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Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro è comune agli altri rami del diritto
ed è dunque l’art.1 disp.prel.c.c. che individua tali fonti nelle leggi, nei regolamenti e negli
usi. Una peculiarità del diritto del lavoro è costituita dall’art. 2078,co.1 c.c. secondo il
quale gli usi, contrariamente alla regola generale sancita dall’art.8 disp.prel.c.c.,
prevalgono sulle norme dispositive di legge se più favorevoli al prestatore di lavoro.
L’efficacia degli usi in questo caso è ovviamente dispositiva e quindi derogabile
dall’autonomia privata individuale o collettiva. Altra caratteristica peculiare del diritto del
lavoro è l’autonomia collettiva, cioè il potere di autoregolamento degli interessi dei gruppi
o collettività professionali: è produttiva non soltanto di effetti diretti e perciò rilevanti sul
piano dell’autonomia negoziale ma altresì di effetti indiretti rilevanti sul piano della
formazione dell’ordinamento. Infatti le tecniche della recezione, della consolidazione e
dell’estensione dei contenuti della contrattazione collettiva sono tipiche della legislazione
del lavoro, la quale si caratterizza sotto questo aspetto per la sua funzione ausiliaria della
contrattazione collettiva. La legislazione del lavoro però ha anche funzione di legislazione
di sostegno dell’attività sindacale e dell’autonomia collettiva nel quale è lo sviluppo della
seconda ad essere promosso per mezzo dell’intervento della prima. Bisogna però segnalare
che negli ultimi anni questa tendenza ha subito dei cambiamenti caratterizzati da una
legislazione rivolta ad alleggerire, senza la mediazione sindacale, la tutela dei lavoratori e
ad autorizzare alla contrattazione collettiva a derogare anche in peggio alle stesse norme
di legge. Un esempio di questa nuova fase del diritto è sicuramente la vulgata politico-
giornalistica detta jobs act legata ai provvedimenti emanati con la legge delega 10 dicembre
2014 n. 183, in cui la politica del diritto è indirizzata a favorire la flessibilizzazione dei
rapporti di lavoro e dell’organizzazione d’impresa al fine di stimolare la produttività delle
imprese e i livelli di crescita dell’occupazione. Settori che erano in declino a causa della
crisi economica del 2008.
2. L’evoluzione storica del diritto del lavoro: la fase della legislazione sociale
Nell’evoluzione storica del diritto del lavoro italiano si possono distinguere tre fasi storiche
per gran parte sovrapposte:
1) la fase della prima legislazione sociale in cui le leggi in materia di lavoro si presentano
soprattutto come norme eccezionali rispetto al diritto privato comune;
2) la fase dell’incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto privato
caratterizzata dall’inserzione della disciplina delle leggi e dei contratti collettivi nell’ambito
della codificazione civile;
3) la fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro i cui principi fondamentali
vengono garantiti dalla Carta costituzionale.
3. La fase dell’incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto
privato e la codificazione del 1942.
Successivamente si apre la seconda fase del diritto del lavoro, caratterizzata da una
accresciuta rilevanza giuridica del fenomeno sociale del lavoro dipendente, e dalla
progressiva incorporazione della disciplina lavoristica nel sistema del diritto privato, in
posizione di diritto speciale. Tale posizione speciale del diritto del lavoro si è presentata
inizialmente come una deviazione dai principi del diritto comune dei privati piuttosto che
paritaria rispetto al diritto civile come avvenne per il diritto commerciale. Dal punto di vista
formale, tale processo si è realizzato attraverso il ridimensionamento dello strumento della
legge speciale e con il passaggio all’inserzione del diritto del lavoro nella codificazione
unificata del diritto privato nel codice civile del 1942, il c.c. attualmente vigente ha
unificato non solo diritto civile e diritto commerciale ma ha inserito nel proprio corpo anche
il diritto del lavoro. Per il diritto del lavoro possiamo, però, solo parlare di incorporazione
nel diritto privato. Tuttavia, tale incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato non
ha fatto venir meno l’autonomia dei principi fondamentali propri del diritto del lavoro: in
particolare il principio della tutela del lavoratore come contraente debole viene
generalizzato e rafforzato sotto il profilo delle condizioni minime di trattamento e
dell’inderogabilità ed indisponibilità delle stesse, mentre la tradizionale riduzione del
contratto di lavoro a puro rapporto di scambio viene riaffermata ed accentuata dalla
subordinazione del lavoratore all’interesse dell’impresa e all’autorità dell’imprenditore. Il
passaggio fondamentale in questa fase è rappresentato dall’emanazione della prima legge
sull’impiego privato nel 1919: tale legge trovava la sua giustificazione in ragioni di
opportunità politica e sociale in quanto gli impiegati, scarsamente sindacalizzati, non
godevano della tutela dei contratti collettivi ma disponevano solamente di giudici di equità;
da qui la necessità dell’intervento legislativo, che recepì il materiale normativo raccolto
dalle Camere di Commercio, delegate dal Governo a raccogliere gli usi contrattuali idonei
a regolare il rapporto d’impiego. Un altro fenomeno rilevante in questa fase è quello della
giuridificazione del contratto collettivo. Tale fenomeno si è presentato il contratto collettivo
corporativo era espressione non dell’autonomia collettiva, bensì della competenza
normativa dei sindacati nell’ambito della categoria professionale, e come tale era dotato di
efficacia generale ed inderogabile dall’autonomia privata individuale. Il corporativismo era
una componente del regime fascista, così come il sistema dei probiviri era stato
caratteristico del periodo liberale. Le eventuali controversie tanto giuridiche quanto
economiche venivano risolte dalla magistratura del lavoro, appositamente istituite presso
le corti d’appello. Col tempo la legislazione corporativa mise fine alla libertà sindacale e
trasformò il contratto collettivo in atto normativo dotato di efficacia erga omnes e
proveniente dal sindacato unico fascista, basato sulla rappresentanza legale della categoria
professionale e sulla contribuzione obbligatoria dei singoli lavoratori e imprenditori.
Mentre si instaurava il principio della prevalenza della norma più favorevole al lavoratore,
il codice civile del 1942 ha potuto realizzare l’inserzione della legge sull’impiego privato e
dei contratti collettivi corporativi nel corpo del diritto privato, una unificazione più formale
che sostanziale. Molti aspetti del rapporto di lavoro sono rimasti nella disciplina delle leggi
speciali mentre le altre norme generali nel codice civile.
4. La fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro. Dalla tutela del
contraente debole alla tutela del cittadino sotto protetto.
Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948 inizia una nuova fase
nell’evoluzione storica del diritto del lavoro, il quale si vede attribuita una rilevanza
costituzionale di grado superiore rispetto al diritto civile e commerciale: il carattere
prevalente della normativa è sempre quello della protezione del lavoratore come soggetto
contraente più debole, ma la differenza rispetto alle precedenti fasi storiche è che la
protezione del lavoratore è un principio non più in posizione eccezionale o speciale, bensì
è espressione di un’istanza di trasformazione della posizione professionale e sociale del
lavoratore stesso. Gli esempi sono diversi: art.35 per il quale la Repubblica tutela il lavoro
in tutte le sue forme ed applicazioni; art.31 che, oltre a garantire l’uguaglianza di fronte
alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, riconosce ai cittadini la pari
dignità sociale; art.32 che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che di fatto si
frappongono alla partecipazione dei lavoratori alla organizzazione della società; art.4 per
cui la Repubblica in primo luogo riconosce il diritto al lavoro dei cittadini e si impegna a
promuovere le condizioni di piena occupazione che ne rendano effettivo il godimento e, in
secondo luogo, sancisce il dovere al lavoro come attività socialmente utile. Altre
disposizioni sono più specifiche: art.36 per la retribuzione proporzionata e sufficiente;
art.37 per la parità retributiva tra uomo e donna e tutela del lavoro minorile e femminile;
art.38 sulla previdenza e sicurezza sociale; art.39 e 40 su sindacati, contratti collettivi e
diritto di sciopero. La tutela del soggetto contraente debole rappresenta indubbiamente la
finalità di tutte queste norme, ma non si tratta più di una finalità esclusiva, ad essa si
aggiunge quella ulteriore della garanzia dei diritti sociali. Diritti sociali che permettono di
realizzare l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale garantita dalla nostra Costituzione. Tutte
queste norma sono ricollegabili a quello che è il fine primo: la posizione soggettiva di sotto
protezione sociale del lavoratore come cittadino e prima ancora come persona implicata in
un rapporto di lavoro dipendente. Da tutto ciò si evince anche l’importanza della
Costituzione economica, cioè dell’insieme delle norme e principi fondamentali che regolano
l’assetto economico della società. Quanto detto finora è una chiara dimostrazione della
costituzionalizzazione del diritto privato.
Il processo di attuazione della Costituzione ha dominato l’evoluzione del diritto del lavoro
nella fase del consolidamento della democrazia e dell’industrializzazione. Mentre la
contrattazione collettiva ha provveduto alla determinazione delle concrete condizioni di
lavoro sul piano salariale e normativo prima ed organizzativo e della libertà sindacale poi,
il ruolo della legislazione è rivolto prevalentemente al rafforzamento ed all’estensione della
tutela dei diritti riconosciuti al lavoratore dalla Costituzione, dal codice civile e dagli stessi
contratti collettivi. Se si guarda all’evoluzione del diritto del lavoro nel periodo successivo
all’emanazione della Costituzione, è possibile distinguere due linee di politica del diritto.
La prima fase è rivolta soprattutto all’integrazione della disciplina codicistica e quindi al
perfezionamento del sistema di tutela cd. minimale del lavoratore come soggetto
contrattualmente debole: esempi di questa prima fase sono le leggi sul collocamento, sugli
appalti di manodopera, sul contratto di lavoro a termine, sull’apprendistato, il lavoro
domestico e il lavoro a domicilio. Nella seconda fase ci si orienta verso una tutela più ampia
del lavoratore, considerato non più soltanto come contraente debole nell’ottica del rapporto
di scambio, ma anche nella sua duplice qualità di soggetto inserito in un rapporto di
produzione e di soggetto appartenente ad una classe o categoria socialmente sottoprotetta.
Quindi la tutela non è più limitata alle condizioni minime di trattamento, ma si estende
alla dignità sociale e alla persona del lavoratore, specificandosi anche come tutela contro
le discriminazioni e garanzia della parità di trattamento; esempi di questo tipo sono la
disciplina dei licenziamenti individuali che investe direttamente il potere di organizzazione
del datore di lavoro stesso. Un secondo esempio è lo Statuto dei lavoratori del 1970 sempre
volto a riequilibrare i rapporti di lavoro a favore dei lavoratori non solo nell’azienda ma
anche in una sfera più ampia della società civile attraverso lo strumento della
LEGISLAZIONE c.d. PROMOZIONALE. Lo statuto svolge una funzione promozionale
dell’attività sindacale e della contrattazione collettiva.
Successivamente, a partire dal 1975 si può individuare una nuova fase della legislazione
del lavoro. Si parla al riguardo di diritto del lavoro della crisi, ed è una fase caratterizzata
da interventi legislativi originali e peculiari quali ad esempio l’introduzione dei contratti di
lavoro con finalità formative o la parziali liberalizzazione del mercato del lavoro. Tali
interventi avevano l’obiettivo prevalente di favorire la difesa e la crescita dei livelli di
occupazione prevedendo l’estensione delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro e
l’introduzione di misure idonee ad ottenere una riduzione del tasso di inflazione attraverso
il rallentamento dei meccanismi di indicizzazione salariale. Aspetti caratteristici di tale fase
storica sono la crescente tendenza verso la deregolamentazione del mercato del lavoro
(ossia l’estensione dell’autonomia negoziale privata), e l’evoluzione della disciplina
protettiva da rigida in flessibile: in questa prospettiva la tutela dell’occupazione prevale
sulla tutela della posizione contrattuale debole del lavoratore e quest’ultima deve essere
armonizzata con l’interesse pubblico al contenimento dell’inflazione e con l’interesse
dell’impresa allo svolgimento dei processi di ristrutturazione produttiva e di innovazione
tecnologica. Nel corso degli anni ’80, la flessibilità delle condizioni di lavoro
dell’occupazione, e con essa il coordinamento tra legislazione e contrattazione collettiva
divengono un connotato stabile del sistema del diritto del lavoro accompagnati ad un
incremento del potere sindacale e di alcuni diritti individuali dei lavoratori. Parliamo,
infatti, di legislazione contrattata poiché la produzione legislativa ha assunto la particolare
caratteristica di essere tata originata essa stessa dalla partecipazione delle parti sociali.
Gli interventi legislativi degli anni ’90 spingono verso nuovi modelli di governo delle
relazioni industriali, in parallelo con il consolidarsi della pratica concertativa tra Governo
e parti sociali – Protocollo del 1993-ma anche verso flessibilizzazione e snellimento
burocratico del mercato del lavoro. Bisogna rammentare inoltre sicuramente la legge sullo
sciopero dei servizi essenziali; e la normativa in materia di licenziamenti collettivi, sul
lavoro degli immigrati, sui contratti di lavoro flessibili e sul trasferimento d’azienda.
Importanti sono stati gli interventi legislativi che hanno mirato a rafforzare gli istituti
chiave del sistema a proposito di protezione della persona del lavoratore e dei suoi diritti
fondamentali. Importante intervento di questo periodo è stato la riforma del pubblico
impiego, incentrata sulla “contrattualizzazione dei rapporti di lavoro” con le P.A., con
l’obiettivo dell’unificazione normativa dei dipendenti pubblici e privati al fine di accrescere
l’efficienza dell’organizzazione amministrativa, sottoponendola alle norme del Codice civile
e delle leggi speciali. Inoltre, la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 nell’ottica
del federalismo legislativo, attribuisce all’ordinamento civile, la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali, e la previdenza sociale alla
competenza esclusiva dello Stato, mentre affida alla competenza concorrente tra Stato e
Regioni le materie dell’istruzione e formazione professionale, la tutela e sicurezza del
lavoro, la previdenza complementare e integrativa. Molta parte dell’attività legislativa di
questo decennio è stata inoltre influenzata dall’esigenza di adeguare l’ordinamento
nazionale ai vincoli e agli obiettivi derivanti dalla partecipazione all’UE: questo spiega come
forti vincoli economici in tema di inflazione, deficit di bilancio e debito pubblico abbiano
fortemente condizionato le politiche legislative soprattutto in materia di controllo della
spesa sociale. In riferimento vanno citati gli interventi legislativi che hanno fortemente
8. Il diritto del lavoro nei primi 10 anni del 2000. La crisi del metodo
concertativo e le politiche neo-liberiste di flessibilizzazione del mercato del
lavoro. Gli sviluppi più recenti: dai cd. ammortizzatori sociali alle riforme di
struttura in materia di lavoro pubblico e di tutela dei diritti. Accordo Quadro
del 22 Gennaio 2009 sul sistema di contrattazione collettiva.
A partire dal 2000 le nuove politiche del lavoro sono state rivolte a soddisfare esigenze di
maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro. Infatti la più significativa manifestazione
della nuova fase è costituita dalla normativa di riforma del mercato del lavoro (2003), con
la quale sono state introdotte nuove figure contrattuali di lavoro cd. “atipico” ed è stata
accentuata la liberalizzazione delle attività, il tutto con l’obiettivo di conferire maggiore
flessibilità al mercato del lavoro. Significativi sono stati anche gli interventi nelle 3
importanti aree: degli ammortizzatori sociali, del lavoro pubblico e dei diritti dei lavoratori.
Quanto agli ammortizzatori, al fine di fronteggiare l’instabilità occupazionale, è stata
approvata una normativa volta ad estendere ad alcune categorie di lavoratori una
protezione economica per i periodi di mancanza di lavoro o di sospensione del lavoro.
Quanto al lavoro pubblico, fondamentale è il dichiarato obiettivo di introdurre nel settore
del pubblico impiego sistemi di valutazione delle performances. Infine, va segnalata
l’approvazione del cd. Collegato Lavoro che incide sulla tutela dei diritti del lavoratore.
D’altra parte il processo negoziale tra le parti sociali e tra le stesse confederazioni si è
rilevato conflittuale. L’Accordo Quadro del 22/01/2009 è stato siglato da CISL e UIL ma
non dalla CGIL. Gli anni più recenti (2010-2012) hanno visto una profonda trasformazione
sotto l’impatto della crisi economica. L’Accordo Interconfederale del 28/06/2011
sottoscritto da tutte le maggiori organizzazioni sindacali, ha sostituito il Protocollo del 93.
Viene con tale accordo riconosciuta la prevalenza del livello decentrato di contrattazione.
E’ infatti conferita efficacia generalizzata ai contratti aziendali approvati dalla sistema
contrattuale è rivolto l’art. 8 D.L. 138/2011 convertito in L. 148/2011 che attribuisce ai
contratti collettivi aziendali e territoriali il potere di stabilire specifiche intese aventi
efficacia generale e con la forza di derogare non solo ai contratti collettivi ma anche alle
disposizioni di legge. Ancora la flessibilità del mercato e dei rapporti di lavoro è all’origine
della L. 92/2012, che ha toccato e rivisto importanti aree, come quella degli ammortizzatori
sociali, della tutela reale contro il licenziamento e la disciplina dei rapporti flessibili.
Sotto l’impatto della crisi economica nuovi interventi hanno inciso sull’assetto del nostro
diritto del lavoro. Vediamo i 3 punti fondamentali.
10. Tra continuità e discontinuità: la “filosofia” del diritto del lavoro del c.d.
JOBS ACT (2014/15). Riduzione delle tutele nel rapporto di lavoro e
rafforzamento del potere organizzativo dell’imprenditore nella gestione
dell’attività produttive. Le nuove politiche del mercato del lavoro. La delega al
governo per l’ennesima riforma della P.A.
Nel 2014 viene nominato Presidente del Consiglio Matteo Renzi: il suo programma di
legislatura è assai ambizioso perché intende attuare una serie riforme strutturali che
dovrebbero cambiare il volto del paese. E così la priorità assoluta viene data ad una
profonda revisione dell’intero sistema normativo che compone il diritto del lavoro. Le linee
di politica economica in cui ci si muove sono quelle tracciate già nel 2011 con la nuova
governance economica dell’Unione Europea con particolare riguardo alle politiche di
salvataggio dei paesi in zona euro in cui il debito pubblico è fuori controllo: austerità
finanziaria e flessibilità del mercato del lavoro. Ad essa si contrappone il modello
neokeynesiano che indica negli investimenti pubblici produttivi la soluzione della crisi, e
che è stato seguito con risultati positivi negli Stati Uniti e nel Giappone. Pareggio di bilancio
e fiscal compact finora non sono regole mese seriamente in discussione a livello di unione
europea; il che rende estremamente difficile intervenire per migliorare le condizioni
economico-sociali attraverso misure rivolte ad incrementare la domanda più agevole e
compatibile con la politica finanziaria europea, risulta operare sul versante dell’offerta di
lavoro e quindi sulla flessibilità del rapporto. A questo riguardo il governo ha agito in due
tempi, co una serie di provvedimenti che nella vulgata massmediatica prendono il nome di
JOBS ACT. In una prima fase emana un decreto legge sul contratto a termine e
Il governo Renzi si dimette nel dicembre 2016. Quello nuovo si pone in linea di continuità
con il precedente. Della sua attività va ricordato un decreto-legge che al fine di vanificare
un referendum abrogativo indetto dalla Cgil ha abrogato la discussa figura del lavoro
12. La Corte Costituzionale ed il suo contributo allo sviluppo del diritto del
lavoro.
Le fonti che attribuiscono all’Unione Europea delle competenze in materia sociale sono
costituite dal c.d. diritto primario, in cui sono ricompresi il Trattato sull’Unione Europea,
il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e la Carta dei diritti fondamentali
dell’unione europea. Per quanto riguarda il sistema delle fonti risultante dai Trattati
istitutivi dell’UE e dal Trattato sul funzionamento dell’UE, le istituzioni comunitarie
possono adottare regolamenti e direttive, decisioni e pareri nelle materie di loro
competenza. Regolamento e direttive sono vincolanti mentre pareri e decisioni no. Il
regolamento ha portata generale ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi, mentre la
direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere entro il termine prefissato dalla direttiva. Inoltre, qualora si ravvisi un
contrasto tra le norme dei due ordinamenti (comunitario e interno), prevarrà il diritto
comunitario sul diritto interno per la c.d. teoria del “primato”. La direttiva può essere
unicamente rivolta agli stati ai quali impone di emanare e/o abrogare determinate norme.
La Corte Europea tuttavia ha di recente statuito come il diritto europeo sia talvolta in grado
di dispiegare la propria efficacia diretta anche nelle controversie tra privati. L’efficacia
orizzontale ha trovato applicazione soprattutto in controversie in materia di
discriminazioni per ragioni di età, principio che vincola il giudice nazionale a disapplicare
le disposizioni della legge con esso confliggenti anche in una controversia tra privati. Altro
strumento di conio giurisprudenziale, che ha rafforzato il primato del diritto dell’Unione
Europea, è quello dell’obbligo di interpretazione conforme a ciò che la direttiva impone.
Nella scelta dell’interpretazione il giudice nazionale deve preferire quella che più sia
compatibile con la direttiva. Ciò indipendentemente dal fatto che la normativa statale sia
anteriore o posteriore all’emanazione della direttiva stessa. Qualora, tuttavia, la lettura del
diritto nazionale non consenta al giudice di raggiungere questo risultato, l’unico rimedio
offerto dal diritto europeo al singolo che subisce un danno è quello di domandarne il
risarcimento allo Stato, secondo il principio generale elaborato dalla Corte di Giustizia per
cui lo Stato deve risarcire al singolo i danni subiti a causa della mancata attuazione di
norme UE prive di effetti diretti. L’intensa produzione normativa comunitaria è dunque in
grado di condizionare in misura rilevante l’evoluzione della legislazione interna del nostro
Paese. In caso di contrasto tra norma europea direttamente applicabile e legge nazionale,
il giudice nazionale deve decidere la controversia sulla base delle norme europee, ciò,
naturalmente sul presupposto che la norma europea rilevante per la decisione sia di per
sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale. Alla
teoria del primato si è adeguata anche la corte costituzionale italiana, che ha precisato
come la prevalenza del diritto nazionale su quello interno si fonda su due norme della
Costituzione repubblicana, gli artt. 11 e 117, co. 1 Cost. la corte costituzionale ha
riconosciuto che ogni giudice, in caso di contrasti tra norme europee e norme nazionali,
deve procedere alla decisone sulla base delle prime e disapplicando le seconde, in caso di
antinomia intercorrente tra una norma di legge interne ed una norma europea non
direttamente applicabile, il giudice può sollevare la questione di legittimità per violazione
delle disposizioni costituzionali. In ogni caso, la priorità del diritto dell’Unione non è piena
ed incondizionata: la normativa europea non può mai derogare ai principi fondamentali e
ai diritti inalienabili della persona diverso è il discorso per le norme costituzionali di
dettaglio che ben posso tollerare una deroga ad opera del diritto U.E. Tale principio non
ha mai avuto un’applicazione pratica.
Il rapporto di lavoro è regolato dagli artt. 2094 ss. c.c. oltre che dalle leggi speciali. Il
legislatore ha collocato la disciplina del rapporto di lavoro nell’ambito della disciplina
dell’impresa posta dal Libro V: la ragione di tale sistemazione è da ricercare nella
prospettiva adottata dal Codice civile del 1942, secondo cui il rapporto di lavoro, anche
quando non sia inerente all’esercizio di un’impresa, viene tuttavia modellato sulle esigenze
tipiche di questa. Nello stesso Libro V infatti sono collocate, accanto alle norme del Titolo
II relative al lavoro nell’impresa, anche le norme concernenti i rapporti di lavoro che si
svolgono al di fuori dell’impresa stessa quali il lavoro autonomo o il lavoro domestico.
