”) e DECENTRATA la struttura i cui compiti sono
assegnati agli uffici di base (detti “uffici periferici”).
Una figura soggettiva poi può presentare : 1) una STRUTTURA ORGANIZZATIVA UNITARIA (o
compatta), costituita da più uffici (a volte articolati in uffici centrali e periferici) sì da mostrare un carattere di
compattezza; questo quando svolge limitate funzioni; 2) qualora, però, sia titolare di numerose e diverse
attribuzioni, cui provvede con diverse strutture organizzative (ciascuna dotata di propri organi e di propri
uffici), l’amministrazione si presenta “DISAGGREGATA”. L’esempio principale è lo Stato che, pur essendo
una persona giuridica unitaria, si presenta come un aggregato di più strutture organizzative (i ministeri) che
esprimono ciascuno una propria attività, con i propri organi.
Le STRUTTURE si dicono, poi, “COMPIUTE” quando sono separate rispetto alle altre strutture facenti capo
ad un’organizzazione complessa (ad esempio quella statale), di cui costituiscono articolazioni organizzative e
sono idonee ad operare con propri organi. Si rinvengono di regola nelle organizzazioni disaggregate, ma sono
riscontrabili anche in quelle compatte. Esse perseguono finalità proprie, sono titolari di situazioni soggettive
proprie, esercitate attraverso organi propri (diversi sia da quelli della struttura principale nelle organizzazioni
compatte, sia da quelli delle altre strutture compiute in cui l’organizzazione complessiva si articola nelle
organizzazioni disaggregate). Si pensi alle amministrazioni statali, ove i singoli ministeri operano come figure
soggettive a sé stanti mediante propri organi, che esercitano un’attività distinta da quella di ogni altra figura
soggettiva facente capo allo Stato.

8. L'amministrazione dello Stato. Lo Stato, nella sua articolata struttura, integra


pienamente il modello delle “ORGANIZZAZIONI DISAGGREGATE”. Lo Stato, in quanto persona
giuridica unitaria, ricomprende una pluralità di amministrazioni, aventi una propria consistenza sul piano
organizzativo e che si presentano, perciò, come figure soggettive a sé stanti (cioè come vere e proprie
amministrazioni pubbliche). Infatti, nonostante il parere contrario di una parte della dottrina, le pubbliche
amministrazioni in cui si articola il complesso statuale si presentano con una fisionomia diversa anche
sotto il profilo della “soggettività”. Si tratta di centri di imputazione di situazioni soggettive, e quindi di
figure soggettive, sia pure prive di personalità giuridica. Infatti, ogni ministero ha “organi dotati di
rappresentanza legale”, che agiscono imputando le fattispecie compiute al ministero (e non allo Stato);
sicché dovrebbe potersi concludere che le singole amministrazioni dello Stato acquistano fisionomia di
“figure soggettive”.

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9. Le amministrazioni autonome. Svolgendo attività produttiva di beni e servizi


nell’ambito delle organizzazioni complesse di tipo burocratico, tali amministrazioni operano in modo
diverso rispetto alle strutture burocratiche a cui sono collegate. Esse, pur restando strutture della figura
soggettiva cui appartengono, hanno una struttura organizzativa compiuta (propri organi, proprie attività),
capace di operare giuridicamente in modo autonomo rispetto alla persona giuridica a cui appartengono,
anche perché godono anche di una spiccata autonomia contabile e finanziaria.
Tra le “amministrazioni autonome” ricordiamo : le aziende autonome dello Stato e le aziende
municipalizzate degli enti locali. Pur non avendo un proprio patrimonio, in quanto affidatarie di
compendi patrimoniali della struttura di riferimento, esse formano un bilancio separato, che viene
allegato a quello di quest’ultima.
In ogni caso, tale modello organizzativo è stato da tempo abbandonato.

*Incardinato = collocato
*Rapporto d’ufficio (o rapporto organico) = pubbliche funzioni svolte. E’ un rapporto non giuridico, ma organizzativo
(perché attiene alle imputazioni giuridiche dell’attività svolta dal titolare dell’organo). Infatti, l’atto compiuto dal
titolare dell’organo viene direttamente imputato all’ente. Sulla base di questo rapporto organico, la persona fisica
acquista la capacità di esercitare i poteri e le funzioni che le norme attribuiscono agli uffici delle pubbliche
amministrazioni.
*Rapporto di servizio = prestazione e retribuzione; è il rapporto di lavoro, di impiego, è un rapporto giuridico.
*Titolare dell’ufficio = o funzionario. Il funzionario è colui che è preposto all’ufficio (ha posizione di preminenza).
*Centro attivo di imputazione = è colui che imputa nel “rapporto di imputazione”.
*Vacante = privo di titolare.
*Quorum strutturale (o costitutivo) = il numero minimo degli aventi diritto che devono essere presenti a una
riunione.
*Quorum funzionale (o deliberativo) = numero di voti favorevoli minimo perché una proposta sia approvata.
*Collegi perfetti = possono deliberare validamente solo se sono presenti tutti i componenti (c.d. plenum).
*Collegi imperfetti = possono deliberare validamente anche se non sono tutti presenti (purchè sia raggiunto il
quorum strutturale).
*Carica onorifica = non prevede retribuzione e non dà effettivi poteri. E’ conferita a titolo di onore, senza gli obblighi
e i diritti inerenti.
*Funzionario di fatto = soggetto non legittimato a esercitare l’azione amministrativa.
*Prorogatio = istituto per cui i titolari degli organi possono continuare a esercitare le loro funzioni nonostante sia
scaduto il loro mandato, in attesa della nomina o dell’elezione dei successori.

- CAPITOLO 4. LE RELAZIONI ORGANIZZATIVE -

1.Relazioni organizzative e formule organizzative. Tra le amministrazioni si


instaurano molteplici rapporti, per creare un collegamento tra le diverse strutture : si tratta delle c.d.
RELAZIONI ORGANIZZATIVE. Se queste relazioni intercorrono tra strutture diverse, le stesse si
articoleranno nel binomio potestà / interesse protetto : il che vuol dire che mentre una delle due
strutture (quella sovraordinata) è titolare di potestà, l’altra (quella subordinata) è titolare di interessi
protetti.
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Però, l’intensità di questo rapporto non è univoca : è costante quando le strutture interessate (o almeno,
quella subordinata) hanno personalità giuridica; non è costante quando nessuna delle due strutture
interessate ha personalità giuridica (o quando entrambe appartengono alla stessa persona giuridica).
Questa diversa intensità del rapporto esplica particolari effetti anche sul piano dei RIMEDI : infatti, nel
caso di rapporto costante, la struttura subordinata può chiedere la
tutela dell’interesse protetto anche in sede giudiziale; nel caso di rapporto incostante, invece, la
subordinata può ricorrere solo in via amministrativa.
Oltre alle relazioni intercorrenti tra strutture diverse, il nostro sistema disciplina anche le RELAZIONI
TRA GLI UFFICI DI UNA STESSA STRUTTURA ORGANIZZATIVA (relazioni organizzative
interne) : in questi casi, però, i rapporti assumeranno la connotazione di “potestà-soggezione” (e non di
potestà / interesse protetto). Le
relazioni organizzative, quindi, dal punto di vista della loro consistenza giuridica, sono raggruppabili
in due tipi : i rapporti POTESTÀ-INTERESSE PROTETTO e i rapporti POTESTÀ-SOGGEZIONE. Dal
punto di vista, invece, dei termini tra cui esse corrono, possono individuarsi tre tipi : 1) le relazioni tra
uffici della stessa struttura (o della stessa amministrazione), che sono dette “RELAZIONI
INFRASTRUTTURALI”; 2) le relazioni tra strutture (o amministrazioni) diverse, che danno luogo a
“RELAZIONI INTERORGANICHE” (se le amministrazioni interessate non hanno personalità
giuridica) o a “RELAZIONI INTERSOGGETTIVE” (se le amministrazioni interessate hanno
personalità giuridica).
Le relazioni interne alle singole strutture si limitano a sostanziare il rapporto di gerarchia. Le relazioni
tra amministrazioni sono “rapporti giuridici”. L’insieme delle
relazioni esistenti tra le strutture caratterizza la posizione in cui le une si collocano rispetto alle altre.
Tali posizioni relazionali danno luogo a FORMULE ORGANIZZATIVE (o modelli organizzativi) che
sono raggruppabili nella “posizione di autonomia” o di “dipendenza”.

2. La gerarchia. La GERARCHIA è una nozione che nel tempo ha subito un’involuzione.


Infatti, nel primo modello di organizzazione amministrativa, che si ispirava a un sistema fortemente
accentrato, la gerarchia era l’unica formula organizzativa usata e ad essa venivano ricondotti tutti i tipi
di rapporti amministrativi : ad essa si ispiravano sia i rapporti interni alle singole amministrazioni, sia
quelli tra amministrazioni diverse. Tale vasto ambito di applicazione si è andato riducendo via via che
il modello “accentrato e statocentrico” si è andato evolvendo verso “formule pluralistiche e
decentrate”. Perciò oggi il “criterio gerarchico” si applica solo alle relazioni tra uffici della stessa
amministrazione (esso cioè ha il compito di collegare gli uffici interni a una singola amministrazione
per programmarne l’attività).
L’involuzione del “criterio gerarchico”, però, non ha riguardato solo l’ambito di applicazione, ma
anche il profilo dei contenuti : infatti, originariamente la gerarchia trovava il suo presupposto nella
comune sfera di competenza tra l’ufficio sovraordinato e l’ufficio sottordinato. La comunanza di
competenza consentiva all’ufficio superiore di ingerirsi liberamente nell’attività dell’ufficio inferiore,
sia avocando sia delegando in modo informale all’ufficio inferiore qualsiasi compito rientrante nella
comune sfera di competenza. Nel
tempo però le competenze degli uffici inferiori sono state individuate in modo formale e tassativo. La
gerarchia subisce così una prima involuzione, in quanto gli atti che interferiscono nella sfera di
competenza dell’ufficio inferiore iniziano a dover essere formalizzati (e quindi devono essere motivati
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e sono controllabili sotto il profilo della legittimità). La gerarchia è la formula organizzativa che
contiene in sé tutte le POTESTÀ DI SOVRAORDINAZIONE (indirizzo, programmazione, controllo).
Tipica della gerarchia è la POTESTÀ D’ORDINE, cioè la possibilità dell’ufficio sovraordinato di
prescrivere le modalità di comportamento cui l’ufficio subordinato deve attenersi nello svolgimento
della sua attività. Da questo potere derivano altri poteri, come : 1) quello di impartire direttive (in cui
si indicano gli obiettivi da raggiungere) all’ufficio subordinato (lasciando a questo un certo margine di
apprezzamento sulle modalità in cui realizzarli); 2) o il potere di risoluzione dei conflitti che possono
sorgere tra uffici subordinati; 3) o il potere di revoca e riforma degli atti emanati dall’ufficio inferiore.
Pertanto, dal punto di vista giuridico, con il termine “GERARCHIA” si fa riferimento ad una relazione
di sovraordinazione/ subordinazione tra uffici, in base a cui all’ufficio sovraordinato spettano poteri di
ordine (o di comando) nei confronti dell’ufficio subordinato.
La progressiva attenuazione dell’intensità del rapporto gerarchico ha spinto la dottrina a parlare di una
vera e propria “crisi della gerarchia”, da attribuire in primis all’avvento della Costituzione. L’art. 97,
2° comma, Cost., ad es., prevede che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di
competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari» : da ciò emerge non solo una
responsabilità propria del titolare dell’ufficio, diversa e distinta da quella del titolare dell’ufficio
sovraordinato, ma anche una distinzione delle sfere di competenza, il che comporta un’attenuazione
dei poteri di ingerenza dell’ufficio sovraordinato nei confronti di quello sottordinato. La distinzione
delle sfere di competenza mette in crisi il presupposto dell’identità di competenza tra uffici
gerarchicamente ordinati, necessario per dare vita a un rapporto di gerarchia. La responsabilità del
titolare di un ufficio presuppone che la competenza dell’ufficio sia distinta da quella dell’ufficio
sovraordinato. Per tali motivi c’è stato un ripensamento sulla nozione di gerarchia, che ha avuto
importanti svolgimenti anche in sede normativa : in proposito va ricordata la “riforma della dirigenza
statale” che non solo ha attribuito competenze esclusive ai dirigenti, ma ha anche attenuato i poteri
d’ingerenza del Ministro (che non ha più un potere d’ordine generale, ma solo un potere di impartire
direttive agli organi del ministero). Così la gerarchia oggi assume connotati meno intensi, che
l’avvicinano notevolmente al rapporto di direzione.

3. La direzione. La DIREZIONE è una relazione organizzativa con cui si realizza il


collegamento tra uffici della stessa struttura o, più spesso, tra strutture diverse : in particolare, tra le
figure soggettive pubbliche, diverse dallo Stato (gli enti pubblici) e l’organizzazione statale.
Questa particolare relazione organizzativa prese le mosse nei primi anni del 20°sec., in concomitanza
con la nascita del fenomeno del “pluralismo dei soggetti di pubblica amministrazione” : questo
fenomeno determinò un incremento degli enti pubblici, ciascuno dei quali era dotato di un proprio fine
istituzionale. Perciò, il RAPPORTO DI DIREZIONE si affermò per assicurare una salda connessione
tra gli enti pubblici e lo Stato, connessione che non poteva essere garantita usando il rapporto
gerarchico. Infatti, a differenza della
gerarchia, la DIREZIONE, pur riferendosi a un rapporto di sovraordinazione, si caratterizza per il
riconoscimento di un certo grado di “autonomia” all’ufficio (o all’ente) subordinato : ciò significa che
l’ufficio superiore non dispone di un “potere d’ordine gerarchico”, ma solo del “potere di emanare
direttive”, con cui esso indica all’ufficio sottordinato gli scopi da perseguire (stabilendo eventualmente
il loro ordine di priorità). Ma sarà l’ufficio subordinato a scegliere i modi e i tempi di attuazione,
necessari al raggiungimento dei fini prestabiliti.
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Al “potere di ordine”, quindi, si sostituisce il “potere di impartire direttive” o il “potere di indirizzo”,


con cui sono fissati gli obiettivi da perseguire. L’ufficio o l’ente subordinato resta però «libero» di
determinare i modi e i tempi dell’azione e di disattendere le direttive o gli indirizzi quando siano in
contrasto con il fine istituzionale, con il limite di dover motivare il suo comportamento. In questo
schema di relazione anche il “POTERE DI CONTROLLO” si modifica rispetto al “potere di controllo”
che si trova in sede gerarchica, poichè si tratterà non più di un controllo su atti, ma di un controllo
sull’attività svolta dall’ufficio o ente soggetto alla direzione. Infine al potere di direzione si
contrappone in capo all’ente subordinato un interesse protetto, con la conseguenza della possibilità di
tutela anche in sede giurisdizionale. Nei rapporti tra uffici la relazione, invece, si articola in situazioni
di potestà-soggezione, secondo lo schema tipico della relazione di gerarchia.

4. ll coordinamento. Il COORDINAMENTO non è una relazione organizzativa, ma è il


risultato dell’esercizio di poteri che riguardano diversi tipi di rapporti organizzativi. Tuttavia la
dottrina lo considera un rapporto organizzativo, che si pone nell’ambito di rapporti tra figure
soggettive. Col termine COORDINAMENTO la dottrina indica un “rapporto di equiordinazione”, che
intercorre tra soggetti preposti ad attività che, pur essendo diverse, sono destinate ad essere ricondotte
ad unità, in vista di risultati di interesse comune». Lo scopo dell’istituto è quello di realizzare una
connessione tra figure soggettive che non esprimono alcun rapporto di subordinazione. Infatti,
all’attività di coordinamento partecipano, ad egual titolo (dunque su un piano di parità), tutti gli enti (o
gli uffici) chiamati congiuntamente ad effettuare una valutazione degli interessi in gioco. Il
coordinamento realizza un raccordo tra figure soggettive che difficilmente esprimono posizioni di
subordinazione. Il
coordinamento, pertanto, non può essere ritenuto né un potere (potere di coordinamento) né un tipo di
relazione organizzativa (relazione di coordinamento), ma solo il risultato a cui si può pervenire
attraverso relazioni sia di sovraordinazione che di equiordinazione. In tal senso, gli studi più recenti
inquadrano il coordinamento nella prospettiva del “procedimento” (quando un procedimento
amministrativo investe più interessi, la regola è che le varie figure soggettive che sono centro di
riferimento dei vari interessi devono tutte essere chiamate nel procedimento) e, da ultimo, in una
visione più moderna, dell’ “operazione amministrativa”, nozione che raccoglie la complessiva attività
posta in essere da più figure soggettive, titolari di poteri diversi che devono coordinarsi nel
perseguimento di un risultato unitario. In tale prospettiva è l’operazione amministrativa (e non il
coordinamento) che assurge a nuova figura di relazione organizzativa, in cui si intrecciano profili di
equiordinazione e di sovraordinazione.

5. Il controllo. In diritto amministrativo il CONTROLLO è quel particolare strumento che mira


a garantire la regolarità formale e sostanziale delle decisioni amministrative. L’ordinamento, infatti,
pur garantendo a ogni amministrazione il “potere di iniziativa” in ordine all’attuazione dei suoi fini, si
avvale dei CONTROLLI come mezzi per sottoporre l’azione amministrativa o i risultati raggiunti ad
appositi riesami da parte di organi a ciò espressamente deputati. Il nostro sistema conosce una pluralità
di controlli :

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 Dal punto di vista giuridico i controlli possono essere sia INTERNI, sia INTERORGANICI,
sia INTERSOGGETTIVI e, su questa base, si distinguono i controlli interni (alla stessa
struttura) dai controlli esterni.
 A seconda del loro oggetto, invece, i controlli possono essere effettuati SU SINGOLI ATTI
o SULL’INTERA ATTIVITÀ DELL’UFFICIO SOTTOPOSTO AL CONTROLLO.
A loro volta, i “controlli su singoli atti” possono essere PREVENTIVI (nel caso in cui il
controllo sia effettuato prima che l’atto produca i suoi effetti) o SUCCESSIVI (se il controllo
avviene dopo che l’atto è divenuto esecutivo).
 A seconda, poi, del parametro usato per la verifica, i controlli possono essere distinti in
“CONTROLLI DI LEGITTIMITÀ” (quando il parametro di riferimento è la legge),
“CONTROLLI DI MERITO” (quando il parametro di riferimento è costituito
dall’opportunità dell’azione amministrativa) e infine “CONTROLLI DI GESTIONE” e
“CONTROLLI STRATEGICI” (che hanno come parametri l’economicità e l’efficienza
dell’attività rispetto ai risultati raggiunti).

Il sistema dei controlli era regolato, fin dall’inizio del '900, dalla “legge generale di contabilità dello
Stato”, dal “testo unico delle leggi sulla Corte dei conti” e dal “testo unico delle leggi comunali e
provinciali”, che avevano incentrato il sistema sul “CONTROLLO ESTERNO”, PREVENTIVO, e
DI LEGITTIMITÀ SUI SINGOLI ATTI (e, in particolare, quello di competenza della Corte dei
conti per gli atti delle amministrazioni statali). I controlli sugli atti dei Comuni e delle Province
erano invece di legittimità (c.d. vigilanza) e di merito (c.d. tutela) ed erano affidati al Prefetto (il
controllo sugli atti dei Comuni) e alla Giunta provinciale amministrativa (quello sugli atti delle
Province).
Le riforme degli ultimi anni hanno completamente sovvertito il disegno originario. La prima
consistente riforma dei controlli era già stata introdotta dalla Costituzione, che, da un lato, aveva
ridotto il “CONTROLLO DI MERITO” a una semplice richiesta di riesame da parte degli enti di
controllo agli enti controllati e, dall'altro, aveva affidato i controlli a organi a composizione tecnica,
a garanzia della loro imparzialità. L’assetto appena delineato aveva resistito fino agli anni '90.
Dopodiché è stato definitivamente abolito, dapprima, il “controllo di merito”; e poi anche il
“controllo di legittimità” è stato eliminato con l’abrogazione degli artt. 125, 1° comma e 130 Cost.
ad opera della legge cost. 3 / 2001.
Ad oggi CONTROLLI PREVENTIVI DI LEGITTIMITÀ ad effetto impeditivo dell’efficacia si
esercitano nei soli confronti degli «atti del Governo», in base all’art. 100, 2°comma Cost., che
attribuisce alla Corti dei conti il relativo potere.
Così, per effetto delle recenti riforme, si è compiuto il passaggio da un SISTEMA BASATO SUI
CONTROLLI DI LEGITTIMITÀ, ESTERNI E SU SINGOLI ATTI, ad un SISTEMA INCENTRATO
SU CONTROLLI INTERNI, aventi ad oggetto non più i singoli atti, ma L’INTERA ATTIVITÀ e
come parametro non la conformità alla legge, ma L’EFFICIENZA GESTIONALE DELL’ENTE
CONTROLLATO. Vediamo ora le tipologie di
“CONTROLLI INTERNI” in vigore :

 il “controllo di regolarità amministrativa e contabile”, tendente a garantire la legittimità,


la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa; esso può essere preventivo nei
soli casi espressamente stabiliti dalla legge e non è mai impeditivo dell’efficacia
dell’atto, che è rimessa all’esclusiva responsabilità dell’organo emanante;
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 il “controllo di gestione”, inteso a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità


dell’azione amministrativa, per consentire ai dirigenti di ottimizzare il rapporto tra costi
e risultati;
 la “valutazione e il controllo strategico”, miranti a supportare l'attività degli organi di
indirizzo politico-amministrativo e a valutare l’adeguatezza delle scelte operate dai
dirigenti riguardo agli obiettivi stabiliti dalle norme, nonché a identificare gli eventuali
fattori di ostacolo al conseguimento degli obiettivi, le eventuali responsabilità per la loro
mancata attuazione e i possibili rimedi.

Una notazione è da dedicare, infine, ai “RAPPORTI DI CONTROLLO FRA AUTORITÀ


EQUIORDINATE”. Questi rapporti sono previsti da specifiche disposizioni di legge, implicando la
soggezione (altrimenti non consentita) di un’autorità amministrativa ad un’altra dello stesso livello :
è il caso, ad esempio, dei Ministeri nei confronti del Ministero dell’economia, a cui la legge
attribuisce il potere di verificare (in sede di predisposizione del bilancio annuale) le necessità di cui
ogni singolo Ministero abbisogna. Viceversa, i “RAPPORTI DI CONTROLLO TRA AUTORITÀ
IN POSIZIONE DI RECIPROCA INDIPENDENZA” (ad es. il rapporto tra la Corte dei conti e il
Governo) o “DI AUTONOMIA” (ad es. il rapporto tra Stato e Regioni) sono istituiti direttamente
dalla Costituzione o da norme di legge in base a precise esigenze costituzionali : si pensi, ad
esempio, al controllo successivo che la Corte dei conti è chiamata a effettuare sulla gestione del
bilancio dello Stato predisposto dal Governo (art. 100, 2° comma, Cost.).

6. Delegazione di funzioni e utilizzazione degli uffici. Nell’ambito dei


rapporti di collaborazione tra figure soggettive diverse vanno ricompresi due modelli fondamentali :
la “delegazione di funzioni” e l’“utilizzo di uffici altrui”.
Il primo modello (DELEGAZIONE DI FUNZIONI) ricorre quando la figura soggettiva delegante,
che è titolare di un potere o di una funzione, ne trasferisce l’esercizio ad un’altra figura soggettiva,
la cui attività, però, sarà controllata dal soggetto delegante, che dispone di specifici poteri di
indirizzo e controllo. La delegazione può
intercorrere sia tra strutture o enti diversi (c.d. “DELEGAZIONE INTERSOGGETTIVA” : ad es.
tra Stato e Regioni o tra Regioni ed enti territoriali minori), sia tra organi (non uffici!) della stessa
struttura (c.d. “DELEGAZIONE INTERORGANICA”). Affinchè, però, la delegazione possa
assumere validità giuridica, è necessario un apposito “atto di delegazione”, che può avere natura
legislativa o amministrativa (in questa ipotesi, però, l’atto di delegazione deve essere ripetuto nel
caso in cui mutino o il titolare dell’organo o gli amministratori dell’ente delegante).
La delegazione dà luogo al fenomeno dell’ “esercizio indiretto della funzione amministrativa”
(detto anche amministrazione indiretta).
L’UTILIZZAZIONE DEGLI UFFICI DI UN ALTRO ENTE si ha quando un’ amministrazione
pubblica, anziché dotarsi di uffici propri, si avvale (per l’espletamento delle funzioni che le
competono) del personale e delle attrezzature di una figura soggettiva diversa. Questo modello
serve a evitare l’inutile proliferazione di strutture e assetti organizzativi. Esso era previsto dal
vecchio art. 118, ult. comma, Cost. che, prima della riforma del 2001, prevedeva che le Regioni
esercitassero le proprie funzioni amministrative «delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri
enti locali o valendosi dei loro uffici».

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Sia alla delegazione che all’utilizzazione degli uffici si può far ricorso solo in presenza di
un’espressa disposizione di legge.

*Art. 125 Cost. = CONTROLLO SUGLI ATTI REGIONALI. Recitava : “Il controllo di legittimità sugli atti amministrativi
della Regione è esercitato da un organo dello Stato. La legge può in determinati casi ammettere il controllo di merito, al
solo effetto di promuovere, con richiesta motivata, il riesame della deliberazione da parte del Consiglio regionale”. E’
stato abrogato dalla L. cost. 3 / 2001.

*Art. 130 Cost. = CONTROLLO SUGLI ATTI DEGLI ENTI LOCALI. Recitava : “Un organo della Regione esercita il
controllo di legittimità sugli atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali . In casi determinati dalla legge può
essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro
deliberazione”. E’ stato abrogato dalla L. cost. 3 / 2001.

*Art. 100, 2°comma Cost. = “La Corte dei conti esercita il “controllo preventivo di legittimità” sugli atti del Governo, e
anche “quello successivo” sulla gestione del bilancio dello Stato”.

- CAPITOLO 5. L’ORGANIZZAZIONE
AMMINISTRATIVA -

1. L’organizzazione amministrativa. L’ORGANIZZAZIONE


AMMINISTRATIVA è l’insieme di soggetti pubblici che, nel loro complesso, compongono
le pubbliche amministrazioni : è questo il c.d. “profilo statico dell’organizzazione”. Ma
questo sistema rivela anche una particolare propensione “dinamica”, in quanto ogni pubblica
amministrazione, a seconda dei fini che è chiamata a perseguire, è un “centro di
riferimento” deputato alla cura di un particolare interesse pubblico.

2. L’organizzazione amministrativa nell’architettura


costituzionale. E’ necessario adesso analizzare le norme che la Costituzione dedica
alla materia. Anzitutto, dal testo costituzionale emerge l’assenza di un qualsiasi riferimento
al MODELLO ORGANIZZATIVO DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI : il
costituente, infatti, si limita da un lato a dettare dei “principi generali” atti a guidare i
soggetti nell’esercizio del potere organizzativo, e dall’altro a delineare la differenza tra
funzione di indirizzo politico (e cioè di governo) e funzione amministrativa. L’unico
richiamo a un modello preciso rinvenibile a livello costituzionale riguarda la struttura
ministeriale, che è il modello rispetto a cui è espressamente prevista una “riserva di legge”
relativa al profilo istitutivo (art. 95 Cost.); riserva ribadita nell’art. 97 con riferimento
all’organizzazione dei pubblici uffici, la cui struttura e il cui funzionamento devono trovare
la propria fonte nella legge. Le altre disposizioni costituzionali che contengono dei richiami
al profilo dell’ORGANIZZAZIONE fanno riferimento a un modello generale che consta di
tre parti «disomogenee». La prima incentrata sul MODELLO MINISTERIALE, in funzione
servente rispetto al Governo, da cui dipende e che, ai sensi dell’art. 95 Cost., ne «determina

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gli indirizzi e ne cura l’unità». La seconda, riconducibile ad un MODELLO AUTOCEFALO


di amministrazione, trova la propria consacrazione negli artt. 97 e 98 Cost. Il modello
autocefalo è una variante del modello accentrato di amministrazione, caratterizzato, però, da
imparzialità e buon andamento. La terza parte è quella relativa al c.d. MODELLO
AUTONOMISTICO (o comunitario), riconducibile all’art. 5 Cost. : si tratta di un modello in
cui sono stati consacrati i “principi di autonomia” (la capacità dell’ente territoriale di
formulare un proprio indirizzo politico e amministrativo; autonomia normativa e
organizzativa) e del “decentramento amministrativo”(che esprime una Repubblica che non
presenta anche comuni, province e regioni, ma che consiste di essi), ora specificati nel
riformato Titolo V.
Però, al di fuori di queste eccezioni, nella Costituzione non c’è alcun richiamo al “modello
organizzativo delle pubbliche amministrazioni” e ciò ha impedito che si potesse giungere
all’enucleazione di una definizione di “PUBBLICA AMMINISTRAZIONE”. Questo vuoto
è stato colmato dalla dottrina, che ha individuato degli “indici di riconoscimento formali”
con cui valutare una struttura per qualificarla come un ente pubblico. Essi sono due :
 il primo indice riguarda il “regime giuridico dell’ente” (a tal proposito, ciò che assume
rilevanza è la costituzione a iniziativa pubblica dell’ente);
 il secondo indice riguarda, invece, “tutti gli elementi che fanno presupporre l’inserimento
dell’ente nel sistema delle pubbliche amministrazioni” (si pensi, ad es., all’ingerenza dello
Stato nella nomina e revoca dei dirigenti o alla sussistenza di un finanziamento pubblico,
ecc.).

La dottrina ha poi individuato dei “criteri sostanziali”, che però si riferiscono al profilo
funzionale dell’ente : nel senso che l’ente può considerarsi “pubblico” solo se la sua attività è
diretta al perseguimento di un interesse collettivo. Muovendo da queste considerazioni, la
dottrina ha così individuato i caratteri essenziali affinchè un ente possa essere considerato
“pubblico”; essi sono :

 l’autarchia, cioè la capacità dell’ente di governarsi;


 l’autotutela, cioè la capacità dell’ente di risolvere un conflitto di interessi e di
controllare la validità dei propri atti;
 l’autonomia, cioè la capacità di emanare provvedimenti sulla base di scelte
effettuate dall’ente;
 l’autogoverno, cioè la facoltà di amministrarsi attraverso propri organi.

3. Il sistema delle pubbliche amministrazioni. Occorre ora richiamare


alcuni criteri elaborati dalla dottrina per classificare le pubbliche amministrazioni : 1) il
“CRITERIO TERRITORIALE”, cioè l’ambito spaziale in cui il soggetto pubblico opera :
sotto questo profilo, si distinguono l’amministrazione statale (ministeri, agenzie,
amministrazioni indipendenti), centrale e periferica (Prefetture-UTG Uffici territoriali del
Governo, Questure, Soprintendenze, articolazioni regionali delle agenzie, ecc.) da quella
regionale e locale (Province, Comuni, Comunità montane, Città metropolitane); 2) un altro
criterio riguarda l’AMBITO DI OPERATIVITÀ DELLE AMMINISTRAZIONI : in
quest’ottica si distinguono gli enti pubblici (cioè quelle persone giuridiche pubbliche create
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dallo Stato, dalla Regione o dall’ente locale per perseguire un determinato interesse
pubblico) dagli enti pubblici economici (creati per lo svolgimento di attività economiche e
operanti, a differenza di quelli non economici, con atti di diritto privato); 3) sotto il
PROFILO DELLA COMPETENZA si distingue, poi, tra amministrazione diretta (formata
da organi le cui attività è imputata direttamente all’ente per cui agiscono) e amministrazione
indiretta, in cui un ente maggiore si serve per il perseguimento dei propri fini di altri
soggetti pubblici, che si pongono in una posizione di strumentalità rispetto al primo (si
pensi, ad es., all’istruzione scolastico-universitaria, in cui il Ministero persegue i propri
obiettivi attraverso l’opera di scuole e università).

4. L’organizzazione ministeriale e le agenzie. Il modello organizzativo


statale per lungo tempo è stato rappresentato da quello “ministeriale”, al cui vertice sono
posti i Ministri, membri del corpo politico ed espressamente previsti a livello costituzionale.
I ministeri per lungo tempo sono stati disciplinati dalle proprie leggi istitutive, che però non
trovavano il loro riferimento in un atto legislativo esprimente un disegno organizzativo
unitario. Solo con la L. 400 / 1988 il legislatore ha definito in modo puntuale sia la missione
che le funzioni proprie di ciascun Ministero.
Analizziamo la struttura ministeriale : l’organizzazione interna si compone di
“DIPARTIMENTI” e di “DIREZIONI GENERALI”. I DIPARTIMENTI sono strutture di
primo livello, istituite per assicurare il corretto esercizio delle funzioni ministeriali. Il
dipartimento si articola a sua volta in “DIREZIONI GENERALI” (uffici dirigenziali di
secondo livello) che dipendono dal primo. L’articolazione interna degli uffici dirigenziali
generali prevede uffici dirigenziali diretti da dirigenti. Ogni dipartimento è diretto da un
“direttore generale”, nominato con decreto del Presidente della Repubblica su deliberazione
del Consiglio dei ministri e proposta del Ministro competente. Il capo del dipartimento, non
solo opera a stretto contatto con il Ministro, ma, essendo responsabile dei risultati perseguiti
dagli uffici dirigenziali posti alle sue dipendenze, è anche chiamato a dirigerne e a
controllarne l’operato. Al capo del dipartimento spettano anche poteri di allocazione delle
risorse disponibili fra gli uffici dipendenti, nonché la promozione ed il mantenimento delle
relazioni con gli organi competenti dell’Unione europea per la trattazione di affari di
competenza del proprio dipartimento.
La struttura dei “Ministeri della difesa”, degli “affari esteri” e “per i beni e le attività
culturali”, invece non individua al primo livello i dipartimenti, ma le DIREZIONI
GENERALI, che possono caratterizzarsi anche per la presenza del “Segretario generale”, che
opera alle dirette dipendenze del Ministro competente e provvede all’elaborazione degli
indirizzi e dei programmi di competenza del Ministro. Nei tre ministeri non
dipartimentalizzati, oltre alle direzioni generali e alla figura del Segretario generale, può
anche esserci un numero limitato di “uffici di diretta collaborazione con i ministri, con i
vice-ministri e con i sottosegretari” : si tratta di uffici di staff, strutture che non gestiscono
direttamente gli affari amministrativi e che restano all’esterno della struttura amministrativa
del singolo ministero (costituita dai c.d. uffici di line). Tra gli uffici di staff vanno incluse,
ad esempio, le segreterie dei ministri o gli “uffici di gabinetto”.
La legge n. 400 / 1988 ha previsto la possibilità di nominare i c.d. “Ministri senza
portafoglio”, cioè ministeri privi di un proprio apparato organizzativo (tant’è che si
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avvalgono, per l’esercizio delle loro funzioni, della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Infine al ministero possono essere collegate una o più AGENZIE. Le agenzie sono strutture
che svolgono attività tecniche di interesse nazionale. E’ loro riconosciuta un’autonomia
statutaria, organizzativa, contabile e gestionale, ma esse sono comunque sottoposte ai
“poteri di indirizzo e di vigilanza” del ministero competente (del quale sono un vero e
proprio braccio operativo per le attività tecniche), nonché ai “poteri di controllo” della Corte
dei Conti. Al vertice dell’agenzia c’è un direttore generale, affiancato da un comitato
direttivo composto da 3 dirigenti. Tra le Agenzie presenti nel nostro ordinamento,
particolare importanza rivestono le “Agenzie fiscali”, dotate di personalità giuridica di
diritto pubblico. Alle agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, Agenzia delle dogane, Agenzia
del territorio e Agenzia del demanio), che contano articolazioni regionali, sono attribuite
funzioni riguardanti : 1) «le entrate tributarie erariali» (AGENZIA DELLE ENTRATE); 2)
«i servizi relativi all’amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei diritti doganali»
(AGENZIA DELLE DOGANE); 3) «i servizi relativi al catasto e quelli relativi alle
conservatorie dei registri immobiliari, col compito di costituire l’anagrafe degli immobili
esistenti sul territorio nazionale» (AGENZIA DEL TERRITORIO); 4) «l’amministrazione
dei beni immobili dello Stato, col compito di valorizzarne l’impiego» (AGENZIA DEL
DEMANIO).

*Questore : a capo della polizia di Stato. La questura è l’ufficio della Polizia di stato alle dipendenze del Ministero
dell’Interno. Si trova in Provincia (mentre nei Comuni abbiamo i commissariati).
*Prefettura : è retta da un Prefetto. La Prefettura è un’articolazione territoriale del Ministero dell’Interno; è la
rappresentanza locale dell’esecutivo, del governo sul territorio della provincia. Il questore invece è il capo della polizia.
Il prefetto può disporre dell’aiuto di tutte le forze armate. Il Questore è un organo OPERATIVO, mentre il Prefetto è un
organo POLITICO. Il Prefetto in ambito provinciale rappresenta il Governo nel suo complesso, ed esercita funzioni che
possono riguardare tutti i settori dell'amministrazione dello Stato. Dipende dal Ministero dell'Interno (gerarchicamente),
mentre dal punto di vista funzionale egli è di volta in volta subordinato al Ministero competente nella materia trattata.
E’ Autorità provinciale di Pubblica Sicurezza (la funzione più importante) ed è responsabile della tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblica nella provincia. Per questo viene costantemente informato dal Questore e dal Comandante
provinciale dei Carabinieri e a sua volta informa il Ministero dell’Interno.
La differenza sostanziale è questa : spetta al Prefetto determinare l'indirizzo generale e gli obiettivi delle attività per la
tutela della sicurezza pubblica.
Il prefetto individua gli obiettivi. Al questore poi è attribuito il compito di determinare il modo per raggiungerli.

*Soprintendenza = organo periferico del Ministero per i beni e le attività culturali.


*Ministro senza portafoglio =è un ministro, ma non è preposto ad un dicastero.
*Sottosegretari = coadiuvano il Ministro e svolgono compiti ad essi delegati.
*Dogana = organismo che controlla l’entrata e l’uscita delle merci dal territorio nazionale. Il dazio doganale è un tributo
sulle importazioni e le esportazioni.
*Conservatoria = ufficio dove sono conservati i registri immobiliari e ipotecari. Ha il ruolo di registrare i “passaggi di
proprietà”.
*Catasto = inventario degli immobili (con i relativi proprietari) a fini fiscali.
*Agenzie = anche in Provincia.
*Uffici di staff e di line = Per gli uffici di line si, si presuppone un rapporto di gerarchia. Quelli di staff possono essere di
due tipi: quelli di diretta collaborazione (quindi strumentali all'esercizio delle funzioni degli uffici di line) e quelli di
specializzazione tecnica, sempre coadiuvanti agli uffici di line, ma con competenze più specifiche (es. il Ministro della
salute prima di approvare l'entrata sul mercato di un medicinale dovrà ascoltare il parere di un ufficio tecnico
competente).

5. Cenni sull'organizzazione statale periferica. Con l’espressione


AMMINISTRAZIONE STATALE PERIFERICA ci si intende riferire a quelle articolazioni
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territoriali in cui si snodano alcuni Ministeri, nonché le Agenzie fiscali. Con questo meccanismo,
infatti, si attua un “decentramento burocratico degli enti che operano sul territorio nazionale”. A
seconda delle attribuzioni loro devolute, si distinguono “ORGANI A COMPETENZA
GENERALE”, che rappresentano lo Stato nella sua totalità, esercitando funzioni di rappresentanza
governativa (come, ad es., le prefetture - UTG) e “ORGANI A COMPETENZA SPECIALE”, che
svolgono specifiche funzioni statali, riguardanti singoli settori (ad es. pubblica sicurezza) su una
frazione di territorio.

6. Strutture di raccordo interne ed esterne all'amministrazione.


Ogni ministero ha una propria autonomia, necessaria per il perseguimento dei propri obiettivi : esso
è una struttura compiuta, con una propria mission. Tuttavia non mancano degli elementi, interni ed
esterni alla struttura, istituiti per raccordare tra loro i ministeri. Con riferimento agli STRUMENTI
DI RACCORDO INTERNO ALLE SINGOLE ORGANIZZAZIONI, un ruolo centrale va riconosciuto
agli “uffici centrali del bilancio”, che dipendono dal Ministero dell’economia e delle finanze : a tali
uffici spetta il compito di controllare la regolarità finanziaria delle operazioni poste in essere dai
Ministeri presso cui sono incardinati (e dai quali, però, rimangono estranei, proprio perché
dipendono dal Ministero dell’economia). Questi uffici controllano la regolarità finanziaria delle
operazioni e provvedono alla tenuta delle scritture contabili, vigilando sull’osservanza delle leggi e
delle disposizioni impartite dal ministero dell’economia e delle finanze.
Sempre in vista dell’uniformazione dell’azione amministrativa, poi, sono previste delle
STRUTTURE DI RACCORDO ESTERNE, tra le quali ricordiamo : il consiglio dei ministri, i
comitati dei ministri, i comitati interministeriali e il Presidente del Consiglio dei ministri.

 Il CONSIGLIO DEI MINISTRI è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri (art.
92 Cost.), che hanno il compito di determinare la politica generale del Governo, fissando
l’indirizzo politico-amministrativo del Paese, nonché la guida politica, normativa e
finanziaria del Governo. Esso si avvale, per il perseguimento delle sue funzioni, di un
Ufficio di segreteria diretto dal “Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio”.
 I COMITATI DEI MINISTRI sono composti esclusivamente da ministri, che svolgono
funzioni istruttorie e consultive nei confronti del Governo. Tra questi, ad esempio, c’è il
“Consiglio di Gabinetto”, i cui membri sono nominati dal Presidente del Consiglio per
aiutarlo nei suoi compiti.
 I COMITATI INTERMINISTERIALI sono soggetti di raccordo a composizione mista, in
quanto ne fanno parte ministri, esperti e rappresentanti delle amministrazioni di volta in
volta interessate. Si tratta di organi collegiali non necessari del Governo, che possono avere
una “funzione consultiva”, se preparano le deliberazioni del Consiglio dei ministri, o una
“funzione deliberativa” nei casi in cui ex lege possono sostituirsi allo stesso Consiglio nelle
sue deliberazioni. Essi sono 3 : C.I.P.E. (Comitato interministeriale per la programmazione
economica), C.I.C.R. (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) e C.E.S.I.S.
(Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza). Il C.I.P.E. svolge funzioni
di coordinamento in materia di programmazione e di politica economica nazionale, nonché
di coordinamento della politica nazionale con le politiche comunitarie. Il C.I.C.R. ha il
compito di vigilare sulla tutela del risparmio e sull’esercizio del credito.

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*Consiglio di Gabinetto = è un consiglio politico che consente consultazioni più rapide, poi sottoposte al vaglio del
Consiglio dei Ministri. E’ come se fosse un Consiglio dei Ministri ristretto (Presidente del Consiglio e alcuni ministri), che
elabora tematiche che poi sono sottoposte al Consiglio dei Ministri al completo.

La Presidenza del Consiglio dei ministri. L’ultima struttura organizzativa


esterna è la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, che è presieduta dal Presidente del
Consiglio. Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo,
mantenendo l’unità di indirizzo politico-amministrativo e coordinando l’attività dei ministri (art. 95
Cost.). Il Presidente del Consiglio è posto a capo di una struttura organizzativa (la Presidenza del
Consiglio dei ministri) disegnata come centro dell’azione di governo. La Presidenza del Consiglio è
stata riformata in modo organico dalla legge 400/1988 e dal d.lgs. 303 / 1999.
Al Presidente del Consiglio sono attribuite funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento, nonché
ampi poteri di delega al sottosegretario alla Presidenza o ad altre autorità politiche per settori di
attività. Egli si avvale della Presidenza per l’esercizio delle proprie funzioni, tra cui rientrano la
direzione politica del Governo, la progettazione delle politiche generali e l’assunzione di decisioni
di indirizzo politico generale, nonchè le relazioni con il Parlamento, con le istituzioni europee, con
le autonomie e con le confessioni religiose. Il Presidente del Consiglio ha un doppio grado di
autonomia, “organizzativa” e “contabile” : infatti, sotto il profilo organizzativo, il Presidente, con
propri decreti, può affidare specifiche funzioni all’ufficio del Segretariato generale (anche se
questi, nell’espletamento delle stesse, agisce con piena autonomia). Inoltre il Presidente può
individuare gli uffici di diretta collaborazione propri e quelli dei ministri senza portafoglio.
L’autonomia contabile e di bilancio consente, invece, la flessibilità nella gestione delle spese, nei
limiti delle disponibilità iscritte in un unico stanziamento approvato annualmente dal Parlamento.
Distinto dagli uffici di staff del Presidente, il “SEGRETARIATO” assicura il supporto
all’espletamento dei compiti del Presidente del Consiglio dei Ministri, sovrintende
all’organizzazione e alla gestione amministrativa del Segretariato generale ed è anche
responsabile dell'approvvigionamento delle risorse umane della Presidenza del Consiglio dei
Ministri. Il Segretario generale predispone il progetto di bilancio annuale e pluriennale di
previsione e il conto consuntivo della Presidenza e li sottopone all’approvazione del Presidente;
per le strutture del Segretariato generale impartisce le direttive generali per l’azione
amministrativa e determina gli obiettivi gestionali.

CNEL, Consiglio di Stato e Corte dei conti. Accanto agli elementi di raccordo
esterni ai ministeri completano il quadro gli “ORGANI AUSILIARI”, che hanno funzioni
consultive e di controllo sull’attività delle pubbliche amministrazioni. Essi sono :

 il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL ; art. 99 Cost.), istituito nel 1957.
Esso è un organo collegiale di 65 membri, composto da esperti e rappresentanti delle
categorie produttive con “funzione di iniziativa legislativa” (limitatamente alle materie di
propria competenza), e “consultiva”. È un organo consultivo del Governo, delle Camere e
delle Regioni, e ha diritto all’iniziativa legislativa, limitatamente alle materie di propria
competenza (le quali sono la legislazione economica e sociale). Con riferimento alla
“funzione consultiva”, il CNEL emette pareri, che nella maggior parte dei casi sono
facoltativi, fatta eccezione per la relazione previsionale e programmatica che il Ministro
dell’economia e delle finanze deve sottoporre in via preventiva al Consiglio, prima

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dell’invio al Parlamento (infatti in questo caso, per espressa previsione normativa, la


richiesta del parere preventivo del CNEL è obbligatoria).
 Il secondo organo ausiliario che la Costituzione ci presenta è il Consiglio di Stato, che
risultava già presente nel Regno di Sardegna (fu istituito dal re Carlo Alberto nel 1831 e,
poi, mantenuto dopo la riforma del 1865). Il suo ruolo si ricava dall’art. 100 Cost. che ce lo
presenta come un «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia
nell’amministrazione» e che, quindi, ricopre una duplice funzione : giurisdizionale e
consultiva.
Dal punto di vista strutturale, il Consiglio di Stato (dotato di un organo di autogoverno : il
“Consiglio di presidenza”) è articolato in 7 sezioni, alcune con funzioni giurisdizionali, altre
con funzioni consultive. A differenza del passato, ove vigeva la regola per cui le sezioni 4, 5
e 6 agivano con funzioni giurisdizionali, mentre le restanti con funzioni consultive, oggi il
Presidente del Consiglio di Stato, con proprio provvedimento, all’inizio di ogni anno, sentito
il Consiglio di presidenza, individua le sezioni che svolgono funzioni giurisdizionali e
consultive, determina le rispettive materie di competenza e la composizione. Ad esse si
aggiungono l’Adunanza Generale, anch’essa con funzioni consultive, e l’Adunanza Plenaria,
con funzioni giurisdizionali.
L’attività consultiva ha carattere generale, potendo riguardare sia la “legittimità” che il
“merito” dell’azione amministrativa, e viene esercitata attraverso la formulazione di “pareri”
che possono essere facoltativi (se l’amministrazione ha la mera facoltà di richiederli) o
obbligatori (se l’amministrazione è obbligata a richiederli) e nel caso di pareri obbligatori la
natura del parere varia ulteriormente : è vincolante, se il provvedimento
dell’amministrazione non può avere un contenuto diverso da quello indicato nel parere; è
relativamente vincolante, quando è ammessa l’adozione da parte dell’amministrazione di un
provvedimento con contenuto diverso da quello indicato nel parere del Consiglio di Stato,
ma occorre in ogni caso una deliberazione di un altro organo, a cui viene imputata la
responsabilità amministrativa della scelta.
La richiesta di parere (che va motivata in fatto e in diritto) deve essere trasmessa al
Consiglio dal Ministro procedente o dal sottosegretario, su proposta del dirigente del
servizio. Fatto ciò, la richiesta viene smistata alla sezione competente, che procede alla
formulazione del parere in assenza di contraddittorio delle parti interessate (eccetto il caso
in cui contraddittori siano i ministri, che possono intervenire).
 Nel novero degli organi ausiliari rientra, poi, la Corte dei conti : si tratta di un organo di
controllo dell’amministrazione che conta anche un’articolazione regionale. Dotata di
assoluta indipendenza nei confronti del Governo e del Parlamento, essa è composta da
impiegati amministrativi e magistrati. L’art. 100 Cost. le attribuisce specificamente
“funzioni di controllo” e “funzioni giurisdizionali nelle materie della contabilità pubblica e
nelle altre materie specificate dalla legge”. Essa svolge anche funzioni amministrative, come
ad esempio i provvedimenti che adotta riguardo allo stato giuridico dei propri dipendenti, e
funzioni consultive, come i pareri resi al Governo sugli atti adottati dallo stesso.
Le “funzioni di controllo” si articolano nei c.d. “controlli esterni” (controllo preventivo,
successivo, nonchè controllo sulla gestione degli enti locali) e “controlli interni”, finalizzati
a garantire la legittimità, l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa (controllo di
regolarità amministrativa e contabile; controllo di gestione; valutazione e controllo

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strategico).
La Corte svolge anche compiti tesi a garantire il controllo sulla copertura economica delle
leggi di spesa, per garantire il rispetto degli equilibri finanziari e dei vincoli di bilancio. Gli
esiti di questi controlli sono espressi in una relazione trasmessa al Parlamento e redatta con
cadenza quadrimestrale sulla copertura di spesa delle leggi adottate nel periodo. Essa è
competente anche in merito alla certificazione finanziaria dei contratti collettivi di lavoro.
Quanto, invece, alle “funzioni giurisdizionali”, la Corte dei Conti ha competenza nei giudizi
di conto (giudizi sui conti degli agenti contabili), nei giudizi di responsabilità dei contabili e
in materia pensionistica” (riguardo alla sussistenza del diritto alla pensione ed al suo
ammontare).
 Completa il quadro, infine, l’Avvocatura dello Stato, che fa capo al “Segretario generale
della Presidenza del Consiglio dei ministri” e ha il compito di provvedere alla tutela legale
delle amministrazioni dello Stato. Essa è articolata in “Avvocature distrettuali” a livello
regionale, ed è composta da avvocati dello Stato e da personale amministrativo. Al vertice
dell’organo è posto l’Avvocato generale.

7. Le amministrazioni indipendenti. Sempre rimanendo a livello centrale (cioè


di amministrazioni che hanno la propria competenza su tutto il territorio nazionale) rilevano le c.d.
“AMMINISTRAZIONI INDIPENDENTI” (o “AUTORITÀ DI REGOLAZIONE”), che devono
garantire lo stabile funzionamento di un determinato settore di mercato (credito, lavori pubblici,
telecomunicazioni, ecc.). Il soggetto pubblico, in questo caso, non agisce per erogare direttamente
un certo servizio alla collettività, ma serve a garantire il corretto funzionamento dello stesso e la sua
stabilità, operando così per il mercato, e non nel mercato. Le amministrazioni indipendenti sono
enti di diritto pubblico dotati di personalità giuridica.
La garanzia del corretto funzionamento è assicurata attraverso il conferimento all’amministrazione
indipendente di vari poteri, che vanno dalla predisposizione delle regole essenziali per il corretto
funzionamento del settore affidato alla sua regolazione (cui gli operatori devono attenersi), alla
garanzia della loro applicazione, fino alla soluzione dei conflitti.
I caratteri essenziali delle amministrazioni indipendenti sono stati individuati nell’
“INDIPENDENZA” dal Governo, essendo l’obiettivo da essa perseguito la stabilità del mercato cui
la stessa è preposta e la sua concorrenzialità. Infatti, a livello funzionale, è esclusa ogni previsione
tesa ad assoggettare l’amministrazione a possibili forme di influenza da parte del Governo; e a
livello strutturale, la scelta dei vertici dell’amministrazione deve avvenire tra soggetti dotati di una
competenza specifica, alta professionalità ed indipendenza, attraverso un procedimento che
prescinda da qualsiasi legame col Governo (nella maggior parte dei casi, infatti, la designazione dei
vertici è effettuata dal Parlamento). Si pensi all’“Autorità garante della concorrenza e del mercato”
(l’Antitrust), che ha il compito di garantire la libera concorrenza e il corretto funzionamento del
mercato, attraverso l’esercizio di poteri normativi, di indagine, di denuncia e sanzionatori. Il suo
vertice è costituito da un organo collegiale, costituito dal Presidente e da 4 membri, nominati
d’intesa dal Presidente della Camera e del Senato. O all’“Autorità di vigilanza sui lavori pubblici”,
costituita da 7 membri nominati d’intesa dal Presidente della Camera e del Senato. Accanto al
requisito dell’INDIPENDENZA, cui fa da contraltare quello della “NEUTRALITÀ” (evitare che i
membri di una specifica Autorità operino all’interno del settore di mercato che l’Autorità è
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chiamata a regolare), la caratteristica propria del modello è rappresentata dalla “titolarità di poteri
normativi, esecutivi e di soluzione dei conflitti”. Tra le amministrazioni indipendenti ricordiamo
inoltre la “Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali” (che ha il compito di valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il
contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati) e l’ “Autorità per l’energia elettrica e il gas”, l’ “Autorità di regolazione
dei trasporti” e la “CONSOB” (Commissione nazionale per le società e la Borsa, la cui attività è
rivolta alla tutela degli investitori e del mercato mobiliare italiano).

8. Gli enti pubblici. Gli “ENTI PUBBLICI” sono quei soggetti creati secondo norme di
diritto pubblico per il perseguimento di determinati fini pubblici. Il settore degli enti pubblici è
caratterizzato da una costante mutevolezza, accentuata dall’esigenza del legislatore di operare un
suo riordino, sia per ragioni di semplificazione che di contenimento della spesa. Di estremo
interesse sono le previsioni della legge n. 70 / 1975 di soppressione degli enti inutili (c.d. legge sul
parastato). La legge individuava i c.d. “enti necessari” (il “parastato”), come l’INPS e l’ACI, per cui
era previsto il mantenimento in vita (attraverso il loro inserimento in un apposito elenco), in quanto
essenziali, poichè svolgevano funzioni strumentali all’attività statale. Accanto agli enti necessari
erano poi individuati quegli “enti non soggetti alla legge sul parastato”, per i quali non era stato
predisposto un elenco dettagliato, essendosi il legislatore limitato a rinviare agli statuti di specie,
cioè alle rispettive norme di disciplina (enti pubblici economici, enti locali territoriali, Camere di
commercio) e “gli altri enti pubblici”, cioè quegli enti che, non considerati necessari, né a statuto di
specie, continuavano ad esistere come enti privati, senza alcun finanziamento statale. Sempre nel
quadro della legge n. 70/1975 erano poi individuati, in via residuale, i c.d. «enti inutili», cioè quegli
enti, non ricompresi nelle categorie menzionate, ritenuti non meritevoli di sopravvivere anche se
autofinanziati e che, pertanto, sono stati soppressi.
Un cambiamento decisivo nel senso del riordino degli enti pubblici si ha negli anni '90, quando, da
un lato, si avvia un serrato percorso di privatizzazione, e dall’altro si afferma la tendenza ad allocare
le funzioni non più in modo accentrato, ma in capo agli enti più vicini alla collettività
(decentramento amministrativo). Il nucleo centrale di questa riforma, che va rintracciato nelle c.d.
leggi Bassanini, mira a garantire sia la semplificazione dell’azione amministrativa sia la
realizzazione di una forma accentuata di federalismo amministrativo. Le “leggi Bassanini” (dette
anche “leggi sulla semplificazione amministrativa”) sono : la L. 59 / 1997 (legge Bassanini semel) ;
L. 127 / 1997 (Bassanini-bis); L. 191 / 1998 (Bassanini-ter) e la L.50 / 1999 (Bassanini – quater).
La prima legge Bassanini riguarda propriamente la semplificazione e il decentramento
amministrativo (Delega al Governo per il conferimento di funzioni alle Regioni e agli enti locali); la
seconda lo snellimento dell’attività amministrativa; la terza contiene alcune modifiche e
integrazioni delle due leggi precedenti; la quarta riguarda la delegificazione.
Il percorso di semplificazione così avviato ha trovato poi un ulteriore sviluppo nella riforma del
Titolo V della Costituzione con la legge cost. n. 3 / 2001, con cui l’organizzazione complessiva
assume un assetto federale, e con la c.d. “legge taglia enti” del 2008, con cui sono stati soppressi gli
enti aventi una dotazione organica (= il personale) inferiore alle 50 unità.
In particolare la legge n. 59 / 1997 (legge Bassanini) ha delegato al Governo l’emanazione di
decreti legislativi per : 1) il riordino degli enti pubblici operanti in settori diversi dall’assistenza e
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dalla previdenza; 2) la fusione e soppressione di enti con finalità analoghe; 3) la privatizzazione


(attraverso la trasformazione in ente pubblico economico o in società di diritto privato) di quegli
enti che presentavano un alto indice di autonomia finanziaria; 4) la privatizzazione (attraverso la
trasformazione in associazioni o persone giuridiche di diritto privato) degli enti che non svolgono
funzioni di rilevante interesse pubblico o degli enti per il cui funzionamento non è necessaria la
personalità giuridica di diritto pubblico; 5) il riordino delle società per azioni controllate dallo Stato.

*Parastato = è il complesso degli enti soggetti allo “statuto sul parastato”, contenuto nella L. 70 / 1975, che non ha
definito questi enti, ma ha elencato 7 categorie di enti sottoponibili alla disciplina sul parastato, dichiarando tali enti
“necessari”.

*ACI = Automobile Club d’Italia (ente pubblico non economico).

9. Gli enti pubblici economici e l’impresa pubblica. Un discorso a parte va


fatto riguardo alle ipotesi in cui lo Stato ha assunto il ruolo di operatore economico, diretto
erogatore di servizi a favore della collettività, rispetto alle quali si è registrata nel tempo una
molteplicità di formule organizzative che trovano nelle “AZIENDE AUTONOME” e nell’
“IMPRESA PUBBLICA” i modelli prevalenti. Si consideri, ad esempio, il settore ferroviario
rispetto a cui nel 1876 fu dichiarata la statizzazione delle ferrovie, sebbene subordinata
all’affidamento dell’esercizio alla gestione privata. Nel 1905 la loro gestione fu, invece, affidata a
un’amministrazione autonoma, amministrazione che nel 1948 divenne parte del “Ministero dei
trasporti”, per poi ridiventare “Amministrazione autonoma delle Ferrovie dello Stato”.
La formula dell’amministrazione autonoma o delle c.d. aziende autonome indica una struttura
organizzativa, nata dallo scorporo (= separazione) di una direzione del ministero titolare, la cui
autonomia riguardava però solo il profilo strutturale, e non quello funzionale (infatti, l’organo di
vertice delle aziende era comunque il ministro di settore, che, oltre ai “poteri di rappresentanza”
dell’azienda autonoma, aveva anche “poteri deliberativi”; questi, a sua volta era assistito da un
Consiglio di amministrazione).
Negli anni ’90, però, le aziende autonome sono state interessate da un profondo processo di
privatizzazione (processo che, in una prima fase, ha visto la loro trasformazione in s.p.a., e
successivamente, il collocamento del loro pacchetto azionario sul mercato) : si pensi, ad esempio, al
settore delle poste, in relazione al quale l’azienda autonoma Poste e telecomunicazioni” è stata
trasformata prima in ente pubblico economico Poste italiane e poi in Poste s.p.a. (con il
collocamento sul mercato del pacchetto azionario inizialmente detenuto dallo Stato).
Sempre agli inizi del ‘900 un fenomeno simile a quello dell’amministrazione autonoma si è
registrato anche a livello locale, con riferimento al settore dei servizi, in cui furono istituite, da parte
delle amministrazioni locali, le “AZIENDE MUNICIPALIZZATE”, proprio secondo lo schema
dell’azienda autonoma.
Nel primo dopoguerra poi nasce un nuovo modello organizzatorio, quello dell’ “IMPRESA
PUBBLICA”, così denominata perché era un’impresa il cui capitale era conferito in tutto o in parte
da un soggetto pubblico. Si trattava di un’impresa gestita dallo Stato o da enti pubblici separati
dallo Stato-amministrazione : gli ENTI PUBBLICI ECONOMICI. Gli “ENTI PUBBLICI
ECONOMICI”, istituiti nel periodo fascista per lo svolgimento di attività economiche, di

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produzione di beni e servizi, sono la figura cardine attraverso cui si realizza l’intervento pubblico
nell’economia. Si tratta di enti pubblici dotati di una propria “personalità giuridica”, di un proprio
“patrimonio” e di proprio “personale dipendente” (che, a differenza di quello degli altri enti
pubblici, è soggetto a un rapporto di impiego di diritto privato) aventi ad oggetto l’esercizio di
un’impresa commerciale. La connotazione privatistica non inficiava, però, i forti legami
pubblicistici, giacchè gli organi di vertice dell’ente, cioè il Presidente e il Consiglio di
amministrazione, erano nominati dal Ministero competente nel settore in cui l’ente svolgeva la
propria attività. Ministero che, tra l’altro, conservava un “potere di indirizzo” e “vigilanza”
sull’attività dell’ente. L’ente pubblico che gestiva l’impresa aveva la qualità di imprenditore e
un’organizzazione assimilabile alla stessa impresa : il Presidente e il Consiglio di amministrazione.
Il primo ente pubblico gestore di un’impresa fu l’INA, l’ “Istituto nazionale delle assicurazioni”,
istituito nel 1912 per creare una sorta di monopolio pubblico nel settore delle assicurazioni sulla
vita. Dopo la grande crisi economica del 1929 il fenomeno della partecipazione pubblica (cioè
dell’acquisizione da parte dello Stato di quote di partecipazione in società private) si è esteso
notevolmente. La crisi del 1929 infatti mise in seria difficoltà il sistema bancario, poiché le banche
detenevano ampi pacchetti azionari delle società che gestivano le imprese manifatturiere, che erano
affette da crisi di sovrapproduzione; di conseguenza, il dissesto di queste finì per coinvolgere tutto il
sistema bancario, esposto al rischio di non recuperare i crediti erogati alle imprese. Quindi, nel 1933
viene costituito l’ IRI (“Istituto per la ricostruzione industriale”), che acquisì i pacchetti azionari
delle imprese private in crisi detenuti dalle banche e diede avvio al ripianamento dei passivi delle
società. L’IRI divenne così una holding (cioè una società finanziaria, un ente di gestione, con un
“potere di direzione” e “controllo” su una gran quantità di imprese private). L’IRI era una holding
in cui le varie imprese possedute dallo Stato furono raggruppate all’interno di holding di settore
(altrettante società finanziarie in comando dell’IRI) per ogni gruppo di attività produttiva. Negli
anni ’60 l’IRI risultava composta da 6 holding di settore : FIMECCANICA nel settore meccanico,
FINELETTRICA in quello dell’elettricità, FINCANTIERI in quello cantieristico, FINMARE in
quello del trasporto marittimo, FINSIDER in quello siderurgico e STET nel settore delle
telecomunicazioni. Fuori dalle holding di settore rimasero, invece, il settore del trasposto aereo
(l’Alitalia), quello radio-televisivo (la Rai) e quello delle autostrade.
L’IRI divenne, quindi, una struttura avente la forma di un ente pubblico, ma la sostanza di una
società finanziaria (cioè, di una società che non svolgeva alcuna attività produttiva, ma deteneva il
capitale di imprese produttive); sul modello dell’IRI nel 1953 venne creato un altro ente pubblico
economico : l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), sotto cui furono raggruppate le società a
partecipazione pubblica operanti nel settore degli idrocarburi. I moduli organizzatori dell’IRI e
dell’ENI si articolavano, dunque, su diversi livelli : il primo, in cui erano collocate le società per
azioni operanti sul mercato; al secondo livello erano collocate le società capogruppo nei vari settori;
al terzo gli enti di gestione (IRI ed ENI), cui spettavano la direzione e il coordinamento dell’azione
imprenditoriale e finanziaria dei gruppi. Trattandosi comunque di soggetti a partecipazione
pubblica, essi dovevano necessariamente operare secondo direttive pubblicistiche impartite dagli
organi statali - il “CIPE” e il “Ministero per le partecipazioni statali”.
L’impresa pubblica, nonostante il processo di privatizzazione, non è scomparsa totalmente dal
panorama organizzativo : in sede comunitaria le IMPRESE PUBBLICHE sono definite come quelle
«imprese su cui le autorità pubbliche possono esercitare un’influenza dominante perché ne hanno
la proprietà o hanno in esse una partecipazione finanziaria. L’INFLUENZA DOMINANTE è

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presunta quando le autorità pubbliche detengono la maggioranza del capitale sottoscritto


dall’impresa o hanno il diritto di nominare più della metà dei membri del consiglio di
amministrazione. Quindi vanno considerate “imprese pubbliche” quelle entità che svolgono
un’attività economica sotto l’influenza dominante delle “autorità pubbliche”, ma nel rispetto dei
“principi della normale gestione commerciale”, e cioè sopportandone tutti i rischi, tra cui quello di
fallire.
*HOLDING = è una società che possiede azioni o quote di altre società.

10. Il processo di privatizzazione e le società pubbliche. Verso la fine


degli anni '90, su pressione del diritto comunitario, ma soprattutto per risolvere la questione del
debito pubblico (divenuto insostenibile), lo Stato comincia a rinunciare al proprio ruolo di
imprenditore, cui segue l’abbandono delle formule dell’AZIENDA AUTONOMA prima e dell’ENTE
PUBBLICO ECONOMICO dopo. Questo percorso fu attuato in due tappe : 1) la prima
(“privatizzazione formale”), diretta alla trasformazione, attraverso un provvedimento legislativo,
dell’azienda o dell’ente in s.p.a.; 2) la seconda (“privatizzazione sostanziale”), consistente nel
collocamento sul mercato del pacchetto azionario delle società in mano pubblica.
Il primo settore ad essere interessato dal processo di privatizzazione fu quello bancario. Con la c.d.
legge Amato del 1990 gli enti pubblici creditizi furono trasformati in società per azioni e sottoposti
al controllo degli enti pubblici titolari dell’azienda bancaria (poi definiti Fondazioni bancarie). Per
quanto riguarda, invece, gli altri settori, nel 1991 fu disposta la trasformazione in società per azioni
degli “enti pubblici economici”, delle “aziende autonome” e degli “enti di gestione”. Nel 1992, poi,
è stata realizzata la trasformazione dei maggiori “enti pubblici economici” (IRI, ENI, ENEL, INA)
in società per azioni il cui maggiore azionista è rimasto il soggetto pubblico.
Tuttavia quando lo Stato ha abbandonato il proprio ruolo di imprenditore a favore di un sistema di
mercato concorrenziale, è sorta la necessità di evitare che in quei settori si creasse un vuoto nella
tutela degli interessi pubblici : necessità a cui l’ordinamento ha voluto rispondere con la creazione
di authorities di settore (AMMINISTRAZIONI INDIPENDENTI).
Il processo di “privatizzazione” ha sollevato in dottrina e in giurisprudenza diversi problemi, tra cui
quello scaturente dalla coesistenza tra natura giuridica (privata) delle nuove s.p.a. (ex aziende
autonome ed enti pubblici economici) e finalità perseguite (di interesse pubblico). In questa diatriba
si sono contrapposte due correnti di pensiero : 1) da un lato, i sostenitori della TESI
PRIVATISTICA, per cui, anche se il pacchetto azionario di maggioranza è detenuto da un soggetto
pubblico, queste società sarebbero di diritto privato; 2) dall’altro, i sostenitori della TESI
PUBBLICISTICA, che proprio per la detenzione del pacchetto azionario di maggioranza da parte di
un soggetto pubblico hanno affermato che le neonate società avrebbero dovuto conservare la natura
pubblicistica (nonostante la forma societaria privatistica). La Corte costituzionale ha accolto
quest’ultima tesi, ribadendo l’assoggettamento di tali società al controllo della Corte dei conti, e ciò
anche in considerazione dell’innegabile rilievo pubblicistico che queste società mantengono,
riconducibile alla mancata realizzazione di una “privatizzazione sostanziale” attraverso l’effettiva
dismissione delle quote azionarie in mano pubblica. Quindi, è stato ritenuto che la formula
societaria non incidesse sulla determinazione della “natura giuridica” del soggetto, poiché essa
aveva il solo scopo di migliorare l’efficacia dell’attività svolta dal soggetto nel quadro del mercato
internazionale.

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* IRI = ente pubblico economico, che rispondeva al Ministero delle Partecipazioni Statali. L’IRI non fu privatizzato, ma
smembrato e liquidato e le sue aziende operative vendute. Tra il 1992 ed il 2000 l’IRI vendette partecipazioni e rami
d'azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di miliardi e miliardi di lire.
*ENTI PUBBLICI ECONOMICI = particolare categoria di ente pubblico che opera non in regime di diritto amministrativo
bensì di diritto privato. Tra questi ricordiamo l'INA (1912), l'Iri (1933), l’Eni (1953), l'Enel e le Ferrovie dello Stato (1985).
Questo tipo di ente, essendo separato dall’apparato burocratico della pubblica amministrazione italiana, può adattarsi più
facilmente ai cambiamenti del mercato, anche perché tali enti hanno ad oggetto esclusivo o principale l'esercizio di
un'impresa commerciale e, inoltre, devono iscriversi nel “registro delle imprese”. Essi infatti non fanno parte della P.A.
italiana, ed il rapporto d'impiego del personale presso tali enti è di diritto privato. Ad ogni modo sono spesso legati
alla pubblica amministrazione italiana, in quanto gli organi di vertice sono nominati dai Ministeri competenti per il settore
in cui opera l’ente; ad essi spetta un potere di indirizzo generale e di vigilanza.
Spesso gli enti pubblici economici sono il passaggio intermedio nella trasformazione di un’azienda autonoma in
una società per azioni. Per questi motivi vengono classificati come enti pubblici strumentali in quanto agiscono secondo
gli indirizzi e sotto il controllo di un organo dello stato per svolgere funzioni ausiliarie. Gran parte di essi operavano
come holding di controllo di varie società. Le società controllate, pur avendo la forma privatistica della società per azioni,
erano per lo più possedute totalmente dallo Stato o dagli enti pubblici economici.

*IMPRESA PUBBLICA = è un'impresa il cui capitale o patrimonio è conferito in tutto o in parte da un soggetto pubblico,
ossia dallo stato o altri enti pubblici. Le imprese pubbliche possono essere create direttamente dallo stato o altri enti
pubblici oppure possono nascere come imprese private successivamente acquistate dal soggetto pubblico. L’impresa
pubblica può essere esercitata : 1) da un'amministrazione pubblica con i propri organi; 2) da un’ azienda autonoma; 3)
da un apposito ente pubblico (sono quelli che in Italia prendono il nome di enti pubblici economici)

11. Gli organismi di diritto pubblico. I cambiamenti occorsi nelle pubbliche


amministrazioni dei singoli Stati membri, che presentano strutture organizzative diverse, e
l’affermarsi del diritto comunitario hanno reso sempre più viva l’esigenza di assicurare un’uniforme
applicazione delle regole. Per superare le distinzioni esistenti nelle singole realtà nazionali, il
legislatore comunitario ha elaborato la nozione di “ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO”. La
figura dell’organismo di diritto pubblico è stata introdotta a partire dalla direttiva 89/440/CEE e
comprende tutti i soggetti nazionali, indipendentemente dalla loro natura giuridica, che presentano
caratteristiche tali da operare secondo logiche diverse da un qualsiasi imprenditore privato e che
giustificano l’applicazione della disciplina sull’evidenza pubblica. L’organismo di diritto pubblico è
un «qualsiasi organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare bisogni di interesse
generale aventi carattere non industriale o commerciale, dotato di personalità giuridica e la cui
attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da organismi
di diritto pubblico (oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui
organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri più della metà dei
quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico)». La nozione è
ampia ed è costituita da 3 elementi, la cui presenza deve essere cumulativa : 1) il primo è la natura
dei bisogni alla cui soddisfazione deve mirare il soggetto : «bisogni di interesse generale aventi
carattere non industriale o commerciale»; 2) il secondo è la personalità giuridica : è indifferente
che essa sia di diritto pubblico o di diritto privato; 3) il terzo, infine, è dato dalla presenza di una
serie di elementi che fanno presumere che le decisioni dell’ente siano sotto l’influenza determinante
di un soggetto pubblico e che, di conseguenza, seguono logiche diverse da quelle dell’imprenditore
privato.

12. Soggetti privati esercenti pubbliche funzioni. Un discorso a parte va


condotto per i SOGGETTI PRIVATI ESERCENTI PUBBLICHE FUNZIONI, nel cui novero
assumono un ruolo rilevante le “FONDAZIONI”, presenti in particolare nel “settore della ricerca” e
in “quello bancario” : si tratta di soggetti che si caratterizzano per la prevalenza dell’elemento
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patrimoniale e che devono operare in vista del perseguimento del fine stabilito dal fondatore. Il
patrimonio, quindi, è vincolato allo scopo. Uno scopo che può coincidere in parte con gli scopi
istituzionali degli enti pubblici fondatori (ministero, Regione, Provincia, Comune) e che deve essere
altruistico, non di lucro e di pubblica utilità. La fondazione, disciplinata dal codice civile, si
caratterizza per la presenza di amministratori vincolati al perseguimento dello scopo che viene
assegnato dall’ente fondatore nell’atto di costituzione della fondazione. Sebbene la realtà conosca
fondazioni in cui lo scopo altruistico implica l’esercizio di attività imprenditoriali, non sussiste, per
questo, l’automatica attribuzione della qualità di imprenditore commerciale alla fondazione. La
Cassazione ha chiarito, in merito, che : “le Fondazioni possono perseguire i propri fini anche
svolgendo attività imprenditoriali, a condizione che l’attività imprenditoriale sia : 1) strumentale
alla realizzazione degli scopi istituzionali delle fondazioni; 2) esercitata in via accessoria rispetto
alla loro attività principale” (si pensi all’attività editoriale svolta da una fondazione culturale).
Un settore in cui la presenza della fondazione è assai marcata è quello creditizio, in cui il processo
di privatizzazione ha reso necessaria la creazione di apposite fondazioni bancarie per facilitare la
privatizzazione degli enti pubblici creditizi. A partire dai primi anni 2000 si è poi assistito a un
ampliamento dei settori in cui il legislatore ha previsto la possibilità di creare fondazioni (ad es., la
sicurezza pubblica e l’edilizia popolare).
Accanto alle fondazioni bancarie, un ruolo di primo piano è rivestito dalle “SOCIETÀ
ORGANISMI DI ATTESTAZIONE” (S.O.A.), che sono degli organismi attestatori e certificatori,
soggetti che devono attestare la qualità delle imprese potenziali contraenti della pubblica
amministrazione : organismi certificatori che hanno una natura giuridica privata, il cui scopo è il
rilascio di attestazioni di qualità volte a garantire il possesso, da parte delle imprese, dei requisiti
tecnici e finanziari necessari ad assicurare un determinato livello di qualità nell’esecuzione
dell’appalto. Le S.O.A. possono svolgere la propria attività solo mediante autorizzazione rilasciata
dall’Autorità di vigilanza per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Tale autorizzazione
serve a rendere credibili le S.O.A.
Dal punto di vista strutturale, i requisiti che gli organismi di attestazione devono possedere sono : 1)
la formula societaria (s.p.a.), la cui denominazione sociale deve comprendere espressamente la
locuzione «organismi di attestazione»; 2) la sede nel territorio italiano; 3) un capitale sociale pari a
500 milioni di euro.
A fronte della natura privatistica di queste società, che rilasciano attestazioni di garanzia ai propri
clienti in virtù di rapporti contrattuali e dietro il pagamento di un corrispettivo, l’attività da esse
svolta ha una natura pubblicistica (in quanto si tratta di un’attività di certificazione posta a garanzia
della pubblica fede). Proprio per questo è attribuito all’Autorità : 1) un potere di vigilanza, da
esplicarsi tanto sui soggetti quanto sugli atti da essi emanati (e che si estende fino al loro
annullamento); 2) e un potere sostitutivo nei confronti della S.O.A., che può essere esercitato da
parte dell’Autorità in presenza di due presupposti : l’indicazione dell’atto da adottare e l’inerzia
della S.O.A.

13.Gli enti territoriali e locali. Un ruolo di primo piano nel sistema delle pubbliche
amministrazioni spetta alle AUTONOMIE LOCALI e REGIONALI (Regioni, Città metropolitane,
Comunità montane, Province e Comuni). Il nuovo art. 114 Cost. ha riconosciuto pari dignità
costituzionale a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato come elementi costitutivi
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della Repubblica. L’idea base della legge cost. n. 3 / 2001 è stata quella di portare a compimento la
riforma avviata con il decentramento amministrativo. Il vecchio art. 114 Cost. (anteriore alla l. cost.
3 / 2001), invece, affermava che «la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni ». Nel
nuovo testo dell’art. 114 la prospettiva viene completamente invertita : «la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» e alle autonomie
locali viene riconosciuto un ampio grado di “autonomia”. Inoltre nell’art. 117, comma 2 Cost. la
potestà legislativa statale viene circoscritta alle funzioni fondamentali degli organi di governo (art.
117, 2°comma, lettera p) : “Lo Stato ha legislazione esclusiva per quanto riguarda la legislazione
elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane”), lasciando alle leggi regionali e alla potestà statutaria e regolamentare degli enti
locali l’allocazione (= distribuzione) delle funzioni amministrative di Comuni, Province e Città
metropolitane. Con la riforma del Titolo V gli enti locali hanno funzioni proprie, che trovano il loro
fondamento direttamente nella Costituzione, o sono destinatari di un conferimento di funzioni da
parte dello Stato o della Regione seguendo uno schema allocativo fra i diversi livelli di governo
ispirato al PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ.

La legge 148 / 2011. Il legislatore ha di recente inciso sulla struttura degli enti locali e con
la L. 148 / 2011, ai fini di un contenimento della spesa pubblica, ha statuito, per ciò che riguarda le
Regioni, la riduzione del numero dei consiglieri regionali e una riduzione degli emolumenti previsti
in favore dei consiglieri regionali. Inoltre, la stessa legge ha previsto anche l’istituzione di un
“collegio di revisori dei conti” per le Regioni, che è chiamato a vigilare sulla regolarità gestionale
ed economico-contabile dell’ente.
Di maggiore impatto sono le disposizioni relative ai Comuni e alle Province : per queste ultime, a
parte la previsione della riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori, la riforma incide
pesantemente sulla fisionomia dei piccoli comuni. Si prevede infatti che i Comuni con popolazione
pari o inferiore ai 1.000 abitanti devono esercitare obbligatoriamente le funzioni amministrative e i
servizi pubblici di spettanza comunale in forma associata con altri comuni con popolazione pari o
inferiore a 1000 abitanti, mediante un’“UNIONE DI COMUNI”. La popolazione complessiva
risultante dall’unione deve essere pari ad almeno 5.000 abitanti, (a meno che i Comuni interessati
non appartengano ad una Comunità montana, nel qual caso il numero di abitanti deve essere pari a
3000). Gli organi dell’unione municipale sono il “Consiglio” o assemblea municipale (composto
dai sindaci dei Comuni costituenti l’unione municipale), il “Presidente”, eletto dall’assemblea
municipale fra i sindaci componenti il consiglio, e la “Giunta”, nominata dal Presidente e composta
dal Presidente e da assessori scelti tra i sindaci (= cioè tra i membri dell’assemblea municipale). Il
Consiglio ha le stesse competenze riservate al consiglio comunale (con riferimento, ovviamente,
agli ambiti riservati all’unione) e deve adottare, a maggioranza assoluta dei propri componenti, lo
statuto. La Giunta esercita le stesse competenze delle giunte comunali. Invece, gli organi di
governo dei singoli Comuni facenti parte dell’unione sono il “Consiglio” (cui competono le
funzioni normative in riferimento alle attribuzioni non esercitate mediante l’unione) e il “Sindaco”,
eletto a suffragio universale e diretto (quindi non c’è la giunta).

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13.2. La potestà legislativa delle Regioni e la potestà normativa


delle autonomie locali. Da un punto di vista strutturale, le Regioni, le Province e i
Comuni presentano un “Consiglio”, titolare della potestà legislativa e normativa, una “Giunta”
organo esecutivo (composta dal Presidente della giunta e dagli assessori) e un “Presidente” (che nel
caso dei Comuni è il sindaco), titolare della rappresentanza dell’ente.

Occorre ora soffermarci sul POTERE NORMATIVO che il nostro ordinamento attribuisce a questi
enti : al riguardo, bisogna distinguere tra POTESTA’ LEGISLATIVA delle Regioni e POTESTA’
NORMATIVA degli enti locali.

