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DOTTRINA PURA DEL DIRITTO

Serve per conoscere solo l’oggetto di studio e cerca di rispondere alle domande che cosa e com’è il
diritto, eliminando le superficialità che non appartengono a quest’ultimo. Il diritto è un fenomeno
complesso e sociale, dove una parte risiede nel mondo naturale, perché qualifica un fatto che sta nel
tempo e nello spazio, un fatto naturale. Questi fatti diventano rilevanti per il diritto quando quel fatto
(comportamento umano), diventa contenuto o oggetto del diritto. Non c’è un comportamento che di
per se è diritto, ma esso lo diventa attraverso una norma.

AUTOQUALIFICAZIONE DEL MATERIALE SOCIALE

Il materiale sociale (quello ordinato dallo studioso) secondo Kelsen, porta con se un autosignificato,
cioè si autoqualifica. Infatti il soggetto che agisce attribuisce al suo comportamento un determinato
significato.
Il significato di questo comportamento (atto) viene distinto in un senso soggettivo e oggettivo. Il
primo corrisponde al significato che un soggetto da al suo comportamento; il secondo è il significato
dell’ordinamento dato al comportamento del soggetto. Per Kelsen ambedue i significati possono
coincidere, ma non è obbligatorio, se non c’è coincidenza prevale quello oggettivo.

LA NORMA COME SCHEMA QUALIFICATIVO

Per Kelsen (giuspositivista, formalista e normativista), è la norma che qualifica giuridicamente un


comportamento, essa pertanto funziona come schema qualificativo, cioè qualifica, attribuisce a un
comportamento umano (fatto) un determinato significato che per l’ordinamento, può essere lecito o
illecito.

TEORIA DEL MINIMO ETICO

Secondo tale teoria se il diritto non ha un minimo di eticità, non è diritto. Kelsen non accetta ciò, egli
vuole superare la dipendenza del diritto dalla morale.

VALORE DELLA GIUSTIZIA

C’è una definizione relativa, ma non assoluta, relativa al soggetto che esprime questo valore; in questo
modo il relativismo assiologico diventa assoggettivismo (ogni soggetto esprime il suo giudizio di
valore sulla giustizia). La giustizia può essere intesa come felicità sociale, un ordinamento che
soddisfa la maggior parte degli uomini; essa può essere anche intesa come legalità e quest’ ultima,
per Kelsen, è l’applicazione costante della norma.

DOVER ESSERE TRASCENDENTE - DOVER ESSERE TRASCENDENTALE

I giusnaturalisti affermano che il diritto fa parte della morale e di conseguenza anche il diritto ha un
dover essere trascendente, ma Kelsen, contrario a ciò, vuole distinguere il diritto dalla morale. Il
diritto è trascendentale perché essendo la norma qualificazione giuridica di un fatto (comportamento
umano), il diritto può attraverso queste qualificazioni mutare nel tempo e nello spazio, perché può
interessarsi a qualunque fatto.

LEGGE DI IMPUTAZIONE

Se c’è A deve esserci B, è la struttura della norma giuridica dove vi è un nesso di imputazione, dove
la sanzione scatta per un illecito. La sanzione avviene quando il soggetto ha commesso l’illecito. Il

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giudice deve innanzitutto verificare che ci sia stato un illecito (ci può essere stato per un fatto naturale
nel tempo e nello spazio, ma quel fatto non è considerato illecito perché il soggetto che lo ha posto in
essere non è un soggetto responsabile) e di conseguenza, deve imputare la sanzione all’illecito; il
giudizio ipotetico “se c’è un illecito deve esserci una sanzione” ha come nesso di collegamento il
dover essere.

LEGGE DI CAUSALITA’

Se c’è A deve necessariamente esserci B (A è la causa e B è l’effetto), dove se c’è una causa deve
necessariamente esserci un effetto. Kelsen fa riferimento alla legge naturale, analizzata dallo studioso
che ha di fronte fenomeni naturali, che sono indipendenti dalla volontà dell’uomo. Secondo Kelsen è
proprio la sanzione come atto coattivo fisico che individua il diritto nella sua specialità degli altri
sistemi di regole. Le teorie giusnaturalistiche considerano l’illecito fuori dal diritto, per Kelsen,
invece, è condizione essenziale del diritto stesso.

IL DIRITTO COME NORMA COATTIVA

La teoria del diritto è stata concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva, che
stabilisce una coazione e che si distingue dalle altre norme. Ad una proposizione giuridica consegue
l’atto coattivo dello Stato (cioè la sanzione) e solo per questo il fatto condizionante viene considerato
come illecito e quello condizionato come conseguenza dell’illecito. Quindi solo con un atto coattivo,
scatta l’illecito. *(il diritto come norma coattiva – scrivere i 3 tipi di sanzione).

IL CONCETTO DI ILLECITO

Per il giuspositivismo, non avrebbe senso la presenza del diritto se non ci fosse l’illecito,
significherebbe che tutti gli uomini assumono un comportamento conforme all’ordinamento, ma ciò
non si è verificato mai. La dottrina pura è contro la concezione che il diritto verrebbe infranto
dall’illecito, ma è grazie a quest’ultimo che il diritto raggiunge la sua funzione. Quindi l’illecito
conferma l’esistenza del diritto.

IL DIRITTO COME TECNICA SOCIALE

Secondo Kelsen, il diritto non ha un fine, è tecnica sociale perché non possiede uno scopo da
realizzare. Semmai può avere “un fine minimo” (ordine, pace,ecc…). Il diritto serve perciò a
raggiungere fini che non sono suoi, ossia sono proposti dai soggetti che sono al potere. Tali fini
possono essere di qualsiasi tipo, cioè se il diritto può avere qualsiasi contenuto, vuol dire che
qualunque fine può essere perseguito. Se poi questo fine sia condiviso o no, per Kelsen non ha
importanza.

NORMA PRIMARIA E NORMA SECONDARIA

La norma primaria prescrive il comportamento da tenere per evitare la sanzione (tu non devi fare, tu
non devi uccidere…). Quella secondaria attua la sanzione quando è stato commesso un illecito. Per
Kelsen, la dottrina pura serve per definire il carattere decisivo della norma giuridica. Egli,
capovolgendo tali affermazioni sostiene che la norma primaria combina la sanzione e quella
secondaria prescrive il comportamento per evitare la sanzione. Per Kelsen quella primaria diventa
addirittura superflua perché può essere inglobata nella secondaria.

MOTIVI DI OBBEDIENZA AL DIRITTO

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Se una norma prescrive determinati comportamenti è perché vuole raggiungere determinati fini, ma
la prescrizione può essere anche contraddetta perché non sempre coincide ciò che è con ciò che deve
essere. La norma per sua natura può essere violata, altrimenti non avrebbe senso la sua esistenza.
Prescrivere cose inutili o impossibili potrebbe anche essere ammesso (il diritto può avere qualunque
contenuto), ma per Kelsen non avrebbe senso. La sanzione è presente nell’ordinamento e distingue la
norma giuridica da quella naturale, ma alcune norme (diritto pubblico) possono anche essere
sprovviste di sanzioni; ma ciò non significa che anche l’ordinamento ne sia sprovvisto.

LA NEGAZIONE DEL DOVER ESSERE

Kelsen non nega il dover essere, ma secondo lui, la sociologia del diritto lo fa. Essa appiattisce il
dover essere con l’essere, studiando il comportamento effettivo degli uomini. La giurisprudenza
sociologica, negando il dover essere non rivela quella dimensione formale del diritto, perché una
norma finchè non è applicata, non è ancora diritto. Per Kelsen bisogna delimitare la categoria del
dover essere al suo oggetto e chiarire tecnicamente il suo metodo, identificando la tipologia del diritto;
nessuna teoria può dirsi esaustiva di tutto il fenomeno del diritto, perché ogni teoria privilegia una
parte del fenomeno giuridico.

LA NORMA

Secondo Kelsen la norma non coincide con l’atto di volontà, ma è il senso dell’ atto di volontà, perché
se la norma coincidesse con tale atto, essa si esaurirebbe in quell’atto. Alla dottrina pura del diritto
interessa la norma come struttura qualificativa, voluta o rappresentata, cioè nel momento in cui la
norma è posta, essa diventa diritto positivo, ossia la norma è valida perché esiste.

IL SENSO NORMATIVO DEL DIRITTO

Kelsen ritiene che al contrario della sociologia del diritto, soltanto il dover essere può essere la chiave
di conversione del fenomeno giuridico. Egli dice che ciò che è necessario non è abolire la categoria
del dover essere o della norma, ma limitare tale scelta nel suo oggetto e chiarire il suo metodo

DOVER ESSERE ED ESSERE DEL DIRITTO

La dottrina pura del diritto ha una tendenza antideologica, isolando il diritto positivo da ogni ideologia
giusnaturalistica della giustizia. La validità dell’ordinamento giuridico impedisce che il diritto
positivo sia un ordinamento superiore e quindi la dottrina pura del diritto è intesa come teoria del
positivismo giuridico. Kelsen affronta tale tematica dicendo che guarda il diritto svincolato dal
problema della giustizia e lo affronta nella sua realtà come esso è (non come vogliamo che esso sia).
Questo punto è anche oggetto della sociologia del diritto, ma dato che Kelsen non è un sociologo,
egli si occuperà del diritto reale e non di quello ideale.