Questa collocazione corrisponde all’esigenza di istituire uno stretto collegamento tra
l’ordinamento del rapporto di lavoro subordinato e quello dell’impresa, secondo una
prospettiva conforme all’obiettivo perseguito dal legislatore del codice civile, il quale ha
inteso realizzare l’unificazione del diritto civile con il diritto commerciale. La finalità di
promuovere il processo di fusione che ha portato alla c.d. commercializzazione del diritto
civile è rimasta circoscritta al c.d. sistema esterno ai singoli istituti, non ha comportato
grandi mutamenti nella sostanza degli stessi. Per quanto attiene al rapporto individuale di
lavoro, il codice vigente, pur introducendo una disciplina organica assente nel codice
precedente, ne riafferma la natura contrattuale e la sostanza giuridica ed economica
tradizionale, caratterizzata essenzialmente dallo scambio tra la retribuzione e la
prestazione lavorativa, intellettuale o manuale. Tuttavia, il lavoro organizzato nell’impresa
viene considerato come il più rilevante socialmente e come il modello normativo tipico di
rapporto di lavoro, intorno al quale si dispongono a corona il c.d. rapporti di lavoro speciali.
impresa>> (art. 1628), con ciò vietando la perpetuità del contratto. Nonostante ciò, di
fronte alla prassi allora dominante di contratti a tempo indeterminato, era concordemente
ammessa la stipulazione del contratto sine die, giustificato come contratto sottoposto a
disdetta e pertanto pur sempre a termine, anche se incerto. La locatio operarum veniva
costruita dagli interpreti e implicitamente dal legislatore come una sottospecie della
locazione delle opere e d’industria, la quale, a sua volta, era una specie o, meglio, un
adattamento del più generale schema contrattuale della locazione.
La distinzione tra locatio operis e locatio operarum assunse rilievo al fine di stabilire la
diversa imputazione e ripartizione tra le parti dei rischi inerenti alla realizzazione della
prestazione lavorativa. Il primo di tali rischi, il rischio del lavoro, è quello incidente
sull’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro, ossia il rischio che incide per sua natura
sul risultato produttivo dell’erogazione dell’energie di lavoro e dipende dalla difficoltà
tecnico-economica del risultato stesso. Il secondo rischio è quello dell’impossibilità o
mancanza del lavoro sopravvenuta, e corrisponde al rischio incidente sulla perdita totale
o parziale del corrispettivo da parte del lavoratore. Il rischio dell’impossibilità di lavoro è
sempre sopportato dal lavoratore, sia nella locatio operis che nella locatio operarum, in
virtù del principio secondo il quale il debitore è esonerato dall’ obbligo di eseguire la
prestazione divenuta impossibile, ma perde il diritto alla controprestazione. Il rischio
dell’utilità del lavoro è invece collegato concretamente alla variabilità economica del
rendimento delle energie di lavoro prestate dal locatore ed è ripartito tra i contraenti in
modo diverso nella locatio operis e nella locatio operarum: nella prima è integralmente a
carico del lavoratore autonomo il quale si obbliga a prestare l’opera finita qualunque sia il
costo sopportato per ottenere il futuro risultato; nell’altra il rischio del risultato è a carico
dell’imprenditore, poiché il lavoratore subordinato si obbliga a prestare le proprie energie
di lavoro limitandosi a sopportare soltanto il rischio della mancanza di lavoro.
Oggetto della locazione di opere è l’attività del lavoro, mentre oggetto della locazione
dell’opera è il risultato del lavoro. Tuttavia la distinzione tra attività e risultato del lavoro è
ambigua. Essa infatti da un lato mette in rilievo la sostanziale identità dell’oggetto della
prestazione dovuta dal lavoratore (il bene economico della forza-lavoro) e dall’altro ne
differenzia la natura secondo la diversa impostazione del rischio del lavoro (utilità o
produttività). In questo modo rimane un’incertezza per ciò che attiene i connotati che
contraddistinguono le due specie di obbligazioni sotto il profilo oggettivo-funzionale. Si
spiega così il ricorso al criterio della subordinazione o dipendenza verso il conduttore, nel
quale viene identificato il tratto tipico della locatio operarum. Si perviene così, nella
sostanza, attraverso l’utilizzazione della categoria della locazione delle opere, ad estendere
ai lavoratori subordinati la disciplina della antica locazione di cose ed in tal modo si fa
maturare gradualmente il distacco del contratto di lavoro subordinato dall’originario
tronco, comune anche ai differenti tipi di contratto di lavoro autonomo (appalto, trasporto
ecc.).
In una prospettiva analoga si pone anche la legge sul contratto di impiego privato n.
1825/1924: questa individuava il carattere specifico della subordinazione nell’attività
professionale e nell’esercizio di mansioni di collaborazione c.d. fiduciaria, ossia lo
svolgimento di funzioni continuative di amministrazione e di fiducia nell’azienda. Il Codice
civile riprende il concetto della collaborazione per precisare a sua volta quello della
subordinazione: l’art.2094 c.c. identifica la collaborazione con lo scopo o, meglio, risultato
tecnico-funzionale della prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore, resa dal lavoratore in cambio della retribuzione.
L’evoluzione storica sottolinea la continuità esistente tra la nozione moderna del contratto
di lavoro e quella tradizionale della locatio operarum, ma dimostra altresì come
l’alternatività tra risultato ed attività del lavoro sia stata progressivamente sostituita da
quella tra autonomia e subordinazione della prestazione resa dal lavoratore. In effetti, il
concetto di subordinazione si ricava direttamente dall’art. 2094 c.c. Questo fornisce la
definizione di prestatore di lavoro subordinato, qualificando come tale colui che si obbliga
a collaborare all’impresa prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Da tale definizione legislativa è
desumibile la nozione della subordinazione come dipendenza del prestatore dalla direzione
del datore. Tale concetto di subordinazione tecnico-funzionale è riaffermato in negativo
dall’art. 2222 c.c.: nella definizione del contratto d’opera infatti il legislatore ha messo in
rilievo l’assenza, nel rapporto di lavoro autonomo, del vincolo della subordinazione. Il
concetto di subordinazione si presenta sostanzialmente ambiguo già sul piano empirico e
sociologico: subordinato è chiunque si trovi in una situazione di soggezione ad un potere
altrui. La subordinazione è stata identificata con la sottoposizione del debitore al potere
del creditore del lavoro. In questo modo, la subordinazione si identifica con il contenuto
tipico dell’obbligazione di lavoro: si tratta infatti della definizione del comportamento
solutorio del debitore di fronte al creditore del lavoro e si configura perciò come un
elemento esterno all’oggetto della prestazione e quindi alla struttura dell’obbligazione di
lavoro. Al riguardo, non è possibile ritenere la struttura dell’obbligazione di lavoro
autonomo diversa da quella di lavoro subordinato: in entrambi i casi, infatti, oggetto
dell’obbligazione è il lavoro come prestazione di facere e quindi di attività personale
economicamente utile. Tale connotato è comune tanto all’obbligazione del lavoratore
subordinato quanto all’obbligazione del lavoratore autonomo, mentre l’elemento
differenziale è dato proprio dall’assenza del vincolo della subordinazione, per cui è diverso
l’oggetto della prestazione: questa nel contratto d’opera è un facere finalizzato al
compimento di un’opera o di un servizio con l’attività prevalentemente personale del
lavoratore; viceversa nel lavoro subordinato il facere è finalizzato alla collaborazione e cioè
all’utilizzazione dell’attività del debitore, il quale è obbligato a mettere le proprie energie o
opere a disposizione del creditore e della sua organizzazione.
Si deve premettere che la causa è l’elemento del contratto che ne individua la funzione
economica e quindi l’interesse meritevole di tutela concretamente perseguito dalla volontà
delle parti. Nel contratto di lavoro subordinato, la causa del contratto è individuata dal
legislatore nello scambio tra le obbligazioni del prestatore e del datore di lavoro, quindi tra
la collaborazione e la retribuzione. L’elemento oggettivo è dunque rappresentato non dalla
subordinazione ma dalla collaborazione; la subordinazione invece è l’effetto giuridico
essenziale del contratto. Questa sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore al
risultato della prestazione. Si tratta del risultato dell’attività prestata dal lavoratore
nell’adempimento della sua obbligazione. Perciò, essa funge da criterio di valutazione del
comportamento che il prestatore ed il datore di lavoro devono tenere in osservanza del
generale dovere di correttezza che vincola creditore e debitore nell’attuazione di qualsiasi
rapporto obbligatorio. Si può pertanto parlare da un lato di collaborazione del creditore
come cooperazione all’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore del lavoro; e
dall’altro di collaborazione del debitore come obbligo di conformare l’esecuzione della
prestazione alle concrete e variabili esigenze dell’organizzazione produttiva. Quindi la
collaborazione nell’impresa, si configura come lo scopo tipico della prestazione e quindi
con la stessa causa identificatrice del tipo negoziale del contratto di lavoro subordinato.
Proprio nella continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro verso il datore,
si rinviene l’elemento essenziale che individua il vincolo della subordinazione tecnico-
funzionale. La subordinazione presenta in forme variabili e anche molto diverse secondo i
differenti contesti organizzativi e produttivi: si va dalla etero direzione o controllo
gerarchico al coordinamento soltanto funzionale sull’attività del prestatore di lavoro. La
figura del prestatore eterodiretto all’interno della fabbrica taylorista-fordista non è più
l’unico referente ma lascia spazio ad una pluralità di figure sociali e professionali originate
dalla diffusione dei nuovi tipi di lavoro e di nuove forme organizzative di collaborazione
nell’impresa. In conclusione intesa come disponibilità al coordinamento della prestazione
nello spazio e nel tempo, la continuità qualifica la subordinazione come dipendenza dal
controllo dell’imprenditore (etero direzione) e si distingue dall’esecuzione continuata o
periodica della prestazione, ossia il semplice distribuirsi nel tempo dell’adempimento
dell’obbligazione. La disponibilità si deve intendere in senso non materiale, ma ideale come
disponibilità funzionale del prestatore all’impresa altrui. La disponibilità si identifica in
concreto con la persistenza nel tempo dell’obbligo primario di prestazione e degli obblighi
secondari che lo integrano, e da essa discende che il prestatore di lavoro subordinato resta
obbligato, e quindi idealmente alle dipendenze del datore di lavoro, anche durante le pause
interruttive dell’esecuzione (intervalli giornalieri, riposi, ferie).
può convenire in linea generale che l’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale
un sicuro indici presuntivo della sussistenza della collaborazione non si può dire che tale
presunzione abbia valore assoluti e che collaborazione e subordinazione siano la
necessaria conseguenza dell’inserimento nell’azienda e del vincolo dell’orario di lavoro. In
particolare, si pensi al contratto di agenzia nel quale l’agente assume stabilmente l’incarico
di promuovere la conclusione di contratti o affari nell’interesse del preponente. L’art. 409
c.c.p. ha previsto l’equiparazione di lavoro subordinato -limitatamente alla disciplina
processuale- di talune categorie di rapporti di lavoro autonomo nonché in genere degli altri
rapporti di collaborazione i quali si concretino in una prestazione d’opera prevalentemente
personale continuativa e coordinata ma senza vincolo di subordinazione. In questo modo
il legislatore ha riconosciuto che la collaborazione e quindi l’inserzione del lavoratore
nell’impresa è un elemento tipico ma non esclusivo del lavoro subordinato ed ha
confermato i connotati della collaborazione nel suo significato oggettivo di attività
lavorativa continuativa e coordinata prestata nell’interesse del creditore (datore di lavoro
oppure committente). La possibilità che la prestazione di un’attività continuativa è
coordinata verso un committente possa conferire anche al contratto di lavoro autonomo
una funzione di collaborazione analoga a quella prevista per il lavoro subordinato è stata
riconosciuta dal legislatore proprio come elemento di atipicità- che la volontà delle parti
può introdurre nei contratti di lavoro autonomo e in particolare, nel contratto d’opera e di
assi miliziano al rapporto di lavoro subordinato. L’assimilazione tuttavia solo parziale
perché il lavoro autonomo resta al di fuori della disciplina e delle tutele tipiche del lavoro
subordinato. Tale interesse nel lavoro coordinato, ma non subordinato (c.d.
parasubordinato), si può dire continuativo sul piano della reiterazione nel tempo delle
singole prestazioni di risultato, non sul piano della programmazione o coordinamento nello
spazio e nel tempo dell’attività e quindi delle disponibilità del lavoratore. E infatti nella
prestazione d’opera coordinata e continuativa, il lavoratore non è vincolato a tenersi a
disposizione del committente benché la sua attività sia collegata stabilmente al ciclo
produttivo e quindi inserita nell’azienda. in simili casi, gli elementi della continuità e della
dipendenza economica del prestatore d’opera verso il committente, finiscono spesso con l
sovrapporsi, avvicinando nella realtà sociale i due tipi legali della locatio operis e della
locatio operarum. Nell’area delle prestazioni flessibili nel tempo e nel risalutato del lavoro
alla tradizionale separazione tra questi due modelli contrattuali si costituisce un
continuum tra le diverse forme di organizzazione del lavoro dipendente e indipendente.
Il legislatore, già nel 2003, con la c.d. Riforma Biagi, ha introdotto uno statuto protettivo
(solo del lavoro parasubordinato), apprestando tutele in suo favore non solo in ambito
previdenziale ma anche all’interno del rapporto di lavoro. L’abrogazione del 2015 di tale
apparato normativo travolto dall’eliminazione della collaborazione a progetto, con il ritorno
alle collaborazioni coordinate e continuative ha determinato la necessità di predisporre un
nuovo apparato di tutele. Di qui il recente intervento legislativo del 2017 con la l. n. 81,
che, oltre a disciplinare nel capo II il lavoro agile ha introdotto nel capo I la tutela del lavoro
autonomo. La stessa si applica al contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c. e agli altri
rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo 3 del libro V del codice civile con l’esclusione
degli imprenditori. La disciplina opera su tre piani apprestando una tutela del lavoratore
autonomo sul piano del rapporto, nel mercato e a livello previdenziale. Al primo profilo
(tutela nel rapporto), è riconducibile l’estensione anche alle transazioni commerciali tra
lavoratori autonomi e imprese, lavoratori autonomi e amministrazioni pubbliche o tra
lavoratori autonomi, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il lavoratore
autonomo riceve tutela nel caso di clausole e condotte abusive, e cioè in caso di modifica
unilaterale delle condizioni contrattuali o di contratto aventi ad oggetto una prestazione
continuativa di recesso senza congruo preavviso. Oltre alla inefficacia delle clausole e delle
condotte abusive prevede il diritto al risarcimento dei danni anche promuovendo un
tentativo di conciliazione mediante gli organi abilitati. Infine, i lavoratori autonomi ricevono
tutela nel caso di apporti originali e invenzioni, salvo che ciò non corrisponda all’oggetto
del contratto. Decisamente innovativa è la tutela del lavoratore autonomo nel mercato,
funzionale a questo ultimo obiettivo è il rafforzamento della formazione permanente
prevedendosi, entro determinati limiti, la deducibilità delle spese di formazione. Inoltre, si
favorisce l’accesso alle informazioni e ai servizi personalizzati e di orientamento, con la
costituzione di uno sportello dedicato ai lavoratori autonomi presso i centri per l’impiego.
Infine, sono previste misure previdenziali, tra le quali v’è la stabilizzazione e l’estensione
dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata
e continuativa. In caso di gravidanza, malattia, infortunio del lavoratore autonomo che
presti la sua attività in via continuativa non vi è estensione, ma sospensione del rapporto
nel caso di richiesta del lavoratore per 150 giorni per anno solare, fatto salvo il venir meno
dell’interesse del committente. Un pacchetto di disposizioni è dedicato al lavoro libero
professionale, pur se si tratta di deleghe al governo in materia di atti pubblici rimessi alle
professioni organizzate in organi o collegi, di sicurezza e professione sociale dei
professionisti e di tutela di salute e sicurezza degli studi professionali. Il monitoraggio
dell’efficacia e dell’effettività delle tutele è affidato al ministero del lavoro.
A questo punto può essere utile interrogarsi sull’attuale significato della tradizionale
distinzione tra locatio operis e locatio operarum quale riemerge dalla contrapposizione del
contratto di lavoro autonomo anche continuativo e coordinato, rispetto al contratto di
lavoro subordinato. Si tratta di delimitare l’ambito della disciplina di due contratti la cui
funzione economica e sociale è diversa e che hanno una regolamentazione molto
differenziata la fattispecie autonoma e quella subordinata. Sotto la spinta delle istanze
politiche e sindacali che hanno sollecitato l’intervento del legislatore sul bisogno di
sicurezza e di libertà dei lavoratori subordinati, si è pervenuti all’istaurazione e
all’espansione di una vasta e complessa disciplina protettiva della classe lavoratrice, ai cui
fini molto ampi rileva appunto la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato. In tale
contesto la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato e il presupposto per
l’applicazione e prima ancora per l’identificazione dello statuto protettivo del lavorsore
subordinato si comprende come il lavoratore abbia interesse ad agire anche sul piano
giudiziario per domandare il riconoscimento del vincolo della subordinazione, dal quale
discende tutta una serie di effetti diretti e indiretti. Sono diretti gli effetti che incidono sul
contenuto del rapporto e perciò sul regolamento contrattuale, ad es. le condizioni della
prestazione e della remunerazione del lavoro; sono invece indiretti gli effetti che incidono
sui presupposti e sulle conseguenze della costituzione del rapporto di lavoro, e che danno
Tra i più importanti effetti indiretti derivanti dalla costituzione del rapporto di lavoro
subordinato vi è la costituzione obbligatoria del cd. rapporto di previdenza sociale, che
intercorre tra i due soggetti del rapporto di lavoro e gli enti previdenziali. Inizialmente,
traendo spunto dalla norma del c.c. del 1865 che stabiliva la presunzione assoluta di colpa
dell’imprenditore nei confronti dei terzi per il fatto dei propri dipendenti, la dottrina aveva
elaborato una costruzione teorica in base alla quale anche il rischio degli infortuni sul
lavoro doveva gravare necessariamente sull’imprenditore a titolo di responsabilità
oggettiva. Tenuto conto della scarsa efficacia pratica dello strumento della responsabilità
oggettiva si è fatto ricorso all’istituto dell’assicurazione obbligatoria, che ha realizzato di
fatto la traslazione del rischio professionale in capo ad un istituto assicurativo (dapprima
privato, poi di diritto pubblico): in virtù di tale meccanismo l’imprenditore viene dunque
esonerato dalla responsabilità civile in cambio del versamento di un premio assicurativo
che si aggiunge alla retribuzione (salario previdenziale). Il medesimo sistema assicurativo
è stato in seguito utilizzato per far fronte ad altre situazioni di bisogno collegabili alla
posizione di sotto-protezione del lavoratore nella società (rischio sociale), con contribuzione
posta anche a carico dei lavoratori, benché in misura minore. I contributi sono dunque
posti a carico sia dell’imprenditore che dei lavoratori, secondo la regola generale contenuta
nell’art. 2151 c.c.; tuttavia la loro ripartizione è stabilita oggi in misura prevalente o
esclusiva a carico del datore di lavoro. Inoltre, secondo l’art.2116 vige il principio
dell’automaticità delle prestazioni, ossia le prestazioni sono dovute dall’istituto
assicuratore in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal
concreto versamento dei contributi da parte dell’imprenditore. Fanno eccezione le pensioni
di vecchiaia, per le quali tale principio opera entro i limiti della prescrizione
dell’obbligazione contributiva: per cui qualora, a causa del mancato versamento dei
contributi da parte del datore di lavoro, gli stessi siano prescritti ed il lavoratore non
consegua il diritto al trattamento previdenziale o ottenga un trattamento inferiore, questi
ha diritto al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro. Nella fase attuale le
assicurazioni sociali intervengo a garanzia del reddito del lavoratore tutte le volte che la
sua capacità di lavoro e quindi di guadagno sia menomata in conseguenza di eventi
collegati non solo agli infortuni sul lavoro ed alle malattie professionali ma anche alla
malattia comune, alla maternità, all’invalidità, e alla morte (a beneficio dei superstiti). Alla
base dell’intervento vi è la valutazione della situazione di bisogno in cui versa il lavoratore
o la sua famiglia e la conseguente erogazione di prestazioni economiche rivolte a
indennizzarlo in misura variabile della perdita della retribuzione, oppure a sostituire,
attraverso la erogazione delle pensioni di invalidità, di vecchiaia e ai superstiti, la
retribuzione stessa quando l’inattività abbia carattere definitivo.
Per quanto riguarda le pensioni di anzianità e vecchiaia, nel 1968 era stata introdotta la
cd. pensione retributiva, la cui misura era calcolata in percentuale alle retribuzioni
corrisposte negli ultimi 5anni del periodo lavorativo, poi esteso a 10: tale sistema tuttavia
è entrato in crisi nel corso degli anni soprattutto a causa dell’invecchiamento della
popolazione. Ciò ha condotto alla revisione dell’intera materia avvenuta nel 1995 (L.
335/95), sostituendo il sistema retributivo di calcolo dei trattamenti pensionistici con un
sistema cd. contributivo a ripartizione: tale sistema assicura un trattamento pensionistico
calcolato sull’ammontare dei contributi versati nel corso della vita lavorativa, salvi alcuni
correttivi che tendono ad assicurare una maggiore equità sociale. Tale principio di
solidarietà sociale tende ad attribuire un trattamento previdenziale anche ai lavoratori
autonomi e ai piccoli imprenditori: e a tale proposito si parla di tendenza espansiva del
diritto del lavoro, intendendo con ciò una tendenza sempre più ampia verso la protezione
del lavoratore in generale, indipendentemente dall’esistenza o meno di un rapporto di
lavoro subordinato. Il sistema pensionistico è stato da ultimo riformato ad opera del D.L.
201/2011 convertito nella L. 214/2011. Il provvedimento è finalizzato a garantire il rispetto
degli impegni con l’UE e la stabilità economico-finanziaria. Tali finalità sono perseguite
attraverso l’estensione a tutti i lavoratori del sistema del calcolo contributivo (con
riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1/01/2012) e attraverso
la revisione dei requisiti di accesso alle pensioni, incentrata sull’inasprimento del requisito
anagrafico minimo di accesso alla pensione di vecchiaia e del requisito di anzianità
contributiva per la pensione anticipata, entrambi agganciati agli incrementi della speranza
di vita. Un’ anticipazione del trattamento pensionistico è possibile attraverso la c.d. A.PE
introdotta dalla l. n. 232/2016. Se la legge di riforma delle pensioni ha introdotto un
sistema più vicino a quello assicurativo, per quanto attiene ai meccanismi di calcolo delle
pensioni di vecchiaia, l’insieme dei trattamenti previdenziali si può dire ancora ispirato al
concetto di sicurezza sociale e fondato sulla solidarietà sociale. Proprio l’utilizzazione del
concetto di sicurezza sociale spiega la tendenza ad attribuire un trattamento previdenziale
anche ai lavoratori autonomi e ai piccoli imprenditori. Una tendenza sempre più ampia
verso la protezione del lavoratore in generale, indipendentemente dall’esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato o autonomo. Perseguendo obiettivi di sicurezza sociale,
alcune forme di previdenza che in origine erano esclusive della tutela del lavoratore
subordinario vengono estese ad altre categorie di cittadini considerate come categorie
socialmente sotto protette. La protezione dai rischi sociali è un fenomeno che concerne
tutti coloro che traggono la fonte di reddito dal proprio lavoro anche autonomo e in tale
solco si colloca la stabilizzazione ed estensione dell’indennità di disoccupazione per i
lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Ciò non può cancellare
le differenze tra i due tipi di tutela previdenziale: soltanto nel lavoro subordinato si ha la
traslazione del rischio sociale dal prestatore al datore e il rapporto previdenziale si può
configurare quale effetto indiretto del contratto. In non poche ipotesi il lavoratore
autonomo può essere a sua volta datore di lavoro, dato che il contratto d’opera può essere
eseguito con lavoro anche solo prevalentemente proprio e perciò in una certa misura con
l’apporto di altri prestatori.
Nella disciplina dettata dal Codice civile il profilo del rapporto prevale su quello del
contratto di lavoro subordinato per 2 motivi:
• in primo luogo perché la fonte contrattuale generata dall’accordo delle parti viene
compressa da una serie di limiti convenzionali (provenienti dall’autonomia collettiva);
Infatti la legge impone tutta una serie di limitazioni al contenuto del contratto e ai
comportamenti delle parti nella esecuzione dello stesso. In tal senso la legge e la
contrattazione collettiva intervengono per stabilire il contenuto di non poche clausole
negoziali inerenti al rapporto tra datore e prestatore di lavoro: ad esempio per la
determinazione della durata oppure delle mansioni e qualifiche. Lo stesso si deve dire per
la retribuzione, la cui determinazione è rimessa all’iniziativa del datore di lavoro soltanto
entro i limiti fissati dai contratti collettivi. In definitiva, la legge disciplina il rapporto nel
suo svolgimento effettuale, mentre l’accordo delle parti viene compresso da una serie di
limiti, legali e convenzionali. Si tratta però di un’inversione di prospettiva spiegabile come
riflesso della preminenza che la legge attribuisce al momento dell’esecuzione rispetto a
quello della programmazione dell’attività delle parti e quindi delle rispettive obbligazioni.
