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CAPITOLO 1: GIUSTIZIA
1. Rapporto fra diritto e giustizia?
Giustizia È bisogno umano fondamentale e costante, fatto storico e sociale incontestabile
Kelsey: se un bisogno non può essere soddisfatto grazie alle conoscenza razionale, non significa che si
debba rinunciare ad esso.
Esseri umani non hanno mai smesso di cercare la giustizia, di valutare i comportamenti loro, dei sovrani e
le leggi.
Cercando di realizzare le aspettative di giustizia, si condiziona il diritto. Il diritto è condizionato dalla
domande di giustizia e dal bisogno di essa.
Bisogno che si manifesta in aspettative sociali, ideologie , sistema di valori, principi... non si può pensare ai
sistemi giuridici senza far riferimento alla giustizia.
Ogni definizione di giustizia ha ricadute sulla vita di un ordinamento, sul comportamento di soggetti.
Come la giustizia ed il suo bisogno condiziona il diritto e la vita degli ordinamenti?
nel pensiero classico greco è stata elaborata una filosofia della giustizia dipendente dalla speculazione
sulla realtà e sulla relazione tra realtà e il soggetto che opera e conosce. La realtà è vista come un dato
oggettivo, un presupposto nel quale il soggetto opera e conosce, e dunque un dato su cui riflettere per
quanto concerne le azioni umane e le strutture sociali. Giustizia come: PRINCIPIO DI ORDINE MORALE
(ciò che da ordine e valore alle azioni umane); PRINCIPIO COSMICO (che determina l'ordine necessario
della realtà fisica). Tale omogeneità e cioè tra ordine della realtà e dei rapporti umani è messo in
discussione dalla sofistica. Per la sofistica l'ordine naturale è conoscibile e comunicabile. Assume rilievo il
RUOLO DELLA LEGGE POSITIVA determinata dal ruolo degli uomini e che richiede capacità retoriche e
dialettiche per potersi affermare.
Platone, Aristotele emerge l'idea di giustizia come ORDINE e come corrispondenza tra ORDINE
NATURALE, SOCIALE E MORALE. Per Platone il concetto di ARMONIA si raggiunge solo quando la
RAGIONE domina sulle passioni, bisogni, impulsi, quando governano i sapienti lo STATO. Per Aristotele la
giustizia assume connotati differenti a seconda del tipo di relazione a cui si riferisce. Il concetto di Aristotele
dall'universale al particolare e dalla visione della giustizia come principio a quella della giustizia come virtù
viene poi approfondito dallo STOICISMO (si afferma l'idea di una giustizia come dominio della ragione sulla
vita e di una ragione omogenea a quella che domina la realtà fisica).
nell'esercizio della sua potenza limitata solo al principio di non contraddizione. Ciò che pare giusto o
ingiusto è tale solo perché ordinato cosi da dio. Tutto assume valore in quanto posto da dio.
Ragione umana = strumento per conoscere la volontà divina
Ordine = comando non disposizione razionale MEDIOEVO: si inizia a cristallizzare una differenza tra
giustizia e bene. Si inizia ad affermare l'idea che ciò che è dovuto per giustizia non coincide
necessariamente con ciò che è buono in senso morale. —Nella classicità bene e giusto sono dimensioni
interne al medesimo ondine, alla medesima legge che governa l'intera realtà
—Con il cristianesimo l'amore per dio e per il prossimo (dimensione ultima del bene morale), non hanno a
che fare con la giustizia ma la superano.
3. GIUSTIZIA E DIRITTO
Indagine tra i rapporti fra la giustizia e la vita della dirotto e degli ordinamenti: 3 prospettive:
1- dal punto di vista dell’ordinamento nel suo complesso = giustizia come LEGALITÀ =
2- dal punto si vista della singola norma = giustizia come CONFORMITÀ AD UN ORDINE DI FINI O
VALORI ulteriori al diritto
3- dal libro di vista della persona che agisce =
Pur facendo riferimento ad uno stesso concetto, si utilizza il parametro della giustizia in modi differenti.
L’unica cosa in comune tra queste tre prospettive, è in riferimento ad un criterio di giustizia come ORDINE:
quando consideriamo l’azione del singolo, facciamo riferimento alla giustizia come conformità ad un
d’ordine normativo dato e si ritiene che sia giusto ciò che è conforme alle norme vigenti e rilevanti per
quella specifica azione .
Una singola norma può essere considerata giusta o ingiusta in ragione della sua conformità ad un sistema
di principi ad essa superiori, con riferimenti in ogni caso ad un sistema (ordine) di principi in ragione dei
quali la singola norma viene giudicata giusta o meno.
Il comportamento del singolo o la singola norma, vengono ritenuti in caso giusti se conformi ad un ordine di
valori che in quanto superiori al diritto stesso, ne rappresentano il criterio di giustificazione o il fondamento.
Non è la conformità ad un ordine normativo a rilevare, ma la conformità a fatti o valori esterni al diritto e ad
esso superiori.
Difficile però che il neo-costituzionalismo possa superare opposizione tra giusnaturalismo e positivismo:
l’incorporazione dei valori nel diritto non implica che le norme positive si fondono su valori morali o su un
ordine di giustizia, poiché i valori costituzionali formalizzati sono anche essi norme giuridiche cioè criteri di
validità. E non implica nemmeno che questi valori siano per forza riconosciuti, l’incorporazione dei valori
negli ordinamenti con le costituzioni è un dato storico ma non necessario dal punto di vista teorico. Il diritto
è pensabile come valido anche quando quei valori non siano affermati o riconosciuti, il diritto ingiusto può
essere perfettamente valido quindi.
In SINTESI: è vero che negli stati costituzionali di diritto l’ordinamento incorpora criteri di giustizia necessari
per stabilire cos’è diritto e cosa non lo è, ma questa funzione può essere svolta dai principi costituzionali
solo quando essi diventano norme giuridiche costituzionali, e non grazie al loro intrinseco valore o
razionalità; i principi valgono in quanto formalizzati in norme giuridiche, ma non per se stessi.
3.2—GIUSTIZIA ED EQUITÀ:
Dal punto di vista del giudizio e dell’applicazione della norma, il problema della giustizia diventa quello della
CAPACITÀ CONCRETA DEL DIRITTO DI RISOLVERE una lite, un torto, assegnare ragioni o torti: quella
determinata decisione può essere qualificato come GIUSTO o INGIUSTO, non soltanto conseguentemente
ad una corretta applicazione della norma, ma anche grazie alla concreta capacità di REALIZZARE LA
GIUSTIZIA NEL CASO CONCRETO.
(Aristotele) GIUSTIZIA vs EQUITÀ : la realtà delle relazioni umane ed i contesti nelle quali avvengono, non
riescono sempre ad essere disciplinate da norme generali ed astratte. La tensione tra il caso singolo e la
norma generale può produrre giustizia come anche ingiustizia nel caso specifico. La giustizia quindi, deve
essere integrata all’EQUITÀ che permette la considerazione delle circostanze del singolo caso adattando le
norme. L’esigenza di giustizia nel caso particolare è l’esigenza di una giustizia che si applica ai casi
particolari e nelle caratteristiche dei singoli.
Ciò che comunque va sottolineato è che nel positivismo giuridico i giudizi di valore sono sempre soggettivi,
in quanto la decisione è fondata sull’ideologia morale/politica/religiosa del singolo.
L’unica conoscenza oggettiva possibile del diritto è quella di tipo avalutativo e fatuale e riguarda la
validità o efficacia del diritto e non la sua giustizia. Dunque, una norma sarà ritenuta ingiusta
sempre sulla base di valori propri e non sulla base di caratteristiche intrinseche alla norma stessa,
poiché non esistono criteri oggettivi in base ai quali operare tale valutazione.