AMBITI DI VALIDITA’ DELLA NORMA GIURIDICA

La validità è l’esistenza specifica della norma. La norma è valida quando è costruita all’interno
dell’ordinamento giuridico. Gli ambiti di validità sono: spaziale, temporale, personale, materiale.
Spaziale: indica lo spazio nel quale la norma è valida (limitata quando la norma è valida solo per un
determinato spazio; es. può regolare fatti in un determinato luogo, illimitata quando la norma vale
ovunque, cioè può regolare fatti che possono accadere ovunque).

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Temporale: è validità di un insieme di norme valide nel tempo (limitata quando la norma può valere
soltanto in un determinato tempo, illimitata quando la norma vale sempre; es. regola fatti che possono
accadere sempre).
Personale: fa riferimento ai soggetti destinatari della norma (limitata quando si riferisce a un
particolare numero di soggetti, illimitata quando si rivolge all’universalità degli uomini).
Materiale: si riferisce alla materia che la norma regolamenta; rappresenta, secondo Kelsen, l’oggetto
che è contenuto nella norma giuridica (es. materia religiosa). E’ limitata quando è contenuta in una
determinata materia, illimitata quando si riferisce a qualunque materia.
Per Kelsen non è compito della scienza del diritto occuparsi della naturalità, dato che la dottrina pura
del diritto studia solo gli aspetti formali. La norma non deve essere confusa con l’atto con cui è
stabilita, perché mentre quest’ultimo è un fatto naturale stando nel tempo e nello spazio, la norma no.
Dato che sia la norma che l’atto possono avere lo stesso contenuto, è necessario che sia il tempo che
lo spazio siano determinati nel contenuto della norma stessa.

L’ORDINAMENTO COME SISTEMA DI NORME

Si può distinguere in due parti: NOMOSTATICA (analisi degli elementi fondamentali del diritto,
dove c’è un importante processo di purificazione delle strutture giuridiche formali) e
NOMODINAMICA (considera le norme nei loro rapporti reciproci, e dunque l’ordinamento giuridico
come sistema di norme)
Su cosa è fondata l’unità di una pluralità di norme giuridiche ? Essa è fondata sulla norma
fondamentale. Il fondamento della validità dell’intero ordinamento giuridico si base su un criterio
dinamico, la norma fondamentale. Per Kelsen, tale norma è all’interno di un sistema di norme
giuridiche e morali. Nella norma fondamentale morale, una norma è valida in forza al suo contenuto
e quindi è immediatamente valida perché è immediatamente comprensibile tale contenuto; tutte le
norme morali sono coerenti con il contenuto della norma fondamentale, cioè le singole norme
dell’ordinamento morale sono dedotte dal contenuto della norma fondamentale. La norma
fondamentale del sistema morale ha un carattere statico-materiale, perché c’e una relazione nel
contenuto e nella logica delle singole norme dell’ordinamento.
La norma fondamentale del sistema giuridico non è valida in base al suo contenuto perché non si può
predeterminare il contenuto della norma fondamentale e per questo, l’ordinamento giuridico ha un
carattere dinamico-formale, perché c’è una relazione di validità dove tale norma fondamentale
dell’ordinamento giuridico rappresenta il criterio di validità dell’intero ordinamento.

LA NORMA FONDAMENTALE

Essa da validità a tutte le norme di grado inferiore ed è presupposta (la norma fondamentale del
sistema giuridico è un presupposto su cui si regge tutto l’ordinamento). E’ presupposta perché è un
ipotesi della dottrina pura del diritto. Serve allo studioso per comprendere tutto l’ordinamento
giuridico. Tale norma attribuisce a tutti gli atti dell’ordinamento il significato del “dover essere” ,
quel significato dove la condizione è legata alla conseguenza del diritto. Kelsen parla di proposizione
giuridica distinguendola dalla norma fondamentale, dove la prima si occupa della descrizione, serve
allo studioso per descrivere il diritto; la seconda si occupa di prescrivere. Il diritto, quindi, viene
prescritto e creato dal legislatore e dal giudice (attraverso la sentenza); importante per lo studioso è
capire che il diritto viene creato dal soggetto addetto dall’ordinamento. La proposizione giuridica è
la forma tipica in cui si presenta il materiale del diritto positivo e soltanto in base ai presupposti della
norma fondamentale, il materiale empirico può essere inteso come diritto, come sistema di norme
giuridiche. La norma fondamentale può avere qualsiasi contenuto e se è vero che all’apice di un
ordinamento vi è un potere, la norma fondamentale autorizza qualsiasi potere a ordinare qualunque
tipo di ordinamento.

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COSTITUZIONE A GRADI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO

Per Kelsen la validità di una norma dipende dalla validità di una norma di grado superiore, dove
appunto, una norma di diritto positivo trova la sua validità in una norma posta al di sopra di essa.
Nella costituzione a gradi dell’ordinamento giuridico ogni norma inferiore ha un rapporto con quella
superiore.
Al primo posto c’è la norma fondamentale, poi la costituzione che regola gli organi e la produzione
giuridica. La costituzione determina anche il contenuto delle leggi future e essa non può essere
modificata o cancellata da una legge ordinaria; c’è bisogno di una maggioranza qualificata. Al terzo
posto ci sono le norme generali prodotte dal procedimento legislativo (legislazione) che regolano la
produzione e il contenuto degli atti giurisdizionali e amministrativi, dove giurisdizione e
amministrazione sono al quarto posto nella costituzione a gradi. Queste ultime servono per
individualizzare e concretizzare le leggi generali e si pongono sullo stesso piano dove concretizzano
il diritto per realizzare uno stato sociale desiderabile e qui interviene in maniera evidente la sanzione,
come atto coattivo. Attraverso la sanzione si scoraggiano quei comportamenti negativi per poter
raggiungere il fine desiderato. Kelsen richiama il negozio giuridico come grado dell’ordinamento e
si intromette nelle norme di diritto civile, applicate dai tribunali, fra la legge e la sentenza. Sesto ed
ultimo grado dell’ordinamento giuridico è l’atto esecutivo, che è l’esecuzione della norma di grado
superiore, perché uno più basso non c’è.
Il conflitto fra norme (antinomia) avviene, per Kelsen soltanto fra norme di grado superiore e norme
di grado inferiore purché esse appartengano allo stesso ordinamento e si occupino dello stesso ambito
di validità. Le antinomie vengono superate in 3 modi con tre criteri: criterio cronologico (la legge
posta in essere successivamente, prevale su quella posta in essere prima, quindi la legge successiva
deroga quella anteriore), criterio gerarchico (nelle norme poste su piani diversi, quella superiore
deroga quella inferiore, dove la norma di grado superiore ha maggior forza rispetto a quella di grado
inferiore), criterio di specialità (la legge speciale deroga quella generale, dove la prima soddisfa le
esigenze di determinate persone, la seconda quelle di tutti i soggetti). Un’eventuale contraddizione
sul piano logico, tra norme, non esiste perché essa viene elisa quando l’organo la verifica.
L’ordinamento può superare eventuali conflitti, grazie ai suoi strumenti, quindi esso si completa,
diventa coerente. Per Kelsen, la norma di grado inferiore contraria alla superiore è comunque valida
e in questo modo l’ordinamento si autocorregge, passando da una contraddizione a una condizione.
Un’eventuale norma nulla non esiste, la norma o è valida o è annullabile. Quando la Costituzione
ammette la validità delle leggi incostituzionali, si riferisce a quel particolare contenuto che le leggi
devono o non devono avere e se la legge viene prodotta in un modo diverso, c’è bisogno di una
sentenza costituzionale. Per “contrarietà alla norma” si intende o la possibilità della sua abrogazione
quindi l’annullabilità mediante un atto giuridico oppure la sua nullità, cioè la sua negazione come
norma valida, mediante una conoscenza giuridica.

INTERPRETAZIONE E INDETERMINATEZZA

L’interpretazione è un procedimento spirituale che si unisce a quello della produzione del diritto, per
sviluppare il passaggio dal grado superiore a quello inferiore (la norma inferiore viene regolata da
quella inferiore per la sua creazione e per il suo contenuto; avviene in qualunque grado
dell’ordinamento giuridico.
L’indeterminatezza significa che, evidentemente, la norma presenta uno schema che deve essere
riempito attraverso il procedimento interpretativo e se così non fosse, l’interpretazione non avrebbe
nemmeno senso. Essa può essere intenzionale (il legislatore volutamente lascia spazi a colui che deve
interpretare la norma in modo tale che l’interprete possa scegliere il modo migliore per rappresentarla)
o non intenzionale (il testo legislativo non è sempre chiaro e quindi l’interprete deve capire qual è il
bene giuridico leso e tutelarlo). Lo strumento interpretativo consente al diritto di adeguarsi ad ogni
possibile caso concreto.