Tale preminenza affonda le sue radici nella tutela della posizione contrattuale e, più in là,
nella implicazione della persona del prestatore nel rapporto di lavoro.
Secondo l’art. 1321 c.c. il contratto è l’accordo fra due o più parti per mezzo del quale si
costituisce un rapporto giuridico patrimoniale, se ne disciplina la struttura e se ne
regolano gli effetti. Seguendo tale definizione potrebbero sorgere dubbi circa la natura
contrattuale del rapporto di lavoro, il cui contenuto è determinato in grandissima misura
dalla legge e dai contratti collettivi. Tuttavia queste considerazioni non possono portare
alla conclusione dell’a-contrattualità del rapporto di lavoro, in quanto la disciplina del
rapporto di lavoro è inderogabile ma non ha natura strettamente imperativa e può essere
derogata dall’autonomia privata, anche se soltanto con disposizioni di favore per il
lavoratore. La fonte del rapporto di lavoro non può che essere il contratto, anche nelle
ipotesi di rapporti costituiti coattivamente (assunzioni obbligatorie), infatti anche in questi
casi eccezionali pur se la conclusione del contratto è imposta dalla legge non può dirsi che
manchi il titolo contrattuale. Ciò si desume, tra l’altro, proprio dalla vigente disciplina delle
assunzioni obbligatorie, la quale prevede l’imposizione a carico dell’imprenditore di un
obbligo a stipulare un contratto con il prestatore di lavoro avviato dagli uffici competenti.
a) Dalla legge del paese in cui il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro anche se
è inviato contemporaneamente in altro paese;
b) Dalla legge del paese in cui si trova la sede che ha proceduto all’assunzione del
lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso
paese. Le parti, per altro, sono libere di decidere diversamente la legge regolatrice
del contratto.
La prevalenza del momento attuativo del rapporto sul momento dichiarativo dell’accordo
(c.d. volontà cartolare) è conseguenza di 2 aspetti:
• della disciplina dello statuto protettivo del lavoratore come contraente debole. D’altra
parte, come ha confermato la Corte costituzionale, i principi dell’inderogabilità e della
eteronomia della tutela del lavoro subordinato hanno rango costituzionale e dunque non
può essere consentito all’autonomia contrattuale di autorizzare le parti ad escludere
direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della
disciplina inderogabile. Quindi il contratto di lavoro sembra distaccarsi dal modello
civilistico del contratto come regolamento di interessi dominato dalla libertà contrattuale
e quindi dalla volontà delle parti. Di qui l’esigenza di orientare l’indagine rivolta
all’interpretazione e alla successiva qualificazione del rapporto di lavoro al comportamento
tenuto dai contraenti anche posteriore alla conclusione del contratto. Sul piano
dell’interpretazione e della qualificazione del contratto, ciò implica che, in linea di principio
la qualificazione attribuita dall’accordo delle parti (il nomen iuris) non ha valore
determinante rispetto al contenuto effettivo del rapporto. La prevalenza del momento
attuativo del rapporto è la conseguenza della compressine dell’autonomia individuale quale
fonte regolatrice del rapporto di lavoro rispetto alle fonti ad essa sovraordinate: di qui il
collegamento tra il tipo legale del contratto e la disciplina imperativo del rapporto o statuto
protettivo del lavoratore come persona e come contraente debole. La Corte ha dapprima
puntualizzato come i principi della inderogabilità e della eteronomia della tutela del lavoro
subordinato abbiano rango costituzionale e dunque, non può essere consentito
all’autonomia contrattuale di autorizzare le parti ad escludere direttamente o
indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina
inderogabile. La subordinazione in senso stretto, peculiare del rapporto di lavoro, è un
concetto più pregnante e insieme qualitativamente diverso dalla subordinazione
riscontrabile in altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle parti. La
differenza è determinata dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano
mai congiunti l’alienità del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è
utilizzata e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce.
Quando è integrata da queste due condizioni (c.d. doppia alienità), la subordinazione
comporta l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva
sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo, essendo costituita per uno scopo
in ordine al quale egli non ha alcun interesse giuridicamente tutelato.
L’invalidità del contratto di lavoro (generalmente sancita nella specie della nullità) è l’effetto
dell’inosservanza di limiti legali imposti all’autonomia negoziale dei privati nella
determinazione del contenuto del contratto. In tema di annullamento del contratto, l’art.
21261 dispone che “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetti
per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione”. La norma sancisce quindi
l’irretroattività delle vicende tendenti all’eliminazione del negozio invalido: tale
irretroattività, estesa anche alla nullità, comporta l’efficacia del regolamento di interessi
determinato dal contratto invalido limitatamente al periodo di esecuzione del rapporto.
Dall’esecuzione del contratto invalido (prestazione di fatto) deriva non la costituzione del
rapporto di lavoro ma solo la conservazione degli effetti del rapporto posto in essere in
attuazione del contratto. Inoltre lo stesso art. 2126 esclude però la conservazione degli
effetti del contratto invalido quando si sia in presenza di nullità derivante da illiceità
Fra i presupposti del contratto di lavoro rileva la capacità dei soggetti stipulanti ai fini
della valida costituzione del rapporto. La comune nozione di capacità giuridica si identifica
nell’idoneità del soggetto ad essere titolare di diritti e doveri. Per le persone fisiche la
capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Accanto a tale nozione si colloca
quella di capacità giuridica speciale, intesa come idoneità del soggetto ad essere titolare di
una particolare situazione soggettiva. La capacità di prestare lavoro e quindi la
legittimazione soggettiva del prestatore alla titolarità del rapporto di lavoro, dipende
dall’attitudine fisiologica della persona all’esecuzione della prestazione. Questa attitudine
si configura quindi come presupposto essenziale della capacità personale del lavoratore.
Soltanto le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo
ponendo in essere i relativi negozi. Inoltre, alla capacità giuridica e di agire in materia di
lavoro si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità delle persone fisiche,
per l’incapacità legale e naturale ad agire. Il minore acquisisce la capacità di stipulare il
contratto di lavoro alla stessa età prevista dalle disposizioni speciali in tema di capacità di
prestare il proprio lavoro, età inferiore rispetto a quella fissata per la capacità di agire in
generale (art. 2 c.c.). L’età minima di ammissione al lavoro è fissata dalla legge al momento
in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione scolastica obbligatoria, comunque non
inferiore ai 15 anni di età. Questa disposizione va coordinata con la norma che impone un
periodo di studi obbligatorio per almeno 10 anni e sancisce che l’età per l’accesso al lavoro
è elevata dai 15 ai 16 anni. Sul limite minimo di età per l’accesso al lavoro il legislatore ha
previsto due deroghe, in forza della prima, il minore, previa autorizzazione scritta della
direzione provinciale del lavoro e con il consenso dei titolari della potestà parentale, può
essere impiegato anche in età inferiore in attività culturali, artistiche ecc, fatto salvo
comunque l’obbligo scolastico. La seconda deroga riguarda l’apprendistato, in quanto il d.
lgs. N. 81/2015 ha previsto la possibilità di assumere con il contratto di apprendistato per
la qualifica e per il diploma professionale soggetti che abbiano compiuto 15 anni. Non vi è
spazio per l’intervento del genitore o di qualunque altro rappresentante legale nella
stipulazione del contratto, salvo che nei casi in cui questo sia espressamente previsto da
norme speciali. La speciale capacità in materia di lavoro subordinato implica, dunque, la
libertà di esercitare il mestiere o la professione e in definitiva, di scegliere l’occupazione
preferita.
Per quanto riguarda la figura del datore di lavoro, non sono previsti requisiti soggettivi
speciali e si applicano senza eccezioni le norme dettate per la capacità giuridica e di agire
della generalità dei soggetti, tanto persone fisiche che giuridiche, tanto private che
pubbliche. Si tende tuttavia a differenziare in questo contesto la posizione legislativa
dell’imprenditore da quella degli altri datori di lavoro, titolari di attività organizzate ai fini
non lucrativi. Questo perché si impongono una serie di obblighi e limiti soltanto al datore-
imprenditore, in ragione dell’articolazione di un complesso di particolari normative per la
tutela individuale e collettiva del lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa
soprattutto media o grande. La qualità dell’imprenditore viene in rilievo anche sotto il
profilo della spersonalizzazione dell’imprenditore. Innanzitutto al lavoro subordinato si
applica l’art.1330 in virtù del quale la proposta o l’accettazione provenienti da un
imprenditore restano ferme anche in caso di morte o sopravvenuta incapacità prima della
conclusione del contratto; lo stesso principio della continuità dell’impresa è alla base dell’
art.2112 per il quale, in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con
il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Per contro, la
spersonalizzazione è da ritenersi esclusa dal lato del lavoratore, in ragione della rilevanza
essenziale della sua persona ai fini dell’esecuzione della prestazione e della costituzione
stessa del rapporto di lavoro. Quindi la considerazione della persona (intuitus personae)
del prestatore comporta l’infungibilità c.d. soggettiva della prestazione (fiducia soggettiva,
quale affidamento del creditore su determinate qualità del debitore della prestazione). La
fiducia c.d. soggettiva, quale affidamento del creditore su determinate qualità soggettive
del debitore, inerendo al rapporto di lavoro sotto il profilo della prestazione e collaborazione
nei confronti del datore del lavoro attiene alla sua esecuzione: si tratta dunque della
affidabilità personale del prestatore all’adempimento dell’obbligazione del lavoro mentre la
c.d. infungibilità soggettiva riguarda piuttosto l’imputazione degli effetti della stessa
obbligazione.
Per quanto attiene al procedimento di formazione del contratto di lavoro, la fattispecie non
presenta particolarità rispetto alla normativa generale in tema di formazione del contratto.
Nel contratto di lavoro il problema che si presenta è quello di stabilire in quale momento
può considerarsi intervenuto l’incontro delle volontà idoneo a perfezionarne la conclusione,
ossia quando si verifichi la esatta corrispondenza fra la proposta e l’accettazione. Ciò
avviene mediante l’adesione del lavoratore alla proposta del datore di lavoro e questa
circostanza vale ad accostare il contratto individuale di lavoro allo schema del contratto di
adesione (art. 1341, rapporti contrattuali cd. di massa). Ma, diversamente dal contratto di
adesione, nel contratto di lavoro la determinazione uniforme non è unilaterale bensì
bilaterale. Tale determinazione è infatti demandata all’autonomia collettiva mentre
all’autonomia individuale compete in via secondaria la determinazione di eventuali
condizioni più favorevoli al lavoratore. Non sono previste particolari modalità di
manifestazione del consenso e vige il principio generale della libertà della forma, e a tale
regola fanno eccezione soltanto il contratto di arruolamento marittimo che deve essere
concluso per atto pubblico e pochi altri contratti per i quali è richiesta la forma scritta (ad
probationem o ad substantiam). Per ciò che riguarda la manifestazione del consenso, lo
svolgimento della prestazione di lavoro può essere ritenuto comportamento concludente ai
fini della prova del contratto e ai fini dell’interpretazione del suo contenuto. Di solito la
proposta di un contratto di lavoro proviene dall’iniziativa del datore ed è formulata o sulla
base di condizioni prefissate da un contratto collettivo o per prassi o sulla base di un’offerta
che il prestatore di lavoro non è in condizione di trattare. Nella formazione del contatto di
lavoro, oggetto del consenso non è tanto il contenuto quanto la stipulazione stessa del
contratto.
Tra gli elementi accidentali del contratto ha notevole rilevanza il patto di prova, per la cui
validità sono previsti precisi requisiti formali. L’art. 20961 prevede la forma scritta ad
substantiam, dunque in mancanza il patto di prova deve considerarsi nullo e l’assunzione
del lavoratore va considerata definitiva. Poiché la prova è evidentemente uno strumento
predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore di lavoro (in quanto serve al
datore per verificare le attitudini professionali del prestatore), la legge fissa il limite
massimo del periodo di prova a 6 mesi, ma è di regola fissata dai contratti collettivi. La
posi-zione del lavoratore in prova è equiparata a quella derivante dall’ assunzione
definitiva: così ad esempio, in caso di recesso, al lavoratore spettano il t.f.r. e le ferie
retribuite; e in caso di assunzione il servizio prestato durante la prova si computa ai fini
dell’anzianità di servizio.
12. I vizi della volontà nella conclusione del contratto di lavoro. L’attitudine
professionale del lavoratore.
Per quanto riguarda la formazione del consenso, i vizi della volontà che inficiano la volontà
dei contraenti e che sono causa di annullabilità del contratto hanno scarsa rilevanza in
materia lavoristica. Hanno rilievo sicuramente ridotto le ipotesi di violenza morale e dolo,
che sia determinante nel consenso ed essenziale alla conclusione del contratto. D’altra
parte essendo piuttosto difficile configurare in concreto ipotesi di errore essenziale sull’
oggetto o, in generale, sul contenuto del contratto di lavoro, l’ipotesi principale resta quella
che si verifichi un errore essenziale e riconoscibile sulla persona del prestatore, essendo il
rapporto di lavoro configurabile come intuitus personae, e cioè strettamente connesso alla
considerazione soggettiva della persona. Invece, nei casi in cui il contratto di lavoro sia un
tipico rapporto di serie, caratterizzato da una determinazione soltanto generica delle
qualità rilevanti ai fini della selezione dei lavoratori da assumere, diventano piuttosto
ristretti i margini della possibile rilevanza dell’errore essenziale. Più raro o addirittura
eccezionale si presenta il caso in cui decisiva sia la considerazione soggettiva della persona
del datore di lavoro: si pensi ad una organizzazione c.d. di tendenza. In sintesi si può dire
che la considerazione soggettiva della persona del lavoratore è un elemento essenziale del
contratto di lavoro. Tuttavia le qualità personali e professionali del lavoratore vengono
normalmente verificate attraverso l’esecuzione del contratto e solo eccezionalmente, la loro
considerazione può essere motivo di impugnativa per errore. Si consideri, poi, che la
coincidenza tra le attitudini professionali necessarie per l’espletamento delle mansioni
richieste e quelle possedute dal singolo lavoratore è normalmente verificata attraverso il
patto di prova.
L’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori prevede il divieto per il datore di lavoro di raccogliere,
sia personalmente che per mezzo di terzi, informazioni non rilevanti ai fini della valutazione
dell’attitudine professionale del lavoratore (c.d. indagini personali), non soltanto ai fini
della assunzione, ma anche durante lo svolgimento del rapporto, a pena di sanzioni penali.
La norma ha lo scopo di tutelare la riservatezza del lavoratore. Essa, pur riconoscendo, il
diritto alla riservatezza del lavoratore, riconosce però la legittimità delle indagini tendenti
alla valutazione dell’idoneità professionale del prestatore di lavoro. Il divieto, posto a carico
del datore di lavoro a tutela della sfera di riservatezza del lavoratore, di effettuare indagini
sulle opinioni del medesimo è sanzionato penalmente. La stessa sanzione penale si applica
anche all’ulteriore divieto di indagini rivolte ad accertare l’esistenza di uno stato di
sieropositività all’infezione da HIV nel lavoratore; anche se la Corte ha affermato il
rapporto quando un apparente contratto di lavoro autonomo venga concluso allo scopo di
mascherare un effettivo contratto di lavoro subordinato. In questi casi il contratto
dissimulato deve reputarsi illecito e quindi nullo, e l’eventuale prestazione di lavoro
eseguita di fatto ai sensi dell’art. 2126 c.c.
Il secondo requisito caratteristico dell’obbligazione di lavoro (2° c. art. 2104 c.c.) è quello
dell’obbedienza che si manifesta nell’osservanza delle disposizioni impartite per
l’esecuzione e per la disciplina del lavoro, in cui si estrinseca il potere direttivo del datore.
Titolare del potere direttivo è l’imprenditore e il suo esercizio può essere demandato ai
collaboratori. L’imprenditore è titolare anche del potere disciplinare. Il potere direttivo si
configura come la situazione soggettiva attiva del creditore nell’obbligazione di lavoro e
nello stesso tempo come manifestazione di un’autorità di tipo gerarchico. Passando a
considerare i due profili distinti ma indipendenti dell’esecuzione e della disciplina del
lavoro, essi non sono altro che l’estrinsecazione del potere direttivo e quindi rappresentano
il lato attivo della situazione passiva del lavoratore. I comportamenti o comandi
dell’imprenditore possono essere di due tipi: o attinenti all’organizzazione del lavoro, cioè
al modo di rendere utilizzabile la prestazione resa dal lavoratore e quindi ai necessari
controlli oppure attinenti alla disciplina del lavoro, cioè alla regolamentazione della
convivenza della comunità formata da colore che nell’impresa collaborano.
L’art. 2105 prevede a carico del prestatore di lavoro l’ulteriore obbligo di fedeltà a tutela
dell’interesse dell’imprenditore alla competitività dell’impresa. Tale obbligo si sostanzia nel
divieto di svolgere attività in concorrenza con quella dell’impresa e nel divieto di divulgare
o utilizzare a vantaggio proprio o altrui notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione, in modo da poter anche solo potenzialmente arrecare ad essa pregiudizio.
L’art. 2125 ha previsto la possibilità di stipulare un patto di non concorrenza anche per
un periodo successivo alla cessazione del rapporto: 3anni in via generale, 5per i dirigenti:
si tratta di limiti massimi di durata che si sostituiscono di diritto all’eventuale durata
maggiore convenuta dalle parti. In ogni caso però, è richiesta la forma scritta ad
substantiam, deve essere stabilito un corrispettivo e il vincolo deve essere delimitato anche
con riferimento al luogo e all’oggetto.
Non costituisce concorrenza l’attività inventiva del lavoratore; si distinguono a tal proposito
diverse ipotesi:
4. Il potere disciplinare.
prestatore di lavoro non è estraneo al diritto privato, basti pensare alla clausola penale.
Come risulta dall’art. 2106 c.c, il potere disciplinare si collega strettamente agli artt. 2104
e 2105 c.c. il suo esercizio, infatti, rappresenta la reazione all’inadempimento dell’obbligo
di prestare l’attività lavorativa, inoltre, esso è correlato all’ inadempimento dell’obbligo di
fedeltà. I due grandi profili della diligenza ed obbedienza non possono certo identificarsi,
in quanto un lavoratore diligente può essere al tempo stesso disobbediente. Il criterio di
proporzionalità tra infrazione e sanzione costituisce un limite al quanto generico, può
risultare particolarmente elastica e soggettiva. Di qui l’importanza degli ulteriori limiti
sostanziali e procedurali introdotti in materia dallo Statuto dei Lavoratori.
L’art.2 dello Statuto consente l’impiego delle guardie giurate soltanto per scopi di
salvaguardia del patrimonio aziendale, vieta di adibire le guardie giurate a compiti di
vigilanza sull’attività lavorativa e ne interdice l’accesso ai locali in cui si svolge l’attività
lavorativa durante l’orario di lavoro, fatte salve specifiche e motivate esigenze di
salvaguardia dei beni aziendali. Alla tutela del patrimonio aziendale sono finalizzate anche
le visite personali di controllo (art.6), consentite solo in relazione alla qualità degli
strumenti di lavoro, delle materie prime e dei prodotti; le modalità della loro attuazione
sono concordate con le rappresentanze sindacali aziendali. Esse potranno comunque
essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro,
che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che siano utilizzati
sistemi di selezione imparziale dei lavoratori da sottoporre al controllo.
L’art.2095 prevede una ripartizione dei lavoratori in dirigenti, quadri, impiegati ed operai,
e prevede inoltre che le leggi speciali e i contratti collettivi, in relazione alla particolare
struttura dell’impresa, determinino i requisiti di appartenenza alle categorie indicate (cd.
in-quadramento collettivo). Per la categoria impiegatizia, e di riflesso per quella operaia,
tali requisiti sono tuttora fissati dall’art.1 della legge sull’impiego privato (RDL 1825/1924),
le cui norme si applicano in via sussidiaria alla contrattazione collettiva: questa infatti può
determinare i criteri di appartenenza alle categorie legali, stabilire direttamente i relativi
trattamenti economici e normativi con il solo limite della immodificabilità in pejus dei
trattamenti legali, e può anche costituire e definire proprie categorie sia all’interno delle
categorie legali sia mediante l’accorpamento di qualifiche appartenenti a diverse categorie
legali. Bisogna anzi dire che il sistema di classificazione dei lavoratori è il risultato di
un processo dinamico. Il rapporto tra categorie legali e categorie contrattuali si è
profondamente modificato a vantaggio delle seconde.
La distinzione tra impiegati ed operai è in realtà sfumata sul piano dell’organizzazione del
lavoro, con la conseguenza che la sua concreta applicazione si presenta spesso
problematica. Il RDL 1825/1924 definisce impiegato colui che svolge al servizio
dell’azienda, quindi con vincolo di subordinazione, una attività professionale con funzioni
di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che
sia semplicemente di manodopera. Oggi in realtà l’impiegato si trova spesso a svolgere un
lavoro meccanizzato e ripetitivo simile a quello dell’operaio e l’operaio svolge un lavoro che
può essere notevolmente più intellettuale di quello di molti impiegati di bassa
qualificazione: dunque la distinzione tra manualità e intellettualità della prestazione non
è attendibile. Anche per questo motivo la distinzione tra categoria impiegatizia e categoria
operaia è stata superata dalla contrattazione collettiva, la quale ha realizzato un nuovo
sistema di classificazione professionale non più fondato sulla separazione tra operai e
impiegati, bensì sulla loro unificazione normativa: il sistema dell’inquadramento unico
(anni ’70).
16. I dirigenti.
La L.190/1985 riconosce la figura giuridica dei quadri intermedi: sono quadri i lavoratori
che svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo
e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa. Fino all’emanazione di questa legge il codice
civile distingueva i lavoratori esclusivamente in dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati
e operai; a partire dagli anni ’70 invece erano venute emergendo nelle realtà aziendali
nuove figure professionali collegate alle innovazioni tecnologiche. La L.190 tuttavia pur
fornendo una definizione legislativa della figura professionale di quadro intermedio, rinvia
alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di
appartenenza alla nuova categoria in relazione a ciascun ramo di produzione e alla
particolare struttura organizzativa dell’impresa. Per quanto riguarda la disciplina del
rapporto, la legge estende alla nuova categoria le norme applicabili agli impiegati. La
definizione della categoria dei quadri intermedi ha in comune con quella dirigenti la
rilevanza attribuita alle funzioni e non alle mansioni svolte dal prestatore. La legge rinvia
alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di
appartenenza alla nuova categoria “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla
particolare struttura organizzativa dell’impresa”. In generale, il diritto soggettivo alla
qualifica attiene non alla qualifica come status, bensì al corrispondente trattamento
previsto dal contratto collettivo. Con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia assente
appunto la contrattazione collettiva, sarebbe possibile ricorrere all’art. 36, co. 1 Cost.
utilizzando in particolare il principio delle proporzionalità per ottenere l’adeguamento della
retribuzione insufficiente.
18. La disciplina del mutamento di mansioni. Dal Codice Civile allo Statuto dei
Lavoratori.
La prestazione di lavoro nel corso del tempo può subire modifiche unilaterali per volontà
del datore di lavoro: questo potere di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro
(c.d. ius variandi) è stato sancito dal c.c. all’art. 2103. L’art. 2103 è stato successivamente
novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, per cui il prestatore deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore
che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. La mobilità del
A) nel caso delle lavoratrici madri le quali devono essere adibite a mansioni non
pregiudizievoli alla loro salute, ancorché inferiori a quelle di appartenenza, con
diritto peraltro alla conservazione della retribuzione di provenienza;
B) per sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni di assegnazione per
infortunio o malattia, con diritto alla conservazione della retribuzione di
provenienza.
C) Nell’ambito dei contratti collettivi di prossimità vi è la possibilità di derogare all’art
2103 c.c. disponendo per tutti i lavoratori interessati l’adibizione a mansioni
inferiori.
