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diritto del lavoro - ghera edizione 2020

Diritto del Lavoro  ( Università degli Studi di Bari Aldo Moro)

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CAP. 1 – LE FONTI – PROFILI STORICI E DI POLITICA


LEGISLATIVA

1. Le fonti del diritto del lavoro in generale: la interrelazione tra legge e


contrattazione collettiva.

Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro è comune agli altri rami del diritto
ed è dunque l’art.1 disp.prel.c.c. che individua tali fonti nelle leggi, nei regolamenti e negli
usi. Una peculiarità del diritto del lavoro è costituita dall’art. 2078,co.1 c.c. secondo il
quale gli usi, contrariamente alla regola generale sancita dall’art.8 disp.prel.c.c.,
prevalgono sulle norme dispositive di legge se più favorevoli al prestatore di lavoro.
L’efficacia degli usi in questo caso è ovviamente dispositiva e quindi derogabile
dall’autonomia privata individuale o collettiva. Altra caratteristica peculiare del diritto del
lavoro è l’autonomia collettiva, cioè il potere di autoregolamento degli interessi dei gruppi
o collettività professionali: è produttiva non soltanto di effetti diretti e perciò rilevanti sul
piano dell’autonomia negoziale ma altresì di effetti indiretti rilevanti sul piano della
formazione dell’ordinamento. Infatti le tecniche della recezione, della consolidazione e
dell’estensione dei contenuti della contrattazione collettiva sono tipiche della legislazione
del lavoro, la quale si caratterizza sotto questo aspetto per la sua funzione ausiliaria della
contrattazione collettiva. La legislazione del lavoro però ha anche funzione di legislazione
di sostegno dell’attività sindacale e dell’autonomia collettiva nel quale è lo sviluppo della
seconda ad essere promosso per mezzo dell’intervento della prima. Bisogna però segnalare
che negli ultimi anni questa tendenza ha subito dei cambiamenti caratterizzati da una
legislazione rivolta ad alleggerire, senza la mediazione sindacale, la tutela dei lavoratori e
ad autorizzare alla contrattazione collettiva a derogare anche in peggio alle stesse norme
di legge. Un esempio di questa nuova fase del diritto è sicuramente la vulgata politico-
giornalistica detta jobs act legata ai provvedimenti emanati con la legge delega 10 dicembre
2014 n. 183, in cui la politica del diritto è indirizzata a favorire la flessibilizzazione dei
rapporti di lavoro e dell’organizzazione d’impresa al fine di stimolare la produttività delle
imprese e i livelli di crescita dell’occupazione. Settori che erano in declino a causa della
crisi economica del 2008.

2. L’evoluzione storica del diritto del lavoro: la fase della legislazione sociale

Nell’evoluzione storica del diritto del lavoro italiano si possono distinguere tre fasi storiche
per gran parte sovrapposte:

1) la fase della prima legislazione sociale in cui le leggi in materia di lavoro si presentano
soprattutto come norme eccezionali rispetto al diritto privato comune;

2) la fase dell’incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto privato
caratterizzata dall’inserzione della disciplina delle leggi e dei contratti collettivi nell’ambito
della codificazione civile;

3) la fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro i cui principi fondamentali
vengono garantiti dalla Carta costituzionale.

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All’inizio del secolo scorso, la legislazione sociale si presentava in posizione eccezionale


rispetto al sistema del diritto comune, come risposta dell’ordinamento alla questione
sociale sorta per effetto del processo di industrializzazione. Il codice civile del 1865 d’altra
parte non prevedeva una disciplina del contratto di lavoro ma soltanto quella della
locazione delle opere e dei servizi; la regolamentazione del lavoro industriale invece non
era prevista dalla legge poiché si riteneva che in questo campo l’autonomia privata dovesse
essere e restare sovrana. Tuttavia, in seguito all’estendersi del processo di
industrializzazione ed al parallelo aggravarsi della questione sociale, lo Stato cominciò ad
intervenire dappertutto in Europa, introducendo una speciale legislazione che inizialmente
si limitò a disciplinare alcuni aspetti particolarmente gravosi delle condizioni di lavoro
attraverso norme di ordine pubblico, e contestualmente cadevano i divieti di organizzazione
sindacale. In questo modo, di fronte al sistema del diritto civile si veniva sviluppando tutta
una serie di disposizioni di legge dettate in deroga ai principi del Codice civile (es: lavoro
per le donne o per i fanciulli) per proteggere il lavoratore in quanto contraente più debole
nel rapporto di lavoro (cd. legislazione sociale). D’altra parte al metodo legislativo si
accompagnava, per la tutela degli interessi di classe dei lavoratori, il metodo contrattuale
o dell’autotutela collettiva. Così, accanto allo sviluppo e alla diffusione dei contratti
collettivi, si veniva affermando una serie di regole che via via assumevano particolari
caratteristiche normative, anche perché si formavano in tempi brevi e spesso il risultato di
una maggiore estensione nell’applicazione del contratto collettivo (ad esempio le
consuetudini). In Italia, lo sviluppo della prassi sindacale portò la giurisprudenza
all’elaborazione delle norme concernenti la disciplina del contratto di lavoro operaio; e ciò
soprattutto in seguito alla istituzione dei Collegi dei probiviri nel 1893: a tali collegi era
demandata una funzione giurisdizionale di decisione nelle controversie di lavoro tra operai
e industriali qualora non si giungesse ad un accordo tra le parti in sede di conciliazione.
Tali collegi tendevano più a conciliare che a risolvere le controversie, anche perché in
assenza di norme di legge applicabili al contratto di lavoro, i giudizi dovevano essere decisi
secondo equità sulla base delle regole collettive ricavate dalla prassi (formazione
extralegislativa del diritto del lavoro). La giurisprudenza si è in tal modo posta come fonte
materiale del diritto del lavoro, creando norme che saranno recepite come a livello di fonte
formale del legislatore.

3. La fase dell’incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto
privato e la codificazione del 1942.

Successivamente si apre la seconda fase del diritto del lavoro, caratterizzata da una
accresciuta rilevanza giuridica del fenomeno sociale del lavoro dipendente, e dalla
progressiva incorporazione della disciplina lavoristica nel sistema del diritto privato, in
posizione di diritto speciale. Tale posizione speciale del diritto del lavoro si è presentata
inizialmente come una deviazione dai principi del diritto comune dei privati piuttosto che
paritaria rispetto al diritto civile come avvenne per il diritto commerciale. Dal punto di vista
formale, tale processo si è realizzato attraverso il ridimensionamento dello strumento della
legge speciale e con il passaggio all’inserzione del diritto del lavoro nella codificazione
unificata del diritto privato nel codice civile del 1942, il c.c. attualmente vigente ha
unificato non solo diritto civile e diritto commerciale ma ha inserito nel proprio corpo anche
il diritto del lavoro. Per il diritto del lavoro possiamo, però, solo parlare di incorporazione
nel diritto privato. Tuttavia, tale incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato non

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ha fatto venir meno l’autonomia dei principi fondamentali propri del diritto del lavoro: in
particolare il principio della tutela del lavoratore come contraente debole viene
generalizzato e rafforzato sotto il profilo delle condizioni minime di trattamento e
dell’inderogabilità ed indisponibilità delle stesse, mentre la tradizionale riduzione del
contratto di lavoro a puro rapporto di scambio viene riaffermata ed accentuata dalla
subordinazione del lavoratore all’interesse dell’impresa e all’autorità dell’imprenditore. Il
passaggio fondamentale in questa fase è rappresentato dall’emanazione della prima legge
sull’impiego privato nel 1919: tale legge trovava la sua giustificazione in ragioni di
opportunità politica e sociale in quanto gli impiegati, scarsamente sindacalizzati, non
godevano della tutela dei contratti collettivi ma disponevano solamente di giudici di equità;
da qui la necessità dell’intervento legislativo, che recepì il materiale normativo raccolto
dalle Camere di Commercio, delegate dal Governo a raccogliere gli usi contrattuali idonei
a regolare il rapporto d’impiego. Un altro fenomeno rilevante in questa fase è quello della
giuridificazione del contratto collettivo. Tale fenomeno si è presentato il contratto collettivo
corporativo era espressione non dell’autonomia collettiva, bensì della competenza
normativa dei sindacati nell’ambito della categoria professionale, e come tale era dotato di
efficacia generale ed inderogabile dall’autonomia privata individuale. Il corporativismo era
una componente del regime fascista, così come il sistema dei probiviri era stato
caratteristico del periodo liberale. Le eventuali controversie tanto giuridiche quanto
economiche venivano risolte dalla magistratura del lavoro, appositamente istituite presso
le corti d’appello. Col tempo la legislazione corporativa mise fine alla libertà sindacale e
trasformò il contratto collettivo in atto normativo dotato di efficacia erga omnes e
proveniente dal sindacato unico fascista, basato sulla rappresentanza legale della categoria
professionale e sulla contribuzione obbligatoria dei singoli lavoratori e imprenditori.
Mentre si instaurava il principio della prevalenza della norma più favorevole al lavoratore,
il codice civile del 1942 ha potuto realizzare l’inserzione della legge sull’impiego privato e
dei contratti collettivi corporativi nel corpo del diritto privato, una unificazione più formale
che sostanziale. Molti aspetti del rapporto di lavoro sono rimasti nella disciplina delle leggi
speciali mentre le altre norme generali nel codice civile.

4. La fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro. Dalla tutela del
contraente debole alla tutela del cittadino sotto protetto.

Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948 inizia una nuova fase
nell’evoluzione storica del diritto del lavoro, il quale si vede attribuita una rilevanza
costituzionale di grado superiore rispetto al diritto civile e commerciale: il carattere
prevalente della normativa è sempre quello della protezione del lavoratore come soggetto
contraente più debole, ma la differenza rispetto alle precedenti fasi storiche è che la
protezione del lavoratore è un principio non più in posizione eccezionale o speciale, bensì
è espressione di un’istanza di trasformazione della posizione professionale e sociale del
lavoratore stesso. Gli esempi sono diversi: art.35 per il quale la Repubblica tutela il lavoro
in tutte le sue forme ed applicazioni; art.31 che, oltre a garantire l’uguaglianza di fronte
alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, riconosce ai cittadini la pari
dignità sociale; art.32 che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che di fatto si
frappongono alla partecipazione dei lavoratori alla organizzazione della società; art.4 per
cui la Repubblica in primo luogo riconosce il diritto al lavoro dei cittadini e si impegna a
promuovere le condizioni di piena occupazione che ne rendano effettivo il godimento e, in

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secondo luogo, sancisce il dovere al lavoro come attività socialmente utile. Altre
disposizioni sono più specifiche: art.36 per la retribuzione proporzionata e sufficiente;
art.37 per la parità retributiva tra uomo e donna e tutela del lavoro minorile e femminile;
art.38 sulla previdenza e sicurezza sociale; art.39 e 40 su sindacati, contratti collettivi e
diritto di sciopero. La tutela del soggetto contraente debole rappresenta indubbiamente la
finalità di tutte queste norme, ma non si tratta più di una finalità esclusiva, ad essa si
aggiunge quella ulteriore della garanzia dei diritti sociali. Diritti sociali che permettono di
realizzare l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale garantita dalla nostra Costituzione. Tutte
queste norma sono ricollegabili a quello che è il fine primo: la posizione soggettiva di sotto
protezione sociale del lavoratore come cittadino e prima ancora come persona implicata in
un rapporto di lavoro dipendente. Da tutto ciò si evince anche l’importanza della
Costituzione economica, cioè dell’insieme delle norme e principi fondamentali che regolano
l’assetto economico della società. Quanto detto finora è una chiara dimostrazione della
costituzionalizzazione del diritto privato.

5. L’attuazione dei principi costituzionali per mezzo della legislazione


speciale

Il processo di attuazione della Costituzione ha dominato l’evoluzione del diritto del lavoro
nella fase del consolidamento della democrazia e dell’industrializzazione. Mentre la
contrattazione collettiva ha provveduto alla determinazione delle concrete condizioni di
lavoro sul piano salariale e normativo prima ed organizzativo e della libertà sindacale poi,
il ruolo della legislazione è rivolto prevalentemente al rafforzamento ed all’estensione della
tutela dei diritti riconosciuti al lavoratore dalla Costituzione, dal codice civile e dagli stessi
contratti collettivi. Se si guarda all’evoluzione del diritto del lavoro nel periodo successivo
all’emanazione della Costituzione, è possibile distinguere due linee di politica del diritto.
La prima fase è rivolta soprattutto all’integrazione della disciplina codicistica e quindi al
perfezionamento del sistema di tutela cd. minimale del lavoratore come soggetto
contrattualmente debole: esempi di questa prima fase sono le leggi sul collocamento, sugli
appalti di manodopera, sul contratto di lavoro a termine, sull’apprendistato, il lavoro
domestico e il lavoro a domicilio. Nella seconda fase ci si orienta verso una tutela più ampia
del lavoratore, considerato non più soltanto come contraente debole nell’ottica del rapporto
di scambio, ma anche nella sua duplice qualità di soggetto inserito in un rapporto di
produzione e di soggetto appartenente ad una classe o categoria socialmente sottoprotetta.
Quindi la tutela non è più limitata alle condizioni minime di trattamento, ma si estende
alla dignità sociale e alla persona del lavoratore, specificandosi anche come tutela contro
le discriminazioni e garanzia della parità di trattamento; esempi di questo tipo sono la
disciplina dei licenziamenti individuali che investe direttamente il potere di organizzazione
del datore di lavoro stesso. Un secondo esempio è lo Statuto dei lavoratori del 1970 sempre
volto a riequilibrare i rapporti di lavoro a favore dei lavoratori non solo nell’azienda ma
anche in una sfera più ampia della società civile attraverso lo strumento della
LEGISLAZIONE c.d. PROMOZIONALE. Lo statuto svolge una funzione promozionale
dell’attività sindacale e della contrattazione collettiva.

6. Il diritto del lavoro della crisi e la legislazione contrattata

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Successivamente, a partire dal 1975 si può individuare una nuova fase della legislazione
del lavoro. Si parla al riguardo di diritto del lavoro della crisi, ed è una fase caratterizzata
da interventi legislativi originali e peculiari quali ad esempio l’introduzione dei contratti di
lavoro con finalità formative o la parziali liberalizzazione del mercato del lavoro. Tali
interventi avevano l’obiettivo prevalente di favorire la difesa e la crescita dei livelli di
occupazione prevedendo l’estensione delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro e
l’introduzione di misure idonee ad ottenere una riduzione del tasso di inflazione attraverso
il rallentamento dei meccanismi di indicizzazione salariale. Aspetti caratteristici di tale fase
storica sono la crescente tendenza verso la deregolamentazione del mercato del lavoro
(ossia l’estensione dell’autonomia negoziale privata), e l’evoluzione della disciplina
protettiva da rigida in flessibile: in questa prospettiva la tutela dell’occupazione prevale
sulla tutela della posizione contrattuale debole del lavoratore e quest’ultima deve essere
armonizzata con l’interesse pubblico al contenimento dell’inflazione e con l’interesse
dell’impresa allo svolgimento dei processi di ristrutturazione produttiva e di innovazione
tecnologica. Nel corso degli anni ’80, la flessibilità delle condizioni di lavoro
dell’occupazione, e con essa il coordinamento tra legislazione e contrattazione collettiva
divengono un connotato stabile del sistema del diritto del lavoro accompagnati ad un
incremento del potere sindacale e di alcuni diritti individuali dei lavoratori. Parliamo,
infatti, di legislazione contrattata poiché la produzione legislativa ha assunto la particolare
caratteristica di essere tata originata essa stessa dalla partecipazione delle parti sociali.

7. La flessibilizzazione del mercato del lavoro e la riforma della P.A. e del


lavoro pubblico. Riforma del Titolo V della Costituzione.

Gli interventi legislativi degli anni ’90 spingono verso nuovi modelli di governo delle
relazioni industriali, in parallelo con il consolidarsi della pratica concertativa tra Governo
e parti sociali – Protocollo del 1993-ma anche verso flessibilizzazione e snellimento
burocratico del mercato del lavoro. Bisogna rammentare inoltre sicuramente la legge sullo
sciopero dei servizi essenziali; e la normativa in materia di licenziamenti collettivi, sul
lavoro degli immigrati, sui contratti di lavoro flessibili e sul trasferimento d’azienda.
Importanti sono stati gli interventi legislativi che hanno mirato a rafforzare gli istituti
chiave del sistema a proposito di protezione della persona del lavoratore e dei suoi diritti
fondamentali. Importante intervento di questo periodo è stato la riforma del pubblico
impiego, incentrata sulla “contrattualizzazione dei rapporti di lavoro” con le P.A., con
l’obiettivo dell’unificazione normativa dei dipendenti pubblici e privati al fine di accrescere
l’efficienza dell’organizzazione amministrativa, sottoponendola alle norme del Codice civile
e delle leggi speciali. Inoltre, la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 nell’ottica
del federalismo legislativo, attribuisce all’ordinamento civile, la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali, e la previdenza sociale alla
competenza esclusiva dello Stato, mentre affida alla competenza concorrente tra Stato e
Regioni le materie dell’istruzione e formazione professionale, la tutela e sicurezza del
lavoro, la previdenza complementare e integrativa. Molta parte dell’attività legislativa di
questo decennio è stata inoltre influenzata dall’esigenza di adeguare l’ordinamento
nazionale ai vincoli e agli obiettivi derivanti dalla partecipazione all’UE: questo spiega come
forti vincoli economici in tema di inflazione, deficit di bilancio e debito pubblico abbiano
fortemente condizionato le politiche legislative soprattutto in materia di controllo della
spesa sociale. In riferimento vanno citati gli interventi legislativi che hanno fortemente

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modificato la materia di previdenza sociale soprattutto in relazione al sistema


pensionistico. La riforma del titolo V della Costituzione ha portato delle perplessità
riguardo la portata e l’identificazione di alcune materie lavoristiche demandate alla
competenza esclusiva delle regioni. In realtà è stato successivamente chiarito che da parte
della Corte Costituzionale che resta affidata allo Stato la regolazione dei rapporti e contratti
di lavoro, mentre sono affidate alla competenza concorrente Stato\Regioni la disciplina dei
servizi per l’impiego e del collocamento.

8. Il diritto del lavoro nei primi 10 anni del 2000. La crisi del metodo
concertativo e le politiche neo-liberiste di flessibilizzazione del mercato del
lavoro. Gli sviluppi più recenti: dai cd. ammortizzatori sociali alle riforme di
struttura in materia di lavoro pubblico e di tutela dei diritti. Accordo Quadro
del 22 Gennaio 2009 sul sistema di contrattazione collettiva.

A partire dal 2000 le nuove politiche del lavoro sono state rivolte a soddisfare esigenze di
maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro. Infatti la più significativa manifestazione
della nuova fase è costituita dalla normativa di riforma del mercato del lavoro (2003), con
la quale sono state introdotte nuove figure contrattuali di lavoro cd. “atipico” ed è stata
accentuata la liberalizzazione delle attività, il tutto con l’obiettivo di conferire maggiore
flessibilità al mercato del lavoro. Significativi sono stati anche gli interventi nelle 3
importanti aree: degli ammortizzatori sociali, del lavoro pubblico e dei diritti dei lavoratori.
Quanto agli ammortizzatori, al fine di fronteggiare l’instabilità occupazionale, è stata
approvata una normativa volta ad estendere ad alcune categorie di lavoratori una
protezione economica per i periodi di mancanza di lavoro o di sospensione del lavoro.
Quanto al lavoro pubblico, fondamentale è il dichiarato obiettivo di introdurre nel settore
del pubblico impiego sistemi di valutazione delle performances. Infine, va segnalata
l’approvazione del cd. Collegato Lavoro che incide sulla tutela dei diritti del lavoratore.
D’altra parte il processo negoziale tra le parti sociali e tra le stesse confederazioni si è
rilevato conflittuale. L’Accordo Quadro del 22/01/2009 è stato siglato da CISL e UIL ma
non dalla CGIL. Gli anni più recenti (2010-2012) hanno visto una profonda trasformazione
sotto l’impatto della crisi economica. L’Accordo Interconfederale del 28/06/2011
sottoscritto da tutte le maggiori organizzazioni sindacali, ha sostituito il Protocollo del 93.
Viene con tale accordo riconosciuta la prevalenza del livello decentrato di contrattazione.
E’ infatti conferita efficacia generalizzata ai contratti aziendali approvati dalla sistema
contrattuale è rivolto l’art. 8 D.L. 138/2011 convertito in L. 148/2011 che attribuisce ai
contratti collettivi aziendali e territoriali il potere di stabilire specifiche intese aventi
efficacia generale e con la forza di derogare non solo ai contratti collettivi ma anche alle
disposizioni di legge. Ancora la flessibilità del mercato e dei rapporti di lavoro è all’origine
della L. 92/2012, che ha toccato e rivisto importanti aree, come quella degli ammortizzatori
sociali, della tutela reale contro il licenziamento e la disciplina dei rapporti flessibili.

9. Il biennio 2011-2013. Le regole pattizie sull’efficacia del contratto


collettivo e sulla rappresentatività sindacale. Il potere derogatorio affidato
dalla legge ai contratti di prossimità. La ricerca di un nuovo equilibrio tra
flessibilità in entrata e in uscita nella l.n. 92/2012.

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Sotto l’impatto della crisi economica nuovi interventi hanno inciso sull’assetto del nostro
diritto del lavoro. Vediamo i 3 punti fondamentali.

1- L’accordo interconfederale 2011 ha sostituito il Protocollo del 1993. Viene


confermata l’esistenza di due livelli di contrattazione. Il primo livello (nazionale di
categoria) conserva la funziona di garantire i trattamenti minimi di base, mentre al
secondo livello aziendale oppure territoriale compete la disciplina di tutte le materie
delegate dal contratto collettivo nazionale o dalla legge. È conferita efficacia
generalizzata ai contratti aziendali che siano stati approvati dalla maggioranza dei
componenti delle r.s.u o in assenza di queste delle r.s.a. a livello aziendale è inoltre
riconosciuta la capacità di stipulare accordi modificativi della disciplina definita dai
contratti di categoria e da altresì, in presenza di situazioni di crisi la capacità di
derogare in pejus alla disciplina di categoria anche in materie non previste dal
contratto nazionale. All’accordo del 2011 seguiranno il protocollo di intesa del 2013
e il Testo Unico sulla rappresentanza del 2014. Si prevede
A) La certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali.
B) I criteri per determinare i soggetti legittimati a partecipare alla contrattazione
collettiva nazionale , individuati nelle organizzazioni che abbiano una
rappresentatività non inferiore al 5 % calcolato sulla media tra il dato associativo
e quello elettorale.
C) L’efficacia, per le organizzazioni aderenti agli accordi 2011-2014, dei contratti
collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali che rappresentino
almeno il 50%+1 della rappresentanza, previa consultazione certificata dei
lavoratori.
2- Alla stessa finalità di promuovere il decentramento del sistema contrattuale sembra
doversi ricondurre la norma dell’art 8 d.l num. 148. La norma (Sostegno alla
contrattazione collettiva di prossimità) attribuisce ai contratti collettivi aziendali e
territoriali, che siano stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi
sul piano territoriale o nazionale, il potere di stabilire specifiche intese aventi
efficacia generale finalizzate al miglioramentodelle condizioni di lavoro e di
occupazione. Le intese possono riguardare le materie inerenti l’organizzazione del
lavoro e della produzione. Condizione necessaria per conferire efficacia generale al
contratto collettivo aziendale e che la sottoscrizione dei contratti avvenga sulla base
di un criterio maggioritario relativo alle r.s.a. la norma stabilisce che le specifiche
intese stipulate a livello aziendale possono riguardare la regolazione delle materie
inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: alla
introduzione di nuove tecnologie; alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e
inquadramento del personale; ai contrati a termine, ai contratti a orario ridotto; alla
disciplina dell’orario di lavoro; alle modalità di assunzione, il licenziamento della
lavoratrice in concomitanza del matrimonio, o dall’inizio del periodo di gravidanza
fino al termine dei periodi di interdizione del lavoro. L’art. 8 attribuisce ai soggetti
sindacali un vero e proprio potere normativo assimilato alla fora di legge avendo i
contratti collettivi di prossimità non solo efficacia generale imperativa ma anche la
forza di derogare non solo ai contratti collettivi nazionali ma anche alle disposizioni
di legge. Viene introdotta una vistosa eccezione alla regola secondo cui i contratti
collettivi, essendo atti di autonomia privata non posso derogare in sfavore del
lavoratore le norme di legge, a meno che siano a ciò autorizzate da uno specifico
rinvio (c.d. delega) della stessa legge. L’art. 8 potrà avere grandi effetti di

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destrutturazione del sistema contrattuale: e infatti anomalo che il potere derogatorio


sia prerogativa unicamente della contrattazione aziendale o territoriale. Tuttavia, le
principali parti sociali hanno accolto con scarso entusiasmo il provvedimento
legislativo.
3- Caduto il governo Berlusconi la nuova compagine di colazione tra le forze politiche
di centro destra e centro sinistra guidate da Mario Monti deve fronteggiare la crisi
finanziaria dello stato e il gravissimo problema della disoccupazione. Il governo
emana il d.l convertito nella legge num. 214 che allunga l’età pensionabile e
armonizza al ribasso le diverse gestioni previdenziali. Successivamente presenta un
disegno di legge di riforma del mercato del lavoro n una prospettiva di crescita che
viene promulgato e pubblicato nel 2012. Quest’ultimo provvedimento affronta il
gravissimo problema della disoccupazione con una serie di misure rivolte a
riequilibrare il rapporto tra flessibilità in entrata e uscita. Sul primo versante la
legge si prefigge l’obbiettivo di contenere le forme contrattuali di lavoro subordinato
precario e di lavoro economicamente dipendente. Sul secondo, essa procede ad una
revisione della disciplina dei licenziamenti, riducendo la reintegrazione ad alcuni
casi di licenziamento illegittimo ed estendendo la tutela di tipo indennitario. Nel
contempo, la legge avvia una radicale riforma degli ammortizzatori sociali,
trasformando l’indennità di disoccupazione dell’Aspi con un ambito di applicazione
più ampio e prevedendo correttivi alla cassa integrazioni guadagni. Il perdurare
della crisi economico-finanziaria del paese determina un ulteriore caduta dei tassi
di occupazione con un aumentare del lavoro precario. In definitiva il quadro del
mercato del lavoro è scoraggiante e le ricette fin qui utilizzate non producono i
risultati sperati.

10. Tra continuità e discontinuità: la “filosofia” del diritto del lavoro del c.d.
JOBS ACT (2014/15). Riduzione delle tutele nel rapporto di lavoro e
rafforzamento del potere organizzativo dell’imprenditore nella gestione
dell’attività produttive. Le nuove politiche del mercato del lavoro. La delega al
governo per l’ennesima riforma della P.A.

Nel 2014 viene nominato Presidente del Consiglio Matteo Renzi: il suo programma di
legislatura è assai ambizioso perché intende attuare una serie riforme strutturali che
dovrebbero cambiare il volto del paese. E così la priorità assoluta viene data ad una
profonda revisione dell’intero sistema normativo che compone il diritto del lavoro. Le linee
di politica economica in cui ci si muove sono quelle tracciate già nel 2011 con la nuova
governance economica dell’Unione Europea con particolare riguardo alle politiche di
salvataggio dei paesi in zona euro in cui il debito pubblico è fuori controllo: austerità
finanziaria e flessibilità del mercato del lavoro. Ad essa si contrappone il modello
neokeynesiano che indica negli investimenti pubblici produttivi la soluzione della crisi, e
che è stato seguito con risultati positivi negli Stati Uniti e nel Giappone. Pareggio di bilancio
e fiscal compact finora non sono regole mese seriamente in discussione a livello di unione
europea; il che rende estremamente difficile intervenire per migliorare le condizioni
economico-sociali attraverso misure rivolte ad incrementare la domanda più agevole e
compatibile con la politica finanziaria europea, risulta operare sul versante dell’offerta di
lavoro e quindi sulla flessibilità del rapporto. A questo riguardo il governo ha agito in due
tempi, co una serie di provvedimenti che nella vulgata massmediatica prendono il nome di
JOBS ACT. In una prima fase emana un decreto legge sul contratto a termine e

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l’apprendistato, per quest’ultimo si semplifica il contenuto del piano formativo, si riduce la


condizione per l’assunzione di novi apprendisti e si contiene il costo della retribuzione. In
un secondo momento il governo presenta un disegno di legge delega. Il testo, dopo aver
subito due rimaneggiamenti a seguito di emendamenti presentati dal governo prima in
commissione lavoro e poi nell’aula del Senato, vede la luce nella legge delega del 2014
numero 183. Gli obbiettivi indicati possono così sintetizzarsi: assicurare tutele uniformi
contro a disoccupazione involontaria legata alla storia contributiva dei lavoratori,
razionalizzare la disciplina dell’interazione salariale, e collegare il sussidio ad attività a
beneficio di comunità locali; garantire, mediante la costruzione di un’agenzia nazionale per
l’occupazione, la fruizione dei serviszi essenziali su tutto il territorio in materia di politiche
attive del lavoro ed assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative;
semplificare e razionalizzare e procedure e gli adempimenti di costituzione e gestione dei
rapporti di lavoro allo scopo di ridurre gli adempimenti a carico delle imprese e dei
lavoratori; riordinare e semplificare le tipologie contrattuali esistenti mediante la redazione
di un testo organico di disciplina; promuovere il contratto a tempo indeterminato come
forma privilegiata di contratto; introdurre per le nuove assunzioni a tempo indeterminato
un regime sanzionatorio contro i licenziamenti legittimi di tipo indennitario con
risarcimento crescente in relazione all’anzianità di servizio escludendo per i licenziamenti
economici la reintegrazione del lavoratore e limitando la reintegrazione ai licenziamenti
nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato;
rivedere la disciplina delle mansioni con possibilità di modifiche in pejus delle stesse in
caso di processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale; modificare l’art. 4 dello
Statuto dei Lavoratori sulla disciplina dei controlli a distanza; estendere le ipotesi di lavoro
accessorio per le attività occasionali. Applicare il salario minimo ai rapporti di lavoro
subordinato e a quelli “di collaborazione coordinata e continuativa-_” nei settori non
regolati dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale; introdurre un’agenzia unica per le ispezioni del
lavoro, che assorba i servizi ispettivi del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail; in fine
garantire adeguato sostegno alla genitorialità. Siamo in presenza di una riforma a tutto
campo, che intende coniugare la flessibilità del rapporto di lavoro con misure di politiche
attive nel mercato del lavoro e tutela del reddito in favore dei disoccupati. Sotto il secondo
aspetto occorre ricordare che i tentativi di riforma prospettati nell’ultimo ventennio non
hanno sortito effetti. In esecuzione della delega il governo emana ben 8 decreti legislativi.
Il mutamento normativo è contrassegnato da un nuovo equilibrio tra l’interesse
dell’impresa e la tutela della persona del lavoratore: con una sovrapposizione delle regole
dell’organizzazione precostituite dal datore di lavoro ai diritti fondamentali del prestatore.
Questi diritti, di conseguenza, subiscono una significativa contraddizione rispetto
all’intensità delle tutele ad essi offerta dallo statuto dei lavoratori i più recenti dati statistici
mostrano infatti che le nuove assunzioni a tempo indeterminato hanno subito una battuta
d’arresto mentre gli incrementi occupazionali sono riconducibili ai contratti a tempo
indeterminato e alle altre forme di lavoro precario.

11. Gli interventi legislativi nell’ultimo biennio (2016/2017).

Il governo Renzi si dimette nel dicembre 2016. Quello nuovo si pone in linea di continuità
con il precedente. Della sua attività va ricordato un decreto-legge che al fine di vanificare
un referendum abrogativo indetto dalla Cgil ha abrogato la discussa figura del lavoro

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accessorio compensato mediante voucher e reintrodotto la piena responsabilità solidale fra


appaltatore e appaltante così come previsto nel testo originario. La manovra correttiva ha
poi ridisegnato il lavoro accessorio, denominandolo prestazioni occasionali, e prevedendo
due strumenti per la sua utilizzazione: il libretto famiglia per le persone fisiche e il contratto
di prestazioni occasionali per le imprese che non abbiano più di 5 dipendenti e per le P.A.
gli interventi legislativi più significativi, approvati dal parlamento, sono costituiti:, dalla
legge num. 33 istitutiva del reddito di inclusione quale sostegno alla povertà e quindi
collegato al possesso di determinati requisiti minimi, che risponde ad una esigenza di
tutela minima universale ma ancora in modo insoddisfacente. E successivamente dalla
legge num. 81, contenente nella prima parte misure a tutela del lavoro autonomo rivolte
a correggere le distorsioni causate dalla eventuale posizione dominante dal committente
del prestatore e ad estendere le provvidenze in materia di malattia, maternità e nella
seconda la disciplina del “lavoro agile” che dovrebbe rispondere alla sempre più corposa
digitalizzazione che consente lo svolgimento della prestazione d lavoro anche al di fuori dei
locali aziendali. Essa ipotizza una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro
subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”.

12. La Corte Costituzionale ed il suo contributo allo sviluppo del diritto del
lavoro.

Un ruolo significativo nella conformazione della materia di diritto del lavoro è da


riconoscere all’attività della Corte Costituzionale. Si tratta di n processo di evoluzione
dell’ordinamento nel suo complesso, come tale di carattere continuo. Se sono molte le
sentenze della corte in materia di rapporti interpretati senza dubbio il numero
relativamente più Alto sono quelle riguardanti la disciplina del rapporto di lavoro.
L’interpretazione della corte costituzionale è uno strumento costante per operare un
rapporto fra i principi della carta costituzionale e la realtà normativa contingente. In molti
casi la Carta Costituzionale ha pronunciato sentenze esclusivamente interpretative
esplicitando nella motivazione della sentenza l’interpretazione in base alla quale la
disposizione sottoposta al suo giudizio può essere considerata non in contrasto con la
Costituzione (c.d. sentenze interpretative di rigetto). Diverso è il caso in cui ,a corte
costituzionale dichiari l’illegittimità si una o più tra le possibili interpretazioni ricavabili
dalla disposizione legislativa sottoposta al suo giudizio: i questo caso si ha la pronuncia di
una sentenza c.d. interpretativa di accoglimento che individuando l’enunciato normativo
conforme alla costituzione modifica sostanzialmente il contenuto della disposizione
lasciando tutta via immutato il resto sulla stessa premessa si giustificano anche le c.d.
sentenza di accoglimento parziale, la cui tipologia è per altro diversificata. Si va dalle
sentenze c.d. sostitutive-le quali eliminano una parte del testo, sostituendola con un
enunciato normativo conforme alla costituzione-, alle c.d. sentenze additive con le quali,
restando invariato il testo, viene integrata non solo la disposizione ma anche la norma di
legge al fine di porre rimedio ad una omissione del legislatore. Ciò è sufficiente per
intendere quali dimensioni abbia raggiunto del diritto del lavoro il fenomeno della
costituzionalizzazione che, ha coinvolto il diritto privato nella sua totalità.

13. Il diritto dell’Unione Europea e i suoi rapporti con il diritto interno.

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Le fonti che attribuiscono all’Unione Europea delle competenze in materia sociale sono
costituite dal c.d. diritto primario, in cui sono ricompresi il Trattato sull’Unione Europea,
il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e la Carta dei diritti fondamentali
dell’unione europea. Per quanto riguarda il sistema delle fonti risultante dai Trattati
istitutivi dell’UE e dal Trattato sul funzionamento dell’UE, le istituzioni comunitarie
possono adottare regolamenti e direttive, decisioni e pareri nelle materie di loro
competenza. Regolamento e direttive sono vincolanti mentre pareri e decisioni no. Il
regolamento ha portata generale ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi, mentre la
direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere entro il termine prefissato dalla direttiva. Inoltre, qualora si ravvisi un
contrasto tra le norme dei due ordinamenti (comunitario e interno), prevarrà il diritto
comunitario sul diritto interno per la c.d. teoria del “primato”. La direttiva può essere
unicamente rivolta agli stati ai quali impone di emanare e/o abrogare determinate norme.
La Corte Europea tuttavia ha di recente statuito come il diritto europeo sia talvolta in grado
di dispiegare la propria efficacia diretta anche nelle controversie tra privati. L’efficacia
orizzontale ha trovato applicazione soprattutto in controversie in materia di
discriminazioni per ragioni di età, principio che vincola il giudice nazionale a disapplicare
le disposizioni della legge con esso confliggenti anche in una controversia tra privati. Altro
strumento di conio giurisprudenziale, che ha rafforzato il primato del diritto dell’Unione
Europea, è quello dell’obbligo di interpretazione conforme a ciò che la direttiva impone.
Nella scelta dell’interpretazione il giudice nazionale deve preferire quella che più sia
compatibile con la direttiva. Ciò indipendentemente dal fatto che la normativa statale sia
anteriore o posteriore all’emanazione della direttiva stessa. Qualora, tuttavia, la lettura del
diritto nazionale non consenta al giudice di raggiungere questo risultato, l’unico rimedio
offerto dal diritto europeo al singolo che subisce un danno è quello di domandarne il
risarcimento allo Stato, secondo il principio generale elaborato dalla Corte di Giustizia per
cui lo Stato deve risarcire al singolo i danni subiti a causa della mancata attuazione di
norme UE prive di effetti diretti. L’intensa produzione normativa comunitaria è dunque in
grado di condizionare in misura rilevante l’evoluzione della legislazione interna del nostro
Paese. In caso di contrasto tra norma europea direttamente applicabile e legge nazionale,
il giudice nazionale deve decidere la controversia sulla base delle norme europee, ciò,
naturalmente sul presupposto che la norma europea rilevante per la decisione sia di per
sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale. Alla
teoria del primato si è adeguata anche la corte costituzionale italiana, che ha precisato
come la prevalenza del diritto nazionale su quello interno si fonda su due norme della
Costituzione repubblicana, gli artt. 11 e 117, co. 1 Cost. la corte costituzionale ha
riconosciuto che ogni giudice, in caso di contrasti tra norme europee e norme nazionali,
deve procedere alla decisone sulla base delle prime e disapplicando le seconde, in caso di
antinomia intercorrente tra una norma di legge interne ed una norma europea non
direttamente applicabile, il giudice può sollevare la questione di legittimità per violazione
delle disposizioni costituzionali. In ogni caso, la priorità del diritto dell’Unione non è piena
ed incondizionata: la normativa europea non può mai derogare ai principi fondamentali e
ai diritti inalienabili della persona diverso è il discorso per le norme costituzionali di
dettaglio che ben posso tollerare una deroga ad opera del diritto U.E. Tale principio non
ha mai avuto un’applicazione pratica.

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14. L’evoluzione delle politiche sociali dell’Unione Europea.

La legittimità di un atto normativo vincolante dell’Unione in materia lavoristica è


subordinata alla individuazione di una specifica norma dei Trattati attributiva di
competenze ratione materiae. Si traccerà dunque una breve rassegna storico giuridica
dell’evoluzione delle politiche sociali.

A) Le originarie previsioni contenute ne Trattato di Roma del 1957 istitutivo della


comunità economica europea attribuivano un ruolo marginale alla dimensione sociale,
rispetto a quella economica: le uniche disposizioni in ambito sociale erano
rappresentate dall’articolo 119 sulla parità retributiva tra uomini e donne, e dall’art.
120 sulla parità di trattamento in materia di feri. è dal finire degli anni 60 che si
registrò un primo impulso nelle politiche sociali comunitarie, parallelamente ai
movimenti di protesta, tale tendenza culminò con il primo programma d’azione in
materia sociale del consiglio nel 1974, in cui si affermava che la crescita economica
doveva determinare u miglioramento delle condizioni di vita. In tale contesto vennero
emanate varie direttive, ancora oggi parte importante del diritto del lavoro europeo: si
pensi alle direttive sulla tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi. Negli
anni ’80 si cominciarono a registrare ulteriori passi verso una politica sociale
comunitarie: con l’adozione dell’Atto Unico Europeo (entrato in vigore nel 1987, ma
approvato nel 1986), veniva affermato l’impegno degli stati membri al miglioramento
dell’ambiente di lavoro come strumento per proteggere sicurezza e salute e veniva
introdotto il concetto di coesione economica e sociale. Negli anni ‘90/2000 l’adozione
del Trattato di Maastricht sull’unione europea del 1992, del trattato di Amsterdam del
1997, del trattato di Nizza 2001 e del trattato di Lisbona 2009 ha rafforzato la
dimensione sociale dell’unione europea che sostituisce la comunità europea come
soggetto di diritto internazionale. A seguito di tali interventi oggi vi sono varie
disposizioni che contengono norme di principio il cui obiettivo è la promozione
dell’eguaglianza e la correzione degli squilibri socioeconomici insiti nel sistema
capitalistico. In tal senso depongono più articoli del TUE. Questi scontano un deficit
di effettività, in ragione del rigido riparto di competenze fissato nei trattati dell’unione
non dispone di un proprio sussidio contro la disoccupazione, né tantomeno può
intervenire in materia salariale di contrattazione collettiva e sciopero. Più precisamente
restano ancora escluse dall’azione dell’Unione Europea le retribuzioni, il diritto di
associazione, il diritto di sciopero e la serrata. Proprio di ciò si è dibattuto negli ultimi
anni, si è sviluppato intorno alla necessità di giungere ad Unione Europea fondata su
una vera e propria carta costituzionale, nel cui seno trovassero pieno riconoscimento
anche i diritti sociali fondamentali dei lavoratori. Ciò in coerenza con l’evoluzione della
comunità europea che, accanto agli obiettivi meramente economici perseguiti fin dalle
origini ha progressivamente collocato obiettivi di solidarietà e tutela sociale. Questo
processo evolutivo ha condotto alla firma del 2000 a Nizza, della carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, al cui interno hanno trovato accoglimento tra gli
altri, i principali diritti sociali dei lavoratori, tale carta era stata originariamente
trasfusa nel Trattato che adotta una Costituzione sigakata a Roma nel 2004 che
avrebbe dovuto essere ratificato da tutti i paesi membri dell’Unione. Tuttavia, il
processo di ratifica subì una brusca interruzione a causa dell’esito negativo dei
referendum consultii svoltisi in Francia e Olanda (2005). Dopo un breve “periodo di
riflessione” i leader del Unione Europea hanno optato per un progetto meno ambizioso,
ma più realistico, firmando, nel 2007, il nuovo Trattato di Lisbona, destinato ad

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integrare e modificare in più parti l’originario trattato di Roma. Il nuovo trattato-


ratificato da tutti gli attuali stati membri ed entrato in vigore nel 2009- mira a
perfezionare il funzionamento delle istituzioni dell’Unione, e ad ampliare la
partecipazione democratica ai processi decisionali, attraverso il rafforzamento del
ruolo del parlamento europeo e la previsione di un coinvolgimento diretto dei
parlamenti nazional nei processi decisionali, per la prima volta viene prevista, a
possibilità per gli stati membri di recedere dall’unione. Le libertà e i principi sanciti
dalla Carta sono oramai divenuti giuridicamente vincolanti, dal momento dell’entrata
in vigore del Trattato stesso. A tal fine la Carta è stata di nuovo proclamata
solennemente e firmata dagli stati membri il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. La carta
contiene alcune importanti previsioni che sanciscono la libertà di associazione
sindacale, il diritto dei lavoratori all’informazione e consultazione dell’impresa, e
soprattutto il diritto dei lavorati e datori di lavoro, di “negoziare e concludere contratti
colletti, e di concorrere in caso di conflitti di interessi ad azioni collettive per la difesa
die loro interessi, compreso lo sciopero. La carta a differenza della costituzione italiana
afferma il principio della c.d. parità delle armi nell’ambito del conflitto collettivo. L a
carta ribadisce il divieto del lavoro minorile, stabilendo che l’età minima al lavoro non
può essere inferiore all’età in cui termina la scuola del obbligo e che i giovani devono
essere protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minare
la sicurezza la salute, lo sviluppo fisico, mentale ecc. il puto cruciale è che la carta di
Nizza, nonostante contenga un robusto decalogo di norme programmatiche in materia
di diritti sociali, coesiste con il trattato sul funzionamento dell’unione europea: questo
ultimo sancisce l’esclusione dei diritti di associazione, di contrattazione collettiva e di
sciopero e della materia retributiva dall’abito delle competenze dell’unione. La
permanenza di questa disposizione parrebbe implicare che, mentre per effetto della
carta di Nizza tali diritti sono formalmente riconosciuti come fondamentale da parte
dell’ordinamento europeo rispetto al loro esercizio, invece, l’unione non può esercitare
alcun potere regolativo che resta riservato ai soli stati membri.
B) L’attuale crisi economica e finanziaria, convenzionalmente iniziata nel 2008, ha
drammaticamente posto la necessità di un rafforzamento delle competenze dell’unione
in materia sociale: a riguardo va segnalato che l’attuazione del modello sociale europeo
per il decennio 2010/2020. La strategia 2020 è fondata su 4 iniziative prioritarie
estremamente ambiziose sintetizzate nella formala “per una crescita intelligente,
sostenibile e inclusiva”: il 75% di occupati nella fascia d’età 20/65 anni; il 3% del PIL
dell’unione destinato a ricerca e sviluppo; tasso di abbandono scolastico inferiore al
10% e almeno 40% di giovani in possesso di laurea; per un totale di 20 milioni di
persone in meno a rischio povertà. Negli ultimi anni l’azione normativa e le policy
dell’Unione hanno spesso perseguito l’abbassamento delle tutele in materia salariale
di contrattazione collettiva e di regolazione del mercato del lavoro; il tuto è stato
implementato dalle istituzioni europee attraverso Strumenti giuridicamente vincolanti
o meno. Il minuzioso sistema: di regolamenti che vanno sotto il nome di six pack two
pack ha imposto degli stringenti vincoli di bilancio agli stati membri in materia di spesa
pubblica e welfare; e gli accordi sottoscritti nel 2012,2012,2015,2017 tra la
commissione europea, la banca centrale e la Grecia hanno ridotto drasticamente il
salario minimo dei giovani, il tasso di copertura dei contratti collettivi e l’ammontare
dei trattamenti previdenziali. Un parziale cambiamento di rotta si è intravisto nel
documento dei c.d. Cinque presidenti del 2015, in cui veniva auspicata l’introduzione

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di un sussidio europeo contro la disoccupazione; tuttavia l’ampio dibattito generato


non si è tradotto in nessuna azione normativa concreta.
C) Nell’ambito del sistema delle fonti il Trattato di Lisbona riconosce in ogni caso un ruolo
importante alle parti sociali a livello europeo: prevede che “l’unione riconosce e
promuove il ruolo delle parti sociali al suo livello, tenendo conto delle diversità dei
sistemi nazionali, essa facilita il dialogo tra le parti nel rispetto della loro autonomia”,
precisando che << la commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle
parti sociali a livello dell’unione e prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo
provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti>>, che <<il dialogo tra le parti
sociali a livello dell’unione può condurre a relazioni contrattuali>>. Il trattato riconosce
il dialogo sociale, la natura di vera e propria fonte formale in ambito lavoristico: esso
prevede una procedura obbligatoria di consultazione tra la commissione e le parti
sociale, stabilendo che a fronte di interventi in materia di politica sociale queste ultime
possano richiedere alla commissione di spendere per 9 mesi la sua azione, al fine di
consentire loro la ricerca di un accordo. Nel caso di materie rientranti nella competenza
europea, a richiesta delle parti sociali e su proposta della commissione, essi possono
essere resi diversamente vincolanti per gli stati membri, attraverso la loro recezione da
parte del Consiglio con una propria decisione. Tale decisione consiste in una direttiva,
da adottare a maggioranza o all’unanimità, a seconda della materia trattata.
Spostandoci al provvedimento legislativo con cui vengono adottati gli atti normativi
dell’Unione: viene stabilito che per alcuni settori (miglioramento dell’ambiente di
lavoro, condizioni di lavoro) il Parlamento Europeo ed il Consiglio deliberano secondo
la procedura legislativa ordinaria previa consultazione del Comitato economico e
sociale e Comitato delle Regioni. Tale procedura consiste nell’adozione congiunta di un
regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento Europeo e del
Consiglio su proposta della Commissione. Mentre, per altri settori (sicurezza e
protezione sociale dei lavoratori, protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del
contratto di lavoro) si prevede che il Consiglio deliberi secondo una procedura
legislativa speciale, all’unanimità, previa consultazione del Parlamento Europeo e dei
Comitati.
D) Sempre sul piano delle fonti meritano di essere segnalati i principi di sussidiarietà,
favor e non regresso, che fungono da guida nelle relazioni che intercorrono tra diritto
del lavoro nazionale ed europeo. Accanto al tradizionale intervento operato attraverso
regolamenti e direttive, la preoccupazione di rendere le politiche sociali europee il più
possibile compatibili con il principio di sussidiarietà <<nei settori che non sono di sua
competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione
prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a
livello centrale né a livello regionale locale>>. Così, ha trovato affermazione una nuova
tecnica di regolazione dei comportamenti degli stati membri fondata sul cd soft law,
ovvero su una normativa di tipo non prescrittivo che presuppone l’individuazione di
obiettivi rispetto ai quali gli stati membri vengono sollecitati a sviluppare forme di
coordinamento nelle azioni di politica attiva in materia. Quanto detto vale in relazione
al perseguimento di tutti gli obiettivi di politica sociale non solo quelli per i quali vi è
la possibilità di adozione di direttive, ma anche quelli per i quali l’incoraggiamento
della cooperazione costituisce l’unico strumento di azione. Merita, poi, di essere
ricordato il principio secondo cui l’emanazione in una determinata materia sociale, di
una direttiva, non osta a che uno stato membro mantenga o stabilisca misure,
compatibile con i trattati, che prevedano una maggiore protezione: si tratta di un

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formale riconoscimento del favor dell’ordinamento europeo per la conservazione di


trattamenti nazionali di miglior favore; tale principio è rafforzato dalle cd clausole di
non regresso, in forza delle quali viene espressamente stabilito che l’attuazione di una
direttiva non può costituire una giustificazione per un arretramento del preesistente
livello generale di protezione dei lavoratori nella materia disciplinata: un’eventuale
legge nazionale peggiorativa sarà legittima solo se dettata da ragioni di politica sociale
diverse dalla mera trasposizione della normativa europea. Entrambe le clausole hanno
fondamento nell’obiettivo della parificazione del progresso, elemento costitutivo delle
politiche che unione europea e stati membri sono impegnati a perseguire.
E) Altro effetto dell’ordinamento europeo su quello nazionale consiste negli accordi
internazionali vincolanti per l’Unione Europea. Se quest’ultima conclude accordi
internazionali, questi sono vincolanti per le istituzioni europee e prevalgono sugli atti
dell’unione stessa. Inoltre, tale prevalenza, impone di interpretare le norme di diritto
derivato in modo conforme agli accordi internazionali. In ogni caso la prevalenza del
diritto internazionale su quello europeo è regolato dal principio del favor: nulla
impedirà agli stati membri di adottare il trattamento di maggior favore eventualmente
sancito dalle disposizioni di una convenzione dell’OIL.

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CAP. 2 – IL LAVORO SUBORDINATO

SEZ. A: Lavoro autonomo e lavoro subordinato: profili storici e sistematici.


1. La collocazione del rapporto di lavoro nel libro V del C.c. dedicato
all’impresa.

Il rapporto di lavoro è regolato dagli artt. 2094 ss. c.c. oltre che dalle leggi speciali. Il
legislatore ha collocato la disciplina del rapporto di lavoro nell’ambito della disciplina
dell’impresa posta dal Libro V: la ragione di tale sistemazione è da ricercare nella
prospettiva adottata dal Codice civile del 1942, secondo cui il rapporto di lavoro, anche
quando non sia inerente all’esercizio di un’impresa, viene tuttavia modellato sulle esigenze
tipiche di questa. Nello stesso Libro V infatti sono collocate, accanto alle norme del Titolo
II relative al lavoro nell’impresa, anche le norme concernenti i rapporti di lavoro che si
svolgono al di fuori dell’impresa stessa quali il lavoro autonomo o il lavoro domestico.
Questa collocazione corrisponde all’esigenza di istituire uno stretto collegamento tra
l’ordinamento del rapporto di lavoro subordinato e quello dell’impresa, secondo una
prospettiva conforme all’obiettivo perseguito dal legislatore del codice civile, il quale ha
inteso realizzare l’unificazione del diritto civile con il diritto commerciale. La finalità di
promuovere il processo di fusione che ha portato alla c.d. commercializzazione del diritto
civile è rimasta circoscritta al c.d. sistema esterno ai singoli istituti, non ha comportato
grandi mutamenti nella sostanza degli stessi. Per quanto attiene al rapporto individuale di
lavoro, il codice vigente, pur introducendo una disciplina organica assente nel codice
precedente, ne riafferma la natura contrattuale e la sostanza giuridica ed economica
tradizionale, caratterizzata essenzialmente dallo scambio tra la retribuzione e la
prestazione lavorativa, intellettuale o manuale. Tuttavia, il lavoro organizzato nell’impresa
viene considerato come il più rilevante socialmente e come il modello normativo tipico di
rapporto di lavoro, intorno al quale si dispongono a corona il c.d. rapporti di lavoro speciali.

2. Il Codice civile del 1865: la <<locazione delle opere>>.


La normativa codicistica rappresenta la prima disciplina organica ed unitaria del rapporto
di lavoro che sia stata introdotta nell’ordinamento italiano: in passato il lavoro subordinato
non trovava una specifica regolamentazione né nel Codice di commercio del 1882 né nel
Codice civile del 1865. Questo disciplinava in generale la locazione delle opere, istituto nel
quale erano ricompresi sia il lavoro subordinato (locatio operarum) che il lavoro autonomo
(locatio operis). Era locazione delle opere il contratto per cui una delle parti si obbligava a
fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede, e vi erano tre principali specie di
locazione di opere e d’industria: quella per cui le persone obbligano la propria opera
all’altrui servizio; quella dei vetturini che si incaricano del trasporto delle persone o delle
cose; e quella degli imprenditori di opere ad appalto o a cottimo. Il lavoro subordinato
veniva dunque definito “locazione della propria opera all’altrui servizio”. La disciplina del
contratto di locazione delle opere si occupava comunque quasi esclusivamente del lavoro
autonomo o locatio operis, nelle sue forme tipiche del trasporto e dell’appalto. L’unica
norma specificamente riferibile al lavoro subordinato era quella secondo cui <<nessuno
può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata

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impresa>> (art. 1628), con ciò vietando la perpetuità del contratto. Nonostante ciò, di
fronte alla prassi allora dominante di contratti a tempo indeterminato, era concordemente
ammessa la stipulazione del contratto sine die, giustificato come contratto sottoposto a
disdetta e pertanto pur sempre a termine, anche se incerto. La locatio operarum veniva
costruita dagli interpreti e implicitamente dal legislatore come una sottospecie della
locazione delle opere e d’industria, la quale, a sua volta, era una specie o, meglio, un
adattamento del più generale schema contrattuale della locazione.