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LE LACUNE

L’interpretazione ha anche la funzione di colmare le lacune, propriamente dette. L’ordinamento


giuridico contiene la proposizione per cui si è obbligati a un determinato comportamento, ma anche
la proposizione “si è liberi di fare o di non fare quello a cui non si è obbligati”. Quando si parla di
lacuna significa che la decisione presa è inadatta o ingiusta all’applicazione della legge. Per Kelsen,
“le lacune propriamente dette” non esistono, quello spazio vuoto che si è creato è irrilevante; esse
sono la differenza tra il diritto positivo e un ordinamento ritenuto migliore, più giusto e soltanto
facendo questi paragoni e trovando in essi dei difetti che si può dimostrare l’esistenza della lacuna.
Le lacune tecniche vengono riconosciute anche da coloro che rinnegano l’esistenza delle lacune
propriamente dette; esse si costituiscono quando il legislatore omette di regolare comportamenti (es.
compravendita di un bene perito prima della sua consegna). Nella finzione della lacuna colui che
applica il diritto deve pensare che è libero di sostituirsi al legislatore. La lacuna nella legge esprime,
invece, un concetto ideologico.

DUALISMO TRA DIRITTO PUBBLICO E DIRITTO PRIVATO

Quando si parla di diritto pubblico, ci si riferisce allo Stato come sovrano, come entità superiore
rispetto ai sudditi (coloro che obbediscono all’ordinamento). Secondo Kelsen, relativizzando questo
dualismo, portandolo da un livello extrasistematico (lo Stato è posto fuori dal diritto) a un livello
intrasistematico (lo Stato all’interno dell’ordinamento), si può comprendere che la riduzione del
dualismo non è totale. Il rapporto di diritto pubblico individua un rapporto tra lo Stato e i suoi sudditi.
Lo Stato, quindi, non viene più inteso come al di fuori del diritto, ma come elemento che può essere
regolato da una teoria giuridica. Nei rapporti di diritto pubblico solo uno dei soggetti del rapporto (gli
organi dello stato) produce diritto.
Nel rapporto di diritto privato i soggetti hanno lo stesso valore giuridico ed entrambi producono diritto
(il negozio giuridico). In ambedue i rapporti (pubblico e privato) si produce diritto; solo che nel diritto
privato, i soggetti sono più liberi di produrre diritto. Per Kelsen c’è un residuo di dualismo.

DUALISMO TRA DIRITTO E STATO

Kelsen vuole cogliere una funzione ideologica sullo Stato di diritto. Innanzitutto il diritto è piegato
alla giustizia e così si ha un ordinamento giusto; il diritto come giustizia può dare legittimità allo
Stato. In questo modo per lui, si parla di Stato di diritto. Per le dottrine tradizionali, lo Stato avvolte
è in contrasto rispetto all’ordinamento giuridico o comunque in una posizione di superiorità (esso qui
è inteso come un macroantropo onnipotente, cioè un grande uomo che tutto può); è la teoria
dell’autolimitazione dello Stato che definisce “lo Stato come presupposto del diritto” (qui lo Stato
precede il diritto, ma allo stesso tempo ad esso si sottopone). L’ordinamento giuridico si chiama Stato,
quando ha raggiunto un certo grado di accentramento dove ci sono organi legislativi, esecutivi,
giudiziari. Gli organi dello Stato possono essere compresi soltanto come fatti di produzione e di
esecuzione giuridica e le forme dello Stato sono metodi di produzione dell’ordinamento giuridico
(volontà dello Stato) dove la funzione statale è identificata da regole. Quando si parla di “forza dello
Stato”, si parla dell’efficacia dell’ordinamento giuridico. Inoltre c’è la dissoluzione ideologica sulla
legittimazione, dove il diritto identificato con lo Stato non può autolegittimarsi.
Non si può concepire lo Stato diversamente da come viene fatto per il diritto, il quale è ordinamento
oggetto di conoscenza giuridico-normativa.
Lo Stato può commettere l’illecito? Direttamente no, ma i funzionari dello Stato si e quando ciò
accade, per Kelsen, non sono nemmeno tali.

DUALISMO TRA STATO E DIRITTO INTERNAZIONALE

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Anche per questo dualismo, come negli altri, Kelsen deve rispondere all’esigenza antideologica e di
unità dell’ordinamento. Kelsen fa riferimento agli anni ’30 quando si discuteva se il diritto
internazionale fosse diritto. Per lui esiste e si rivolge direttamente agli stati, i quali poi vincolano i
singoli individui a determinati comportamenti. Il punto di frizione è appunto, una limitata autonomia
statale nella produzione del diritto. L’unità si costituisce mediante la concezione di due teorie: teoria
dualistica e teoria monistica.
La teoria dualistica ammette che lo Stato non trova al di fuori di se stesso un fondamento e se si
ammette l’esistenza di un diritto internazionale avviene solo se è riconosciuto da quello statale;
secondo Kelsen questa teoria difetta, perché sembra che si è costretti ad ammettere tale unità. Questa
unità subordinata al riconoscimento da parte dell’ordinamento statale (teoria monistica in senso
debole), non funziona. Il filosofo di Praga ne vuole una in senso forte, senza limiti o subordinazioni
perché due ordinamenti di pari grado non possono porsi vincoli reciprocamente. Quindi l’unità, per
Kelsen, è raggiunta attraverso la subordinazione dell’ordinamento statale a quello internazionale. Si
individua una gerarchia di norme nel diritto internazionale, ma essendo l’ordinamento internazionale
primitivo, i confini sono molto labili:
Diritto consuetudinario generale: E’ al primo posto in tale piramide e le norme vengono create
attraverso la consuetudine; il diritto positivo dice che la consuetudine è diritto che si afferma ed essa
vale per tutti gli stati.
Diritto internazionale convenzionale: Posto al secondo grado, vincola soltanto quegli stati che hanno
posto in essere delle norme giuridiche (es. Trattato), norme che valgono solo fra quegli stati.
Norme prodotte dai tribunali internazionali: sono le sentenze prodotte da organi centrali per
investigare l’esistenza del fatto illecito compiuto dagli stati. La presenza del tribunale internazionale
è poco cogente perché il diritto statale ha una forza vincolante maggiore, rispetto ai suoi destinatari.
Esiste una norma fondamentale internazionale che da significato giuridico a fatti o atti che diventano
giuridici. E’ presupposta, serve cioè alla comprensione del diritto da parte di chi studia. Essa viene
posta da Kelsen all’apice dell’ordinamento (attenzione, perché non ci sono due norme fondamentali,
quella statale e quella internazionale, dove diritto statale è subordinato a quello internazionale). La
validità dell’ordinamento statale riposa nel grado più basso di quello internazionale, cioè le norme
prodotte dai tribunali internazionali.
+ scrivere validità ed efficacia dell’ordinamento giuridico

PROFILO METODOLOGICO DELLO STUDIO DEL DIRITTO

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Cotta fa spesso riferimento a Kelsen, dove il primo è giusnaturalista, il secondo giuspositivista. Se
per Kelsen il giuspositivismo esclude il giusnaturalismo, per Cotta, invece, queste due correnti non
possono escludersi a vicenda ed egli cerca di trovare una compatibilità, riferendosi al valore della
giustizia per la comprensione del fenomeno del diritto. Se per Kelsen il diritto è positivo,
indipendentemente dal fatto che esso sia giusto, per Cotta se il diritto è ingiusto non è più tale, vale a
dire che la giustizia è l’ago della bilancia, il termine di paragone. Con Cotta si ha un linguaggio
filosofico e non scientifico, riferendosi a Kant, Rosmini, ecc… Cotta si pone una domanda: perché
c’è il diritto nella vita dell’uomo ? La risposta parte dal’analisi del soggetto umano, dove l’uomo
viene studiato nell’esistenza e nell’essenza umana, dove l’impostazione di Cotta fa riferimento al
diritto visto nella sua complessità. Per Cotta, a differenza di Kelsen (dove dal punto di vista della
morale, il diritto è giustizia), il diritto coincide con la morale; quindi il valore della giustizia la fa da
padrone nella prospettiva di Cotta, se vogliamo intendere l’uomo in quanto natura umana. Kelsen fa
riferimento al soggetto che produce diritto (il legislatore) e lo fa anche Cotta, ma egli sottolinea il
diritto come forma coesistenziale, vale a dire che il diritto è uno dei tanti modi di relazione. Quindi il
diritto è una forma attraverso la quale l’uomo esprime e realizza la coesistenza, cioè il suo essere io,
accanto ad altri io. Nelle 6 forme coesistenziali, quando Cotta parla del “dover essere” fa riferimento
al diritto, ma anche a quella normatività intrinseca, dove la forma coesistenziale più semplice è quella
dell’amicizia e dove c’è una doverosità (l’amico deve essere leale).
Alla domanda che cos’è il diritto ? Cotta apre una pluralità di risposte, tutte legittime, dove i metodi
di indagine non sono in contraddizione tra loro ed essi sono fenomenologia del diritto e ontologia
dell’uomo.

LIVELLI DI INDAGINE

L’indagine descrittiva di Cotta si sviluppa su più livelli:


a) Livello morfologico: Serve per distinguere la regola giuridica dalle altre regole, in base alla diversa
forma esteriore, dove la norma giuridica è emanata da un’autorità legislativa organizzata e
riconosciuta e tale norma deve essere pubblicizzata. L’indagine morfologica è più specifica e
penetrante.
b) Livello strutturale di indagine prescrittiva: L’essere prescrittivo viene richiamato da Cotta con una
definizione kelseniana (la struttura di una norma giuridica è quella di una prescrizione sanzionabile
– se c’è A deve esserci B). ma per Cotta A non è sempre e soltanto l’illecito e la sanzione ha un
concetto molto ampio, dove B può essere il riconoscimento di liceità, ma anche di illiceità.
E’ una filosofia del diritto a stabilire come deve o dovrebbe essere il diritto e senza la comprensione
dell’essere dell’uomo, non si avrà mai una comprensione del senso del diritto.