 Riguardo alla POTESTÀ LEGISLATIVA DELLE REGIONI, con la nuova formulazione


dell’art. 117 Cost. è stato introdotto un sistema in cui Stato e Regioni sono titolari di una
“potestà legislativa esclusiva” per determinate materie, cui si aggiunge una “potestà
legislativa concorrente”. Il sistema di riparto di competenze così delineato vede
l’attribuzione in via esclusiva allo Stato di alcune materie (art. 117, 2°comma, Cost.), come :
1) la politica estera e i rapporti con l’Unione europea; 2) l’immigrazione; 3) l’ordine
pubblico e la sicurezza; 4) la legislazione elettorale; 5) gli organi di governo; 6) e le funzioni
fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane.
Tale previsione è seguita, al 3°comma, da un elenco di materie rientranti nella c.d.
legislazione concorrente, per cui le competenze si dividono tra Stato e Regioni, riservando al
primo la determinazione (attraverso leggi quadro o cornice) dei principi fondamentali e alle
seconde l’emanazione della legislazione di dettaglio.
Il nuovo testo dell’art. 117 Cost., infine, riconosce in capo alle Regioni una potestà
legislativa esclusiva «in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato» : si tratta di una potestà che trova un limite, però, non solo nelle
competenze sulle c.d. “materie trasversali” riconosciute allo Stato (ad es. la materia della
concorrenza), ma anche nel principio di «sussidiarietà legislativa», in base a cui il
legislatore statale può regolare con legge l’esercizio di funzioni amministrative anche in
materie che non rientrano nella sua competenza esclusiva, qualora si debbano garantire le
istanze unitarie dello Stato.
 Per quanto riguarda, invece, la potestà normativa delle autonomie locali, la Costituzione del
1948 non conteneva alcuna disposizione relativa né alla “potestà statutaria”, né a “quella
regolamentare”. Solo con la legge n. 142 / 1990 è stata prevista la possibilità per i Comuni e
le Province di adottare uno “STATUTO” con cui stabilire, nei limiti fissati dalla legge, le
norme fondamentali dell’organizzazione (e in particolare le attribuzioni degli organi) e
l’ordinamento degli uffici. Si prevede poi che gli enti locali possano adottare specifici
“REGOLAMENTI”, che devono essere adottati nelle forme previste dagli statuti.
La legge La Loggia (L. 131 /del 2003), poi, ha individuato i limiti e il contenuto degli statuti
: i primi si rinvengono nel rispetto della Costituzione, dei principi generali in materia di
organizzazione pubblica e dei principi fissati dalla legislazione statale attuativa dell’art. 117,
2° comma Cost. Riguardo, poi, al contenuto necessario dello statuto, la legge La Loggia
dispone che esso stabilisca i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme
controllo, le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare. La legge La
Loggia, poi, stabilisce che i REGOLAMENTI disciplinano sia l’organizzazione degli enti
locali, sia lo svolgimento e la gestione delle funzioni loro attribuite.
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Le funzioni amministrative degli enti locali. Le “funzioni amministrative”


degli enti locali nel vecchio art. 118 Cost. erano attribuite in base al principio del PARALLELISMO
TRA COMPETENZA LEGISLATIVA E COMPETENZA AMMINISTRATIVA (c.d. parallelismo delle
funzioni). Il primo distacco da questo sistema si ha con la legge n. 59 / 1997 (c.d. legge Bassanini),
che prevedeva che alle Regioni e agli enti locali fossero conferite «tutte le funzioni amministrative
relative alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità».
L’assetto delineato dalla legge Bassanini è stato fatto proprio dal legislatore costituzionale ed è la
base del nuovo art. 118 Cost., il cui 1°comma sancisce che “le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza”; quindi attualmente la regola è che le funzioni amministrative spettano “in via diretta
ed esclusiva” dell’ente locale, mentre l’eccezione è la “competenza statale”. Dunque, l’allocazione
delle funzioni tra i vari livelli di governo segue un sistema per cui le funzioni amministrative
dovrebbero possibilmente assegnarsi a quegli enti che, a causa della loro vicinanza ai luoghi e ai
cittadini, sono in grado di far fronte meglio ai bisogni della collettività (SUSSIDIARIETÀ
VERTICALE : le funzioni amministrative devono essere attribuite agli enti più prossimi ai cittadini
: quindi, in linea di massima, ai Comuni). In tal modo le funzioni sono collocate, nella piramide dei
livelli di governo, sì verso il «basso», ma solo laddove il livello del loro esercizio sia ottimale in
termini di efficienza (PRINCIPIO DI ADEGUATEZZA : le funzioni devono essere affidate ad enti
che abbiano requisiti sufficienti di efficienza). Il principio di adeguatezza attenua la portata del
principio di sussidiarietà verticale, nel senso che precisa che l’attribuzione delle funzioni all’ente
più vicino ai cittadini deve essere compatibile con le capacità operative dell’ente : in pratica se un
problema non può essere gestito a livello comunale, occorrerà individuare un livello istituzionale
più adeguato (per esempio provinciale), sempre cercando di allontanarsi solo il necessario dai
cittadini (per es. se un problema non è affrontabile a livello comunale, si dovrà scegliere il livello
provinciale e non quello regionale se il problema è risolvibile dalla Provincia).
Il PRINCIPIO DI DIFFERENZIAZIONE statuisce, invece, che a livelli istituzionali uguali possono
essere distribuite funzioni diverse, in ragione delle diverse caratteristiche demografiche,
territoriali, organizzative e strutturali; quindi riguarda l’allocazione delle funzioni amministrative
tra più enti situati nello stesso livello territoriale (così, ad es., se è idoneo il comune di Milano, non
lo sarà quello di Floresta). Il principio di differenziazione tiene conto che le realtà possono essere
diverse dal punto di vista delle risorse economiche e delle situazioni sociali e demografiche, per cui
certi problemi che alcuni enti possono risolvere, per altri enti dello stesso livello istituzionale
possono risultare ingestibili, e questo richiede delle soluzioni differenziate da caso a caso: in pratica
si potrà decidere di affidare delle funzioni ai Comuni per esempio con più di 100.000 abitanti
perché questi hanno più risorse, mentre ai Comuni più piccoli no ( e quelle funzioni saranno gestite
a livello per esempio provinciale).
L’art. 118, 2° comma Cost. recita : “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari
di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze” Dobbiamo, quindi, individuare le FUNZIONI PROPRIE DEI COMUNI e le
FUNZIONI CONFERITE e distinguerle dalle FUNZIONI FONDAMENTALI DELLE AUTONOMIE
LOCALI (che secondo l’art. 117, 2°comma, lett. p Cost., sono definite dalla legislazione statale
esclusiva). Quanto alle “funzioni fondamentali”, esse sono le funzioni istituzionali, cioè le «funzioni
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essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane». Le “funzioni conferite”


sono, invece, quelle funzioni la cui titolarità appartiene allo Stato o alle Regioni e che sono da
questi (nell’ambito delle materie di loro competenza) «attribuite» agli enti locali (c.d. funzioni
delegate). Da ciò consegue che lo Stato può attribuire agli enti locali sia funzioni fondamentali
(attingendo sia alle materie di competenza legislativa statale che a quelle di competenza legislativa
regionale) sia funzioni conferite (attingendo alle sole materie sottoposte alla sua legislazione
esclusiva). Le stesse considerazioni valgono per le Regioni, che possono conferire funzioni agli enti
locali nell’ambito delle materie di propria competenza legislativa.
Riguardo alle “funzioni proprie”, invece, l’espressione usata dal legislatore ha un carattere
descrittivo, circoscritto alla disposizione contenuta nel 1°comma dell’art. 118 Cost., e cioè : le
autonomie locali sono dotate di “funzioni amministrative” a seconda delle loro rispettive
competenze, funzioni che per i Comuni si atteggiano come funzioni proprie, mentre per le Province
e le Città metropolitane hanno natura di funzioni conferite con legge statale o regionale.
Questa interpretazione infatti sembra migliore rispetto a un’interpretazione estensiva
dell’espressione “funzioni proprie” (e che si avrebbe considerando come funzioni proprie quelle che
erano attribuite ai Comuni quando entrò in vigore la novella costituzionale), interpretazione che va
evitata.
Infine il 4°comma dell’art. 118 Cost. introduce nell’ordinamento il PRINCIPIO DI
SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE : i diversi livelli di governo devono favorire l’iniziativa
autonoma dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale. Quindi, mentre la
“sussidiarietà verticale” riguarda i rapporti all’interno delle istituzioni pubbliche, la “sussidiarietà
orizzontale" riguarda la possibilità che alcune funzioni pubbliche siano esercitate dai cittadini stessi,
in particolare attraverso le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. (per esempio, associazioni di
volontariato, Onlus, ecc.).

*funzioni fondamentali = sono individuate dalla legge statale anche nelle materie di competenza legislativa
regionale. Praticamente se sono funzioni conferite, lo Stato può conferire funzioni agli enti locali nelle
materie di propria competenza legislativa e la Regione anche (possono conferire funzioni nelle materie di
propria competenza legislativa). Invece, per le funzioni fondamentali (che vengono determinate solo dallo
Stato ex art. 117, 2°comma Cost., lo Stato può attribuire queste funzioni agli enti locali anche attingendo a
una materia di competenza regionale). Cioè per le funzioni conferite si rispetta il “riparto di competenza
materiale”.

Gli strumenti di raccordo tra i diversi livelli di governo. Il nuovo


assetto dei livelli di governo delineato dalla legge cost. n. 3 / 2001 ha avuto come conseguenza la
previsione di STRUMENTI DI RACCORDO. In quest’ottica va inquadrata l’integrazione della
“Commissione parlamentare per le questioni regionali” con rappresentanti delle Regioni, delle
Province autonome e degli enti locali nelle ipotesi di progetti di legge riguardanti la determinazione
dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente : in tali ipotesi la Commissione
«integrata» entra a far parte del procedimento legislativo, poichè essa deve necessariamente essere
sentita e il suo eventuale parere contrario comporta conseguenze riguardo al procedimento di
approvazione della legge.
Altre sedi di raccordo dei diversi livelli di governo sono le «CONFERENZE» : la CONFERENZA

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STATO-REGIONI e la CONFERENZA C.D. «UNIFICATA» (risultante dall’unificazione della


Conferenza Stato-Regioni con la Conferenza Stato-città e autonomie locali). Tali istituzioni,
precedenti alla riforma del Titolo V, rafforzano la loro posizione. La CONFERENZA
«UNIFICATA» è la sede privilegiata di definizione dell’indirizzo politico-amministrativo del
governo. Essa infatti rappresenta un momento di concertazione e di governo integrato e condiviso.
Le decisioni della Conferenza devono essere, infatti, assunte con il necessario assenso di tutti i
partecipanti (sarà necessario, cioè, l’assenso del Governo, delle Regioni, delle Province, dei
Comuni e delle Comunità montane). Ma non basta : tutto ciò che riguarda le autonomie e tutte le
decisioni di carattere regionale, interregionale e infraregionale devono necessariamente passare per
la Conferenza.
Anche prima della riforma del Titolo V in quasi tutte le Regioni sono sorti degli organismi di
raccordo (detti “CONFERENZE REGIONI-AUTONOMIE LOCALI” e in alcuni casi
“CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI”). Si tratta di organismi cui è stata attribuita una
funzione consultiva riguardante gli atti regionali di conferimento di funzioni amministrative e gli
atti di programmazione regionale e i piani di sviluppo, nonché l’esercizio del potere sostitutivo
regionale. Il novellato art. 123 Cost. prevede che «in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio
delle autonomie locali, come organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali» : dunque si
prevede un coinvolgimento delle autonomie locali nella vita politica della Regione attraverso
un’attività consultiva che può incidere sull’indirizzo politico-amministrativo della Regione.

14. Gli strumenti di raccordo interno: lo sportello unico. Il c.d.


«SPORTELLO UNICO» è una misura organizzativa (e non un ente) adottata per convogliare in
un’unica struttura diversi procedimenti connessi, struttura a cui imputare l’intera responsabilità e la
gestione del procedimento unico, evitando che dalla sua complessità derivino disfunzioni
nell’azione dell’amministrazione. Dunque, nella struttura confluisce l’esercizio di più poteri,
connessi da un punto di vista teleologico, ma distinti sotto il profilo soggettivo, per garantire una
razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni da parte dei diversi soggetti pubblici coinvolti.
Questa formula organizzativa ha trovato una prima applicazione nel settore delle “attività
produttive”. Essa trova la propria base in una direttiva comunitaria (la c.d. “direttiva-servizi” del
2006), che impone agli Stati membri la predisposizione delle misure necessarie per consentire ai
prestatori di servizi di avvalersi di sportelli unici, descritti come “l’interlocutore unico tramite cui
ogni prestatore di servizi può espletare tutte le procedure e formalità necessarie per svolgere la sua
attività di servizi” (dichiarazioni, notifiche o istanze necessarie a ottenere l’autorizzazione delle
autorità competenti per esercitare la sua attività). Quindi esso è un punto di contatto unico per il
cittadino. La disciplina dello “sportello unico per le attività produttive” si fonda sulla
concentrazione in una sola struttura (istituita al Comune) della responsabilità dell’unico
procedimento attraverso cui i soggetti interessati possono ottenere l’insieme dei provvedimenti
abilitativi per realizzare nuovi insediamenti produttivi, nonché sulla concentrazione nello sportello
unico dell’accesso a tutte le informazioni da parte dei soggetti interessati : ciò per evitare che le
varie competenze e i molteplici interessi pubblici comportino per i cittadini tempi troppo lunghi e
difficoltà di rapporti con le amministrazioni. Lo sportello unico, quindi, è una modalità
organizzativa con cui far confluire in un unico soggetto e in un unico procedimento tutti gli atti e gli
adempimenti oggetto di diverse competenze, che però permangono in capo alle amministrazioni
deputate ex lege. Infatti l’istituzione degli sportelli unici non pregiudica la ripartizione di funzioni e
competenze tra le amministrazioni.
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Oltre che nel settore delle attività produttive, lo sportello unico ha trovato applicazione anche in
altri settori, come quello previdenziale (sportello unico previdenziale), dell’immigrazione (sportello
unico per l’immigrazione) e dell’edilizia (sportello unico per l’edilizia).

*SPORTELLO UNICO = lo “sportello unico delle attività produttive” (S.U.A.P.) ha offerto alle imprese la possibilità di
iniziare le proprie attività economiche evitando iter amministrativi complessi. E’ uno strumento che mira a coordinare tutti
gli adempimenti richiesti per la creazione di imprese. Esso è stato istituito per semplificare le procedure amministrative.
E’ stata così conferita al Comune la competenza di emettere gli atti autorizzativi nei confronti di coloro che formulano
istanze per l’apertura di impianti produttivi e si è stabilito : 1) il ricorso all’autocertificazione; 2) il “silenzio-assenso” nel
caso di inutile decorso dei termini per il rilascio degli atti; 3) il ricorso alla “conferenza di servizi” nel caso in cui non venga
attivata la procedura di autocertificazione e qualora il progetto contrasti con le previsioni di uno strumento urbanistico.
Il legislatore ha fatto confluire in un unico procedimento, gestito dal Comune, la realizzazione di impianti produttivi.
Nel caso in cui si segua il procedimento con autocertificazione, l’impresa presenta tutta la documentazione (corredata
dall’autocertificazione, redatta da professionisti abilitati, che devono attestare la conformità del progetto alle normative
vigenti in materia urbanistica, di sicurezza degli impianti e di tutela sanitaria e ambientale). Il responsabile della struttura,
ricevuta la domanda, compie le verifiche documentali, accerta la veridicità delle dichiarazioni e la conformità del progetto
e trasmette copia della domanda alle Regioni e ai Comuni interessati ed entro un certo termine dalla presentazione della
domanda il procedimento si chiude; qualora, poi, all’imprenditore non venga data alcuna risposta, vige il principio del
silenzio-assenso, col conseguente rilascio dell’autorizzazione.

*SPORTELLO UNICO EDILIZIA (S.U.E.) = è uno sportello rivolto a tutti i cittadini che nel Comune vogliono realizzare un
intervento edilizio.

RIASSUMENDO = Il nuovo art. 117 Cost. in primo luogo introduce la distinzione tra “legislazione
esclusiva” (o primaria) e “concorrente” (o ripartita), riservando alla potestà legislativa esclusiva dello Stato
alcune materie elencate nel 2°comma (cioè legifera solo lo Stato).
La legislazione concorrente, prevista al 3°comma, è impostata sulla formula secondo cui, nelle materie
riferite a tale tipo di legislazione, allo Stato spetta fissare i principi fondamentali, mentre tutto il resto della
legislazione è affidato alle Regioni.
Prima della riforma le materie di competenza delle Regioni erano elencate tassativamente dalla Costituzione;
attualmente la legge di revisione del Titolo V, assumendo un’impostazione tipica degli ordinamenti federali,
provvede invece ad indicare le materie in cui lo Stato ha potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva),
attribuendo alle Regioni la potestà su tutte le materie non espressamente riservate alla legislazione dello
Stato (art. 117, 4°comma : potestà legislativa esclusiva delle Regioni o residuale). Anche le Regioni, così,
hanno una potestà legislativa primaria (= esclusiva delle Regioni), non limitata dai principi fondamentali
della legislazione statale, ma solo da quelli derivanti dalla Costituzione, dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali (art. 117, 1°comma). Si attua così un’equiparazione delle due potestà
legislative, statale e regionale, poichè rispetto ad entrambe vigono gli stessi limiti.
Il secondo elemento riguarda le funzioni amministrative. La disciplina costituzionale delle funzioni
amministrative regionali precedentemente era retta dal c.d. “principio del parallelismo” (vecchio art. 118) :
alle Regioni spettavano tutte le competenze amministrative nelle materie oggetto della loro potestà
legislativa concorrente. Era poi previsto che le Regioni esercitassero normalmente le loro funzioni
“delegandole alle Province e ai Comuni o valendosi dei loro uffici”. L’art. 118, rinnovellato, attualmente
pone come regola generale che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Il terzo elemento riguarda l’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali. Tale materia è disciplinata dal
nuovo art. 119. Si afferma in primo luogo che Regioni ed Enti locali si reggono con la finanza propria,
finanziando le proprie spese di funzionamento, di intervento e di amministrazione con mezzi prelevati
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direttamente dalla propria comunità (fatta salva l’esigenza di perequazione delle situazioni più svantaggiate).
In secondo luogo, “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”
(art. 119, 2°comma).
Ma la norma più importante del nuovo art. 119 è contenuta nel 4°comma, dove si stabilisce che le risorse
economiche di Regioni ed Enti locali devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche”
che a ciascun ente sono attribuite. Tale normativa infatti ha determinato il c.d. “federalismo fiscale”.
Le risorse sono costituite da : 1) tributi ed entrate proprie ; 2) quote del gettito di tributi erariali, riferibili al
territorio di ciascun ente ; 3) trasferimenti statali a carico del fondo perequativo destinato ai “territori con
minore capacità fiscale per abitante”.
Un altro aspetto interessante è quello della configurazione degli equilibri di bilancio imposti agli enti
regionali e locali. Con tale impostazione si afferma un rigoroso principio di equilibrio del bilancio per la
parte corrente; per gli investimenti invece è possibile un disavanzo. Infatti il bilancio di un ente si divide in :
1) “parte corrente” (spese compiute per l’acquisto di beni di consumo : ad es. gli stipendi ai lavoratori); 2) e
“parte in conto capitale” (sono gli investimenti, l’acquisto di beni che producono altri beni : ad es. la
costruzione di un ponte). Gli “sfondamenti” invece sono possibili solo per la via delle “risorse aggiuntive” e
degli “interventi speciali”. Si parla di “sfondamenti” perché per questa via lo Stato può operare in favore di
determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni e per scopi “diversi dal normale esercizio delle
loro funzioni”. Tali operazioni si possono configurare come una sorta di ulteriore strumento perequativo, che
ha un carattere individualizzato, speciale e discrezionale.
L’innovazione più importante della normativa costituzionale è il riconoscimento dell’autonomia finanziaria
delle Regioni e degli Enti locali sia sul versante delle entrate che delle spese. Gli enti dispongono di
un’autonomia tributaria e di risorse autonome, in armonia con la Costituzione e secondo i “principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (* ricordiamo che il “coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario” è una materia di legislazione concorrente). La Costituzione del ’48
riconosceva solo alle Regioni l’autonomia finanziaria. Il nuovo art. 119 Cost. riformula il sistema di
finanziamento degli enti territoriali per ampliare l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli Enti locali. La
struttura del novellato articolo configura un modello normativo che presenta 3 articolazioni fondamentali : 1)
la prima, oggetto dei primi 4 commi, delinea la modalità di finanziamento delle attività degli enti territoriali ;
2) la seconda, contenuta nel 5°comma, specifica un’attività di intervento finanziario dello Stato ad
integrazione delle risorse ordinarie degli enti territoriali. Essa ha una finalità di solidarietà e di sviluppo; 3) la
terza, contenuta nel 6°comma, regola la capacità di indebitamento “autonoma” degli enti territoriali,
limitandola alle spese di investimento.
L’art. 119 realizza il c.d. “federalismo fiscale”. Il modello disegnato nei primi 4 commi dell’art. 119
individua nei tributi ed entrate propri, nella compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al
territorio dell’ente, nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, le fonti di
finanziamento delle attività degli enti territoriali. Chiude il modello così delineato un preciso vincolo,
definito nel 4°comma dell’art. 119, laddove si stabilisce che “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi
precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare
integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.

vecchio art. 114 : «La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni».


vecchio art. 117 : «La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principî
fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato : (….ed elenca 18 materie)».

vecchio art. 118 : «Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente
articolo. La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai
Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici».
vecchio art. 119 : «Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi dello
Stato. Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle
Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali.
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Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato
assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.
La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».

*COSTO STORICO E COSTO STANDARD = riguarda le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. Si è passati dal
criterio del costo storico a quello del costo standard. Costo storico: indica quanto storicamente si è speso per un
determinato servizio. In passato si è seguito il criterio del costo storico: quanto veniva trasferito alle varie Regioni sotto
forma di trasferimenti dipendeva da quanto una Regione aveva speso nell’anno precedente.
Costo standard: indica il costo di un determinato servizio, che avvenga nelle migliori condizioni di efficienza e
appropriatezza, garantendo i livelli essenziali di prestazione. Il costo standard è definito prendendo a riferimento la
Regione più “virtuosa”, vale a dire quella Regione che presta i servizi ai costi “più efficienti”. In sostanza, per il
finanziamento degli enti territoriali, la determinazione dei costi dovrà essere adeguata a una gestione efficiente ed
efficace di Pubblica Amministrazione, tenendo conto di alcuni indici e criteri.
La spesa storica è un criterio per l’assegnazione delle risorse dallo Stato centrale alle Regioni in base al quale chi
ha  speso storicamente di più per erogare servizi riceve l’equivalente per far fronte a tali costi.
Il criterio del costo standard è meno vantaggioso per le amministrazioni poco virtuose che sperperano soldi a proprio
piacimento (col costo storico, se per esempio una regione ha speso storicamente 100 per il trasporto pubblico ne riceve
100, mentre una regione virtuosa che ne spende 60, che è poi il reale costo oggettivo del servizio, ne riceve 60. Risulta
quindi evidente che i 40 di spesa in eccesso che chiede la regione poco virtuosa sono frutto di una cattiva
amministrazione, di sperperi e magari di situazioni penalmente rilevanti). Di qui l’esigenza di introdurre il “costo
standard” che consente di misurare oggettivamente il costo di un servizio tenendo conto delle varie situazioni
regionali. Risulterà infatti evidente che se il costo standard del servizio è 60, la regione può chiedere solo 60 allo stato
centrale. Se continua a spenderne 100, per la sua mala gestione, gli altri 40 dovrà chiederli ai suoi cittadini, imponendo
nuovi tributi (regionali o locali). I cittadini quindi, potranno constatare direttamente l’operato dei loro amministratori
e far pesare in sede elettorale il proprio giudizio. Questo è il principio cardine del federalismo fiscale.

-PARTE 3. ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA-

-CAPITOLO 1. L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA E LA SUA


DISCIPLINA-

1.Verso la costruzione di una disciplina speciale dell’azione


amministrativa.
La disciplina riguardante l’“azione della pubblica amministrazione” ha conosciuto una sua
evoluzione. In un primo periodo (dal 1861 al 1889) dottrina e giurisprudenza ritenevano che la sola
disciplina giuridica applicabile agli atti dell’amministrazione fosse il DIRITTO PRIVATO (o
DIRITTO COMUNE), perché questi atti, dovendo necessitare del consenso dei soggetti privati (che
venivano a intrecciare i loro rapporti con l’attività amministrativa), potevano essere costruiti solo

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come atti consensuali (nella cui struttura, cioè, trovava posto la volontà del privato). Lo schema
consensuale fu ricercato non solo per le concessioni o le autorizzazioni, ma anche per
l’espropriazione per pubblica utilità e per gli atti ablatori (ritenendo, peraltro, per questi ultimi, che
l’assenza della volontà del privato potesse essere compensata dalla volontà della legge). L’atto di
espropriazione, ad esempio, era inteso come “vendita forzata” e la “dichiarazione di pubblica
utilità” era la causa di tale contratto. Una delle conseguenze di questa costruzione era l’acquisto a
titolo derivativo (e non originario) della proprietà da parte del beneficiario dell’espropriazione. Ciò
trovava conferma anche sotto il profilo legislativo, poiché con la Legge del 1865 il legislatore aveva
affidato le controversie tra i privati e l’amministrazione alla giurisdizione del giudice ordinario e ciò
favoriva l’uso di schemi privatistici.
Vi era la distinzione tra atti sovrani (iure imperii) e atti consensuali (iure gestionis), cui si applicava
il diritto privato. L’attività di diritto privato da parte dello Stato era giustificata in vari modi : in un
primo tempo con lo sdoppiamento della personalità tra Stato (ente sovrano) e Fisco (ente senza
sovranità, e quindi idoneo ad operare su base paritetica con i privati); in un secondo tempo, con il
riconoscimento allo Stato di una doppia capacità, di diritto pubblico e di diritto privato. Di qui la
distinzione tra atti d’imperio e atti di gestione.
Questo modus operandi, però, subì un radicale cambiamento con la legge del 1889, che - con
l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato - pose le premesse necessarie alla creazione
del giudice amministrativo : si cominciò a considerare che l’amministrazione, nel perseguimento
dell’interesse pubblico, è titolare di poteri unilaterali, che potevano essere esercitati senza bisogno
del consenso dei destinatari dei provvedimenti. Contemporaneamente si affermò il “principio di
legalità”, per cui l’amministrazione era dotata dei soli poteri unilaterali previsti dalla legge e doveva
esercitarli nel rispetto della legge. Per cui anche la tutela dei privati nei confronti degli atti
unilaterali dell’amministrazione si spostava sotto l’egida (la protezione) del principio di legalità : a
fondare la tutela non era più l’affermazione del diritto del privato, ma l’invocazione delle regole
vincolanti l’azione dell’amministrazione.
Si comprese che l’attività amministrativa non poteva essere disciplinata dal diritto privato, ma dalle
regole predisposte appositamente dalla legge (che trovavano il loro fondamento nel perseguimento
dell’interesse pubblico) : di conseguenza, gli atti posti in essere dall’amministrazione (concessioni,
autorizzazioni, gli atti ablatori, ecc.) furono ritenuti atti unilaterali (e non più consensuali),
espressione dell’esercizio del “potere” (e, in quanto tali, dotati di autoritarietà ed esecutorietà).
Sulla base della struttura unilaterale dell’atto di espropriazione si affermò, ad esempio, che esso dà
luogo all’acquisto della proprietà a titolo originario (con esclusione quindi della sopravvivenza dei
diritti parziali di terzi). L’attività amministrativa, inizialmente disciplinata dal diritto privato, è stata
sottoposta a regole particolari : si è così costruito un diritto speciale dell’amministrazione, una
nuova branca del diritto, un diritto proprio dell’amministrazione : il c.d. “diritto amministrativo”.

2. L'azione amministrativa tra disciplina privatistica e


pubblicistica. Il formarsi del diritto amministrativo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900,
però, non impedì di conciliare l’attività amministrativa e la disciplina privatistica. Ci si rese ben
presto conto che l’attività amministrativa era soggetta in parte al diritto pubblico e in parte al diritto
privato : si determinò cioè un doppio statuto giuridico, con l’enucleazione della nozione di “attività
amministrativa di diritto privato” collocata accanto a quella di “attività amministrativa soggetta al
diritto pubblico”.

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In relazione all’attività amministrativa tout court (quella di diritto pubblico), la dottrina si concentrò
sulla nozione di “provvedimento amministrativo”, mentre con riferimento all’attività
amministrativa di diritto privato si pose il problema della sua rapportabilità alla nozione di
“autonomia privata” : la dottrina si chiese se la P.A. fosse titolare di autonomia privata (cioè, se
quando agiva nelle forme del diritto privato, la sua posizione fosse identica a quella di qualsiasi
soggetto privato). La dottrina riconobbe autonomia privata anche alla P.A., ma la giurisprudenza
seguì la strada del «doppio grado» : cioè esisteva una doppia serie di atti, “quelli che precedevano la
conclusione del contratto”, che erano atti amministrativi e “quelli relativi alla sua stipulazione”, che
furono invece assoggettati alla disciplina privatistica. La tesi giurisprudenziale era un lodevole
compromesso, poiché sottoponeva la formazione del contratto alle regole del diritto pubblico,
qualificando però il contratto come atto di autonomia privata, assoggettato alla disciplina del codice
civile.
Queste posizioni, comunque, furono superate dalla dottrina, che giunse alla conclusione che la P.A.,
nell’esercizio dell’attività di diritto privato, espletava comunque “poteri amministrativi” (e non
poteri di autonomia privata) e che anche l’attività di diritto privato era pienamente assoggettata allo
“statuto speciale dell’azione amministrativa”.
L’attività amministrativa, anche quando si esprime in strumenti privatistici, resta comunque
un’attività “funzionalizzata” e soggetta alle regole generali dell’attività amministrativa. È chiaro
comunque che la legge può creare spazi di autonomia privata, ma ciò accade appunto solo se c’è
una disposizione di legge. Ove manchi, lo statuto dell’attività amministrativa resta intatto.
Successivamente la dottrina fece un altro passo in avanti : si rilevò che il potere amministrativo
(unilaterale) poteva esprimersi non solo in atti unilaterali, ma anche in atti bilaterali (consensuali).
Nell’atto bilaterale convergono poteri diversi, ma coincidenti nel regolamento di interessi (precetto)
cui l’atto vuole dar vita. In questo caso, pertanto, ci si sarebbe trovati di fronte all’esercizio di poteri
diversi (il potere amministrativo e l’autonomia privata della controparte). E’ questo il caso degli
“accordi pubblicistici” e delle “convenzioni pubblicistiche” : tuttavia, pur facendo capo entrambe le
figure a poteri amministrativi, la prima costituisce l’esercizio di poteri autoritativi (idonei a
disciplinare anche interessi altrui), mentre la seconda implica l’esercizio di poteri non autoritativi
(inidonei a regolamentare interessi altrui senza il concorso della controparte).

3. L’attività amministrativa tra autorità e consenso. Esponiamo ora la


concezione attuale che la dottrina ha dell’attività amministrativa. In primo luogo, il termine
“AUTORITA’” vuol dire “eteroregolazione” ( = il potere di disciplinare interessi altrui anche
senza il consenso dei titolari degli interessi). La P.A. ha un potere precettivo : cioè il potere di
regolare sia interessi pubblici, sia interessi privati (che vengono a intrecciarsi con quelli pubblici) e
questo potere precettivo può essere “autoritativo” (ossia capace di eteroregolazione), ma può anche
non esserlo. Nel secondo caso esso comunque è potere amministrativo : resta comunque un potere
assoggettato alla disciplina tipica dell’azione amministrativa.
Il potere autoritativo dell’amministrazione di solito si esprime in atti unilaterali, ma può esprimersi
anche in atti bilaterali (consensuali). Ciò accade con gli “accordi” : in tali atti consensuali
l’amministrazione usa il suo potere autoritativo, poichè può dettare la disciplina degli interessi
privati anche a prescindere dal consenso dei titolari. Il consenso non è necessario.
Il potere amministrativo non è invece autoritativo quando è necessario il consenso del privato (ad
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esempio nei contratti ad evidenza pubblica). Tuttavia, in tutti gli atti consensuali il potere
dell’amministrazione è sempre potere amministrativo, non è mai un potere libero, qualificabile
come autonomia privata. Si tratta sempre di un potere soggetto allo statuto dell’azione
amministrativa. Lo statuto non si limita ad imprimere al potere il c.d. “vincolo di scopo”
(finalizzandolo cioè alla soddisfazione dell’interesse pubblico), ma lo sottopone a una serie di
regole (formali e sostanziali) che possono essere riassunte nel “principio del procedimento” e nel
“principio del rispetto degli amministrati” (cioè i diretti interessati e i terzi).
Quindi l’amministrazione agisce sempre secondo valutazioni discrezionali (e non libere) ed è tenuta
sempre ad applicare i principi vigenti. Se l’azione precettiva dell’amministrazione è disciplinata
dallo statuto, non ci sono ostacoli a che l’azione si concretizzi in atti consensuali. Tuttavia l’azione
consensuale non può essere autonomia contrattuale (poichè l’amministrazione non può liberamente
determinare il contenuto del contratto), ma va invece riguardata come potere amministrativo.

4. L’attività consensuale dell’amministrazione. Il consenso privato può


assumere ruoli diversi: può entrare nella struttura della fattispecie (rendendola consensuale) o può
precederla (assumendo il ruolo di presupposto) o può seguirla (raffigurandosi come condizione di
efficacia). La struttura consensuale è necessaria quando il privato assume obbligazioni nei confronti
dell’amministrazione (come nelle ipotesi di concessione), ma non quando il provvedimento,
favorevole al privato, non obbliga quest’ultimo ad avvalersene (come nelle ipotesi di
autorizzazione).
Le fattispecie consensuali hanno, nel diritto amministrativo, due grandi campi di applicazione :
quello dei “contratti” (dove il consenso del privato è necessario) e quello degli “accordi” (dove il
consenso del privato non è necessario). C’è poi un terzo campo di applicazione : quello degli
“accordi tra autorità amministrative”, ove ciascuna amministrazione esercita i propri poteri
amministrativi.

5. Attività e funzione amministrativa. Il sostantivo «ATTIVITÀ» è inteso come


«insieme di atti a cui l’ordinamento attribuisce rilevanza giuridica nel loro complesso»; l’aggettivo
«amministrativa» vuol dire “cura di interessi alieni” (di interessi pubblici). L’attività
amministrativa, essendo attività di cura di interessi pubblici, è FUNZIONE (cioè attività rivolta a un
fine). Se l’interesse pubblico (che l’amministrazione deve soddisfare) si pone come interesse
esterno all’amministrazione (cioè al soggetto che pone in essere l’attività finalizzata alla sua cura),
occorre chiedersi chi sia il titolare di quest’interesse. Al quesito sono state date due risposte : 1)
secondo la dottrina tradizionale, l’interesse pubblico è l’interesse proprio dell’amministrazione e la
sua cura è affidata al “funzionario” (che opera nell’interesse di cui è titolare l’amministrazione); 2)
per la dottrina contemporanea, invece, i titolari degli interessi pubblici sono le collettività di
riferimento degli apparati amministrativi che li hanno in cura (cioè le comunità territoriali).

6. Modi e forme della rilevanza giuridica dell’attività


amministrativa. L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA consiste in un complesso di atti. Il
diritto può prendere in considerazione l’attività amministrativa nella sua globalità (ossia come

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attività amministrativa tout court : con riferimento a tutte le attività di tutte le pubbliche
amministrazioni) o la sola attività che culmina nell’adozione di un provvedimento, o può dare
rilievo all’attività posta in essere da un ente, da un organo o da un funzionario.
Negli ultimi decenni l’attenzione si è spostata dal singolo procedimento (e dal singolo
provvedimento) all’insieme dei procedimenti (e dei provvedimenti) «riguardanti le stesse attività o
risultati», ossia alla complessiva attività amministrativa necessaria per chiudere un’operazione. Ad
esempio per realizzare un’opera pubblica occorrono diversi provvedimenti (e relativi
procedimenti) : occorre progettarla, finanziarla, acquisire la disponibilità del suolo ove dovrà
sorgere, individuare l’impresa che dovrà realizzarla, valutarne l’impatto ambientale. L’operazione
che l’amministrazione compie è unitaria (realizzazione di un’opera pubblica), ma i procedimenti
necessari per compierla sono molti e rientrano nella competenza di enti ed organi diversi.
Stando così le cose, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre un nuovo istituto (affiancandolo
alla disciplina prevista per il singolo procedimento) : la “conferenza di servizi”, in cui convergono
«più procedimenti amministrativi connessi» e in cui viene in rilievo la nozione di “operazione
amministrativa”, cioè l’insieme delle attività necessarie per conseguire un determinato risultato
concreto.
Un’ultima modalità con cui l’ordinamento prende in considerazione l’attività amministrativa
riguarda il profilo della “responsabilità delle amministrazioni pubbliche” (in relazione all’ illiceità
del loro agire). L’attività viene presa in considerazione se illecita : nella fattispecie dell’illecito
rientra, infatti, non solo l’atto o il provvedimento amministrativo, ma l’intera attività posta in essere
dall’amministrazione : è l’attività a presentarsi come “fatto giuridicamente rilevante”.

-CAPITOLO 2. PRINCIPI E AZIONE AMMINISTRATIVA-


1.I principi generali dell’azione amministrativa. L’art. 1, 1°comma della
“legge sul procedimento amministrativo” (L. 241 / 1990) enuncia i principi ispiratori
dell’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA (*infatti è rubricato proprio “principi generali dell’attività
amministrativa”) : «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai
criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità». L’elencazione dei principi generali è stata
ribadita dalla L. n. 15 / 2005 e ai principi di matrice nazionale sono stati affiancati «i principi
dell’ordinamento comunitario» (*in pratica questo art. 1 della L. 241 / 90 è stato modificato sia
dalla L. 15 / 2005 che dalla L. 69 / 2009). La richiamata elencazione è stata da ultimo integrata con
l’inserimento del principio di imparzialità da parte della L. n. 69 / 2009. Si è in presenza di lievi
modifiche : ai criteri di economicità, efficacia e pubblicità, già previsti come quelli che reggono
l’attività amministrativa, si aggiungono quello della “trasparenza” e dell’ “imparzialità”. Ma in
realtà il primo criterio, che significa conoscibilità esterna dell’azione amministrativa, era già
rinvenibile nel sistema legislativo codificato dal legislatore del 1990. Si tratta quindi di una
modifica priva di un significato innovativo. Il secondo è consacrato a livello costituzionale (all’art.
97 Cost.). Il comma 1-bis della L. 241 / 1990, per cui «la P.A., nell’adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente»,
non introduce un principio nuovo, perché da sempre l’attività amministrativa non autoritativa è retta

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dal diritto privato.


Non maggiore portata innovativa possiede, infine, il comma 1-ter dell’art. 1 della L. 241 / 1990 : «I
soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei
principi di cui al comma 1».
Ciò che invece acquista un’importanza rilevante è che dall’art. 1 della L. 241 / 1990 emerge una
profonda “crisi del principio di legalità” (che è l’unico vero principio generale dell’azione
amministrativa), che risulta contraddetto non solo dalla prevalenza delle fonti comunitarie, ma
anche dalla crescita delle fonti secondarie e dall’elaborazione giurisprudenziale di principi e regole
riguardanti l’attività amministrativa. Urge, pertanto, effettuare un approfondimento sui “principi
generali dell’azione amministrativa”, in modo da ricondurli nell’ambito della legalità
amministrativa.

2. Principio di legalità. Vista l’impossibilità di individuare nella “legge” un elemento di


riferimento cui agganciare l’azione amministrativa, la dottrina ha attribuito al principio di legalità
una portata più ampia (cioè ha inteso il “principio di legalità” in senso più ampio che come mera
attuazione di norme di legge). Così, accanto alla tradizionale “nozione formale del principio di
legalità” (per cui è necessario che l’attribuzione di un potere all’amministrazione trovi la propria
fonte nella legge) è stata aggiunta una “nozione sostanziale del principio di legalità” (in virtù della
quale l’ambito di intervento della legge è stato esteso dalla mera attribuzione del potere alla
disciplina dell’attività amministrativa).
Tuttavia, questo modus operandi da un lato ha comportato la necessità di individuare nella “legge”
criteri e regole utili a guidare l’azione dell’amministrazione e, dall’altro ha fatto sì che si cercasse
di colmare le lacune del sistema legislativo attraverso il ricorso ai “principi generali
dell’ordinamento”.

3. Principi e norme non giuridiche : un dibattito antico. Gli studiosi che


hanno deciso di incentrare il proprio lavoro sulla “discrezionalità amministrativa” hanno dovuto
affrontare anche il problema dei criteri, sociali e morali, che guidano l’azione amministrativa : è
stata dimostrata l’indubbia esistenza di questi criteri, ma anche la difficoltà di individuarli
esattamente (difficoltà dovuta non solo alla loro consistenza numerica, ma anche alla loro facile
mutevolezza). Dall’inizio del ‘900 la dottrina ha rivolto la sua attenzione allo studio delle regole
sociali e dei valori di giustizia in grado di indirizzare l’attività discrezionale della P.A. Negli anni
'20 si inizia a prendere atto del fatto che l’attività della pubblica amministrazione debba essere
vincolata non solo da “norme giuridiche”, ma anche da “norme non giuridiche”, proprio perchè una
buona amministrazione deve essere tale non solo rispetto alla legalità, ma anche al c.d. merito : e
pure riguardo al merito l’attività dell’amministrazione può essere VINCOLATA (quando la legge
impone l’osservanza di una precisa norma non giuridica) o DISCREZIONALMENTE LIBERA
(qualora l’amministrazione abbia la possibilità di decidere, in termini di mera convenienza, se
osservare o meno la norma non giuridica). Questo orientamento fu confermato negli anni ’40 da
Giannini che, dopo aver classificato queste “regole non giuridiche” (regole morali; regole sociali;
regole di buona amministrazione; principi della politica), ha precisato che queste regole, essendo

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molto elastiche, avrebbero potuto spiegare efficacia solo in un “giudizio di merito” (pertanto, se
questo fosse mancato, la loro inosservanza sarebbe rimasta incontrollabile). Questa impostazione, se
riconosceva in queste regole non giuridiche delle linee-guida nelle scelte concrete operate
dall’amministrazione, impediva però di usarle in sede di controllo, come criterio di riferimento su
cui operare il “sindacato di legittimità” e, così, ne limitava l’utilità.
Su questa scia, la dottrina successiva, per garantire una sia pur minima tutela, cercò una diversa
sistemazione teorica, che fosse in grado di affermare la “natura giuridica” di tali regole
extralegislative, in modo da farne risaltare la rilevanza sul piano della “legittimità” (piuttosto che su
quello del merito). Ad esempio per Mortati la rispondenza dell’azione amministrativa al “fine
indicato dalla legge” andava accertata ricorrendo a criteri che non sono incorporati nella legge, ma
che tuttavia devono ritenersi oggetto di implicito rinvio da parte della stessa. La fonte ultima di tali
criteri era individuabile nell’“esperienza”, che si concretava in vere e proprie regole o direttive di
azione elaborate da discipline morali o sociali ; regole ben individuabili e applicabili direttamente
alle singole fattispecie. In altri casi, invece, tali regole non erano rintracciabili, ma comunque
l’esperienza forniva gli elementi sufficienti a estrarne una norma disciplinante il caso concreto.
La dottrina contemporanea è oggi consapevole del fatto che questi “criteri non giuridici” non solo
esistono, ma sono anche capaci di guidare l’azione dell’amministrazione. Tuttavia la dottrina non è
andata mai oltre la semplice affermazione della loro esistenza, perché si è reso conto che è proprio
la natura di questi criteri a renderne impossibile una classificazione. Il carattere flessibile di queste
regole e il loro continuo adattarsi alla realtà mutevole sono elementi che impediscono all’interprete
di procedere a una loro codificazione. Manca infatti ogni certezza che il criterio applicato in un dato
momento storico resterà ancora vigente per la condotta futura dell’amministrazione. Venendo meno
l’attributo della certezza, non si può dire che tali canoni possano essere considerati “norme
giuridiche”. Quindi, queste “regole sociali” (massime di esperienza e criteri e principi scientifici)
possono senza dubbio essere usate nel procedimento amministrativo (e nella ponderazione
discrezionale degli interessi che la P.A. è chiamata ad effettuare) : ciò però non implica che le
stesse possano assurgere al rango di “norme giuridiche”. Per spiegare perché la violazione di regole
e principi scientifici o dell’esperienza assurga a rilievo giuridico in sede di “controllo di legittimità”
(determinando l’annullabilità dell’atto), bisogna osservare che non occorre costruire singole regole
o massime come proposizioni con efficacia derivata da norme giuridiche : l’obbligo della loro
osservanza discende dal fatto che la funzione amministrativa deve svolgersi secondo esigenze di
esattezza e correttezza, che vanno salvaguardate.

4. I principi generali dell'ordinamento. I “PRINCIPI GENERALI


DELL'ORDINAMENTO”, avendo – rispetto ai “criteri di esperienza” – una portata più generale e
occupando un ruolo preciso nella gerarchia delle fonti, sono diventati non solo una vera e propria
guida dell’azione amministrativa, ma anche un parametro di valutazione per gli organi deputati al
controllo. Tali principi, più delle regole o dei criteri di esperienza, hanno ampliato la sfera della
“legalità” e sono stati una guida importante dell’azione amministrativa. Negli ordinamenti di
common law sono proprio i principi generali ad essere il principale, se non l’unico limite, all’azione
discrezionale delle Public Authorities e il fatto che la P.A. debba osservare dei principi-guida
nell’esercizio del suo potere discrezionale è un’esigenza sentita anche in tutti i paesi dell’Unione
europea.
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Perciò l’azione amministrativa deve rispettare non solo le norme giuridiche previste dalla legge, ma
anche una rete di principi generali (alcuni scritti nella Costituzione, altri desumibili da tutto
l’ordinamento), in modo che la scelta operata dalla P.A. sia adeguata al perseguimento del pubblico
interesse. Tuttavia una parte della dottrina sostiene che i “principi generali” non siano norme
giuridiche, ma piuttosto dei modelli organizzativi ; un’altra parte della dottrina, al contrario, ritiene
che essi siano delle vere e proprie “norme giuridiche”, e quindi delle “condizioni di legittimità
dell’atto”. In realtà essi, anziché disciplinare gli elementi del singolo atto amministrativo,
disciplinano l’attività amministrativa che si esercita per quell’atto e, quindi, la condizione di
legittimità della funzione amministrativa.
La nostra giurisprudenza ha comunque riconosciuto che i “principi generali” costituiscono regole
dell’azione amministrativa. Anche il legislatore ha in più occasioni fatto riferimento ai “principi
generali dell’ordinamento” come guida all’azione amministrativa. In ogni caso, a prescindere dalle
diverse posizioni dottrinarie, è evidente che i “principi generali dell’ordinamento” sono, assieme
alla “legge”, una guida e un orientamento per il raggiungimento del fine pubblico positivamente
determinato.

7. I principi di buona amministrazione in particolare. Fra i “principi


generali dell’ordinamento”, un discorso a sé stante meritano i c.d. PRINCIPI DI BUONA
AMMINISTRAZIONE, per l’importanza che occupano ai fini dell’azione amministrativa. Al
riguardo, però, in dottrina si sono registrati diversi orientamenti sul significato da attribuire alla
locuzione “buona amministrazione” : infatti una parte della dottrina esclude che possano essere
considerati come “principi generali dell’ordinamento” e li assimila invece ai criteri di esperienza
diretti a disciplinare alcuni aspetti del merito amministrativo (cioè quei criteri di cui si è parlato
prima). Un’altra parte della dottrina, invece, ritiene (a ragione) che quando si parla di “buona
amministrazione” non si deve far riferimento a una molteplicità di criteri, ma a un unico “principio
giuridico” che regola l’attività della P.A. : non si parla quindi di “principi di buona
amministrazione” ma, al singolare, di principio di buon andamento. Ed è in questo senso che il
principio è stato assunto nella Costituzione, che all’art. 97 dispone che siano assicurati
nell’amministrazione «il buon andamento e l’imparzialità». Entrambi sono principi dell’azione
amministrativa che devono essere seguiti dall’amministrazione nel suo concreto agire. Il “BUON
ANDAMENTO” è il canone attraverso cui l’amministrazione viene vincolata al soddisfacimento
dell’ “interesse pubblico primario” attribuitole dalla legge. Esso è, perciò, il “canone regolativo
primario della funzione amministrativa”. L’“IMPARZIALITA’”, invece, (cioè il canone che
insieme a quello del “buon andamento” compone il “principio di buona amministrazione”) riguarda
il rispetto degli “interessi secondari” ed è il “limite” (rappresentato appunto dagli interessi
secondari) che l’amministrazione deve rispettare nell’esercizio del suo potere, un “argine a quelle
forme di politicità indotta della funzione amministrativa”.
Tuttavia per molto tempo la dottrina prevalente ha considerato il canone del buon andamento come
una nozione attinente alla sola organizzazione degli uffici. Questo orientamento, però, è stato in
seguito superato grazie all’opera di eminenti studiosi, che hanno affermato la valenza del principio
sul piano dell’azione, oltre che su quello dell’organizzazione. E questa tesi è ormai prevalente.
Nella formula costituzionale che esprime il precetto del buon andamento si fondono due nozioni,
quella funzionale e quella strutturale. Non bisogna dubitare che il buon andamento sia anche un
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principio dell’attività amministrativa e che, in tal modo, debba orientare l’esercizio dei pubblici
poteri. Ma a questo punto ci si chiede come l’imparzialità e il buon andamento orientino l’azione. Il
buon andamento esprime un valore giuridico che non condiziona direttamente la discrezionalità
amministrativa nell’adozione dei singoli atti, ma misura l’attività complessiva. (* Il BUON
ANDAMENTO è un principio che obbliga gli impiegati e i funzionari pubblici a svolgere i loro
compiti con diligenza e professionalità, per realizzare in modo efficace ed efficiente gli obiettivi che
l’amministrazione si pone. La P.A. deve agire nel modo più adeguato e conveniente possibile. Tale
principio impone “adeguatezza” e “convenienza” nell’esercizio dell’azione amministrativa : si
fonda sui criteri dell’efficienza (rapporto tra risultati raggiunti e risorse impiegate); economicità
(ottimizzazione dei risultati in relazione ai mezzi a disposizione) ed efficacia (capacità di
conseguire gli obiettivi prefissati) . L’IMPARZIALITA’ è un principio che impone alla P.A. di non
compiere, nello svolgimento delle sue funzioni, discriminazioni arbitrarie).

8. Altri principi. Tra i PRINCIPI CHE GOVERNANO L’AZIONE AMMINISTRATIVA


troviamo : 1) i “principi che garantiscono il raggiungimento del pubblico interesse”; 2) i “principi
che assicurano che l’azione dell’amministrazione sia svolta nel rispetto degli interessi dei privati
coinvolti nell’esercizio del potere”.

Tra i PRINCIPI CHE GARANTISCONO IL RAGGIUNGIMENTO DEL PUBBLICO


INTERESSE troviamo :

 il “principio di buon andamento”.


 il “principio di economicità” : indica l’obbligo dell’amministrazione di usare
diligentemente le proprie risorse. Suoi corollari sono i principi di semplicità e celerità
dell’azione amministrativa. Questi sono a loro volta articolati nel “principio di doverosità
dell’azione amministrativa” (cioè l’obbligo di conclusione del procedimento attraverso
l’emanazione di un provvedimento espresso) e nel “divieto di aggravamento del
procedimento”.
 il “principio di efficacia” : l’idoneità dell'atto a soddisfare l’interesse perseguito. Esso si
distingue, poi, dall’“efficienza” (che viene valutata in relazione al rapporto tra risorse
impiegate e risultati ottenuti).

Tra i PRINCIPI CHE ASSICURANO CHE L’AZIONE AMMINISTRATIVA SIA SVOLTA NEL
RISPETTO DEGLI INTERESSI DEI PRIVATI COINVOLTI NELL’ESERCIZIO DEL POTERE
troviamo :

 il “principio di imparzialità”.
 il “principi di ragionevolezza” : è il canone generale dell’azione amministrativa, i cui esiti
devono essere coerenti rispetto alle premesse fattuali e di diritto poste a base della decisione.
Dunque, la scelta concreta adottata dall’amministrazione deve essere il frutto di una logica
specificazione delle premesse generali di partenza. Essa, pertanto, deve essere non solo
adeguata rispetto al fine, ma anche coerente rispetto agli elementi acquisiti nel corso
dell’istruttoria. (*In pratica, la P.A. deve seguire un canone di razionalità operativa nello
svolgimento della propria azione, per evitare decisioni arbitrarie e irrazionali. Ciò impone la

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corrispondenza dell’azione amministrativa ai fini indicati dalla legge; la coerenza con i


presupposti di fatto assunti a base della decisione amministrativa, la logicità della stessa e la
proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini).
 il “principio di proporzionalità” : è l’adeguatezza della misura rispetto al fine perseguito,
anche avuto riguardo al sacrificio imposto agli interessi dei privati coinvolti nell’esercizio
del potere, nel senso di garanzia del massimo contemperamento degli interessi in gioco (*è
la proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini).
 il “principio di trasparenza” (o pubblicità) : garanzia del diritto ad essere informati, da un
lato, e del diritto di difesa, dall’altro. La sua garanzia deve essere assicurata in ogni fase
dell’azione amministrativa.
 il “principio di tempestività dell’azione amministrativa”.
 il “principio dell’affidamento” : esprime l’obbligo di correttezza e buona fede nei rapporti
tra cittadino e P.A. Il principio dell’affidamento esprime l’esigenza di tutelare gli interessi
privati coinvolti nell’azione amministrativa, specie quando alcuni elementi (precedenti
comportamenti dell’amministrazione, emanazione di direttive o circolari, ecc.) abbiano
ingenerato nel privato un legittimo affidamento a una determinata regolamentazione dei
propri interessi nel provvedimento amministrativo.
 Il “principio di continuità” : indica la garanzia di una continuità nell’esercizio della funzione
amministrativa. La P.A. deve provvedere in maniera continuativa alla cura degli interessi
che le sono stati attribuiti.

-CAPITOLO 3. IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO-


1.La nozione di procedimento amministrativo. Le amministrazioni pubbliche
perseguono i fini pubblici previsti dalla legge. Quando il perseguimento di questi fini avviene
attraverso strumenti autoritativi (poteri e potestà) le P.A. devono porre in essere un procedimento
amministrativo. Quest’ultimo può essere definito come “la serie di atti e attività funzionalizzati
all’adozione del provvedimento amministrativo (che rappresenta l’atto finale di tale sequenza)”.
Dato che il PROVVEDIMENTO è una decisione volta a produrre un determinato assetto di
interessi, il PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO può anche essere definito il “processo
decisionale formalizzato attraverso cui le amministrazioni pubbliche esercitano i poteri ad esse
attribuiti dalla legge”. Questa formalizzazione è necessaria per un semplice motivo : perché il
provvedimento amministrativo è espressione di una potestà attribuita dalla legge per la cura di un
interesse pubblico, che non è scelto liberamente dalle pubbliche amministrazioni, ma è
normativamente indicato; l’esercizio del potere incide in modo autoritativo sulle situazioni
giuridiche dei destinatari e, quindi, è necessario che la decisione assunta con il provvedimento sia
controllabile in sede giurisdizionale. Il procedimento amministrativo serve proprio a verificare in
base a dati oggettivi la legittimità del provvedimento adottato e la sua conformità alle norme e ai
principi che regolano l’azione amministrativa.

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2. La disciplina giuridica del procedimento amministrativo. Nel


nostro ordinamento fino agli anni '90 è mancata una disciplina generale in materia di procedimento
amministrativo : vi erano solo leggi sui singoli procedimenti (ad es. il procedimento di
espropriazione o quello di pianificazione urbanistica). Di conseguenza, i principi e le regole che
guidavano lo svolgimento del procedimento amministrativo erano, di volta in volta, delineati dalla
giurisprudenza amministrativa ed erano ricavati dalle discipline settoriali e dalle norme
costituzionali in tema di pubblica amministrazione. Con la legge n. 241 / 1990 sono state finalmente
emanate norme che disciplinano il “quadro generale in materia di procedimento amministrativo”.
Successivamente il legislatore è più volte intervenuto su questa legge. Gli interventi più significativi
sono stati quelli adottati con la L. n. 15 / 2005 e con la L. n. 69 / 2009.

La competenza legislativa e normativa in materia procedimentale.


Secondo l’art. 29, 1°comma della L. 241 / 1990 “Le disposizioni ivi contenute si applicano solo ai
procedimenti amministrativi che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni statali e degli enti
pubblici nazionali”. Ai sensi dell’art. 29, 2°comma, “Nell’ambito delle rispettive competenze, le
Regioni e gli enti locali regolano le materie disciplinate dalla L. 241/1990 nel rispetto del sistema
costituzionale e delle garanzie del cittadino, così come definite dai principi contenuti nella legge
stessa”. L’art. 29 è il naturale precipitato della riforma del Titolo V Cost., che ha ridefinito il riparto
di competenze legislative tra Stato e Regioni e le funzioni degli enti locali. Il legislatore
costituzionale ha attribuito alla competenza esclusiva statale la sola materia dell’ordinamento e
dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (art. 117, comma 2
Cost.), mentre la competenza legislativa spetta alle Regioni relativamente all’ordinamento e
all’organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici che ad esse fanno capo. Inoltre
egli ha attribuito a Comuni, Province e Città metropolitane la titolarità di funzioni amministrative
proprie e la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite (artt. 117 e 118 Cost.). Alla luce della riforma costituzionale e delle
previsioni dell’art. 29 della L. 241 / 1990, le Regioni e gli enti locali sono autonomi in relazione alla
regolamentazione dei procedimenti di propria competenza. Tuttavia tali soggetti sono tenuti a
regolare questi procedimenti nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei
riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla stessa legge.
Riguardo a queste garanzie, ai sensi dell’art. 29, comma 2-bis e 2-ter, attengono ai “livelli
essenziali delle prestazioni” di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione :

 le disposizioni della L. 241 / 1990 riguardanti gli obblighi per la P.A. di garantire la
partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di
concludere lo stesso entro un termine prefissato e di assicurare l’accesso alla
documentazione amministrativa;
 le disposizioni relative alla durata massima dei procedimenti;
 le disposizioni riguardanti la dichiarazione di inizio attività, il silenzio assenso e la
conferenza dei servizi.

Da ciò discende che le Regioni a statuto ordinario e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti di
loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dall’art. 29,

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commi 2-bis e 2-ter, fermo restando la possibilità di prevedere ulteriori livelli di tutela (art. 29.
comma 2-quater). Invece le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano
adeguano la propria legislazione secondo i rispettivi statuti (art. 29, comma 2-quinquies).
Le disposizioni della L. 241 / 1990 si applicano anche alle società con totale o prevalente capitale
pubblico limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative (art. 29, 1°comma).

3. Struttura e funzione del procedimento amministrativo. Nella L.


241 / 1990 non c’è alcuna indicazione sulla struttura del procedimento amministrativo.
Ciononostante in dottrina il procedimento viene tradizionalmente suddiviso in fasi : una fase di
iniziativa procedimentale, una fase istruttoria e una fase decisoria.
Però la suddivisione in fasi ha un carattere esemplificativo, poiché l’iter procedimentale (che si
conclude con l’adozione del provvedimento) si snoda lungo un continuum di azioni che presentano
un’indubbia unitarietà e che sono tutte compiute in vista della decisione finale. Gli atti che nel
procedimento precedono il provvedimento (c.d. “atti endoprocedimentali”) devono pertanto
considerarsi preparatori rispetto a quest’ultimo. Questa loro caratteristica ha portato ad affermarne
una rilevanza meramente procedimentale : gli atti del procedimento esauriscono la loro portata
giuridica nell’ambito del procedimento, in quanto funzionalizzati solo all’emanazione della
decisione amministrativa. Gli atti endoprocedimentali non possono produrre effetti al di fuori del
procedimento e, dunque, non possono incidere sulla sfera giuridica di soggetti esterni. Infatti
questa prerogativa è riservata solo al provvedimento finale. Pertanto solo il provvedimento potrà
essere impugnato da chi ritenga di aver subito una lesione dall’azione dell’amministrazione (anche
se tale lesione dovesse essere riferibile a un atto del procedimento). L’atto interno al procedimento,
cioè, produce effetti solo nell’ambito di questo e l’eventuale lesione derivante da un atto interno
potrà essere fatta valere solo con l’impugnazione del provvedimento : ad es., nel caso in cui, in un
procedimento per il rilascio di un’autorizzazione da parte dell’amministrazione comunale,
l’adozione del provvedimento sia subordinata al parere (obbligatorio, ma non vincolante)
dell’amministrazione sanitaria, l’eventuale parere negativo, anche se illegittimo, non potrà essere
impugnato in via autonoma, perché esso è un atto endoprocedimentale; al contrario, l’atto che potrà
essere impugnato sarà il “provvedimento di diniego” adottato sulla base del parere negativo fornito
dall’amministrazione sanitaria. Tale regola subisce però delle eccezioni quando l’atto interno al
procedimento ha un’autonoma forza lesiva della posizione giuridica del destinatario . Ad es., nel
caso di una procedura concorsuale, l’esclusione dalla procedura per mancanza dei requisiti di
partecipazione, benchè sia disposta dall’amministrazione procedente con un atto
endoprocedimentale, ha un’autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario, poiché
gli impedisce la partecipazione alla procedura. Pertanto quest’atto potrà essere impugnato
dall’interessato senza attendere la conclusione del procedimento e, dunque, l’adozione del
provvedimento finale.
Oltre che dal punto di vista della struttura, il procedimento può essere analizzato anche dal punto di
vista funzionale. Ogni volta che si apre un procedimento, alla base di tale apertura c’è un fatto che
coinvolge in via principale l’interesse pubblico e in via secondaria gli altri interessi presenti nel
fatto. In tal senso, il procedimento amministrativo serve : 1) a evidenziare il fatto da cui si ricava
l’esigenza di cura dell’interesse pubblico (c.d. interesse primario); 2) ad acquisire gli altri interessi
(pubblici e privati) presenti nel fatto (c.d. interessi secondari); 3) ad accertare l’esistenza e le
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caratteristiche del fatto; 4) a valutare il peso di tutti gli interessi coinvolti e la misura in cui essi
dovranno essere sacrificati o avvantaggiati per la cura dell’interesse pubblico; 5) a individuare le
norme che disciplinano l’esercizio del potere rispetto al caso concreto; 6) ad assumere la decisione
che verrà formalizzata nel provvedimento.

4. L’apertura del procedimento e l’iniziativa procedimentale.


Il procedimento si apre con il primo atto della serie, il c.d. “atto di iniziativa”. Dall’art. 2 della L.
241 / 1990 si ricava che l’avvio del procedimento può avvenire su istanza di parte o d’ufficio. Nel
primo caso l’amministrazione pubblica competente viene sollecitata a procedere da un privato o da
un’altra amministrazione pubblica. Si prospetta invece l’iniziativa d’ufficio quando l’impulso
procedimentale proviene dalla stessa amministrazione procedente (quella cioè competente a
svolgere il procedimento e a emanare il provvedimento). Di regola i procedimenti ad istanza di
parte sono quelli destinati a concludersi con un provvedimento favorevole al destinatario (in quanto
ampliativi della sua sfera giuridica). Tuttavia, l’impulso di parte può provenire anche da un’altra
P.A. : ciò accade quando l’interesse pubblico attribuito in cura all’amministrazione che richiede
l’apertura del procedimento necessita (per il suo soddisfacimento) dell’intervento di un’altra
pubblica amministrazione. In quest’ultimo caso l’atto di iniziativa è detto richiesta.
Al contrario, quando la necessità di provvedere alla cura dell’interesse pubblico è avvertita proprio
dall’amministrazione competente (attraverso una propria valutazione), questa procederà d’ufficio
all’apertura del procedimento (si pensi ad esempio all’espropriazione di un terreno privato che serve
a realizzare un’opera pubblica). In tal caso l’iniziativa procedimentale coinciderà con il primo atto
che l’amministrazione pone in essere per il perseguimento del fine pubblico alla cui cura è preposta.

5. L’istruttoria procedimentale e il responsabile del procedimento.


All’atto di iniziativa procedimentale segue la “FASE ISTRUTTORIA”, nel cui alveo si concentrano
tutte quelle attività che hanno lo scopo di condurre all’adozione della decisione finale. Nel corso
dell’istruttoria la P.A. procedente : a) accerta il fatto e valuta la sua rilevanza per l’interesse
pubblico (e interpreta le norme che disciplinano l’esercizio del potere rispetto al caso concreto); b)
acquisisce eventualmente altri fatti significativi; c) acquisisce tutti gli interessi pubblici e privati
coinvolti; d) valuta comparativamente l’interesse pubblico primario con gli altri interessi in gioco
(nel caso in cui disponga di “poteri discrezionali”).
Deputato ad occuparsi di tutti questi adempimenti è il “responsabile del procedimento”, che è
quindi il vero protagonista della fase istruttoria. Ai sensi dell’art. 4 della L. 241 / 1990, infatti, “ le
pubbliche amministrazioni, ove non sia già stabilito per legge o per regolamento, sono tenute a
determinare per ogni tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa
responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale”.
Ai sensi dell’art. 5, 1° comma, poi, “Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad
assegnare a sé o a un altro dipendente addetto all’unità il ruolo di responsabile del procedimento”.
Ai sensi dell’art. 5, 2°comma, “Finchè non viene effettuata questa assegnazione, è considerato
responsabile del procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa” (= cioè lo stesso
dirigente). Infine, ai sensi dell’art. 5, 3°comma, “L’unità organizzativa competente e il nominativo

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del responsabile del procedimento sono comunicati ai soggetti che hanno il diritto di ricevere
l’avviso di avvio del procedimento, nonché ai terzi interessati”.
Il RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO è quindi, per un verso, il soggetto cui viene affidato
il corretto svolgimento dell’istruttoria e, per altro verso, l’interlocutore privilegiato dei soggetti
coinvolti dall’esercizio dell’azione amministrativa. A lui spettano dunque vari compiti, indicati
nell’art. 6 della L. 241 / 1990. Egli, ai sensi dell’art.6, “valuta i requisiti di legittimazione e i
presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento”; “accerta i fatti adottando ogni misura
per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (ad esempio, può chiedere il rilascio di
dichiarazioni, esperire accertamenti tecnici e ispezioni e ordinare esibizioni documentali); “propone
l’indizione o (se ne ha la competenza), indice egli stesso la conferenza di servizi”.
Compiuta l’istruttoria, il responsabile del procedimento “adotta il provvedimento finale, ove ne
abbia la competenza, o trasmette gli atti del procedimento all’organo competente”. In quest’ultimo
caso l’art. 6 stabilisce che “l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove diverso dal
responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta da
quest’ultimo se non indicandone i motivi nel provvedimento finale”. Tale disposizione, per un
verso, ribadisce che l’organo competente all’adozione del provvedimento finale può essere diverso
dall’ufficio cui è demandata la responsabilità dell’istruttoria; per altro verso, attribuisce alle
risultanze istruttorie la portata di una vera e propria proposta di decisione, con cui il responsabile
del procedimento prospetta all’organo decidente la soluzione che ritiene corretta e da cui
quest’ultimo può discostarsi solo previa adeguata motivazione, pena l’illegittimità del
provvedimento adottato.

6. La partecipazione dei privati al procedimento amministrativo.


Prima della L. 241 / 1990 il procedimento amministrativo era svolto dall’amministrazione
competente senza che fosse previsto il coinvolgimento dei soggetti privati interessati. Tuttavia, già
all’epoca la dottrina riteneva che ciò fosse una grave lacuna, poichè la “partecipazione dei privati al
procedimento” troverebbe un fondamento costituzionale nell’art. 97 Cost. e, in particolare, nel
“principio di imparzialità” : infatti la garanzia di un agire amministrativo imparziale richiede che,
nell’ambito del procedimento, siano valutati tutti gli interessi coinvolti e il modo migliore per
favorire la conoscenza di questi ultimi da parte della P.A. è quella di far partecipare i soggetti che
ne siano titolari al procedimento.
A questa lacuna normativa ha posto riparo la L. 241 / 1990, che ha garantito la
“PARTECIPAZIONE DEI PRIVATI AL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO”. La
partecipazione ha due funzioni : 1) serve alla migliore cura dell’interesse pubblico, poichè il
partecipante, arricchendo con le proprie prospettazioni le informazioni a disposizione della pubblica
amministrazione, mette quest’ultima nella condizione di adottare una decisione meditata (c.d.
funzione di “collaborazione”); 2) inoltre la partecipazione serve a tutelare il privato e l’interesse di
cui è titolare nei confronti dell’esercizio del potere amministrativo (c.d. funzione di “garanzia”).
Alla disciplina della partecipazione procedimentale è dedicato il Capo 3° della L.241 / 1990. Però
la disciplina dedicata alla partecipazione procedimentale non trova applicazione in ogni
circostanza : infatti l’art. 13 della L. 241 / 1990 esclude che la partecipazione si applichi ai
“procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e
programmazione, nonché ai procedimenti tributari”. Inoltre la giurisprudenza amministrativa ha
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aggiunto altre ipotesi in cui la disciplina della partecipazione non si applica : ciò accade per i
procedimenti in cui le “esigenze di segretezza” prevalgono su quelle di “pubblicità” (ad esempio, in
presenza di interessi superiori, come l’ordine pubblico, la sicurezza e la repressione di determinati
reati). Esistono anche
“discipline settoriali della partecipazione” che si applicano a determinati procedimenti : in alcuni
casi la garanzia della partecipazione assume anche una portata più ampia di quella prevista dalla L.
241 / 1990, sia perché tale garanzia è riconosciuta a chiunque voglia intervenire (indipendentemente
dalla titolarità di uno specifico interesse coinvolto nella vicenda procedimentale), sia perché al
privato sono riconosciuti strumenti più incisivi (come la possibilità di interloquire con
l’amministrazione procedente anche oralmente, e non solo tramite la presentazione di memorie
scritte e documenti). Nel primo caso, la partecipazione ha anche una funzione di controllo diffuso
sulla legalità e opportunità dell’azione amministrativa; nel secondo caso, si è in presenza di un vero
e proprio contraddittorio non solo scritto, ma anche orale, che avvicina il procedimento al processo.

7. La comunicazione di avvio del procedimento. La partecipazione al


procedimento richiede innanzitutto che i soggetti interessati siano avvertiti dell’avvio del
procedimento. La conoscenza di tale circostanza viene garantita dalla “COMUNICAZIONE DI
AVVIO DEL PROCEDIMENTO”, prevista dall’art. 7 della L. 241 / 1990. In proposito vi è un vero
e proprio obbligo gravante sulla P.A. e tale obbligo va adempiuto nei confronti di una serie definita
di soggetti mediante comunicazione personale (art. 8, 1°comma) o, se per il numero dei destinatari
tale modalità sia impossibile o particolarmente gravosa, attraverso forme di pubblicità adeguate di
volta in volta stabilite dalla pubblica amministrazione (art. 8, 3°comma).
Tali soggetti sono indicati nell’art. 7, 1°comma : l’avvio del procedimento deve essere comunicato
“a coloro nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, a quelli
che per legge devono intervenirvi, nonché a coloro che potrebbero essere danneggiati dall’adozione
del provvedimento finale”.
Nella prima categoria sono compresi i destinatari del provvedimento finale (si pensi ai proprietari di
un terreno che l’amministrazione vuole espropriare). L’avvio del procedimento va comunicato
anche ai soggetti che devono partecipare al procedimento in virtù di una previsione di legge (ad
esempio le pubbliche amministrazioni, diverse da quella procedente, cui compete l’adozione di un
atto della serie procedimentale). Infine l’avvio del procedimento va comunicato a chi potrebbe
subire un pregiudizio dal provvedimento finale : cioè i soggetti c.d. controinteressati che, pur non
essendo diretti destinatari della decisione amministrativa, potrebbero essere lesi dalla stessa (si
pensi al proprietario di un terreno confinante rispetto a quello oggetto di un intervento edilizio).
L’obbligo di comunicazione subisce delle deroghe : la P.A., infatti, non è tenuta a comunicare
l’avvio del procedimento ove sussistano “ragioni di impedimento derivanti da esigenze di celerità
del procedimento” e, dunque, dall’urgenza del provvedere (art. 7, 1°comma della L. 241 / 1990).
Tuttavia non basta una qualsiasi urgenza, ma un’urgenza «qualificata» (tale cioè da non consentire
l’adempimento dell’obbligo senza che ne risulti compromesso il soddisfacimento dell’interesse
pubblico affidato alle cure dell’amministrazione).
Una seconda deroga è contenuta nell’art. 7, 2°comma : “l’amministrazione pubblica può sempre
adottare, anche prima di effettuare la comunicazione, provvedimenti cautelari”. Rientrano in questa
ipotesi, ad esempio, tutti quei provvedimenti di sospensione dell’efficacia di precedenti
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provvedimenti (ad es. la sospensione di un’autorizzazione a svolgere una determinata attività)


indispensabili per tutelare l’interesse pubblico.
Oltre a queste deroghe legislative, altre ne sono state individuate dalla giurisprudenza
amministrativa : 1) Si è affermata l’irrilevanza della violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio del procedimento ai fini dell’annullabilità del provvedimento finale tutte le volte in cui il
soggetto si è trovato nella condizione di poter comunque partecipare al procedimento (ciò si
verifica, ad esempio, quando il soggetto interessato ha acquisito in altro modo la conoscenza del
procedimento in tempo per esercitare le proprie prerogative di partecipazione; quando abbia
ricevuto un atto equipollente alla comunicazione; o quando il procedimento è iniziato su istanza di
parte). In questi casi la giurisprudenza ha applicato il “principio del raggiungimento dello scopo”:
infatti in tali ipotesi lo scopo è comunque raggiunto.
2) Un secondo gruppo di deroghe si basa sulla funzione della partecipazione al procedimento. Una
parte della giurisprudenza infatti sostiene che la partecipazione debba essere garantita in quanto
utile, oltre che per il partecipante, anche per l’amministrazione procedente. Ne deriva che, quando
attraverso il procedimento amministrativo la P.A. debba esercitare una potestà interamente
vincolata (cioè quella in cui non sono necessarie né valutazioni tecniche né valutazioni
discrezionali), l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non determina
l’annullabilità del provvedimento finale. In questo caso infatti la mancata partecipazione del privato
è ininfluente, poichè quest’ultimo non avrebbe comunque potuto apportare alcun contributo
rilevante per la decisione finale.
Ad ogni modo, le ipotesi enucleate dalla giurisprudenza sono state in seguito accolte dal legislatore,
che all’art. 21-octies della L. 241 / 1990, introdotto dalla L. 15 / 2005, (“Annullabilità del
provvedimento”) statuisce che : “È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza (1°comma).  Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma,
qualora per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato; il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato” (2°comma). Con tale previsione il legislatore ha
voluto affermare la PREVALENZA DELLA SOSTANZA SULLA FORMA, negando l’annullabilità
del provvedimento ogni volta che sia dimostrato che la comunicazione di avvio del procedimento
non avrebbe comunque potuto modificare il contenuto del provvedimento.
Infine l’art. 8, 2°comma della L. 241 / 1990 stabilisce i contenuti della comunicazione : l’atto deve
indicare “l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, l’ufficio e il responsabile del
procedimento, l’ufficio in cui si possono visionare gli atti e il termine di conclusione del
procedimento”. Ai sensi dell’art. 8, 4°comma, l’omissione di una di queste comunicazioni può
essere fatta valere “solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista”. Tuttavia la
giurisprudenza ha assunto un atteggiamento restrittivo sostenendo che il più delle volte queste
omissioni sono delle mere irregolarità, che non incidono sulla validità del provvedimento finale.

8. L’interventore procedimentale. I soggetti a cui deve essere obbligatoriamente


inviata la “comunicazione di avvio del procedimento” possono intervenire nel procedimento. Anzi,
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questi ultimi si trovano in una posizione privilegiata, poichè hanno una conoscenza diretta
dell’apertura del procedimento. Se essi decidono di intervenire, assumono la qualifica di
“INTERVENTORI”. Inoltre la L. 241 / 1990 garantisce la possibilità di partecipare al procedimento
a una cerchia di soggetti più ampia di quelli che hanno il “diritto” di ricevere la comunicazione di
avvio dello stesso. Ai sensi dell’art. 9, 1°comma, infatti, la facoltà di intervenire nel procedimento è
assicurata anche a qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, ai portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento.
Il novero degli interventori dunque è ampio : esso spazia dai diretti destinatari del provvedimento
finale a coloro che possono ricevere un danno dal provvedimento; dai soggetti pubblici ai soggetti
portatori di interessi diffusi (purché si diano un minimo di organizzazione e assumano la forma
dell’associazione o del comitato).
Una delle questioni più rilevanti è se la “legittimazione a intervenire nel procedimento” determini
una corrispondente legittimazione processuale a impugnare il provvedimento finale in sede
giurisdizionale. La giurisprudenza amministrativa ha affermato che la possibilità di intervenire nel
procedimento non determina l’automatica capacità di ricorrere in via processuale contro il
provvedimento, dovendo tale capacità essere riconosciuta sulla base della titolarità di un interesse
legittimo. Solo il partecipante titolare di un interesse legittimo rispetto all’esercizio del potere
amministrativo potrà fare valere in sede processuale la lesione derivante dall’eventuale illegittimità
del provvedimento. La questione si è posta soprattutto riguardo ai soggetti portatori di interessi
diffusi : date le molte limitazioni con cui i soggetti portatori di tali interessi sono ammessi ad
attivare la loro tutela davanti al giudice amministrativo, la dottrina ha cercato di sostenere che,
grazie all’art. 9, 1°comma, gli interessi diffusi avessero trovato piena tutela non solo a livello
procedimentale, ma anche processuale (e dunque aldilà dei settori specifici in cui tale legittimazione
è espressamente prevista dalla legge, come avviene ad esempio in materia ambientale o di tutela
dei consumatori). Questa tesi, però, non è stata accolta dal giudice amministrativo, che anzi ha
affermato che la “legittimazione a partecipare al procedimento”, riconosciuta ai portatori di interessi
diffusi, non implica anche un’automatica “legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale”.
In ogni caso tutti i soggetti legittimati a intervenire (quelli indicati nell’art. 7, 1°comma e quelli
indicati nell’art. 9, 1°comma) possono esercitare gli stessi “diritti”. Ai sensi dell’art.10, 1°comma,
essi hanno il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e il diritto di presentare
memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti
all’oggetto del procedimento. La partecipazione procedimentale si esplica, dunque, in due diversi
modi : 1) il “diritto di visionare gli atti del procedimento”, che permette di venire a conoscenza
dell’oggetto del procedimento e delle valutazioni compiute fino a quel momento. Pertanto il
partecipante, tramite l’“accesso”, acquisisce quel corredo di informazioni necessario per
interloquire con l’ amministrazione procedente; 2) il “diritto di presentare memorie e documenti”,
che consente al partecipante di offrire argomentazioni relative a tutti gli aspetti rilevanti del
procedimento e
di tutelare la propria posizione attraverso la prospettazione di fatti utili all’amministrazione
procedente per l’assunzione della decisione.
Il “DIRITTO DI VISIONARE GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO” è una species del più ampio
genus del “diritto di accesso” di cui all’art. 22 della L. 241 / 1990. Sebbene il primo abbia una
portata più ristretta del secondo, la tutela di entrambi è identica. Infatti, sia la lesione del diritto di

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prendere visione degli atti del procedimento che la lesione del diritto di accesso ai documenti
amministrativi possono essere tutelate in sede giurisdizionale con l’azione prevista dall’art. 25 della
L. 241 / 1990 : è possibile (contro le decisioni della P.A. riguardanti il diritto di accesso) ricorrere
davanti al Tribunale amministrativo regionale competente, che si pronuncia con rito abbreviato.
Per quanto riguarda il “DIRITTO DI PRESENTARE MEMORIE E DOCUMENTI”, il contenuto
della memoria deve essere costituito da asserzioni su fatti rilevanti per lo svolgimento del
procedimento che riguardino la posizione dell’interventore. A queste asserzioni possono essere
allegati documenti che forniscono la prova di quanto asserito. Una volta presentate memorie e
documenti, la P.A. ha l’obbligo di esaminarli ove pertinenti all’oggetto del procedimento. La
“pertinenza” attiene alla rilevanza delle asserzioni dal punto di vista del fatto, dell’interesse vantato
dall’interventore o dell’eventuale contributo all’individuazione e interpretazione delle norme che la
P.A. ritiene di dover applicare al caso concreto. Inoltre, la P.A. deve anche valutare la rilevanza di
quanto affermato per la decisione e di tale giudizio deve essere dato conto. Non è necessaria una
confutazione analitica del contenuto delle memorie e dei documenti, essendo sufficiente che dalla
motivazione del provvedimento siano desumibili le ragioni del non accoglimento di quanto dedotto
dall’interventore.
Attraverso la produzione di memorie e documenti si instaura nel procedimento un contradditorio
scritto tra questi ultimi e l’amministrazione procedente.
Il legislatore nell’art. 10 qualifica le pretese partecipative in termini di “diritti”. Nonostante una
parte della dottrina abbia sostenuto che tali pretese siano diritti soggettivi, la dottrina maggioritaria
ritiene che siano delle facoltà dell’interesse legittimo o delle facoltà di una situazione giuridica
peculiare definibile come “interesse procedimentale”. Quest’ultima posizione è preferibile, poichè
non tutti i soggetti legittimati a partecipare al procedimento sono titolari di un interesse legittimo
(tali sono certamente i diretti destinatari del provvedimento finale e i c.d. controinteressati, ma non i
soggetti indicati nell’art. 9, 1°comma).