-Nella tradizione giusnaturalista, il giudizio di valore sul diritto è sempre pensato come oggettivo. Per
questo il problema dell’obbedienza non è soggettivo, ma collettivo: chiunque di fronte a una norma
che si riconosce ingiusta dovrebbe negare la propria obbedienza, perché la giustizia di una norma è
questione di verità, non di opinioni.
Dunque, non essendo la legge ingiusta una vera legge, essa non merita obbedienza, non obbliga in
coscienza e anzi è doveroso riconoscere prevalenza alla legge naturale anziché alla legge umana
positiva: si deve obbedire alla verità delle cose piuttosto che al sovrano (cfr. Anigone).
Tuttavia, all’interno del comune paradigma giusnaturalista le cose sono più sfaccettate di così.
Non è infatti la mera ingiustizia che giustifica la disobbedienza, ma solo l’ingiustizia oltre una certa
soglia e particolarmente seria. L’ingiustizia infatti è una questione di grado.
Dunque, fino a un certo grado d’ingiustizia, l’obbedienza alla legge rimane comunque doverosa al
fine di preservare l’ordine della coesistenza civile, ordine che è a sua volta elemento costitutivo
della giustizia stessa. Se ogni ingiustizia giustificasse la disobbedienza, la coesistenza civile sarebbe
impossibile.
C’è pertanto un “giusto legale”, dipendente dalle leggi positive (identificabile con l’ordine che di per
sé le leggi garantiscono) che merita obbedienza fino a un certo punto. Quando però l’ingiustizia è
grave ed evidente (es. -> nel pensiero tomista, quando la legge umana contraddice la legge divina)
allora la tutela dell’ordine civile cede ripeto all’obbedienza alla verità e alla giustizia.
Questa forma menis ha avuto rinnovato successo con la formula di Radbruch (e concreta
applicazione nelle aule dei tribunali della DDR chiamati a giudicare dei crimini compiuti dai nazisti).
Secondo tale autore, il problema dell’obbedienza si inquadra, appunto, in un bilanciamento fra il
valore della giustizia e quello della certezza del diritto.
Quesi valori possono entrare in conflitto laddove la norma sia valutata come ingiusta. In quesi casi,
normalmente deve prevalere l’esigenza di certezza, ritenendo l’obbedienza a un diritto sostanzialmente
ingiusto preferibile al caos che sarebbe causato dall’assenza di diritto. Tuttavia quando l’ingiustizia diventa
intollerabile, in quanto contraria a ogni istanza di eguaglianza fra esseri umani, della legge non rimane che
il nomen e a ragione si può parlare di torto legale. In quesi casi la legge deve essere disapplicata,
disobbedita, negata come legge valida, a prescindere
dalla sua formale validità (cfr. con art. 7.2 CEDU, pg. 25)
—TEORIA: GIUSTIZIA GLOBALE= si muove dalla consapevolezza della impossibile limitazione delle
questioni di giustizia ai contesti nazionali/locali. L’idea di giusto per natura è stata spesso affiancata all’idea
di giusto politico. Questa idea è evidente bei fenomeni di globalizzazione.
Avviene uno spostamento di piano delle questioni di giustizia dal livello locale a quello globale, con il
risultato il tema della giustizia con il cambio di orizzonte cambia anche i soggetti e gli oggetti della giustizia
stessa. La giustizia globale è pensata come indipendente dalle azioni individuali, e relativa all’opera di
strutture collettive o sistemi che necessitano un orientamento specifico.
La giustizia comunque, nel complesso rimane sempre un ideale da costruire, ma orizzonte irrinunciabile, in
quanto gli esseri umani hanno sempre pensato al diritto e alle relazioni giuridiche alla luce dell bisogno di
giustizia .
Vi è circolarità tra giustizia e diritto, perché se la giustizia è il fine del diritto (poiché strumento con cui
proteggere), è vero anche che il diritto è il fine della giustizia poiché l’attribuzione dei diritti e imposizione di
doveri è ciò che garantisce una dimensione della giustizia non solo morale ma anche giuridica.
CAPITOLO 2: POTERE
1. POTERE : Due facce della stessa medaglia:
‘Diritto e potere sono due facce della stessa medaglia’ hanno scritto due grandi teorici del diritto del ‘900.
Le parole di Alf Ross e Norberto Bobbio stanno a indicare come il diritto abbia sempre bisogno del potere
per farsi rispettare e ha quindi la forza organizzata come sua base e sostegno. Più in generale, può valere
per sostenere l’idea che la concezione che abbiamo dell’uno dipende dalla concezione che abbiamo
dell’altro.
Infatti, le grandi famiglie della filosofia del diritto e della scienza giuridica difficilmente possono essere
ridotte a sola concezione del solo diritto: esse sono anche concezioni del potere e del rapporto fra potere e
diritto. E si potrebbe infatti sostenere che quelle che chiamiamo concezioni del diritto sono in realtà
concezioni relative proprio a questo rapporto.
La storia delle teorie giuridiche, è la storia del diritto e anche del potere, nel momento in cui non può essere
una storia dei rapporti tra diritto e potere.
Abbiamo a che fare con una convivenza necessaria e ineludibile, che può divenire talvolta travagliata
dando vita a una lotta che, in riferimento ad alcuni momenti, è definibile ‘quasi mortale’: ciò sopratutto
quando è stato il potere a voler assorbire il diritto totalmente e a presentarsi esso stesso come diritto.
Guardando alla storia del diritto e del pensiero giuridico, quando si parla di rapporti fra diritto e potere si
potrebbe dire che essi sono rappresentai da due tendenze opposte e contrarie:
1)quella del potere ad assorbire il diritto, facendosene padrone;
2)quella del diritto ad imbrigliare il potere fino a contenerlo, neutralizzandolo dentro le maglie delle norme
giuridiche.
La questione più rilevante in tale ambito – più che quella relativa all’ORIGINE (è il potere che genera il
diritto o viceversa?), forse insolubile e probabilmente inutile ai fini di stabilire chi debba stare al vertice di
una società organizzata – appare quella della NATURA di ciascun principio e dunque del limite che ognuno
di essi comporta per sé stesso e per l’altro, in quanto risolvibile e gravida di conseguenze sul piano pratico.
La trattazione di questo tema deve necessariamente partire dalla definizione di POTERE.
- potere è genericamente inteso come capacità di condizionare il comportamento altrui e di ottenere
riconoscimento e obbedienza,
-potere politico: legati quindi soprattutto al rapporto fra governanti e governati e alle modalità attraverso cui
i primi dirigono, controllano, condizionano la vita dei secondi.
È opportuno innanzitutto distinguerlo dalla POTENZA e dalla FORZA: questa distinzione viene
generalmente ricondotta a quella introdotta da Weber tra Herrschat e Macht, (potenza) cioè la possibilità di
trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini, da un lato; (forza) e la capacità di imporre
il proprio volere, anche contro la resistenza di altri soggetti, dall’altro.
In questa direzione, Weber aveva poi definito il potere politico mediante il riferimento al monopolio della
forza; Hannah Arendt ha distinto ulteriormente il potere dalla dalla potenza, dalla forza e dall’autorità
insistendo sull’elemento del consenso.
Se il potere è legato alla forza, esso può essere colto come fenomeno specifico solo quando sarà possibile
rapportarlo alla regola.
Tra il livello primordiale di forza e quello ideale superiore dell’autorità, il potere ricopre lo spazio intermedio
della forza regolata e dell’autorità spersonalizzata, e l’opera di regolazione è fatta dal diritto.