CONCETTO DI OBBLIGATORIETA’

E’ un concetto legato a quello della volontà (perché la volontà di un altro deve obbligarmi?).
Attraverso l’analisi kelseniana, Cotta critica la riduzione del diritto all’atto di volontà e critica anche
la norma fondamentale che maschera un atto di volontà da parte di soggetti politici che pongono in
essere il diritto. Quando Cotta dice che “non si può ridurre il diritto a regole della forza”, con ciò si
intende che c’è il rischio che anche un’organizzazione criminale può produrre diritto; perciò è
importante contraddistinguere la giustizia.

IL SORGERE DEL DIRITTO NELLA COSCIENZA

L’antigiuridismo sottolinea la divaricazione tra giustizia e volontà e anche perché c’è l’obbligatorietà
del diritto. Il senso comune tradizionale classifica il diritto come giustizia (condizione senza la quale
il diritto non può essere tale). L’antigiuridismo sottolinea il fatto che l’uomo non ha bisogno del
diritto, non ha bisogno di una regola esterna. Tale fenomeno rifiuta la regola obbligante che vincola

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il comportamento umano e sottolinea anche il diritto soggettivo, inteso come il “diritto-pretesa” che
il soggetto porta con se. Il diritto-pretesa e il diritto-regola devono essere connessi perché è
impensabile avere un diritto come pretesa senza una regola che coordini stabilmente i diritti fra
soggetti o viceversa.
Cotta afferma che l’uomo è un essere bisognoso, dove appunto egli ha bisogno di relazionarsi con
l’altro. Questo è per Cotta “l’essere indigente” da parte dell’uomo, dove gli elementi del fare, avere
ed essere permettono all’uomo di agire con la propria natura e qui l’uomo mostra di essere indigente.
Cotta afferma che il soggetto è un ente dinamico perché agisce; l’uomo sul piano ontico realizza
attraverso l’azione le sue potenzialità che egli ha sul piano ontologico (della natura). Facendo
riferimento a Husserl, l’uomo si rende conto che vi è un altro intorno a se, dove “il mondo ambiente”
è quello in cui l’uomo constata la realtà; l’uomo quindi si trova di fronte un mondo che avvolte gli si
pone contro.

LIVELLO ONTICO E LIVELLO ONTOLOGICO

Nel livello ontico si trova la dimensione della particolarità, dell’individualità. Mentre a livello
ontologico abbiamo una natura comune a tutti, nel livello ontico c’è il livello dell’esistenza
dell’uomo, dove questa comune natura che tutti gli uomini condividono si specifica nella vita di ogni
soggetto. E’ vero che tutti abbiamo la stessa natura, ma l’esistenza di un soggetto non può essere
uguale a un altro.
Nel livello ontologico si analizza il livello dell’essere dell’uomo, cioè il livello della natura umana,
detto anche fondamento ontologico. Qui la natura umana è generale, uguale a tutti gli uomini; essa è
universale.

IL FONDAMENTO ONTOLOGICO DELL’ESISTENZA

Tale analisi fatta da Cotta riguarda due tipologie di rischi: quello che l’uomo non si apra alla relazione
con l’altro e quello della bellicosità, cioè il rapporto conflittuale con l’altro. Entrambe queste
possibilità possono essere reali nella vita dell’uomo e Cotta individua quali possono essere gli
elementi di ausilio. L’indagine sulle condizioni reali dell’esistenza portano ad individuare 3
caratteristiche essenziali del soggetto: incompiutezza, particolarità e contingenza. L’incompiutezza è
sinonimo di infinito, dove l’uomo vuole realizzarsi, soddisfare la propria esistenza. La particolarità
parla dell’uguaglianza ontologica, mentre a livello ontico si parla di una diversità esistenziale (cioè
l’esistenza dell’uno è diversa dall’esistenza dell’altro, per via di valori, condizioni, ecc…). La
contingenza è l’essere uomo temporalmente circoscritto nella sua vita, dove è evidente che l’uomo
non è eterno, egli nasce e muore (c’è appunto un limite temporale).
Il primo ed immediato sguardo intorno a se fa capire all’uomo che egli non è solo, dove “l’esser nel
mondo”, è accompagnato dal “con-esserci”, c’è appunto un “esser insieme” che sottolinea il senso
autentico della relazione. L’uomo, in questo senso, si mostra come un ente finito (infatti solo un essere
infinito non ammette un altro essere infinito accanto a se). Poiché ogni soggetto è individuato nella
propria particolarità, non si ha una piena uguaglianza tra gli uomini, bensì una diversità tra loro e
quest’ultima fa si che la presenza dell’altro possa essere:
a) una minaccia all’esserci e all’agire dell’Io, quando le rispettive particolarità si contrastino
b) un aiuto nell’affermazione di se stesso quando le rispettive particolarità si accordino (l’Io vede
nell’altro un ausilio nella propria realizzazione).
Questi opposti individuati da Cotta sono importanti per far si che ci sia desiderio di essere da parte
dell’uomo. Se l’uomo non vivesse nella sua dimensione della “particolarità”, egli sarebbe una copia
identica della sua esistenza. Queste 3 caratteristiche (incompiutezza, particolarità e contingenza)
richiamano tre esigenze fondamentali nella vita dell’uomo (sicurezza, cooperazione e durata per
mezzo degli altri). Cotta prende in considerazione quattro istituti giuridici per soddisfare queste
esigenze fondamentali e sono: la proprietà, le successioni, le associazioni e il giudizio in senso

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tecnico. Questi quattro elementi hanno in comune regole che danno vita ad obblighi e diritti. Questi
istituti giuridici rispondono alle tre esigenze già richiamate prima (sicurezza, cooperazione e durata
per mezzo di altri).
Il diritto, quindi, consente di ottenere stabilità e cooperazione nella relazioni con il prossimo e queste
tre esigenze sono soddisfatte dal diritto che non è eteronomo, perché il legislatore condivide la
medesima natura degli altri “Io soggetti” e tale diritto non è appunto eteronomo proprio perché il
legislatore è un uomo come tutti gli altri. Per Cotta, il termine diritto non ha la stessa concezione di
Kelsen, esso è una forma coesistenziale, dove sicurezza, cooperazione e durata sono esigenze proprie,
della struttura ontologica dell’uomo. Quindi la norma disciplina i rapporti in maniera duratura e il
diritto, per Cotta, è una regola che consente all’uomo di essere se stesso insieme agli altri.

LA FINITEZZA DELL’UOMO

Perché l’uomo è un ente finito? Cotta per un verso è cattolico e per l’altro aderisce a concezioni
filosofiche. Incompiutezza, particolarità e contingenza sono elementi racchiusi nella “finitezza
dell’essere uomo”. Le esigenze esistenziali di sicurezza, cooperazione e durata, connesse con la
finitezza, ci fanno capire che quest’ultima è avvertita dall’uomo come mancanza del proprio essere.
La coscienza della finitezza come “difettiva” classifica l’uomo come ente indigente e l’indigenza è la
prima caratteristica ontologica dell’uomo che differenzia il livello umano dal non umano. Se l’uomo
è cosciente della propria indigenza, esso si pone aldilà della finitezza, ha una capacità di trascenderla.
Cotta, inoltre, analizza la coppia finito-infinito, perché vuole affermare che l’uomo è in grado di
superare il limite della finitezza, affacciandosi all’infinito. Per Cotta possiamo individuare nell’uomo
una struttura duale, dove senza il finito non si può comprendere l’infinito e viceversa. Quindi nella
struttura ontologica l’uomo consiste nella sintesi della dualità, cioè la coppia finito-infinito (l’uomo
è un unione di corpo ed anima, dove nel corpo c’è un limite finito, mentre nell’anima si racchiude la
potenzialità dell’infinito dell’uomo).

L’ACCOGLIENZA DELL’ALTRO

L’altro è al pari di se stesso, solo con la relazione con l’altro, l’uomo diventa consapevole di se stesso.
Senza tale relazione, l’uomo si illude di essere auto appagante. L’accoglienza non comporta una
diminuzione del se stesso, ma porta ad una coscienza piena della propria esistenza. Per Cotta è proprio
la relazione che conferma l’autenticità dell’Io - soggetto.