9. Istruttoria procedimentale e consulenza di amministrazioni


pubbliche diverse da quella procedente. Nella fase istruttoria può aversi il
coinvolgimento di altre pubbliche amministrazioni. Ciò accade quando la P.A. procedente debba, in
virtù di una previsione normativa, acquisire valutazioni provenienti da altre pubbliche
amministrazioni o ritenga utile per la completezza dell’istruttoria acquisire queste valutazioni. In
questi casi si parla di “ATTIVITA’ CONSULTIVA” e gli atti sono detti “PARERI”. Il ricorso alla
consulenza amministrativa avviene per due ragioni : 1) quando è necessario acquisire e valutare
“interessi pubblici”, coinvolti nel procedimento, che sono attribuiti alla cura di altre pubbliche
amministrazioni; 2) quando bisogna accertare “fatti complessi” rispetto a cui l’amministrazione
procedente non dispone di uffici ed organi con le necessarie conoscenze tecniche e scientifiche.
Ai sensi dell’art. 16, 1°comma della L. 241 / 1990 (rubricato “Attività consultiva”), “Le pubbliche
amministrazioni devono rendere i pareri ad esse obbligatoriamente richiesti entro 20 giorni dal
ricevimento della richiesta. Quando alle stesse siano richiesti pareri facoltativi, esse sono tenute a
comunicare alle pubbliche amministrazioni richiedenti il termine entro cui il parere sarà reso (che
comunque non può superare i 20 giorni dal ricevimento della richiesta)”. Ai sensi dell’art. 16, 2° e
3°comma, “L’infruttuosa decorrenza del termine, senza che la P.A. consultata abbia rilasciato il
parere o abbia espresso esigenze istruttorie per predisporlo, autorizza l’amministrazione a procedere
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indipendentemente dall’acquisizione del parere, salvo che quest’ultimo debba essere rilasciato da
pubbliche amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute
del cittadino”. Infine ai sensi dell’art. 16, 4°comma, “Qualora la P.A. cui è stato chiesto il parere
abbia manifestato esigenze istruttorie (ad esempio l’acquisizione di ulteriori informazioni) il
termine di 20 giorni può essere interrotto una sola volta e il parere deve essere definitivamente reso
entro 15 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori”.

Ai sensi dell’art. 17, 1°comma, “Ove per espressa disposizione di legge o di regolamento sia
previsto che l’adozione di un provvedimento debba avvenire previa acquisizione delle valutazioni
tecniche di altre pubbliche amministrazioni e queste ultime non provvedano in tal senso o non
manifestino esigenze istruttorie nei termini fissati dalla disposizione (o in mancanza entro 90 giorni
dal ricevimento della richiesta), l’amministrazione procedente, tramite il responsabile del
procedimento, deve chiedere queste valutazioni tecniche ad altre pubbliche amministrazioni dotate
di capacità tecnica equipollente o ad istituti universitari”. Ai sensi dell'art. 17, 2°comma, “Questa
disposizione non si applica in caso di valutazioni che devono essere prodotte da amministrazioni
pubbliche preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute del cittadino ”.
Infine l’art. 17, 3°comma rende applicabile l’art. 16, 4°comma alla ipotesi di “richieste istruttorie
formulate dall’amministrazione che deve esprimere le valutazioni tecniche”. Ricaviamo che :

 i pareri vengono richiesti in quanto previsti da una disposizione normativa (“PARERI


OBBLIGATORI”) o in quanto ritenuti utili dall’amministrazione procedente (“PARERI
FACOLTATIVI”) per la decisione finale;
 l’amministrazione procedente può in ogni caso prescindere dall’acquisizione dei pareri e
concludere il procedimento ove i pareri non vengano resi;
 questa possibilità viene meno in relazione a quei pareri obbligatori in cui devono essere
espresse “valutazioni tecniche”, nel qual caso l’amministrazione procedente deve richiedere
l’intervento di altre pubbliche amministrazioni;
 la possibilità di prescindere dai pareri obbligatori richiesti viene meno quando i pareri
devono essere resi dalle amministrazioni preposte alla “tutela ambientale, paesaggistica,
territoriale e della salute dei cittadini”; in questi casi non solo l’amministrazione procedente
deve necessariamente acquisire il parere, ma questo deve essere necessariamente reso dalle
amministrazioni competenti;
 il termine entro cui il parere obbligatorio deve essere rilasciato è fissato in 20 giorni e,
pertanto, il termine per la conclusione del procedimento è sospeso fino al rilascio del parere
(quindi per un periodo massimo di 20 giorni);
 il termine per il rilascio del parere è sospeso quando la P.A. a cui è stato richiesto manifesta
l’esigenza di acquisire altri dati ed informazioni;
 dal momento in cui tali esigenze sono soddisfatte, quest’ultimo deve essere reso entro 15
giorni;
 pertanto, il termine per la conclusione del procedimento resta sospeso per l’ulteriore tempo
necessario a soddisfare le esigenze istruttorie e per un massimo di ulteriori 15 giorni;
 il termine per il rilascio un parere che deve essere obbligatoriamente richiesto in virtù di
“disposizioni di legge e di regolamento” e che esprime “valutazioni tecniche”, è fissato in un
periodo massimo di 90 giorni e, quindi, il termine per la conclusione del procedimento è
sospeso fino al rilascio del parere e comunque per un periodo massimo di 90 giorni.
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Quindi sono garantite sia le esigenze di accuratezza necessarie per adottare una decisione corretta,
sia le esigenze di tempestività dell’azione amministrativa. Infine la presenza della «CLAUSOLA DI
SALVAGUARDIA» (che esclude in determinati casi la possibilità per l’amministrazione
procedente di prescindere dall’acquisizione dei pareri) conferisce un particolare status ad alcuni
interessi pubblici : quelli attinenti all’ambiente, al paesaggio, al territorio e alla salute dei cittadini,
la cui tutela non può essere in alcun modo dimidiata (= dimezzata) per soddisfare altre ragioni (ad
esempio quelle di celere conclusione dei procedimenti).
I pareri si distinguono in OBBLIGATORI e FACOLTATIVI. I primi possono anche essere distinti
in “pareri vincolanti” (quando non possono essere disattesi dall’amministrazione procedente) e
“non vincolanti” (quando questa può discostarsene).
Il “parere vincolante” imprime un indirizzo preciso alla decisione che l’amministrazione dovrà
adottare a conclusione del procedimento. Quindi esso possiede un’autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario della decisione e, pertanto, ove il parere sia viziato esso, pur essendo
un atto formalmente procedimentale, potrà essere autonomamente impugnato. Quando invece il
parere non è vincolante, la P.A. (sia che si tratti di parere obbligatorio che facoltativo) può
discostarsene ai fini della decisione finale. Tuttavia essa deve dare una motivazione nel
provvedimento delle ragioni che giustificano una decisione contraria alle valutazioni espresse nel
parere, pena l’“illegittimità del provvedimento”. Il parere non vincolante, quand’anche affetto da
vizi di legittimità, è un atto endoprocedimentale nella forma e nella sostanza : potendo infatti
l’amministrazione procedente discostarsi dal parere, esso non ha un’autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario. Pertanto il vizio potrà essere fatto valere solo con l’impugnazione
della decisione conclusiva.
L’attività di consulenza è attivata previa richiesta dell’amministrazione procedente. Ma è possibile
che le amministrazioni, diverse da quella procedente, autonomamente decidano di esprimere la
propria posizione su circostanze rilevanti presenti nel procedimento. Infatti ogni P.A. titolare di un
interesse pubblico coinvolto in un procedimento amministrativo può, ai sensi dell'art. 9, 1°comma
della L. 241 / 1990, intervenire nel procedimento ed esercitare le pretese riconosciute dall’art. 10.

10. La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento


dell’istanza. La L. 15 / 2005 ha introdotto, nell’originario corpo della L. 241 / 1990 l’art. 10-
bis. Ai sensi di questo articolo, “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l’organo competente, prima di adottare il provvedimento di diniego, comunica
tempestivamente a coloro che hanno determinato l’avvio del procedimento con la propria istanza i
motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza. Entro 10 giorni dal ricevimento della
comunicazione i destinatari hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni,
eventualmente corredate da documenti. La comunicazione interrompe i termini per la conclusione
del procedimento, che iniziano nuovamente a decorrere dalla scadenza del termine di 10 giorni.
Dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni è data ragione nella motivazione del
provvedimento finale. Queste disposizioni non si applicano alle procedure concorsuali e ai
procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte ”. Infine,
l’art. 10-bis stabilisce che «Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento
della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione».
La norma opera solo nei procedimenti aperti con istanza di parte : si tratta, dunque, di procedimenti
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che, ove conclusi con un provvedimento positivo per il destinatario, ampliano la sua sfera giuridica.
Tuttavia dall’applicazione della norma sono esclusi i “procedimenti concorsuali”, poichè la
partecipazione agli stessi potrebbe coinvolgere un alto numero di soggetti, con un conseguente
aggravio del procedimento e un ritardo quanto alla sua conclusione. Sono anche esclusi dal suo
campo di applicazione i “procedimenti in materia previdenziale e assistenziale” (in tal caso, però,
l’esclusione non appare affatto giustificata).
La ratio della norma è chiara : essa garantisce ai destinatari degli effetti del provvedimento
un’ulteriore fase di contraddittorio scritto con la P.A. Quando quest’ulteriore fase si innesta, però,
non solo la fase istruttoria può dirsi già conclusa, ma anche la fase della decisione. Infatti la P.A.
ha già deciso di non poter accogliere l’istanza. Quindi la funzione di questo ulteriore momento di
partecipazione è di tipo difensivo : al privato infatti viene riconosciuta la possibilità di confutare e
contestare una proposta di provvedimento negativo con la presentazione di apposite asserzioni
miranti a far rilevare l’ILLEGITTIMITA’ DELLA DECISIONE in relazione a qualsiasi profilo
rilevante (l’accertamento del fatto, la ponderazione degli interessi, l’individuazione delle norme
regolative della fattispecie e la loro corretta interpretazione) e a indurre la P.A. ad assumere una
decisione diversa.
La P.A., ove ritenga di non poter accogliere le argomentazioni offerte dal privato (e dunque di non
dover modificare la decisione di rigetto), dovrà motivare la propria posizione.
Inoltre il “PREAVVISO DI DINIEGO” è un atto endoprocedimentale, privo di autonoma capacità
lesiva della sfera giuridica del destinatario, poichè la P.A. potrebbe decidere diversamente da
quanto comunicato e, quindi, non è oggetto di autonoma impugnazione.
Nel caso di omissione del preavviso di diniego la conseguenza dovrebbe essere l’“illegittimità del
provvedimento finale”, ma secondo una parte della giurisprudenza all’art. 10-bis potrebbe applicarsi
in via estensiva l’art. 21-octies, 2°comma (che si riferisce alla “comunicazione di avvio del
procedimento”) : ne deriverebbe che il provvedimento di diniego non sarebbe suscettibile di
annullamento ove la P.A. dimostri in giudizio che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Questa conclusione, però, non sembra si possa accogliere poiché,
essendo l’art. 10-bis una norma posta a tutela del privato, la mancata comunicazione all’interessato
determinerà inevitabilmente l’“illegittimità del provvedimento finale di diniego”.

11. La conclusione del procedimento attraverso l’adozione del


provvedimento. Completata l’istruttoria procedimentale, “l’amministrazione deve decidere
e formalizzare la decisione in un provvedimento amministrativo espresso”. Tale dovere è previsto
dall’art. 2, 1° comma della L. 241 / 1990. Lo svolgimento dell’iter procedimentale (dall’avvio fino
all’adozione del provvedimento) deve essere contenuto in un preciso limite di tempo, limite che
“può essere determinato dalle stesse amministrazioni statali in misura non superiore ai 90 giorni ” e
che “può essere aumentato fino a un massimo di 180 giorni nei casi in cui ciò risulti indispensabile
a causa della natura degli interessi pubblici tutelati o della complessità del procedimento”. In
mancanza di una siffatta determinazione, l’art. 2 prevede che “i procedimenti amministrativi
debbano concludersi entro 30 giorni”. “I termini per la conclusione del procedimento decorrono
dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento dell’istanza di parte”; tali termini “possono
essere sospesi per una sola volta e per un periodo non superiore a 30 giorni qualora sia necessario
acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già
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in possesso dell’amministrazione”.
Nell’art. 2 della L. 241 / 1990 è dunque definito un vero e proprio OBBLIGO per la pubblica
amministrazione DI PROCEDERE E DI PROVVEDERE CON UN PROVVEDIMENTO
ESPRESSO. La norma è la specificazione del “principio della doverosità dell’esercizio della
funzione amministrativa”.
L’obbligo di procedere e poi di provvedere di cui all’art. 2 subisce, però, delle eccezioni. La
giurisprudenza amministrativa infatti ha affermato che la P.A. non è tenuta a dare corso al
procedimento (e ad adottare il provvedimento) : 1) in presenza di reiterate richieste aventi lo stesso
contenuto, qualora sia stata già adottata rispetto al caso concreto un precedente provvedimento
inoppugnato (= non impugnato) e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di
diritto; 2) in presenza di domande manifestamente assurde o infondate; 3) in presenza di domande
illegali.
Inoltre la P.A. può concludere il procedimento con un c.d. “PROVVEDIMENTO IN FORMA
SEMPLIFICATA” (cioè un provvedimento la cui motivazione consiste in un sintetico riferimento al
punto di fatto o di diritto risolutivo): ciò quando ravvisi la manifesta irricevibilità, inammissibilità,
improcedibilità o infondatezza della domanda.
Ma cosa accade se la P.A. non rispetta il termine per la conclusione del procedimento ? La P.A. non
decade dalla possibilità di esercitare il potere, stante in vigore il principio dell’“inesauribilità
dell’esercizio della funzione amministrativa”. La decadenza può determinarsi solo ove una specifica
disposizione di legge la preveda. Tuttavia, ai sensi dell’art. 2-bis, “le pubbliche amministrazioni
sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato per l’inosservanza dolosa o colposa del
termine”. Inoltre l’art. 2-bis ha previsto anche che, “in caso di inosservanza del termine di
conclusione del procedimento ad istanza di parte, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per
mero ritardo” : le somme corrisposte a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.

12. Il silenzio inadempimento. Può capitare che, davanti all’istanza di un privato, la


P.A. non dia corso al procedimento o, pur dandovi corso, non lo porti a termine. Il risultato in
entrambi i casi è lo stesso : il provvedimento finale non viene adottato. Questo fenomeno è detto
“SILENZIO DELLA P.A.”, anche se sarebbe più corretto parlare di inerzia.
Di fronte a questo fenomeno l’ordinamento può prevedere che al silenzio sia attribuito, decorso il
termine per la conclusione del procedimento, o il significato di assenso o di diniego dell’istanza. In
questo caso si dice che “il silenzio è significativo per effetto di una specifica previsione legislativa”.
Quindi dall’inerzia della P.A. vengono fatti discendere effetti giuridici di accoglimento o di diniego
dell’istanza, quegli stessi effetti che scaturirebbero dall’adozione di un provvedimento espresso (ed
è una scelta operata a livello legislativo). Quando però l’inerzia della P.A. non viene qualificata
dalla legge nè termini di assenso che di diniego, si determina una situazione particolarmente grave,
perché l’istanza del privato resta inevasa (= pratica non sbrigata, tenuta in sospeso). In tal caso si
parla di “SILENZIO INADEMPIMENTO” per sottolineare il fatto che la P.A., pur in presenza di
un’istanza del privato (che vale come atto di apertura del procedimento) viene meno all’ “obbligo di
svolgere il procedimento e di concluderlo entro il termine con un provvedimento espresso”.
Il fenomeno determina un pregiudizio per il privato per vari motivi : 1) lo mantiene in una
situazione di incertezza. 2) Gli impedisce di realizzare quanto si propone di fare, nel caso in cui
versi in una situazione che legittima l’adozione di un provvedimento di accoglimento dell’istanza
(si pensi a un imprenditore che chieda un’autorizzazione per svolgere un’attività commerciale che
non può essere intrapresa senza l’assenso della P.A. Se a fronte dell’istanza il procedimento non
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viene concluso, l’imprenditore non sa se potrà avviare o meno l’attività. Se il richiedente è in


possesso di tutti i requisiti per ottenere l’autorizzazione, la mancata adozione di un provvedimento
di accoglimento dell’istanza è lesiva della sua posizione giuridica e può produrre un danno
patrimoniale). 3) Infine può verificarsi il caso in cui, in presenza dell’inerzia, venga modificato il
quadro normativo prevedendo un ulteriore requisito per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale
che il soggetto non possiede. In tal caso, la sopravvenienza normativa impedisce (in virtù del
principio tempus regit actum) che la P.A. possa, sia pure in ritardo, adottare un provvedimento di
accoglimento dell’istanza. Ma ciò non si sarebbe verificato se la P.A. avesse concluso il
procedimento nel termine.
In definitiva, il SILENZIO INADEMPIMENTO è una disfunzione particolarmente grave poiché
comporta tanto la violazione da parte della P.A. dell’ “obbligo di procedere e di provvedere",
quanto la lesione della situazione giuridica del privato.
Per dare una soluzione al problema, l’art. 31 del “codice del processo amministrativo” (rubricato
“azione avverso il silenzio”) al 1°comma prescrive che “decorso il termine per la conclusione del
procedimento, il soggetto interessato può chiedere l’accertamento in sede giurisdizionale
dell’obbligo di provvedere”. Ai sensi dell’art. 31, 2°comma, “l’azione può essere proposta finchè
dura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per la conclusione
del procedimento. In ogni caso (cioè anche dopo la scadenza di un anno) resta salva la
riproponibilità dell’istanza del privato alla pubblica amministrazione”.
Tuttavia, il giudice amministrativo può pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza solo quando si
tratti di un’attività vincolata o quando non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dalla
pubblica amministrazione.
Al di fuori di questi casi, la tutela del privato nei confronti del silenzio si realizza con
l’accertamento dell’inadempimento e la condanna dell’amministrazione a concludere il
procedimento con un provvedimento espresso. In tal caso, resta impregiudicato il contenuto del
provvedimento, nel senso che esso può essere sia di accoglimento che di diniego dell’istanza,
poichè la decisione dipende da valutazioni discrezionali della P.A. Naturalmente, ove il privato
ritenga illegittima la decisione finale, potrà sempre rivolgersi al giudice amministrativo non
attraverso l’azione (speciale) contro il silenzio, ma impugnando il provvedimento illegittimo con il
rito ordinario. Inoltre, dinanzi al silenzio inadempimento il privato può anche chiedere la tutela
risarcitoria a ristoro del danno ingiusto subito : ciò è confermato dal fatto che l’art. 30 del “codice
del processo amministrativo” dispone che il risarcimento può essere riconosciuto non solo nel caso
in cui l’attività amministrativa risulti essere illegittima, ma anche qualora la stessa manchi del tutto
(ossia proprio nel caso di silenzio inadempimento). In tal caso si parla di DANNO DA RITARDO.

TEMPUS REGIT ACTUM : (= il tempo regola l’azione) : l’atto è soggetto alla disciplina vigente al momento del suo
compimento. Sarebbe il “principio di irretroattività”.

-CAPITOLO 4. LA CONFERENZA DI SERVIZI-


SEZIONE I – NATURA GIURIDICA
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1.La conferenza di servizi: genesi della figura. La L. 241 / 1990 include tra gli
strumenti di «semplificazione» un istituto che riguarda le modalità di svolgimento dell’attività
amministrativa : la “CONFERENZA DI SERVIZI”. Essa ha assunto un rilievo crescente, tanto che
il legislatore ha dovuto rivederne più volte la disciplina per correggerne le imperfezioni : ben 10
interventi di riforma hanno infatti interessato la disciplina della conferenza a partire dal 1990. La L.
241 / 1990, quasi a sancire l’importanza dell’istituto, dedica oggi alla conferenza di servizi ben 5
articoli (artt. 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies).
L’espressione scelta dal legislatore, «CONFERENZA DI SERVIZI», fa riferimento alla valutazione
contestuale di più interessi pubblici coinvolti nella soluzione di un problema amministrativo
attraverso una «riunione di persone competenti a trattare il problema» (organi o delegati di
organi). Si pensi, ad esempio, al procedimento di “pianificazione urbanistica”, che tocca tutti gli
interessi pubblici che gravitano sul territorio (ambientali, culturali, attinenti alla viabilità, ai
trasporti, ecc.) : in questo, come in altri casi, la soluzione deve essere trovata tramite una riunione in
cui sono chiamate a partecipare tutte le amministrazioni interessate (rappresentate a loro volta da
persone fisiche deputate a trattare la questione). Il termine “SERVIZI” si riferisce a «strutture
organizzative di diversa dimensione e di diverso livello, dai semplici uffici ad amministrazioni
prese nella loro unitarietà». La disciplina della conferenza di servizi contempla, infatti, sia
“conferenze tra uffici della stessa amministrazione” sia “conferenze tra (organi di) amministrazioni
diverse”.
La conferenza di servizi si affermò inizialmente nella prassi (in particolare nell’ambito dei
«procedimenti di formazione e approvazione dei piani urbanistici») : le parti del procedimento
confrontavano le rispettive posizioni e, anche quando non si raggiungeva un’intesa, la conferenza
era utile, perché serviva a mettere in evidenza i problemi posti sul tavolo conferenziale. Alcune
ipotesi di conferenze di servizi erano contemplate, però, anche dalla legge.
Fino agli anni '80, però, la dottrina non aveva offerto particolari approfondimenti. Solo a partire
dalla seconda metà degli anni '80 si registra un impiego consistente della figura e un suo «rilancio»
da parte del legislatore, giacchè la conferenza fu tipizzata in molte “leggi speciali”. Così la dottrina
finì per sposare l’idea secondo cui la “conferenza di servizi” dovesse essere usata per far fronte ad
opere ed interventi di natura eccezionale e urgente.
L’originalità dell’istituto fece nascere un intenso dibattito sul problema della sua NATURA
GIURIDICA : la dottrina ha oscillato tra la posizione che qualificava la conferenza come uno
strumento avente una rilevanza sul piano delle strutture organizzative (: essa fu assimilata agli
“organi collegiali”) e la posizione che la qualificava come una mera “riunione di organi che
collaborano tra loro per coordinare le rispettive azioni”, senza, però, dar vita ad un organismo
ulteriore, dotato di una separata soggettività.
Furono enfatizzate le finalità di snellimento e accelerazione dell’istituto (al punto da far ritenere che
la conferenza di servizi fosse uno strumento sostitutivo del procedimento amministrativo e tale da
escludere, insieme al procedimento, anche la partecipazione dei privati). Parte della dottrina, invece,
facendo leva sull’accostamento tra “conferenza di servizi” e “organo collegiale”, aveva sostenuto
che la conferenza fosse una forma particolare di collegio e che, di conseguenza, lo svolgimento dei
lavori della conferenza portasse all’adozione di un atto collegiale, imputabile non alle
amministrazioni che esprimono in conferenza il loro assenso, ma alla conferenza, intesa come
“organo autonomo”, cui andrebbe riconosciuta in sede processuale un’autonoma legittimazione
passiva.

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Con l’introduzione della disciplina della conferenza di servizi nella L. 241 / 1990, la
CONFERENZA DI SERVIZI assurge ad “istituto di carattere generale dell’attività amministrativa”.
Tuttavia, la disciplina originaria di cui alla L. 241 / 1990 era scarna e incompleta, concentrata in un
solo articolo (l’art. 14) in cui era disegnato un modello «puro» di conferenza di servizi : questa era
configurata come un “modulo facoltativo di collaborazione volontaria tra amministrazioni”, in cui
le decisioni potevano essere «concordate» solo all’UNANIMITA’ dei partecipanti – e in cui, quindi,
la facoltà delle amministrazioni invitate alla conferenza di dissentire (motivatamente) dalla
proposta di decisione dell’amministrazione procedente si risolveva in un vero e proprio “potere di
veto” in capo a ciascuna delle amministrazioni partecipanti -.
L’art. 14 della L. 241 / 1990, nella sua prima formulazione, così prevedeva : «1. Qualora sia
opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo, l’amministrazione procedente indice una conferenza di servizi. 2. La conferenza
può essere indetta anche quando l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti,
nulla osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche. 3. Si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione che, regolarmente convocata, non abbia partecipato alla conferenza o vi abbia
partecipato tramite rappresentanti privi della competenza ad esprimerne definitivamente la volontà,
salvo che essa non comunichi all’amministrazione procedente il proprio motivato dissenso entro 20
giorni dalla conferenza o dalla data di ricevimento della comunicazione delle determinazioni
adottate. 4. Le disposizioni di cui al 3°comma non si applicano alle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e alla salute dei cittadini».
Il legislatore ha poi apportato nel 1993 alcune modifiche al testo originario della legge, che però
hanno complicato ulteriormente la materia : 1) da un lato, l’assunzione della decisione in base al
criterio dell’UNANIMITA’ fu disegnata come un’ipotesi solo eventuale; 2) dall’altro fu
riconosciuto in capo al Governo un POTERE SOSTITUTIVO, azionabile «qualora nella conferenza
fosse prevista l’unanimità per la decisione e questa non fosse raggiunta».
*CONCERTO = accordo.

*NULLAOSTA = permesso per compiere un’attività.

*POTERE DI VETO = potere di impedire che venga presa una decisione.

2.L’evoluzione della disciplina giuridica. Tali circostanze hanno ispirato le


riforme varate nel 1997 e nel 2000. La ratio che lega i vari interventi riformatori è la ricerca di un
contemperamento tra esigenze contrapposte : evitare il potere di veto, per favorire il
raggiungimento di un esito positivo della conferenza di servizi, e salvaguardare al contempo il
principio dell’attenta valutazione comparativa degli interessi. La L. 127 / 1997 (la c.d. legge
Bassanini-bis) rappresentò il primo vero tentativo di riforma organica della disciplina della
conferenza di servizi. Essa eliminò il riferimento al criterio dell’UNANIMITA’ e disegnò
meccanismi di superamento del dissenso facenti leva su POTERI SOSTITUTIVI spettanti alle
autorità di vertice dell’apparato statale, regionale e locale; disciplinò le fattispecie dell’ASSENZA e
della PARTECIPAZIONE IRREGOLARE; previde per la prima volta la conferenza destinata a
raccogliere «procedimenti reciprocamente connessi», riguardanti «le stesse attività o risultati».
Restavano però delle ambiguità : da una parte, la conferenza di servizi continuava ad essere uno
strumento facoltativo e, dall’altra, i “meccanismi di superamento del dissenso” contemplavano
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poteri sostitutivi non regolati con precisione.


A queste ambiguità diede una concreta risposta la L. 340 / 2000, in cui fu delineato invece un nuovo
assetto complessivo dell’istituto : la conferenza di servizi, da strumento di natura eccezionale e di
carattere facoltativo (come era configurato nell’assetto normativo precedente) diventava un modo
ordinario di amministrare, una forma obbligata di esercizio di pubbliche funzioni (in presenza di
vicende procedimentali complesse). A partire dal 2000, inoltre, anche le legislazioni di settore
cominciano ad allinearsi alle indicazioni della L. 241 / 1990.
Il perfezionamento della disciplina dell’istituto non si esaurì però con la L. 340 / 2000 : tale legge
infatti aveva suscitato notevoli difficoltà riguardanti il “meccanismo di superamento dei dissensi”,
delineato dall’art. 14-quater, 2°comma (come riscritto dalla L. 340 / 2000). Tale previsione
(abrogata dalla L. 15 / 2005) così recitava : «Se una o più amministrazioni hanno espresso nella
conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assume
comunque la determinazione conclusiva sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in
conferenza». Nel vecchio art. 14-quater si faceva riferimento alla «MAGGIORANZA» delle
posizioni espresse in conferenza; la dottrina prevalente, però, non vi aveva ravvisato uno sviluppo
della disciplina precedente : i più, cioè, avevano interpretato tale riferimento non come un
presupposto legale per attivare il meccanismo di superamento dei dissensi, ma come
l’individuazione del secco “criterio maggioritario" come regola di adozione delle decisioni
conferenziali, tale da trasformare la conferenza in un “organo collegiale”. Si era così riaperto il
dibattito sulla NATURA GIURIDICA DELLA CONFERENZA, che alla fine degli anni '90 era
ormai orientato verso l’abbandono della tesi dell’organo collegiale e l’accoglimento della
ricostruzione della conferenza come un «modulo procedimentale» e di confronto dialettico tra le
diverse amministrazioni; infatti la conferenza non dà vita a un nuovo organo separato dai singoli
partecipanti, con la conseguenza che l’avviso espresso in conferenza dagli organi delle varie
amministrazioni partecipanti è pur sempre una decisione imputabile alle stesse.
Tuttavia la L. 15 / 2005 e il d.l. 78 / 2010 hanno parzialmente ridisegnato il “meccanismo di
superamento dei dissensi” : infatti l’attuale formulazione dell’art. 14-ter, comma 6-bis della L. 241 /
1990 recita : “All’esito dei lavori della conferenza, l’amministrazione procedente, valutate le
risultanze (= i risultati) della conferenza e considerando le posizioni prevalenti espresse in
conferenza, adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento”.
*MODULO = modello.

*DETERMINAZIONE = decisione.

3. Natura giuridica e funzione dell’istituto. Il problema dell’individuazione


della NATURA GIURIDICA DELLA CONFERENZA condizionava l’intera disciplina dell’istituto
: basti pensare al problema dell’individuazione della natura giuridica della «determinazione
conclusiva» dei lavori della conferenza (atto collegiale, accordo tra amministrazioni, fascio di
decisioni o proposta di provvedimento?). Problema che si riflette sul “regime di imputazione”, “di
impugnazione” e sulla disciplina della “validità della decisione”. A partire dagli anni '90 si è
sottolineato che la conferenza non può essere ricondotta nello schema dell’organo collegiale,
respingendo anche la tesi che configurava la decisione assunta in conferenza come atto unitario
(imputabile alla conferenza in quanto tale, considerata come organo separato e autonomo rispetto

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alle amministrazioni partecipanti) : una simile conclusione, infatti, avrebbe dovuto comportare il
trasferimento delle competenze in capo alla conferenza, cosa esclusa anche dalla giurisprudenza
costituzionale.
Inoltre la conferenza di servizi non si inserisce in nessuna delle tipologie di organi conosciute : non
può essere un organo permanente (data la mancanza in essa del carattere della stabilità), né un
organo temporaneo (per mancanza del carattere della temporaneità); né un organo straordinario
(poichè la sua convocazione è un momento fisiologico, e non eccezionale, dell’attività delle
amministrazioni convocate).
Inoltre, la determinazione conclusiva della conferenza può essere impugnata dalle singole
amministrazioni partecipanti alla conferenza : la conferenza di servizi non è pertanto un organo
collegiale, non è anzi nemmeno un organo.
E allora, abbandonata la prospettiva organicistica, la dottrina aveva ravvisato nella conferenza uno
“strumento funzionale alla conclusione di un accordo tra amministrazioni” : tale soluzione trova
appiglio nell’art. 15 della L. 241 / 1990, dedicato agli «accordi tra amministrazioni», ai sensi del
quale «Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 14, le P.A. possono sempre concludere
accordi per disciplinare lo svolgimento di attività di interesse comune». Tale ricostruzione ha però
mostrato i suoi limiti davanti alla possibilità dell’esito positivo della conferenza anche in caso di
dissensi di alcune amministrazioni partecipanti. Si è così preso atto che se è vero che la conferenza
può sfociare in accordi, è vero anche che, essendo questa un’evenienza non costante, la natura della
conferenza deve essere un’altra.
Così, la dottrina – spostando l’attenzione sull’ “attività che le amministrazioni esprimono nella
conferenza” – ha qualificato la CONFERENZA nei seguenti termini : 1) sotto il profilo strutturale,
la conferenza è uno “strumento procedimentale” : una riunione di uffici diversi o di amministrazioni
diverse in un’unica sede di discussione , senza modificazione di competenze (e senza alcun tipo di
trasferimento di competenze dai singoli partecipanti alla riunione ad una, peraltro inesistente,
struttura collegiale). Le decisioni assunte in conferenza vengono concordate tra le varie
amministrazioni, ma non si fondono in una “deliberazione unitaria”. 2) Sul piano funzionale, essa
è un metodo di coordinamento e raccordo di poteri e competenze : non sostituisce i singoli
procedimenti, ma li raccorda per migliorare la funzionalità dell’attività decisionale della P.A. Essa è
una risposta ai problemi connessi al “pluralismo istituzionale” e alla “frammentazione delle
competenze”. Basti pensare ai rischi comportati dal fatto che la valutazione dei singoli interessi
pubblici sia frammentata in procedimenti diversi e non coordinati tra loro : rischi non solo di
valutazione incompleta e non oggettiva dell’interesse pubblico (poichè ciascuna amministrazione è
portata a dare più peso, nella valutazione comparativa, all’interesse di cui è portatrice), ma anche di
adozione di decisioni tra loro contrastanti.
Così intesa, però, la conferenza apporta una significativa modifica alla tradizionale “regola di
esercizio dei poteri discrezionali” : quella della “necessaria ponderazione degli interessi secondari
in ordine all’interesse primario, affidato alla cura dell’amministrazione procedente” (ricordiamo che
la distinzione tra interesse primario e interessi secondari non è assoluta, ma relativa e varia a
seconda del centro organizzativo considerato : «ciò che per un’autorità è interesse primario, per
un’altra è secondario»). Infatti, quando più poteri discrezionali sono esercitati insieme nella
conferenza, cade la distinzione tra “interessi (pubblici) primari” e “interessi (pubblici) secondari” :
infatti, ogni amministrazione deve considerare, oltre al proprio, anche gli interessi pubblici (sempre

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primari) in cura presso le altre amministrazioni, per raggiungere la decisione che soddisfi nel modo
migliore l’insieme degli interessi pubblici.
*FISIOLOGICO = naturale, normale.

*FUNZIONALITA’ = efficienza.

4. Conferenze procedimentali e operazionali. La L. 241 / 1990 distingue vari


“TIPI” di conferenza di servizi : a) quella dedicata all’esame contestuale di più interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo (art. 14, 1°comma); b) quella per l’acquisizione di
«intese, concerti, nulla osta o assensi di altre amministrazioni» (art. 14, 2°comma); c) la conferenza
avente ad oggetto l’esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi
connessi, riguardanti le stesse attività o risultati (art. 14, 3°comma); d) la “conferenza sull’istanza”
(art. 14, 4°comma); e) la “conferenza preliminare” (art. 14-bis); f) e la “ conferenza in materia di
finanza di progetto”(art. 14-quinquies). Le fattispecie disciplinate dall’art. 14 sono state oggetto di
diverse classificazioni da parte della dottrina : alcuni hanno proposto di ricondurre tutte le
fattispecie a un unico modello, invece altri hanno preferito distinguere tra CONFERENZA
ISTRUTTORIA (ex art. 14, 1°comma) e CONFERENZA DECISORIA (altri commi dell’art. 14) o
tra CONFERENZA INTERNA (di uffici) – si tratta sempre delle ipotesi di cui all’art. 14, 1°comma
- e CONFERENZE ESTERNE (tra amministrazioni) – in tutti gli altri casi regolati dall’art.14.
Queste diverse ricostruzioni fanno leva su criteri di classificazione diversi. La distinzione tra
conferenza istruttoria e decisoria si basa su un “criterio funzionale”, mentre la distinzione tra
conferenza interna ed esterna su un “criterio strutturale”. Ove si ritenga, però, che sotto il profilo
funzionale non ci siano differenze tra le varie conferenze (poiché tutte le conferenze riguardano la
vicenda decisionale della “valutazione comparativa degli interessi”), si appanna la validità del
criterio classificatorio funzionale. La classificazione più esauriente è pertanto quella “strutturale” tra
conferenze di uffici e conferenze fra amministrazioni. In questa sede, però, si propone l’adozione di
un diverso “criterio strutturale”, in base a cui possiamo distinguere tra CONFERENZA
PROCEDIMENTALE (quando la conferenza inerisce ad un “singolo procedimento”) e
CONFERENZE OPERAZIONALI (quando la conferenza riguarda un’“operazione amministrativa
complessa”).
Infatti, la conferenza di servizi è un istituto sia di “semplificazione” che di “partecipazione” al
singolo procedimento (art. 14, 1°comma) o all’operazione amministrativa (art. 14, comma 2° e ss.).
Se si considera il rapporto di reciproca implicazione fra il Capo 3° (dedicato alla “partecipazione”)
e il Capo 4° (dedicato alla “semplificazione amministrativa”) della L. 241 / 1990, emerge che :

 La “CONFERENZA PROCEDIMENTALE” (disciplinata dall’art. 14, 1°comma) è un


modulo predisposto per la contestuale valutazione di più interessi pubblici riguardanti un
“singolo procedimento amministrativo” e affidati alla cura di un’ “unica autorità
amministrativa”. L’unica amministrazione procedente è di fronte a un bivio : acquisire gli
interessi attraverso la via ordinaria (avvalendosi degli strumenti previsti nel Capo 3°) o,
quando ravvisi che il ventaglio degli interessi da acquisire sia tale da appesantire molto
l’attività amministrativa, procedere attraverso la conferenza di servizi, optando per un
modulo procedimentale caratterizzato da snellezza e semplificazione. In questo caso, resta
immutata in capo all’amministrazione procedente sia la “titolarità del potere decisionale”
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che l’“unicità del procedimento amministrativo” : l’amministrazione procedente,


nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, individuerà l’interesse pubblico da perseguire in
concreto, effettuando un raffronto tra l’interesse primario (quello che ha in cura) e gli
interessi secondari (pubblici e privati) coinvolti nella questione amministrativa.

 Le “CONFERENZE OPERAZIONALI” si caratterizzano per la presenza di più


amministrazioni, più procedimenti e poteri e più interessi pubblici (primari) coinvolti nella
soluzione del problema. A tal proposito, particolare importanza assumono le conferenze
«operazionali» di cui all’art. 14, 3°comma, che presentano rispetto alle altre caratteri
inediti : esse sono volte a raccordare più procedimenti amministrativi connessi (in quanto
riguardanti le stesse attività o risultati). Di conseguenza, in esse cade la distinzione fra
INTERESSE PRIMARIO e INTERESSI SECONDARI : cambia pertanto la “regola di
esercizio dei poteri discrezionali”, poiché lo scopo che deve essere perseguito è quello di
individuare l’interesse concreto da tutelare (attraverso l’unificazione di tutti i procedimenti
interessati). A differenza della conferenza procedimentale, poi, le conferenze operazionali –
essendo caratterizzate da una contestuale presenza di più amministrazioni pubbliche - si
basano sul CRITERIO DELLA CODECISIONE : ogni amministrazione partecipa ai
procedimenti delle altre amministrazioni aprendo, al contempo, le porte del proprio
procedimento alle altre amministrazioni. Le amministrazioni determinano l’assetto
complessivo degli interessi : si ha così un fenomeno di vera e propria CODECISIONE.
La L. 241 / 1990 rende l’uso delle conferenze operazionali tendenzialmente obbligatorio :
ciò si desume dall’art. 14, 2°comma, che prevede l’obbligatorietà della conferenza (“la
conferenza è sempre indetta” = cioè deve essere sempre indetta) quando, data la complessità
della vicenda procedimentale, l’amministrazione procedente non abbia ottenuto «intese,
concerti, nullaosta o assensi» entro 30 giorni dall’invio della relativa richiesta. Questa
previsione è molto importante, perché qualifica la conferenza come il metodo che
l’amministrazione pubblica è tenuta a seguire in presenza di casi complessi. Di fronte a
“decisioni di routine” l’amministrazione procederà secondo il procedimento tradizionale,
isolato. Invece, in presenza di “decisioni complesse" l’amministrazione eserciterà i poteri
amministrativi in conferenza di servizi. Il legislatore ha individuato nella possibilità di
assumere le decisioni (separatamente) in 30 giorni (previsto per l’acquisizione delle intese,
concerti, ecc.) il criterio normativo di distinzione tra decisioni di routine e decisioni
complesse.

Conferenza di servizi e partecipazione dei privati. L’istituto della


CONFERENZA DI SERVIZI è stato ritenuto, in passato, alternativo al procedimento e, quindi, tale
da escludere anche la partecipazione dei privati. Alla base di tale lettura c’era l’idea per cui gli
“strumenti di semplificazione” (in particolare la conferenza) fossero rivolti a realizzare
l’accelerazione, lo snellimento e l’alleggerimento dell’azione amministrativa. Ciò aveva condotto la
dottrina a concludere che il ricorso alla conferenza comportasse la legittima esclusione della
partecipazione dei privati al procedimento.
Gli approfondimenti successivi hanno evidenziato che fra gli “istituti di partecipazione” e “quelli di
semplificazione” c’è un rapporto di reciproco condizionamento e che la funzione della conferenza

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sta piuttosto nella sua capacità di «razionalizzare l’attività amministrativa» in un contesto


caratterizzato da più istituzioni e più interessi pubblici e privati. Non c’è quindi alcuna
incompatibilità con la partecipazione. Si è chiarito che la partecipazione dei privati al procedimento
non è affatto esclusa, ma deve aver luogo prima che, nella riunione conclusiva, la conferenza
svolga la sua funzione essenziale, rivolta alla determinazione dell’assetto di interessi. Questo
chiarimento riposa sull’idea per cui la conferenza di servizi (in quanto riunione di organi
decisionali) sia aperta alla partecipazione di soli soggetti pubblici e che, di conseguenza, essa abbia
“natura decisionale”, riguardando la valutazione comparativa degli interessi. Non sono in contrasto
con tale impostazione quelle previsioni che sembrano aprire la conferenza alla partecipazione dei
privati o quei casi in cui la conferenza è stata estesa anche all’ingresso di organi tecnici o consultivi.
I privati, come anche gli organi tecnici e consultivi, infatti, non partecipano alla conferenza, ma
sono sentiti dalle amministrazioni riunite in conferenza prima del momento decisionale. La
presenza di soggetti privati ai lavori conferenziali, già prevista prima da alcune discipline settoriali,
è prevista ora espressamente dalla L. 241 / 1990. La possibilità di intervento di soggetti privati o di
organi non decisionali non incide sulla “natura decisoria della conferenza dei servizi”, stante la
precisazione sulla mancanza di diritto di voto. Essa è prevista, piuttosto, per consentire alle
“amministrazioni competenti ad adottare la decisione” di acquisire in tempo reale elementi tecnici
non emersi in fase istruttoria.

5. La c.d. conferenza sull’istanza. La c.d. “CONFERENZA SULL’ISTANZA” è


disciplinata dall’art. 14, 4°comma ( “Quando l’attività del privato è subordinata ad atti di consenso
di competenza di più amministrazioni pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche su
richiesta dell’interessato, dall’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento
finale”). Essa non è un “modello autonomo di conferenza”, ma solo una particolare modalità di
indizione della conferenza, che ricorre quando il privato si rivolge alla P.A. per ottenere «atti di
consenso di competenza di più amministrazioni» necessari per svolgere un’attività.

6. La conferenza di servizi preliminare. La conferenza di servizi «SU ISTANZE


O PROGETTI PRELIMINARI» è disciplinata nell’art. 14-bis della L. 241 / 1990. Essa trova
applicazione non solo nel settore della “realizzazione di opere pubbliche” e “di interesse pubblico”,
ma anche in tutte le fattispecie in cui l’amministrazione è chiamata a decidere su «progetti di
particolare complessità». La “conferenza preliminare” permette di evitare aggravi inutili e sprechi
di risorse, specie in relazione ad attività che richiedano ingenti investimenti economici, offrendo
agli interessati la possibilità di «consultare» l’amministrazione prima di presentare un progetto
definitivo e rischiare di incorrere in un diniego formale. La particolarità di questo tipo di conferenza
sta nel fatto che essa si conclude non con l’adozione di una decisione definitiva, ma con l’adozione
di uno schema di decisione : in tale conferenza, infatti, tutte le amministrazioni coinvolte nella
realizzazione del progetto devono indicare le “condizioni che consentirebbero di ottenere il loro
assenso definitivo alla realizzazione dell’intervento”, con la conseguente impossibilità di esprimere
successivamente ragioni di dissenso non emerse in sede di conferenza preliminare e non legate a
fatti sopravvenuti. Ciò serve a tutelare l’“affidamento dei privati”.
Il ricorso alla conferenza preliminare non è più subordinato, come in passato, alla presentazione del
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(più costoso) “progetto preliminare” : è sufficiente uno «studio di fattibilità». Il ricorso alla
conferenza preliminare è stato reso così meno oneroso per il privato dal punto di vista economico.

Art. 14 (Conferenza di servizi)


1. Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi.

2. La conferenza di servizi è sempre indetta quando l’amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla
osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga entro 30 giorni da quando l'amministrazione
competente abbia ricevuta la richiesta.

3. La conferenza di servizi può essere convocata anche per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più
procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o risultati.

4. Quando l’attività del privato sia subordinata ad atti di consenso di competenza di più amministrazioni pubbliche, la
conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell’interessato, dall’amministrazione competente per l’adozione
del provvedimento finale.

Art. 14-bis (Conferenza di servizi preliminare)


1. La conferenza di servizi può essere convocata per progetti di particolare complessità su motivata richiesta
dell'interessato, documentata (in assenza di un progetto preliminare) da uno studio di fattibilità, prima della
presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, per verificare quali siano le condizioni per ottenere i necessari
atti di consenso. In tale caso la conferenza si pronuncia entro 30 giorni dalla data della richiesta e i relativi costi sono a
carico del richiedente.

SEZIONE II – IL FUNZIONAMENTO
1.La disciplina dei lavori della conferenza di servizi. La versione originaria
della L. 241 / 1990 non disciplinava gli aspetti procedurali della conferenza : non erano fissati tempi
di convocazione, tempi di conclusione dei lavori, schemi di lavoro; non era chiaro il regime
giuridico della partecipazione irregolare (cioè la partecipazione effettuata «tramite rappresentanti
privi della competenza ad esprimere definitivamente la volontà delle amministrazioni partecipanti»)
e dell’assenza; non era disciplinato il dissenso. Le varie riforme poi hanno gradualmente colmato le
lacune. L’art. 14-ter della L. 241 / 1990, dedicato ai «lavori della conferenza di servizi», racchiude
ora tutte le previsioni sullo svolgimento della conferenza; l’art. 14-quater è dedicato, invece, agli
«effetti del dissenso espresso in conferenza». Tuttavia la ripartizione di contenuti suggerita dalla
rubricazione dei due articoli non va intesa in modo rigido : nell’art. 14-quater troviamo infatti anche
alcune previsioni sui lavori della conferenza e nell’art. 14-ter troviamo alcune regole sugli effetti
del dissenso espresso in conferenza.
L’art. 14-ter sancisce, in primo luogo, il DOVERE DELLE AMMINISTRAZIONI CONVOCATE
DI PARTECIPARE ALLA CONFERENZA, prevedendo che la «mancata partecipazione» è
rilevante «ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare o amministrativa, nonché ai fini
dell’attribuzione della retribuzione di risultato», oltre che ai fini della responsabilità per danno da
ritardo. Il dovere di partecipazione è un dovere di partecipazione “regolare” : ossia per mezzo di
soggetti (organi o delegati di organi) legittimati ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell’amministrazione rappresentata sulle decisioni di sua competenza.
L’art. 14-ter disciplina in modo preciso i tempi e le modalità di indizione e di convocazione della
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conferenza : «la prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni o, in caso di
particolare complessità dell’istruttoria, entro 30 giorni dalla data di indizione» (1°comma). E’ posta
così una chiara distinzione tra il momento dell’indizione e quello della convocazione della
conferenza (contrariamente a quanto accadeva in base alla disciplina previgente, in cui si stabiliva
un termine per l’«indizione», ma non per la convocazione) : si vuole così evitare che l’inizio dei
lavori conferenziali possa essere rinviato sine die, cioè a tempo indeterminato.
Il 2°comma contempla la possibilità di concordare, per lo svolgimento della prima riunione della
conferenza, una data diversa da quella fissata dall’amministrazione procedente : si vuole così
evitare l’eventualità di «assenze» causate dall’impossibilità di partecipare alla conferenza.
Per quanto riguarda i tempi, l’art. 14-ter stabilisce che “i lavori della conferenza non possono durare
più di 90 giorni” e regola inoltre il rapporto tra la procedura di valutazione di impatto ambientale
(v.i.a.) e la conferenza di servizi, prevedendo che “il termine di conclusione dei lavori della
conferenza resta sospeso, per un massimo di 90 giorni, nei casi in cui debba essere acquisita al
procedimento la v.i.a.”. Inoltre «per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione competente
al rilascio di provvedimenti in materia ambientale può far eseguire tutte le attività tecnico-istruttorie
non ancora eseguite anche da enti pubblici dotati di capacità tecnica equipollente o da istituti
universitari ».

La conferenza di servizi telematica. L’art. 14-ter, 1°comma della L. 241 / 1990


prevede che «la conferenza di servizi può svolgersi in via telematica». Si deve alla L. 69 / 2009
l’introduzione della possibilità di avvalersi degli strumenti telematici in seno alla conferenza,
aprendo così le porte alla “CONFERENZA TELEMATICA”. Ma anche prima non era preclusa la
possibilità di avvalersi dello strumento telematico : ciò anzi era già previsto dall’art. 14-ter,
2°comma come mezzo per la convocazione delle amministrazioni. Inoltre la L. 15 / 2005 aveva già
introdotto nella L. 241 / 1990 l’art. 3-bis, rubricato «uso della telematica», stabilendo che «per
conseguire una maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano
l’uso della telematica nei rapporti tra loro e nei rapporti tra le amministrazioni e i privati». Tali
disposizioni si inseriscono nel processo di informatizzazione della P.A. Si evitano così gli
spostamenti dei «rappresentanti» delle amministrazioni coinvolte, attraverso la predisposizione di
un «fascicolo informatico», contenente tutti i documenti istruttori che riguardano i lavori
conferenziali.

2. Soggetti legittimati a partecipare alla conferenza di servizi. L’art.


14-ter, 6°comma recita : «Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza attraverso un
unico rappresentante, legittimato dall’organo competente ad esprimere in modo vincolante la
volontà dell’amministrazione su tutte le decisioni di sua competenza».
Il legislatore, quindi, in primo luogo, precisa che alla conferenza di servizi devono partecipare le
AMMINISTRAZIONI CONVOCATE, tramite soggetti (organi o delegati di organi) legittimati
all’adozione della decisione. In secondo luogo, risolve un altro problema : quello dei “LIMITI DI
AMMISSIBILITÀ DELLA DELEGA DA PARTE DELL’ORGANO COMPETENTE” : infatti, le
conferenze tra amministrazioni, pur essendo conferenze tra organi, non precludono la possibilità

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per questi ultimi di delegare altre persone, conferendo loro adeguati poteri.
Inoltre, l’art. 14-ter, 6°comma, - stabilendo che la partecipazione dell’amministrazione alla
conferenza debba avvenire tramite «un unico rappresentante» per «tutte le decisioni di competenza
dell’amministrazione» - risolve un problema quantitativo (relativo cioè al numero dei soggetti che
l’amministrazione convocata deve inviare in conferenza nei casi in cui essa sia chiamata svolgere in
conferenza più competenze e poteri che, se esercitati al di fuori dell’ambito conferenziale,
condurrebbero a una molteplicità di decisioni) : in tali casi l’amministrazione deve essere
rappresentata da un «unico» soggetto munito dagli organi competenti di «tutte» le deleghe
necessarie per l’esercizio della potestà decisionale. Ma da questa disposizione si può ricavare
implicitamente anche che l’art. 14-ter, 6°comma vuole escludere il conferimento di “deleghe
condizionate” (all’assunzione di una decisione predeterminata) o di “deleghe con riserva di
riesame” (della decisione).

3.Modalità alternative di acquisizione degli assensi e disciplina


dell’assenza. Ai sensi dell’art. 14-ter, 7°comma «si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione (comprese quelle preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità,
alla tutela paesaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di
v.i.a., v.a.s. e a.i.a.) il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà
dell’amministrazione rappresentata». Quindi se in conferenza una o più amministrazioni perdono
tempo, restano silenti o non si pronunciano definitivamente né in senso favorevole né in senso
contrario sulla proposta dell’amministrazione procedente, l’esito positivo della conferenza non è
impedito. L’assenso di tali amministrazioni è acquisito per via concludente : il che significa che
l’imputazione della decisione ricade anche su queste amministrazioni.
L’art. 14-ter, 7°comma prende in considerazione solo le “amministrazioni convocate che hanno
partecipato alla conferenza, restando silenti”. Le amministrazioni convocate, «ma risultate assenti»,
tuttavia, sono menzionate nell’art. 14-ter, comma 6-bis, che sancisce l’imputazione anche in capo a
queste dell’assetto di interessi collegato alla determinazione motivata di conclusione del
procedimento. Secondo l’art. 14-ter, comma 6-bis, infatti : è riservata alla sola amministrazione
procedente la competenza ad assumere “la determinazione motivata di conclusione del
procedimento”. Tale determinazione «sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione,
nullaosta o atto di assenso di competenza delle amministrazioni partecipanti o invitate a
partecipare, ma assenti alla conferenza». La fattispecie dell’“assenza” non va però confusa con
quella dell’“AMMINISTRAZIONE PRETERMESSA” : quando un’amministrazione è coinvolta
(dato l’interesse pubblico ad essa affidato in cura) nell’operazione amministrativa, ma
illegittimamente «non è invitata» dall’amministrazione procedente a partecipare alla conferenza.

Art. 14-ter (Lavori della conferenza di servizi)

1. La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni ovvero, in caso di particolare complessità
dell'istruttoria, entro 30 giorni dalla data di indizione.La conferenza di servizi può svolgersi per via telematica.

3. Nella prima riunione della conferenza di servizi le amministrazioni partecipanti determinano il termine per l’adozione
della decisione conclusiva. I lavori della conferenza non possono superare i 90 giorni, salvo quanto previsto dal
4°comma.

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4. Nei casi in cui sia richiesta la VIA, il termine per concludere i lavori resta sospeso, per un massimo di 90 giorni, fino
all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale. Per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione
competente al rilascio dei provvedimenti in materia ambientale può far eseguire anche da altri enti pubblici dotati di
capacità tecnica equipollenti o da istituti universitari tutte le attività tecnico-istruttorie non ancora eseguite.

6. Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza di servizi attraverso un unico rappresentante legittimato,
dall’organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione su tutte le decisioni di
competenza della stessa.

6-bis. All'esito dei lavori della conferenza, l'amministrazione procedente, valutate le specifiche risultanze della
conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede, adotta la determinazione motivata di
conclusione del procedimento che sostituisce a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di
assenso di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti. La
mancata partecipazione alla conferenza o la ritardata o mancata adozione della determinazione conclusiva sono
valutate ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare e amministrativa, nonché ai fini dell'attribuzione della
retribuzione di risultato e della responsabilità per danno da ritardo.

7. Si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione (comprese quelle preposte alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, alla tutela paessaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di
VIA, VAS e AIA) il cui rappresentante, all'esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la
volontà dell'amministrazione rappresentata.

4. I meccanismi di superamento delle ragioni del dissenso.


La versione originaria dell’art. 14 della L. 241 / 1990 aveva adottato un “modello puro di
conferenza”, poiché era previsto che le decisioni che ne scaturivano potevano essere concordate
solo all’unanimità dei partecipanti : di conseguenza, qualora una delle amministrazioni avesse
opposto il proprio dissenso in relazione alla “proposta di decisione dell’amministrazione
procedente”, la conferenza si sarebbe conclusa con esito negativo (c.d. “potere di veto”). Preso atto
di questo inconveniente, allora, il legislatore, attraverso la L. 127 / 1997 (modificativa dell’art. 14),
adottò un “meccanismo di superamento del dissenso” basato sulla sostituzione della determinazione
dell’amministrazione dissenziente con un’altra determinazione, attribuita (nella maggior parte dei
casi) all’amministrazione procedente (in presenza, però, di “dissensi non qualificati”), salva la
possibilità di intervento della competente autorità politica di vertice. Ciò sancì il superamento del
modello «puro» (unanimistico) di conferenza di servizi e la dottrina salutò con favore l’innovazione
legislativa, chiarendo che essa era un meccanismo che consentiva di superare non il dissenso in sé,
ma le ragioni del dissenso. Il “meccanismo di superamento del dissenso” infatti faceva leva
sull’attivazione di un POTERE SOSTITUTIVO.
La possibilità per l’amministrazione «sostituta» di esercitare questi poteri, però, non implicava un
«indebolimento» degli interessi pubblici curati dalle amministrazioni dissenzienti : 1) perché si era
comunque svolta in conferenza la valutazione comparativa degli interessi; 2) perchè «le ragioni del
dissenso» dovevano essere motivate (infatti l’art. 14-quater, 1°comma recita : «il dissenso di uno o
più rappresentanti delle amministrazioni, a pena di inammissibilità, deve essere congruamente
motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non sono oggetto della conferenza e deve
indicare le modifiche progettuali necessarie per l’assenso»); 3) infine, perché comunque
nell’esercizio del potere sostitutivo tali ragioni non potevano essere ignorate, ma solo
«motivatamente superate»; con la conseguenza che, laddove esse non fossero state oggettivamente
superabili, l’amministrazione sostituta non avrebbe potuto adottare la determinazione conclusiva.
Tuttavia, a fronte di tali risvolti positivi, la disciplina del ’97 presentava un grave inconveniente :
non era contemplata alcuna previsione che consentisse di stabilire quale fosse il LIMITE MINIMO
DI ASSENSI necessario per l’attivazione del “meccanismo di superamento dei dissensi”. La
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disciplina allora vigente, infatti, faceva riferimento al dissenso di “una” amministrazione, ma tale
termine era un articolo indeterminativo, e non un aggettivo numerale. Quindi occorreva individuare
un limite minimo di consensi perché l’amministrazione procedente potesse ritenersi investita del
potere sostitutivo : il legislatore, infatti, per evitare il potere di veto delle amministrazioni
dissenzienti e favorire il raggiungimento dell’esito positivo della conferenza era incorso
nell’eccesso opposto : davanti ai dissensi espressi in sede di conferenza dava all’amministrazione
«sostituta» un potere non regolato con precisione (pensiamo al caso limite della determinazione
conclusiva adottata dalla sola amministrazione procedente in presenza del dissenso di tutte le altre
amministrazioni).
La riforma del “meccanismo di superamento dei dissensi” (introdotta dalla L. 340 / 2000) era una
risposta a questo problema: si individuò anche il LIMITE MINIMO DI ASSENSI per l’attivazione
dei poteri sostitutivi dell’amministrazione procedente (e si fissò il limite massimo di dissensi
superabile). Infatti, l’art. 14-quater, 2°comma (previsione introdotta dalla L. 340 / 2000 e poi
abrogata dalla L. 15 / 2005) recitava: «se una o più amministrazioni hanno espresso in conferenza il
proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assume comunque la
determinazione conclusiva in base alla maggioranza delle posizioni espresse in conferenza ». In
dottrina si è evidenziato come il riferimento alla «maggioranza delle posizioni espresse in
conferenza» nell’art. 14-quater, 2°comma non fosse un criterio decisionale , ma un mero fatto
rilevante cui ricollegare l’attivazione dei poteri sostitutivi dell’amministrazione procedente;
viceversa, la presenza di una maggioranza di dissensi impediva l’attivazione di tali poteri e, dunque,
del “meccanismo di superamento dei dissensi”. Pertanto si auspicava una lettura della disciplina
della L. 340 / 2000 che riconoscesse ai MOTIVATI DISSENSI due ruoli : 1) ove i motivati dissensi
siano prevalenti rispetto ai consensi «essi rileveranno formalmente, cioè come elementi che
impediscono il superamento del dissenso; 2) quando i motivati dissensi siano minoritari rispetto ai
consensi, essi avranno anche una rilevanza sostanziale, influendo ciascuno di essi sul contenuto
della determinazione conclusiva : infatti, nell’esercizio dei poteri sostitutivi tali dissensi potranno
essere superati dall’amministrazione procedente, ma solo motivatamente, con la conseguenza che,
laddove essi si mostrino oggettivamente insuperabili, la determinazione conclusiva positiva non
sarà adottata. Si concludeva quindi che la legge non assoggettava l’assunzione delle decisioni al
PRINCIPIO MAGGIORITARIO, ma coniugava DUE CRITERI : uno quantitativo e formale, e
l’altro qualitativo e sostanziale.
Ed è proprio in questi termini che la disciplina attualmente vigente (introdotta grazie alle modifiche
della legge 15 / 2005 e del d.l. 78 / 2010, convertito in L. 122 / 2010) ha accolto tale istituto : infatti
il vigente art. 14-ter, comma 6-bis, recita : «all’esito dei lavori della conferenza, l’amministrazione
procedente, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni
prevalenti espresse in quella sede, adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento». Esso, quindi, prevedendo che la determinazione conclusiva debba essere
«motivata» in relazione alle «specifiche risultanze» della conferenza e alle «posizioni prevalenti in
essa espresse», sancisce il superamento della tesi della “decisione a maggioranza”. Il CRITERIO
DELLA PREVALENZA si riferisce all’importanza delle attribuzioni di ciascuna amministrazione
riguardo alle questioni in oggetto.

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5. I meccanismi di superamento dei dissensi «qualificati». L’art. 14-


quater della L. 241 / 1990 disciplina i meccanismi di superamento dei c.d. «DISSENSI
QUALIFICATI» (cioè quelli che riguardano gli interessi sensibili, a tutela rafforzata e, quindi, non
possono essere superati nella conferenza di servizi). Se sono espressi in conferenza, infatti, la
decisione oggetto della conferenza è rimessa “ad un altro e superiore livello di governo”.
Le riforme degli ultimi anni (a partire dalla L. 15 / 2005) hanno ampliato il novero dei dissensi
«qualificati» in due modi : 1) estendendo la categoria degli «INTERESSI SENSIBILI» (che
comprendeva già quelli relativi alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico e quelli relativi alla tutela della salute) anche a quelli espressi da amministrazioni
preposte alla “pubblica incolumità”; 2) introducendo una disciplina ad hoc per una nuova categoria
di dissensi «qualificati» : quelli espressi (e non necessariamente in relazione a interessi sensibili)
dalle Regioni o dalle Province autonome nelle materie di propria competenza.
La L. 15 / 2005 ha introdotto questa disciplina ad hoc perché all’epoca i dissensi espressi dalle
Regioni in ambiti di competenza costituzionalmente riservata non potevano essere superati col
meccanismo ordinario di superamento dei dissensi (facente perno sui poteri sostitutivi
dell’amministrazione procedente : infatti a questo tipo di dissensi la legge riconosceva la qualifica
di «dissensi oggettivamente insuperabili», quindi la forza di veri e propri veti) : quindi tali dissensi
non potevano essere superati nella “valutazione di primo livello” (cioè dall’amministrazione
procedente), ma non potevano essere nemmeno superati nella “valutazione di secondo
livello”(perché questa disciplina all’epoca era dedicata alla gestione dei soli dissensi c.d. sensibili).
Ma è soprattutto la riforma del Titolo V che ha reso necessario offrire una lettura
costituzionalmente orientata delle varie discipline che contemplavano operazioni amministrative
complesse, coinvolgenti una pluralità di poteri decisionali. Molte di queste discipline, coinvolgendo
ambiti di competenza costituzionalmente riservati alle Regioni, fanno sì che i dissensi regionali
siano spesso “insuperabili” in sede di valutazione di primo livello (quindi, tali da radicare la
necessità di intese c.d. forti) e che, anche nelle valutazioni (sostitutive) di livello superiore esigano
una tutela particolarmente rafforzata.

In ogni caso, data l’importanza di questi interessi (sensibili ed espressi dalle Regioni nelle materie
di propria competenza), per il loro superamento non può essere adottato il meccanismo ordinario di
superamento dei dissensi ex art. 14 ter, comma 6-bis (che fa leva sull’attivazione di poteri
sostitutivi direttamente in capo all’amministrazione procedente). In casi del genere :

1) Se il motivato dissenso verte su INTERESSI SENSIBILI, la disciplina è la seguente = la


questione è rimessa dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei ministri,
che si pronuncia entro 60 giorni :

 previa intesa con le Regioni interessate (in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e
una regionale o tra più amministrazioni regionali);
 previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati (in caso di dissenso tra
un’amministrazione statale o regionale e un ente locale).

Se l’intesa non è raggiunta entro 30 giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può essere
comunque adottata.

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2) Se il motivato dissenso, invece, è espresso DA UNA REGIONE IN UNA DELLE MATERIE DI


PROPRIA COMPETENZA (= cioè in ambiti di competenza costituzionalmente riservata), per
raggiungere l’intesa, entro 30 giorni dalla rimessione della questione alla delibera del Consiglio dei
ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con la partecipazione
della Regione, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico
rappresentante legittimato (dall’organo competente) ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell’amministrazione sulle decisioni di sua competenza. In tale riunione i partecipanti devono
raggiungere un’intesa. Se l’intesa non è raggiunta nel termine di ulteriori 30 giorni, è indetta una
seconda riunione dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con le stesse modalità della prima. Ove
non sia comunque raggiunta l’intesa, in un ulteriore termine di 30 giorni, le trattative sono volte a
individuare i punti di dissenso. Se dopo queste trattative l’intesa non è raggiunta, la deliberazione
del Consiglio dei ministri può essere comunque adottata con la partecipazione dei Presidenti delle
Regioni interessate (art. 14-quater, 3°comma).

Art. 14-quater (Effetti del dissenso espresso in conferenza)


1. Il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni deve essere manifestato nella conferenza di servizi,
deve essere congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della
conferenza medesima e deve recare le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso.

3. Se viene espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione è rimessa
dall'amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il Consiglio dei Ministri si pronuncia entro
60 giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate (in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e
una regionale o tra più amministrazioni regionali) o previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati (in caso di
dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale), motivando un'eventuale decisione in contrasto
con il motivato dissenso. Se l'intesa non è raggiunta entro 30 giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può
essere comunque adottata.

Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria
competenza, per il raggiungimento dell'intesa, entro 30 giorni dalla rimessione della questione alla delibera del
Consiglio dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della
regione o della provincia autonoma, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico
rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione
sulle decisioni di competenza. In tale riunione i partecipanti devono formulare le indicazioni necessarie per individuare
una soluzione condivisa. Se l'intesa non è raggiunta nel termine di ulteriori 30 giorni, è indetta una seconda riunione
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con le stesse modalità della prima. Ove non sia comunque raggiunta l'intesa,
in un ulteriore termine di 30 giorni, le trattative sono finalizzate a individuare e risolvere i punti di dissenso. Se all'esito
delle trattative l'intesa non è raggiunta, la deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata con la
partecipazione dei Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.

La conferenza di servizi. Generalità. Per semplificare l’azione amministrativa, la L. 241 / 1990 ha


generalizzato la figura della “Conferenza di servizi”. L’istituto era già noto alla prassi amministrativa nei
settori della pianificazione urbanistica e delle opere pubbliche ed era già previsto in precedenti “leggi
speciali”. La nascita dell’istituto si deve alla L. 241 / 1990, che per la prima volta ha generalizzato l’istituto,
determinando una profonda innovazione.
La disciplina originaria della conferenza di servizi, ex art. 14 della L. 241 / 1990, era improntata sul c.d.
principio di unanimità : perciò la determinazione conclusiva doveva essere assunta con l’unanimità dei
soggetti intervenuti.
Nel 1993 si è previsto che, in caso di dissenso di un’amministrazione intervenuta, il provvedimento poteva
essere comunque adottato con l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, sollecitato
dall’amministrazione procedente. Questa determinazione faceva, allora, le veci della deliberazione
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unanime della conferenza.


Un’altra modifica si ha con la l. 127 / 1997 (Bassanini-bis), che estende l’operatività della conferenza dei
servizi ai procedimenti complessi e potenzia l’agire dell’amministrazione procedente, mettendola in
condizione di assumere la determinazione conclusiva, nonostante il dissenso di alcune amministrazioni
convocate, a patto però che la decisione sia prima comunicata al Presidente del Consiglio dei Ministri, al
Presidente della Regione e ai Sindaci. Trascorsi 30 giorni dalla comunicazione all’organo di vertice senza che
questi sospenda il procedimento, la deliberazione si intende esecutiva. La sospensione, invece, provoca un
arresto procedimentale che impedisce alla P.A. procedente di emanare il provvedimento, dando luogo alla
necessità di indire una nuova conferenza.
Ulteriori ritocchi sono stati apportati dalla l. 191 / 1998 (Bassanini-ter), che ha disciplinato la situazione che
segue alla sospensione, prevedendo che in tal caso la conferenza può pervenire entro 30 giorni a una nuova
decisione che tenga conto delle osservazioni del Presidente del Consiglio. Decorso inutilmente tale termine,
la conferenza è sciolta.
Successivamente si è giunti alla l. 340 / 2000, con cui il legislatore obbedisce all’esigenza di :

1) rivedere i meccanismi della rimessione della decisione alla Presidenza del Consiglio, divenuta
troppo frequente : a tal fine essa è stata limitata solo ai casi di dissenso delle amministrazioni
preposte alla tutela di interessi sensibili;
2) responsabilizzare le amministrazioni dissenzienti, che tendevano a bloccare i lavori della
conferenza; a tal fine l’art. 14- quater ha previsto che il dissenso doveva essere, a pena di
inammissibilità, congruamente motivato e non si doveva riferire a questioni connesse non oggetto
della conferenza e doveva indicare le modifiche progettuali necessarie per l’assenso;

Le ultime innovazioni riguardanti l’istituto sono racchiuse nella legge n. 15 / 2005. Il criterio maggioritario si
era rivelato di difficile applicazione per la carenza di precisi criteri di conteggio dei voti per formare le
maggioranze e per la difficoltà di identificare le amministrazioni legittimate ad intervenire nelle conferenze.
Per i c.d. dissensi qualificati (che non possono essere superati con la conferenza di servizi, ma solo con lo
spostamento della decisione dall’amministrazione procedente ad un livello politico-amministrativo
superiore) la l. n. 15 / 2005 ha introdotto precise novità. Innanzitutto le amministrazioni legittimate ad
esprimere il dissenso qualificato sono, oltre a quelle preposte alla tutela ambientale, territoriale e del
patrimonio storico-artistico, anche quelle preposte alla tutela della pubblica incolumità. Se il dissenso
qualificato riguarda amministrazioni statali, la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri; in caso di
dissenso qualificato tra amministrazioni statali e regionali, o tra amministrazioni regionali, la decisione è
rimessa alla Conferenza Stato-Regioni; se infine il dissenso si registra tra amministrazioni statali o regionali
e amministrazioni locali, la decisione è rimessa alla Conferenza unificata.
Un meccanismo analogo a quello previsto per i dissensi qualificati è delineato per i dissensi espressi da una
Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza legislativa (esclusiva o
concorrente che sia). Il dissenso, quindi, può riguardare anche materie diverse da quelle cui afferiscono gli
interessi superprimari. In entrambi i casi (dissensi su interessi superprimari o dissensi su materie di
competenza legislativa di regioni o province autonome) il legislatore ha sostituito il criterio della prevalenza
con quello della concertazione.
Non è stata pacifica in dottrina la qualificazione giuridica della conferenza di servizi : si discute se la stessa si
possa qualificare come organo o come semplice modulo procedimentale. Gli autori che propendono per la
prima tesi, riconducono l’istituto nel novero degli organi collegiali, richiamando l’uso nell’ambito della
conferenza di regole ed istituti che richiamano l’attività dei collegi. L’istituto è considerato come un “organo
temporaneo” con una competenza totale su un determinato oggetto. Ne consegue, secondo tale visione,
che il provvedimento scaturisce dalla determinazione finale raggiunta dalla conferenza ed è a questa
imputabile. L’accoglimento di questa tesi implicherebbe, come conseguenza, il riconoscimento della
soggettività giuridica in capo alla Conferenza dei Servizi, la diretta imputabilità in capo alla stessa del
provvedimento con cui si è assunta la determinazione finale, nonché il riconoscimento della legittimazione
a resistere in giudizio in caso di impugnazione del suo provvedimento.
Il secondo orientamento gode di maggiori consensi e interpreta la conferenza di servizi come mero modulo

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organizzatorio con funzione di raccordo tra i vari organi di diverse amministrazioni, privo di una sua
individualità. La giurisprudenza è giunta alla conclusione che la conferenza dei servizi non implica una
modificazione delle originarie competenze, che restano invariate, con la conseguenza che ogni soggetto
partecipante deve imputare a sé gli effetti dell’atto che pone in essere. La tesi è stata avvalorata anche dalla
Corte Costituzionale, che ha escluso la natura di organo collegiale della conferenza, sostenendo la natura di
modulo di semplificazione dell’azione amministrativa finalizzata alla formazione di atti complessi, dove c’è
bisogno del concorso di volontà di più amministrazioni. L’inquadramento della conferenza come modulo
procedimentale comporta l’assenza di una legittimazione processuale passiva; quindi, per la corretta
instaurazione del contraddittorio, le notifiche del ricorso devono essere effettuate a quei soggetti che in
seno alla conferenza hanno manifestato la propria volontà. Occorre dunque notificare il ricorso alle autorità
amministrative partecipanti alla conferenza; inoltre, anche se non si può chiamare in giudizio la conferenza,
ciò non implica che debbano essere chiamati sempre tutti i soggetti che vi hanno partecipato, ma solo quelli
che hanno emanato l’atto che si intende impugnare. La
Conferenza di Servizi rappresenta un modulo dell’azione amministrativa che raccoglie le volontà delle
amministrazioni titolari degli interessi pubblici coinvolti nel procedimento amministrativo; ciò consente ai
soggetti interessati al provvedimento finale di far conoscere il proprio punto di vista attraverso la propria
partecipazione, mantenendo ciascun partecipante la propria autonomia. L’avviso espresso dalle singole
amministrazioni resta imputabile solo a loro.

IL DISSENSO ORDINARIO = La disciplina originaria della conferenza di servizi era basata sul principio dell'unanimità, tanto che la
conferenza veniva paralizzata nell'ipotesi di dissenso manifestato in seno alla conferenza da parte di una P.A. intervenuta.

Nel 1993 si è quindi previsto che, in caso di dissenso di un'amministrazione intervenuta, il provvedimento poteva essere comunque
adottato con l'intervento del presidente del consiglio dei Ministri, sollecitato dall'amministrazione procedente.

Un'ulteriore modificazione venne introdotta dalla L. n. 127/1997, la quale attribuì all'amministrazione procedente il potere di adottare la
statuizione finale nonostante il contrario avviso espresso in seno alla conferenza, a patto che detto provvedimento venisse comunicato
al Presidente del Consiglio dei Ministri alla Regione o al Sindaco.

Successivamente, la L. 340/2000 propose un più radicale strumento di elusione dei dissensi con un meccanismo che abilitava
l'amministrazione procedente, ove l'avesse ritenuto, a recepire la posizione maggioritaria espressa in sede di conferenza.

A sua volta la regola maggioritaria è stata successivamente, almeno in parte, stemperata con la riforma ex lege n. 15/2005, attraverso
l'introduzione del concetto delle posizioni prevalenti.

L'art. 14-quater disciplina gli effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi.

Secondo l'art. 14-quater il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni che siano state regolarmente convocate alla
conferenza di servizi deve essere manifestato, a pena d'inammissibilità, nella conferenza stessa e deve essere congruamente motivato,
non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscano oggetto della conferenza medesima e deve recare la specifica indicazione
delle modifiche progettuali necessarie per l'assenso.
Quindi, il dissenso non può essere puro e semplice ma deve essere accompagnato dalle ragioni di fatto e di diritto idonee a giustificarlo.
Pertanto se nell'ambito della conferenza di servizi una o più amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso sulla proposta
dell'amministrazione procedente, quest'ultima adotta comunque la determinazione motivata di conclusione del procedimento sulla base
delle posizioni prevalenti espresse in sede di conferenza di servizi, e tale decisione è immediatamente esecutiva.

Per stabilire quale sia la posizione prevalente, l'amministrazione procedente dovrà avere riguardo alle singole posizioni che le diverse
amministrazioni assumono in sede di conferenza.
Dal momento che la conferenza non sposta le singole competenze, l'amministrazione dissenziente avrà a disposizione gli strumenti
della tutela giurisdizionale.

IL DISSENSO QUALIFICATO = Non sempre, tuttavia, la conferenza di servizi può concludersi superando autonomamente il dissenso
di alcune amministrazioni coinvolte. Infatti, qualora il motivato dissenso sia qualificato, cioè espresso da talune amministrazioni, titolari
della cura di interessi sensibili, lo stesso non può essere superato in sede di conferenza di servizi e trova una specifica disciplina
nell'art. 14-quater della L. 241/1990.

L'espressione di tale dissenso produce, invece, l'effetto di rimettere la decisione oggetto della conferenza ad altro e superiore livello di
governo.

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Innanzitutto, anche a queste amministrazioni si applica il primo comma dell'art. 14-quater, che disciplina le modalità di manifestazione
del dissenso: infatti, il dissenso espresso dalle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità «deve essere manifestato nella conferenza di servizi, deve essere
congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare
le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso».

Ne discende che anche le amministrazioni titolari della cura di interessi sensibili si devono esprimere in sede di conferenza di servizi.
Nei casi di «motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico - territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità» la decisione finale è rimessa al Consiglio dei Ministri.

-CAPITOLO 5. L’ACCESSO ALLA DOCUMENTAZIONE


AMMINISTRATIVA-

1. Natura giuridica del diritto di accesso. L’art. 22, 1°comma, lett. a) della L.
241 / 1990 definisce il DIRITTO DI ACCESSO come «il diritto degli interessati di prendere visione
e di estrarre copia di documenti amministrativi». Sembrerebbe quindi che il diritto di accesso abbia
natura di “diritto soggettivo perfetto”, ma la questione è ancora controversa. Dopo la promulgazione
della L. 241 / 1990 la giurisprudenza prevalente qualificava il diritto di accesso come “diritto” vero
e proprio, sicché il ricorso proposto a tutela di esso doveva intendersi non come impugnativa di un
provvedimento amministrativo, ma come diretto all’accertamento del diritto e alla condanna del
soggetto obbligato ad esibire i documenti richiesti. Un altro orientamento, minoritario, qualificava
l’accesso come “interesse legittimo”, concludendo che il giudizio proposto contro il diniego di
accesso avrebbe dovuto avere natura impugnatoria. Sottoposta nel 1999 la questione all’Adunanza
Plenaria, il Consiglio di Stato privilegiò la seconda soluzione, sulla base di due motivazioni : 1)
perché il legislatore, pur avendo qualificato l’ “accesso ai documenti” come «diritto», ha disposto
all’art. 25, 5°comma un termine perentorio entro cui è proponibile il ricorso «contro le
determinazioni amministrative riguardanti il diritto di accesso» (ciò per salvaguardare gli interessi
pubblici coinvolti nel procedimento); 2) in tutti i settori in cui le leggi attribuiscono
all’amministrazione il potere di valutare tutti gli interessi coinvolti e di incidere unilateralmente con
un provvedimento autoritativo sulla sfera giuridica altrui, la posizione del soggetto leso è qualificata
come interesse legittimo, tutelabile in sede giurisdizionale con l’impugnazione del provvedimento
lesivo.
Tuttavia anche dopo il 1999, alcune decisioni hanno ribadito la natura di “diritto soggettivo” del
diritto di accesso. Infatti il Consiglio di Stato ha affermato che l’accesso è un “diritto soggettivo”,
sia in base alla sua formale definizione come tale, sia per alcuni profili della sua disciplina, come ad
esempio la mancanza di discrezionalità per le amministrazioni nell’adempiere alla pretesa del
privato, la non necessità che il documento amministrativo riguardi uno specifico procedimento e
l’attribuzione delle controversie in materia alla “giurisdizione esclusiva del giudice
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amministrativo”. Inoltre che si tratti di un “diritto soggettivo”, di cui devono essere garantiti i livelli
essenziali su tutto il territorio nazionale, risulta anche dall’art. 22, 2°comma della L. 241 / 1990, che
qualifica l’accesso come uno strumento di attuazione del principio di imparzialità, imparzialità che
non sarebbe tale se non fosse assicurata in egual modo su tutto il territorio nazionale.
Sulla questione poi è tornata a pronunciarsi l’Adunanza Plenaria nel 2006 : il Consiglio di Stato ha
prima confermato che la tesi che qualifica il diritto di accesso come “diritto soggettivo” è confortata
dalla sua inclusione tra le prestazioni riguardanti i diritti civili e politici, di cui devono essere
assicurati i livelli essenziali su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117 Cost. (ex art. 22,
2°comma della L. 241 / 1990) e dalla riconduzione del giudizio in tema di accesso alla
“giurisdizione amministrativa esclusiva” (prevista dall’art. 25, 5°comma); poi (nel 2011) ha ritenuto
«non utile» prendere posizione sulla questione, perchè il diritto di accesso è una situazione
soggettiva «strumentale» che offre all’interessato «poteri procedimentali» volti alla tutela di un
interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi).

*GIURISDIZIONE ESCLUSIVA : la “giurisdizione esclusiva” è una delle articolazioni della giurisdizione amministrativa nell'ordinamento italiano.
In generale, il giudice amministrativo giudica sulla legittimità dei provvedimenti e dei comportamenti dell'autorità amministrativa lesivi di interessi legittimi.
Per quanto riguarda la tutela dei diritti soggettivi è invece competente il giudice ordinario. In deroga a tale criterio generale di riparto di giurisdizione, l'art.
103 della Costituzione ammette che i TAR e il Consiglio di Stato possano avere, in particolari materie indicate dalla legge, una giurisdizione estesa alla
tutela dei diritti soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione (cd. giurisdizione esclusiva).