Nel pensiero greco si trova l’attestazione del fatto che il potere (in relazione al diritto) nasce nel momento in
cui si vuole superare il principio della forza, e si può dire che il pensiero politico greco ha aperto alla
civilizzazione del potere tramite il diritto.
Con Trasimaco, si ha la rivendicazione della priorità delle forza sul diritto, che andando contro Socrate,
afferma che “la giustizia non è altro che l’utile del più forte”, stabilendo anche così che è la forza il principio
prima da cui gli altri prendono forma e sostanza. Diritto e giustizia sono prodotto della forza, anzi una sua
manifestazione.
Questa visione pone la prevalenza del più forte principio fondamentale e naturale della società, che viene a
strutturarsi sulla base di un confronto/scontro nel quale il più forte è chiamato per natura a prevalere. Il
diritto viene così ad assumere una funzione solo strumentale. La legge positiva, della città, secondo la
lettura dei sofisti, viene a contrapposti alla legge della prevalenza del più forte, frutto di paura e Unione dei
deboli, che mettendo insieme le forze per prevalere sui più forti, e solo facendosi più forti dei forti i deboli
possono prevalere e imporsi altrimenti per loro non può esserci giustizia.
I grandi poeti greci come Esiodo e Pindaro, avevano individuato nel dominio della forza l’antitesi del diritto
e della giustizia, e avevano separato la società umana dal regno animale in virtù del fatto che il primo
grazie alla presenza del Nomos veniva meno il dominio del più forte.
Problema: in quale principio individuare l’alternativa più credibile al governo della potenza e della forza?
—PLATONE: via della SAPIENZA= trova nella sapienza il principio dell’anima razionale superiore alle altre
anime, e l’unica possibilità di ordinare con precisione la cosa più buona e giusta per tutti includendo
insieme il massimo di equità. Per Platone, il governo degli uomini è superiore al governo delle leggi. Per
Platone un governo dei sapienti appartiene al piano degli ideali inattingibili, e per questo per evitare il
governo arbitrario è necessario affidarsi al governo delle leggi (McIlwan).
La concreta possibilità di portare i principi della sapienza dentro al governo della legge è in effetti
alla base dell’opera conclusiva di Platone (Nomoi, leggi ): consapevolezza dell’impossibilità di
realizzare un’autentica tecnica politica capace di prescindere dalle leggi, conduce a individuare nella
legge il luogo di concretizzazione della ragione e per ciò stesso come criterio essenziale per distinguere il
buon governo dal malgoverno. La conclusione di questo itinerario di pensiero sta nella convinzione che la
polis in cui non governi la legge è desinata alla violenza e alla sopraffazione.
—ARISTOTELE: via della LEGGE = L’elaborazione aristotelica, fa del governo della legge non
un’alternativa di ripiego ma la miglior soluzione possibile nella polis abitata da uomini, in quanto il governo
della legge è il governo della ragione senza passione, e quindi garantisce che le decisioni siano prese in
modo imparziale e disinteressato, a differenza di ciò che avviene quando si ci si affida solo alle decisioni
degli uomini mossi da preferenze personali.
Dunque, quando ci si affida al governo degli uomini, è inevitabili che quesi siano nominati ‘guardiani
delle leggi e subordinati alle leggi’.
Dai due grandi padri della filosofia, è evidente la differenza tra GOVERNO DEGLI UOMINI E GOVERNO
DELLE LEGGI.
Dalla riflessione dei Greci appare chiaro che, da un lato, è solo la presenza delle leggi a legittimare il
potere e a renderlo differente dall’esercizio di forza e arbitrio; e, dall’altro, che la possibilità di stabilire una
superiorità del diritto rispetto al potere è legata alla capacità di non esaurire il diritto nella sfera della
decisione e della volontà politica.
Il nomos viene a rappresentare un elemento costituivo della società degli uomini che non è totalmente
nella disponibilità dei governanti ed è anzi ad essi e alle loro disposizioni superiore.
Si può in questo modo ben capire come sia in Platone che in Aristotele (mutais mutandis) il governo della
legge venga a costituire il criterio fondamentale per distinguere le forme di buongoverno da quelle corrotte
e rappresenti anche l’elemento tramite il quale si identifica l’esistenza stessa di una costituzione.
Quest’ultima, in Aristotele, coincide col rispetto della superiorità del nomos in quanto: ‘dove non imperano
le leggi, non c’è costituzione’(Politica).
Quanto detto dimostra come per i greci, ragionare del nomos significhi allo stesso tempo ragionare
dell’allocazione dei poteri nella polis (così fa Platone quando parla del governo dell’uomo sapiente in
contrapposizione a quello della legge e analogamente Aristotele quando raccomanda ai magistrati di
decidere in base alla legge). Si riscontrano in tale ambito una serie di tematiche che si ripresenteranno
nella storia del diritto ogni qualvolta si dovrà decidere se preferire un approccio particolaristico oppure
universalistico alle questioni pratiche che dovrà risolvere il diritto. Attribuire a un’autorità la possibilità di
decidere caso per caso oppure imporgli di decidere in base alla norme generali astratte.
Ciò è ancor più evidente se si guarda all’esperienza giuridica romana. Questa si caratterizza per aver visto
nel diritto una tecnica adatta a regolamentare non solo l’architettura istituzionale dello Stato, ma anche i
vari aspetti della vita individuale e sociale, a cominciare dai rapporti fra le persone e fra le persone e le
cose. È sempre l’esercizio di un potere che in qualche modo il diritto e chiamato a regolare e limitare.
L’esperienza romana è dunque caratterizzata da un intreccio ancor più stretto fra potere e diritto, in quanto
sono la struttura del potere e il funzionamento del diritto a far sì che essi interagiscano costantemente.
Chi detiene il potere deve quindi fare i conti con regole giuridiche precise e puntuali relative
all’organizzazione istituzionale e all’esercizio delle sue funzioni, e nella quale il diritto non è frutto della
decisione di singola autorità, ma collaborazioni di attori legittimati alla produzione del sistema normativo.
È questa l’idea della COSTITUZIONE MISTA celebrata da Polibio e Cicerone ad emergere dalla storia di
Roma come forma peculiare di equilibrio fra diritto e potere. Pur non potendosi parlare di divisione dei
poteri in senso moderno, abbiamo qui il perseguimento dell’esigenza tipica anche del costituzionalismo
moderno, della limitazione del potere, attraverso una compartecipazione equilibrata delle varie componenti
istituzionali alla gestione unitaria del potere stesso.
Partendo dalla constatazione che le forme di governo semplici (monarchia aristocrazia democrazia) sono
soggette a decadenza che porta sempre con sé la relativa forma corrotta (tirannide, oligarchia demagogia),
Polibio presenta la soluzione costituzionale romana come la più adatta per evitare che il governo sia
soggetto al ciclo delle continue degenerazioni. Questa soluzione prevede che il potere politico sia
distribuito fra i vari organi dello stato e che quesi abbiano la facoltà di opporsi uno all’altro ovvero di
collaborare nel comune interesse. Si tratta di una costituzione che funziona in quanto fondata su un
equilibrio fra poteri, stabilito e garantito dal diritto (e allora ‘è possibile che si mantenga senza mutamenti il
governo della repubblica’, Cicerone).
Questa testimonianza costituzionale conferma che anche nell’esperienza rimanda il diritto (ius) rappresenta
una realtà che ha una sua autonoma determinazione e non è riconducibile a estrinsecazione di forza o
potere. Solo molto tardi il diritto diverrà a Roma una prerogativa del potere tanti da giustificare le leggi, che
ormai non si facevano più nell’interesse comunque ma solo per singoli, che portava ad affermarsi il
principio generale secondo cui in uno stato più che mai corrotto più che mai numerose erano le leggi
(annales III).