3. Il rischio dell’utilità del lavoro e quello dell’impossibilità del lavoro.

La distinzione tra locatio operis e locatio operarum assunse rilievo al fine di stabilire la
diversa imputazione e ripartizione tra le parti dei rischi inerenti alla realizzazione della
prestazione lavorativa. Il primo di tali rischi, il rischio del lavoro, è quello incidente
sull’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro, ossia il rischio che incide per sua natura
sul risultato produttivo dell’erogazione dell’energie di lavoro e dipende dalla difficoltà
tecnico-economica del risultato stesso. Il secondo rischio è quello dell’impossibilità o
mancanza del lavoro sopravvenuta, e corrisponde al rischio incidente sulla perdita totale
o parziale del corrispettivo da parte del lavoratore. Il rischio dell’impossibilità di lavoro è
sempre sopportato dal lavoratore, sia nella locatio operis che nella locatio operarum, in
virtù del principio secondo il quale il debitore è esonerato dall’ obbligo di eseguire la
prestazione divenuta impossibile, ma perde il diritto alla controprestazione. Il rischio
dell’utilità del lavoro è invece collegato concretamente alla variabilità economica del
rendimento delle energie di lavoro prestate dal locatore ed è ripartito tra i contraenti in
modo diverso nella locatio operis e nella locatio operarum: nella prima è integralmente a
carico del lavoratore autonomo il quale si obbliga a prestare l’opera finita qualunque sia il
costo sopportato per ottenere il futuro risultato; nell’altra il rischio del risultato è a carico
dell’imprenditore, poiché il lavoratore subordinato si obbliga a prestare le proprie energie
di lavoro limitandosi a sopportare soltanto il rischio della mancanza di lavoro.

4. La distinzione tra attività e risultato del lavoro e l’emersione della


subordinazione contrattuale.

Oggetto della locazione di opere è l’attività del lavoro, mentre oggetto della locazione
dell’opera è il risultato del lavoro. Tuttavia la distinzione tra attività e risultato del lavoro è
ambigua. Essa infatti da un lato mette in rilievo la sostanziale identità dell’oggetto della
prestazione dovuta dal lavoratore (il bene economico della forza-lavoro) e dall’altro ne
differenzia la natura secondo la diversa impostazione del rischio del lavoro (utilità o
produttività). In questo modo rimane un’incertezza per ciò che attiene i connotati che
contraddistinguono le due specie di obbligazioni sotto il profilo oggettivo-funzionale. Si
spiega così il ricorso al criterio della subordinazione o dipendenza verso il conduttore, nel
quale viene identificato il tratto tipico della locatio operarum. Si perviene così, nella
sostanza, attraverso l’utilizzazione della categoria della locazione delle opere, ad estendere
ai lavoratori subordinati la disciplina della antica locazione di cose ed in tal modo si fa
maturare gradualmente il distacco del contratto di lavoro subordinato dall’originario
tronco, comune anche ai differenti tipi di contratto di lavoro autonomo (appalto, trasporto
ecc.).

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5. La subordinazione come sottoposizione alla direzione e al controllo del


datore di lavoro nell’impresa industriale.

Progressivamente si sviluppa la tendenza a sostituire la nozione di locatio operarum con


quella più moderna di contratto di lavoro subordinato. Il fenomeno della subordinazione
veniva individuato in chiave descrittiva sulla base del collegamento tra la prestazione e
l’azienda industriale. Tuttavia, era ancora assente una definizione positiva della
subordinazione. È stata la giurisprudenza (in particolare quella dei probiviri) ad utilizzare
la nozione del rapporto di servizio come criterio distintivo dell’obbligazione del lavoratore a
sottoporsi alle determinazioni dell’imprenditore per ciò che concerne sia l’organizzazione
del lavoro sia la disciplina aziendale: in questi termini la subordinazione tendeva a
identificarsi con il comportamento dovuto dal lavoratore in attuazione della propria
obbligazione.

6. La legge sull’impiego privato del 1924 e il Codice civile del 1942: la


collaborazione come connotato specifico della subordinazione.

In una prospettiva analoga si pone anche la legge sul contratto di impiego privato n.
1825/1924: questa individuava il carattere specifico della subordinazione nell’attività
professionale e nell’esercizio di mansioni di collaborazione c.d. fiduciaria, ossia lo
svolgimento di funzioni continuative di amministrazione e di fiducia nell’azienda. Il Codice
civile riprende il concetto della collaborazione per precisare a sua volta quello della
subordinazione: l’art.2094 c.c. identifica la collaborazione con lo scopo o, meglio, risultato
tecnico-funzionale della prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore, resa dal lavoratore in cambio della retribuzione.

SEZ. B: Contratto e rapporto di lavoro. Qualificazione del contratto e


individuazione della fattispecie tipica.
7. La distinzione tra il contratto di lavoro subordinato ed il contratto di
lavoro autonomo (art. 2094 e 2222 c.c.)

L’evoluzione storica sottolinea la continuità esistente tra la nozione moderna del contratto
di lavoro e quella tradizionale della locatio operarum, ma dimostra altresì come
l’alternatività tra risultato ed attività del lavoro sia stata progressivamente sostituita da
quella tra autonomia e subordinazione della prestazione resa dal lavoratore. In effetti, il
concetto di subordinazione si ricava direttamente dall’art. 2094 c.c. Questo fornisce la
definizione di prestatore di lavoro subordinato, qualificando come tale colui che si obbliga
a collaborare all’impresa prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Da tale definizione legislativa è
desumibile la nozione della subordinazione come dipendenza del prestatore dalla direzione
del datore. Tale concetto di subordinazione tecnico-funzionale è riaffermato in negativo
dall’art. 2222 c.c.: nella definizione del contratto d’opera infatti il legislatore ha messo in
rilievo l’assenza, nel rapporto di lavoro autonomo, del vincolo della subordinazione. Il
concetto di subordinazione si presenta sostanzialmente ambiguo già sul piano empirico e
sociologico: subordinato è chiunque si trovi in una situazione di soggezione ad un potere
altrui. La subordinazione è stata identificata con la sottoposizione del debitore al potere

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del creditore del lavoro. In questo modo, la subordinazione si identifica con il contenuto
tipico dell’obbligazione di lavoro: si tratta infatti della definizione del comportamento
solutorio del debitore di fronte al creditore del lavoro e si configura perciò come un
elemento esterno all’oggetto della prestazione e quindi alla struttura dell’obbligazione di
lavoro. Al riguardo, non è possibile ritenere la struttura dell’obbligazione di lavoro
autonomo diversa da quella di lavoro subordinato: in entrambi i casi, infatti, oggetto
dell’obbligazione è il lavoro come prestazione di facere e quindi di attività personale
economicamente utile. Tale connotato è comune tanto all’obbligazione del lavoratore
subordinato quanto all’obbligazione del lavoratore autonomo, mentre l’elemento
differenziale è dato proprio dall’assenza del vincolo della subordinazione, per cui è diverso
l’oggetto della prestazione: questa nel contratto d’opera è un facere finalizzato al
compimento di un’opera o di un servizio con l’attività prevalentemente personale del
lavoratore; viceversa nel lavoro subordinato il facere è finalizzato alla collaborazione e cioè
all’utilizzazione dell’attività del debitore, il quale è obbligato a mettere le proprie energie o
opere a disposizione del creditore e della sua organizzazione.

8. I contratti di lavoro autonomo: il contratto d’opera.

La finalizzazione al risultato dell’opera finita è il connotato tipico che contraddistingue la


categoria dei contratti di lavoro autonomo. Tale categoria comprende oltre al contratto
d’opera previsto dall’art.2222 quale fattispecie generica e residuale, altre 4 figure
fondamentali: 1) l’appalto art.1655, nel quale si ha la prestazione di un servizio o un’opera
da eseguirsi con organizzazione di mezzi e gestione a rischio dell’appaltatore; 2) il trasporto
art.1678; 3) il deposito generico art.1776; 4) il mandato art.1703, e le sue sottospecie:
commissione, spedizione e agenzia. In tutte le ipotesi di lavoro autonomo la prestazione
tende al risultato dell’opera finita ossia al risultato economico dell’attività organizzata dal
debitore stesso, mentre nel lavoro subordinato il risultato è costituito dall’attività del
debitore in sé stessa e come tale messa a disposizione dell’organizzazione del creditore.
Aggiungiamo, poi, che il committente può stabilire nel contratto le condizione per
l’esecuzione dell’opera pattuita, fissando unilateralmente il termine entro il quale il
prestatore è tenuto a conformarsi a esse. Carattere comune delle obbligazioni di lavoro
autonomo è la coesistenza dell’ingerenza o direzione del committente con l’esecuzione
dell’opera a rischio del prestatore il quale è dunque obbligato al risultato della propria
attività personale o organizzata: diversamente dal lavoratore subordinato che è obbligato
ad una mera attività alle dipendenze del datore, il lavoratore autonomo può essere
vincolato alla direzione ma non può essere alle dipendenze del committente.

9. La causa del contratto: la collaborazione e la sua relazione di scambio con


la retribuzione.

Si deve premettere che la causa è l’elemento del contratto che ne individua la funzione
economica e quindi l’interesse meritevole di tutela concretamente perseguito dalla volontà
delle parti. Nel contratto di lavoro subordinato, la causa del contratto è individuata dal
legislatore nello scambio tra le obbligazioni del prestatore e del datore di lavoro, quindi tra
la collaborazione e la retribuzione. L’elemento oggettivo è dunque rappresentato non dalla
subordinazione ma dalla collaborazione; la subordinazione invece è l’effetto giuridico
essenziale del contratto. Questa sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore al

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risultato della prestazione. Si tratta del risultato dell’attività prestata dal lavoratore
nell’adempimento della sua obbligazione. Perciò, essa funge da criterio di valutazione del
comportamento che il prestatore ed il datore di lavoro devono tenere in osservanza del
generale dovere di correttezza che vincola creditore e debitore nell’attuazione di qualsiasi
rapporto obbligatorio. Si può pertanto parlare da un lato di collaborazione del creditore
come cooperazione all’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore del lavoro; e
dall’altro di collaborazione del debitore come obbligo di conformare l’esecuzione della
prestazione alle concrete e variabili esigenze dell’organizzazione produttiva. Quindi la
collaborazione nell’impresa, si configura come lo scopo tipico della prestazione e quindi
con la stessa causa identificatrice del tipo negoziale del contratto di lavoro subordinato.

10. La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro come


aspetto essenziale della collaborazione

Proprio nella continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro verso il datore,
si rinviene l’elemento essenziale che individua il vincolo della subordinazione tecnico-
funzionale. La subordinazione presenta in forme variabili e anche molto diverse secondo i
differenti contesti organizzativi e produttivi: si va dalla etero direzione o controllo
gerarchico al coordinamento soltanto funzionale sull’attività del prestatore di lavoro. La
figura del prestatore eterodiretto all’interno della fabbrica taylorista-fordista non è più
l’unico referente ma lascia spazio ad una pluralità di figure sociali e professionali originate
dalla diffusione dei nuovi tipi di lavoro e di nuove forme organizzative di collaborazione
nell’impresa. In conclusione intesa come disponibilità al coordinamento della prestazione
nello spazio e nel tempo, la continuità qualifica la subordinazione come dipendenza dal
controllo dell’imprenditore (etero direzione) e si distingue dall’esecuzione continuata o
periodica della prestazione, ossia il semplice distribuirsi nel tempo dell’adempimento
dell’obbligazione. La disponibilità si deve intendere in senso non materiale, ma ideale come
disponibilità funzionale del prestatore all’impresa altrui. La disponibilità si identifica in
concreto con la persistenza nel tempo dell’obbligo primario di prestazione e degli obblighi
secondari che lo integrano, e da essa discende che il prestatore di lavoro subordinato resta
obbligato, e quindi idealmente alle dipendenze del datore di lavoro, anche durante le pause
interruttive dell’esecuzione (intervalli giornalieri, riposi, ferie).

11. Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenza

In giurisprudenza la subordinazione si concretizza nell’etero direzione ossia nella


sottoposizione del prestatore al potere di direzione del datore di lavoro, mentre la
collaborazione si concretizza nella disponibilità delle energie lavorative messe al servizio
dell’imprenditore e rese in modo tale da inserire la relativa prestazione nell’organizzazione
aziendale. La giurisprudenza individua 4 requisiti come elementi costitutivi del rapporto
di lavoro subordinato: onerosità, collaborazione, continuità e subordinazione; l’oggetto
della prestazione non è il risultato prodotto dal lavoratore ma l’applicazione delle energie
lavorative; la collaborazione è intesa come inserzione del lavoratore nell’organizzazione
produttiva dell’impresa; la continuità è la durata nel tempo del vincolo di disponibilità
funzionale del lavoratore all’impresa; il rischio dell’attività lavorativa incide sul datore di
lavoro. Questi criteri di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato tuttavia non sono

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sufficienti, la loro applicazione infatti viene integrata dalla giurisprudenza mediante


l’utilizzazione di una molteplicità di criteri o cd. indici empirici. In particolare, secondo la
Cassazione, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo è
fondamentale l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e
disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca nell’emanazione di ordini specifici,
nell’attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione e che deve essere
concretamente apprezzato con riferimento alla specificità dell’incarico conferito al
lavoratore. Da tale assoggettamento deriva una limitazione dell’autonomia del lavoratore
ed il suo inserimento nell’organizzazione aziendale. Inoltre, in seguito all’evolversi dei
sistemi di organizzazione del lavoro, l’indice determinante è rappresentato dall’assunzione
per contratto dell’obbligazione di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie
lavorative e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive impartite
dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione di lavoro.

12. La dottrina della subordinazione come situazione di soggezione socio-


economica: critica.

La subordinazione va ricostruita quale situazione soggettiva tipica del contratto


individuale di lavoro ed emergente dal suo interno. Non si può condividere l’indirizzo
dottrinale che configura la subordinazione non come vincolo obbligatorio nascente dal
contratto ma come un presupposto economico-sociale del rapporto, derivante dalla
situazione di debolezza contrattuale del lavoratore. In questo ordine di idee, tale situazione
di inferiorità contraddistingue la posizione del lavoratore non soltanto nel rapporto, ma
anche nel mercato; e si presenta all’interno del rapporto come alienazione del lavoratore
rispetto al risultato e all’organizzazione del lavoro. Questa dottrina non può essere
condivisa; infatti non vi è coincidenza tra subordinazione e condizione di alienazione
rispetto alla proprietà o controllo dei mezzi di produzione. Ciò è confermato dalla
constatazione che una simile situazione di c.d. dipendenza economica può essere assente
nel rapporto di lavoro tutte le volte che il prestatore sia fornito di adeguata forza
contrattuale; invece, essa può ricorrere quando una prestazione lavorativa sia dedotta in
un rapporto di lavoro diverso da quello subordinato. In conclusione se si può ammettere
che la posizione di inferiorità economica del lavoratore ne condizioni l’autonomia
contrattuale, tale effetto condizionante non è sempre generatore di disuguaglianza effettiva
in quanto non è omogeneamente distribuito all’interno della classe dei lavoratori; ed in
ogni caso non è sufficiente a privare il contratto della sua funzione regolamentare del
rapporto.

13. La collaborazione come inserzione del lavoratore subordinato


nell’azienda e come connotato del lavoro autonomo coordinato e continuativo
( c.d. para-subordinazione).

La collaborazione del prestatore nell’impresa qualifica la subordinazione come vincolo


finalizzato all’obbiettivo dell’organizzazione del lavoro sotto il controllo e la responsabilità
dell’imprenditore e funge da criterio per l’identificazione della causa del contratto. Per
qualificare il rapporto di lavoro occorre verificare se sia o meno sussistente il requisito della
continuità come situazione di dipendenza funzionale alla collaborazione nell’impresa se si

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può convenire in linea generale che l’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale
un sicuro indici presuntivo della sussistenza della collaborazione non si può dire che tale
presunzione abbia valore assoluti e che collaborazione e subordinazione siano la
necessaria conseguenza dell’inserimento nell’azienda e del vincolo dell’orario di lavoro. In
particolare, si pensi al contratto di agenzia nel quale l’agente assume stabilmente l’incarico
di promuovere la conclusione di contratti o affari nell’interesse del preponente. L’art. 409
c.c.p. ha previsto l’equiparazione di lavoro subordinato -limitatamente alla disciplina
processuale- di talune categorie di rapporti di lavoro autonomo nonché in genere degli altri
rapporti di collaborazione i quali si concretino in una prestazione d’opera prevalentemente
personale continuativa e coordinata ma senza vincolo di subordinazione. In questo modo
il legislatore ha riconosciuto che la collaborazione e quindi l’inserzione del lavoratore
nell’impresa è un elemento tipico ma non esclusivo del lavoro subordinato ed ha
confermato i connotati della collaborazione nel suo significato oggettivo di attività
lavorativa continuativa e coordinata prestata nell’interesse del creditore (datore di lavoro
oppure committente). La possibilità che la prestazione di un’attività continuativa è
coordinata verso un committente possa conferire anche al contratto di lavoro autonomo
una funzione di collaborazione analoga a quella prevista per il lavoro subordinato è stata
riconosciuta dal legislatore proprio come elemento di atipicità- che la volontà delle parti
può introdurre nei contratti di lavoro autonomo e in particolare, nel contratto d’opera e di
assi miliziano al rapporto di lavoro subordinato. L’assimilazione tuttavia solo parziale
perché il lavoro autonomo resta al di fuori della disciplina e delle tutele tipiche del lavoro
subordinato. Tale interesse nel lavoro coordinato, ma non subordinato (c.d.
parasubordinato), si può dire continuativo sul piano della reiterazione nel tempo delle
singole prestazioni di risultato, non sul piano della programmazione o coordinamento nello
spazio e nel tempo dell’attività e quindi delle disponibilità del lavoratore. E infatti nella
prestazione d’opera coordinata e continuativa, il lavoratore non è vincolato a tenersi a
disposizione del committente benché la sua attività sia collegata stabilmente al ciclo
produttivo e quindi inserita nell’azienda. in simili casi, gli elementi della continuità e della
dipendenza economica del prestatore d’opera verso il committente, finiscono spesso con l
sovrapporsi, avvicinando nella realtà sociale i due tipi legali della locatio operis e della
locatio operarum. Nell’area delle prestazioni flessibili nel tempo e nel risalutato del lavoro
alla tradizionale separazione tra questi due modelli contrattuali si costituisce un
continuum tra le diverse forme di organizzazione del lavoro dipendente e indipendente.

15. La tutela del lavoratore autonomo.

Il legislatore, già nel 2003, con la c.d. Riforma Biagi, ha introdotto uno statuto protettivo
(solo del lavoro parasubordinato), apprestando tutele in suo favore non solo in ambito
previdenziale ma anche all’interno del rapporto di lavoro. L’abrogazione del 2015 di tale
apparato normativo travolto dall’eliminazione della collaborazione a progetto, con il ritorno
alle collaborazioni coordinate e continuative ha determinato la necessità di predisporre un
nuovo apparato di tutele. Di qui il recente intervento legislativo del 2017 con la l. n. 81,
che, oltre a disciplinare nel capo II il lavoro agile ha introdotto nel capo I la tutela del lavoro
autonomo. La stessa si applica al contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c. e agli altri
rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo 3 del libro V del codice civile con l’esclusione
degli imprenditori. La disciplina opera su tre piani apprestando una tutela del lavoratore
autonomo sul piano del rapporto, nel mercato e a livello previdenziale. Al primo profilo

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(tutela nel rapporto), è riconducibile l’estensione anche alle transazioni commerciali tra
lavoratori autonomi e imprese, lavoratori autonomi e amministrazioni pubbliche o tra
lavoratori autonomi, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il lavoratore
autonomo riceve tutela nel caso di clausole e condotte abusive, e cioè in caso di modifica
unilaterale delle condizioni contrattuali o di contratto aventi ad oggetto una prestazione
continuativa di recesso senza congruo preavviso. Oltre alla inefficacia delle clausole e delle
condotte abusive prevede il diritto al risarcimento dei danni anche promuovendo un
tentativo di conciliazione mediante gli organi abilitati. Infine, i lavoratori autonomi ricevono
tutela nel caso di apporti originali e invenzioni, salvo che ciò non corrisponda all’oggetto
del contratto. Decisamente innovativa è la tutela del lavoratore autonomo nel mercato,
funzionale a questo ultimo obiettivo è il rafforzamento della formazione permanente
prevedendosi, entro determinati limiti, la deducibilità delle spese di formazione. Inoltre, si
favorisce l’accesso alle informazioni e ai servizi personalizzati e di orientamento, con la
costituzione di uno sportello dedicato ai lavoratori autonomi presso i centri per l’impiego.
Infine, sono previste misure previdenziali, tra le quali v’è la stabilizzazione e l’estensione
dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata
e continuativa. In caso di gravidanza, malattia, infortunio del lavoratore autonomo che
presti la sua attività in via continuativa non vi è estensione, ma sospensione del rapporto
nel caso di richiesta del lavoratore per 150 giorni per anno solare, fatto salvo il venir meno
dell’interesse del committente. Un pacchetto di disposizioni è dedicato al lavoro libero
professionale, pur se si tratta di deleghe al governo in materia di atti pubblici rimessi alle
professioni organizzate in organi o collegi, di sicurezza e professione sociale dei
professionisti e di tutela di salute e sicurezza degli studi professionali. Il monitoraggio
dell’efficacia e dell’effettività delle tutele è affidato al ministero del lavoro.

17. L’utilità e l’attuale significato della distinzione tra lavoro subordinato e


lavoro autonomo: gli effetti diretti ed indiretti del rapporto di lavoro
subordinato.

A questo punto può essere utile interrogarsi sull’attuale significato della tradizionale
distinzione tra locatio operis e locatio operarum quale riemerge dalla contrapposizione del
contratto di lavoro autonomo anche continuativo e coordinato, rispetto al contratto di
lavoro subordinato. Si tratta di delimitare l’ambito della disciplina di due contratti la cui
funzione economica e sociale è diversa e che hanno una regolamentazione molto
differenziata la fattispecie autonoma e quella subordinata. Sotto la spinta delle istanze
politiche e sindacali che hanno sollecitato l’intervento del legislatore sul bisogno di
sicurezza e di libertà dei lavoratori subordinati, si è pervenuti all’istaurazione e
all’espansione di una vasta e complessa disciplina protettiva della classe lavoratrice, ai cui
fini molto ampi rileva appunto la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato. In tale
contesto la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato e il presupposto per
l’applicazione e prima ancora per l’identificazione dello statuto protettivo del lavorsore
subordinato si comprende come il lavoratore abbia interesse ad agire anche sul piano
giudiziario per domandare il riconoscimento del vincolo della subordinazione, dal quale
discende tutta una serie di effetti diretti e indiretti. Sono diretti gli effetti che incidono sul
contenuto del rapporto e perciò sul regolamento contrattuale, ad es. le condizioni della
prestazione e della remunerazione del lavoro; sono invece indiretti gli effetti che incidono
sui presupposti e sulle conseguenze della costituzione del rapporto di lavoro, e che danno

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luogo ad una serie di situazioni soggettive esterne di rilevanza previdenziale,


amministrativa e penale (come avviene per la sicurezza del lavoro).

18. Il rapporto di previdenza sociale. L’attuale sistema previdenziale.

Tra i più importanti effetti indiretti derivanti dalla costituzione del rapporto di lavoro
subordinato vi è la costituzione obbligatoria del cd. rapporto di previdenza sociale, che
intercorre tra i due soggetti del rapporto di lavoro e gli enti previdenziali. Inizialmente,
traendo spunto dalla norma del c.c. del 1865 che stabiliva la presunzione assoluta di colpa
dell’imprenditore nei confronti dei terzi per il fatto dei propri dipendenti, la dottrina aveva
elaborato una costruzione teorica in base alla quale anche il rischio degli infortuni sul
lavoro doveva gravare necessariamente sull’imprenditore a titolo di responsabilità
oggettiva. Tenuto conto della scarsa efficacia pratica dello strumento della responsabilità
oggettiva si è fatto ricorso all’istituto dell’assicurazione obbligatoria, che ha realizzato di
fatto la traslazione del rischio professionale in capo ad un istituto assicurativo (dapprima
privato, poi di diritto pubblico): in virtù di tale meccanismo l’imprenditore viene dunque
esonerato dalla responsabilità civile in cambio del versamento di un premio assicurativo
che si aggiunge alla retribuzione (salario previdenziale). Il medesimo sistema assicurativo
è stato in seguito utilizzato per far fronte ad altre situazioni di bisogno collegabili alla
posizione di sotto-protezione del lavoratore nella società (rischio sociale), con contribuzione
posta anche a carico dei lavoratori, benché in misura minore. I contributi sono dunque
posti a carico sia dell’imprenditore che dei lavoratori, secondo la regola generale contenuta
nell’art. 2151 c.c.; tuttavia la loro ripartizione è stabilita oggi in misura prevalente o
esclusiva a carico del datore di lavoro. Inoltre, secondo l’art.2116 vige il principio
dell’automaticità delle prestazioni, ossia le prestazioni sono dovute dall’istituto
assicuratore in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal
concreto versamento dei contributi da parte dell’imprenditore. Fanno eccezione le pensioni
di vecchiaia, per le quali tale principio opera entro i limiti della prescrizione
dell’obbligazione contributiva: per cui qualora, a causa del mancato versamento dei
contributi da parte del datore di lavoro, gli stessi siano prescritti ed il lavoratore non
consegua il diritto al trattamento previdenziale o ottenga un trattamento inferiore, questi
ha diritto al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro. Nella fase attuale le
assicurazioni sociali intervengo a garanzia del reddito del lavoratore tutte le volte che la
sua capacità di lavoro e quindi di guadagno sia menomata in conseguenza di eventi
collegati non solo agli infortuni sul lavoro ed alle malattie professionali ma anche alla
malattia comune, alla maternità, all’invalidità, e alla morte (a beneficio dei superstiti). Alla
base dell’intervento vi è la valutazione della situazione di bisogno in cui versa il lavoratore
o la sua famiglia e la conseguente erogazione di prestazioni economiche rivolte a
indennizzarlo in misura variabile della perdita della retribuzione, oppure a sostituire,
attraverso la erogazione delle pensioni di invalidità, di vecchiaia e ai superstiti, la
retribuzione stessa quando l’inattività abbia carattere definitivo.

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19. Le pensioni di anzianità e vecchiaia. La c.d. tendenza espansiva del


diritto del lavoro.

Per quanto riguarda le pensioni di anzianità e vecchiaia, nel 1968 era stata introdotta la
cd. pensione retributiva, la cui misura era calcolata in percentuale alle retribuzioni
corrisposte negli ultimi 5anni del periodo lavorativo, poi esteso a 10: tale sistema tuttavia
è entrato in crisi nel corso degli anni soprattutto a causa dell’invecchiamento della
popolazione. Ciò ha condotto alla revisione dell’intera materia avvenuta nel 1995 (L.
335/95), sostituendo il sistema retributivo di calcolo dei trattamenti pensionistici con un
sistema cd. contributivo a ripartizione: tale sistema assicura un trattamento pensionistico
calcolato sull’ammontare dei contributi versati nel corso della vita lavorativa, salvi alcuni
correttivi che tendono ad assicurare una maggiore equità sociale. Tale principio di
solidarietà sociale tende ad attribuire un trattamento previdenziale anche ai lavoratori
autonomi e ai piccoli imprenditori: e a tale proposito si parla di tendenza espansiva del
diritto del lavoro, intendendo con ciò una tendenza sempre più ampia verso la protezione
del lavoratore in generale, indipendentemente dall’esistenza o meno di un rapporto di
lavoro subordinato. Il sistema pensionistico è stato da ultimo riformato ad opera del D.L.
201/2011 convertito nella L. 214/2011. Il provvedimento è finalizzato a garantire il rispetto
degli impegni con l’UE e la stabilità economico-finanziaria. Tali finalità sono perseguite
attraverso l’estensione a tutti i lavoratori del sistema del calcolo contributivo (con
riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1/01/2012) e attraverso
la revisione dei requisiti di accesso alle pensioni, incentrata sull’inasprimento del requisito
anagrafico minimo di accesso alla pensione di vecchiaia e del requisito di anzianità
contributiva per la pensione anticipata, entrambi agganciati agli incrementi della speranza
di vita. Un’ anticipazione del trattamento pensionistico è possibile attraverso la c.d. A.PE
introdotta dalla l. n. 232/2016. Se la legge di riforma delle pensioni ha introdotto un
sistema più vicino a quello assicurativo, per quanto attiene ai meccanismi di calcolo delle
pensioni di vecchiaia, l’insieme dei trattamenti previdenziali si può dire ancora ispirato al
concetto di sicurezza sociale e fondato sulla solidarietà sociale. Proprio l’utilizzazione del
concetto di sicurezza sociale spiega la tendenza ad attribuire un trattamento previdenziale
anche ai lavoratori autonomi e ai piccoli imprenditori. Una tendenza sempre più ampia
verso la protezione del lavoratore in generale, indipendentemente dall’esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato o autonomo. Perseguendo obiettivi di sicurezza sociale,
alcune forme di previdenza che in origine erano esclusive della tutela del lavoratore
subordinario vengono estese ad altre categorie di cittadini considerate come categorie
socialmente sotto protette. La protezione dai rischi sociali è un fenomeno che concerne
tutti coloro che traggono la fonte di reddito dal proprio lavoro anche autonomo e in tale
solco si colloca la stabilizzazione ed estensione dell’indennità di disoccupazione per i
lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Ciò non può cancellare
le differenze tra i due tipi di tutela previdenziale: soltanto nel lavoro subordinato si ha la
traslazione del rischio sociale dal prestatore al datore e il rapporto previdenziale si può
configurare quale effetto indiretto del contratto. In non poche ipotesi il lavoratore
autonomo può essere a sua volta datore di lavoro, dato che il contratto d’opera può essere
eseguito con lavoro anche solo prevalentemente proprio e perciò in una certa misura con
l’apporto di altri prestatori.

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CAP. 3 – AUTONOMIA PRIVATA E RAPPORTO DI LAVORO.


LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO
SEZ. A: Autonomia privata e rapporto di lavoro
1. Contratto e rapporto di lavoro.

Nella disciplina dettata dal Codice civile il profilo del rapporto prevale su quello del
contratto di lavoro subordinato per 2 motivi:

• in primo luogo perché la fonte contrattuale generata dall’accordo delle parti viene
compressa da una serie di limiti convenzionali (provenienti dall’autonomia collettiva);

• in secondo luogo perché la legge interviene sull’attuazione del rapporto.

Infatti la legge impone tutta una serie di limitazioni al contenuto del contratto e ai
comportamenti delle parti nella esecuzione dello stesso. In tal senso la legge e la
contrattazione collettiva intervengono per stabilire il contenuto di non poche clausole
negoziali inerenti al rapporto tra datore e prestatore di lavoro: ad esempio per la
determinazione della durata oppure delle mansioni e qualifiche. Lo stesso si deve dire per
la retribuzione, la cui determinazione è rimessa all’iniziativa del datore di lavoro soltanto
entro i limiti fissati dai contratti collettivi. In definitiva, la legge disciplina il rapporto nel
suo svolgimento effettuale, mentre l’accordo delle parti viene compresso da una serie di
limiti, legali e convenzionali. Si tratta però di un’inversione di prospettiva spiegabile come
riflesso della preminenza che la legge attribuisce al momento dell’esecuzione rispetto a
quello della programmazione dell’attività delle parti e quindi delle rispettive obbligazioni.
Tale preminenza affonda le sue radici nella tutela della posizione contrattuale e, più in là,
nella implicazione della persona del prestatore nel rapporto di lavoro.

2. La fonte contrattuale del rapporto di lavoro.

Secondo l’art. 1321 c.c. il contratto è l’accordo fra due o più parti per mezzo del quale si
costituisce un rapporto giuridico patrimoniale, se ne disciplina la struttura e se ne
regolano gli effetti. Seguendo tale definizione potrebbero sorgere dubbi circa la natura
contrattuale del rapporto di lavoro, il cui contenuto è determinato in grandissima misura
dalla legge e dai contratti collettivi. Tuttavia queste considerazioni non possono portare
alla conclusione dell’a-contrattualità del rapporto di lavoro, in quanto la disciplina del
rapporto di lavoro è inderogabile ma non ha natura strettamente imperativa e può essere
derogata dall’autonomia privata, anche se soltanto con disposizioni di favore per il
lavoratore. La fonte del rapporto di lavoro non può che essere il contratto, anche nelle
ipotesi di rapporti costituiti coattivamente (assunzioni obbligatorie), infatti anche in questi
casi eccezionali pur se la conclusione del contratto è imposta dalla legge non può dirsi che
manchi il titolo contrattuale. Ciò si desume, tra l’altro, proprio dalla vigente disciplina delle
assunzioni obbligatorie, la quale prevede l’imposizione a carico dell’imprenditore di un
obbligo a stipulare un contratto con il prestatore di lavoro avviato dagli uffici competenti.

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3. L’inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla legge.

Nel rapporto di lavoro subordinato i limiti imposti all’autonomia negoziale mirano a


realizzare l’effetto dell’inderogabilità del regolamento contrattuale. Se le parti contraenti
predispongono clausole contrarie alle norme imperative di legge, tali clausole sono nulle e
vengono sostituite di diritto dalle stesse norme imperative, ai sensi dell’art. 1419 c.c.
All’effetto della nullità quindi si accompagna quello ulteriore della sostituzione legale. Al
meccanismo della sostituzione legale si affianca inoltre quello della inserzione automatica
(art. 1339) nel contratto dei precetti di legge. Tale disciplina imperativa legale è
caratterizzata dall’unilateralità o flessibilità verso l’alto che le deriva dalla validità dei patti
più favorevoli al prestatore (inderogabilità in peius) introdotti dall’autonomia individuale o
collettiva. La compressione dell’autonomia contrattuale nei limiti della funzione genetica
del rapporto, e la riduzione della sua funziona regolamentare nei limiti segnati dalla legge
e dai contratti collettivi non escludono, la legittimità di patti o condizioni più favorevoli al
lavoratore. Merita di essere ricordata la Convenzione di Roma del 19 Giugno 1980 sulla
legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Con riferimento a questo contratto, la
convenzione prevede che in caso di mancanza di scelta delle parti contraenti esso sia
regolato:

a) Dalla legge del paese in cui il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro anche se
è inviato contemporaneamente in altro paese;
b) Dalla legge del paese in cui si trova la sede che ha proceduto all’assunzione del
lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso
paese. Le parti, per altro, sono libere di decidere diversamente la legge regolatrice
del contratto.

4. Autonomia privata e tipo contrattuale.

La prevalenza del momento attuativo del rapporto sul momento dichiarativo dell’accordo
(c.d. volontà cartolare) è conseguenza di 2 aspetti:

• della compressione dell’autonomia individuale quale fonte regolatrice del rapporto di


lavoro rispetto alle fonti ad essa sovraordinate (legge e contratto collettivo);

• della disciplina dello statuto protettivo del lavoratore come contraente debole. D’altra
parte, come ha confermato la Corte costituzionale, i principi dell’inderogabilità e della
eteronomia della tutela del lavoro subordinato hanno rango costituzionale e dunque non
può essere consentito all’autonomia contrattuale di autorizzare le parti ad escludere
direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della
disciplina inderogabile. Quindi il contratto di lavoro sembra distaccarsi dal modello
civilistico del contratto come regolamento di interessi dominato dalla libertà contrattuale
e quindi dalla volontà delle parti. Di qui l’esigenza di orientare l’indagine rivolta
all’interpretazione e alla successiva qualificazione del rapporto di lavoro al comportamento
tenuto dai contraenti anche posteriore alla conclusione del contratto. Sul piano
dell’interpretazione e della qualificazione del contratto, ciò implica che, in linea di principio
la qualificazione attribuita dall’accordo delle parti (il nomen iuris) non ha valore
determinante rispetto al contenuto effettivo del rapporto. La prevalenza del momento
attuativo del rapporto è la conseguenza della compressine dell’autonomia individuale quale
fonte regolatrice del rapporto di lavoro rispetto alle fonti ad essa sovraordinate: di qui il

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collegamento tra il tipo legale del contratto e la disciplina imperativo del rapporto o statuto
protettivo del lavoratore come persona e come contraente debole. La Corte ha dapprima
puntualizzato come i principi della inderogabilità e della eteronomia della tutela del lavoro
subordinato abbiano rango costituzionale e dunque, non può essere consentito
all’autonomia contrattuale di autorizzare le parti ad escludere direttamente o
indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina
inderogabile. La subordinazione in senso stretto, peculiare del rapporto di lavoro, è un
concetto più pregnante e insieme qualitativamente diverso dalla subordinazione
riscontrabile in altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle parti. La
differenza è determinata dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano
mai congiunti l’alienità del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è
utilizzata e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce.
Quando è integrata da queste due condizioni (c.d. doppia alienità), la subordinazione
comporta l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva
sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo, essendo costituita per uno scopo
in ordine al quale egli non ha alcun interesse giuridicamente tutelato.

5. Il principio del favor.

Il principio dell’inderogabilità del regolamento contrattuale ha la funzione di proteggere


l’interesse del lavoratore. A questo principio si aggiunge anche il c.d. principio del favor,
che sancisce la prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore, lasciando
all’autonomia privata individuale soltanto la possibilità di stabilire patti o clausole
migliorativi dei trattamenti normativi ed economici fissati dai contratti collettivi (è questo
il caso tra gli altri, dei c.d. usi aziendali). Un ridimensionamento di questi principi si può
tuttavia ravvisare nella c.d. legislazione della flessibilità, la quale consente all’autonomia
collettiva di introdurre modifiche sfavorevoli in funzione delle esigenze della impresa e
dell’occupazione. In definitiva, l’efficacia inderogabile della disciplina del contratto di lavoro
opera attraverso il meccanismo della sostituzione legale delle clausole difformi.
Diversamente dagli altri contratti, in quello di lavoro subordinato la nullità si presenta
finalizzata all’effettività della tutela dell’interesse del prestatore di lavoro al trattamento
economico.

6. L’art. 2126 c.c. e la c.d. inefficacia dell’invalidità del contratto.

L’invalidità del contratto di lavoro (generalmente sancita nella specie della nullità) è l’effetto
dell’inosservanza di limiti legali imposti all’autonomia negoziale dei privati nella
determinazione del contenuto del contratto. In tema di annullamento del contratto, l’art.
21261 dispone che “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetti
per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione”. La norma sancisce quindi
l’irretroattività delle vicende tendenti all’eliminazione del negozio invalido: tale
irretroattività, estesa anche alla nullità, comporta l’efficacia del regolamento di interessi
determinato dal contratto invalido limitatamente al periodo di esecuzione del rapporto.
Dall’esecuzione del contratto invalido (prestazione di fatto) deriva non la costituzione del
rapporto di lavoro ma solo la conservazione degli effetti del rapporto posto in essere in
attuazione del contratto. Inoltre lo stesso art. 2126 esclude però la conservazione degli
effetti del contratto invalido quando si sia in presenza di nullità derivante da illiceità

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dell’oggetto o della causa: il contratto relativo a prestazioni lavorative proibite da norme


imperative di legge o contrarie all’ordine pubblico o al buon costume sarà dunque
assolutamente inefficace. Al di fuori di questi casi, in tutte le altre ipotesi di annullamento
e nullità previste dall’art. 1418, l’invalidità sarà temporaneamente inefficace e dal rapporto
sorgeranno valide obbligazioni, dunque il prestatore sarà vincolato alla subordinazione e
il datore alla retribuzione. La regola dell’inefficacia dell’invalidità è rafforzata dalla esplicita
disposizione del 2126 secondo cui, quando l’invalidità sia conseguenza della violazione di
norme protettive del lavoratore, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione. La
conservazione degli effetti del contratto invalido ha una funzione di garanzia dei diritti del
prestatore di lavoro non dissimile da quella propria dell’inderogabilità del regolamento del
rapporto e della sostituzione legale del suo contenuto che comporta la conservazione del
negozio. Tutto questo conferma come nei casi di invalidità del contratto di lavoro, la
sostituzione automatica degli effetti legali a quelli voluti sia finalizzata all’inderogabilità del
regolamento contrattuale e all’adeguamento di questo ultimo agli standards legali di
protezione del lavoratore. Tali standards sono da identificare, essenzialmente, con i diritti
riconosciuti dalla disciplina del trattamento minimo e garantiti dall’art. 2126 c.c. sul piano
dell’effettività della tutela degli interessi del lavoratore.

SEZ. B: La formazione del contratto di lavoro


7. La capacità del prestatore di lavoro.

Fra i presupposti del contratto di lavoro rileva la capacità dei soggetti stipulanti ai fini
della valida costituzione del rapporto. La comune nozione di capacità giuridica si identifica
nell’idoneità del soggetto ad essere titolare di diritti e doveri. Per le persone fisiche la
capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Accanto a tale nozione si colloca
quella di capacità giuridica speciale, intesa come idoneità del soggetto ad essere titolare di
una particolare situazione soggettiva. La capacità di prestare lavoro e quindi la
legittimazione soggettiva del prestatore alla titolarità del rapporto di lavoro, dipende
dall’attitudine fisiologica della persona all’esecuzione della prestazione. Questa attitudine
si configura quindi come presupposto essenziale della capacità personale del lavoratore.
Soltanto le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo
ponendo in essere i relativi negozi. Inoltre, alla capacità giuridica e di agire in materia di
lavoro si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità delle persone fisiche,
per l’incapacità legale e naturale ad agire. Il minore acquisisce la capacità di stipulare il
contratto di lavoro alla stessa età prevista dalle disposizioni speciali in tema di capacità di
prestare il proprio lavoro, età inferiore rispetto a quella fissata per la capacità di agire in
generale (art. 2 c.c.). L’età minima di ammissione al lavoro è fissata dalla legge al momento
in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione scolastica obbligatoria, comunque non
inferiore ai 15 anni di età. Questa disposizione va coordinata con la norma che impone un
periodo di studi obbligatorio per almeno 10 anni e sancisce che l’età per l’accesso al lavoro
è elevata dai 15 ai 16 anni. Sul limite minimo di età per l’accesso al lavoro il legislatore ha
previsto due deroghe, in forza della prima, il minore, previa autorizzazione scritta della
direzione provinciale del lavoro e con il consenso dei titolari della potestà parentale, può
essere impiegato anche in età inferiore in attività culturali, artistiche ecc, fatto salvo
comunque l’obbligo scolastico. La seconda deroga riguarda l’apprendistato, in quanto il d.
lgs. N. 81/2015 ha previsto la possibilità di assumere con il contratto di apprendistato per

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la qualifica e per il diploma professionale soggetti che abbiano compiuto 15 anni. Non vi è
spazio per l’intervento del genitore o di qualunque altro rappresentante legale nella
stipulazione del contratto, salvo che nei casi in cui questo sia espressamente previsto da
norme speciali. La speciale capacità in materia di lavoro subordinato implica, dunque, la
libertà di esercitare il mestiere o la professione e in definitiva, di scegliere l’occupazione
preferita.

8. La c.d. spersonalizzazione dell’imprenditore ed il principio della


continuità dell’impresa. L’infungibilità della prestazione di lavoro.

Per quanto riguarda la figura del datore di lavoro, non sono previsti requisiti soggettivi
speciali e si applicano senza eccezioni le norme dettate per la capacità giuridica e di agire
della generalità dei soggetti, tanto persone fisiche che giuridiche, tanto private che
pubbliche. Si tende tuttavia a differenziare in questo contesto la posizione legislativa
dell’imprenditore da quella degli altri datori di lavoro, titolari di attività organizzate ai fini
non lucrativi. Questo perché si impongono una serie di obblighi e limiti soltanto al datore-
imprenditore, in ragione dell’articolazione di un complesso di particolari normative per la
tutela individuale e collettiva del lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa
soprattutto media o grande. La qualità dell’imprenditore viene in rilievo anche sotto il
profilo della spersonalizzazione dell’imprenditore. Innanzitutto al lavoro subordinato si
applica l’art.1330 in virtù del quale la proposta o l’accettazione provenienti da un
imprenditore restano ferme anche in caso di morte o sopravvenuta incapacità prima della
conclusione del contratto; lo stesso principio della continuità dell’impresa è alla base dell’
art.2112 per il quale, in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con
il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Per contro, la
spersonalizzazione è da ritenersi esclusa dal lato del lavoratore, in ragione della rilevanza
essenziale della sua persona ai fini dell’esecuzione della prestazione e della costituzione
stessa del rapporto di lavoro. Quindi la considerazione della persona (intuitus personae)
del prestatore comporta l’infungibilità c.d. soggettiva della prestazione (fiducia soggettiva,
quale affidamento del creditore su determinate qualità del debitore della prestazione). La
fiducia c.d. soggettiva, quale affidamento del creditore su determinate qualità soggettive
del debitore, inerendo al rapporto di lavoro sotto il profilo della prestazione e collaborazione
nei confronti del datore del lavoro attiene alla sua esecuzione: si tratta dunque della
affidabilità personale del prestatore all’adempimento dell’obbligazione del lavoro mentre la
c.d. infungibilità soggettiva riguarda piuttosto l’imputazione degli effetti della stessa
obbligazione.

9. Il procedimento di formazione del contratto. Il problema della forma. La


rilevanza del consenso non tanto sul contenuto quanto sulla genesi del
contratto.

Per quanto attiene al procedimento di formazione del contratto di lavoro, la fattispecie non
presenta particolarità rispetto alla normativa generale in tema di formazione del contratto.
Nel contratto di lavoro il problema che si presenta è quello di stabilire in quale momento
può considerarsi intervenuto l’incontro delle volontà idoneo a perfezionarne la conclusione,
ossia quando si verifichi la esatta corrispondenza fra la proposta e l’accettazione. Ciò
avviene mediante l’adesione del lavoratore alla proposta del datore di lavoro e questa

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circostanza vale ad accostare il contratto individuale di lavoro allo schema del contratto di
adesione (art. 1341, rapporti contrattuali cd. di massa). Ma, diversamente dal contratto di
adesione, nel contratto di lavoro la determinazione uniforme non è unilaterale bensì
bilaterale. Tale determinazione è infatti demandata all’autonomia collettiva mentre
all’autonomia individuale compete in via secondaria la determinazione di eventuali
condizioni più favorevoli al lavoratore. Non sono previste particolari modalità di
manifestazione del consenso e vige il principio generale della libertà della forma, e a tale
regola fanno eccezione soltanto il contratto di arruolamento marittimo che deve essere
concluso per atto pubblico e pochi altri contratti per i quali è richiesta la forma scritta (ad
probationem o ad substantiam). Per ciò che riguarda la manifestazione del consenso, lo
svolgimento della prestazione di lavoro può essere ritenuto comportamento concludente ai
fini della prova del contratto e ai fini dell’interpretazione del suo contenuto. Di solito la
proposta di un contratto di lavoro proviene dall’iniziativa del datore ed è formulata o sulla
base di condizioni prefissate da un contratto collettivo o per prassi o sulla base di un’offerta
che il prestatore di lavoro non è in condizione di trattare. Nella formazione del contatto di
lavoro, oggetto del consenso non è tanto il contenuto quanto la stipulazione stessa del
contratto.

10. Adempimenti formali del datore di lavoro.

Il datore di lavoro ha l’obbligo di informare per iscritto il lavoratore circa le principali


condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro, in particolare per ciò che concerne
identità delle parti, luogo di lavoro, data di inizio del rapporto, durata dell’eventuale prova,
qualifica ed inquadramento del lavoratore, trattamento economico e normativo. Tale
obbligo può essere adempiuto, oltre che nell’eventuale contratto scritto, nella lettera di
assunzione o in altro documento da consegnare al lavoratore entro 30 giorni
dall’assunzione. All’atto dell’istaurazione del rapporto e prima dell’inizio dell’attività
di lavoro, i datori di lavoro privati sono tenuti a consegnare ai lavoratori una copia della
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro. L’obbligo si intende assolto anche
se il datore di lavoro consegni al lavoratore prima dell’inizio dell’attività lavorativa, copia
del contratto di lavoro contenente tutte le informazioni previste. Invece, il datore di lavoro
pubblico può assolvere all’obbligo di INFROMAZIONE con la consegna al lavoratore, entro
il 20esimo giorno del mese successivo alla data di assunzione, della copia della
comunicazione di istaurazione del rapporto di lavoro ovvero con la consegna della copia
del contratto individuale di lavoro. I suddetti adempimenti, assicurano la trasparenza e la
correttezza della gestione del personale. In precedenza, il datore di lavoro era obbligato a
tenere una serie di documenti, tra cui in particolare il libro paga e il libro matricola.
Tuttavia i predetti documenti aziendali dal 2008 sono stati sostituiti con il Libro Unico Del
Lavoro, il quale fornisce la “fotografia” dei rapporti di lavoro in corso.

11. Il patto di prova.

Tra gli elementi accidentali del contratto ha notevole rilevanza il patto di prova, per la cui
validità sono previsti precisi requisiti formali. L’art. 20961 prevede la forma scritta ad
substantiam, dunque in mancanza il patto di prova deve considerarsi nullo e l’assunzione
del lavoratore va considerata definitiva. Poiché la prova è evidentemente uno strumento
predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore di lavoro (in quanto serve al

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datore per verificare le attitudini professionali del prestatore), la legge fissa il limite
massimo del periodo di prova a 6 mesi, ma è di regola fissata dai contratti collettivi. La
posi-zione del lavoratore in prova è equiparata a quella derivante dall’ assunzione
definitiva: così ad esempio, in caso di recesso, al lavoratore spettano il t.f.r. e le ferie
retribuite; e in caso di assunzione il servizio prestato durante la prova si computa ai fini
dell’anzianità di servizio.

12. I vizi della volontà nella conclusione del contratto di lavoro. L’attitudine
professionale del lavoratore.

Per quanto riguarda la formazione del consenso, i vizi della volontà che inficiano la volontà
dei contraenti e che sono causa di annullabilità del contratto hanno scarsa rilevanza in
materia lavoristica. Hanno rilievo sicuramente ridotto le ipotesi di violenza morale e dolo,
che sia determinante nel consenso ed essenziale alla conclusione del contratto. D’altra
parte essendo piuttosto difficile configurare in concreto ipotesi di errore essenziale sull’
oggetto o, in generale, sul contenuto del contratto di lavoro, l’ipotesi principale resta quella
che si verifichi un errore essenziale e riconoscibile sulla persona del prestatore, essendo il
rapporto di lavoro configurabile come intuitus personae, e cioè strettamente connesso alla
considerazione soggettiva della persona. Invece, nei casi in cui il contratto di lavoro sia un
tipico rapporto di serie, caratterizzato da una determinazione soltanto generica delle
qualità rilevanti ai fini della selezione dei lavoratori da assumere, diventano piuttosto
ristretti i margini della possibile rilevanza dell’errore essenziale. Più raro o addirittura
eccezionale si presenta il caso in cui decisiva sia la considerazione soggettiva della persona
del datore di lavoro: si pensi ad una organizzazione c.d. di tendenza. In sintesi si può dire
che la considerazione soggettiva della persona del lavoratore è un elemento essenziale del
contratto di lavoro. Tuttavia le qualità personali e professionali del lavoratore vengono
normalmente verificate attraverso l’esecuzione del contratto e solo eccezionalmente, la loro
considerazione può essere motivo di impugnativa per errore. Si consideri, poi, che la
coincidenza tra le attitudini professionali necessarie per l’espletamento delle mansioni
richieste e quelle possedute dal singolo lavoratore è normalmente verificata attraverso il
patto di prova.

13. Il divieto di indagine su fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine


professionale.

L’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori prevede il divieto per il datore di lavoro di raccogliere,
sia personalmente che per mezzo di terzi, informazioni non rilevanti ai fini della valutazione
dell’attitudine professionale del lavoratore (c.d. indagini personali), non soltanto ai fini
della assunzione, ma anche durante lo svolgimento del rapporto, a pena di sanzioni penali.
La norma ha lo scopo di tutelare la riservatezza del lavoratore. Essa, pur riconoscendo, il
diritto alla riservatezza del lavoratore, riconosce però la legittimità delle indagini tendenti
alla valutazione dell’idoneità professionale del prestatore di lavoro. Il divieto, posto a carico
del datore di lavoro a tutela della sfera di riservatezza del lavoratore, di effettuare indagini
sulle opinioni del medesimo è sanzionato penalmente. La stessa sanzione penale si applica
anche all’ulteriore divieto di indagini rivolte ad accertare l’esistenza di uno stato di
sieropositività all’infezione da HIV nel lavoratore; anche se la Corte ha affermato il

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principio per cui l’accertamento sanitario dell’assenza di sieropositività costituisce


condizione per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute di terzi.

14. Il trattamento dei dati personali.

Un ampliamento del diritto alla riservatezza del lavoratore si è realizzato con la L.


675/1996 in tema di tutela delle persone fisiche e giuridiche rispetto al trattamento dei
dati personali, poi integralmente sostituita dal D.Lgs 196/2003 (Codice in materia di
protezione dei dati personali). Accanto all’istituzione del Garante per la protezione dei dati
personali, ha riconosciuto a tutte le persone interessate i c.d. diritti informatici. Essi
consistono nel diritto di avere conoscenza preventiva, mediante la c.d. informativa, circa
l’esistenza e le finalità di trattamento dei propri dati personali, e quindi nella facoltà di
ottenere la cancellazione, l’aggiornamento, la rettifica o l’integrazione dei dati raccolti. Il
consenso dell’interessato è richiesto solo in talune ipotesi, tra le quali spicca quella relativa
al trattamento dei dati c.d. sensibili: questi sono i dati idonei a rilevare l’origine razziale ed
etnica, le convinzioni religiose, filosofiche e politiche nonché a rilevare lo stato di salute o
la vita sessuale. In tali casi oltre al consenso dell’interessato, il trattamento dei dati è
sottoposto alla preventiva autorizzazione del Garante. Resta quindi fermo il divieto al
datore di lavoro (art. 8 Statuto) di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o
sindacali del lavoratore nonché sui fatti non rilevanti ai fini della sua attitudine
professionale. Tuttavia bisogna dire che tali dati sensibili, specie quelli sindacali o sanitari,
sono spesso legittimamente conosciuti dall’azienda in virtù dello stesso rapporto di lavoro;
ed a questo riguardo la legge ne consente la raccolta ed il trattamento, previa
autorizzazione del Garante e del soggetto interessato. Infine deve dirsi che la legge non
richiede il consenso del lavoratore quando il trattamento dei dati personali sia necessario
per l’esecuzione degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro oppure di obblighi legali. In
conclusione la normativa di cui al codice della privacy ha ampliato l’area della tutela
procedimentale, attribuendo al lavoratore i diritti informatici nel trattamento dei dati
personali legittimamente utilizzati dal datore (si tratta di dati rilevanti per l’attitudine
professionale del lavoratore).

15. La simulazione nel contratto di lavoro.

Il problema della divergenza tra la dichiarazione e la volontà si presenta a proposito della


simulazione (art. 1414), nella quale, la volontà dichiarata verso l’esterno si contrappone
alla volontà dichiarata verso l’interno dagli stessi contraenti (controdichiarazione). La
volontà dichiarata verso l’interno è l’unica manifestazione di volontà efficace tra le parti in
virtù dell’accordo simulatorio che le vincola, ove sussistano i requisiti di sostanza e di
forma. In tal modo, se il contratto dissimulato è quello di lavoro, il rapporto non si
costituisce fra i contraenti fittizi, ma in suo luogo, produrrà i propri effetti il diverso
contratto voluto dai contraenti. È da dire tuttavia che, con riguardo al rapporto di lavoro,
la prevalenza del contratto effettivo dissimulato su quello apparente simulato, può operare
soltanto entro i limiti posti dall’ordinamento a tutela della meritevolezza dell’interesse
perseguito in concreto dalle parti: infatti troverà applicazione la regola della nullità del
contratto in frode alla legge (art.1344 c.c.) tutte le volte che un intento fraudolento sia
rinvenibile all’origine del contratto dissimulato. Di qui l’invalidità del contratto simulato
come del contratto dissimulato e la sostituzione automatica della disciplina imperativa del

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rapporto quando un apparente contratto di lavoro autonomo venga concluso allo scopo di
mascherare un effettivo contratto di lavoro subordinato. In questi casi il contratto
dissimulato deve reputarsi illecito e quindi nullo, e l’eventuale prestazione di lavoro
eseguita di fatto ai sensi dell’art. 2126 c.c.