LE FORME DI RELAZIONE COESISTENZIALE

Cotta individua sei forme coesistenziali: amicale, familiare, caritativa (sono situate sul piano
interpersonale, esprimendo rapporti fra persone che non richiedono la mediazione di
un’organizzazione formale), ludica (anche se è sul piano interpersonale, richiede una specifica
mediazione fra le persone che la attuano) politica, giuridica (situate sul piano associativo, implicano
l’intervento di un’organizzazione). Tutte queste forme traggono origine dalla struttura ontologica e
hanno i medesimi parametri di analisi (l’ambito umano di estensione, il principio costitutivo, la
direzione del movimento di integrazione e il principio regolativo). Le forme coesistenziali sono
raggruppate in due relazioni: amicale, politica e familiare (relazioni integrativo-escludenti che sono
parzialmente chiuse perché si rivolgono solo ad alcuni soggetti), ludica, giuridica e caritativa
(relazioni integrativo includenti, che sono tendenzialmente aperte). Tutte le forme comunque
realizzano l’integrazione.
AMICIZIA: Essa vive nella particolarità, dove gli individui si accettano così come sono e tale forme
vive nel rapporto di dualità io-tu, dove l’ambito umano di estensione è la dualità, il principio
costitutivo è la simpatia, nella direzione del movimento di integrazione, il terzo è avvertito come

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estraneo e il principio regolativo è la lealtà (l’amico deve essere leale per avere un’amicizia autentica
e qui si esprime una regola - tu devi essere leale - e in questo modo l’amicizia è durevole nel tempo).
FAMIGLIA: E’ costituita in due livelli complessi. Nel primo livello c’è un unione indivisibile fra
individui diversi (differenza da un punto di vista biologico e spirituale). Nel secondo livello c’è un
unione data dalla coniugalità e genitorialità. Non è considerata “famiglia” l’unione omosessuale
(essendo estranea alla eterosessualità dato che comporta un’alterazione esistenziale). Qui l’ambito
umano di estensione è strettamente personale, dove la famiglia è una comunità gestita da un rapporto
“faccia a faccia”, il principio costitutivo è l’amore, la direzione del movimento di integrazione è come,
per l’amicizia, centripeta, dove si esclude il terzo, essendo una società chiusa, ma non alle altre
famiglie, il principio regolativo è la fedeltà nell’aver cura. La famiglia viene denominata società
naturale perché è radicata nella dimensione affettiva dell’uomo e perché ha una natura originaria, non
sorge da un’autorità.
CARITA’: E’ un fenomeno realmente presente nella vita umana, si estende anche all’estraneo, è
integrativo-includente ed è molto diversa dal gioco, dal diritto e dall’amicizia. Sotto quest’ultimo
profilo, l’amicizia tende alla particolarità del rapporto personale, mentre la carità tende
all’universalizzazione; è chiaro che ci sono delle affinità con l’amicizia, ma anche delle diversità
strutturali (l’amicizia si costituisce come unità simpatetica, mentre la carità fa ricorso anche a un terzo
che è Dio - io, tu, Dio). Mentre l’amicizia è un rapporto chiuso, la carità ne esprime uno aperto.
L’ambito umano di estensione è l’universalità, il principio costitutivo è il tutto comprendente, la
direzione del movimento di integrazione è il dinamismo diffusivo (cioè il soggetto procede verso
un’accoglienza universale) e il principio regolativo è l’accettazione dell’altro. Inoltre la carità si
differenzia dal diritto anche perché è fuori da schemi organizzativi.
FORMA LUDICA: è il gioco dove l’ambito umano di estensione è l’universalità degli uomini, il principio
costitutivo è la regola, la direzione del movimento di integrazione è diffusiva perché comprende tutti gli
uomini e il principio regolativo è la legalità.
DIRITTO: ha gli stessi parametri del gioco, ma le differenze sono due: mentre il gioco è disgiuntivo
(si parte da una parità e si finisce nella disparità), il diritto è congiuntivo (anche se in un processo c’è
disparità, dove l’illecito altera la parità ontologica e Cotta dice che alla fine del processo al vincitore
gli si da ragione, cosa che l’illecito aveva originariamente sottratto). La seconda differenza è che nel
gioco, l’uomo è libero di giocare e quando inizia si sottopone a delle regole.
POLITICA: C’è un’identità sovraindividuale, acquisita dalla nascita determinando una familiarità fra
individui. L’ambito umano di estensione è il noi, il principio costitutivo è il bene comune, la direzione
del movimento di integrazione è l’aggregazione a un gruppo, prodotto dall’appartenenza al “noi” e
alla partecipazione al bene comune e il principio regolativo è la solidarietà.

GIURIDICITA’ E DIRITTO IN SE

Per Cotta giuridicità è sinonimo di doverosità dove ciascuna forma coesistenziale ha delle regole.
Doverosità e libertà simmetrica sono indicatori di una giuridicità generica. Cotta individua una regola,
mediante la relazione, l’estensione, e il rapporto tra regola ed esser uomo. La regola nell’amicizia,
nella politica e nella famiglia non costituisce la relazione, ma è presente come principio regolativo in
tutte le forme coesistenziali; per il gioco e per il diritto, il principio costitutivo, invece, è proprio la
regola. L’estensione della regola può essere particolare o universale. Nel primo caso amicizia, politica
e famiglia hanno un movimento che tende verso il centro, nel secondo caso ci si rivolge
all’universalità degli uomini. Nel rapporto tra regola ed esser uomini solo con il diritto emerge un
riferimento all’uomo, perché proprio nella carità si ha un riferimento all’uomo e non nella altre forme
coesistenziali, dove la giuridicità specifica si attua mediante la totalità dell’uomo come soggetto
umano. La giuridicità, per Cotta, si sovrappone all’attività personale, è eteronoma e soffoca le libertà
dell’uomo; inoltre esprimendo “il dovere di essere”, si colloca nell’ambito del principio regolativo.

LA FUNZIONE DEL DIRITTO

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Per Kelsen, il diritto è una tecnica sociale per realizzare scopi che non coincidono con i fini del diritto
e se quest’ultimo è tecnica sociale per il raggiungimento di fini politici, la funzione del diritto è
appiattita con quella politica e tutto questo non è condiviso da Cotta. Per quest’ ultimo non si può
individuare la funzione perché la forma non è stata definita e quindi ci si rifà a teorie riduzionistiche
come quelle di Max, Croce e Schimitt. Con quest’ultimo si opera la riduzione del diritto all’attività
politica, dove Schimitt richiama Hobbs perché il sovrano è come una volontà politica che pone in
essere il diritto e quest’ultimo è visto, appunto, come “il rivestimento giuridico di una volontà
politica”. Si parla di “decisionismo” perché il sovrano esprime una decisione politica ed egli ha anche
il potere di sospendere un ordinamento giuridico. Tutti e tre i filosofi danno al diritto una funzione
formale e formalizzante. Cotta fa riferimento ad Hegel, che fa uso della dialettica per comprendere la
rilevanza della volontà statale nell’ambito politico e il pensiero Hegeliano si distingue per “il
dinamismo”, per un “processo triatico” che riguarda il diritto (la tesi), la moralità (l’antitesi) e l’eticità
(la sintesi). Lo Stato hegeliano è una sintesi del processo triatico dell’eticità e si parla di uno Stato
onnicomprendente all’interno della vita politico-giuridica dei cittadini, che ha un carattere etico ed è
la piena realizzazione dell’autocoscienza del popolo.

LA REGOLA GIURIDICA E LA GIUSTIZIA

Una prima distinzione è trovata nel vocabolario (la regola è la formula che indica o prescrive ciò che
deve essere fatto in un determinato caso). Questa è una definizione molto generale che potrebbe dare
ragione anche a Kelsen (una prescrizione generale). Facendo riferimento al linguaggio abbiamo
quello aletico, valutativo e deontico. Il linguaggio aletico (linguaggio di verità) esprimono
proposizioni attinenti alla mera verità (es. quest’automobile è di X), quello valutativo esprime un
giudizio di valore positivo o negativo (es. questo quadro è bello), quello deontico esprime ciò che si
deve o non deve fare (es. i cittadini devono pagare le tasse. A proposito del linguaggio deontico, le
varie proposizioni di quest’ultimo possono essere vincolanti e non vincolanti. Mentre quelle non
vincolanti sono consigli, invocazioni, ecc…, quelle vincolanti sono: direttive (prescrizioni generali e
deboli che si devono si applicare, ma non stabiliscono la procedura per rispettarle), comandi
(prescrizioni forti e particolari che non ammettono deroghe) e regole (prescrizioni generali e forti che
vincolano non effettuando eccezioni personali).
La giustizia viene distinta in individuale, sociale e universale. Quella individuale è quella tra
individui, basata sulla relazione e sulla regola di equivalenza (si basa fra la parità tra soggetti), quella
sociale è intesa come giustizia societaria che comprende un rapporto verticale (relazioni fra tutti i
soggetti) e un rapporto orizzontale (tra soggetti di pari posizione attraverso la mediazione della
società), inoltre la giustizia sociale si basa sul principio della proporzionalità che stabilisce equalità
fra le parti in base alle loro diverse posizioni e tale tipologia di giustizia ha come punto fondamentale
il bene comune. Nella giustizia universale a nessun soggetto spettano solo diritti e a un altro solo
doveri; inoltre non c’è giustizia se i soggetti dello stesso livello ontologico non si riconoscono uguali
e quindi se viene violata tale uguaglianza, c’è ingiustizia. La giustizia è la sostanza della legalità.
L’unico punto comune tra una regola giuridico-legale e quella delinquenziale, è rappresentata dalla
forza (le regole criminose sono poste in essere quando sono efficaci).