La stretta connessione fra diritto e potere e la sostanziale alterità del primo rispetto al secondo troverà una
cristallizzazione efficace e duratura grazie all’emergere della nozione di LEGGE NATURALE.
Tale nozione era già nota ai greci, e in particolare ai sofisti, che ne avevano fato il loro cavallo di
battaglia per la critica al nomos della città.
Tuttavia, laddove i sofisti propugnavano in nome di essa il diritto della forza, il diritto naturale affermatosi
nella cultura giuridica romana ha caratteri ben diversi.
Esso si congiura, infatti, come DIRITTO DELLA RAGIONE, allo stesso tempo supporto e criterio di giudizio
della legge positiva; sarà la lex naturalis a delimitare il campo di legittimità del diritto positivo e quindi del
potere.
In tal modo, il richiamo del diritto naturale avrà il significato di un rinvio a ciò che sta prima e oltre la sfera
del potere.
In un celebre passo del De Republica, Cicerone riassume classicamente tutti i caratteri di questa legge [qui
sintesi, cfr. pg. 39]:
Il diritto naturale – immutabile ed eterno, radicato nella ragione – non può che essere svincolato da
qualsiasi volontà umana e dunque da qualsiasi potere che possa determinarlo o modificarlo.
A partire da questo momento, esso sarà riferimento costante per chi vorrà affermare un principio superiore
al potere degli uomini, cui invece verrà di fatto abbandonato il diritto positivo, che divverà lex humana
distinta e contrapposta alla lex naturalis.
Il concetto di legge naturale verrà così a sancire e a dar nome alla tendenza dualistica che diverrà tipica
della scienza giuridica successiva.
A essere storicamente produttiva nella duplice direzione di una critica e rifondazione del potere non è
comunque la nozione di diritto naturale rintracciabile nella tradizione romana, in cui essa viene a
sovrapporsi al ius genium o serviva tutt’al più come mezzo di interpretazione del diritto positivo.
Molto più significativo è il fatto che quella stessa nozione venga ripresa dai padri del pensiero cristiano che
ne fanno il criterio in base al quale fondare e giudicare le manifestazioni umane del diritto e del potere.
In virtù del legame che viene a stabilirsi con la divinità si assiste a una trasformazione, che porta il diritto
naturale a divenire assolutamente obbligatorio e prevalente su tutti gli altri diritti.
All’interno di questa cornice si ripropone la divisione far razionalisti e volontaristi, linee di pensiero
riconducibili rispettivamente a Tommaso d’Aquino e ad Agosino d’Ippona, che condurranno ad esiti
profondamente diversi in relazione alla legittimazione del potere.
1. Agostino -> la via volontaristica è basata sulla piena coincidenza fra legge divina e legge
naturale. Ciò porta paradossalmente ad esiti di tipo positivistico , nella misura in cui insiste sulla
volontà di chi pone la legge e dunque sulla riconduzione dell’elemento giuridico alla piena
disponibilità di chi della legge è Autore (Dio per la città celeste; il sovrano per la città degli uomini);
2. Tommaso -> la via razionalistica tende a preservare l’autonomia della legge e del diritto dalla
volontà di chi li pone: se il diritto naturale è parte di una legge eterna, la cui caratteristica è appunto
quella della razionalità esso stesso si pone come criterio di valutazione della legge umana, e come
criterio di razionalità cui la legge positiva dovrà aspirare per essere vera legge.
La storia del diritto ci insegna che tanto più esso verrà ricondotto alla piena disponibilità di chi governa (sia
esso soggetto individuale o collettivo ) tanto più sarà attratto nella sfera del potere, fino ad esserne
assorbito. Il diritto naturale moderno, esaminato da Hobbes e da Locke, danno comunque visioni differenti:
• HOBBES (De Cive e Leviatano)
Nel diritto mestruale ha visti una facoltà/potere che il soggetto può usare a proprio arbitrio, affermando una
costruzione dello stato basata sul trasferimento attraverso il patto, del diritto individuale al capo collettivo
(pena situazione di insicurezza e guerra), e successivamente alla definizione della legge positiva come
manifestazione della volontà del sovrano. Da un lato, il potere del sovrano risulta costituito da tutte le
volontà che stipulano il patto che po autorizzano così a poter mettere in atto tutto il necessario per
mantenere ordine e pace; dall’altro lato la legge coincide totalmente con ciò che il sovrano riterrà utile o
giusto decidere.
Se si vuole salvaguardare sicurezza e pace per Hobbes, l’unico principio è quello secondo cui è l’autorità a
fare la legge è non la verità. Sostiene inoltre la teoria secondo cui: chi detiene il potere sovrano non è
soggetto alle leggi civili, perché porre le leggi civili al di sopra del sovrano vuol dire porre un giudice al di
sopra di lui che vorrebbe dire mettere un’altro sovrano al di sopra di lui. Inoltre ha il potere di modificare le
leggi a suo favore. Libero infatti è colui che può essere libero quando voglia.
La stagione del Giusnaturalismo moderno da l’avvio ad un’epoca nella quale ogni potere deve essere
giustificato a partire dai diritti dei cittadini, in cui il potere viene legittimato dal basso invece che dall’alto.
A partire dal XVII secolo le due vie delineate da Hobbes e Locke vanno incontro a ulteriori radicalizzazioni:
rispetto alla prima (Hobbes) si pone il problema di chi governa, cercando di concepire il nuovo principio di
legittimazione in modo che per sua stessa logica interna garantisca una distanza radicale dalla forza;
rispetto alla seconda (Locke) ci si focalizza sul tema di come governare, cercando di individuare soluzioni
specifiche per far sì che chiunque sia a governare incontri sempre dei limii invalicabili (provando dunque a
elaborare tecniche di contenimento del potere stesso).
Si pensi in tal senso alle teorie elaborate nel XVIII secolo da Rousseau e Montesquieu.
• ROUSSEAU -> il Filosofo francese, nel ‘Contrato sociale’ porta alle estreme conseguenze il
ragionamento di Hobbes, rovesciando però la logica interna al patto sociale.
È ora il fatto di unirsi in società a produrre il dovere di obbedire a un potere comune, generando così una
necessità di sottomissione ancor più stringente in virtù dell’identificazione che viene a prodursi tra soggetto
attivo (governanti) e soggetto passivo (governati).
Essendo quindi la legge il prodotto della volontè gènèrale (strumento, perciò, tramite cui si realizza
l’autonomia del soggetto) non è ammissibile che si possa ubbidirle se non consentendole: ogni altra
ragione di obbedienza rischierebbe di riportare la società sotto il dominio della forza, ma ubbidire a
questa non è mai volontà, bensì necessità.
La forza mai potrà costituire il diritto e dunque mai si sarà obbligato a obbedire a poteri che non
siano quelli legittimi, ossia quelli derivanti dal patto sociale da cui scaturisce la volontè gèneralè:
occorre (paradossalmente) che chi da quest’ultima si discosta sia costretto a essere libero.
La prospettiva di Rousseau è quella di chi ripone tutta la fiducia possibile nella costruzione del corpo
sovrano
e nella sua completa coincidenza con i soggetti che esercitano il potere: questa identificazione porta
ad affermare che il corpo sovrano non essendo formato che dai singoli che lo compongono non ha,
né può avere, interesse contrario al loro stesso interesse e quindi non deve dare garanzie poiché è
impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri. Governanti e governati coincidono totalmente .