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CAP. 4 – LA PRESTAZIONE DI LAVORO


SEZ. A: Potere direttivo e potere disciplinare
1. Il contenuto della subordinazione: la diligenza.

L’obbligazione alla subordinazione vincola il lavoratore a sottoporsi, nell’esecuzione


dell’attività, alle direttive del datore, titolare non di una semplice pretesa alla prestazione,
ma anche di un potere direttivo sulla sua esecuzione. L’art.2104 fissa i due requisiti
caratteristici della subordinazione, ossia la diligenza e l’obbedienza. La diligenza può
differenziarsi secondo il tipo di lavoro e quindi di mansioni: tuttavia dire che la diligenza
si differenzia solo in relazione alle mansioni è inesatto, in quanto le mansioni sono solo
uno degli indici che denotano la natura della prestazione. La natura della prestazione
dovuta è solo uno dei criteri posti dal legislatore per la valutazione della diligenza dovuta
dal prestatore. Infatti nel 1° c. dell’art.2104 c.c. sono previsti altri 2 criteri per la
valutazione della diligenza: l’interesse dell’impresa e l’interesse superiore della produzione
nazionale. Quest’ultima formulazione rinvia all’ideologia corporativa secondo cui tutte le
attività economiche professionali dovevano tendere ad un fine comune definito dalla Carta
del Lavoro come l’interesse superiore della nazione; tale disposizione è stata implicitamente
abrogata per effetto della caduta dell’ordinamento corporativo. Per quanto riguarda
l’interesse dell’impresa, è possibile considerarlo in senso oggettivo, come interesse
dell’istituzione, o in senso soggettivo, come interesse dell’imprenditore. L’interesse
dell’impresa va individuato con riferimento all’imprenditore, come specifico interesse
dell’imprenditore all’esercizio della propria attività di organizzazione del lavoro. La
soluzione della questione va ricercata nel collegamento con il co.2 dell’art 1176 c.c. da cui
si ricava che la “natura della prestazione dovuta” altro non è che la “natura dell’attività”
esercitata dal debitore. La diligenza andrà commisurata al risultato di tale collaborazione
e quindi all’attività organizzatrice dell’imprenditore. In sostanza, l’interesse dell’impresa va
individuato con riferimento all’imprenditore e quindi inteso in senso soggettivo, ma non
come generico interesse del creditore all’esatto adempimento dell’obbligazione da parte del
debitore, bensì come specifico interesse dell’imprenditore all’esercizio della propria attività
di organizzazione del lavoro alle proprie dipendenze.

2. L’obbedienza e il potere direttivo del datore di lavoro

Il secondo requisito caratteristico dell’obbligazione di lavoro (2° c. art. 2104 c.c.) è quello
dell’obbedienza che si manifesta nell’osservanza delle disposizioni impartite per
l’esecuzione e per la disciplina del lavoro, in cui si estrinseca il potere direttivo del datore.
Titolare del potere direttivo è l’imprenditore e il suo esercizio può essere demandato ai
collaboratori. L’imprenditore è titolare anche del potere disciplinare. Il potere direttivo si
configura come la situazione soggettiva attiva del creditore nell’obbligazione di lavoro e
nello stesso tempo come manifestazione di un’autorità di tipo gerarchico. Passando a
considerare i due profili distinti ma indipendenti dell’esecuzione e della disciplina del
lavoro, essi non sono altro che l’estrinsecazione del potere direttivo e quindi rappresentano
il lato attivo della situazione passiva del lavoratore. I comportamenti o comandi
dell’imprenditore possono essere di due tipi: o attinenti all’organizzazione del lavoro, cioè
al modo di rendere utilizzabile la prestazione resa dal lavoratore e quindi ai necessari

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controlli oppure attinenti alla disciplina del lavoro, cioè alla regolamentazione della
convivenza della comunità formata da colore che nell’impresa collaborano.

3. L’obbligo di fedeltà. Il divieto di concorrenza e le invenzioni del lavoratore. Il


divieto di utilizzazione o divulgazione di segreti aziendali.

L’art. 2105 prevede a carico del prestatore di lavoro l’ulteriore obbligo di fedeltà a tutela
dell’interesse dell’imprenditore alla competitività dell’impresa. Tale obbligo si sostanzia nel
divieto di svolgere attività in concorrenza con quella dell’impresa e nel divieto di divulgare
o utilizzare a vantaggio proprio o altrui notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione, in modo da poter anche solo potenzialmente arrecare ad essa pregiudizio.
L’art. 2125 ha previsto la possibilità di stipulare un patto di non concorrenza anche per
un periodo successivo alla cessazione del rapporto: 3anni in via generale, 5per i dirigenti:
si tratta di limiti massimi di durata che si sostituiscono di diritto all’eventuale durata
maggiore convenuta dalle parti. In ogni caso però, è richiesta la forma scritta ad
substantiam, deve essere stabilito un corrispettivo e il vincolo deve essere delimitato anche
con riferimento al luogo e all’oggetto.

Non costituisce concorrenza l’attività inventiva del lavoratore; si distinguono a tal proposito
diverse ipotesi:

 Invenzione di servizio – si verifica quando l’invenzione è fatta dal lavoratore in


esecuzione del contratto. In questo caso i diritti da essa derivanti spettano dal
datore di lavoro.
 Invenzione aziendale – l’attività inventiva non è oggetto del contratto di lavoro, ma
è comunque fatta nell’esecuzione/adempimento del contratto. I diritti spettano al
datore di lavoro ma il lavoratore ha diritto ad un equo premio proporzionato
all’importanza dell’invenzione stessa.
 Invenzione occasionale – l’invenzione è fatta indipendentemente dal rapporto di
lavoro ma rientra nel campo dell’attività dell’impresa. I diritti spettano al lavoratore,
ma il datore di lavoro ha un diritto di prelazione per l’uso della stessa o per l’acquisto
del brevetto.
Infine diverso dall’obbligo di non concorrenza è l’obbligo di fedeltà in senso stretto: divieto
di divulgare o utilizzare i c.d. segreti aziendali (tutelati anche in sede penale).

4. Il potere disciplinare.

L’inosservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore può essere sanzionata,


mediante l’irrogazione di sanzioni disciplinari (art.2106 c.c.) che l’imprenditore può
applicare in proporzione alla gravità dell’infrazione e in conformità delle norme dei contratti
collettivi. In particolare, le sanzioni previste dai contratti collettivi in relazione alle
mancanze elencate dagli stessi sono il rimprovero verbale o scritto, la multa, la sospensione
dal lavoro e dalla retribuzione, ed il licenziamento. Come il potere direttivo anche il potere
disciplinare è espressione dell’autorità privata dell’imprenditore. Il suo fondamento è nella
responsabilità contrattuale del prestatore: nel potere e quindi nella responsabilità
disciplinare e da ravvisare il riflesso della subordinazione in relazione all’inadempimento.
Il riconoscimento del potere privato unilaterale di reagire all’inosservanza degli obblighi del

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prestatore di lavoro non è estraneo al diritto privato, basti pensare alla clausola penale.
Come risulta dall’art. 2106 c.c, il potere disciplinare si collega strettamente agli artt. 2104
e 2105 c.c. il suo esercizio, infatti, rappresenta la reazione all’inadempimento dell’obbligo
di prestare l’attività lavorativa, inoltre, esso è correlato all’ inadempimento dell’obbligo di
fedeltà. I due grandi profili della diligenza ed obbedienza non possono certo identificarsi,
in quanto un lavoratore diligente può essere al tempo stesso disobbediente. Il criterio di
proporzionalità tra infrazione e sanzione costituisce un limite al quanto generico, può
risultare particolarmente elastica e soggettiva. Di qui l’importanza degli ulteriori limiti
sostanziali e procedurali introdotti in materia dallo Statuto dei Lavoratori.

5. I limiti sostanziali e procedurali al potere disciplinare.

Le norme (artt.1-13) dello Statuto dei lavoratori, perseguendo l’obiettivo di tutelare la


libertà e la dignità del lavoratore, hanno introdotto una serie di limiti più o meno penetranti
all’esercizio dei poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro. Innanzitutto, l’art.7 dello
Statuto subordina l’esercizio del potere disciplinare alla pubblicazione di un regolamento
o codice disciplinare da portare a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo
accessibile a tutti. Inoltre, nessun provvedimento disciplinare può essere adottato nei
confronti del lavoratore senza che gli sia stato preventivamente contestato l’addebito e
senza che sia stato sentito a sua difesa. Sul piano dei limiti sostanziali la norma,
restringendo la gamma delle sanzioni disciplinari, ha escluso che le stesse possano
comportare mutamenti definitivi del rapporto (retrocessione, trasferimento e simili), salvo
il caso del licenziamento. Essa ha previsto anche limiti massimi all’entità delle sanzioni
irrogabili: 10 giorni per la sospensione di lavoro e retribuzione; l’importo di 4ore della
retribuzione base per la multa; inoltre i provvedimenti più gravi del rimprovero verbale non
possono essere applicati prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione scritta del
fatto. Il lavoratore al quale sia stata comminata la sanzione ha poi la facoltà di impugnarla
entro 20 giorni davanti ad un collegio di conciliazione ed arbitrato: questa comporta la
sospensione del provvedimento sanzionatorio fino alla definizione del giudizio. Infine, un
importante limite sostanziale è rappresentato da quello posto alla rilevanza della cd.
Recidiva (reiterazione di una condotta che conduce colui che applica la sanzione ad una
sanzione più grave): non si può tener conto di una sanzione disciplinare decorsi 2 anni
dalla sua applicazione.

6. I limiti al potere di controllo: i controlli finalizzati alla salvaguardia del


patrimonio aziendale.

L’art.2 dello Statuto consente l’impiego delle guardie giurate soltanto per scopi di
salvaguardia del patrimonio aziendale, vieta di adibire le guardie giurate a compiti di
vigilanza sull’attività lavorativa e ne interdice l’accesso ai locali in cui si svolge l’attività
lavorativa durante l’orario di lavoro, fatte salve specifiche e motivate esigenze di
salvaguardia dei beni aziendali. Alla tutela del patrimonio aziendale sono finalizzate anche
le visite personali di controllo (art.6), consentite solo in relazione alla qualità degli
strumenti di lavoro, delle materie prime e dei prodotti; le modalità della loro attuazione
sono concordate con le rappresentanze sindacali aziendali. Esse potranno comunque
essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro,

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che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che siano utilizzati
sistemi di selezione imparziale dei lavoratori da sottoporre al controllo.

9. La procedimentalizzazione dei poteri del datore di lavoro.

La subordinazione del lavoratore al datore di lavoro può essere soltanto tecnico-funzionale,


in quanto finalizzata al diligente adempimento dell’obbligazione nell’interesse dell’impresa.
Questo interesse è notevolmente ridimensionato dalle norme dello Statuto: queste
delimitano l’esercizio del potere direttivo e disciplinare imponendo limiti più o meno
restrittivi ai poteri dell’imprenditore. Al fine di evitare che la subordinazione del lavoratore
eccedesse dall’ambito tecnico-funzionale ha introdotto taluni elementi di
procedimentalizzazione del potere imprenditoriale. Così, in talune situazioni, l’esercizio del
potere direttivo e disciplinare è stato sottoposto all’adempimento di vincoli procedimentali,
la cui osservanza si configura come requisito di legittimità e addirittura di validità dell’atto
finale del datore di lavoro. Nella medesima prospettiva, infine, non va trascurata la norma
dell’art.1 St.Lav. sulla libertà di espressione delle opinioni del lavoratore nei luoghi di
lavoro: al diritto del lavoratore di manifestare il proprio pensiero politico, religioso e
sindacale corrisponde un limite esterno all’esercizio del poter imprenditoriale e tale limite
è sanzionato dalla nullità degli atti o patti diretti a discriminare il lavoratore nel rapporto
di lavoro.

SEZ. B: Mansioni e qualifica


10. Le mansioni e la qualifica.

Le mansioni costituiscono l’insieme dei compiti e delle operazioni che il lavoratore


individualmente può essere chiamato a svolgere e che possono essere pretesi dal datore di
lavoro: sono quindi il criterio di determinazione qualitativa della prestazione lavorativa.
Esse si identificano, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, con la posizione di
lavoro e, dal punto di vista della struttura dell’obbligazione, con l’oggetto della prestazione
di lavoro. Le stesse mansioni possono essere individuate anche senza considerare
direttamente l’attività complessiva che deve essere svolta, bensì indicando quest’ultima per
mezzo di una qualifica riferita al lavoratore addetto a quelle mansioni (ad es. operatore del
PC). Bisogna aggiungere che la regola fondamentale della moderna organizzazione
produttiva è la divisione del lavoro tra gli addetti alla produzione. Tutte le persone che
lavorano all’interno di un’organizzazione sono addette a determinati compiti che le
differenziano l’una dall’altra e le pongono reciprocamente in una relazione funzionale. Le
mansioni possono consistere anche in compiti di programmazione, di progettazione di
controllo, di sorveglianza, di coordinamento.

11. La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni.

Le diverse mansioni danno luogo a diverse prestazioni di lavoro, le quali possono


presentare un diverso grado di complessità o di penosità: di qui l’esigenza di una
differenziazione delle condizioni della prestazione e della retribuzione del lavoro, oltre ad
un trattamento salariale e normativo che il datore di lavoro è tenuto ad osservare; tale

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differenziazione è di solito collegata alla diversa valutazione del contenuto professionale


delle mansioni. Questa valutazione non è arbitraria ma dipende dal mercato del lavoro. La
valutazione del lavoro nella generalità dei casi viene determinata non dalla contrattazione
individuale, bensì da quella collettiva, la quale opera una loro classificazione su una scala
(c.d. VENTAGLIO) che le pone in rodine di valore, raggruppandole in entità classificatorie
(dette categorie contrattuali e talvolta anche qualifiche), in base ad un comune
denominatore: tipo di capacità professionale richiesto per il loro svolgimento.

12. L’inquadramento del prestatore di lavoro. Le categorie contrattuali.

Le categorie contrattuali L’art. 96 2° c. delle disposizioni di attuazione del c.c. stabilisce


che l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione,
la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato
assunto. Ma l’art. 2103 prevede che il lavoratore possa essere adibito non solo alle
mansioni di assunzione ma anche a quelle corrispondenti alla categoria superiore che
abbia successivamente acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,
per cui una analoga comunicazione della categoria e della qualifica si dovrà fare nelle
ipotesi di mutamento definitivo di mansioni. L’assegnazione delle mansioni è il
presupposto per l’inquadramento individuale del prestatore di lavoro nel sistema di
classificazione professionale: tale sistema si articola nelle categorie previste dall’art. 2095
(categorie legali) e nelle qualifiche indicate dai contratti collettivi (categorie contrattuali).
Vi sono le c.d. categorie legali individuate dall’art. 2095 c.c. il quale prevede una
ripartizione dei lavoratori in: dirigenti, quadri, impiegati ed operai. A fronte di queste
categorie legali, in passato, i contratti collettivi erano tradizionalmente articolati in una
parte impiegati ed in una parte operai, al cui interno si distinguevano ulteriori articolazioni.
L’appartenenza a queste categorie contrattuali dipendevano, ovviamente dai criteri fissati
dalla contrattazione collettiva. Con l’introduzione dell’inquadramento unico il termine
“categoria” viene riferito, ormai, non più alle sotto articolazioni delle categorie legali, ma ai
c.d. livelli di inquadramento.

13. Le categorie legali.

L’art.2095 prevede una ripartizione dei lavoratori in dirigenti, quadri, impiegati ed operai,
e prevede inoltre che le leggi speciali e i contratti collettivi, in relazione alla particolare
struttura dell’impresa, determinino i requisiti di appartenenza alle categorie indicate (cd.
in-quadramento collettivo). Per la categoria impiegatizia, e di riflesso per quella operaia,
tali requisiti sono tuttora fissati dall’art.1 della legge sull’impiego privato (RDL 1825/1924),
le cui norme si applicano in via sussidiaria alla contrattazione collettiva: questa infatti può
determinare i criteri di appartenenza alle categorie legali, stabilire direttamente i relativi
trattamenti economici e normativi con il solo limite della immodificabilità in pejus dei
trattamenti legali, e può anche costituire e definire proprie categorie sia all’interno delle
categorie legali sia mediante l’accorpamento di qualifiche appartenenti a diverse categorie
legali. Bisogna anzi dire che il sistema di classificazione dei lavoratori è il risultato di
un processo dinamico. Il rapporto tra categorie legali e categorie contrattuali si è
profondamente modificato a vantaggio delle seconde.

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14. Distinzione tra operai ed impiegati.

La distinzione tra impiegati ed operai è in realtà sfumata sul piano dell’organizzazione del
lavoro, con la conseguenza che la sua concreta applicazione si presenta spesso
problematica. Il RDL 1825/1924 definisce impiegato colui che svolge al servizio
dell’azienda, quindi con vincolo di subordinazione, una attività professionale con funzioni
di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che
sia semplicemente di manodopera. Oggi in realtà l’impiegato si trova spesso a svolgere un
lavoro meccanizzato e ripetitivo simile a quello dell’operaio e l’operaio svolge un lavoro che
può essere notevolmente più intellettuale di quello di molti impiegati di bassa
qualificazione: dunque la distinzione tra manualità e intellettualità della prestazione non
è attendibile. Anche per questo motivo la distinzione tra categoria impiegatizia e categoria
operaia è stata superata dalla contrattazione collettiva, la quale ha realizzato un nuovo
sistema di classificazione professionale non più fondato sulla separazione tra operai e
impiegati, bensì sulla loro unificazione normativa: il sistema dell’inquadramento unico
(anni ’70).

15. L’inquadramento contrattuale c.d. unico.

La classificazione unica, non più articolata su categorie contrattuali all’interno delle


categorie legali operaia e impiegatizia, si articola su una pluralità di livelli comuni ad
entrambi. Si ha una classificazione generalmente in 7 o 8 categorie corrispondenti ad
altrettanti livelli retributivi: l’appartenenza a tali livelli è determinata in base alle definizioni
o declaratorie generali delle caratteristiche dell’attività prestata e all’elencazione o
esemplificazione dei diversi profili professionali specifici, e quindi delle mansioni o delle
professionalità comprese in ciascuna categoria. I livelli sono definiti in relazione alla
valutazione della professionalità e raggruppano un’ampia serie di specifici profili
professionali individuati sulla base delle caratteristiche professionali della prestazione
(abilità, conoscenza, esperienza) e non più sulla descrizione delle mansioni. Per effetto del
succedersi nel tempo dei rinnovi contrattuali, il modello dell’inquadramento unico è andato
in contro a significative modifiche che tendino ad adattarne gli schemi classificatori alle
nuove caratteristiche delle organizzazioni del lavoro. In alcuni contratti nazionali di
categoria, infatti, esso si presenta come inquadramento per aree professionali, articolate
al loro interno in diverse posizioni organizzative ed alle quali corrisponde un trattamento
retributivo differenziato. In ciascuna aria professionale, le diverse figure professionali sono
quindi distribuite nelle varie posizioni sulla base dei rispettivi profili. Tale sistema è rivolto
a consentire all’impresa maggiori spazi di flessibilità nell’utilizzazione dei lavoratori.

16. I dirigenti.

La categoria dei dirigenti è di formazione relativamente recente, perché in un primo tempo


i dirigenti vennero considerati impiegati con funzioni direttive. Attualmente, la
contrattazione collettiva qualifica come dirigenti i lavoratori che ricoprono nell’azienda un
ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale
ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione
degli obiettivi dell’impresa. In realtà, la distinzione tra impiegati con funzioni direttive, e in
particolare quadri, e dirigenti può essere difficile: ciò spiega la scelta della contrattazione

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collettiva di subordinare l’attribuzione della qualifica dirigenziale alla nomina da parte


dell’imprenditore. La giurisprudenza infine sostiene che è dirigente colui che l’imprenditore
ha preposto ad un ramo autonomo dell’azienda, così lasciando intendere che caratteristica
fondamentale del rapporto di dirigenza sia il vincolo fiduciario con l’imprenditore. In realtà
vi sono casi di dirigenti che non ha nessuna attribuzione di poteri direttivi. Si tratta
semplicemente di lavoratori ai quali si è voluto riconoscere un trattamento economico e
normativo più favorevole e capacità professionale particolarmente affinata, i quali, si
pongono in una posizione di forza contrattuale tale da chiedere ed ottenere il
riconoscimento della qualifica dirigenziale. Nella maggior parte dei casi è impossibile far
coincidere la figura di un dirigente industriale con la posizione di alter ego
dell’imprenditore ormai riscontrabile esclusivamente ai massimi livelli dell’organizzazione
c.d. alta direzione topo management.

17. I quadri intermedi.

La L.190/1985 riconosce la figura giuridica dei quadri intermedi: sono quadri i lavoratori
che svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo
e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa. Fino all’emanazione di questa legge il codice
civile distingueva i lavoratori esclusivamente in dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati
e operai; a partire dagli anni ’70 invece erano venute emergendo nelle realtà aziendali
nuove figure professionali collegate alle innovazioni tecnologiche. La L.190 tuttavia pur
fornendo una definizione legislativa della figura professionale di quadro intermedio, rinvia
alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di
appartenenza alla nuova categoria in relazione a ciascun ramo di produzione e alla
particolare struttura organizzativa dell’impresa. Per quanto riguarda la disciplina del
rapporto, la legge estende alla nuova categoria le norme applicabili agli impiegati. La
definizione della categoria dei quadri intermedi ha in comune con quella dirigenti la
rilevanza attribuita alle funzioni e non alle mansioni svolte dal prestatore. La legge rinvia
alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di
appartenenza alla nuova categoria “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla
particolare struttura organizzativa dell’impresa”. In generale, il diritto soggettivo alla
qualifica attiene non alla qualifica come status, bensì al corrispondente trattamento
previsto dal contratto collettivo. Con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia assente
appunto la contrattazione collettiva, sarebbe possibile ricorrere all’art. 36, co. 1 Cost.
utilizzando in particolare il principio delle proporzionalità per ottenere l’adeguamento della
retribuzione insufficiente.

18. La disciplina del mutamento di mansioni. Dal Codice Civile allo Statuto dei
Lavoratori.

La prestazione di lavoro nel corso del tempo può subire modifiche unilaterali per volontà
del datore di lavoro: questo potere di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro
(c.d. ius variandi) è stato sancito dal c.c. all’art. 2103. L’art. 2103 è stato successivamente
novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, per cui il prestatore deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore
che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. La mobilità del

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lavoratore è quindi ammessa solo in direzione orizzontale (mansioni equivalenti) o in


direzione verticali (mansioni superiori), non è ammessa invece verso il basso: in precedenza
era ammessa sia in via unilaterale che per esigenze dell’impresa, ora è esclusa salvo alcune
tassative eccezioni ad esempio in presenza di esigenze straordinarie sopravvenute:

A) nel caso delle lavoratrici madri le quali devono essere adibite a mansioni non
pregiudizievoli alla loro salute, ancorché inferiori a quelle di appartenenza, con
diritto peraltro alla conservazione della retribuzione di provenienza;
B) per sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni di assegnazione per
infortunio o malattia, con diritto alla conservazione della retribuzione di
provenienza.
C) Nell’ambito dei contratti collettivi di prossimità vi è la possibilità di derogare all’art
2103 c.c. disponendo per tutti i lavoratori interessati l’adibizione a mansioni
inferiori.
Nel caso di illegittima adibizione a mansioni inferiori o dequalificazione, la giurisprudenza
riconosce al lavoratore il diritto al risarcimento del danno, sia patrimoniale sia non
patrimoniale. La Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo in demansionamento (disposto
previo patto con il lavoratore o unilateralmente dal datore di lavoro) quando costituisca
l’unica alternativa in luogo del licenziamento per motivo oggettivo

19. la disciplina attuale del mutamento di mansioni. La mobilità c.d. orizzontale.


Il passaggio a mansioni superiori.

Il nuovo art. 2103 c.c. ha introdotto importanti modifiche in tutte le sue parti la disciplina
del mutamento di mansioni. In primo luogo il lavoratore può infatti essere adibito non solo
“alle mansioni per le quali è stato assunto” ma anche a tutte “quelle corrispondenti
all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni
riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime
effettivamente svolte”. Viene così abbandonato il criterio-limite dell’equivalenza delle
mansioni dal punto di vista dell’attitudine e/o professionalità del lavoratore. Tale criterio
è sostituito dal criterio dell’equivalenza di classificazione professionale della prestazione e
quindi dalle mansioni. Ciò consente lo spostamento per volontà unilaterale del datore del
prestatore di lavoro su tutte le mansioni classificate nel medesimo livello contrattuale e
nella stessa categoria legale di inquadramento delle ultime mansioni effettivamente svolte.
Quindi la posizione professionale del lavoratore nell’azienda dipende dal suo
inquadramento contrattuale ed è delimitato dal suo essere operaio oppure impiegato,
quadro o dirigente. Si ha così una notevole espansione dello ius variandi dell’imprenditore
in senso orizzontale. Non molto cambia invece per la mobilità c.d. verticale. Il lavoratore
può infatti essere assegnato ancora in via unilaterale e senza alcun limite alle mansioni
corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito e in tal
caso avrà “diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta”. La norma rimette
all’autonomia collettiva la determinazione del periodo di adibizione alle nuove mansioni
necessario per la maturazione del diritto all’inquadramento superiore e solo in via
suppletiva fissa in sei mesi continuativi tale periodo. Sono eccettuate le ipotesi in cui
l’assegnazione delle mansioni superiori è provvisoria in quanto determinata dall’esigenza
di sostituire un altro dipendente temporaneamente assente dal servizio. In questo periodo
il lavoratore avrà diritto alla retribuzione ma non alla qualifica superiore. La legge non
configura più l’acquisizione del diritto all’inquadramento superiore quale effetto necessario

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dell’adibizione alle corrispondenti mansioni ma subordina tale effetto alla volontà del
lavoratore in quale può espressamente rinunziarvi prima che la stessa diventi definitiva e
cioè nel corso del periodo minimo. Ciò presumibilmente a tutela dell’interesse del
lavoratore a non essere impiegato in materie eccedenti la capacità professionale. Per tanto
la norma che sancisce il diritto all’inquadramento superiore si presenta come derogabile
anche in via convenzionale dalle parti: cosa che sembra consentire ampi spazi alla
discrezionalità dell’azienda nella mobilità verso l’alto.

20. La mobilità verso il basso.

Ma l’innovazione più importante riguarda la possibilità esclusa dal precedente art. 2013
c.c. di modificare le mansioni verso il basso. La novella abbandona questo divieto
ammettendo anche se con alcuni limiti il passaggio a mansioni inferiori nella
classificazione professionale e distinguendo tra mutamento unilaterale e mutamento
consensuale. Per quanto attiene alla variazione unilaterale questa è permessa dal co. 2
soltanto su mansioni classificate nel livello immediatamente inferiore di classificazione e
comunque all’interno della medesima categoria legale che dunque funge da limite a tutela
della posizione del lavoratore nella organizzazione aziendale. Lo spostamento sulle
mansioni inferiori deve essere giustificato da una modificazione dell’organizzazione
produttiva. Si tratta di due circostanze tra loro collegate da un nesso di causalità che
fungono da presupposto dell’esercizio del diritto- potere di variazione delle mansioni. La
prova di tali circostanze è a carico del datore, secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c.
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni classificate nel livello contrattuale inferiore.
Vi è la possibilità che la contrattazione collettiva autorizzi anche le modificazioni in pejus
senza giustificazione causale. Per il mutamento unilaterale verso il basso la legge prescrive
che la modificazione delle mansioni deve essere comunicata in forma scritta a pena di
nullità. Sempre a tutela del lavoratore è previsto che il mutamento delle mansioni così
verso il basso, come in senso orizzontale sia accompagnato da un obbligo formativo a carico
dell’azienda. L’inadempimento, però non determina la nullità dell’atto unilaterale di
assegnazione al lavoratore è quindi riconosciuta una tutela soltanto risarcitoria i cui
contorni però restano incerti. Il nuovo art. 2103 c.c. aggiunge la previsione e la disciplina
del mutamento consensuale delle mansioni anche in senso inferiore. Viene espressamente
ammessa la possibilità di accordi individuali modificativi della prestazione e della
retribuzione da raggiungersi nelle sedi protette indicate dalla legge. In tali sedi può essere
convenuta anche la modificazione in pejus delle mansioni quando la stessa sia
“nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione” all’acquisizione di una
diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”. Peraltro la validità e
quindi l’efficacia degli accordi è subordinata all’esistenza e all’accertamento, in concreto
dell’interesse del lavoratore ad accettare il passaggio alle mansioni ed inquadramento
inferiori.

21. La nullità dei patti contrari. Il danno da demansionamento.

Il nuovo art. 2103 c.c. può essere considerato espressione di un bilanciamento del diritto
dell’imprenditore a realizzare una organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e il
diritto del lavoratore alla conservazione dell’inquadramento professionale acquisito. La
tutela non è assicurata attraverso lo strumento della legge inderogabile e quindi del

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controllo del giudice, ma attraverso gli strumenti della contrattazione collettiva e della
autonomia individuale assistita in sede di conciliazione o certificazione e dunque con la
possibilità di un controllo sindacale. Il co.9 da un lato, riafferma che “ogni patto contrario
è nullo” ma, dall’altro, salva, espressamente le ipotesi contemplate nei precedenti commi
di esercizio dello ius variandi e degli accordi individuali assistiti. Detto questo, nelle ipotesi
di illegittima adibizione a mansioni inferiori (o dequalificazione) il lavoratore ha diritto in
linea di principio alla restituzione delle mansioni o dell’inquadramento in precedenza
acquisito (tutela ripristinatoria); ed ancora al risarcimento del danno sia patrimoniale sia
non, conseguente al pregiudizio arrecato alla capacità professionale. Il riconoscimento del
diritto del lavoratore al risarcimento del danno non ricorre, automaticamente in tutti i casi
di demansionamento e non può prescindere da una specifica allegazione. Non è sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore
non solo l’onere di allegare il demansionamento, ma che di fornire la prova. La
qualificazione del danno è suscettibile di valutazione equitativa.

SEZ. D: La durata della prestazione.


27. L’orario di lavoro e la determinazione della prestazione. La tutela della salute
del lavoratore e l’art. 36, c. 2 e 3 Cost.

Un’analoga esigenza di tutela della persona del prestatore di fronte all’organizzazione del
lavoro è alla base della disciplina limitativa della durata massima della prestazione di
lavoro. Nel contratto di lavoro subordinato la dimensione temporale funge da criterio di
determinazione quantitativa della prestazione lavorativa e di quella retributiva; l’orario di
lavoro funge inoltre da limite massimo di esigibilità della prestazione di lavoro da parte del
datore (orario normale contrattuale di lavoro). L’art. 36 Cost. al co. 2 stabilisce che la
durata massima della giornata lavorativa è fissata dalla legge, e solo entro tali limiti
l’autonomia privata può disporne. Inoltre al co. 3 stabilisce che il lavoratore ha diritto al
riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite e non può rinunciarvi.

28. La disciplina legale dell’orario di lavoro.

Fino al 2003 la disciplina dell’orario di lavoro era contenuta (oltre che nell’art.36 Cost.)
negli artt.2107, 2108, 2109 c.c. dedicati rispettivamente all’orario di lavoro, al lavoro
straordinario e notturno e al periodo di riposo (settimanale e feriale), nonché in una
complessa normativa speciale (a partire dal R.D.L 692/23). Tali previsioni devono
considerarsi in larga misura abrogate dal D.lgs. 66/2003, il quale, nello stabilire una
completa normativa dell’orario di lavoro e del “tempo di non lavoro”, ha disposto
l’abrogazione di “tutte le il personale del ruolo sanitario disposizioni legislative e
regolamentari nella materia disciplinata dal regolamento stesso, salvo quelle
espressamente richiamate”. Il decreto definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo
in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività
o funzioni”. Poi viene ribadita la distinzione codicistica tra orario normale di lavoro e lavoro
straordinario. Quanto all’orario normale, esso è fissato in 40 ore settimanali (tale limite è
un valore medio sull’arco di un periodo non superiore all’anno, orario multiperiodale).
Quanto allo straordinario, il decreto rimette ai contratti collettivi la regolamentazione. Le
ore di lavoro straordinario devono comunque essere computate a parte, ed ai contratti

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collettivi è affidato il compito di stabilire la maggioranza retributiva dovuta al lavoratore,


nonché di consentire, che i lavoratori godano di riposi compensativi in aggiunta o in
alternativa ad essa. Il d.lgs. n. 66/2003 non prevede espliciti limiti giornalieri all’orario
normale di lavoro. Invece fissa un limite settimanale onnicomprensivo pari a 48 ore ogni 7
giorni da intendersi a sua volta non come valore assoluto, ma come valore medio calcolato
su un arco temporale di 4 mesi; ed anche in questo caso i contratti collettivi possono
temperare la tutela legale ed introdurre ulteriori margini di flessibilità gli stessi contratti
possono anche fissare una durata massima settimanale dell’orario di lavoro, quale limite
invalicabile. Caratteristica essenziale della nuova normativa del tempo di lavoro sono gli
spazi di maggiore flessibilità temporale consentiti alle imprese nell’impiego dei lavoratori.
Non mancano, casi in cui il legislatore ha invece innalzato il livello della tutela del
lavoratore rispetto al passato (come ad esempio in materia di ferie). Il legislatore delegato
ha previsto varie deroghe a questa disciplina. Per quanto attiene al riposo giornaliero
consecutivo di 11 ore ogni 24 esso può essere concesso in modo non consecutivo non solo
per “le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati” ma anche per le attività
caratterizzate da regimi di reperibilità. Per questa tutela sono stata inoltre adottate ulteriori
esclusioni, in primo luogo il personale del ruolo sanitario del servizio sanitario
nazionale, in secondo luogo il personale delle aree dirigenziali degli enti e delle aziende
del S.S.N. Un ulteriore e rilevante modifica ha riguardato il rinvio ai contratti collettivi
per l’eventuale deroga alle disposizioni in materia di riposo giornaliero, nonché di quelle
relative alle pause e alla durata e all’organizzazione del lavoro notturno. Sia pure nel
rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute, altri lavoratori
sono esclusi dall’applicazione della disciplina tanto dell’orario normale quanto dello
straordinario, nonché da limite complessivo medio delle 48 ore su 7 gg. Si tratta di coloro
la durata della cui prestazione “non è misurata o predeterminata o può essere determinata
dai lavoratori stessi” a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata: tra questi il
decreto individua in particolare i dirigenti, il personale direttivo delle aziende o altre
persone aventi potere di decisine autonomo.

28. Il lavoro notturno.

Il decreto prevede che l’orario notturno non possa superare le 8 ore di media nelle 24 ore,
a meno che i contratti collettivi non prevedano un arco temporale più ampio su cui
calcolare come media il suddetto limite. Inoltre, sono stati previsti particolari controlli e
garanzie per la sicurezza dei lavoratori notturni (condizioni di salute ecc.) Un’ipotesi
generale di divieto di lavoro notturno è prevista in relazione alla gravidanza. Il lavoro
notturno è facoltativo:

A) Per la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore ai 3 anni o, in alternativa, per il


lavoratore padre convivente con la stessa;
B) Per la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio
convivente di età inferiore a 12 anni;
C) Per la lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore, non oltre il 12esimo
anno di età;
D) Per la lavoratrice o il lavoratore che presti assistenza ad un soggetto disabile.

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30. Le pause giornaliere, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali, ferie


annuali.

Il d.lgs. n. 66/2003 dedica, poi, una serie di disposizioni alle pause, ai riposi giornalieri e
settimanali ed alle ferie. Quanto alle pause si tratta di intervalli durante i quali è vietata
l’esecuzione della prestazione lavorativa e che hanno la funzione di assicurare la
reintegrazione dell’energie psico-fisiche del lavoratore, e di consentirgli l’eventuale
consumazione die pasti. In mancanza di previsioni collettive, la pausa non potrà essere di
durata inferiore di 10 minuti. Per quanto attiene, invece, al riposo giornaliero il lavoratore
ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore , da fruire in modo consecutivo,
salvo il caso di attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata;
questa norma implicitamente consente, di determinare una durata massima assoluta di
13 ore per il lavoro giornaliero. La disciplina delle pause e del riposo giornaliero, in generale
può essere derogata da contratti o accordi conclusi tra le organizzazioni sindacali nazionali
comparativamente più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro
firmatarie di contratti nazionali di lavoro, ovvero da contratti o accordi di secondo livello.
Alle pause ed al riposo giornaliero si aggiungono le pause settimanali costituite dal riposo
settimanale, il cui diritto è espressamente garantito come diritto irrinunciabile. Il diritto
del lavoratore, ogni 7 gg, ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola
coincidenti con la domenica. Sono sottratte a questa disciplina alcune ipotesi previste dalla
legge (lavori a turni, attività caratterizzate da periodi frazionate durante la giornata). Resta
da considerare il periodo di riposo annuale, rappresentato dalle ferie, anche esse
riconosciute come diritto irrinunciabile. Il periodo di ferie del lavoratore deve essere
retribuito in misura normale come tempo lavorato e deve essere goduto nell’arco di un
periodo di tempo continuativo. All’imprenditore viene riconosciuto il potere di fissare il
tempo di fruizione delle ferie con l’onere di darne preventiva comunicazione agli
interessati e tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di
lavoro. Il periodo annuale di ferie è di 4 settimane. Alla luce della rilevanza costituzionale
del diritto al riposo annuale, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità dell’art
2109 c.c. nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale
ne sospenda il decorso, fisando in questo modo un principio che deve ritenersi tuttora
vincolante.

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CAP. 5 – LA RETRIBUZIONE
SEZ.A: L’obbligazione retributiva. La retribuzione minima sufficiente
1. L’obbligazione retributiva. La c.d. busta paga.

L’art. 2094 individua nella retribuzione l’oggetto dell’obbligazione corrispettiva o


sinallagmatica del datore di lavoro. La retribuzione è una tipica obbligazione corrispettiva
da comprendere tra le obbligazioni pecuniarie aventi ad oggetto una somma di denaro. Per
la corresponsione della retribuzione, il datore di lavoro è sottoposto alle regole generali
degli artt. 1176 (diligenza del pater familias) e 1182 (obbligo del risarcimento in caso di
ritardo o di inadempimento). L’art. 2099 stabilisce, invece, che i termini e le modalità del
pagamento devono essere quelli in uso nel luogo ove il lavoro viene eseguito. Si tratta di
una specificazione importante perché, potendo l’imprenditore esigere la prestazione del
lavoro in una sede differente da quella dell’impresa, il legislatore ha voluto opportunamente
stabilire che le modalità e i termini siano desunti dagli usi del luogo in cui si lavora e non
da quelli del luogo in cui si trova l’impresa. La retribuzione viene corrisposta nella sede del
lavoro. Inoltre una legge speciale ha fatto obbligo al datore di lavoro di accompagnare la
corresponsione della retribuzione con la consegna di un prospetto paga analitico delle
diverse voci che la compongono. Di solito la retribuzione viene pagata a settimana o a mese
o comunque dopo che il lavoro viene eseguito. È questa la regola della post-numerazione,
in forza della quale il pagamento della retribuzione viene posticipato rispetto all’erogazione
della prestazione lavorativa.

2. L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzione.

L’ammontare della retribuzione deve essere determinato commisurandolo al quantum della


prestazione lavorativa, dunque attraverso la misura del tempo lavorato, eseguita
direttamente sulla base del tempo impiegato per l’erogazione della forza lavoro offerta dal
prestatore, oppure indirettamente sulla base del risultato produttivo ottenuto mediante
l’erogazione della stessa (cottimo). La regola della post-numerazione sottolinea comunque
l’importanza dell’orario di lavoro (tempo lavorato) come criterio di determinazione della
durata e della quantità della prestazione lavorativa ed insieme come criterio di
commisurazione dell’obbligazione retributiva. Dal punto di vista tecnico-funzionale, la
nozione di risultato produttivo è la stessa tanto nel lavoro autonomo che nel lavoro
subordinato retribuito a cottimo; invece è diversa la sua rilevanza come criterio per
l’imputazione del rischio del lavoro nel primo caso e per il calcolo della retribuzione a
cottimo nel secondo caso. Il tempo è anzitutto un elemento del programma negoziale e
quindi del contenuto del contratto di lavoro, onde la previsione della durata rileva sotto il
profilo della continuità del vincolo ad effettuare una prestazione idonea a soddisfare il
bisogno del creditore. Il tempo, funge da strumento per la determinazione quantitativa
della prestazione dovuta e mediamente per la determinazione del suo corrispettivo. La
regola della post-numerazione sottolinea comunque l’importanza dell’orario di lavoro. Da
questo punto di vista, la determinazione dell’orario normale di lavoro, funzionale a quella
della retribuzione normale minima, è di competenza dell’autonomia privata collettiva o
individuale. Quest’ultima, interviene solo eccezionalmente in mancanza della prima
oppure in sua deroga.

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3.Retribuzione minima, contratti collettivi e art. 36 Cost.

L’art.2099 attribuisce in via primaria ai contratti collettivi la funzione di stabilire la misura


della prestazione dovuta dal datore di lavoro. Funzione fondamentale del contratto
collettivo è infatti quella tariffaria. Quindi la fissazione dei minimi è lasciata all’autonomia
collettiva, in nome dell’interesse collettivo cui risponde tale funzione. L’art.36Cost.
riconosce al lavoratore il diritto soggettivo alla retribuzione minima sufficiente, in
particolare il lavoratore ha diritto ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e
qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa”. In virtù del requisito della proporzionalità la retribuzione
deve essere determinata secondo un criterio oggettivo di equivalenza alla quantità e qualità
del lavoro, per cui la sua determinazione dipende non soltanto dalla durata e dall'intensità
del lavoro, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrinseche.
Per il secondo requisito della sufficienza invece la misura minima della retribuzione deve
andare oltre il minimo vitale, in modo da garantire un livello di vita sufficiente a realizzare
un’esistenza libera e dignitosa non solo per il lavoratore come singolo, ma anche per la sua
famiglia. Quindi è un requisito più importante, in quanto incentrato sui principi di libertà
e dignità del lavoratore. In definitiva il principio della retribuzione minima sufficiente
sancito a livello costituzionale funge da limite all’autonomia contrattuale delle parti nella
determinazione del contenuto del contratto di lavoro. Per altro, nelle ipotesi di c.d. lavoro
plurimo (cioè alle dipendenze di più datori) ed in generale in tutte le ipotesi di lavoro a
tempo parziale la retribuzione va determinata dapprima sulla base del criterio di
sufficienza e con riferimento alla qualità della prestazione resa dal lavoratore ed in seguito
proporzionato alla quantità del lavoro prestato.

4. L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.

L’importanza dell’art. 36 Cost. è soprattutto nella sua applicazione giurisprudenziale. La


norma è vincolante nei confronti del potere legislativo c.d. norma-direttiva. L’attuazione
del principio della retribuzione minima sufficiente è demandata all’intervento del
legislatore, il quale potrebbe stabilire in via diretta o indiretta la retribuzione minima e
questa a sua volta potrebbe essere comune a tutti i lavoratori oppure differenziata per le
diverse categorie professionali. Nel nostro ordinamento, in assenza di una legislazione
determinatrice dei minimi salariali è merito della giurisprudenza avere individuato,
estraendola dall’art. 36 della Cost. una sua funzione precettiva e perciò direttamente
vincolante nei confronti dell’autonomia privata. Tale giurisprudenza si è sviluppata,
nonostante alcune incertezze, a partire dagli anni ‘50 e si è definitivamente consolidata fin
a formare una vera e propria area di diritto vivente giurisprudenziale. Secondo la
giurisprudenza è da ritenere conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza
la retribuzione equivalente a quella prevista dai contratti collettivi applicabili alla
categoria o al settore produttivo cui appartiene il prestatore di lavoro. Si può dire che
all’origine ci sia stata la volontà politica della giurisprudenza di supplire attraverso una
operazione interpretativa all’assenza di un sistema attuativo dell’art. 39 Cost. che
riconosca ai contratti collettivi un’efficacia generale ed inderogabile. Ha trovato soluzione
sia pure parziale ed indiretta, il problema dell’estensione degli effetti del contratto collettivo
anche ai soggetti ai quali esso non si applica, almeno con riferimento alla parte economica.
In pratica, il prestatore di lavoro non iscritto (o dipendente da un datore di lavoro non
iscritto) al sindacato stipulante il contratto collettivo non potrebbe invocare in giudizio

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l’applicazione delle clausole retributive del contratto collettivo. Egli invece, in virtù
dell’applicazione della norma costituzionale, può domandare al giudice che il datore di
lavoro venga condannato al pagamento della differenza tra la retribuzione percepita
inferiore ai minimi del contratto collettivo e quella stabilita da quest’ultimo. Secondo la
Corte di Cassazione, sarebbe in contrasto con la norma costituzionale una determinazione
della retribuzione in misura inferiore ai minimi contrattuali nazionali col solo richiamo a
condizioni ambientali e territoriali; ma la stessa Corte reputa legittime le riduzioni rispetto
allo standard nazionale di categoria per determinate regioni o zone economicamente
depresse. Spetta quindi al giudice il controllo sui parametri di proporzionalità e sufficienza
della retribuzione.

5. Gli strumenti tecnici utilizzati dalla giurisprudenza.

La giurisprudenza ha operato un raccordo tra l’art.361Cost. e l’art.2092, il quale dispone


che, in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordo individuale tra le parti, la
retribuzione sia determinata dal giudice, tenuto conto del parere delle associazioni
professionali. In generale il contratto è nullo se il suo oggetto non è determinato, quindi la
mancanza dell’accordo tra le parti sulla retribuzione dovrebbe viziare di nullità l’intero
contratto. Tuttavia l’art.2099 deroga alla disposizione generale stabilendo che, nell’ipotesi
del contratto di lavoro, il difetto di un elemento essenziale qual è la retribuzione non sia
causa di nullità ma di integrazione della lacuna esistente nel contratto, del quale si dispone
comunque la conservazione. Peraltro, l’integrazione giudiziale prevista dall’art. 2099
comma 2 c.c. ha avuto una funzione creatrice, in quanto la determinazione giudiziale ha
operato mediante la sua sovrapposizione ad una clausola retributiva esistente, ma ritenuta
insufficiente e quindi nulla per contrasto con l’art. 36 Cost. va notato, al riguardo, che
poiché la retribuzione è oggetto dell’obbligazione corrispettiva del datore di lavoro
essenziale all’esistenza del contratto, la nullità della clausola retributiva dovrebbe
comportare la nullità dell’intero contratto ai sensi dell’art. 1419. Una parte della dottrina
ha criticato l’equiparazione dell’invalidità all’inesistenza della clausola retributiva. Si è
parlato di giurisprudenza praeter legem o ancora contra legem, giurisprudenza che si può
giustificare dal punto di vista tecnico, perché il fenomeno della correzione del regolamento
contrattuale è riconosciuto dal vigente ordinamento privatistico in tutte le ipotesi in cui
esso impone che la misura di una prestazione contrattuale sia necessariamente
determinata.

SEZ.B: La struttura della retribuzione


6. I sistemi di retribuzione.

L’art.2099 dice che ci sono due sistemi principali di retribuzione: quella a tempo e quella
a cottimo; la norma richiama inoltre alcuni sistemi secondari come la partecipazione agli
utili o ai prodotti e la provvigione. La determinazione della retribuzione è affidata ai
contratti collettivi o agli accordi individuali se questi sono più favorevoli al prestatore,
sempre nell’osservanza dell’art.36Cost. È a tempo (o ad economia) la retribuzione
commisurata al tempo della prestazione del lavoro; invece il cottimo considera il risultato
del lavoro come criterio per la determinazione quantitativa della prestazione. Altro sistema
è quello della partecipazione agli utili, per cui il prestatore viene retribuito in tutto o in

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parte con una percentuale sugli utili conseguiti dall’imprenditore nell’esercizio della sua
attività. Analogo è il sistema della partecipazione ai prodotti dell’impresa che ha come
parametro di riferimento, non gli utili, ma la produzione aziendale. Evidente è lo svantaggio
che queste ultime forme di retribuzione arrecano al prestatore di lavoro, sul quale viene
addossato il rischio della produzione, oppure della stessa redditività dell’impresa. Per
questo motivo la giurisprudenza ritiene che al lavoratore retribuito in tutto o in parte
mediante partecipazione agli utili o ai prodotti spetti in ogni caso una retribuzione
sufficiente. In ultimo, la provvigione è una particolare forma di partecipazione ai prodotti
usata nel settore commerciale e degli affari: in questi casi la retribuzione è calcolata in
percentuale rispetto al volume di affari procurato all’imprenditore, come accade per agenti
e rappresentanti di commercio.

7. La retribuzione a tempo.

Nell’ambito della retribuzione a tempo, un’importante distinzione si opera tra la


retribuzione oraria denominata salario e la retribuzione mensile chiamata stipendio, che
corrisponde tradizionalmente alla distinzione tra operai e impiegati. La differenza non è il
temine di adempimento dell’obbligazione retributiva, perché in entrambi i casi il termine
può essere la fine del mese o un periodo più breve. La differenza sta piuttosto nel fatto che
la retribuzione oraria è calcolata sulla base delle ore lavorate nel mese (qui il rischio
dell’inattività è interamente a carico del lavoratore), mentre con la retribuzione mensile il
datore si assume il rischio della mancata prestazione di lavoro entro il mese. In entrambi
i casi, sulla retribuzione normale, corrisposta come compenso per la prestazione resa
nell’orario normale di lavoro, si calcolano tutte le maggiorazioni per lavoro straordinario,
festivo e notturno. Alla mancata fruizione del riposo feriale da parte del lavoratore fa
riscontro non solo il diritto alla retribuzione per il lavoro prestato, ma anche il risarcimento
del danno subito.

8. Gli elementi accessori della retribuzione e la sua struttura complessa.

I contratti collettivi o individuali possono prevedere elementi accessori della retribuzione


consistenti in attribuzioni corrisposte in aggiunta alla paga base in maniera saltuaria o
continuativa. Ne fanno parte i superminimi, corrispondenti a quella parte della
retribuzione che supera i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi, e che vengono
assegnati individualmente o collettivamente, di regola a livello aziendale. Vi rientrano
anche le mensilità supplementari, come la tredicesima o gratifica natalizia. Sono elementi
accessori inoltre le indennità previste dalla contrattazione collettiva per compensare
l’esecuzione di lavori disagiati, gravosi o comunque considerati penosi rispetto allo
standard normale della prestazione (cd. monetizzazione del rischio o disagio della
prestazione). Inoltre, troviamo i premi collettivi di produzione o di rendimento istituiti
nell’intento di far partecipare il lavoratore, attraverso un’integrazione della retribuzione, ai
benefici della produttività aziendale misurata attraverso indicatori tecnici ed economici.
Recentemente mantenendo ferma la disciplina già in essere, la legge di bilancio ha
innalzato l’importo massimo assoggettabile ad aliquota di vantaggio, portandolo a 3.000
euro per la generalità dei rapporti di lavoro. È da segnalare infine la tendenza della
contrattazione aziendale ad istituire i c.d. premi di presenza, rivolti a disincentivare
l’assenteismo. Diverso è invece il caso delle gratifiche. La ragione di questa struttura

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complessa della retribuzione è che: la retribuzione concretamente corrisposta ai lavoratori


è sensibilmente diversa da quella normale minima, consiste nel fatto che le aziende e la
contrattazione collettiva tendono a differenziare la retribuzione, articolandone la
composizione in modo da adattarla ai caratteri delle singole prestazioni, i diversi elementi
(o voci) della retribuzione costituiscono una delle materie per le quali più frequentemente
sorgono controversie a causa dei problemi di coordinamento tra contratto collettivo e
contratto individuale nel regolamento del rapporto di lavoro.

10. La retribuzione a cottimo.

Storicamente, la retribuzione a cottimo è stata la forma tipica della retribuzione del lavoro
autonomo. Nella fase di transizione dall’industria artigiana e domestica all’industria
manifatturiera, il cottimo si identifica con il compenso, commisurato al risultato, della
locazione d’opera. Successivamente la forma del cottimo viene utilizzata anche nel lavoro
subordinato non più per determinare il contenuto della prestazione lavorativa, ma per
misurare la retribuzione in proporzione ad un risultato predeterminato. Nel cottimo il
rischio della produttività del lavoro resta a carico del datore per ciò che riguarda
l’organizzazione del lavoro e il risultato della prestazione nel suo complesso; mentre viene
parzialmente trasferito a carico del prestatore per ciò che riguarda la quantità della
retribuzione. In realtà nella struttura della retribuzione il cottimo si configura come una
maggiorazione (percentuale o utile di cottimo) integrativa della retribuzione fissa (o minimo
di paga base calcolato a tempo); mentre la retribuzione a cottimo integrale o puro è di fatto
limitata al lavoro a domicilio. Secondo l’art.2100 il prestatore deve essere necessariamente
retribuito a cottimo tutte le volte che: in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è
vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo (catena di montaggio); oppure
nelle lavorazioni ad economia di tempo in cui la valutazione della sua prestazione sia fatta
in base alle misurazioni dei tempi di lavorazione. L’art.2101 disciplina l’intervento del
sindacato nella formazione delle tariffe di cottimo, disponendo che i contratti collettivi
possono stabilire che le tariffe non divengano definitive se non dopo un periodo di
esperimento e che possono essere sostituite soltanto se intervengono mutamenti nelle
condizioni di lavoro e in ragione degli stessi. Alla fase c.d. sindacale della determinazione
preventiva e astratta delle tariffe di cottimo nei contratti collettivi di categoria segue la fase
c.d. aziendale dell’applicazione delle tariffe ai fini della determinazione del concreto
sistema di retribuzione a cottimo, e cioè del rapporto tra guadagno o utile di cottimo e
tempi o quantità di produzione (c.d. curva di cottimo). Infine, l’imprenditore ha l’obbligo di
comunicare preventivamente ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi
della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire e il relativo compenso unitario (bolla di
cottimo). L’intervento sindacale è circoscritto alla fissazione dei criteri per la formazione
delle tariffe di cottimo. Tuttavia la contrattazione collettiva ha progressivamente superato
la distinzione tra fase sindacale e fase aziendale, intervenendo su quest ultima per
regolamentare non solo la retribuzione ma anche la prestazione del lavoratore cottimista.
Si può sostenere che, in realtà, l’effettiva funzione del cottimo sia quella di adeguare la
retribuzione al modo di organizzare la prestazione lavorativa e che sarebbe più realistico
parlare di sistemi di organizzazione del lavoro a cottimo, anziché di sistemi di
retribuzione a cottimo.

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11. La nozione di retribuzione.

Non tutto ciò che il datore eroga al lavoratore fa parte della retribuzione: per l’art.2094
requisito indefettibile della nozione di retribuzione in senso stretto è l’obbligatorietà
dell’attribuzione mentre la continuità della corresponsione e la predeterminatezza
dell’ammontare fungono da indici presuntivi di tale obbligatorietà, distinguendola da tutte
le altre prestazioni che presentano i caratteri della straordinarietà e dell’eventualità nella
corresponsione e nell’ammontare. In giurisprudenza, perché si abbia retribuzione occorre
che la prestazione sia dovuta al lavoratore in via necessaria e non eventuale, come
compenso di una specifica attività di lavoro ordinario o straordinario. Nella definizione
legislativa della retribuzione vige il principio di onnicomprensività della retribuzione, per il
quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della
prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere
continuativo, periodico o costante nel tempo. L’art.2120 ha previsto espressamente la
derogabilità della regola di onnicomprensività da parte dei contratti collettivi, evidenziando
la prevalenza dell’autonomia collettiva e il ruolo sussidiario della disciplina legale per ciò
che concerne la composizione e il livello della retribuzione. Non esiste nell’ordinamento un
principio o regola legale di c.d. onnicomprensività ai fini della determinazione dei diversi
elementi che compongono la retribuzione nonché dei rispettivi criteri di calcolo. Questo
vale in particolare per la definizione della retribuzione base o parametro utile ai fini del
calcolo delle diverse voci che compongono la retribuzione c.d. globale. La stessa definizione
contrattuale di retribuzione è variabile a seconda dei singoli istituti retributivi o dei diversi
contratti di categoria.