DALLA GIUSTIFICAZIONE DELLE NORME AL DIRITTO NATURALE

Si ricorre alla giustificazione di una norma per giustificare la sua obbligatorietà. La giustificazione,
però non può essere intesa come un’imposizione dell’autorità. Bisogna stabilire l’oggetto, lo scopo e
i requisiti di tale giustificazione. L’oggetto è la prescrizione normativa e non l’obbedienza alla norma.
Lo scopo è che nessuna giustificazione può impedire la trasgressione (la norma è intesa come una
condizione logica affinché un atto sia qualificato come osservanza o trasgressione). Per quanto
riguarda i requisiti essi sono cinque: il primo (dimostrare la possibilità del comportamento prescritto,

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dove la prescrizione di un comportamento impossibile è ingiustificabile). Il secondo (provare la
giustificazione aldilà dell’efficacia),
il terzo (la giustificazione non deve rinviare a presupposti non giustificabili), il quarto (essa deve
valere per tutti gli interessati) e il quinto (dimostrare l’approvabilità del comportamento del fare o
non fare). Questi criteri ritengono obbligatoria la norma quando è possibile accertare la sua validità
(es. Kelsen dice che la validità di un ordinamento è tale solo se è valida la norma fondamentale).
Quindi l’obbligatorietà è ciò che qualifica la norma giuridica, questa è tale quando il suo contenuto è
giustificato in un contesto particolare o universale.
Il diritto positivo attribuisce a quello naturale “un esito deterministico” (che vanifica la giuridicità
come dover-essere) e contraddittorio. Si vuol far si che il diritto corrisponda allo statuto ontologico
dell’uomo, alla coesistenza e quindi è corretto definirlo naturale. Con il criterio della giustizia, diritto
positivo e naturale sono visti sullo stesso piano, dove si parla di diritto naturale vigente storico quando
ci si riferisce a contesti coesistenziali determinati dalla storia, mentre si parla di diritto naturale
vigente immutabile quando ci si riferisce alla struttura ontologica che è immutabile. Per quanto
riguarda la legalità, secondo la concezione moderna, è intesa come il rispetto delle regole,
indipendentemente dal contenuto, che può essere anche ingiusto; secondo la concezione classica,
invece, la legalità ha un valore formale quando viene separata dalla giustizia e così facendo la norma
è intesa come una semplice prescrizione.

POSITIVITA’ E VIGENZA DEL DIRITTO NATURALE

Il diritto naturale non è ben visto da 3 orientamenti: storico, positivistico e logistico.


Storico: secondo cui il diritto non è assolutamente naturale, ma storico, secondo l’antropologia
storicistica, dove natura e giustizia sono varianti storiche.
Positivistico: secondo cui ciò che è naturale non è diritto e ciò che è diritto non è naturale, ma c’è un
eccezione a tale definizione e sarebbe: il diritto puramente ideale. Qui il diritto naturale è conforme
ai valori, come quello della giustizia.
Logistico: la forma logica della giuridicità non esclude la “qualificazione naturale” del diritto ideale
e il diritto si presenta ideale come dover essere del diritto positivo. In ultima analisi, il diritto naturale
è inteso come una realtà elaborata dagli uomini per l’uomo.

LA TEMPORALITA’ DEL DIRITTO

Per Cotta l’ambito della validità temporale è il più importante perché raggruppa anche gli altri. Il
tempo e il diritto sono due potente in conflitto, ma tale dualità è apparente in quanto l’uomo vive nella
dimensione temporale e visto che il diritto è radicato nell’uomo, diritto e tempo non sono più in
conflitto. Tale equilibrio viene mantenuto dall’uomo, dove quest’ultimo consente al diritto una sua
fisionomia per stabilizzare i rapporti tra gli individui e i vari comportamenti vengono tipizzati
attraverso le fattispecie. Il tempo incide sul diritto, ma sempre mantenendo la sua coerenza con la
struttura ontologica dell’uomo (il tempo lavora in simbiosi con il diritto e quindi con l’uomo).

LA MORALITA’ DEL DIRITTO

La morale prevale sul diritto, perché quest’ultimo trova nella morale il suo limite di valore. Il diritto
dal canto suo non ha carattere morale, ma lo riceve quando la coscienza trasforma le sue prescrizioni
da eteronome ad autonome. Il rapporto di Cotta fra diritto e morale prende in considerazione tre grandi
linee filosofiche (greca, cristiana e moderna). Nell’ambito della filosofia greca e cristiana il diritto e
la morale sono uniche categorie, dove il diritto o è morale o non è diritto. Nell’ambito della filosofia
moderna si ritiene che il diritto e la morale siano due categorie differenti, essendo distinguibili e
separabili.

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La filosofia greca fa riferimento a Platone e Aristotele. Per Platone c’è un nesso scindibile fra diritto
e morale, attraverso la giustizia; per Aristotele chi rispetta la legge è nel giusto (sempre che la legge
sia giusta perché in caso contrario, paradossalmente, chi compie un atto conforme alla legge, compie
un atto di ingiustizia se la legge è ingiusta). Platone e Aristotele affermano che il diritto è tale quando
è giusto.
Secondo la filosofia cristiana si ha una connessione tra diritto, morale e giustizia, dove Cotta prende
in considerazione la forma coesistenziale della carità (per quanto riguarda il rapporto tra diritto e
morale), proprio perché essa è all’apice delle forme coesistenziali. La giustizia qui è intesa come una
virtù sociale, utilizzata dall’uomo solo con gli altri individui. Nella carità c’è un rapporto tra due
soggetti e un terzo individuo, dove egli può essere Dio o l’umanità. Quindi per Cotta, con la carità,
abbiamo la pienezza dell’uomo, abbiamo la moralità che viene spezzata dal pensiero moderno. Con
il pensiero moderno c’è una distinzione tra legislazione interna (propria della morale) ed esterna
(propria di quella giuridica), dove il diritto diviene obbligatorio perché risiede in una realtà empirica.
L’effettività non giustifica l’obbligatorietà del diritto (es. in tal caso il diritto può essere associato
anche ad un ordinamento criminale). Per Cotta se ogni forma coesistenziale ha delle regole che
includono la giuridicità (es. dovere di essere), allora è evidente come ogni forma presenta una sua
moralità, dove la giuridicità è il dovere di essere se stessi. Se ogni forma coesistenziale ha una propria
moralità, ci potrebbero essere dei conflitti e per superare ciò Cotta si rifà a Kant, mediante il criterio
dell’universalizzazione (si crea una gerarchia crescente partendo dalla forma coesistenziale più
piccola - l’amicizia - fino ad arrivare alle forme includenti: amicizia, famiglia, politica, gioco, diritto,
carità). E con ciò Cotta afferma che il diritto ha un limite rispetto alla carità, dove l’uomo può superare
la relazione giuridica con la relazione caritativa e dove il diritto è più forte, sul piano delle relazioni,
rispetto alla carità. Con questo il diritto anche se non è all’apice, è più forte rispetto alla carità.

FONDAMENTO DEI DIRITTI DELL’UOMO

L’importanza dei diritti umani ha mosso molti uomini, tra giuristi e filosofi a cercarne un fondamento.
Costoro molte volte sono stati convinti di averlo trovato, ma le critiche dei periodi successivi hanno
sempre vanificato gli sforzi. Oggi come oggi, si è consapevoli dell’infondatezza di qualsiasi tipo di
ricerca che miri al raggiungimento di un fondamento assoluto, poiché ci si è resi conto del fatto che
quest’ultimo rappresenti solo un inutile illusione. Secondo Bobbio, si possono sollevare almeno
quattro principali difficoltà relative alla definizione di un fondamento assoluto, che dimostrano
chiaramente la sua inesistenza.
A) Per prima cosa, bisogna soffermarsi sul fatto che l’espressione "diritti dell’uomo" è assai vaga e
non è mai stata realmente definita. Infatti la maggior parte delle definizioni è tautologica (es. i diritti
dell’uomo sono quelli che spettano all’uomo in quanto uomo), oppure da’ informazioni sullo status
di questi diritti (es. i diritti dell’uomo sono quelli che dovrebbero appartenere a tutti gli uomini, o di
cui ogni uomo non può essere spogliato). Infine, quando si prende in considerazione il contenuto dei
diritti, non si può fare a meno di introdurre termini di valore (es. i diritti umani servono al
perfezionamento della persona umana). Inutile esaminare le nuove difficoltà che comporta una
definizione come l’ultima (evidentemente il perfezionamento di una persona umana è assolutamente
soggettivo); i termini di valore sono infatti interpretabili diversamente a seconda dell’ideologia
dell’interprete.
B) In secondo luogo, i diritti sono assolutamente variabili, come ha dimostrato chiaramente la storia.
Infatti pensando ad un qualche diritto che nel ‘700 era assolutamente indiscutibile, come per esempio
il diritto all’inviolabilità della proprietà, ci si accorge che oggi lo stesso diritto è stato sottoposto a
diversi casi di limitazione. Le dichiarazioni del ‘700 non citavano sicuramente i cosiddetti "diritti
sociali", basilari nella nostra epoca contemporanea. Allo stesso modo non si può neppure immaginare
quali diritti nasceranno in futuro. E’ dunque facilmente comprensibile come i diritti di una
determinata epoca storica siano relativi.