È una visione ottimistica, in cui non c’è che la forza dello stato che faccia la libertà dei suoi membri.
Ed è proprio questo il compito che si assume il barone nel suo ‘Spirito delle leggi’, opera in cui viene
descritta la costituzione inglese per introdurre la teoria della separazione dei poteri ad organi diversi
(giudiziario, esecutivo e legislativo) che facciano capo a diverse formazioni sociali.
‘Tutto sarebbe perduto’, scrive Montesquieu, ‘se lo stesso uomo o lo stesso corpo di maggiorenti
[…] o di popolo esercitasse quesi tre poteri’.
La teoria della separazione dei poteri fa parte di un progetto ben più ampio, teso a controllare il potere
tramite il diritto e che prende il nome di costituzionalismo. Esso si realizza non solo mediante la tecnica
della SEPARAZIONE (BILANCIAMENTO secondo alcuni) dei poteri, ma anche con la diversa ma
convergente tecnica della LIMITAZIONE del potere attraverso i diritti (delimitazione di alcuni spazi immuni
all’intervento dei governanti).
Queste due tecnici sono così presentate da BOBBIO [testo pg. 46]: ‘ si possono distinguere 2 forme di
limitazione del potere:
una LIMITAZIONE MATERIALE, che consiste nel sottrarre agli imperativi del sovrano una sfera di
comportamenti umani, che son riconosciuti liberi per natura (la c.d. sfera di liceità); questa limitazione è
fondata sul principio della garanzia dei diritti individuali da parte dei poteri pubblici
e una LIMITAZIONE FORMALE, che consiste nel porre tutti gli organi del potere statale al di sotto di leggi
generali dello stato medesimo; questa limitazione è fondata sul controllo dei pubblici poteri da parte dei
cittadini. […]
Questo progetto si realizza, pur nella grande varietà di modi tempi spazi diversi, muovendosi dalla
convinzione che vadano trovati i giusti modi affinché chi detiene il potere debba esercitarlo senza abusarne
e senza violare i diritti dei cittadini. L’obbiettivo comune è quello di porre la legge al di sopra del potere.
È questa un’impresa intellettuale e politica che rinvia a una concezione del diritto che non si riduce a mera
ed esclusiva manifestazione della volontà del sovrano; è anzi proprio contro questo modo di guardare al
diritto che il costituzionalismo costruisce il proprio apparato teorico e la propria proposta istituzionale.
Con l’affermarsi della dottrina positivista, fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, appare sempre più
difficile concepire l’idea di un diritto che sia sopra al potere, se è vero che esso viene ricondotto
interamente alla sua esplicita produzione da parte dell’autorità politica riconosciuta.
Questa nuova visione trova sistemazione teorica nei lavori di Jeremy Bentham e John Ausin, critici del
diritto naturale e giurisprudenziale e sostenitori dell’IDEA IMPERATIVISTICA: questa vede nella legge un
comando dotato di particolari caratteristiche, cioè un comando che viene dall’autorità politica titolare
del potere sovrano all’interno della comunità politica indipendente.
• BENTHAM -> ne ‘Il frammento sul governo’ propone una critica radicale del costituzionalismo che era
derivato dalla Glorious Revoluion e che era stato codificato da Blackstone.
Questa dottrina criticava un sistema giuridico che poneva il focus su lavoro e autorità dei giudici, e che di
conseguenza cerca il diritto veniva promanato solo da chi titolare di sovranità; ovviamente inaccettabile per
un positivista.
Bentham sosiene che parlare di diritti naturali sia una semplice insensatezza.
Secondo il filosofo inglese, ragione e buon senso, moventi da presupposti utilitaristici, inducono a
ritenere che i diritti possono essere affermati o annullati quando all’una o all’’altra cosa corrisponde un
vantaggio per la società.
• AUSTIN -> il contributo del filosofo è volto a delimitare con precisione la sfera della legge
‘propriamente detta’ da ciò che legge non è, pur essendo chiamato con lo stesso nome.
Le leggi in senso proprio sono in quest’ottica solo quelle aventi la natura di un comando, impartito
dai superiori politici; deve quindi esistere il potere e il proposito da parte del governante, di impartire una
sanzione o un male nel caso in cui il desiderio non venga soddisfatto.
La totale riconduzione del diritto nella sfera del potere politico e della sovranità statale è all’origine di tutti i
dogmi del positivismo giuridico (statualismo, legicentrismo e conseguente formalismo) ed è pure la causa
di tutte le accuse rivolte a questa tradizione giuridica, nel secondo dopoguerra, di aver favorito l’affermarsi
del mostro totalitario. Una falsata concezione del dirito, che lo riduce a mero strumento della volontà
sovrana rischiava infatti di essere visto come un puro mezzo con cui si realizzano gli scopi, qualsiasi essi
siano, dell’autorità politica. Celebre è la critica di Radbruch, e cioè che il positivismo ‘con la sua
convinzione che la legge è la legge’, ha reso la categoria dei giuristi inerme nei confronti di leggi arbitrarie e
dal contenuto criminale’.
Bisogna però considerare anche come la diffusione dell’approccio positivistico sia anche causa di un nuovo
modo di guardare al rapporto tra diritto e potere: uno sguardo, cioè, molto più attento alle dinamiche interne
al potere stesso e alle regole mediante le quali esso va esercitato.
È innegabile che in virtù della riduzione positivistica venga a determinarsi una connessione tra quelli che
Bobbio chiama “ciclo della norma” (giustizia validità efficacia), e “ciclo del potere” (legittimità legalità
effettività) conducendo ogni aspetto della vita del diritto ad essere intrecciato alle dinamiche del potere.
Se, dunque, è indiscutibile che in virtù della ‘riduzione positivista’ diritto e potere vengano a essere
intrecciati come non mai, si deve anche osservare che per questa stessa via il potere stesso venga a
essere
imbrigliato in un reticolo di regole, riguardanti il suo esercizio e che anzi, proprio in virtù di questo intreccio,
esso possa essere considerato potere solo in virtù del rispetto delle regole che lo legittimano e lo
strutturano.
• MAX WEBER = sostenitore della teoria secondo cui il diritto ha l’impresa di regolamentare la forza,
secondo cui ha individuato la pretesa di monopolizzazione dell’uso legittimo della forza avanzata dallo
stato. Weber descrive le caratteristiche di un potere la cui struttura non conosce una forma o un
procedimento ordinato, e che nel suo esercizio conosce soltanto determinazioni interne e limiti tratti sa se
stesso.
-potere legale-razionale= poggia sulla fede nella validità della norma di legge e della competenza fondata
su regole razionalmente formulate, su un generale adempimento di doveri stabiliti de norme. Ogni esercizio
del potere è regolato da norme. Raffigurata mediante l’immagine di burocrazia e del funzionario che svolge
i suoi compiti .
-potere tradizionale = rinvia ad una forma giuridica semplice , regolabile
-potere carismatico= rinvia ad una forma giuridica non regolabile, fondata sulla credenza nelle qualità
straordinarie del capo.
Totalitarismo e democrazia costituzionale rappresentano due fenomeni storico politico, espressione di tali
tendenze contrapposte e sono una tappa inedita nei rapporti fra diritto e potere, come se essi avessero
cessato di essere le due facce di una stessa medaglia e venissero ridotto a una medesima faccia, dentro
uno schema che finisce per pervertire uno dei due.