2. I soggetti attivi. L’art. 22, 1°comma, lett. b) della L. 241 / 1990 individua i SOGGETTI
«INTERESSATI» ALL’ACCESSO : essi sono «tutti i soggetti privati (compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi) che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso».
L’esigenza che alla base dell’istanza di accesso ci sia un interesse diretto, concreto e attuale serve
ad escludere che l’istituto consenta indistintamente a tutti i privati di esercitare un “controllo
generalizzato e illimitato sull’operato dell’amministrazione”.
C’è tuttavia una prima eccezione, che scaturisce dall’obbligo di adeguamento della legislazione
interna al diritto comunitario. L’art. 3 del d.lgs. 39 / 1997 (attuativo di una direttiva comunitaria del
1990), introduce nel nostro sistema una “fattispecie speciale di accesso in materia ambientale” : per
assicurare la libertà di accesso a tutte le INFORMAZIONI SULL’AMBIENTE in possesso delle
pubbliche amministrazioni, queste hanno l’obbligo di rendere disponibili tali informazioni «a
chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse».
La disciplina è stata confermata dall’art. 3 del d.lgs. 195 / 2005 (in attuazione di una direttiva
comunitaria del 2003) , ma con alcune limitazioni : si esclude il diritto di accesso nei casi in cui : 1)
la richiesta sia manifestamente irragionevole; 2) la richiesta sia troppo generica; 3) la divulgazione
dell’informazione pregiudichi la riservatezza dei dati personali o riguardanti una persona fisica.

Una seconda eccezione è data dall’“ACCESSO CIVICO” (ossia il diritto di richiedere documenti o
informazioni che le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare nei propri siti
istituzionali), disciplinato dall’art. 4 del d. lgs. 33 / 2013, secondo cui la richiesta di accesso civico

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non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, non
deve essere motivata ed è gratuita.

Una forma peculiare di accesso è quella prevista dal “T.U. SUGLI ENTI LOCALI” (d.lgs. 267 /
2000), che consente ai consiglieri comunali di ottenere dagli uffici ed enti dipendenti non solo
l’accesso ai documenti amministrativi, ma anche (ed è questa la particolarità) tutte le informazioni
in loro possesso che siano utili all’espletamento del proprio mandato. Tale diritto serve a
permettere ai consiglieri comunali di effettuare un efficace controllo sull’operato
dell’amministrazione.

Tra gli “interessati all’accesso” figurano anche i «soggetti privati portatori di interessi pubblici o
diffusi» (costituiti in associazioni o enti) : in tal caso, però, l’accesso presuppone, oltre alla
sussistenza dei requisiti dell’ “attualità” e della “concretezza dell’interesse”, anche la verifica della
rappresentatività dell’associazione o dell’ente esponenziale e della pertinenza dei fini statutari
rispetto all’oggetto dell’istanza.

3. I soggetti passivi. L’art. 23 della L. 241 / 1990 stabilisce che “il diritto di accesso si
esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti
pubblici e dei gestori di pubblici servizi”. Proprio con riferimento al settore dei “pubblici servizi”,
la giurisprudenza ha affermato che, indipendentemente dal titolo giuridico in base a cui viene
gestito il servizio pubblico, ciò che attiva il “diritto di accesso” sono le attività correlate al pubblico
servizio : in base a questo orientamento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha inserito
nell’alveo del diritto di accesso anche “l’attività svolta dai soggetti privati che espletano compiti di
interesse pubblico” (ad es. concessionari di pubblici servizi).

4. Oggetto del diritto di accesso. L’art. 22, 3°comma della L. 241 / 1990 dispone
che “Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, eccetto quelli indicati dall’art. 24”. Occorre
chiarire, allora, cosa vuol dire «accessibile», poiché l’art. 10 della L. 241 / 1990 (incluso tra le
“norme sulla partecipazione”) prevede che «I soggetti legittimati a partecipare possono prendere
visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’art. 24». Il problema che si era posto
in passato era se un documento «visionabile» in sede partecipativa fosse, per ciò solo,
«accessibile» : la giurisprudenza ha risposto in modo positivo, affermando che “il diritto di
prendere visione degli atti del procedimento” si configura come lo stesso diritto di accesso di cui
all’art. 22, distinguendosi tra «accesso partecipativo» e «accesso informativo».
Detto ciò, occorre stabilire che cosa si intende per “documento amministrativo” : al riguardo, il
legislatore – nell’originaria formulazione dell’art. 22 (prima della riforma del 2005) – riteneva
accessibili quei “documenti formati dalle amministrazioni” o, comunque, “usati ai fini dell’attività
amministrativa”. La norma, però, non era di facile interpretazione, anche perché in relazione ad essa
in dottrina si pose il problema di stabilire se tra questi atti potessero, ad esempio, essere inclusi i
“pareri dei consulenti di parte” e “quelli dell’Avvocatura di Stato” : del primo quesito si occupò la
giurisprudenza, che stabilì che – riguardo ai “pareri resi dai consulenti” – il “diritto di accesso” era
da escludere, poichè il “segreto professionale” è specificamente tutelato dall’ordinamento. Si
precisò però che l’accesso era consentito in relazione a quei pareri che si inserivano nell’ambito di
una specifica istruttoria procedimentale, perché in tal caso il parere legale sarebbe stato collegato a
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un procedimento amministrativo e avrebbe assunto la configurazione di atto endoprocedimentale.


Per i “pareri resi dall’Avvocatura di Stato”, invece, vigono le regole di cui d.p.c.m. (decreto del
Presidente del Consiglio) 200 / 1996, che elenca gli “atti inaccessibili” perché coperti da segreto, e
gli “atti per i quali le pubbliche amministrazioni possono porre un veto” o “posticiparne l’accesso”.
Ad ogni modo, con la riforma del 2005, la legge ha qualificato come «DOCUMENTO
AMMINISTRATIVO» “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti, detenuti da una P.A. e riguardanti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina”.
Con quest’ultima precisazione il legislatore ha fatto proprio l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa : infatti una questione dibattuta riguardava l’accessibilità agli atti di diritto privato
della P.A. Parte della giurisprudenza aveva affermato l’ostensibilità (= accessibilità) di questi atti,
perché il diritto di accesso sarebbe correlato non agli atti amministrativi, ma all’“attività
amministrativa”, che comprende sia l’attività di diritto amministrativo che quella di diritto privato
della P.A. Un altro orientamento aveva affermato invece che la ratio del diritto di accesso sta
nell’esigenza di perequare (= uguagliare) la posizione dell’amministrato a quella del potere
pubblico sicché, quando l’amministrazione agisce in regime di diritto privato, senza godere della
potestà autoritativa, non è giustificabile l’attribuzione a favore del privato dello strumento
dell’accesso. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha privilegiato la prima soluzione,
affermando che le esigenze di “buon andamento” e di “imparzialità” dell’amministrazione (ex art.
97 Cost.) riguardano sia l’attività volta all’emanazione dei provvedimenti sia quella di diritto
privato.

5. Limiti. La L. 241 / 1990 contempla “3 categorie di limiti all’esercizio del diritto di accesso” :
1) nella prima categoria, contemplata dall’ art. 24, 1°comma della L. 241 / 1990, l’accesso è escluso
per esplicita volontà del legislatore. Il diritto di accesso è escluso : a) per i documenti coperti dal
“segreto di Stato” e per quelli coperti da “divieto di divulgazione” espressamente previsti dalla
legge; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della P.A. volta all’emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti
selettivi (nei confronti di “documenti amministrativi contenenti informazioni psicoattitudinali
relative a terzi”).

2) nella seconda categoria, invece, sono contemplati gli atti che – ai sensi dell’art. 17, 2°comma
della L. 400 / 1988, devono essere individuati con regolamento e in relazione ai quali le singole
amministrazioni possono negare l’accesso. Attualmente, con riferimento a queste ipotesi, vigono le
norme del d.p.r. 352 / 1992, secondo cui l’accesso ai documenti amministrativi può essere negato :
a) quando dalla loro divulgazione possa derivare una lesione alla “sicurezza nazionale”; b) quando
possa compromettere i “processi di attuazione della politica monetaria”; c) quando i documenti
riguardino “le strutture”, “il personale” e le “azioni strumentali alla tutela dell’ordine pubblico e alla
repressione della criminalità”; d) quando i documenti riguardino “la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, di persone giuridiche, di imprese o associazioni”. Quest’ultima ipotesi coinvolge il
rapporto tra ESIGENZE DI INFORMAZIONE, strumentali alla difesa di interessi individuali e
DIRITTO ALLA RISERVATEZZA. Il “diritto alla riservatezza” è una situazione giuridica
soggettiva disciplinata dal “Codice in materia di protezione dei dati personali”. Sul punto, il
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principio guida è quello per cui l’interesse alla riservatezza recede quando l’accesso è esercitato per
difendere un interesse giuridico leso.

3) nella terza categoria, infine, troviamo le ipotesi in cui l’amministrazione può differire (=
rimandare) l’accesso. Il differimento può essere disposto “per un tempo sufficiente ad assicurare
una temporanea tutela agli interessi di cui all’art. 24, 6° comma della L. 241 / 1990” o “per
salvaguardare specifiche esigenze dell’amministrazione” in relazione a documenti la cui
conoscenza possa compromettere il buon andamento dell’azione amministrativa. In ogni caso,
l’atto che dispone il differimento dell’accesso deve indicarne la durata.

6. Esercizio del diritto di accesso. Le MODALITA’ DI ESERCIZIO DEL


DIRITTO DI ACCESSO sono disciplinate dal d.p.r. 184 / 2006. Il diritto di accesso si esercita con
riferimento ai documenti amministrativi esistenti al momento della presentazione della richiesta e
detenuti dalla P.A., nei confronti dell’ “amministrazione che ha formato il documento o lo detiene
stabilmente”.
Ricevuta l’istanza, l’amministrazione, se individua soggetti controinteressati (= cioè tutti i soggetti
che vedrebbero compromesso il loro “diritto alla riservatezza” dall’esercizio del diritto di accesso),
deve darne loro comunicazione, mediante raccomandata con avviso di ricevimento o per via
telematica. Entro 10 giorni dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati possono
presentare una “motivata opposizione alla richiesta di accesso”. Decorso questo termine,
l’amministrazione provvede sulla richiesta, previo accertamento della ricezione della
comunicazione.
Il d.p.r. 184 / 2006 prevede, poi, anche la possibilità, in assenza di controinteressati, di procedere
all’esercizio «DIRITTO DI ACCESSO INFORMALE», mediante richiesta, anche verbale,
all’ufficio competente.

CAPO V
(si veda il regolamento approvato con D.P.R. 184 del 2006)

Art. 22 (Definizioni e principi in materia di accesso)


1° comma : Ai fini del presente capo si intende:

a) per "DIRITTO DI ACCESSO" il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi.
b) per "INTERESSATI" tutti i soggetti privati (compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi) che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso.
c) per "CONTROINTERESSATI" tutti i soggetti che vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza dall’esercizio
del diritto di accesso.
d) per "DOCUMENTO AMMINISTRATIVO" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti (anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento) detenuti da
una P.A. e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della
loro disciplina.
e) per "PUBBLICA AMMINISTRAZIONE" tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla
loro attività di pubblico interesse.

2° comma : L’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa” al fine di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza.

3° comma : Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2,
3, 5 e 6.

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Art. 23 (Ambito di applicazione del diritto di accesso)


1. Il diritto di accesso si esercita nei confronti delle amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti
pubblici e dei gestori di pubblici servizi.

Art. 24 (Esclusione dal diritto di accesso)


1° comma : Il diritto di accesso è escluso: a) Per i documenti coperti da segreto di Stato e nei casi di divieto di
divulgazione espressamente previsti dalla legge. b) Nei procedimenti tributari. c) Nei confronti dell'attività della P.A.
diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione.
d) Nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico-
attitudinale relativi a terzi.

6° comma : Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della L. 400 del 1988, il Governo può
prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi: a) Quando dalla loro divulgazione possa derivare
una lesione alla sicurezza nazionale, all'esercizio della sovranità nazionale e alla continuità delle relazioni
internazionali. b) Quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di determinazione e attuazione della politica
monetaria. c) Quando i documenti riguardino le strutture, il personale e le azioni strumentali alla tutela dell'ordine
pubblico e alla repressione della criminalità. d) Quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni.

Art. 25 (Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi)

1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi. L’esame dei
documenti è gratuito.

2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha
formato il documento o che lo detiene stabilmente.

3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall’articolo 24 e
devono essere motivati.

4. Decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell'accesso, espresso o
tacito, o di differimento dello stesso, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale.

5. Le controversie relative all'accesso ai documenti amministrativi sono disciplinate dal codice del processo
amministrativo.

Cioè…

Art. 116 c.p.a. :  Rito in materia di accesso ai documenti amministrativi

1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso il ricorso è proposto entro 30 giorni 
dalla conoscenza della decisione o dalla formazione del silenzio.

-PARTE 4. PROVVEDIMENTI E
COMPORTAMENTI-

-CAPITOLO 1. IL PROVVEDIMENTO-

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1.Nozione di provvedimento amministrativo. Tra la fine dell’800 e gli inizi


del ‘900 nello studio degli ATTI AMMINISTRATIVI sono stati in un primo tempo usati i risultati
raggiunti dalla dottrina privatistica sui “negozi giuridici privati”. Nei primi decenni del ‘900,
pertanto, gli ATTI AMMINISTRATIVI furono distinti in “meri atti amministrativi” e “negozi di
diritto pubblico” («dichiarazioni di volontà della P.A. volte a conseguire fini determinati,
riconosciuti e tutelati dal diritto») e il criterio discretivo (=distintivo) fu individuato nell’elemento
psichico della “volontà”. Questo indirizzo, però, siccome faceva perno sulla natura negoziale della
volontà dell’amministrazione, è stato superato sulla base delle seguenti argomentazioni :
innanzitutto, la dottrina – avendo posto l’accento sul “contenuto precettivo dell’atto” (ove la
“precettività” era il potere, proprio dell’amministrazione, di realizzare un nuovo assetto di
interessi) prese atto che la “volontà dell’amministrazione” non era più il perno del “negozio di
diritto pubblico”, anche perché quest’ultimo veniva ormai inteso come un atto di
autoregolamentazione di interessi; 2) in secondo luogo, è stato evidenziato che non si può parlare
di “negozio”, atto di autonomia privata, per gli atti che sono esercizio di potere discrezionale (cioè
per la maggior parte degli atti amministrativi); 3) In terzo luogo, per la diversa disciplina relativa
alla “struttura”, alla “validità” e all’“efficacia” del negozio privato rispetto a quella dell’atto
amministrativo.
In definitiva, fermo restando che il “negozio privato” e l’“atto amministrativo” sono entrambi atti a
contenuto precettivo, essi non hanno altro in comune e, quindi, il secondo non può essere
considerato un negozio (sia pure di diritto pubblico). Negli anni '40 la dottrina comincia a parlare, a
proposito dell’atto precettivo dell’amministrazione, di “PROVVEDIMENTO”, volendo indicare
che esso «provvede al soddisfacimento degli interessi pubblici». Cambia anche il criterio di
classificazione degli atti amministrativi : poiché l’azione dell’amministrazione avviene per
sequenze di atti (racchiusi nel procedimento) questi atti furono classificati in base a un criterio
funzionale : si è contrapposto il “provvedimento” (cioè l’atto che chiude il procedimento, fissando
l’assetto di interessi deciso dall’amministrazione) agli “atti endoprocedimentali” che, essendo
finalizzati all’adozione del provvedimento finale, sono atti strumentali.
In virtù di queste considerazioni, negli anni ’50 la dottrina giunse alla compiuta elaborazione della
nozione di PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO : esso è un atto autoritativo (nel senso che è
idoneo a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità del consenso altrui). Sulla base di
questa definizione furono poi individuate le caratteristiche del provvedimento : 1) dal punto di vista
della “struttura”, è un atto unilaterale; 2) dal punto di vista della “funzione”, è un atto diretto alla
cura di interessi pubblici; 3) dal punto di vista della “formazione”, è l’atto finale del procedimento;
4) ed infine è dotato di esecutività.

2. Approfondimenti sulla nozione di provvedimento. Di recente, parte


della dottrina ha escluso dall’ambito dei provvedimenti amministrativi propriamente detti (cioè i
“provvedimenti autoritativi”) i PROVVEDIMENTI CON EFFETTI FAVOREVOLI PER I LORO
DESTINATARI : concessioni, autorizzazioni, permessi. Questo perché si tratta di provvedimenti
che presuppongono la preventiva richiesta e il consenso dell’interessato (ad es. l’amministrazione
non può rilasciare un permesso di costruire senza che l’avente titolo glielo chieda oppure non può
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imporre una “concessione d’uso del suolo demaniale” !). Tuttavia, anche se questi provvedimenti
non sono autoritativi nei confronti di coloro che li hanno richiesti, non può escludersi qualche altro
profilo di autoritarietà : 1) in primo luogo il provvedimento, favorevole nei confronti del
destinatario, può essere sfavorevole nei confronti di soggetti diversi (soggetti terzi) : in tal caso il
provvedimento esprime il carattere autoritativo nei loro confronti; 2)
inoltre, se il provvedimento favorevole non viene rilasciato, colui che lo ha chiesto risente di
conseguenze sfavorevoli e può reagire impugnando il provvedimento negativo. Lo stesso accade se
l’amministrazione non provvede né positivamente né negativamente (ipotesi di silenzio).
Chiarito ciò, c’è un altro problema da risolvere : sempre con riferimento al profilo
dell’autoritarietà, la dottrina ha sollevato qualche dubbio riguardo ai PROVVEDIMENTI
VINCOLATI, che l’amministrazione adotta in esecuzione di disposizioni per essa vincolanti e
senza scelte discrezionali; in questi casi, si afferma che l’ “autoritarietà” non sussisterebbe, in
quanto l’amministrazione si limiterebbe ad attuare norme di rango superiore (leggi, regolamenti).
Tuttavia, anche per questa tipologia di atti è doveroso avanzare qualche osservazione : da un lato,
infatti, anche per i provvedimenti vincolati, occorre verificare se sussistano in concreto i
“presupposti di fatto cui la disposizione collega l’adozione del provvedimento” e tale verifica è
rimessa all’amministrazione, dall’altro l’atto dell’amministrazione è un atto necessario affinché si
verifichi l’effetto disposto dalla disposizione vincolante : anche se l’effetto è disegnato dalla norma,
perché esso si produca concretamente occorre che l’amministrazione adotti l’atto di sua competenza
(quindi l’effetto è “costituito dall’atto”, ma è “determinato dalla disposizione vincolante”). Pertanto,
in caso di provvedimenti vincolati, l’amministrazione ha almeno il potere di costituire l’effetto (è
titolare cioè di potere costitutivo), anche se non ha potere determinante (cioè di determinare
l’effetto dell’atto che compie).
Infine di recente è stata criticata l’autoritarietà/imperatività del provvedimento e si è sostenuto che
il provvedimento, come atto di esercizio del potere, non si differenzia dagli atti privati, esercizio di
poteri privati. Questa teoria, però, non può essere condivisa, anche perché non è difficile rendersi
conto che il “potere” esercitato dall’amministrazione non conosce similitudini con i “poteri privati”
(i c.d. diritti potestativi) : il diritto potestativo presuppone la preesistenza di un rapporto giuridico
tra il titolare del potere e colui che è soggetto a questo potere (rapporto che tra l’altro è nato con il
“consenso della controparte”). Inoltre, il potere è funzionalizzato (= attribuito per una specifica
funzione), il diritto potestativo non lo è ed è anche diversa la situazione giuridica soggettiva che
fronteggia l’uno e l’altro : al potere autoritativo si contrappone l’interesse legittimo, al diritto
potestativo si contrappone la mera soggezione.

3. La struttura del provvedimento. A differenza del “contratto” (per il quale l’art.


1325 c.c. elenca gli “elementi essenziali”), nella disciplina legislativa manca l’indicazione degli
ELEMENTI COSTITUTIVI DEL PROVVEDIMENTO, e tuttavia questa mancanza non è un
problema molto grave, dato che la “validità” (e l’invalidità) del provvedimento è, dalla legge,
parametrata su profili funzionali (e non su quelli strutturali, come accade per il contratto). Gli
“elementi essenziali del provvedimento” sono limitati : sono quelli la cui mancanza dà luogo a
nullità (art. 21 septies L. 241 / 1990). Se ne deduce quindi che a generare la NULLITA’ è solo la
mancanza degli elementi essenziali, e non la loro “illiceità” (come avviene invece per il contratto ex
art. 1418 c.c.).
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Ad ogni modo, in mancanza di un’apposita disciplina, gli “elementi essenziali del provvedimento
amministrativo” sono stati individuati dalla dottrina : il SOGGETTO, l’OGGETTO, il
CONTENUTO, la FORMA e i MOTIVI. Analizziamoli nel dettaglio :
1) Il “soggetto” non può essere considerato propriamente un elemento dell’atto : semmai esso ne è
l’autore e, quindi, se il provvedimento non proviene dall’organo che ha il potere di adottarlo, esso
può essere sì nullo, ma non per mancanza di un elemento essenziale, ma per “difetto assoluto di
attribuzione”.
2) Quanto all’“oggetto”, pur ammettendo che esso sia un elemento del provvedimento (il che è
discutibile), non è la sua mancanza a determinare la nullità del provvedimento, ma la mancanza
della sua individuazione.
3) Quanto ai “motivi” bisogna invece sviluppare un discorso particolare : innanzitutto per molti
decenni la dottrina si è chiesta se per il provvedimento amministrativo, così come per il contratto,
possa parlarsi di “causa” (nel senso di funzione economico-sociale dell’atto) e si è sostenuto che,
poiché i provvedimenti sono “atti tipici” e perseguono gli “interessi pubblici indicati dalla legge”, è
superfluo elevare la “causa” ad elemento essenziale del provvedimento : la funzione del
provvedimento è predeterminata dalla legge e quindi è inutile che nella struttura del provvedimento
venga incluso un elemento che consenta di valutare la “meritevolezza dell’interesse perseguito”.
Tuttavia, questa conclusione merita qualche precisazione : poichè l’interesse pubblico
concretamente perseguito non è direttamente indicato dalla legge, ma è determinato in concreto
dall’amministrazione nel procedimento amministrativo (componendo più interessi pubblici,
astrattamente indicati dalla legge, e considerando anche gli interessi privati coinvolti) può essere
giustificato parlare di “causa del provvedimento” riguardo all’interesse concretamente individuato
e perseguito dall’amministrazione.
Tuttavia, se si accetta una conclusione del genere, bisogna anche tener presente che - a differenza
del contratto (dove solo la “causa” assume importanza, mentre i “motivi” sono irrilevanti) - nel
provvedimento amministrativo i “motivi per cui il provvedimento è adottato” occupano un posto di
primo piano, poiché l’amministrazione ha l’obbligo di indicare sia i presupposti di fatto che le
ragioni giuridiche che determinano l’adozione della decisione. Di conseguenza, è inutile separare la
causa dai motivi, poichè la “causa” è l’ultimo stadio del percorso motivazionale, che è per intero
rilevante. Quindi non è necessario parlare di “causa del provvedimento”, poiché la stessa può essere
tranquillamente incorporata nell’ambito dei motivi (tutti rilevanti) che giustificano l’adozione del
provvedimento.
Per legge, poi, (art. 3 della L. 241 / 1990), una volta indicati i motivi, “la P.A. ha l’obbligo di
esternarli nel provvedimento” : l’ “esternazione dei motivi” (l’indicazione dei presupposti di fatto e
delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione) è detta “motivazione”.
Tuttavia la carenza o l’insufficienza della motivazione non determina la nullità del provvedimento,
ma solo la sua “annullabilità” : quindi se ne deduce che nemmeno la “motivazione” è un elemento
essenziale del provvedimento. Invece, ciò che assume carattere “essenziale” è solo l’“esternazione”
(ossia la manifestazione all’esterno del contenuto decisionale del provvedimento), poichè nessun
atto giuridico può essere definito tale se non ne viene resa possibile la conoscibilità.
4) Non bisogna però confondere l’esternazione con la “forma”, che indica il modo
dell’esternazione. Per i provvedimenti amministrativi vige la regola della “forma scritta”, il che
significa che l’esternazione deve avvenire con la redazione di un testo scritto. Non vige invece
alcuna regola vincolante di forme solenni : è possibile infatti che l’esternazione assuma una certa

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forma (ad esempio, il decreto o l’ordinanza), ma in realtà il provvedimento può essere esternato in
qualsiasi altra forma, purché scritta. In questo senso si può parlare di “libertà delle forme” :
«qualunque modo espressivo del provvedimento scritto è valido».
Si può concludere che elementi essenziali del provvedimento sono solo il CONTENUTO
DECISIONALE e LA SUA ESTERNAZIONE : quindi perché il provvedimento sia considerato
esistente, basta che ci sia un regolamento di interessi (“contenuto decisionale”) in forma conoscibile
(“esternato”) e riferibile ad un organo attributario del potere di adottarlo.

4. Tipi di provvedimenti. I provvedimenti possono essere classificati in base al loro


“contenuto” e ai loro “effetti”.
Il nostro ordinamento conosce diversi CRITERI DI CLASSIFICAZIONE, in virtù dei quali la
dottrina distingue tra :

 “PROVVEDIMENTI COSTITUTIVI” : modificano precedenti assetti di interessi


(determinano la nascita, la modificazione o l’estinzione di situazioni giuridiche soggettive);
invece i PROVVEDIMENTI DICHIARATIVI” : verificano o certificano situazioni di fatto,
requisiti e qualificazioni (personali e reali).
 I “PROVVEDIMENTI GENERALI” : si rivolgono a gruppi indifferenziati di destinatari,
mentre i “PROVVEDIMENTI PARTICOLARI” riguardano destinatari ben individuati.
 I “PROVVEDIMENTI NORMATIVI” contengono precetti astratti e ipotetici (norme),
mentre i “PROVVEDIMENTI PRECETTIVI” contengono precetti concreti e disciplinano
situazioni reali (disposizioni) : ad esempio un regolamento è un atto normativo, mentre un
piano regolatore è un atto precettivo.
 I “PROVVEDIMENTI DI SECONDO GRADO” : sono quelli che hanno ad oggetto
precedenti provvedimenti (es. annullamento d’ufficio) o situazioni create da precedenti
provvedimenti (es. revoca).
 “PROVVEDIMENTI INAUTENTICI” : sono atti che non sono provvedimenti in senso
proprio, ma dal punto di vista giuridico sono trattati come se lo fossero (si pensi ai
“provvedimenti sanzionatori”, il cui compito non è quello di provvedere alla tutela di un
particolare interesse pubblico, ma solo quello di garantire il rispetto delle regole e, in caso di
violazione, sanzionare i comportamenti illeciti; si pensi anche ai “provvedimenti di gestione
di beni pubblici”, il cui compito è quello di assicurare una corretta gestione dei beni facenti
parte del patrimonio, mobiliare o immobiliare, dell’amministrazione).

5.I provvedimenti costitutivi. Essi sono provvedimenti che determinano


modificazioni nelle situazioni giuridiche soggettive e nel patrimonio giuridico dei privati. Queste
modificazioni possono essere favorevoli (ampliano il patrimonio giuridico del privato) o sfavorevoli
(lo impoveriscono). Si distinguono pertanto i PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI e i
PROVVEDIMENTI SFAVOREVOLI per i loro destinatari. In relazione ai provvedimenti
favorevoli, il privato è titolare di “INTERESSI LEGITTIMI PRETENSIVI”; in relazione ai
provvedimenti sfavorevoli è invece titolare di “INTERESSI LEGITTIMI OPPOSITIVI”. I
procedimenti finalizzati all’adozione di provvedimenti favorevoli sono iniziati su istanza di parte. I
procedimenti alla cui conclusione viene adottato un provvedimento sfavorevole sono ad iniziativa

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d’ufficio.
Mentre i PROVVEDIMENTI SFAVOREVOLI vengono inclusi nell’unica categoria dei
“provvedimenti ablatori”, i PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI sono suddivisi in “autorizzazioni”
e “concessioni”. Ma perché le autorizzazioni e le concessioni non sono state ricomprese in un’unica
categoria? La risposta al quesito ci è stata fornita dal Ranelletti : secondo l’autore, con le
“autorizzazioni” si rimuove un ostacolo all’esercizio di un diritto di cui il privato è già titolare ;
tuttavia, nonostante la definizione sia molto chiara, essa va precisata, perché nella realtà ci sono
anche delle ipotesi in cui il privato, prima di chiedere l’autorizzazione, non è già titolare di un
diritto soggettivo : infatti è possibile che una certa attività sia nella DISPONIBILITA’ TEORICA
del privato (che rispetto ad essa può essere titolare di un diritto, di una libertà o di una semplice
possibilità di svolgerla). In tali ipotesi, perciò, affinchè questa disponibilità teorica diventi effettiva,
occorre un “provvedimento autorizzatorio” dell’amministrazione, che, in vista della decisione da
adottare, deve verificare se l’attività che è nella disponibilità teorica del privato possa essere svolta
per non contrastare con interessi pubblici coinvolti.
Invece, per Ranelletti con le “concessioni” si conferiscono al privato nuovi diritti. Anche in questo
caso però dobbiamo fare una precisazione : la concessione, oltre a creare nuovi diritti, può
determinare l’acquisto di utilità diverse (ad es. le onorificenze). In questo caso possiamo dire che
beni e attività non sono nella disponibilità teorica del privato, ma nella disponibilità
dell’amministrazione o addirittura non sono nella disponibilità né del privato né
dell’amministrazione. Trattandosi di beni e attività indisponibili (= indisponibilità teorica), occorre
un provvedimento che crei tale disponibilità nel privato : è necessario, cioè, che l’amministrazione
adotti un “provvedimento concessorio”, in modo da attribuire al privato delle“utilitates” (diritti,
qualità, onorificenze), e ciò a sua volta può avvenire o trasferendo al privato diritti riservati
all’amministrazione o costituendo ex novo nuovi diritti.
Per comprendere meglio la distinzione, esaminiamo la vicenda del “permesso di costruire” : esso
prima era chiamato “licenza edilizia”, in base al presupposto che il diritto di costruire (ius
aedificandi) inerisse al diritto di proprietà : pertanto il provvedimento era necessario solo per
l’esercizio di tale diritto (aveva natura autorizzatoria). Successivamente il legislatore, ritenendo che
il ius aedificandi non attenesse al diritto di proprietà, ha sostituito l’atto autorizzatorio con un atto il
cui effetto era di attribuire il ius aedificandi al privato proprietario dell’area fabbricabile : pertanto
ha cambiato non solo il nome (“concessione di costruzione”), ma ha anche ritenuto che il
provvedimento avesse natura concessoria, affermandone al contempo il carattere oneroso (è stata
imposta infatti la corresponsione di un contributo per il suo rilascio). Tuttavia la Corte
costituzionale successivamente ha affermato che «la concessione a edificare non attribuisce diritti
nuovi, ma presuppone facoltà preesistenti». Cosicché il provvedimento ha conservato carattere di
“autorizzazione” e si è introdotta la nuova dizione di “permesso di costruire”.

6. I provvedimenti autorizzatori. Le “AUTORIZZAZIONI” presuppongono la


presenza, in capo al privato che le richiede, di diritti o facolta’. L’amministrazione, prima di
adottare un provvedimento autorizzatorio, deve valutare la compatibilità tra l’interesse privato e
l’interesse pubblico; tuttavia essa non segue sempre gli stessi parametri valutativi : 1) ci sono casi in
cui l’amministrazione verifica che il richiedente possieda i “requisiti tecnici, professionali o di
moralità cui la legge condiziona il rilascio dell’autorizzazione”. In questi casi, l’amministrazione -
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dovendo solo verificare la sussistenza di dati oggettivi - è “vincolata” al rilascio dell’autorizzazione,


laddove tale verifica si risolva positivamente (si pensi alla patente di guida, al passaporto o al porto
d’armi). 2) In altri casi l’amministrazione va a verificare le “caratteristiche del bene su cui il
richiedente vuole esercitare il suo diritto o la sua facoltà” : tali caratteristiche sono apprezzabili solo
usando criteri soggettivi (quindi variabili) e in questi casi l’amministrazione, a differenza
dell’ipotesi precedente, conserva i suoi “poteri discrezionali” (si pensi alle autorizzazioni
paesaggistiche). 3) Altre volte le autorizzazioni sono dirette ad “attuare programmi o a rispettare
criteri distributivi o contingentamenti” (si pensi alle autorizzazioni per aprire determinati esercizi
commerciali o esercitare determinate attività).
Ma ciò che accomuna le varie specie di autorizzazioni (che nella realtà assumono varie
denominazioni : licenze, permessi, abilitazioni, nullaosta, ecc.) è il particolare rapporto tra interesse
pubblico e interesse privato : con i provvedimenti autorizzatori si persegue l’INTERESSE
PRIVATO in quanto non contrastante con l’interesse pubblico; quindi l’ “interesse privato” assume
il ruolo di interesse principale e da perseguire con il provvedimento e l’“interesse pubblico” il ruolo
di interesse di contenimento o di impedimento.
Le caratteristiche delle autorizzazioni hanno permesso al legislatore di sostituire il rilascio dei
provvedimenti con una dichiarazione dell’interessato (con riferimento, però, alle attività di
carattere economico) : si tratta della “dichiarazione di inizio attività” (d.i.a.), introdotta dalla L.
241 / 1990 e recentemente trasformata in “segnalazione certificata di inizio attività” (s.c.i.a.).
*CONTINGENTAMENTI = limitazione imposta dallo Stato al consumo di determinati prodotti oppure determinazione da
parte dello Stato delle quantità massime in cui una determinata merce può essere importata o esportata.

7. I provvedimenti concessori. L’amministrazione può essere titolare di diverse


utilitates (beni, attività o diritti esclusivi); tuttavia, trattandosi di utilitates di cui solo
l’amministrazione può disporre, il privato che voglia acquisirle deve farne richiesta
all’amministrazione, che deciderà secondo le esigenze dell’interesse pubblico. A differenza di
quanto succede per le autorizzazioni, quindi, nel caso delle concessioni è l’INTERESSE
PUBBLICO ad essere al centro delle valutazioni. Con le concessioni si curano in via principale gli
interessi pubblici : si tiene conto degli interessi privati solo se essi non collidono con quelli
pubblici.
La posizione di predominio dell’amministrazione è evidente se si considerano i possibili oggetti
delle concessioni : 1) quanto ai BENI, essi sono “di proprietà pubblica” (demaniale) e da ciò deriva
il “diritto esclusivo di disporne”; 2) quanto alle ATTIVITA’, sono “attività riservate
all’amministrazione” (ad es. i servizi pubblici o la realizzazione di opere pubbliche); 3) riguardo
alle ALTRE UTILITATES (ad es., onorificenze o ricompense al valore civile e militare), deve
trattarsi di “utilitates che solo l’amministrazione può concedere”.
Se ne deduce, allora, che il privato (che chiede all’amministrazione il rilascio della concessione), a
differenza di quanto previsto per le autorizzazioni, non vanta alcun diritto pregresso su questi beni,
attività o utilitates, ma è solo titolare di “interessi legittimi”, che nascono dopo la presentazione
della domanda di concessione e vivono nel relativo procedimento.
Parte della dottrina ritiene che le concessioni, essendo atti favorevoli al privato, dovrebbero essere
considerate negozi o contratti (e non provvedimenti), ma questa conclusione non può essere
condivisa, perché – pur potendo in teoria l’amministrazione adottare, al posto delle concessioni,
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negozi o contratti (e in passato si sono verificati casi di questo genere), l’assoggettamento degli atti
concessori alla disciplina pubblicistica è stata dettata dall’esigenza di tutelare meglio i privati
interessati : il “richiedente”, infatti, essendo titolare di un interesse legittimo, può sfruttarne gli
strumenti di tutela sia nel procedimento sia contro il provvedimento; inoltre anche il “terzo
contrario al rilascio della concessione” ha titolo a partecipare al procedimento e ad impugnare la
concessione rilasciata ad altri. Queste forme di tutela sarebbero difficilmente concepibili se l’attività
dell’amministrazione si esprimesse in atti negoziali.
Le CONCESSIONI tradizionalmente si distinguono in COSTITUTIVE (quando assegnano
un’utilitas di nuova creazione al concessionario : si pensi ad esempio alla “concessione della
cittadinanza”) e TRASLATIVE (quando trasferiscono al concessionario un’utilitas che è nella
disponibilità dell’amministrazione; ad esempio le “concessioni di diritti di godimento esclusivo su
porzioni di beni demaniali” : suolo pubblico per tavolini di bar o tratti di litorale per stabilimenti
balneari). Le concessioni «non costitutive» ( = traslative) possono essere sostituite da d.i.a. (ora
s.c.i.a.).
Una specie particolare di concessioni sono le SOVVENZIONI, aventi ad oggetto l’erogazione di
danaro pubblico senza che siano previste prestazioni corrispettive da parte del sovvenzionato. Le
sovvenzioni devono rispondere a interessi pubblici (ad esempio, lo sviluppo industriale di un certo
territorio o di un certo settore o l’esigenza di riparare i danni causati da eventi naturali). Se le
finalità di interesse pubblico non vengono realizzate, la sovvenzione va revocata e il denaro erogato
deve essere restituito.
*CANONE = Il canone demaniale è un corrispettivo che il concessionario ha l'obbligo di corrispondere ed è, quanto alla sua
quantificazione, il risultato di una determinazione autoritativa dell'ente concedente. La P.A. esige un dato corrispettivo per l'uso speciale
o per lo sfruttamento commerciale del bene pubblico. Il canone di una concessione demaniale è quindi il corrispettivo per il godimento e
l'uso di un bene pubblico – del demanio o del patrimonio indisponibile - che si è attribuito ad un privato.

8. I provvedimenti ablatori. I PROVVEDIMENTI ABLATORI (dal latino


auferre = togliere) sono l’archetipo dei “provvedimenti autoritativi” e sono provvedimenti con cui
l’amministrazione priva il privato di un’utilitas (di un bene della vita) per esigenze di interesse
pubblico. La dottrina classifica i provvedimenti ablatori in base all’oggetto su cui incidono; essi si
distinguono pertanto in : 1) PROVVEDIMENTI ABLATORI PERSONALI (se incidono su libertà,
su diritti personali o su comportamenti leciti); 2) in PROVVEDIMENTI ABLATORI REALI (se
estinguono o limitano diritti reali); 3) e in PROVVEDIMENTI ABLATORI OBBLIGATORI (se
fanno sorgere obbligazioni a carico dei destinatari).

 I “PROVVEDIMENTI ABLATORI PERSONALI” si esplicano attraverso ordini o divieti


che l’amministrazione emana nei confronti di singoli o di gruppi di individui. Essi possono
incidere su quasi tutte le “liberta’” e i “diritti personali”. Alcune libertà però non possono
essere limitate (ad es., la libertà di professare la propria fede religiosa), altre possono essere
limitate solo con atti del giudice, e non con provvedimenti amministrativi, altre ancora
possono essere limitate con atti giudiziari, e solo in casi di necessità e di urgenza con
provvedimenti ablatori personali (ad esempio, la libertà di circolazione). Gli ordini possono
riguardare anche “comportamenti leciti” (come il non camminare su un lato di una strada).
I provvedimenti ablatori personali sono vari : essi vanno dagli “ordini di polizia” (ad es., di
farsi identificare o fermarsi) agli “ordini e divieti sanitari” (ad es., l’ordine di sottoporsi a
trattamento sanitario obbligatorio), agli “ordini con cui l’amministrazione impone certe

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prescrizioni a determinati soggetti per il rispetto di disposizioni legislative o regolamentari”


(ad es., in materia di sicurezza sul lavoro).
 I “PROVVEDIMENTI ABLATORI REALI” estinguono o limitano i diritti reali dei privati
e ne determinano l’acquisto da parte dell’amministrazione (o di altri beneficiari, anche
privati). Un esempio è l’“espropriazione per pubblica utilità” : con essa viene estinto il
diritto di proprietà del privato, diritto che viene acquisito a titolo originario da beneficiari,
pubblici o privati (i beneficiari cioè possono non coincidere con l’amministrazione
espropriante).
Alla categoria dei provvedimenti ablatori reali appartiene anche la “requisizione”, che ha per
presupposto situazioni di emergenza e di urgente necessità, può avere ad oggetto beni mobili
e immobili, e può riguardare sia la proprietà di essi che il loro uso temporaneo.
 I “PROVVEDIMENTI ABLATORI OBBLIGATORI” producono la nascita di un rapporto
obbligatorio tra l’amministrazione e il privato, in cui la prima ha il ruolo di creditore e il
secondo quello di debitore. La prestazione dedotta in obbligazione consiste in “somme di
denaro” o “prestazioni personali”. Un esempio del primo tipo è il tributo; un esempio del
secondo tipo è la precettazione in caso di sciopero (= provvedimento amministrativo con cui
si impone il termine di uno sciopero). A questi provvedimenti si applica l’art. 23 Cost.,
secondo cui “Le prestazioni personali o patrimoniali possono essere imposte
dall’amministrazione solo se previste dalla legge” : la riserva di legge deve essere ritenuta
relativa, nel senso che la legge non deve necessariamente disciplinare tutti gli aspetti della
prestazione imposta.

*REQUISIZIONE : la requisizione è l'atto giuridico con cui si priva un soggetto dei suoi diritti di possesso (e talvolta
la proprietà) di un bene. È cioè un provvedimento con il quale la P.A. sottrae al privato (in via temporanea o definitiva) il
godimento di un bene, mobile o immobile, a motivo del superiore interesse pubblico, contro un indennizzo.
Si distingue tra “requisizione in proprietà” (riguarda solo i beni mobili ed ha effetti definitivi) e “requisizione in uso” (può
interessare anche i beni immobili ed ha effetti limitati al tempo necessario per l'utilizzo del bene). La requisizione
è consentita solo “quando ricorrano gravi e urgenti necessità pubbliche. Che differenza c’è tra l’ “espropriazione” e la
“requisizione in proprietà”?
In entrambi i casi la persona viene privata della proprietà di un bene, ma la requisizione si differenzia dalla
espropriazione perché non è sufficiente un generico pubblico interesse, ma è necessaria la presenza di gravi e urgenti
necessità, tipiche delle situazioni impreviste o imprevedibili. Inoltre, l’espropriazione può avere ad oggetto beni immobili
(case, terreni ecc.), mentre la requisizione in proprietà esclusivamente beni mobili.

-CAPITOLO 2. IL REGIME DEI PROVVEDIMENTI :


L’EFFICACIA-

1.Nozioni generali. L’“EFFICACIA DI UN ATTO GIURIDICO” è la sua idoneità a


produrre effetti giuridici (cioè la sua capacità di incidere nei rapporti fra le parti o anche nei
confronti di terzi con la produzione di effetti costitutivi, modificativi, estintivi o meramente
dichiarativi). Questa capacità di produrre effetti presuppone la sussistenza di un “rapporto tra due
entità (un valore e un fatto), che però non sempre si completa nella realtà, se l’obbligazione resta
insoddisfatta (ad es. da un contratto stipulato fra due parti scaturisce il dovere di pagare il
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corrispettivo pattuito, ma ciò non implica che la concreta dazione abbia effettivamente luogo).
L’“EFFICACIA” può essere oggetto di una duplice considerazione : riguardo ad uno specifico atto
(e in tal caso assumeranno rilevanza gli effetti tipici, propri di uno specifico atto) e riguardo a una
specifica categoria di atti (e in tal caso, assumeranno rilevanza gli effetti propri dell’intera
categoria di atti con caratteri comuni).
Dal punto di vista temporale, l’efficacia è di regola istantanea, anche se esistono anche fattispecie a
efficacia retroattiva, differita o addirittura sottoposti a condizione sospensiva (in quest’ultimo caso,
però, bisogna tener presente che la sospensione paralizza gli effetti dell’atto, ma non ne pregiudica
la validità : questo perché gli incisi “inefficacia” e “invalidità” attengono a due ambiti diversi;
infatti, mentre l’inefficacia è il “prodotto di alcuni aspetti della volontà delle parti o comunque di
elementi estrinseci al negozio”, l’invalidità è il “portato di vizi intrinseci all’atto”, che è difforme
alle norme giuridiche che lo disciplinano).
Inoltre l’efficacia di un atto presuppone necessariamente la sua validità (perfezione), ma non è vero
il contrario : possono cioè individuarsi atti “validi”, ma inefficaci. Tuttavia l’efficacia di un atto
non è preclusa da “vizi di annullabilità” che, finché non vengono fatti valere, non impediscono la
produzione di effetti giuridici.
L’INEFFICACIA in genere è assoluta (nel senso che può essere opposta a tutti) : ciò significa che
l’atto non può essere fatto valere né a favore, né contro alcuno (= cioè non produce effetti nei
confronti di nessuno). Questa regola, però, conosce delle eccezioni, poiché il nostro ordinamento
contempla alcune ipotesi di “inefficacia relativa”, così denominate perché inficiano l’atto non nei
suoi effetti diretti, ma in quelli riflessi : in tal caso solo i terzi interessati possono far valere
l’inefficacia (l’esempio tipico è il negozio giuridico, che, pur essendo efficace tra le parti contraenti,
non è opponibile a terzi, che proprio per questo motivo, potranno far valere l’inefficacia dello
stesso).
A volte l’efficacia di un atto è subordinata all’adozione di un altro atto, la cui presenza è necessaria
per eliminare un limite legale imposto dall’ordinamento : in questi casi, l’atto ulteriore può essere
preventivo (autorizzazione) o successivo (approvazione, omologazione) : in questi casi si parla di
“ATTI INTEGRATIVI DELL’EFFICACIA”.
Distinguiamo 3 tipi di efficacia :

 L’“EFFICACIA COSTITUTIVA”, si ha quando l’atto è in grado di produrre allo stesso


tempo una molteplicità di effetti, e quindi di costituire, modificare o estinguere situazioni
giuridiche soggettive (ad esempio nell’“espropriazione”, l’adozione del provvedimento
comporta : 1) la perdita del diritto di proprietà e la nascita del diritto ad ottenere
l’indennizzo; 2) l’acquisizione del diritto di proprietà e l’obbligo di indennizzare il soggetto
espropriato).
 L’ “EFFICACIA DICHIARATIVA”, che è propria degli atti per cui l’effetto si produce sì al
momento della loro emanazione, ma non è da essi determinato, poiché essi si limitano a
riconoscere un dato, una qualità che non è l’atto a generare. In dottrina se ne distinguono 3
ipotesi : 1) il RAFFORZAMENTO : l’effetto dell’atto si sostanzia non nel mutamento, ma
nella conferma di una situazione giuridica preesistente; 2) l’AFFIEVOLIMENTO : (che si
contrappone al rafforzamento) l’effetto si sostanzia nella riduzione della forza
dell’originaria situazione giuridica (ad esempio, la cancellazione di un bene demaniale dal
relativo elenco); 3) la SPECIFICAZIONE : l’effetto si sostanzia nella precisazione del
contenuto della situazione giuridica (si pensi agli ordini impartiti dal datore di lavoro ai
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dipendenti sulle diverse circostanze che possano determinarsi durante la prestazione


lavorativa).
 L’’“EFFICACIA PRECLUSIVA”, che si produce quando l’emanazione dell’atto preclude
ogni eventuale contestazione su un fatto della cui verità si dubita. Atti ad effetto preclusivo
sono “quelli di accertamento”, volti a precludere ogni tipo di contestazione.

2. L’efficacia degli atti amministrativi. Rispetto agli “atti giuridici”, gli “atti
amministrativi” e i “provvedimenti amministrativi” sono espressione di un potere pubblico
(normativamente predefinito) il cui esercizio è affidato a organi della P.A. per perseguire
determinati interessi pubblici. Sul piano dell’efficacia, il provvedimento amministrativo – a
differenza degli atti giuridici – è in grado di trasformare il proprio contenuto dispositivo in
conseguenze pratiche (cioè di produrre effetti) anche a prescindere dalla volontà del destinatario (in
tal senso si dice che il provvedimento ha “efficacia unilaterale”).
Tuttavia, l’“incidenza ( = efficacia) unilaterale del provvedimento amministrativo sulla sfera
giuridica altrui” è stata posta in discussione da alcuni studiosi riguardo ai PROVVEDIMENTI
FAVOREVOLI per il destinatario (autorizzazioni e concessioni), il cui rilascio è subordinato ad
un’apposita istanza degli interessati. Questa teoria, tuttavia, non può essere condivisa, in quanto per
questi provvedimenti, pur essendo possibile l’assoluta coincidenza della volontà delle parti (la P.A.
e il privato), l’ “istanza del privato” non può essere equiparata a una “manifestazione di consenso”,
poiché non si realizza una fusione di volontà : questa istanza, piuttosto, deve essere intesa come una
condicio sine qua non, senza la quale l’amministrazione non può attivarsi; inoltre
l’amministrazione, una volta attivatasi, potrà anche discostarsi dalla richiesta dell’interessato, non
solo respingendola, ma anche imponendo una serie di vincoli e limiti (che sono incompatibili con la
logica della parità contrattuale).
Una volta, quindi, confermata l’incidenza unilaterale del provvedimento amministrativo,
bisogna analizzare le caratteristiche di quest’efficacia, così come descritte dalla L. 241 / 1990 :

 L’AUTORITA’ : esprime la capacità, propria del provvedimento, di manifestare in


concreto quella stessa autorità che in astratto è prerogativa degli enti autarchici.
 L’IMPERATIVITA’ (sinonimo di “autorità”) : è l’idoneità del provvedimento
amministrativo ad incidere su situazioni giuridiche soggettive a prescindere dal consenso
del loro titolare.
 L’ESECUTIVITA’ : consiste, invece, nella produzione di effetti da parte di un
provvedimento efficace, a prescindere dalla sua validità.
 L’ESEGUIBILITA’ : indica la possibilità per il provvedimento di produrre i propri effetti
per assenza di cause impeditive.
 L’INOPPUGNABILITA’ : è la caratteristica di un provvedimento di cui sia ormai preclusa
l’impugnazione davanti al giudice amministrativo. Naturalmente, in questi casi nulla esclude
che la stessa amministrazione che ha adottato il provvedimento possa decidere, in
conformità all’interesse pubblico tutelato, di annullare o revocare lo stesso.

3. L’efficacia nello spazio. Lo SPAZIO e il TEMPO sono coordinate che incidono


sull’efficacia degli atti amministrativi. Lo SPAZIO delimita la competenza amministrativa per

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territorio : infatti l’amministrazione competente (che può essere un ente territoriale, un’articolazione
decentrata dell’amministrazione statale, un ente pubblico, ecc.) può emanare atti che hanno
efficacia solo nell’ambito territoriale di propria competenza (si pensi all’ “ordine di demolizione di
costruzione abusiva”, emanato dal sindaco, che non può colpire un manufatto che sorge al di fuori
del Comune). Tuttavia ci sono delle eccezioni : 1) alcuni “atti emanati da organi di un ente
territoriale” esplicano efficacia anche al di fuori del territorio dell’ente (si pensi alla carta di
identità, rilasciata dal Comune e valida su tutto il territorio nazionale); 2) gli “atti concernenti status
o capacità” e i “documenti di riconoscimento”, che vengono rilasciati dagli enti in cui si risiede o
dagli enti che curano appositi albi o registri a cui la persona è iscritta, spiegano effetti anche al di
fuori del territorio di competenza (il certificato rilasciato dalla Camera di commercio di una certa
Provincia legittima a partecipare a gare pubbliche bandite su tutto il territorio nazionale; e
l’architetto iscritto all’ordine degli architetti di Milano può esercitare la sua professione in tutto il
territorio nazionale); 3) i “provvedimenti di polizia”, che non sono sottoposti a limitazioni
territoriali nonostante provengano da organi decentrati (questura, commissariati, ecc.).
La giurisprudenza ritiene che la “violazione di norme sulla competenza territoriale” determini la
NULLITA’ DELL’ATTO.

4. L’efficacia nel tempo. L’ EFFICACIA TEMPORALE rileva sotto due profili : 1)


quello della “decorrenza degli effetti” (cioè, il momento in cui il provvedimento comincia a
produrre i propri effetti); 2) e quello della “durata degli effetti” (fino all’eventuale cessazione).

 Quanto alla DURATA : distinguiamo “atti ad effetto istantaneo” (come l’ordine di


demolizione di un manufatto abusivo), “atti ad effetto prolungato nel tempo” (come la
concessione d’uso di un bene demaniale) e “atti ad effetto permanente” (come gli atti di
certazione : la loro efficacia permane finché non mutano il soggetto, il bene e il rapporto tra
soggetto e bene).

Particolare attenzione deve essere riservata agli effetti che può esplicare un provvedimento
riguardante un “rapporto di durata a cui sia stato apposto un termine ” : è chiaro che l’efficacia nel
tempo di un tale provvedimento si esaurisce allo scadere del termine prescritto; tuttavia essa
(l’efficacia), in presenza di presupposti specifici, può essere prorogata (con un atto che modifichi
la mera durata del rapporto) o rinnovata (con un atto che instauri un nuovo rapporto, uguale al
precedente). Inoltre grazie all’istituto della PROROGATIO, il titolare di un organo continua ad
esercitare le sue funzioni anche dopo la scadenza del mandato e finché non sia nominato o eletto il
suo sostituto. Giustificato in base a esigenze di “continuità dell’esercizio delle funzioni”, l’uso
improprio dell’istituto ha talvolta consentito la proroga sine die (= scadenza a una data indefinita :
cioè i titolari scaduti continuavano a esercitare funzioni amministrative talvolta anche per anni).
Perciò il legislatore ormai regola la prorogatio con la “nullità degli atti posti in essere dopo la
scadenza del mandato” e la Corte Costituzionale ha stabilito che la proroga non può spingersi oltre
i 45 giorni dalla scadenza del mandato.

 E passiamo ora alla DECORRENZA DEGLI EFFETTI DEL PROVVEDIMENTO : al


riguardo, il criterio da seguire è quello contenuto nell’art. 21-bis (introdotto nella L. 241 /
1990 dalla L. 15 / 2005) : questa norma – che si riferisce ai soli “provvedimenti limitativi
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della sfera giuridica dei destinatari” – dispone che “il provvedimento amministrativo
comincia a produrre i suoi effetti nei confronti dei destinatari dal momento della sua
comunicazione”. Quindi, l’“obbligo di comunicare ai destinatari il provvedimento” è una
condicio sine qua non, nel senso che senza la comunicazione il provvedimento non potrà
produrre effetti. Prima dell’entrata in vigore di questa disposizione, la comunicazione del
provvedimento all’interessato era solo la condizione per la decorrenza del termine di
impugnazione dell’atto davanti al giudice amministrativo. L’obbligo di procedere alla
comunicazione come “condizione di efficacia” era affermato solo per i c.d. “atti recettizi”
(atti che determinano l’insorgenza di obblighi in capo ai destinatari).
Dopo la riforma del 2005, la “mancata comunicazione del provvedimento” determina la sua
INEFFICACIA, ma non la sua invalidità : essa infatti agisce in termini di “mancata
produzione degli effetti” e di “mancata decorrenza dei termini per l’impugnazione”. L’art.
21-bis tuttavia limita l’obbligo di comunicazione ai provvedimenti limitativi della sfera
giuridica dei privati : il legislatore ha così voluto escludere dall’ambito di operatività
dell’art. 21-bis i “provvedimenti favorevoli per i destinatari”, perché per questi non si pone
un problema di tutela nei confronti dell’azione amministrativa. Tuttavia, questa conclusione
del legislatore non può essere condivisa, poiché il provvedimento favorevole al destinatario
può comunque incidere negativamente sulla sfera giuridica di terzi (pensiamo a
un’autorizzazione o una concessione che producano, nei confronti dei “terzi
controinteressati”, effetti pregiudizievoli; o, ancora, a un’altra categoria di “terzi” : cioè i
soggetti interessati a ottenere la stessa concessione rilasciata a un privato). Ciò ci fa
comprendere che i “provvedimenti favorevoli” se, da un lato, ampliano la sfera giuridica di
un soggetto (il destinatario), dall’altro impoveriscono la sfera giuridica di altri soggetti, che
proprio per questo motivo devono essere qualificati, anch’essi, come destinatari del
provvedimento : con ciò si vuol dire, in altri termini, che anche i “provvedimenti favorevoli”
sono soggetti all’obbligo di comunicazione ex art. 21-bis (poiché è necessario considerare
non solo il loro profilo ampliativo, ma anche quello limitativo).
Inoltre in dottrina si discute se l’efficacia del “provvedimento con cui l’amministrazione
nega un’istanza volta ad ampliare la sfera giuridica dell’interessato” sia subordinata alla
“comunicazione” allo stesso : al riguardo è preferibile l’orientamento che estende l’obbligo
di comunicazione anche ai dinieghi di provvedimenti ampliativi.
Ad ogni modo, la regola dell’“obbligo di comunicazione come condizione di efficacia”
subisce due eccezioni : 1) la prima, a carattere automatico, riguarda i PROVVEDIMENTI
CAUTELARI E URGENTI, che sono immediatamente efficaci, anche prima che il
destinatario ne abbia ricevuto comunicazione (si pensi ad es. all’ordine di demolizione di un
muro pericolante); 2) la seconda eccezione è rimessa invece a una scelta
dell’amministrazione, che ha la possibilità di inserire nel provvedimento una MOTIVATA
CLAUSOLA DI EFFICACIA IMMEDIATA (purchè, però, non si tratti di “provvedimenti
sanzionatori”).
Di norma la comunicazione va fatta a ciascun destinatario. Ove questo sia irreperibile,
vanno applicate le apposite norme del codice di procedura civile. Nel caso in cui, invece, il
numero dei destinatari sia tale da rendere impossibile o estremamente gravosa la
comunicazione personale, questa ha luogo con forme idonee di pubblicità (ricorso alla
stampa, pubblicazione in gazzette ufficiali, ecc.). Quanto, invece, alle forme della

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comunicazione, l’amministrazione è libera di individuare quelle che reputa più adeguate


(anche il servizio postale o la telematica).
Una particolare attenzione deve essere dedicata al rapporto tra l’EFFICACIA DEL
PROVVEDIMENTO e la sua ESECUZIONE : si tratta di un rapporto disciplinato dall’art.
21-quater della L. 241 / 1990, che stabilisce che : “I provvedimenti amministrativi efficaci
sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal
provvedimento stesso” (in tal modo, il legislatore ha voluto evitare un distacco tra l’efficacia
del provvedimento e la sua esecuzione). Anche questa disposizione, però, conosce delle
eccezioni, poiché vi sono provvedimenti la cui efficacia è sottoposta a “condizione
sospensiva” o a “termine iniziale” : 1) il TERMINE INIZIALE indica un preciso momento
futuro a partire dal quale si produrranno gli effetti del provvedimento;
2) può operare invece come CONDIZIONE SOSPENSIVA il “controllo di legittimità” a cui
è sottoposto il provvedimento amministrativo, poiché solo all’esito positivo della verifica lo
stesso potrà esplicare efficacia. In tal caso, il provvedimento esplicherà i suoi effetti in modo
retroattivo (ossia dal perfezionamento dell’atto).
E chiudiamo proprio riservando qualche accenno alla possibilità, per il provvedimento
amministrativo, di far retroagire i propri effetti : di norma, il provvedimento amministrativo
- stante il “principio di irretroattività degli atti giuridici” di cui all’art. 11 delle Preleggi, e
anche per tutelare la “buona fede” e il “legittimo affidamento” del destinatario di un
precedente provvedimento amministrativo - non può avere efficacia retroattiva (a meno che
non ci sia il consenso del destinatario del provvedimento o il provvedimento non finisca per
esplicare solo effetti favorevoli). Solo in questi casi è legittimata l’adozione di
PROVVEDIMENTI AD EFFICACIA ORA PER ALLORA (retrodatazione) : cioè atti che
avrebbero dovuto essere emanati in un determinato momento, ma che per ragioni diverse
non lo furono. In questi casi, l’amministrazione fa retroagire gli effetti di quei
provvedimenti al momento in cui gli stessi avrebbero dovuto prodursi, benchè l’atto sia stato
adottato solo in seguito. Infine, un’altra importante eccezione alla regola dell’irretroattività è
rappresentata dai “provvedimenti di secondo grado” (che infatti hanno “efficacia
retroattiva”).

*CONDIZIONE SOSPENSIVA = quella da cui dipende l’efficacia dell’atto.

*ATTI DI CERTAZIONE = “atti dichiarativi” che hanno la funzione di attribuire certezza legale ad un dato (un fatto, un
atto, una qualità, uno status, un rapporto). Non si limitano ad attribuire una qualità giuridica ad un’entità giuridica
esistente, ma creano essi stessi delle qualificazioni giuridiche (es. atti costitutivi di uno status).

5. L’efficacia soggettiva. L’EFFICACIA SPAZIALE, oltre ad individuare la


competenza degli enti pubblici, delimita anche l’ambito di soggettività passiva di riferimento.
Mentre il problema è modesto per i “provvedimenti amministrativi” (essendo in essi individuati i
destinatari ed essendo facilmente individuabili i terzi controinteressati), la situazione è più
complessa per gli “atti a contenuto normativo o generale” : questi ultimi hanno come destinatari
tutti quei soggetti che si trovano in rapporto giuridicamente rilevante con il territorio di
riferimento (così un divieto temporaneo di circolazione sul territorio comunale potrà riguardare

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indistintamente tutti gli automobilisti, non solo i residenti). Inoltre, il provvedimento


amministrativo può esprimere la sua efficacia riguardo sia a “figure soggettive individuali” che
“plurime” (private o pubbliche : infatti crescono le ipotesi di provvedimenti amministrativi che
hanno per destinatari altri soggetti pubblici). Proprio in relazione ai provvedimenti amministrativi
che si rivolgono a più soggetti, la dottrina distingue tra :

 L’“ATTO COLLETTIVO” : ha ad oggetto fatti relativi ad ordinamenti particolari o ad


uffici collettivi. Esso produce effetti non solo nei confronti della categoria di riferimento,
ma anche riguardo a ciascun appartenente alla stessa. Sta dunque a ciascuno di questi
soggetti (oltre che ai rappresentanti della categoria) poter reagire attraverso l’esercizio di
un’apposita azione, giudiziaria o meno.
 L’“ATTO PLURIMO” : è quello con cui in un’unica dichiarazione si raccolgono atti rivolti
a più soggetti. Perciò esso è scomponibile in più atti, ciascuno diretto ad uno o più soggetti.
Ne deriva che ciascuna parte interessata potrà reagire proponendo azioni contro quella parte
di provvedimento che colpisce la sua sfera giuridica.
 L’“ATTO GENERALE” : è invece quell’atto che ha come destinatari gruppi indeterminati
di soggetti, a prescindere dall’appartenenza degli stessi a una stessa categoria. Ne discende
che ciascuno dei suoi destinatari è legittimato a reagire allo stesso, se leso in una posizione
giuridica soggettiva di cui sia titolare.

DESTINATARI DELL’ATTO, ai sensi dell’art. 7 della L. 241 / 1990, sono “tutti i soggetti nella
cui sfera giuridica l’atto è destinato direttamente a produrre effetti”, nonché “coloro che sono stati
legittimati ad intervenire nel relativo procedimento amministrativo”. Tuttavia la giurisprudenza non
riconosce la legittimazione all’azione giurisdizionale a coloro che, pur avendo partecipato al
procedimento amministrativo, non vantano comunque un interesse diretto, personale e attuale.

6. L’efficacia oggettiva. Il provvedimento amministrativo può avere EFFICACIA


COSTITUTIVA, MODIFICATIVA, ESTINTIVA o DICHIARATIVA. Gli atti prodromici (= che
vengono prima) al provvedimento hanno solo una “funzione di supporto”, un effetto strumentale
limitato a situazioni procedimentali. Poiché essi hanno luogo nella fase istruttoria del procedimento,
non sono definitivi (quindi lesivi), poichè il provvedimento finale può discostarsene motivatamente
(a meno che non si tratti di un’attività vincolata e obbligatoria, nel qual caso l’istruttoria, una volta
portata a termine, non lascia all’amministrazione alcun margine di valutazione o di decisione). Sotto
il profilo oggettivo, il provvedimento può produrre EFFETTI REALI (= se l’atto che ha per oggetto
la trasmissione o la costituzione di un diritto reale, ad es. la proprietà) e OBBLIGATORI (= fanno
sorgere un rapporto obbligatorio) : quanto ai primi, si consideri la costituzione della nuova proprietà
dopo l’espropriazione di un bene; quanto agli effetti obbligatori, si pensi all’imposizione di un
tributo. Sempre dal punto di vista dell’ “efficacia oggettiva”, poi – accanto ai “provvedimenti
ampliativi della sfera giuridica dei destinatari” (autorizzazioni, concessioni) – meritano attenzione :

 i “provvedimenti amministrativi diretti alla risoluzione di determinate controversie” (c.d.


“decisioni amministrative contenziose”);
 i “provvedimenti amministrativi deputati ad irrogare sanzioni amministrative”;

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 i “provvedimenti amministrativi che conferiscono qualita’ giuridiche a cose o persone” o


quelli che “costituiscono certezze legali” (c.d. “atti di certazione”).

7. La sospensione dell’efficacia. La riforma della L. 241 / 1990 ha cristallizzato in


un’apposita norma un principio di origine giurisprudenziale : la “SOSPENSIONE
DELL’EFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO”. L’art. 21-quater, 2°comma
dispone che “L’efficacia del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e
per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato o da un altro organo
previsto dalla legge. La sospensione va accompagnata dall’indicazione esplicita del termine, che è
prorogabile o differibile per una sola volta, ma anche riducibile per sopravvenute esigenze”.
Prima della novella della L. 241 / 1990, il potere di sospensione dei provvedimenti amministrativi
rientrava tra i c.d. POTERI IMPLICITI (ossia quelli insiti nella stessa attribuzione di una funzione
pubblica). Ma analizziamo nel dettaglio la disposizione : il limite rigoroso individuato dall’art. 21-
quater, 2°comma riguarda l’“ORGANO COMPETENTE”, che deve coincidere con quello che ha
emanato l’atto o con un altro organo espressamente previsto dalla legge.
La discrezionalità dell’amministrazione sui “presupposti” e sulla “durata della sospensione” è
ampia : i PRESUPPOSTI sono costituiti da «gravi ragioni». Le «gravi ragioni» che legittimano la
sospensione si riferiscono sia a “valutazioni di opportunità operate dall’amministrazione”, sia a
“valutazioni di legittimità di un provvedimento”. La DURATA DELLA SOSPENSIONE si correla
al «tempo strettamente necessario», anche se l’amministrazione può comunque disporre – anche se
per una sola volta – la proroga, il differimento o la riduzione del termine per “esigenze
sopravvenute”. Ma in ogni caso, l’amministrazione, nel procedere alla sospensione dell’efficacia
del provvedimento, è tenuta a indicare il termine finale. La P.A. ha ormai un potere generale di
sospensione dei propri provvedimenti, ma il “procedimento volto all’adozione della sospensione
dell’efficacia di un provvedimento” è assistito comunque da tutte le garanzie previste dall’art. 7
della L. 241 / 1990 : ciò significa che l’amministrazione ha l’obbligo di comunicare l’avvio del
procedimento (a meno che non si tratti di un “provvedimento vincolato” o siano espressamente
indicate nel provvedimento finale le esigenze di celerità che giustificano la mancata comunicazione
di avvio del procedimento).

*DIFFERIRE = rimandare;

*ART. 7, 2°comma = “Nelle ipotesi di comunicazione di avvio del procedimento, resta salva la facoltà
dell’amministrazione di adottare, anche prima dell’effettuazione della comunicazione, provvedimenti
cautelari”.

8. L’esecutorietà del provvedimento amministrativo. Con il


provvedimento amministrativo l’autorità dispone qualcosa, un qualcosa che di solito richiede
un’attività materiale ulteriore (da parte del privato o della stessa autorità). Volendo esemplificare,
in relazione a una prima serie di casi, il privato – dopo l’emanazione del provvedimento – ha la
possibilità di porre in essere una determinata attività : ad es., una volta che gli è stata rilasciata
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un’autorizzazione, il privato può svolgere un’attività che in precedenza gli era vietata (costruire una
casa, ecc.). In altri casi, invece, egli non ha la facoltà, ma l’obbligo di porre in essere un’attività (ad
es. quando gli viene notificato un ordine di demolizione) : in questi casi, se il privato non ottempera,
l’amministrazione può imporre l’ “esecuzione coattiva dell’obbligo inadempiuto”, senza necessità
di rivolgersi al giudice, e ciò in forza di un “principio di esecutorietà degli atti amministrativi”. L’
“ESECUTORIETA’” è l’attitudine di un provvedimento ad essere portato in esecuzione anche
contro la volontà del soggetto obbligato e senza necessità di una pronuncia del giudice.
L’esecutorietà, però, non è una caratteristica di tutti i provvedimenti amministrativi, ma integra uno
specifico “potere che la legge può attribuire all’amministrazione nel regolamentare alcuni
provvedimenti”. Il “principio di legalità” esclude, insomma, che il POTERE DI ESECUZIONE
COATTIVA possa ritenersi compreso nel POTERE DI ADOZIONE DEGLI ATTI.
L’art. 21-ter della L. 241 / 1990 stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni possono imporre
coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti solo nei casi e con i modi previsti
dalla legge, indicando ai destinatari tempi e modalità esecutive” (
= insomma l’ “esecuzione coattiva da parte dell’amministrazione” può essere imposta solo nelle
ipotesi e con i modi previsti dalla legge). Quindi l’“esecutività del provvedimento” presuppone la
sussistenza di un “obbligo”, ed è proprio in relazione al contenuto di quest’obbligo imposto al
destinatario del provvedimento che distinguiamo le seguenti “attività esecutive” :

 per gli OBBLIGHI DI FARE INFUNGIBILI (cioè, che necessitano di un’azione


dell’obbligato) l’amministrazione, nei casi previsti dalla legge, è autorizzata a procedere in
modo coercitivo (ad es., nel caso dell’espulsione del cittadino extracomunitario che si trovi
illegalmente nel territorio dello Stato). In ogni caso, trattandosi di forme di coazione fisica
sulla persona, il ricorso a questi strumenti è eccezionale e viene coinvolta anche l’autorità
giudiziaria;
 per gli OBBLIGHI DI FARE FUNGIBILI, l’amministrazione può procedere d’ufficio (es. :
se il proprietario non procede alla demolizione di un proprio edificio abusivo,
l’amministrazione comunale può, a spese dell’obbligato, sostituirsi allo stesso, eseguendo la
demolizione);
 per gli OBBLIGHI DI CONSEGNA DI UNA COSA, l’amministrazione procede
all’apprensione coattiva del bene;
 per gli OBBLIGHI DI DARE (relativi a somme di denaro), infine, l’amministrazione
procede ad “esecuzione forzata”, mediante apposita iscrizione nei ruoli esattoriali.

*APPRENSIONE = prendere;

*DIFFIDA = formale avvertimento ad un soggetto ad ottemperare ad un obbligo;

*RUOLO ESATTORIALE = atto emesso dalla P.A. contenente l’elenco delle somme dovute per ciascun
contribuente sulla base di un titolo esecutivo. E’ uno strumento con cui la P.A. attiva un “procedimento di
riscossione coatta del credito” vantato nei confronti del contribuente.

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-CAPITOLO 3. L’INVALIDITA’ DEL PROVVEDIMENTO


AMMINISTRATIVO-

1. Validità e invalidità in diritto amministrativo. VALIDITA’ e


INVALIDITA’ indicano una qualità di un oggetto (una res, un atto, una norma) che scaturisce da un
giudizio di conformità di tale oggetto con un modello di riferimento : pertanto, se il giudizio di
conformità è positivo, si avrà una fattispecie VALIDA, se è negativo avremo una fattispecie
INVALIDA. La “validità”, quindi, è la conformità dell’atto al paradigma normativo di riferimento.
Dal punto di vista giuridico, avremo un atto valido o invalido a seconda che ci sia conformità o
difformità dal modello legale. Il “provvedimento amministrativo” è l’oggetto su cui deve essere
appuntato il “giudizio di conformità”. Possono poi aversi, all’interno della più ampia figura
dell’INVALIDITA’, ipotesi di “nullità” e di “annullabilità”.

2. L’annullabilità. Il sistema delle INVALIDITA’ DI DIRITTO AMMINISTRATIVO si è


formato in sede giurisprudenziale, dal momento che la relativa disciplina (processuale) era
contenuta in origine in due disposizioni processuali : l’art. 26 del “t.u. del Consiglio di Stato” (che
individuava i 3 vizi di “incompetenza”, “eccesso di potere” e “violazione di legge”, poi racchiusi
dalla dottrina nella categoria dell’ “ILLEGITTIMITA’”) e l’ art. 45 del t.u. del Consiglio di Stato
(che prevedeva l’annullamento dell’atto invalido-illegittimo impugnato). Recepito questo
orientamento, attualmente il nostro sistema prevede - all’art. 21-octies della L. 241 / 1990
(introdotto dalla L. 15 / 2005) e, dunque, anche sul piano sostanziale - tre “vizi”, cioè tre forme di
invalidità : “incompetenza”, “violazione di legge” ed “eccesso di potere”, ma unico è il regime che
li accomuna : quello, cioè, dell’annullabilità. L’ILLEGITTIMITA’ indica lo stato viziato del
provvedimento, mentre l’ANNULLABILITA’ è la conseguenza giuridica dell’illegittimità.
L’“atto annullabile” è l’atto che, pur essendo invalido, produce i suoi effetti fino a quando non
venga annullato (dal giudice amministrativo) : ciò significa che in quest’intervallo di tempo l’atto
invalido produce i suoi effetti come se fosse valido; ed è proprio per questo che tecnicamente si
parla (il relazione al “provvedimento amministrativo invalido”) del c.d. modo dell’equiparazione
degli effetti dell’atto invalido a quelli dell’atto valido. In questo modo (optando, cioè, per
l’annullabilità), il legislatore ha voluto contemperare le ragioni del cittadino con quelle
dell’amministrazione : dando al primo il potere di impugnare l’atto invalido, ma allo stesso tempo
mantenendo l’efficacia dell’atto fino alla pronuncia del giudice sull’accertamento dell’invalidità.
Se, viceversa, il legislatore avesse optato per il regime della “nullità” (c.d. atto privo di effetti), il
privato avrebbe potuto sottrarsi ai comandi derivanti dall’atto o avrebbe potuto considerarlo
inesistente. Ciononostante, il nostro ordinamento conosce delle “specifiche ipotesi di nullità” (ad
esempio, l’atto emesso in carenza di potere).
Ma tornando all’annullabilità, un’altra precisazione deve essere dedicata al “modo
dell’equiparazione” : la possibilità, riconosciuta al provvedimento invalido, di spiegare effetti
giuridici fino all’eventuale pronuncia del giudice amministrativo è stata usata dalla dottrina per
superare la nozione di “invalidità del provvedimento amministrativo” (in modo da evitare una
sovrapposizione con la categoria dell’“invalidità”, propria del contratto di diritto privato); così
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facendo, la dottrina è giunta alla conclusione che il riconoscimento dell’ idoneità del provvedimento
amministrativo invalido a spiegare effetti giuridici trova la propria ragion d’essere sotto un “profilo
funzionale” (e non strutturale, come avviene per il contratto), in virtù del fatto che il “giudizio di
validità del provvedimento” deve avere come punto di riferimento l’idoneità del comportamento
posto in essere dall’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico. Di conseguenza, basando il
giudizio sul piano della “carenza funzionale”, a scapito di quella “strutturale” (vizi della volontà e
dell’esternazione), si è giunti a rifiutare la categoria dell’INVALIDITA’ (propria del contratto),
perché ritenuta poco aderente al modo di atteggiarsi del “potere amministrativo” : ecco perché in
dottrina si preferì parlare di ILLEGITTIMITA’ / ANNULLABILITA’ : “illegittimità” come vizio
tipico del provvedimento e “annullabilità” come la diretta conseguenza giuridica dell’illegittimità.
La novella del 2005 ha inserito nella L. 241 / 1990 un “Capo 4°-bis” (sull’ “efficacia e l’invalidità
del provvedimento amministrativo”).
L’art. 21-octies, 1°comma (secondo cui «è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza») elenca le CAUSE DI
ILLEGITTIMITA’ (ossia i vizi di violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza); le
CAUSE DI NULLITA’ sono invece elencate nell’art. 21-septies e le IPOTESI DI «NON
ANNULLABILITA’» nell’art. 21-octies, 2°comma.

3. Violazione di legge e incompetenza. La “violazione di legge” e l’


“incompetenza” indicano entrambi casi di difformità dell’atto rispetto alla disciplina normativa.

L’“INCOMPETENZA” deriva dalla violazione delle disposizioni normative (primarie o secondarie)


che assegnano poteri ad organi di un’amministrazione (intesa come “branca” o “ramo
amministrativo”). L’incompetenza è quindi una particolare ipotesi di “violazione di legge” che,
però, ha un rilievo preminente (pertanto ad essa non si può applicare l’art. 21-octies, 2°comma),
poichè il rispetto di queste norme è funzionale all’ordinato svolgimento delle funzioni
amministrative ed è una garanzia per i destinatari dell’atto. Inoltre, parte della giurisprudenza fa
rientrare nell’ambito dell’”incompetenza” anche i vizi relativi alla “struttura degli organi” (come
ad esempio, i vizi relativi al funzionamento degli organi collegiali).
L’INCOMPETENZA deve essere verificata con riferimento alla “branca amministrativa”.

La “VIOLAZIONE DI LEGGE” raccoglie ogni altra violazione di norme giuridiche (siano esse di
rango legislativo o di rango regolamentare). Dopo l’emanazione della L. 241 / 1990 alcune
violazioni (come quelle relative alla “motivazione” o agli “adempimenti procedimentali”), essendo
previste direttamente da norme scritte, sono transitate nella categoria della violazione di legge,
mentre prima rifluivano nell’ambito dell’ECCESSO DI POTERE (che consente un accertamento
del vizio non diretto, ma indiretto o sintomatico) : ciò allo scopo di assicurare loro una più efficace
tutela, dal momento che, in tal caso, il giudice (o la stessa amministrazione in sede di riesame) può
confrontare la fattispecie concreta del provvedimento con la fattispecie normativa e, in conseguenza
di tale confronto, ogni difformità dalla fattispecie legale sarà un “vizio di legittimità”. Però, questa
finalità di tutela si è dimostrata solo apparente : infatti la violazione di legge non comporta sempre
l’“annullamento del provvedimento”. Infatti, ai sensi dell’art. 21-octies, 2°comma “Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
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non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. In secondo luogo, “Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Pertanto, i vizi
che, passando dall’eccesso di potere alla violazione di legge, avrebbero dovuto avere una tutela più
ampia, in realtà sono rimasti com’erano : solo che non sono più considerati come “sintomi di
eccesso di potere”, ma come “sintomi di violazione di legge”.

4. Eccesso di potere. La nozione di ECCESSO DI POTERE si è formata nel tempo,


attraverso un processo evolutivo che ha interessato non solo il settore legislativo, ma anche quello
dottrinario e giurisprudenziale. Nell’idea originaria del legislatore del 1889, l’eccesso di potere
indicava lo STRARIPAMENTO DI POTERE (nell’adozione del provvedimento, l’amministrazione
superava i limiti del potere che la legge le riconosceva e si spingeva in aree riservate ad altri
poteri dello Stato). Fin dalle prime decisioni, però, il giudice amministrativo, discostandosi
dall’orientamento del legislatore, ne individuò il nucleo nello SVIAMENTO DI POTERE (l’utilizzo
del potere amministrativo per scopi e finalità diverse da quelle stabilite dalla legge). Questa svolta,
operata dal Consiglio di Stato, consentì di approfondire ulteriormente la nozione di “eccesso di
potere”. Sulla scia delle suggestioni privatistiche ancora forti all’inizio del ‘900, l’eccesso di potere
fu accostato, da una parte della dottrina, al VIZIO DELLA VOLONTA’ (cioè il vizio fu inteso
come una patologia della formazione del volere dell’amministrazione); un’altra parte della dottrina
invece equiparò l’eccesso al VIZIO DELLA CAUSA DELL’ATTO ( cioè il vizio fu inteso come
una patologia capace di inficiare il perseguimento dell’interesse pubblico curato
dall’amministrazione).
Successivamente l’eccesso di potere fu inteso come VIZIO DELLA FUNZIONE (ossia come un
“vizio dei poteri vincolati nel fine da raggiungere”, cioè una forma di invalidità correlata all’uso
scorretto del potere discrezionale), il cui accertamento implicava un confronto tra il “fine
perseguito” in concreto dall’amministrazione e il “fine da perseguire” imposto dalla legge
all’amministrazione. Questo confronto, però, non era facile, poiché l’accertamento del vizio non
era conoscibile ex se (direttamente) – attraverso il raffronto tra fattispecie astratta (scopi indicati
dalla legge) e fattispecie concreta (fini perseguiti dall’amministrazione), ma al contrario solo
attraverso dei “sintomi”. Si affermò, quindi, la “natura indiretta del vizio”, conoscibile non
direttamente (attraverso il mero riscontro tra fattispecie astratta e fattispecie concreta), ma solo
attraverso “sintomi”, detti appunto «figure sintomatiche», che facevano presumere l’esistenza
dell’eccesso. In tal modo, “sintomi dell’eccesso di potere” furono considerati :

 la contraddittorietà tra due atti del procedimento o tra due provvedimenti con lo stesso
oggetto;
 l’illogicità (= contraddizione) interna allo stesso provvedimento (tra motivazione e
dispositivo);
 la disparità di trattamento, il travisamento dei fatti, l’incompletezza dell'istruttoria e la
manifesta ingiustizia.