Nel caso di illegittima adibizione a mansioni inferiori o dequalificazione, la giurisprudenza
riconosce al lavoratore il diritto al risarcimento del danno, sia patrimoniale sia non
patrimoniale. La Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo in demansionamento (disposto
previo patto con il lavoratore o unilateralmente dal datore di lavoro) quando costituisca
l’unica alternativa in luogo del licenziamento per motivo oggettivo
Il nuovo art. 2103 c.c. ha introdotto importanti modifiche in tutte le sue parti la disciplina
del mutamento di mansioni. In primo luogo il lavoratore può infatti essere adibito non solo
“alle mansioni per le quali è stato assunto” ma anche a tutte “quelle corrispondenti
all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni
riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime
effettivamente svolte”. Viene così abbandonato il criterio-limite dell’equivalenza delle
mansioni dal punto di vista dell’attitudine e/o professionalità del lavoratore. Tale criterio
è sostituito dal criterio dell’equivalenza di classificazione professionale della prestazione e
quindi dalle mansioni. Ciò consente lo spostamento per volontà unilaterale del datore del
prestatore di lavoro su tutte le mansioni classificate nel medesimo livello contrattuale e
nella stessa categoria legale di inquadramento delle ultime mansioni effettivamente svolte.
Quindi la posizione professionale del lavoratore nell’azienda dipende dal suo
inquadramento contrattuale ed è delimitato dal suo essere operaio oppure impiegato,
quadro o dirigente. Si ha così una notevole espansione dello ius variandi dell’imprenditore
in senso orizzontale. Non molto cambia invece per la mobilità c.d. verticale. Il lavoratore
può infatti essere assegnato ancora in via unilaterale e senza alcun limite alle mansioni
corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito e in tal
caso avrà “diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta”. La norma rimette
all’autonomia collettiva la determinazione del periodo di adibizione alle nuove mansioni
necessario per la maturazione del diritto all’inquadramento superiore e solo in via
suppletiva fissa in sei mesi continuativi tale periodo. Sono eccettuate le ipotesi in cui
l’assegnazione delle mansioni superiori è provvisoria in quanto determinata dall’esigenza
di sostituire un altro dipendente temporaneamente assente dal servizio. In questo periodo
il lavoratore avrà diritto alla retribuzione ma non alla qualifica superiore. La legge non
configura più l’acquisizione del diritto all’inquadramento superiore quale effetto necessario
dell’adibizione alle corrispondenti mansioni ma subordina tale effetto alla volontà del
lavoratore in quale può espressamente rinunziarvi prima che la stessa diventi definitiva e
cioè nel corso del periodo minimo. Ciò presumibilmente a tutela dell’interesse del
lavoratore a non essere impiegato in materie eccedenti la capacità professionale. Per tanto
la norma che sancisce il diritto all’inquadramento superiore si presenta come derogabile
anche in via convenzionale dalle parti: cosa che sembra consentire ampi spazi alla
discrezionalità dell’azienda nella mobilità verso l’alto.
Ma l’innovazione più importante riguarda la possibilità esclusa dal precedente art. 2013
c.c. di modificare le mansioni verso il basso. La novella abbandona questo divieto
ammettendo anche se con alcuni limiti il passaggio a mansioni inferiori nella
classificazione professionale e distinguendo tra mutamento unilaterale e mutamento
consensuale. Per quanto attiene alla variazione unilaterale questa è permessa dal co. 2
soltanto su mansioni classificate nel livello immediatamente inferiore di classificazione e
comunque all’interno della medesima categoria legale che dunque funge da limite a tutela
della posizione del lavoratore nella organizzazione aziendale. Lo spostamento sulle
mansioni inferiori deve essere giustificato da una modificazione dell’organizzazione
produttiva. Si tratta di due circostanze tra loro collegate da un nesso di causalità che
fungono da presupposto dell’esercizio del diritto- potere di variazione delle mansioni. La
prova di tali circostanze è a carico del datore, secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c.
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni classificate nel livello contrattuale inferiore.
Vi è la possibilità che la contrattazione collettiva autorizzi anche le modificazioni in pejus
senza giustificazione causale. Per il mutamento unilaterale verso il basso la legge prescrive
che la modificazione delle mansioni deve essere comunicata in forma scritta a pena di
nullità. Sempre a tutela del lavoratore è previsto che il mutamento delle mansioni così
verso il basso, come in senso orizzontale sia accompagnato da un obbligo formativo a carico
dell’azienda. L’inadempimento, però non determina la nullità dell’atto unilaterale di
assegnazione al lavoratore è quindi riconosciuta una tutela soltanto risarcitoria i cui
contorni però restano incerti. Il nuovo art. 2103 c.c. aggiunge la previsione e la disciplina
del mutamento consensuale delle mansioni anche in senso inferiore. Viene espressamente
ammessa la possibilità di accordi individuali modificativi della prestazione e della
retribuzione da raggiungersi nelle sedi protette indicate dalla legge. In tali sedi può essere
convenuta anche la modificazione in pejus delle mansioni quando la stessa sia
“nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione” all’acquisizione di una
diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”. Peraltro la validità e
quindi l’efficacia degli accordi è subordinata all’esistenza e all’accertamento, in concreto
dell’interesse del lavoratore ad accettare il passaggio alle mansioni ed inquadramento
inferiori.
Il nuovo art. 2103 c.c. può essere considerato espressione di un bilanciamento del diritto
dell’imprenditore a realizzare una organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e il
diritto del lavoratore alla conservazione dell’inquadramento professionale acquisito. La
tutela non è assicurata attraverso lo strumento della legge inderogabile e quindi del
controllo del giudice, ma attraverso gli strumenti della contrattazione collettiva e della
autonomia individuale assistita in sede di conciliazione o certificazione e dunque con la
possibilità di un controllo sindacale. Il co.9 da un lato, riafferma che “ogni patto contrario
è nullo” ma, dall’altro, salva, espressamente le ipotesi contemplate nei precedenti commi
di esercizio dello ius variandi e degli accordi individuali assistiti. Detto questo, nelle ipotesi
di illegittima adibizione a mansioni inferiori (o dequalificazione) il lavoratore ha diritto in
linea di principio alla restituzione delle mansioni o dell’inquadramento in precedenza
acquisito (tutela ripristinatoria); ed ancora al risarcimento del danno sia patrimoniale sia
non, conseguente al pregiudizio arrecato alla capacità professionale. Il riconoscimento del
diritto del lavoratore al risarcimento del danno non ricorre, automaticamente in tutti i casi
di demansionamento e non può prescindere da una specifica allegazione. Non è sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore
non solo l’onere di allegare il demansionamento, ma che di fornire la prova. La
qualificazione del danno è suscettibile di valutazione equitativa.
Un’analoga esigenza di tutela della persona del prestatore di fronte all’organizzazione del
lavoro è alla base della disciplina limitativa della durata massima della prestazione di
lavoro. Nel contratto di lavoro subordinato la dimensione temporale funge da criterio di
determinazione quantitativa della prestazione lavorativa e di quella retributiva; l’orario di
lavoro funge inoltre da limite massimo di esigibilità della prestazione di lavoro da parte del
datore (orario normale contrattuale di lavoro). L’art. 36 Cost. al co. 2 stabilisce che la
durata massima della giornata lavorativa è fissata dalla legge, e solo entro tali limiti
l’autonomia privata può disporne. Inoltre al co. 3 stabilisce che il lavoratore ha diritto al
riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite e non può rinunciarvi.
Fino al 2003 la disciplina dell’orario di lavoro era contenuta (oltre che nell’art.36 Cost.)
negli artt.2107, 2108, 2109 c.c. dedicati rispettivamente all’orario di lavoro, al lavoro
straordinario e notturno e al periodo di riposo (settimanale e feriale), nonché in una
complessa normativa speciale (a partire dal R.D.L 692/23). Tali previsioni devono
considerarsi in larga misura abrogate dal D.lgs. 66/2003, il quale, nello stabilire una
completa normativa dell’orario di lavoro e del “tempo di non lavoro”, ha disposto
l’abrogazione di “tutte le il personale del ruolo sanitario disposizioni legislative e
regolamentari nella materia disciplinata dal regolamento stesso, salvo quelle
espressamente richiamate”. Il decreto definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo
in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività
o funzioni”. Poi viene ribadita la distinzione codicistica tra orario normale di lavoro e lavoro
straordinario. Quanto all’orario normale, esso è fissato in 40 ore settimanali (tale limite è
un valore medio sull’arco di un periodo non superiore all’anno, orario multiperiodale).
Quanto allo straordinario, il decreto rimette ai contratti collettivi la regolamentazione. Le
ore di lavoro straordinario devono comunque essere computate a parte, ed ai contratti
Il decreto prevede che l’orario notturno non possa superare le 8 ore di media nelle 24 ore,
a meno che i contratti collettivi non prevedano un arco temporale più ampio su cui
calcolare come media il suddetto limite. Inoltre, sono stati previsti particolari controlli e
garanzie per la sicurezza dei lavoratori notturni (condizioni di salute ecc.) Un’ipotesi
generale di divieto di lavoro notturno è prevista in relazione alla gravidanza. Il lavoro
notturno è facoltativo:
Il d.lgs. n. 66/2003 dedica, poi, una serie di disposizioni alle pause, ai riposi giornalieri e
settimanali ed alle ferie. Quanto alle pause si tratta di intervalli durante i quali è vietata
l’esecuzione della prestazione lavorativa e che hanno la funzione di assicurare la
reintegrazione dell’energie psico-fisiche del lavoratore, e di consentirgli l’eventuale
consumazione die pasti. In mancanza di previsioni collettive, la pausa non potrà essere di
durata inferiore di 10 minuti. Per quanto attiene, invece, al riposo giornaliero il lavoratore
ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore , da fruire in modo consecutivo,
salvo il caso di attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata;
questa norma implicitamente consente, di determinare una durata massima assoluta di
13 ore per il lavoro giornaliero. La disciplina delle pause e del riposo giornaliero, in generale
può essere derogata da contratti o accordi conclusi tra le organizzazioni sindacali nazionali
comparativamente più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro
firmatarie di contratti nazionali di lavoro, ovvero da contratti o accordi di secondo livello.
Alle pause ed al riposo giornaliero si aggiungono le pause settimanali costituite dal riposo
settimanale, il cui diritto è espressamente garantito come diritto irrinunciabile. Il diritto
del lavoratore, ogni 7 gg, ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola
coincidenti con la domenica. Sono sottratte a questa disciplina alcune ipotesi previste dalla
legge (lavori a turni, attività caratterizzate da periodi frazionate durante la giornata). Resta
da considerare il periodo di riposo annuale, rappresentato dalle ferie, anche esse
riconosciute come diritto irrinunciabile. Il periodo di ferie del lavoratore deve essere
retribuito in misura normale come tempo lavorato e deve essere goduto nell’arco di un
periodo di tempo continuativo. All’imprenditore viene riconosciuto il potere di fissare il
tempo di fruizione delle ferie con l’onere di darne preventiva comunicazione agli
interessati e tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di
lavoro. Il periodo annuale di ferie è di 4 settimane. Alla luce della rilevanza costituzionale
del diritto al riposo annuale, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità dell’art
2109 c.c. nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale
ne sospenda il decorso, fisando in questo modo un principio che deve ritenersi tuttora
vincolante.
CAP. 5 – LA RETRIBUZIONE
SEZ.A: L’obbligazione retributiva. La retribuzione minima sufficiente
1. L’obbligazione retributiva. La c.d. busta paga.
l’applicazione delle clausole retributive del contratto collettivo. Egli invece, in virtù
dell’applicazione della norma costituzionale, può domandare al giudice che il datore di
lavoro venga condannato al pagamento della differenza tra la retribuzione percepita
inferiore ai minimi del contratto collettivo e quella stabilita da quest’ultimo. Secondo la
Corte di Cassazione, sarebbe in contrasto con la norma costituzionale una determinazione
della retribuzione in misura inferiore ai minimi contrattuali nazionali col solo richiamo a
condizioni ambientali e territoriali; ma la stessa Corte reputa legittime le riduzioni rispetto
allo standard nazionale di categoria per determinate regioni o zone economicamente
depresse. Spetta quindi al giudice il controllo sui parametri di proporzionalità e sufficienza
della retribuzione.
L’art.2099 dice che ci sono due sistemi principali di retribuzione: quella a tempo e quella
a cottimo; la norma richiama inoltre alcuni sistemi secondari come la partecipazione agli
utili o ai prodotti e la provvigione. La determinazione della retribuzione è affidata ai
contratti collettivi o agli accordi individuali se questi sono più favorevoli al prestatore,
sempre nell’osservanza dell’art.36Cost. È a tempo (o ad economia) la retribuzione
commisurata al tempo della prestazione del lavoro; invece il cottimo considera il risultato
del lavoro come criterio per la determinazione quantitativa della prestazione. Altro sistema
è quello della partecipazione agli utili, per cui il prestatore viene retribuito in tutto o in
parte con una percentuale sugli utili conseguiti dall’imprenditore nell’esercizio della sua
attività. Analogo è il sistema della partecipazione ai prodotti dell’impresa che ha come
parametro di riferimento, non gli utili, ma la produzione aziendale. Evidente è lo svantaggio
che queste ultime forme di retribuzione arrecano al prestatore di lavoro, sul quale viene
addossato il rischio della produzione, oppure della stessa redditività dell’impresa. Per
questo motivo la giurisprudenza ritiene che al lavoratore retribuito in tutto o in parte
mediante partecipazione agli utili o ai prodotti spetti in ogni caso una retribuzione
sufficiente. In ultimo, la provvigione è una particolare forma di partecipazione ai prodotti
usata nel settore commerciale e degli affari: in questi casi la retribuzione è calcolata in
percentuale rispetto al volume di affari procurato all’imprenditore, come accade per agenti
e rappresentanti di commercio.
7. La retribuzione a tempo.
Storicamente, la retribuzione a cottimo è stata la forma tipica della retribuzione del lavoro
autonomo. Nella fase di transizione dall’industria artigiana e domestica all’industria
manifatturiera, il cottimo si identifica con il compenso, commisurato al risultato, della
locazione d’opera. Successivamente la forma del cottimo viene utilizzata anche nel lavoro
subordinato non più per determinare il contenuto della prestazione lavorativa, ma per
misurare la retribuzione in proporzione ad un risultato predeterminato. Nel cottimo il
rischio della produttività del lavoro resta a carico del datore per ciò che riguarda
l’organizzazione del lavoro e il risultato della prestazione nel suo complesso; mentre viene
parzialmente trasferito a carico del prestatore per ciò che riguarda la quantità della
retribuzione. In realtà nella struttura della retribuzione il cottimo si configura come una
maggiorazione (percentuale o utile di cottimo) integrativa della retribuzione fissa (o minimo
di paga base calcolato a tempo); mentre la retribuzione a cottimo integrale o puro è di fatto
limitata al lavoro a domicilio. Secondo l’art.2100 il prestatore deve essere necessariamente
retribuito a cottimo tutte le volte che: in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è
vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo (catena di montaggio); oppure
nelle lavorazioni ad economia di tempo in cui la valutazione della sua prestazione sia fatta
in base alle misurazioni dei tempi di lavorazione. L’art.2101 disciplina l’intervento del
sindacato nella formazione delle tariffe di cottimo, disponendo che i contratti collettivi
possono stabilire che le tariffe non divengano definitive se non dopo un periodo di
esperimento e che possono essere sostituite soltanto se intervengono mutamenti nelle
condizioni di lavoro e in ragione degli stessi. Alla fase c.d. sindacale della determinazione
preventiva e astratta delle tariffe di cottimo nei contratti collettivi di categoria segue la fase
c.d. aziendale dell’applicazione delle tariffe ai fini della determinazione del concreto
sistema di retribuzione a cottimo, e cioè del rapporto tra guadagno o utile di cottimo e
tempi o quantità di produzione (c.d. curva di cottimo). Infine, l’imprenditore ha l’obbligo di
comunicare preventivamente ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi
della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire e il relativo compenso unitario (bolla di
cottimo). L’intervento sindacale è circoscritto alla fissazione dei criteri per la formazione
delle tariffe di cottimo. Tuttavia la contrattazione collettiva ha progressivamente superato
la distinzione tra fase sindacale e fase aziendale, intervenendo su quest ultima per
regolamentare non solo la retribuzione ma anche la prestazione del lavoratore cottimista.
Si può sostenere che, in realtà, l’effettiva funzione del cottimo sia quella di adeguare la
retribuzione al modo di organizzare la prestazione lavorativa e che sarebbe più realistico
parlare di sistemi di organizzazione del lavoro a cottimo, anziché di sistemi di
retribuzione a cottimo.
Non tutto ciò che il datore eroga al lavoratore fa parte della retribuzione: per l’art.2094
requisito indefettibile della nozione di retribuzione in senso stretto è l’obbligatorietà
dell’attribuzione mentre la continuità della corresponsione e la predeterminatezza
dell’ammontare fungono da indici presuntivi di tale obbligatorietà, distinguendola da tutte
le altre prestazioni che presentano i caratteri della straordinarietà e dell’eventualità nella
corresponsione e nell’ammontare. In giurisprudenza, perché si abbia retribuzione occorre
che la prestazione sia dovuta al lavoratore in via necessaria e non eventuale, come
compenso di una specifica attività di lavoro ordinario o straordinario. Nella definizione
legislativa della retribuzione vige il principio di onnicomprensività della retribuzione, per il
quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della
prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere
continuativo, periodico o costante nel tempo. L’art.2120 ha previsto espressamente la
derogabilità della regola di onnicomprensività da parte dei contratti collettivi, evidenziando
la prevalenza dell’autonomia collettiva e il ruolo sussidiario della disciplina legale per ciò
che concerne la composizione e il livello della retribuzione. Non esiste nell’ordinamento un
principio o regola legale di c.d. onnicomprensività ai fini della determinazione dei diversi
elementi che compongono la retribuzione nonché dei rispettivi criteri di calcolo. Questo
vale in particolare per la definizione della retribuzione base o parametro utile ai fini del
calcolo delle diverse voci che compongono la retribuzione c.d. globale. La stessa definizione
contrattuale di retribuzione è variabile a seconda dei singoli istituti retributivi o dei diversi
contratti di categoria.
Al contratto di lavoro si applicano le norme generali sui cd. rimedi sinallagmatici mediante
i quali viene tutelato l’interesse di ciascun contraente al puntuale e reciproco adempimento
delle rispettive promesse e prestazioni: tra queste, la risoluzione per inadempimento, per
impossibilità sopravvenuta, per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’art.1460 ammette
inoltre l’eccezione di inadempimento, di conseguenza si può arrivare alla sospensione delle
rispettive obbligazioni quando il prestatore di lavoro da un lato o il datore dall’altro, avendo
ragione di temere che la controprestazione non sarà adempiuta, ritengano di invocare
l’eccezione di inadempimento, interrompendo automaticamente l’esecuzione del contratto.
Ciò vale non solo nell’ipotesi di inadempimento imputabile ma anche nell’ipotesi di
impossibilità oggettiva sopravvenuta nonché in quella di eccessiva onerosità sopravvenuta:
tuttavia quest’ultima ipotesi deve ritenersi in concreto assolutamente eccezionale. In realtà
nel rapporto di lavoro si verificano normalmente impedimenti temporanei tali da
sospendere anziché estinguere l’obbligazione. Tuttavia, nel lavoro subordinato come negli
altri contratti di durata, la necessaria irrecuperabilità della prestazione impedita e la
conseguente impossibilità dell’adempimento tardivo, comportano che l’impossibilità
sopravvenuta sia da ritenere definitiva. Così, all’ordinario effetto della risoluzione del
contratto si accompagna necessariamente la liberazione di entrambe le parti dalle
rispettive obbligazioni. Invero, nel rapporto di lavoro, per quanto verificabili nella pratica,
i casi di impossibilità sopravvenuta solo marginalmente danno luogo alle normali
conseguenze della risoluzione del contratto. Questa è infatti operativa per il futuro in
ragione dell’irrepetibilità delle prestazioni rese e viene surrogata dalle vicende della
sospensione del rapporto oppure del recesso unilaterale del contratto.
Nella pratica le ipotesi più rilevanti di impossibilità della prestazione sono la malattia,
l’infortunio, la gravidanza, il puerperio. Esse sono contemplate dall’art. 2110 c.c. che
dispone la giustificazione dell’assenza del lavoratore e conservazione della obbligazione
retributiva. Lo stesso art. 2110 c.c. prevede, per altro, che il datore di lavoro sia esonerato
da quest’ultima obbligazione allorché la legge o i contratti collettivi stabiliscano forme
equivalenti di previdenza o assistenza. Prima dell’entrata in vigore della riforma sanitaria
per i lavoratori privati tale assicurazione era gestita dall’INAM (l’ente previdenziale che
provvedeva sia all’assistenza sanitaria sia all’erogazione agli operai di una indennità
giornaliera pari alla retribuzione ossia l’indennità di malattia). A seguito della riforma
sanitaria l’assistenza medica è stata generalizzata ed affidata al servizio sanitario
nazionale, mentre l’indennità è corrisposta dall’INPS. Il bilanciamento tra questi interessi
contrapposti è la razio dell’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori, che ha inteso escludere gli
accertamenti sanitari da parte di medici fiduciari del datore di lavoro. L’interesse al
controllo dell’infermità del lavoratore, coinvolge ance l’ente previdenziale, che si
Altre cause di sospensione della prestazione per impossibilità temporanea del lavoratore
sono riconducibili all’adempimento dei doveri costituzionali relativi alle funzioni pubbliche
elettive e al servizio militare obbligatorio. I cittadini chiamati a ricoprire cariche pubbliche
elettive hanno diritto di disporre del tempo necessario per l’espletamento del mandato,
fruendo di aspettative e permessi e conservando il posto di lavoro. Analoga previsione è
dettata per i lavoratori che rivestono funzioni di amministratori degli enti locali, i quali
possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutti il periodo di
espletamento del mandato. Il diritto all’aspettativa è previsto dallo statuto dei lavoratori
anche in favore dei lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali nazionali o
provinciali. Inoltre permessi, in parte retribuiti sono concessi ai dipendenti delle
rappresentanze sindacali aziendali. Questa tutela è estesa ai rappresentanti dei lavoratori
che facciano parte del Comitato Aziendale Europeo o operino nell’ambito della procedura
di informazione e consultazione, ovvero di quelli che esercitano la loro attività sindacale
nell’ambito di società per azioni europee. I permessi sono previsti anche in favore dei
lavoratori impegnati nelle operazioni elettorali. Al servizio militare, regolato dall’art.2111 e
dalle leggi speciali, è stato successivamente equiparato il volontariato civile nei paesi in via
di sviluppo e il servizio civile compiuto dagli obiettori di coscienza in sostituzione del
servizio militare. Lo stato di tossicodipendenza accertato secondo le modalità previste
attribuisce al lavoratore che intenda accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione
presso i servizi sanitari delle Asl o altre strutture equipollenti, il diritto ad un periodo, non
retribuito e senza decorrenza dell’anzianità, alla conservazione del posto di lavoro per la
durata del trattamento e comunque non superiore a 3 anni. Infine, ai lavoratori sono
riconosciuti 3giorni all’anno di permesso retribuito in occasione di eventi particolari
connessi alla vita familiare ed è loro attribuito il diritto a permessi per la formazione
continua. Il legislatore ha di recente, delegato il governo ad intervenire in materia congedi,
aspettative e permessi con riferimento ai dipendenti pubblici e privati, coordinando e
modificando la relativa normativa. La delega si estende anche alla razionalizzazione e
semplificazione dei documenti da presentare, con riferimento alle persone con handicap in
situazioni di gravità o affette da patologie oncologiche o neuro-degenerative.
In seguito alla sentenza n.29 della Corte costituzionale che nel 1960 ha riconosciuto
l’illiceità civile della serrata, in dottrina e in giurisprudenza si è affermata la sua
qualificazione giuridica in termini di mora del creditore, in quanto la fattispecie concreta
può essere accostata al rifiuto di accettare la prestazione da parte del creditore di lavoro.