La testimonianza più rilevante del primo orientamento la si ritrova nel pensiero di Carl Schmit:
• CARL SCHMIT=
giurista molto vicino al Reich hitleriano che muove dalla negazione che il nuovo sistema costituzionale
tedesco possa trovare una legittimazione nella costituzione precedente. Egli predica l’idea di una sorta di
autofondazione del Reich, contrastando con gli assunti kelseniani: il giurista tedesco sostiene che il diritto
proceda invece da quell’atto con cui il potere afferma sé stesso (‘ciò che è vivo non può legittimarsi con ciò
che è morto e la forza non ha bisogno di legittimarsi con la debolezza’), contrapponendo con ciò l’idea di
legittimità a quella di legalità.
È stato osservato che durante il regime nazista convivevano in Germania uno stato normativo e uno stato
discrezionale, col risultato che il secondo annullava completamente il primo. Si trattava in sostanza di un
sistema ‘di dominio dell’arbitrio assoluto e della violenza che non conosce limite in alcuna garanzia
giuridica’; un sistema nel quale ‘mancano le norme e dominano i provvedimenti’.
Ciò vale per ogni totalitarismo, fenomeno incentrato su quella negazione di libertà e diritto individuale (che
era stata teorizzata nella celeberrima voce enciclopedica dedicata alla definizione di Fascismo, scritta da
Mussolini: ‘Il fascismo è per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e
dell’individuo nello Stato e nulla di umano o spirituale esiste e tanto meno ha valore al di fuori dello stato’.).
La riduzione dell’individuo allo Stato è alla base di una concezione del rapporto fra diritto e potere nella
quale il primo è molto meno di un mezzo per il raggiungimento dei fini del secondo.
Del costituzionalismo novecentesco si può dire senz’altro che si è trattato di un’impresa teorico istituzionale
volta a neutralizzare il potere costituente in un sistema di valori etici politici e giuridici (c.dd. principi) di cui
la costituzione diviene promotrice e garante. Il diritto non è più quindi uno strumento neutro, a disposizione
di chi esercita il potere ma diviene innanzitutto un insieme di regole e principi tesi a garantire i diritti dei
cittadini e la loro piena e libera
partecipazione alla vita della comunità.
Quest’impresa trova il suo coronamento nella presenza delle corti costituzionali, organi supremi degli
ordinamenti democratici, chiamati a garantire che il governo della legge – inteso sia come governo sub
legge che come governo per leges – non sia una forma mascherata di governo degli uomini legislatori, ma
piuttosto un sistema nel quale è la costituzione stessa a definire i contorni dell’azione politica.
Sistema costituzionale nel quale, come sottolinea Von Hayek, ‘il governo in tutte le sue azioni è vincolato
da norme stabilite e annunciate in anticipo.
Il diritto, dunque, è chiamato a regolare l’esercizio del potere e il potere, dal canto suo, viene sempre
esercitato in esecuzione di previsioni giuridiche.
Non è più quindi il diritto a essere strumentale rispetto all’attuazione del volere dell’autorità politica, ma è al
contrario la politica che diviene strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposi dal
principio costituzionale: vincolo negativo (diritti di libertà, inviolabili) e positivo (diritti sociali, da soddisfarsi).
Queste criticità mostrano la necessità di un equilibrio tra diritto e potere, a compito della scienza politica e
giuridica del XXI secolo nel cercare soluzioni, facendo si che le due facce della medaglia possano
coesistere .
La pluralità di questioni con cui si ha a che fare quando si analizzano i rapporti fra diritto e morale, deriva in
primo luogo dai vari significati che ciascun termine può assumere, dal modo in cui quesi significati possono
essere combinati nonché dalla prospettiva in cui ci si pone nell’affrontare il problema.
1. Morale convenzionale/positiva/sociale -> Morale è innanzitutto l’insieme dei valori e dei principi
attorno al quale viene costruito il codice comportamentale di un certo gruppo sociale e sul quale il gruppo
sociale costruisce parte della propria identità: una sorta di collante che tiene coeso il gruppo stesso (es->
morale positiva= religiosa);
2. Morale critica/individuale/ideale ->in generale indica l’insieme dei principi che l’individuo pone a guida
della sua azione individuale, a prescindere dal gruppo culturale di cui fa parte; nella sua dimensione ideale,
la morale individuale indica l’insieme dei principi che qualunque individuo porrebbe a guida del proprio
comportamento se ragionasse in maniera puramente
razionale.
Ovviamente fra la morale critica a quella positiva intercorrono stretti rapporti in quanto l’individuo
costruisce la propria morale critica sempre all’interno di un gruppo sociale avente un proprio quadro
valoriale di riferimento, che se non obbliga, quanto meno condiziona le scelte individuali (certo è che la
morale critica dell’individuo può differire rispetto a quella del suo gruppo sociale);
inoltre, come sottolinea Nino, ‘la morale che risulta positiva consiste in un insieme di diritti e principi assunti
come validi i quali comunque non si riferiscono alla stessa morale positiva ma si considerano parte di una
morale critica e ideale.
3. Giustizia -> la morale può essere intesa per indicare quei principi standard che un determinato sistema
normativo, in primis quello giuridico, deve o dovrebbe avere per esser considerato moralmente (appunto)
accettabile, in particolare con riferimento alla distribuzione di diritti e doveri e risorse fra i consociati e ai
criteri per attuare questa (attorno ai quali ruoterà gran parte del dibattito filosofico – giuridico);
Tutti noi siamo portati a definire una certa istituzione soprattutto politica come giusta quando soddisfa
determinati standard morali ritenuti irrinunciabili.
4. Etica -> per ultimo, il termine morale può esser utilizzato come sinonimo di etica e in tal caso indica
non tanto i valori introno ai quali un individuo, gruppo o istituzione dovrebbe conformare la propria azione,
bensì la disciplina filosofica che li studia, nel tentativo di assegnare ai singoli comportamenti o classi di
comportamenti un determinato valore e statuto deontologico e quindi classificandoli come giusti/ingiusti.
Discorso analogo può esser fatto in relazione al termine ‘DIRITTO’, trovandone diversi usi del termine:
1. Diritto può, in primis, indicare l’insieme dei comandi (e delle relative sanzioni) imposto dal superiore
politico ai soggetti a esso sottoposti.
Questa definizione, nota come teoria imperativistica del diritto (vedi sopra) è riconducibile ad Austin, fra i
padri del giuspositivismo inglese. Quesi ha sostenuto come il termine diritto dovrebbe indicare solo
qualcosa di reale e presente, cioè ciò che il diritto concretamente comanda e dispone (la legge positiva), a
prescindere che soddisfi le esigenze della morale o meno. Il termine diritto in sostanza indica, per Austin,
ciò che il diritto è e non ciò che il diritto dovrebbe essere;
2. Secondo un’altra visione, ‘diritto’ dovrebbe essere usato per indicare l’insieme delle regole
legittimamente emesse, a patto che esse siano rispettose di ciò che la Natura, la Ragione, Dio o qualunque
altra Fonte vera e oggettiva dispongano. Di converso, qualora tali regole, pur legittimamente emesse, siano
contrarie a tali istanze di verità esse non sarebbero qualificabili come diritto: Lex iniusta non est lex.
Questa scuola di pensiero, nota come giusnaturalismo, ha radici assai risalenti, fino ad arrivare alla
celebre affermazione di essa fatta da Cicerone.
3. Terzo significato del termine diritto si colloca a metà strada fra il diritto positivo (giuspositivismo) e quello
necessariamente giusto (giusnaturalismo).
Diritto sarebbe sì quello positivo posto attraverso certe procedure legittime, ma a condizione che nessuna
delle disposizioni che lo compongono violi i principi giudici proclamati all’interno di un documento ufficiale,
quindi parte del diritto positivo posto al vertice del sistema normativo: documento costituzionale.