Successivamente l’evoluzione dell’eccesso di potere è proseguita lungo diverse direttrici :

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1) Una prima linea evolutiva, facendo leva sui cambiamenti che negli ultimi decenni hanno
interessato le “figure sintomatiche” (tradizionalmente intese come cognizione indiretta
dell’eccesso), ha assegnato al vizio in esame una diversa natura : esemplare, al riguardo, è l’ipotesi
della “disparità di trattamento” : essa fu introdotta tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere
perché si riteneva che il provvedimento fosse viziato qualora la pubblica amministrazione avesse
adottato misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna giustificazione (ad es. due impiegati
incorrono nella stessa infrazione – furto di francobolli – ma mentre ad uno viene inflitta la sanzione
disciplinare più lieve, all’altro viene inflitta quella più grave). In un secondo momento, però, la
giurisprudenza portò avanti un diverso ragionamento : il fatto che un provvedimento abbia un
contenuto diverso da quello di un provvedimento precedente non comporta necessariamente che
esso sia illegittimo; potrebbe infatti essere illegittimo il provvedimento precedente. Quindi
l’indagine comparativa è irrilevante, perché ciò che conta – ai fini della verifica della “disparità di
trattamento”, è verificare se il provvedimento posto al vaglio del giudice sia o meno conforme al
diritto (prescindendo da ciò che l’amministrazione abbia ritenuto di fare in un’altra occasione).
In questa prospettiva, quindi, è cambiata la “natura” dell’eccesso di potere che, da vizio ad
accertamento sintomatico (o a cognizione indiretta : ossia la cui conoscenza si può raggiungere solo
attraverso sintomi) si è andato trasformando in “vizio derivante dalla violazione di principi
generali” (quasi sempre di origine giurisprudenziale), molto simile in ciò alla violazione di legge :
la differenza sta nel fatto che, mentre la violazione di legge deriva dall’inosservanza di regole
scritte, l’eccesso di potere si ha quando la disciplina violata va ricavata da principi che (anche se
scritti in testi legislativi) devono essere resi regole concrete dal giudice. Ad esempio, il “principio di
proporzionalità” (= il perseguimento dell’interesse pubblico col minimo nocumento privato)
impedisce di espropriare 10 ettari se per realizzare l’opera pubblica ne serve uno.
2) Una seconda linea evolutiva, invece, ha evidenziato il fatto che la figura dell’ “eccesso di potere”
contiene in sé delle ipotesi di “violazioni a cognizione non sintomatica”, ma diretta e, dunque,
annoverabili nell’ambito della “violazione di legge”. Esemplare, al riguardo, è la figura dello
“SVIAMENTO DI POTERE” : si tratta di stabilire se lo scopo concretamente perseguito con il
provvedimento è quello indicato dalla legge o è diverso. Si tratta di una valutazione delicatissima
che può arrivare fino all’accertamento delle «intenzioni» effettive dell’amministrazione.
Un’altra figura transitata dall’area dell’accertamento sintomatico a quella dell’accertamento diretto
(ossia dall’eccesso di potere alla violazione di legge) è il “TRAVISAMENTO DEI FATTI” : in
passato, ritenendosi che il giudice amministrativo non poteva accedere alla conoscenza diretta dei
fatti (ma li poteva conoscere solo attraverso ciò che gli veniva «raccontato» dall’amministrazione), i
provvedimenti fondati su presupposti di fatto erronei venivano annullati non per violazione di
legge, ma in quanto - travisando i fatti - l’amministrazione aveva esercitato male il suo potere.
Questo pensiero, però, oggi non può essere più condiviso, perché, dopo le recenti riforme che hanno
interessato il processo amministrativo, il giudice amministrativo può avere conoscenza diretta dei
fatti, senza il tramite dell’amministrazione. Esempio : l’amministrazione ritiene che un palazzo sia
alto 10 metri (invece dei 9 consentiti) e ne ordina la demolizione; tuttavia se il privato ricorrente
riesce a provare in giudizio che il palazzo è alto 9 metri, si ottiene l’annullamento del
provvedimento di demolizione per “violazione di legge”. Allora, in questo caso non ci troviamo di
fronte a un vizio sintomatico (cattivo esercizio del potere), ma ad un vero e proprio vizio di
“violazione di legge”, perché l’errore di fatto in cui è incorsa l’amministrazione è accertato dal
giudice direttamente nel processo : di conseguenza, non si ragiona più secondo la logica del

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travisamento dei fatti (secondo cui la valutazione ha ad oggetto non i fatti, ma il modo in cui
l’amministrazione li ha acquisiti e valutati : il privato doveva chiedere al giudice di invitare
l’amministrazione a rappresentare il modo in cui aveva assunto i fatti nell’istruttoria
procedimentale), ma ora il privato può rappresentare egli stesso i fatti in giudizio.

5. Le ipotesi di nullità. Tra le FORME DI INVALIDITA’ DEL PROVVEDIMENTO,


accanto alla tradizionale figura della “illegittimità / annullabilità”, la L. 15 / 2005 ha introdotto la
figura della “nullità” (recependo, in tal modo, sia l’orientamento della giurisprudenza dominante,
sia di quella parte della dottrina favorevole a un più cospicuo inserimento delle categorie
privatistiche all’interno del fenomeno amministrativo). L’introduzione di questa nuova figura è
abbastanza recente : per lungo tempo, infatti, la categoria della “nullità” è stata vista con sfavore,
perché ritenuta estranea al “sistema delle invalidità del diritto amministrativo”, tant’è che il quadro
di quest’ultimo è stato sempre dominato dalla presenza dei 3 vizi di “incompetenza”, “eccesso di
potere” e “violazione di legge” (raccolti nella categoria dell’illegittimità) e dalla presenza di un
giudice amministrativo (dotato di poteri di annullamento). Perciò, a causa dell’attaccamento all’idea
dell’annullabilità come stato viziato tipico e unico del provvedimento amministrativo, la
giurisprudenza rifiutava l’ammissibilità di ipotesi di “nullità”.
Tra l’altro, questo orientamento è stato anche confermato in una nota sentenza delle sezioni unite
della Cassazione del 1949 : in questa pronuncia infatti la NULLITA’ è stata usata dai giudici non in
“veste sostanziale”, ma per scopi processuali (cioè come elemento necessario a stabilire il riparto
di giurisdizione tra il “giudice amministrativo” e il “giudice ordinario”, e per ampliare l’ambito
della giurisdizione del giudice ordinario). Infatti il “criterio di riparto della giurisdizione” si basava
sulla distinzione tra “carenza” (cioè inesistenza del potere, con giurisdizione del giudice ordinario)
e “cattivo esercizio del potere” (con giurisdizione del giudice amministrativo) : la distinzione si
basava sulla differenza tra “provvedimenti idonei a degradare il diritto soggettivo in interesse
legittimo” (posti sotto la giurisdizione del giudice amministrativo) e “provvedimenti inidonei a
degradarlo” (posti sotto la giurisdizione del giudice ordinario). Il mancato verificarsi della
degradazione, quindi, (e la sopravvivenza del diritto soggettivo) lasciava inalterata la giurisdizione
del giudice ordinario.
Successivamente abbiamo le prime ipotesi testuali : il legislatore vi ha fatto ricorso soprattutto nella
“materia del pubblico impiego” (ove risultano nulle le nomine avvenute senza previo concorso o gli
incarichi conferiti da una P.A. a un dipendente di un’altra amministrazione senza l’autorizzazione
dell’ente di appartenenza); o per quanto riguarda il “regime degli organi in prorogatio”
(disponendosi la nullità di tutti gli atti adottati da organi la cui nomina sia scaduta, salvo quelli di
ordinaria amministrazione o quelli urgenti adottati nel periodo di 45 giorni di proroga dei poteri);
nonché in materia di “interpello del contribuente” (ossia il diritto del contribuente di chiedere
indicazioni all’amministrazione sull’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e
personali), prevedendosi che qualsiasi atto emanato in difformità dalla risposta è nullo.
Davanti al crescente utilizzo, da parte del legislatore, di tali formule, l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato (con varie sentenze del 1992) ha finalmente riconosciuto l’esistenza, nel nostro
ordinamento, di ipotesi di “provvedimenti nulli” cui applicare, data l’assenza di una specifica
regolamentazione, la disciplina del codice civile : si tratta di casi in cui la violazione commessa
inciderebbe su interessi pubblici di primaria rilevanza, per cui non ci sarebbero “soggetti legittimati
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all’impugnazione degli atti” (come avviene invece in regime di annullabilità). In questo modo,
quindi, è stata eliminata la possibilità di condizionare l’eliminazione dell’atto nullo all’attivazione
di un interesse di parte (proprio del regime di annullabilità) ed è stata prevista, sulla base della
disciplina codicistica, l’impossibilità – per il provvedimento amministrativo nullo – di produrre
qualsiasi effetto giuridico (risultando, quindi, insanabile).
Degli sviluppi della giurisprudenza si è fatto carico, di recente, il legislatore, che ha introdotto nella
L. 241 / 1990 una disposizione di carattere generale sulla “NULLITA’ DEL
PROVVEDIMENTO” : l’art. 21 septies (rubricato “nullità del provvedimento” e introdotto dalla L.
15 / 2005), che stabilisce : “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.
L’art. 21-septies individua, quindi, le ipotesi di nullità nella mancanza degli elementi essenziali, nel
difetto assoluto di attribuzione, nel fatto che il provvedimento sia stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi previsti dalla legge.

 la MANCANZA DEGLI ELEMENTI ESSENZIALI corrisponde, a ben vedere, alla


“mancanza dei requisiti essenziali, che rende nullo il contratto” (ex art. 1325 e 1418 c.c.); a
differenza dello schema civilistico, però, (che fissa i requisiti essenziali del contratto), nel
diritto amministrativo manca una norma che disciplini la struttura del provvedimento e che
preveda i suoi elementi essenziali, quindi non è facile stabilire quando l’atto è nullo per
mancanza di un elemento essenziale. E allora in giurisprudenza sono state ricondotte alla
categoria della “NULLITA’ STRUTTURALE” le ipotesi di : 1) indeterminatezza,
impossibilità ed illiceità del contenuto del provvedimento; 2) difetto o illiceità della causa
(intesi come mancata rispondenza dell’atto all’interesse pubblico tutelato); 3) le patologie
relative al soggetto; 4) la mancanza della volontà dell’amministrazione (ad es. violenza
fisica sul funzionario o quando la volontà non si è formata liberamente, ma in ambito
collusivo penalmente rilevante); 5) il difetto della forma essenziale del provvedimento (si
pensi, ad es., alla mancata verbalizzazione delle decisioni degli organi collegiali); 6) e infine
l’inesistenza dell’oggetto (il bene su cui cadono gli effetti dell’atto).
 Con il secondo requisito, quello del DIFETTO ASSOLUTO DI ATTRIBUZIONE (o
incompetenza assoluta), il legislatore ha recepito la figura della “carenza di potere” (coniata
dalla giurisprudenza allo scopo di risolvere il riparto di giurisdizione); tuttavia, la
consacrazione legislativa di questa figura ha finito per creare un particolare problema
interpretativo, dal momento che in dottrina ci si è chiesti se il vizio di “difetto di
attribuzione” sia così diverso dal vizio di “incompetenza” (o incompetenza relativa) da
meritare una disciplina diversa dall’annullabilità. Il DIFETTO ASSOLUTO DI
ATTRIBUZIONE ricorre quando il potere non sussiste in capo ad una determinata
autorità. L’INCOMPETENZA ASSOLUTA, da cui discende la nullità dell’atto, si
determina quando l’organo amministrativo emana un atto in una materia sottratta alla
competenza amministrativa e riservata ad un altro potere dello Stato (straripamento di
potere). Si ha anche quando l’organo amministrativo emana un atto riservato alla
competenza di un settore dell’amministrazione completamente diverso (difetto di
attribuzione).
L’incompetenza è “assoluta” se l’organo che emana l’atto non ha assolutamente la
competenza per emanarlo, in quanto si tratta di un organo appartenente a un potere o
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comunque a un settore dell’amministrazione pubblica completamente diversi (si pensi, ad


esempio, ad una sentenza emanata da un Ministro). L’INCOMPETENZA è RELATIVA,
quando l’organo che emana l’atto, pur facendo parte del settore dell’amministrazione
competente per quel tipo di materia, non è legittimato all’emanazione dell’atto. Quindi il
“difetto assoluto di attribuzione” ricorre quando il potere non sussiste in capo a una
determinata autorità . Il vizio di “incompetenza”, invece, va ad intaccare solo un ramo o
una branca dell’amministrazione. Vanno ricondotte a ipotesi di mera “incompetenza”,
quindi : 1) quando l’organo che ha adottato l’atto avrebbe comunque la competenza a
svolgere determinate funzioni nel settore in questione; 2) l’intervento di un diverso livello
territoriale di governo; 3) l’inosservanza della ripartizione di funzioni all’interno di una
branca organizzativa riconducibile all’amministrazione statale (ministero, agenzie, autorità
indipendenti); 4) o il mancato rispetto della distinzione tra organi di governo e organi
dirigenziali o tra responsabile del procedimento e organo competente all’adozione del
provvedimento.
Il “difetto assoluto di attribuzione” equivale alla carenza di potere in astratto, che ricorre
quando la P.A. esercita un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce.
Invece ricade nell’ambito dell’annullabilità la carenza di potere in concreto, ossia la
“mancanza di un presupposto essenziale per l’esercizio del potere” (es.: la dichiarazione di
pubblica utilità rispetto all’espropriazione). In questo caso il potere esiste, ma viene
esercitato in assenza dei presupposti richiesti dalla legge.
 L’art. 21 septies, infine, prevede la nullità degli ATTI ADOTTATI IN VIOLAZIONE O
ELUSIONE DEL GIUDICATO : anche con questo requisito il legislatore ha recepito
l’ipotesi giurisprudenziale (trasformandola in regola giuridica) della “nullità degli atti
difformi da un giudicato”, qualora da quest’ultimo emerga l’impossibilità, per
l’amministrazione, di usufruire di margini di discrezionalità nella sua successiva azione :
perciò, questa ipotesi di nullità è stata prevista per assicurare al privato la possibilità di
ricorrere al c.d. “giudizio di ottemperanza” (senza imporre, quindi, un nuovo ricorso
ordinario di impugnazione), quando l’atto si pone integralmente in contrasto con il
precedente giudicato.
 L’ultima categoria di atti nulli abbraccia, infine, i “casi espressamente previsti dalla legge”
(ad es. la nullità degli atti posti in essere dopo la scadenza del periodo di prorogatio della
carica o le nullità delle assunzioni senza concorso, ecc.).

*Art. 1325 c.c. (Indicazione dei requisiti). “I requisiti del contratto sono:1) l'accordo delle parti; 2) la causa;
3) l'oggetto; 4) la forma, quando e' prescritta dalla legge a pena di nullita'”.

*Art. 1418 c.c. (CAUSE DI NULLITA' DEL CONTRATTO). “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga


diversamente(1).
Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e 
la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.”

*Art. 21-septies. (Nullità del provvedimento) “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato,
nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

*OTTEMPERANZA = permette alla parte vittoriosa di dare esecuzione a una sentenza del giudice amministrativo,
qualora la P.A. non abbia adempiuto spontaneamente.

*COLLUSIVO = intesa segreta con la parte avversa.

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*ELUDERE = evitare, sfuggire.

6. Vizi che non determinano l’annullabilità del provvedimento.


L’art. 21-octies, 2° comma prevede due ipotesi di «NON ANNULLABILITA’ DEL
PROVVEDIMENTO». Stabilisce, in primo luogo, che «Non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato». L’ipotesi riguarda i soli “PROVVEDIMENTI
VINCOLATI”. Stabilisce poi che il provvedimento amministrativo «non è annullabile per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Si tratta di due previsioni diverse, perché una si applica solo ai PROVVEDIMENTI VINCOLATI,
l’altra a TUTTI I PROVVEDIMENTI. Inoltre la prima dichiara inidonei a determinare
l’annullabilità TUTTI I VIZI FORMALI E PROCEDIMENTALI e la seconda prende in
considerazione il solo vizio della MANCATA COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL
PROCEDIMENTO. Infine nel primo caso, che il contenuto del provvedimento «non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato» deve essere “palese”, mentre nel secondo caso deve
essere dimostrato in giudizio dall’amministrazione.
Quindi la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti (se di natura vincolata),
nonché l’omessa comunicazione al privato dell’avvio dell’iter procedimentale (nella ipotesi di
esercizio anche di potere discrezionale) sono circostanze che rendono comunque il provvedimento
adottato immune da un sindacato giurisdizionale per “violazione di legge” : ciò qualora la P.A. adita
in giudizio renda palese o dimostri che, pur se fosse avvenuto il rispetto delle regole violate, “il
contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Già da tempo dottrina e giurisprudenza si erano mostrate sensibili al problema della non
annullabilità di provvedimenti caratterizzati dalla LEGITTIMITA’ SOSTANZIALE : la strada
seguita era quella del “raggiungimento dello scopo” (l’inosservanza della regola procedimentale
non aveva impedito comunque all’interessato di partecipare al procedimento). Veniva, quindi,
ridimensionata la rilevanza della “legittimità formale”.
La disposizione pone in ogni caso dei problemi in relazione ai «vizi formali e procedimentali» che
non determinano l’annullabilità del provvedimento, con particolare riferimento al requisito della
“partecipazione al procedimento amministrativo” : la partecipazione, infatti, è consacrata non solo
in norme interne di rango primario, ma anche a livello comunitario, ed è proprio per questo che la
dottrina ha sempre auspicato un’interpretazione restrittiva dell’art. 21 octies, 2°comma ed ha
precisato che :

 in relazione alla prima parte della norma non si pongono problematiche di particolare
rilievo, poiché essa si riferisce solo ai PROVVEDIMENTI VINCOLATI (la cui adozione
non lascia margini per la discrezionalità dell’amministrazione); parte della dottrina, però, ha
sottolineato che - anche con riferimento a questo tipo di provvedimenti - la partecipazione
del privato può svolgere un ruolo importante nell’iter decisionale dell’amministrazione
(come ad esempio nei casi in cui la situazione da accertare è complessa). Sicché in questi

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casi anche per i provvedimenti vincolati la partecipazione al procedimento può essere una
condizione di legittimità.
 in relazione, invece, alla seconda parte dell’art. 21 octies, 2°comma, la dottrina è apparsa
molto meno permissiva, affermando che l’«irrilevanza» della MANCATA
COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL PROCEDIMENTO per i provvedimenti discrezionali
risulta difficile da accettare, poichè dovrebbe essere dimostrata dal giudice sulla base di un
giudizio prognostico (che nella maggior parte dei casi è impossibile da porre in essere).

Un secondo problema affrontato dalla dottrina, poi, ha riguardato il fatto che la norma, usando
l’inciso “annullabilità”, senza alcun riferimento all’ “illegittimità”, ha fatto sorgere la necessità
di verificare se, in relazione all’ “invalidità amministrativa”, sia ancora possibile considerare l’
“illegittimità” come lo stato viziato tipico del provvedimento : in altri termini, ci si è chiesti se i
provvedimenti «non annullabili» ex art.21-octies, 2° comma debbano essere considerati
illegittimi o semplicemente irregolari. Infatti mentre alcuni ritennero che la norma
avesse semplicemente previsto la non annullabilità dei suddetti provvedimenti, altri spiegarono
il divieto di annullamento nei termini di una dequalificazione del vizio, nel senso che quando un
provvedimento, pur essendo stato emesso in violazione di norme procedurali e sulla forma degli
atti, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, il legislatore avrebbe degradato il vizio di
“violazione di legge” ad una mera irregolarità del provvedimento, coerentemente imponendo la
preservazione dell’atto, dato che la semplice irregolarità di un atto amministrativo, a differenza
della sua invalidità, non ne comporta l’annullamento. Bisogna, invece, concordare con chi
ritiene che l’ “illegittimità” sia il pilastro del sistema dell’invalidità amministrativa, e che i
provvedimenti non annullabili ai sensi del 2°comma siano illegittimi (così come lo sono quelli
ex art. 21 octies, 1°comma) e che, però, la loro illegittimità venga «superata» attraverso una
«sanatoria processuale». Questa soluzione trova conferma anche nel dato normativo : nell’art.
21-nonies (dedicato all’annullamento d’ufficio) si stabilisce, infatti, che il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell’art.21-octies può essere annullato d’ufficio, se ricorrono
determinate condizioni. Questo articolo menziona l’illegittimità del provvedimento e lo fa
rinviando all’art. 21- octies nella sua interezza, cioè sia al 1°comma (all’ipotesi di annullabilità)
sia al 2°comma (alle ipotesi di non annullabilità).
*Il dibattito si è accentrato sulla natura processuale o sostanziale della disposizione :
la giurisprudenza amministrativa ha sostenuto la natura processuale della disposizione, che comporta che: 1) la
disposizione non si occupa della disciplina sostanziale dell’atto amministrativo, che resta invalido, ma esclusivamente
della sanzione dell’annullamento, che rimane in concreto esclusa; 2) la disposizione è rivolta al giudice, e non
all’amministrazione, quindi il suo naturale terreno di elezione è il processo amministrativo; 3) la disposizione non
preclude, quindi, l’annullamento in autotutela, né la disapplicazione da parte del giudice ordinario, nè il risarcimento
del danno da provvedimento illegittimo.

*In sostanza, il provvedimento amministrativo che la norma vieta di annullare è e resta un atto invalido (poiché
comunque emesso in violazione di legge) ed il divieto di annullarlo trova la sua ratio non nel fatto che il legislatore lo
ritenga meritevole di essere conservato, ma nell’esigenza di evitare che, continuando i giudici ad annullare i
provvedimenti amministrativi per motivi puramente formali, prosegua il deleterio fenomeno del ricorso alla giustizia
amministrativa finalizzato all’inutile eliminazione di atti destinati ad essere riadottati con lo stesso contenuto.

*Art. 21-octies. (Annullabilità del provvedimento) 1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in


violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.

2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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7. Invalidità successiva e derivata. L’INVALIDITA’ può essere TOTALE o


PARZIALE. L’invalidità di una singola clausola o di singoli elementi del provvedimento è idonea
ad invalidarlo nella sua interezza solo se questi assumono un carattere essenziale (cioè quando
senza di essi il provvedimento non sarebbe stato adottato con quel contenuto). Tuttavia, l’
“invalidità parziale” va tenuta distinta da altri tipi di invalidità, come l’invalidità che colpisce i c.d.
“ATTI SCINDIBILI”, cioè atti formalmente unitari (come una graduatoria) ma sostanzialmente
plurimi, cioè con molti contenuti (ad es., i singoli giudizi espressi) e molti destinatari : in tal caso, il
“vizio che colpisce la singola porzione di atto” (nell’esempio il singolo giudizio) non inficia anche
altre valutazioni, a meno che nei confronti di quel singolo giudizio non venga sollevata una censura
procedimentale (ad esempio l’illegittima composizione della commissione) : in tal caso,
l’accoglimento di questa censura, investendo l’intero procedimento, travolgerà il provvedimento
nella sua totalità.
In secondo luogo, bisogna precisare che, in ossequio al principio “tempus regit actum”, la validità di
un provvedimento va verificata in base alla normativa vigente nel momento in cui il provvedimento
viene adottato. A questo punto, però, dobbiamo chiederci cosa accade al provvedimento in presenza
di “norme sopravvenute”. La risposta non è semplice, giacchè in proposito l’orientamento della
giurisprudenza non è univoco : infatti, anche se la giurisprudenza prevalente segue la tesi
dell’assoggettabilità delle fasi procedimentali (che hanno portato all’adozione del provvedimento)
alla “normativa precedentemente in vigore”, ci sono alcune pronunce secondo cui, al contrario, si
applicherebbero le norme sopravvenute : ciò si verificherebbe ad esempio quando, in esecuzione di
un giudicato, l’amministrazione debba adottare un nuovo provvedimento (in tal caso, infatti, la
disciplina da applicare non sarà quella vigente al momento dell’avvio del procedimento, ma quella
vigente al momento in cui la decisione del giudice viene notificata). Sembra, pertanto, non accolta
la tesi, avanzata in dottrina, per cui l’«apertura» del procedimento determinerebbe una
cristallizzazione delle regole applicabili all’intera fattispecie procedimentale.
Ora, tenuto conto di quanto detto (cioè che, di norma, la “legittimità” o l’ “illegittimità” del
provvedimento deve essere valutata in relazione al quadro normativo in vigore al momento in cui
questo viene adottato), è difficile configurare nel nostro ordinamento la categoria della c.d.
INVALIDITA’ SOPRAVVENUTA; nonostante ciò, però, dottrina e giurisprudenza sono riuscite a
individuare delle ipotesi in cui è possibile l’ “invalidazione successiva di un atto originariamente
valido” : si pensi ad esempio a una legge retroattiva che modifica i presupposti o i requisiti
dell’atto, o alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in base a cui l’atto era stato
adottato).
Infine, i provvedimenti possono essere legati tra loro da un “NESSO DI PRESUPPOSIZIONE” : in
tal caso occorre distinguere tra invalidità (derivata) ad effetto viziante e ad effetto caducante.
L’invalidità del PROVVEDIMENTO PRESUPPOSTO (= precedente), se è caducante, comporta
che l’atto successivo (= presupponente) venga travolto automaticamente dall’annullamento di
quello precedente. Perché ciò si verifichi occorre che tra i due atti ci sia un legame molto intenso
(ad es., atti della stessa fattispecie procedimentale). In tutti gli altri casi, in cui non c’è un legame
altrettanto stringente (= stretto), l’invalidità del provvedimento presupposto ha carattere solo
viziante.

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8.Irregolarità. Alcune ipotesi non danno luogo all’invalidità dell’atto, ma a una semplice
IRREGOLARITA’, ossia a una difformità che non comporta conseguenze sul “regime giuridico
dell’atto”, che resta valido. L’irregolarità può determinare altre conseguenze per gli autori dell’atto,
ad esempio di tipo sanzionatorio (disciplinare o risarcitorio). Si tratta della violazione di “regole
formali sulla corretta redazione dell’atto” (come quelle sulla data, sulla sottoscrizione non
decifrabile, o sull’omessa indicazione del responsabile del procedimento). In ossequio al principio
del “buon andamento dell’azione amministrativa”, l’irregolarità dovrebbe essere sanata per evitare
che ricadano sul cittadino gli effetti sfavorevoli di questi errori ascrivibili all’amministrazione.

9.Vizi di merito e principio di efficacia. Un’ultima questione che deve essere


affrontata è quella riguardante i c.d. “vizi di merito” (e, in particolare, la loro capacità di invalidare
o meno il provvedimento amministrativo). Il problema, che non ha trovato ancora un’adeguata
soluzione, si inquadra nell’ambito degli studi sulla rilevanza del PRINCIPIO DI EFFICACIA
(*corollario del principio di “buon andamento dell’azione amministrativa” ex art. 97 Cost. =
capacità di raggiungere l’obiettivo prefissato) e della sua collocazione nell’area della legittimità o
del merito. Il dilemma se introdurre o meno nel “giudizio di validità / invalidità del provvedimento”
anche una valutazione dell’opportunità della scelta discrezionale operata dall’amministrazione
riguardo all’interesse pubblico perseguito ha risentito non solo dei dubbi nell’individuazione dei
parametri di riferimento (rinvenuti in norme non giuridiche sull’azione amministrativa), ma anche
del fatto che di regola questo vizio non determina l’annullamento dell’atto. In ogni caso, l’opinione
comune è, giacchè il PRINCIPIO DI EFFICACIA è stato elevato dalla legge a criterio-guida
dell’azione amministrativa, se ne deve dedurre che il “dovere di buona amministrazione” (implicito
nella formula costituzionale del “buon andamento”) deve essere considerato il parametro di
valutazione della validità dell’azione amministrativa. Il principio di efficacia, così, viene
consegnato all’area della “legittimità”. Tale soluzione appare convincente e risulta anche
confermata dal fatto che il “principio di efficacia” indica una relazione che intercorre tra i contenuti
dell’atto e i risultati ottenuti (che devono essere diretti al perseguimento dell’interesse pubblico
affidato alle cure dell’amministrazione); ciò significa che il “controllo che viene operato
sull’efficacia o meno di un provvedimento” si risolve in un “controllo sulla buona qualità della
scelta operata dall’amministrazione” (e verificabile attraverso la figura dell’“eccesso di potere”) :
quindi, il “principio di efficacia” entra pienamente nell’ambito della “legittimità”, dal momento che
l’azione amministrativa è vincolata, per legge, oltre che nel perseguimento dei fini, anche nel
risultato.

****RIASSUMENDO : L’atto amministrativo è INVALIDO se è affetto da “vizi di


legittimità” o “di merito”. Mentre i VIZI DI MERITO sono determinati dall’inosservanza
delle c.d. “norme di buona amministrazione”, di opportunità o di convenienza cui
l’azione della P.A. deve attenersi, i VIZI DI LEGITTIMITA’ sono dovuti alla mancata
conformità dell’atto alle prescrizioni stabilite nelle norme giuridiche. I vizi di legittimità
sono classificati in tre categorie: l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di
legge. Tutti e tre i vizi possono condurre all’annullamento dell’atto. L’incompetenza
deve essere relativa (l’assoluta comporta la nullità dell’atto), causata cioè
dall’invasione della sfera di competenza di una autorità amministrativa ad opera di
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un’altra autorità amministrativa, la cui funzione sia diversa per grado o per materia. 
I vizi dell'atto amministrativo possono distinguersi in due categorie, vizi di legittimità e
vizi di merito e possono dar luogo all'invalidità dell'atto amministrativo. Legittimità e
merito rappresentano, in sostanza, i due requisiti dell'azione amministrativa indicati
nell'art. 97  Cost. ove la legalità e la buona amministrazione sono i parametri cui deve
ispirarsi l'operato della PA.
L'atto amministrativo può, dunque, presentare vizi di legittimità (quando
risulta difforme da norme giuridiche) o vizi di merito (quando l'atto non è conforme
a regole non giuridiche, c.d. norme di buona amministrazione, e che determinano un
contrasto tra il mezzo in concreto usato dalla PA ed il  mezzo che sarebbe stato idoneo
al perseguimento ottimale del fine cui l'esercizio del potere deve tendere). I vizi di
merito dell'atto amministrativo possono naturalmente configurarsi solo nell'ambito
dell'azione amministrativa discrezionale poichè, con riferimento agli atti vincolati, il
mancato raggiungimento dello scopo è indice della violazione di una norma giuridica
(della difformità, cioè, dell'atto dal modello normativo). 
Dalla categoria dell'invalidità, deve essere mantenuta distinta quella
dell'IRREGOLARITA’che riguarda quelle violazioni meramente formali inidonee a
viziare l'atto amministrativo (esse sono suscettibili di rettifica).
La normativa cui occorre ancorare il giudizio sulla validità del provvedimento
amministrativo è quella vigente al momento del suo “perfezionamento” e non quella
(eventualmente diversa) vigente al momento del dispiegarsi dei suoi effetti.
I VIZI DI LEGITTIMITA’, a seconda degli elementi sui quali incidono, possono
determinare diverse forme di invalidità dell'atto amministrativo, possono, cioè, dar
luogo a: 1) nullità :qualora l'atto manchi di requisiti essenziali, contrasti con
precedente giudicato o lo eluda, sia stato adottato in difetto assoluto di attribuzione o
negli altri casi previsti dalla legge (art 21 septies L. n. 241 del 1990); 2) annullabilità :
qualora sussista incompetenza relativa, violazione di legge o eccesso di potere (art. 21
octies L. n. 241 del 1990).
Si distingue, inoltre tra INVALIDITA’ TOTALE o PARZIALE dell'atto amministrativo, a
seconda che il vizio riguardi tutto l'atto amministrativo o solo una parte di esso
(singole clausole o atti endoprocedimentali). Con riferimento all'invalidità parziale
occorrerà indagare se, dopo l’annullamento parziale dell'atto amministrativo, questo
possa essere conservato per la parte residua.
Con riferimento alla fonte dell'invalidità dell’atto, si usa distinguere tra un’INVALIDITA’
TESTUALE (nel caso in cui sia la norma giuridica che disponga testualmente l'invalidità
dell'atto) e un' INVALIDITA’ VIRTUALE (nel caso in cui l'invalidità, non espressamente
prevista, si desuma dall'ordinamento giuridico per violazione di una norma
imperativa).
Si distingue anche tra un' INVALIDITA’ DIRETTA (che colpisce l'atto in sé) ed
un'INVALIDITA’ DERIVATA : quando all'atto si propagano gli effetti invalidanti e vizianti
di precedenti atti amministrativi autonomi (atti presupposti) o relativi allo stesso
procedimento esitato nel provvedimento viziato (atti endoprocedimentali). Con
riferimento all'invalidità derivata dei provvedimenti amministrativi, si usa distinguere
tra l'effetto caducante che si realizza automaticamente dopo l'annullamento di un
diverso atto amministrativo con cui l'atto caducato è vincolato da un legame di stretta
interdipendenza (in tal caso, non è necessario procedere ad autonoma impugnativa
dell'atto caducato) e l'effetto viziante (che si realizza quando sussiste un legame meno
saldo tra l'atto presupposto e l'atto successivo, per il quale è necessario procedere ad
autonoma impugnativa per ottenere l'annullamento dell'atto successivo dopo
l'annullamento dell'atto presupposto). 

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-CAPITOLO 4. I PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI


SECONDO GRADO-

1. Considerazioni introduttive.
a) I provvedimenti di secondo grado come esplicazione del principio di buona
amministrazione. I “PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI SECONDO GRADO” sono
quei provvedimenti che hanno ad oggetto un precedente provvedimento amministrativo o il
silenzio-assenso (art. 20 della L. 241 / 1990), sicché essi curano l’interesse pubblico intervenendo
su un “provvedimento” o su un “fatto produttivo di effetti giuridici”. Ora, il primo problema da
affrontare ci viene posto dall’art. 19 della L. 241 / 1990, che sembrerebbe averne ampliato l’ambito
di operatività, avendo previsto in capo alla P.A. competente poteri di REVOCA e di
ANNULLAMENTO D’UFFICIO anche in materia di d.i.a (dichiarazione di inizio attività), oggi
s.c.i.a. (segnalazione certificata di inizio attività). Tuttavia, se si osserva bene, quello che stiamo
esaminando è un falso problema, perchè revoca e annullamento non sembrano applicabili alla
d.i.a. : in questo caso infatti la dichiarazione del privato sostituisce un atto amministrativo di
assenso, sicché manca il provvedimento amministrativo da revocare o annullare.
La seconda tematica riguarda, invece, il dubbio sul fatto se sia o meno possibile considerare come
“provvedimento di secondo grado” il c.d. RECESSO DELL’AMMINISTRAZIONE DAGLI
ACCORDI CON I PRIVATI (siano essi integrativi o sostitutivi di un provvedimento) : questo
quesito deve trovare una risposta affermativa, dato che, se si riconosce all’accordo natura
pubblicistica (e la dottrina prevalente è orientata in tal senso), il recesso dovrà assumere “natura
provvedimentale” (è la manifestazione unilaterale di un potere autoritativo); e dunque è assimilabile
alla “revoca”. Inoltre, così come la revoca incide sull’efficacia di un precedente provvedimento,
così il recesso incide sull’efficacia di un accordo. Se dunque recesso e revoca condividono la stessa
natura provvedimentale e la stessa funzione, è ragionevole configurare anche il recesso come
provvedimento di secondo grado.
Il nostro ordinamento conosce diversi tipi di “provvedimenti di secondo grado” :

 alcuni incidono sugli effetti di un precedente provvedimento, sospendendoli, prorogandoli o


eliminandoli (sospensione, proroga, revoca) o di un accordo, eliminandoli (recesso);
 altri incidono sul provvedimento precedente, eliminando o il provvedimento (annullamento)
o il vizio di legittimità che lo inficia, rendendolo inattaccabile in sede giurisdizionale
(convalida);
 altri incidono sul contenuto del provvedimento o confermandolo (conferma) o
modificandolo (riforma).

Nonostante queste differenze, tutte queste figure hanno un denominatore comune : il potere
(esercitato dall’amministrazione per emanare il precedente provvedimento) non deve essersi
esaurito, perché è solo in questo modo che l’amministrazione potrà esercitarlo di nuovo nel caso in
cui il provvedimento risulti “illegittimo” o “inopportuno” (non più adeguato alla cura dell’interesse
pubblico perseguito). Quindi i provvedimenti di secondo grado non possono essere emanati in tutti
quei casi in cui, con l’emanazione del primo atto, l’amministrazione ha consumato il relativo potere.

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Inoltre, l’amministrazione – per poter esercitare di nuovo il potere – deve non solo verificare l’
“invalidita’” del provvedimento in questione, ma deve anche valutare se sussistono o meno
particolari “esigenze di cura dell’interesse pubblico”, tali da richiedere un suo nuovo intervento.
Ecco perché i poteri nel cui esercizio vengono emanati i provvedimenti di secondo grado sono una
delle esplicazioni del “principio di efficacia” (espressione del principio di “buona
amministrazione”), inteso in termini di adeguatezza; perciò tali provvedimenti vanno ricondotti
nell’area dell’amministrazione attiva piuttosto che in quella dell’autotutela (dove sono stati
tradizionalmente inquadrati) : infatti, attraverso il provvedimento emesso, la P.A. realizza un
particolare assetto di interessi (che deve essere diretto al soddisfacimento dell’interesse pubblico
che ha in cura) : pertanto, è solo nel momento in cui viene a mancare questa “adeguatezza” (cioè il
soddisfacimento dell’interesse attraverso il provvedimento) che l’amministrazione è abilitata a
esercitare nuovamente il proprio potere.

b) Il problema del fondamento giuridico. Il problema del fondamento giuridico dei poteri di
secondo grado è stato in passato risolto ricorrendo a 4 diversi principi : 1) il “principio di
autotutela”,; 2) il “principio della specialità del diritto amministrativo”; 3) la consuetudine; 4) e il
“principio gerarchico”. In particolare, il richiamo all’autotutela è stato criticato, poichè non solo
insufficiente a fondare questi provvedimenti (e quindi a conciliarli con il “principio di legalità”), ma
anche perché l’amministrazione, quando emana un provvedimento di secondo grado, non tutela se
stessa, nè si fa giustizia da sé, ma cura sempre un interesse pubblico).
Il potere dell’amministrazione, pertanto, non può avere altro fondamento che nella “legge” : più
attento a rendere questi poteri compatibili con il “principio di legalità” è l’orientamento che li
configura come espressione dello stesso potere esercitato dall’amministrazione per emanare il
primo provvedimento e ne rinviene il fondamento giuridico nella “norma attributiva del potere di
primo grado”.
In ogni caso, la codificazione - con la L. 15 / 2005 - di alcuni provvedimenti di secondo grado
(revoca, convalida e annullamento d’ufficio) ha risolto il problema del loro fondamento giuridico e,
di conseguenza, della loro compatibilità con il “principio di legalità”. La legge ha anche confermato
l’ancoraggio dei provvedimenti di secondo grado al “principio di efficacia”, riconducendoli
nell’area dell’amministrazione attiva.

c) La distinzione tra atti di riesame e atti di revisione, tra atti ad esito eliminatorio e
atti ad esito conservativo. Parte della dottrina distingue i “provvedimenti di secondo grado” in
“ATTI DI RIESAME” e “ATTI DI REVISIONE”. Mentre i primi (annullamento, convalida,
conferma, ratifica) hanno ad oggetto il provvedimento sotto il profilo della validità, i secondi
(revoca, recesso, proroga, sospensione) incidono sull’efficacia del precedente provvedimento (o
dell’accordo) o sul rapporto giuridico scaturito dal provvedimento di primo grado (o dall’accordo).
In senso contrario, un’altra parte della dottrina (oggi dominante) configura tutti questi
provvedimenti come “ATTI DI RIESAME” e li distingue in “atti ad esito conservativo” (conferma,
convalida, ratifica, riforma, conversione, proroga) ed “atti ad esito eliminatorio” (annullamento,
revoca, recesso). Tra l’altro, tra gli “atti ad esito eliminatorio” alcuni autori includono anche l’
“ABROGAZIONE” (provvedimento di secondo grado con cui si elimina, con efficacia ex nunc, un
precedente provvedimento, legittimo al momento della sua emanazione , ma la cui legittimità in
seguito viene meno per il decadere dei presupposti indicati dalla legge) e la “SOSPENSIONE”
(istituto con cui l’amministrazione sospende per un certo lasso di tempo l’efficacia o l’esecuzione
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di un precedente provvedimento). Pertanto, la sospensione non elimina nessun atto, quindi la sua
riconduzione tra gli atti ad esito eliminatorio può spiegarsi solo per la sua strumentalità rispetto
agli istituti dell’annullamento e della revoca.

d) Provvedimenti ad esito eliminatorio e tutela del legittimo affidamento. Nel momento


in cui l’amministrazione emana i provvedimenti di secondo grado (in particolare “quelli ad esito
eliminatorio”), sorge il problema di come tutelare il cittadino che, in precedenza, aveva fatto
affidamento sulla certezza e stabilità delle decisioni assunte in precedenza dall’amministrazione
nei suoi confronti. La “CERTEZZA DEI RAPPORTI GIURIDICI” è infatti (insieme al “principio
di legalità” e al “buon andamento”) uno dei principi fondanti del nostro ordinamento : perciò, il
problema può essere risolto solo procedendo a un contemperamento tra le istanze di certezza del
concreto assetto di interessi (definito sulla base del provvedimento di primo grado) e le esigenze di
“legalità” e di “efficacia” dell’azione amministrativa.
In ogni caso, il tema della tutela del “legittimo affidamento” (e, in particolare della tutela delle
situazioni favorevoli - diritti e interessi legittimi - sorte dal provvedimento di primo grado) è stato
risolto, a livello legislativo, dalla L. 15 / 2005, anche se solo per la REVOCA (e ancor prima - in
relazione agli ACCORDI - perchè già la L. 241 / 1990 aveva imposto all’amministrazione che, in
presenza di interessi pubblici sopravvenuti, receda unilateralmente dall’accordo, l’obbligo di
indennizzare il privato per il danno subito a causa del recesso).

e) Provvedimenti di secondo grado e omessa comunicazione di avvio del procedimento.


Ai “provvedimenti di secondo grado” non si applica l’art. 21-octies, 2° comma, in base a cui
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non produce l’annullabilità del provvedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che l’apporto del privato sarebbe stato comunque
ininfluente, poiché il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Tuttavia, proprio nei “procedimenti di secondo grado” la
PARTECIPAZIONE può rivelarsi determinante, specie nella fase della comparazione degli
interessi in gioco, poiché permette ai privati di manifestare i loro interessi e all’amministrazione di
valutare meglio tutti gli interessi coinvolti nel procedimento. Ciò significa che la “partecipazione
del privato ai procedimenti di secondo grado” è essenziale, poiché in questo tipo di procedimenti si
assiste a uno scontro tra l’“interesse pubblico” (all’eliminazione di un atto illegittimo o alla
sospensione dell’efficacia di un provvedimento) e l’“interesse del privato” (che mira alla
conservazione delle posizioni favorevoli acquisite col provvedimento di primo grado).

*EX NUNC = (lett. “da ora”), è sinonimo di “non retroattività” : un dato atto esplica i suoi effetti solo dal momento in
cui viene posto in essere. L’espressione ex tunc, invece, (lett. “da allora”), è adoperata come sinonimo di
“retroattività” per indicare che un atto esplica i suoi effetti non dal momento in cui viene posto in essere, ma da un
momento anteriore

*PRINCIPIO DI AUTOTUTELA = potere della P.A. di annullare e revocare i provvedimenti adottati; possibilità per la P.A.
di risolvere i conflitti attuali o potenziali con i destinatari dei suoi provvedimenti senza l’intervento del giudice.

*RECESSO = potere di recedere da un accordo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico.

*REVOCA = atto che elimina gli effetti di un precedente provvedimento perché viziato nel merito (e, quindi,
inopportuno, inadeguato o ingiusto).

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f) Procedimento di riesame e istanza dell’interessato. Qualora il privato interessato richieda


la “revoca” o l’“annullamento” di un provvedimento sfavorevole non impugnato (e divenuto
inoppugnabile per scadenza dei termini), l’amministrazione – ad avviso di dottrina e giurisprudenza
– non è obbligata ad avviare un procedimento di riesame : infatti, essendo i “poteri di riesame”
discrezionali, il relativo esercizio è per l’amministrazione una facoltà, e non un obbligo. Se si
ammettesse quest’obbligo, verrebbero scardinati sia il “principio di inoppugnabilità dei
provvedimenti una volta scaduto il termine per la loro impugnazione”, sia il convincimento che i
poteri di riesame sono discrezionali : allora, se ne deve dedurre che il privato (anche in pendenza
del termine per impugnare) può solo sollecitarne l’esercizio con un’istanza, configurandosi in capo
all’amministrazione competente una mera facoltà. Quanto detto implica un’ulteriore conseguenza :
e cioè che, laddove l’amministrazione, a seguito di un’istanza di riesame presentata dal privato, si
rifiuti di avviare il procedimento di riesame, questo “rifiuto” assume i connotati di un “atto
meramente confermativo di un precedente provvedimento ”, e pertanto non è impugnabile in via
autonoma.

2. I provvedimenti ad esito eliminatorio. L’annullamento d’ufficio.


I “provvedimenti ad esito eliminatorio” sono l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO e la REVOCA. Il
primo comporta l’eliminazione del provvedimento illegittimo e in contrasto con l’interesse
pubblico; la seconda comporta la cessazione degli effetti di un provvedimento che, pur essendo
legittimo, non è più idoneo alla cura dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione. Alla
categoria è stata ricondotta anche la SOSPENSIONE, con cui viene temporaneamente sospesa, per
motivi cautelari, l’efficacia di un provvedimento.
L’annullamento d’ufficio e la revoca sono stati sempre studiati in relazione l’uno all’altro.
Inizialmente associati dal fatto di incidere su un precedente atto, alla fine dell’800 iniziarono ad
assumere una connotazione autonoma, fino all’assoluta autonomia. Tale distinzione si è, tuttavia,
attenuata con la L. 15 / 2005 che, disciplinando l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO (art. 21-nonies)
e stabilendo che “l’atto illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico”, ha comportato un riavvicinamento tra i due istituti (l’annullamento e la revoca),
perchè ha accentuato il profilo discrezionale dell’annullamento, mettendo in risalto il suo carattere
di strumento funzionale alla cura dell’interesse pubblico (così come la revoca). Tuttavia, la
previsione introdotta dalla L. 15 / 2005 non ha rappresentato una novità, in quanto anche prima la
giurisprudenza era giunta a una conclusione simile : si era ritenuto, infatti, che affinchè il
provvedimento amministrativo potesse essere annullato, fosse necessaria non solo la sua
illegittimità (per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere), ma anche (e soprattutto) la
sua inopportunità (= il suo contenuto non è più idoneo a soddisfare l’interesse pubblico in concreto
perseguito). L’“illegittimità” non è, quindi, sufficiente da sola a giustificare l’annullamento
d’ufficio, ma occorre anche un interesse pubblico concreto e attuale, di cui deve darsi conto nella
motivazione dell’atto. Il principio è stato ora codificato dall’art. 21-nonies, secondo cui l’atto
illegittimo può essere annullato sussistendone le «ragioni di interesse pubblico». Ciò ci aiuta a
qualificare l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO come quel provvedimento di secondo grado,
attraverso cui l’amministrazione (nel perseguire l’interesse pubblico affidatole) è abilitata a
esercitare nuovamente il potere che le è stato attribuito, nelle stesse forme e con la ripetizione dello
stesso procedimento che ha portato all’adozione del provvedimento di primo grado (oggetto di
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annullamento).
Però, affinchè l’amministrazione possa procedere all’annullamento dell’atto (tornando sui suoi
passi), è necessaria anche una terza condizione : infatti, intorno all’ “interesse pubblico
all’annullamento dell’atto” ruotano non solo gli “interessi pubblici secondari”, ma anche gli
“interessi privati dei destinatari e dei controinteressati” (cioè di coloro che sono interessati alla
conservazione dell’atto o alla sua rimozione); perciò, qualora il provvedimento che
l’amministrazione intende annullare favorisca il destinatario, questi avrà interesse a conservarlo in
vita; se invece lo danneggia, egli avrà interesse a che sia eliminato. Opposta è invece la posizione
dei “controinteressati”, cioè di coloro che hanno un “interesse antagonistico” a quello del
destinatario (interesse all’annullamento dell’atto nel primo caso, o alla sua conservazione nel
secondo caso). Pertanto, per procedere all’annullamento, è anche necessario che l’amministrazione
proceda a un bilanciamento l’interesse pubblico all’eliminazione e gli altri interessi, pubblici e
privati, coinvolti nella scelta amministrativa : da questo bilanciamento (mediante il quale
l’amministrazione accerta l’interesse prevalente), l’interesse pubblico deve risultare vittorioso. Ciò
ci permette, tra l’altro, di qualificare ulteriormente l’ “annullamento d’ufficio” come un vero e
proprio provvedimento discrezionale (a differenza dell’ “annullamento giurisdizionale”, che è atto
di natura vincolata) e proprio per questo il “provvedimento di annullamento” deve essere sorretto da
un’ampia motivazione.
L’area di operatività dell’annullamento d’ufficio coincide con quella dell’ILLEGITTIMITA’
(violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere), con esclusione quindi dei vizi di merito.
Però, l’amministrazione - nell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio - non è tenuta ad
applicare i parametri di cui all’art. 21-octies, 2°comma : infatti la disposizione introduce,
nell’ambito di un “giudizio di legittimità sull’atto”, tecniche dirette ad evidenziare l’irrilevanza del
vizio sul contenuto dispositivo, impedendo l’annullamento giudiziale dell’atto in presenza di
elementi che convincono il giudice della “correttezza sostanziale dell’atto”. L’atto, però, pur non
potendo essere annullato dal giudice in sede giurisdizionale, resta comunque “illegittimo” e,
pertanto, annullabile dalla stessa amministrazione in sede di annullamento d’ufficio.
Quanto invece all’oggetto dell’annullamento, può essere annullato qualunque tipo di
provvedimento, a condizione che il potere che l’amministrazione ha esercitato nell’emanazione
dello stesso non si sia esaurito : ciò accade ad esempio nel caso degli “atti consultivi”, “di
controllo” o delle “decisioni sui ricorsi amministrativi”).
Il POTERE DI ANNULLAMENTO non è soggetto a prescrizione, ma deve essere esercitato entro
un «termine ragionevole», la cui valutazione spetta all’amministrazione. La valutazione di
ragionevolezza deve essere fatta caso per caso, considerando vari fattori, tra cui il fatto che il
decorso del tempo, da un lato, incide sull’ attualità dell’interesse pubblico (attenua un interesse
pubblico all’eliminazione di un provvedimento), dall’altro, consolida gli interessi nel frattempo
sorti sulla base dell’atto che si vuole annullare.
Dopo che l’amministrazione ha annullato il provvedimento di primo grado, però, bisogna stabilire il
momento a partire dal quale far decorrere i relativi effetti : il problema è stato risolto dalla dottrina
che, facendo leva sul fatto che l’illegittimità colpisce l’atto fin dal momento della sua emanazione,
ha sempre sostenuto la tesi della RETROATTIVITA’ come caratteristica di ogni tipo di
annullamento (dell’ “annullamento giurisdizionale”, di “quello su ricorso amministrativo”, e quindi
anche di “quello d’ufficio”), col solo limite del principio “factum infectum fieri nequit”, sicché non
potranno essere annullati quegli effetti irreversibili che si sono completamente concretizzati prima

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dell’eliminazione dell’atto viziato (es., il pubblico impiegato il cui atto di nomina sia stato annullato
non dovrà restituire i compensi percepiti). Ma in ogni caso, la teoria della retroattività degli effetti
non può escludere a propri la possibilità di far decorrere gli effetti dell’annullamento a partire dal
momento dell’eliminazione del provvedimento : tale possibilità infatti non solo non viene negata
dal legislatore (in quanto l’art. 21 nonies non fa alcun espresso riferimento all’ “effetto retroattivo”),
ma inoltre bisogna anche pensare che la retroattività ha un senso nell’“annullamento
giurisdizionale” o “su ricorso amministrativo”, poiché è posta a garanzia del ricorrente contro i
tempi lunghi del processo o del procedimento, ma non nell’annullamento d’ufficio : anzi le esigenze
del cittadino, che mira alla conservazione dell’atto, sono diametralmente opposte :
quindi poichè si pone un problema di “tutela del legittimo affidamento del privato nella certezza e
stabilità del precedente assetto di interessi a lui favorevole”, non ci sono ragioni per escludere la
decorrenza degli effetti dell’annullamento solo per il futuro.
Un’ultima considerazione occorre dedicarla alla “competenza ad annullare il provvedimento” : in
base all’art. 21-nonies, la competenza spetta all’organo che ha emanato l’atto invalido (“auto-
annullamento”), all’autorità cui è eventualmente trasferita la competenza o ad un altro organo
espressamente indicato dalla legge (il riferimento alla «legge» va inteso in senso ampio,
indicandosi anche le fonti normative di secondo grado). In assenza di una previsione di legge,
pertanto, l’annullamento non può essere disposto dall’ “organo gerarchicamente superiore a quello
che ha emanato l’atto”, nè “da un organo appartenente a un ente territoriale diverso” : così, ad
esempio, l’ “ANNULLAMENTO STRAORDINARIO”, entro 10 anni, da parte della Regione, dei
titoli edilizi illegittimi rilasciati dai Comuni è infatti espressamente previsto dal “t.u. edilizia”.
Il discorso invece cambia per gli “atti illegittimi degli enti locali”, il cui annullamento – sulla base
di quanto disposto dal d.lgs. 267 / 2000 (c.d. testo unico degli enti locali) - potrà essere disposto
solo dal Governo (ciò per tutelare l’unità dell’ordinamento); inoltre al Governo è attribuita anche la
competenza ad annullare gli “atti illegittimi di qualunque amministrazione” (fatta eccezione per gli
atti delle Regioni e delle Province autonome), in virtù di quanto stabilito dalla L. 400 / 1988.
Il potere di annullamento deve svolgersi secondo le forme e le garanzie del procedimento che ha
portato all’emanazione dell’atto (oggetto di annullamento) : la natura discrezionale, inoltre, ne
postula un’adeguata “motivazione”, sia sotto il profilo dell’illegittimità che rende l’atto viziato sia
riguardo alle ragioni di pubblico interesse che ne giustificano la rimozione.
Tuttavia, a differenza di quanto previsto per la revoca, l’annullamento d’ufficio non comporta la
corresponsione di alcun “indennizzo a favore del privato danneggiato”, a meno che ad essere
annullati non siano «quei provvedimenti illegittimi che vanno ad incidere su rapporti contrattuali
con privati» : si pensi, ad esempio, all’aggiudicazione.

2.1. La revoca. Attraverso la REVOCA l’amministrazione competente elimina, ma solo per


il futuro (con efficacia ex nunc) un provvedimento i cui effetti sono considerati “inopportuni”,
perché non più adeguati alla cura dell’interesse pubblico che esso mirava a soddisfare : in questo
modo, il provvedimento viene privato della possibilità di spiegare, per il futuro, ulteriori effetti (la
revoca, quindi, opera con “efficacia ex nunc”). A differenza dell’annullamento d’ufficio, la revoca,
quindi, prescinde dall’esistenza di un VIZIO DI LEGITTIMITA’ DELL’ATTO (l’atto revocato,
cioè, può essere legittimo), ma mira solo a garantire – sulla base del “principio di efficacia” – un
equilibrato rapporto tra l’adeguatezza della scelta operata dall’amministrazione e l’interesse
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pubblico in concreto perseguito. Il fatto che la revoca venga ancorata all’interesse pubblico ci
consente di collocarla nell’area dell’“amministrazione attiva” (e di escluderne l’appartenenza
all’autotutela) e ci permette anche di distinguerla da quegli istituti che solo impropriamente sono
denominati “revoche” (come la “revoca degli assessori”, il cui presupposto risiede in una
valutazione di opportunità politica, o la “revoca del Presidente del Consiglio comunale”, il cui
presupposto risiede nella violazione dei doveri istituzionali) : proprio perché sono fattispecie diverse
dalla revoca, a queste ipotesi non si applica l’art. 21-quinquies.
In ogni caso, nell’esercitare i poteri di revoca, l’amministrazione è tenuta ad effettuare un
bilanciamento tra le “ragioni di interesse pubblico” e le “ragioni del privato” (che ritiene di subire
un pregiudizio dalla revoca) : questo bilanciamento è necessario soprattutto quando è trascorso
molto tempo tra l’adozione del provvedimento e la sua revoca (in quanto il decorso del tempo può
aver consolidato situazioni giuridiche soggettive favorevoli al privato).
L’art. 21-quinquies (modificato dalla L. 40 / 2007, che vi ha aggiunto il comma 1-bis) disciplina la
REVOCA. Ai sensi di questa disposizione, è stabilito innanzitutto che la revoca può essere disposta
dall’organo che ha emanato l’atto o da altro organo indicato dalla legge (anche qui il riferimento
alla «legge» va inteso in senso ampio, intendendosi anche le fonti di secondo grado).
Tra l’altro, la Corte costituzionale ha stabilito che la revoca può essere disposta, oltre che con un
“atto amministrativo”, anche con “legge”.
Analizziamo ora i presupposti che giustificano il ricorso alla revoca; stando all’art. 21 quinquies,
l’esercizio del potere di revoca è ammesso in 3 ipotesi : 1) per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse; 2) per un mutamento della situazione di fatto che rende il provvedimento incompatibile
con l’assetto di interessi originariamente definito; 3) per una diversa valutazione delle ragioni di
pubblico interesse in base a cui l’amministrazione aveva adottato il provvedimento. La norma
indica, quindi, 3 ipotesi che possono, tuttavia, ricondursi a due fattispecie :

 la “REVOCA PER SOPRAVVENIENZA” : fondata su un mutamento della situazione di


fatto che la rende incompatibile con l’assetto di interessi definito dal provvedimento;
 la “REVOCA IUS POENITENDI” : espressione di una diversa valutazione degli interessi
in base a cui l’amministrazione aveva adottato il provvedimento.

La REVOCA PER SOPRAVVENIENZA comprenderebbe, quindi, sia la “revoca per sopravvenuti


motivi di pubblico interesse” (che si verifica, ad es., quando un’area destinata a verde agricolo viene
modificata a seguito della prospettiva di un grosso insediamento industriale, per la cui costruzione
non vi è disponibilità di un’altra area) che “quella ancorata al mutamento della situazione di fatto”
(che si verifica, ad es., quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, accordato per investire
in una determinata produzione, distolga le somme dalla destinazione prevista).
Quanto, invece, alla REVOCA IUS POENITENDI (c.d. revoca per ripensamento), questa
comprende le ipotesi in cui l’amministrazione procede a una diversa valutazione degli interessi che
le avevano consigliato, all’inizio, di adottare il provvedimento. Dopo la riforma del 2005, che ha
codificato tale forma di revoca, questa è stata duramente criticata dalla dottrina, perchè la revoca
per ripensamento sembra violare “principi fondamentali dell’ordinamento” (come l’affidamento
nella certezza e stabilità delle situazioni giuridiche nate dall’atto oggetto di revoca) : e allora, per
consentire una lettura legittima di questo tipo di revoca, è stato affermato che il ricorso alla stessa
può essere giustificato solo quando si venga a conoscenza di fatti sconosciuti al momento
dell’emanazione dell’atto oggetto di revoca : si pensi, ad es., al caso in cui un permesso di costruire
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venga revocato, poiché – in virtù di un’indagine successiva al suo rilascio – viene accertata una
condizione di instabilità geologica dell’area interessata.
Per quel che riguarda, invece, l’oggetto, la revoca - secondo l’art. 21-quinquies - può avere ad
oggetto solo PROVVEDIMENTI AD EFFICACIA DUREVOLE, quindi sono irrevocabili gli atti i
cui effetti si sono realizzati ed esauriti o siano divenuti irreversibili. Gli “atti ad efficacia
istantanea” non sono, pertanto, revocabili.
Inoltre, avendo la revoca carattere discrezionale, sono irrevocabili anche i “provvedimenti
vincolati”, le “decisioni su ricorso amministrativo”, gli “atti di controllo” e i “pareri” (tutti atti per
cui non è possibile svolgere una valutazione, discrezionale, di opportunità).
Per quanto riguarda gli aspetti temporali della revoca, in mancanza di un’apposita previsione
normativa (il legislatore del 2005 infatti tace sul momento entro cui può essere adottato un
provvedimento di revoca), trova conferma l’orientamento giurisprudenziale, che considera il potere
di revoca esercitabile in ogni tempo, con il solo limite dell’attualità dell’interesse pubblico che
giustifica l’esercizio del potere : ciò significa che la P.A. potrà revocare un suo precedente
provvedimento solo nel caso in cui l’assetto di interessi (emergente da quest’ultimo) non appaia più
adeguato alla cura dell’interesse pubblico. Tuttavia, parte della dottrina ha precisato che l’assenza
di un preciso limite temporale può essere coerente con la REVOCA PER SOPRAVVENIENZA
(poichè non possono porsi limiti temporali alle sopravvenienze di pubblico interesse), ma non con
la REVOCA IUS POENITENDI, che si fonda su valutazioni soggettive. Per quanto riguarda la
decorrenza degli effetti, secondo l’art. 21-quinquies «la revoca determina l’inidoneità del
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti», con ciò confermando l’orientamento per cui
gli effetti della revoca operano ex nunc (a partire dal momento in cui la stessa è stata disposta).
Quanto alle “situazioni giuridiche soggettive favorevoli del privato” nate dall’atto revocando,
queste non sono un limite all’esercizio del potere di revoca : solo che la loro esistenza postula
l’applicazione di regole di bilanciamento tra l’interesse pubblico e le ragioni del privato, nonché
un’adeguata motivazione (specie se, a causa del tempo trascorso, tali situazioni si sono consolidate,
determinando un legittimo affidamento alla loro conservazione).
Inoltre, l’art. 21-quinquies ha disciplinato le conseguenze patrimoniali della revoca dei
provvedimenti, prevedendo un INDENNIZZO per compensare il danno economico subito dal
privato destinatario di un legittimo atto di revoca, e assegnando al giudice amministrativo la
giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di “determinazione e corresponsione
dell’indennizzo” (disposizione, questa, abrogata ed ora confluita nel codice del processo
amministrativo). Per quanto riguarda la commisurazione del quantum dell’indennizzo, sono state
prospettate due soluzioni :

 o ritenere che esso vada commisurato alla PERDITA SUBITA (c.d. danno emergente), con
esclusione del c.d. lucro cessante (mancato guadagno) : ciò per evitare di creare confusione
tra l’indennizzo (che presuppone una revoca legittima) e il risarcimento (che, al contrario,
presuppone una revoca illegittima);
 o agganciare il quantum dell’indennizzo alla disposizione del «codice dei contratti pubblici»
che riguarda la “revoca della concessione di lavori nel quadro di un project financing”, che
nell’indennizzo, oltre al DANNO EMERGENTE, ricomprende anche una quota pari al 10%
DEL LUCRO CESSANTE.

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Ad ogni modo, il problema della quantificazione dell’indennizzo, lasciato all’interpretazione della


dottrina e della giurisprudenza per le REVOCHE RIGUARDANTI I RAPPORTI
AMMINISTRATIVI, è stato invece risolto dal legislatore per le REVOCHE RIGUARDANTI I
RAPPORTI NEGOZIALI : la L. 40 / 2007 ha aggiunto all’art. 21-quinquies il comma 1-bis
(riguardante la quantificazione dell’indennizzo per i danni subiti dai privati nei casi di revoca di un
«atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea» incidente su “rapporti negoziali”). Si tratta,
in particolare, di revoche relative alla concessione di lavori pubblici. In queste ipotesi l’indennizzo
deve essere parametrato solo al «DANNO EMERGENTE», con esclusione del lucro cessante,
perchè – trattandosi di “revoche legittime” – gli eventuali danni devono essere indennizzati solo con
riferimento alle spese effettivamente sostenute dall’interessato, che ha fatto affidamento
sull’efficacia del provvedimento (oggetto di revoca).
Prendendo spunto dal comma 1-bis, sembra ormai sostenibile la prima opzione a cui si è accennato,
cioè quella per cui anche nelle ipotesi di “revoche di provvedimenti incidenti su rapporti
amministrativi”, l’indennizzo deve essere commisurato al solo DANNO EMERGENTE.
L’art. 21 quinquies indica inoltre due circostanze che possono determinare una diminuzione
dell’indennizzo :

 qualora il privato fosse a conoscenza della «contrarietà» dell’atto revocando «all’interesse


pubblico»: cosa che lascia perplessi, perché così ragionando il privato viene affiancato
all’amministrazione nella scelta relativa alla cura concreta dell’interesse pubblico, scelta che
è prerogativa dell’amministrazione (rientrando, infatti, nel c.d. “merito amministrativo”).
 qualora il contraente o altri soggetti concorrano nell’erronea valutazione della compatibilità
dell’atto con l’interesse pubblico». Anche questa previsione suscita qualche dubbio : se il
richiamo ai principi civilistici sul concorso nell’erronea valutazione dell’amministrazione
può giustificarsi per il destinatario dell’atto (incidendo sulla consistenza del suo
affidamento), lo stesso non può dirsi quando alla produzione del danno abbia concorso un
terzo con la propria attività, ma all’insaputa del destinatario (perché il destinatario subirebbe
una diminuzione dell’indennizzo per colpe non sue).

Inoltre la giurisprudenza ha escluso la possibilità di cumulo delle domande di indennizzo e di


risarcimento del danno : le due domande sono, infatti, incompatibili, poichè la prima presuppone
una revoca legittima, mentre la seconda presuppone una revoca illegittima.
Infine, un ultimo accenno occorre dedicarlo al rapporto che intercorre tra l’istanza di revoca
avanzata da un privato e la sussistenza o meno dell’obbligo, in capo all’amministrazione, di
avviare il relativo procedimento : in presenza di una situazione del genere, di regola
l’amministrazione non è obbligata a procedere, ma ha la mera facoltà (o il dovere morale) di
procedere. Tuttavia, se consideriamo che con l’esercizio del potere, l’amministrazione ha l’
“obbligo di perseguire l’interesse pubblico affidato alle sue cure” (e che nel far ciò deve anche
considerare gli altri interessi – pubblici secondari e privati – coinvolti), possiamo concludere che,
ove il privato presenti un’istanza di revoca di un provvedimento per lui pregiudizievole, e tale
istanza sia fondata su fatti sopravvenuti o su fatti che, anche se preesistenti, non potevano essere da
lui conosciuti, l’amministrazione dovrebbe essere obbligata ad avviare il procedimento e a
concluderlo con un provvedimento espresso.

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3. I provvedimenti ad esito conservativo : proroga e atti ad effetto


sanante. I PROVVEDIMENTI AD ESITO CONSERVATIVO sono gli atti che mirano a
mantenere in vita un precedente atto o eliminando il vizio che lo intacca (con efficacia ex tunc) o
accertando la sua validità. Per giustificare gli atti del primo tipo (eliminazione del vizio inficiante)
viene richiamato il “PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE DEI VALORI GIURIDICI
DELL’ORDINAMENTO” (che è un’ esplicazione del “PRINCIPIO DI ECONOMICITÀ”). Il
principio di economicità postula che l’amministrazione, prima di eliminare un atto illegittimo o
inopportuno, valuti la possibilità di mantenerlo in vita.
Nella categoria rientrano la CONVALIDA, la RETTIFICA, la RATIFICA, la CONFERMA, la
CONVERSIONE e la RIFORMA.

In questa categoria parte della dottrina fa rientrare anche la PROROGA : ciò perché tale istituto, pur
non producendo tecnicamente “effetti conservativi”, consente comunque di protrarre gli effetti di
un provvedimento oltre il termine di durata previsto dallo stesso. Qualche problema, tuttavia, è
sorto in relazione al fondamento giuridico della proroga, poichè non c’è unanimità in dottrina :
mentre alcuni configurano la proroga come espressione di un potere generale, altri la ammettono
solo nei casi previsti dalla legge. Da questi orientamenti si discosta, poi, la giurisprudenza, che
invece inquadra la proroga nell’ambito dello stesso potere che l’amministrazione ha esercitato in
vista dell’adozione del provvedimento (sottoposto a proroga) : potere che può essere esercitato solo
prima della scadenza del termine finale (cioè in un momento in cui il provvedimento produce
ancora i suoi effetti). Con la scadenza del termine, se non è consentita la proroga, è comunque
ammessa la RINNOVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO : anche la rinnovazione è una tecnica
con cui è consentita la prosecuzione dell’originario rapporto, ma a differenza della proroga (che
non richiede una nuova ponderazione degli interessi in gioco), la rinnovazione richiede invece
l’adozione di un “nuovo provvedimento” (e quindi, la ripetizione di tutte le fasi procedimentali e
una nuova valutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto rilevanti, attuata attraverso la
ponderazione dei vari interessi pubblici e privati coinvolti).

Un accenno va dedicato poi ai c.d. “ATTI AD EFFETTO SANANTE”, che pur avendo un effetto
conservativo, non sono provvedimenti di secondo grado, trattandosi di meri atti interni al
procedimento : questi atti – che rientrano nella competenza di un’amministrazione diversa da quella
competente ad emanare il provvedimento finale - vengono emessi dopo l’emanazione del
provvedimento (cioè in un momento successivo a quello in cui avrebbero dovuto essere emanati).
Di conseguenza, una volta emessi, tali atti vanno a sanare il vizio che inficiava il provvedimento
(c.d. funzione servente). Tuttavia, questa inversione dell’ordine procedimentale non è sempre
ammessa : se ad esempio non c’è dubbio sull’ “efficacia sanante” esercitata da una richiesta, una
proposta o un atto di assenso tardivo (nullaosta, autorizzazioni, ecc.), altrettanto non può dirsi per
il parere obbligatorio, poiché sarebbe irragionevole che un atto destinato a orientare la decisione
della P.A. intervenisse dopo che questa ha posto in essere l’atto per cui è stato chiesto il parere.
L’“emanazione tardiva dell’atto omesso, con effetto sanante” quindi è ammessa in tutti i casi in cui
l’atto non può incidere, modificandolo, sul contenuto della decisione assunta in sua mancanza.
Mentre è esclusa dal legislatore quando sono in gioco “interessi primari” (ad es., il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria è escluso).

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3.1. La convalida e la rettifica. La CONVALIDA - come l’annullamento d’ufficio -


ha ad oggetto un provvedimento illegittimo ma, mentre l’annullamento elimina l’atto, la convalida
rimuove il vizio che lo inficia, consolidandone gli effetti e rendendo l’atto inattaccabile per il
futuro.
L’istituto è regolato dall’art. 21-nonies che, dopo aver disciplinato al 1°comma l’annullamento
d’ufficio, fa salva «la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole». La disposizione si preoccupa
innanzitutto di delimitare l’ambito di operatività della convalida ai soli provvedimenti annullabili,
cioè ai provvedimenti affetti da un “vizio di legittimità” (con esclusione, quindi, dei provvedimenti
“nulli” o “inopportuni”), ma contiene una disciplina molto scarna dell’istituto, lacune che però sono
state colmate dal lavoro della giurisprudenza.
Per ciò che riguarda, invece, la competenza, in diritto amministrativo l’eliminazione del vizio
attraverso la convalida spetta allo stesso organo che ha emanato l’atto viziato, all’organo che ne ha
l’effettiva competenza (nel caso del vizio di “incompetenza relativa”) o anche ad altro organo
espressamente previsto dalla legge (diversamente da quanto prevede l’art.1444 c.c. per il contratto
di diritto privato, in cui è sancita la competenza della parte che ne potrebbe far valere
l’annullabilità).
Quanto ai “vizi emendabili con la convalida”, sono stati ricondotti al suo ambito di operatività, oltre
al vizio di incompetenza relativa, i VIZI FORMALI (come l’insufficienza del quorum negli organi
collegiali, la carenza o l’insufficienza della motivazione), mentre si sono ritenuti non convalidabili i
VIZI SOSTANZIALI, incidenti sul contenuto dell’atto (come ad esempio l’eccesso di potere per
sviamento : in tal caso infatti la convalida finirebbe per emendare - cioè per rimuovere il vizio di -
un atto adottato per un fine diverso da quello perseguito dall’amministrazione).
Tuttavia, la restante parte della norma desta qualche perplessità : in primis non è chiaro cosa si
debba intendere per “ragioni di pubblico interesse” (infatti l’interesse pubblico che giustifica la
convalida potrebbe anche coincidere col fatto che attraverso la convalida si evitano gli effetti
negativi dell’illegittimità dell’atto); pertanto, per risolvere il problema bisogna ricorrere ai “principi
valevoli per tutti i provvedimenti di secondo grado” : così, la convalida sarà ammessa solo nel caso
in cui L’INTERESSE ALLA CONVALIDA risulti prevalente, dopo un confronto comparativo, su
tutti gli altri interessi coinvolti (“interessi pubblici secondari” e “interessi privati”). Da qui anche
l’esigenza di un’adeguata motivazione.
Per quanto riguarda gli aspetti temporali, dottrina e giurisprudenza riconoscono alla convalida
“efficacia retroattiva”, sicché il vizio verrebbe sanato ex tunc (fin dal momento dell’emanazione
dell’atto), con la conseguenza che la giurisprudenza esclude la “convalida in corso di giudizio” :
ove si ammettesse la convalida di un provvedimento già impugnato, infatti, ne risulterebbe
vanificata la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi in violazione degli artt. 24 e
113 Cost.
La convalida deve intervenire “entro un termine ragionevole” : al riguardo occorre fare una
distinzione sulla base dei “termini previsti per l’impugnazione”. Pertanto :

 se il termine per impugnare è scaduto (e quindi si è consolidato il pregiudizio relativo alla


situazione soggettiva), la convalida è sempre ammessa;
 se il termine non è scaduto, la convalida potrà essere attivata solo dopo la scadenza del
termine.

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Dalla convalida si distingue la “RETTIFICA”, che ha ad oggetto provvedimenti non viziati (quindi
perfettamente validi), ma irregolari. Con la rettifica viene eliminato, con efficacia retroattiva, il c.d.
errore materiale in cui è incappata l’amministrazione (ad esempio l’errore può riguardare il
domicilio del destinatario dell’atto o l’ubicazione di un bene).

3.2. La ratifica. Così come la “convalida del vizio di incompetenza relativa”, la


“RATIFICA” è un istituto che mira alla conservazione dell’atto adottato; mentre però la convalida
sana l’atto eliminando il vizio, con la ratifica l’amministrazione competente fa proprio,
stabilizzandone definitivamente gli effetti (con efficacia ex tunc) un atto adottato da un organo che
– pur non essendo competente – è stato legittimato dalla legge all’adozione dell’atto , data la
presenza di particolari circostanze di urgenza. L’esistenza di tali circostanze (insieme alle “ragioni
di pubblico interesse” sottese all’adozione dell’atto) deve esse verificata al momento della ratifica.

3.3. Conferma e atto meramente confermativo.


Tra i “provvedimenti ad esito conservativo” va ricompresa anche la conferma. Si ha
“CONFERMA” quando l’amministrazione, dopo un’istanza di riesame (di un precedente
provvedimento negativo non più impugnabile), ribadisce la precedente decisione, confermandone
la validità, sulla base di una nuova valutazione degli interessi in gioco. Dalla conferma differisce il
c.d. atto meramente confermativo. Si ha un “ATTO MERAMENTE CONFERMATIVO” quando la
conferma della precedente decisione avviene senza una nuova valutazione degli interessi coinvolti,
ma solo rigettando le osservazioni dell’interessato e ribadendo la validità del proprio precedente
atto.
Quanto detto ci fa comprendere che solo la “CONFERMA” può essere annoverata tra i
“provvedimenti di secondo grado”, perché essa è quel provvedimento che viene adottato al termine
di un nuovo procedimento (un procedimento di riesame), mediante il quale l’amministrazione
(nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali) afferma la “legittimità” o l’ “opportunità” di un atto
(sfavorevole per il destinatario), confermandone il contenuto. La CONFERMA presuppone quindi
l’apertura di un nuovo procedimento, di un’ulteriore istruttoria e una nuova valutazione degli
interessi in gioco. La CONFERMA ha “natura discrezionale”; inoltre – trattandosi di un vero e
proprio provvedimento – la conferma sostituisce (con efficacia ex nunc) il precedente
provvedimento ed è autonomamente impugnabile sia in sede sia giurisdizionale che amministrativa.
Invece, l’ATTO MERAMENTE CONFERMATIVO richiama il precedente provvedimento,
limitandosi a riportarne il contenuto : di conseguenza, esso non è autonomamente impugnabile,
poichè è solo un atto di conferma, attraverso cui l’amministrazione decide di non riesaminare il
proprio precedente provvedimento (e, quindi, di non tornare sui suoi passi, rivalutando la decisione
adottata).
La ratio di questa distinzione sta nell’esigenza di evitare - attraverso l’impugnazione di un atto
meramente confermativo di un precedente provvedimento sfavorevole non più impugnabile per
scadenza del termine - l’elusione del termine di decadenza per impugnare l’atto. Tale orientamento
è stato, però, criticato poichè, negando l’impugnabilità dell’atto meramente confermativo, premia
l’amministrazione inattiva e impudente, mentre, affermando l’impugnabilità dell’atto di conferma,

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penalizza l’amministrazione che, prima di emanare un atto negativo, prende in considerazione


l’istanza del privato.
Ma anche dal punto di vista della tutela del privato la teoria non è convincente, poiché sottrae alle
garanzie dell’art. 113 Cost. gli atti meramente confermativi (finendo, così, per far dipendere la loro
impugnabilità da una scelta dell’amministrazione) : la non impugnabilità dell’atto meramente
confermativo infatti non solo impedisce al cittadino di dimostrare in giudizio che la situazione
(disciplinata dall’originario provvedimento) è cambiata, ma anche di far emergere l’illegittimo
comportamento dell’amministrazione che – senza alcuna giustificazione – non ha dato avvio al
“procedimento di riesame” come da lui richiesto. Da qui la proposta di rivedere la nozione di
ATTO MERAMENTE CONFERMATIVO, che fa dipendere l’impugnabilità di un atto da una mera
scelta dell’amministrazione. In ogni caso, la soluzione al problema è facile : in presenza di
circostanze di fatto o di diritto sopravvenute o qualora ci si trovi davanti ad una situazione che è
mutata, l’amministrazione è obbligata ad aprire il procedimento di riesame e a concluderlo con un
provvedimento espresso”. Con la conseguenza che sarà impugnabile sia la semplice “inerzia
dell’amministrazione”, sia l’ “atto meramente confermativo con cui l’amministrazione declina
l’istanza di riesame del privato, confermando semplicemente la precedente decisione adottata”.

3.4. La conversione. A differenza della sanatoria, la “CONVERSIONE” non mira ad


eliminare un vizio dell’atto invalido (così da sanarlo), ma al contrario punta a conservarne alcuni
effetti (con efficacia ex tunc) : attraverso la CONVERSIONE (che - pur essendo stata positivizzata
dal legislatore solo per i “negozi di diritto privato” dall’art. 1424 c.c., secondo cui “un negozio nullo
può essere convertito in un altro valido del quale abbia tutti gli elementi” - si ritiene applicabile
anche al provvedimento amministrativo), si concede a un atto “nullo” o “illegittimo” la possibilità
di produrre produrre gli effetti di un altro atto, purché ricorrano 3 condizioni :

 che l’atto nullo presenti tutti i requisiti (formali e sostanziali) del nuovo atto;
 che l’amministrazione dimostri che, se avesse conosciuto l’invalidità del primo, avrebbe
certamente adottato il nuovo atto;
 che la funzione dell’atto convertendo sia affine a quella dell’atto da convertire (ricorra, cioè,
una certa omogeneità degli interessi pubblici perseguiti) : si pensi ad esempio alla
conversione del “decreto di espropriazione definitiva” in “decreto di occupazione
temporanea”.

La competenza ad effettuare la conversione spetta all’organo che ha emanato l’atto, mentre la


dottrina esclude che la conversione possa essere effettuata dall’ “organo gerarchicamente
superiore”, in quanto l’auto-interpretazione che si compie con l’adozione dell’atto di conversione
presuppone l’identità tra il “soggetto che ha emanato l’atto convertendo” e l’“autorità che procede
alla conversione”. Si esclude, inoltre, che la conversione possa avvenire da parte del giudice
amministrativo dopo l’annullamento del provvedimento illegittimo : se così fosse infatti si
assisterebbe a un’inammissibile interferenza del giudice nella scelta discrezionale
dell’amministrazione.

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3.5. La riforma. Ai “provvedimenti di secondo grado ad effetti conservativi” può ascriversi


anche la “RIFORMA”. Un procedimento di riesame può concludersi, infatti (oltre che con la
conferma o la rimozione degli effetti del precedente provvedimento) con la loro riforma o modifica.
La RIFORMA – che ha efficacia ex nunc - può avere ad oggetto qualsiasi atto, purchè il relativo
contenuto non sia stato stabilito direttamente dalla legge (si pensi ad es. alla patente di guida) e più
precisamente :

 atti ad efficacia continuata (in tal caso si parla di varianti);


 atti di tipo programmatico (ad es., un piano regolatore);
 atti di tipo puntuale (ad es., un permesso di costruire).

La riforma può trovare collocazione sia nell’ambito di un “procedimento di annullamento” (e in tal


caso produrrà un annullamento parziale) sia nell’ambito di un “procedimento di revoca” (e in tal
caso produrrà una revoca parziale). La dottrina distingue anche tra RIFORMA «SOSTITUTIVA»
(quando con la riforma viene sostituita una parte dell’atto) e RIFORMA «AGGIUNTIVA»
(quando con la riforma viene aggiunta una parte nuova all’atto).
Infine la riforma è una delle classiche espressioni della “potestà d’ordine” (che rappresenta a sua
volta il nucleo fondante della gerarchia) : tuttavia, poiché la “gerarchia” (intesa in senso stretto)
non presenta più alcuna attualità, il “potere di riforma” è ormai rimasto racchiuso nell’ambito del
ricorso gerarchico, con cui un privato, allegando “motivi di legittimità” o “di merito”, richiede
all’ufficio superiore l’annullamento o la riforma di un atto di un ufficio subordinato.

*Art. 21-quinquies. (Revoca del provvedimento) Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o nel caso di
mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento o (salvo che per i
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici) di nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario, il “provvedimento amministrativo ad efficacia durevole” può essere revocato da parte dell'organo che lo ha
emanato o da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a
produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati,
l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo.