SEZ.C: Il trattamento retributivo nelle ipotesi di sospensione del rapporto


13. Contratto di lavoro e rimedi sinallagmatici.

Al contratto di lavoro si applicano le norme generali sui cd. rimedi sinallagmatici mediante
i quali viene tutelato l’interesse di ciascun contraente al puntuale e reciproco adempimento
delle rispettive promesse e prestazioni: tra queste, la risoluzione per inadempimento, per
impossibilità sopravvenuta, per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’art.1460 ammette
inoltre l’eccezione di inadempimento, di conseguenza si può arrivare alla sospensione delle
rispettive obbligazioni quando il prestatore di lavoro da un lato o il datore dall’altro, avendo
ragione di temere che la controprestazione non sarà adempiuta, ritengano di invocare
l’eccezione di inadempimento, interrompendo automaticamente l’esecuzione del contratto.
Ciò vale non solo nell’ipotesi di inadempimento imputabile ma anche nell’ipotesi di
impossibilità oggettiva sopravvenuta nonché in quella di eccessiva onerosità sopravvenuta:
tuttavia quest’ultima ipotesi deve ritenersi in concreto assolutamente eccezionale. In realtà
nel rapporto di lavoro si verificano normalmente impedimenti temporanei tali da
sospendere anziché estinguere l’obbligazione. Tuttavia, nel lavoro subordinato come negli
altri contratti di durata, la necessaria irrecuperabilità della prestazione impedita e la
conseguente impossibilità dell’adempimento tardivo, comportano che l’impossibilità
sopravvenuta sia da ritenere definitiva. Così, all’ordinario effetto della risoluzione del
contratto si accompagna necessariamente la liberazione di entrambe le parti dalle
rispettive obbligazioni. Invero, nel rapporto di lavoro, per quanto verificabili nella pratica,
i casi di impossibilità sopravvenuta solo marginalmente danno luogo alle normali
conseguenze della risoluzione del contratto. Questa è infatti operativa per il futuro in

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ragione dell’irrepetibilità delle prestazioni rese e viene surrogata dalle vicende della
sospensione del rapporto oppure del recesso unilaterale del contratto.

14. La sospensione del rapporto.

Nel nostro ordinamento si è affermato progressivamente il principio della cd. traslazione


sul datore del rischio dell’inattività del prestatore nei casi di impossibilità sopravvenuta
della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del lavoratore.
In effetti, mentre per la prestazione del datore, normalmente pecuniaria e comunque
meramente patrimoniale, l’impossibilità è rigorosamente oggettiva e quindi eccezionale,
l’impossibilità della prestazione del lavoratore può essere determinata da un fatto non
imputabile al debitore ma comunque dipendente da un impedimento o da un’incapacità
personale dello stesso: considerando l’infungibilità soggettiva di tale prestazione, ciò
porterebbe all’estinzione dell’obbligazione per impossibilità oggettiva sopravvenuta con
esonero del lavoratore dall’obbligo della prestazione e dalla responsabilità per
inadempimento, e comporterebbe anche la liberazione del datore dall’obbligazione
reciproca della retribuzione. Avviene invece il contrario e cioè che, proprio in virtù della
suddetta traslazione del rischio, il lavoratore viene sollevato dagli effetti economici della
propria inattività, conservando in tutto o in parte il diritto alla retribuzione. Il principio di
traslazione del rischio è enunciato negli artt. 2110 e 2111 i quali dispongono
espressamente la sospensione del rapporto di lavoro nelle ipotesi di impossibilità
temporanea relative alla persona del lavoratore, ossia infortunio, malattia, gravidanza,
puerperio e servizio militare. In questi casi, da un lato il lavoratore ha diritto alla
conservazione della retribuzione o l’attribuzione in sua vece di un’indennità nella misura
e per il tempo stabiliti dalle leggi speciali, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità;
e dall’altro ha diritto alla sospensione della prestazione e alla conservazione del posto di
lavoro con il conseguente divieto di licenziamento per il periodo stabilito dalle medesime
fonti. Questo periodo è chiamato di irricevibilità, o di comporto se siamo nel caso di
malattia e infortunio. Infine, il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause suddette
dev’essere computato nell’anzianità di servizio del prestatore.

15. Malattia, infortunio, gravidanza e puerperio.

Nella pratica le ipotesi più rilevanti di impossibilità della prestazione sono la malattia,
l’infortunio, la gravidanza, il puerperio. Esse sono contemplate dall’art. 2110 c.c. che
dispone la giustificazione dell’assenza del lavoratore e conservazione della obbligazione
retributiva. Lo stesso art. 2110 c.c. prevede, per altro, che il datore di lavoro sia esonerato
da quest’ultima obbligazione allorché la legge o i contratti collettivi stabiliscano forme
equivalenti di previdenza o assistenza. Prima dell’entrata in vigore della riforma sanitaria
per i lavoratori privati tale assicurazione era gestita dall’INAM (l’ente previdenziale che
provvedeva sia all’assistenza sanitaria sia all’erogazione agli operai di una indennità
giornaliera pari alla retribuzione ossia l’indennità di malattia). A seguito della riforma
sanitaria l’assistenza medica è stata generalizzata ed affidata al servizio sanitario
nazionale, mentre l’indennità è corrisposta dall’INPS. Il bilanciamento tra questi interessi
contrapposti è la razio dell’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori, che ha inteso escludere gli
accertamenti sanitari da parte di medici fiduciari del datore di lavoro. L’interesse al
controllo dell’infermità del lavoratore, coinvolge ance l’ente previdenziale, che si

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sostituisce al datore di lavoro nell’obbligazione retributiva, pagando al lavoratore


un’indennità. Ciò, vale solo per gli operai, che sono esclusi dalla copertura dell’indennità
in questione per i primo 3 gg di malattia (c.d. periodo di carenza assicurativa). Per quanto
riguarda invece gli impiegati, le assenze per malattia vengono retribuite integralmente e
fin dal primo giorno. Notevoli differenze rispetto ai precedenti istituti, presentano invece i
trattamenti economici e normativi connessi alla maternità e alla paternità disciplinati dal
d.lgs. num. 151, nonché quello previsto per l’aspettativa da lavoro connessa alla cura di
figli con handicap grave.

16. Altre ipotesi di sospensione del rapporto.

Altre cause di sospensione della prestazione per impossibilità temporanea del lavoratore
sono riconducibili all’adempimento dei doveri costituzionali relativi alle funzioni pubbliche
elettive e al servizio militare obbligatorio. I cittadini chiamati a ricoprire cariche pubbliche
elettive hanno diritto di disporre del tempo necessario per l’espletamento del mandato,
fruendo di aspettative e permessi e conservando il posto di lavoro. Analoga previsione è
dettata per i lavoratori che rivestono funzioni di amministratori degli enti locali, i quali
possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutti il periodo di
espletamento del mandato. Il diritto all’aspettativa è previsto dallo statuto dei lavoratori
anche in favore dei lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali nazionali o
provinciali. Inoltre permessi, in parte retribuiti sono concessi ai dipendenti delle
rappresentanze sindacali aziendali. Questa tutela è estesa ai rappresentanti dei lavoratori
che facciano parte del Comitato Aziendale Europeo o operino nell’ambito della procedura
di informazione e consultazione, ovvero di quelli che esercitano la loro attività sindacale
nell’ambito di società per azioni europee. I permessi sono previsti anche in favore dei
lavoratori impegnati nelle operazioni elettorali. Al servizio militare, regolato dall’art.2111 e
dalle leggi speciali, è stato successivamente equiparato il volontariato civile nei paesi in via
di sviluppo e il servizio civile compiuto dagli obiettori di coscienza in sostituzione del
servizio militare. Lo stato di tossicodipendenza accertato secondo le modalità previste
attribuisce al lavoratore che intenda accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione
presso i servizi sanitari delle Asl o altre strutture equipollenti, il diritto ad un periodo, non
retribuito e senza decorrenza dell’anzianità, alla conservazione del posto di lavoro per la
durata del trattamento e comunque non superiore a 3 anni. Infine, ai lavoratori sono
riconosciuti 3giorni all’anno di permesso retribuito in occasione di eventi particolari
connessi alla vita familiare ed è loro attribuito il diritto a permessi per la formazione
continua. Il legislatore ha di recente, delegato il governo ad intervenire in materia congedi,
aspettative e permessi con riferimento ai dipendenti pubblici e privati, coordinando e
modificando la relativa normativa. La delega si estende anche alla razionalizzazione e
semplificazione dei documenti da presentare, con riferimento alle persone con handicap in
situazioni di gravità o affette da patologie oncologiche o neuro-degenerative.

17. La mora credendi del datore di lavoro.

In seguito alla sentenza n.29 della Corte costituzionale che nel 1960 ha riconosciuto
l’illiceità civile della serrata, in dottrina e in giurisprudenza si è affermata la sua
qualificazione giuridica in termini di mora del creditore, in quanto la fattispecie concreta
può essere accostata al rifiuto di accettare la prestazione da parte del creditore di lavoro.

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L’art. 1217 nel disciplinare la mora credendi nelle obbligazioni di fare, dispone che se la
prestazione consiste in un fare, il creditore è costituito in mora mediante l’intimazione di
ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla
possibile. Nel rapporto di lavoro questa attività di cooperazione consiste nella
predisposizione del c.d. substrato reale della prestazione e più precisamente dei mezzi
necessari alla sua esecuzione, quindi locali, macchinari e strumenti di lavoro, energie e
materie prime. Per aversi costituzione in mora però la mancata cooperazione deve essere
ingiustificata, senza motivo legittimo: soltanto in questo caso il datore di lavoro non è
liberato dall’obbligo corrispettivo della retribuzione; se viceversa il rifiuto ha un motivo
legittimo (ad esempio, la prestazione offerta dal lavoratore è difforme da quella dovuta) la
mora creditoria è esclusa e la prestazione diviene impossibile, con conseguente perdita del
diritto alla retribuzione. L’art. 1207 precisa gli effetti della mora ponendo a carico del
creditore: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e il risarcimento dei danni
derivanti dal ritardo nell’adempimento, nonché le spese che ne conseguono. L’obbligo
risarcitorio è limitato all’eventuale pregiudizio subito dal lavoratore per la mancata
esecuzione della prestazione lavorativa. Invece, il trasferimento del rischio
dell’impossibilità fortuita comporta il diritto del prestatore alla conservazione della
retribuzione per tutta la durata della mora accipiendi del datore di lavoro. Va precisato,
infine ì, che dalla mora credendi si distingue l’ipotesi in cui il datore di lavoro tenga il
prestatore a disposizione senza utilizzarne l’attività, ma corrispondendo regolarmente la
retribuzione. Poiché il prestatore ha l’obbligo e non il diritto di eseguire la prestazione, la
sua inattività retributiva deve essere considerata una forma di adempimento sia pure
anomala e non già inadempimento dell’obbligazione di lavoro.

18. L’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione di lavoro.

Diverso è il caso di interruzione del lavoro o sospensione dell’attività aziendale dipendenti


da fatti direttamente o indirettamente riconducibili all’organizzazione produttiva
dell’impresa e tali da determinare l’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione
lavorativa (che si verifica di regola per cause di natura tecnico-funzionale). La legge
sull’impiego privato dice che, in caso di sospensione di lavoro per fatto dipendente dal
principale, l’impiegato ha diritto alla retribuzione normale, affermando così il principio
della traslazione del rischio a carico del datore; nel caso degli operai invece l’impossibilità
temporanea della prestazione determina la sospensione del rapporto senza diritto del
prestatore alla retribuzione. Ovviamente, nel primo caso, la conservazione della
retribuzione è subordinata alla volontà dell’imprenditore, il quale può sempre liberarsi dal
relativo obbligo optando per la risoluzione anziché per la sospensione del rapporto. La
materia si trova la sua più ampia fonte di regolamentazione nei contratti collettivi, i quali
di solito disciplinano gli effetti della sospensione dell’attività produttiva da parte
dell’azienda, ponendo a carico dell’imprenditore le sospensioni di breve durata (c.d. soste)
che il datore di lavoro è obbligato a retribuire entro un determinato limite massimo;
superato tale limite, invece, è prevista la sospensione del rapporto, poiché l’imprenditore è
autorizzato a “mettere in libertà” i lavoratori senza essere ulteriormente obbligato al
pagamento della retribuzione.

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CAP. 6 – IL LAVORO DELLE DONNE E DEI MINORI


1. Il lavoro delle donne e dei minori. La tutela differenziata ed il principio
costituzionale di parità di trattamento.

La tutela differenziata che l’art. 37 Cost. riconosce al lavoro delle donne e dei minori va
ricollegata alla loro specifica condizione di inferiorità socio-economica nonché all’esigenza
di una particolare attenzione all’integrità psico-fisica dei minori e a particolari occasioni
della vita delle donne. L’art. 37 ha anche introdotto il principio della tutela paritaria, mirata
a garantire ai minori e alle donne la parità di trattamento rispetto ai lavoratori adulti di
sesso maschile. È compito della legge ordinaria fissare il limite di età minima per il lavoro
dipendente mentre la legislazione speciale provvede alla tutela della salute e dello sviluppo
fisico e morale dei lavoratori più giovani; alla donna devono invece essere garantite la
condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e
alla protezione della maternità; è riconosciuta inoltre alla donna lavoratrice parità di diritti
e in particolare il diritto ad una eguale retribuzione a parità di lavoro rispetto agli uomini.
Lo stesso diritto è riconosciuto anche ai minori rispetto ai lavoratori maggiorenni. Al
principio della parità retributivo e a quello più ampio della parità di diritti della donna e
del minore corrisponde un diritto soggettivo alla parità di trattamento verso il datore di
lavoro, obbligato alla non discriminazione per età e per sesso.

2. Il lavoro minorile.

La legge (L. 977/67) fissa l’età minima di ammissione al lavoro con riferimento al momento
in cui il minore concluda il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non prima dei
16 anni. Fermi restando questi limiti, la tutela dei minori è incentrata poi sull’imposizione
di limiti in materia di orario di lavoro, sul divieto di lavoro notturno, sull’obbligo di riposi
intermedi e settimanali, di ferie annuali, e sulla predisposizione di un robusto apparato di
sanzioni penali e amministrative. Il principio generale è dunque che i bambini (minori che
non hanno compiuto i 15 anni) non possono essere adibiti al lavoro, ma sono tuttavia
previste delle eccezioni che riguardano attività lavorative di carattere culturale, artistico,
sportivo o pubblicitario; per contro, esistono lavori cui è vietato adibire anche gli
adolescenti. La costituzione di un rapporto di lavoro con soggetti di età inferiore a quella
minima prevista nella L. 977 costituisce ipotesi di illiceità dell’oggetto del contratto per
contrarietà alla norma imperativa che sancisce il divieto: la violazione è sanzionata per
mezzo della nullità del contratto.

3. La tutela paritaria della donna: L. 903/1977

La L.903/1977 (il cui contenuto è ora trasposto nel D.Lgs 198/2006) impone un deciso
rafforzamento della tutela paritaria della donna, innanzitutto con riguardo alla
retribuzione ed estendendola poi in funzione della realizzazione della parità di diritti al
complessivo trattamento della lavoratrice sia nell’accesso al lavoro sia nello svolgimento e
nell’estinzione del rapporto; e a tal fine la legge dispone il divieto di ogni discriminazione
nonché la nullità degli atti conseguenti (ultimo comma art. 15 Statuto). Sono tuttavia
previste alcune deroghe tassative: da un lato per le mansioni particolarmente pesanti
individuate dalla contrattazione collettiva; dall’altra per quelle attività della moda, dell’arte

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e dello spettacolo, nelle quali l’individuazione del sesso costituisca requisito essenziale
della prestazione. La norma impone inoltre che i sistemi di classificazione professionale
adottino criteri comuni per uomini e donne e vieta la discriminazione nell’attribuzione delle
mansioni e delle qualifiche e nella progressione di carriera. La L.903 persegue poi l’obiettivo
della parità di trattamento ai fini previdenziali per ciò che concerne assegni familiari e
pensione di reversibilità. Per quanto concerne l’accesso alla pensione di vecchiaia il
legislatore ha imposto una parificazione tra lavoratori e lavoratrici. Tale parificazione si
concretizza nel progressivo innalzamento del dell’età pensionabile iniziato per le dipendenti
pubbliche dal 2009 ed esteso a tutte le lavoratrici dalla riforma Monti-Fornero del 2011.
Le continue critiche hanno indotto il legislatore a creare delle finestre di uscita anticipata
dal lavoro solo per le donne (c.d. opzione donna), comportanti però delle penalizzazioni in
termini di calcolo. Ciò è previsto per tutte quello donne che svolgono la fondamentale
funzione di cura dei figli o di anziani.

4. La tutela differenziata delle donne: le lavoratrici madri

Nell’ambito della tutela differenziata della capacità di lavoro si inquadrano le norme in


tema di tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri contenute nel TU approvato con
il D.Lgs 151/2001. Innanzitutto prevede il divieto di licenziamento della lavoratrice dal
momento di inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Il
licenziamento è invece consentito nell’ipotesi di giusta causa dovuta a colpa grave della
lavoratrice, nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda, di ultimazione della
prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta, nel caso di scadenza del termine e
di esito negativo della prova. La legge inoltre stabilisce una specifica limitazione alla
capacità di lavoro della donna nel periodo della maternità: è infatti vietato adibire la donna
al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi,
assicurando alla lavoratrice nel corso di tale periodo un trattamento economico pari all’
80% della retribuzione e posto a carico dell’Inps. La lavoratrice ha poi la facoltà di optare
per uno spostamento del periodo di astensione (1+4). È vietato infine adibire la donna al
trasporto e al sollevamento di pesi e in generale a lavori pericolosi, faticosi o insalubri, per
tutta la durata della gravidanza e fino a sette mesi dopo il parto. Allorché la donna svolga
abitualmente questo tipo di lavori, dovrà essere adibita ad altre mansioni anche in deroga
all’art. 2103 ma in ogni caso con la salvaguardia del precedente trattamento retributivo.
La legge prevede infine periodi giornalieri di riposo durante il primo anno di vita del
bambino (i c.d. permessi per l’allattamento): si tratta in sostanza del diritto ad un orario
di lavoro ridotto.

5. La disciplina paritaria dei congedi parentali.

Il legislatore (L. 53/2000) ha anche previsto un’articolata disciplina diretta a consentire la


fruizione di un ulteriore periodo di astensione dal lavoro in relazione alla condizione
personale della lavoratrice o del lavoratore e alle esigenze dei figli. In primo luogo è stato
riconosciuto al padre lavoratore il congedo di paternità, ossia il diritto di astenersi dal
lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio nel caso di morte o grave infermità della
madre, di abbandono del bambino, o qualora ne abbia avuto l’affidamento esclusivo: in
queste ipotesi si applicano al padre le norme che prevedono la corresponsione di
un’indennità pari all’80% della retribuzione, il computo del periodo di astensione

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nell’anzianità di servizio, la tutela contro il licenziamento fino al compimento di un anno


di età del bambino. Entrambi i genitori hanno il diritto ad una astensione facoltativa dal
lavoro (congedi parentali) entro i primi otto anni di età del bambino e che consiste
nell’astensione facoltativa, per un periodo continuativo o frazionato, fino a 6mesi per la
madre e 7per il padre (10mesi nel caso vi sia un solo genitore). Durante questi periodi il
genitore ha diritto a un’indennità pari al 30% della retribuzione fino al terzo anno di età
del bambino e per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6mesi; oltre tale periodo
e fino all’ottavo anno di età del bambino l’indennità spetta solo nel caso in cui il reddito
individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5volte l’importo del trattamento minimo di
pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. Durante le malattie del bambino
di età inferiore a 8anni entrambi i genitori hanno il diritto di astenersi alternativamente
dal lavoro dietro presentazione di un certificato medico, ma durante questi periodi non è
dovuta alcuna indennità, soltanto una contribuzione figurativa a fini pensionistici. Tutti i
periodi di astensione facoltativa e per malattia del bambino sono computati nell’anzianità
di servizio. Va menzionato poi il “congedo di paternità obbligatorio” di un giorno (entro i 5
mesi dalla nascita del figlio); entro il medesimo periodo il padre può astenersi dal lavoro
per ulteriori 2 giorni (coperti dall’INPS con indennità giornaliera pari al 100% della
retribuzione). Altre misure destinate alle famiglie e alla genitorialità degne di essere
menzionate sono: offrire alla madre un sostegno al termine del congedo di maternità, la
corresponsione di un voucher per l’acquisto di servizi di babysitting, il buono di mille euro
per il pagamento di rette dell’asilo nido. Il legislatore si è preoccupato di stabilire alcune
norme rivolte ad assicurare al datore di lavoro la possibilità di fronteggiare meglio le
richieste di congedi parentali. Si è cosi previsto che nei casi di utilizzo dei congedi di
paternità o maternità l’assunzione di un lavoratore con contratto a termine in sostituzione
di quello assente possa avvenire anche con anticipo di un mese rispetto al periodo di inizio
dell’astensione stessa. Altra materia oggetto di disciplina è quella delle assenze dei
genitori per le malattie del bambino: si è attribuito ad entrambi i genitori
alternativamente il diritto di astenersi dal lavoro durante le malattie del bambino di età
inferiore ai 8 anni dietro presentazione di un certificato medico. I lavoratori di entrambi i
sessi hanno poi diritto alla conservazione del posto nel corso di tutti i periodi di astensione
previsti, nonché a rientrare nella stessa unità produttiva di provenienza o in altra ubicata
nello stesso comune. Accanto a queste disposizioni relative ai periodi di astensione per la
cura dei figli vanno collocate quelle rivolte ad assicurare ai lavoratori e alle lavoratrici la
possibilità di godere di ulteriori periodi di congedo per più generali esigenze di cura
familiare. Da ultimo, il d.lgs. 151/20015 (sempre parte della riforma denominata JOBS
ACT) ha precisato che i lavoratori possano cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie
maturate in favore dei lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro che siano genitori
di figli minori i quali per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti.

6. Parità tra i sessi e speciali occasioni di tutela delle donne.

La legge vieta infine l’adibizione della lavoratrice madre al lavoro notturno dal momento
dell’accertamento dello stato di gravidanza e fino al compimento di un anno di età del
bambino; vige anche la non obbligatorietà del lavoro notturno per la lavoratrice madre di
un figlio di età inferiore a 3anni e per la lavoratrice o lavoratore che sia l’unico genitore
affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12anni. Una particolare misura di
sostegno a tutela delle sole donne, invece, è stata introdotta con l’art 24 d.lgs. 80/2015

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che ha previsto il congedo per le donne vittima della violenza di genere e inserite in
particolari percorsi di protezione certificati. Alla ratio della migliore diffusione della
conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro risponde il d.lgs. 80/2015, in tema
telelavoro, che consente ai datori di lavoro che vi facciano ricorso per motivi legati ad
esigenze di conciliazione, di escludere i lavoratori ammessi al telelavoro dal computo dei
limiti numerici per l’applicazione di particolari istituti e normative.

7. Le azioni positive e le pari opportunità tra i sessi.

Un particolare rafforzamento della tutela paritaria della donna nel lavoro si è avuto con la
L.125/1991 intervenuta ad integrare la L.903 al fine di promuovere l’attuazione di azioni
positive e di misure tese alla rimozione degli ostacoli che si frappongono all’accesso della
donna al mercato del lavoro. I programmi rivolti alle donne sono indirizzati soprattutto al
miglioramento della formazione professionale e scolastica e a favorire il riequilibrio delle
responsabilità familiari e professionali tra i sessi. Al fine di assicurare l’effettività dell’intera
disciplina è stato istituito presso il Ministero del Lavoro il Comitato Nazionale per
l’attuazione dei principi di parità di trattamento. Alcune decisioni della Corte di Giustizia
pur non riguardando direttamente l’Italia, hanno sollevato il problema relativo alla
legittimità di azioni positive che facciano prevalere le donne rispetto agli uomini, nel caso
in cui le stesse facciano possesso di pari requisiti professionali. In un primo momento la
Corte di Giustizia intervenendo su una legge di un Land tedesco che introduceva un simile
meccanismo, ha ritenuto tale normativa in contrasto con il principio di parità di
trattamento sul lavoro tra uomini e donne. Successivamente la medesima corte,
pronunciandosi su una legge di un altro Land tedesco che prevedeva lo stesso meccanismo
ha parzialmente rivisto le sue posizioni, giungendo a sostenere la legittimità di norme
nazionali che, in caso di pari qualificazione di candidati di sesso diverso, obblighino a dare
la precedenza alle candidate nei settori di attività in cui, al livello preso in considerazione,
le donne siano meno numerose degli uomini.

8. Il rafforzamento della tutela antidiscriminatoria

La L.125 ha introdotto anche importanti perfezionamento sostanziali e processuali alla


tutela antidiscriminatoria già prevista dalla L.903: innanzitutto, il divieto di
discriminazione si estende alle forme di discrimina-zione indiretta consistenti in ogni
trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo
maggiore i lavoratori di un determinato sesso. Sul piano probatorio, l’onere della prova
definitiva della non discriminazione ricade a carico del convenuto, allorché il lavoratore o
la lavoratrice ricorrente fornisca elementi di fatto, desumibili anche da dati statistici, idonei
a fondare la presunzione di una discriminazione per sesso. Ove poi il comportamento
discriminatorio abbia carattere collettivo, dunque non siano individuabili i lavoratori
direttamente lesi, il ricorso al giudice può essere proposto dal consigliere di parità istituito
a livello regionale o nazionale. Infine, l’accertamento di comportamenti discriminatori può
causare la revoca dei benefici finanziari dei quali goda l’imprenditore o la risoluzione di
eventuali contratti di appalto con enti pubblici. Si può affermare che ormai l’ordinamento
persegue l’obiettivo di una effettiva parità di diritti della donna lavoratrice.

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CAP. 7 – L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO


SEZ. A: L’estinzione in generale
1. I modi di estinzione del rapporto di lavoro. Impossibilità sopravvenuta della
prestazione.

Il rapporto di lavoro ha un termine nel tempo, viene cioè a cessare: l’effetto estintivo è
riconducibile alla volontà di uno (recesso unilaterale, dimissioni o licenziamento) o di
entrambi (risoluzione consensuale). I rapporti obbligatori possono risolversi per
impossibilità sopravvenuta della prestazione, definitiva o temporanea, ma comunque
talmente prolungata nel tempo da poterla assimilare alla definitiva con riguardo
all’interesse delle parti. Per quanto interessa il contratto di lavoro, la prestazione della
retribuzione non può mai essere impossibile in quanto obbligazione pecuniaria; d’altro
canto la prestazione di lavoro è elastica e a contenuto da determinare. Il caso di perimento
di uno stabilimento in seguito ad alluvione potrebbe costituire una mera difficultas nel
ricevere la prestazione potendo il lavoratore essere sempre adibito ad altro stabilimento;
ugualmente, l’inidoneità fisica o professionale del lavoratore a certe mansioni non
costituisce impossibilità di adempiere all’obbligazione di lavoro, perché il lavoratore
potrebbe essere adibito a mansioni diverse cui sia idoneo. Invero in questi casi può non
essere opportuno o economicamente conveniente proseguire nel rapporto; ma allora alla
tutela di questo interesse sarà più funzionale lo strumento del recesso volontario che non
quello della risoluzione automatica ope legis. Per quanto riguarda l’impossibilità (non
esclusa ma drasticamente ridimensionata nel rapporto di lavoro) si deve distinguere
comunque tra eventi concernenti l’impresa ed eventi concernenti la persona del lavoratore.

2. La risoluzione consensuale. La risoluzione giudiziale per inadempimento.

Con la risoluzione consensuale (1371 e 1372 c.c.) il datore e il prestatore di lavoro


pervengono di comune accordo all’estinzione del rapporto. Tuttavia, man mano che la
disciplina dei licenziamenti è diventata più restrittiva, tanto più vi è la possibilità che il
mutuo consenso sia nient’ altro che uno strumento per aggirare i rigidi limiti legali e quindi
in questi casi è nullo in quanto costituisce un negozio in frode alla legge. Va presa, infine,
in considerazione la possibilità di affidare al contratto di lavoro la risoluzione giudiziale del
contratto di lavoro per inadempimento. La risposta sembra dover essere negativa: la
disciplina del contratto di lavoro prevede il recesso unilaterale anche da parte del
contraente adempiente verso quello inadempiente, sembra quindi di poter invocare il
principio della specialità.

3. Il recesso nel rapporto di lavoro: i reali interessi in gioco.

Il recesso costituisce un atto o negozio unilaterale e recettizio (1324 c.c.), in quanto


espressione della volontà di una sola delle parti e diretto produrre effetti nella sfera
giuridica dell’altra. Nei contratti di durata il recesso ha lo scopo di disporre la risoluzione
del vincolo contrattuale per volontà unilaterale di una parte: il recesso ha quindi la
funzione di delimitare nel tempo, mediante la fissazione di un termine (disdetta), l’efficacia
del contratto e nello stesso tempo di perseguire l’interesse alla sua risoluzione unilaterale.
Solo in presenza di anomalie funzionali del rapporto al recesso ordinario, e cioè con

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preavviso, si sostituisce il recesso straordinario, intimato senza preavviso e dunque con


effetto immediato. Nel contratto di lavoro occorre distinguere tra il recesso del datore
(licenziamento) e del lavoratore (dimissioni). L’art. 4 (commi 16-22) della L.92/2012
prevede che le dimissioni siano condizionate ad una convalida delle stesse presso la
Direzione territoriale del lavoro. In alternativa alla convalida è possibile la sottoscrizione di
dichiarazione del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della
comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro cui è tenuto il datore stesso. In
mancanza delle due alternative, il datore per accertare la reale volontà risolutiva del
rapporto ha l’onere di invitare il lavoratore entro il termine di 30 giorni dalla data delle
dimissioni a presentarsi presso le sedi della convalida o a sottoscrivere la dichiarazione. In
caso di mancato invito le dimissioni si considerano prive di effetto.

4.Il recesso ad nutum e l’obbligo di preavviso

Il Codice Civile prevede il principio della libera recedibilità (ad nutum) di entrambe le parti
con il preavviso. L’art. 2118 prevede, infatti, che ciascuno dei contraenti può recedere dal
contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’obbligo di dare preavviso nella misura
stabilita dalla contrattazione collettiva. In caso contrario, il recedente è tenuto a
corrispondere l’indennità di mancato preavviso, pari all’importo delle retribuzioni che
sarebbero spettate per il periodo di preavviso. Una questione che divide la dottrina è quella
della natura reale o obbligatoria del preavviso. Questo può essere considerato quale
periodo di sospensione dell’efficacia del negozio di recesso, o viceversa, il recesso, ancorché
con preavviso, può essere ritenuto immediatamente efficace, configurandosi l’obbligazione
del pagamento della relativa indennità come alternativa rispetto all’obbligazione di dare il
preavviso c.d. lavorato. Appare più coerente con la ratio della norma la prima soluzione.

5. Il recesso per giusta causa

Accanto al recesso ordinario con preavviso, il c.c. prevede che il recesso di entrambi i
contraenti dal contratto di lavoro possa essere immediato (straordinario o senza preavviso)
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del
rapporto (c.d. recesso per giusta causa). La Cassazione ha precisato che non si è in
presenza di due differenti negozi di recesso, “uno semplice e l’altro per giusta causa”, bensì
di un unico tipo di negozio, rispetto al quale la giusta causa costituisce solo un
presupposto che esonera dal preavviso. Ciò significa che, qualora si accerti che una giusta
causa non sussista, fermo restando la validità del recesso intimato, il recedente dovrà
rispondere per il mancato preavviso. Inoltre l’art. 2119 c.1 c.c., stabilisce che, in caso di
dimissioni per giusta causa, al lavoratore spetta l’indennità di mancato preavviso.

6. Le dimissioni volontarie e la risoluzione contrattuale.

La necessità di accertare che le dimissioni presentate dal lavoratore siano frutta di una
sua libera volontà ha indotto il legislatore ad introdurre una speciale procedura. Il primo
intervento si colloca nell’ambito della disciplina a tutela della maternità e paternità;
durante il periodo di gravidanza ed entro tre anni di vita del bambino le dimissioni sono
nulle se non vengono convalidate dalla lavoratrice o lavoratore presso il servizio ispettivo

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del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. La l. n. 92/2012
ha regolato nuovamente la materia, introducendo una storia di diritto di ripensamento
esteso a tutte le ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Ma la procedura
indicata era troppo complicata e così il legislatore ha effettuato un nuovo intervento con il
quale le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono avvenire a
pena di inefficacia esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli forniti dal
Ministero e trasmessi poi dal datore di lavoro. Questa procedura non trova applicazione se
le dimissioni intervengano nelle sedi protette.

SEZ.B: Il licenziamento individuale


7. l’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti. Dalla riforma Fornero
(l.n. 92/2012) al Jobs Act (d.lgs. n. 23/2015).

Il potere unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro non conosce altri limiti che il
preavviso. In risposta alle istanze di protezione, il potere di recesso del datore di lavoro
(licenziamento) è stato oggetto di vari interventi legislativi. Questi hanno introdotto a carico
del datore un generale obbligo di giustificazione del recesso, a garanzia del quale, è stata
predisposta a favore del lavoratore una tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) o
solo obbligatorio (pagamento di indennità).

La disciplina generale del licenziamento nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato è


oggi contenuta in una serie di fonti legislative succedutesi nel tempo. In forza agli accordi
interconfederali, il potere del recesso del datore di lavoro era sottoposto oltre che a vincoli
formali al limite sostanziale del giustificato motivo o della giusta causa; nel caso
licenziamento ingiustificato, il datore di lavoro era obbligato alla riassunzione, in
mancanza, al pagamento di una penale a titolo risarcimento del danno (c.d. tutela
obbligatoria).

L’art. 18 St. Lav, ha segnato un salto di qualità dal punto di vista della effettività della
tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo grazie alla previsione della sanzione
della reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno (c.d. tutela del
danno reale). Il suo campo di applicazione era limitato alle unità produttive con più di 15
dipendenti.

La legge 108/1990 ha ridisegnato in larga misura la disciplina preesistente, sia ridefinendo


il campo di applicazione della tutela reale e della tutela obbligatoria, sia sancendo
esplicitamente il generale principio della giustificazione del licenziamento (c.d. recesso
vincolato), che ormai, salvo alcune eccezioni vale per tutti i lavoratori.

La L. 92/2012 ha profondamente modificato la disciplina delle tutele, introducendo anche


un sistema sanzionatorio conseguente al licenziamento illegittimo in cui alla tutela
reintegratoria si affianca quella indennitaria. Di conseguenza la rubrica dell’art. 18, è
oggi denominata “tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”. Ha
circoscritto la tutela reale, anche nell’ambito dei datori di lavoro medio-grandi, solo che
alcune ipotesi, ritenute di maggiore gravità di licenziamento illegittimo prevedendo per le
altre la sola tutela obbligatoria con un risarcimento del danno variamente graduato, ma
sempre in misura maggiore rispetto a quello previsto dalla l.n. 604/1966. Si è pervenuti
alla disarticolazione del sistema sanzionatorio binario precedentemente vigente, già

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contrassegnato dall’applicazione della tutela reale per l’impresa medio-grande e per la


piccola.

La linea di tendenza alla riduzione della protezione del lavoratore difronte al licenziamento
illegittimo si è accentuata con il d.lgs. 23/2015 emanato dal Governo in attuazione di una
complessa delega- contenuta nella l. 183/2014 che persegue l’ambizioso obiettivo di
riformare gran parte della disciplina del diritto del lavoro (c.d. jobs act) e pervenire ad un
nuovo equilibrio fra esigenze di flessibilità dell’impresa e tutela del prestatore di lavoro. Il
citato decreto ha modificato in profondità il regime sanzionatorio del licenziamento
illegittimo, riducendo ulteriormente l’area della reintegrazione ed elevando a regola
generale il principio della compensazione monetaria in luogo dell’esecuzione in forma
specifica, mediante la previsione di un’indennità predeterminata dalla legge in misura
crescente in relazione agli anni di servizio del lavoratore. Questa nuova disciplina riguarda
tutti i datori di lavoro, pur mantenendo i profili sanzionatori differenziati in relazione ai
requisiti dimensionali del personale occupato, e ricomprende anche i licenziamenti
collettivi. Ma trova applicazione esclusivamente nei confronti dei lavoratori assunti con
contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dall’entrata in vigore del decreto
legislativo del 7 marzo 2015, mentre per quelli in servizio prima di tale data continua ad
applicarsi il novellato art 18 St. Lav e la l. 604/1966 sussistono pertanto regimi differenti,
uno ad esaurimento (che al momento riguarda la maggior parte dei lavoratori) e altro
definitivo, individuati sulla base di una circostanza temporale.

8. Il licenziamento ad nutum: da regola ad eccezione

Con la L.108/1990 il licenziamento ad nutum da regola è divenuto eccezione, avendo


ormai assunto una funzione meramente residuale in quanto applicabile soltanto ai
lavoratori appartenenti ad un ristretto numero di categorie. Il fatto che questi siano stati
esclusi dalla tutela contro il licenziamento ingiustificato può essere spiegato in ragione
dello specifico contenuto della prestazione lavorativa, o della natura fiduciaria del rapporto
di lavoro, o del presunto venir meno dell’interesse del lavoratore alla stabilità del rapporto.
Il recesso ad nutum riguarda attualmente i lavoratori domestici e gli sportivi professionisti,
i quali sono esplicitamente esclusi dall’ambito di applicazione della tutela reale e
obbligatoria; riguarda anche i lavoratori in prova, che però vengono assoggettati alla
disciplina limitativa dei licenziamenti nel momento in cui l’assunzione diviene definitiva e
in ogni caso decorsi 6 mesi dall’ inizio del rapporto di lavoro. Il recesso ad nutum opera
inoltre nei confronti dei lavoratori che abbiano maturato il diritto alla pensione di
vecchiaia, dunque coloro che abbiano compiuto 65 anni di età e che posseggono l’anzianità
contributiva minima prevista dalla legge. Infine, vi è l’ipotesi dei dirigenti, i quali sono
esclusi dalla disciplina limitativa dei licenziamenti in base al testo della stessa legge che la
dichiara espressamente applicabile solo a operai, impiegati e quadri intermedi.

9. Le ipotesi di limitazione temporale del licenziamento: infortunio, malattia,


gravidanza e puerperio, servizio militare, funzioni pubbliche elettive.

Il c.c. ha previsto dei periodi di limitazione temporale della facoltà di recesso del datore di
lavoro durante i quali è escluso il licenziamento ad nutum e consentito solo quello per
giusta causa (art.2110): ciò accade nei casi in cui il prestatore, essendo nell’impossibilità

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di effettuare la prestazione per infortunio, malattia, gravidanza o puerperio, viene a trovarsi


in una condizione di bisogno; situazione analoga è prevista anche per le ipotesi della
chiamata e del richiamo alle armi, al lavoratore che ricopra funzioni pubbliche elettive e ai
lavoratori che godono dei congedi parentali per motivi di cura e formativi. L’eventuale
licenziamento privo di giusta causa che sia intervenuto nei periodi di sospensione del
rapporto è semplicemente inefficace, cioè in grado di produrre i suoi effetti alla scadenza
di tali periodi; solo nei confronti delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, nonché dei
lavoratori che godono dei congedi di cura e formativi, tale licenziamento è da considerarsi
nullo. La legge Fornero ha disposto la retrodatazione dell’effetto del licenziamento.
Quest’ultimo, infatti, retroagisce al momento dell’avvio del procedimento disciplinare e
all’esito del procedimento di conciliazione previsto per il licenziamento individuale per
motivi economici.

10. I limiti sostanziali al potere di licenziare: il principio della giustificazione e la


regola del c.d. recesso vincolato.

Il primo limite imposto al potere di recesso del datore di lavoro è di carattere sostanziale:
infatti in base all’art. 1 L. 604/1966 affinché il licenziamento sia legittimo, deve
necessariamente ricorrere una giusta causa o un giustificato motivo, che hanno la funzione
di legittimare il recesso del datore. Le conseguenze che la legge ricollega all’illegittimità del
licenziamento per mancanza dei requisiti causali non sono sempre le stesse: occorre infatti
distinguere a seconda che al caso concreto sia applicabile la tutela reale prevista dall’art.18
dello Statuto dei lavoratori oppure la tutela obbligatoria prevista dall’art.8 della
L.604/1966. Nel primo caso la legge prevede l’annullabilità del licenziamento intimato in
assenza di giustificazione, mentre nel secondo caso il licenziamento privo di giusta causa
o di giustificato motivo, ancorché illegittimo, non è dalla legge qualificato come annullabile
ma soltanto illecito e pertanto espone ugualmente il datore di lavoro a conseguenze
sanzionatorie, ma non impedisce che si produca l’effetto estintivo del rapporto.

11. La nozione di giustificato motivo soggettivo e oggettivo.

L.604/1966 contiene una puntuale definizione del giustificato motivo distinguendo tra
un giustificato motivo soggettivo o subiettivo ed uno obbiettivo o oggettivo.

Il primo tipo (quello soggettivo) si realizza quando il prestatore di lavoro incorre in un


notevole inadempimento degli obblighi contrattuali; per la determinazione di tale nozione
si richiede, perché il contratto possa essere risolto, che l’inadempimento non sia di scarsa
importanza. I contratti collettivi svolgono un importante ruolo di chiarificazione
individuando con maggiore o minore precisione le ipotesi in cui può ricorrere il giustificato
motivo soggettivo elencando le infrazioni disciplinari tali da giustificare il licenziamento.
Anche se al giudice compete la valutazione della loro adeguatezza alla nozione di
giustificato motivo soggettivo. Per altro, il legislatore ha di recente stabilito che “nel
valutare” il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo
presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più
rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro. La disposizione tuttavia non
sembra suscettibile di vincolare più di tanto i giudici. Invero, il giudice è strettamente
vincolato alle nozioni generali di giusta causa e giustificato motivo contenute nella legge e

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quindi può utilizzare le tipizzazioni contrattuali soltanto come un elemento utile


all’applicazione nel caso concreto.

Il secondo tipo di giustificato motivo (quello obbiettivo) si realizza quando vi siano “ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazioni del lavoro e al regolare funzionamento di
esso”. In tal caso l’ordinamento fa prevalere sulla tutela del lavoratore che abbia
correttamente adempiuto alla prestazione le esigenze tecniche ed economiche della
organizzazione produttiva quelle effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato
svolgimento dell’attività produttiva. Un contrasto notevole si è presentato in dottrina e in
giurisprudenza tra l’opinione rimasta minoritaria che richiedeva al giudice un controllo di
merito sulla necessità del licenziamento e sulla razionalità delle scelte organizzative e
produttive dell’imprenditore e l’interpretazione da tempo dominante in giurisprudenza,
secondo cui il giudice deve limitarsi a verificare la sussistenza del motivo addotto
dall’imprenditore, nonché l’esistenza o meno del nesso causale tra le scelte
organizzative dell’imprenditore e il provvedimento di licenziamento. Il controllo
giudiziale è limitato esclusivamente, all’accertamento del presupposto di legittimità
e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro. La giurisprudenza ormai
consolidata ritiene che possa essere ravvisato il giustificato motivo oggettivo solo quando
il licenziamento sia senza alternative per il datore di lavoro. Ancora la giurisprudenza ha
ricondotto al giustificato motivo oggettivo ipotesi collegate alle esigenze dell’impresa
riconducibili a modificazione nell’attività e nella organizzazione produttiva, ma anche
collegate alla persona del lavoratore: tra queste in particolare la carcerazione preventiva
del lavoratore. Un’altra ipotesi di origine giurisprudenziale, talora regolata anche dalla
contrattazione collettiva, è quella della sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle
mansioni svolte. Va segnalata anzitutto la disposizione introdotta dal testo unico in
materia di sicurezza del lavoro secondo cui, in caso di sopravvenuta inidoneità del
lavoratore alle mansioni specifiche accertate dal medico competente, il datore di
lavoro deve adibire, ove possibile, il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il
suo stato di salute. La norma precisa che al lavoratore in tali casi possono essere
assegnate mansioni equivalenti e inferiori (con diritto a conservare la retribuzione in
godimento). La giurisprudenza ha chiarito che diversa dall’inidoneità alle mansioni per
cause fisiche è l’ipotesi del superamento del periodo di conservazione del posto (c.d.
periodo di comporto in caso di malattia che legittima il licenziamento del lavoratore a causa
del perdurare dell’impossibilità temporanea ad effettuare la prestazione. In detta ipotesi i
giudici non ritenevano ravvisabile un’autonoma e speciale causa di risoluzione giustificata
dall’impossibilità oggettiva della prestazione di lavoro (e dunque non confondibile con il
tradizionale licenziamento ad nutum) peraltro: la risoluzione non è prevista in via
automatica ma è subordinata al recesso volontario con preavviso che può essere intimato
dal datore.

12. La nozione di giusta causa.

L’art.2119 definisce la giusta causa come quella che non consente la prosecuzione anche
provvisoria del rapporto di lavoro, precisando peraltro che il fallimento o la liquidazione
coatta amministrativa dell’azienda non ne integrano gli estremi. La definizione molto
generica di giusta causa ha dato luogo a non pochi contrasti. Prima della L.604/66
l’opinione prevalente era che la giusta causa fosse da identificare con ogni fatto capace di

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giustificare la risoluzione senza preavviso del contratto e che quindi potesse consistere non
solo in un inadempimento ma anche in ogni altro accadimento (perfino esterno al rapporto
di lavoro) che fosse obiettivamente idoneo, indipendentemente dalla colpa del lavoratore,
a menomare il rapporto di fiducia personale che si riteneva dovesse essere connotato
essenziale del rapporto di lavoro. Dopo la L.604 si è invece ritenuto che la definizione di
giusta causa dovesse essere posta in relazione con la nuova nozione di giustificato motivo
soggettivo, incentrata sul concetto di notevole inadempimento, dal quale la giusta causa si
differenzierebbe solo per la particolare e maggiore gravità. In genere i contratti collettivi
contengono comunque la previsione dei fatti che legittimano il licenziamento senza
preavviso (es. il danneggiamento volontario di impianti e materiali; la rissa nei luoghi di
lavoro, il furto, le ingiurie, la grave insubordinazione). Tali esemplificazioni sono
ovviamente vincolanti per il giudice, di conseguenza questi ha il potere sia di ravvisare una
giusta causa di licenziamento in mancanze non esplicitamente previste dal contratto
collettivo, sia di verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale
di giusta causa.

13. Le ipotesi di nullità del licenziamento.

La legge vieta espressamente, disponendone la nullità, il licenziamento adottato per motivi


discriminatori nonché il licenziamento per causa di matrimonio e quello delle lavoratrici
madri: in particolare, il licenziamento discriminatorio è da considerare nullo
indipendentemente dalla motivazione adottata, e in tali casi è sempre applicabile la tutela
reale. Per quanto riguarda il licenziamento per causa di matrimonio, oltre a rendere nulle
le clausole cd. di nubilato, la legge sancisce la nullità del licenziamento intimato dal giorno
della pubblicazione del matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso;
infine, sono nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel medesimo periodo, a meno
che la lavoratrice non le confermi entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro.

14. La forma e la revoca del licenziamento.

Oltre ai limiti sostanziali, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti
procedurali, attinenti alla forma del licenziamento, che deve essere comunicato al
lavoratore per iscritto, a norma della L.604 (art.2). Per quanto riguarda i motivi del
licenziamento, la norma nella sua versione originaria, non ne imponeva la comunicazione
contestuale, ma ove essa non fosse stata effettuata, il lavoratore poteva richiederli per
iscritto entro 15 giorni dalla comunicazione del recesso e l’imprenditore doveva farli
conoscere entro 7 giorni dalla richiesta. Tuttavia la nuova legge (L.92/2012) ha modificato
l’art.2 co. 2 della L.604/1966 introducendo l’onere della specificazione contestuale dei
motivi che hanno determinato il licenziamento. Una volta dichiarati i motivi, questi sono
immodificabili, e l’imprenditore non può in nessun caso addurre motivi diversi o ulteriori
rispetto a quelli originariamente dichiarati. Sul piano sanzionatorio delle ipotesi di
inosservanza delle forme di licenziamento la legge 604/1966 ne prevede testualmente
l’inefficacia, sia nel caso di carenza della forma scritta sia in mancanza dei motivi. Tale
espressione, deve essere riportata nell’ambito della nullità. Si è difronte un negozio di
licenziamento privo dei suoi effetti per difetto del suo requisito essenziale della forma
scritta. Questa disciplina della inefficacia-nullità resta in vigore nell’area della tutela
obbligatoria regolata dalla l 604/1966 mentre nell’area della tutela prevista dall’art 18 dello

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statuto dei lavoratori occorre distinguere se il licenziamento è intimato in modo orale


questo è completamente nulla; se invece manca la motivazione, o risulta violata la
procedura prevista per il licenziamento disciplinare o quella di conciliazione obbligatoria
per il licenziamento per il giustificato motivo obiettivo la tutela è solo indennitaria e per di
più in misura ridotta.

Le legge Fornero ha infine disciplinato la revoca del licenziamento, che può essere
effettuata dal datore di lavoro entro 15 gg dalla comunicazione del recesso da parte del
lavoratore. La revoca comporta il ripristino del rapporto senza soluzione di continuità con
diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente, e, nei confronti del
datore di lavoro, l’inapplicabilità delle sanzioni per il licenziamento illegittimo.

15. Il licenziamento disciplinare e l’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei


Lavoratori.

Deve aggiungersi l’obbligo della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav. per le ipotesi di
licenziamento disciplinare, che ricomprendono tutti i casi di licenziamento per la
giusta causa e per giustificato motivo soggettivo. Dopo l’emanazione dello statuto dei
lavoratori si è posto in dottrina e giurisprudenza il problema del coordinamento
dell’esercizio del potere di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta
causa. L’inciso contenuto nel co. 4 dell’art. 7, secondo il quale <<fermo restando quanto
disposto dalla l. 604/1966 non possono essere disposte sanzioni disciplinari che
comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro>>. La Corte di Cassazione è
pervenuta ad applicare i vincoli a garanzia del lavoratore posti dall’art. 7 a tutti i
licenziamenti che hanno natura oggettivamente disciplinare.

16. L’impugnazione del licenziamento e il termine di decadenza. Onere della prova.

La L.604 (art.5) dispone che la prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato
motivo del licenziamento spetta al datore di lavoro. L'impugnazione del licenziamento, da
parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua
comunicazione. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per
mezzo di una semplice comunicazione scritta, anche attraverso l'intervento del sindacato,
che sia idonea a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento.
All’impugnazione stragiudiziale deve seguire, a pena di inefficacia della stessa, il deposito
del ricorso nella cancelleria del tribunale. Il termine per il deposito di tale ricorso è stato
ridotto dalla L.92/2012 a 180 giorni (anziché 280 come in passato), i quali decorrono dalla
scadenza del termine per impugnare il licenziamento (60 gg) o dalla comunicazione alla
controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Il legislatore ha inoltre
esteso l’applicabilità di tale art. a tutti i casi di invalidità e inefficacia del licenziamento. Il
legislatore ha altresì esteso l’applicabilità dei termini di cui la l. n. 604/1966, <<ai
licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al
contratto di lavoro ai sensi degli articoli 1,2 e 4 del d. lgs. 368/2001. Ogni qual volta
si controverta della legittimità di un preteso licenziamento che richieda l’accertamento
della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti il lavoratore soggiace

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alle disposizioni sulla decadenza di cui all’art. 6, l. n. 607/1966. Il legislatore ha previsto


che la disposizione dell’art. 6, l. n. 604/1966 si applicano anche:

- Al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.


- Al trasferimento con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione
di trasferimento.
- Alla cessione di contratto di lavoro con termine decorrente dalla data di
trasferimento, compresa l’ipotesi in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di
un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto.

Sezione C: i rimedi contro i licenziamenti illegittimi.


Parte prima: la disciplina applicabile ai lavoratori assunti in data anteriore al
7 Marzo 2015.

Il quadro giuridico antecedente alla Legge Fornero prevedeva sostanzialmente due reggimi
di tutela contro il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo: da una
parte la disciplina della tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 l. n. 604/1966 che lascia
alla volontà del datore l’alternativa tra la riassunzione del lavoratore e il pagamento di una
penale, e dall’altra la tutela reale comportante l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare
il lavoratore nel posto di lavoro. Il discrimen tra le due tutele operava sulla base di una
distinzione fondamentale in ragione delle diverse dimensioni aziendali. La l. n. 92/2012,
ha modificato l’art. 18, prevedendo diverse sanzioni a seconda della gravità delle causali
del licenziamento. Cosicché mentre la tutela obbligatoria non ha subito alcuna variazione
la disciplina unitaria dell’art. 18, risulta ora scomposta in diverse e graduate sanzioni in
ragione delle specifiche giustificazioni del licenziamento. Dopo neanche un triennio
dell’entrata in vigore della l. n. 92/2012 il legislatore è nuovamente intervenuto con il d.
lgs. 23/2015 dettando una nuova disciplina sanzionatoria per il licenziamento illegittimo
che generalizza la tutela indennitaria marginalizzando ulteriormente l’istituto della
reintegrazione nel posto di lavoro. Questa nuova regolamentazione coesiste con quelle
precedenti in quanto trova applicazione soltanto per i lavoratori assunti dalla data del 7
marzo 2015.

18. L’ambito di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Il licenziamento è illegittimo quando non è corrispondente al modello legale, in quanto


privo di giusta causa o di giustificato motivo, o in contrasto con norme poste a tutela di
alcuni diritti fondamentali del lavoratore o ancora non rispettoso dei vincoli formali o
procedurali previsti dalla legge. Le diverse dimensioni aziendali sono la principale
discriminante per l’applicazione al lavoratore della c.d. tutela reale, la quale consiste
nell’obbligo del datore, e nel correlativo diritto del prestatore, alla reintegrazione nel posto
di lavoro, oppure della c.d. tutela obbligatoria, nella quale invece è lasciata alla volontà
del datore di lavoro l’alternativa tra la riassunzione del lavoratore o il pagamento di una
penale. Cominciando dalla tutela reale ai sensi della versione originaria dell’art. 18 Stat.
Lav., essa si applica nei confronti dei datori (imprenditori e non) l’applicazione è generale
senza essere richiesto nessun numero minimo di dipendenti occupati, ciò a seguito della
modifica apportata dalla Legge Fornero.

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19. La pluralità dei regimi sanzionatori nell’art. 18 Stat. dei Lav.

La legge 92/2012 modifica l’art. 18 dello Stat dei Lav. Incidendo sulle tutele previste in
caso di licenziamento illegittimo. Attualmente le tutele previste sono 4:

a) Reintegrazione piena: licenziamento discriminatorio o altrimenti viziato da nullità.


b) Reintegrazione attenuta: difetto di giusta causa o ingiustificato motivo perché il
fatto non sussiste o rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa.
c) Indennità risarcitoria in misura piena.
d) Indennità risarcitoria in misura ridotta: vizi formali o procedurali del
licenziamento.