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C) Inoltre la classe dei diritti dell’uomo è eterogenea: per questo dovremmo parlare di diversi
fondamenti dei diritti. Infatti alcuni diritti, quali per esempio il diritto a non essere torturati valgono
indistintamente per tutti gli individui e non sono previsti casi eccezionali , mentre altri hanno delle
restrizioni. Alcuni diritti a favore di qualche categoria di persone comportano l’eliminazione o la
riduzione del diritto opposto, che vigeva fino a quel determinato momento e che favoriva altre
categorie (es. il divieto di possedere schiavi cancella il libero possesso di essi).
D) Esistono casi in cui si può rilevare un’antinomia fra i diritti invocati dagli stessi soggetti. Per
esempio, facendo riferimento ai diritti di libertà e ai diritti sociali, si può pensare che l’esistenza degli
uni possa limitare gli altri. Se si pensa a ciò che comportano le due categorie di diritti, si può affermare
che i primi richiedono da parte degli altri comportamenti esclusivamente negativi (è richiesto di non
assumere determinati comportamenti), mentre i secondi richiedono comportamenti positivi da parte
di individui o enti pubblici. Come conseguenza si ha che più aumentano i primi e meno i secondi
hanno la possibilità di esistere (la totale attuazione degli uni rende impossibile la totale attuazione
degli altri e in questo senso sono antinomici).

PRESENTE E AVVENIRE DEI DIRITTI DELL’UOMO

Il reale problema che riguarda i diritti dell'uomo oggi, non è però tanto quello di ricercare il
fondamento assoluto, quindi di "fondare" i diritti stessi, ma di proteggerli e garantire che non vengano
continuamente violati nonostante le dichiarazioni solenni. Il problema del fondamento dei diritti
risulta in un certo senso superato nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata
dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Questa rappresenta la
manifestazione dell'unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente
fondato e quindi riconosciuto. Solo dopo questa dichiarazione si può avere la certezza che tutta
l’umanità condivide alcuni valori comuni, ed è legittimo il credere nell’universalità di tali valori, nel
senso che essi sono stati accettati e accolti dall’universo degli uomini. Questo universalismo è stato
però una lenta conquista, che si può riassumere brevemente in tre fasi diverse.
1) FASE ASTRATTA O FILOSOFICA: le dichiarazioni nascono come teorie filosofiche. L’idea
dell’uomo come possessore di diritti inalienabili e intoccabili è probabilmente nata con il
giusnaturalismo moderno, di cui Locke è uno dei massimi esponenti. Egli afferma che il vero stato
dell’uomo non è lo Stato civile, ma quello di natura, in cui tutti gli uomini nascono uguali e liberi. La
società civile, secondo Locke, è una creazione artificiale che non dovrebbe avere altro scopo che
quello di garantire una più ampia possibile attuazione di tali valori. Evidentemente ora la concezione
di Stato di natura è stata abbandonata, ma comunque rimane la formula: "tutti gli uomini nascono
liberi ed eguali in dignità e diritti". Le teorie filosofiche sono pensieri soggettivi e per lo più
individuali, ma in questo caso possono essere considerate come universali in quanto si riferiscono ad
un individuo astratto (fuori dello spazio e del tempo) però la loro efficacia è estremamente limitata.
Solitamente, infatti, sono proposte per un futuro legislatore.
2) FASE CONCRETA O PRATICA: Quando un legislatore accoglie i diritti umani come basi di una
nuova concezione di stato, includendo tali principi nelle Costituzioni (Stati Uniti e Francia), essi
aumentano la loro concretezza, diminuendo però la loro universalità. Ciò accade perché le norme
ormai riconosciute come diritti positivi, valgono solo nello Stato che li riconosce.
3) FASE UNIVERSALE Con la Dichiarazione del 1948, ha inizio un’ultima fase, in cui le norme
sono nello stesso tempo diritti positivi e universali: positivi nel senso che dovrebbero essere non
soltanto ideali ma realmente riconosciuti e protetti, universali perché i destinatari di tale
Dichiarazione sono tutti gli uomini.
Bisogna specificare che con essa non viene chiuso un capitolo, come potrebbe sembrare, ma ne viene
aperto uno, la cui fine non è neanche immaginabile. Infatti la Dichiarazione del ’48 rappresenta
l’inizio dell’ultima fase che potremmo definire di "universale positivizzazione" dei diritti umani.
Evidentemente ci si può facilmente rendere conto delle difficoltà che possono nascere
nell’applicazione e nella protezione dei diritti nella comunità internazionale; per questo nessuno può

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essere in grado di prevedere un’eventuale punto di arrivo. Bisogna inoltre tenere a mente che la
Dichiarazione non è neanche così definitiva come ci si può aspettare, è destinata ad una continua
"evoluzione", che andrà di pari passo con l’evoluzione della mente umana, della tecnologia, della
società, in generale della storia. Si può parlare quasi di una progressiva maturazione della
Dichiarazione, il cui contenuto deve essere continuamente modificato e aggiornato. Questo problema
è stato affrontato, ad esempio con la nascita di altri documenti integrativi, quali, per esempio, la
Dichiarazione dei diritti del fanciullo, oppure la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza
ai paesi ed ai popoli coloniali.
Ritornando al problema principale, cioè quello relativo alla garanzia del rispetto dei diritti umani
negli stati, ci si accorge subito di almeno 2 importanti e irrisolte difficoltà: la prima di ordine
giuridico-politico, la seconda sostanziale (inerente cioè al contenuto stesso dei diritti).
Il primo problema inerisce la natura della comunità internazionale, e prende in esame i rapporti tra i
singoli stati e tra gli stati e la comunità internazionale stessa. Evidentemente essa dovrebbe possedere
nei confronti di tutti gli stati un potere che si può definire forza directiva, per distinguerla da quella
coactiva, che agisce all’interno di ogni stato. L’efficacia di questa forza dipende essenzialmente da 2
fattori: a) colui che la esercita deve essere molto autorevole, deve incutere se non timore, rispetto; b)
colui al quale è rivolta deve essere molto ragionevole. Il disprezzo dei diritti umani si verifica dove
una o addirittura tutte e due queste condizioni sono assenti, così come quanto più un governo è
autoritario nei confronti delle libertà dei cittadini tanto più è indifferente verso la comunità
internazionale. Le attività svolte sinora dagli organismi internazionali per la tutela dei diritti umani
possono essere considerati sotto 3 aspetti: Promozione insieme delle azioni che mirano al
raggiungimento del duplice obiettivo di indurre gli stati che non hanno una disciplina per la tutela dei
diritti ad introdurla, e perfezionare questa disciplina in quegli stati che già la possiedono. Controllo:
insieme di azioni che gli organismi internazionali compiono per la verifica del rispetto delle norme
all’interno degli stati. Garanzia: Organizzazione di una vera e propria tutela di grado internazionale.
Logicamente si potrà parlare di tutela internazionale dei diritti umani solo quando una giurisdizione
internazionale riuscirà ad imporsi sulle giurisdizioni nazionali.
La seconda difficoltà è la diversa interpretazione che si può dare sui diritti umani.

L’ETA’ DEI DIRITTI

La prospettiva con la quale Bobbio affronta il problema dei diritti umani è quella della filosofia della
storia; ciò significa secondo lui essenzialmente porsi il problema del senso della storia seguendo una
concezione finalistica. L’uomo è un animale teleologico, le cui azioni tendono genericamente ad un
fine: solo tenendo conto del fine di un’azione se ne può capire il senso. Seguendo la scia di Kant,
Bobbio interpreta come segno premonitore del progresso morale dell’umanità il crescente interesse
dell’uomo nei confronti del problema dei diritti umani. A differenza di un incontrastato progresso
scientifico e tecnologico, che si rivela nel corso della storia assolutamente continuo e irreversibile, il
progresso morale dell’umanità è sicuramente problematico e difficilmente misurabile. Esso può
essere considerato seguendo due diversi punti di vista : quello dello stato (organicistico), e quello
dell’individuo. Storicamente si è sempre guardato alla morale prendendo in considerazione più i
doveri del cittadino, che i suoi diritti. Per spiegare ulteriormente il concetto, si può fare riferimento
ai primi codici di leggi scritti, che imponevano dei comportamenti ben precisi, degli obblighi, dei
divieti (es. Il codice di Hammurabi). Non è difficile comprendere il motivo: questi codici avevano
come obiettivo principale la protezione del gruppo nella sua totalità, piuttosto che soffermarsi
sull’individuo singolo. Questo significa che nella storia la concezione più utilizzata è stata quella
organicistica. Il passaggio dalla prima concezione alla seconda, può realmente essere paragonato ad
una rivoluzione copernicana (viene cioè ribaltato totalmente il punto di vista). La grande svolta ha
inizio con il giusnaturalismo moderno, che prende in considerazione in primo luogo i diritti
dell’individuo (e non i suoi doveri), e i doveri dello stato. Anche il fine dello stato stesso viene mutato:
per la concezione organicistica lo stato deve mirare alla distruzione di qualsiasi elemento dannoso

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che laceri il corpo politico, ora invece lo stato deve puntare alla crescita dell’individuo quanto è più
possibile libero da condizionamenti esterni. L’individualismo, secondo Bobbio è la base della
filosofia della democrazia, è la base della dottrina dei diritti dell’uomo. In base al sesso, all’età, alla
salute, e avanza quello di estensione dei diritti alle generazioni future e agli animali. I diritti quindi si
sono moltiplicati in relazione all’evoluzione della società, in particolare perché:
a) è andata aumentando la quantità dei beni considerati meritevoli di essere tutelati.
b) è stata estesa la titolarità di alcuni tipici diritti a soggetti diversi dall’uomo.
c) l’uomo stesso non è più stato considerato come " generico " o " astratto ", ma è stato considerato
nei suoi diversi modi di essere nella società.
Per quanto riguarda il primo punto, è avvenuto il passaggio dalle libertà cosiddette negative (es. di
religione, di stampa), a quelle politiche e sociali, che richiedono un intervento dello stato. Il
riconoscimento dei diritti sociali è inoltre problematico, perché essi richiedono un intervento attivo
dello stato, cosa che invece non richiedono i diritti di libertà. Rispetto al secondo punto, possiamo
affermare che oggi anche soggetti come la famiglia, le minoranze etniche e religiose sono tutelate
dalla legge. Nel terzo punto si evidenzia che con il passare del tempo l’uomo è stato analizzato nei
suoi diversi " status " sociali (es. la donna è diversa dall’uomo, il giovane dall’anziano, il sano dal
malato).