L’art. 1217 nel disciplinare la mora credendi nelle obbligazioni di fare, dispone che se la
prestazione consiste in un fare, il creditore è costituito in mora mediante l’intimazione di
ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla
possibile. Nel rapporto di lavoro questa attività di cooperazione consiste nella
predisposizione del c.d. substrato reale della prestazione e più precisamente dei mezzi
necessari alla sua esecuzione, quindi locali, macchinari e strumenti di lavoro, energie e
materie prime. Per aversi costituzione in mora però la mancata cooperazione deve essere
ingiustificata, senza motivo legittimo: soltanto in questo caso il datore di lavoro non è
liberato dall’obbligo corrispettivo della retribuzione; se viceversa il rifiuto ha un motivo
legittimo (ad esempio, la prestazione offerta dal lavoratore è difforme da quella dovuta) la
mora creditoria è esclusa e la prestazione diviene impossibile, con conseguente perdita del
diritto alla retribuzione. L’art. 1207 precisa gli effetti della mora ponendo a carico del
creditore: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e il risarcimento dei danni
derivanti dal ritardo nell’adempimento, nonché le spese che ne conseguono. L’obbligo
risarcitorio è limitato all’eventuale pregiudizio subito dal lavoratore per la mancata
esecuzione della prestazione lavorativa. Invece, il trasferimento del rischio
dell’impossibilità fortuita comporta il diritto del prestatore alla conservazione della
retribuzione per tutta la durata della mora accipiendi del datore di lavoro. Va precisato,
infine ì, che dalla mora credendi si distingue l’ipotesi in cui il datore di lavoro tenga il
prestatore a disposizione senza utilizzarne l’attività, ma corrispondendo regolarmente la
retribuzione. Poiché il prestatore ha l’obbligo e non il diritto di eseguire la prestazione, la
sua inattività retributiva deve essere considerata una forma di adempimento sia pure
anomala e non già inadempimento dell’obbligazione di lavoro.
La tutela differenziata che l’art. 37 Cost. riconosce al lavoro delle donne e dei minori va
ricollegata alla loro specifica condizione di inferiorità socio-economica nonché all’esigenza
di una particolare attenzione all’integrità psico-fisica dei minori e a particolari occasioni
della vita delle donne. L’art. 37 ha anche introdotto il principio della tutela paritaria, mirata
a garantire ai minori e alle donne la parità di trattamento rispetto ai lavoratori adulti di
sesso maschile. È compito della legge ordinaria fissare il limite di età minima per il lavoro
dipendente mentre la legislazione speciale provvede alla tutela della salute e dello sviluppo
fisico e morale dei lavoratori più giovani; alla donna devono invece essere garantite la
condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e
alla protezione della maternità; è riconosciuta inoltre alla donna lavoratrice parità di diritti
e in particolare il diritto ad una eguale retribuzione a parità di lavoro rispetto agli uomini.
Lo stesso diritto è riconosciuto anche ai minori rispetto ai lavoratori maggiorenni. Al
principio della parità retributivo e a quello più ampio della parità di diritti della donna e
del minore corrisponde un diritto soggettivo alla parità di trattamento verso il datore di
lavoro, obbligato alla non discriminazione per età e per sesso.
2. Il lavoro minorile.
La legge (L. 977/67) fissa l’età minima di ammissione al lavoro con riferimento al momento
in cui il minore concluda il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non prima dei
16 anni. Fermi restando questi limiti, la tutela dei minori è incentrata poi sull’imposizione
di limiti in materia di orario di lavoro, sul divieto di lavoro notturno, sull’obbligo di riposi
intermedi e settimanali, di ferie annuali, e sulla predisposizione di un robusto apparato di
sanzioni penali e amministrative. Il principio generale è dunque che i bambini (minori che
non hanno compiuto i 15 anni) non possono essere adibiti al lavoro, ma sono tuttavia
previste delle eccezioni che riguardano attività lavorative di carattere culturale, artistico,
sportivo o pubblicitario; per contro, esistono lavori cui è vietato adibire anche gli
adolescenti. La costituzione di un rapporto di lavoro con soggetti di età inferiore a quella
minima prevista nella L. 977 costituisce ipotesi di illiceità dell’oggetto del contratto per
contrarietà alla norma imperativa che sancisce il divieto: la violazione è sanzionata per
mezzo della nullità del contratto.
La L.903/1977 (il cui contenuto è ora trasposto nel D.Lgs 198/2006) impone un deciso
rafforzamento della tutela paritaria della donna, innanzitutto con riguardo alla
retribuzione ed estendendola poi in funzione della realizzazione della parità di diritti al
complessivo trattamento della lavoratrice sia nell’accesso al lavoro sia nello svolgimento e
nell’estinzione del rapporto; e a tal fine la legge dispone il divieto di ogni discriminazione
nonché la nullità degli atti conseguenti (ultimo comma art. 15 Statuto). Sono tuttavia
previste alcune deroghe tassative: da un lato per le mansioni particolarmente pesanti
individuate dalla contrattazione collettiva; dall’altra per quelle attività della moda, dell’arte
e dello spettacolo, nelle quali l’individuazione del sesso costituisca requisito essenziale
della prestazione. La norma impone inoltre che i sistemi di classificazione professionale
adottino criteri comuni per uomini e donne e vieta la discriminazione nell’attribuzione delle
mansioni e delle qualifiche e nella progressione di carriera. La L.903 persegue poi l’obiettivo
della parità di trattamento ai fini previdenziali per ciò che concerne assegni familiari e
pensione di reversibilità. Per quanto concerne l’accesso alla pensione di vecchiaia il
legislatore ha imposto una parificazione tra lavoratori e lavoratrici. Tale parificazione si
concretizza nel progressivo innalzamento del dell’età pensionabile iniziato per le dipendenti
pubbliche dal 2009 ed esteso a tutte le lavoratrici dalla riforma Monti-Fornero del 2011.
Le continue critiche hanno indotto il legislatore a creare delle finestre di uscita anticipata
dal lavoro solo per le donne (c.d. opzione donna), comportanti però delle penalizzazioni in
termini di calcolo. Ciò è previsto per tutte quello donne che svolgono la fondamentale
funzione di cura dei figli o di anziani.
La legge vieta infine l’adibizione della lavoratrice madre al lavoro notturno dal momento
dell’accertamento dello stato di gravidanza e fino al compimento di un anno di età del
bambino; vige anche la non obbligatorietà del lavoro notturno per la lavoratrice madre di
un figlio di età inferiore a 3anni e per la lavoratrice o lavoratore che sia l’unico genitore
affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12anni. Una particolare misura di
sostegno a tutela delle sole donne, invece, è stata introdotta con l’art 24 d.lgs. 80/2015
che ha previsto il congedo per le donne vittima della violenza di genere e inserite in
particolari percorsi di protezione certificati. Alla ratio della migliore diffusione della
conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro risponde il d.lgs. 80/2015, in tema
telelavoro, che consente ai datori di lavoro che vi facciano ricorso per motivi legati ad
esigenze di conciliazione, di escludere i lavoratori ammessi al telelavoro dal computo dei
limiti numerici per l’applicazione di particolari istituti e normative.
Un particolare rafforzamento della tutela paritaria della donna nel lavoro si è avuto con la
L.125/1991 intervenuta ad integrare la L.903 al fine di promuovere l’attuazione di azioni
positive e di misure tese alla rimozione degli ostacoli che si frappongono all’accesso della
donna al mercato del lavoro. I programmi rivolti alle donne sono indirizzati soprattutto al
miglioramento della formazione professionale e scolastica e a favorire il riequilibrio delle
responsabilità familiari e professionali tra i sessi. Al fine di assicurare l’effettività dell’intera
disciplina è stato istituito presso il Ministero del Lavoro il Comitato Nazionale per
l’attuazione dei principi di parità di trattamento. Alcune decisioni della Corte di Giustizia
pur non riguardando direttamente l’Italia, hanno sollevato il problema relativo alla
legittimità di azioni positive che facciano prevalere le donne rispetto agli uomini, nel caso
in cui le stesse facciano possesso di pari requisiti professionali. In un primo momento la
Corte di Giustizia intervenendo su una legge di un Land tedesco che introduceva un simile
meccanismo, ha ritenuto tale normativa in contrasto con il principio di parità di
trattamento sul lavoro tra uomini e donne. Successivamente la medesima corte,
pronunciandosi su una legge di un altro Land tedesco che prevedeva lo stesso meccanismo
ha parzialmente rivisto le sue posizioni, giungendo a sostenere la legittimità di norme
nazionali che, in caso di pari qualificazione di candidati di sesso diverso, obblighino a dare
la precedenza alle candidate nei settori di attività in cui, al livello preso in considerazione,
le donne siano meno numerose degli uomini.
Il rapporto di lavoro ha un termine nel tempo, viene cioè a cessare: l’effetto estintivo è
riconducibile alla volontà di uno (recesso unilaterale, dimissioni o licenziamento) o di
entrambi (risoluzione consensuale). I rapporti obbligatori possono risolversi per
impossibilità sopravvenuta della prestazione, definitiva o temporanea, ma comunque
talmente prolungata nel tempo da poterla assimilare alla definitiva con riguardo
all’interesse delle parti. Per quanto interessa il contratto di lavoro, la prestazione della
retribuzione non può mai essere impossibile in quanto obbligazione pecuniaria; d’altro
canto la prestazione di lavoro è elastica e a contenuto da determinare. Il caso di perimento
di uno stabilimento in seguito ad alluvione potrebbe costituire una mera difficultas nel
ricevere la prestazione potendo il lavoratore essere sempre adibito ad altro stabilimento;
ugualmente, l’inidoneità fisica o professionale del lavoratore a certe mansioni non
costituisce impossibilità di adempiere all’obbligazione di lavoro, perché il lavoratore
potrebbe essere adibito a mansioni diverse cui sia idoneo. Invero in questi casi può non
essere opportuno o economicamente conveniente proseguire nel rapporto; ma allora alla
tutela di questo interesse sarà più funzionale lo strumento del recesso volontario che non
quello della risoluzione automatica ope legis. Per quanto riguarda l’impossibilità (non
esclusa ma drasticamente ridimensionata nel rapporto di lavoro) si deve distinguere
comunque tra eventi concernenti l’impresa ed eventi concernenti la persona del lavoratore.
Il Codice Civile prevede il principio della libera recedibilità (ad nutum) di entrambe le parti
con il preavviso. L’art. 2118 prevede, infatti, che ciascuno dei contraenti può recedere dal
contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’obbligo di dare preavviso nella misura
stabilita dalla contrattazione collettiva. In caso contrario, il recedente è tenuto a
corrispondere l’indennità di mancato preavviso, pari all’importo delle retribuzioni che
sarebbero spettate per il periodo di preavviso. Una questione che divide la dottrina è quella
della natura reale o obbligatoria del preavviso. Questo può essere considerato quale
periodo di sospensione dell’efficacia del negozio di recesso, o viceversa, il recesso, ancorché
con preavviso, può essere ritenuto immediatamente efficace, configurandosi l’obbligazione
del pagamento della relativa indennità come alternativa rispetto all’obbligazione di dare il
preavviso c.d. lavorato. Appare più coerente con la ratio della norma la prima soluzione.
Accanto al recesso ordinario con preavviso, il c.c. prevede che il recesso di entrambi i
contraenti dal contratto di lavoro possa essere immediato (straordinario o senza preavviso)
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del
rapporto (c.d. recesso per giusta causa). La Cassazione ha precisato che non si è in
presenza di due differenti negozi di recesso, “uno semplice e l’altro per giusta causa”, bensì
di un unico tipo di negozio, rispetto al quale la giusta causa costituisce solo un
presupposto che esonera dal preavviso. Ciò significa che, qualora si accerti che una giusta
causa non sussista, fermo restando la validità del recesso intimato, il recedente dovrà
rispondere per il mancato preavviso. Inoltre l’art. 2119 c.1 c.c., stabilisce che, in caso di
dimissioni per giusta causa, al lavoratore spetta l’indennità di mancato preavviso.
La necessità di accertare che le dimissioni presentate dal lavoratore siano frutta di una
sua libera volontà ha indotto il legislatore ad introdurre una speciale procedura. Il primo
intervento si colloca nell’ambito della disciplina a tutela della maternità e paternità;
durante il periodo di gravidanza ed entro tre anni di vita del bambino le dimissioni sono
nulle se non vengono convalidate dalla lavoratrice o lavoratore presso il servizio ispettivo
del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. La l. n. 92/2012
ha regolato nuovamente la materia, introducendo una storia di diritto di ripensamento
esteso a tutte le ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Ma la procedura
indicata era troppo complicata e così il legislatore ha effettuato un nuovo intervento con il
quale le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono avvenire a
pena di inefficacia esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli forniti dal
Ministero e trasmessi poi dal datore di lavoro. Questa procedura non trova applicazione se
le dimissioni intervengano nelle sedi protette.
Il potere unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro non conosce altri limiti che il
preavviso. In risposta alle istanze di protezione, il potere di recesso del datore di lavoro
(licenziamento) è stato oggetto di vari interventi legislativi. Questi hanno introdotto a carico
del datore un generale obbligo di giustificazione del recesso, a garanzia del quale, è stata
predisposta a favore del lavoratore una tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) o
solo obbligatorio (pagamento di indennità).
L’art. 18 St. Lav, ha segnato un salto di qualità dal punto di vista della effettività della
tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo grazie alla previsione della sanzione
della reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno (c.d. tutela del
danno reale). Il suo campo di applicazione era limitato alle unità produttive con più di 15
dipendenti.
La linea di tendenza alla riduzione della protezione del lavoratore difronte al licenziamento
illegittimo si è accentuata con il d.lgs. 23/2015 emanato dal Governo in attuazione di una
complessa delega- contenuta nella l. 183/2014 che persegue l’ambizioso obiettivo di
riformare gran parte della disciplina del diritto del lavoro (c.d. jobs act) e pervenire ad un
nuovo equilibrio fra esigenze di flessibilità dell’impresa e tutela del prestatore di lavoro. Il
citato decreto ha modificato in profondità il regime sanzionatorio del licenziamento
illegittimo, riducendo ulteriormente l’area della reintegrazione ed elevando a regola
generale il principio della compensazione monetaria in luogo dell’esecuzione in forma
specifica, mediante la previsione di un’indennità predeterminata dalla legge in misura
crescente in relazione agli anni di servizio del lavoratore. Questa nuova disciplina riguarda
tutti i datori di lavoro, pur mantenendo i profili sanzionatori differenziati in relazione ai
requisiti dimensionali del personale occupato, e ricomprende anche i licenziamenti
collettivi. Ma trova applicazione esclusivamente nei confronti dei lavoratori assunti con
contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dall’entrata in vigore del decreto
legislativo del 7 marzo 2015, mentre per quelli in servizio prima di tale data continua ad
applicarsi il novellato art 18 St. Lav e la l. 604/1966 sussistono pertanto regimi differenti,
uno ad esaurimento (che al momento riguarda la maggior parte dei lavoratori) e altro
definitivo, individuati sulla base di una circostanza temporale.
Il c.c. ha previsto dei periodi di limitazione temporale della facoltà di recesso del datore di
lavoro durante i quali è escluso il licenziamento ad nutum e consentito solo quello per
giusta causa (art.2110): ciò accade nei casi in cui il prestatore, essendo nell’impossibilità
Il primo limite imposto al potere di recesso del datore di lavoro è di carattere sostanziale:
infatti in base all’art. 1 L. 604/1966 affinché il licenziamento sia legittimo, deve
necessariamente ricorrere una giusta causa o un giustificato motivo, che hanno la funzione
di legittimare il recesso del datore. Le conseguenze che la legge ricollega all’illegittimità del
licenziamento per mancanza dei requisiti causali non sono sempre le stesse: occorre infatti
distinguere a seconda che al caso concreto sia applicabile la tutela reale prevista dall’art.18
dello Statuto dei lavoratori oppure la tutela obbligatoria prevista dall’art.8 della
L.604/1966. Nel primo caso la legge prevede l’annullabilità del licenziamento intimato in
assenza di giustificazione, mentre nel secondo caso il licenziamento privo di giusta causa
o di giustificato motivo, ancorché illegittimo, non è dalla legge qualificato come annullabile
ma soltanto illecito e pertanto espone ugualmente il datore di lavoro a conseguenze
sanzionatorie, ma non impedisce che si produca l’effetto estintivo del rapporto.
L.604/1966 contiene una puntuale definizione del giustificato motivo distinguendo tra
un giustificato motivo soggettivo o subiettivo ed uno obbiettivo o oggettivo.
Il secondo tipo di giustificato motivo (quello obbiettivo) si realizza quando vi siano “ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazioni del lavoro e al regolare funzionamento di
esso”. In tal caso l’ordinamento fa prevalere sulla tutela del lavoratore che abbia
correttamente adempiuto alla prestazione le esigenze tecniche ed economiche della
organizzazione produttiva quelle effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato
svolgimento dell’attività produttiva. Un contrasto notevole si è presentato in dottrina e in
giurisprudenza tra l’opinione rimasta minoritaria che richiedeva al giudice un controllo di
merito sulla necessità del licenziamento e sulla razionalità delle scelte organizzative e
produttive dell’imprenditore e l’interpretazione da tempo dominante in giurisprudenza,
secondo cui il giudice deve limitarsi a verificare la sussistenza del motivo addotto
dall’imprenditore, nonché l’esistenza o meno del nesso causale tra le scelte
organizzative dell’imprenditore e il provvedimento di licenziamento. Il controllo
giudiziale è limitato esclusivamente, all’accertamento del presupposto di legittimità
e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro. La giurisprudenza ormai
consolidata ritiene che possa essere ravvisato il giustificato motivo oggettivo solo quando
il licenziamento sia senza alternative per il datore di lavoro. Ancora la giurisprudenza ha
ricondotto al giustificato motivo oggettivo ipotesi collegate alle esigenze dell’impresa
riconducibili a modificazione nell’attività e nella organizzazione produttiva, ma anche
collegate alla persona del lavoratore: tra queste in particolare la carcerazione preventiva
del lavoratore. Un’altra ipotesi di origine giurisprudenziale, talora regolata anche dalla
contrattazione collettiva, è quella della sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle
mansioni svolte. Va segnalata anzitutto la disposizione introdotta dal testo unico in
materia di sicurezza del lavoro secondo cui, in caso di sopravvenuta inidoneità del
lavoratore alle mansioni specifiche accertate dal medico competente, il datore di
lavoro deve adibire, ove possibile, il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il
suo stato di salute. La norma precisa che al lavoratore in tali casi possono essere
assegnate mansioni equivalenti e inferiori (con diritto a conservare la retribuzione in
godimento). La giurisprudenza ha chiarito che diversa dall’inidoneità alle mansioni per
cause fisiche è l’ipotesi del superamento del periodo di conservazione del posto (c.d.
periodo di comporto in caso di malattia che legittima il licenziamento del lavoratore a causa
del perdurare dell’impossibilità temporanea ad effettuare la prestazione. In detta ipotesi i
giudici non ritenevano ravvisabile un’autonoma e speciale causa di risoluzione giustificata
dall’impossibilità oggettiva della prestazione di lavoro (e dunque non confondibile con il
tradizionale licenziamento ad nutum) peraltro: la risoluzione non è prevista in via
automatica ma è subordinata al recesso volontario con preavviso che può essere intimato
dal datore.
L’art.2119 definisce la giusta causa come quella che non consente la prosecuzione anche
provvisoria del rapporto di lavoro, precisando peraltro che il fallimento o la liquidazione
coatta amministrativa dell’azienda non ne integrano gli estremi. La definizione molto
generica di giusta causa ha dato luogo a non pochi contrasti. Prima della L.604/66
l’opinione prevalente era che la giusta causa fosse da identificare con ogni fatto capace di
giustificare la risoluzione senza preavviso del contratto e che quindi potesse consistere non
solo in un inadempimento ma anche in ogni altro accadimento (perfino esterno al rapporto
di lavoro) che fosse obiettivamente idoneo, indipendentemente dalla colpa del lavoratore,
a menomare il rapporto di fiducia personale che si riteneva dovesse essere connotato
essenziale del rapporto di lavoro. Dopo la L.604 si è invece ritenuto che la definizione di
giusta causa dovesse essere posta in relazione con la nuova nozione di giustificato motivo
soggettivo, incentrata sul concetto di notevole inadempimento, dal quale la giusta causa si
differenzierebbe solo per la particolare e maggiore gravità. In genere i contratti collettivi
contengono comunque la previsione dei fatti che legittimano il licenziamento senza
preavviso (es. il danneggiamento volontario di impianti e materiali; la rissa nei luoghi di
lavoro, il furto, le ingiurie, la grave insubordinazione). Tali esemplificazioni sono
ovviamente vincolanti per il giudice, di conseguenza questi ha il potere sia di ravvisare una
giusta causa di licenziamento in mancanze non esplicitamente previste dal contratto
collettivo, sia di verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale
di giusta causa.
Oltre ai limiti sostanziali, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti
procedurali, attinenti alla forma del licenziamento, che deve essere comunicato al
lavoratore per iscritto, a norma della L.604 (art.2). Per quanto riguarda i motivi del
licenziamento, la norma nella sua versione originaria, non ne imponeva la comunicazione
contestuale, ma ove essa non fosse stata effettuata, il lavoratore poteva richiederli per
iscritto entro 15 giorni dalla comunicazione del recesso e l’imprenditore doveva farli
conoscere entro 7 giorni dalla richiesta. Tuttavia la nuova legge (L.92/2012) ha modificato
l’art.2 co. 2 della L.604/1966 introducendo l’onere della specificazione contestuale dei
motivi che hanno determinato il licenziamento. Una volta dichiarati i motivi, questi sono
immodificabili, e l’imprenditore non può in nessun caso addurre motivi diversi o ulteriori
rispetto a quelli originariamente dichiarati. Sul piano sanzionatorio delle ipotesi di
inosservanza delle forme di licenziamento la legge 604/1966 ne prevede testualmente
l’inefficacia, sia nel caso di carenza della forma scritta sia in mancanza dei motivi. Tale
espressione, deve essere riportata nell’ambito della nullità. Si è difronte un negozio di
licenziamento privo dei suoi effetti per difetto del suo requisito essenziale della forma
scritta. Questa disciplina della inefficacia-nullità resta in vigore nell’area della tutela
obbligatoria regolata dalla l 604/1966 mentre nell’area della tutela prevista dall’art 18 dello
Le legge Fornero ha infine disciplinato la revoca del licenziamento, che può essere
effettuata dal datore di lavoro entro 15 gg dalla comunicazione del recesso da parte del
lavoratore. La revoca comporta il ripristino del rapporto senza soluzione di continuità con
diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente, e, nei confronti del
datore di lavoro, l’inapplicabilità delle sanzioni per il licenziamento illegittimo.
Deve aggiungersi l’obbligo della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav. per le ipotesi di
licenziamento disciplinare, che ricomprendono tutti i casi di licenziamento per la
giusta causa e per giustificato motivo soggettivo. Dopo l’emanazione dello statuto dei
lavoratori si è posto in dottrina e giurisprudenza il problema del coordinamento
dell’esercizio del potere di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta
causa. L’inciso contenuto nel co. 4 dell’art. 7, secondo il quale <<fermo restando quanto
disposto dalla l. 604/1966 non possono essere disposte sanzioni disciplinari che
comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro>>. La Corte di Cassazione è
pervenuta ad applicare i vincoli a garanzia del lavoratore posti dall’art. 7 a tutti i
licenziamenti che hanno natura oggettivamente disciplinare.
La L.604 (art.5) dispone che la prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato
motivo del licenziamento spetta al datore di lavoro. L'impugnazione del licenziamento, da
parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua
comunicazione. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per
mezzo di una semplice comunicazione scritta, anche attraverso l'intervento del sindacato,
che sia idonea a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento.
All’impugnazione stragiudiziale deve seguire, a pena di inefficacia della stessa, il deposito
del ricorso nella cancelleria del tribunale. Il termine per il deposito di tale ricorso è stato
ridotto dalla L.92/2012 a 180 giorni (anziché 280 come in passato), i quali decorrono dalla
scadenza del termine per impugnare il licenziamento (60 gg) o dalla comunicazione alla
controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Il legislatore ha inoltre
esteso l’applicabilità di tale art. a tutti i casi di invalidità e inefficacia del licenziamento. Il
legislatore ha altresì esteso l’applicabilità dei termini di cui la l. n. 604/1966, <<ai
licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al
contratto di lavoro ai sensi degli articoli 1,2 e 4 del d. lgs. 368/2001. Ogni qual volta
si controverta della legittimità di un preteso licenziamento che richieda l’accertamento
della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti il lavoratore soggiace
Il quadro giuridico antecedente alla Legge Fornero prevedeva sostanzialmente due reggimi
di tutela contro il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo: da una
parte la disciplina della tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 l. n. 604/1966 che lascia
alla volontà del datore l’alternativa tra la riassunzione del lavoratore e il pagamento di una
penale, e dall’altra la tutela reale comportante l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare
il lavoratore nel posto di lavoro. Il discrimen tra le due tutele operava sulla base di una
distinzione fondamentale in ragione delle diverse dimensioni aziendali. La l. n. 92/2012,
ha modificato l’art. 18, prevedendo diverse sanzioni a seconda della gravità delle causali
del licenziamento. Cosicché mentre la tutela obbligatoria non ha subito alcuna variazione
la disciplina unitaria dell’art. 18, risulta ora scomposta in diverse e graduate sanzioni in
ragione delle specifiche giustificazioni del licenziamento. Dopo neanche un triennio
dell’entrata in vigore della l. n. 92/2012 il legislatore è nuovamente intervenuto con il d.
lgs. 23/2015 dettando una nuova disciplina sanzionatoria per il licenziamento illegittimo
che generalizza la tutela indennitaria marginalizzando ulteriormente l’istituto della
reintegrazione nel posto di lavoro. Questa nuova regolamentazione coesiste con quelle
precedenti in quanto trova applicazione soltanto per i lavoratori assunti dalla data del 7
marzo 2015.