19.1 La reintegrazione piena e i suoi presupposti; la nullità del licenziamento.

La reintegrazione piena si accompagna a tutti i casi in cui il giudice dichiara la nullità


del licenziamento perché discriminatorio o intimato in concomitanza col matrimonio, o in
altri casi di nullità previsti dalla legge (perché intimato in forma orale, motivo illecito,
divieto di licenziamento in materia di tutela di maternità e paternità ecc.). Le conseguenze
in questi casi sono le stesse già previste in passato dall’art.18: il giudice ordina al datore
la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e inoltre lo condanna al risarcimento
del danno subito dal lavoratore, stabilendo un’indennità commisurata all’ultima
retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello della
reintegrazione (la misura del risarcimento non potrà essere inferiore alle 5 mensilità). In
più il datore è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il
medesimo periodo. Il rapporto si intende risolto se il lavoratore non abbia ripreso servizio
entro 30 gg dall’invito del datore.

19.2. La reintegrazione attenuta e i suoi presupposti: il difetto di giustificazione


aggravato.

La reintegrazione attenuata trova applicazione nei casi più gravi di licenziamento


ingiustificato sia per motivi soggettivi sia per motivi oggettivi o economici. L’art. 18 c. 5
prevede ora che il giudice condanni il datore al pagamento di una indennità risarcitoria
commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a
quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito per lo
svolgimento di altre attività, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con
diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Ma non basta. È stato alleggerito il rischio
della durata del processo. La misura dell’indennità non può essere superiore a 12 mensilità
della retribuzione globale di fatto. Il legislatore non ha stabilito una linea di demarcazione
netta tra le fattispecie in cui il difetto di giustificazione è sanzionato con la reintegrazione
e quella in cui la sanzione è l’indennità risarcitoria.

Per quanto riguarda i motivi soggettivi ingiustificati, la reintegrazione attenuata deve


essere disposta nelle ipotesi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del
giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro:

a) per insussistenza del fatto contestato:


b) perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla
base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.

Con l’espressione “inconsistenza del fatto contestato” emerge che il giudice sarebbe
vincolato da un canto alla mera verifica della sussistenza del fatto contestato e dall’altro

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alle tipizzazioni contrattuali delle nozioni legali generali di giusta causa e giustificato
motivo. Assumono per fatto contestato debba intendersi il fatto materiale ed escludono
che il giudice possa applicare la reintegrazione in assenza di precise tipizzazioni. In questo
modo si giunge a negare la reintegrazione anche in presenza di fatti privi di rilevanza
giuridica o di inadempimento di lievissima entità. Il che condurrebbe a ritenere il testo
incostituzionale perché privo di ragionevolezza. Sembra pertanto preferibile la tesi che
individua nel fatto contestato il fatto giuridico e quindi lo qualifica come inadempimento
degli obblighi contrattuali, dunque nella sua duplice componente oggettiva e soggettiva. La
condotta del lavoratore deve essere valutata non solo sul piano della materialità del fatto
(azione od omissione) ma anche sul piano della sua idoneità a ledere l’interesse del datore
alla prestazione diligente e fedele. Resta aperto il problema se il giudice,
nell’individuare il tipo di tutela, possa altresì applicare l’art. 2106 c.c., secondo cui
la sanzione disciplinare del licenziamento deve essere valutata in ragione della
gravità dell’inadempimento e quindi, nel caso in cui ritenesse l’inadempimento non
così grave da giustificare il recesso del datore di lavoro, condannare questo alla
reintegrazione attenuta e non all’indennità risarcitoria in misura piena dichiarando
risolto il rapporto di lavoro.

Per quanto attiene al giustificato motivo oggettivo, la reintegrazione attenuta e prevista


nelle ipotesi di manifesta e insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. Il
motivo oggettivo può essere attinente alla persona del lavoratore (inidoneità sopravvenuta
fisica o professionale); l’altra di tipo gestionale e cioè attinente all’impresa (cessazione
oppure riduzione o modificazioni dell’attività produttiva). Nell’una e nell’altra ipotesi il
giudice è tenuto prima a verificare la corrispondenza tra il fatto concreto addotto come
giustificazione del licenziamento e la previsione legale. Ma vi sono delle differenze. Nella
prima ipotesi si tratta di situazioni personali riconducibili all’impossibilità oggettiva della
prestazione la cui sussistenza è, agevolmente verificabile. Ciò spiega perché è stabilito che
se il licenziamento è intimato per un motivo consistente nella inidoneità fisica o psichica
del lavoratore oppure determinato dal superamento del periodo di comporto per malattia,
il difetto di giustificazione è sanzionabile solo con la reintegrazione. L’alternativa tra tutela
obbligatoria e tutela reale, invece, si presenta al giudice nella seconda ipotesi: il fatto c.d.
gestionale. questo infatti dipende sempre da una libera gestione economica del datore di
lavoro la quale, è insindacabile dal giudice. L’inutilità sopravvenuta delle mansioni,
riduzione delle attività o diversificazione della produzione è la ragione del licenziamento
che il giudice valuta non tanto nella sua materialità quanto nella sua rilevanza concreta
nell’economia aziendale prima e poi nel suo rapporto di causalità tra la sospensione del
posto di un determinato lavoratore e il vantaggio economico atteso dall’imprenditore. Se
l’accertamento è positivo il licenziamento sarà giustificato. Se invece l’accertamento è
negativo il licenziamento sarà ingiustificato e il giudice, al fine della scelta tra tutela
risarcitoria e tutela reale sarà tenuto a valutare se il motivo addotto oltre che ingiustificato
sia qualificato dalla manifesta insussistenza: ipotesi, che impone la reintegrazione e si
verifica quando il fatto non ha rilevanza concreta nell’economia dell’azienda. Nel caso
in cui il motivo addotto sia una contrazione dell’attività produttiva determinata dalla
difficoltà di vendere un tipo di prodotto, sull’imprenditore incombe l’onere di provare:

a) che la difficoltà si è verificata;


b) che la crescita riscontrabile nelle altre produzioni non basta a compensare il calo
della prima;

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c) che detta riduzione rende inutile il posto occupato dal lavoratore le cui mansioni
vengono eliminate o redistribuite tra i restanti addetti;
d) che non è economicamente possibile il ricollocamento del lavoratore in mansioni
equivalenti.

19.3. L’indennità risarcitoria in misura piena e i suoi presupposti: il difetto di


giustificazione semplice.

L’indennità risarcitoria in misura piena si applica in tutte le altre ipotesi di licenziamento


ingiustificato (il fatto, pur sussistente, non configura né la giusta causa né il giustificato
motivo). In tal caso il giudice condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria
che va da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità. Soltanto nel caso di
licenziamento per motivo oggettivo il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra
il massimo e il minimo tenendo conto delle iniziative assunte dal lavoratore nella ricerca
di una nuova occupazione.

19.4. L’indennità risarcitoria in misura ridotta e i suoi presupposti: i vizi di forma.

L’indennità risarcitoria in misura ridotta è prevista per le ipotesi di licenziamento viziato


da difetto di forma o procedura. Ad esempio nell’ipotesi di licenziamento comunicato in
forma scritta ma privo di motivazione esso è inefficace. Il rimedio non è mai la
reintegrazione ma trova applicazione la tutela ridotta (indennità da un minimo di 6 a un
massimo di 12 mensilità).

20. L’art. 8, l. n. 604/1966: la tutela obbligatoria e l’alternativa tra riassunzione


e pagamento di una penale.

Passando all’esame della c.d. tutela obbligatoria, il suo campo di applicazione coincide
con l’area esclusa dalle tutele previste dall’art. 18 Stat. Lav. questa forma “minore” di tutela
è espressamente riferita alle sole ipotesi di illegittimità del licenziamento derivanti
dalla sua mancata giustificazione (carenza di giusta causa o giustificato motivo); la legge
prevede che il datore di lavoro, imprenditore o non, sia comunque obbligato a giustificare
il licenziamento, al tempo stesso, per altro, essa stabilisce che, in assenza di giustificazione
egli “è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro 3 gg o, in mancanza, a
risarcire il danno, versandogli un’indennità (c.d. penale). Tale indennità ha funzione
non soltanto risarcitoria del danno conseguente al licenziamento illegittimo ma anche
sanzionatoria dell’inadempimento dell’obbligazione principale della riassunzione e perciò
si tratta di un’obbligazione con facoltà alternativa a beneficio del datore. L’ammontare
può variare da un minimo di 2,5 fino al massimo di 6 mensilità, e può essere maggiorato
fino a 10 mensilità per il lavoratore con almeno 10 anni di esperienza e fino a 14 mensilità
per il lavoratore con anzianità superiore a 20 anni.

Parte seconda: la disciplina applicabile ai lavoratori assunti dal 7 Marzo 2015.


22. Le linee di politica del diritto perseguite con la l. n. 183/2014 e con il d.lgs. n.
23/2015. Cenni generali.

Nel 2015 viene emanato un decreto legislativo, il numero 23, contenente “disposizioni in
materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Con tale

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provvedimento la regola della reintegrazione al posto di lavoro viene drasticamente


marginalizzata alle ipotesi di discriminazione e a quelle, assimilabili da un punto di vista
assiologico di nullità o di grave abuso da parte del datore di lavoro del suo potere di
licenziamento. Parimenti viene ridimensionata la discrezionalità del giudice nello stabilire
l’entità del risarcimento mediante la previsione di un “filtro monetario”, che permetta la
rottura del contratto di lavoro dietro pagamento di una somma di denaro. Viene introdotta
una indennità forma di conciliazione incentivata dallo stato che consente al datore di
lavoro un ulteriore contenimento del costo di licenziamento illegittimo e parimenti può
risultare conveniente per lo stesso lavoratore.

23. Il campo di applicazione.

La nuova disciplina ai sensi dell’art. 1 trova applicazione nei confronti dei lavoratori
appartenenti alle categorie degli operai, impiegati e quadri. Si prefigura un sistema binario
poiché resta inalterata la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro in corso di svolgimento.
Le disposizioni trovano applicazione anche nei confronti dei lavoratori già occupati presso
datori che, a seguito di assunzioni avvenute con la nuova disciplina, raggiungano le soglie
di cui all’art. 18 St. Lav., nonché nei casi di conversione successiva alla data di entrata in
vigore del decreto, di contratti a termine e di apprendistato in contratti a tempo
indeterminato tuttavia la legge delega limita la disciplina alle nuove assunzioni, e tali
possono essere considerati sia le conversioni di rapporti speciali preesistenti sia i rapporti
per i quali cambi il regime di tutela a seguito di variazioni dell’organico. L’art. 7 estende la
nuova disciplina all’ipotesi di cambio di appalto, in quanto stabilisce che al lavoratore che
passa dal 7 marzo 2015 alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto, il calcolo
dell’indennità dovuta per il licenziamento illegittimo deve ricomprendere tutto il periodo
durante il quale egli è stato impiegato nell’attività appaltata. Così intesa la disposizione
risulta di miglior favore per il lavoratore, giacché questi avrebbe riconosciuta l’intera
anzianità di servizio ai fini del calcolo dell’indennità di licenziamento. Infine, l’art. 9
superando un trattamento di favore da più parti denunciato, estende il campo di
applicazione della nuova disciplina “ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono
senza fine di lucro attività di natura politica, sindacali, culturale, di istruzione ovvero di
religione o di culto”. Deve ritenersi che la disposizione riguardi le nuove assunzioni poiché
in caso contrario anche qui verrebbe violato il criterio direttivo della delega sui destinatari
delle nuove regole in materia di licenziamento.

24. La gamma di tutele per i nuovi assunti. La tutela reintegratoria piena per il
licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale, e per disabilità del
lavoratore.

Anche il d. lgs. Jobs Act distingue tra le ipotesi di reintegrazione, piena e attenuata, e di
indennità risarcitoria, piena e ridotta. Viene confermata la reintegrazione nella misura
piena nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio, nonché in quelle riconducibili “agli altri
casi di nullità espressamente previsti dalla legge” e, “al licenziamento dichiarato inefficace
perché intimato in forma orale”. Si discute se il concetto di discriminazione possa
estendersi anche a fattispecie non tipizzate dall’art. 15 St. Lav. e se sia possibile
ricomprendere tra i casi di nullità anche il licenziamento posto in essere dal datore di
lavoro per fini ritorsi, che i giudici riconducono al motivo illecito. Qualora si aderisse alla

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tesi che fa leva sul dato letterale piuttosto che su quello dell’identità del valore protetto
dall’ordinamento si dovrebbe comunque ritenere che, in assenza della tutela reintegratoria,
troverà applicazione per le fattispecie non previste la sanzione ordinaria della nullità
dell’atto del licenziamento. Inoltre il decreto assicura la reintegrazione piena anche quando
sussista “il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica
del lavoratore”. L’art. 18 St. Lav. usa il termine inidoneità al lavoro che è di più vasta
portata e sicuramente ricomprende la malattia e quindi il licenziamento per superamento
del comporto. Va sottolineato che il criterio di commisurazione dell’indennità dovuta dal
datore di lavoro per il periodo compreso tra il girono del licenziamento e quello dell’effettiva
reintegrazione non è calcolato sulla ultima retribuzione globale di fatto percepita dal
lavoratore, ma sulla “retribuzione di riferimento per il calcolo del trattenuto di fine
rapporto” che è individuata dall’art. 2120. Inoltre, l’art 2120 c.c. rimette la determinazione
della retribuzione parametro ai contratti collettivi i quali possono modificare il criterio
legale sia in meglio che in peggio.

24.1 Il licenziamento illegittimo per giustificato motivo e giusta causa. Si riduce


l’area della tutela reintegratoria e si estende il principio della sanzione
indennitaria.

La legge prevede che il giudice, quando accerti l’illegittimità del licenziamento per carenza
di giustificato motivo e di giusta causa, dichiari estinto il rapporto di lavoro alla data
del licenziamento e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non
assoggettata a contribuzione previdenziale e predeterminata in relazione
all’anzianità di servizio in un importa pari a due mensilità dell’ultima retribuzione
di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di
servizio. La norma, però, fissa un importo minimo pari a quattro mensilità di
retribuzioni e uno massimo di 24 mensilità, per cui al compimento del dodicesimo anno
di servizio l’indennità resta bloccata e, dunque, non sarà più crescente. Tale tutela
indennitaria riguarda tutte le ipotesi di giustificato motivo oggettivo, mentre la
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro conseguente all’annullamento del
licenziamento viene limitata ai casi di licenziamento per giustificato motivo
soggettivo o per giusta causa “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. Il legislatore ha, per tanto,
escluso radicalmente la reintegrazione quando il licenziamento sia determinato da ragioni
tecnico organizzative o produttive. Nel contempo ha ritenuto di superare i dubbi
interpretativi creati dall’art. 18, nel testo sostituito dalla riforma del 2012, precisando che
il fatto, deve essere inteso in senso materiale, e che, qualora ricorra tale presupposto,
“resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione”, tra il fatto posto in essere dal
lavoratore e il licenziamento. La materialità del fatto deve essere ricondotta ad un
inadempimento contrattuale imputabile al lavoratore. Perplessità, suscita la prescrizione
secondo cui l’insussistenza del fatto debba essere “direttamente dimostrata in giudizio”. In
primo luogo, secondo taluni, la prova dovrebbe essere offerta dal lavoratore il quale chiede
la reintegrazione. L’innovazione davvero rilevante sta nell’avere eliminato il riferimento
alle previsioni contenute nei codici disciplinari delle tipologie di inadempimenti e delle
relative sanzioni. Per quanto concerne gli effetti economici conseguenti alla reintegrazione
questi sostanzialmente coincidono con le previsioni contenute nell’art. 18, co. 5, St. Lav.
con due differenze: il criterio da utilizzare per la determinazione dell’indennità risarcitoria
per il periodo antecedente alla pronuncia della reintegrazione e quello, dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto; inoltre la liunde

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percipiendum da detrarre dalla somma così calcolata è individuato su quanto il lavoratore


avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro.

24.2 L’indennità in misura ridotta: i vizi formali e procedurali; il licenziamento


nella piccola impresa.

L’indennità consiste, infatti, nell’importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione


di riferimento per il calcolo di trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,
in misura non inferiore a due e non superiore a 12 mensilità. Resta sempre possibile per
il lavoratore la domanda del giudizio vizi sostanziali, invocando la tutela reintegratoria in
misura piena o attenuata, o quella indennitaria in misura piena. Fermo restando che
anche per tali ipotesi la prova della legittimità del licenziamento resta a carico del datore
di lavoro ponendosi per il lavoratore soltanto un onere di allegazione dei fatti. Si è già
osservato che il decreto trova applicazione anche nei confronti del licenziamento
intimato dai datori di lavoro che non raggiungono i limiti dimensionali di cui all’art.
18 St. Lav. Viene dunque sostituito con una tutela meno favorevole. Resta ferma
l’applicazione della reintegrazione piena ma viene esclusa quella attenuata per
l’insussistenza del fatto materiale contestato. Per tutte le altre ipotesi l’ammontare
dell’indennità è ridotto della metà, con un limite massimo di sei mensilità.

26. Incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: prosecuzione del vinculum iuris.

Nelle ipotesi in cui trovi applicazione la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro,
l’esecuzione dell’ordine contenuta nella sentenza di condanna è affidata al datore di
lavoro. Rivolgendo al prestatore un apposito invito a riprendere il servizio. Con tale invito
il datore adempie all’obbligo di reintegrazione, mentre in sua assenza verserà in situazione
di mora credendi, il lavoratore, nonostante l’inattività avrà diritto alle retribuzioni. A fronte
di tale invito il lavoratore dovrà, a sua volta, ottemperare entro 30 giorni, decorsi i quali il
rapporto si intenderà risolto per dimissioni. La reintegrazione è un obbligo di fare che, in
quanto tale, è infungibile ed incoercibile. Secondo alcuni la condanna alla reintegrazione
è suscettibile di esecuzione in forma specifica almeno per gli aspetti che non si risolvono
in un facere infungibile del datore di lavoro. Il legislatore si è perciò mantenuto nell’ambito
di una tutela risarcitoria, utilizzando una forma di coazione indiretta quando non sia
possibile per volontà del datore l’esecuzione della prestazione e quindi la prosecuzione
materiale del rapporto, ne sia garantita la prosecuzione con vinculum iuris. Così, cioè,
quale sanzione sia del licenziamento ingiustificato sia dell’inottemperanza all’ordine di
reintegrazione, l’indennità ha natura plurifunzionale; per il periodo intercorso dal
licenziamento alla sentenza risarcitoria; per il periodo successivo, di pena privata o
dell’inadempimento dell’obbligazione reintegratoria. La legge impone in aggiunta
all’indennità, anche il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al
periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione. È prevista anche un’ulteriore
indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione. Il lavoratore reintegrato ha diritto di
optare per la risoluzione del rapporto obbligando il datore, in alternativa alla reintegrazione
al versamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto o della
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

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SEZ. D: Il trattamento di fine rapporto


27. Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto

Il trattamento di fine rapporto consiste in una somma di denaro dovuta dal datore al
prestatore di lavoro in ogni caso di cessazione del rapporto. La L.297/1982 ha sostituito
all'indennità di anzianità, vecchio art. 2120 c.c. (consistente nella retribuzione che
maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto
dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato) il diverso
istituto del trattamento di fine rapporto (t.f.r.). Quest'ultimo, secondo la dottrina e la
giurisprudenza, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella
parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico
economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali
difficoltà economiche connesse a tale cessazione e consiste nella somma di quote di
retribuzione accantonate annualmente. Più precisamente la sua corresponsione è oggetto
di un’obbligazione che sorge per effetto della cessazione del rapporto, confermandosi così
la natura di retribuzione differita, già propria dell’indennità di anzianità.

28. La disciplina del t.f.r. La maturazione del diritto al t.f.r.

Il nuovo art. 2120 c.c. riconosce al lavoratore il diritto ad un trattamento economico di fine
rapporto dovuto in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato e calcolato
in misura proporzionale all’anzianità di servizio. Il meccanismo di calcolo si fonda sulla
somma di quote di retribuzione accantonate annualmente. La quota da accantonare ogni
anno è pari all’importo della retribuzione annua diviso per 13,5. La misura così
determinata del tfr rappresenta un massimo e nello stesso tempo un minimo inderogabile
dall’autonomia negoziale sia individuale che collettiva. Una quota della retribuzione annua
viene vincolata nell’interesse del lavoratore, formando una specie di conto individuale. Il
lavoratore diviene titolare di un diritto di credito soltanto dal momento della cessazione del
rapporto. Durante il rapporto di lavoro, inoltre, il lavoratore può agire in giudizio per
accertare l’entità degli importi maturati.

29. Base di calcolo, frazionabilità intro-annuale e indicizzazione del t.f.r.

L’art. 2120 co. 2 stabilisce che la retribuzione annua da prendere in considerazione ai fini
del calcolo del T.F.R. include tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in
natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con
l’esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Per il calcolo del T.F.R.
appaiono rilevanti altre 2 regole:

• La regola della frazionabilità intro-annuale del trattamento di fine rapporto (c.1);

• La regola in virtù della quale, ai fini del calcolo della quota annuale del trattamento di
fine rapporto, devono essere considerati i periodi di assenza per malattia, infortunio e
maternità. Inoltre alla fine di ciascun anno di servizio, la quota annua maturata nell’anno
precedente venga incrementata sulla base degli indici ISTAT.

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30. Il diritto all’anticipazione e l’opzione del lavoratore per l’erogazione del t.f.r.
nella retribuzione mensile.

L’art. 2120 c.c. stabilisce inoltre il diritto del lavoratore a chiedere dopo almeno 8 anni di
servizio, un’anticipazione di importo non superiore al 70% del t.f.r. maturato alla data
della richiesta. Tale anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto
e viene detratta dal trattamento di fine rapporto. Il diritto di anticipazione va incontro a
significativi limiti: dal punto di vista soggettivo sono legittimati all’anticipazione non più
del 10% degli aventi titolo e, in ogni caso, non più del 4% del numero totale dei dipendenti.
Dal punto di vista oggettivo l’anticipazione può essere erogata soltanto per fini di
previdenza e cioè per comprovata necessità di cure mediche o per l’acquisto della prima
casa. È da notare come il diritto all’anticipazione sia pure entro i limiti quantitativi previsti,
non sorga automaticamente ma sia condizionato dalla disponibilità dei mezzi finanziari
presso l’azienda, infatti l’anticipazione è esclusa nel caso di aziende dichiarate in crisi.

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CAP. 8 – GARANZIE E DIRITTI DEI LAVORATORI

1. Il sistema delle garanzie dei diritti del prestatore di lavoro


Per garanzia si intende il rafforzamento della tutela di un bene o interesse giuridicamente
protetto. L’ordinamento circonda i diritti del lavoratore di una serie di garanzie, alcune di
natura sostanziale, altre di natura strumentale nelle quali è possibile ravvisare delle vere
e proprie posizioni soggettive riconosciute al lavoratore in funzione del rafforzamento sia
sostanziale sia giurisdizionale della tutela dei diritti dello steso lavoratore.

SEZ. A: Le garanzie del credito e dei diritti del lavoratore. Il trasferimento


d’azienda
2. La garanzia generale patrimoniale e le cause legittime di prelazione; l’azione
di rivalsa; il principio generale sui mobili
Un primo gruppo di garanzie è ravvisabile nelle normali garanzie del credito. Si tratta di
garanzie strutturalmente e funzionalmente non diverse da quelle rivolte al rafforzamento
della comune responsabilità patrimoniale prevista a garanzia della generalità dei creditori.
In effetti, la legge attribuisce al lavoratore una speciale tutela nella forma del privilegio, in
considerazione della causa del credito.
- L’art. 2751 bis c.c. stabilisce che hanno privilegio generale sui mobili del debitore i
crediti riguardanti: le retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro
subordinato; le indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro; il
credito del lavoratore pe i danni conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del
datore di lavoro, dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori; il credito per il
risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento inefficace, nullo o
annullabile. Si tratta di un privilegio di secondo grado, in quanto la legge colloca tali
crediti immediatamente dopo quelli per spese di giustizia. L’ art. 2776 c.c. relativo alla
collocazione sussidiaria dei crediti sugli immobili in caso di infruttuosa esecuzione sui
mobili, dispone poi che l’ordine della collocazione sussidiaria sia il seguente: crediti
relativi al t.f.r. ed all’indennità di mancato preavviso; crediti di lavoro; crediti dello
Stato; crediti chirografari.

- Su un piano diverso si pone la c.d. azione diretta di rivalsa, prevista dall’art.1676


c.c., secondo cui nel contratto di appalto il prestatore di lavoro dipendente
dall’appaltatore può rivalersi, per i propri crediti, nei confronti del committente e, fino
alla concorrenza del debito di costui, verso l’appaltatore. Questa tutela va coordinata
con le disposizioni dell’art.29, co.2, d.lgs 276/2003, che disciplina una particolare
ipotesi di responsabilità solidale fra committente ed appaltatore, da far valere
entro 2 anni dalla cessazione dell’appalto, per i trattamenti retributivi, nonché i
contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto di appalto. Quanto al campo di applicazione, possiamo dire
che il rimedio contenuto nell’art.1676 c.c. opera limitatamente al caso in cui sia
decorso il biennio previsto dall’art.29 d.lgs 276/2003.

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L’art.29 d.lgs 276/2003 è stato poi modificato dal d.l 25/2017 (poi convertito in L.20 aprile
2017 n.49), emanato al fine di prevenire gli esiti del referendum abrogativo promosso dalla
CGIL sul regime di solidarietà negli appalti.
Le norme del d.l 25/2017 hanno eliminato il beneficio della preventiva escussione
dell’appaltatore, ripristinando un regime di solidarietà in favore dei lavoratori impiegati
nell’appalto. Questi ultimi potranno agire per il recupero dei rispettivi crediti direttamente
ed esclusivamente nei confronti del committente, senza chiamare in causa l’appaltatore,
fermo restando il diritto del committente di agire in regresso per il rimborso
dall’appaltatore di quanto pagato. Inoltre con la modifica del 2017 viene meno la norma
che consentiva ai contratti collettivi di regolare il regime di solidarietà tra committente e
appaltatore in maniera diversa da quanto stabilito dall’art.29 d.lgs 276/2003.

3. La tutela dei crediti di lavoro nelle procedure concorsuali. La garanzia del


t.f.r. e degli altri crediti di lavoro
Le norme sui privilegi trovano applicazione anche nell’ipotesi del fallimento e delle altre
procedure concorsuali; si rivelano tuttavia inefficaci allorché il patrimonio residuo
dell’imprenditore non abbia capienza sufficiente a soddisfare i crediti dei lavoratori. Per
questo motivo, il Consiglio della Comunità europea ha emanato la Direttiva n.978/1980,
relativa alla tutela dei crediti di lavoro nelle ipotesi di insolvenza del datore che comportino
l’apertura di una procedura concorsuale.
L’attuazione di questa direttiva è avvenuta in due tempi:
- In un primo momento, nel 1982, ha permesso l’istituzione di un fondo destinato alla
garanzia del t.f.r.
- Solo dieci anni dopo, è stata emanata un’ulteriore disciplina relativa alla garanzia di
tutti i crediti di lavoro diversi dal t.f.r.
Bisogna ricordare che, successivamente, il Consiglio della CE è intervenuto in materia con
una nuova direttiva, la n.74/2002, con la quale è stata parzialmente modificata la
precedente direttiva del 1980. A distanza di pochi anni, il legislatore comunitario ha
approvato un’ulteriore direttiva, la n.94/2008, con la quale ha provveduto a consolidare
il resto delle precedenti e a dettare alcune previsioni volte a rafforzare la tutela dei
lavoratori nelle situazioni di insolvenza del datore di lavoro.
Ai sensi dell’art.2 della citata direttiva del 2008, “un datore di lavoro si considera in stato
di insolvenza quando è stata richiesta l’apertura di una procedura concorsuale fondata
sull’insolvenza del datore di lavoro, che comporta lo spossessamento parziale o totale del
datore di lavoro e la designazione di un curatore o di una persona che esplichi una funzione
analoga, e quando l’autorità competente ha deciso l’apertura del procedimento oppure ha
constatato la chiusura definitiva dell’impresa o dello stabilimento e l’insufficienza dell’attivo
disponibile per giustificare l’apertura del procedimento”.
a) Quanto al primo degli interventi di tutela, ex art.2 L.29 maggio 1982, n.297, il
Fondo di Garanzia è stato istituito presso l’Inps ed è alimentato con contributi a
carico delle aziende con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di
insolvenza o di inadempienza di quest’ultimo nel pagamento del t.f.r.
A tal proposito, il legislatore ha distinto l’insolvenza accertata in sede di procedura
concorsuale dall’inadempienza: nella prima ipotesi, il lavoratore e i suoi aventi
causa hanno il diritto di presentare, decorsi 15 giorni dal deposito dello stato
passivo o dalla sentenza di omologazione del concordato preventivo, domanda per
il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del Fondo; nel secondo caso,
il lavoratore può presentare la domanda di pagamento soltanto dopo che

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l’esperimento dell’esecuzione forzata sia risultato insufficiente alla soddisfazione del


credito.
In entrambi i casi, il Fondo è tenuto ad eseguire il pagamento del trattamento
insoluto entro 60 giorni dalla richiesta, ed è surrogato di diritto al lavoratore o ai
superstiti nel privilegio sul patrimonio del datore di lavoro riconosciuto ai crediti di
fine rapporto.

b) Quanto al secondo intervento di tutela, va detto che il d.lgs 27 gennaio 1992, n.80
ha addossato allo stesso fondo di garanzia gli ulteriori rischi connessi
all’insolvenza del datore di lavoro sia sul versante retributivo che su quello
previdenziale. La garanzia del fondo, in questo caso, è soltanto parziale, in quanto
essa copre soltanto i crediti relativi agli ultimi 3 mesi di rapporto di lavoro e
comunque entro un massimale predeterminato, dato da tre volte il trattamento
massimo mensile di integrazione salariale.
Per quanto riguarda invece i crediti retributivi, il lavoratore può chiedere
l’intervento del Fondo in tutti i casi di fallimento, concordato preventivo,
liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria. Quando,
invece, il datore di lavoro non sia assoggettabile a dette procedure concorsuali,
l’intervento del Fondo può essere chiesto solo dopo che sia risultata insoddisfacente
l’esecuzione forzata sul patrimonio del datore di lavoro.

c) Quanto alla uova direttiva 74/2002 e la sua attuazione attraverso il d.lgs


186/2005, va detto che tale decreto ha integrato la preesistente disciplina interna
al fine di assicurare una tutela dei crediti dei lavoratori dipendenti da un’impresa
la quale svolga la propria attività in almeno due stati membri.
Si è infatti previsto che qualora il lavoratore abbia abitualmente svolto la sua
attività in Italia, è concesso in suo favore l’intervento del Fondo di garanzia, a tutela
dei crediti sia salariali che relativi al t.f.r.

4. Vincoli alla destinazione del credito


I crediti del lavoratore sono inoltre assistiti da vincoli di destinazione destinati a
garantirne al titolare la fruizione nei confronti, non più del debitore, ma dei propri creditori:
al riguardo, la legge stabilisce che sono assolutamente indisponibili gli assegni familiari,
mentre al contrario i crediti per stipendio e per indennità di anzianità sono pignorabili
nella misura massima di un quinto, per i crediti di qualsiasi natura nonché per i tributi
dovuti allo Stato, alle Province e ai Comuni, ex art.545, co.4, c.p.c.
- L’art.545 c.p.c. è stato da ultimo modificato dall’art.13 d.l. 27 giugno 2015, n.83
> L’intervento è volto a rafforzare i limiti alla pignorabilità dei crediti del lavoratore
derivanti da trattamenti pensionistici o retributivi; viene, inoltre, disposta
l’impignorabilità delle pensioni per un ammontare corrispondente alla misura
massima dell’assegno sociale aumentato della metà.
> Nel caso in cui i trattamenti pensionistici e retributivi siano accreditati su conto
corrente bancario, le relative somme possono essere pignorate per l’importo
eccedente il triplo dell’assegno sociale quando l’accredito ha luogo in data anteriore
al pignoramento.
La novella, quindi, estende i limiti alla pignorabilità dei crediti di lavoro anche nei casi
in cui il terzo pignorato si l’istituto di credito, richiedendo a quest’ultimo di distinguere

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la natura delle somme che si trovano nel contro corrente -> da qui l’introduzione di un
ulteriore comma dell’art.546 c.p.c.
> Il limite del quinto dello stipendio si applica anche alla cessione del credito per
retribuzioni che il lavoratore voglia effettuare a favore dei propri creditori, o anche
a favore del datore di lavoro per debiti derivanti dal rapporto.
Le somme dovute al lavoratore a titolo di retribuzione o altre indennità derivanti dal
rapporto di lavoro, anche a causa di licenziamento, possono essere pignorate per
crediti alimentari nella misura autorizzata dal giudice competente per materia.

- Va poi ricordato l’art.2117 c.c., secondo il quale sono vincolati nella destinazione i fondi
speciale di previdenza, costituiti a livello aziendale dall’imprenditore a favore dei
lavoratori.

5. Trasferimento d’azienda: la tutela dei crediti di lavoro e dell’occupazione.


Profili generali ed evolutivi dell’istituto
Un’ulteriore particolare forma di garanzia dei crediti e più in generale dei diritti del
lavoratore è disposta dall’art. 2112 c.c. che disciplina gli effetti del trasferimento
d’azienda sui rapporti di lavoro e in particolare sulle posizione soggettive del lavoratore.
Il trasferimento d’azienda è stato oggetto di una specifica disciplina comunitaria volta ad
armonizzare le normative nazionali in tema di tutela dei “diritti dei lavoratori in caso di
trasferimento di imprese, stabilimenti” -> il Consiglio dell’UE è, infatti, intervenuto tre
volte in materia:
 Dapprima con la direttiva 14 febbraio 1977 n.187.
 Poi con la direttiva 28 giugno 1998 n.50 – la quale ha modificato profondamente la
prima al fine di adeguarne il dettato normativo ai principi elaborati dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia.
 Ed infine con la direttiva 12 marzo 2001 n.23 – con la quale si è proceduto alla
codificazione della precedente disciplina, introducendo soltanto alcune marginali
modifiche.
L’Italia è stata per lungo tempo inottemperante all’obbligo d dare attuazione alla direttiva
n.187/77.
 L’adeguamento era avvenuto con l’art.47 L.428/1990, il quale aveva disposto una
nuova regolamentazione in materia di trasferimento d’azienda dettando anche una
specifica disciplina per i trasferimenti effettuati nel corso di una procedura concorsuale
o in presenza di una crisi aziendale.
 In seguito, al fine di eliminare i residui punti di contrasto con la normativa comunitaria,
il legislatore italiano aveva dovuto procedere ad un’ulteriore revisione della disciplina
interna -> tramite il d.lgs 2 febbraio 2001 n.18, il quale aveva novellato l’intero art.2112
c.c. e modificato i primi quattro commi dell’art.47 L.428/1990.
 Il legislatore è successivamente intervenuto sull’art.2112 al fine di precisare la nozione
di ramo d’azienda, così l’art.32 d.lgs 10 settembre 2003 n.276 ha modificato ancora
una volta l’art.2112 c.c.

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6. Nozione di trasferimento d’azienda. Concetto di “entità economica


organizzata”
Ai sensi dell’art.2112, co.5 c.c.
- La nozione di trasferimento d’azienda comprende “qualsiasi operazione che comporti
il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di
lucro, al fine della produzione o scambio di beni e servizi, preesistente al trasferimento e
che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale
sulla base del quale il trasferimento è attuato”.
Si tratta di una definizione legislativa assai ampia, in grado di comprendere la maggior
parte delle ipotesi di mutamento soggettivo del datore di lavoro. Nell’architettura della
fattispecie, l’elemento portante è costituito dal concetto di “attività economica
organizzata”.
Al riguardo va ricordato che la Corte di Giustizia ha ammesso la ricorrenza di un
trasferimento d’azienda anche nei casi in cui vi era stata una successione di soggetti nello
svolgimento di un’attività ma al tempo stesso era stato assente o minimale un
trasferimento di elementi patrimoniali materiali e/o immateriali. Di questo orientamento
estensivo ha dovuto tener conto il legislatore comunitario, che nel 1998 ha modificato la
precedente direttiva del ’77, stabilendo che è considerato trasferimento “quello di un’entità
economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al
fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”.
Da questo punto di vista, si comprende la ragione per cui all’espressione “attività
economica organizzata”, adottata dal legislatore italiano, debbano essere ricondotte anche
le ipotesi nelle quali, oggetto del trasferimento si un’entità caratterizzata da una presenza
estremamente ridotta di elementi materiali e/o immateriali.
Collegato alla disciplina dell’art.2112 c.c. è poi l’art.29, co.3, d.lgs. 276/2003
- Il quale, nella sua formulazione originaria, escludeva che l’acquisizione del personale
già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore costituisse
trasferimento d’azienda.
Questa previsione, ove interpretata letteralmente, avrebbe condotto ad escludere dal
campo di applicazione del 2112 anche fattispecie circolatorie configurabili come
trasferimento d’azienda secondo la giurisprudenza UE -> al fine di evitare il possibile
conflitto con la disciplina sovranazionale, di era suggerito di interpretare l’art.29 in
termini limitativi, escludendo cioè l’applicabilità del 2112 nelle sole ipotesi in cui il
personale precedentemente impiegato nell’appalto non potesse essere considerato
un’azienda o un ramo di essa, e riconoscendo le garanzie della previsione codicistica ogni
qual volta la vicenda circolatoria assuma le caratteristiche del trasferimento d’azienda.
La questione venne apparentemente risolta con la L.7 luglio 2016 n.122, che ha novellato
l’art.29
- La disposizione adesso stabilisce che “l’acquisizione del personale già impiegato
nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura
organizzativa e operativa, non costituisce trasferimento d’azienda”
Viene fissato il discrimine tra le fattispecie del cambio d’appalto e del trasferimento
d’azienda nel possesso da parte dell’appaltatore subentrante di una struttura
organizzativa autonoma e preesistente.

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La seconda parte del co.5 dell’art.2112 c.c. stabilisce che:


- Le regole in materia di trasferimento d’azienda si applicano altresì al trasferimento di
parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di
un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal
cessionario al momento del suo trasferimento.
Questa nuova previsione si oppone alla precedente (l’articolazione funzionalmente
autonoma da trasferire doveva essere preesistente al trasferimento) e mira a rendere più
agevoli le operazioni di esternalizzazione di fasi o parti dell’attività, favorendo la cessione
anche di parti dell’azienda prive di un’autonomia funzionale fino al momento del
trasferimento.
Per evitare, anche in questo caso, un contrasto con la direttiva comunitaria, si è reso
necessario fornire un’interpretazione teleologica del dettato normativo interno -> si è così
ritenuto che la natura “funzionalmente autonoma” dell’articolazione trasferita non possa
dipendere dalla mera volontà delle parti, ma debba costituire un’intrinseca caratteristica
dell’entità predetta, senza che possa prescindersi dalla preesistenza del sostrato
economico-organizzativo.

7. Il principio della continuità del rapporto di lavoro e la cessione di parti o


fasi dell’attività produttiva
Le ragioni sottostanti all’evoluzione normativa in tema di trasferimento di un’attività
economicamente organizzata, possono essere comprese meglio alla luce della disciplina
delle tutele delle posizioni individuali dei lavoratori, stabilita dalla legge in favore dei
lavoratori trasferiti.
L’aspetto più rilevante è costituito dall’art.2112, che prevede:
- L’automatica continuazione dei rapporti di lavoro con il cessionario e la
conservazione dei diritti maturati dal lavoratore.
Tale principio trova conferma nel co.4 dello stesso articolo, secondo il quale il
trasferimento non costituisce di per sé valido motivo di licenziamento. Confrontando
questa disciplina con quella dettata dall’art.2558 c.c., in materia di successione nei
contratti in caso di cessione d’azienda, va osservato che:
 Art.2558 c.c. -> sancisce il principio secondo cui l’acquirente dell’azienda subentra
nella generalità dei contratti relativi all’esercizio dell’impresa salvo patto contrario
con l’alienante.
 Art.2112 c.c. -> la successione nel contratto di lavoro è un effetto necessario
ancorché sia poi possibile il recesso giustificato del cedente.
Dall’art.2112 c.c. si deduce che, ai fini dell’effetto traslativo, non è richiesto il consenso
del lavoratore e che egli non ha la facoltà di opporsi al trasferimento del proprio contratto.
Qualora nei 3 mesi successivi al trasferimento il lavoratore subisca una sostanziale
modifica delle condizioni di lavoro, quest’ultimo può rassegnare le dimissioni; in tal caso,
il suo recesso verrà considerato per giusta causa e gli sarà dovuta l’indennità di mancato
preavviso.
Ciò premesso, è da segnalare che se l’applicazione della tutela prevista dall’art.2112 c.c. è
vantaggiosa per i lavoratori quando il trasferimento riguardi l’azienda o l’impresa nel suo
complesso, lo stesso non può dirsi quando oggetto del trasferimento sia un’articolazione
funzionalmente autonoma dell’impresa. La cessione, infatti, potrebbe esporre i lavoratori

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ceduti ad un peggioramento del trattamento economico/normativo e del regime di tutela del


posto di lavoro.

8. La tutela individuale e collettiva del lavoratore nel trasferimento


Tutela delle posizioni individuali del lavoratore:
- Continuità dei rapporti di lavoro, con la conservazione in capo al lavoratore dei diritti
che ne derivano.
- Art.2112 co.2 c.c. -> Solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal
lavoratore al momento del trasferimento, indipendentemente dalla loro conoscenza
o conoscibilità da parte del cessionario. È consentita tuttavia la liberazione del cedente
mediante particolari procedure conciliative.
- Il lavoratore ha inoltre diritto alla conservazione dei trattamenti economici e
normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, aziendali e territoriali goduti al
momento del trasferimento.

La tutela collettiva del lavoratore -> si estrinseca nel vincolo della consultazione
sindacale previsto dall’art.47 L.428/1990:
- Qualora il trasferimento riguardi un’azienda, o parte di essa, in cui sono occupati più
di 15 lavoratori, tanto il cedente quanto il cessionario devono darne preventiva
comunicazione alle r.s.u. o alle r.s.a. istituite presso le rispettive unità produttive
interessate dal trasferimento.
- Tale comunicazione deve avvenire in forma scritta almeno 25giorni prima della data
del perfezionamento dell’atto di trasferimento. Con la comunicazione devono essere
trasmesse informazioni relative alla data effettiva o proposta del trasferimento, ai
motivi del trasferimento, alle conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i
lavoratori, nonché agli eventuali provvedimenti previsti per questi ultimi.
- Qualora poi entro 7giorni le rappresentanze ne facciano richiesta, il cedente e il
cessionario sono tenuti ad avviare un esame congiunto della situazione che, in
mancanza di accordo, si intende esaurito dopo 10 giorni dal suo inizio.
La violazione degli obblighi di informazione e consultazione è espressamente considerata
condotta antisindacale ai senti dell’art.28 St.lav.

9. Il trasferimento d’azienda nei casi di procedure concorsuali e di crisi


aziendali
Infine, l’art.47 L.428/90 ha dettato anche una speciale disciplina rivolta ad agevolare il
trasferimento d’azienda quando lo stesso si ricolleghi ad una situazione di crisi
economica dell’imprenditore cedente. Si tratta dei casi in cui l’impresa sia assoggettata a
fallimento, a concordato preventivo con cessione dei beni, a liquidazione coatta
ammnistrativa o ad amministrazione straordinaria.
In tutti questi casi, la deroga non è automatica ma è necessario che nel corso della
procedura di consultazione sia raggiunto un accordo sindacale che preveda che il
personale eccedentario rimanga alle dipendenze dell’alienante -> in favore di questi
lavoratori viene assicurato il diritto di precedenza nelle assunzioni che l’acquirente
dell’azienda effettui entro un anno dalla data del trasferimento.

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SEZ. B: Le rinunzie e le transazioni. La certificazione


10. La compressione della facoltà di disposizione dei diritti del prestatore di
lavoro
Un altro e particolarmente importante aspetto del sistema delle garanzie dei diritti del
prestatore di lavoro subordinato è quello che si riferisce all’esercizio della facoltà di
disposizione di ogni diritto soggettivo. La compressione o la soppressione di tale facoltà,
attraverso la comminatoria della invalidità dell’atto di disposizione, può essere resa
necessaria dall’esigenza di tutelare o un interesse pubblico, oppure un interesse privato
del titolare stesso.
La seconda delle ipotesi ricorre nei rapporti di lavoro: considerata la tipica situazione di
debolezza del lavoratore, i suoi atti di disposizione possono rappresentare un fenomeno
di reazione, volto all’elusione dei limiti imposti all’autonomia negoziale ed alla violazione
delle corrispondenti norme imperative.
Da qui la specifica disciplina dettata dall’art. 2113 c.c. sull’invalidità delle rinunzie e
transazioni del lavoratore.

11. Le origini giurisprudenziali della limitazione della facoltà di disposizione.


L’originario 2113 c.c. e la riforma del 1973
In origine il problema della limitazione della facoltà di disposizione dei diritti soggettivi
attribuiti dalla legge al lavoratore è stato imposto dalla giurisprudenza facendo ricorso ad
una fictio iuris, ossia argomentando dalla presunzione dell’esistenza di un vizio del
consenso -> Si presumeva, salvo prova contraria, cioè che durante il rapporto di lavoro il
lavoratore avesse disposto del proprio diritto, mediante rinunzia o transazione, in uno stato
di timore reverenziale, assimilabile alla violenza morale, nei confronti del proprio datore di
lavoro.
Dal punto di vista definitorio:
- La rinunzia è l’atto volto alla dismissione di un diritto soggettivo da parte del titolare.
- La transazione è il contratto mediante il quale le parti, facendosi reciproche
concessioni, rimuovono una lite esistente o prevengono una lite eventuale
Nell’art.2113 c.c., le rinunzie e le transazioni vengono assimilate quanto agli effetti ->
tale equiparazione trova il suo fondamento nel fatto per cui i confini tra volontà abdicativa
e volontà transattiva si presentano notevolmente sfumati nelle controversie di lavoro.

12. L’originario art.2113 c.c. e la riforma del 1973


L’art.2113 c.c. costituisce la norma cardine della disciplina della composizione
stragiudiziale delle controversie individuali di lavoro. Esso disciplina l’intera attività
dispositiva dei diritti del lavoratore.
 Nella sua formulazione originaria, l’articolo equiparava rinunce e transazioni
intervenuti successivamente alla estinzione del rapporto a quelli intercorsi durante
lo svolgimento dello stesso, disponendone l’invalidità.
 Successivamente (1973) l’art. 2113 è stato novellato dall’art.6 L.533/1973, il quale
ha introdotto nella disciplina varie innovazioni: innanzitutto esso può applicarsi
anche ai prestatori di lavoro autonomo e in secondo luogo il termine per
l’impugnazione della rinunzia/transazione è stato prolungato da 3 a 6 mesi, che
decorrono dalla cessazione del rapporto. Inoltre l’atto di impugnazione è stato
trasformato da giudiziale a stragiudiziale.

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Tali innovazioni hanno notevolmente allargato la concreta possibilità dell’impugnazione


dei negozi dispositivi, così privilegiando l’interesse del lavoratore rispetto al contrario
interesse del datore di lavoro.

13. Invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore


L'art.2113 c.c. dispone che “sono annullabili le rinunce e le transazioni che hanno per
oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei
contratti collettivi, concernenti i rapporti di lavoro subordinato, autonomo o associato e
sottoposti alla competenza del giudice del lavoro”.
La disposizione prevede che l’invalidità sia fatta valere dal lavoratore mediante
impugnazione, fatta con atto avente forma scritta, anche stragiudiziale, idoneo a rendere
nota la volontà del lavoratore e deve essere proposta a pena di decadenza entro 6mesi
dalla cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste
sono intervenute dopo la cessazione medesima. Occorre sottolineare che l’atto
stragiudiziale d’impugnazione deve essere in forma scritta a pena di efficacia: la sua
funzione è quella di comunicare al datore di lavoro la volontà del prestatore di privare il
negozio di rinunzia o transazione della sua efficacia -> si tratta, quindi, di una
dichiarazione unilaterale recettizia di volontà.
Tuttavia è sempre necessario l’esercizio dell’azione in giudizio: l’invalidità deve sempre
essere dichiarata dal giudice con sentenza di accertamento costitutivo.
Effetto dell’impugnazione:
- Contestazione della validità del negozio di rinunzia o transazione;
- Instaurazione nei confronti del datore di lavoro della controversia finalizzata
all’accertamento della invalidità del negozio dispositivo, e al soddisfacimento delle
pretese derivanti dai diritti oggetto della disposizione.
Di conseguenza, oggetto dell’impugnazione, e della successiva azione di annullamento, è
la restituzione, o la riparazione, dei diritti lesi in conseguenza del negozio invalido.

14. Inderogabilità delle norme di legge e dei contratti collettivi e i limiti


all’autonomia dispositiva del lavoratore
Per ciò che concerne la causa dell’invalidità del negozio dispositivo, va notato:
- Che tale causa è da ravvisare nella violazione di una norma inderogabile di legge o
di contratto collettivo posto a tutela dell’interesse del lavoratore.
A tal proposito va ricordato che le norme inderogabili assolvono ad una funzione
minimale di tutela dell’interesse collettivo, il quale è da ritenersi rilevante solo
indirettamente, quale presupposto dell’impugnazione a tutela dell’interesse individuale
del singolo.
- Che si tratta specificatamente di rinunzia e transazione.
L’invalidità disposta dall’art.2113 c.c. è da riportare al principio dell’inderogabilità del
regolamento contrattuale collettivo -> per mezzo dell’effetto dell’annullabilità,
all’autonomia negoziale del prestatore di lavoro viene imposto un limite, rappresentato dal
minimo inderogabile di trattamento economico e normativo.
Secondo l’orientamento prevalente in dottrina, si dovrebbe riconoscere nel combinato
disposto degli artt.1418, 1419 e 2113 c.c. l’espressa statuizione di un’indisponibilità,
parziale e limitata, dei diritti del lavoratore. In realtà, la formula della indisponibilità dei
diritti del lavoratore ha un valore soprattutto descrittivo degli effetti disposti dall’art.2113

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c.c., pertanto si rinviene una parziale incapacità di agire, o anche di disporre, la quale
dovrebbe investire nella sua integrità l’oggetto del diritto attribuito al lavoratore e non
essere circoscritta all’area della inderogabilità del regolamento contrattuale del rapporto.
Pertanto, l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni si prospetta come un limite imposto
all’autonomia negoziale in funzione dell’effettivo soddisfacimento di interessi la cui
realizzazione può essere impedita dalla posizione di debolezza contrattuale nel quale il
lavoratore si trova tanto nel corso del rapporto, quanto successivamente all’estinzione dello
stesso.
Dalle rinunce e dalle transazioni bisogna tenere distinte le cd. quietanze a saldo o
liberatorie, ossia esplicite dichiarazioni di rinuncia ad ogni eventuale futura pretesa . La
giurisprudenza ha negato ogni rilevanza negoziale a tali atti, circoscrivendone l’efficacia
entro i limiti rigorosi del riconoscimento dell’avvenuto pagamento di determinati crediti e
quindi soltanto dell’adempimento e non già del fondamento delle obbligazioni del datore di
lavoro.
Invece, la rinunzia tacita consiste nella possibilità di ravvisare nel comportamento del
lavoratore una manifestazione indiretta della volontà di rinunciare ad un proprio diritto.

15. L’art.2113, co.4, c.c. La validità delle rinunce e transazioni sottoscritte


nelle “sedi protette”. Alcune applicazioni specifiche alla luce delle riforme del
2015
Ai sensi dell’art.2113, co.4, c.c. sono valide le rinunzie e le transazioni intervenute in sede
di conciliazione delle controversie individuali. In tale sede la disposizione dei diritti avviene
con l’assistenza dell’organo conciliatore.
In occasione dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della certificazione, il
legislatore è intervenuto ad arricchire il catalogo delle “sedi protette”, prevedendo
esplicitamente che le commissioni di certificazione “sono competente a certificare le
rinunzie e le transazioni di cui all’art.2113 c.c. a conferma della volontà abdicativa o
transattiva delle parti stesse.

16. La certificazione
Il d.lgs n. 276/2003 ha introdotto il nuovo istituto della certificazione dei contratti di
lavoro, uno strumento a disposizione delle parti per rendere trasparente la “zona grigia”
tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo, attraverso la fissazione di chiari criteri
distintivi.
- Dunque, la certificazione ha la finalità di ridurre il contenzioso in materia di lavoro ->
le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente
o indirettamente, una prestazione di lavoro.
- La certificazione ha, altresì, la finalità di identificazione degli effetti del contratto e poi
la sua qualificazione a stregue delle c.d. tipologie di rapporto previste -> le parti hanno
l’onere di indicare nella istanza “gli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali
in relazione ai quali viene richiesta la certificazione del contratto”.
- Il legislatore ha assegnato alla certificazione anche una importante funzione di
sostegno e di controllo dell’autonomia individuale che attribuisce alle commissioni di
certificazione una funzione di consulenza e assistenza alle parti sia in fase di
stipulazione che in fase di attuazione del rapporto.

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L’atto amministrativo di certificazione, però, non è un atto di mero accertamento


dell’esistenza del contratto e della sua efficacia e qualificazione tra le parti, ma ha effetti
che permangono anche verso terzi, che lo stesso legislatore indica come “autorità
pubbliche” (istituti previdenziali e le altre amministrazioni pubbliche).
Va ancora notato che il contratto di lavoro può essere certificato non solo nel momento
genetico, ma anche in corso di esecuzione:
> l’art.31, co.17 della L.183/2010 ha disposto che nel caso di contratti certificati in
corso di esecuzione, gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla
certificazione del contratto di lavoro su producono dal momento di inizio del
contratto. -> ciò apre la possibilità di effettuare una sorta di convalida dello
svolgimento pregresso dei rapporti di lavoro.

Un altro aspetto importante da segnalare è quello statuito:


> Art.30, co.2, L.183/2010, secondo cui nelle controversie relative alla qualificazione
del rapporto o alla interpretazione del contratto, il giudice non può discostarsi dalle
valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione, salvo il caso di erronea
qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma
negoziale certificato e la sua successiva attuazione.
> Co.3 dell’art.30, nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento ->
 Il giudice debba solamente “tener conto” delle tipizzazioni di giusta causa e di
giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati
comparativamente più rappresentativi.
 Allo stesso tempo, il giudice “tiene egualmente conto” dei criteri e dei parametri fissati
dai medesimi contratti certificati, al fine di stabilire le conseguenze economiche
connesse ai licenziamenti illegittimi intimati in regime di stabilità obbligatoria.
Si tratta, dunque, di una previsione che attribuisce all’organo giudicante la facoltà
di fare riferimento alle valutazioni espresse dalle parti in sede di certificazione, pur
non essendo ad esse vincolato, qualora risultino in contrasto con la disciplina
protettiva inderogabile di legge o di contratto collettivo.

Gli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro sono le commissioni istituite
presso le Direzioni provinciali del lavoro, nonché la Direzione generale della tutela delle
condizioni di lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La commissione non
è vincolata al nomen iuris indicato dai contraenti, ma deve certificare la qualificazione in
conformità al tipo o al modello legale adeguato al rapporto effettivamente voluto dalle parti.
La certificazione non è opponibile al giudice:
> L’art.79 prevede la permanenza dell’efficacia della certificazione “fino al momento
in cui sia stato accolto uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’art.80,
fatti salvi i provvedimenti cautelari”.
Il ricorso al giudice del lavoro è dunque per i terzi l’unico strumento per contestare la
certificazione e le regole sono quelle ordinarie dell’azione e del processo, con l’unica
eccezione che il tentativo di conciliazione è obbligatorio e dovrà essere effettuato davanti
alla commissione che ha emesso la certificazione.