LA RIVOLUZIONE FRANCESE E I DIRITTI DELL’UOMO

La dichiarazione dei diritti dell’uomo è stata emanata nel 1789 segnando la fine dell’Antico Regime.
Quando Kant parla di libertà la definisce come “ la facoltà di non obbedire a leggi esterne, ma solo
quelle a cui io ho dato il mio assenso” e con questa definizione, Kant si rifà a Rousseau. Secondo il
filosofo Paine, egli trova fondamento dei diritti dell’uomo nella religione, dove i diritti naturali sono
quelli che spettano all’uomo in base alla sua esistenza. I costituenti americani avevano collegato i
diritti dell’individuo con il bene comune della società, quelli francesi, invece, hanno fatto primeggiare
in assoluto i diritti dell’individuo; ben diversa è l’ispirazione giacobina, secondo cui “lo scopo della
società è la felicità comune. E’ stata la rivoluzione francese ad essere un ideale per coloro che
combatterono per la propria emancipazione e quella del proprio popolo. I punti in comune fra la
rivoluzione francese e quella copernicana sono: entrambe le dichiarazioni partono dagli uomini
singolarmente considerati; i punti di differenziazione sono anch’esse due (gli americani collegavano
i diritti dell’individuo al bene comune della società, i francesi affermavano esclusivamente i diritti
dell’individuo. Manzoni affermava che la somiglianza che si voleva vedere era solo verbale, tanto
che le carte americane avevano ottenuto l’effetto voluto, quelle francesi no. Il nucleo dottrinale della
dichiarazione è contenuta nei primi tre articoli: condizione naturale degli individui (gli uomini
nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti), il fine della società politica (lo scopo di ogni
associazione politica è quello di conservare i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo, quali libertà,
proprietà, ecc…) che viene dopo lo Stato di natura e il terzo è il principio di legittimità del potere che
spetta alla nazione (i rappresentanti nominati dall’Assemblea nazionale sono i rappresentanti
dell’intera nazione). Ci sono due critiche alla Dichiarazione, secondo cui essa è eccessivamente
astratta (piena di definizioni letterarie che portano a più e diverse conclusioni) e secondo cui
eccessivamente concreta (secondo Marx l’uomo citato nella Dichiarazione era borghese e quindi
isolato dagli altri).
Oggi la concezione individualistica della società ha fatto molta strada, dove ogni individuo è inteso
come soggetto potenziale della comunità internazionale, dove il diritto appartiene alle genti e agli
individui. Entro questi limiti Kant vedeva nel diritto cosmopolitico una delle condizioni necessarie
per raggiungere la pace perpetua, cosa attualmente non realizzata.

KANT E LA RIVOLUZIONE FRANCESE

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Per Kant il punto focale quando egli parla di diritto è che quest’ultimo è inteso come diritto naturale
che ha un popolo di non essere impedito nel costituire una propria Costituzione civile e repubblicana,
in grado di evitare conflitti bellici. Per il filosofo tedesco, la forza e la moralità della rivoluzione sono
esplicate proprio dalla libertà che il popolo ha di darsi una Costituzione. Nello scritto “per la pace
perpetua”, accanto al diritto pubblico interno (dove la Costituzione di ogni Stato deve essere
repubblicana) ed esterno (dove il diritto internazionale deve basarsi su una fondazione di stati liberi),
Kant affianca il diritto cosmopolitico che deve essere limitato alle condizioni di un’universale
ospitalità e tale aggiunta viene effettuata perché oltre ai rapporti tra Stato e cittadini e tra Stato ed altri
stati, Kant sottolinea anche l’importanza di prendere in considerazione il rapporto tra ogni singolo
Stato e i cittadini di altri stati o viceversa, dove l’uomo è cittadino del mondo, dove lo straniero può
entrare nel proprio territorio, non approfittando dell’ospitalità.

CONTRO LA PENA DI MORTE

Questo articolo è stato analizzato da Bobbio nella conferenza contro la pena di morte in occasione di
un seminario di Amnesty International a Rimini. Problema antico per soddisfare qualsiasi sete di
vendetta, Bobbio cita Platone (se il criminale è irrecuperabile, la morte per lui sarà il male minore),
dove Platone associa la pena di morte per reati contro il culto, le divinità, ma anche per omicidi e
secondo lui l’omicida deve patire con la stessa moneta il male arrecato. Nell’Illuminismo,
l’importanza di questo tema fu sottolineato da Beccaria, ponendo l’accento sulla forza intimidatrice
della pena capitale, dove tale forza si basa su 3 punti: nel primo non è necessario che le pene siano
crudeli, ma certe, nel secondo l’intimidazione nasce dall’estensione della pena (es. l’ergastolo), nel
terzo è inconcepibile che gli individui mettano a disposizione dei loro simili anche il diritto alla vita
(questo punto detto - contrattualistico - è stato abbandonato). Si sostiene che la pena di morte è uno
strumento di reazione che rafforza una prescrizione. Per Bobbio il supplizio è inteso come la
moltiplicazione della pena di morte (come se la pena di morte non bastasse, il supplizio uccide la
persona più volte e deve essere infamante e clamoroso (in quest’ultimo elemento, anche se la pena
capitale è scomparsa, non è scomparsa la pubblicità dell’umiliazione del condannato). Secondo il
racconto di Hugo “I miserabili”, il patibolo ha qualcosa di allucinante. La pena per Bobbio ha 3
concezioni: la pena come espiazione (la morte purifica la colpa), la pena come emenda (è la sola ad
escludere totalmente la pena di morte, dove se si uccide il condannato non gli si da la possibilità di
redimersi) e la pena come difesa sociale (è sostenuta dagli abolizionisti per ragioni umanitarie, ma
essi, contraddicendosi, sostengono anche che il miglior modo per difendersi dai criminali è quello di
eliminarli). In conclusione, per Bobbio, la condanna a morte è un omicidio illegale, freddo e
disumano, dove lo stato non può rimanere immobile, di fronte alla violazione che stabilisce il
comandamento di non uccidere e dove l’assassinio legale è peggio di quello brigantesco.

LE RAGIONI DELLA TOLLERANZA

Bobbio analizza tale tematica, sotto il profilo storico, problematica venuta alla luce quando ci fu la
rottura fra universo religioso e cristiano. Il problema attuale è anche attinente alle diverse lingue,
razze, religioni, ecc…Il tollerante accusa l’intollerante di essere fanatico, dove il primo ribadisce di
stare nel vero e accusa tutti gli altri che lo contraddicono e il secondo si difende accusando il primo
di essere scettico e che non ha forti convinzioni. Ci sono 3 motivi per essere tolleranti da un punto di
vista pratico: la tolleranza intesa come male minore o male necessario (con ciò essa non implica la
rinuncia alle proprie idee e in tal modo si supporto l’errore altrui, dove in caso contrario la
persecuzione rafforzerebbe l’errore). La tolleranza intesa come metodo universale di convivenza
civile (in tal modo si capisce l’errore altrui e si favorisce la fiducia verso l’altro, rinunciando alla

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violenza per imporre le proprie idee). La tolleranza come ragione morale (il principio è di avere
liberamente le proprie idee, rispettando le ragioni altrui).
I tre motivi per essere tolleranti, da un punto di vista teorico, cioè dal punto di vista della natura della
verità sono: il sincretismo (più dottrine filosofiche o religiose, diverse fra loro, si fondono insieme),
la filosofia del giusto mezzo e lo storicismo relativistico (in quest’ultimo caso, secondo un
affermazione di Weber, è un tempio dove chiunque può adorare il proprio Dio). Tuttavia anche
l’intolleranza può avere delle buone ragioni; il termine tolleranza ha due significati: positivo
(sinonimo di verità, rigore) e negativo (sinonimo di eccessiva e squilibrata indulgenza) e non bisogna
dimenticare che i sostenitori dell’intolleranza fanno ricorso a quest’ultimo senso negativo per
denigrare la tolleranza (es. se Dio non c’è, tutto è concesso). Non è facile stabilire i limiti della
tolleranza e Bobbio afferma che le idee buone si distinguono da quelle cattive attraverso la tolleranza,
contrastando quanto sostenuto da Marcuse (criterio di esclusione). Per fissare eventuali limiti alla
tollerabilità. Essa deve essere estesa a tutti, tranne agli intolleranti, a coloro che negano il principio
della tolleranza.

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