1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali,
l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo “danno emergente” e tiene conto sia
dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di
revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della
compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico.

*Art. 21-nonies. (Annullamento d'ufficio)


1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies (esclusi i casi di cui all’articolo 21-octies,
comma 2) può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a 18 mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato o da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.

2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico
ed entro un termine ragionevole.

*PRINCIPIO DEL “CONTRARIUS ACTUS” = l’atto di secondo grado deve seguire lo stesso procedimento del
provvedimento annullato.

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*FACTUM INFECTUM FIERI NEQUIT = ciò che è fatto non può essere considerato non fatto.

*IRREVERSIBILE = Che non si può invertire, e quindi non ammette correzioni, rifacimenti.

*EMENDARE = modificare, correggere, togliere difetti e imperfezioni.

- CAPITOLO 5. COMPORTAMENTI NON


PROVVEDIMENTALI PRODUTTIVI DI EFFETTI
GIURIDICI –
1. La segnalazione certificata di inizio attività. Evoluzione
dell’istituto. La segnalazione certificata di inizio attività («s.c.i.a.») - già «dichiarazione di
inizio attività» e, ancor prima, «denuncia» («d.i.a.») - contemplata dall’art. 19 della L. 241 / 1990, è
un istituto di c.d. semplificazione procedimentale. La L. 241 / 1990 ne ha disegnato una disciplina
generale, più volte modificata. La s.c.i.a. nasce nel 2010 (dopo 20 anni di d.i.a.) e viene «ritoccata»
nel 2011.
Il fondamento dell’istituto sta nel fatto che il privato può «sostituire» a tutta una serie di
provvedimenti autorizzatori una segnalazione, corredata di (= insieme a) autocertificazioni che
attestano il possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento di un’attività soggetta a un regime
autorizzatorio.

 La versione originaria dell’art. 19 prevedeva che “un REGOLAMENTO GOVERNATIVO


(cioè il d.p.r. 300 / 1992) individuasse i casi in cui l’esercizio di un’attività privata,
subordinato ad autorizzazione, licenza, nullaosta, permesso o altro atto di consenso, può
essere intrapreso su denuncia di inizio dell’attività da parte dell’interessato
all’amministrazione competente. In tali casi spetta all’amministrazione competente
verificare d’ufficio la SUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI DI LEGGE
RICHIESTI e disporre, se del caso, con provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione
dell’attività e la rimozione degli effetti, salvo che l’interessato non provveda a conformare
l’attività alla normativa vigente”. Il regolamento doveva anche prevedere i “casi in cui si
poteva iniziare l’attività subito dopo la presentazione della denuncia” oppure “dopo il
decorso di un termine fissato per categorie di atti”. La norma, infine, circoscriveva l’ambito
di applicazione dell’istituto ai casi in cui «il rilascio dell’atto di assenso
dell’amministrazione dipenda esclusivamente dall’ACCERTAMENTO DEI
PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI PRESCRITTI, senza l’esperimento di prove a ciò
destinate, non sia previsto alcun limite o contingente per il rilascio dell’atto e non ne derivi
pregiudizio alla tutela dei valori storico-artistici e ambientali e siano rispettate le norme a
tutela del lavoratore sul luogo di lavoro». In pratica : si demanda l’individuazione delle attività che
avrebbero potuto iniziare l’esercizio con Dia ad un apposito Regolamento. Si stabiliscono due tipi di Dia: 1)
per attività cui può darsi inizio immediatamente dopo la presentazione della denuncia (DIA AD EFFICACIA
IMMEDIATA); 2) per attività cui può darsi inizio dopo il decorso di un termine fissato per categorie di atti (DIA
AD EFFICACIA DIFFERITA).

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 Con la L. 537 / 1993 si sostituì l’art. 19 con il testo seguente : «In TUTTI I CASI in cui
l’esercizio di un’attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, nullaosta,
permesso o altro atto di consenso (ad esclusione delle “concessioni edilizie” e delle
“autorizzazioni paesaggistiche”) il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall’ACCERTAMENTO DEI PRESUPPOSTI E DEI REQUISITI DI LEGGE, senza
l’esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali , e
non sia previsto alcun limite o contingente per il rilascio degli atti, l’atto di consenso si
intende sostituito da una DENUNCIA DI INIZIO DI ATTIVITÀ da parte dell’interessato
alla P.A. competente, attestante l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In tali
casi, spetta all’amministrazione, entro 60 giorni dalla denuncia, verificare d’ufficio la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con
provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione degli effetti,
salvo che l’interessato non provveda a conformare l’attività alla normativa vigente». Veniva
così ribaltata l’impostazione originaria dell’istituto :
1) nella prima formulazione, le attività esercitabili previa presentazione di d.i.a. erano
indicate espressamente nel regolamento governativo (d.p.r. 300 / 1992);
2) ora, invece, (ad esclusione dei casi in cui i titoli dovevano essere rilasciati previa
“valutazione tecnica” o previo “apprezzamento discrezionale” - e al di fuori delle
materie «sensibili» dell’edilizia e della tutela dei beni paesaggistici e ambientali -) tutte
le attività soggette al rilascio di un titolo abilitativo diventavano esercitabili con la
presentazione della d.i.a. (con l’unico limite del decorso dello spatium deliberandi di 60
giorni concessi all’amministrazione per verificare i presupposti e i requisiti richiesti).

In pratica : Nel 1993 la legge finanziaria, modificando l’art. 19 della L. 241/1990, capovolge
l’impostazione della disciplina e quella che prima era una eccezione diventa la regola: le attività che
possono essere avviate con Dia non devono essere più individuate, ma la normativa si riferisce a “tutti i
casi” in cui il rilascio del provvedimento dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dai
requisiti di legge e : 1) senza l’esperimento di prova a ciò destinate (che comportino valutazioni tecniche
discrezionali); 2) non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti . Non si fa
più riferimento al pregiudizio dei valori storico-artistici e al rispetto delle norme a tutela dei lavoratori.
Viene però detto che la Dia non si applica alle attività edilizie. Con la legge n. 537/1993, quindi, l’iniziativa
privata è suscettibile di incondizionata applicazione a materie soggette a TITOLI AUTORIZZATIVI
VINCOLATI. Alla normativa regolamentare viene così assegnato il compito di fissare i casi eccezionali in
cui la Dia non trova applicazione. Scompare anche la distinzione tra dia ad efficacia immediata e differita
e resta solo la “DIA AD EFFICACIA IMMEDIATA”.

 La norma è rimasta invariata fino all’entrata in vigore della L. 80 / 2005, che ha riscritto
l’art. 19, prevedendo che : “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nullaosta (comprese le DOMANDE PER LE ISCRIZIONI IN ALBI
O RUOLI richieste per esercitare un’attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) - il
cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o
di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente per
il rilascio degli atti - è sostituito da una “dichiarazione” dell’interessato corredata delle
certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste”. La novella del 2005 consentiva
di iniziare l’attività dopo 30 giorni dalla data di presentazione della dichiarazione
all’amministrazione (DIA AD EFFICACIA DIFFERITA), con l’obbligo dell’interessato di
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comunicarlo all’amministrazione «contestualmente all’inizio dell’attività». Il potere di


controllo dell’amministrazione doveva esercitarsi entro 30 giorni dal ricevimento della
comunicazione di avvio dell’attività (= quella fatta contemporaneamente all’inizio
dell’attività). In caso di accertamento positivo, l’amministrazione «adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti, salvo che
l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente l’attività entro un termine fissato
dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a 30 giorni». Novità di assoluto rilievo
(mantenuta nel testo vigente dell’art. 19) è la previsione del potere dell’amministrazione di
assumere determinazioni in via di AUTOTUTELA, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-
nonies (revoca e annullamento d’ufficio).
Infine, “ove la legge prevedesse l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, il termine
per l’adozione dei “provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei
suoi effetti” restava sospeso fino all’acquisizione degli atti consultivi; il periodo di
sospensione non poteva superare i 30 giorni, decorsi i quali l’amministrazione poteva
adottare i propri provvedimenti indipendentemente dall’acquisizione del parere”.

In pratica : la L. 80/2005 ha trasformato la Denuncia in Dichiarazione, attribuendole in via generale solo


un’efficacia differita.

2. Il regime giuridico della s.c.i.a. L’art. 19 è stato integralmente sostituito dalla L.


122 / 2010 (di conversione del d.l. 78 / 2010), che ha sostituito la d.i.a. con la S.C.I.A.
In questa prospettiva, il nuovo art. 19 stabilisce :

 “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta


comunque denominato (comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per
l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) - il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti
amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente
complessivo per il rilascio degli atti stessi - è sostituito da una SEGNALAZIONE
DELL’INTERESSATO.
 “La s.c.i.a. deve essere corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, nonché
dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati,   o dalle dichiarazioni di conformità rese
dall’Agenzia delle imprese, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti
per l’avvio dell’attività. Tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati
tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in
cui la normativa vigente prevede l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, o
l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni,
attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche
successive degli organi e delle amministrazioni competenti”. →  Qui si semplifica il regime
delle fattispecie in cui la legge prevede l’acquisizione di PARERI OBBLIGATORI. Prima
l’art. 19 stabiliva che il termine per l’adozione degli eventuali provvedimenti inibitori
dell’amministrazione restasse sospeso fino all’acquisizione dei pareri, e per un periodo non
superiore a 30 giorni (decorso il quale l’amministrazione era legittimata ad adottare i propri
provvedimenti indipendentemente dall’acquisizione degli atti consultivi). Ora, con la
novella del 2010 si è previsto che, quando la LEGGE prevede la necessità di acquisire
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PARERI o eseguire «VERIFICHE PREVENTIVE», essi sono « comunque» sostituiti dalle


autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni che devono corredare la
s.c.i.a., fatte salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.
Ciò desta perplessità, poiché un atto come il “parere”, il cui scopo è quello di realizzare
un’approfondita istruttoria, non può essere sostituito da “autocertificazioni o asseverazioni
di parte”. La disposizione è stata, poi, parzialmente modificata nel 2012 : essa prevede ora
che «Nei casi in cui la NORMATIVA VIGENTE prevede l’acquisizione di pareri di organi
o enti appositi o l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle
autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni, salve le verifiche successive
degli organi e delle amministrazioni competenti» : modifica, questa, in parte
pericolosamente ampliativa (perché la possibilità di sostituzione è oggi consentita non solo
nei casi in cui i pareri siano previsti dalla “legge”, ma anche dalla “normativa vigente”, e
quindi anche da fonti secondarie) e in parte inutile (perché la salvezza delle “verifiche
successive” da parte delle amministrazioni competenti sussisteva già in origine, in virtù del
potere di autotutela di cui godono le amministrazioni).
 “Sono esclusi dalla disciplina sulla s.c.i.a. i casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali; nonché gli atti rilasciati dalle pubbliche amministrazioni preposte
alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’amministrazione della giustizia,
all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza (e, infine, gli atti previsti dalla normativa per le
costruzioni in zone sismiche” = quest’ultima previsione è stata aggiunta nel 2011).
 “L’attività può essere iniziata (a differenza di quanto disposto dalla normativa precedente)
dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente”.

 “L’amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine
di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione (non più 30 giorni, come avveniva in
precedenza), adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi, salvo che l’interessato non provveda a conformare
l’attività alla normativa vigente entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso
non inferiore a 30 giorni”. → Ora i privati possono iniziare l’attività oggetto di s.c.i.a. fin
dalla data della presentazione all’amministrazione competente, ma è stato elevato a 60 il
numero dei giorni di cui l’amministrazione dispone per adottare provvedimenti inibitori e
ripristinatori. Tale termine è perentorio. Per la “s.c.i.a. in materia edilizia”, però,
l’amministrazione ha solo 30 giorni per emanare provvedimenti inibitori o ripristinatori.
 “E’ fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”.

 “Decorso il termine di 60 giorni per l’adozione dei provvedimenti inibitori e ripristinatori,


all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il
patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali
interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente”. → Quindi,
una volta scaduto il termine di 60 giorni, l’amministrazione
resta titolare di un “POTERE DI CONTROLLO EX POST” molto circoscritto : una volta
scaduti i 60 giorni, essa può intervenire solo a salvaguardia degli “interessi sensibili”.

 “la disciplina della s.c.i.a. «attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell’art. 117,
2°comma, lettera e) Cost. e costituisce livello essenziale delle prestazioni riguardanti i
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diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) dello stesso comma”.


→ Questa previsione è stata sospettata di illegittimità : la Corte costituzionale ha affermato
che il richiamo alla materia della CONCORRENZA è «inappropriato», poiché la s.c.i.a. ha
un ambito di applicazione diretto a tutti i cittadini (e, perciò, va oltre la materia della
concorrenza). Ha invece ritenuto infondata la violazione dell’art. 117 in relazione ai livelli
essenziali delle prestazioni, poichè l’“attività amministrativa” può essere qualificata come
«PRESTAZIONE», della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale : sicché
la disciplina prevede che gli interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale,
possano iniziare una determinata attività, salvo il controllo successivo
dell’amministrazione : si tratta quindi di una PRESTAZIONE SPECIFICA, circoscritta
all’inizio della fase procedimentale e finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41
Cost.).

Resta il problema dei limiti applicativi dell’art. 19 : al riguardo, una parte della dottrina ritiene che
le fattispecie previste dall’art. 19, facendo riferimento solo agli “atti amministrativi vincolati”, siano
caratterizzate dall’assenza di esercizio di “discrezionalità amministrativa” da parte
dell’amministrazione. Questa conclusione, però, non può essere condivisa : infatti, il fatto che l’art.
19 si applichi ad «ogni atto» ampliativo della sfera giuridica del privato, il cui rilascio dipenda solo
dall’accertamento dei REQUISITI E PRESUPPOSTI DI LEGGE, non esclude che tra tali «atti»
figurino provvedimenti discrezionali. In primo luogo, qualsiasi provvedimento (vincolato o
discrezionale) deve essere assunto nel rispetto dei «presupposti di legge» : è il PRINCIPIO DI
LEGALITÀ che lo impone. In secondo luogo, l’art. 19 si applica anche alle «CONCESSIONI NON
COSTITUTIVE», che impongono un apprezzamento discrezionale : ad esempio, tra le “concessioni
non costitutive” rientra anche la “concessione demaniale marittima”, che l’amministrazione può
rilasciare compatibilmente “con le esigenze d’uso pubblico”; l’accertamento della compatibilità
della concessione con le esigenze d’uso pubblico è un “presupposto di legge” per il rilascio della
concessione, ma l’accertamento di questo presupposto impone un apprezzamento discrezionale.
Se, quindi, l’art. 19 con il sostantivo «ACCERTAMENTO» sembra evocare la nozione di “attività
amministrativa c.d. vincolata”, il riferimento alla categoria delle «concessioni non costitutive» è
sufficiente a contraddire tale suggestione.

L’altra questione che è stata affrontata riguarda invece l’ “effetto giuridico collegato alla
presentazione della segnalazione” : in quest’ottica, alcuni autori ad esempio hanno configurato la
s.c.i.a. come un “fenomeno caratterizzato da una duplice rilevanza giuridica” (cioè, ha due effetti :
è un fatto che legittima l’esercizio di un’attività, ma dà anche avvio ad un procedimento
amministrativo di verifica); altri l’hanno definita come una “fattispecie che da un lato ha
connotazioni privatistiche (poiché legittima l’interessato a esercitare un’attività) e dall’altro profili
pubblicistici” (dati dall’attivazione dei poteri amministrativi di verifica). Ma, in ogni caso,
nonostante la validità delle tesi prospettate, lo stato delle cose non cambia : cioè, se
l’amministrazione non interviene con il divieto di prosecuzione dell’attività (potere di verifica), o
non interviene in via di autotutela, questa potrà essere lecitamente svolta.

Infine, l’ultima problematica sorta riguarda l’EDILIZIA. Infatti, stando alla formulazione del nuovo
art. 19, “Le espressioni “Segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono le
espressioni “Dichiarazione di inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, e la disciplina della Scia si
sostituisce a quella della Dia in qualsiasi normativa (nazionale e regionale) che richiami la Dia”.
Quindi, una delle prime problematiche aperte dall’introduzione della disciplina della s.c.i.a. era la
sua applicabilità alla NORMATIVA EDILIZIA. Andava chiarito se la Scia si applicasse anche alle
discipline speciali, quali quella edilizia. Il primo punto di domanda riguardava, quindi, la
sostituzione della S.c.i.a. (e della relativa disciplina) alla D.i.a. edilizia. La prima lettura della norma
declinava a favore della sostituzione della D.i.a. edilizia con la S.c.i.a. di cui all’art. 19 : “la
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disciplina della Scia sostituisce direttamente la disciplina della Dia in ogni normativa, statale e
regionale”. La sostituzione dovrebbe quindi riguardare anche la disciplina speciale, come quella
edilizia. Infatti il “testo unico dell’edilizia” (d.p.r. 380 / 2001) è una disciplina speciale.
Alcune Regioni invece sostenevano che la S.c.i.a. non si applicasse all’edilizia ed hanno impugnato
la norma davanti alla Corte costituzionale : i dubbi di legittimità costituzionale riguardavano la
possibile violazione della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia edilizia. Il
problema però è stato in parte risolto dalla L. 106 / 2011 (di conversione del d.l. sviluppo 70 /
2011), che ha stabilito che : “L’art. 19 si applica alle denunce di inizio attività in materia edilizia,
ma ad esclusione dei casi in cui le denunce siano alternative o sostitutive del “permesso di
costruire” (quindi non si ritiene estensibile l’ambito applicativo della Scia agli altri titoli abilitativi
edilizi, come il “permesso di costruire” : in pratica la scia può applicarsi sì al settore edilizio, ad
esempio per opere di restauro o ristrutturazione edilizia, ma non per le nuove costruzioni e gli
ampliamenti).

In pratica : si stabilisce che : 1) il nuovo art. 19 della L. 241/1990 è dettato dallo Stato, per tutelare la concorrenza (materia di
competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 2, lett. e); b) il nuovo art. 19 della L. 241/1990 è dettato dallo
Stato, per stabilire il livello essenziale dei diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117 Cost.,
comma 2, lett. m); c) le espressioni “Segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono le espressioni “Dichiarazione di
inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, e la disciplina della Scia si sostituisce a quella della Dia in qualsiasi normativa, nazionale e
regionale, che richiami la Dia.

IL CONTENUTO : Il contenuto della Segnalazione è molto più ampio di quello della Dia. La “Dichiarazione” doveva essere corredata
dalle CERTIFICAZIONI e dalle ATTESTAZIONI RICHIESTE DALLA NORMATIVA. Pareri e altri atti di consenso previsti dalle normative di
settore, dovevano essere acquisiti presso le Pubbliche amministrazioni competenti e allegati alla Dia. Con la Scia, la vera novità è
l’ampio ricorso all’autocertificazione e all’asseverazione del rispetto di normative tecniche. Appare proprio questo aspetto
l’elemento di maggiore novità (tanto quanto la possibilità dell’avvio immediato). Infatti, onde evitare dubbi, la norma stabilisce che
“nei casi in cui la legge prevede l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi
sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma”.
Coerentemente, scompare la fase di “sospensione del procedimento” (in precedenza prevista) in attesa di eventuali pareri di
Pubbliche amministrazioni quando esso fosse previsto dalle leggi, in quanto i pareri sono sostituiti dalle “autocertificazioni”.

L’EFFICACIA IMMEDIATA : si stabilisce “l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della
Segnalazione all’Amministrazione competente”. La Dia “ad efficacia differita” (= l’attività può essere avviata decorsi 30 giorni dalla
presentazione della Dia) di cui alla precedente formulazione dell’art. 19 scompare a favore della Scia “ad efficacia immediata”. La
semplificazione è notevole, perché oltre a consentire l’avvio immediato dell’attività, elimina l’obbligo della comunicazione ulteriore,
da inviare all’amministrazione competente, contestualmente all’inizio effettivo dell’attività.

IL CONTROLLO : 1) l’amministrazione competente, per l’esecuzione dei controlli, avrà 60 giorni di tempo (e non più solo 30, come
stabilito dalla disciplina precedente); 2) se dai controlli dovessero risultare carenze dei requisiti e dei presupposti oggetto della
Segnalazione e delle autocertificazioni, attestazioni e documentazioni allegate, entro 60 giorni, l’amministrazione competente deve
adottare “motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali EFFETTI DANNOSI di essa”. La
novità introdotta dalla nuova disciplina consiste nella previsione della rimozione dei soli effetti “dannosi” e non di tutti gli effetti
prodotti dall’attività illegittimamente avviata. Basta quindi stabilire il divieto di prosecuzione dell’attività, senza la rimozione degli
effetti da essa prodotti, a meno che - appunto - non siano “dannosi”. All’amministrazione competente, rimane la possibilità di non
prescrivere l’interruzione dell’attività, ma di richiedere all’interessato di conformare l’attività alle norme, stabilendo un periodo
congruo, non inferiore a 30 giorni, quando tale conformazione sia possibile. In ogni caso, si fa salvo “il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela. ma si limita questa possibilità al caso in cui si presenti un “pericolo di
danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla
normativa vigente”. Ciò significa che non costituiscono motivo sufficiente per la REVOCA del “provvedimento tacito”, che si è
formato con la decorrenza dei 60 giorni dalla presentazione della Scia, “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” o un
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“mutamento della situazione di fatto” o una “nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”, basati su interessi generali
diversi da quelli sopra descritti. Altrettanto, per L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO del “provvedimento” amministrativo, che si è
formato con la decorrenza dei 60 giorni dalla presentazione della Scia, non è sufficiente la verifica della semplice illegittimità,
questa condizione deve anche creare un pericolo di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale. Questi limiti, quindi, impongono al responsabile del procedimento un esame approfondito
e conclusivo entro i 60 giorni a disposizione per effettuare i controlli e adottare i provvedimenti conseguenti.

Art.   19   (Segnalazione   certificata   di   inizio   attività   -   SCIA)


1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta (comprese le domande per le
iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale) il cui rilascio
dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a
contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti, è sostituito da
una SEGNALAZIONE DELL’INTERESSATO (con la sola esclusione dei casi in cui sussistano VINCOLI AMBIENTALI,
PAESAGGISTICI O CULTURALI e degli atti rilasciati dalle AMMINISTRAZIONI PREPOSTE ALLA DIFESA NAZIONALE, ALLA
PUBBLICA SICUREZZA, ALL’IMMIGRAZIONE, ALL’ASILO, ALLA CITTADINANZA, ALL’AMMINISTRAZIONE DELLA
GIUSTIZIA, ALL’AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE, compresi gli atti previsti dalla normativa per le costruzioni in
zone sismiche). La segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, nonché dalle attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati o dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle imprese, relative alla
sussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati
tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la
normativa vigente prevede l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, o l'esecuzione di verifiche preventive,
essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente
comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.
2. L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione
all’amministrazione competente. 3.
L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel
termine di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati “provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell'attività” e “di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa”. Qualora sia possibile conformare l'attività
intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a
provvedere, disponendo la sospensione dell'attività e prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine
non inferiore a 30 giorni per la loro adozione. In mancanza di adozione delle misure, decorso il suddetto termine,
l'attività si intende vietata.

4. IMPORTANTE !!!!!!! = (modificato nel 2015) “Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma
3 (= i 60 giorni per adottare i provvedimenti inibitori) ovvero di cui al comma 6-bis (= i 30 giorni in materia di scia
edilizia), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal comma 3 in presenza delle
condizioni previste dall'articolo 21-nonies”. (Comma sostituito nel 2015) → ( La legge 122 / 2010 diceva invece : 3°
comma = “L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di
60 giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e
di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa…….. E ' fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.
4°comma = Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, all’amministrazione è consentito
intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la
salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare
comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente).

6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di 60 giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a 30
giorni.

6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire solo l'azione contro il silenzio inadempimento.

*ASSEVERAZIONE = dichiarazione, certificazione con cui ci si fa garanti della veridicità di quanto asserito.

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*CONTINGENTAMENTO = alcuni settori appaiono come un mercato chiuso e le licenze in tali settori hanno un valore
molto alto.

*CONCESSIONI NON COSTITUTIVE (TRASLATIVE) = le concessioni possono essere “traslative” o “costitutive” a


seconda che la posizione giuridica attribuita venga costituita ex novo o sia semplicemente trasferita.

3. Natura giuridica del c.d. effetto abilitativo della s.c.i.a.


Con la presentazione della “segnalazione certificata” il privato è molto più libero nei confronti
dell’amministrazione, in quanto ad un’ “autorizzazione” (o a un altro “atto di consenso preventivo”)
che può anche tardare o essere negato (impedendo, così, lo svolgimento dell’attività) si sostituisce
un c.d. “controllo successivo” all’avvio dell’attività, da esercitarsi entro 60 giorni, decorsi i quali si
consolida il diritto del privato a svolgere l’attività. Però, questo consolidamento non è definitivo,
poiché l’amministrazione ha sempre il “potere di assumere determinazioni in via di autotutela”
(annullamento e revoca) ex art. 19, 3°comma; la formulazione di questa norma, però, appare
impropria, poiché essa – attribuendo all’amministrazione il potere di revocare o annullare
(attribuendo, cioè, un potere di intervento su atti precedenti) – sembrerebbe presupporre che nella
s.c.i.a. vi sia un “atto di assenso tacito”. Ma ciò, se fosse vero, sarebbe in contrasto proprio con
quanto stabilito dall’art. 19, nella parte in cui ricollega l’inizio dell’attività al momento della
presentazione della comunicazione da parte del privato, e non invece all’assenso
dell’amministrazione : diversamente, non ci sarebbe alcuna differenza tra s.c.i.a. e silenzio-assenso.
La s.c.i.a. invece deve considerarsi un “atto del privato”. Del resto, in linea con questo orientamento
dottrinario, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (2009) ha affermato che - essendo la s.c.i.a. un
atto di un soggetto privato, e non di una pubblica amministrazione (che ne è invece destinataria) – il
privato potrà esercitare l’attività non sulla base dell’emanazione di un “atto di consenso
dell’amministrazione”, ma in forza della legge : il soggetto è abilitato a svolgere l’attività
direttamente dalla legge, che disciplina direttamente l’esercizio del diritto, eliminando di
conseguenza l’intermediazione del “potere autorizzatorio dell’amministrazione”.
Nonostante questa pronuncia, però, la questione è rimasta controversa e il Consiglio di Stato ne ha
rimesso la soluzione all’Adunanza Plenaria, che ha disposto quanto segue :

 La s.ci.a. ha natura privata, dato che l’attività – per essere intrapresa – non necessita del
consenso espresso dell’amministrazione, ma esige solo la sussistenza dei “presupposti
indicati ex lege”;
 il denunciante è titolare di una “posizione soggettiva originaria”, che trova il suo
fondamento nella legge, purchè ricorrano i presupposti normativi per esercitare l’attività;
 il potere che spetta all’amministrazione è solo quello, successivo, di “verificare la
conformità a legge dell’attività denunciata” con l’uso degli strumenti inibitori e repressivi.
 Decorsi i 60 giorni per adottare tali provvedimenti, si consuma il “potere vincolato di
controllo con esito inibitorio” e viene in rilievo il solo “potere discrezionale di autotutela”
(annullamento e revoca).

Quindi, secondo il Consiglio di Stato, il regime della s.c.i.a. è sì sottoposto a un regime


amministrativo, ma con la significativa differenza che questo regime non prevede un “assenso
preventivo di natura autorizzatoria”, ma un controllo da esercitarsi entro un termine perentorio, con
l’attivazione di un procedimento teso a verificare la sussistenza dei presupposti per esercitare
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l’attività dichiarata. Pertanto, laddove l’amministrazione non eserciti i poteri inibitori o repressivi
nel termine perentorio previsto dalla legge, si forma un c.d. “provvedimento tacito di diniego”
(all’adozione degli atti inibitori o repressivi), attraverso cui l’amministrazione, in modo implicito,
riconosce la legittimità dell’attività intrapresa.
Di conseguenza, secondo tale pronuncia, ove il “terzo controinteressato” assumesse di essere stato
leso dagli effetti della s.c.i.a., egli non potrebbe far ricorso contro l’ “assenso tacito all’esercizio
dell’attività”, ma dovrebbe impugnare l’ “inerzia dell’amministrazione” che, omettendo di
esercitare i propri poteri inibitori, ha determinato la formazione di un “provvedimento tacito di
diniego all’adozione di un atto inibitorio” (legittimando, così, l’attività intrapresa dal privato).
Nel 2011 è stato aggiunto all’art. 19 il comma 6-ter, con cui si è espressamente previsto che «la
s.c.i.a. non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile». Gli interessati possono
sollecitare le verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire solo l’AZIONE
CONTRO IL SILENZIO-INADEMPIMENTO.

*In pratica : Il legislatore recepisce l’orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della S.C.I.A., come ATTO
PRIVATO NON IMMEDIATAMENTE IMPUGNABILE. Il Consiglio di Stato aveva stabilito che la scia non costituisce un
provvedimento tacito di assenso formatosi per il decorso del termine, essendo invece una mera “dichiarazione del
privato” rivolta all’amministrazione competente. Pertanto, l’oggetto del giudizio che vede come ricorrente il terzo leso
dagli effetti della scia, non può essere l’assenso tacito dell’amministrazione all’esercizio dell’attività, ma il terzo avrà
l’onere d’impugnare l’inerzia dell’amministrazione, che, omettendo di esercitare i propri poteri inibitori, ha
determinato la formazione di un “PROVVEDIMENTO TACITO DI DINIEGO DI ADOZIONE DI TALI PROVVEDIMENTI
INIBITORI”.
Con l’articolo 19, comma 6 ter della L. 241/1990 il legislatore disconosce la natura di provvedimento tacito
direttamente impugnabile dai terzi della SCIA. La Scia è quindi un atto del privato, e non un provvedimento
amministrativo riconducibile a una manifestazione di volontà della P.A. Conseguentemente, la tutela dei terzi non si
esplica attraverso un giudizio impugnatorio, ma attraverso la previsione dell’articolo 31 del codice del processo
amministrativo (Art. 31 = Azione avverso il silenzio” : d ecorsi i termini per la conclusione del procedimento
amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere). In
altri termini, il terzo leso dalla Scia potrà solo esperire l’azione sul silenzio dell’amministrazione, con l’avvertenza però
che tale azione presuppone la sussistenza di un obbligo dell’amministrazione di adottare le misure richieste dal terzo,
obbligo che tuttavia non può ritenersi esistente allorché il potere di cui s’invoca l’esercizio si consumi per effetto del
decorso del termine perentorio previsto dalla legge per il suo esercizio. Tale assetto sembrerebbe privilegiare il
consolidamento della posizione del soggetto che inizia l’attività economica.

Secondo tale impostazione il comma 6 ter della L. 241/1990,” pone a carico della PA un OBBLIGO DI PROVVEDERE
SULLE DOMANDE TESE A PROVOCARE L’ESERCIZIO DELLE VERIFICHE SULLA SCIA. Si tratta di un obbligo diverso rispetto
al dovere di controllo previsto dal 3° comma del predetto articolo, in quanto non trae origine dalla presentazione della
Scia, ma da un’istanza formulata da chi abbia interesse all’adozione delle misure inibitorie dell’attività. In tal modo, la
P.A., a seguito dell’istanza, sarebbe obbligata ad aprire un nuovo procedimento di controllo e a concluderlo con un
provvedimento espresso impugnabile direttamente dal privato.

4. Il silenzio assenso. A differenza della s.c.i.a. (che presuppone la presentazione di una


comunicazione con cui il privato informa l’amministrazione di voler intraprendere una certa
attività), il c.d. “SILENZIO ASSENSO” invece presuppone la presentazione di un’istanza, con cui
il privato – chiedendo all’amministrazione il rilascio di un titolo abilitativo – ottiene l’accoglimento
tacito della domanda laddove l’amministrazione non si pronunci nel termine stabilito per la
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conclusione del procedimento. Prima di essere disciplinato dall’art. 20 della L. 241 / 1990, esso era
un istituto previsto da alcune discipline settoriali, tra cui il c.d. «decreto Nicolazzi» del 1982, il cui
art. 7 stabiliva che alcuni trascurabili tipi di interventi sul territorio fossero soggetti ad
“autorizzazione gratuita”, purché conformi alle prescrizioni urbanistiche comunali e non sottoposti
a vincoli storici, culturali e paesaggistici : per tali interventi si stabiliva che «l’istanza per
l’autorizzazione del sindaco ad eseguire i lavori si intende accolta se il sindaco non si pronuncia
entro 60 giorni. In tal caso il richiedente può dar corso ai lavori comunicando al sindaco il loro
inizio». L’art. 8 poi prevedeva che la “domanda di concessione ad edificare per interventi edilizi
diretti alla costruzione di abitazioni” si intendeva accolta se entro 90 giorni dalla presentazione
della domanda non fosse stato comunicato un “provvedimento motivato di diniego”.
Sulla base di queste discipline settoriali, il Consiglio di Stato ha successivamente enucleato una
serie di “principi in materia di SILENZIO ASSENSO” :

 la disciplina sul c.d. silenzio assenso, in quanto derogatoria del regime ordinario di “rilascio
del titolo”, deve ritenersi eccezionale (motivo per cui essa deve ritenersi soggetta a “stretta
interpretazione”);
 il silenzio assenso si forma con il decorso del tempo stabilito dalla legge (e sempre che la
domanda del privato sia completa di tutta la documentazione);
 il silenzio assenso si produce solo in presenza di tutti i presupposti stabiliti dalla legge;
 il silenzio assenso non è un provvedimento implicito, ma una «FATTISPECIE LEGALE
PERMISSIVA», che in ogni caso non impedisce all’amministrazione di esercitare i “poteri
di autotutela” (annullamento e revoca). Si è così escluso che nel silenzio assenso possa
ravvisarsi un fenomeno di finzione giuridica (provvedimento implicito, comportamento
concludente, ecc.);
 il silenzio assenso è rigorosamente soggetto al “principio di legalità”, con la conseguenza
che fattispecie tipiche di silenzio assenso non possono essere introdotte per via
regolamentare.

5. Il silenzio assenso nella legge generale sul procedimento. L’art. 20


della L. 241 / 1990, nella sua versione originaria, attribuiva a un “REGOLAMENTO
GOVERNATIVO” (si tratta del d.p.r. 300 / 1992) il compito di individuare i casi in cui la domanda
di rilascio di un’autorizzazione, licenza, abilitazione, nullaosta, permesso o un altro atto di consenso
potesse considerarsi accolta, laddove l’amministrazione non avesse comunicato all’interessato il
PROVVEDIMENTO DI DINIEGO entro un termine fissato dal regolamento per le varie categorie
di atti. L’art. 20 faceva comunque salva la possibilità per l’amministrazione adìta di annullare
«l’atto di assenso formatosi illegittimamente », a meno che il privato non avesse provveduto, entro
un termine fissato dall’amministrazione, a sanare i vizi riscontrati.
Era un REGOLAMENTO DI DELEGIFICAZIONE, quindi, ad individuare tassativamente i “casi
di silenzio assenso” : regolamento che, però, secondo il Consiglio di Stato, non poteva consentire la
produzione dell’effetto legale tipico di atti per cui fosse previsto l’esperimento di prove, o atti il cui
rilascio potesse compromettere i valori storico-artistici o ambientali, o il rispetto delle norme a
tutela del lavoratore sul luogo di lavoro. Sempre secondo il Consiglio di Stato altre ipotesi di
silenzio assenso non potevano essere introdotte con norme regolamentari, emanate al di fuori

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dell’apposito procedimento previsto dall’art. 20.


Nel 2005, però, l’art. 20 della L. 241 / 1990 è stato modificato dalla L. 80 / 2005, e ora dispone che
«Salvo il regime della d.i.a. (s.c.i.a.) di cui all’art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il
rilascio di provvedimenti amministrativi il “silenzio dell’amministrazione competente” equivale a
“provvedimento di accoglimento della domanda”, se l’amministrazione non comunica
all’interessato il “provvedimento di diniego” nel termine fissato con regolamento per le singole
tipologie di provvedimenti o, in mancanza, nel termine massimo di 90 giorni oppure se non indice,
entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, una “conferenza di servizi”». L’effetto legale tipico
di ASSENSO si forma, quindi, se l’amministrazione non comunica il “diniego” nei termini di cui
all’art. 2, comma 2° o 3° (e quindi o nel termine fissato con regolamento per singoli tipi di
provvedimenti o nel termine massimo di 90 giorni) : se quindi un’amministrazione comunale
particolarmente incline a favorire la diffusione di esercizi per la somministrazione di alimenti e
bevande dovesse fissare, con regolamento, un termine di conclusione del procedimento per il
rilascio del titolo pari a 15 giorni, il privato potrà aprire un ristorante o un bar nell’arco di due
settimane dalla presentazione dell’istanza, se entro quest’arco temporale l’amministrazione non
istruisce la pratica e non adotta l’eventuale motivato diniego. L’alternativa all’adozione del diniego
è l’indizione di una conferenza di servizi.
In ogni caso il SILENZIO ASSENSO nei “procedimenti che iniziano su istanza parte”, da istituto
di carattere eccezionale (versione originaria dell’art. 20), dopo la riforma del 2005, è divenuto un
istituto di carattere generale : il REGOLAMENTO GOVERNATIVO, che originariamente era
chiamato, ex art. 20, ad individuare i “casi di ammissibilità dell’istituto”, in virtù della novella del
2005 è chiamato ora ad individuare i casi in cui esso non si applica.
Comunque l’art. 20 ribadisce che l’amministrazione può agire in via di AUTOTUTELA : ciò
significa che l’amministrazione – in presenza dei presupposti richiesti dagli artt. 21-quinquies e 21-
nonies – può revocare o annullare l’ “atto di assenso tacito”. Infine – in applicazione di quanto già
stabilito in sede giurisprudenziale – la normativa esclude l’applicabilità del silenzio assenso alle
“materie sensibili” (cioè agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico,
l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, la salute e l’incolumità pubblica), ai casi in
cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali e ai casi
in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come “rigetto dell’istanza”.

Art. 20 (Silenzio assenso).


1. Nei “procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi” il SILENZIO
DELL'AMMINISTRAZIONE COMPETENTE equivale a PROVVEDIMENTO DI ACCOGLIMENTO DELLA DOMANDA,
senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se l’amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui
all'articolo 2 (commi 2 o 3) il provvedimento di diniego.

2. L'amministrazione competente può indire, entro 30 giorni dalla presentazione dell'istanza una conferenza di servizi,
anche tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati.

3. Nei casi in cui il SILENZIO DELL'AMMINISTRAZIONE equivale ad ACCOGLIMENTO DELLA DOMANDA,


l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-
nonies.

4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità,
ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge
qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza.

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5-bis. Ogni controversia relativa all'applicazione del presente articolo è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.

*STRETTA INTERPRETAZIONE = divieto di interpretazione analogica.

*DIFFIDA = avvertimento formale a un soggetto di ottemperare a un obbligo.

- PARTE 5. AMMINISTRAZIONE
CONSENSUALE -

- CAPITOLO 1. GLI ACCORDI -

1. Accordo amministrativo ed esercizio della funzione pubblica.


L’art. 11 della L. 241 / 1990 (modificato dalla L. 15 / 2005), disciplinando gli
“ACCORDI TRA AMMINISTRAZIONE E PRIVATI”, consente alla parte pubblica di
esercitare la funzione amministrativa attraverso l’uso di moduli consensuali.
L’uso di moduli convenzionali era già previsto in normative di settore che
disciplinavano specifici procedimenti : ad esempio, la normativa
sull’espropriazione prevede la “cessione volontaria del bene espropriando”
(che è un atto convenzionale che sostituisce il provvedimento di
espropriazione); o in ambito urbanistico, dove sono previste le “convenzioni di
lottizzazione”, per programmare l’urbanizzazione e l’edificazione di aree
edificabili.
Nonostante moduli convenzionali fossero già previsti prima dell’entrata in
vigore della L. 241/1990, l’art. 11 è stato innovativo : esso, infatti, ha
consentito un’alternativa al modello tradizionale di amministrazione, fondato
sull’esercizio unilaterale e imperativo del potere amministrativo : al principio
tradizionale del “binario unico” (quello fondato sull’esercizio unilaterale del
potere) si sostituisce il “principio del doppio binario” (per cui l’amministrazione
può scegliere sia la tradizionale linea autoritativa, che la nuova linea
convenzionale : cioè gli “accordi”).
In ogni caso, se è vero che gli ACCORDI sono una fattispecie radicalmente
diversa dal provvedimento, è anche vero che gli stessi non possono essere
ricondotti, sic et simpliciter, nella categoria del “contratto di diritto privato”.
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Pertanto occorre partire dalla seguente definizione : gli ACCORDI costituiscono


una particolare modalità di esercizio del potere amministrativo, in quanto -
essendo disciplinati dalla “Legge sul procedimento” - possono essere conclusi
solo nell’ambito di un procedimento amministrativo avviato (cioè nell’ambito
del concreto esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione). Senza un
PROCEDIMENTO e un presupposto POTERE AUTORITATIVO attribuito
dall’ordinamento all’amministrazione non può esserci alcun accordo : la tipicità
degli accordi è, quindi, legata alla tipicità del potere di provvedere. Ciò
consente di escludere che gli accordi possano essere ricondotti all’attività di
diritto privato dell’amministrazione.
Infatti, indubbiamente l’amministrazione ha PIENA CAPACITÀ DI DIRITTO
PRIVATO e può stipulare contratti (essendo in ciò soggetta al solo vincolo del
“perseguimento dei fini istituzionali”), tuttavia – nell’esercitare la sua attività di
diritto privato – l’amministrazione, non potendo usufruire del suo “potere
autoritativo” (che è in grado di produrre effetti giuridici unilaterali nella sfera
del privato), è obbligata ad agire su un piano paritetico con il privato. Difatti, in
mancanza del mutuo (= reciproco) consenso tra amministrazione e privato non
si produrranno effetti giuridici nella sfera del privato (potendo essere solo il
contratto la fonte di questi effetti).
Da ciò emerge la notevole differenza che corre tra i “contratti ad evidenza
pubblica” e gli “accordi” ex art. 11 : mentre i primi infatti sono dei veri e propri
contratti (in quanto tali, soggetti all’integrale disciplina codicistica), gli accordi
ex art. 11, trovando il loro presupposto nel concreto esercizio di un potere
autoritativo, non possono essere disciplinati per intero dalle regole del codice
civile (ad essi si applicano solo “i principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti” in quanto compatibili : art. 11, 2°comma). L'accordo si
colloca in seno all’esercizio di un’attività che l’amministrazione svolge in veste
di “autorità” e che, in assenza dell’accordo, tenderebbe a concludersi con
l’emanazione di un provvedimento in grado di produrre effetti giuridici nella
sfera del privato. Negli accordi il potere autoritativo viene esercitato attraverso
“atti bilaterali”, laddove la volontà del privato non è necessaria per il
confezionamento della fattispecie. Gli accordi nascono, dunque, dalla fusione di
potere (dell’amministrazione) e autonomia privata (del privato).

2. Tipologia e ambito applicativo degli accordi.


L’art. 11 della L. 241 / 1990 prevede due tipi di accordo tra amministrazione e
privato : 1) l’ “ACCORDO PROCEDIMENTALE” (detto anche ACCORDO
INTEGRATIVO); 2) e quello “SOSTITUTIVO DEL PROVVEDIMENTO”.

 ACCORDI INTEGRATIVI : è stata prevista la loro generale applicazione fin


dall’originaria formulazione dell’art. 11. Essi sono conclusi per
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale : con l’
“accordo integrativo” l’amministrazione si obbliga ad esercitare il potere

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con l’emanazione di un provvedimento, il cui contenuto, però, è


determinato dal previo accordo con il privato; una volta sottoscritto
l’accordo, il “contenuto del provvedimento” diviene vincolato, perché
esso deve essere conforme all’accordo (se è difforme, il provvedimento è
illegittimo). Quindi l’ “accordo procedimentale” è un atto consensuale
che, intervenendo all’interno del procedimento, condiziona l’adozione del
provvedimento, perché quest’ultimo è tenuto a riprodurre il “contenuto
del previo accordo”.
 ACCORDI SOSTITUTIVI : l’ “accordo sostitutivo”, invece, comporta la
conclusione del procedimento, determinando (in sostituzione del
provvedimento, che, in questo caso, non viene emanato perché sostituito
dall’accordo) l’assetto degli interessi in gioco. La L. 15/2005 ha
riconosciuto loro una “generale applicazione”, invertendo la disciplina
previgente che li aveva, al contrario, “tipizzati”. Tuttavia l’atipicità ora
riconosciuta agli accordi sostitutivi è solo parziale : si tratta, infatti, di
un’atipicità nell’an (un’atipicità, cioè, che consente di concludere il
procedimento con un accordo, anziché con l’adozione del tradizionale
provvedimento, senza che sia necessaria un’apposita previsione
legislativa). L'accordo (sia quello sostitutivo che quello integrativo) resta
tipico, perchè assorbe la tipicità del provvedimento corrispondente.

L’art. 11, 3°comma («Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti


agli stessi controlli previsti per questi ultimi») si riferisce solo agli ACCORDI
SOSTITUTIVI : ciò, però, non determina una diversa disciplina tra accordo
sostitutivo e procedimentale, anzi ne conferma il carattere unitario,
riconducendo gli “accordi sostitutivi” alla disciplina dei controlli del
provvedimento sostituito, così come ne è soggetto il “provvedimento che
segue a un accordo procedimentale”.
Tuttavia ci sono delle DIFFERENZE STRUTTURALI : mentre l’accordo
procedimentale è un atto che interviene nel procedimento e all’interno di
questo esaurisce i suoi effetti (si tratta, cioè, di un atto interno al
procedimento e strumentale al provvedimento), l’accordo sostitutivo,
invece, conclude il procedimento, determinando l’assetto di interessi al
posto del provvedimento. Nel primo caso l’accordo non conclude il
procedimento ed è necessario il provvedimento finale (il cui contenuto è
però vincolato dall’accordo), nel secondo caso l’accordo determina la
chiusura del procedimento, senza l’emanazione di alcun provvedimento. Il
tratto comune tra le due specie di accordo è l’obbligo per entrambe le parti
di dare esecuzione a quanto pattuito.
L’ambito di applicazione degli accordi subisce varie limitazioni : 1) l’oggetto
dell’accordo non può essere l’esercizio di un “potere vincolato” : ciò è vero
sia per gli “accordi procedimentali” (che hanno ad oggetto proprio la
determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento finale) che
per “quelli sostitutivi” (perché la predeterminazione normativa dell’assetto
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degli interessi non potrebbe consentire alcuna definizione concordata del


procedimento); 2) un altro limite è previsto dall’art. 13 della L. 241/1990,
che esclude l’applicabilità dell’intero “Capo sulla partecipazione” (e, quindi,
anche dell’art. 11) per l’attività della P.A. diretta all’emanazione di atti
normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione,
per i quali “restano ferme le particolari norme che ne regolano la
formazione”. Ciò però non esclude che determinate “discipline di settore”
possano prevedere l’uso di moduli convenzionali anche in questi ambiti
(come avviene con le “convenzioni di lottizzazione” in materia urbanistica,
che sono atti programmatici : atti consensuali predisposti allo scopo di
programmare l’urbanizzazione e l’edificazione di aree individuate dal piano
regolatore come edificabili, in alternativa ad “atti unilaterali”, come i “piani
di lottizzazione).

3. La formazione degli accordi e il vincolo di «non negoziabilità


dell’interesse pubblico». Si è detto che gli accordi non sarebbero
ammissibili perchè la P.A. non può negoziare l’interesse pubblico affidato alle
sue cure. Ma la negoziazione non determina per l’amministrazione la rinuncia
al perseguimento dell’interesse pubblico, ma ne fissa solo le modalità del
perseguimento. La L. 241 / 1990 infatti prevede che «l’accordo può essere
concluso esclusivamente nel perseguimento del pubblico interesse», stabilendo
che la rinuncia all’unilateralità non implica la rinuncia alla soddisfazione
dell’interesse pubblico.
Il “perseguimento dell’interesse pubblico”, quindi, è la CAUSA DELL’ACCORDO
e ne determina anche il regime pubblicistico. Condivisibilmente, secondo parte
della dottrina, la figura degli accordi è stata introdotta dal legislatore per
concedere alle parti un’utilità ulteriore rispetto a quella che può essere fornita
dal tradizionale provvedimento unilaterale : infatti, se è vero che l’accordo può
essere concluso solo nel perseguimento del “pubblico interesse”, è comunque
impensabile che i contraenti privati impegnino tempo e denaro per uno
strumento che non consenta loro di introdurre i propri interessi e, anzi, li
costringa a perseguire un pubblico interesse anziché il proprio.
In realtà, la contraddizione insita nella fusione tra POTERE AMMINISTRATIVO e
AUTONOMIA PRIVATA è solo apparente, se si inserisce nell’ambito della
“partecipazione al procedimento”. Gli accordi, infatti, non sono solo un istituto
del procedimento amministrativo, ma anche un istituto di partecipazione al
procedimento : si consente al privato di incidere (tramite la manifestazione dei
propri interessi) non solo sulla “formazione della decisione”, ma anche sulla
“determinazione del contenuto della decisione”, codeterminando la definizione
di un assetto di interessi vincolante sia per l’amministrazione che per
l’interessato. Infatti il POTERE AMMINISTRATIVO si esercita attraverso il
confronto con gli INTERESSI PRIVATI, e ciò rappresenta la ratio della
partecipazione al procedimento amministrativo. Gli accordi consentono
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all’INTERESSE PRIVATO di svolgere un ruolo ancora più incisivo nella


realizzazione di tale confronto, definendo un assetto di interessi (compatibile
con il perseguimento dell’interesse pubblico) condiviso e vincolante per le
parti. Infatti negli accordi amministrativi l’amministrazione non dispone dello
scopo normativamente imposto (di cui essa è anzi garante), ma degli interessi
coinvolti in coerenza allo scopo dato.
La TRATTATIVA PER DEFINIRE L’ACCORDO è, del resto, inclusa dal 1°comma tra
le “facoltà partecipative del privato” (“la proposta del privato viene presentata
nell’ambito della partecipazione”) e l’ISTANZA DI ACCORDO presentata dal
privato è, anzi, un’espressione qualificata di partecipazione al procedimento,
poiché impone all’amministrazione di valutare l’istanza contenente lo schema
del «definitivo» assetto di interessi in gioco.
La L. 15/2005, introducendo il comma 4-bis nell’art. 11 della L. 241 / 1990, ha
previsto che «a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione
amministrativa, in tutti i casi in cui una P.A. conclude accordi, la stipulazione
dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe
competente per l’adozione del provvedimento». La disposizione conferma la
natura pubblicistica della FASE DI FORMAZIONE DEGLI ACCORDI : l’ “obbligo,
per l’amministrazione, di perseguire l’interesse pubblico” dimostra come la
scelta dell’accordo sia frutto di una sua valutazione discrezionale.
L'amministrazione deve valutare e motivare, alla stregua dell’interesse
pubblico, non solo la scelta di stipulare l’accordo (come prevede il comma 4-
bis), ma anche quella di rifiutare la proposta avanzata dal privato.
Conseguentemente, la posizione del privato proponente è giuridicamente
protetta non solo nell’ESECUZIONE DI UN ACCORDO GIÀ CONCLUSO, ma anche
RIGUARDO ALLA SUA FORMAZIONE, in quanto egli è titolare di un “interesse
legittimo pretensivo” (interesse a che l’accordo sia concluso), tutelabile davanti
al giudice amministrativo in caso di “rifiuto” o “silenzio”.
Un motivo di riflessione è poi l’eventuale mancanza della determinazione
motivata dell’amministrazione rispetto a un accordo comunque concluso : la
“determinazione pubblica” segue la fase della “trattativa” (in cui
l’amministrazione riceve, valuta e contratta la proposta del privato e raggiunge
un’intesa sul contenuto dell’accordo). Tuttavia, secondo il comma 4-bis,
l’accordo si perfeziona «solo dopo la formale determinazione dell’organo
competente ad emanare il provvedimento» e questa decisione è l’unica forma
legittima per manifestare l’adesione della P.A. Laddove l’amministrazione, dopo
aver raggiunto l’intesa con il privato, non adotti la determinazione e non
proceda alla stipula, dovrà riconoscersi al privato la possibilità di attivare un
SINDACATO DI LEGITTIMITÀ SULL’INERZIA O SUL RIFIUTO
DELL’AMMINISTRAZIONE (ancora più incisivo di quello riconosciuto al mero
istante) e di conseguire l’eventuale esecuzione coattiva della stipula.

*STIPULARE = concludere formalmente un contratto tramite la redazione del documento nelle forme dovute.

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*ACCORDI CONCLUSI TRA PRIVATI E P.A. : è un modulo di esercizio del potere, alternativo alla tipologia
dei provvedimenti. Gli accordi rientrano nelle attività discrezionali della P.A. e restano distinti dall’ordinaria attività iure
privatorum. L’assetto scaturente dall’accordo (incontro della manifestazione di volontà della parte pubblica e di quella
privata) consente di realizzare contemporaneamente sia l’interesse della collettività che quello del singolo. Tali accordi,
a differenza dei contratti tra privati, generalmente irrilevanti per coloro che non sono parti, possono incidere, come
tutti i provvedimenti autoritativi, sulle sfere giuridiche dei terzi. Questi ove subiscano lesioni nei
propri interessi legittimi potranno impugnare o il provvedimento finale (in caso di accordo integrativo) o l’accordo
sostitutivo davanti al giudice amministrativo.
La procedimentalizzazione degli accordi ex art. 11 prevede che l’accordo venga preceduto da una DETERMINAZIONE A
CONTRARRE, attraverso la quale la P.A. esterni le ragioni a fondamento della decisione di contrarre. Quindi la scelta di
giungere all’accordo deve essere giustificata.

Art. 11 (Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento)
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate dal privato, l’amministrazione può concludere, senza
pregiudizio dei diritti dei terzi e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati per
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale oppure in sostituzione di questo.

1-bis. Per favorire la conclusione degli accordi, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di
incontri cui invita il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati.

2. Gli accordi devono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi
si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Gli accordi di cui al
presente articolo devono essere motivati.

3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti agli stessi controlli previsti per questi ultimi.

4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo
di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato.

4-bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica
amministrazione conclude accordi, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che
sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.

4. L'esecuzione degli accordi. Dopo la conclusione dell’accordo, la


disciplina del rapporto che ne nasce è ricavabile dai “PRINCIPI DEL CODICE
CIVILE IN MATERIA DI OBBLIGAZIONI E CONTRATTI”, in quanto compatibili.
Tuttavia, la tutela del “pubblico interesse” comporta la necessaria
combinazione tra “PRINCIPI DI DIRITTO PUBBLICO” (in base a cui
l’amministrazione non solo decide di accordarsi, ma può eccezionalmente
esercitare poteri unilaterali “estintivi” o “sospensivi del rapporto contrattuale”)
e “PRINCIPI DI DIRITTO PRIVATO”(che costituiscono la disciplina generale del
rapporto e in base a cui l’amministrazione è obbligata a dare esecuzione a ciò
che ha concordato).

4.1. Il recesso dell’amministrazione. In quest’ottica, assume una certa


rilevanza l’istituto dello scioglimento unilaterale del vincolo da parte
dell’amministrazione (c.d. RECESSO). L’art. 11, 4°comma dispone che «Per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede
unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di
un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno al
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privato». La previsione del RECESSO DELLA P.A. PER SOPRAVVENUTI MOTIVI DI


PUBBLICO INTERESSE conferma il carattere vincolante e impegnativo
dell’accordo e allo stesso tempo il suo assoggettamento al vincolo funzionale
del perseguimento dell’interesse pubblico. Il “recesso” può essere configurato
come riemersione del potere pubblico che, pur limitato dal pactum, non si
consuma con l’adesione ad esso e, in presenza di ragioni di pubblico interesse,
prevale sul vincolo contrattuale. La decisione pubblica di sciogliere l’accordo si
concreta in un provvedimento unilaterale e imperativo : il provvedimento,
intervenendo nella fase esecutiva, permette alla P.A. di intervenire quando
l’assetto di interessi determinato consensualmente contrasti, dopo fatti
sopravvenuti, con l’interesse pubblico.
Tuttavia il potere di recesso è soggetto a stringenti LIMITI : 1) il primo limite
consiste nella sua FUNZIONALIZZAZIONE ALLA CURA DEL PUBBLICO INTERESSE
: ciò comporta che la “decisione di recedere” deve essere preceduta da un
procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio, deve essere motivata
ed è soggetta al sindacato del giudice amministrativo. Infatti, poiché il recesso
è esercizio di un potere discrezionale (e non di un diritto potestativo civilistico,
come nel diritto privato), l’amministrazione deve indicare le “ragioni di pubblico
interesse che non le permettono di dar seguito a quanto concordato”; 2)
un’altra conseguenza della natura pubblicistica del recesso è la sua
INDISPONIBILITÀ NEGOZIALE (= perché la P.A. non può recedere a suo
piacimento, ma solo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico). Per tali
caratteri il “recesso dall’accordo” si differenzia dal “recesso dal contratto”; 3)
un altro limite alla possibilità di recesso è che i MOTIVI DI PUBBLICO INTERESSE
devono essere «SOPRAVVENUTI» : ciò non significa che l’amministrazione può
recedere perché - dopo la stipulazione dell’accordo - ha valutato in modo
diverso l’interesse pubblico (c.d. ius poenitendi), ma significa, invece, che
dopo la stipulazione dell’accordo sono maturati “nuovi elementi” (che al
momento della stipulazione dell’accordo non erano né conosciuti, né
conoscibili) che non le permettono di portare avanti il rapporto contrattuale, in
virtù del contrasto (successivo) che si è venuto a creare tra il “contenuto
dell’accordo” e il “nuovo assetto degli interessi pubblici in gioco”.
Il recesso ex art. 11 si avvicina per molti versi alla REVOCA DEL
PROVVEDIMENTO : infatti i due istituti hanno in comune la liquidazione di un
indennizzo, il perseguimento dell’interesse pubblico e l’efficacia ex nunc. La
differenza, però, sta nel fatto che mentre il recesso dall’accordo può essere
giustificato solo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, il provvedimento
può essere revocato (oltre che «per sopravvenuti motivi di pubblico interesse»)
anche nel caso di un mutamento della situazione di fatto o di una nuova
valutazione dell’interesse pubblico. Quindi il recesso è un istituto proprio degli
accordi amministrativi, che non corrisponde al RECESSO CIVILISTICO e si
differenzia anche dalla REVOCA DEL PROVVEDIMENTO.
Ad ogni modo, avendo chiarito che il RECESSO è un atto unilaterale e
imperativo che agisce sugli effetti giuridici sorti dall’accordo, estinguendoli ex
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nunc, se ne deve dedurre che – nel caso in cui l’amministrazione eserciti


“illegittimamente” la facoltà di recesso (per “mancanza dei presupposti” o
perché il provvedimento non è “motivato” in modo adeguato o perché non
rispetti le “regole sul procedimento per la sua emanazione”) – il privato potrà
contestarne la “legittimità” con un ricorso al giudice amministrativo. Al
contempo il privato potrà proporre un’azione per il risarcimento del danno
derivante dall’inadempimento contrattuale della P.A.
Dopo un recesso di cui il contraente non intenda contestare la legittimità o che
non sia illegittimo, l’art. 11, 4°comma garantisce al privato la liquidazione di un
indennizzo (“qualora ci siano i presupposti per avere un recesso legittimo, la
P.A. ha l’obbligo di indennizzare la controparte ”). L'indennizzo è la tutela
minima che la legge prevede per la situazione di affidamento del privato.

*RECESSO CIVILISTICO = Il diritto di recesso è il diritto di una parte di sciogliersi dal vincolo contrattuale : si è,
quindi, innanzi ad un “negozio giuridico unilaterale recettizio”. Il recesso è un diritto potestativo, ossia esercitabile
discrezionalmente dal legittimato nei casi previsti dalla legge o dal contratto.

4.2. L'inadempimento dell’amministrazione. Il RECESSO ILLEGITTIMO


non è l’unica ipotesi di “inadempimento della P.A.”. L’amministrazione, nella
fase esecutiva di un “ACCORDO PROCEDIMENTALE”, potrebbe emanare un
provvedimento diverso all’accordo oppure potrebbe non emanare il
provvedimento concordato : entrambi i casi sono ipotesi di “INADEMPIMENTO
DALL’ACCORDO PROCEDIMENTALE”. Allo stesso modo può aversi
“INADEMPIMENTO DELL’ACCORDO SOSTITUTIVO”, quando l’amministrazione
emana un successivo provvedimento il cui contenuto è in contrasto con
l’assetto di interessi definito con l’accordo.
Detto ciò, la dottrina ha avanzato due opposte teorie riguardo l’
“inadempimento dell’accordo procedimentale” (con particolare riferimento alla
“mancata adozione del provvedimento”) :
 la prima ritiene che il privato sia titolare di una situazione di INTERESSE
LEGITTIMO, tutelabile attraverso il “ricorso contro il silenzio” previsto
dall’art. 31 c.p.a.
 la seconda, invece, ritiene che il privato possa far ricorso all’
“esecuzione forzata in forma specifica” a tutela del contratto preliminare
ex art. 2932 c.c. (in questo modo, la sequenza “accordo-provvedimento”
assumerebbe le sembianze della sequenza “contratto preliminare-
contratto definitivo”).

Tuttavia, mentre la prima tesi è accettabile, poichè l’azione che il privato


esperisce obbliga l’amministrazione a pronunciarsi espressamente (sull’esatto
adempimento o sull’esercizio del potere di recesso), la seconda non lo è :
infatti l’art. 2932 c.c. non è applicabile alla sequenza “accordo-
provvedimento”, poiché comunque gli “accordi” sono contratti stipulati
nell’interesse pubblico, quindi la sentenza (che va a dar seguito all’esecuzione

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forzata) non può sostituirsi al provvedimento non emanato (infatti quest’ultimo


implica sempre l’esercizio di poteri autoritativi, e questi poteri possono essere
esercitati solo dall’amministrazione, e non dal giudice).
Quanto, invece, all’ “inadempimento dell’accordo sostitutivo”, se
l’amministrazione emana un successivo provvedimento difforme da quanto
pattuito con l’accordo, il privato (titolare di un “interesse legittimo”) potrà
chiedere ed ottenere non solo l’annullamento del provvedimento nella parte
difforme dall’accordo (o l’annullamento di tutto il provvedimento, se la
difformità si appalesa in modo particolarmente grave), ma anche il
risarcimento dei danni.

*ART. 2932 c.c. = “Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte può
ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso” = è un caso di ESECUZIONE FORZATA IN
FORMA SPECIFICA. L’esecuzione forzata in forma specifica riguarda le obbligazioni di consegnare, di fare e di non fare
e consiste nel conseguimento coatto di quanto dedotto in prestazione. Particolare caso di esecuzione in forma specifica
è quello relativo all' OBBLIGO DI CONTRARRE, che si attua con una sentenza che ha lo stesso valore del contratto
promesso ma non concluso (articolo 2932 c.c.).

*Art. 31 c.p.a. (Azione avverso il silenzio)


1. Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere
l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere.

4.3. La patologia del rapporto. Con riferimento al tema relativo alla


PATOLOGIA DELL’ACCORDO, possono riscontrarsi sia i “vizi del contratto” che i
“vizi del provvedimento”. L’impugnazione non può essere limitata solo ai “vizi
di validità” dell’accordo in base alle norme codicistiche, ma va estesa a tutti i
“vizi legittimità”, secondo le norme che riguardano i provvedimenti
amministrativi. Infatti gli accordi, in quanto sostitutivi o integrativi di
provvedimenti amministrativi, devono essere sindacati alla stregua dei
provvedimenti : se così non fosse, la conclusione di un accordo al posto
dell’emanazione di un provvedimento danneggerebbe la posizione dei terzi. Ciò
comporta che non vengono salvaguardati solo i “diritti dei terzi”, ma anche i
loro “interessi legittimi”.
In relazione ai profili privatistici, invece, applicabile all’accordo sarà l’istituto
della “NULLITÀ DEL CONTRATTO” (art. 1418 c.c. ss.), per : la contrarietà a
norme imperative, l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi o la mancanza dei
requisiti dell’oggetto.
Il “sindacato sull’accordo” è attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.

*ART. 1418 c.c. Cause di nullità del contratto.


Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei
requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi e la mancanza dei requisiti dell'oggetto. Il
contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.

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5. La tutela del terzo. Anche se l’accordo concluso tra amministrazione e


privato non può pregiudicare i “diritti dei terzi” (ossia di coloro che non
partecipano all’accordo) e non produce effetti giuridici diretti nella sfera dei
terzi, può comunque pregiudicarne la “posizione”, accrescendo la sfera
giuridica del contraente (basti pensare agli effetti pregiudizievoli che gli accordi
che hanno ad oggetto concessioni o autorizzazioni amministrative possono
produrre in capo a soggetti posti in condizione di concorrenza con i beneficiari).
Pertanto, ove l’amministrazione, nell’esercizio del proprio potere, leda
illegittimamente la posizione giuridica del terzo (illegittimità che si può
manifestare sia nell’adesione all’accordo, che nella determinazione del
contenuto dell’accordo), il terzo potrà impugnare l’accordo davanti al giudice
amministrativo (perché portatore di “interessi legittimi”).
A questo punto, però, dobbiamo chiederci quale sia l’atto che il terzo è
legittimato a impugnare. La soluzione è rinvenibile nella distinzione tra le due
fattispecie di accordo, dato che : 1) l’ACCORDO SOSTITUTIVO sostituisce il
provvedimento unilaterale (dunque esso - avendo efficacia non solo inter
partes, ma anche esterna - potrà essere impugnato; 2) l’ACCORDO
PROCEDIMENTALE, producendo effetti obbligatori tra le parti, non può esplicare
effetti all’esterno, almeno fino al momento in cui l’amministrazione non emana
il provvedimento (perciò, sarà solo quest’ultimo provvedimento a produrre
effetti esterni e ad attivare di conseguenza l’ “interesse a ricorrere del terzo”).

-CAPITOLO 2. I CONTRATTI DELLA PUBBLICA


AMMINISTRAZIONE-

1. Diritto privato e diritto pubblico nell’attività contrattuale delle


pubbliche amministrazioni. Le amministrazioni, in qualità di soggetti
dell’ordinamento, godono di CAPACITÀ GIURIDICA GENERALE ex art. 11 c.c. :
ciò significa che esse possono stipulare qualunque tipo di contratto disciplinato
dal codice civile, contratti nominati, innominati o misti (risultanti, cioè, dalla
combinazione di contratti diversi). Esse, tuttavia, non godono di “AUTONOMIA
PRIVATA” in senso pieno, poiché anche l’attività contrattuale deve essere
sempre funzionalizzata alla cura di interessi pubblici. La possibilità di stipulare
contratti, comunque, conosce due limiti : 1) le amministrazioni non possono
stipulare quei contratti che presuppongono lo “corporeità del soggetto” (si
pensi ad esempio al testamento); 2) i fini perseguiti attraverso il contratto
devono essere compatibili con i fini pubblici che le amministrazioni devono
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perseguire. Se ne deduce che il “diritto privato” (che disciplina i contratti delle


pubbliche amministrazioni) è comunque condizionato da “elementi
pubblicistici”, il cui obiettivo è, da un lato, quello di assicurare anche
nell’ambito di rapporti consensuali il raggiungimento del fine pubblico (proprio
dell’azione amministrativa) e, dall’altro, quello di garantire che tale attività si
svolga nel rispetto dei principi costituzionali di “legalità”, “imparzialità” e
“buon andamento”. A tal fine si è sviluppato nel tempo un complesso “regime
dei contratti in cui è parte una P. A.” : si tratta di un regime al cui interno
operano, in veste di specialità, norme di diritto amministrativo che, integrando
la disciplina codicistica, hanno lo scopo di regolare le c.d. “procedure di
evidenza pubblica” (queste, a loro volta, sono procedimenti che precedono o
seguono la stipulazione del contratto e sono : la “deliberazione a contrattare”,
il “bando di gara”, la “scelta del contraente”, l’ “aggiudicazione”, i “pareri”, i
“controlli”e le “approvazioni sui contratti”). Ne consegue che l’“evidenza
pubblica” rappresenta non un tipo di contratto, ma una complessa categoria
procedimentale, che risulta applicabile a tutti i contratti della pubblica
amministrazione,
fatta eccezione per i CONTRATTI IN ECONOMIA - che giacchè non superano una
certa soglia predeterminata dalle normative di settore, non richiedono
particolari formalità pubblicistiche e per cui, al contrario, sono stati previsti due
diversi moduli, e cioè :

 l’“amministrazione diretta” (per l’acquisto di beni di consumo, come


penne, carta, stampanti, ecc.);
 il “cottimo fiduciario” (acquisizione di lavori, servizi, e forniture
attraverso la stipulazione di contratti con imprenditori già conosciuti).

L’“interesse pubblico” rileva anche nella fase di ESECUZIONE DEL CONTRATTO


e si esprime in “norme che derogano alle regole codicistiche” e attribuiscono
all’amministrazione dei poteri capaci di incidere unilateralmente sul rapporto
contrattuale, poteri che si risolvono in una posizione di supremazia
dell’amministrazione sull’altro contraente : ad esempio la figura del
«CONTRATTO CLAUDICANTE» deroga al diritto privato e alla posizione paritaria
tra i contraenti : dopo la stipulazione del contratto, infatti, solo il privato è
immediatamente vincolato, mentre per l’amministrazione il vincolo
contrattuale sorge solo dopo l“approvazione del contratto da parte dell’autorità
competente”.
In ogni caso, questo intreccio tra disciplina pubblicistica e disciplina codicistica
non incide sulla NATURA GIURIDICA DEI CONTRATTI DELLE AMMINISTRAZIONI in
quanto questi, una volta conclusi, sono veri e propri contratti di diritto privato
(aventi, tuttavia, lo scopo di perseguire il pubblico interesse).
L’importanza dei contratti nel diritto amministrativo è andata col tempo
aumentando; il contratto è usato in molti ambiti, alcuni dei quali prima ne
erano esclusi, come il “rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni” :

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prima della privatizzazione (1993), infatti, questo era un “rapporto di diritto


pubblico”; oggi, invece, i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni
sono disciplinati quasi per intero dal codice civile.
Dalla stipulazione dei contratti, le amministrazioni possono essere esposte ad
esborsi di denaro pubblico (ed in questo caso parleremo di CONTRATTI
PASSIVI : si pensi, ad esempio, al contratto attraverso cui l’amministrazione
acquista, da soggetti terzi, energie lavorative, beni e servizi) oppure possono
ricavarne un’entrata (e in tal caso parleremo di CONTRATTI ATTIVI : si pensi, ad
esempio, all’alienazione di beni immobili).

2. Il quadro normativo. La disciplina si ricava da più fonti :


 Nell’ambito dei contratti che le amministrazioni sono abilitate a
stipulare, la prima fonte che va presa in considerazione è il CODICE
CIVILE. Infatti l’art. 11 c.c. (rubricato “persone giuridiche pubbliche”),
attribuendo all’ente pubblico “capacità giuridica generale”, concede al
medesimo la possibilità per esso di stipulare, «nei limiti imposti dalla
legge», contratti «per costituire regolare o estinguere un rapporto
giuridico patrimoniale» (art. 1321 c.c.). A tal fine, il codice civile (artt.
1325 : “requisiti del contratto”) disciplina gli ELEMENTI ESSENZIALI DEL
CONTRATTO (accordo, causa, forma e volontà), gli EFFETTI (art. 1372), le
CAUSE DI INVALIDITÀ (art. 1418), l’INTERPRETAZIONE, le CLAUSOLE
VESSATORIE, la FASE DI ESECUZIONE DEL VINCOLO CONTRATTUALE e la
FASE DI ATTUAZIONE COATTIVA.
Particolare importanza rivestono anche i principi di BUONA FEDE, di
DILIGENZA e di CORRETTEZZA, che devono guidare i comportamenti
delle parti, e dunque anche dell’amministrazione (nella fase delle
“trattative” e della “formazione del contratto”, sicché nei confronti
dell’amministrazione opera l’istituto della “responsabilità
precontrattuale”).

 La seconda fonte che, in materia di contratti stipulati dalle pubbliche


amministrazioni, va presa in considerazione è la “legge di contabilità
generale dello stato” (r.d. 2440/1923) e il suo “regolamento di
attuazione” : la normativa contiene tutte quelle regole pubblicistiche che
l’amministrazione deve rispettare nel processo di stipulazione del
contratto (un processo che si svolge attraverso le c.d. PROCEDURE DI
EVIDENZA PUBBLICA, il cui fine è, da un lato, quello di tutelare
l’interesse pubblico aggiudicando il contratto al soggetto che ha
presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa per
l’amministrazione, e dall’altro quello di evitare favoritismi nella scelta

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dell’altro contraente, garantendo a tutti i soggetti interessati di


partecipare alla gara in condizioni di parità).

 Un’altra fonte essenziale è, poi, l’art. 1, comma 1-bis della L. 241/1990,


secondo cui «L’amministrazione, nell’adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le regole e i principi del diritto privato,
salvo che la legge disponga diversamente» : queste regole trovano la
loro ragion d’essere in quella parte della disposizione che esclude
dall’ambito del diritto privato gli “atti autoritativi” (cioè i provvedimenti,
che sono invece assoggettati alla disciplina di cui all’art. 1, comma 1
della L. 241 / 1990).

 il d.lgs. 163/2006, c.d. “codice dei contratti pubblici” contiene una


disciplina specifica per i “contratti di appalto” e di “concessione” aventi
ad oggetto l’acquisizione di servizi o forniture o l’esecuzione di lavori;

 anche il CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO contiene alcune


disposizioni in materia di appalti pubblici;

 il DIRITTO COMUNITARIO : molte direttive comunitarie hanno introdotto


in materia di appalti modifiche di grande spessore (come ad esempio
quelle relative all’allargamento della platea delle imprese ammesse a
partecipare alla gara). Infatti è stato proprio il diritto europeo a facilitare
il passaggio dalla tradizionale “normativa contabilistica” (che mirava a
garantire il migliore risultato economico per l’amministrazione)
all’attuale normativa (che, invece, mira ad assicurare la concorrenza tra
gli operatori economici nazionali e quelli degli altri Stati membri);

 la L. 106 /2011, di conversione del c.d. «decreto sviluppo» (d.l. 70/2011),


che ha novellato molte disposizioni del “codice appalti”;

 nell’ambito dei contratti delle amministrazioni, l’ultima fonte che va


menzionata sono i c.d. “CAPITOLATI D’ONERI”, documenti che
contengono prescrizioni volte a determinare il contenuto dei futuri
contratti (prescrizioni che impongono determinati obblighi o oneri =
perciò capitolati d’oneri). Essi possono essere : 1) CAPITOLATI D’ONERI
GENERALI, il cui contenuto consiste nelle «condizioni che possono
applicarsi indistintamente a un determinato genere di contratto». Essi
non sono redatti in occasione di un singolo contratto, ma si riferiscono
ad una serie indeterminata di rapporti, in un dato settore : il contenuto
del contratto deve adeguarsi alle loro prescrizioni. 2) CAPITOLATI

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D’ONERI SPECIALI, il cui contenuto, invece, consiste nelle «condizioni che


possono applicarsi a uno specifico contratto». Essi vengono predisposti
in occasione del singolo contratto e diventano parte integrante dello
stesso, costituendone uno degli allegati più importanti.
Quanto alla natura giuridica dei capitolati, ad avviso della dottrina
prevalente i “capitolati generali adottati dal ministro competente” hanno
natura regolamentare, mentre gli altri “capitolati generali” hanno natura
negoziale (ciò significa che essi possono essere derogati dal contratto e
l’amministrazione può non osservarli, salvo adeguata motivazione).
Quanto ai “capitolati speciali” (adottati dalle singole amministrazioni), se
ne afferma la natura contrattuale, dato che essi sono atti contenenti
“condizioni generali dello specifico contratto”.

2.1. Il codice dei contratti pubblici di appalto e di concessione di


lavori, servizi e forniture. Il “CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI” (d.lgs.
163 / 2006) è stato emanato in attuazione di due direttive comunitarie (le
direttive 17 e 18 CE del 2004) che disciplinano le procedure di appalto nei c.d.
“SETTORI SPECIALI” (gas, acqua, energia, servizi postali e di trasporto) e le
procedure di appalto nei “SETTORI ORDINARI” (= tutti gli altri settori). Il codice
raccoglie in un unico testo la disciplina dell’intero comparto degli APPALTI
PUBBLICI (sopra e sotto la soglia di rilevanza comunitaria), nonché la disciplina
dei CONTRATTI DI CONCESSIONE DI LAVORI PUBBLICI E DI SERVIZI.
Con questo nuovo codice il legislatore, in sintonia con i principi di derivazione
comunitaria, non vuole più tutelare solo l’interesse pubblico
dell’amministrazione contraente, ma anche “interessi generali” (come la tutela
della concorrenza, la parità di trattamento degli operatori economici, la
trasparenza, la non discriminazione e l’apertura degli appalti pubblici nazionali
agli imprenditori dei vari Stati europei), per assicurare un mercato
concorrenziale e competitivo degli appalti.
Quanto all’ambito oggettivo di applicazione, l’art. 3, 3° comma c.c.p. ha
specificato che per «CONTRATTI PUBBLICI» devono intendersi, oltre ai
“contratti di appalto di lavori, servizi e forniture” (sopra e sotto la soglia di
rilevanza comunitaria), anche i contratti di concessione di lavori e servizi.

 L’APPALTO è il contratto con cui una parte (APPALTATORE) assume il


compimento di un’opera o di un servizio su incarico di un COMMITTENTE
(= o APPALTANTE) contro un corrispettivo in danaro, con organizzazione
dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio. L’amministrazione
riveste il ruolo di “committente” o di “stazione appaltante”.
 La “CONCESSIONE DI LAVORI” è un contratto a titolo oneroso, che
richiede per la sua conclusione la forma scritta; la sua durata non può
essere superiore ai 30 anni (a meno che – per salvaguardare gli interessi
economici del concessionario – non sia prevista una durata superiore). La
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particolarità di questo contratto sta nel fatto che l’imprenditore


(concessionario) non si limita solo a progettare ed eseguire l’opera, ma si
adopera anche nella gestione della stessa per tutto il lasso di tempo
prestabilito (si pensi, ad esempio, alla costruzione e alla gestione di
un’autostrada); ed è proprio il riconoscimento di questo “diritto di
gestione” che costituisce il corrispettivo a favore del concessionario (che,
inoltre, a volte può essere accompagnato da un certo prezzo). Tra l’altro,
per la scelta del contraente l’amministrazione può solo usufruire di
procedure aperte e ristrette, mentre il “criterio di aggiudicazione
ammesso” è solo quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
 La “CONCESSIONE DI SERVIZI” è un contratto a titolo oneroso stipulato
per iscritto, con cui un’amministrazione affida a un operatore economico
l’erogazione e la gestione di servizi, ove il corrispettivo consiste o solo
nel diritto di gestire i servizi oppure in tale diritto accompagnato da un
prezzo). La “concessione di servizi” è un contratto che ha le stesse
caratteristiche dell’appalto pubblico di servizi; se ne differenzia solo per il
fatto che il compenso della prestazione dei servizi è solo il diritto di
gestirli per un determinato periodo (in alcuni casi accompagnato da un
prezzo).

Infine il codice, per contenere il costo dei contratti, favorisce il ricorso agli
“strumenti telematici”, sia per quel che riguarda le pubblicazioni e le
comunicazioni (si pensi, ad esempio, alla pubblicazione via internet di
capitolati, bandi di gara e la loro comunicazione all’UE), sia per quanto riguarda
la presentazione delle offerte : ed è proprio in quest’ottica che sono state
predisposte particolari “procedure negoziali” (si pensi, ad esempio, alle aste
elettroniche e ai sistemi dinamici di acquisizione).

 Art.    3. del codice appalti. (Definizioni). 

1. Ai fini del presente codice si applicano le definizioni che seguono.

2. Il «codice» è il : CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI DI LAVORI, SERVIZI, FORNITURE.

3. I «CONTRATTI PUBBLICI» sono i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di
forniture, oppure l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai
soggetti aggiudicatori.

4. I «SETTORI ORDINARI» sono i settori diversi da quelli del gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi
postali.

5. I «SETTORI SPECIALI» sono i settori del gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi postali.

6. Gli «APPALTI PUBBLICI» sono i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una STAZIONE APPALTANTE o un
ENTE AGGIUDICATORE e uno o più OPERATORI ECONOMICI, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di
prodotti o la prestazione di servizi.