SEZ. C: Prescrizione e decadenza

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17. La prescrizione dei diritti dei lavoratori


Secondo la disciplina codicistica i diritti del prestatore di lavoro sono di regola sottratti
alla prescrizione estintiva ordinaria decennale e sottoposti alla prescrizione estintiva
breve quinquennale disposta dall’art.2948 c.c., che riguarda tutto ciò che deve essere
corrisposto periodicamente ad anno o in termini più brevi e le indennità spettanti per la
cessazione del rapporto di lavoro. La prescrizione ordinaria opera in situazioni eccezionali,
ossia nei casi in cui dal rapporto derivino al prestatore diritti diversi da quello alla
retribuzione.
La prescrizione estintiva produce l'estinzione del diritto soggettivo per effetto dell'inerzia del
titolare che non lo esercita o non ne usa per il tempo determinato dalla legge
A questa, che è la prescrizione estintiva dei diritti, si aggiunge poi la prescrizione
presuntiva, la quale fa salva la prova contraria, limitata alla confessione giudiziale o al
giuramento decisorio, fornito dalla controparte, del pagamento del debito. Tale
prescrizione, in materia di lavoro, è di 1 anno per il diritto dei lavoratori alle retribuzioni
corrisposte a periodi non superiori al mese; è di 3 anni, per quelle corrisposte a periodi di
oltre 1 mese.
Il regime della prescrizione opera in via di eccezione, è inderogabile ed irrinunciabile ->
da ciò si desume che l’inerzia del titolare del diritto per il tempo previsto dalla legge sia
condizione necessaria e sufficiente per l’estinzione e quindi la perdita del diritto stesso.

18. La decadenza. Le clausole di decadenza dei contratti collettivi


Il decorso del tempo è alla base anche dell’istituto della decadenza, in virtù della quale
l’esercizio di un diritto viene sottoposto ad un termine perentorio -> nella decadenza il
decorso del tempo produce la preclusione dell’esercizio del diritto da parte del suo titolare.
La decadenza può essere:
 Legale: nel caso in cui il relativo termine sia fissato dalla legge.
Tra le ipotesi di decadenza legale, la più significativa è quella prevista dall’art.6
L.604/1966, che stabilisce l’obbligo di impugnare il licenziamento entro il termine
perentorio di 60 giorni dalla sua comunicazione. Analogo termine era stato
introdotto per l’impugnazione dei licenziamenti che presuppongono la risoluzione di
una questione relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro.
 Contrattuale: nel caso in cui il relativo termine è fissato per contratto
dall’autonomia privata.
Infatti termini di decadenza vengono anche fissati dalla contrattazione collettiva,
alla cui autonomia può essere affidato il compito di regolare le procedure attinenti
alla c.d. amministrazione del contratto collettivo.

19. L’intervento della Corte costituzionale in materia di prescrizione

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Poiché il mancato esercizio del diritto unito al passare del tempo, è produttiva di effetti
analoghi a quelli degli atti di disposizione, anche la prescrizione e la decadenza possono
essere considerate come un’indiretta abdicazione delle posizioni soggettive di vantaggio
garantite dalla legge e dai contratti collettivi al lavoratore.
Secondo alcune opinioni, nell’art. 2113 si troverebbe l’enunciazione positiva di un
principio più generale secondo cui i diritti del prestatore di lavoro dovrebbero essere
considerati indisponibili e, di conseguenza, imprescrittibili.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale si è assunta il compito di trasferire queste
opinioni interpretative sul piano del diritto positivo, rendendo esplicito il principio della
disponibilità limitata dei diritti del lavoratore anche in tema di prescrizione e decadenza.
Nella storica sent.10 Giugno 1966, n.63, la Corte ha esplicitato tale principio
dichiarando incostituzionali gli artt. 2948, 2955 e 2956 limitatamente alla parte in
cui consentano che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante
il rapporto di lavoro.
A fondamento della sua pronuncia, la Corte ha richiamato l’art. 36 Cost.: da tale
norma è stata ricavata, infatti, oltre al diritto del lavoratore alla retribuzione
proporzionata e sufficiente, anche il principio dell’irrinunciabilità del diritto alla
retribuzione durante il rapporto di lavoro.
Per giungere alla declamatoria della parziale illegittimità delle norme indicate, la
sentenza ha argomentato il timore del licenziamento, sostenendo che, a fronte di
tale potere, il prestatore si troverebbe in una situazione di soggezione psicologica,
tale da impedirgli l’esercizio pieno e perciò la libera disposizione dei propri diritti.
In virtù di ciò, la Corte ha ritenuto di dovere dichiarare il differimento del termine
di prescrizione alla fine del rapporto, e infatti, alle medesime condizioni, la Corte
è pervenuta anche per la decorrenza dei termini di decadenza.
La sentenza è una delle decisioni più importanti e significative della Corte costituzionale:
in essa è da ravvisare un notevole esempio di giurisprudenza creativa di una vera e
propria norma non scritta dal legislatore ma ricavata dai principi costituzionali. Lo
strumento impiegato è la sentenza c.d. manipolativa di illegittimità parziale -> la sentenza
è intervenuta per modificare il contenuto normativo senza alterare il testo di dette
disposizioni.

20. La giurisprudenza costituzionale successiva al 1966 in tema di prescrizione


In una successiva evoluzione della giurisprudenza, la Corte Costituzionale è giunta a
ridimensionare notevolmente la portata della disciplina introdotta dalla sent.63/1966 ->
- Ha escluso che l’impedimento alla decorrenza della prescrizione sussista in tutti
i rapporti in cui il prestatore è, o si presume essere, garantito quanto alla stabilità
del posto di lavoro come, ad esempio, nel pubblico impiego.
Proseguendo su questa linea di revisione, la Corte ha affermato che:
- A seguito della introduzione, ex art.18 st.lav., della reintegrazione come rimedio
a licenziamento illegittimo, sarebbe venuta meno la ragione per ritenere impedita
la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro, qualora
quest’ultimo sia dotato del requisito della stabilità o c.d. forza di resistenza.

Anche dopo le suddette pronunce, si sono avute ancora decisioni di giudici di merito che
si sono distaccate dall’orientamento indicato, e nuove remissioni alla Corte Costituzionale

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circa la legittimità dell’art.2948, n.4, c.c. per la parte in cui consenta la decorrenza del
termine di prescrizione in costanza di un rapporto “stabile”.
- La Corte di Cassazione è intervenuta a ribadire la validità delle argomentazioni della
Corte Costituzionale e la legittimità delle conclusioni contenute nelle sentenze
successive a quelle del ’66.
Alla luce di questa giurisprudenza -> l’operatività della disciplina impeditiva del decorso
della prescrizione durante il rapporto è stata ritenuta gradualmente applicabile, oltre che
ai residui casi in vige il principio della libera recedibilità, anche ai rapporti di lavoro
compresi nell’area della c.d. stabilità obbligatoria.

Per ciò che concerne, invece, la disciplina della prescrizione ordinaria -> la Corte
costituzionale si è sempre pronunciata con sentenza di rigetto:
- La prescrizione decennale decorre in costanza del rapporto di lavoro per i diritti ad essa
sottoposti.
Tuttavia a seguito della riscrittura dell’art.18 St.lav. ad opera della Riforma Fornero, i
presupposti interpretativi su cui è stato costruito il regime della decorrenza della
prescrizione sono mutati ->
Non è più possibile stabilire in anticipo se il lavoratore licenziato illegittimamente
abbia diritto alle garanzie di stabilità reale del proprio posto di lavoro.
Il diritto alla reintegrazione non costituisce più un effetto automatico derivante
dall’illegittimità di un licenziamento intimato da un datore di lavoro che rientri nelle
soglie occupazionali stabilite dall’art.18, ma si presenta solo come uno dei possibili
rimedi contro un provvedimento di recesso invalido.

SEZ. D: La tutela giurisdizionale differenziata del lavoratore


21. Disciplina processuale delle controversie di lavoro
Il sistema delle garanzie sostanziali dei diritti del lavoratore trova il suo naturale
completamento nella speciale disciplina delle controversie individuali di lavoro. Tale
disciplina è stata progressivamente elaborata dal legislatore in funzione della
inderogabilità tipica del regolamento del rapporto di lavoro. Perciò il sistema delle norme
relative alla composizione delle controversie di lavoro può essere considerata come la
proiezione, sul piano della tecnica processuale, della regola codificata nell’art.2113 c.c.
della disponibilità limitata.
Questo spiega la specialità caratteristica del processo del lavoro:
- La giurisdizione del lavoro si è sviluppata secondo modelli tendenti all’adattamento alle
norme della disciplina sostanziale del rapporto e alla tutela delle posizioni soggettive
del lavoratore.
Gli aspetti sostanziali di tale tutela sono:
1) In primo luogo, la c.d. tutela giurisdizionale differenziata dei lavoratori
subordinati ha la finalità di rafforzare le garanzie a favore dei lavoratori. Tale tutela
è stata estesa sia ai prestatori di lavoro associati nei contratti agrari indicati dall’
art. 409 c.p.c., sia ai prestatori di lavoro autonomo, la cui opera sia
prevalentemente personale ed altresì finalizzata ad una collaborazione coordinata e
continuativa ad un0impresa o ad altra organizzazione.
2) In secondo luogo, caratteristici del processo del lavoro sono i principi
dell’immediatezza, della concentrazione e dell’oralità.

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• I termini processuali sono abbreviati rispetto a quelli previsti per le altre


controversie, mentre sono stabilite alcune preclusioni, che obbligano le parti
ad assumere difese precise e ad indicare i mezzi di prova sin dagli atti iniziali
del processo.
• Particolare importanza era data al tentativo di conciliazione che il giudice è
obbligato ad effettuare nella prima udienza di discussione della causa.
Qualora essa venga raggiunta, viene redatto il relativo processo verbale che
ha efficacia di titolo esecutivo.
• È previsto che la trattazione della causa si svolga in forma orale e in una
sola udienza. Il giudice, infatti, deve acquisire la conoscenza diretta dei fatti,
e quindi, nella stessa udienza, deve pronunciare la sentenza, dando lettura
del dispositivo.
Da ultimo, merita di essere segnalata la normativa introdotta allo scopo di indicare al
giudice i criteri di interpretazione delle norme che contengono clausole generali ->
- Art.30, co.1, L.183/2010 -> “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge contengano
clausole generali, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente all’accertamento del
presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni
tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.”
Detta disposizione ha l’intendo di impedire al giudice ogni sindacato di opportunità
delle scelte datoriali che possono essere valutate esclusivamente sotto il profilo della
legittimità. La norma quindi intende restringere la discrezionalità interpretativa
indubbiamente ampia in presenza di enunciati legislativi generici.

Importanti sono anche le peculiarità della speciale disciplina delle controversie di lavoro
per ciò che concerne le garanzie attinenti all’attuazione concreta dei diritti del lavoratore.
Al riguardo, tre sono le garanzie che accompagnano la tutela dei diritti e del credito di
retribuzione:
Art.432 c.p.c. -> valutazione equitativa dell’ammontare delle somme dovute al
lavoratore -> il giudice deve disporre la liquidazione quando sia certo il diritto che
ne costituisce il titolo ma non la somma dovuta.
Art.431, co.1, c.p.c. -> la sentenza di condanna per i crediti di lavoro sia
indefettibilmente munita di clausola di provvisoria esecuzione.
Art.429, co.3, c.p.c. -> diritto del lavoratore al risarcimento del maggiore danno
derivante dalla svalutazione monetaria dei crediti di lavoro, da liquidarsi anche
d’ufficio.

24. Composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro. La conciliazione:


la disciplina generale e quelle speciali in materia di licenziamento.
Accanto alla composizione giudiziale delle controversie l’ordinamento ammette e promuove
la composizione stragiudiziale nelle forme della conciliazione e dell’arbitrato tanto
rituale che irrituale. Muovendo dalla conciliazione, occorre distinguere tra una disciplina
generale che prevede la facoltatività del ricorso alla conciliazione per tutte le controversie
che abbiano ad oggetto diritti del lavoratore e quelle speciali che invece riguardano
esclusivamente la materia del licenziamento.

a) La disciplina codicistica ->

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La L.183/2010 ha ridisegnato la sezione del c.p.c. recante le disposizioni in materia di


conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, e riscrive le norme degli artt.410, 411,
412, abrogando nel contempo gli artt.410 bis e 412 bis.
Art.410 c.p.c. (nuovo testo) dispone che “chi intende proporre in giudizio una domanda
relativa ai rapporti previsti dall’art.409 c.p.c. può promuovere un previo tentativo di
conciliazione presso la commissione di conciliazione” territorialmente competente, istituita
presso la Direzione provinciale del lavoro.
- Il tentativo di conciliazione delle controversie di lavoro (il quale prima della recente
riforma del 2010 era obbligatorio) è divenuto ora facoltativo, fatta eccezione per il
ricorso avverso la certificazione di un contratto di lavoro.
- La composizione delle commissioni di conciliazioni istituite presso la Direzione
provinciale del lavoro -> composte dal direttore d’ufficio o da un suo delegato o da un
magistrato collocato a riposo, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti
dei lavoratori designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative a livello territoriale. Alla commissione sono affidati compiti di
mediazione.
- La procedura ricalca quanto era già previsto per le controversie di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
- Se una volta espletata la procedura, la conciliazione non riesce o le parti non accettano
la proposta di componimento della lite formulata dalle commissioni, ciò avrà un peso
nel giudizio futuro, poiché, ex art.411 c.p.c., il giudice ne tiene conto in sede di
decisione, anche ai fini delle spese di giudizio. Se invece la conciliazione riesce verrà
redatto un processo verbale che acquisirà, una volta sottoscritto dalle parti e dai
componenti della commissione, valore di titolo esecutivo.

b) La procedura conciliativa obbligatoria prodromica al licenziamento per


giustificato motivo oggettivo ->
La L.92/2012 ha modificato l’art.7 L.604/1966, ponendo a carico del datore di lavoro che
intenda effettuare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo
dell’esperimento di una procedura preventiva di conciliazione in sede
amministrativa.
Nuovo testo dell’art.7 L.604/1966:
- Il datore di lavoro deve far precedere il licenziamento da una comunicazione alla
direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera,
contenente l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e i relativi
motivi del licenziamento medesimo, nonché le eventuali misure di assistenza alla
ricollocazione del lavoratore interessato.
- Nel termine perentorio di 7 giorni, la direzione territoriale del lavoro deve
trasmettere una convocazione al datore di lavoro e al lavoratore per consentire
loro di incontrarsi e trovare una soluzione alternativa al licenziamento. L’incontro si
svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione e le parti possono farsi
assistere da un rappresentante sindacale o da un avvocato.
- La procedura deve concludersi entro 20 giorni dal momento in cui la direzione
territoriale ha trasmesso la convocazione per l’incontro.
In caso di accordo tra le parti, è previsto che il lavoratore abbia in ogni caso diritto
al trattamento erogato dall’assicurazione sociale per l’impiego.
In caso di mancato accordo, oppure decorso il termine massimo previsto dalla
legge, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.

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c) Il tentativo obbligatorio per i licenziamenti assoggettati alla L.604/1966 ->


In passato, in materia di licenziamenti individuali l’art.5 L.108/1990 aveva previsto
l’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione come condizione di
procedibilità per la domanda in giudizio da parte del lavoratore ingiustamente
licenziato.
Nel 1998, fu introdotto per tutte le controversie di lavoro un tentativo obbligatorio di
conciliazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale -> pertanto, la
previsione dell’art.5 era stata assorbita nella disciplina generale.
Oggi, poiché a seguito della Riforma del 2010 il tentativo di conciliazione è divenuto
nuovamente facoltativo, si è posto il dubbio se il predetto art.5 abbia riacquistato la
propria efficacia vincolante, con riferimento alle controversie in materia di licenziamenti
nell’area della stabilità obbligatoria. Al momento non sembra che tale tesi abbia trovato
riscontro in sede giurisprudenziale.

d) L’offerta di conciliazione ->


Per i nuovi assunti, il d.lgs 23/2015 ha introdotto un nuovo strumento di risoluzione delle
controversie in materia di licenziamenti denominato “offerta di conciliazione”:
- Il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, può offrire al lavoratore l’importo di un
ammontare dimezzato rispetto a quello che verrebbe liquidato dal giudice, in misura,
comunque, non inferiore a due e non superiore a 18 mensilità.
- L’offerta deve avvenire mediante presentazione di un assegno circolare.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto
alla data del licenziamento e la rinuncia ad una eventuale impugnazione.
- Al fine di incentivarne l’utilizzo e di scoraggiare il ricorso al giudice, la norme prevede
la totale decontribuzione fiscale della somma. Il mezzo di pagamento prescelto
assicura al lavoratore l’immediata disponibilità della somma e previene possibili azioni
in caso di inadempimento.

25. L’arbitrato.
Diverso dalla conciliazione è l'arbitrato, un istituto per mezzo del quale le parti pervengono
alla composizione di una controversia attraverso il deferimento ad un terzo del potere di
decisione. Trova la sua fonte nel compromesso, negozio con cui si deferisce la controversia
già insorta, oppure nella clausola compromissoria, con cui le parti si impegnano a
deferire a terzi le possibili future controversie in ordine all’esecuzione o interpretazione del
contratto. In entrambi i casi è richiesta la forma scritta a pena di nullità.
Occorre distinguere tra arbitrato rituale o irrituale.

• L'arbitrato rituale
È idoneo a conseguire effetti equivalenti alla giurisdizione. Esso infatti si svolge come un
vero e proprio giudizio, secondo le norme procedurali stabilite dalle stesse parti nel
compromesso o nella clausola compromissoria. Ai senti dell’art.806 c.p.c., le parti non
possono far decidere da arbitri le controversie relative a diritti indisponibili e, per quello
che attiene specificatamente alle controversie di lavoro, il ricorso agli arbitri è ammesso
solo se ciò è previsto dalla legge o dai contratti collettivi.

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Al termine del procedimento, la decisione viene pronunciata secondo diritto ed è


incorporata nel lodo, atto di natura negoziale che acquista autorità di sentenza mediante
un decreto di omologazione del giudice che ne accerta la regolarità formale:
l’impugnazione del lodo è ammessa:
1. Per nullità -> per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia
solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge.
2. Per revocazione
3. Per opposizione di un terzo
E va presentata davanti alla Corte d’Appello nel cui distretto è a sede dell’arbitrato.
In conclusione possiamo dire che l’arbitro rituale nel diritto del lavoro può considerarsi
un istituto ineffettivo, non avendo mai trovato applicazione, infatti l’unico istituto
utilizzato nel contenzioso lavoristico è l’arbitrato irrituale.

• L’arbitrato irrituale o libero


Ricorre invece quando le parti rimettano all’arbitro la composizione della controversia in
via negoziale e non giurisdizionale -> in questo caso l’atto formato dal terzo, chiamato
ugualmente lodo, ha natura negoziale ed effetti contrattuali.
La riforma, occupandosi solamente dell’arbitrato irrituale, conferma di ritenerlo l’unico
strumento, alternativo alla giurisdizione, per la composizione delle controversie di lavoro.
1. PRIMA POSSIBILITA’ DI RICORSO ALL’ARBITRATO IRRITUALE
Art.31, co.5, L183/2010 (riscrivendo l’art.412 c.p.c.) introduce una prima possibilità di
ricorso all’arbitrato irrituale anche secondo equità in qualunque fase del tentativo di
conciliazione:
 Le parti hanno la facoltà di ricorrere all’arbitrato irrituale per risolvere la lite già insorta
per la quale sia pendente o sia fallito il tentativo di conciliazione e possono affidare alla
commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.
Nel mandato le parti devono indicare il termine per l’emanazione del lodo e le norme
invocate a sostegno delle loro pretese. Il lodo irrituale ha natura di determinazione
contrattuale e non è impugnabile. Tuttavia, esso è annullabile dal giudice competente
soltanto per i vizi indicati dall’art.808 c.p.c. tra i quali vi è l’inosservanza delle regole
imposte dalle parti come condizione di validità del lodo o dei criteri di valutazione
eventualmente indicati dalle parti per la risoluzione della controversia.
Queste caratteristiche inducono a essere scettici sulla effettiva utilità dell’arbitrato
secondo diritto e a ritenere che la sola specie di arbitrato effettivamente operativa potrà
essere solo l’arbitrato di equità ->
- Art.412 c.p.c. (nuovo testo) impone come condizione di validità del lodo di equità, il
rispetto:
o Dei principi generali dell’ordinamento;
o Dei principi regolatori della materia, anche derivanti dal obblighi comunitari.
Questa disposizione ha l’effetto di ridurre la discrezionalità dell’arbitro nel giudizio di
equità poiché, oltre ai regolamenti comunitari, il vincolo ai principi regolatori della materia
sembrerebbe tale da includere la maggior parte della norme inderogabili poste a tutela del
lavoratore. Da qui la conclusione che anche il lodo di equità potrà essere esposto al rischio
della impugnazione per vizi attinenti al merito della decisione.
2. SECONDA POSSIBILITA’

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Una seconda possibilità di composizione stragiudiziale della controversia mediante la


conciliazione o l’arbitrato è quella prevista dai contratti collettivi sottoscritti dalle
associazioni maggiormente rappresentative e disciplinata del novellato art.412 ter c.p.c.
Anche questa possibilità di arbitrato deve ritenersi facoltativa.
3. TERZA POSSIBILITA’
È prevista dall’art.412 quater c.p.c. -> le parti hanno la facoltà di avvalersi di un collegio
di conciliazione e arbitrato, costituito da un rappresentante nominato direttamente da
ciascuna delle parti e da un terzo membro in funzione di presidente. Le parti dovranno
sostenere il costo del compenso del presidente del collegio che è fissato per legge in misura
pari al 2% del valore della controversia, e dell’arbitro da esse nominato nella misura
dell’1%, oltre le spese legali.
Al fine di non scoraggiare il ricorso a questa forma di arbitrato è previsto dalla legge che i
contratti collettivi nazionali di categoria possano istituire un fondo per il rimborso al
lavoratore delle spese per il compenso del presidente e del proprio arbitro.
Gli arbitri alla prima udienza tentano la conciliazione -> se questa non riesce decidono la
controversia mediante un lodo che ha valore strettamente negoziale.
4. QUARTA POSSIBILITA’
Vi è poi una quarta possibilità: la procedura esperita presso le camere arbitrali costituite
in via permanente dagli organi di certificazione.
L’art.31, co.10, L.183/2010 ->
- La possibilità per le parti di inserire nel contratto individuale di lavoro una clausola
compromissoria con cui esse si impegnano a deferire ad arbitri le possibili future
controversie tra loro insorte in ordine all’esecuzione o interpretazione del contratto,
secondo le disposizioni degli artt.412 e 412 quater c.p.c., i quali consentono alle parti
di prevedere che gli arbitri giudichino secondo equità.
- A tutela del lavoratore è stato sancito il divieto di sottoscrizione della clausola
compromissoria contestualmente alla sottoscrizione e alla stipulazione di un contratto.
La clausola potrà essere convenuta solo con atto separato e, ove previsto, non prima
del decorso di 30 giorni dalla data di stipulazione del contratto.
- La clausola deve essere, a pena di nullità, certificata dalle commissioni di certificazione
le quali devono accertare la volontà effettiva delle parti di deferire ad arbitri le
controversie, che dovessero sorgere in futuro.
- La clausola compromissoria non può riguardare le controversie relative alla risoluzione
del rapporto di lavoro -> questa limitazione non vale invece per il ricordo all’arbitrato
per le liti già insorte e cioè per il compromesso che potrà riguardare anche i
licenziamenti e le tutele che ne conseguono in caso di illegittimità del recesso.
L’inserzione nel contratto individuale della clausola compromissoria così regolata è
consentita dalla legge solo ove lo prevedano gli accordi interconfederali o i contratti
collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.
Quindi possiamo dire che la scelta preventiva di deferire ad arbitri la composizione di una
controversia futura appartiene all’autonomia negoziale delle parti, ma solo se la loro
volontà sia certificata e soltanto nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva o dal
Ministero.
In conclusione, in materia di lavoro esistono ipotesi di arbitrato irrituale c.d. legalmente
nominato in cui il deferimento della controversia agli arbitri è consentito alle parti

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direttamente dalla legge, anche in assenza di corrispondenti previsioni contenute nei


contrati ed accordi collettivi.

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CAP. 9 – I RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO

1. Introduzione. La specialità come strumento di differenziazione della disciplina


del rapporto per una specifica tutela del prestatore di lavoro.
La previsione dei rapporti speciali di lavoro trae la sua giustificazione oltre che da ragioni
storiche, anche dall’esigenza di differenziare la disciplina del rapporto di lavoro in relazione
a:
- Caratteristiche specifiche dell’attività lavorativa;
- Le concrete articolazioni della situazione di sotto-protezione sociale tipica del
lavoratore subordinato.
In effetti la tutela della posizione del lavoratore, nella sua qualità di contraente debole e
appartenente ad una categoria sociale sottoprotetta, richiede un adattamento del modello
di tutela. Infatti, la realtà del lavoro subordinato non si presenta come un tutto omogeneo,
ma differenziata per categorie professionali. Tale esigenza di specificazione e adattamento
del modello di tutela del lavoratore subordinato viene avvertita e soddisfatta mediante la
contrattazione collettiva: il contratto collettivo ha la funzione di fissare il regolamento
normativo-tipo del rapporto nonché delle condizioni di impiego del lavoro. Anche la
disciplina legislativa speciale affonda le sue radici nell’esigenza di adattamento della tutela
del lavoratore dipendente e di specificazione delle forme giuridiche della sua protezione
sociale: nei rapporti speciali di lavoro, l’intervento del legislatore è stato da ricollegare ad
una valutazione di insufficienza o inadeguatezza della contrattazione collettiva. Quindi la
specialità si atteggia come uno strumento di tecnica legislativa funzionale ad una articolare
della tutela del lavoratore. Accanto a questa finalità, ve ne può essere una ulteriore: il
contemperamento della tutela del lavoratore subordinato con altri interessi pubblici o
collettivi ritenuti dal legislatore particolarmente rilevanti oppure alle esigenze di flessibilità.

Pubblico impiego. Le sue origini storiche


Altro rapporto di lavoro a carattere speciale è quello che intercorre tra le pubbliche
amministrazioni e un prestatore di lavoro e che veniva definito rapporto di pubblico
impiego.
Inizialmente, essendo alquanto limitate le funzioni dello Stato, i lavoratori pubblici erano
considerati funzionari -> soggetti che, titolari di organi dell'amministrazione
pubblica, ne manifestavano all'esterno la volontà e traducevano in pratica le scelte
operate dal potere legislativo per soddisfare i bisogni della collettività. Di qui il
legame della prestazione lavorativa con l'interesse generale e la conseguente esigenza di
richiedere a questi particolare diligenza, fedeltà, adeguato comportamento nella vita
privata; di qui anche la necessità, al fine di scegliere imparzialmente i più capaci per
l'esercizio delle potestà pubbliche, di assumere attraverso concorsi pubblici.
Cosi la dottrina, nel cercare di conciliare i due profili – di funzionario e lavoratore
subordinato - aveva affermato che l'impiegato pubblico intratteneva con l'amministrazione
un duplice rapporto:
 Il rapporto organico -> in base al quale egli era inserito nell’organizzazione
amministrativi ed era legittimato ad esercitare i poteri connessi a quell’ufficio.
 Il rapporto di servizio -> che era il vero e proprio rapporto di lavoro dal quale
discendevano diritti e obblighi reciproci.

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L'interazione tra i due rapporti aveva indotto a dare maggiore importanza alla relazione
funzionale tra pubblica amministrazione e dipendente. E il prevalere del rapporto
organico su quello di servizio aveva determinato la sistemazione del pubblico impiego nel
diritto pubblico (nel diritto amministrativo) e aveva impresso al relativo rapporto un
carattere autoritario (o di supremazia speciale della P.A.) da cui discendevano le seguenti
conseguenze, superate con la riforma dell'intera materia.
- Il rapporto non si costituiva con il contratto, ma nasceva da un atto unilaterale
dell’amministrazione pubblica (provvedimento di nomina) e ciò imprimeva si
dall’origine al rapporto un carattere autoritario.
- Il rapporto era disciplinato da leggi e da regolamenti ed era gestito mediante
l’emanazione di atti amministrativi.
- La subordinazione era gerarchica e non meramente tecnico-funzionale, ma connessa
con la struttura gerarchica degli uffici nei quali si articola l’organizzazione degli
apparati amministrativi.
- Il giudice competente a decidere le controversie era il giudice amministrativo.
Il rapporto di pubblico impiego ha conservato a lungo tale struttura originaria, grazie agli
orientamenti della giurisprudenza amministrativa. Esso però, a partire dagli anni 70, ha
attraversato una fase di lenta ma significativa trasformazione, dovuta anche all’affermarsi
nel settore di organizzazioni sindacali aderenti alle maggiori confederazioni dei lavoratori,
a cui ha fatto seguito il graduale riconoscimento del metodo della negoziazione collettiva
per le varie categorie di impiegati pubblici ->
o Legge quadro sul pubblico impiego -> aveva previsto l’inserimento sistematico
dell’accordo sindacale tra le fonti di disciplina del rapporto di pubblico
impiego, restringendo notevolmente l’ambito della determinazione unilaterale della
regolamentazione dei rapporti.

3. Varie fasi della riforma del pubblico impiego e contrattualizzazione del


rapporto

a. PRIMA FASE DELLA RIFORMA


La tendenza a voler superare la storica divisione tra lavoro pubblico e lavoro privato è stata
all'origine della delega conferita al governo dalla L. 421/1992 al fine di emanare
disposizioni volte a ricondurre sotto la disciplina del diritto civile i rapporti di lavoro
pubblico; fatta eccezione per quelli relativi ad alcune categorie: magistrati, avvocati,
procuratori, personale militare, personale delle forze di polizia, personale delle carriere
diplomatica e prefettizia.
Una delle innovazioni fondamentali prevista dalla legge delega era:
- Contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego -> l'abolizione della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e l'attribuzione al giudice ordinario
della competenza sulle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti.
La L. 421/1992 ha fatto salvi “i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui
sono indirizzate le pubbliche amministrazioni”.
Pertanto devono rimanere disciplinate da norme di legge e regolamento alcune materie
quali:
 I principi fondamentali di organizzazione degli uffici.
 I ruoli e le dotazioni organiche.
 Gli organi e gli uffici oltre che i modi di conferimento degli stessi.

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 Le responsabilità giuridiche dei singoli operatori.


In attuazione della legge delega, è stato emanato il D.lgs 29/1993, al quale hanno
fatto seguito alcuni interventi correttivi che hanno:
- Teso ad armonizzare la nuova disciplina su basi negoziali del rapporto di
lavoro alle dipendenze delle PA con i vincoli che derivano dalla natura
pubblica del datore di lavoro.
- Hanno attuato il principio della contrattualizzazione del rapporto di
lavoro pubblico e della sua sottoposizione alle norme del cc. e delle leggi che
regolano i rapporti di lavoro privati.
- Hanno attuato il contemperamento tra la disciplina di natura
contrattuale individuale e collettiva e le esigenze di una disciplina
eteronoma dell’organizzazione amministrativa in funzione degli interessi
generali coinvolti.

b. SECONDA FASE DELLA RIFORMA


Bisogna dire che, nell’arco di pochi anni, sia l’esperienza maturata nella prima fase, sia
l’esigenza di procedere ad un recupero di efficienza e ad una riduzione degli sprechi
gestionali nell’ambito della pubblica amministrazione, hanno indotto il legislatore ad
avviare una seconda fase del processo riformatore.
L.59/1997 ---> è stato riaperto il termine per l’emanazione di decreti delagati correttivi,
prevedendosi un’integrazione, sostituzione e modificazione dei principi e criteri direttivi
già contenuti nella L.421/1992.
La legge ha previsto l'emanazione di decreti delegati contenenti nuove disposizioni:
 Per una parziale riforma della contrattazione collettiva e della
rappresentatività sindacale nell’area del lavoro pubblico.
 Per il completamento e l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con
quella del lavoro privato.
 Per l’estensione del regime privatistico del rapporto di lavoro anche i dirigenti
generali.
 Per la c.d. devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative al
rapporto di lavoro.
A tali deleghe si è data attuazione con diversi decreti legislativi, tuttavia l’esigenza di dare
ordine alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico ha indotto il legislatore a delegare il
governo ad emanare un testo univo che ne riordinasse le norme ->
 D. LGS. 165/2001: il quale ha raccolto e riordinato la precedente disciplina senza
però assumere la veste formale di un testo unico.
Inoltre, al fine di introdurre anche nella pubblica amministrazione modelli organizzativi
per obiettivi, ossia misurati sul raggiungimento di standards di efficacia, efficienza ed
economicità, si è cercato di rendere più flessibile l’attività delle strutture.

A tal fine il legislatore ha distinto tra:


 Macro-organizzazione -> inclusiva degli atti generali di organizzazione relativi alle
linee fondamentali dell’organizzazione degli uffici; quelli riguardanti l’individuazione
degli uffici di maggiore rilevanza e dei modi di conferimento della titolarità dei
medesimi.
 Micro-organizzazione -> costituita dalle determinazioni per l’organizzazione degli
uffici che devono essere assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità
e i poteri del privato datore di lavoro.

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Negli anni successivi si sono avuti numerosi altri interventi legislativi volti a regolamentare
alcuni aspetti peculiari della disciplina introdotta nel corso delle prime fasi della riforma.
Tali interventi hanno interessato in particolare le procedure di negoziazione collettiva in
relazione al controllo dei costi contrattuali. Allo stesso tempo, però, sono emerse alcune
evidenti carenze nell’applicazione della nuova disciplina.

c. TERZA FASE DELLA RIFORMA


Il D. Lgs. 150/2009 non ha alterato in modo radicale l’assetto strutturale dato al rapporto
di lavoro pubblico dalla normativa emanata negli anni precedenti; esso appare piuttosto
finalizzato a correggere ed integrare quella normativa con norme volte ad ottenere un
miglioramento di efficienza dell’attività delle PA. È innegabile, però, che il decreto ha
in alcuni casi rilegificato la disciplina del lavoro alle dipendenze dello stato, sottraendo alla
contrattazione collettiva il potere di intervenire a regolare direttamente alcuni istituti del
rapporto.

d. DOPO LA TERZA FASE


Dopo questa terza fase della riforma, il legislatore è intervenuto nuovamente su diversi
aspetti della disciplina del pubblico impiego:
- L.190/2012 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella PA”, che incidono direttamente sul rapporto di lavoro e altre che
riguardano aspetti organizzativi della PA.
- L.124/2015 (Legge Madia), contenente “Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle PA” -> ha previsto un’ampia rivisitazione del rapporto di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La delega si è mossa lungo due direttrici di fondo:
La prima ha previsto decreti legislativi di semplificazione in una serie di settori,
con l’obiettivo di elaborare un testo unico e di rivedere la disciplina di diversi
punti nevralgici del rapporto di lavoro pubblico.
La seconda aveva previsto che il Governo avrebbe adottato uno o più decreti
legislativi in materia di dirigenza pubblica e di valutazione dei rendimenti dei
pubblici uffici, con l’obiettivo di valorizzare la professionalità, la sua autonomia,
la valutazione sul suo operato e le relative responsabilità, del dirigente.
La delega non ha però ricevuto attuazione, poiché la Corte Costituzionale ha
dichiarato incostituzionali alcuni articoli della Legge che prevedevano una semplice
acquisizione del parere della Conferenza Stato-Regioni, e non una vera e propria intesa,
per l’approvazione dei decreti attuativi.

Peraltro, questo processo di tendenziale avvicinamento tra settore pubblico e privato, si è


accompagnato ad un sensibile allontanamento tra le due discipline, il quale è stato
determinato:
- D.lgs 276/2003 -> non ha trovato applicazione per le pubbliche amministrazioni e per
il loro personale.
- L.92/2012 -> ha introdotto disposizioni che valessero come principi e criteri applicativi
per la regolazione dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni.
- Decreti attuativi della L.183/2014.

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5. Alcuni fondamentali profili di specialità del rapporto di lavoro pubblico. La


disciplina della dirigenza pubblica.
La riforma ha trasformato in modo rilevante il rapporto di lavoro pubblico, ma non ha
eliminato i profili di specialità, che emergono con riferimento a vari istituti in cui
permane la prevalenza di un interesse pubblico. Di disciplina speciale si può parlare con
riferimento alla materia di organizzazione degli uffici e delle strutture, e dell’organizzazione
del lavoro, rispetto alla quale il legislatore è intervenuto a disciplinarne formalmente
natura e condizioni di esercizio.
A) Tale specialità è evidenziata dalle norme riguardanti il sistema delle fonti.
a) A partire dalla seconda fase della riforma, la legge ha distinto tra atti di macro-
organizzazione, riservati alla fonte unilaterale pubblicistica, e le determinazioni per
la micro-organizzazione alle quali si applica il diritto privato.
Il legislatore, per salvaguardare l'autonomia decisionale del dirigente, con
l'intervento del 2009, ha stabilito che in questo secondo ambito le decisioni devono
essere assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione, escludendo un
condizionamento da parte degli organi politici, ma anche che possano divenire
oggetto di contrattazione con i sindacati.
La normativa contenuta nel D.lgs.165/2001, quale risultante dalla innovazioni degli
interventi riformatori del 2009 e del 2017, stabilisce che:
o Ai rapporti di lavoro pubblico si applicano le norme del c.c. e delle leggi sul
rapporto di lavoro privato.
o Che i rapporti di lavoro pubblico sono regolati contrattualmente, precisando
che la contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni
sindacali, ed aggiungendo che essa ha una riserva specifica di competenza
in materia di trattamento economico.
o Che i contrati individuali devono rispettare il principio di parità di
trattamento.

B) Il legislatore ha individuato nella qualifica dirigenziale e nelle relative responsabilità


uno dei punti nodali della riforma. Fondamentale è la distinzione tra responsabilità di
indirizzo politico e responsabilità di direzione amministrativa -> una distinzione
precisata e rafforzata con la seconda fase della riforma. In questa prospettiva, un elemento
di particolare rilievo è quello relativo alle ridefinizione del rapporto di lavoro dei dirigenti, i
quali sono responsabili della realizzazione dei programmi elaborati a livello politico.
Il d.lgs.165/2001 -> ha previsto l’istituzione, presso ciascuna amministrazione, di un
ruolo dirigenziale articolato in due fasce. I dirigenti della seconda fascia transitano nella
prima qualora abbiano ricoperto incarichi di direzione degli uffici generali o equivalenti per
un periodo di almeno 5 anni.
Il contratto con il quale si instaura il rapporto di lavoro non è idoneo a individuare le
funzioni dirigenziali. A tale individuazione si perviene attraverso un provvedimento di
conferimento dell’incarico, in cui sono individuati l’oggetto dell’incarico, l’obiettivo da
conseguire e la durata. La durata non può essere inferiore ai 3 anni né superiore ai 5, ed
è rinnovabile. Il mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati al dirigente comportano
l’impossibilità del rinnovo del predetto incarico.
In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può revocare l’incarico, collocando il
dirigente a disposizione dei ruoli, o finanche recedere dal rapporto, secondo le previsioni
del contratto collettivo.

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C) Il decreto del 2001 oltre a precisare che lo Statuto dei lavoratori si applica alle p.a. a
prescindere dal numero dei dipendenti, per quanto riguarda il rapporto di lavoro
ribadisce che esso è disciplinato dalle disposizioni civilistiche e dai contratti
collettivi. Nonostante questo, il legislatore interviene ormai regolarmente a regolamentare
molti istituti, ritenuti di particolare rilievo.
Tra questi meritano specifica considerazione i seguenti:
1. ASSUNZIONE ->
Avviene con contratto individuale di lavoro, nel rispetto dell'obbligo di concorso imposto
dall'art. 97, co. 3 Cost. A tal fine la legge ha previsto 2 diverse procedure di reclutamento:
- Una limitata ai profili e alle qualifiche per le quali è richiesto il solo requisito della
scuola dell'obbligo che avviene mediante avviamento da parte dei centri per l'impiego.
- L'altra tramite procedure rivolte all'accertamento della professionalità richiesta dalle
posizioni da ricoprire e cioè in sostanza veri e propri concorsi. Per quest'ultime
assumono rilievo i principi stabiliti dalla legge tra i quali: il rispetto di un'adeguata
pubblicità e di una rigorosa imparzialità, di meccanismi oggettivi e trasparenti di
valutazione, delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori.
-
2. PART-TIME ->
È stato sottoposto a una disciplina speciale, in collegamento con la normativa in materia
di incompatibilità e di cumulo di impieghi e di incarichi.
In base alla L. 662/1996 la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in
rapporto di lavoro part-time avviene a richiesta del lavoratore. In passato la legge
riconosceva il diritto del dipendente pubblico a ottenere il passaggio al tempo parziale, in
quanto l’amministrazione poteva respingere la richiesta solo in casi eccezionali.
Tale disciplina di favor ha subito una modifica nel 2008: si è previsto che l'amministrazione
possa respingere la richiesta di trasformazione formulata dal lavoratore quando il
passaggio al part-time comporti pregiudizio alla funzionalità dell'amministrazione.
In questo modo è stata ri-attribuita all'amministrazione un'ampia discrezionalità in
materia, anche se il mancato accoglimento della domanda deve essere sorretto da
motivazioni di carattere organizzativo.

3. TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO FLESSIBILE ->


A partire dalla seconda fase della riforma del lavoro pubblico, è stato consentito anche alle
pubbliche amministrazioni di accedere alle tipologie contrattuali di lavoro flessibile, e
la disciplina della materia è stata affidata ai contratti collettivi. Tuttavia questo ulteriore
processo di avvicinamento tra settore pubblico e provato ha subito una brusca inversione
di rotta in occasione della riforma del mercato del lavoro del 2003, dalla cui applicazione
sono state escluse le PA.
Per effetto di tale riforma, oggi le PA possono utilizzare solo alcuni dei contratti subordinati
di tipo flessibile utilizzabili nel settore privato, e cioè:
Il contratto di lavoro a tempo determinato.
La somministrazione a tempo determinato.
Il contratto di formazione e lavoro.
Inoltre, va ricordato che dopo la riforma Madia, è fatto divieto alle amministrazioni
pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di
lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano
organizzate dal committente.

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4. MANSIONI ->
L’Art.52 D.lgs.165/2001 -> il dipendente pubblico deve essere adibito:
Alle mansioni per le quali è stato assunto;
O alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento;
Ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia
successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive.
Il dettato della norme lascia spazi di dubbio, non essendo chiaro se l’equivalenza tra le
mansioni dell’area definita dai contratti collettivi sia presupposta, ovvero se vada accertata
caso per caso.
Anche l’assegnazione temporanea a mansioni superiori è soggetta ad una disciplina
speciale ->
o Essa può essere disposta per periodi non eccedenti i 6 mesi nelle ipotesi di
carenze di organico, prorogabili a 12 nel caso siano state avviate le procedure
per la copertura del posto vacante.
o Essa attribuisce al dipendente il diritto al maggior trattamento retributivo
per il periodo di effettiva prestazione, ma non costituisce mai il presupposto
del diritto alla promozione.

5. POTERE DISCIPLINARE ->


Il legislatore ha dettato uno speciale procedimento disciplinare per il settore pubblico,
riconoscendo direttamente in capo al responsabile della struttura presso cui opera il
dipendente il potere/dovere di esercitare il potere disciplinare, nel caso di infrazioni meno
gravi. In caso di infrazioni più gravi, sarà competente un apposito ufficio per i
procedimenti disciplinari su segnalazione immediata e comunque entro 10 giorni del
responsabile della struttura. C’è da sottolineare che la legge ha formalmente imposto al
responsabile della struttura l’esercizio del potere disciplinare, a pena di esporsi anche lui
a sanzione disciplinare -> quindi il responsabile è tenuto a prevenire e contrastare le
condotte assenteistiche dei suoi diretti dipendenti, nonché a vigilare sul rispetto degli
standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione.
Numerose sono, poi, le sanzioni introdotte dalla legge per colpire specifici comportamenti
del lavoratore -> il legislatore ha previsto il licenziamento disciplinare in una pluralità di
ipotesi (es, il caso in cui il lavoratore riceva una valutazione di insufficiente rendimento
dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa).

6. ECCEDENZE DI PERSONALE ->


Alla rilevazione di eccedenze di personale corrisponde un collocamento in disponibilità
per la durata massima di 24 mesi del personale che non sia stato possibile utilizzare
altrimenti. Tuttavia, il collocamento in disponibilità non risolve il rapporto di lavoro, e
l’indennità di cui godono i lavoratori interessati (pari all’80% della retribuzione) resta a
carico dell’amministrazione di provenienza siano alla riutilizzazione del lavoratore
attraverso il trasferimento ad altra amministrazione, oppure sino alla scadenza del periodo
previsto, dato in cui il rapporto si intende definitivamente risolto.

D) Profili di specialità sono rinvenibili nella disciplina delle controversie relative al


rapporto di lavoro pubblico -> in occasione della seconda fase della riforma, si è
definitivamente realizzato il trasferimento della giurisdizione sulle controversie del lavoro
pubblico al giudice ordinario.

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- Giudice amministrativo -> restano a lui devolute solo le controversie in materia di


concorsi per le assunzioni e quelle relative ai rapporti di lavoro non contrattualizzati.
- Giudice ordinario -> controversie concernenti l’assunzione ma non relative a
concorsi; controversie per la repressione del comportamento antisindacale delle PA
ex art.28 St.lav. e quelle relative alle procedure di contrattazione collettiva.

SEZ.C: I contratti di lavoro con finalità formativa.


17. L’individuazione del fenomeno.
La combinazione della prestazione lavorativa con una esperienza formativa ha dato origine
ai contratti di lavoro con finalità lavorativa, da tenere distinti dai rapporti formativi in
assenza di contratto di lavoro. Nei contratti di lavoro con finalità formativa, la formazione
è oggetto di uno specifico obbligo posto in capo al datore di lavoro che si affianca a quello
retributivo, specializzando cosi la causa contrattuale. La disciplina dei contratti formativi
è poi caratterizzata da un altro importante fenomeno, dato dal concorso di più fonti
regolative: legge statale, regolamenti regionali e disciplina collettiva incidono
contemporaneamente sulla materia e hanno dato origine a rapporti di convivenza che non
sono mai stati tranquilli. Altra considerazione di carattere introduttivo riguarda il profilo
tipologico: è accaduto che l’apprendistato è stato destrutturato e poi ricomposto in più
sottotipi:
- Per i soggetti in formazione scolastica e universitaria sono stati individuati due
sottotipi: 1. Il qualificante (primo tipo) e lo specializzante (terzo tipo);
- Per l’accesso al mercato del lavoro è stato individuato il professionalizzante
(secondo tipo).

19. La disciplina di carattere generale.


19.1 Il profilo tipologico-qualificatorio.
L’apprendistato viene qualificato come “contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato
alla formazione e alla occupazione dei giovani”.
Tale qualificazione risolve due problemi:
- Stabilisce che a termine è il periodo di formazione inserito nella fase iniziale di un
contratto a tempo indeterminato, specializzandone la causa.
- In merito alla questione se esso debba puntare più alla formazione dei giovani o non
piuttosto alla loro occupazione, vengono previste entrambe le finalità.

19.3 La disciplina di fonte legale.


La stipulazione del contratto di apprendistato deve avvenire in forma scritta e allo stesso
deve essere allegato il Piano Formativo Individuale, con una differenziazione tra le tre
tipologie: per il 2° tipo, le parti possono liberamente definirlo; per il 1° e il 3° tipo, il PFI è
predisposto dalla istituzione formativa con il coinvolgimento dell’impresa.
La durata dell’apprendistato varia a seconda della tipologia, ma non può essere inferiore
a 6 mesi, tuttavia il legislatore consente alle parti di recedere al termine del periodo
formativo dando preavviso a decorrere dal medesimo termine; in mancanza, il rapporto
prosegue a tempo indeterminato.
Si applica agli apprendisti la tutela contro la disoccupazione: in questo modo si è
completata l’equiparazione di questa categoria di lavoratori a quella dei lavoratori
subordinati standard, sotto il profilo della tutela previdenziale.

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L’appartenenza dell’apprendistato al sistema dell’istruzione e della formazione


professionale pone 3 esigenze:
1) Garantire gli standard formativi dell’apprendistato di competenza del ministro del
lavoro elevati a livelli essenziali delle prestazioni e come tali non derogabili in peius.
2) Tracciabilità della formazione impartita all’apprendista, prevedendosi la sua
registrazione per il secondo tipo, e della istruzione formativa o di ricerca per gli altri
due tipi nel Fascicolo Elettronico del lavoratore.
3) Armonizzare le diverse qualifiche professionali acquisite in apprendistato per
consentire una correlazione tra standard formativi e standard professionali.
Per incentivare l’assunzione degli apprendisti, la legge ha accordato ai datori di lavoro una
serie di agevolazioni: ad esempio, è previsto che all’apprendista venga erogata una
retribuzione inferiore a quella spettante al lavoratore con il profilo professionale alla cui
acquisizione tende il tirocinio; inoltre, gli apprendisti non sono presi in considerazione ai
fini dei limiti numerici previsi da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari
normative e istituti.
Articolato è l’apparato sanzionatorio posto a presidio dell’adempimento dei vari obblighi
posti a capo del datore di lavoro -> la violazione degli obblighi formativi viene sanzionata
con l’obbligo di corrispondere la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta,
maggiorata del 100% con esclusione di qualsiasi altra sanzione. Se la violazione riguarda
la predisposizione del PFI scatta una sanzione amministrativa pecuniaria che va dai 100
ai 600 euro.

20. L’apprendistato del 1° tipo.


Introdotto nel 2003 dalla L.Biagi, in stretto collegamento con la riforma del sistema si
istruzione scolastica, rimasta incompiuta, ha patito l’incompiutezza di quest’ultima,
restando inapplicato ed inapplicabile. Solo con la Riforma del 2015, l’apprendistato di 1°
tipo è stato sdoganato.
1) Risulta eliminata la scelta fatta nel 2003 di separare i percorsi scolastici primari,
collegati all’apprendistato di 1° tipo, da quelli secondari superiori, ricondotti al 3°
tipo, riunificandoli sotto il 1° tipo.
2) I giovani che possono essere assunti con tale tipologia contrattuale devono aver
compiuto 15 anni e non superato i 25 anni.
3) La durata è determinata in ragione del titolo da conseguire, non potendo in ogni
caso superare i tre anni, elevati a 4 per il conseguimento del diploma professionale
quadriennale.
4) A proposito del PFI, il datore deve raccordarsi con l’istituzione formativa a cui lo
studente è iscritto affinché siano fissati il contenuto e la durata degli obblighi
formativi del datore di lavoro.
5) Allo scopo di incentivare l’utilizzo dell’apprendistato di 1° tipo, si prevede il totale
esonero del datore di lavoro da ogni obbligo retributivo per le ore di formazione svolte
nell’istituzione formativa e la riduzione al 10% della retribuzione dovuta per le ore
di formazione a carico del datore di lavoro.

21. L’apprendistato del 2° tipo.


L’apprendistato definito “professionalizzante” è utilizzabile da tutti i datori di lavoro
pubblici e privati per il conseguimento di una qualificazione professionale ed è destinato a
soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni.

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- La competenza a regolare la durata e le modalità di erogazione della formazione,


nonché la durata di apprendistato, è rimessa alla contrattazione collettiva
interconfederale e nazionale. In ogni caso, l’apprendistato non può avere durata
superiore a 3 anni.
- Il pacchetto formativo del 2° tipo è decisamente esiguo, prevedendosi che la
formazione a carico del datore di lavoro sia integrata da quella pubblica nei limiti
delle risorse annualmente disponibili, ed in ogni caso per un monte complessivo
non superiore a 120h per la durata del triennio.
- Con l’apprendistato del 2° tipo è possibile assumere i lavoratori iscritti nelle liste di
mobilità, nonché tutti i percettori di trattamenti di disoccupazione.

22. L’apprendistato del 3° tipo.


L’apprendistato di 3° tipo è utilizzato per:
Il conseguimento di titoli di studio universitari e dell’alta formazione, compreso
il dottorato di ricerca.
Il conseguimento di diplomi relativi ai percorsi degli ITS.
Il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche.
La platea di soggetti assumibili è quella dei soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni,
aventi il diploma di istruzione secondaria superiore o professionale conseguito nei percorsi
di istruzione e formazione professionale.
All’apprendistato di 3° tipo la legge ha esteso gran parte della disciplina dettata per il 1°
tipo:
- Il PFI deve essere predisposto dall’istituzione formativa con il coinvolgimento
dell’impresa.
- Il rapporto percentuale tra orario ordinamentale e formazione esterna all’azienda
svolta nell’istituzione formativa non può superare il 60%.
- Il datore è esonerato da ogni obbligo contributivo per la formazione svolta
nell’istituzione formativa, invece per le ore di formazione a suo carico spetta
all’apprendista una retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta.

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CAP. 10 – TUTELA DEL LAVORATORE NEL MERCATO


DEL LAVORO
1. La disciplina del mercato del lavoro e il diritto al lavoro.
Nell’affrontare il tema della disciplina del mercato del lavoro in funzione di tutela del
lavoratore che cerca un’occupazione è naturale chiedersi perché l’ordinamento si occupa
dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
La risposta la fornisce la previsione costituzionale del diritto/dovere al lavoro contenuta
nell’art.4 Cost., che garantisce non solo la libertà di lavoro intesa come facoltà di scelta ed
esercizio dell’attività professionale, ma anche l’interesse all’occupazione inteso come
possibilità di soddisfare il bisogno di accesso alle occasioni disponibili.
Sino agli inizi degli anni ’80 lo stato ha soddisfatto tale interesse attraverso un sistema di
collocamento al lavoro che negava al datore di lavoro la possibilità di scegliersi i lavoratori
da assumere.

SEZ. A: Dal collocamento ai servizi per il lavoro.


2. Le origini dell'istituto del collocamento
Di fronte al fenomeno della disoccupazione, l'intervento più antico e diffuso è stato l'istituto
del collocamento, concepito come mediazione pubblica e gratuita in vista della
conclusione del contratto di lavoro e con lo scopo di tutelare il lavoratore dalla
speculazione degli intermediarti privati e dagli effetti negativi dello squilibrio tra domanda
e offerta che caratterizza strutturalmente il mercato del lavoro.
A questo fine nel periodo pre-corporativo nacque il collocamento di classe o sindacale
con il quale i sindacati, istituendo uffici di collocamento, si proponevano di tutelare i
lavoratori nella ricerca dell'occupazione e di rafforzare il loro potere contrattuale mediante
la contrattazione delle assunzioni.
Nel periodo corporativo il collocamento assunse le vesti di funzione pubblica, esso divenne
monopolio pubblico e ai privati era vietato l'esercizio dell'attività di intermediazione tra
domanda e offerta di lavoro.
Dopo la caduta del periodo corporativo la l. 264/1949 confermò la funzione pubblica
del collocamento e ribadiva il principio del monopolio statale nonché l'obiettivo dell'equa
ripartizione delle occasioni di lavoro, attraverso la regola dell'assunzione mediante la
richiesta numerica da parte delle imprese agli Uffici pubblici di collocamento.
Il sintomo del tramonto del sistema pubblico statale di collocamento si coglie nel
progressivo abbandono dell’assunzione tramite richiesta numerica all’ufficio di
collocamento.