La legge 92/2012 modifica l’art. 18 dello Stat dei Lav. Incidendo sulle tutele previste in
caso di licenziamento illegittimo. Attualmente le tutele previste sono 4:
Con l’espressione “inconsistenza del fatto contestato” emerge che il giudice sarebbe
vincolato da un canto alla mera verifica della sussistenza del fatto contestato e dall’altro
alle tipizzazioni contrattuali delle nozioni legali generali di giusta causa e giustificato
motivo. Assumono per fatto contestato debba intendersi il fatto materiale ed escludono
che il giudice possa applicare la reintegrazione in assenza di precise tipizzazioni. In questo
modo si giunge a negare la reintegrazione anche in presenza di fatti privi di rilevanza
giuridica o di inadempimento di lievissima entità. Il che condurrebbe a ritenere il testo
incostituzionale perché privo di ragionevolezza. Sembra pertanto preferibile la tesi che
individua nel fatto contestato il fatto giuridico e quindi lo qualifica come inadempimento
degli obblighi contrattuali, dunque nella sua duplice componente oggettiva e soggettiva. La
condotta del lavoratore deve essere valutata non solo sul piano della materialità del fatto
(azione od omissione) ma anche sul piano della sua idoneità a ledere l’interesse del datore
alla prestazione diligente e fedele. Resta aperto il problema se il giudice,
nell’individuare il tipo di tutela, possa altresì applicare l’art. 2106 c.c., secondo cui
la sanzione disciplinare del licenziamento deve essere valutata in ragione della
gravità dell’inadempimento e quindi, nel caso in cui ritenesse l’inadempimento non
così grave da giustificare il recesso del datore di lavoro, condannare questo alla
reintegrazione attenuta e non all’indennità risarcitoria in misura piena dichiarando
risolto il rapporto di lavoro.
c) che detta riduzione rende inutile il posto occupato dal lavoratore le cui mansioni
vengono eliminate o redistribuite tra i restanti addetti;
d) che non è economicamente possibile il ricollocamento del lavoratore in mansioni
equivalenti.
Passando all’esame della c.d. tutela obbligatoria, il suo campo di applicazione coincide
con l’area esclusa dalle tutele previste dall’art. 18 Stat. Lav. questa forma “minore” di tutela
è espressamente riferita alle sole ipotesi di illegittimità del licenziamento derivanti
dalla sua mancata giustificazione (carenza di giusta causa o giustificato motivo); la legge
prevede che il datore di lavoro, imprenditore o non, sia comunque obbligato a giustificare
il licenziamento, al tempo stesso, per altro, essa stabilisce che, in assenza di giustificazione
egli “è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro 3 gg o, in mancanza, a
risarcire il danno, versandogli un’indennità (c.d. penale). Tale indennità ha funzione
non soltanto risarcitoria del danno conseguente al licenziamento illegittimo ma anche
sanzionatoria dell’inadempimento dell’obbligazione principale della riassunzione e perciò
si tratta di un’obbligazione con facoltà alternativa a beneficio del datore. L’ammontare
può variare da un minimo di 2,5 fino al massimo di 6 mensilità, e può essere maggiorato
fino a 10 mensilità per il lavoratore con almeno 10 anni di esperienza e fino a 14 mensilità
per il lavoratore con anzianità superiore a 20 anni.
Nel 2015 viene emanato un decreto legislativo, il numero 23, contenente “disposizioni in
materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Con tale
La nuova disciplina ai sensi dell’art. 1 trova applicazione nei confronti dei lavoratori
appartenenti alle categorie degli operai, impiegati e quadri. Si prefigura un sistema binario
poiché resta inalterata la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro in corso di svolgimento.
Le disposizioni trovano applicazione anche nei confronti dei lavoratori già occupati presso
datori che, a seguito di assunzioni avvenute con la nuova disciplina, raggiungano le soglie
di cui all’art. 18 St. Lav., nonché nei casi di conversione successiva alla data di entrata in
vigore del decreto, di contratti a termine e di apprendistato in contratti a tempo
indeterminato tuttavia la legge delega limita la disciplina alle nuove assunzioni, e tali
possono essere considerati sia le conversioni di rapporti speciali preesistenti sia i rapporti
per i quali cambi il regime di tutela a seguito di variazioni dell’organico. L’art. 7 estende la
nuova disciplina all’ipotesi di cambio di appalto, in quanto stabilisce che al lavoratore che
passa dal 7 marzo 2015 alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto, il calcolo
dell’indennità dovuta per il licenziamento illegittimo deve ricomprendere tutto il periodo
durante il quale egli è stato impiegato nell’attività appaltata. Così intesa la disposizione
risulta di miglior favore per il lavoratore, giacché questi avrebbe riconosciuta l’intera
anzianità di servizio ai fini del calcolo dell’indennità di licenziamento. Infine, l’art. 9
superando un trattamento di favore da più parti denunciato, estende il campo di
applicazione della nuova disciplina “ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono
senza fine di lucro attività di natura politica, sindacali, culturale, di istruzione ovvero di
religione o di culto”. Deve ritenersi che la disposizione riguardi le nuove assunzioni poiché
in caso contrario anche qui verrebbe violato il criterio direttivo della delega sui destinatari
delle nuove regole in materia di licenziamento.
24. La gamma di tutele per i nuovi assunti. La tutela reintegratoria piena per il
licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale, e per disabilità del
lavoratore.
Anche il d. lgs. Jobs Act distingue tra le ipotesi di reintegrazione, piena e attenuata, e di
indennità risarcitoria, piena e ridotta. Viene confermata la reintegrazione nella misura
piena nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio, nonché in quelle riconducibili “agli altri
casi di nullità espressamente previsti dalla legge” e, “al licenziamento dichiarato inefficace
perché intimato in forma orale”. Si discute se il concetto di discriminazione possa
estendersi anche a fattispecie non tipizzate dall’art. 15 St. Lav. e se sia possibile
ricomprendere tra i casi di nullità anche il licenziamento posto in essere dal datore di
lavoro per fini ritorsi, che i giudici riconducono al motivo illecito. Qualora si aderisse alla
tesi che fa leva sul dato letterale piuttosto che su quello dell’identità del valore protetto
dall’ordinamento si dovrebbe comunque ritenere che, in assenza della tutela reintegratoria,
troverà applicazione per le fattispecie non previste la sanzione ordinaria della nullità
dell’atto del licenziamento. Inoltre il decreto assicura la reintegrazione piena anche quando
sussista “il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica
del lavoratore”. L’art. 18 St. Lav. usa il termine inidoneità al lavoro che è di più vasta
portata e sicuramente ricomprende la malattia e quindi il licenziamento per superamento
del comporto. Va sottolineato che il criterio di commisurazione dell’indennità dovuta dal
datore di lavoro per il periodo compreso tra il girono del licenziamento e quello dell’effettiva
reintegrazione non è calcolato sulla ultima retribuzione globale di fatto percepita dal
lavoratore, ma sulla “retribuzione di riferimento per il calcolo del trattenuto di fine
rapporto” che è individuata dall’art. 2120. Inoltre, l’art 2120 c.c. rimette la determinazione
della retribuzione parametro ai contratti collettivi i quali possono modificare il criterio
legale sia in meglio che in peggio.
La legge prevede che il giudice, quando accerti l’illegittimità del licenziamento per carenza
di giustificato motivo e di giusta causa, dichiari estinto il rapporto di lavoro alla data
del licenziamento e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non
assoggettata a contribuzione previdenziale e predeterminata in relazione
all’anzianità di servizio in un importa pari a due mensilità dell’ultima retribuzione
di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di
servizio. La norma, però, fissa un importo minimo pari a quattro mensilità di
retribuzioni e uno massimo di 24 mensilità, per cui al compimento del dodicesimo anno
di servizio l’indennità resta bloccata e, dunque, non sarà più crescente. Tale tutela
indennitaria riguarda tutte le ipotesi di giustificato motivo oggettivo, mentre la
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro conseguente all’annullamento del
licenziamento viene limitata ai casi di licenziamento per giustificato motivo
soggettivo o per giusta causa “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. Il legislatore ha, per tanto,
escluso radicalmente la reintegrazione quando il licenziamento sia determinato da ragioni
tecnico organizzative o produttive. Nel contempo ha ritenuto di superare i dubbi
interpretativi creati dall’art. 18, nel testo sostituito dalla riforma del 2012, precisando che
il fatto, deve essere inteso in senso materiale, e che, qualora ricorra tale presupposto,
“resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione”, tra il fatto posto in essere dal
lavoratore e il licenziamento. La materialità del fatto deve essere ricondotta ad un
inadempimento contrattuale imputabile al lavoratore. Perplessità, suscita la prescrizione
secondo cui l’insussistenza del fatto debba essere “direttamente dimostrata in giudizio”. In
primo luogo, secondo taluni, la prova dovrebbe essere offerta dal lavoratore il quale chiede
la reintegrazione. L’innovazione davvero rilevante sta nell’avere eliminato il riferimento
alle previsioni contenute nei codici disciplinari delle tipologie di inadempimenti e delle
relative sanzioni. Per quanto concerne gli effetti economici conseguenti alla reintegrazione
questi sostanzialmente coincidono con le previsioni contenute nell’art. 18, co. 5, St. Lav.
con due differenze: il criterio da utilizzare per la determinazione dell’indennità risarcitoria
per il periodo antecedente alla pronuncia della reintegrazione e quello, dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto; inoltre la liunde
Nelle ipotesi in cui trovi applicazione la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro,
l’esecuzione dell’ordine contenuta nella sentenza di condanna è affidata al datore di
lavoro. Rivolgendo al prestatore un apposito invito a riprendere il servizio. Con tale invito
il datore adempie all’obbligo di reintegrazione, mentre in sua assenza verserà in situazione
di mora credendi, il lavoratore, nonostante l’inattività avrà diritto alle retribuzioni. A fronte
di tale invito il lavoratore dovrà, a sua volta, ottemperare entro 30 giorni, decorsi i quali il
rapporto si intenderà risolto per dimissioni. La reintegrazione è un obbligo di fare che, in
quanto tale, è infungibile ed incoercibile. Secondo alcuni la condanna alla reintegrazione
è suscettibile di esecuzione in forma specifica almeno per gli aspetti che non si risolvono
in un facere infungibile del datore di lavoro. Il legislatore si è perciò mantenuto nell’ambito
di una tutela risarcitoria, utilizzando una forma di coazione indiretta quando non sia
possibile per volontà del datore l’esecuzione della prestazione e quindi la prosecuzione
materiale del rapporto, ne sia garantita la prosecuzione con vinculum iuris. Così, cioè,
quale sanzione sia del licenziamento ingiustificato sia dell’inottemperanza all’ordine di
reintegrazione, l’indennità ha natura plurifunzionale; per il periodo intercorso dal
licenziamento alla sentenza risarcitoria; per il periodo successivo, di pena privata o
dell’inadempimento dell’obbligazione reintegratoria. La legge impone in aggiunta
all’indennità, anche il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al
periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione. È prevista anche un’ulteriore
indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione. Il lavoratore reintegrato ha diritto di
optare per la risoluzione del rapporto obbligando il datore, in alternativa alla reintegrazione
al versamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto o della
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Il trattamento di fine rapporto consiste in una somma di denaro dovuta dal datore al
prestatore di lavoro in ogni caso di cessazione del rapporto. La L.297/1982 ha sostituito
all'indennità di anzianità, vecchio art. 2120 c.c. (consistente nella retribuzione che
maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto
dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato) il diverso
istituto del trattamento di fine rapporto (t.f.r.). Quest'ultimo, secondo la dottrina e la
giurisprudenza, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella
parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico
economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali
difficoltà economiche connesse a tale cessazione e consiste nella somma di quote di
retribuzione accantonate annualmente. Più precisamente la sua corresponsione è oggetto
di un’obbligazione che sorge per effetto della cessazione del rapporto, confermandosi così
la natura di retribuzione differita, già propria dell’indennità di anzianità.
Il nuovo art. 2120 c.c. riconosce al lavoratore il diritto ad un trattamento economico di fine
rapporto dovuto in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato e calcolato
in misura proporzionale all’anzianità di servizio. Il meccanismo di calcolo si fonda sulla
somma di quote di retribuzione accantonate annualmente. La quota da accantonare ogni
anno è pari all’importo della retribuzione annua diviso per 13,5. La misura così
determinata del tfr rappresenta un massimo e nello stesso tempo un minimo inderogabile
dall’autonomia negoziale sia individuale che collettiva. Una quota della retribuzione annua
viene vincolata nell’interesse del lavoratore, formando una specie di conto individuale. Il
lavoratore diviene titolare di un diritto di credito soltanto dal momento della cessazione del
rapporto. Durante il rapporto di lavoro, inoltre, il lavoratore può agire in giudizio per
accertare l’entità degli importi maturati.
L’art. 2120 co. 2 stabilisce che la retribuzione annua da prendere in considerazione ai fini
del calcolo del T.F.R. include tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in
natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con
l’esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Per il calcolo del T.F.R.
appaiono rilevanti altre 2 regole:
• La regola in virtù della quale, ai fini del calcolo della quota annuale del trattamento di
fine rapporto, devono essere considerati i periodi di assenza per malattia, infortunio e
maternità. Inoltre alla fine di ciascun anno di servizio, la quota annua maturata nell’anno
precedente venga incrementata sulla base degli indici ISTAT.
30. Il diritto all’anticipazione e l’opzione del lavoratore per l’erogazione del t.f.r.
nella retribuzione mensile.
L’art. 2120 c.c. stabilisce inoltre il diritto del lavoratore a chiedere dopo almeno 8 anni di
servizio, un’anticipazione di importo non superiore al 70% del t.f.r. maturato alla data
della richiesta. Tale anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto
e viene detratta dal trattamento di fine rapporto. Il diritto di anticipazione va incontro a
significativi limiti: dal punto di vista soggettivo sono legittimati all’anticipazione non più
del 10% degli aventi titolo e, in ogni caso, non più del 4% del numero totale dei dipendenti.
Dal punto di vista oggettivo l’anticipazione può essere erogata soltanto per fini di
previdenza e cioè per comprovata necessità di cure mediche o per l’acquisto della prima
casa. È da notare come il diritto all’anticipazione sia pure entro i limiti quantitativi previsti,
non sorga automaticamente ma sia condizionato dalla disponibilità dei mezzi finanziari
presso l’azienda, infatti l’anticipazione è esclusa nel caso di aziende dichiarate in crisi.
L’art.29 d.lgs 276/2003 è stato poi modificato dal d.l 25/2017 (poi convertito in L.20 aprile
2017 n.49), emanato al fine di prevenire gli esiti del referendum abrogativo promosso dalla
CGIL sul regime di solidarietà negli appalti.
Le norme del d.l 25/2017 hanno eliminato il beneficio della preventiva escussione
dell’appaltatore, ripristinando un regime di solidarietà in favore dei lavoratori impiegati
nell’appalto. Questi ultimi potranno agire per il recupero dei rispettivi crediti direttamente
ed esclusivamente nei confronti del committente, senza chiamare in causa l’appaltatore,
fermo restando il diritto del committente di agire in regresso per il rimborso
dall’appaltatore di quanto pagato. Inoltre con la modifica del 2017 viene meno la norma
che consentiva ai contratti collettivi di regolare il regime di solidarietà tra committente e
appaltatore in maniera diversa da quanto stabilito dall’art.29 d.lgs 276/2003.
b) Quanto al secondo intervento di tutela, va detto che il d.lgs 27 gennaio 1992, n.80
ha addossato allo stesso fondo di garanzia gli ulteriori rischi connessi
all’insolvenza del datore di lavoro sia sul versante retributivo che su quello
previdenziale. La garanzia del fondo, in questo caso, è soltanto parziale, in quanto
essa copre soltanto i crediti relativi agli ultimi 3 mesi di rapporto di lavoro e
comunque entro un massimale predeterminato, dato da tre volte il trattamento
massimo mensile di integrazione salariale.
Per quanto riguarda invece i crediti retributivi, il lavoratore può chiedere
l’intervento del Fondo in tutti i casi di fallimento, concordato preventivo,
liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria. Quando,
invece, il datore di lavoro non sia assoggettabile a dette procedure concorsuali,
l’intervento del Fondo può essere chiesto solo dopo che sia risultata insoddisfacente
l’esecuzione forzata sul patrimonio del datore di lavoro.
la natura delle somme che si trovano nel contro corrente -> da qui l’introduzione di un
ulteriore comma dell’art.546 c.p.c.
> Il limite del quinto dello stipendio si applica anche alla cessione del credito per
retribuzioni che il lavoratore voglia effettuare a favore dei propri creditori, o anche
a favore del datore di lavoro per debiti derivanti dal rapporto.
Le somme dovute al lavoratore a titolo di retribuzione o altre indennità derivanti dal
rapporto di lavoro, anche a causa di licenziamento, possono essere pignorate per
crediti alimentari nella misura autorizzata dal giudice competente per materia.
- Va poi ricordato l’art.2117 c.c., secondo il quale sono vincolati nella destinazione i fondi
speciale di previdenza, costituiti a livello aziendale dall’imprenditore a favore dei
lavoratori.
La tutela collettiva del lavoratore -> si estrinseca nel vincolo della consultazione
sindacale previsto dall’art.47 L.428/1990:
- Qualora il trasferimento riguardi un’azienda, o parte di essa, in cui sono occupati più
di 15 lavoratori, tanto il cedente quanto il cessionario devono darne preventiva
comunicazione alle r.s.u. o alle r.s.a. istituite presso le rispettive unità produttive
interessate dal trasferimento.
- Tale comunicazione deve avvenire in forma scritta almeno 25giorni prima della data
del perfezionamento dell’atto di trasferimento. Con la comunicazione devono essere
trasmesse informazioni relative alla data effettiva o proposta del trasferimento, ai
motivi del trasferimento, alle conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i
lavoratori, nonché agli eventuali provvedimenti previsti per questi ultimi.
- Qualora poi entro 7giorni le rappresentanze ne facciano richiesta, il cedente e il
cessionario sono tenuti ad avviare un esame congiunto della situazione che, in
mancanza di accordo, si intende esaurito dopo 10 giorni dal suo inizio.
La violazione degli obblighi di informazione e consultazione è espressamente considerata
condotta antisindacale ai senti dell’art.28 St.lav.
c.c., pertanto si rinviene una parziale incapacità di agire, o anche di disporre, la quale
dovrebbe investire nella sua integrità l’oggetto del diritto attribuito al lavoratore e non
essere circoscritta all’area della inderogabilità del regolamento contrattuale del rapporto.
Pertanto, l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni si prospetta come un limite imposto
all’autonomia negoziale in funzione dell’effettivo soddisfacimento di interessi la cui
realizzazione può essere impedita dalla posizione di debolezza contrattuale nel quale il
lavoratore si trova tanto nel corso del rapporto, quanto successivamente all’estinzione dello
stesso.
Dalle rinunce e dalle transazioni bisogna tenere distinte le cd. quietanze a saldo o
liberatorie, ossia esplicite dichiarazioni di rinuncia ad ogni eventuale futura pretesa . La
giurisprudenza ha negato ogni rilevanza negoziale a tali atti, circoscrivendone l’efficacia
entro i limiti rigorosi del riconoscimento dell’avvenuto pagamento di determinati crediti e
quindi soltanto dell’adempimento e non già del fondamento delle obbligazioni del datore di
lavoro.
Invece, la rinunzia tacita consiste nella possibilità di ravvisare nel comportamento del
lavoratore una manifestazione indiretta della volontà di rinunciare ad un proprio diritto.
16. La certificazione
Il d.lgs n. 276/2003 ha introdotto il nuovo istituto della certificazione dei contratti di
lavoro, uno strumento a disposizione delle parti per rendere trasparente la “zona grigia”
tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo, attraverso la fissazione di chiari criteri
distintivi.
- Dunque, la certificazione ha la finalità di ridurre il contenzioso in materia di lavoro ->
le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente
o indirettamente, una prestazione di lavoro.
- La certificazione ha, altresì, la finalità di identificazione degli effetti del contratto e poi
la sua qualificazione a stregue delle c.d. tipologie di rapporto previste -> le parti hanno
l’onere di indicare nella istanza “gli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali
in relazione ai quali viene richiesta la certificazione del contratto”.
- Il legislatore ha assegnato alla certificazione anche una importante funzione di
sostegno e di controllo dell’autonomia individuale che attribuisce alle commissioni di
certificazione una funzione di consulenza e assistenza alle parti sia in fase di
stipulazione che in fase di attuazione del rapporto.
Gli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro sono le commissioni istituite
presso le Direzioni provinciali del lavoro, nonché la Direzione generale della tutela delle
condizioni di lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La commissione non
è vincolata al nomen iuris indicato dai contraenti, ma deve certificare la qualificazione in
conformità al tipo o al modello legale adeguato al rapporto effettivamente voluto dalle parti.
La certificazione non è opponibile al giudice:
> L’art.79 prevede la permanenza dell’efficacia della certificazione “fino al momento
in cui sia stato accolto uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’art.80,
fatti salvi i provvedimenti cautelari”.
Il ricorso al giudice del lavoro è dunque per i terzi l’unico strumento per contestare la
certificazione e le regole sono quelle ordinarie dell’azione e del processo, con l’unica
eccezione che il tentativo di conciliazione è obbligatorio e dovrà essere effettuato davanti
alla commissione che ha emesso la certificazione.
Poiché il mancato esercizio del diritto unito al passare del tempo, è produttiva di effetti
analoghi a quelli degli atti di disposizione, anche la prescrizione e la decadenza possono
essere considerate come un’indiretta abdicazione delle posizioni soggettive di vantaggio
garantite dalla legge e dai contratti collettivi al lavoratore.
Secondo alcune opinioni, nell’art. 2113 si troverebbe l’enunciazione positiva di un
principio più generale secondo cui i diritti del prestatore di lavoro dovrebbero essere
considerati indisponibili e, di conseguenza, imprescrittibili.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale si è assunta il compito di trasferire queste
opinioni interpretative sul piano del diritto positivo, rendendo esplicito il principio della
disponibilità limitata dei diritti del lavoratore anche in tema di prescrizione e decadenza.
Nella storica sent.10 Giugno 1966, n.63, la Corte ha esplicitato tale principio
dichiarando incostituzionali gli artt. 2948, 2955 e 2956 limitatamente alla parte in
cui consentano che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante
il rapporto di lavoro.
A fondamento della sua pronuncia, la Corte ha richiamato l’art. 36 Cost.: da tale
norma è stata ricavata, infatti, oltre al diritto del lavoratore alla retribuzione
proporzionata e sufficiente, anche il principio dell’irrinunciabilità del diritto alla
retribuzione durante il rapporto di lavoro.
Per giungere alla declamatoria della parziale illegittimità delle norme indicate, la
sentenza ha argomentato il timore del licenziamento, sostenendo che, a fronte di
tale potere, il prestatore si troverebbe in una situazione di soggezione psicologica,
tale da impedirgli l’esercizio pieno e perciò la libera disposizione dei propri diritti.
In virtù di ciò, la Corte ha ritenuto di dovere dichiarare il differimento del termine
di prescrizione alla fine del rapporto, e infatti, alle medesime condizioni, la Corte
è pervenuta anche per la decorrenza dei termini di decadenza.
La sentenza è una delle decisioni più importanti e significative della Corte costituzionale:
in essa è da ravvisare un notevole esempio di giurisprudenza creativa di una vera e
propria norma non scritta dal legislatore ma ricavata dai principi costituzionali. Lo
strumento impiegato è la sentenza c.d. manipolativa di illegittimità parziale -> la sentenza
è intervenuta per modificare il contenuto normativo senza alterare il testo di dette
disposizioni.