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2.2. La definizione degli ambiti di competenza statale e regionale


nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Il “CODICE DEI
CONTRATTI PUBBLICI” ha superato il vaglio della Corte costituzionale che, con
due sentenze del 2007 ne ha confermato la conformità alla Costituzione per
quanto riguarda il riparto delle competenze dell’art. 4 , 3°comma c.c.p. (che
definisce gli AMBITI DI COMPETENZA DELLO STATO E DELLE REGIONI,
privilegiando lo Stato). L’art. 4, infatti, per i “contratti di interesse regionale” ha
sottratto alla competenza regionale la disciplina di alcuni aspetti centrali (come
la selezione dei concorrenti, le procedure di affidamento, i criteri di
aggiudicazione, la stipulazione e l’esecuzione del contratto e il contenzioso) e
ha disposto che “per questi oggetti, le Regioni non possono prevedere una
disciplina diversa da quella introdotta dal codice”.
La Corte, dunque, con queste due pronunce del 2007 ha affermato la
compatibilità costituzionale della “riserva allo Stato” della parte più consistente
della disciplina degli appalti pubblici : ciò perchè questi aspetti sono
riconducibili alla TUTELA DELLA CONCORRENZA, all’ORDINAMENTO CIVILE e
alla TUTELA GIURISDIZIONALE (materie che il nuovo art. 117 Cost. ha attribuito
alla “potestà esclusiva del legislatore statale”, esercitata appunto con il d.lgs.
163/2006). Secondo
la Corte le disposizioni contenute nel d.lgs. 163/2006, per la molteplicità degli
interessi perseguiti e degli oggetti implicati, non si riferiscono a un unico
ambito materiale : ad esempio, il fatto che l’art. 117 Cost. non abbia incluso i
“LAVORI PUBBLICI” né tra le materie oggetto di “legislazione esclusiva dello
Stato” nè tra quelle oggetto di “legislazione concorrente”, non implica che essi
siano oggetto di “potestà legislativa residuale (= esclusiva) delle Regioni”,
poiché si tratta di “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria
materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto a cui si riferiscono”
(assistenza ospedaliera, difesa militare, beni culturali, ecc.), e quindi possono
essere attribuiti, di volta in volta, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato o
a quella concorrente.
Volendo entrare nello specifico delle questioni sollevate dalle Regioni, in
relazione alla “TUTELA DELLA CONCORRENZA”, la Corte ha precisato che “gli
istituti indicati nella norma impugnata - riguardanti la scelta del contraente - (la
selezione dei concorrenti, le procedure di affidamento e i criteri di
aggiudicazione), collocandosi nella fase della “procedura di evidenza pubblica”,
mirano a garantire la più ampia apertura del mercato degli appalti pubblici a
tutti gli operatori economici, nel rispetto dei principi comunitari di “parità di
trattamento”, di “non discriminazione” e di “trasparenza”, e in attuazione dei
principi costituzionali di “imparzialità” e “buon andamento” : ciò significa che,
in linea con la nozione comunitaria di “concorrenza per il mercato” (che è
delineata anche nell’art. 117, 2°comma, lett. e) Cost., che attribuisce la
materia “tutela della concorrenza" all’esclusiva competenza dello Stato), il
contraente deve essere scelto mediante procedure di gara, tali da garantire il

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rispetto dei su menzionati principi (comunitari e costituzionali)”.


E’ il carattere «trasversale» della tutela della concorrenza che implica che la
stessa possa incidere anche su materie attribuite alla competenza legislativa
(concorrente o residuale) delle Regioni e che consente al legislatore statale di
dettare sia “norme di principio” che “norme di dettaglio”, inderogabili da parte
del legislatore regionale. Così ragionando, la Corte ha rigettato anche le
“censure di legittimità” contro il riparto di competenze sulla POTESTÀ
REGOLAMENTARE : secondo la Corte, infatti, «una volta riconosciuto che
l’intervento del legislatore statale è giustificato da esigenze di TUTELA DELLA
CONCORRENZA, allo stesso legislatore spetta il potere di dettare la
regolamentazione del settore, anche con norme di dettaglio poste da
disposizioni regolamentari (regolamentazione che vincola le Regioni)».
Alla materia «ORDINAMENTO CIVILE», invece, sono stati ricondotti quegli istituti
che si collocano nella fase relativa all’esecuzione del contratto e che inizia con
la “stipulazione” : in questo caso, la riserva allo Stato è legittimata
dall’esigenza (sottesa al principio costituzionale di “eguaglianza”) di garantire
l’uniformità di trattamento, in tutto il territorio nazionale, della disciplina sulla
conclusione ed esecuzione dei contratti di appalto.
Di tutte le “questioni di legittimità” sollevate dalle Regioni riguardo alle varie
norme del codice, la Corte ne ha accolto solo due :

 la questione relativa all’art. 84 c.c.p., riguardante la COMPOSIZIONE e le


MODALITÀ DI NOMINA DEI COMPONENTI DELLA COMMISSIONE
GIUDICATRICE, chiamata ad esprimersi nei casi in cui l’aggiudicazione sia
effettuata con l’uso del criterio dell’“offerta economicamente più
vantaggiosa” : si tratta di aspetti organizzativi, che in quanto tali –
secondo la Corte – non possono essere esclusi dalla “potestà legislativa
regionale”, sicché questa disposizione è illegittima perché non ha
carattere suppletivo (= che supplisce) rispetto a una normativa regionale
che disponga una disciplina diversa;
 l’altra questione ritenuta fondata dalla Corte ha riguardato, invece, l’art.
98 c.c.p., che stabilisce che “l’approvazione dei PROGETTI DEFINITIVI da
parte del consiglio comunale costituisce variante urbanistica a tutti gli
effetti” : infatti la materia in esame tocca il “GOVERNO DEL TERRITORIO”,
che è una materia di “competenza ripartita tra Stato e Regioni” (quindi -
in sintonia con quanto stabilito dall’art. 117, 3°comma - spetta allo Stato
il potere di fissare i principi fondamentali e alle Regioni quello di emanare
la normativa di dettaglio).

Art. 4. del codice appalti. (Competenze legislative di Stato e regioni).

3°comma = “Le Regioni, nel rispetto dell'art. 117, 2°comma Cost., non possono prevedere una disciplina diversa da
quella del presente codice in relazione: 1) alla selezione dei concorrenti; 2) ai criteri di aggiudicazione;
3) al subappalto; 4) ai poteri di vigilanza sul mercato degli appalti affidati all'Autorità per la vigilanza sui contratti

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pubblici di lavori, servizi e forniture; 5) alle attività di progettazione e ai piani di sicurezza;


6) alla stipulazione e all'esecuzione dei contratti; 7) al contenzioso”.

ART. 117 COST. (commi 6 e 7) : “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva,
salva delega alle Regioni.
La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”.

3. La sfera soggettiva di applicazione. Il codice dei contratti pubblici, in


linea con la normativa comunitaria, ha ampliato la SFERA SOGGETTIVA DI
APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA SUGLI APPALTI, attraendo nel suo ambito di
operatività i contratti di quei soggetti che, aldilà della loro qualificazione
formale (pubblica o privata) hanno tuttavia una “sostanza pubblicistica”. Tali
soggetti sono riconducibili a 3 categorie :

 le “AMMINISTRAZIONI AGGIUDICATRICI”, categoria in cui sono inclusi,


oltre allo Stato, agli enti pubblici territoriali e agli altri enti pubblici non
economici, anche gli organismi di diritto pubblico;
 gli “ENTI AGGIUDICATORI”, categoria a cui si riconducono le imprese
pubbliche e i concessionari di lavori e servizi pubblici;
 i c.d. “SOGGETTI REALIZZATORI”, e cioè quegli operatori privati che
ricevono sovvenzioni ( = contributo, sostegno finanziario) per la
realizzazione di lavori.

Attraverso la figura dell’“ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO” si è voluto evitare


che lo Stato e gli enti territoriali si sottraggano alle “procedure concorrenziali
dell’evidenza pubblica” (e, quindi, ai principi di parità, concorrenza e non
discriminazione nella scelta del contraente) avvalendosi di società o enti che,
per il fatto di avere natura privata, non rientrerebbero tra le amministrazioni
tenute ad osservare queste procedure. Ricorrendo alla nozione di organismo di
diritto pubblico (fondata non su elementi formali, ma sostanziali) si è così
ampliata la categoria dei SOGGETTI TENUTI AD AGGIUDICARE (= assegnare)
GLI APPALTI PUBBLICI ATTRAVERSO PROCEDURE DI GARA.  

ART. 3 codice appalti. (DEFINIZIONI).

“L'«ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO» è qualsiasi organismo : 1) istituito per soddisfare esigenze di interesse
generale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato o dagli
enti pubblici territoriali oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo
d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato,
o dagli enti pubblici territoriali.

Gli «ENTI AGGIUDICATORI» comprendono le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese pubbliche, e i soggetti che,
non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi
loro dall'autorità competente (= in pratica chi ha avuto una concessione di lavori o servizi dalla P.A)”.

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*STAZIONE APPALTANTE = è l'amministrazione che propone l'appalto.


Es. la provincia di Milano emana un bando per il rifacimento dei muri degli istituti scolastici. Quando fa ciò, assume le
vesti della stazione appaltante.
AMMINISTRAZIONE AGGIUDICATRICE = è il soggetto di diritto pubblico che ha la facoltà di aggiudicare appalti
pubblici.
Insomma, stazione appaltante e amministrazione aggiudicatrice sono quasi sinonimi, senonché la prima definizione
assume rilevanza in fase di pre-aggiudicazione, mentre la seconda in fase di post-aggiudicazione.

*AGGIUDICATARIO = è il soggetto che, avendo vinto l'appalto, sottoscrive il contratto con l'ente appaltante (detto
anche ente aggiudicatore, che è l'ente pubblico che ha bandito la gara d'appalto).

4. La rilevanza del valore per determinare la disciplina applicabile


alle fattispecie contrattuali. L’AMBITO OGGETTIVO DI APPLICAZIONE DEL
“CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI” :

 regola le procedure di appalto dei settori ordinari e di quelli speciali;


 disciplina sia gli appalti di rilevanza comunitaria che i c.d. appalti «sotto-
soglia»;
 si occupa, infine, non solo dei contratti di appalto, ma di tutti i contratti
stipulati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli altri soggetti tenuti
all’osservanza delle norme del codice.

Con riferimento al «VALORE» (importo) DELL’APPALTO, l’art. 28 c.c.p. fissa le


c.d. “soglie che determinano l’applicazione della disciplina comunitaria” (e,
conseguentemente, l’applicazione integrale delle disposizioni del codice). Tali
soglie, espresse in euro, sono determinate direttamente dall’Unione europea.
Infatti, i valori indicati dall’art. 28 c.c.p. si intendono automaticamente
rettificati in caso di emanazione di regolamenti comunitari in materia.
Il c.c.p. contiene invece una “disciplina specifica” per i CONTRATTI PUBBLICI
AVENTI AD OGGETTO LAVORI, SERVIZI E FORNITURE DI IMPORTO INFERIORE
ALLE SOGLIE DI RILEVANZA COMUNITARIA : il “Titolo 2° della Parte Seconda”
(ad essi, tuttavia, si applicano comunque le disposizioni del c.c.p. riguardanti i
principi comuni, quelle relative al contenzioso e le disposizioni transitorie e
finali).
Di seguito saranno esaminate le “disposizioni generali” (applicabili a tutti gli
appalti a prescindere dal loro valore), nonché le disposizioni riferibili solo agli
“appalti di rilevanza comunitaria”.
*APPALTI SOPRA UNA CERTA SOGLIA = hanno una rilevanza comunitaria. La “soglia” è un valore determinato in euro.
Gli appalti al di sopra di quella cifra hanno una data legislazione, sotto quella cifra ne hanno una semplificata.

5. La formazione del contratto e le fasi del procedimento ad


evidenza pubblica. Deliberazione a contrattare, progetto di
contratto e bando di gara. L’autonomia contrattuale della P.A. non è
piena, ma è limitata sotto il profilo della libertà di giungere a un contratto, della
scelta dell’altro contraente e dell’individuazione delle condizioni contrattuali.
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L’attività contrattuale si articola in due fasi, una FASE PROCEDIMENTALE (che


ha luogo prima della stipulazione del contratto), e una FASE NEGOZIALE (che si
sviluppa dopo la stipulazione).
La “FASE PROCEDIMENTALE” è diretta alla formazione della volontà
dell’amministrazione e alla scelta del contraente privato; essa inizia con la
“DELIBERAZIONE A CONTRATTARE”, che è l’atto con cui inizia la “procedura di
evidenza pubblica” : attraverso la deliberazione, infatti, l’amministrazione
esplicita le ragioni di pubblico interesse che la inducono a stipulare un certo
contratto. La disciplina della deliberazione a contrarre non è contenuta in un
solo testo, ma in 3 specifiche normative, e cioè :

 per i “contratti di appalto delle pubbliche amministrazioni relativi a


lavori, servizi e forniture”, essa è disciplinata dall’art. 11, 2°comma
c.c.p., che usa le espressioni «determinazione» e «delibera a contrarre»;
la disposizione individua il contenuto della deliberazione negli elementi
essenziali del contratto e nei criteri di selezione dei contraenti privati e
delle offerte ;
 per i “contratti dei Comuni e delle Province”, la deliberazione a
contrattare è disciplinata dall’art. 192 del t.u.e.l. (Testo unico degli enti
locali), che però non parla di “deliberazione”, ma usa l’inciso
«determinazione»; tuttavia questo testo è il più completo, perché
contiene (rispetto al codice dei contratti pubblici) un elenco più
esauriente dei contenuti della deliberazione, individuandoli nel il fine,
nell’oggetto, nella forma, nelle modalità di scelta del contraente e nelle
clausole essenziali del contratto.
 Per i “contratti dello Stato”, la deliberazione è disciplinata dalla “legge di
contabilità dello Stato” del 1923, che però non parla di deliberazione, ma
di «progetto di contratto». Tuttavia la giurisprudenza e la dottrina
preferiscono usare la locuzione «deliberazione a contrattare» per indicare
l’atto con cui l’amministrazione statale esplica la volontà di giungere ad
un certo contratto.

Sul piano dell’efficacia, sia la “deliberazione a contrarre” che il “progetto di


contratto” sono considerati atti amministrativi interni (aventi “efficacia
programmatica”), e come tali irrilevanti per i soggetti terzi, ai quali dunque
viene preclusa la possibilità di impugnarli. Tuttavia, per tutelare i terzi, il
Consiglio di Stato ha precisato che la “deliberazione a contrattare” ha
efficacia esterna in tutti i casi in cui l’amministrazione abbia fatto –
illegittimamente - ricorso alla trattativa privata al posto dell’asta pubblica o
della licitazione privata, riconoscendo agli imprenditori operanti nel settore
la legittimazione ad impugnarla per ottenere l’indizione di una gara.
L’adozione della deliberazione a contrarre spetta a livello statale ai
“dirigenti generali” e agli “altri dirigenti amministrativi”; invece per i

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contratti di Comuni e Province spetta ai “dirigenti che hanno «la


responsabilità delle procedure di appalto»”.

Il bando di gara. La “determinazione a contrarre” viene pubblicizzata con


il “bando di gara”, che è l’atto con cui l’amministrazione rende pubblica la
volontà di stipulare un contratto. Il BANDO DI GARA (disciplinato dall’art. 64
c.c.p.), quindi, si colloca in un momento successivo all’adozione della
deliberazione di contrattare. Esso deve indicare :

 i dati relativi all’amministrazione contraente (compreso il


“responsabile del procedimento”);
 le condizioni essenziali del futuro contratto;
 i requisiti per la partecipazione;
 l’oggetto;
 la documentazione da presentare;
 le modalità di scelta del contraente;
 il criterio di aggiudicazione;
 i termini.

Però, la L. 106/2011, aggiungendo all’art. 64 il comma 4-bis - secondo cui le


“stazioni appaltanti” (cioè le amministrazioni contraenti) devono predisporre i
bandi di gara in base a modelli standard (bandi-tipo) approvati dall’ “Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici” – ha finito per limitare la discrezionalità
dell’amministrazione : infatti ciò significa che, ove le amministrazioni intendano
apportare specifiche deroghe al bando-tipo, esse dovranno essere
espressamente motivate nella “delibera a contrarre”.
Generalmente si dice che il “bando di gara” è la lex specialis che regolamenta
il procedimento di gara : con quest’espressione si vuole intendere che le
prescrizioni contenute nel bando vincolano non solo le imprese partecipanti e
la commissione di gara, ma anche l’amministrazione, che non ha alcuna
discrezionalità nella loro concreta attuazione, né può disapplicarle.
Secondo il Consiglio di Stato, le “prescrizioni (o clausole) del bando” devono
essere interpretate non nel significato che ad esse viene attribuito da un
“imprenditore particolarmente avveduto” (il c.d. agente modello), ma nel
significato che ad esse viene attribuito dalla maggior parte dei soggetti che
operano in uno specifico settore e che siano interessati a stipulare un contratto
con una P.A. (c.d. agente concreto); seguendo questo percorso, quindi, si è
precisato che :

 le clausole del bando devono ritenersi “di stretta interpretazione”, quindi


nel caso di “clausole equivoche” (o comunque di dubbio significato) si
deve preferire l’interpretazione che favorisce la massima partecipazione.

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A tutela dell’affidamento degli interessati in buona fede, poi, deve


essere, in ogni caso, preferita un’interpretazione letterale;
 allo stesso modo, ove siano state poste “clausole a pena di esclusione”,
queste devono essere chiare, precise e puntuali (e, in caso di incertezza
interpretativa, dovrà essere favorita un’interpretazione meno restrittiva
delle stesse, nel rispetto del “principio della par condicio tra i
concorrenti”).

Per quel che riguarda, invece, la “natura giuridica del bando”, gli orientamenti
sono vari :

 la dottrina e la giurisprudenza prevalente , assimilando il bando a un


ATTO AMMINISTRATIVO, finiscono per assoggettarlo al relativo regime (il
che comporta, dunque, non solo la possibilità di procedere, qualora il
bando risulti illegittimo, al suo “annullamento d’ufficio”, ma anche alla
sua “revoca”, purché la revoca sia motivata richiamando un preciso
interesse pubblico; inoltre ciò comporta anche che il bando illegittimo
sarà impugnabile davanti al giudice amministrativo da parte degli
interessati);
 altra parte della dottrina, assimilando il bando ad un’ OFFERTA AL
PUBBLICO, finisce per inquadrarlo nei termini di una proposta di contratto
(rivolta ad una generalità di destinatari);
 un’altra parte della dottrina, infine, assimila il “bando di gara” ad un’
INVITATIO AD OFFERENDUM (cioè un invito agli interessati a fare
un’offerta, con l’indicazione di tutti gli elementi del contratto che
l’amministrazione non ha indicato, sicché è l’amministrazione che,
accettando la proposta della controparte, giunge alla conclusione del
contratto).

Nel bando di gara può essere poi inserito un PATTO DI INTEGRITA’ (cioè un
accordo tra partecipanti e amministrazione con cui si stabiliscono alcune regole
e doveri comportamentali per garantire il corretto svolgimento della gara).
Ad ogni modo, il bando - in conformità ai principi comunitari - è soggetto a
varie forme di pubblicità (ciò per consentire anche alle imprese europee di
partecipare alla gara) : esso deve essere pubblicato nella “Gazzetta ufficiale
della Repubblica italiana”, nella “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”, su
siti informatici e su giornali quotidiani o periodici.

Art. 11 c.c.p.  (Fasi delle procedure di affidamento).


2. Prima dell'avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici determinano
di contrarre, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle
offerte.

Art. 192 tuel (Determinazioni a contrattare)

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1. La stipulazione dei contratti deve essere preceduta da apposita determinazione del responsabile del procedimento di
spesa indicante :
a) il fine che con il contratto si intende perseguire;
b) l'oggetto del contratto, la sua forma e le clausole essenziali;
c) le modalità di scelta del contraente.

Art. 64 c.c.p.  (Bando di gara).


1. Le stazioni appaltanti che intendono aggiudicare un appalto pubblico rendono nota tale intenzione con un bando di
gara.

4-bis. I bandi sono predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli (bandi - tipo) approvati dall'Autorità,
previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sentite le categorie professionali interessate. Le stazioni
appaltanti nella delibera a contrarre motivano espressamente in ordine alle deroghe al bando - tipo.

6. La scelta del contraente. Procedure aperte e procedure ristrette.


Nella “normativa di contabilità dello Stato” la scelta del contraente è affidata a
“PROCEDURE DI GARA” (asta pubblica, licitazione privata e appalto concorso).
Riservata a casi eccezionali è invece la “trattativa privata”.

 L’ASTA PUBBLICA (o pubblici incanti) rappresenta una procedura aperta :


è una gara a cui sono ammessi a partecipare tutti gli operatori economici
che, in possesso dei requisiti indicati nel bando, siano interessati a
presentare un’offerta. Tale procedura, che in origine era obbligatoria per
“tutti i contratti dello Stato”, oggi è richiesta solo per i “contratti attivi”
(dai quali deriva un’entrata), mentre è facoltativa per i “contratti passivi”
(dai quali deriva una spesa), potendo infatti l’amministrazione scegliere
in questi casi tra l’asta pubblica e la licitazione privata.
 La LICITAZIONE PRIVATA (che è una procedura ristretta) è una gara a cui
possono partecipare solo le ditte invitate con un’apposita lettera-invito,
perché ritenute in grado di concludere il miglior contratto per
l’amministrazione. La limitazione dei soggetti ammessi alla gara era in
origine rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione, perciò poteva
essere foriera di possibili abusi e favoritismi; di conseguenza, il
legislatore ha ritenuto opportuno modificare l’istituto, introducendo una
“fase di preselezione”, sulla base della quale l’amministrazione – invece
di diramare direttamente le lettere-invito – pubblica un preventivo
“avviso di gara” (ex art. 55 c.c.p.), contenente l’indicazione dell’oggetto,
dell’importo del contratto e dei requisiti di partecipazione. Una volta
pubblicato l’ “avviso di gara”, le imprese che intendano partecipare e
siano in possesso dei requisiti richiesti possono chiedere di essere
invitate entro il termine stabilito nell’avviso; a questo punto, la stazione
appaltante invita tutte le imprese che hanno chiesto di partecipare,
previa verifica del possesso dei requisiti. Tuttavia questa regola conosce
un’importante eccezione : la stazione appaltante, se l’oggetto del
contratto è molto complesso, può diramare gli inviti solo ai candidati

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ritenuti idonei, nel rispetto dei “principi di non discriminazione” e “di


proporzionalità”.

Questi criteri di scelta del contraente, ASTA PUBBLICA e LICITAZIONE PRIVATA,


nel c.c.p. (art. 54) hanno trovato corrispondenza nella PROCEDURA APERTA e
nella PROCEDURA RISTRETTA.

 La PROCEDURA APERTA è una gara a cui possono partecipare tutti gli


operatori economici interessati a presentare un’offerta, purché in
possesso dei requisiti indicati nel bando.
 La PROCEDURA RISTRETTA è una gara aperta solo agli operatori
economici invitati dalla stazione appaltante, dopo la loro richiesta di
partecipazione.

In ogni caso, sia con riferimento alle “procedure aperte” che a “quelle
ristrette”, l’art. 85 c.c.p. dispone che, in presenza di determinate condizioni,
l’aggiudicazione dell’appalto deve avvenire mediante un sistema
automatizzato di scelta del contraente : si tratta della c.d. “ASTA
ELETTRONICA”, il cui obiettivo non è solo quello di contenere le spese, ma
anche quello di accelerare la procedura di gara.
Il codice dei contratti pubblici non prende, invece, in considerazione, per la
scelta del contraente, l’APPALTO CONCORSO, che infatti è disciplinato solo
dalla “normativa di contabilità di Stato” del 1923 : esso è una gara su invito, a
cui l’amministrazione può ricorrere quando necessita dell’apporto di ditte
ritenute particolarmente idonee a predisporre “progetti di opere” che, per la
loro complessità tecnica, artistica o scientifica, richiedono una particolare
capacità costruttiva. In questo caso, l’amministrazione - dopo aver predisposto
un’“idea di progetto” - chiede alle imprese (invitate) di stabilire il contenuto del
contratto, di indicare “specifiche soluzioni progettuali” e di fissare il “prezzo
per l’esecuzione dei lavori”. Fatto ciò, per la scelta del contraente viene
nominata una “commissione” che, in base a un giudizio discrezionale, individua
il contraente ritenuto più idoneo a soddisfare le esigenze dell’amministrazione.
Comunque, il codice dei contratti, pur non disciplinando espressamente
l’appalto concorso, prevede due istituti che in qualche modo possono essere
ricondotti al suo schema : l’ “APPALTO INTEGRATO TIPICO" e l’ “APPALTO
INTEGRATO COMPLESSO”.

 L’APPALTO INTEGRATO TIPICO (art. 53, lett. b, c.c.p.) è un contratto che


ha ad oggetto la progettazione e l’esecuzione dei lavori e si caratterizza
per il fatto che il “progetto definitivo” è predisposto dall’amministrazione
ed è posto a base della gara;
 L’APPALTO INTEGRATO COMPLESSO (art. 53, lett. c, c.c.p.) è invece un
contratto in cui all’appaltatore spetta - oltre alla progettazione e
all’esecuzione dei lavori - anche la “progettazione definitiva”, che

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avviene al momento dell’offerta sulla base di un progetto preliminare


dell’amministrazione.

PROCEDURA APERTA : tutti gli operatori interessati possono presentare un’offerta.

PROCEDURA RISTRETTA : gli operatori interessati possono presentare domanda di partecipazione, ma solo gli
operatori invitati possono poi presentare un’offerta.

7. La partecipazione alla gara. Per quanto riguarda i SOGGETTI CHE


POSSONO PARTECIPARE A UNA GARA PER L’AGGIUDICAZIONE DI UN
CONTRATTO PUBBLICO, sotto la spinta del diritto comunitario la platea di tali
soggetti si è nel tempo ampliata. Infatti inizialmente vigeva una disciplina che
consentiva la partecipazione alle sole imprese iscritte all’Albo nazionale
costruttori - iscritte però per un certo importo (sicchè non era loro consentita la
partecipazione a gare d’appalto di importo più elevato) e per una determinata
specializzazione (ad es., strade, dighe, gasdotti, ecc). Inoltre venivano favorite
certe aree del Paese (ad es. il Mezzogiorno) o particolari categorie di imprese.
Questo meccanismo comportava, poi, anche l’esclusione delle imprese
straniere. Perciò il legislatore, in conformità alle “direttive UE”, ha predisposto
una disciplina tesa ad incentivare la partecipazione alle gare di appalto, oltre
che di singole imprese, anche di “gruppi di imprese” : in questa prospettiva, si
è affermato l’istituto del “RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO DI IMPRESE” (art.
37 c.c.p.), che risponde a esigenze di tutela della concorrenza e favorisce
l’ingresso nel mercato di piccole e medie imprese, altrimenti destinate a
rimanerne fuori. Si tratta di un’unione, temporanea e occasionale, fondata su
un accordo tra più operatori economici, per l’acquisizione e l’esecuzione
congiunta di un contratto pubblico. Però tale unione non dà luogo a un rapporto
associativo, né a un soggetto giuridico distinto, poiché ogni impresa mantiene
la sua autonomia imprenditoriale nell’esecuzione del contratto.
Dal punto di vista esecutivo, invece, la “ripartizione dei compiti” può essere
orizzontale (le imprese forniscono lo stesso bene, o rendono lo stesso servizio,
o realizzano lo stesso tipo di lavoro) o verticale (quando una delle imprese
realizza i lavori della categoria prevalente e le altre imprese i lavori c.d.
scorporabili o - per i “servizi e le forniture” - una delle imprese realizza le
prestazioni principali e le altre quelle secondarie). L’impresa capogruppo, su
mandato conferito dagli altri operatori economici presenta l’offerta,
determinando con ciò la “responsabilità solidale dei mandanti nei confronti
della stazione appaltante”. Tuttavia nel raggruppamento verticale, le imprese
che assumono lavori scorporabili (o, nel caso di servizi e forniture, prestazioni
secondarie) rispondono solo dell’esecuzione delle prestazioni di loro
competenza. Al mandatario spetta la “rappresentanza esclusiva (anche
processuale) dei mandanti rispetto alla stazione appaltante”, ma ciò non

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preclude la legittimazione attiva delle singole imprese mandanti ad impugnare


in via autonoma gli atti della gara.

*SCORPORO = divisione;

*LAVORI SCORPORABILI = i lavori non appartenenti alla categoria prevalente e così definiti nel bando di gara,
assumibili da uno dei mandanti;

*MANDATO = un soggetto, detto mandatario, assume l'obbligazione di compiere uno o più atti giuridici per conto di un
altro soggetto, detto mandante.

8. Requisiti soggettivi e documentazione antimafia. L'art. 38 c.c.p.


subordina la PARTECIPAZIONE ALLA GARA al possesso di determinati “requisiti
di ordine generale”, che dimostrano l’affidabilità dell’operatore economico. Tra
questi requisiti, alcuni sono diretti a evitare che la P.A. instauri rapporti con
operatori che non siano nelle condizioni di dimostrare la loro solidità
economico-finanziaria (perché, ad es., si trovano in stato di fallimento) o che
non abbiano rispettato degli obblighi imposti dalla legge o che abbiano svolto
con negligenza altre prestazioni loro affidate in precedenza. Tra i requisiti di
ordine generale sono molto importanti quelli attestati da una specifica
documentazione (oggi disciplinata dal “codice antimafia” del 2011) che serve a
far conoscere in via preliminare alla P.A. l’esistenza, a carico delle imprese, dei
divieti posti dalla legge per poter intrattenere rapporti contrattuali con
l’amministrazione, così da contrastare il fenomeno dell’ “imprenditorialità
mafiosa”. Infatti, nel caso in cui si accerti l’esistenza di eventuali tentativi di
infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte delle imprese
interessate, l’impresa non potrà partecipare alla gara.
La disciplina sulla documentazione antimafia si articola in due momenti
successivi : in primo luogo essa consente di individuare «requisiti soggettivi di
ordine pubblico», che gli operatori economici devono possedere per
partecipare ad una procedura di affidamento delle concessioni e degli appalti,
di lavori, servizi e forniture (art. 38 c.c.p.); in un secondo momento sono
richieste «ulteriori garanzie» per procedere alla successiva stipulazione dei
contratti con l’impresa che si è vista aggiudicare il contratto. Tali garanzie
costituiscono l’oggetto della “documentazione antimafia”, ossia : la non
pendenza di un procedimento per l’irrogazione di una misura di prevenzione o
l’inesistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato per reati di
partecipazione a un’organizzazione criminale o per corruzione, frode o
riciclaggio. Si tratta di requisiti che assumono la valenza di “cause di esclusione
dalle procedure”, nonché di “incapacità a contrarre con una P.A.”, il cui
possesso va verificato fin dalla fase di ammissione alla gara.
Il possesso dei «requisiti di ordine pubblico» deve essere accertato nel
momento dell’accesso alla gara e attestato dal candidato con una

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«dichiarazione sostitutiva», in sede di presentazione della domanda :


l’interessato, infatti, può comprovare con una propria dichiarazione sottoscritta
(in sostituzione delle normali certificazioni) di non aver riportato condanne
penali, di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano
l’applicazione di misure di prevenzione e di non essere a conoscenza di essere
sottoposto a procedimenti penali. La mancanza anche di uno solo di questi
requisiti impedisce la partecipazione del concorrente alla procedura selettiva e
- qualora la stessa sia accertata durante la procedura - comporta l’esclusione
automatica e - allorché sopravvenga all’aggiudicazione definitiva - legittima il
rifiuto dell’amministrazione alla stipulazione del contratto.
Diversamente, l’acquisizione da parte della stazione appaltante della
“documentazione antimafia” (che si articola nella «COMUNICAZIONE
ANTIMAFIA» e nell’ «INFORMAZIONE ANTIMAFIA») avviene dopo
l’aggiudicazione definitiva e precede la stipulazione del contratto. Sicché la
stessa riguarda solo i “concorrenti aggiudicatari”, con la conseguenza che
l’emanazione di un “provvedimento che dispone in via definitiva l’applicazione
di una misura di prevenzione” o il “passaggio in giudicato di una sentenza di
condanna per reati definitivamente accertati”, comporta la risoluzione del
contratto già stipulato : decisione che prima era frutto di una valutazione
discrezionale del responsabile del procedimento, mentre oggi la stazione
appaltante ha l’obbligo di recedere dal contratto, fatto salvo il pagamento del
valore delle opere eseguite e il rimborso delle spese sostenute. Con due
eccezioni : 1) che l’opera sia quasi ultimata; 2) che ragioni di pubblico
interesse postulino l’esigenza di non interrompere un servizio essenziale e il
soggetto che lo fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi.

Ma la vera novità è la previsione – da parte della L. 106 / 2011 (di conversione


del d.l. sviluppo 70 / 2011) - delle c.d. WHITE LIST (le “liste delle imprese
virtuose”) : si tratta di un elenco (istituito presso ogni prefettura) di fornitori di
beni, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a rischio di
infiltrazione mafiosa. Le singole prefetture devono eseguire sia le “verifiche sul
possesso dei requisiti cui è subordinata l’iscrizione”, sia il “controllo periodico
sulla persistenza dei requisiti” (con la conseguente cancellazione dell’impresa
dall’elenco in caso di esito negativo). L’iscrizione delle imprese nelle white list
ne attesta l’estraneità alla criminalità organizzata e la possibilità per le stazioni
appaltanti di procedere alla stipulazione dei contratti con l’aggiudicatario senza
la preventiva acquisizione della documentazione antimafia. La “legge
anticorruzione del 2012” ha specificato meglio l’ambito di operatività e gli
effetti giuridici che derivano dall’iscrizione nelle white list. Quanto all’AMBITO
DI OPERATIVITÀ, la novità rispetto al passato è che la loro operatività è limitata
solo alle attività considerate più esposte al rischio di infiltrazioni mafiose.
Quanto agli EFFETTI GIURIDICI, l’iscrizione delle imprese negli elenchi della
prefettura competente «soddisfa i requisiti per l’informazione antimafia» : in
pratica, l’iscrizione in tali elenchi certifica la non appartenenza dell’impresa alla
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criminalità organizzata, consentendole di essere ammessa alla stipulazione del


contratto senza la preventiva attivazione del procedimento per il rilascio
dell’informazione antimafia, con il solo obbligo di comunicare alle prefetture
ogni variazione dell’assetto proprietario entro 30 giorni dalla data di modifica,
pena la cancellazione dall’iscrizione. Tale iscrizione è infatti condizionata
all’impegno delle imprese a non pagare il pizzo, a denunciare le intimidazioni e
le estorsioni subite e alla trasparenza dell’assetto societario.
La legge ha inoltre risolto i problemi relativi al MECCANISMO DI
FUNZIONAMENTO DELL’ISTITUTO, su base obbligatoria o volontaria, preferendo
quest’ultima : in questa prospettiva, lo strumento delle white list si aggiunge,
ma non sostituisce l’attuale sistema della documentazione antimafia, che
continua a operare nei casi in cui l’impresa aggiudicataria abbia scelto di non
iscriversi nella “white list”.
La “legge anticorruzione” prevede anche il c.d. RATING DI LEGALITÀ : esso è
uno strumento volto alla promozione di principi di comportamento etico in
ambito aziendale, tramite l’assegnazione di un “riconoscimento” (misurato in
“stellette”)  che indica il  rispetto della legalità da parte delle imprese che ne
abbiano fatto richiesta.  All’attribuzione del rating l’ordinamento ricollega
vantaggi in sede di concessione di finanziamenti pubblici e agevolazioni per
l’accesso al credito bancario. Per quanto riguarda i rapporti tra le white list e il
rating di legalità, anche se entrambi gli istituti hanno una funzione premiale,
mentre le white list sono alternative all’informazione antimafia, con il rating di
legalità le imprese ottengono una specifica attestazione che non sostituisce il
documento antimafia, ma è il presupposto per beneficiare di agevolazioni
economiche.
*PREFETTURA = organo periferico del Ministero dell'Interno che ha funzioni di rappresentanza generale del governo sul
territorio della provincia; ha sede nel capoluogo.

*PIZZO = forma di estorsione che consiste nel pretendere il versamento di una percentuale dell'incasso da parte di
esercenti di attività commerciali ed imprenditoriali, in cambio di una supposta "protezione" dell'attività.

9. I criteri di aggiudicazione. Per quanto riguarda i METODI DI


SVOLGIMENTO DELLA GARA e i CRITERI DI AGGIUDICAZIONE, la “Legge di
contabilità dello Stato” del 1923 prevede per l’aggiudicazione dell’asta
pubblica (ma anche della licitazione privata) il metodo del «pubblico banditore»
(per i contratti attivi) e quello delle «offerte segrete da confrontarsi con il
prezzo prestabilito dall’amministrazione in una scheda segreta» (per i contratti
passivi) : in entrambi i casi, l’aggiudicazione avviene automaticamente e il
“prezzo” è l’elemento decisivo nell’individuazione dell’offerta migliore.
Il codice dei contratti pubblici prevede (sia per le procedure aperte che per
quelle ristrette) due criteri di aggiudicazione :

 il primo è il CRITERIO DEL PREZZO PIÙ BASSO (art. 82 c.c.p.), in virtù del
quale, sulla base di una valutazione automatica del prezzo, è individuata
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l’offerta più conveniente. Quindi esso si risolve nell’ uso di regole


matematiche. Però, se è vero che questo criterio è quello che risponde
meglio alle esigenze di “imparzialità” e “trasparenza” delle operazioni
concorsuali, esso non assicura però (soprattutto quando il prezzo è
troppo basso) la qualità della prestazione (sotto il profilo, ad esempio,
della buona esecuzione del lavoro, dei tempi di realizzazione, del
materiale usato, ecc.) : così, per evitare questi problemi, in presenza di
offerte anomale, dopo l’individuazione delle offerte, si procede
all’apertura di un sub-procedimento, al cui interno la “commissione
aggiudicatrice”, in contraddittorio con l’offerente, va ad accertare
l’offerta anormalmente bassa in base ad “indici predefiniti” : fatto ciò, la
stessa, dopo aver esaminato le “giustificazioni addotte dall’impresa
offerente”, procede all’esclusione dell’offerta, ove la stessa dovesse
risultare inaffidabile e in contrasto con l’interesse pubblico alla migliore e
più celere esecuzione del contratto (a questo proposito, data la
“discrezionalità tecnica” che connota la verifica dell’anomalia dell’offerta,
una parte della giurisprudenza considera il “giudizio di anomalia/non
anomalia” insindacabile, a meno che lo stesso non sia frutto di
valutazioni irrazionali, arbitrarie, o fondate su errori di fatto).
 Il secondo criterio è, invece, quello dell’OFFERTA ECONOMICAMENTE PIÙ
VANTAGGIOSA (art. 83 c.c.p.), che a differenza del precedente, aggiunge
all’ “elemento quantitativo” (il prezzo) determinati “elementi qualitativi”
(come, ad esempio, i tempi di esecuzione o il termine di consegna, la
qualità, ecc). Sicché l’offerta prescelta deve assicurare il migliore
rapporto qualità/prezzo in relazione all’oggetto del contratto. L’offerta,
inoltre, deve essere anche affidabile : in quest’ottica il Consiglio di Stato
ha precisato che, anche nelle gare da aggiudicarsi in base al metodo dell’
“offerta economicamente più vantaggiosa”, l’amministrazione, in caso di
“offerte anomale”, deve avviare il sub procedimento e svolgere la
verifica di anomalia dell’offerta.

Per la valutazione delle offerte, è prevista la nomina di un’apposita


“commissione giudicatrice” (art. 84 c.c.p.).
La scelta tra i due criteri di aggiudicazione è rimessa ai poteri discrezionali
dell’amministrazione in base alle caratteristiche del contratto.

*PUBBLICO BANDITORE = nel giorno, ora e luogo indicati nell’avviso d’asta, il pubblico banditore a viva voce raccoglie
le offerte degli intervenuti. Ogni partecipante fa la propria offerta o migliora il prezzo base indicato dal banditore.
Ognuno ha la facoltà di migliorare continuamente la propria offerta e quella degli altri, finchè il presidente dell’asta non
fa dare il segnale di aggiudicazione dal banditore. A differenza degli altri sistemi, qui l’aggiudicazione è definitiva al
primo incanto.

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10. L’aggiudicazione provvisoria e l’aggiudicazione definitiva. Il


“procedimento di evidenza pubblica” termina con l’AGGIUDICAZIONE DEL
CONTRATTO all’impresa vincitrice (che è un atto amministrativo con cui si
conclude il procedimento di gara).
Particolari problemi sono sorti riguardo alla natura giuridica
dell’“AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA”: la giurisprudenza la qualifica come
“atto endoprocedimentale”, dagli effetti provvisori, inidoneo a produrre effetti
costitutivi a favore del destinatario, ma semplicemente prodromico alla
definizione del procedimento di gara (che avviene con l’aggiudicazione
definitiva). L'AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA, invece, non è un atto meramente
confermativo dell’aggiudicazione provvisoria, ma postula il rinnovato esame
(da parte dell’organo amministrativo) delle valutazioni compiute dall’organo
tecnico in sede di selezione della migliore offerta, nonché una nuova
valutazione dell’interesse pubblico.

Ma procediamo con ordine. Dopo che il competente funzionario ha redatto il


“processo verbale” delle operazioni di gara, il procedimento di evidenza
pubblica termina con l’AGGIUDICAZIONE DEL CONTRATTO all’impresa
vincitrice. Prima del codice dei contratti pubblici, la giurisprudenza affermava la
“natura negoziale” dell’aggiudicazione (di atto, cioè, con cui l’amministrazione
- una volta accettata la proposta contrattuale e proclamato il vincitore -
manifesta la sua volontà di costituire il vincolo contrattuale) : ciò sulla base
dell’art. 16, 4°comma della “legge di contabilità di Stato” del 1923, secondo cui
«i processi verbali di aggiudicazione equivalgono per ogni effetto legale al
contratto». Così ragionando, però, veniva privata di significato la fase
stipulatoria (infatti la “stipulazione” avrebbe avuto un valore meramente
riproduttivo di un vincolo già sorto in sede di “aggiudicazione”). Inoltre, nella
“normativa di contabilità di Stato” l’AGGIUDICAZIONE presenta carattere
provvisorio : ciò significa che essa deve essere seguita dall’aggiudicazione
definitiva (e ciò sia nel caso in cui si renda necessario un qualche «esperimento
di miglioria», sia nel caso in cui sia prevista la sola approvazione del “verbale di
aggiudicazione”). A
differenza della “legge di contabilità del 1923”, il codice dei contratti pubblici
del 2006, invece, non solo ha attribuito diversa natura all’aggiudicazione, ma
ha anche dettato una disciplina compiuta del relativo procedimento. Il codice
infatti articola il “procedimento di aggiudicazione” in due fasi :

 La prima è quella dell’“aggiudicazione provvisoria”. L’art. 11, 4°comma


del c.c.p. dispone che “una volta selezionata la migliore offerta secondo il
criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, la stazione appaltante dichiara a favore del migliore
offerente l’“AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA”. L’aggiudicazione
provvisoria deve essere approvata dall’organo competente.

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 Effettuata l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, la stazione


appaltante provvede ad adottare l’“AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA”, per la
quale tuttavia il codice non prevede un termine specifico. L’art. 11,
6°comma stabilisce che “l’offerta è vincolante per l’offerente per tutto il
periodo stabilito dal bando di gara o dalla lettera-invito, e comunque per
un periodo di 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la
presentazione dell’offerta” : quindi mentre l’amministrazione non è
obbligata ad adottare l’aggiudicazione definitiva entro un termine certo,
il privato, al contrario, resta vincolato alla propria offerta per un periodo
fino a 180 giorni.

Per ciò che riguarda la natura negoziale, questa è venuta meno, perché l’art.
11, 7°comma, c.c.p. dispone che - in relazione ai contratti disciplinati dal codice
- «l’accettazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta» : ciò
significa che l’aggiudicazione non è più idonea a far sorgere il vincolo
contrattuale (che, al contrario, sorge con la “stipulazione”). In questa
prospettiva, l’aggiudicazione definitiva chiude la fase pubblicistica, preordinata
alla scelta del contraente; mentre la stipulazione (con la costituzione del
vincolo contrattuale) avvia la fase privatistica.
Nonostante il PROVVEDIMENTO DI AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA sia l’atto
conclusivo della serie procedimentale, il codice dei contratti pubblici non
prevede un termine entro cui esso debba essere adottato : anzi è possibile che
ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di
appalto, ma ciò secondo la giurisprudenza è inidoneo a ingenerare un
affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non
sussista nessuna illegittimità nell’operato della P.A.”. La mancanza di un
termine entro cui adottare l’aggiudicazione definitiva espone l’impresa
all’incertezza sulla definitiva aggiudicazione, senza che possa vantare alcuna
pretesa nei confronti dell’amministrazione.

11. Trattativa privata, procedure negoziate e dialogo competitivo.


La “TRATTATIVA PRIVATA” nella “legge di contabilità di Stato” del 1923 è un
metodo negoziato di scelta del contraente che contrasta con il “principio di
concorrenza” e, pertanto, è limitato a casi tassativamente indicati dalla legge
(perchè le stazioni appaltanti, nella scelta del contraente, devono dare la
preferenza alle procedure aperte e ristrette). Questi casi tassativi sono:

 che la gara sia andata deserta (= asta in cui non si è presentato nessuno
degli aventi titolo);
 che l’oggetto del contratto abbia caratteristiche tali per cui solo una ditta
possa fornirlo;
 in casi di urgenza e in ogni altro caso in cui ricorrano eccezionali
esigenze.
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Nella trattativa privata l’amministrazione negozia le condizioni del contratto


con il soggetto prescelto, senza essere vincolata all’osservanza di particolari
regole procedimentali. Il “procedimento di aggiudicazione” manca nella
trattativa privata, e il vincolo contrattuale sorge solo dopo la stipulazione. Nella
trattativa privata prevale il diritto privato, ma - poiché l’attività è comunque
funzionalizzata al pubblico interesse - la formazione del contratto deve essere
comunque preceduta e seguita da un atto amministrativo : dalla
DELIBERAZIONE A CONTRARRE, in cui l’amministrazione deve dar conto dei
motivi che l’hanno indotta ad adottare questo metodo di contrattazione
(impugnabile dagli imprenditori che sarebbero interessati a partecipare alla
gara); e dall’APPROVAZIONE DEL CONTRATTO (una volta stipulato). In ogni
caso nella trattativa privata trovano piena applicazione i principi privatistici in
materia di obbligazioni e contratti, tra cui il “principio di buona fede”.
Ad ogni modo, come previsto dalla “Legge di contabilità”, la trattativa privata
può essere preceduta da una GARA INFORMALE TRA PIÙ IMPRESE IN
COMPETIZIONE TRA LORO : laddove si opti per questa soluzione,
l’amministrazione indicherà i criteri (vincolanti per entrambe le parti) che
devono essere osservati nella trattativa. Essendo vincolanti per entrambe le
parti, la violazione di questi criteri può pregiudicare la posizione dei
partecipanti alla gara, che vanteranno un “interesse legittimo”, tutelabile
davanti al giudice amministrativo.
Anche il “t.u.e.l.” (per gli enti locali) disciplina la figura della “trattativa privata”
ed anche in questo caso, per la sua attivazione, è necessaria non solo la previa
e motivata “determinazione a contrarre”, ma soprattutto che sussista
l’impossibilità di ricorrere all’uso di procedure aperte o ristrette.
Nel codice dei contratti pubblici, invece, la trattativa privata ha trovato
corrispondenza nella “PROCEDURA NEGOZIATA”, che è stata articolata in due
moduli, a seconda che sia preceduta o meno dalla pubblicazione di un bando di
gara (artt. 56 e 57) :

 la PROCEDURA NEGOZIATA PRECEDUTA DAL BANDO, che in realtà si


allontana dalla “trattativa privata” e si avvicina molto a una gara
pubblica : in questo caso, infatti, le stazioni appaltanti, dopo aver
selezionato gli operatori economici ritenuti idonei, negoziano (con uno o
più di essi) le “condizioni dell’appalto”. Fatto ciò, si procede all’
“aggiudicazione del contratto” (secondo il criterio del prezzo più basso o
dell’offerta economicamente più vantaggiosa).
 la PROCEDURA NEGOZIATA NON PRECEDUTA DAL BANDO DI GARA
corrisponde, invece, alla “trattativa privata” : qui la stazione appaltante
negozia le “condizioni del contratto” direttamente con un solo operatore
economico, una volta accertatane l’idoneità in base ad informazioni
desunte dal mercato. Essa comunque è ammessa solo in casi di estrema
urgenza ed è circondata da particolari garanzie procedurali volte
assicurare il rispetto, nella selezione dell’altro contraente, dei “principi di
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trasparenza”, “concorrenza” e “rotazione” (con il divieto, quindi, di


negoziare sempre con gli stessi soggetti).

Il “DIALOGO COMPETITIVO” (art. 58 c.c.p.) è una nuova procedura di scelta del


contraente caratterizzata dal dialogo fra le parti nella “fase progettuale”.
L’istituto permette all’amministrazione di avviare un dialogo con gli operatori
economici che hanno chiesto di partecipare alla procedura per individuare
insieme, attraverso lo scambio reciproco di informazioni, una o più soluzioni
progettuali idonee a soddisfare le necessità rappresentate nel bando. I
candidati idonei saranno poi selezionati sulla base delle soluzioni che hanno
prospettato e saranno invitati a presentare le loro offerte. In ogni caso, per
l’attivazione della procedura (e anche qui i casi sono tassativamente indicati ex
lege) occorre che l’appalto sia «particolarmente complesso» ed è richiesto,
inoltre, il parere del “Consiglio superiore dei lavori pubblici”.
Il ricorso alla PROCEDURA NEGOZIATA (con o senza bando) e al DIALOGO
COMPETITIVO è ammesso solo nei casi espressamente previsti dalla legge,
poiché la stazione appaltante, nella scelta del contraente, deve dare la
preferenza alle procedure aperte e ristrette.

PROCEDURA NEGOZIATA : la Stazione Appaltante consulta un numero limitato di operatori economici selezionati
(generalmente da un elenco costituito presso una stazione appaltante), dotati delle caratteristiche adatte
all'affidamento di un determinato appalto, con i quali "negozia" le condizioni dell'appalto. L'appalto viene infine affidato
all'operatore che negozia le condizioni più vantaggiose, in base al criterio di aggiudicazione scelto (prezzo più basso o
offerta economicamente più vantaggiosa). La Procedura negoziata può essere adottata sia con, sia senza preventiva
pubblicazione di un bando.

DIALOGO COMPETITIVO : procedura in cui la stazione appaltante, in caso di “appalti particolarmente complessi”, avvia
un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, per elaborare una o più soluzioni progettuali idonee a soddisfare
le sue necessità e sulla base delle quali i candidati selezionati saranno invitati a presentare le offerte.

12. Centrali di committenza, accordi quadro, sistemi dinamici di


acquisizione e project financing. I vincoli posti alla finanza pubblica
nazionale, discendenti dall’adesione dell’Italia al sistema monetario dell’euro,
hanno comportato l’introduzione nell’ambito dell’attività contrattuale delle
pubbliche amministrazioni di nuovi istituti per il contenimento della spesa
pubblica. In questa prospettiva è stato introdotto nell’ordinamento italiano un
“sistema unificato degli acquisti delle amministrazioni”, in base ad apposite
“CONVENZIONI-QUADRO” stipulate dalla CONSIP (“concessionaria servizi
informatici pubblici”) con quelle imprese (individuate in base alle regole
dell’evidenza pubblica sulla scelta del contraente) che si impegnano, per il
periodo di tempo stabilito, ad accettare ordinativi di forniture di beni e servizi
entro limiti quantitativi massimi ivi stabiliti. Il modello CONSIP, basato su
“procedure comuni di acquisto”, è stato legittimato dal diritto comunitario
(direttiva 18 / 2004) e recepito dal c.c.p. (art. 33), attraverso la previsione di
“CENTRALI DI COMMITTENZA”, organismi creati appositamente per
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concentrare più commesse (= ordinazioni di merci) su un unico soggetto, per la


riduzione dei costi legati allo svolgimento delle gare. Il meccanismo consente
infatti a più stazioni appaltanti, associate (nella centrale di committenza), di
stipulare contratti per l’acquisto di lavori, servizi e forniture con l’impresa
scelta (sulla base delle regole dell’evidenza pubblica) dalla centrale di
committenza. Ciò consente alle amministrazioni di ottenere dai fornitori
prestazioni di qualità a prezzi più vantaggiosi.
L' “ACCORDO-QUADRO”, anch’esso previsto dal diritto comunitario e
disciplinato dal codice dei contratti pubblici all’art. 59, è un modulo
contrattuale (facoltativo) che serve alle amministrazioni per semplificare le
procedure contrattuali in caso di “prestazioni ripetitive” e per individuare in
anticipo i costi cui far fronte (in relazione ad un programma d’investimenti).
Con l’accordo-quadro - che può essere concluso da una stazione appaltante
con uno o più operatori economici (in quest’ultimo caso, devono essere almeno
3), scelti secondo le regole dell’evidenza pubblica, vengono stabilite le
“clausole relative ai futuri appalti” (cioè a quegli appalti che devono essere
aggiudicati entro un periodo massimo di tempo, in genere 4 anni), specie per
quanto riguarda i prezzi e le quantità previste.
Il “SISTEMA DINAMICO DI ACQUISIZIONE” (art. 60 c.c.p.) è un processo
interamente elettronico ammesso per acquistare beni e servizi standardizzati
di uso corrente. L'istituzione del sistema segue le regole dell’evidenza pubblica,
fino al momento dell’attribuzione degli appalti. Il sistema è aperto per tutta la
sua durata (che non può superare i 4 anni) a tutti gli operatori economici che
soddisfino i criteri di selezione e che abbiano presentato un’offerta adeguata a
quella prospettata nel bando di gara. Una volta che un’impresa è stata inclusa
nel sistema, essa ha il “diritto di essere invitata dalla stazione appaltante in
occasione di ogni appalto specifico che abbia ad oggetto i beni o servizi in
funzione dei quali il sistema è stato creato” e di “presentare, per questi, una
determinata offerta”. Fatto ciò, l’amministrazione aggiudica l’appalto
all’operatore che ha presentato l’offerta migliore in base ai criteri enunciati nel
bando di gara.
Il “PROJECT FINANCING” (o “finanza di progetto”), introdotto nel 1998 dalla c.d.
legge Merloni-ter (le cui disposizioni sono confluite negli artt. 153-159 del
c.c.p.) è una tecnica di finanziamento delle opere pubbliche che prevede il
coinvolgimento del capitale privato nella realizzazione, in concessione, del
lavoro (di conseguenza, dando ai privati la possibilità di partecipare alla
spesa,l’istituto si prefigge lo scopo di contenere il debito pubblico).
Il codice dei contratti prevede due ipotesi di “project financing” :

 il “PROJECT FINANCING RELATIVO ALLA REALIZZAZIONE DI OPERE GIÀ


PROGRAMMATE” : la stazione appaltante sollecita la presentazione delle
offerte mediante un “bando pubblico”; successivamente i privati
interessati presentano un’offerta (che deve essere accompagnata da uno
“studio di fattibilità” che ne dimostri l’utilità sociale e da un “piano
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economico-finanziario”). Le offerte pervenute vengono valutate


comparativamente e il soggetto che ha presentato l’offerta
economicamente più vantaggiosa viene nominato “promotore”. Dopo che
è stato approvato il “progetto preliminare” (con le eventuali modifiche
progettuali richieste), viene stipulato il “contratto di concessione” con il
promotore o con il concorrente risultato aggiudicatario (e in tal caso il
promotore ha diritto al pagamento delle spese sostenute, che sono a
carico dell’aggiudicatario,).
 il “PROJECT FINANCING RELATIVO ALLA REALIZZAZIONE DI OPERE NON
PROGRAMMATE” : qui il “progetto preliminare” (dopo essere stato
approvato con le eventuali modifiche progettuali richieste
dall’amministrazione) viene inserito negli “strumenti di programmazione”
ed è posto a base della gara per l’affidamento della concessione, alla
quale è invitato il “proponente-promotore” che, avendo presentato il
progetto, gode del diritto di prelazione.

Le due ipotesi si differenziano per il fatto che, mentre nella prima è


l’amministrazione che sollecita la presentazione di offerte, attraverso un bando
pubblico, nella seconda la proposta è di iniziativa dell’operatore economico (il
proponente-promotore). In entrambi i casi, comunque, sia l’offerta che la
proposta dei privati devono contenere un progetto preliminare, una bozza di
convenzione e un piano economico finanziario, asseverato da un istituto di
credito.

*COMMESSA = commissione, ordinazione di merci, di prodotti, ordinativo.


*ORDINATIVO = ordinazione di merce.
*ASSEVERATO = certificato, attestato.

*CONVENZIONI-QUADRO = le convenzioni sono accordi-quadro, sulla base dei quali le imprese


(aggiudicatarie di gare indette dalla Consip su singole categorie merceologiche) - s'impegnano ad
accettare (alle condizioni e ai prezzi stabiliti in gara e in base agli standard di qualità previsti nei
capitolati) ordinativi di fornitura da parte delle Pubbliche Amministrazioni, fino al limite massimo previsto
(il c.d. massimale). Le convenzioni attivate da Consip riguardano una
spesa standard, cioè l'acquisto di quei beni e servizi che vengono largamente usati da tutte le
amministrazioni (computer, stampanti, buoni pasto, telefonia mobile e fissa ecc.). Acquistando
attraverso la convenzione Consip, tutte le amministrazioni possono evitare di sostenere i costi di una gara
d'appalto e possono ottenere notevoli risparmi sull’acquisto dei beni.

*ACCORDI-QUADRO = l'Accordo-quadro è uno strumento innovativo di contrattazione, che stabilisce le


regole relative ad appalti da aggiudicare durante un periodo massimo di 4 anni.
Gli Accordi quadro (aggiudicati da Consip a più fornitori a seguito della pubblicazione di specifici Bandi)
definiscono le “clausole generali” che, in un determinato periodo temporale, regolano i contratti da
stipulare. Nell’ambito poi dell’Accordo quadro, le Amministrazioni, attraverso la contrattazione di "appalti
specifici", provvedono poi a negoziare i singoli contratti, personalizzati sulla base delle proprie esigenze.

*SISTEMA DINAMICO DI ACQUISIZIONE DELLA P.A. = il Sistema Dinamico di Acquisizione è un processo


di acquisizione interamente telematico, il cui utilizzo è previsto per le forniture di beni e servizi
standardizzati di uso corrente. È una procedura sempre aperta, a cui i fornitori che soddisfano i requisiti
richiesti possono, in qualsiasi momento, richiedere l’ammissione. Il Sistema dinamico è caratterizzato da
una procedura bifasica : 1) Fase 1: pubblicazione da parte di Consip di un bando istitutivo per una
specifica categoria merceologica a cui i fornitori possono abilitarsi. 2) Fase 2 : pubblicazione e
aggiudicazione di appalti specifici in cui le Amministrazioni, avviando una procedura concorrenziale,
definiscono i quantitativi, il valore e le caratteristiche specifiche dell’appalto.
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*CENTRALE DI COMMITTENZA = è una stazione appaltante che gestisce gare d'appalto per conto di
più enti pubblici.

*PROJECT FINANCING = è una tecnica di finanziamento di un “progetto” in cui il ristoro del


finanziamento è garantito dai flussi di cassa previsti dall’attività di gestione dell'opera. Il
coinvolgimento dei soggetti privati nella realizzazione, nella gestione e soprattutto
nell'accollo totale o parziale dei costi di opere pubbliche, in vista di entrate economiche future,
rappresenta la caratteristica principale del project financing. Attraverso la creazione di
una “SOCIETÀ DI PROGETTO” si opera la separazione giuridica e finanziaria del progetto dai
partner. Inoltre la partecipazione di più soggetti consente un'allocazione dei rischi verso i soci.
La "società di progetto" (o "concessionario") è il soggetto giuridico costituito per mantenere
separati i capitali destinati al progetto da quelli dei soggetti proponenti l'iniziativa
d'investimento (i c.d. "promotori"). In Italia, la finanza di progetto ha trovato spazio
prevalentemente nella realizzazione di opere di pubblica utilità. In questa configurazione
di project financing i soggetti promotori propongono alla Pubblica amministrazione la
"PROPOSTA"di finanziare, eseguire e gestire un'opera pubblica, il cui progetto è stato già
approvato, o sarà approvato, in cambio degli utili che deriveranno dai flussi di cassa (cash
flow) generati dalla gestione dell'opera. La procedura prevede tre fasi: progettazione,
costruzione e gestione. 1) Fase preliminare : le amministrazioni (statali e non statali) devono
pubblicare periodicamente, in occasione della programmazione triennale, un avviso che indichi
quali opere pubbliche programmate sono realizzabili con capitali privati, in quanto suscettibili
di gestione economica. I soggetti «promotori» presentano alle amministrazioni proposte
relative alla realizzazione di lavori pubblici o di pubblica utilità inseriti nella programmazione
triennale. 2) Fase di gara : una volta valutate le proposte pervenute, l'Amministrazione
individua i soggetti competitori con il promotore attraverso una gara ad evidenza pubblica
(normalmente trattasi di licitazione privata) per scegliere le due migliori offerte, ponendo a
base d'asta il progetto presentato dal promotore ed esaminando tutte le offerte pervenute e
comparandole con la proposta del promotore. Al termine di tale fase, l'Amministrazione
intraprende una procedura negoziata tra il promotore e i due competitori risultati vincitori della
gara; si giunge così alla scelta dell'aggiudicatario, secondo il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa. Tuttavia, il soggetto promotore ha una sorta di diritto
di prelazione sull'aggiudicazione della procedura : cioè se all'esito della procedura negoziata un
soggetto competitore dovesse presentare un'offerta migliore di quella del promotore,
quest'ultimo potrà sempre adeguare la propria proposta a quella (dell'altro soggetto) ritenuta
più conveniente dall'Amministrazione, aggiudicandosi così in ogni caso il project financing. 3)
Fase di costruzione e gestione : il bando di gara per l’affidamento di una concessione
per project financing deve prevedere la facoltà dell’aggiudicatario della concessione di
costituire una “società di progetto” in forma di società per azioni o a responsabilità limitata. La
società di progetto diventa a tutti gli effetti concessionaria, subentrando nel rapporto di
concessione dell’aggiudicatario. La durata della concessione deve remunerare la quota di
capitale privato investita, i canoni di concessione allo Stato, e un'adeguata redditività.
La proprietà dell'opera realizzata, di regola (ma non sempre) è dell'ente pubblico. La normativa
in vigore prevede una separazione fra proprietà e gestione, ma la proprietà pubblica può
essere successivamente privatizzata, in particolare attraverso la vendita allo stesso
concessionario che già ne detiene la gestione.
Ogni anno, il privato paga un canone di concessione (in percentuale sul fatturato) al
proprietario dell'opera. Nel project
financing abbiamo quindi : 1) il promotore: colui che dà forma all'idea e la fa diventare
progetto. 2) e la società di progetto: a cui viene assegnato il compito dell'esecuzione del
progetto.

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13. Stipulazione, approvazione, controllo ed esecuzione del


contratto. L’AGGIUDICAZIONE DEL CONTRATTO segna il momento finale
della “fase pubblicistica” ed è seguita dalla stipulazione. Con la STIPULAZIONE
DEL CONTRATTO inizia la fase, “di natura negoziale”, relativa all’esecuzione del
contratto. La stipulazione, nella “normativa di
contabilità di Stato” del 1923, non era richiesta nel caso in cui la fase di
formazione del contratto si fosse conclusa con il “verbale di aggiudicazione”,
che “equivale per ogni effetto legale al contratto” (art. 16, 4°comma) : essa era
quindi necessaria nella trattativa privata, dove mancava l’aggiudicazione.
Per cui, in relazione ai “contratti previsti dalla Legge di contabilita” del 1923, la
stipulazione (se prevista) assume un mero valore riproduttivo di un atto già
perfezionatosi in sede di aggiudicazione (era in questo senso, tra l’altro, che la
giurisprudenza attribuiva all’ “aggiudicazione” natura negoziale). Al contrario,
la stipulazione assume valore vincolante in tutti i casi in cui è prevista in via
obbligatoria (come nella trattativa privata, in cui non c’è la fase di
aggiudicazione).
Diversa prospettiva ha assunto invece la giurisprudenza in relazione ai
“contratti disciplinati dal codice dei contratti pubblici” : in relazione a questo
tipo di contratti, la giurisprudenza – abbandonando il precedente orientamento
attributivo della natura negoziale all’ “aggiudicazione” – ha stabilito che la
“stipulazione” segna l’inizio della fase (di natura negoziale) relativa
all’esecuzione del contratto : in questa prospettiva, l’art. 11 c.c.p. ha dettato una
disciplina completa della “fase di stipulazione”, intendendo la stessa come atto
necessario a produrre la conclusione del contratto.

La STIPULAZIONE DEL CONTRATTO deve avvenire entro 60 giorni (art. 11,


9°comma c.c.p.), decorrenti dal momento in cui l’aggiudicazione definitiva
acquista efficacia. In caso di mancata osservanza di questo termine da parte
dell’amministrazione, l’aggiudicatario può sciogliersi dal vincolo contrattuale.
Tuttavia, il d.lgs. 53/2010 (attuativo della “direttiva ricorsi” del 2007 e
modificativo dell’art. 11 c.c.p.) ha introdotto, nella fase intercorrente tra
l’aggiudicazione definitiva e la stipulazione del contratto, dei meccanismi di
“standstill”, cioè di sospensione legale del termine per stipulare il contratto,
per tutelare il contraente non prescelto dall’amministrazione :

 il primo “meccanismo di standstill” (art. 11, comma 10°, c.c.p.) prevede


che l’amministrazione non può stipulare il contratto prima di 35 giorni
dalla comunicazione (a tutti i concorrenti ammessi alla gara) del
provvedimento di “aggiudicazione definitiva”. La previsione del termine
dilatorio (c.d. standstill) è stata introdotta per risolvere il difficile rapporto
tra il contratto stipulato e l’eventuale successivo annullamento
dell’aggiudicazione : il problema era stabilire quale fosse la sorte del
contratto che l’amministrazione avesse già stipulato con l’impresa
aggiudicataria nel caso in cui, su ricorso presentato da un’altra impresa,
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il giudice avesse successivamente annullato il “provvedimento di


aggiudicazione”.
I 35 giorni di standstill assicurano che il contratto si possa stipulare con la
certezza di non dover subire poi l’instaurazione di un giudizio di
annullamento del “provvedimento di aggiudicazione”, poichè il termine
per la proposizione del ricorso in materia di contratti è pari a 30 giorni.
Inoltre, esso consente agli interessati di valutare l’opportunità o meno di
proporre un ricorso giurisdizionale, con la garanzia che – nel relativo
lasso di tempo – non si giungerà alla stipulazione del contratto (che
potrebbe per loro risultare pregiudizievole).
Il comma 10-bis dell’art. 11 dispone, però, delle deroghe, che sono
tassative (“Il termine dilatorio di cui al comma 10 non si applica nei
seguenti casi) : 1) se, dopo la pubblicazione del bando di gara o l’inoltro
degli inviti, è stata presentata o è stata ammessa una sola offerta e il
bando o la lettera-invito non sono state tempestivamente impugnate
oppure queste impugnazioni risultano già respinte con decisione
definitiva; sicché le parti hanno la certezza che nessuno potrà mai
chiedere l’annullamento dell’aggiudicazione; 2) nel caso in cui si tratti di
un appalto basato su un “accordo-quadro” o su un “sistema dinamico di
acquisizione”.
 Il secondo meccanismo di standstill è previsto dal comma 10-ter dell’art.
11 c.c.p., che prende in considerazione l’ipotesi dell’ “instaurazione di un
ricorso giurisdizionale contro l’aggiudicazione definitiva, con contestuale
DOMANDA CAUTELARE” : in tal caso, il contratto non può essere stipulato
dal momento in cui l’istanza cautelare viene notificata alla stazione
appaltante e per i successivi 20 giorni; sarà poi il giudice a stabilire se la
sospensione deve essere protratta fino alla decisione cautelare o di
merito. Lo scopo è di impedire che nelle more del “giudizio contro
l’aggiudicazione definitiva” la stazione appaltante stipuli in ogni caso il
contratto, rendendo così vana l’aspettativa del ricorrente (eventualmente
vittorioso) di stipulare il contratto.

La STIPULAZIONE, che oggi è di competenza dei “dirigenti pubblici”, può


avvenire in tre forme : 1) forma pubblica amministrativa (a mezzo di ufficiale
rogante); 2) atto pubblico notarile; 3) scrittura privata (in caso di “trattativa
privata”).

Dopo la stipulazione, il contratto è soggetto all’eventuale APPROVAZIONE da


parte dell’organo competente entro il termine previsto dalle singole discipline
contrattuali o, in mancanza, entro 30 giorni dal ricevimento del contratto (art.
12, 2°comma c.c.p.). Decorso questo termine il contratto si intende approvato
e diventa efficace. Quanto alla “natura
giuridica” dell’APPROVAZIONE, essa è una fattispecie che integra l’efficacia del
contratto, quindi è una condicio iuris cui è subordinata la produzione degli

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effetti del contratto (ciò significa che, in mancanza dell’approvazione, il


contratto non potrà esplicare effetti e subirà la caducazione).
Dal punto di vista funzionale, l’approvazione si estrinseca in un “controllo”, che
può essere sia “di legittimità” (riguardante la conformità del contratto alle
norme, alla deliberazione a contrarre, al bando, al sistema di scelta del
contraente, ecc.), sia “di merito” (perché l’approvazione può anche essere
negata, ad esempio, per mancanza della copertura finanziaria o per gravi
motivi di pubblico interesse).
Trattandosi di un “atto di controllo”, l’APPROVAZIONE è irrevocabile.
Nel momento in cui il contratto viene sottoposto ad approvazione, le parti
(amministrazione e privato contraente) si trovano nella situazione che abbiamo
definito come “CONTRATTO CLAUDICANTE” : mentre infatti il vincolo
contrattuale per il privato nasce al momento della stipulazione,
l’amministrazione potrà ritenersi vincolata solo dopo l’esito positivo
dell’approvazione. Dunque, in questa ipotesi, all’amministrazione è
riconosciuta una “posizione di supremazia”, contro cui però il privato è titolare
di un’adeguata tutela : il privato, infatti, non solo può mettere in mora
l’amministrazione inadempiente, ma può anche recedere dal contratto alla
scadenza del termine previsto per l’approvazione. Questa situazione di
privilegio dell’amministrazione ha determinato in passato la tendenza
all’espunzione (= soppressione) dell’APPROVAZIONE dall’ordinamento; tuttavia
l’art. 12, 2°comma del c.c.p. continua a contemplare l’istituto dell’
approvazione, fissando solo il termine entro cui essa deve intervenire e
stabilendo anche che, ove non intervenuta nei termini, il contratto si intende
approvato. Il codice ripropone questa situazione di privilegio quando statuisce
(art. 11, 7°comma c.c.p.) che, mentre per l’amministrazione
«l’AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA non equivale ad accettazione dell’offerta»,
l’offerta dell’aggiudicatario «è irrevocabile» finchè non siano trascorsi i 60
giorni previsti per la stipulazione del contratto e i successivi 30 giorni per
l’approvazione dello stesso (nel corso dei quali l’amministrazione può
esercitare anche i poteri di autotutela : annullamento e revoca). Ne consegue,
pertanto, che solo alla scadenza di questi termini senza che il contratto sia
stato stipulato o approvato, il contraente privato può sciogliersi dal vincolo
contrattuale o recedere dal contratto (stipulato, ma non approvato), attraverso
un atto notificato alla stazione appaltante.

Il contratto, una volta approvato, è soggetto ad un PROCEDIMENTO DI


CONTROLLO, sia per i “contratti dello Stato” (per i quali il controllo si sostanzia
nella forma del visto di registrazione della Corte dei conti), sia per i “contratti
degli enti locali”, sia per i “contratti di appalto di lavori, servizi e forniture” : si
tratta di un “controllo preventivo di legittimità”, diretto a dare esecutività al
contratto.
Un ruolo importante nel controllo sui contratti pubblici svolge l’“Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici”. Infatti l’Autorità deve :
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 verificare la correttezza e la trasparenza delle procedure di affidamento;


 garantire che l’esecuzione del contratto avvenga nel rispetto dei “principi
di economicità” ed “efficienza”;
 assicurare l’osservanza delle regole della concorrenza nelle singole
procedure.

Terminati i controlli (o, nei casi di urgenza, anche prima – su richiesta della
stazione appaltante : e in tal caso parleremo di c.d. “esecuzione anticipata”), il
contratto acquista efficacia e può essere eseguito dalle parti, nel rispetto delle
norme del codice civile (data la sua natura di contratto di diritto comune). La
FASE DI ESECUZIONE infatti è disciplinata dal diritto privato, anche se le leggi
riconoscono all’amministrazione speciali poteri di intervento, in funzione della
tutela del pubblico interesse (si pensi, ad esempio, in materia di appalti, al
potere, riconosciuto all’amministrazione, di risoluzione del contratto per grave
inadempimento o ritardo nell’esecuzione dei lavori). In ogni caso, questi
speciali poteri di intervento, secondo la giurisprudenza, non hanno natura
provvedimentale, ma sono comunque “atti di natura privatistica” (sicché la
giurisdizione sulle controversie relative all’esercizio di questi poteri spetta al
“giudice ordinario”).
L’art. 21-sexies della L. 241/1990 (aggiunto dalla L. 15/2005) prevede il
“RECESSO” DELL’AMMINISTRAZIONE DAI CONTRATTI STIPULATI (nei casi
previsti dalla legge o dal contratto). L'amministrazione può, quindi, rivedere le
proprie scelte contrattuali ma solo usando le norme del codice civile. Anche il
recesso, ad ogni modo, deve essere subordinato alla sussistenza di particolari
esigenze di pubblico interesse : con ciò, tuttavia, non si vuole attribuire al
recesso carattere pubblicistico (difatti il recesso non è espressione di un
pubblico potere, ma è una “dichiarazione negoziale di diritto privato”,
espressione di un diritto potestativo riconosciuto dalla legge o dal contratto).

*CADUCARE = annullare, privare di efficacia giuridica.

*TERMINE DILATORIO = fanno sì che un atto non possa produrre effetti prima che il relativo termine sia decorso.

*ROGARE = stipulare un contratto alla presenza di un notaio. Nella pubblica amministrazione l'ufficiale rogante è
un funzionario autorizzato a rogare (ossia redigere) documenti in forma pubblica amministrativa, aventi efficacia
di atto pubblico come quelli rogati da un notaio.

*IRREVOCABILE = che non può essere revocato, cioè annullato.

*MESSA IN MORA = Con la lettera di messa in mora, il privato avverte l’amministrazione che, in caso di mancato
adempimento del contratto, decorsi i giorni indicati, instaurerà un vero e proprio processo dinanzi al giudice (oppure,
per esempio, agirà con ricorso per decreto ingiuntivo) per ottenere coattivamente la soddisfazione delle proprie
pretese.

Art. 21-sexies L. 241 / 1990 (Recesso dai contratti)

“Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal
contratto”.

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14. II regime giuridico degli atti amministrativi dell’evidenza


pubblica. La giurisprudenza configura gli ATTI DI EVIDENZA PUBBLICA
(deliberazione a contrarre, bando di gara, aggiudicazione) come
“provvedimenti amministrativi”, come tali assoggettati al relativo regime.
Quindi gli stessi possono essere, in primo luogo, “annullati” o “revocati” in
autotutela. La giurisprudenza, però (a tutela dell’affidamento dei partecipanti),
circonda l’esercizio dei poteri di autotutela di particolari garanzie : così, per
l’annullamento d’ufficio (o per la revoca) di una gara pubblica, si richiede
un’adeguata “motivazione” sulle ragioni di pubblico interesse per cui
l’amministrazione ritiene opportuno agire in autotutela. In secondo luogo,
l’esercizio dei poteri di “annullamento” e di “revoca” deve essere preceduto, a
pena di illegittimità, dalla previa “comunicazione di avvio del relativo
procedimento”, dovendosi garantire all’interessato il contraddittorio
procedimentale.
Riguardo all’applicazione ai procedimenti di evidenza pubblica dell’art.10-bis
della L. 241/1990 (per cui “le amministrazioni devono rispettare l’obbligo di
comunicare al destinatario del provvedimento finale il c.d. PREAVVISO DI
RIGETTO, ad eccezione dei procedimenti concorsuali per esigenze di celerità”),
la giurisprudenza, in base a un’ interpretazione estensiva dell’espressione
«procedure concorsuali», ne ha escluso l’applicazione anche alle gare di
appalto.
Al di là dell’autotutela, poi, gli ATTI DI EVIDENZA PUBBLICA, in quanto
provvedimenti, possono anche essere sospesi o annullati dal giudice
amministrativo.
In particolare, riguardo all’“aggiudicazione”, il Consiglio di Stato ha precisato
che l’AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA è un atto endoprocedimentale, inidoneo a
produrre la lesione definitiva dell’impresa non aggiudicataria, sicché la stessa
non può essere impugnata (tranne quando, per i suoi contenuti, essa impedisce
all’impresa non aggiudicataria l’ulteriore partecipazione al procedimento di
gara). L’AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA è invece sempre impugnabile (anche se
non era stata in precedenza impugnata quella provvisoria) : si tratta infatti di
due atti diversi per soggetto, forma e contenuto. Diversamente, se in
precedenza è stata impugnata l’aggiudicazione provvisoria, diviene allora
obbligatorio impugnare quella definitiva (pena l’improcedibilità del ricorso
proposto contro l’aggiudicazione provvisoria per sopravvenuta carenza di
interesse). La proposizione del “ricorso contro l’aggiudicazione definitiva”
comporta la sospensione automatica del termine per la stipulazione del
contratto fino alla decisione cautelare o di merito sull’impugnazione.
Quindi, dal punto di vista processuale, la regola che bisogna seguire è quella
dell’ “impugnabilità dell’aggiudicazione definitiva” (perché questo è l’atto
conclusivo della gara e, quindi, suscettibile di ledere la situazione soggettiva
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dell’interessato). Però, anche gli ATTI DELLA PROCEDURA DIVERSI


DALL’AGGIUDICAZIONE possono essere impugnati se suscettibili di generare
una lesione immediata, diretta e attuale alla situazione soggettiva di un
soggetto, suscitando così il suo “interesse ad impugnare”. In particolare :

 il BANDO DI GARA si ritiene impugnabile insieme agli atti che ne fanno


applicazione, poiché sono questi che individuano in concreto il “soggetto
leso dal provvedimento” e rendono attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva dell’interessato.
Le “clausole del bando che prescrivono requisiti soggettivi di
partecipazione a una gara la cui carenza determini l’esclusione dalla
gara” sono idonee a generare una lesione immediata, diretta e attuale
alla situazione soggettiva dell’interessato che sia privo di quei requisiti e
a suscitare un suo “interesse all’impugnazione del bando” : la
giurisprudenza, così, afferma l’onere di immediata impugnazione delle
c.d. “clausole escludenti del bando” (configurando il “provvedimento di
esclusione emanato in loro applicazione” come meramente ricognitivo –
cioè che serve ad accertare - di una lesione già prodotta con le clausole
escludenti e, come tale, non autonomamente impugnabile).
Infine il bando può essere impugnato anche quando gli obblighi imposti
all’interessato siano eccessivi rispetto ai contenuti della gara, così da
rendere impossibile per l’interessato accedere alla gara.
 Nel novero degli atti che possono essere impugnati troviamo anche
l’ATTO CHE VA A CONCLUDERE IL SUB-PROCEDIMENTO DI VERIFICA
DELL’OFFERTA ANOMALA : tuttavia, siccome questo procedimento
presuppone un giudizio discrezionale (da parte della commissione
aggiudicatrice), il giudice dovrà appuntare il suo giudizio verificando la
“logicità”, la “ragionevolezza” e la “congruità” delle regole tecniche
usate nel sub procedimento.
 Infine, la giurisprudenza, per tutelare l’iniziativa economica e la libertà di
concorrenza, ha riconosciuto anche la possibilità di impugnare la
DETERMINAZIONE A CONTRARRE nel caso in cui l’amministrazione abbia
illegittimamente deliberato il ricorso alla trattativa privata, frustrando con
ciò l’aspettativa di gara degli interessati.

*ART. 11 CODICE APPALTI : rubricato “Fasi delle procedure di affidamento”.

15. Annullamento degli atti della procedura. Un problema dibattuto è


stato per lungo tempo quello degli effetti dell’ANNULLAMENTO DEGLI ATTI DEL
PROCEDIMENTO DI EVIDENZA PUBBLICA (e in particolare dell’aggiudicazione
definitiva) sul contratto già stipulato, magari in corso di esecuzione. Collegato a
tale problema è quello relativo all’individuazione del giudice (ordinario o
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amministrativo) competente a conoscere delle controversie insorte sulla sorte


del contratto. Il problema della sorte del contratto stipulato in caso di
annullamento dell’aggiudicazione ha trovato oggi una disciplina più compiuta
nell’art. 11 c.c.p., come modificato dal d.lgs. 53/2010 (che ha recepito la c.d.
“direttiva-ricorsi”, le cui disposizioni sono ora confluite nel codice del processo
amministrativo). Vediamo sinteticamente le soluzioni in precedenza proposte
dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Per quanto riguarda il primo problema (gli
effetti dell’annullamento degli atti di evidenza pubblica sul contratto) :

1. Secondo un orientamento consolidato del giudice ordinario,


l’annullamento, con efficacia ex tunc, di un “atto del procedimento di
evidenza pubblica” incide sulla “validità” del contratto, determinandone
l’annullabilità (per un vizio del consenso, per legale incapacità
dell’amministrazione di contrattare, per un difetto di legittimazione in
relazione a quel determinato contratto). Poiché però l’art. 1441 c.c.
dispone che l’azione di annullabilità può essere esperita davanti al
“giudice ordinario” solo dalla parte interessata e la parte interessata è
l’amministrazione, il contratto è annullabile solo su iniziativa dell’ente
pubblico, la cui volontà contrattuale si è formata in modo viziato.
Giustamente, però, questo orientamento è stato criticato perché,
rimettendo le sorti del contratto alla sola iniziativa della parte che ha
provocato l’illegittimità del provvedimento, va a frustrare le aspettative
dei soggetti interessati che, pur avendo ottenuto con l’annullamento
ragione da parte del “giudice amministrativo”, si vedono soddisfatti solo
formalmente (cioè perché l’atto è stato annullato dal giudice
amministrativo) e possono rimanere privi di risultati utili.

2. Il giudice amministrativo ha offerto altre soluzioni. Secondo una prima


soluzione, il contratto sarebbe NULLO per contrasto con norme
imperative (art. 1418 c.c.), quali sono le “norme dell’evidenza pubblica”,
e quindi inidoneo a produrre effetti giuridici nei confronti dell’altro
contraente. Ma questa tesi pregiudica la certezza dei rapporti giuridici.