3. Il passaggio dal collocamento pubblico centralizzato ai servizi per l’impiego


regionalizzati, con il concorso della mediazione privata.
L’anno della svolta è il 1997, durante il quale prende avvio il radicale processo di riforma
della disciplina del mercato del lavoro, la quale si è mossa lungo 3 direttrici:
- È caduto il divieto di intermediazione privata -> ammettendosi sia la fornitura
di lavoro temporaneo, sia la mediazione privata tra domanda ed offerta.
- È tramontato il collocamento pubblico statale -> delegandosi la gestione del
collocamento alle Regioni.
- Si è passati dalla funzione di collocamento al servizio per l’impiego.

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Tale svolta epocale è stata realizzata, sul piano legislativo, operando su tre versanti:
a) Quello della struttura dei servizi per l’impiego, radicati sul territorio a livello
provinciale.
b) Quello della definizione delle misure di politica attiva del lavoro e dei suoi
destinatari.
c) Quello della strumentazione necessaria alla gestione dei servizi per l’impiego,
e quindi ->
 L’abolizione del libretto del lavoro, sostituito dalla scheda anagrafico
professionale.
 L’abolizione delle liste di collocamento e della iscrizione ad esse, sostituite
dall’anagrafe dei lavoratori e dalla dichiarazione di immediata disponibilità.
 L’istituzione di sistemi informatici tesi ad agevolare la circolazione delle
informazioni relative a chi offre e a chi domanda lavoro.

4. Le competenze amministrative e legislative regionali in tema di mercato del


lavoro.
Tra il 1997 e il 2001 è stata portata a compimento la configurazione in senso federalista
del nostro sistema -> prima con il trasferimento di funzioni amministrative statali alle
Regioni, e successivamente con l’attribuzione a queste di competenze legislative.
Ed infatti, il Governo ha emanato il D.lgs.469/1997 -> sono state conferite alle Regioni
e agli enti locali le funzioni ed i compiti di governo del mercato del lavoro.
Erano stati in particolare decentrati a livello regionale:
• Le funzioni e i compiti relativi al collocamento.
• Le funzioni e i compiti relativi alla preselezione e incontro tra domanda e offerta e a tutte
le iniziative dirette ad incrementare l'occupazione e a favorire l'incontro tra domanda e
offerta, anche con riferimento all'occupazione femminile
• Le funzioni e i compiti in materia di politica attiva del lavoro.
Il D.lgs.469/1997 ha inoltre stabilito:
 L’attribuzione alle Province delle funzioni e dei compiti relativi alle varie forme
di collocamento.
 L’attivazione da parte delle Province di strutture amministrative, i Centri per
l’impiego, al fine di gestire ed erogare i servizi connessi ai compiti e alle funzioni
ad esse attribuiti, in sostituzione delle Sezioni Circoscrizionali per l’Impiego che
avevano a loro volta sostituito gli Uffici di Collocamento.
La scelta del decentramento amministrativo dei servizi per l’impiego è stata poi rafforzata
anche con la riforma costituzionale attuata dalla L.cost.3/2001 -> la quale ha previsto tra
le materie di competenza concorrente Stato/Regioni, la tutela e sicurezza del lavoro.

3.2. L’intermediazione privata.


Lo snodo più problematico dell’intero processo di riforma della disciplina di mercato del
lavoro riguarda senz’altro l’eliminazione del divieto di intermediazione privata.
Il dogma crolla nel 1997, sia pure con un intervento legislativo ancora troppo timoroso dei
contraccolpi.
Ci solo voluti 6 anni per superare i limiti della legislazione del 1997, ad opera della riforma
Biagi del 2003:
- Sono venute meno molte delle limitazioni poste alla fornitura di lavoro temporaneo.

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- È venuto meno il vincolo della esclusività, consentendosi alle neo-costituite agenzie


per il lavoro di svolgere attività di somministrazione di mediazione, ricerca e
selezione di personale e ricollocazione al lavoro.
Ci sono poi voluti altri 10 anni per dichiarare ufficialmente la totale devoluzione al privato
dell’attività di mediazione. Al servizio pubblico è stata mantenuta la competenza in tema
di inserimento al lavoro dei disabili e di avviamento a selezione presso le PA.
Gli unici limiti all’attività di mediazione privata promanano da un insieme di disposizioni,
lo Statuto protettivo del lavoratore nel mercato, finalizzate a tutelarlo quando si pone alla
ricerca di un’occupazione ->
- Compete al lavoratore indicare l’ambito di diffusione dei propri dati all’interno del
sistema di circolazione degli stessi.
- Le comunicazioni relative ad attività di ricerca e selezione del personale,
ricollocamento professionale, intermediazione o somministrazione deve avvenire ad
iniziativa di soggetti autorizzati e nel rispetto delle modalità previste dalla legge.
- Nell’attività di intermediazione è fatto divieto di indagine sulle opinioni, nonché di
trattamenti discriminatori.
- L’ultimo limite è quello della gratuità dell’attività di mediazione per i lavoratori, ma
non anche datori di lavoro.

4. La ricentralizzazione delle competenze ad opera della L.10 dicembre 2014, n.183


(Jobs Act 2).
Al superamento della incapacità delle Regioni di garantire su tutto il territorio nazionale
uniformi livelli essenziali di prestazione in materia di servizi per l’impiego e di politica attiva
del lavoro, ha provveduto la Riforma Renzi, nota come Jobs Act 2, attraverso la L.delega
183/2017 e i connessi decreti attuativi. Sintetizzando i contenuto di tali provvedimenti,
essi intendono:
- Ricentralizzare le competenze in materia di mercato del lavoro, decretando la
fine del federalismo.
- Informatizzare la gestione del mercato del lavoro, per garantire la circolazione
dei dati.
- Integrare le politiche attive e passive del lavoro.
Tuttavia, sono state mosse non poche Critiche alla Riforma Renzi ->
a. Con riferimento alla ricentralizzazione delle competenze, è il suo contrasto con
l’assetto costituzionale delineato dall’art.117, co.2-3-4, Cost.
b. Con riferimento all’integrazione delle politiche attivi e passive, riguarda i tempi della
operazione, considerando che la tutela della disoccupazione è già operativa mentre
quella contro la disoccupazione è condizionata dalle concrete capacità operative
dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro.
c. Riguarda la configurazione assicurativa che la riforma ha dato agli ammortizzatori
sociali con l’effetto che aumenta il bisogno ma diminuisce la protezione.

4.1. Il profilo delle competenze.


Al nuovo riparto di competenze e dedicato il capo 1º del D.lgs.150/2015. Funzionale al
riparto e al rispetto delle competenze attribuite a ciascun attore è l'individuazione della
Rete Nazionale dei Servizi per le politiche del lavoro, all'interno della quale il Ministro del
lavoro e le regioni esercitano il ruolo di indirizzo politico, individuando strategie, obiettivi
e priorità, mentre la "cabina di regia" dell'intera politica attiva e affidata alla neocostituita
ANPAL; alla base della piramide operano le regioni e i soggetti privati accreditati.

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Alla ANPAL competono


 Funzioni di coordinamento.
 Regolazione di taluni istituti,
 Gestione del sistema informativo unitario delle politiche del lavoro,
 Vigilanza e valutazione
 Sostituzione delle regioni nel caso di loro inerzia.
I tempi per l'avvio dell'ANPAL appaiono non brevi. La gestione della fase transitoria è
affidata ad uno strumento convenzionale. Allo scopo di garantire i Livelli essenziali di
Prestazione, il ministero del lavoro stipula con ogni regione una convenzione finalizzata a
regolare i relativi rapporti e obblighi in relazione alla gestione dei servizi per il lavoro e delle
politiche attive del lavoro nel territorio della regione o provincia autonoma, nel rispetto del
d.lgs.150/2015.
Resta assegnata alla competenza regionale l’accreditamento dei servizi per il lavoro privati,
ma secondo criteri fisati dal Ministro del lavoro e con potere integrativo dell’ANPAL.
Elemento essenziale è senza dubbio la raccolta e la circolazione dei dati che riguardano
tutti i soggetti che a vario titolo concorrono alla gestione del mercato del lavoro. Si tratta
di una enorme quantità di informazioni la cui utilità ed utilizzabilità non può che dipendere
da un efficace ed efficiente sistema informativa -> il SIUPoL, tuttavia in attesa della sua
istituzione si è previsto che l’ANPAL realizzi un sistema informativo unitario nel quale
confluiranno tutti i sistemi informativi esistenti.

4.2.1. Il patto di servizio personalizzato (P.S.P)


Esso non costituisce una vera novità poiché il legislatore delegato lo ha mutuato dai
provvedimenti adottati dalle regioni e delle PATB, in attuazione del d.lgs.181/2000. Il P.S.P
prevede iniziative di attivazione a favore del disoccupato e l’impegno di quest’ultimo a
partecipare alle stesse, costituendo quindi la base giuridica della condizionalità. La norma
sanziona l’inadempimento di entrambi i contraenti per cui:
- Se non compare il disoccupato, non può godere dei trattamenti di sostegno del
reddito nonché dell’assegno di ricollocazione.
- Se il centro per l’impiego non convoca entro 60 giorni dalla registrazione il
disoccupato, quest’ultimo ha diritto di richiedere all’ANPAL le credenziali
personalizzate per l’accesso diretto alla procedura telematica di profilazione.

4.2.2. Le misure per l’attivazione dell’utenza


L’oggetto del Patto di servizio personalizzato è l’attivazione di chi cerca lavoro, in quanto
mai occupato oppure espulso dal mercato del lavoro, ovvero beneficiario di ammortizzatori
sociali. Le singole misure di attivazione sono rimesse ai centri per l’impiego e costituiscono
livelli essenziali delle prestazioni. L’attività dei centri per l’impiego può essere delegata ai
soggetti privati accreditati sulla base dei costi standard definiti dall’ANPAL e garantendo
in ogni caso all’utente la facoltà di scelta.
A prescindere dal soggetto che deve procedere all’attivazione dell’utenza, si pone un
problema di esigibilità delle misure di politica attiva del lavoro da parte del disoccupato.
La platea degli utenti interessati comprende tutti coloro che, seppur già occupati, siano in
cerca di altra occupazione, fermo restando il criterio di priorità nei confronti dei soggetti
disoccupati.

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4.2.3. La reductio ad unitatem della politica attiva del lavoro: la personalizzazione


della condizionalità.
La Riforma Renzi ha il grosso merito di voler personalizzare il meccanismo di
condizionalità, che rende effettivo e non puramente nominale il patto di servizio
personalizzato, sanando la frattura creatasi nel 2004 ed accentuatasi nel 2012.
La frattura sembra ricomporsi nel d.lgs.150/2015 -> è prevista la profilazione del
disoccupato da aggiornare periodicamente e la stipula di un Patto di servizio personalizzato
che tiene conto della profilazione. Dal punto di vista del disoccupato, si considera congrua
un’offerta di lavoro misurata in base a 4 indici:
1. Coerenza con le esperienze e competenze maturate;
2. Collocazione topografica;
3. Durata delle disoccupazione;
4. Retribuzione collegata all’indennità percepita nell’ultimo mese precedente,
maggiorata del 20%.

4.2.4. Sommerso e condizionalità.


All’ineffettività dei sistemi di condizionalità concorrono due diversi fattori:
- Inefficacia dei servizi per l’impiego regionalizzati con un effetto di scoraggiamento
dei potenziali utenti.
- Piaga del lavoro nero o sommerso.
Per contrastare tale fenomeno, il Jobs Act 2 ha adottato alcune misure:
 Costituzione dell’Ispettorato Nazionale del lavoro, la cui attività sinergica può
meglio contrastare il fenomeno.
 Revisione dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro legislazione sociale. Le
novità sono due: 1) una maxi sanzione che può arrivare a 36.000 euro; 2)
l’applicabilità della diffida che prevede la regolarizzazione degli irregolari con durata
del rapporto anche part-time minima garantita.

4.2.5. L’assegno Individuale di Ricollocazione (A.I.R.)


L’art.42, co.6, d.lgs.148/2015, nel finanziare l’assegno di ricollocazione lo ha
strutturalizzato. Il limite dell’assegno è costituito dalla ristrettezza della platea dei
destinatari, individuati nei percettori di NASpI, la cui durata di disoccupazione ecceda i 4
mesi, automaticamente escludendo tutti gli altri disoccupati. La scelta di modificare la
denominazione dell’istituto da contratto ad assegno di ricollocazione elide ed attenua i
dubbi prospettati circa la natura del contratto di ricollocazione, cioè se privatistica o
pubblicistica.
L’operatività dell’istituto è subordinata ad una delibera dell’ANPAL che disciplinerà le
modalità operative e l’ammontare dell’assegno. Il controllo dell’ANPAL dovrebbe evitare
l’utilizzo improduttivo dell’A.I.R., prevedendosi che dopo un invito a superare eventuali
criticità, l’Agenzia può revocare la facoltà di operare con questo strumento.
L’A.I.R. configura una ipotesi di outplacement, allargato oltre i confini tradizionali dei
dirigenti espulsi, con la differenza che il finanziamento della misura non è a carico del
datore di lavoro, bensì delle risorse pubbliche.

4.2.6. Gli LSU.


I destinatari dei lavori socialmente utili sono:
- I fruitori di Cassa integrazione guadagni;

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- I fruitori degli strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro;


- Una disposizione poco chiara sui limiti massimi di orari di lavoro settimanale di
impiego, lascia intendere che i destinatari possano essere anche i disoccupati.
- Ultrasessantenni che non abbiano ancora maturato il diritto al pensionamento
anticipato o di vecchiaia.
Anche per gli LSU v’è la competenza dell’ANPAL per la determinazione della convenzione
quadro a cui devono attenersi le singole convenzioni stipulate tra regioni e p.a.

5. Ciò che resta del vecchio collocamento.


Del vecchio sistema di collocamento sono sopravvissuti due istituti:
1) Intermediazione pubblica con esclusivo riferimento all’inserimento lavorativo dei
disabili e all’avviamento a selezione presso le pubbliche amministrazioni.

2) Obblighi informativi a carico dei datori di lavoro, finalizzati al contrasto del lavoro
irregolare e al controllo del comportamento dei lavoratori disoccupati.
A tal fine il legislatore ha realizzato in fasi successive un articolato sistema di
obblighi informativi, da adempiere attraverso comunicazioni telematiche ai servizi
pubblici per l’impiego:
- Obblighi di comunicazione dell’assunzione -> l’obbligo riguarda l’instaurazione
del rapporto di lavoro subordinato e di lavoro autonomo in forma coordinata e
continuativa; l’obbligo riguarda anche i soci lavoratori di cooperativa, e deve essere
adempiuto entro il giorno antecedente a quello di instaurazione del rapporto,
mediante documentazione avente data certa di trasmissione. La comunicazione
deve indicare i dati anagrafici del lavoratore, la data di assunzione, la data di
cessazione qualora il rapporto non sia a tempo indeterminato, la tipologia
contrattuale, la qualifica professionale e il trattamento economico e normativo
applicato.
- Obblighi di comunicazione delle trasformazioni del rapporto -> esse vanno
comunicate entro 5 giorni al servizio competente nel cui ambito territoriale è
ubicata la sede di lavoro. In caso di inoltro tardivo delle comunicazioni telematiche
obbligatorie è prevista la perdita totale degli incentivi all’occupazione.
- Obblighi di comunicazione di cessazione del rapporto.
- Maxi-sanzione -> fermo restando le singole sanzioni previste per l’inadempimento
a ciascuno degli obblighi richiamati, il legislatore ha inteso introdurre una ulteriore
sanzione, definita “maxisanzione” per contrastare il diffuso fenomeno del lavoro
nero. Si tratta di una ulteriore sanzione in caso di impiego di lavoratori subordinati
senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del
datore di lavoro privato. L’irrogazione della maxisanzione è affidata agli organi di
vigilanza che effettuano accertamenti in materia di lavoro, fisco e previdenza,
mentre l’autorità competente a ricevere il rapporto è la Direzione territoriale del
lavoro competente.

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SEZ. B: Il collocamento dei disabili


6. Come si è arrivati alla L.68/1999.
Dopo 30 anni dalla entrata in vigore della L.482/1968 è stata varata la L.68/1999, che
già nel titolo, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, lascia intendere il deciso
mutamento di rotta del legislatore.
La L.482/1968 -> ha avuto il grosso merito di unificare le varie discipline previgenti
emanate per tutelare singole categorie di portatori di handicap, ed inoltre ha determinato
il passaggio dall’impostazione meramente sanzionatorio-premiale a quella più in sintonia
con gli artt.3, 4, 38 e 41 Cost.
L’esigenza di una riforma del sistema di collocamento obbligatorio, già avvertita nella
vigenza della L.482/1968, derivava dalla consapevolezza dell’alto grado di ineffettività
della tutela accordata da quest’ultima, in ragione del meccanismo meramente impositivo
a carico dei datori di lavoro; e ciò spiega la ben diversa impostazione adottata dal
legislatore del 1999.

7. Ratio e finalità della L.68/1999.


La L.68/1999 al fine di garantire il diritto al lavoro dei disabili, percorre la strada del
collocamento obbligatorio, ma con modifiche tali da renderla strutturalmente diversa: si
prevedono misure incentivanti e mirate, in modo da non disciplinare il mero inserimento
del disabile nel mondo del lavoro, perseguendosi l’obiettivo di una sua vera e propria
integrazione.
Emblematico è il nome prescelto: “Collocamento mirato” -> “insieme di strumenti tecnici
e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro
capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme
di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e
le relazioni interpersonali suoi luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.

8. I soggetti protetti.
La prima novità apportata dalla L.68/1999 è l’individuazione dei soggetti protetti, ai
quali la legge riserva la tutela all’accesso al lavoro.
Soggetti protetti sono:
 Gli invalidi civili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% -> in tale
categoria rientrano i minorati fisici, psichici o sensoriali e i portatori di handicap
intellettivo, nonché gli invalidi civili, la cui capacità di lavoro sia ridotta in modo
permanente a causa di infermità, difetto fisico o mentale a meno di un terzo.
 Gli invalidi del lavoro con invalidità superiore al 33% e le persone non vedenti o
sordomute.
 Gli invalidi di guerra, civili di guerra e per servizio.
 Alcune categorie di soggetti non portatori di disabilità, c.d. normodotati, ai quali
l’accesso privilegiato al lavoro presso datori di lavoro pubblici e privati, viene
accordato in ragione della situazione di disagio -> gli organi e i coniugi superstiti di
lavoratori deceduti o divenuti grandi invalidi per causa di lavoro, guerra o di
servizio; profughi italiani rimpatriati.
 Il fenomeno degli atti di terrorismo o di mafia ha suggerito l’opportunità di estendere
la tutala ad una ulteriore categoria composta dal coniuge, dai figli superstiti, ovvero

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dai fratelli conviventi e a carico, qualora siano gli unici superstiti, di vittime o di
soggetti resi permanentemente invalidi per atti di terrorismo, di eversione
dell’ordine democratico, per fatti delittuosi di matrice mafiosa.
 Testimoni di giustizia.

9. I soggetti obbligati.
Mutata rispetto alla legge del 1968 è l’area dell’obbligo -> si assiste ad un ampliamento
della stessa, compensata dalla riduzione della percentuale dei posti da riservare ai disabili.
Sono ora obbligati tutti i datori di lavoro pubblici e privati che impiegano almeno 15
dipendenti, con percentuale d’obbligo progressivamente crescente:
1) I datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti devono assumere 1 disabile.
2) I datori di lavoro che occupano da 36 a 50 dipendenti devono assumere 2 disabili.
3) Oltre i 50 dipendenti la percentuale d’obbligo è pari al 7%, a cui si aggiunge un
ulteriore 1% riservato alle categorie di c.d. normodotati.
La novità consiste nell’aver ricompreso una categoria di datori di lavoro prima esclusa cioè
quelli che occupano da 15 a 35 dipendenti, seppur con un alleggerimento in quanto
l’obbligo scattava solo in caso di nuove assunzioni.
La L.68/1999 ha, inoltre, disciplinato il fenomeno dei c.d. invalidi interni prevedendo che
possano essere conteggiati solo:
- Quelli che, divenuti invalidi allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza
di infortunio o malattia, hanno subito una riduzione della capacità lavorativa
superiore al 60%.
- Quelli che sono divenuti inabili non per inadempimento da parte del datore di lavoro
delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, accertato in sede
giurisprudenziali.
Ai fini del computo del numero dei dipendenti per stabilire in quale classe d’obbligo rientri
il singolo datore di lavoro, la legge indica le categorie di lavoratori escluse:
 I lavoratori occupati ai sensi della L.68/1999.
 I soci di cooperative di produzione e lavoro.
 I dirigenti.
 I lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore.
 I soggetti impegnati in lavoro socialmente utili.
 I lavoratori che aderiscono al programma di emersione.

10. Le competenze in tema di collocamento dei disabili.


A livello delle competenze per la gestione del collocamento dei disabili, permane la
specialità del collocamento dei disabili rispetto alla ordinaria gestione dell’incontro tra
domanda e offerta di lavoro.
 Una competenza speciale è riconosciuta all’INAIL -> per il reinserimento e
l’integrazione lavorativa dei disabili da lavoro, prevedendosi da un lato che l’Istituto
faccia parte della rete che li realizza, e dall’altro lato, che stipuli convenzioni a titolo
gratuito con l’ANPAL allo scopo di raccordare le attività in materia di collocamento
e reinserimento lavorativo delle persone con disabilità da lavoro.
 Competenze generali sono previste in capo all’ANPAL, alla quale compete il
coordinamento del collocamento dei disabili, e all’ISFOL, al quale compete lo
studio, la ricerca, il monitoraggio e la valutazione delle politiche statali e regionali
in materia anche di integrazione dei disabili.

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 Per l’integrazione dei disabili all’intero delle PA è prevista l’introduzione di una


regolamentazione ad hoc all’interno del più generale riordino della disciplina in
materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Per comprendere l’importante previsione contenuta nell’art.1, d.lgs.151/2015, rubricato
“collocamento mirato”, bisogna partire dall’assetto di competenze in tema di collocamento
dei disabili delineato dal d.lgs.150/2015.
 Il compito di gestire gli elenchi dei disabili aspiranti al collocamento obbligatorio
viene attribuito ai servizi per il collocamento mirato nel cui ambito territoriale si
trova la residenza dell’interessato.
 Nella incertezza legislativa su quale sia l’organismo competente ad occuparsi
dell’inserimento lavorativo dei disabili, si è dell’opinione che la competenza sia
attribuita al servizio di collocamento mirato. Ove accolta questa soluzione, tutti i
riferimenti contenuti nella L.68/1999 agli “uffici competenti” devono, quindi,
ritenersi riconducibili ai servizi del collocamento mirato.

11. Le condizioni per godere della tutela.


All’inserimento lavorativo protetto i disabili pervengono a seguito di una serie di
adempimenti posti a loro carico dalla legge.
a) Ottenuto il riconoscimento della invalidità nella misura percentuale prevista dalla
legge a seconda della causa che l’ha determinata, il disabile deve iscriversi
nell’apposito elenco tenuto dai servizi per il collocamento mirato nel cui ambito
territoriale si trova la residenza dell’interessato.
b) Gli uffici competenti provvedono al collocamento delle persone iscritte nell’elenco.
c) Per agevolare il reinserimento dei disabili licenziali per riduzione del personale o
per G.M.O. gli stessi mantengono la posizione in graduatoria acquisita all’atto di
inserimento nell’azienda che li ha poi licenziati.
d) Infine, il disabile che abbia rifiutato 2 volte consecutive, senza giustificato motivo
oggettivo, un posto di lavoro corrispondente alle competenze possedute e alle
disponibilità dichiarate, decade dal diritto al trattamento di disoccupazione e viene
cancellato per un periodo di 6 mesi dalla lista di collocamento.

12. Le assunzioni obbligatorie.


La L.68/1999 non abbandona il ruolo centrale del collocamento obbligatorio, seppure
adattandolo alla nuova disciplina del collocamento introdotta a partire dal 1997 e
funzionalizzandolo alla integrazione lavorativa del disabile avviato obbligatoriamente.
- Il datore di lavoro obbligato deve fare richiesta di avviamento agli uffici
competenti. La richiesta è ora totalmente nominativa, il che consente al datore di
lavoro di scegliere nominativamente il soggetto, anche attraverso una preselezione,
tra i disabili disoccupati iscritti nell’elenco.
- Nel caso di mancata assunzione, entro 60 giorni dal momento in cui sorge l’obbligo
all’assunzione dei lavoratori disabili, gli uffici competenti avviano i lavoratori
secondo l’ordine di graduatoria per la qualifica richiesta.
- Il datore di lavoro annualmente deve inviare alla “Banca dati del collocamento
mirato” un prospetto informativo nel quale vanno indicati la consistenza
dell’organico, i lavoratori per i quali non è previsto il computo, l’entità della quota
d’obbligo e le eventuali scoperture.
- L’effettività della tutela dei disabili richiede anche una idonea circolazione delle
notizie e delle informazioni. In questa prospettiva è stata istituita la “Banca dati

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del collocamento mirato”, avente la finalità di razionalizzare la raccolta


sistematica dei dati disponibili sul collocamento mirato, di semplificare gli
adempimenti, di rafforzare i controlli, di migliorare il monitoraggio e la valutazione
degli interventi in materia di collocamento mirato.
La Banca dati del collocamento mirato è alimentata anche:
A) Dalle comunicazioni obbligatorie integrate con le informazioni relative al
lavoratore disabile assunto.
B) Dalle informazioni relative alle sospensioni degli obblighi, agli esoneri
autorizzati, nonché delle convenzioni.
C) Dalle informazioni sui soggetti iscritti negli elenchi del collocamento
obbligatorio, sulle schede e gli avviamenti effettuati.
D) L’INPS alimenta la Banca dati del collocamento mirato con le informazioni
relative agli incentivi di cui beneficia il datore di lavoro.
E) L’INAIL trasmette le informazioni relative agli interventi in materia di
reinserimento e di integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro.

13. Gli incentivi.


Quello degli incentivi accordati ai datori di lavoro che a certe condizioni assumono
disabili è uno dei profili più tormentati della disciplina introdotta con la L.68/1999, se si
considera che già nel 2007 e poi nel 2015 il testo dell’art.13 è stato sostituito quasi per
intero.
La novella del 2015 costituisce una sorta di ritorno al passato -> reintroduce un incentivo,
economico, calcolato e concesso su base mensile, in luogo del contributo all’assunzione
una tantum, introdotto nel 2007.
 DURATA -> varia a seconda del tipo di disabilità di cui è portatore il lavoratore
assunto. Ha una durata standard di 36 mesi, eccezionalmente incrementata a 60
mesi per il lavoratore con disabilità intellettiva e psichica.
 MISURA -> varia a seconda della entità della riduzione della capacità lavorativa. È
pari al 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali se v’è
riduzione della capacità lavorativa superiore al 79%. La misura dell’incentivo
scende al 35% ove la riduzione della capacità lavorativa sia compresa tra il 67% e
il 79%.
 CONDIZIONI PER IL GODIMENTO -> l’istaurazione di un rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, con l’unica eccezione per i disabili psichici o intellettivi per i
quali è consentita anche l’assunzione a termine di durata non inferiore a 12 mesi.
Anche la procedura di accesso agli incentivi per l’assunzione dei disabili è stata modificata
dalla riforma del 2015; ed infatti:
- La fruizione avviene mediante conguaglio nelle denunzie contributive mensili.
- L’INPS è obbligato a comunicare entro 5 giorni dalla trasmissione della domanda
se v’è capienza di risorse, con riserva della somma necessaria a finanziare
l’incentivo.
- Il datore di lavoro deve, entro 7 giorni dalla comunicazione, stipulare il contratto di
lavoro e nei successivi 7 giorni darne comunicazione all’INPS.
- Le domande di incentivo sono valutate dall’INPS in base all’ordine cronologico di
presentazione, con comunicazione sul sito internet istituzionale dell’esaurimento
delle risorse.

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Per il finanziamento degli incentivi, il legislatore ha previsto l’istituzione del Fondo


Nazionale disabili; articolazioni del Fondo a livello regionale sono istituite ad iniziativa
delle Regioni per l’erogazione di contributi aggiuntivi. I Fondi regionali erogano:
a) Contributi agli enti che svolgano attività rivolta al sostegno e all’integrazione
lavorativa dei disabili.
b) Contributi per il rimborso forfetario parziale delle spese necessarie all’adozione di
“accomodamenti ragionevoli” in favore dei lavoratori con riduzione della capacità
lavorativa superiore al 50%.
c) Ogni altra provvidenza in attuazione delle finalità della presente legge.
Anche sull’utilizzo delle risorse del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili è intervenuta
la riforma del 2015; infatti, prima della riforma, la ripartizione delle risorse avveniva
annualmente tra Regioni e Province autonome in proporzione alle richieste presentate e
ritenute ammissibili; a seguito della riforma, le Regioni vengono sostanzialmente
estromesse dalla gestione delle risorse del Fondo, prevedendosi che tali risorse nella
misura del 95% vengano trasferite all’INPS. Il residuo 5% viene destinato a finanziare
sperimentazioni di inclusione lavorativa dei disabili da parte del Ministero del lavoro.

14. La disciplina del rapporto di lavoro dei disabili.


Il principio che pervade la disciplina del rapporto di lavoro dei disabili è quello della parità
di trattamento, rispetto ai lavoratori normodotati, unitamente al divieto di
discriminazione in ragione dell’handicap. Quanto alle tipologie contrattuali utilizzabili
per l’assunzione dei soggetti protetti, la legge appare abbastanza permissiva,
consentendosi l’utilizzo di tutte le tipologie contrattuali diverse da quella a tempo
indeterminato.
In caso di sopravvenuta incompatibilità tra l’invalidità e le mansioni alle quali il
lavoratore viene assegnato -> il principio generale enunciato dalla legge è quello della
ricerca di una occupazione compatibile con l’invalidità; in caso di aggravamento delle
condizioni di saluti il disabile può richiedere l’accertamento della compatibilità del suo
stato di salute con le mansioni affidate. Ove gli organi competenti riscontrino che
l’aggravamento delle condizioni di salute rendono incompatibile la prosecuzione
dell’attività lavorativa, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto
fino a che l’incompatibilità persista.

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CAP. 11 – LA DISCIPLINA DELLA DOMANDA DI LAVORO


CD. FLESSIBILE TRA SUBORDINAZIONE E AUTONOMIA
1. Introduzione: dalla cd. Legislazione anti-fraudolenta alla flessibilità
controllata.

Il nostro ordinamento ha da sempre affermato il principio della normalità del contratto


di lavoro subordinato a tempo indeterminato e della eccezionalità di quello a tempo
determinato. Di fronte alla domanda di prestazioni di lavoro temporaneo o discontinuo
(cd. flessibile), l’intervento protettivo del legislatore ha tradizionalmente perseguito
l’obiettivo di tutelare l’interesse del lavoratore alla continuità e alla stabilità
dell’occupazione, dettando una disciplina (cd. legislazione anti-fraudolenta) volta a
restringere l’autonomia negoziale delle parti nella formazione e nell’esecuzione del
contratto. Questo indirizzo di netto sfavore del legislatore si è modificato nel corso degli
anni più recenti, in ragione delle crescenti esigenze di flessibilizzazione nell’uso della forza
lavoro espresse dalle imprese poste di fronte alla competizione internazionale. Si è così
assistito ad un progressivo temperamento dei limiti legali al ricordo a forme di lavoro
flessibile, dapprima, nel corso degli anni 80 e 90, attraverso il conferimento alla
contrattazione collettiva della facoltà di allentare i predetti limiti e negli anni più recenti
attraverso la loro più o meno estesa soppressione, con corrispondente allentamento del
vincolo rappresentato dall’ intervento legittimante della contrattazione collettiva. Così per
quanto riguarda il lavoro a tempo determinato -> a partire dagli anni 70 si è operato un
progressivo ampliamento delle ipotesi in cui è consentito il ricorso a questa specie di
contratto.

Negli anni più recenti, il ricorso alle tipologie contrattuali di lavoro “atipico” è divenuto uno
dei temi centrali del dibattito politico, poiché la loro diffusione, necessaria per favorire la
flessibilità organizzativa, è stata considerata causa del diffondersi di una grave precarietà
occupazione nel mondo del lavoro. Ma la linea di apertura verso la flessibilità tipologica,
ancora incerta nella Legge Fornero n.92/2012, essa si è consolidata con l'insieme dei
provvedimenti legislativi emanati dal governo Renzi negli anni 2014-2015.

SEZ. A: Il contratto di lavoro a tempo determinato


2. L’evoluzione della disciplina legislativa dal codice civile al Jobs act.

Nel contratto di lavoro a tempo determinato l’esigenza dell’utilizzazione flessibile del lavoro
viene soddisfatta mediante l’apposizione di un termine finale alla durata del contratto,
per cui il rapporto cessa alla scadenza del termine senza che sia necessaria alcuna
dichiarazione di recesso. Il legislatore del codice civile, ritenendo che l’utilizzazione
indiscriminata del contratto a tempo determinato fosse in contrasto con l’interesse del
lavoratore alla continuità dell’occupazione e alla stessa conservazione del posto di lavoro,
aveva voluto limitare l’autonomia negoziale delle parti in materia. Al fine di ridurre il ricorso
al contratto a tempo determinato, considerato come negozio potenzialmente fraudolento,
l’art. 2097 c.c. aveva stabilito che “esso si deve reputare a tempo indeterminato se il termine
non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”, sancendo altresì l’inefficacia
dell’apposizione del termine in forma scritta quando la stessa fosse intervenuta per eludere
le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato. La scarsa efficacia della

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disposizione codicistica aveva indotto il legislatore ad intervenire con la L. 230/1962, la


quale aveva abrogato l’art. 2097 c.c. e aveva dettato in sua sostituzione una normativa
inderogabile ed analitica, fondata sul principio di tassatività delle fattispecie giustificatrici
-> aveva configurato i casi di apposizione del termine come eccezioni alla regola generale
della durata a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro.
Questa normative rimase in vigore fino alla sua abrogazione intervenuta per effetto del
d.lgs.368/2001, la quale aveva previsto il ricorso al lavoro a termine era consentito in
presenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo. A seguito
della riforma del 2012 era possibile stipulare un contratto a termine "acausale", della
durata massima di 12 mesi, non suscettibili di essere prorogato. La disciplina del lavoro
termine è stata profondamente riscritta dalla legge del 2014 e dal decreto legislativo del
2015 che hanno portato ad una totale liberalizzazione dell'istituto.

3. La Direttiva europea sul rapporto di lavoro a tempo determinato, la


disciplina dettata dal D.Lgs 368/2001 al d. lgs. n. 81/2015. Dalla necessaria
giustificazione causale alla acausalità; prescrizioni formali.
3.1. Il d. lgs n. 368/2001 e successive modificazioni.

La direttiva 28 giugno 1999, n.70 ha proposto un modello legislativo mirato alla


promozione della domanda di lavoro a tempo determinato. Essa ha recepito l’Accordo
quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marco 1999 tra le organizzazioni
sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori a livello comunitario. Il recepimento della
direttiva n.99/70 è avvenuto con l'emanazione del d.lgs. 6 settembre del 2001, n.368 il
d.lgs.368/2001 è stato la fonte esclusiva di disciplina dell'intera materia fino all'entrata in
vigore del d.lgs.81/2015, che dal 25 giugno 2015 lo ha sostituito quale fonte di
regolamentazione.

- La principale innovazione era costituita dall'abbandono del principio di tassatività


nella definizione delle fattispecie giustificatrici -> il nuovo art.1, comma 1, stabiliva
che l’apposizione del termine era consentita "a fronte di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo".
L’enunciazione legislativa rimuoveva un limite nei confronti dell’autonomia contrattuale;
ciò era ulteriormente confermato dalla previsione, introdotta nel 2007, nel corpo dell’art.1
con la quale il legislatore stabiliva che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola
a tempo indeterminato” -> veniva sancito espressamente il principio di eccezionalità del
rapporto di lavoro a tempo determinato.

A breve lasso di tempo si assisteva ad un nuovo intervento legislativo, il quale nel 2008
modificava nuovamente il comma 1 dell'articolo 1, precisando che le predette ragioni
giustificative della posizione del termine potevano essere riferibile anche "alla ordinaria
attività del datore di lavoro". Questa ulteriore però poneva un problema di coerenza rispetto
a quella introdotta solo un anno prima.

A conferma del continuo oscillare delle politiche legislative in materia di contratti


cosiddetti flessibili, si inserivano le modifiche apportate al decreto legislativo dalla
cosiddetta riforma Fornero e dai più recenti decreti legislativi del 2013 del decreto legge
2014.

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- L.92/2012 -> riscriveva il comma 1 dell'articolo 1 prevedendo che "il contratto di


lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di
lavoro". La novità più rilevante introdotta da con la riforma del 2012 è rappresentata
dalla previsione, con un apposito comma 1 bis, di una vistosa deroga alla regola
della necessaria giustificazione causale della stipula di un contratto a tempo
determinato. Il legislatore ammetteva che, per lo svolgimento di qualsiasi
mansione, le parti potessero stipulare un primo contratto a tempo determinato per
una durata complessiva non superiore a 12 mesi, senza che dovessero ricorrere
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo
- D.l.76/2013 -> introduceva un’ulteriore ipotesi eccezionale e derogatoria: la norma
prevedeva che la ricorrenza delle regioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo non era richiesta anche in ogni altra ipotesi
individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle
organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale. La nuova disciplina ampliava
considerevolmente la possibilità di assumere lavoratori termine, svincolandola dai
requisiti restrittivi della straordinarietà, occasionali Tar, eccezionalità, senza
tuttavia eliminare i limiti posti all'autonomia privata. Infatti la posizione del termine
restava pur sempre vincolata all'esistenza obiettiva di una causa giustificatrice della
temporaneità del rapporto, la cui individuazione concreta era rimessa alla
valutazione delle parti e, quindi, alla scelta del datore. Anche la disposizione che
vincolava la posizione del termine al requisito dell'atto scritto era collegata al ruolo
riconosciuto all'autonomia individuale. La forma scritta veniva prescritta pena di
inefficacia e la scrittura doveva indicare la scadenza del termine e specificare le
ragioni giustificatrici della sua apposizione.

3. 2. Il contratto a termine oggi: la totale acausalità. La forma.

Il d.lgs.81/2015 ha abrogato il d.lgs.368/2001 e si pone oggi quale fonte esclusiva di


disciplina del lavoro a termine nel settore privato. Il legislatore ha eliminato, quale
condizione legittimante la stipulazione dei contratti a tempo determinato, la cosiddetta
causale prima contenuta nella norma generale "a fronte di ragioni di carattere tecnico,
organizzativo, produttivo e sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività del prestatore
di lavoro". Viene consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto non
superiore a 36 mesi comprensivo di eventuali proroghe, per lo svolgimento di mansioni di
pari livello e categoria legale, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia
nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato. Viene meno l'onere
a carico del datore di lavoro di giustificare l'assunzione a termine con l'esigenza di fare
fronte a situazioni temporanee indicate in modo specifico.

4. Divieti; esclusioni; discipline speciali

L’apposizione del termine è vietata, e dunque il contratto si considera a tempo


indeterminato, in taluni casi tassativamente previsti dalla legge:

a) Sostituzione di lavoratori in sciopero;

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b) Salva diversa disposizione di accordi sindacali, nelle unità produttive in cui siano
state effettuate procedure di licenziamento collettivo che abbiano interessato
lavoratori adibiti alle medesime mansioni;

c) Nelle unità produttive interessate da riduzioni di orario o sospensioni di lavoro


con diritto al trattamento d’integrazione salariale, per i lavoratori adibiti alle
medesime mansioni cui si riferisce il contratto a termine.

d) Nelle imprese che siano inadempienti agli obblighi relativi alla valutazione dei
rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.

In questi casi il legislatore ha valutato immeritevole di tutela l’interesse del datore di lavoro
all’apposizione del termine.

La legge ha stabilito l'esclusione dal proprio campo di applicazione di particolari rapporti


settori produttivi, oppure ha previsto discipline speciali in tutto o in parte derogatorie di
quella generale. Sono esclusi, in quanto destinatari di una disciplina speciale:

1. Il rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato nell’agricoltura.


2. I richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco.
3. I rapporti a termine per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a 3
giorni, nel settore del turismo e dei pubblici servizi, nei casi individuati dai contratti
collettivi.
4. I contratti di ricercatore universitario a tempo determinato ed i contratti a tempo
determinato stipulati col personale docente ed ATA per il conferimento delle
supplenze e col personale sanitario del Servizio sanitario nazionale.
Tra le discipline speciali vi è anche quella relativa ai dirigenti, che consente la stipulazione
di contratti a termine per un periodo di tempo non superiore a 5 anni, con la facoltà per il
dirigente di recedere dopo un triennio, dando preavviso.

5. La proroga del termine.

In tema di proroga, l'art.21, co.1, d.lgs.81/2015 dispone che il termine originariamente


prefissato possa essere contestualmente prorogato solo quando la durata iniziale del
contratto sia inferiore a 3 anni. Inoltre, la proroga è ammessa per ben 5 volte nell'arco del
predetto triennio ed a prescindere dal numero dei contratti. Se il numero delle proroghe e
superiore il contratto si converte in rapporto a tempo indeterminato a decorrere dalla 6ª
proroga. La disciplina delle proroghe non si applica ai rapporti di lavoro con le cosiddette
start-up innovative per il periodo di 4 anni dalla loro costituzione, o per il più breve lasso
di tempo previsto dalla legge.

6. La continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine e la successione di


più assunzioni a tempo determinato.

Il legislatore ha dettato una specifica disciplina per il caso in cui si verifichi la


continuazione del rapporto oltre la scadenza del termine inizialmente fissato o
successivamente prorogato. Detta continuazione non è illecita in sé, ma viene
accompagnata dall'obbligo a carico del datore di lavoro di corrispondere in relazione alle
giornate di prosecuzione del rapporto una maggiorazione della retribuzione, prima del

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20% e poi del 40%. La maggiorazione retributiva funziona come una sorta di penale o
sanzione economica rivolta a disincentivare la prosecuzione del rapporto oltre il termine.

In relazione agli intervalli temporali tra contratti a termine successivi, il Jobs Act conferma
l’intervento del 2013, che aveva ripristinato i termini di decorrenza originariamente
previsti. In caso di riassunzione a termine del medesimo lavoratore -> se il lavoratore viene
riassunto entro un periodo di 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata
fino a 6 mesi, ovvero 20 giorni dalla data di scadenza di un contrato di durata superiore ai
6 mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.

La normativa appena descritta, di fronte alla successione di più contratti a termine, riserva
l'effetto sanzionatorio della cosiddetta conversione ai soli casi in cui le parti non abbiano
rispettato gli intervalli temporali tra una assunzione è quella successiva: la reiterazione di
contratti a tempo determinato è da ritenere legittima purché avvenga nel rispetto degli
intervalli temporali indicati. Tutte queste previsioni però non esauriscono la disciplina
legislativa in materia di successione di contratti a termine. Infatti il legislatore è
intervenuto ancora una volta in questo ambito con l’obiettivo di fissare un limite massimo
alla successione di contratti a termine tra un lavoratore e lo stesso datore di lavoro; ciò
non soltanto per motivi di politica occupazionale ma anche al fine di adeguare la normativa
interna a quella dell’UE.

L'art.19 d.lgs.81/2015 prevede che la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato
tra uno stesso datore di lavoro ed un medesimo lavoratore non può eccedere 36 mesi. Si
calcolano sommando tutti i periodi del rapporto, indipendentemente dalla durata dal
numero delle interruzioni e senza tener conto dell'arco temporale intercorso. Ai fini del
computo dei 36 mesi si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi a oggetto mansioni
di pari livello e categoria legale, svolte fra i medesimi soggetti nell’ambito di
somministrazioni di lavoro a tempo determinato. In questo processo di totale
liberalizzazione, il legislatore ha riconosciuto la possibilità di stipulare un ulteriore
contratto a termine anche oltre il limite dei 36 mesi, attraverso l'adozione di una procedura
che ha luogo in una sede "protetta". È consentita, per una sola volta, la stipula di un
nuovo contratto a termine tra le stesse parti della durata massima di 12 mesi, a condizione
che essa avvenga presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio.

7. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato.

Per ciò che concerne la disciplina del rapporto, l’art.25 d.lgs.81/2015 enuncia la regola
dell'uniformità di trattamento economico normativo tra lavoratori a termine e
lavoratori a tempo indeterminato comparabili. In virtù di questo principio, i trattamenti
indicati sono dovuti "in proporzione al periodo lavorativo prestato. All’equiparazione tra
prestatore di lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato si può ricondurre anche
la norma dell’art.27, la quale prevede che per l’applicazione di qualsiasi disciplina legale o
contrattuale subordinata al computo dei dipendenti del datore di lavoro, si deve tener conto
del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due
anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.

Nessuna disposizione è contenuta nel d.lgs.81/2015 in merito alla disciplina dell’eventuale


scioglimento ante temporis del contratto.

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8. Limitazioni quantitative all'apposizione del termine; esenzioni; il diritto di


precedenza.

Nel nuovo assetto normativo l'unico limite all'apposizione del termine al contratto di lavoro
è rappresentato dal rispetto di un determinato tetto percentuale fissato dalla legge o dalla
contrattazione collettiva. L’art.23 d.lgs.81/2015 stabilisce che non si possono assumere
lavoratori a termine in misura superiore al 20% dei dipendenti a tempo indeterminato in
forza dal 1 gennaio dell'anno di assunzione. La disposizione è derogabile dall'autonomia
collettiva.

Il d.lgs.81/2015 afferma espressamente che resta esclusa, in caso di violazione delle


predette soglie percentuali, la trasformazione dei contratti a termine in rapporti di lavoro
a tempo indeterminato. Nell'ipotesi anzidetta per ciascun lavoratore si applica una mera
sanzione amministrativa, il cui ammontare è però rilevante essendo pari:

a) Al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15


giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in
violazione del requisito percentuale non è superiore a uno.

b) Al 50% della retribuzione, per ogni mese o relativa frazione superiore a 15 giorni
di durata del rapporto di lavoro, qualora i lavoratori assunti in violazione della soglia
percentuale è superiore a uno.

Nonostante ciò, lo stesso art.23 contempla numerose eccezioni alla derogabile soglia del
20% -> in particolare sono esenti limitazioni quantitative talune ipotesi in cui la
valutazione del legislatore non è assoggettabile al controllo sindacale:

1. La fase di avvio di nuove attività limitatamente ai periodi definiti anche in misura


non uniforme per aree geografiche e/o comparti merceologici dai contratti collettivi.
2. Il ricorso al lavoro a termine da parte di start-up innovative per il periodo di 4 anni;
lo svolgimento di attività stagionali.
3. Lo svolgimento di attività stagionali appositamente individuate con decreto del
Ministero del lavoro.
4. La sostituzione di lavoratori assenti.
5. La stipulazione di contratti giustificati da una causale "soggettiva" per promuovere
l'occupazione di una determinata fascia cosiddetta debole di lavoratori, stipulati con
quanti abbiano più di cinquant'anni. /
Il d.lgs.81/2015 ripropone la disciplina sul cosiddetto diritto di precedenza dei lavoratori
assunti a tempo determinato introdotto dalla l.247/2007, che aveva a sua volta
profondamente modificato quella dettata dal d.lgs.368/2001. L'obiettivo è quello di rendere
certo tale diritto per i lavoratori impegnati in attività stagionali; diversamente dal regime
del 2001, la legge riconosce direttamente tale diritto rispetto alle nuove assunzioni a
termine effettuate dallo stesso datore di lavoro per lo svolgimento delle medesime attività
stagionali.

Il legislatore ha altresì previsto un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo


indeterminato effettuato dallo stesso datore di lavoro entro i successivi 12 mesi "con
riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine", per tutti i
lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa per più di 6 mesi.

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9. Decadenze e tutele.

Ai sensi dell'art.28 d.lgs.81/2015 il contratto a tempo determinato deve essere


impugnato -a pena di decadenza- entro 120 giorni dalla cessazione del singolo
contratto. Il contratto a termine può essere impugnato con qualsiasi atto scritto idoneo a
manifestare l'intento del lavoratore anche per il tramite dell'organizzazione sindacale.
L'impugnazione è inefficace se nei successivi 180 giorni non è seguita dal deposito del
ricorso innanzi al giudice del lavoro. Tuttavia rispetto alle modalità di impugnazione dei
licenziamenti va effettuata una precisazione: laddove si faccia questione della nullità del
termine apposto al contratto, il termine di decadenza è fissato in 120 giorni anzi 60, dalla
cessazione del contratto, mentre il termine per il deposito del ricorso in cancelleria è
sempre pari a 180 giorni. Per ciò che invece attiene alla tecnica di tutela, l’art.28 prevede
che in tutte le ipotesi di conversione del contratto a termine illegittimo in contratto a tempo
indeterminato, il giudice condannerà il lavoratore ad 1 indennità risarcitoria
onnicomprensiva, oscillante tra alle 2,5 e le 12 mensilità dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del TFR.

SEZ. B: La somministrazione di lavoro. La disciplina degli appalti e del comando


o distacco.

12. Somministrazione di lavoro: l’evoluzione dell’istituto. Le ipotesi di ricorso alla


somministrazione.

Il D.Lgs.276/2003 ha abrogato definitivamente la L.1369/1960 inerente il divieto di


intermediazione ed interposizione, e ha introdotto una nuova normativa in materia di
somministrazione del lavoro in sostituzione della precedente disciplina dettata in materia
di lavoro interinale dalla L.196/1997.

Una prima novità è che il decreto permette ad agenzie per il lavoro, autorizzate dal
Ministero del Lavoro in base a requisiti di professionalità ed affidabilità, di esercitare
l’attività di somministrazione, nonché di svolgere attività di intermediazione, ricerca e
selezione di personale, ricollocazione professionale. Un altro aspetto importante della
nuova disciplina legislativa è costituito dalla previsione della somministrazione a tempo
indeterminato ammessa solo per le causali specificatamente individuate dalla L.276/2003,
accanto alla somministrazione a tempo determinato.

L’istituto è stato poi oggetto di diversi interventi che via via hanno ridotto le originarie
rigidità normative. Il punto di arrivo di questo processo si è avuto con la riforma del diritto
del lavoro attuata con i provvedimenti emanati dal Governo Renzi, in seguito ai quali la
somministrazione è stata originariamente disciplinata con contestuale espressa
abrogazione delle norme che regolavano la materia.

o La somministrazione a tempo determinato, unica ipotesi possibile in caso di p.a., è


consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e
sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”.
Con l’entrata in vigore del D.l.34/2014, le modifiche apportate alla disciplina del
contratto a termine hanno influito sulla regolamentazione della somministrazione a
tempo determinato, introducendo il criterio generale dell’acausalità delle
missioni. Il legislatore ha provveduto ad eliminare i primi due periodi del co.4

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dell’art.20, che condizionavano la somministrazione di lavoro a tempo determinato


a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo. La
somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa nei limiti quantitativi
individuati dai contratti collettivi applicati all’utilizzatore.
o Quanto alla somministrazione a tempo indeterminato, la novità assoluta è
rappresentata dall’estensione del sistema della acausalità anche a tale
fattispecie. Tuttavia viene introdotta una clausola legale di contingentamento ->
il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro
a tempo indeterminato non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori
assunti a tempo indeterminato.
Il d.lgs.81/2015 individua alcuni specifici divieti di ricorso al contratto di
somministrazione, sia esso a tempo determinato o indeterminato. Non è mai consentita
per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero. La legge vieta
l'utilizzabilità di lavoratori somministrati presso unità produttive nelle quali si sia
proceduto, entro i 6 mesi precedenti, licenziamenti collettivi che abbiano riguardato
lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione.

13. La disciplina del contratto (commerciale) di somministrazione.

L'istituto si caratterizza oltre che per il coinvolgimento di 3 parti, per la presenza di 2


contratti. Accanto al contratto commerciale di somministrazione tra agenzia e utilizzatore,
troviamo il contratto di lavoro subordinato tra agenzia e lavoratore. Il legislatore fornisce
una definizione di contratto di somministrazione: quel contratto "a tempo indeterminato o
determinato, con il quale somministrato autorizzato mette a disposizione di un utilizzatore
uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la
propria attività nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore".

Per quanto riguarda la forma del contratto, viene mantenuta la previsione della forma
scritta ad substantiam, riducendone tuttavia i requisiti di contenuto. Il contratto di
somministrazione deve essere stipulato in forma scritto, e contenere una serie di elementi:
gli estremi dell'autorizzazione rilasciata al suo amministratore; il numero dei lavoratori da
somministrare; la presenza di eventuali rischi per la salute del lavoratore; la data di inizio
e la durata prevista del contratto di somministrazione; le mansioni alle quali saranno
adibiti lavoratori e il loro inquadramento; il luogo, l'orario e il trattamento economico e
normativo dei lavoratori.

La mancanza della forma scritta è sanzionata con la previsione della nullità del contratto
di somministrazione e conseguentemente i lavoratori saranno considerati alle dipendenze
dell’utilizzatore.

14. La disciplina del contratto e del rapporto di lavoro nella somministrazione di


manodopera.

L'art.34 d.lgs.81/2015 non parla più di "somministrazione a tempo indeterminato", bensì


di "assunzione a tempo indeterminato" facendo emergere la distinzione tra il contratto
di somministrazione e quello di lavoro.

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La legge stabilisce che "in caso di assunzione a tempo indeterminato il rapporto di lavoro
tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina per il rapporto di lavoro a tempo
indeterminato". Il lavoratore ha diritto, per i periodi in cui rimane in attesa di essere inviato
in missione, ad una indennità mensile di disponibilità il cui importo è stabilito dal
contratto collettivo.

In caso di somministrazione a tempo determinato -> È confermato che il rapporto tra


agenzie lavoratore trova la sua fonte normativa nella disciplina dettata dalla legge in
materia di contratto a tempo determinato, per quanto compatibile con esclusione delle
disposizioni che: 1) impongono un limite massimo di durata; 2) dettano la disciplina in
materia di proroghe e rinnovi; 3) dettano un limite di contingentamento; 4) dispongono
diritto di precedenza in favore del lavoratore che abbia già lavorato in ragione di uno o più
contratti di lavoro subordinato a tempo determinato.

Per quanto riguarda la disciplina dei rapporti di lavoro permangono i riflessi della
codatorialità sulla titolarità e l'esercizio dei poteri datoriali. Viene confermata la scissione
tra titolarità del contratto (spettante all'agenzia) ed esercizio dei poteri di direzione e
controllo (che spetta al utilizzatore). D’altro canto resta attribuito all’agenzia di
somministrazione il potere disciplinare nei confronti dei lavoratori somministrati.

All'art.35 d.lgs.81/2015 ribadisce il principio di parità di trattamento dei lavoratori


somministrati rispetto ai dipendenti dell'utilizzatore, a parità di mansioni svolte. È posto a
carico del somministratore l’obbligo di informare il lavoratore sei rischi per la sicurezza e
la salute, mentre grava sull’utilizzatore la responsabilità per danni arrecati a terzi dal
prestatore di lavoro somministrato, nell'esercizi’ delle sue mansioni. Va segnalato che
"l'utilizzatore è obbligato in solido con il suo amministratore a corrispondere lavoratori i
trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali, salvo il diritto di rivalsa
verso il somministratore".

In relazione ai diritti sindacali, la legge riconosce anche i lavoratori delle agenzie di


somministrazione i diritti sindacali previsti dallo statuto dei lavoratori, precisando che per
tutta la durata dell’assegnazione il lavoratore somministrato ha diritto di esercitare i diritti
di libertà e attività sindacale presso l’utilizzatore nonché a partecipare alle assemblee del
personale dipendente da quest’ultimo.