In nome del diritto non si può dire o comandare qualunque cosa, i contenuti possibili sono solo quelli
compatibili con i principi disposti dalla costituzione. Questi principi con funzioni simili rispetto a quelli del
diritto naturale, non sono più vaghi ma sono frutto di un accordo politico scelta sociale e formulazione. I
principi della democrazia costituzionale sono quelli che un popolo in un determinato momento storico hai
letto propria guida proprio modello ideale di comportamento, credendo nell’uguaglianza libertà in tutti gli
altri diritti fondamentali, non per ragioni di fede o di speranza ma perché questi principi nel loro insieme
costituiscono il fondamento della loro civiltà giuridica.
Le definizioni che si danno alle teorie del diritto e della morale sono conoscitive la loro correttezza deve
essere misurata in relazione all’aspetto del fenomeno considerato e rispetto al contesto culturale. I teorici
nel definire i concetti compiono scelte evidenziando determinati aspetti e trascurandone altri. Come diceva
Brian Bix, Uno stesso oggetto può essere osservato da molteplici punti di vista, spesso diversi a seconda
dell’osservatore, a seconda dell’angolo visuale.
Riassunto:
1. Rapporto tra diritto e morale non costituisce un’unica questione ma un insieme di questioni che meritano
analisi indipendenti sostenere la tesi di connessione separazioni tra diritto e morale senza specificare a
quale tipo di relazione facciano riferimento non ha senso.
2. Il rapporto tra diritto e morale genera molteplici questioni indipendenti derivanti dalla pluralità dei
significati che il termine diritto e morale assumono.
3. Ogni definizione del termine diritto presuppone una teoria del concetto di diritto, 3: il positivismo
imperativista, giusnaturalismo classico, costituzionalismo.
4. Non esistono definizioni o teorie errate in assoluto o di converso corrette in assoluto. La validità delle
varie teorie va misurata in relazione ai fatti della storia.
Prima BENTHAM aveva sostenuto un’idea simile, secondo lui esistevano due atteggiamenti verso il diritto:
1)quello dell’espositore (Expositor) con il compito di spiegare che cos’è il diritto.
2)quello del critico (Censor) con il compito di mostrare cosa il diritto dovrebbe essere.
In base a queste idee, lo studio del diritto “della cosa giuridica” doveva limitarsi ad una conoscenza
descrittiva ed avalutativa dei fenomeni giuridici, senza mai comprendere valutazioni morali. Il diritto viene
concepito come un fatto che lo studio deve limitarsi a descrivere asetticamente, riportando la realtà
giuridica per come si presenta.
Si può comunque valutare giusti o ingiusti l’ordinamento o la norma che si ha davanti, è importante (per
Austin e Bentham) ma volevano dire che non è importante per lo studio del diritto questa valutazione.
Lo scienziato del diritto non ha il compito di valutare se una certa norma soddisfa o meno certi standard
morali, ma ha il compito solo di descrivere la norma in modo avalutativo.
Diritto= mero fatto
Morale=sinonimo di etica, che non è di interesse per il giurista, che ha il semplice compito di descrivere fatti
per come si svolgono nella realtà.
• HANS KELSEN E HERBERT HART = il diritto non è semplicemente un fatto, è un valore perché esprime
tensione verso qualcosa che è giusto o è bene realizzare. In quest’ottica il dritto appartiene al modo del
“dover essere” e non a quello “dell’essere”.
Hanno voluto chiedersi se fosse possibile sostenere contemporaneamente la natura scientifica dello studio
del diritto e la natura valoriale delle norme che lo compongono, e cioè se fosse possibile descrivere
avalutativamente i valori.
Per loro, le norme giuridiche sono un valore, La funzione della scienza del diritto non consiste
nell’attribuzione di valori o in una valutazione, ma consiste in una descrizione del proprio oggetto svolta
prescindendo dai valori.
Le norme che compongono i sistemi giuridici sono valori, esprimono una tensione verso qualcosa che è
bene realizzare, e non impone allo studioso l’abbandono dell’idea di neutralità e descrizione.
La descrizione del valore non comporta la sua condivisione, una cosa è l’oggetto del diritto ed il suo stato
morale, un’altra cosa è il metodo che viene usato per renderne conto.
Questione del metodo= a prescindere dal fatto che il diritto sia un fatto o sia un valore; per il
giuspositivismo di ogni epoca il compito dello studioso del diritto è di descrivere in modo avalutativo
fenomeni giuridici , descrizione disinteressata alla dimensione morale. Il carattere dell’avalutatività
garantisce il dibattito scientifico secondo regole specifiche.
• FULLER = critica al positivismo giuridico di Austin, della distinzione tra fatto e valore, tra ciò che è e ciò
che dovrebbe essere, tra diritto e morale.
È sufficiente per lui analizzare qualunque attività umana, per capire che i due piani sono sovrapposti e
indistinguibili. Chiunque opera in abito giuridico non può ignorare la morale e far si che non influenzi
l’operato, perché la morale fa parte del diritto.
Leggi e sentenze, come una storia raccontata (storia prima ascoltata, e storia dopo averla ascoltata con
interpretazione personale), includono per forza 2 elementi: una struttura formale per riconoscerli come
pezzi di diritto, e una tensione verso un obbiettivo (espresso chiaramente o in modo confuso)... la legge o
la sentenza non sono una porzione d’essere ma un processo in divenire.
Fuller identifica l’immagine di uno studioso immerso nella dimensione pratica del fenomeno giuridico che
vuole contribuire al miglioramento del sistema.
• DWORKIN = Disegna un nuovo modello di scienza del diritto, con un giudice con la funzione (non più di
rendere conto e descrivere in modo avalutativo), di offrire la migliore interpretazione possibile delle varie
pratiche seguendo determinati valori.
ES/ mettiamo che uno studioso deve ricostruire una pratica dell’etichetta, il lavoro di ricostruzione prevede
sempre 3 fasi
1)fase pre-interpretativa= isola la pratica rispetto alle altre osservabili, indivia una serie di casi su cui
elaborare un concetto condiviso di quella pratica
2)fase interpretativa= a partire del concetto condiviso individuato, deve trovare giustificazioni degli elementi
che caratterizzano la pratica.
3)fase post-interpretativa= tenta di mettere la pratica nella miglior luce possibile, fornendo l’interpretazione
che meglio realizza i valori del sistema, determinando ciò che la pratica sociale richiede.
Per DWORKIN tanto il diritto quando la teoria del diritto devono essere intesi come processi di una
interpretazione costruttiva , che esprime il proprio oggetto nel modo migliore.
Come diceva già Fuller, Non si tratta quindi di riportare fedelmente fatti e le pratica del diritto, ma di
migliorarle e vederle nel modo migliore. Deve essere come attuata un’opera di miglioramento.
Viene così una nuova idea di teoria del diritto, perché vede la caratteristica morale come fondamentale.
Una teoria che deve essere sia normativa sia concettuale, che non si limita a descrivere com’è il diritto ma
anche indica come esso dovrebbe essere.
Quale metodo preferire? Qual’e il ruolo quindi dello studioso del diritto? Non ci sono teorie corrette
assolute, ma è da capire quale modello metodologico è più adatto in un certo tipo di sistema giuridico, e
quale obbiettivo seguire a seconda del sistema scelto.
PP/72
Dilemma fin dai tempi greci di Platone del diritto e del fatto che il diritto è potenza, può fare e disfare.
—positivismo giuridico: anche il diritto moralmente deteriore è pur sempre diritto perché la sua
connotazione morale non è parte necessaria del concetto di diritto. Quest’idea di diritto è stata sottoposta a
critiche e dato responsabilità a positivisti dopo i totalitarismi del 900.