3. Con riferimento specifico all’AGGIUDICAZIONE, il Consiglio di Stato, prima


dell’emanazione del “codice dei contratti pubblici”, basando il proprio
ragionamento sulla “duplice natura dell’aggiudicazione” (come atto
conclusivo della procedura di scelta del contraente e come atto di
accettazione dell’offerta), ha affermato che il suo annullamento
priverebbe il contratto dell’elemento essenziale dell’ “accordo delle parti”
(art. 1325 c.c.), con conseguente NULLITÀ, rilevabile d’ufficio, senza
un’apposita richiesta da parte del ricorrente. Questa tesi, però, è venuta
a cadere dopo l’emanazione del codice dei contratti pubblici, il cui art.
11, 7° comma dispone che «l’aggiudicazione definitiva non equivale ad
accettazione dell’offerta».
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4. un altro orientamento giurisprudenziale, facendo leva sul meccanismo


dell’INVALIDITÀ AD EFFETTO CADUCANTE, ha precisato che, laddove
sussista l’interesse del ricorrente, l’annullamento di un “atto della
procedura di gara” determina - oltre all’annullamento per illegittimità
derivata degli atti ulteriori del procedimento - la caducazione automatica
del contratto stipulato, senza la necessità che venga promossa un’azione
giudiziaria (questa tesi fonda la propria ragion d’essere sul rapporto di
«consequenzialità» che sussiste tra gli “atti di evidenza pubblica” – in
qualità di presupposto - e il “contratto” – in qualità di atto
consequenziale). Altra giurisprudenza, viceversa, ha stabilito che l’
“annullamento dell’atto” comporta la caducazione non del contratto, ma
dei suoi effetti (ma ad eccezione delle prestazioni già eseguite e facendo
comunque salva la tutela del terzo in buona fede).

Per quanto riguarda, invece, il secondo problema (il giudice competente a


pronunciarsi sulle sorti del contratto), il Consiglio di Stato e la Cassazione –
facendo leva sull’art. 244 del c.c.p. (secondo cui “al giudice amministrativo
sono devolute tutte le controversie riguardanti le procedure di affidamento ”) –
hanno attribuito al “giudice ordinario” le controversie relative al contratto e
alla sua esecuzione, in quanto relative alla fase privatistica.

Ad ogni modo, entrambi i problemi sono stati risolti dal legislatore dopo la
“direttiva-ricorsi del 2007” : con questo intervento, il legislatore nel codice di
procedura amministrativa, dopo aver affermato che “l’annullamento
dell’aggiudicazione produce l’inefficacia del contratto” (risolvendo, in questo
modo, il primo problema), ha specificato che “l’annullamento
dell’aggiudicazione e la pronuncia sull’inefficacia del contratto spettano al
giudice amministrativo” (risolvendo il secondo problema). L’art. 133, 1°comma
del c.p.a. (in cui è confluito l’art. 244 c.c.p.), tra le materie devolute alla
“giurisdizione esclusiva” indica anche le controversie riguardanti le procedure
di evidenza pubblica (incluse quelle risarcitorie e quelle relative alla
dichiarazione di inefficacia del contratto dopo l’annullamento
dell’aggiudicazione) : è bene precisare, però, che la “giurisdizione
amministrativa” non si estende agli “altri vizi del contratto”, che restano
sottoposti alla cognizione del “giudice ordinario”, essendo il contratto
sottoposto alle norme di diritto privato.

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16. Responsabilità della pubblica amministrazione e tutela


giurisdizionale. In relazione alle “procedure di evidenza pubblica” la
pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere degli eventuali
danni cagionati a titolo di responsabilità precontrattuale, contrattuale ed
extracontrattuale.

 La RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE ricorre quando


l’amministrazione viola l’art. 1337 c.c. (e, quindi, nel caso in cui abbia
tenuto un comportamento contrario a buona fede e correttezza). In
particolare, la responsabilità precontrattuale assume rilievo nell’ambito
delle “procedure c.d. negoziate” (tra cui la trattativa privata) : si pensi, ad
esempio, al caso in cui l’amministrazione decida di recedere, senza alcun
motivo, dalle trattative ormai giunte a una fase tale da ingenerare nel
privato un ragionevole affidamento alla stipulazione del contratto. Ma
l’amministrazione risponde dei danni causati a titolo di responsabilità
precontrattuale anche nelle “procedure aperte” (in cui i criteri per la scelta
del contraente sono disciplinati dalla legge) : in questi casi, secondo la
giurisprudenza, la responsabilità precontrattuale è configurabile in tutti i
casi in cui l’amministrazione non rispetti i “principi di correttezza” e
“buona fede” durante il procedimento di scelta del contraente -
indipendentemente dal fatto che rispetti le regole sull’evidenza pubblica e
sul procedimento.
 La RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE si ha, invece, quando
l’amministrazione non dà esecuzione a un contratto già concluso : in tal
caso essa risponde del proprio inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. ;
deve, però, trattarsi di un “inadempimento che non sia sorretto da ragioni
di interesse pubblico”.
 La RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE si ha quando il danno subito
dal privato non deriva dalla violazione degli obblighi contrattuali, ma dalla
violazione del “principio del neminem laedere”. Ad esempio,
l’amministrazione potrebbe essere chiamata a rispondere a titolo di
responsabilità extracontrattuale nel caso in cui sia annullata la “revoca
illegittima dell’aggiudicazione”.

Quanto al giudice competente, il “codice del processo amministrativo”


include tra le controversie devolute alla “giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo” «tutte le controversie relative alle procedure di
affidamento di lavori, servizi e forniture» (art. 133 c.p.a.). Da ciò dobbiamo
dedurre che :

 le questioni relative al “risarcimento del danno da responsabilità


precontrattuale” sono devolute al giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva;
 le questioni relative al “risarcimento del danno da responsabilità
contrattuale” sono, invece, devolute al giudice ordinario, visto che in
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questo caso ci troviamo nella fase di esecuzione del contratto (che è


assoggettata alle regole di diritto comune);
 le questioni relative al “risarcimento del danno da responsabilità
extracontrattuale” sono devolute al giudice amministrativo, se il
danno deriva da un comportamento riconducibile all’esercizio di un
potere; sono invece devolute al giudice ordinario, se il danno deriva
da un comportamento di mero fatto.

Art. 1337 c.c.


Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.

Art. 1218 c.c.


Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che
l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non
imputabile.

Art. 133 c.p.a.


Materie di giurisdizione esclusiva
“Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge:
(…)
e) le controversie:
1) relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture (ivi incluse quelle risarcitorie).

-PARTE 6. RISORSE-

-CAPITOLO 1. LE RISORSE UMANE-

1.La genesi del rapporto di pubblico impiego. Per svolgere le loro funzioni,
le amministrazioni pubbliche si sono sempre servite dell’opera di persone fisiche titolari di uffici.
Fino al 18°sec., però, la gran parte dei pubblici uffici era affidata a personale «onorario», e non
professionale : ciò significa che i funzionari (i dipendenti dell’amministrazione) erano scelti

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all’interno di un ristretto ceto sociale, in virtù del loro rapporto con il monarca-sovrano. A metà
Ottocento, invece, prende avvio un processo di formazione della c.d. “burocrazia professionale in
senso proprio” e si assiste al massiccio ingresso negli apparati pubblici di una classe di funzionari
professionali, mentre la titolarità onoraria degli uffici viene drasticamente circoscritta alle sole
posizioni di vertice. È proprio con la trasformazione del personale da onorario a professionale che si
può iniziare a parlare di “RAPPORTO DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLE PUBBLICHE
AMMINISTRAZIONI” : quel rapporto in forza del quale un soggetto pone volontariamente la
propria prestazione professionale al servizio di un ente pubblico per il conseguimento dei fini
istituzionali di quest’ultimo, ricevendo come corrispettivo una retribuzione.

2. L’impiego pubblico come rapporto di diritto civile speciale. La


“QUALIFICAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLE
AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE” è però controversa. I rapporti di lavoro con le
amministrazioni pubbliche infatti, fin dal loro sorgere non sono mai stati interamente disciplinati
dalle “norme di diritto comune” (codice civile, leggi speciali, contrattazione collettiva) che
regolano invece i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro privati. La posizione di “privilegio” (o di
“specialità”) delle amministrazioni pubbliche portava a ritenere che i rapporti professionali che si
costituivano con queste non potessero ricondursi al genus dei comuni rapporti di lavoro subordinato
stipulati tra datori e prestatori di lavoro privati. Il legislatore, quindi, ha confezionato man mano una
disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella di diritto comune. A partire dall’unità d’Italia, il
rapporto di impiego con lo Stato o con gli enti pubblici era considerato come un comune “rapporto
di lavoro di diritto privato” (o, per essere più precisi, come un “rapporto di diritto civile speciale”).
In questo periodo, l’attenzione della dottrina era concentrata soprattutto sulla distinzione tra
“rapporto d’ufficio” e “rapporto di servizio”. Gli atti relativi al “rapporto d’ufficio” (come ad
esempio l’incardinamento nell’ufficio o l’attribuzione di funzioni) erano considerati “provvedimenti
autoritativi” (quindi soggetti alle norme amministrativistiche); viceversa, gli atti relativi al “rapporto
di servizio” (ad esempio, quelli di costituzione, modificazione o estinzione del rapporto o quelli
relativi alla retribuzione) erano invece considerati “atti di natura contrattuale” (assoggettati alle
norme di diritto privato).

3. L’impiego alle dipendenze di amministrazioni pubbliche come


rapporto di diritto pubblico. Agli inizi del ‘900, però, la qualificazione dei rapporti
di pubblico impiego come “rapporti di diritto civile speciale” viene abbandonata e si assiste alla
“pubblicizzazione di questi rapporti”. Infatti è proprio in questo periodo che si registra un
particolare interesse del legislatore nei confronti della “disciplina speciale dell’impiego pubblico” (a
differenza di quanto mostrato dallo stesso nei confronti della disciplina tradizionale dei rapporti di
lavoro privato) : ci si riferisce, in particolare, a quella serie di norme (relative all’ammissione agli
impieghi, al sistema delle carriere, all’avanzamento, alle dimissioni, ecc.) che andarono a costituire
la base di un vero e proprio “statuto dei dipendenti pubblici” (cioè lo “Statuto degli impiegati civili
dello Stato” del 1908).
Una testimonianza importante di quanto fosse ormai avanzata la percezione della differenza fra
rapporti di pubblico impiego e rapporti di impiego privato sono i due progetti elaborati dalla
Commissione guidata da Ranelletti (che poi divennero due decreti legislativi : il n. 2395 e il n.
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2960, entrambi del 1923), il primo sull’ “ordinamento gerarchico delle amministrazioni statali” e il
secondo sullo “stato giuridico degli impiegati statali” : queste norme rappresentano il momento di
“DEFINITIVA PUBBLICIZZAZIONE DEI RAPPORTI DI PUBBLICO IMPIEGO”.
Del resto, negli anni dell’avvento del regime fascista, la ricostruzione del rapporto di impiego con le
amministrazioni pubbliche fu usata anche per supportare il nuovo “autoritarismo dello Stato” : si
affermava che il contenuto del rapporto di pubblico impiego non era la prestazione professionale,
ma l’assunzione di un obbligo etico, in virtù del quale l’impiegato si impegnava a porre tutte le sue
energie a disposizione dell’autorità.
Ancor più dei condizionamenti politici, in favore della divaricazione definitiva tra rapporti di lavoro
privato e rapporti di pubblico impiego giocò l’istituzione della “giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo” sulle controversie relative al pubblico impiego nel 1923. Dopo la sottrazione delle
controversie di lavoro pubblico alla cognizione del giudice ordinario (che aveva la giurisdizione
sulle controversie di lavoro privato), infatti, si determinò una differenziazione di trattamento
giurisprudenziale : sotto la spinta della giurisprudenza amministrativa si affermarono principi molto
diversi da quelli che nel frattempo andava elaborando il giudice civile per il rapporto di lavoro
privato. Con due diverse serie di norme e con due diversi ordini di giudici chiamati a dirimere le
rispettive controversie, la separazione tra rapporti di pubblico impiego e rapporti di lavoro privato
divenne insuperabile.

4.L’impiego pubblico nella Costituzione e nella successiva


evoluzione legislativa. La Costituzione non si occupa direttamente del tema, anche se
nelle sue disposizioni a volte si fa riferimento ai funzionari, altre volte agli impiegati, altre volte
ancora ai dipendenti. Anche se manca una disciplina organica del “rapporto di impiego pubblico”,
ciò non significa che non ci siano previsioni costituzionali molto rilevanti sull’argomento.
Sovviene, in primo luogo, la prescrizione riguardante le “modalità di accesso ai pubblici uffici” che,
secondo l’art. 51, 1°comma Cost., deve avvenire per tutti i cittadini “in condizioni di eguaglianza”
e, secondo l’art. 97, 3°comma Cost., «mediante concorso». Tali previsioni sono delle specificazioni
del “principio di imparzialità”, in virtù del quale il reclutamento di personale pubblico deve
avvenire in base a criteri «neutrali» (come la parità di trattamento, la professionalità e il merito) e
non sulla base di rapporti di fiducia personale o di affinità politica con i vertici delle
amministrazioni. Si cerca così di arginare un problema antico : quello della separazione tra politica
e amministrazione (che a sua volta trova la propria ragion d’essere nell’enunciazione dell’art. 98
Cost., secondo cui “gli impiegati pubblici sono «al servizio esclusivo della Nazione»”). Un’altra
importante disposizione costituzionale è quella dell’art. 28 Cost., riguardante la “responsabilità che
gli impiegati pubblici assumono nei confronti dei terzi”, qualora essi abbiano tenuto, nell’esercizio
del proprio ufficio, una condotta illecita. Infine, devono ritenersi applicabili all’impiego pubblico
tutte le garanzie costituzionali poste a tutela dei lavoratori, per il corretto svolgimento della
contrattazione collettiva e per il libero svolgimento dell’azione sindacale, di cui agli artt. 35, 36 e
39 Cost.
Le norme costituzionali che abbiamo passato in rassegna ci fanno capire che, se da un lato il
Costituente non ha ignorato l’esistenza di “profili di specialità” nei rapporti di pubblico impiego
(specialità derivante dall’oggetto della prestazione professionale e che consiste nell’esercizio della
pubblica funzione e nel soddisfacimento degli interessi pubblici), non ha però sentito la necessità di
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predisporre un’apposita disciplina speciale, derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune, nè
tantomeno ha affermato la natura pubblicistica di questi rapporti di lavoro. La stessa Corte
costituzionale ha sottolineato che non c’è alcuna esigenza di una «diversificazione del regime del
rapporto» e che la «scelta tra l’uno e l’altro regime resta affidata alla discrezionalità del
legislatore» : ciò significa che questi potrà anche decidere di optare per l’applicabilità delle norme
del codice civile al rapporto di pubblico impiego (non essendoci alcun conflitto tra queste e i
“principi di imparzialità” e “buon andamento”).
Tuttavia negli anni successivi alla Costituzione, non si riuscì a superare la tradizionale
diversificazione di disciplina dei rapporti di impiego pubblico rispetto ai rapporti di lavoro privato.
Basti pensare, infatti, che con il “t.u. degli impiegati civili dello Stato” del 1957 il personale
pubblico fu suddiviso in 4 «carriere» (direttiva, di concetto, esecutiva e ausiliaria) e si ridusse il
numero di gradi : ma questo non cambiò la sostanza dei fatti, dal momento che il legislatore, con
questo testo unico, si era solo limitato a recepire l’orientamento della giurisprudenza amministrativa
e a confermare, quindi, la “CONNOTAZIONE PUBBLICISTICA DEI RAPPORTI DI PUBBLICO
IMPIEGO”. Questa connotazione pubblicistica restò immutata anche dopo le innovazioni degli anni
'70. E lo stesso discorso vale per le riforme degli anni '80 : infatti in questi anni il legislatore,
abbandonando la tradizionale prospettiva pubblicistica, tutta incentrata sulla natura pubblica
dell’ente datore di lavoro, ha spostato la propria attenzione sull’oggetto e sulla qualità della
prestazione professionale richiesta al pubblico dipendente (fu in questo modo che si ottenne il
definitivo superamento delle «carriere» e l’avvento della c.d. «qualifica funzionale»). Inoltre, la L.
93 /1983 (c.d. legge quadro sul pubblico impiego) ricostruiva il quadro normativo del pubblico
impiego in modo da affiancare, alle “previsioni di rango legislativo” (sempre speciali e derogatorie
rispetto alla disciplina di diritto comune) uno spazio lasciato libero alla “disciplina negoziale di
natura privata” (contrattazione collettiva). Però, le iniziali ispirazioni di queste riforme furono in
breve tempo tradite, in parte a causa della reintroduzione, nel tempo, di “meccanismi di
progressione” mediante il passaggio da una qualifica all’altra (tipici del precedente inquadramento
per carriere) e in parte a causa delle innumerevoli invasioni della legge nell’area riservata al
contratto.

5. Il ritorno al diritto comune. Le riforme degli anni '80, pur non avendo prodotto
risultati pratici soddisfacenti, hanno fatto comprendere l’inutilità dell’assoluta distinzione tra
“impiego pubblico” e “impiego privato”. Preso atto di ciò, il legislatore degli anni ’90, con il d.lgs.
29 / 1993 (ora confluito nel d.lgs. 165 / 2001) ha stabilito, in relazione alla materia del “pubblico
impiego”, quanto segue :

 sul piano delle fonti, è stata sancita la prevalenza della disciplina dettata dalla
“contrattazione collettiva nazionale”;
 sul piano degli atti, è stata affermata la natura privatistica degli atti di costituzione,
modificazione ed estinzione del rapporto di lavoro;
 sul piano dei poteri, è stata affermata l’impossibilità, per le amministrazioni, di usufruire di
“poteri pubblicistici”, in considerazione del fatto che le stesse sono chiamate ad operare
«con i poteri del privato datore di lavoro»;
 sul piano dei controlli, è stato escluso il controllo della Corte dei Conti sugli “atti relativi ai
rapporti individuali di lavoro”;
 sul piano processuale, è stata sancita la giurisdizione del giudice del lavoro.
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Il d.lgs. 165 / 2001 ha prodotto la “privatizzazione del pubblico impiego”. Tuttavia la c.d.
«privatizzazione» non è stata generalizzata, poiché ancora oggi vi sono dei rapporti di impiego che,
nonostante tutto, hanno conservato il “regime di diritto pubblico” (infatti restano disciplinati dai
rispettivi ordinamenti : i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori
dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia, il personale della carriera diplomatica e
prefettizia, il personale del Corpo dei vigili del fuoco, i professori e ricercatori universitari).

Fatta eccezione per queste categorie, l’avvento della c.d. “privatizzazione del rapporto di pubblico
impiego” ha comportato la necessità di modificare anche il “sistema delle fonti” : in conseguenza
della riforma, infatti, i diritti e i doveri delle parti trovano la propria fonte nel “Libro sul lavoro del
codice civile” (il libro quinto), nelle “leggi speciali sul rapporto di lavoro subordinato” e soprattutto
nei “contratti collettivi di lavoro”. Non si individua più nella legge lo strumento esclusivo di
regolamentazione del rapporto di pubblico impiego : le principali fonti legislative (e quindi
unilaterali) di disciplina del rapporto sono le stesse fonti legislative che regolano i rapporti di lavoro
privato, ma la fonte principale di regolamentazione è comunque la “contrattazione” (collettiva e
individuale).
Però, anche se l’incidenza della “legge” sul rapporto di pubblico impiego era stata ridotta, l’area
riservata alla “contrattazione collettiva” non è stata del tutto posta al riparo da ripensamenti
espansionistici del legislatore successivo. Infatti la “riforma del 2009” (d.lgs. n. 150 /2009) ha
nuovamente modificato il quadro normativo, innovando la disciplina del rapporto di pubblico
impiego (intervenendo direttamente sul d.lgs. 165 /2001) ed ha attuato una “rilegificazione della
materia”, attraverso un ridimensionamento dell’incidenza della contrattazione collettiva e una
ripubblicizzazione di alcuni istituti che erano stati consegnati al diritto privato.

6. La contrattazione collettiva. Il centro principale della disciplina del pubblico


impiego è costituito dalla c.d. “CONTRATTAZIONE COLLETTIVA”, il cui compito precipuo è
non solo quello di determinare i diritti e gli obblighi riguardanti il rapporto di lavoro, ma anche
quello di regolamentare le relazioni sindacali. Però, dalla contrattazione collettiva sono escluse, per
legge, le materie riguardanti l’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione
sindacale, quelle relative alle prerogative dirigenziali e la materia del conferimento e della revoca
degli incarichi dirigenziali (materie che sono rimesse alla disciplina unilaterale).
Analizziamo adesso la “struttura della contrattazione collettiva” : il “primo livello di contrattazione”
previsto dalla legge (= cioè al vertice dei livelli di contrattazione) è la c.d. “CONTRATTAZIONE
QUADRO” che, secondo l’art. 40 del d.lgs. 165 /2001, ha il compito :

 di definire «fino a un massimo di 4 comparti di contrattazione collettiva nazionale (ad es.


ministeri, regioni ed enti locali, scuola, sanità, università, enti pubblici non economici,
aziende, ecc.) all’interno dei quali devono essere collocati i dipendenti pubblici» (suddivisi
per settori) : in tal modo, i pubblici dipendenti sono raggruppati in “comparti di
contrattazione”, che comprendono settori omogenei;
 di disciplinare “la struttura contrattuale” e la “durata dei contratti collettivi” (nazionali e
integrativi).

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In sostanza la “CONTRATTAZIONE QUADRO” regola il rapporto di lavoro all’interno di ciascun


comparto e fissa “le materie e i limiti a cui deve attenersi la contrattazione integrativa”.
La “CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA” deve poi completare la disciplina dello status
giuridico e del trattamento economico dei pubblici dipendenti in coerenza con le altre fonti
(normative e contrattuali) e con i vincoli di bilancio dell’amministrazione. Essa si svolge solo «nelle
materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali» (= le pubbliche amministrazioni
stipulano contratti integrativi, nel rispetto delle materie e dei limiti prefissati dai contratti nazionali
di comparto).

Per quanto riguarda il procedimento volto a stipulare i contratti collettivi nella materia del pubblico
impiego, la fase della contrattazione vede come parti, da un lato, l’ “Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni” (ARAN) e, dall’altro, le “organizzazioni sindacali più
rappresentative sul piano nazionale”. L’ARAN ha “personalità giuridica di diritto pubblico” ed
autonomia organizzativa e contabile. Essa può definire con propri “regolamenti” le norme
riguardanti la sua organizzazione interna, il suo funzionamento e la sua gestione finanziaria.
La sua struttura di vertice è composta da un “Presidente” (che è nominato con d.p.r. fra persone
esperte in materie giuridico-economiche; questo rappresenta l’Agenzia nei rapporti esterni e dura in
carica 4 anni) e da un “Collegio di indirizzo e controllo” [costituito da 4 membri, di cui due
designati con “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” e altri due nominati dall’ANCI
(Associazione nazionale dei Comuni italiani), dall’UPI (Unione delle Province italiane) e dalla
“Conferenza delle Regioni e delle Province autonome”]. Il collegio delibera a maggioranza dei suoi
membri, che durano in carica 4 anni.
I compiti primari dell’ARAN sono «la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni in
sede di stipulazione dei contratti collettivi nazionali» e «ogni attività relativa alle relazioni sindacali,
alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini
dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi». Essa può inoltre assistere le amministrazioni nel
corso della contrattazione integrativa, qualora esse lo ritengano necessario.
Nell’esercizio della sua funzione rappresentativa, l’ARAN è soggetta all’indirizzo delle pubbliche
amministrazioni, espresso attraverso appositi “comitati di settore”.
Controparti negoziali dell’ARAN (nel procedimento diretto alla stipulazione dei contratti collettivi
pubblici) sono le “organizzazioni sindacali” che siano in possesso dei requisiti indicati dall’art. 43
del d.lgs.165 /2001. Più precisamente l’ARAN :

 ammette alla “contrattazione collettiva nazionale” le «sigle sindacali che aventi (all’interno
del comparto) una rappresentatività non inferiore al 5%», nonché le “Confederazioni ad esse
affiliate”;
 ammette alla “contrattazione collettiva quadro” le “Confederazioni sindacali alle quali siano
affiliate, in almeno due comparti, organizzazioni sindacali rappresentative”.

I soggetti ammessi alla “contrattazione integrativa” sono invece individuati dai contratti
collettivi nazionali.

Passando ora ad analizzare il PROCEDIMENTO VOLTO A CONCLUDERE I CONTRATTI


COLLETTIVI NAZIONALI NEL SETTORE DEL PUBBLICO IMPIEGO, in virtù dell’art. 47 del
d.lgs. 165 /2001 :

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 l’ARAN acquisisce gli indirizzi dei comitati di settore (previamente approvati dal Governo);
 entro 10 giorni dall’acquisizione, formula un’ “ipotesi di accordo” da trasmettere ai comitati
di settore, che sono chiamati ad esprimere il loro parere;
 acquisito il parere favorevole dei Comitati, l’ARAN ne invia il testo alla Corte dei conti,
affinché ne certifichi la compatibilità finanziaria entro 15 giorni (lo stesso discorso non può
essere fatto invece per i “contratti integrativi”, per i quali infatti il controllo è devoluto al
“collegio dei revisori dei conti”, al “collegio sindacale” e agli “uffici centrali di bilancio”);
 ove la Corte si esprima positivamente, il Presidente dell’ARAN sottoscrive il “contratto
collettivo”, che è poi pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana (viceversa,
nel caso in cui la Corte dovesse pronunciarsi negativamente, le parti contraenti devono
riaprire le trattative e raggiungere un nuovo accordo).

Dopo che i contratti collettivi sono stati sottoscritti dalle parti, le pubbliche amministrazioni
adempiono agli obblighi assunti con i “contratti collettivi nazionali” o “integrativi” dalla data della
sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza. Se l’applicazione dei “contratti collettivi”
crea problemi interpretativi, le parti contraenti devono definire consensualmente il significato delle
clausole equivoche, in modo che l’ “accordo di interpretazione autentica” sostituisca la clausola
contrattuale dubbia «fin dall’inizio della vigenza del contratto». L’ARAN è inoltre legittimata a
intervenire in qualunque processo davanti al giudice del lavoro, qualora sia necessario garantire la
corretta interpretazione e l’uniforme applicazione dei contratti collettivi da essa stipulati.

*CONTRATTAZIONE COLLETTIVA = La “contrattazione collettiva” è finalizzata al raggiungimento di un accordo


(cd. contratto collettivo) tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed un'organizzazione sindacale, allo
scopo di stabilire il “trattamento minimo garantito” e le “condizioni di lavoro” alle quali dovranno conformarsi i singoli
contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.
La contrattazione collettiva, pertanto, costituisce il compito principale delle associazioni sindacali.
Con il D.Lgs. 29/1993 la “contrattazione collettiva” viene recepita come fonte di regolamentazione per tutte le materie
relative al rapporto di lavoro dei dipendenti delle P.A. e alle relazioni sindacali.
Attualmente l'art. 40 D.Lgs. 165/2001 (che ha coordinato in un unico testo normativo le disposizioni del d.lgs. 29/1993
e le successive modificazioni e integrazioni) stabilisce che la contrattazione collettiva si svolge su tutte le materie
attinenti il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali. A differenza del sistema precedente, il contratto collettivo, una
volta concluso, è fonte autonoma e diretta di disciplina del rapporto di lavoro, così come accade nel settore privato.
I livelli della contrattazione collettiva corrispondono ai seguenti:
— contratti collettivi nazionali di comparto;
— contratti integrativi.
La contrattazione nazionale si fonda in via principale sui “CONTRATTI COLLETTIVI DI COMPARTO”. I “comparti”
sono settori omogenei o affini della P.A.
I contratti collettivi di comparto sono stipulati dall'Agenzia suddetta, per la parte pubblica, e dalle organizzazioni
sindacali che abbiano nel comparto interessato una rappresentatività non inferiore al 5% (considerando a tal fine la
media tra il dato associativo e il dato elettorale).
Possono, poi, essere stipulati “CONTRATTI COLLETTIVI INTEGRATIVI” (nel rispetto delle materie e dei limiti
prefissati dai contratti nazionali di comparto che, quindi, si pongono come fonte normativa di grado superiore).
Sicché alla contrattazione collettiva nazionale vengono riservate la scelta delle materie negoziabili in sede integrativa,
nonché la definizione delle procedure negoziali e dei soggetti tra i quali si svolgerà la contrattazione integrativa. I
contratti integrativi non possono contenere clausole in contrasto con vincoli risultanti dai contratti nazionali. La
sanzione per l'eventuale difformità è costituita dalla nullità delle clausole in questione.

*Il contratto individuale deve richiamare obbligatoriamente il contratto collettivo, che viene dunque a rappresentare la
principale fonte regolativa del rapporto. L’ARAN stipula i contratti collettivi sulla base di apposite “direttive” ad essa
impartite dalle pubbliche amministrazioni interessate. Sono previsti due livelli di contrattazione : “contratti collettivi

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nazionali di comparto” e “contratti integrativi” (stipulati dalle singole amministrazioni). Con apposito “contratto
quadro” si definiscono i diversi “comparti di contrattazione nazionale” (che sono ad es. Agenzie fiscali, enti pubblici
non economici, Istituti di ricerca, Ministeri, Regioni ed enti locali, Servizio sanitario nazionale, Scuola università :
contratto quadro per il quadriennio 2006-2009).

7. Le vicende e i contenuti del rapporto di lavoro con la P.A. In virtù


dell’art. 97, 3°comma Cost., l’accesso al pubblico impiego deve avvenire mediante un “concorso
pubblico” (che deve essere aperto a tutti i cittadini in possesso dei requisiti richiesti per la
partecipazione). Il concorso pubblico può essere di vari tipi (per titoli, per esami, per titoli ed esami,
per corso-concorso) e mira «all’accertamento della professionalità richiesta dall’amministrazione»
(art. 35, 1°comma del d.lgs. 165 /2001, cioè il “t.u. sul pubblico impiego”). Il corso-concorso
consiste nella partecipazione ad un corso previa valutazione di ammissione, effettuata in base a un
concorso per titoli ed esami, destinato a concludersi con prove finali, scritte e orali.

Nello svolgimento delle procedure selettive tese a reclutare il proprio personale amministrativo, gli
enti pubblici devono osservare i seguenti principi (art. 35, 3°comma) : 1) pubblicizzare
adeguatamente la “selezione” e le “modalità di svolgimento del concorso”; 2) adottare meccanismi
oggettivi e trasparenti nella verifica del “possesso dei requisiti richiesti”; 3) rispettare il “principio
delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori”; 4) decentrare le procedure di reclutamento; 4)
garantire che le commissioni siano composte solo da esperti di comprovata competenza nelle
materie di concorso (e che non siano appartenenti all’ambiente politico o sindacale).
Però, la regola generale per cui il reclutamento del personale degli enti pubblici deve avvenire
mediante “concorso” concosce un’eccezione, giacchè l’art. 35 del d.lgs. 165 /2001 aggiunge che
“l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche può avvenire anche mediante avviamento degli
iscritti nelle liste di collocamento o per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di
collocamento”.
Dopo il positivo superamento del concorso e l’approvazione della graduatoria finale, l’art. 35 del
d.lgs. 165 /2001 precisa che «l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto
individuale di lavoro» : ciò ci deve far comprendere che la “costituzione del rapporto di lavoro
pubblico” non è più la conseguenza dell’esercizio di un potere unilaterale dell’amministrazione, ma
è il risultato di un “atto negoziale” concluso tra due parti (il privato e l’ente pubblico) in posizione
paritaria.
Come ogni rapporto di lavoro subordinato, anche l’impiego pubblico genera diritti e doveri in capo
ai dipendenti delle varie amministrazioni. I diritti si suddividono in “diritti patrimoniali” e “non
patrimoniali”.

 Tra i “diritti patrimoniali” ricordiamo il “diritto alla retribuzione” che, ai sensi dell’art. 36
Cost., deve essere «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» svolto dal dipendente e
«sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». L’art. 45,
1°comma del d.lgs. 165 /2001 rimette comunque alla contrattazione collettiva il compito di
definire il “trattamento economico fondamentale” e “accessorio” dei dipendenti pubblici. La
retribuzione è composta sia da “componenti fisse” (come ad es., la c.d. tredicesima
mensilità) che da “componenti eventuali” (come ad es., il c.d. compenso per il “lavoro
straordinario” : per il lavoro, cioè, svolto fuori dall’orario di lavoro).

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 Quanto ai “diritti non patrimoniali”, la legge disciplina solo il “diritto alle mansioni”,
precisando che “il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per cui è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente
acquisito” (art. 52, 1°comma del d.lgs. 165 /2001). Tuttavia l’impiegato pubblico non vanta
alcuna pretesa ad essere assegnato a un ufficio piuttosto che a un altro, giacché
l’amministrazione può sempre attribuirgli le mansioni ritenute più idonee in base alle
proprie esigenze organizzative. I dipendenti pubblici sono inquadrati in “3 diverse aree
funzionali”, in relazione alle quali vige una particolare disciplina concernente la
“progressione” (cioè il passaggio dall’area di competenza a quella successiva). In
conseguenza di ciò :
1) le “progressioni all’interno della stessa area” avvengono secondo “criteri di selettività
specifici”, in funzione delle qualità professionali, dell’attività svolta e dei risultati
raggiunti, attraverso l’attribuzione di “fasce di merito”.
2) Le “progressioni fra aree diverse” avvengono invece tramite “concorso pubblico”.

In ogni caso, il dipendente pubblico non può mai essere adibito a svolgere mansioni
inferiori a quelle corrispondenti alla sua posizione giuridica; viceversa, è possibile che egli
venga adibito allo svolgimento di funzioni superiori (ma solo in ipotesi tassative, cioè nel
caso di «vacanza di posto in organico per non più di 6 mesi, prorogabili fino a 12», o nel
caso di «sostituzione di un altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto»
(art. 52, 2°comma del d.lgs. 165 /2001). Fuori dalle ipotesi di cui al 2°comma,
l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori è nulla. Nel caso di assegnazione a
mansioni superiori, il dipendente pubblico ha diritto al trattamento economico previsto per
la qualifica superiore a cui è stato adibito.
Tra i “diritti non patrimoniali” rientrano i c.d. “diritti sindacali” (come il diritto di
associazione e di assemblea o il diritto di sciopero). Non sono invece diritti non patrimoniali
il c.d. “diritto alla progressione in carriera” e il c.d. “diritto alla sede” : il primo è infatti
subordinato a una valutazione discrezionale dell’amministrazione o al superamento di prove
selettive interne. Quanto al secondo, invece, è più corretto parlare di un “interesse legittimo
alla conservazione della sede”, giacchè l’amministrazione può sempre valutare la necessità
di trasferire il dipendente in un’altra sede quando ricorrono determinate evenienze di
pubblico interesse.

Per quanto riguarda i “doveri dei dipendenti” (enunciati nel “Codice di comportamento” redatto dal
Ministro della funzione pubblica), gli stessi non si discostano dai classici “doveri che gravano sui
lavoratori del settore privato” : si pensi, ad esempio, al dovere di obbedienza e diligenza, al dovere
di fedeltà nei confronti dell’ente pubblico di appartenenza o al dovere di buona condotta. Inoltre
ciascuna pubblica amministrazione definisce un proprio codice di comportamento, che integra e
specifica questo codice di comportamento generale.
La violazione di questi obblighi determina la “responsabilità disciplinare del dipendente pubblico”,
come stabilito dall’art. 55 del d.lgs. 165 /2001, e la conseguente irrogazione di particolari
“sanzioni” nei suoi confronti (come il “rimprovero”, sia verbale che scritto, la “multa”, la
“sospensione dal lavoro e dalla retribuzione” e il “licenziamento”). Il “procedimento disciplinare” è
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disciplinato dall’art. 55-bis del d.lgs. 165 /2001 : questa norma stabilisce che, per le “infrazioni
meno gravi”, il dirigente competente deve contestare l’addebito al dipendente entro 10 giorni e poi
convocarlo ad una riunione, in cui egli può essere assistito da un procuratore o da un rappresentante
sindacale. Dopo aver concluso l’istruttoria, il dirigente conclude il procedimento disciplinare,
irrogando entro 60 giorni la “sanzione prevista dal contratto collettivo” o archiviando il caso (ove
non siano emersi elementi di prova a sostegno della responsabilità disciplinare del dipendente). Per
le “infrazioni più gravi”, viceversa, è stabilito che «ciascuna amministrazione individua l’ufficio
competente, che contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa,
istruisce e conclude il procedimento».
La violazione dei termini prescritti comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione
disciplinare, o per il dipendente la decadenza dall’esercizio del diritto di difesa. La contrattazione
collettiva non può istituire procedure d’impugnazione dei provvedimenti disciplinari, ma può
disciplinare “procedure di conciliazione non obbligatoria” (fuori dei casi per cui è prevista la
sanzione disciplinare del licenziamento) da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore
a 30 giorni dalla contestazione dell’addebito : la sanzione concordemente determinata all’esito di
tali procedure non può essere diversa da quella prevista (dalla legge o dal contratto collettivo) per
l’infrazione per cui si procede e non è soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento
disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a
decorrere in caso di conclusione con esito negativo.
Anche il rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. può subire nel corso del suo svolgimento
delle “modifiche” : si pensi al “distacco presso un’altra amministrazione”, al “collocamento fuori
ruolo”, all’ “aspettativa per infermità fisica”o all’ “aspettativa sindacale”.
Quanto all’ “estinzione del rapporto di pubblico impiego”, esso tende a coincidere con l’età
lavorativa del dipendente. Tuttavia l’estinzione del rapporto di pubblico impiego può conseguire
anche ad altri eventi, come le “dimissioni volontarie del dipendente”, il “collocamento a riposo”
(per il raggiungimento dell’età pensionabile), la “dispensa per inidoneità psicofisica”, o il
“licenziamento per motivi disciplinari”.

8. La dirigenza pubblica. La DIRIGENZA PUBBLICA ha trovato un primo


riconoscimento normativo col d.p.r. 748 / 1972. In seguito tutta la materia è stata riorganizzata dal
d.lgs. 165 /2001. L’intento del legislatore è stato quello di attuare una separazione tra “politica” e
“amministrazione” e distinguere tra le “funzioni di indirizzo e controllo” (spettanti agli organi di
governo) e le “funzioni di gestione amministrativa” (spettanti ai dirigenti). Secondo l’art. 4. del
d.lgs. 165 /2001, «gli organi di governo (cioè i Ministri competenti) esercitano le “funzioni di
indirizzo politico-amministrativo”, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare, e verificano la
rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti». I
dirigenti pubblici sono invece responsabili dell’attività amministrativa e del suo risultato : la cura
concreta degli interessi pubblici, nel rispetto degli indirizzi e degli obiettivi fissati dagli organi
politici. Questi, però, non possono «revocare, riformare, avocare a sé o adottare provvedimenti di
competenza dei dirigenti» (art. 14 del d.lgs. 165 /2001) : infatti, in caso di inerzia o ritardo
nell’adozione di questi provvedimenti, il Ministro può fissare un termine perentorio entro cui il
dirigente deve adottare i provvedimenti e, ove l’inerzia persista, il Ministro può nominare un
“commissario ad acta” (cioè il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia).
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Detto ciò, analizziamo ora la “struttura della dirigenza pubblica” : la dirigenza pubblica è articolata
in due fasce con proprie funzioni : la “dirigenza generale” e “quella non generale”. Inoltre presso
ogni amministrazione dello Stato è istituito il “ruolo dei dirigenti”, suddiviso in prima e seconda
fascia. Il presupposto per lo svolgimento delle funzioni dirigenziali è costituito dal superamento di
un “pubblico concorso”.

 Nella “prima fascia” sono inseriti i “dirigenti generali” (che sono così chiamati perché non
solo possono formulare proposte al Ministro competente, ma devono anche attuare i piani e i
programmi definiti dal Ministro) e i “dirigenti assunti con un concorso pubblico per titoli ed
esami” indetto dalle singole amministrazioni in base ai criteri generali stabiliti con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri.
 I dirigenti della “seconda fascia” sono invece reclutati tramite un «concorso per esami»
indetto dalle singole amministrazioni o per «corso-concorso selettivo di formazione»
bandito dalla “Scuola superiore della pubblica amministrazione”.

Una volta reclutati, ai dirigenti è conferito l’incarico con un provvedimento (a cui poi accede il
contratto individuale). In quest’ottica, l’art. 19 del d.lgs. 165 / 2001 stabilisce che il “provvedimento
di conferimento dell’incarico” deve individuare :

 l’oggetto dell’incarico;
 gli obiettivi da perseguire (nel rispetto dei programmi definiti dall’organo di vertice);
 la durata dell'incarico (che non può essere inferiore a 3 anni e superiore a 5 anni).

Per quanto riguarda la “revoca dall’incarico dirigenziale”, l’attuale disciplina prevede due diverse
fattispecie : 1) la prima, applicabile ai “dirigenti apicali”, è costituita dallo “spoils system” (sistema
che subordina la revoca al voto di fiducia al Governo : si pensi ad esempio ai “Segretari generali dei
Ministeri” o ai “direttori degli uffici dirigenziali generali”, che decadono automaticamente dalla
carica entro 90 giorni dal voto sulla fiducia al Governo); 2) la seconda, valida per “tutti gli altri
dirigenti” (e regolata dall’art. 21 del d.lgs. 165 /2001) prevede che “gli incarichi dirigenziali
possono essere revocati solo nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale”
(si pensi, ad esempio, al “mancato raggiungimento degli obiettivi”, all’ “inosservanza delle direttive
impartite al dirigente” o alla “colpevole violazione del dovere di vigilare sul rispetto (da parte del
personale assegnato ai propri uffici) degli standard fissati dall’amministrazione”). In tutte queste
ipotesi comunque la legge permette al dirigente pubblico di tutelare i propri diritti davanti al
“giudice del lavoro”. Infatti la riforma del pubblico impiego ha devoluto alla giurisdizione civile
tutte le controversie relative al rapporto di pubblico impiego : più precisamente, l’art. 63 del d.lgs.
165 /2001 riserva alla “cognizione del giudice del lavoro” le controversie riguardanti i rapporti
d’impiego pubblico (incluse quelle riguardanti l’assunzione, il conferimento e la revoca degli
incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale).

*Ruolo = registro in cui sono elencati nominativi o raccolti dati; nell'amministrazione, composizione e ordinamento del personale.

-CAPITOLO 2. LE RISORSE FINANZIARIE-


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1. Le fonti. Le disposizioni comunitarie. Per poter perseguire i fini pubblici è


necessario un elemento fondamentale : le risorse finanziarie. Sul rapporto tra “entrate che
finanziano le spese pubbliche” si sviluppa l’attività finanziaria pubblica. Le entrate sono conseguite
prevalentemente attraverso il prelievo fiscale e, in minima parte, attraverso la gestione dei beni
appartenenti al patrimonio pubblico.
L’acquisizione e la gestione di risorse finanziarie trova la sua disciplina nella Costituzione e nella
normativa ordinaria. Ma, dopo l’introduzione della moneta unica, le “politiche di bilancio” degli
Stati membri dell’UE sono condizionate anche dal diritto europeo. Infatti a partire dal Trattato di
Maastricht del 1992 (entrato in vigore nel 1993) sono stati introdotti numerosi vincoli a tutela del
Sistema Monetario Europeo, che hanno riguardato in particolare il deficit (cioè il disavanzo annuale
di uno Stato)  e il debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo (il rapporto deficit / PIL deve
essere contenuto entro il 3% e il rapporto debito pubblico / PIL entro il 60%) : tali vincoli servono a
far sì che gli Stati raggiungano condizioni finanziarie stabili. In seguito è stato adottato il “Patto di
stabilità e crescita” (1997), che impone agli Stati aderenti all’euro di impegnarsi a raggiungere un
saldo di bilancio “prossimo al pareggio” o “positivo”.
Nel Patto del 1997 l’Unione si è dotata degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni
agli Stati che non rispettino i vincoli imposti nel 1993. Negli ultimi anni, dopo la crisi finanziaria
del 2008, i vincoli all’attività finanziaria degli Stati membri sono diventati sempre più stringenti : le
istituzioni comunitarie controllano non più solo successivamente, ma anche preventivamente le
politiche di bilancio nazionali, per raggiungere la stabilità finanziaria nell’eurozona.
Con il “Consiglio ECOFIN del 2010” è stato introdotto - allo scopo di coordinare le politiche
economiche degli Stati membri - il «Semestre europeo», che prevede la trasmissione alla
Commissione europea degli “obiettivi programmatici di finanza pubblica” e delle “politiche
economiche e di bilancio” di ciascun Paese prima della loro attuazione a livello nazionale.

 Il «semestre europeo» inizia a gennaio, quando la Commissione, nell’analizzare la crescita,


avanza le “proposte strategiche per l’economia europea”;
 fatto ciò, nel mese di marzo la Commissione predispone un “rapporto” in base a cui il
Consiglio dell’UE indica i principali obiettivi di politica economica che gli Stati membri
dovranno perseguire;
 ad aprile, gli Stati membri, sulla base delle indicazioni del Consiglio, comunicano alla
Commissione i propri obiettivi;
 a giugno e luglio, il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri finanziari, dopo aver
valutato i programmi presentati dagli Stati membri, forniscono delle indicazioni specifiche a
ciascun Paese (invitando gli stessi, se necessario, a rivedere gli obiettivi programmati);
 nei mesi successivi, gli Stati membri, sulla base delle raccomandazioni del Consiglio e della
Commissione, predispongono il bilancio e le misure necessarie per realizzare la manovra di
finanza pubblica.

Il nostro Paese, con la L. 39 / 2011 ha modificato il “ciclo di bilancio” adeguandolo a queste nuove
regole comunitarie.

Nel 2011 è stato poi adottato il c.d. “Patto Euro Plus”, con la finalità di fare un salto di qualità nel
coordinamento delle politiche economiche.
Sempre nel 2011 è stato adottato un pacchetto di sei misure (c.d. “Six-pack” : composto da 5
regolamenti e una direttiva), che :
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 ha imposto ai Paesi che hanno un rapporto debito / PIL superiore al 60% di ridurre
progressivamente la parte eccedente di 1/20 all’anno;
 ha imposto l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del “pareggio di
bilancio” con un miglioramento annuale dei saldi di bilancio pari ad almeno lo 0,5% ;
 ha previsto un semi-automatismo delle procedure per l’irrogazione delle sanzioni per i Paesi
che violano le regole del Patto.
L’aggravarsi della crisi ha portato nel 2012 all’adozione di un Trattato, il c.d. “Fiscal compact” :
esso è un accordo che formalmente non fa parte del corpus normativo dell’UE e che :
 comporta, per gli Stati che lo hanno ratificato, la possibilità di poter beneficiare del “Fondo
salva-Stati” previsto dal Trattato istitutivo del MES (“Meccanismo europeo di stabilità”);
 conferma l’obbligo per i Paesi contraenti con un debito pubblico superiore al 60% del PIL
di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni (a un ritmo pari ad 1/20 dell’eccedenza in
ciascuna annualità);
 conferma l’obbligo di mantenere il deficit pubblico (cioè il disavanzo annuale) sempre al di
sotto del 3% del PIL;
 impone (e questa è la novità più importante) ai vari Stati di inserire la regola del “pareggio
di bilancio” (cioè del sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) in «disposizioni vincolanti
e di natura permanente - preferibilmente costituzionale» (in Italia la regola è stata inserita in
Costituzione con la legge cost. n. 1 / 2012, che ha modificato l’art. 81; infatti l’art. 81,
1°comma Cost. prevede ora che : “Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del
proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo
economico”);
 prevede l’istituzione di un organismo indipendente di sorveglianza responsabile, a livello
nazionale, del rispetto dei vincoli comunitari;
 prevede 1’impegno di inserire le nuove regole nella legislazione nazionale (l’Italia vi ha
adempiuto con L. cost. 1 / 2012).
Va infine segnalato il “Two Pack” (entrato in vigore nel 2013) : esso si compone di due regolamenti
ed ha rafforzato il Six Pack. Il "Two-pack" introduce un calendario e regole di bilancio comuni per
gli Stati membri dell’eurozona. In virtù di queste nuove norme :
 gli Stati devono presentare il “progetto di bilancio” per l’anno successivo alla Commissione
entro il 15 ottobre (quindi prima che sia approvato da parte dei singoli Parlamenti nazionali);
 la Commissione, entro il 30 novembre, valuterà i progetti di bilancio, verificando la loro
conformità alle raccomandazioni formulate dalle istituzioni comunitarie nell’ambito del
Semestre europeo : se dovesse riscontrarsi un’inosservanza particolarmente grave degli
obblighi assunti nel Patto di stabilità e crescita, potranno essere chieste delle modifiche del
progetto di bilancio per tener conto delle osservazioni formulate dalla Commissione;
 la legge di bilancio annuale dovrà poi essere approvata entro i1 31 dicembre.

Le disposizioni costituzionali. Tra le disposizioni costituzionali più rilevanti per


l’attività finanziaria ricordiamo :

 L’art. 41 Cost., che - regolamentando l’attività economica - fa emergere la necessità di una


sua “programmazione” (“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché
l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”).

 L’art. 23 Cost., che introduce una riserva di legge (relativa) in materia tributaria (“Nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”).

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 L’art. 53 Cost., che prevede l’obbligo, gravante su tutti i cittadini, della contribuzione, in
base alla propria capacità contributiva, imponendo un sistema orientato alla “progressività
delle imposte”, che garantisce un maggior sacrificio fiscale ai contribuenti con un reddito
più alto (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).

 L’art.100 Cost., che disciplina i controlli esercitati dalla Corte dei conti (come il “controllo
preventivo di legittimità” sugli atti del Governo e il “controllo successivo sulla gestione del
bilancio statale”;
 L’art. 72, 4°comma Cost., che statuisce che per i “disegni di legge relativi ai bilanci e ai
consuntivi” deve essere seguita la procedura normale di approvazione diretta da parte delle
Camere;
 L’art. 75, 2°comma Cost., che esclude la possibilità che la “legge di bilancio” possa essere
sottoposta a referendum (“Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di
bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione alla ratifica dei trattati
internazionali”).

La disposizione più importante è però l’art. 81 Cost. : si tratta di una norma fondamentale che di
recente, dopo gli impegni che il nostro Paese ha assunto in ambito comunitario con il c.d. “Fiscal
compact”, è stata riscritta con la legge cost. 1 / 2012 (che è rubricata «introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»).

1. L’art. 81, 1°comma Cost., come riscritto dalla riforma costituzionale del 2012, dispone che
“lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio , tenendo conto
delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”.
2. L’art. 81, 2°comma dispone che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo per
considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a
maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali” :
dunque, si può ricorrere all’indebitamento in considerazione degli effetti del ciclo
economico e al verificarsi di eventi eccezionali (in quest’ultimo caso, però, è necessaria una
maggioranza qualificata del Parlamento : cioè la maggioranza assoluta dei componenti delle
due Camere). Per eventi eccezionali si intendono i «periodi di grave recessione economica»
e «gli eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato (come ad esempio una
calamità naturali) con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria del Paese».
3. Il nuovo art. 81 Cost. riprende poi testualmente molte disposizioni già contenute nella sua
vecchia formulazione. Così, anticipa al 3°comma un principio fondamentale (prima
contenuto nell’ultimo comma dell’art. 81 Cost.), cioè “l’obbligo della copertura finanziaria
per qualsiasi legge che comporti nuovi o maggiori oneri” (la vecchia formulazione parlava
di “spese”) : ciascuna previsione legislativa che comporti delle spese deve indicare, quindi, i
mezzi per far fronte all’accresciuto fabbisogno, con la conseguenza che è incostituzionale
una “legge di spesa” che non indichi i mezzi di copertura. Rispetto alla formulazione
precedente, è scomparso il riferimento ad «ogni altra legge», con l’importante conseguenza
che questa prescrizione costituzionale riguarda anche la legge di bilancio (che prima della
novella dell’art. 81 Cost., non poteva introdurre nuove spese).
Infatti il 3°comma dell’art. 81 Cost., nella precedente formulazione, disponeva che con la
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legge di approvazione del bilancio non si potevano stabilire nuovi tributi e nuove spese : di
questa previsione non c’è più traccia nel nuovo art. 81 Cost.; ne consegue che con la legge
di bilancio è possibile introdurre nuove disposizioni di entrata e di spesa.
4. Il 4°comma dell’attuale art. 81 Cost. dispone che «le Camere approvano ogni anno il
bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo» (riprendendo così un principio
contenuto nel 1°comma del vecchio art. 81 Cost.) : da questa disposizione si evince che la
“legge di bilancio” è una legge ad approvazione annuale (anche se oggi essa ha un respiro
triennale). La norma chiarisce anche che il bilancio deve essere predisposto e presentato dal
Governo, ma la sua approvazione spetta al Parlamento.
5. Il 5°comma dell’attuale art. 81 Cost. disciplina il ricorso all’ “esercizio provvisorio”
(riprendendo quanto stabilito dal 2°comma del vecchio art. 81 Cost.) : infatti la “legge di
bilancio” è una legge obbligatoria, perchè la sua approvazione è necessaria per autorizzare
la gestione della spesa. Ne consegue che, se il bilancio non viene approvato entro il 31
dicembre, il Governo non è autorizzato ad effettuare nessun pagamento, nemmeno quelli di
carattere obbligatorio (come la corresponsione degli stipendi agli impiegati pubblici). Per
evitare la paralisi nella gestione finanziaria in caso di mancata approvazione della legge di
bilancio, si prevede quindi l’esercizio provvisorio, con due vincoli : uno formale (perchè
l’autorizzazione può essere concessa solo con legge), l’altro sostanziale (poiché l’esercizio
provvisorio non può essere di durata superiore a 4 mesi).
6. Infine, il 6°comma del nuovo art. 81 Cost. prevede che con “legge approvata a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera”, si stabiliscano il contenuto della legge di
bilancio e le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le
spese dei bilanci e la sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni.

Oltre a riscrivere l’art. 81 Cost., la legge cost. 1 / 2012 ha modificato anche altre disposizioni
costituzionali. In particolare :

 ha premesso al 1°comma dell’art. 97 Cost. la seguente previsione : «le pubbliche


amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano
l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»;
 ha modificato l’art. 117 Cost., trasferendo alla competenza esclusiva dello Stato
l’“armonizzazione dei bilanci pubblici” (materia prima attribuita alla competenza
legislativa concorrente Stato-Regioni);
 ha integrato l’art. 119 Cost., stabilendo che gli enti locali e le Regioni devono esercitare
l’autonomia di entrata e di spesa “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”,
aggiungendo anche che essi “concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e
finanziari derivanti dall’ordinamento comunitario”;
 ha integrato il 6°comma dell’art. 119 Cost., dove si stabilisce che gli enti locali e le Regioni
possono ricorrere all’ “indebitamento” solo per finanziare spese di investimento,
aggiungendo che il ricorso all’indebitamento è possibile «a condizione che per il complesso
degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio».

L’art. 119 Cost. è particolarmente importante perché, dopo la legge cost. 3 / 2001, ha introdotto il
c.d. “federalismo fiscale”. L’art. 119 Cost., al 1°comma, stabilisce che “gli enti locali e le Regioni
hanno “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Il 2°comma prevede che gli enti territoriali

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abbiano risorse autonome, a cui si aggiungono le compartecipazioni al gettito di tributi erariali


riferibili al loro territorio ( sempre 2°comma) e quelle derivanti dal “fondo perequativo”, istituito
dallo Stato e diretto a soccorrere i territori con minore capacità fiscale per abitante (3°comma). Al
4°comma si statuisce il PRINCIPIO DI “AUTOSUFFICIENZA FINANZIARIA”, disponendo che
le suddette fonti di finanziamento consentono agli enti territoriali di finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite. Al 5°comma, infine, si dispone che lo Stato può destinare
“risorse aggiuntive” ed effettuare “interventi speciali a favore di determinati enti territoriali” per
promuovere lo sviluppo economico e la solidarietà sociale. Il 6°comma precisa che Regioni ed enti
locali possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare “spese di investimento”.
L’AUTONOMIA DI ENTRATA E DI SPESA e l’AUTOSUFFICIENZA FINANZIARIA degli enti
territoriali hanno trovato attuazione con la L. 42 / 2009 : questa, nell’ambito della cornice
costituzionale dettata dall’art. 119 Cost., delega il Governo a realizzare il federalismo fiscale.

VECCHIO ART. 81 COST. = 1°comma : «Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati
dal governo.
2°comma : L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a 4 mesi.
3° comma : Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
4° comma : Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».

NUOVO ART. 81 COST. = 1°comma : «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio,
tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
2°comma : Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa
autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi
eccezionali.
3°comma : Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
4° comma : Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
5° comma : L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a quattro mesi.
6° comma : Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le
entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti
con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principî definiti con
legge costituzionale».

La normativa ordinaria. Con riguardo alla normativa ordinaria, si sono susseguite negli
anni numerose “leggi di riforma della contabilità pubblica”.
Tra quelle più remote va segnalato il r.d. 2440 / 1923 (c.d. legge di contabilità dello Stato); mentre
tra le più importanti va ricordata la legge 468 / 1978, con cui il legislatore ha riformato la
“contabilità dello Stato” in materia di bilancio. È stata poi emanata la c.d. «legge di contabilità e
finanza pubblica» (L. 196 / 2009) : questa legge riproduce in parte il modello della L. 468 / 1978
(che sostituisce, abrogandola), tenendo conto però dell’evoluzione intervenuta in campo europeo e
raccordandosi con quanto previsto per gli enti territoriali dalla L. 42 / 2009 in materia di
federalismo fiscale.

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Il processo di riforma è proseguito con la L. 39 / 2011, che ha modificato la L. 196 / 2009,


recependo le nuove regole poste a livello comunitario con il c.d. «semestre europeo».
Dopo la riforma costituzionale introdotta con la legge cost. 1 / 2012, è stata emanata la L. 243 /
2012, che è una «norma interposta», vista la maggioranza qualificata richiesta per la sua
approvazione (maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera). Questa legge, in
ottemperanza a quanto stabilito dalla legge cost. 1 / 2012 : 1) individua le “norme fondamentali” e i
“criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci pubblici e la sostenibilità
del debito delle pubbliche amministrazioni”; 2) disciplina la facoltà degli enti locali e delle Regioni
di ricorrere all’indebitamento ex art. 119, 6°comma Cost.; 3) disciplina il contenuto della legge di
bilancio dello Stato e detta le norme per l’istituzione e il funzionamento, presso le Camere, di un
organismo indipendente, che ha il compito di valutare l’osservanza delle regole di bilancio.
I “principi fondamentali in materia di bilancio e contabilità delle Regioni” sono contenuti nel d.lgs.
76 / 2000; mentre l’ “ordinamento finanziario e contabile degli enti locali” è disciplinato dal d.lgs.
267 / 2000 (“t.u. degli enti locali”).

2. Il bilancio dello Stato. Il BILANCIO DELLO STATO è un importante documento


contabile (approvato con legge) con cui il Parlamento autorizza il Governo ad effettuare le spese.
Esso, pur avendo un “carattere preventivo” (è adottato, cioè, prima dell’inizio del ciclo di gestione),
non svolge solo una “funzione previsionale”, ma (almeno per quanto riguarda le spese) esercita
anche un’importante “funzione autorizzatoria” : infatti l’amministrazione può effettuare solo le
SPESE previste in bilancio e nei limiti quantitativi dello stanziamento, a differenza delle ENTRATE,
per cui le indicazioni di bilancio sono solo una mera previsione (poiché la loro acquisizione è
autorizzata da altre leggi). [*Ricordiamo che : esistono due tipi di bilancio : il “BILANCIO DI
PREVISIONE” (che registra le operazioni che si prevede di realizzare nel corso dell’anno) e il
“BILANCIO CONSUNTIVO” o rendiconto (che riguarda le operazioni effettivamente realizzate).]
Il “bilancio di previsione” è costituito da un “bilancio annuale” (avente una funzione autorizzatoria)
e da un “bilancio pluriennale” (avente solo una funzione programmatoria) e questi due bilanci sono
approvati insieme.

Il “bilancio di previsione” dello Stato - che va redatto “a legislazione vigente” (secondo le leggi in
vigore) e sulla base di alcuni “parametri indicati nel DEF” (Documento di Economia e Finanza) -
con la L. 196 / 2009 ha assunto un respiro triennale : per cui, oltre alle previsioni di entrata e di
spesa del primo anno, devono essere indicate anche quelle relative al secondo e al terzo anno (anche
se la funzione di “autorizzazione per le spese” è limitata alle sole previsioni del primo anno).
Es. = Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2016 e bilancio pluriennale per il
triennio 2016-2018.

Il bilancio può essere di tipo :

1) FINANZIARIO : se registra tutti i fatti di gestione che comportano un movimento di


denaro (sia in entrata che in uscita); in pratica, segnala le spese e le entrate riferibili
a un certo esercizio finanziario.
2) PATRIMONIALE : se riporta i fatti di gestione che incidono sul patrimonio; in
pratica, dice se c’è stato un arricchimento o un impoverimento.
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3) ECONOMICO : se prende in considerazione i costi e i ricavi; in pratica, spiega


perché il patrimonio è aumentato o diminuito, verificando quanta ricchezza è
imputabile a un determinato fattore produttivo.

Il bilancio dello Stato è innanzitutto un “BILANCIO FINANZIARIO”, ma è anche un “bilancio


economico” e un “bilancio patrimoniale”.
I BILANCI FINANZIARI possono essere redatti in termini di “competenza” e di “cassa” :

 nel “BILANCIO DI COMPETENZA” vengono riportate le entrate e le spese nella loro fase
iniziale; In questo bilancio si fa riferimento al momento in cui sorge l’obbligazione (che
consiste per le spese nell’ “impegno di pagamento” e per le entrate nell’ “accertamento delle
stesse”). In pratica, il “bilancio di competenza” riporta le entrate che si ha diritto di
riscuotere e il limite massimo degli impegni di pagamento che l’amministrazione può
assumere.
 nel “BILANCIO DI CASSA” si registrano le entrate e le spese nella loro fase finale. In
questo bilancio si fa riferimento al momento in cui avviene l’effettivo movimento di denaro
dalle casse dell’amministrazione (per le spese il momento del pagamento, per le entrate il
momento del versamento). In pratica, il “bilancio di cassa” indica le entrate che si prevede
effettivamente di riscuotere e il limite massimo delle spese che possono essere realmente
sostenute.

Dal 1978 il bilancio dello Stato è un “bilancio misto” (cioè di cassa e di competenza). La L. 196 /
2009 conteneva inizialmente una norma di delega al Governo per il passaggio da un bilancio misto
a un bilancio di sola cassa, ma la L. 39 / 2011 ha modificato questa norma di delega, prevedendo di
nuovo un bilancio misto.

Tuttavia, dato che l’iter procedimentale delle entrate e delle spese può (come accade spesso) non
concludersi entro l’anno finanziario, possono in questo caso formarsi dei “residui”, che si
distinguono in attivi (quando si ha un’entrata accertata, ma non versata nel corso dell’anno
finanziario) o passivi (in caso di spesa impegnata, ma non pagata nel corso dell’anno). Quindi,
accanto alle previsioni di entrata e di spesa, nel “BILANCIO FINANZIARIO DELLO STATO”
devono essere riportati anche i valori dei residui attivi e passivi.
Differente dal “bilancio previsionale” è, invece, il “BILANCIO PLURIENNALE”, che è un
bilancio programmatico : esso espone le previsioni relative alle entrate e alle spese tenendo conto
degli effetti degli interventi programmati nel DEF. Il bilancio pluriennale è stato introdotto per la
prima volta con la L. 468 / 1978. Oggi il bilancio pluriennale copre un periodo di 3 anni e coincide
con il bilancio di previsione, anch’esso triennale. Esso non comporta autorizzazione a riscuotere le
entrate e ad eseguire le spese ivi contemplate.

3. La struttura del bilancio statale. Il “bilancio (di previsione) dello Stato” risulta
formato – dopo l’entrata in vigore della L. 196 / 2009 - da un unico “stato di previsione” per
l’entrata, da tanti “stati di previsione” della spesa quanti sono i ministeri, e da un “quadro generale
riassuntivo relativo al triennio”.
All’interno degli “stati di previsione”, la parte di ENTRATA è scomposta in :

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1. TITOLI : (cioè la fonte di provenienza), distinti a seconda che abbiano natura tributaria,
extra-tributaria o provengano dall’alienazione di beni patrimoniali, dalla riscossione di
crediti o dall’accensione di prestiti;
2. RICORRENTI o NON RICORRENTI, a seconda che la loro acquisizione sia prevista “a
regime” o sia limitata ad uno o più esercizi;
3. TIPOLOGIE, ai fini dell’approvazione parlamentare (cioè sono le unità di voto
parlamentari per le entrate);
4. CATEGORIE, secondo la natura dei cespiti;
5. CAPITOLI : ai fini della rendicontazione, i quali possono essere eventualmente suddivisi in
articoli secondo il rispettivo “oggetto”.

Invece la parte relativa alla SPESA è ripartita in :

1. MISSIONI : con cui si indicano gli obiettivi fondamentali che devono essere perseguiti con
la spesa pubblica;

2. PROGRAMMI, ai fini dell’approvazione parlamentare (cioè sono le unità di voto


parlamentari per le spese). I programmi sono suddivisi in aggregati omogenei di attività svolte
all’interno di ogni singolo Ministero;

3.CAPITOLI : (secondo l’oggetto della spesa ); essi sono le unità elementari del bilancio, che
descrivono l’oggetto di ogni somma iscritta.

L’approvazione parlamentare si ferma a livello delle “tipologie” (per l’entrata) e dei “programmi”
(per la spesa) : ciò ci permette di distinguere tra un “BILANCIO POLITICO” (quello oggetto di
approvazione parlamentare e dotato di un numero inferiore di voci) e un “BILANCIO
AMMINISTRATIVO” (più analitico).

La legge rinforzata 243 / 2012 ha disciplinato il contenuto della “legge di bilancio dello Stato”,
dettando norme che entreranno in vigore dal 1° gennaio 2016. La struttura del bilancio è nella
sostanza confermata, articolandosi il bilancio :

 dal lato delle ENTRATE in titoli, entrate ricorrenti e non ricorrenti e tipologie;
 dal lato delle SPESE, in missioni e programmi.

Le unità di voto parlamentare continuano ad essere costituite : 1) per le ENTRATE, dalle tipologie;
2) per la SPESA, dai programmi.

Ma la vera novità è rappresentata dal fatto che il contenuto dell’attuale “legge di stabilità”
confluisce nella “legge di bilancio”; è previsto infatti che la “legge di bilancio” si suddivida in due
sezioni : 1) la prima sezione contiene grosso modo il contenuto dell’attuale legge di stabilità); 2) la
seconda sezione contiene invece le previsioni di entrata e di spesa formate in base alla legislazione
vigente (quindi le previsioni dell’attuale legge di bilancio). Entrambe le sezioni sono redatte sia in
termini di “competenza” che di “cassa”.

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4. I principi del bilancio. Il “bilancio dello Stato” deve essere redatto sulla base dei
seguenti principi :

 il PRINCIPIO DELL’ANNUALITÀ : (ex art. 81, 4° Cost.), anche se oggi il bilancio copre
un periodo di 3 anni;
 il PRINCIPIO DELL’UNITÀ : secondo cui il totale delle entrate deve finanziare il totale
delle spese;
 il PRINCIPIO DELL’UNIVERSALITÀ : tutte le entrate e tutte le spese devono confluire
necessariamente nel bilancio (ad eccezione dei casi di gestione fuori bilancio consentiti
dalla legge);
 il PRINCIPIO DELL’INTEGRITÀ : le entrate e le spese devono essere iscritte nel loro
importo integrale (ossia al lordo);
 il PRINCIPIO DELLA SPECIALIZZAZIONE : impone di ripartire le entrate e le spese per
consentire un effettivo controllo del Parlamento;
 il PRINCIPIO DELLA VERIDICITÀ : il bilancio deve contenere una rappresentazione
veritiera del quadro economico di riferimento;
 il PRINCIPIO DELLA PUBBLICITÀ : il bilancio deve essere reso noto a tutti i cittadini e,
perciò, deve essere pubblicato nella Gazzetta ufficiale;
 il PRINCIPIO DEL PAREGGIO (o meglio, dell’equilibrio tendenziale) DI BILANCIO.

5. Il ciclo di bilancio. La “gestione finanziaria dello Stato” si realizza attraverso una


sequenza di atti e documenti concatenati che, nel loro insieme, rappresentano il c.d. “CICLO DI
BILANCIO”. I principali documenti che fanno parte del ciclo di bilancio sono i seguenti :

 il “documento di economia e finanza” (DEF), da presentare alle Camere entro il 10 aprile di


ogni anno;
 la “nota di aggiornamento del DEF”, da presentare alle Camere entro il 20 settembre di ogni
anno;
 il “disegno di legge di stabilità”, da presentare alle Camere entro il 15 ottobre di ogni anno;
 il “disegno di legge del bilancio dello Stato”, da presentare alle Camere entro il 15 ottobre di
ogni anno;
 il “disegno di legge di assestamento”, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni
anno;
 gli eventuali “disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica”, da presentare alle
Camere entro il mese di gennaio di ogni anno;
 il “rendiconto generale dello Stato”, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni
anno.

Il “ciclo di bilancio” inizia con la presentazione alle Camere, entro il 10 aprile, del “documento di
economia e finanza” (DEF) : si tratta di un documento di programmazione finanziaria e di bilancio
introdotto dalla L. 39 / 2011, che sostituisce la “decisione di finanza pubblica” (che, a sua volta,
sostituiva il “documento di programmazione economica e finanziaria”). Il DEF si articola in 3
sezioni : 1) la prima reca il programma di stabilità; 2) la seconda è dedicata all’analisi delle
tendenze della finanza pubblica; 3) la terza si occupa del programma nazionale di riforma.
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Il DEF è predisposto dal Governo e inviato alle Camere. Superato il vaglio del Parlamento, il DEF
va inviato, entro il 30 aprile, alle istituzioni comunitarie : il “Consiglio europeo” e il “Consiglio dei
ministri finanziari” valutano, così, preventivamente gli obiettivi programmatici e le misure che ogni
Paese intende adottare e possono eventualmente invitare lo Stato membro a rivedere il programma
presentato.
Nel mese di aprile-maggio il “Ministero dell’economia e delle finanze” invia ai Ministeri una
circolare invitandoli a formulare i propri “stati di previsione” (in vista degli obiettivi da
raggiungere). I Ministri indicano gli obiettivi di ciascun dicastero e quantificano le risorse
necessarie per il loro raggiungimento; così, presentate le richieste, il “Ministro dell’economia e
delle finanze” procede alla loro dettagliata analisi.
Entro il 20 settembre, il Governo invia alle Camere la “nota di aggiornamento del DEF” : questa
nota non è più facoltativa (come nella precedente disciplina), ma è obbligatoria : lo scopo di tale
inoltro è quello di consentire un rapido aggiornamento degli obiettivi programmatici (tenendo
conto delle maggiori informazioni disponibili sull’andamento del quadro macroeconomico).
Entro il 15 ottobre di ogni anno il Governo deve presentare alle Camere due importanti disegni di
legge, che compongono la “manovra triennale di finanza pubblica” : il disegno di “legge di
stabilità" e il disegno di “legge di bilancio”. Infatti, a partire dalla riforma del 2009 la manovra
prende in considerazione un periodo triennale (anche se comunque viene presentata annualmente).
Sempre entro il 15 ottobre questi documenti devono essere inviati alle istituzioni comunitarie per un
controllo preventivo (così come imposto dal c.d. “Two Pack”).
La “legge di stabilità” sostituisce la “legge finanziaria”, con alcune novità (come quella di riferirsi
non più a uno scenario annuale, ma triennale). La “legge finanziaria” fu introdotta dalla L. 468 /
1978, con il compito di definire il quadro finanziario e raccordare il bilancio con la legislazione di
spesa. La sua primitiva formulazione consentiva l’aggiramento dell’art. 81, 3°comma Cost. (cioè il
divieto per la legge di bilancio di introdurre nuovi tributi e nuove spese). La “legge di stabilità” (ex
legge finanziaria) indica :

 il livello massimo del ricorso al mercato finanziario (cioè l’entità del disavanzo da coprire
tramite prestiti);
 la differenza tra spese e entrate fiscali per ciascuno degli anni considerati dal bilancio
pluriennale;
 le variazioni delle aliquote, delle detrazioni e degli scaglioni riguardanti imposte dirette e
indirette, tasse, canoni e contributi in vigore;
 norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa;
 le norme necessarie a garantire l’attuazione del “Patto di stabilità interno” (cioè l’insieme
delle disposizioni con cui lo Stato Italiano definisce gli impegni che gli enti locali devono
rispettare, affinché il Paese possa mantenere l’impegno assunto con l’adesione “Patto di
Stabilità e crescita”).;

 gli stanziamenti necessari per finanziare le spese deliberate da leggi;

La legge di stabilità (insieme ai “collegati”) consente di realizzare concretamente la “manovra di


finanza pubblica delineata dal DEF” : annovera, infatti, le disposizioni necessarie per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Più in particolare, la legge di stabilità contiene
norme tese a regolare la “politica economica del Paese” per un triennio (cioè il“triennio

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considerato dal bilancio pluriennale”). Non può contenere, invece, “norme di delega” o di
“carattere ordinamentale” o “organizzatorio”, né “interventi locali” o “micro-settoriali”. Le
disposizioni di carattere ordinamentale, organizzatorio e di rilancio dell’economia che non possono
essere accolte nella legge di stabilità, trovano spazio nei disegni di legge “collegati” alla manovra di
finanza pubblica, che devono essere presentati alle Camere entro il successivo mese di gennaio
(quindi dopo la sessione di bilancio).
Entro il 31 dicembre, la legge di stabilità e il bilancio dello Stato devono essere approvati (in caso
contrario si va all’esercizio provvisorio). Si chiude così la “fase preparatoria del bilancio” e si
passa alla “fase gestionale” (in quest’ottica, una volta approvato il bilancio, dal 1° gennaio
l’amministrazione può procedere all’esecuzione dello stesso, effettuando le spese e riscuotendo le
entrate).
E’ possibile, però, che nel corso dell’esercizio finanziario (che inizia il 1° gennaio e si conclude il
31 dicembre) emerga la necessità di apportare “variazioni al bilancio” : proprio per questo, entro il
30 giugno, deve essere presentato al Parlamento il c.d. “disegno di legge di assestamento”, al cui
interno sono riportate le “modifiche al bilancio (resesi necessarie per sopravvenute vicende
economiche).
Si giunge così alla terza ed ultima fase del “ciclo di bilancio”, quella della c.d. “rendicontazione” :
entro il 30 giugno dell’anno finanziario successivo a quello considerato, il Governo deve presentare
al Parlamento il “rendiconto”, che si compone di due parti :

 il “CONTO DEL BILANCIO” : che illustra i risultati della gestione finanziaria rispetto alle
previsioni;
 il “CONTO DEL PATRIMONIO” : in cui sono descritte le variazioni intervenute nel
patrimonio dello Stato e la situazione patrimoniale finale.

Il rendiconto, una volta approvato, è intangibile : non può più essere sottoposto a modifiche. Con
l’approvazione del rendiconto da parte del Parlamento, si conclude il “ciclo di bilancio”.

Le fasi per l’approvazione del “rendiconto dello Stato” sono le seguenti :

 al termine dell’anno finanziario ogni Ministero compila il proprio “conto del bilancio” e il
“conto del patrimonio”;
 entro i1 30 aprile il tutto deve essere trasmesso al Ministero dell’economia;
 entro il 31 maggio, il Ministro dell’economia trasmette alla Corte dei conti il “rendiconto
generale dell’esercizio scaduto”, per la c.d. parificazione (cioè, il giudizio volto ad
accertare la conformità dei risultati del rendiconto dello Stato alla legge di bilancio);
 la Corte dei conti, parificato il rendiconto generale, lo trasmette al Ministro dell’economia
per la successiva presentazione alle Camere, che deve avvenire entro i1 30 giugno.

6. L’esecuzione del bilancio. L’ “esecuzione del bilancio” si articola in un duplice


procedimento : il “PROCEDIMENTO DI ENTRATA” e quello “DI SPESA”. A sua volta, il
“procedimento di entrata” si suddivide in 3 fasi : l’accertamento, la riscossione e il versamento.

1. L’ACCERTAMENTO è la fase attraverso cui lo Stato appura l’esistenza del “diritto


a riscuotere una determinata somma” e individua con precisione il soggetto debitore.
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2. La RISCOSSIONE è la fase in cui il debitore paga la somma dovuta allo Stato ai c.d.
“agenti della riscossione”.
3. Il VERSAMENTO è la fase che conclude il procedimento di entrata e si estrinseca
nel versamento (presso le Tesorerie dello Stato) delle somme riscosse dagli agenti.

Il “procedimento di spesa”, invece, si articola in 4 fasi : l’impegno, la liquidazione, l’ordinazione e


il pagamento.

1. L’IMPEGNO è la fase giuridica in cui sorge per lo Stato l’obbligo di pagare una
certa somma a un creditore specificamente individuato. L’impegno può derivare da
diverse fonti : da leggi che dispongono determinate spese (impegni legislativi); da
contratti stipulati dall’amministrazione (impegni contrattuali); da atti amministrativi
(impegni amministrativi); da sentenze passate in giudicato che condannano lo Stato a
pagare una certa somma (impegni giudiziali).
La “fase integrativa dell’efficacia dell’atto di impegno” si perfeziona attraverso il
“controllo degli uffici della Ragioneria”, fase che culmina con la registrazione
dell’atto di impegno e che produce l’impegno della relativa spesa. Il controllo degli
uffici è diretto a verificare sia il profilo della “legalità” (poiché la spesa deve trovare
il proprio fondamento nella legge), sia la “regolarità della documentazione”, sia la
“disponibilità dei fondi” (all’interno dell’apposito capitolo di bilancio).
La L. 196 / 2009 dispone che solo i dirigenti possono impegnare le spese, nei limiti
delle risorse assegnate in bilancio. Gli impegni possono riferirsi solo all’esercizio in
corso : solo previo assenso del “Ministero dell’economia e delle finanze” possono
essere assunti impegni a carico di esercizi successivi, nei limiti delle risorse stanziate
nel bilancio pluriennale a legislazione vigente. Alla chiusura dell’esercizio
finanziario (il 31 dicembre), nessun impegno può essere assunto a carico
dell’esercizio scaduto.
2. La LIQUIDAZIONE rappresenta, invece, tutto quel complesso di operazioni con cui
si determina l’importo della somma da pagare e si individua l’identità del
beneficiario (creditore).
3. L’ORDINAZIONE è la fase in cui si ordina alla Tesoreria di pagare la somma
liquidata. Viene, dunque, emesso un titolo di spesa che dispone il pagamento (il c.d.
“ordinativo di pagamento”).
4. Il PAGAMENTO è la fase conclusiva del procedimento di spesa, con cui si procede
all’erogazione del denaro (da parte della Tesoreria) a favore del beneficiario. In
questa fase l’obbligazione pecuniaria si estingue.

7. Analisi e valutazione della spesa. L’art. 39 della L. 196 / 2009 prevede un


articolato meccanismo di «ANALISI E VALUTAZIONE DELLA SPESA» (fondato sulla
collaborazione del “Ministero dell’economia e delle finanze” con le “amministrazioni centrali dello
Stato”), predisposto per verificare i risultati raggiunti rispetto all’ obiettivo del contenimento del
deficit pubblico, per monitorare l’efficacia delle misure rivolte al loro conseguimento e rendere
più efficiente l’attività dell’amministrazione pubblica. Tale attività trova attuazione nell’ambito di

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“appositi nuclei di analisi e valutazione della spesa”. Sulla base delle attività svolte dai nuclei, il
Ministero dell’economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato -
elabora, con cadenza triennale, un “rapporto sulla spesa delle amministrazioni dello Stato”, che
illustra la composizione e l’evoluzione della spesa e i risultati conseguiti.
Infine l’art. 49 della L. 196 / 2009 ha anche delegato il Governo ad adottare uno o più decreti
legislativi «per il potenziamento dell’attività di analisi e valutazione della spesa e per la riforma del
controllo di regolarità amministrativa e contabile» (cioè i controlli di ragioneria). Tale delega è
stata attuata con il d.lgs. 123 / 2011, che ha implementato i compiti del “dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato” (ricordiamo che il “dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato” e le “Ragionerie territoriali dello Stato” sono «organi di controllo» della regolarità
amministrativa e contabile).
L’“ANALISI E LA VALUTAZIONE DELLA SPESA” consiste nell’«analisi della
programmazione e della gestione delle risorse finanziarie e nell’analisi dei risultati conseguiti dai
“programmi di spesa” : essa è finalizzata al miglioramento del grado di efficienza della spesa
pubblica. E’ svolta secondo un programma triennale, i cui risultati confluiscono nel “rapporto
triennale sulla spesa”.

-CAPITOLO 3. I BENI DI PROPRIETA’ PUBBLICA-


1. Nozioni generali. I beni pubblici sono quei beni appartenenti alle organizzazioni
pubbliche (REQUISITO SOGGETTIVO) e destinati alla cura di interessi pubblici (REQUISITO
OGGETTIVO). L’art.42 Cost. afferma che “la proprietà è pubblica o privata” e che “i beni
economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, ponendo il fondamento per una distinzione
tra il “regime giuridico dei beni privati” e “quello dei beni pubblici”. Infatti, mentre i soggetti
privati possono godere e disporre liberamente dei propri beni (sec