SEZ. C: Il contratto di lavoro a orario ridotto e flessibile

19. Il lavoro a tempo parziale e le altre tipologie di lavoro flessibile tra innovazione
e conservazione.

Tra gli strumenti di flessibilità di impiego della manodopera con riferimento al tempo di
lavoro sono da annoverare il rapporto di lavoro a tempo parziale e il lavoro
intermittente disciplinati dal capo 2º del d.lgs.81/2015.

Il part-time rappresenta uno degli strumenti contrattuali più duttili per favorire l'ingresso
nel mondo del lavoro di soggetti che altrimenti ne rimarrebbero esclusi. Ed è proprio da
questa innata vocazione dell’istituto che fin da principio ad esso è stato dedicato uno
specifico intervento legislativo a livello comunitario -> il Consiglio dell’UE, con la

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direttiva 15 dicembre 1997 n.97/81, ha dato attuazione all’Accordo quadro sul lavoro a
tempo parziale del 1997 concluso tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori
di lavoro a livello comunitario, con l’obiettivo di definire “principi generali e prescrizioni
minime” finalizzati all’eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a
tempo parziale ed alla promozione di questa forma di occupazione. A questa direttiva l’Italia
ha dato attuazione con il d.lgs.61/2000, il quale ha dettato una nuova disciplina del
rapporto di lavoro part-time.

La disciplina attuale è contenuta nel d.lgs.81/2015, artt. da 4 a 12, ed essa ha abrogato


tutta la disciplina precedente. Tra le novità più significative, segnaliamo:

- La semplificazione della definizione, con l’abolizione delle distinzioni tra i concetti di


part-time orizzontale, verticale e misto.
- La generalizzazione del lavoro supplementare non più adattabile alla sola ipotesi del
part-time orizzontale.
- La compatibilità con il lavoro a turni.
- L’unificazione delle categorie concettuali di clausole elastiche e flessibili sotto l’unica
espressione di elastiche, che oggi possono essere pattuite anche individualmente
ove convalidate dalla commessione di certificazione.
- L’applicabilità in modo unitario della disciplina anche ai rapporti di lavoro alle
dipendenze delle PA, fatte salve alcune eccezioni espressamente previste dal
legislatore.

20. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale.

L’attuale previsione normativa non fornisce alcuna definizione del contratto di lavoro a
tempo parziale. È possibile individuare tale definizione attraverso l'interpretazione
indiretta di quella di orario normale di lavoro fissato in 40 ore settimanali o in quello
minore individuato dalla contrattazione collettiva. È possibile sostenere che per orario di
lavoro a tempo parziale si intende quell’orario fissato in misura ridotta rispetto alle 40 ore
settimanali.

Per quanto riguarda la stipulazione del contratto, la legge richiede la forma scritta ad
probationem, con la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della
sua collocazione giornaliera, settimanale, mensile o annuale.

Un’importante parte della disciplina del part-time, è quella derivante dalla normativa
comunitaria, la quale sancisce il principio di non discriminazione -> tale principio si
sostanzia nella previsione di un divieto di riservare al lavoratore part-time, per il solo
motivo di lavorare a tempo parziale, un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore
a tempo pieno di pari inquadramento. La ratio è la prevenzione di eventuali differenziazioni
di trattamento in danno del prestatore che lavoro a orario ridotto. Pertanto, tale divieto,
comporta per il lavoratore part-time il godimento integrale degli stessi diritti di cui beneficia
il lavoratore a tempo pieno. Per contro, il trattamento economico e normativo riservato al
lavoratore part-time va riproporzionato (principio di proporzionalità) in ragione della ridotta
entità della prestazione lavorativa.

Il d.lgs.81/2015 tutela l’interesse del lavoratore a scegliere tra lavoro a tempo pieno e a
tempo parziale nonché a modificare tale scelta nel corso del rapporto, trasformandolo da
tempo pieno a tempo parziale e viceversa. Inoltre il rifiuto del lavoratore di trasformare il

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proprio rapporto di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento, tuttavia


esso è da ritenersi legittima quando il comportamento del lavoratore in concreto
interferisca con l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento
di essa.

21. Segue: la disciplina del tempo di lavoro; clausole elastiche, lavoro


supplementare e straordinario.

La disciplina che riguarda la collocazione e l’articolazione dell’orario di lavoro nel contratto


a tempo parziale ha subito ripetute modifiche fino a giungere all’attuale formulazione
contenuta nell’art.6 d.lgs.81/2015.

Il d.lgs.81/2015 sancisce come parametro di riferimento la definizione di orario normale


di lavoro fissato dal d.lgs.66/2003 in 40 ore settimanali, o nella minore durata
eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva e richiede la puntuale indicazione
della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario di lavoro
contenuta nel contratto di lavoro.

1) LAVORO SUPPLEMENTARE ->per tale di intende quello svolto oltre l'orario


concordato originariamente fra le parti anche in relazione alle giornate, alle
settimane o ai mesi, ma pur sempre entro i limiti dell'orario normale di lavoro. Il
legislatore del 2015 distingue due casi a seconda che sia presente o no un contratto
collettivo applicato al rapporto di lavoro che disciplini il rapporto di lavoro
supplementare. ->
1. È prevista una prima ipotesi di carattere generale, che ricorre ove vi sia la
previsione della contrattazione collettiva, che attribuisce al datore la facoltà di
richiedere prestazioni supplementari nel rispetto di quanto previsto da essi. Va
ritenuto che ai contratti collettivi sia affidata la regolamentazione relativa al
numero massimo di ore di lavoro supplementare, la previsione di un obbligo di
corrispondere una maggiorazione retributiva, la determinazione dell'eventuale
percentuale di maggiorazione sull'importo della retribuzione oraria globale di
fatto, e l'individuazione delle causali e il numero massimo di ore supplementari
che possono essere richieste al lavoratore.
2. La seconda ipotesi residuale fa riferimento al caso in cui il contratto collettivo
applicato al rapporto di lavoro ometta la regolamentazione del lavoro
supplementare, in questo caso subentra l'intervento del legislatore che
attribuisce al datore di lavoro il diritto di richiedere al lavoratore lo svolgimento
di prestazioni di lavoro supplementare ma in misura non superiore al 25% delle
ore di lavoro settimanale concordate. In questa ipotesi è riconosciuta al
lavoratore una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto.

2) LAVORO STRAORDINARIO -> l’art.6 del d.lgs.81/2015 prevede la possibilità del


ricorso ad esso nell'ambito dei rapporti di lavoro a tempo parziale, con il rinvio alla
normativa generale dettata per i rapporti a tempo pieno, definendolo come lo
svolgimento di prestazioni oltre il normale orario di lavoro, e quindi oltre le 40 ore
settimanali.

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3) CLAUSOLE ELASTICHE -> Un'ulteriore ipotesi di variazione delle condizioni di


svolgimento della prestazione parziale con riferimento alla sua collocazione
temporale o all'aumento della durata, è data dalla revisione delle cosiddette clausole
elastiche che le parti possono pattuire per iscritto. Il legislatore distingue 2 ipotesi:
una prima ipotesi in cui sia lo stesso contratto collettivo a dettare la relativa
disciplina; una seconda ipotesi in cui invece nella lacuna della fonte collettiva è lo
stesso legislatore ad individuare la disciplina in funzione sussidiaria. In entrambi i
casi il lavoratore ha diritto ad un preavviso di 2 giorni lavorativi. Se il contratto
collettivo non disponga alcuna previsione in merito alle clausole elastiche, viene
attribuita alla autonomia individuale la facoltà di prevederle, nei rigorosi limiti
formali e sostanziali individuati dallo stesso legislatore ->
 Il patto deve avvenire necessariamente in forma scritta avanti alle commissioni
di certificazione, con facoltà per il lavoratore di farsi assistere da un
rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, o
da un avvocato o da un consulente del lavoro.
 A pena di nullità, tali clausole devono prevedere le condizioni e le modalità con
cui il datore di lavoro possa modificare la collocazione temporale della
prestazione e variarne in aumento la durata, che non può eccedere il limite del
25% della normale prestazione annua a tempo parziale.
 Tali modifiche all’orario di lavoro comportano il diritto del lavoratore ad una
maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto.
 La novità risiede nell’affidamento alle commissioni di certificazione di una
prerogativa che consoliderà il ruolo di deflazione del contenzioso e di prevenzione
degli abusi degli istituti della flessibilità che già le caratterizzava, con ciò
contribuendo ad una più corretta applicazione delle pattuizioni di elasticità
rimesse alla sola autonomia individuale.

22. La normativa incentivante e l'apparato sanzionatorio.

L’obiettivo del legislatore, sia nella normativa precedente che in quella attuale, era quello
di incentivare il ricorso al contratto di lavoro a tempo parziale dal lato tanto dei
lavoratori quanto dei datori di lavoro, nella prospettiva di favorire la diffusione di questa
forma di rapporto in funzione di promozione dell’occupazione.

Con riferimento all'incentivazione -> vanno ricordate alcune specifiche disposizioni in


tema di diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Su accordo delle parti, risultante da atto scritto, è ammessa la trasformazione del rapporto
di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Solo in un’ipotesi legale è garantito il diritto del
lavoratore alla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale e viceversa con la mera
richiesta del lavoratore. È il caso dei lavoratori del settore pubblico e del settore privato
affetti da patologie oncologiche, ai quali è riconosciuto il diritto di priorità nella
trasformazione part-time del rapporto di lavoro a tempo pieno.

Più complessa è la disciplina sanzionatoria relativa alle ipotesi di incompletezza formale,


nel caso in cui il contratto non contenga le indicazioni sulla durata della prestazione
lavorativa e in ordine alla collocazione temporale dell’orario. Esclusa in questo caso la
nullità dell’intero contratto, il legislatore differenzia le conseguenze sanzionatorie in
relazione a due ipotesi:

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1. Nel caso in cui manchi l’indicazione della durata, il lavoratore può chiedere
l’accertamento giudiziale della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo
pieno, con effetto dalla data della sentenza.
2. Nel caso in cui l’omissione riguardi la collocazione temporale, è assegnato al
giudice il compito di determinare in via equitativa le modalità temporali di
svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale.
In entrambi i casi il lavoratore ha diritto alla corresponsione di un ulteriore emolumento
a titolo di risarcimento del danno.

Un’ulteriore ipotesi sanzionatoria è quella relativa allo svolgimento di prestazioni in


esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e
dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi -> in questo caso è previsto il
diritto del lavoratore a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno.

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CAP. 12 – LE ECCEDENZE DI PERSONALE E LA TUTELA


DELL’OCCUPAZIONE.
1. Introduzione

Tra gli strumenti di governo del mercato del lavoro vanno annoverati quelli che disciplinano
il fenomeno delle eccedenze di personale, che si caratterizzano per il tentativo di bilanciare
la fuoriuscita di forza lavoro con meccanismi finalizzati ad agevolare o a promuovere il suo
regresso nel mercato. Il tratto comune è dato dal bilanciamento degli interessi contrapposti

 Dell’impresa a non sopportare il peso economico, ma anche organizzativo, d forza


lavoro temporaneamente o definitivamente non più utilizzabile.
 Dei lavoratori a conservare il posto di lavoro, ovvero a godere di strumenti di
sostegno al reddito, nonché alla più veloce ricollocazione possibile.

2. Evoluzione storica della disciplina delle eccedenze di personale

L’evoluzione della disciplina delle eccedenze di personale si scansiona in più fasi:

1. La PRIMA FASE inizia con la soppressione del blocco dei licenziamenti e l’istituzione
della Cassa integrazione guadagni per gli operai d’industria. In questa fase
l’intervento della CIG assolve alla funzione di evitare che le sospensioni dal lavoro
dovute ad eventi transitori ed eccezionali comportino per gli operai la perdita della
retribuzione.
2. Nella SECONDA FASE, successiva alla L.15 Luglio 1966, n.604, permane
l’astensionismo del legislatore dal disciplinare i licenziamenti collettivi prevedendosi
espressamente la non applicabilità agli stessi della novella disciplina dei
licenziamenti individuali. Tale vuoto normativo viene compensato con l’introduzione
nel 1968 dell’intervento straordinario inizialmente per le ristrutturazioni industriali,
poi esteso alle riconversioni e riorganizzazioni industriali, alle crisi aziendali di
particolare rilevanza sociale e alle imprese fallite.
3. La TERZA FASE dura circa 15 anni e arriva fino all’emanazione della L.223/1991,
in cui la CIGS subisce una mutazione genetica, assumendo le connotazioni di
strumento a sostegno dell’occupazione. Questa è la fase dei licenziamenti
impossibili, potendosi ovviare a questi ultimi attraverso il reiterato e prolungato
ricorso alla CIGS.
4. L’inversione di rotta viene affidata alla L.23 Luglio 1991, n.223, che inaugura la
QUARTA FASE, connotata dal tentativo di restituire alla CIGS la sua funzione di
sostegno temporaneo al reddito, governando le eccedenze definitive con il nuovo
strumento della mobilità. In questa fase si procede ad una legificazione della materia
dei licenziamenti collettivi.
5. È iniziata a partire dal 1993 la QUINTA FASE, caratterizzata da un complesso
quadro normativo che ha messo in discussione l’impianto della neonata
L.223/1991.
 L’intensa conflittualità sociale tipica della materia, unita alla difficoltà della
finanza pubblica ha prodotto una serie di modifiche e adattamenti della legge,
finalizzati a garantire un sostegno ai lavoratori dipendenti da particolari
categorie di imprese escluse dall’ambito di applicazione della CIG.

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 È saltato l’obiettivo prefissatosi dalla Legge di contingentare sotto il profilo


temporale il ricorso alla CIGS ritornandosi alle proroghe per decreto ministeriale
che avevano caratterizzato la fase precedente all’intervento del 1991.
 Ha iniziato a prendere corpo l’idea di ricorrere a forme di ammortizzatori sociali
regolate dalla contrattazione collettiva e gestite da enti bilaterali.
6. La crisi economico-produttiva del 2008 ha determinato il diffondersi del fenomeno
degli ammortizzatori sociali in deroga, che connota la SESTA FASE. A deroga
riguarda la durata dell’intervento, l’ambito dello stesso, ammettendosi a fruire degli
ammortizzatori sociali i datori di lavoro esclusi da quelli ordinari.
7. A decretare la fine di questo sistema hanno provveduto la L.92/2012 e il Jobs Act
2 che connotano la SETTIMA ED ULTIMA FASE -> si assiste ad una sorta di ritorno
al passato e cioè alla logica della L.223/1991, prevedendosi una forte limitazione
del ricorso alla CIG e un sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati rapportato
alla contribuzione versata nel quadriennio mobile che precede l’evento della
disoccupazione.

SEZ. A: Cassa integrazione guadagni


3. Premessa.

In attuazione della delega contenuta nell'art.1, co.1, lett. A), L.183/2014 (Jobs Act 2) è
stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il d.lgs.148/2015, che contiene disposizioni per il
riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di
lavoro.

Di riforma degli ammortizzatori sociali si parlava sin dal 1996. Le ricorrenti crisi
economiche, specie a partire dal 1993, hanno reso di fatto inattuabile tale disegno
riformatore. Si è così andati avanti con una legislazione assolutamente frammentaria e
asistematica, finalizzata a fronteggiare una situazione di emergenza occupazionale
continua, che ha nuovamente ricondotto la CIG alla funzione di sostegno all’occupazione.

Tutti i tentativi di riformare l'istituto sono stati vani, fino al 2012. Si è trattato di un avvio
in quanto il completamento è stato realizzato dal cosiddetto Jobs Act 2 con il
d.lgs.148/2015, con specifico riferimento alla cassa integrazione guadagni, e con il
d.lgs.22/2015 per quanto concerne i trattamenti di disoccupazione. Entrambi i decreti
tendono a realizzare 3 obiettivi:

1) Semplificare l'apparato normativo in materia;


2) Razionalizzare l'utilizzo degli ammortizzatori sociali collegandolo alla vita lavorativa
e contributiva del lavoratore;
3) Far interagire la politica passiva di sostegno al reddito con quella attiva di
ricollocazione dei disoccupati.
Il d.lgs.148/2015 ha determinato l’abrogazione quasi totale del previgente quadro
normativo, rappresentando una sorta di testo unico in materia di Cassa Integrazione. Il
decreto di articola in 5 parti:

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I) Gli artt.1-8 sono dedicati alle disposizioni generali valide sia per l’intervento
ordinario sia per quello straordinario.
II) Gli artt.9-18 dettano norme in tema di intervento ordinario.
III) Gli artt.19-25 riguardano l’intervento straordinario.
IV) Gli artt.26-40 disciplinano i fondi bilaterali di sostegno al reddito abrogando la
normativa dettata dalla L.92/2012.
V) Gli artt.41-47 contengono disposizioni transitoria e finali.

4. La disciplina generale in tema di cassa integrazione guadagni.

L'intervento della cassa integrazione guadagni sia ordinaria, sia straordinaria, è previsto
in favore di tutti i lavoratori subordinati, compresi quelli assunti con il contratto di
apprendistato professionalizzante, ed esclusi i dirigenti e i lavoratori a domicilio.

Condizione generale per l'accesso alla CIG è il possesso di un’anzianità di almeno 90 giorni
di effettivo lavoro presso l'unità produttiva per la quale si richiede l'intervento alla data di
presentazione della domanda. Al prestatore di lavoro compete un’integrazione salariale pari
all'80% della retribuzione persa per effetto della sospensione o della riduzione dell'orario,
ma entro un tetto massimo differenziato in base alla retribuzione percepita dal lavoratore.

Con l'obiettivo di contenere il ricorso alla CIG, il d.lgs.148/2015 ha previsto che per
ciascuna unità produttiva il trattamento, sia ordinario che straordinario, non possa
superare i 24 mesi in un quinquennio mobile. Una delle novità della riforma è l’aver
accentuato la partecipazione finanziaria dell’impresa al costo della CIG, prevedendo a
carico della stessa una contribuzione ordinaria, connessa all’astratta utilizzabilità dello
strumento ed una contribuzione addizionale conseguente al concreto utilizzo.

Per quanto riguarda la contribuzione ordinaria, varia in relazione all'intervento ordinario


e straordinario, e viene ricollegata alla retribuzione persa per effetto della sospensione o
della riduzione di lavoro. Con riferimento poi alla contribuzione addizionale, varia a
seconda della durata dell’intervento, prevedendosi il 9% per le prime 52 settimane; il 12%
sino a 104 settimane ed infine il 15% oltre questo limite.

5. La disciplina specifica in tema di cassa integrazione guadagni ordinaria.

L'intervento ordinario è riservato solo ad imprese appartenenti a determinati settori


produttivi che effettuino una sospensione dal lavoro o una riduzione dell'orario di lavoro
per 2 tipologie di eventi:

1) quelli transitori e non imputabili all'impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie


stagionali;

2) per situazioni temporanee del mercato.

Al di fuori di tali eventi la CIGO non può essere accordata.

Può essere accordata per un periodo massimo di 13 settimane continuative, prorogabile


sino ad un massimo di 52 settimane, con quest'ultimo limite nell'arco del "biennio mobile",
che si computa partendo a ritroso dall'intervento in atto. Al limite di durata, si accompagna
quello delle ore integrabili, fissato nella misura massima di un terzo delle ore lavorabili nel

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biennio mobile -> tale limite è stato introdotto per contingentare il ricorso alla CIGO e per
evitare la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro di tutti i lavoratori impiegati
nell’unità produttiva.

L’intervento della CIG è proceduralizzato, prevedendosi un obbligo di informazione e


consultazione con la rappresentanza sindacale di base e con le organizzazioni di categoria.
Nel corso della consultazione devono essere indicate le cause della sospensione o della
riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, nonché il numero dei
lavoratori interessati.

Una novità introdotta dal d.lgs.148/2015 è la previsione che nella domanda di intervento
vanno indicati i lavoratori interessati alla sospensione o riduzione dell'orario; la domanda
va presentata entro 15 giorni dall'inizio della sospensione o riduzione. Competente alla
concessione della integrazione salariale è l'Inps.

6. La disciplina specifica in tema di cassa integrazione guadagni straordinaria.

Più articolate la disciplina dell'intervento straordinario.

Per quanto riguarda l’AMBITO DI APPLICAZIONE, rileva:

- Il settore produttivo di appartenenza e il limite dimensionale ->


Al settore elettivo di intervento, ossia quello delle imprese industriali comprese quelle edili
ed affini, si aggiungono le imprese riconducibili al c.d. indotto della grande impresa in crisi,
cioè quelle che operando prevalentemente in favore di queste ultime, ne risentono e
subiscono la crisi. Per tutte queste imprese (vedi sopra) l’intervento è assicurato ove
occupino nel semestre precedente la data di presentazione della domanda, mediamente
più di 15 dipendenti. Con un limite dimensionale maggiore, cioè più di 50 dipendenti,
possono accedere alla CIGS le imprese commerciali, comprese quelle della logistica,
nonché le agenzie di viaggio e turismo. Accedono, infine, alla CIGS le imprese dell’editoria
e quelle assoggettate alla proceduta di amministrazione straordinaria.

Una prima novità introdotta dal d.lgs.148/2015 è stata quella di aver ridotto le causali di
intervento a tre, prevedendosi il ricorso alla CIGS:

a) Per riorganizzazione aziendale.


b) Per crisi aziendale.
In questi due casi è ammissibile solo se si dimostra, da parte dell’azienda, l’impossibilità
di utilizzare lo strumento del contratto di solidarietà.

c) Per contratto di solidarietà.


Si prevede che la CIGS abbia una durata massima di 24 mesi per la riorganizzazione, 12
mesi per la crisi aziendale e 36 mesi per la solidarietà. Altro limite riguarda il numero
massimo di ore integrabili:

 Per riorganizzazione e crisi, è fissato nell’80% delle ore lavorabili nell’unità


produttiva nell’arco di tempo del programma autorizzato.
 Per la solidarietà, la riduzione dell’orario di lavoro non può essere mediamente
superiore al 60% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile e per altro verso,
la riduzione complessiva dell’orario non può superare il 70% nell’arco dell’intero
periodo di durata del contratto.

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Anche per la CIGS è prevista una procedura di consultazione sindacale, mentre numerose
novità si registrano con riferimento al procedimento -> prevedendosi che la domanda di
concessione vada presentata entro 7 giorni dalla conclusione della procedura e che in ogni
caso la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro abbia inizio entro 30 giorni dalla
data di presentazione della domanda.

7. I fondi di solidarietà.

Il giro di vite sull’utilizzo della CIG ha indotto il legislatore a valorizzare il welfare privato.
Con tale espressione facciamo riferimento agli enti bilaterali, ossia organismi a gestione
paritaria di rappresentanti delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori
che provvedono nei limiti delle risorse disponibili ad erogare provvidenze sostitutive di
quelle pubbliche non accessibili. Ovvero integrative delle stesse.

I settori nei quali si è affermato il bilateralismo sono quello dell’artigianato, dell’edilizia e


del terziario. La caratteristica dell’intervento degli enti bilaterali è quella della volontarietà
dell’adesione agli stessi da parte dei datori di lavoro e del contingentamento delle
prestazioni erogabili in base alla provvista finanziaria raccolta attraverso la contribuzione.

A tale forma di “welfare fai da te” ha attinto la L.92/2012, prevedendo la costituzione di


fondi bilaterali di sostegno al reddito, e ai quali la stessa legge ha affiancato il modello del
fondo bilaterale alternativo nei settori a bilateralismo consolidato e per il caso di mancata
istituzione del fondo bilaterale ha previsto la costituzione di un fondo residuale da parte
dell’INPS.

8. Il contratto di solidarietà espansiva e le disposizioni transitorie e finali.

L’ultima parte del d.lgs.148/2015 è dedicata al CONTRATTO DI SOLIDARIETA’ espansivo


e alle DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI.

Anche l’introduzione del contratto di solidarietà espansivo risale al 1984; il d.lgs.148/2015


lo ripropone, riproducendo la disciplina del 1984 con l’unica variante del beneficio
concesso ai datori di lavoro che assumono per effetto della riduzione di orario nuove unità
lavorative.

Infine tra le disposizioni transitorie e finali merita menzione quella dettata in tema di
risorse finanziarie, prevedendosi un incremento cospicuo del fondo per finanziare le misure
di conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, nonché i trattamenti di
disoccupazione. Inoltre sopravvivono anche alcune ipotesi di ammortizzatori sociali in
deroga, che sembravano definitivamente superate, intervenendo sul punto anche il c.d.
decreto correttivo al Jobs Act 2, con l’inserimento del limite di spesa.

Tutta la normativa precedente, in tema di CIG ordinaria e straordinaria, risulta


espressamente abrogata dalla norma di chiusura del d.lgs.148/2015.

9.Gli ammortizzatori sociali in deroga.

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Gli ammortizzatori sociali in deroga continuano a far parte del complesso sistema dei
trattamenti di sostegno al reddito.

1) Prima ipotesi -> la CIGS in deroga per il triennio 2016-2018 per l’impresa che
all’esito del programma di crisi aziendale cessi l’attività produttiva, sussistendo
concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente
riassorbimento occupazionale.
2) Secondo intervento -> riservato ai lavoratori dei call center; sebbene previsto solo
per gli anni 2015-2016 l’intervento è stato prorogato anche per il 2017.
3) Terza ipotesi -> settore della pesca, per il quale è previsto il finanziamento di CIG
in deroga a carico del Fondo.
4) Quarta ipotesi -> trattamenti di CIGS e mobilità in deroga finanziati nel limite
del 50% con risorse attribuite alle Regioni e alle PATB.
5) Quinto tipo -> destina risorse statali per finanziare l’ennesima ipotesi di CIGS in
deroga per le imprese operanti in un’area di crisi industriale complessa, sempre
a determinate condizioni.

10. La CIG in agricoltura.

Il d.lgs.148/2015 ha fatto salve le disposizioni sull'integrazione salariale ordinaria per le


imprese del settore agricolo, per quanto "compatibili con il presente decreto" la normativa
è costituita dall'articolo 8 e successivi della L.457/1972. Possono godere della integrazione
salariale gli operai agricoli con contratto a tempo indeterminato, sospesi temporaneamente
dal lavoro per intemperie stagionali o per altre cause non imputabili al datore di lavoro o
ai lavoratori. In loro favore viene erogato un trattamento attivo della retribuzione nella
misura di 2/3 della retribuzione. La durata del trattamento è limitata, potendo essere
corrisposto al massimo per 90 giorni nell'anno, cui si aggiungono gli assegni familiari, ove
spettanti.

Per il procedimento per l'ammissione al trattamento si prevede che il datore di lavoro


debba, entro 15 giorni dalla sospensione del lavoro, presentare domanda, per il tramite
della competente sezione dell'ufficio del lavoro alla sede provinciale dell'Inps comunicando
i nominativi dei lavoratori sospesi, le giornate di sospensione, la causa. L'istituto decide
entro il termine di 20 giorni. Il trattamento corrisposto dall'Inps.

La legge del 1991 consente la fruizione del trattamento di integrazione salariale da parte
degli impiegati ed operai agricoli con contratto a tempo indeterminato anche nei casi di
sospensioni operate per esigenze di riconversione e ristrutturazione aziendale da imprese,
che occupino almeno 6 lavoratori con contratto a tempo indeterminato, ovvero 4 con
contratto a tempo indeterminato, e nell'anno precedente abbiano impiegato manodopera
agricola per 1 numero di giornate non inferiore a 1080.

11. CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali
di diritto civile.

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Al di fuori dei casi di oggettiva impossibilità sopravvenuta della prestazione, l’imprenditore


che rifiuti la prestazione lavorativa, sospendendo di fatto il lavoro, è da considerarsi in
mora credendi. E’ quindi ipotizzabile che, se dovessimo attenerci alle regole generali,
dovremmo osservare che in molti casi in cui può essere richiesta la CIG, sia ordinaria che
straordinaria, non sussista realmente un’impossibilità sopravvenuta della prestazione
retributiva, ma semplicemente una maggiore difficoltà nell’eseguirla, che non attribuisce
all’imprenditore il potere di sospendere il rapporto unilateralmente. La distinzione tra le
ipotesi d’intervento ordinario e straordinario della Cassa non coincide con quella tra
sospensioni dell’attività lavorativa dovute ad impossibilità sopravvenuta e sospensioni
dipendenti da fatti organizzativi legati ad una scelta imprenditoriale. Mentre le sospensioni
collegate all’intervento straordinario non sono riconducibili ad una causa di impossibilità
sopravvenuta della prestazione, nell’ambito delle sospensioni per le quali è previsto
l’intervento ordinario, sono invece ricomprese, accanto alle ipotesi di impossibilità, anche
quelle dovute alla mera difficultas a ricevere la prestazione lavorativa. Pertanto,
all’opinione che collega alla semplice sussistenza dei fatti costituenti le cause integrabili il
potere unilaterale di sospensione del rapporto da parte dell’imprenditore, pare preferibile
quella che pone a fondamento della sospensione del rapporto di lavoro un accordo, sia
pure implicito, tra imprenditore e lavoratori in grado, anche alla stregua dei principi
generali, di produrre un simile effetto. Si deve sottolineare come la dottrina e la
giurisprudenza si siano orientate nel senso di collegare la liberazione dell’imprenditore
dall’obbligo retributivo all’atto amministrativo di ammissione al trattamento di
integrazione salariale. E’ da tale atto che deriverebbe la deroga ai principi generali.

SEZ. B: Licenziamenti collettivi


12. Licenziamenti collettivi per riduzione del personale. La disciplina collettiva e
l’elaborazione giurisprudenziale.

La nozione di licenziamenti collettivi per riduzione di personale era stata introdotta con
l’Accordo Interconfederale 7 Agosto 1947 -> la disciplina sostanziale si fondava sul vincolo,
posto a carico dell’imprenditore di giustificare il licenziamento; vincolo poi precisato con
l’accordo del 1965 come obbligo di motivare il licenziamento con una giusta causa o un
giustificato motivo. Di contro, la nozione di licenziamento collettivo veniva identificata da
esigenze di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, la cui presenza escludeva la
necessità di giustificare i singoli licenziamenti individuali.

*La ragione di ciò va ravvisata nella considerazione che i licenziamenti collettivi sono un
aspetto del generale potere di organizzazione intrinseco all’interesse dell’impresa, a sua
volta funzionale al potere economico che trova il suo riconoscimento generale nella
previsione costituzionale del diritto alla libertà di iniziativa economica privata.*

Il quadro era destinato a mutare per effetto della L.604/1966 che introduceva limiti incisivi
al potere di recesso del datore di lavoro in materia di licenziamenti individuali. Come si è
visto, il legislatore del 1966 aveva escluso la materia dei licenziamenti collettivi per

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riduzione di personale dalla disciplina limitativa di quelli individuali. Di conseguenza,


all’accresciuta tutela del singolo nella conservazione del posto di lavoro non aveva
corrisposto un parallelo accrescimento della tutela dell’interesse collettivo alla
conservazione dei livelli occupazionali.

*Ne è conseguito che per lungo tempo l’assenza di una specifica disciplina legislativa in
materia di licenziamenti collettivi ha attribuito alla giurisprudenza il compito di precisarne
la nozione proprio per escludere la tutela prevista per il licenziamento individuale e di
individuare le forme di tutela eventualmente riconoscibili al singolo lavoratore in virtù della
contrattazione collettiva.*

13. Funzione suppletiva della giurisprudenza e le sue contraddizioni. Disciplina


comunitaria.

La Corte di Cassazione era giunta ad affermare che:

- L’osservanza delle procedure di consultazione sindacale previste dagli accordi


interconfederali costituiva requisito formale essenziale del licenziamento collettivo,
con la conseguenza che in sua mancanza il licenziamento si trasformava in una
somma di licenziamenti individuali e la sua legittimità andava valutata alla stregua
della relativa disciplina legale.

- Analoghe conseguenze la Corte di Cassazione aveva fatto discendere dalla mancata


sussistenza del requisito della riduzione o trasformazione di attività o lavoro.

- Nel caso in cui non fossero stati rispettati i criteri di scelta fissati dagli accordi
interconfederali, a fronte dell’illegittimità del licenziamento il lavoratore avrebbe
avuto diritto solo ad una tutela risarcitoria per il danno subito, con ciò escludendosi
la stabilità reale, anche ove strettamente applicabile.

- In particolare, la Corte di Cassazione aveva affermato che l’elemento fondamentale


della fattispecie licenziamento collettivo andava rivisitato nel motivo, consistente nel
ridimensionamento dell’azienda -> *nozione ontologica del licenziamento*

- Sulla base di queste affermazioni, la Corte era giunta a sostenere che il


ridimensionamento da cui può scaturire la riduzione del personale andava inteso
come ridimensionamento strutturale dell’impresa. Mentre a fronte dei c.d.
licenziamenti tecnologici, la Suprema Corte aveva escluso la loro riconducibilità alla
nozione di licenziamento collettivo in quanto essi non sono necessariamente
collegati ad una contrazione di attività o ad un ridimensionamento strutturale
dell’impresa. In seguito la Corte ha modificato il proprio orientamento, riconoscendo
la configurabilità del licenziamento collettivo sia nel caso di mera riduzione
dell’attività produttiva, purché definitiva e non transitoria, sia nel caso dei
licenziamenti tecnologici.

- Infine, la Corte aveva affermato il principio secondo cui il giudice non può valutare
il merito, cioè l’opportunità, delle scelte tecniche e produttive adottate
dall’imprenditore a giustificazione della riduzione del personale, poiché esse
rientrano nella libertà di iniziativa economica garantita ex art.41 Cost.

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Questa disciplina di derivazione giurisprudenziale formatasi nel vuoto legislativo ed a


ridosso della tutela prevalentemente procedurale offerta dagli accordi interconfederali, era
pervenuta nella sostanza a ravvisare nel ridimensionamento dell’azienda una ulteriore
ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Tuttavia la giurisprudenza
conduceva a risultati contradditori:

 La scelta imprenditoriale di non attivare la procedura sindacale era in grado di


determinare la trasformazione dei licenziamenti collettivi in una pluralità di
licenziamenti individuali. Ma ciò non garantiva una più efficace tutela dei
lavoratori. L’unico effetto vantaggioso di una simile interpretazione consisteva
nel rendere applicabile il principio secondo il quale in presenza di un giustificato
motivo oggettivo il datore di lavoro ha l’onere di provare la non utilizzabilità del
lavoratore neppure in mansioni diverse.
Va inoltre sottolineato che tale disciplina di origine giurisprudenziale non poteva surrogare
fonti legislative o collettive dotate di efficacia generale. Di qui l’esigenza di una normativa
legale idonea a regolamentare la materia.

14. La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L. 223/1991.

La L.223/1991 ha dettato la prima disciplina organica in materia di licenziamenti collettivi.


Tale disciplina è stata concepita dal legislatore in una prospettiva più ampia, comprensiva
di tutte le situazioni di eccedenza di personale. Il legislatore ha delineato due ipotesi di
trattamento delle eccedenze definitive di personale delle imprese distinguendo a seconda
che:

 L’eccedenza si manifesti nel corso di una crisi per la quale sia stato concesso
l’intervento della CIGS -> COLLOCAMENTO IN MOBILITA’ DEI LAVORATORI.
Esso può essere attuato da imprese che hanno in corso l’intervento della CIGS, e
quindi è implicito il limite dimensionale occupazionale di 15 dipendenti ai fini
dell’applicabilità dell’istituto.

 La decisione dell’imprenditore prescinda da tale intervento -> LICENZIAMENTO


COLLETTIVO PER RIDUZIONE DI PERSONALE.
Esso ha una portata generale e riguarda anche le imprese che non rientrano nel
campo di applicazione della CIGS ma che effettuino licenziamenti collettivi.
Inoltre, la disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale rinvia in buona
parte a quella dettata per il collocamento in mobilità, di modo che si può affermare che
esiste una regolamentazione unitaria delle riduzioni del personale -> sia il collocamento in
mobilità che il licenziamento collettivo sono finalizzati all’espulsione dei lavoratori in
eccedenza.

15. La procedura di licenziamento collettivo connesso con la CIGS (già procedura


per il collocamento in mobilità).

Qualora un’impresa ammessa al trattamento d’integrazione straordinaria, nel corso di


attuazione del programma, ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti

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i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, deve avviare una
procedura di licenziamento collettivo.

PROCEDURA ->

Grava sull’impresa l’obbligo di fornire immediate e analitiche informazioni ai sindacati ed


alla pubblica autorità competente, al fine di consentire ai primi la richiesta di una
consultazione.

1. Comunicazione alle RSA e ai sindacati di categoria della situazione di difficoltà in


cui versa l’azienda, con l’indicazione dei motivi che determinano l’eccedenza e di
quelli che impediscono il ricordo a soluzioni alternative, nonché del numero di
lavoratori eccedenti, della loro collocazione e dei loro profili professionali.
2. Entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, le RSA e le associazioni di
categoria possono richiedere un esame congiunto della situazione per la ricerca di
soluzioni alternative. Qualora entro 45 giorni dalla stessa data non sia stato
raggiunto un accordo, si tenta una mediazione tra per parti, che vece esaurirsi entro
l’ulteriore periodo di 30 giorni.
Gli obblighi di informazione, consultazione e comunicazione devono essere adempiuti
anche se le decisioni relative al licenziamento siano adottate non dall’impresa alle cui
dipendenze sono posti i lavoratori, ma da un’impresa che la controlli.

La legge sollecita le parti a ricercare soluzioni alternative all’espulsione di personale e


pertanto ha stabilito che gli accordi sindacali possano prevedere:

- L’adibizione a mansioni non equivalenti.


- Il comando o distacco di uno o più lavoratori presso un’altra impresa per una durata
temporanea.
Qualora non risulti possibile evitare la riduzione del personale, nel corso della
consultazione sindacale deve essere esaminata la possibilità di ricorrere a misure sociali
di accompagnamento, rivolte a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori
in eccedenza.

Infine, si deve sottolineare che l’obbligo di consultazione sindacale si configura come


ipotesi di procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore: la facoltà di licenziare i
lavoratori in eccedenza viene limitata nel suo esercizio dai predetti vincoli e può risultare
condizionata dall’eventuale accordo collettivo raggiunto in sede di esame congiunto.

16. Il licenziamento dei lavoratori eccedenti. Gli aspetti formali del recesso. Le
sanzioni per il licenziamento illegittimo.

Una volta esaurita la procedura, anche in assenza di accordo collettivo l’imprenditore può
procedere al licenziamento dei lavoratori eccedenti. Il legislatore ha dettato alcuni criteri
di scelta da valere in mancanza di accordo sindacale -> è previsto che l’individuazione dei
lavoratori da licenziare avvenga tenendo conto delle esigenze tecnico-produttive ed
organizzative del complesso aziendale e nel rispetto dei criteri fissati dai contratti collettivi,
ovvero, in mancanza, dei seguenti criteri in concorso tra loro: carichi di famiglia, l’anzianità
e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative.

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La dottrina e la giurisprudenza hanno dovuto affrontare i numerosi problemi interpretativi


sollevati da questa disposizione. Tra questi:

- Quelli relativi alla determinazione dell’ambito entro cui operare la selezione.


- Quelli sul significato da attribuire alle espressioni utilizzate dal legislatore per
individuare i criteri legali.
- Quelli attinenti all’individuazione dei limiti contenutistici cui sono vincolati gli stessi
accordi sindacali in materia.
Il legislatore ha comunque fissato limiti insuperabili al meccanismo selettivo:

 Ha previsto che in ogni caso il numero degli invalidi non possa essere superiore
alle percentuali previste dalla normativa in materia di assunzioni obbligatorie
rispetto al totale dei lavoratori licenziati.
 Ha previsto che resti invariato il rapporto percentuale tra la manodopera
femminile e quella maschile occupata con riferimento alle mansioni prese in
considerazione.
Una volta individuati i lavoratori da licenziare, è imposta la comunicazione individuale in
forma scritta del licenziamento che deve rispettare l’obbligo del preavviso.

La L.223/1991 disponeva l’inefficacia dei licenziamenti intimati senza forma scritta o in


violazione della procedura sopra descritta, mentre dichiarava annullabili quelli intimati in
violazione dei criteri di scelta:

- La Legge Fornero ha modificato il regime sanzionatorio, per conformarlo a quello


introdotto per i licenziamenti individuali ->
1. La tutela reintegratoria piena si applica per l’inosservanza della forma scritta.
2. In caso di violazione delle procedure si applica l’indennità risarcitoria in misura
piena.
3. In caso di violazione dei criteri di scelta si applica la tutela reintegratoria in
misura ridotta.
- L’art.10 d.lgs. 23/2015 ->
1. La reintegrazione è mantenuta, in misura piena, esclusivamente nell’ipotesi di
inosservanza della forma scritta.
2. Per la violazione delle procedure e dei criteri di scelta è prevista la sola condanna
del datore di lavoro al pagamento dell’indennità in misura crescente pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di
fine rapporto per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 4 e non
superiore a 24 mensilità.

17. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale ai sensi dell’art 24, l.n.
223/1991.

Accanto al licenziamento nel corso della procedura di CIGS viene disciplinata all'ipotesi in
cui l'imprenditore pur avendo la possibilità di richiedere l'ammissione all'intervento

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straordinario della cassa integrazione guadagni, nell'esercizio della sua autonomia


contrattuale decida di procedere subito ad una riduzione del personale.

L'art. 24 l.223/1991 ha dettato una disciplina di portata generale che costituisce


l'attuazione della normativa comunitaria in materia di licenziamenti collettivi. Individua la
nozione di licenziamento collettivo per riduzione di personale e ne stabilisce le regole
procedurali, formali e sostanziali.

NOZIONE ->L'articolo fa riferimento all'imprenditore che occupi più di 15 dipendenti, il


quale, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intenda
procedere ad almeno 5 licenziamenti in un arco di 120 giorni in un’unica attività
produttiva, o in più unità produttive nell'ambito provinciale. Diverso è il caso di cessazione
dell’attività nel corso di una procedura concorsuale o di messa in liquidazione della società,
perché è sempre possibile che la cessazione sia temporanea e l’attività possa riprendere
grazie all’utilizzo di altri strumenti quali l’affitto e l vendita dell’azienda. Pertanto, l’art.3
L.223/1991 prevede che ->> allorché non sia possibile la continuazione dell’attività anche
attraverso la cessazione dell’azienda o di sue parti, ovvero quando i livelli occupazionali
possano essere salvaguardati solo in parte, il curatore, il liquidatore o il commissionario
hanno facoltà di collocare in mobilità i lavoratori se sia stato concesso l’intervento
straordinario della CIG, oppure di licenziarli collettivamente ai sensi dell’art.24 della stessa
legge.

L’art.24 pone a fondamento del licenziamento collettivo per riduzione di personale “una
riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” aggiungendo i requisiti numerici,
temporali e spaziali di cui si è detto -> ne scaturisce una definizione molto ampia di tipo
teleologico, qualificata dal collegamento tra ridimensionamento aziendale e riduzione di
personale. L’esistenza dei detti requisiti va riscontrata nella fase di attivazione della
procedura e non anche in quella conclusiva. Quindi, in presenza di una riduzione o
trasformazione di attività di lavoro, l'attivazione della procedura da parte dell'imprenditore
comporta di per sé la natura collettiva di licenziamento.

L’art.24 L.223/1991 dispone che al licenziamento collettivo si applichino tutte le


disposizioni procedurali previste per il licenziamento connesso con la CIGS ->

- L’imprenditore quindi soggiace alle procedure e agli adempimenti amministrativi


previsti dall’art.4 ed è tenuto al rispetto dei criteri di scelta, del preavviso e dei vincoli
formali.
La legge non dica nulla in merito alle conseguenze da riconnettere alla mancanza del
presupposto causale o del nesso di causalità -> secondo l’opinione corrente in
giurisprudenza, in tali casi è configurabile un vizio incidente sulla procedura con
conseguente applicazione della sanzione dell’indennità risarcitoria in misura piena. Si
potrebbe però ritenere che la mancanza del nesso di causalità incida anche sulla corretta
applicazione del fondamentale criterio di scelta relativo al collegamento tra il lavoratore
licenziato e le esigenze tecnico-produttive dell’azienda; ed in tal caso il lavoratore avrebbe
diritto alla totale reintegrazione nel posto di lavoro.

Qualora il giudice accerti che una pluralità di licenziamenti individuali si fondi su una
"riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" e che ricorrano i requisiti temporali,
numerici e spaziali dell'articolo 24, i licenziamenti stessi devono essere considerati
collettivi e ne consegue l'applicabilità della tutela indennitaria.

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18. L'estensione del campo di applicazione dell'articolo 24 della legge numero 223
del 1991: datori di lavoro non imprenditori e dirigenti.

Il datore di lavoro non imprenditori sono stati inclusi nel 2004 nel campo di applicazione
della tutela contro i licenziamenti collettivi. È stata estesa ai "privati datori di lavoro non
imprenditori", ad esclusione delle norme relative al contributo di mobilità. È stato previsto
l'assoggettamento la disciplina dei licenziamenti collettivi nel caso di cessazione
dell'attività. Per quanto riguarda le sanzioni per il licenziamento illegittimo, ai datori di
lavoro non imprenditori si applica lo stesso apparato sanzionatorio stabilito dall'articolo 5
per gli imprenditori. Tuttavia nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori "che
svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione
ovvero di religione di culto" nel caso di legittimità del licenziamento, trova applicazione la
tutela obbligatoria di cui alla l.604/1966. Per le organizzazioni di tendenza il d.lgs.23/2015
le parifica, quanto alle regime sanzionatorio ivi previsto per i licenziamenti illegittimi, anche
collettivi, alle organizzazioni che perseguono fini di lucro.

Per la categoria dirigenziale trova applicazione l'intera procedura, con la precisazione che
nella fase sindacale devono essere previsti "appositi incontri", dedicati alla categoria,
mentre vengono escluse le disposizioni che riguardano la CIGS e l'indennità di mobilità.

19. Gli incentivi alla ricollocazione degli esuberi.

Una delle grosse novità adottate con la l.92/2012 è l'eliminazione della indennità di
mobilità e della procedura che ad essa dà accesso; alla indennità il legislatore ha sostituito
l'ASpi, con il Jobs act 2 rinominata Naspi. Il voto conseguente alla abrogazione della
procedura di mobilità è stato invece formato con la riconduzione di qualunque ipotesi di
eccedenza di personale nella fattispecie del licenziamento collettivo per riduzione di
personale, ex articolo 24. Alla soppressione consegue anche quella delle liste di mobilità e
di tutti i benefici previsti per agevolare e velocizzare la ricollocazione nel mercato di lavoro
dei lavoratori espulsi. Tale rilevante modifica legislativa e accompagnata da 1 periodo
transitorio che scadrà il 31 dicembre 2016; sino a tale data potrà continuarsi ad utilizzare
la procedura con accesso alla relativa indennità; sopravvivrà al 31 dicembre 2016 in favore
dei lavoratori che avranno iniziato a goderne entro tale data, con scadenza successiva a
seconda del requisito anagrafico e geografico.

Tra le modifiche apportate nel 2013 compare quella che riconosce al datore di lavoro che
assuma il percettore di naspi un contributo mensile pari al 20% del trattamento ancora da
godere.

A) i lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell'articolo 4 che possano far valere


un’anzianità aziendale di almeno 12 mesi di cui almeno 6 di lavoro effettivo, hanno diritto
ad un’indennità di mobilità per 1 periodo massimo di 12 mesi, 24 per i lavoratori con più
di quarant'anni, 36 con più di 50 anni. La riforma Fornero ha previsto che si riducano di
12 mesi nel 2015 e al 50% nel 2016. Per i primi 12 mesi la misura dell'indennità è pari a
quella del trattamento di integrazione salariale goduto; nei mesi successivi si riduce l'80%.

Ai lavoratori che ne facciano richiesta l'indennità di mobilità può essere corrisposta


anticipatamente in unica soluzione, detratte le mensilità già percepite.

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I soggetti disoccupati involontari, che non possono godere dell'indennità di mobilità, hanno
diritto, a partire dal 1 maggio 2015, a percepire il trattamento di naspi, la cui durata è pari
al 50% delle settimane contribuito nel quadriennio mobile.

B) i lavoratori collocati in mobilità ai quali spetti l'indennità di mobilità, sono destinatari


di una disciplina speciale rivolta promuovere il loro reinserimento nel mercato del lavoro.

Hanno diritto di precedenza rispetto alle assunzioni effettuate dalla stessa azienda che li
ha licenziati entro 6 mesi dal licenziamento. Previa loro iscrizione nelle liste di mobilità, è
prevista la possibilità di assunzione a termine con contratto di durata non superiore a 12
mesi, usufruendo di un regime contributivo agevolato. Per contrastare applicazioni
fraudolente della disciplina il legislatore ha escluso i benefici per l'assunzione di
quell'lavoratori licenziati nei 6 mesi precedenti da parte di imprese dello stesso di diverso
settore di attività che al momento del licenziamento presenta assetti proprietari
sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume, ovvero risulta con
quest'ultima in rapporto di collegamento-controllo.

La riforma del mercato del lavoro del 2015 ha introdotto un regime di condizionalità a
carico dei percettori dei trattamenti di sostegno del reddito in caso di disoccupazione
involontaria, decisamente più articolato sotto il profilo sanzionatorio rispetto a quello
precedentemente in vigore. La legge assicura l'iscrizione nelle liste di mobilità anche
lavoratori che siano collocati in mobilità ai sensi dell'articolo 4, ma non abbiano diritto
all'indennità di mobilità nonché a quelli licenziati per riduzione di personale senza
indennità di mobilità.

La cancellazione dalle liste di mobilità è ricondotta varie ipotesi: scadenza dei periodi
massimi per i quali è prevista la corresponsione dell'indennità; la seconda si accompagna
alla decadenza del trattamento di mobilità eventualmente percepito, si ricollega al venir
meno dello stato di disoccupazione.

Per i percettori di naspi è stato introdotto nel 2013 un incentivo analogo, alla lavoratore
che assuma a tempo pieno e indeterminato fruitori di naspi è concesso un contributo
mensile pari al 50% della indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al
lavoratore. Nel 2015 è stato ridotto al 20% per destinare il 30% al finanziamento
dell'ANPAL.

20. Gli oneri economici posti a carico delle imprese che procedono a riduzioni del
personale.

Il sostegno accordato agli esuberi, sia in termini di trattamento di disoccupazione, sia per
gli incentivi finalizzati alla loro ricollocazione, richiede cospicue risorse al cui reperimento
sono chiamati anche i datori di lavoro che abbiano proceduto a riduzione del personale.
La compartecipazione finanziaria delle imprese è stata estesa dalla riforma Fornero a tutte
le ipotesi di licenziamento, a prescindere dalla fattispecie istintiva utilizzata, con un
aggravamento a carico delle imprese che procedono a riduzioni di personale che non diano
diritto al trattamento di mobilità, finché esisterà.

La l.223/1991 ha posto a carico del datore di lavoro soggetto alla disciplina della CIGS il
contributo di mobilità. Per ogni lavoratore licenziato ai sensi dell'articolo 4 l'impresa è
tenuta a versare all'Inps, in 30 rate mensili, un contributo pari a 6 volte il trattamento

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mensile iniziale di mobilità; maggiorato del 50% per i lavoratori licenziati ai sensi
dell'articolo 24.

La normativa introdotta nel 2012 confermata nel 2015 ha previsto il cosiddetto "ticket di
licenziamento", pari al 41% del massimale mensile di naspi per ogni anno di anzianità
aziendale fino a un massimo di 3, in ogni caso di cessazione del rapporto per licenziamento
che darebbe diritto al trattamento di disoccupazione. Non è dovuto ove l'ossia quello di
mobilità.

Sez C: gli incentivi all'occupazione.


21. Il quadro europeo.

Uno strumento indispensabile per creare nuova occupazione è quello degli incentivi i datori
di lavoro che effettuano nuove assunzioni. Per creare dei posti di lavoro non sempre sono
sufficienti misure di politica attiva del lavoro, che agisce sul lato dell'offerta di lavoro,
essendo spesso necessario utilizzare strumenti ad hoc atti a stimolare la domanda di
lavoro, riconducibili alla politica attiva per l'occupazione. Quest'ultima è condizionata
essenzialmente da 2 fattori: il 1º è quello finanziario; il 2º è rappresentato dai vincoli posti
in materia dal trattato sul funzionamento dell'unione europea che vieta gli "aiuti di Stato"
alle imprese ove idonei a falsare la libera concorrenza all'interno dell'unione. Le deroghe
sono riconducibili a 3 situazioni:

1) La 1ª riguarda le regioni caratterizzate da un tenore di vita anormalmente basso,


rapportato alla media dell'unione europea;

2) la 2ª riguarda settori di attività in crisi;

3) La 3ª riguarda categorie di soggetti svantaggiati.

In attuazione del regolamento del 1998 la commissione ha adottato 3 regolamenti destinati


agli aiuti a favore delle piccole e medie imprese, alla formazione e agli aiuti per creare nuovi
posti di lavoro. Se n'è aggiunto poi un quarto sugli aiuti cosiddetti de minimis. Scaduta
l'efficacia di 3 regolamenti la commissione nel 2008 ne ha riunito la disciplina in un
regolamento unico, ammetteva agli aiuti in favore dei lavoratori "svantaggiati" e dei disabili.
Per svantaggiati intendeva: lavoratori che non avevano un impiego regolarmente retribuito
da almeno 6 mesi, quelli che non possedevano un diploma, quelli che avevano superato i
cinquant'anni di età, eccetera. Il regolamento 800 del 2008, applicabile fino al 2013 è stato
prorogato fino al 2014 e poi sostituito nel 2014 amplia il novero dei soggetti inclusi nell'area
dello svantaggio occupazionale, ricomprendendo anche lavoratori che hanno un’età tra i
15 e i 24 anni e quelli che hanno completato la formazione a tempo pieno da non più di 2
anni e non hanno ancora ottenuto il 1º impiego regolarmente retribuito.

22. Il quadro nazionale.

La normativa nazionale in tema di incentivi all'occupazione si è sviluppata in totale assenza


di un disegno organico. L'assenza di un quadro normativo di riferimento a livello nazionale
ha posto 2 problemi:

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- Il 1º riguarda la non conformità di singoli poteri di incentivo rispetto al quadro


normativo comunitario;
- Il 2º è costituito, almeno sino all'intervento legislativo del 2012, da una notevole
disomogeneità di disciplina applicabile alle varie ipotesi di incentivo con il problema
dell'individuazione delle condizioni per ottenere per mantenere il beneficio.
È rinvenibile nella legge del 2012 un nucleo di disciplina in tema di incentivi
all'occupazione di carattere generale, fissa 4 principi generali:

1. L'incentivi non spettano se la nuova assunzione costituisce attuazione di un obbligo


preesistente (cosiddetto diritto di precedenza);

2. Non competono nell'ipotesi inversa della precedente e cioè se l'assunzione viola il diritto
di precedenza;

3. L'incentivi non spettano se il datore di lavoro o l'utilizzatore di lavoratori somministrati


abbiano in atto sospensioni dal lavoro connesse ad una crisi o riorganizzazione aziendale;

4. Gli incentivi non spettano per quei nuovi assunti che siano stati licenziati, nei 6 mesi
precedenti, da parte di un datore di lavoro che al momento dell'licenziamento presenti
assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore che assume.

Tali condizioni sono state riprodotte dal decreto legislativo 14 settembre del 2015, numero
150. Un’ipotesi di incentivo all'occupazione è rappresentata dall'incentivo dell'auto
impiego, all'autoimprenditorialità e al lavoro di cooperativa, ispirato all'idea che
l'incremento dei livelli occupazionali non necessariamente deve passare attraverso il lavoro
subordinato.

DE LUCIA ALESSANDRA & DI NUCCIO SARA

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