Anche dopo le suddette pronunce, si sono avute ancora decisioni di giudici di merito che
si sono distaccate dall’orientamento indicato, e nuove remissioni alla Corte Costituzionale
circa la legittimità dell’art.2948, n.4, c.c. per la parte in cui consenta la decorrenza del
termine di prescrizione in costanza di un rapporto “stabile”.
- La Corte di Cassazione è intervenuta a ribadire la validità delle argomentazioni della
Corte Costituzionale e la legittimità delle conclusioni contenute nelle sentenze
successive a quelle del ’66.
Alla luce di questa giurisprudenza -> l’operatività della disciplina impeditiva del decorso
della prescrizione durante il rapporto è stata ritenuta gradualmente applicabile, oltre che
ai residui casi in vige il principio della libera recedibilità, anche ai rapporti di lavoro
compresi nell’area della c.d. stabilità obbligatoria.
Per ciò che concerne, invece, la disciplina della prescrizione ordinaria -> la Corte
costituzionale si è sempre pronunciata con sentenza di rigetto:
- La prescrizione decennale decorre in costanza del rapporto di lavoro per i diritti ad essa
sottoposti.
Tuttavia a seguito della riscrittura dell’art.18 St.lav. ad opera della Riforma Fornero, i
presupposti interpretativi su cui è stato costruito il regime della decorrenza della
prescrizione sono mutati ->
Non è più possibile stabilire in anticipo se il lavoratore licenziato illegittimamente
abbia diritto alle garanzie di stabilità reale del proprio posto di lavoro.
Il diritto alla reintegrazione non costituisce più un effetto automatico derivante
dall’illegittimità di un licenziamento intimato da un datore di lavoro che rientri nelle
soglie occupazionali stabilite dall’art.18, ma si presenta solo come uno dei possibili
rimedi contro un provvedimento di recesso invalido.
Importanti sono anche le peculiarità della speciale disciplina delle controversie di lavoro
per ciò che concerne le garanzie attinenti all’attuazione concreta dei diritti del lavoratore.
Al riguardo, tre sono le garanzie che accompagnano la tutela dei diritti e del credito di
retribuzione:
Art.432 c.p.c. -> valutazione equitativa dell’ammontare delle somme dovute al
lavoratore -> il giudice deve disporre la liquidazione quando sia certo il diritto che
ne costituisce il titolo ma non la somma dovuta.
Art.431, co.1, c.p.c. -> la sentenza di condanna per i crediti di lavoro sia
indefettibilmente munita di clausola di provvisoria esecuzione.
Art.429, co.3, c.p.c. -> diritto del lavoratore al risarcimento del maggiore danno
derivante dalla svalutazione monetaria dei crediti di lavoro, da liquidarsi anche
d’ufficio.
25. L’arbitrato.
Diverso dalla conciliazione è l'arbitrato, un istituto per mezzo del quale le parti pervengono
alla composizione di una controversia attraverso il deferimento ad un terzo del potere di
decisione. Trova la sua fonte nel compromesso, negozio con cui si deferisce la controversia
già insorta, oppure nella clausola compromissoria, con cui le parti si impegnano a
deferire a terzi le possibili future controversie in ordine all’esecuzione o interpretazione del
contratto. In entrambi i casi è richiesta la forma scritta a pena di nullità.
Occorre distinguere tra arbitrato rituale o irrituale.
• L'arbitrato rituale
È idoneo a conseguire effetti equivalenti alla giurisdizione. Esso infatti si svolge come un
vero e proprio giudizio, secondo le norme procedurali stabilite dalle stesse parti nel
compromesso o nella clausola compromissoria. Ai senti dell’art.806 c.p.c., le parti non
possono far decidere da arbitri le controversie relative a diritti indisponibili e, per quello
che attiene specificatamente alle controversie di lavoro, il ricorso agli arbitri è ammesso
solo se ciò è previsto dalla legge o dai contratti collettivi.
L'interazione tra i due rapporti aveva indotto a dare maggiore importanza alla relazione
funzionale tra pubblica amministrazione e dipendente. E il prevalere del rapporto
organico su quello di servizio aveva determinato la sistemazione del pubblico impiego nel
diritto pubblico (nel diritto amministrativo) e aveva impresso al relativo rapporto un
carattere autoritario (o di supremazia speciale della P.A.) da cui discendevano le seguenti
conseguenze, superate con la riforma dell'intera materia.
- Il rapporto non si costituiva con il contratto, ma nasceva da un atto unilaterale
dell’amministrazione pubblica (provvedimento di nomina) e ciò imprimeva si
dall’origine al rapporto un carattere autoritario.
- Il rapporto era disciplinato da leggi e da regolamenti ed era gestito mediante
l’emanazione di atti amministrativi.
- La subordinazione era gerarchica e non meramente tecnico-funzionale, ma connessa
con la struttura gerarchica degli uffici nei quali si articola l’organizzazione degli
apparati amministrativi.
- Il giudice competente a decidere le controversie era il giudice amministrativo.
Il rapporto di pubblico impiego ha conservato a lungo tale struttura originaria, grazie agli
orientamenti della giurisprudenza amministrativa. Esso però, a partire dagli anni 70, ha
attraversato una fase di lenta ma significativa trasformazione, dovuta anche all’affermarsi
nel settore di organizzazioni sindacali aderenti alle maggiori confederazioni dei lavoratori,
a cui ha fatto seguito il graduale riconoscimento del metodo della negoziazione collettiva
per le varie categorie di impiegati pubblici ->
o Legge quadro sul pubblico impiego -> aveva previsto l’inserimento sistematico
dell’accordo sindacale tra le fonti di disciplina del rapporto di pubblico
impiego, restringendo notevolmente l’ambito della determinazione unilaterale della
regolamentazione dei rapporti.
Negli anni successivi si sono avuti numerosi altri interventi legislativi volti a regolamentare
alcuni aspetti peculiari della disciplina introdotta nel corso delle prime fasi della riforma.
Tali interventi hanno interessato in particolare le procedure di negoziazione collettiva in
relazione al controllo dei costi contrattuali. Allo stesso tempo, però, sono emerse alcune
evidenti carenze nell’applicazione della nuova disciplina.
C) Il decreto del 2001 oltre a precisare che lo Statuto dei lavoratori si applica alle p.a. a
prescindere dal numero dei dipendenti, per quanto riguarda il rapporto di lavoro
ribadisce che esso è disciplinato dalle disposizioni civilistiche e dai contratti
collettivi. Nonostante questo, il legislatore interviene ormai regolarmente a regolamentare
molti istituti, ritenuti di particolare rilievo.
Tra questi meritano specifica considerazione i seguenti:
1. ASSUNZIONE ->
Avviene con contratto individuale di lavoro, nel rispetto dell'obbligo di concorso imposto
dall'art. 97, co. 3 Cost. A tal fine la legge ha previsto 2 diverse procedure di reclutamento:
- Una limitata ai profili e alle qualifiche per le quali è richiesto il solo requisito della
scuola dell'obbligo che avviene mediante avviamento da parte dei centri per l'impiego.
- L'altra tramite procedure rivolte all'accertamento della professionalità richiesta dalle
posizioni da ricoprire e cioè in sostanza veri e propri concorsi. Per quest'ultime
assumono rilievo i principi stabiliti dalla legge tra i quali: il rispetto di un'adeguata
pubblicità e di una rigorosa imparzialità, di meccanismi oggettivi e trasparenti di
valutazione, delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori.
-
2. PART-TIME ->
È stato sottoposto a una disciplina speciale, in collegamento con la normativa in materia
di incompatibilità e di cumulo di impieghi e di incarichi.
In base alla L. 662/1996 la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in
rapporto di lavoro part-time avviene a richiesta del lavoratore. In passato la legge
riconosceva il diritto del dipendente pubblico a ottenere il passaggio al tempo parziale, in
quanto l’amministrazione poteva respingere la richiesta solo in casi eccezionali.
Tale disciplina di favor ha subito una modifica nel 2008: si è previsto che l'amministrazione
possa respingere la richiesta di trasformazione formulata dal lavoratore quando il
passaggio al part-time comporti pregiudizio alla funzionalità dell'amministrazione.
In questo modo è stata ri-attribuita all'amministrazione un'ampia discrezionalità in
materia, anche se il mancato accoglimento della domanda deve essere sorretto da
motivazioni di carattere organizzativo.
4. MANSIONI ->
L’Art.52 D.lgs.165/2001 -> il dipendente pubblico deve essere adibito:
Alle mansioni per le quali è stato assunto;
O alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento;
Ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia
successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive.
Il dettato della norme lascia spazi di dubbio, non essendo chiaro se l’equivalenza tra le
mansioni dell’area definita dai contratti collettivi sia presupposta, ovvero se vada accertata
caso per caso.
Anche l’assegnazione temporanea a mansioni superiori è soggetta ad una disciplina
speciale ->
o Essa può essere disposta per periodi non eccedenti i 6 mesi nelle ipotesi di
carenze di organico, prorogabili a 12 nel caso siano state avviate le procedure
per la copertura del posto vacante.
o Essa attribuisce al dipendente il diritto al maggior trattamento retributivo
per il periodo di effettiva prestazione, ma non costituisce mai il presupposto
del diritto alla promozione.
Tale svolta epocale è stata realizzata, sul piano legislativo, operando su tre versanti:
a) Quello della struttura dei servizi per l’impiego, radicati sul territorio a livello
provinciale.
b) Quello della definizione delle misure di politica attiva del lavoro e dei suoi
destinatari.
c) Quello della strumentazione necessaria alla gestione dei servizi per l’impiego,
e quindi ->
L’abolizione del libretto del lavoro, sostituito dalla scheda anagrafico
professionale.
L’abolizione delle liste di collocamento e della iscrizione ad esse, sostituite
dall’anagrafe dei lavoratori e dalla dichiarazione di immediata disponibilità.
L’istituzione di sistemi informatici tesi ad agevolare la circolazione delle
informazioni relative a chi offre e a chi domanda lavoro.
2) Obblighi informativi a carico dei datori di lavoro, finalizzati al contrasto del lavoro
irregolare e al controllo del comportamento dei lavoratori disoccupati.
A tal fine il legislatore ha realizzato in fasi successive un articolato sistema di
obblighi informativi, da adempiere attraverso comunicazioni telematiche ai servizi
pubblici per l’impiego:
- Obblighi di comunicazione dell’assunzione -> l’obbligo riguarda l’instaurazione
del rapporto di lavoro subordinato e di lavoro autonomo in forma coordinata e
continuativa; l’obbligo riguarda anche i soci lavoratori di cooperativa, e deve essere
adempiuto entro il giorno antecedente a quello di instaurazione del rapporto,
mediante documentazione avente data certa di trasmissione. La comunicazione
deve indicare i dati anagrafici del lavoratore, la data di assunzione, la data di
cessazione qualora il rapporto non sia a tempo indeterminato, la tipologia
contrattuale, la qualifica professionale e il trattamento economico e normativo
applicato.
- Obblighi di comunicazione delle trasformazioni del rapporto -> esse vanno
comunicate entro 5 giorni al servizio competente nel cui ambito territoriale è
ubicata la sede di lavoro. In caso di inoltro tardivo delle comunicazioni telematiche
obbligatorie è prevista la perdita totale degli incentivi all’occupazione.
- Obblighi di comunicazione di cessazione del rapporto.
- Maxi-sanzione -> fermo restando le singole sanzioni previste per l’inadempimento
a ciascuno degli obblighi richiamati, il legislatore ha inteso introdurre una ulteriore
sanzione, definita “maxisanzione” per contrastare il diffuso fenomeno del lavoro
nero. Si tratta di una ulteriore sanzione in caso di impiego di lavoratori subordinati
senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del
datore di lavoro privato. L’irrogazione della maxisanzione è affidata agli organi di
vigilanza che effettuano accertamenti in materia di lavoro, fisco e previdenza,
mentre l’autorità competente a ricevere il rapporto è la Direzione territoriale del
lavoro competente.
8. I soggetti protetti.
La prima novità apportata dalla L.68/1999 è l’individuazione dei soggetti protetti, ai
quali la legge riserva la tutela all’accesso al lavoro.
Soggetti protetti sono:
Gli invalidi civili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% -> in tale
categoria rientrano i minorati fisici, psichici o sensoriali e i portatori di handicap
intellettivo, nonché gli invalidi civili, la cui capacità di lavoro sia ridotta in modo
permanente a causa di infermità, difetto fisico o mentale a meno di un terzo.
Gli invalidi del lavoro con invalidità superiore al 33% e le persone non vedenti o
sordomute.
Gli invalidi di guerra, civili di guerra e per servizio.
Alcune categorie di soggetti non portatori di disabilità, c.d. normodotati, ai quali
l’accesso privilegiato al lavoro presso datori di lavoro pubblici e privati, viene
accordato in ragione della situazione di disagio -> gli organi e i coniugi superstiti di
lavoratori deceduti o divenuti grandi invalidi per causa di lavoro, guerra o di
servizio; profughi italiani rimpatriati.
Il fenomeno degli atti di terrorismo o di mafia ha suggerito l’opportunità di estendere
la tutala ad una ulteriore categoria composta dal coniuge, dai figli superstiti, ovvero
dai fratelli conviventi e a carico, qualora siano gli unici superstiti, di vittime o di
soggetti resi permanentemente invalidi per atti di terrorismo, di eversione
dell’ordine democratico, per fatti delittuosi di matrice mafiosa.
Testimoni di giustizia.
9. I soggetti obbligati.
Mutata rispetto alla legge del 1968 è l’area dell’obbligo -> si assiste ad un ampliamento
della stessa, compensata dalla riduzione della percentuale dei posti da riservare ai disabili.
Sono ora obbligati tutti i datori di lavoro pubblici e privati che impiegano almeno 15
dipendenti, con percentuale d’obbligo progressivamente crescente:
1) I datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti devono assumere 1 disabile.
2) I datori di lavoro che occupano da 36 a 50 dipendenti devono assumere 2 disabili.
3) Oltre i 50 dipendenti la percentuale d’obbligo è pari al 7%, a cui si aggiunge un
ulteriore 1% riservato alle categorie di c.d. normodotati.
La novità consiste nell’aver ricompreso una categoria di datori di lavoro prima esclusa cioè
quelli che occupano da 15 a 35 dipendenti, seppur con un alleggerimento in quanto
l’obbligo scattava solo in caso di nuove assunzioni.
La L.68/1999 ha, inoltre, disciplinato il fenomeno dei c.d. invalidi interni prevedendo che
possano essere conteggiati solo:
- Quelli che, divenuti invalidi allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza
di infortunio o malattia, hanno subito una riduzione della capacità lavorativa
superiore al 60%.
- Quelli che sono divenuti inabili non per inadempimento da parte del datore di lavoro
delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, accertato in sede
giurisprudenziali.
Ai fini del computo del numero dei dipendenti per stabilire in quale classe d’obbligo rientri
il singolo datore di lavoro, la legge indica le categorie di lavoratori escluse:
I lavoratori occupati ai sensi della L.68/1999.
I soci di cooperative di produzione e lavoro.
I dirigenti.
I lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore.
I soggetti impegnati in lavoro socialmente utili.
I lavoratori che aderiscono al programma di emersione.
Negli anni più recenti, il ricorso alle tipologie contrattuali di lavoro “atipico” è divenuto uno
dei temi centrali del dibattito politico, poiché la loro diffusione, necessaria per favorire la
flessibilità organizzativa, è stata considerata causa del diffondersi di una grave precarietà
occupazione nel mondo del lavoro. Ma la linea di apertura verso la flessibilità tipologica,
ancora incerta nella Legge Fornero n.92/2012, essa si è consolidata con l'insieme dei
provvedimenti legislativi emanati dal governo Renzi negli anni 2014-2015.
Nel contratto di lavoro a tempo determinato l’esigenza dell’utilizzazione flessibile del lavoro
viene soddisfatta mediante l’apposizione di un termine finale alla durata del contratto,
per cui il rapporto cessa alla scadenza del termine senza che sia necessaria alcuna
dichiarazione di recesso. Il legislatore del codice civile, ritenendo che l’utilizzazione
indiscriminata del contratto a tempo determinato fosse in contrasto con l’interesse del
lavoratore alla continuità dell’occupazione e alla stessa conservazione del posto di lavoro,
aveva voluto limitare l’autonomia negoziale delle parti in materia. Al fine di ridurre il ricorso
al contratto a tempo determinato, considerato come negozio potenzialmente fraudolento,
l’art. 2097 c.c. aveva stabilito che “esso si deve reputare a tempo indeterminato se il termine
non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”, sancendo altresì l’inefficacia
dell’apposizione del termine in forma scritta quando la stessa fosse intervenuta per eludere
le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato. La scarsa efficacia della
A breve lasso di tempo si assisteva ad un nuovo intervento legislativo, il quale nel 2008
modificava nuovamente il comma 1 dell'articolo 1, precisando che le predette ragioni
giustificative della posizione del termine potevano essere riferibile anche "alla ordinaria
attività del datore di lavoro". Questa ulteriore però poneva un problema di coerenza rispetto
a quella introdotta solo un anno prima.
b) Salva diversa disposizione di accordi sindacali, nelle unità produttive in cui siano
state effettuate procedure di licenziamento collettivo che abbiano interessato
lavoratori adibiti alle medesime mansioni;
d) Nelle imprese che siano inadempienti agli obblighi relativi alla valutazione dei
rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
In questi casi il legislatore ha valutato immeritevole di tutela l’interesse del datore di lavoro
all’apposizione del termine.
20% e poi del 40%. La maggiorazione retributiva funziona come una sorta di penale o
sanzione economica rivolta a disincentivare la prosecuzione del rapporto oltre il termine.
In relazione agli intervalli temporali tra contratti a termine successivi, il Jobs Act conferma
l’intervento del 2013, che aveva ripristinato i termini di decorrenza originariamente
previsti. In caso di riassunzione a termine del medesimo lavoratore -> se il lavoratore viene
riassunto entro un periodo di 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata
fino a 6 mesi, ovvero 20 giorni dalla data di scadenza di un contrato di durata superiore ai
6 mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.
La normativa appena descritta, di fronte alla successione di più contratti a termine, riserva
l'effetto sanzionatorio della cosiddetta conversione ai soli casi in cui le parti non abbiano
rispettato gli intervalli temporali tra una assunzione è quella successiva: la reiterazione di
contratti a tempo determinato è da ritenere legittima purché avvenga nel rispetto degli
intervalli temporali indicati. Tutte queste previsioni però non esauriscono la disciplina
legislativa in materia di successione di contratti a termine. Infatti il legislatore è
intervenuto ancora una volta in questo ambito con l’obiettivo di fissare un limite massimo
alla successione di contratti a termine tra un lavoratore e lo stesso datore di lavoro; ciò
non soltanto per motivi di politica occupazionale ma anche al fine di adeguare la normativa
interna a quella dell’UE.
L'art.19 d.lgs.81/2015 prevede che la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato
tra uno stesso datore di lavoro ed un medesimo lavoratore non può eccedere 36 mesi. Si
calcolano sommando tutti i periodi del rapporto, indipendentemente dalla durata dal
numero delle interruzioni e senza tener conto dell'arco temporale intercorso. Ai fini del
computo dei 36 mesi si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi a oggetto mansioni
di pari livello e categoria legale, svolte fra i medesimi soggetti nell’ambito di
somministrazioni di lavoro a tempo determinato. In questo processo di totale
liberalizzazione, il legislatore ha riconosciuto la possibilità di stipulare un ulteriore
contratto a termine anche oltre il limite dei 36 mesi, attraverso l'adozione di una procedura
che ha luogo in una sede "protetta". È consentita, per una sola volta, la stipula di un
nuovo contratto a termine tra le stesse parti della durata massima di 12 mesi, a condizione
che essa avvenga presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio.
Per ciò che concerne la disciplina del rapporto, l’art.25 d.lgs.81/2015 enuncia la regola
dell'uniformità di trattamento economico normativo tra lavoratori a termine e
lavoratori a tempo indeterminato comparabili. In virtù di questo principio, i trattamenti
indicati sono dovuti "in proporzione al periodo lavorativo prestato. All’equiparazione tra
prestatore di lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato si può ricondurre anche
la norma dell’art.27, la quale prevede che per l’applicazione di qualsiasi disciplina legale o
contrattuale subordinata al computo dei dipendenti del datore di lavoro, si deve tener conto
del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due
anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.
Nel nuovo assetto normativo l'unico limite all'apposizione del termine al contratto di lavoro
è rappresentato dal rispetto di un determinato tetto percentuale fissato dalla legge o dalla
contrattazione collettiva. L’art.23 d.lgs.81/2015 stabilisce che non si possono assumere
lavoratori a termine in misura superiore al 20% dei dipendenti a tempo indeterminato in
forza dal 1 gennaio dell'anno di assunzione. La disposizione è derogabile dall'autonomia
collettiva.
b) Al 50% della retribuzione, per ogni mese o relativa frazione superiore a 15 giorni
di durata del rapporto di lavoro, qualora i lavoratori assunti in violazione della soglia
percentuale è superiore a uno.
Nonostante ciò, lo stesso art.23 contempla numerose eccezioni alla derogabile soglia del
20% -> in particolare sono esenti limitazioni quantitative talune ipotesi in cui la
valutazione del legislatore non è assoggettabile al controllo sindacale:
9. Decadenze e tutele.
Una prima novità è che il decreto permette ad agenzie per il lavoro, autorizzate dal
Ministero del Lavoro in base a requisiti di professionalità ed affidabilità, di esercitare
l’attività di somministrazione, nonché di svolgere attività di intermediazione, ricerca e
selezione di personale, ricollocazione professionale. Un altro aspetto importante della
nuova disciplina legislativa è costituito dalla previsione della somministrazione a tempo
indeterminato ammessa solo per le causali specificatamente individuate dalla L.276/2003,
accanto alla somministrazione a tempo determinato.
L’istituto è stato poi oggetto di diversi interventi che via via hanno ridotto le originarie
rigidità normative. Il punto di arrivo di questo processo si è avuto con la riforma del diritto
del lavoro attuata con i provvedimenti emanati dal Governo Renzi, in seguito ai quali la
somministrazione è stata originariamente disciplinata con contestuale espressa
abrogazione delle norme che regolavano la materia.
Per quanto riguarda la forma del contratto, viene mantenuta la previsione della forma
scritta ad substantiam, riducendone tuttavia i requisiti di contenuto. Il contratto di
somministrazione deve essere stipulato in forma scritto, e contenere una serie di elementi:
gli estremi dell'autorizzazione rilasciata al suo amministratore; il numero dei lavoratori da
somministrare; la presenza di eventuali rischi per la salute del lavoratore; la data di inizio
e la durata prevista del contratto di somministrazione; le mansioni alle quali saranno
adibiti lavoratori e il loro inquadramento; il luogo, l'orario e il trattamento economico e
normativo dei lavoratori.
La mancanza della forma scritta è sanzionata con la previsione della nullità del contratto
di somministrazione e conseguentemente i lavoratori saranno considerati alle dipendenze
dell’utilizzatore.
La legge stabilisce che "in caso di assunzione a tempo indeterminato il rapporto di lavoro
tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina per il rapporto di lavoro a tempo
indeterminato". Il lavoratore ha diritto, per i periodi in cui rimane in attesa di essere inviato
in missione, ad una indennità mensile di disponibilità il cui importo è stabilito dal
contratto collettivo.
Per quanto riguarda la disciplina dei rapporti di lavoro permangono i riflessi della
codatorialità sulla titolarità e l'esercizio dei poteri datoriali. Viene confermata la scissione
tra titolarità del contratto (spettante all'agenzia) ed esercizio dei poteri di direzione e
controllo (che spetta al utilizzatore). D’altro canto resta attribuito all’agenzia di
somministrazione il potere disciplinare nei confronti dei lavoratori somministrati.
19. Il lavoro a tempo parziale e le altre tipologie di lavoro flessibile tra innovazione
e conservazione.
Tra gli strumenti di flessibilità di impiego della manodopera con riferimento al tempo di
lavoro sono da annoverare il rapporto di lavoro a tempo parziale e il lavoro
intermittente disciplinati dal capo 2º del d.lgs.81/2015.
Il part-time rappresenta uno degli strumenti contrattuali più duttili per favorire l'ingresso
nel mondo del lavoro di soggetti che altrimenti ne rimarrebbero esclusi. Ed è proprio da
questa innata vocazione dell’istituto che fin da principio ad esso è stato dedicato uno
specifico intervento legislativo a livello comunitario -> il Consiglio dell’UE, con la
direttiva 15 dicembre 1997 n.97/81, ha dato attuazione all’Accordo quadro sul lavoro a
tempo parziale del 1997 concluso tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori
di lavoro a livello comunitario, con l’obiettivo di definire “principi generali e prescrizioni
minime” finalizzati all’eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a
tempo parziale ed alla promozione di questa forma di occupazione. A questa direttiva l’Italia
ha dato attuazione con il d.lgs.61/2000, il quale ha dettato una nuova disciplina del
rapporto di lavoro part-time.
L’attuale previsione normativa non fornisce alcuna definizione del contratto di lavoro a
tempo parziale. È possibile individuare tale definizione attraverso l'interpretazione
indiretta di quella di orario normale di lavoro fissato in 40 ore settimanali o in quello
minore individuato dalla contrattazione collettiva. È possibile sostenere che per orario di
lavoro a tempo parziale si intende quell’orario fissato in misura ridotta rispetto alle 40 ore
settimanali.
Per quanto riguarda la stipulazione del contratto, la legge richiede la forma scritta ad
probationem, con la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della
sua collocazione giornaliera, settimanale, mensile o annuale.
Un’importante parte della disciplina del part-time, è quella derivante dalla normativa
comunitaria, la quale sancisce il principio di non discriminazione -> tale principio si
sostanzia nella previsione di un divieto di riservare al lavoratore part-time, per il solo
motivo di lavorare a tempo parziale, un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore
a tempo pieno di pari inquadramento. La ratio è la prevenzione di eventuali differenziazioni
di trattamento in danno del prestatore che lavoro a orario ridotto. Pertanto, tale divieto,
comporta per il lavoratore part-time il godimento integrale degli stessi diritti di cui beneficia
il lavoratore a tempo pieno. Per contro, il trattamento economico e normativo riservato al
lavoratore part-time va riproporzionato (principio di proporzionalità) in ragione della ridotta
entità della prestazione lavorativa.
Il d.lgs.81/2015 tutela l’interesse del lavoratore a scegliere tra lavoro a tempo pieno e a
tempo parziale nonché a modificare tale scelta nel corso del rapporto, trasformandolo da
tempo pieno a tempo parziale e viceversa. Inoltre il rifiuto del lavoratore di trasformare il
L’obiettivo del legislatore, sia nella normativa precedente che in quella attuale, era quello
di incentivare il ricorso al contratto di lavoro a tempo parziale dal lato tanto dei
lavoratori quanto dei datori di lavoro, nella prospettiva di favorire la diffusione di questa
forma di rapporto in funzione di promozione dell’occupazione.
1. Nel caso in cui manchi l’indicazione della durata, il lavoratore può chiedere
l’accertamento giudiziale della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo
pieno, con effetto dalla data della sentenza.
2. Nel caso in cui l’omissione riguardi la collocazione temporale, è assegnato al
giudice il compito di determinare in via equitativa le modalità temporali di
svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale.
In entrambi i casi il lavoratore ha diritto alla corresponsione di un ulteriore emolumento
a titolo di risarcimento del danno.
Tra gli strumenti di governo del mercato del lavoro vanno annoverati quelli che disciplinano
il fenomeno delle eccedenze di personale, che si caratterizzano per il tentativo di bilanciare
la fuoriuscita di forza lavoro con meccanismi finalizzati ad agevolare o a promuovere il suo
regresso nel mercato. Il tratto comune è dato dal bilanciamento degli interessi contrapposti
1. La PRIMA FASE inizia con la soppressione del blocco dei licenziamenti e l’istituzione
della Cassa integrazione guadagni per gli operai d’industria. In questa fase
l’intervento della CIG assolve alla funzione di evitare che le sospensioni dal lavoro
dovute ad eventi transitori ed eccezionali comportino per gli operai la perdita della
retribuzione.
2. Nella SECONDA FASE, successiva alla L.15 Luglio 1966, n.604, permane
l’astensionismo del legislatore dal disciplinare i licenziamenti collettivi prevedendosi
espressamente la non applicabilità agli stessi della novella disciplina dei
licenziamenti individuali. Tale vuoto normativo viene compensato con l’introduzione
nel 1968 dell’intervento straordinario inizialmente per le ristrutturazioni industriali,
poi esteso alle riconversioni e riorganizzazioni industriali, alle crisi aziendali di
particolare rilevanza sociale e alle imprese fallite.
3. La TERZA FASE dura circa 15 anni e arriva fino all’emanazione della L.223/1991,
in cui la CIGS subisce una mutazione genetica, assumendo le connotazioni di
strumento a sostegno dell’occupazione. Questa è la fase dei licenziamenti
impossibili, potendosi ovviare a questi ultimi attraverso il reiterato e prolungato
ricorso alla CIGS.
4. L’inversione di rotta viene affidata alla L.23 Luglio 1991, n.223, che inaugura la
QUARTA FASE, connotata dal tentativo di restituire alla CIGS la sua funzione di
sostegno temporaneo al reddito, governando le eccedenze definitive con il nuovo
strumento della mobilità. In questa fase si procede ad una legificazione della materia
dei licenziamenti collettivi.
5. È iniziata a partire dal 1993 la QUINTA FASE, caratterizzata da un complesso
quadro normativo che ha messo in discussione l’impianto della neonata
L.223/1991.
L’intensa conflittualità sociale tipica della materia, unita alla difficoltà della
finanza pubblica ha prodotto una serie di modifiche e adattamenti della legge,
finalizzati a garantire un sostegno ai lavoratori dipendenti da particolari
categorie di imprese escluse dall’ambito di applicazione della CIG.
In attuazione della delega contenuta nell'art.1, co.1, lett. A), L.183/2014 (Jobs Act 2) è
stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il d.lgs.148/2015, che contiene disposizioni per il
riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di
lavoro.
Di riforma degli ammortizzatori sociali si parlava sin dal 1996. Le ricorrenti crisi
economiche, specie a partire dal 1993, hanno reso di fatto inattuabile tale disegno
riformatore. Si è così andati avanti con una legislazione assolutamente frammentaria e
asistematica, finalizzata a fronteggiare una situazione di emergenza occupazionale
continua, che ha nuovamente ricondotto la CIG alla funzione di sostegno all’occupazione.
Tutti i tentativi di riformare l'istituto sono stati vani, fino al 2012. Si è trattato di un avvio
in quanto il completamento è stato realizzato dal cosiddetto Jobs Act 2 con il
d.lgs.148/2015, con specifico riferimento alla cassa integrazione guadagni, e con il
d.lgs.22/2015 per quanto concerne i trattamenti di disoccupazione. Entrambi i decreti
tendono a realizzare 3 obiettivi:
I) Gli artt.1-8 sono dedicati alle disposizioni generali valide sia per l’intervento
ordinario sia per quello straordinario.
II) Gli artt.9-18 dettano norme in tema di intervento ordinario.
III) Gli artt.19-25 riguardano l’intervento straordinario.
IV) Gli artt.26-40 disciplinano i fondi bilaterali di sostegno al reddito abrogando la
normativa dettata dalla L.92/2012.
V) Gli artt.41-47 contengono disposizioni transitoria e finali.
L'intervento della cassa integrazione guadagni sia ordinaria, sia straordinaria, è previsto
in favore di tutti i lavoratori subordinati, compresi quelli assunti con il contratto di
apprendistato professionalizzante, ed esclusi i dirigenti e i lavoratori a domicilio.
Condizione generale per l'accesso alla CIG è il possesso di un’anzianità di almeno 90 giorni
di effettivo lavoro presso l'unità produttiva per la quale si richiede l'intervento alla data di
presentazione della domanda. Al prestatore di lavoro compete un’integrazione salariale pari
all'80% della retribuzione persa per effetto della sospensione o della riduzione dell'orario,
ma entro un tetto massimo differenziato in base alla retribuzione percepita dal lavoratore.
Con l'obiettivo di contenere il ricorso alla CIG, il d.lgs.148/2015 ha previsto che per
ciascuna unità produttiva il trattamento, sia ordinario che straordinario, non possa
superare i 24 mesi in un quinquennio mobile. Una delle novità della riforma è l’aver
accentuato la partecipazione finanziaria dell’impresa al costo della CIG, prevedendo a
carico della stessa una contribuzione ordinaria, connessa all’astratta utilizzabilità dello
strumento ed una contribuzione addizionale conseguente al concreto utilizzo.
biennio mobile -> tale limite è stato introdotto per contingentare il ricorso alla CIGO e per
evitare la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro di tutti i lavoratori impiegati
nell’unità produttiva.
Una novità introdotta dal d.lgs.148/2015 è la previsione che nella domanda di intervento
vanno indicati i lavoratori interessati alla sospensione o riduzione dell'orario; la domanda
va presentata entro 15 giorni dall'inizio della sospensione o riduzione. Competente alla
concessione della integrazione salariale è l'Inps.
Una prima novità introdotta dal d.lgs.148/2015 è stata quella di aver ridotto le causali di
intervento a tre, prevedendosi il ricorso alla CIGS:
Anche per la CIGS è prevista una procedura di consultazione sindacale, mentre numerose
novità si registrano con riferimento al procedimento -> prevedendosi che la domanda di
concessione vada presentata entro 7 giorni dalla conclusione della procedura e che in ogni
caso la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro abbia inizio entro 30 giorni dalla
data di presentazione della domanda.
7. I fondi di solidarietà.
Il giro di vite sull’utilizzo della CIG ha indotto il legislatore a valorizzare il welfare privato.
Con tale espressione facciamo riferimento agli enti bilaterali, ossia organismi a gestione
paritaria di rappresentanti delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori
che provvedono nei limiti delle risorse disponibili ad erogare provvidenze sostitutive di
quelle pubbliche non accessibili. Ovvero integrative delle stesse.
Infine tra le disposizioni transitorie e finali merita menzione quella dettata in tema di
risorse finanziarie, prevedendosi un incremento cospicuo del fondo per finanziare le misure
di conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, nonché i trattamenti di
disoccupazione. Inoltre sopravvivono anche alcune ipotesi di ammortizzatori sociali in
deroga, che sembravano definitivamente superate, intervenendo sul punto anche il c.d.
decreto correttivo al Jobs Act 2, con l’inserimento del limite di spesa.
Gli ammortizzatori sociali in deroga continuano a far parte del complesso sistema dei
trattamenti di sostegno al reddito.
1) Prima ipotesi -> la CIGS in deroga per il triennio 2016-2018 per l’impresa che
all’esito del programma di crisi aziendale cessi l’attività produttiva, sussistendo
concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente
riassorbimento occupazionale.
2) Secondo intervento -> riservato ai lavoratori dei call center; sebbene previsto solo
per gli anni 2015-2016 l’intervento è stato prorogato anche per il 2017.
3) Terza ipotesi -> settore della pesca, per il quale è previsto il finanziamento di CIG
in deroga a carico del Fondo.
4) Quarta ipotesi -> trattamenti di CIGS e mobilità in deroga finanziati nel limite
del 50% con risorse attribuite alle Regioni e alle PATB.
5) Quinto tipo -> destina risorse statali per finanziare l’ennesima ipotesi di CIGS in
deroga per le imprese operanti in un’area di crisi industriale complessa, sempre
a determinate condizioni.
La legge del 1991 consente la fruizione del trattamento di integrazione salariale da parte
degli impiegati ed operai agricoli con contratto a tempo indeterminato anche nei casi di
sospensioni operate per esigenze di riconversione e ristrutturazione aziendale da imprese,
che occupino almeno 6 lavoratori con contratto a tempo indeterminato, ovvero 4 con
contratto a tempo indeterminato, e nell'anno precedente abbiano impiegato manodopera
agricola per 1 numero di giornate non inferiore a 1080.
11. CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali
di diritto civile.
La nozione di licenziamenti collettivi per riduzione di personale era stata introdotta con
l’Accordo Interconfederale 7 Agosto 1947 -> la disciplina sostanziale si fondava sul vincolo,
posto a carico dell’imprenditore di giustificare il licenziamento; vincolo poi precisato con
l’accordo del 1965 come obbligo di motivare il licenziamento con una giusta causa o un
giustificato motivo. Di contro, la nozione di licenziamento collettivo veniva identificata da
esigenze di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, la cui presenza escludeva la
necessità di giustificare i singoli licenziamenti individuali.
*La ragione di ciò va ravvisata nella considerazione che i licenziamenti collettivi sono un
aspetto del generale potere di organizzazione intrinseco all’interesse dell’impresa, a sua
volta funzionale al potere economico che trova il suo riconoscimento generale nella
previsione costituzionale del diritto alla libertà di iniziativa economica privata.*
Il quadro era destinato a mutare per effetto della L.604/1966 che introduceva limiti incisivi
al potere di recesso del datore di lavoro in materia di licenziamenti individuali. Come si è
visto, il legislatore del 1966 aveva escluso la materia dei licenziamenti collettivi per
*Ne è conseguito che per lungo tempo l’assenza di una specifica disciplina legislativa in
materia di licenziamenti collettivi ha attribuito alla giurisprudenza il compito di precisarne
la nozione proprio per escludere la tutela prevista per il licenziamento individuale e di
individuare le forme di tutela eventualmente riconoscibili al singolo lavoratore in virtù della
contrattazione collettiva.*
- Nel caso in cui non fossero stati rispettati i criteri di scelta fissati dagli accordi
interconfederali, a fronte dell’illegittimità del licenziamento il lavoratore avrebbe
avuto diritto solo ad una tutela risarcitoria per il danno subito, con ciò escludendosi
la stabilità reale, anche ove strettamente applicabile.
- Infine, la Corte aveva affermato il principio secondo cui il giudice non può valutare
il merito, cioè l’opportunità, delle scelte tecniche e produttive adottate
dall’imprenditore a giustificazione della riduzione del personale, poiché esse
rientrano nella libertà di iniziativa economica garantita ex art.41 Cost.
L’eccedenza si manifesti nel corso di una crisi per la quale sia stato concesso
l’intervento della CIGS -> COLLOCAMENTO IN MOBILITA’ DEI LAVORATORI.
Esso può essere attuato da imprese che hanno in corso l’intervento della CIGS, e
quindi è implicito il limite dimensionale occupazionale di 15 dipendenti ai fini
dell’applicabilità dell’istituto.
i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, deve avviare una
procedura di licenziamento collettivo.
PROCEDURA ->
16. Il licenziamento dei lavoratori eccedenti. Gli aspetti formali del recesso. Le
sanzioni per il licenziamento illegittimo.
Una volta esaurita la procedura, anche in assenza di accordo collettivo l’imprenditore può
procedere al licenziamento dei lavoratori eccedenti. Il legislatore ha dettato alcuni criteri
di scelta da valere in mancanza di accordo sindacale -> è previsto che l’individuazione dei
lavoratori da licenziare avvenga tenendo conto delle esigenze tecnico-produttive ed
organizzative del complesso aziendale e nel rispetto dei criteri fissati dai contratti collettivi,
ovvero, in mancanza, dei seguenti criteri in concorso tra loro: carichi di famiglia, l’anzianità
e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
Ha previsto che in ogni caso il numero degli invalidi non possa essere superiore
alle percentuali previste dalla normativa in materia di assunzioni obbligatorie
rispetto al totale dei lavoratori licenziati.
Ha previsto che resti invariato il rapporto percentuale tra la manodopera
femminile e quella maschile occupata con riferimento alle mansioni prese in
considerazione.
Una volta individuati i lavoratori da licenziare, è imposta la comunicazione individuale in
forma scritta del licenziamento che deve rispettare l’obbligo del preavviso.
17. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale ai sensi dell’art 24, l.n.
223/1991.
Accanto al licenziamento nel corso della procedura di CIGS viene disciplinata all'ipotesi in
cui l'imprenditore pur avendo la possibilità di richiedere l'ammissione all'intervento
L’art.24 pone a fondamento del licenziamento collettivo per riduzione di personale “una
riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” aggiungendo i requisiti numerici,
temporali e spaziali di cui si è detto -> ne scaturisce una definizione molto ampia di tipo
teleologico, qualificata dal collegamento tra ridimensionamento aziendale e riduzione di
personale. L’esistenza dei detti requisiti va riscontrata nella fase di attivazione della
procedura e non anche in quella conclusiva. Quindi, in presenza di una riduzione o
trasformazione di attività di lavoro, l'attivazione della procedura da parte dell'imprenditore
comporta di per sé la natura collettiva di licenziamento.
Qualora il giudice accerti che una pluralità di licenziamenti individuali si fondi su una
"riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" e che ricorrano i requisiti temporali,
numerici e spaziali dell'articolo 24, i licenziamenti stessi devono essere considerati
collettivi e ne consegue l'applicabilità della tutela indennitaria.
18. L'estensione del campo di applicazione dell'articolo 24 della legge numero 223
del 1991: datori di lavoro non imprenditori e dirigenti.
Il datore di lavoro non imprenditori sono stati inclusi nel 2004 nel campo di applicazione
della tutela contro i licenziamenti collettivi. È stata estesa ai "privati datori di lavoro non
imprenditori", ad esclusione delle norme relative al contributo di mobilità. È stato previsto
l'assoggettamento la disciplina dei licenziamenti collettivi nel caso di cessazione
dell'attività. Per quanto riguarda le sanzioni per il licenziamento illegittimo, ai datori di
lavoro non imprenditori si applica lo stesso apparato sanzionatorio stabilito dall'articolo 5
per gli imprenditori. Tuttavia nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori "che
svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione
ovvero di religione di culto" nel caso di legittimità del licenziamento, trova applicazione la
tutela obbligatoria di cui alla l.604/1966. Per le organizzazioni di tendenza il d.lgs.23/2015
le parifica, quanto alle regime sanzionatorio ivi previsto per i licenziamenti illegittimi, anche
collettivi, alle organizzazioni che perseguono fini di lucro.
Per la categoria dirigenziale trova applicazione l'intera procedura, con la precisazione che
nella fase sindacale devono essere previsti "appositi incontri", dedicati alla categoria,
mentre vengono escluse le disposizioni che riguardano la CIGS e l'indennità di mobilità.
Una delle grosse novità adottate con la l.92/2012 è l'eliminazione della indennità di
mobilità e della procedura che ad essa dà accesso; alla indennità il legislatore ha sostituito
l'ASpi, con il Jobs act 2 rinominata Naspi. Il voto conseguente alla abrogazione della
procedura di mobilità è stato invece formato con la riconduzione di qualunque ipotesi di
eccedenza di personale nella fattispecie del licenziamento collettivo per riduzione di
personale, ex articolo 24. Alla soppressione consegue anche quella delle liste di mobilità e
di tutti i benefici previsti per agevolare e velocizzare la ricollocazione nel mercato di lavoro
dei lavoratori espulsi. Tale rilevante modifica legislativa e accompagnata da 1 periodo
transitorio che scadrà il 31 dicembre 2016; sino a tale data potrà continuarsi ad utilizzare
la procedura con accesso alla relativa indennità; sopravvivrà al 31 dicembre 2016 in favore
dei lavoratori che avranno iniziato a goderne entro tale data, con scadenza successiva a
seconda del requisito anagrafico e geografico.
Tra le modifiche apportate nel 2013 compare quella che riconosce al datore di lavoro che
assuma il percettore di naspi un contributo mensile pari al 20% del trattamento ancora da
godere.
I soggetti disoccupati involontari, che non possono godere dell'indennità di mobilità, hanno
diritto, a partire dal 1 maggio 2015, a percepire il trattamento di naspi, la cui durata è pari
al 50% delle settimane contribuito nel quadriennio mobile.
Hanno diritto di precedenza rispetto alle assunzioni effettuate dalla stessa azienda che li
ha licenziati entro 6 mesi dal licenziamento. Previa loro iscrizione nelle liste di mobilità, è
prevista la possibilità di assunzione a termine con contratto di durata non superiore a 12
mesi, usufruendo di un regime contributivo agevolato. Per contrastare applicazioni
fraudolente della disciplina il legislatore ha escluso i benefici per l'assunzione di
quell'lavoratori licenziati nei 6 mesi precedenti da parte di imprese dello stesso di diverso
settore di attività che al momento del licenziamento presenta assetti proprietari
sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume, ovvero risulta con
quest'ultima in rapporto di collegamento-controllo.
La riforma del mercato del lavoro del 2015 ha introdotto un regime di condizionalità a
carico dei percettori dei trattamenti di sostegno del reddito in caso di disoccupazione
involontaria, decisamente più articolato sotto il profilo sanzionatorio rispetto a quello
precedentemente in vigore. La legge assicura l'iscrizione nelle liste di mobilità anche
lavoratori che siano collocati in mobilità ai sensi dell'articolo 4, ma non abbiano diritto
all'indennità di mobilità nonché a quelli licenziati per riduzione di personale senza
indennità di mobilità.
La cancellazione dalle liste di mobilità è ricondotta varie ipotesi: scadenza dei periodi
massimi per i quali è prevista la corresponsione dell'indennità; la seconda si accompagna
alla decadenza del trattamento di mobilità eventualmente percepito, si ricollega al venir
meno dello stato di disoccupazione.
Per i percettori di naspi è stato introdotto nel 2013 un incentivo analogo, alla lavoratore
che assuma a tempo pieno e indeterminato fruitori di naspi è concesso un contributo
mensile pari al 50% della indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al
lavoratore. Nel 2015 è stato ridotto al 20% per destinare il 30% al finanziamento
dell'ANPAL.
20. Gli oneri economici posti a carico delle imprese che procedono a riduzioni del
personale.
Il sostegno accordato agli esuberi, sia in termini di trattamento di disoccupazione, sia per
gli incentivi finalizzati alla loro ricollocazione, richiede cospicue risorse al cui reperimento
sono chiamati anche i datori di lavoro che abbiano proceduto a riduzione del personale.
La compartecipazione finanziaria delle imprese è stata estesa dalla riforma Fornero a tutte
le ipotesi di licenziamento, a prescindere dalla fattispecie istintiva utilizzata, con un
aggravamento a carico delle imprese che procedono a riduzioni di personale che non diano
diritto al trattamento di mobilità, finché esisterà.
La l.223/1991 ha posto a carico del datore di lavoro soggetto alla disciplina della CIGS il
contributo di mobilità. Per ogni lavoratore licenziato ai sensi dell'articolo 4 l'impresa è
tenuta a versare all'Inps, in 30 rate mensili, un contributo pari a 6 volte il trattamento
mensile iniziale di mobilità; maggiorato del 50% per i lavoratori licenziati ai sensi
dell'articolo 24.
La normativa introdotta nel 2012 confermata nel 2015 ha previsto il cosiddetto "ticket di
licenziamento", pari al 41% del massimale mensile di naspi per ogni anno di anzianità
aziendale fino a un massimo di 3, in ogni caso di cessazione del rapporto per licenziamento
che darebbe diritto al trattamento di disoccupazione. Non è dovuto ove l'ossia quello di
mobilità.
Uno strumento indispensabile per creare nuova occupazione è quello degli incentivi i datori
di lavoro che effettuano nuove assunzioni. Per creare dei posti di lavoro non sempre sono
sufficienti misure di politica attiva del lavoro, che agisce sul lato dell'offerta di lavoro,
essendo spesso necessario utilizzare strumenti ad hoc atti a stimolare la domanda di
lavoro, riconducibili alla politica attiva per l'occupazione. Quest'ultima è condizionata
essenzialmente da 2 fattori: il 1º è quello finanziario; il 2º è rappresentato dai vincoli posti
in materia dal trattato sul funzionamento dell'unione europea che vieta gli "aiuti di Stato"
alle imprese ove idonei a falsare la libera concorrenza all'interno dell'unione. Le deroghe
sono riconducibili a 3 situazioni:
2. Non competono nell'ipotesi inversa della precedente e cioè se l'assunzione viola il diritto
di precedenza;
4. Gli incentivi non spettano per quei nuovi assunti che siano stati licenziati, nei 6 mesi
precedenti, da parte di un datore di lavoro che al momento dell'licenziamento presenti
assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore che assume.
Tali condizioni sono state riprodotte dal decreto legislativo 14 settembre del 2015, numero
150. Un’ipotesi di incentivo all'occupazione è rappresentata dall'incentivo dell'auto
impiego, all'autoimprenditorialità e al lavoro di cooperativa, ispirato all'idea che
l'incremento dei livelli occupazionali non necessariamente deve passare attraverso il lavoro
subordinato.