Il diritto e morale è diritto al pari di quello giusto, e chi lo giudica in suo nome e chi lo studia sono giuristi al
pari degli altri.
Il positivismo con la tesi di separazione tra diritto e morale, tra il diritto com’è ed il diritto come dovrebbe
essere, è stato accusato di non saper distinguere tra il sistema di regole di un gruppo di banditi e quello di
un sistema di regole del diritto.
Nell’ottica positivista il diritto è rappresentato come un contenitore che può essere riempito con un qualsiasi
liquidò salutare o velenoso, ma è indubitabile che sempre di una bottiglia/ contenitore si tratti. Il contenitore
quando riempito di veleni pregiudizi e ideologie belliche finirà col produrre danni, ma questi danni non sono
attribuibili al metodo positivista, ma sarà da attribuirgli la sua volontà né di osservare né di combattere quei
danni.
HART: positivista, ha giustificato l’astensione positivista metodologica attraverso un argomento di
coscienza o morale. Il fatto che le leggi moralmente riprovevoli siano giuridiche, non implica, loro
necessaria obbedienza. Esiste un criterio che supera quello della loro validità, un criterio che riguarda la
coscienza e la morale ma non il diritto. Davanti al diritto ingiusto sia sempre la possibilità di resistere e non
obbedire, ma si deve avere il coraggio soggettivo di farlo, nella consapevolezza che si sta violando
comunque una norma giuridica
Che posizione prendere: se guardiamo l’interesse del funzionamento dei sistemi giuridici costituzionali,
l’interesse deve rivolgersi alla formula di Radbruch, ogni costituzione contiene una soglia che coincide con
il rispetto dei diritti fondamentali, il cui superamento determina l’annullabilità del prodotto legislativo a
custodia della costituzione.
Mill sostiene una separazione tra il diritto che impone obblighi e divieti e la morale positiva, ma la sua
argomentazione poggia anche sulle azioni lesive e non lesive.
Azioni lesive= sono di interesse della comunità e dello Stato, legittimano l’esercitazione di un potere di
limitazione.
Azioni non lesive= non dovrebbero interessare nessuno se non le persone direttamente coinvolte.
Uno Stato che si interessa vietando o limitando le azioni non lesive sta quindi agendo al di fuori delle
funzioni del suo ruolo, in modo anche autoritario.
Il discorso si può ingrandire a tutte quelle azioni che sono controverse dal punto di vista del dibattito
morale, di fatto non producono danno alcuno consumandosi all’interno della sfera di libertà dei soggetti
agenti.
Con l’impostazione liberale sopracitata è sempre stata criticata. Le critiche provengono da coloro i quali
ritengono che la morale convenzionale a prescindere da ciò che professi sia da difendere in quanto tale. I
tradizionalisti nazionalisti ecc nella sfera privata e in quella pubblica portano avanti un’idea di questo tipo.
Se Mill parla secondo un’idea di razionalità per cui le persone non vanno giudicate moralmente per il loro
stile di vita a patto che non comprometta lo stile di vita altrui, i critici contrappongono una visione ideologica
che contiene irrazionalità e imprevedibilità (oggi può essere soggetta una determinata categoria, domani
un’altra). L’unico criterio che conta è quello dello status quo, del farsi che una maggioranza imponga i
propri valori arresto della società.
•DEVLIN = simile è sostenuta da lui, attraverso l’argomento della “ disintegration thesis” secondo cui al pari
del tradimento anche l’immoralità mette a repentaglio l’esistenza e l’unità della società politica.questo
perché la società detta anche “insieme materiale” e” unione fisica”, andrebbe considerato come una
comunità di idee senza alcun accordo su ciò che è bene su ciò che è male. secondo lui c’era la necessità
di imporre coattivamente con il diritto la comunione di idee.
•un’altra critica è quella secondo cui condividendo il vino generali principi cardine del liberalismo, è difficile
determinare se un’azione riguardi solo soggetto agente o si interferisca con le vite scelte e le libertà altrui.
Esistono azioni che apparentemente riguardano solo la sfera di libertà del soggetto agente, ma che
indirettamente finiscono col produrre effetti anche per altri soggetti sono addirittura nella società.
Il rapporto tra diritto e morale assume un nuovo significato connesso alla dimensione politica.
Interrogandoci sui rapporti che obblighi e divieti giuridici devono intrattenere con la morale convenzionale,
ci si chiede quale sia il ruolo del diritto dello Stato. Anche in questo caso non ci sono risposte definitive,
sicuramente una dimensione politica democratica costituzionale in cui vengono riconosciuti i diritti inviolabili
e l’uguaglianza è considerata il fondamento del sistema giuridico. Quando la morale convenzionale
interferisce con i principi costituzionali, anche quando condivise da quasi totalità di soggetti, A prevalere
sono i principi costituzionali.
5. CONCLUSIONI
I rapporti tra il diritto e la morale sono al cuore della filosofia del diritto radici antiche profonda. Qualunque
argomento condurrà verso norme giuridiche ed esigenze morali.
Abbiamo riflettuto attraverso il prisma diritto morale, su questioni di metodo, di giustizia e di conformismo
sociale il tutto con costante riferimento a al concetto di diritto.
PP.82
2. SOCIETÀ NATURALE
Si tratta della prospettiva per la quale la relazione sociale consiste in una realtà o dimensione ‘naturale’.
L’uomo ha per natura la capacità di allestire relazioni e istituire un legame sociale strutturato, come modello
di vere associato e con regole di convivenza.
Questa impostazione si sviluppa a partire dal pensiero di ARISTOTELE, il quale, nella politica, scrive:
‘l’uomo è un animale sociale’, più precisamente politico.
Ciò significa che per potersi definire uomini, gli individui debbano essere calati in un contesto sociale,
riconoscibile e strutturato (polis).
-> il tutto prevale sulle parti: il collettivo prevale sulle singolarità.
Così CICERONE, nel De legibus, sottolinea la correlazione tra:
-civilis societas: società, -Civitas: città. -Ius: diritto.
Ciò confluisce nell’idea della tradizione medievale della societas christiana intesa come societas
universalis. Dunque, ciò che viene contrapposto alla societas civili non è lo stato, ma la societas domestica.
Questa prospettiva ritorna, all’interno di una cornice teologica, in SAN TOMMASO D’AQUINO, il quale, ne
La Somma teologica, la raccorda non solo all’idea di lex ma al concetto di bonum commune.
Essa si spinge sino alle soglie della modernità con GROZIO ed il suo appetitus societatis ovvero con
Rousseau ed il suo modello di ‘stato di natura’.
ROUSSEAU propone una sorta di ‘dissociazione’ tra relazione e società. Ne ‘il contratto sociale’, la società,
intesa come processo di civilizzazione-
interculturazione, determina un decadimento rispetto allo ‘stato di natura’. Tale stadio originario appare non
privo di forme naturali di relazione legate a qualche affectio societatis e alle categorie di bene/male e
giusto/ingiusto.
Dunque, ROUSSEAU sembra non negare l’esistenza di una relazione sociale come struttura costitutiva
dell’homo naturel.
Questa ambiguità traspare anche nella nozione di KANT di ‘insocievole socievolezza’, elaborata dal filosofo
in chiave universalistica: ancora una volta si pone la tensione per la quale la relazione sociale è una
dimensione costitutiva dell’uomo ma al contempo si pone l’esigenza di istituire norme che la regolino.
Dunque, la società si configura come un livello non discutibile in quanto dimensione oggettiva, strutturale e
antecedente ai singoli individui.
Allo stesso tempo la società , è come un livello dotato costruttivamente di regole giuridiche, di relazione tra
uomini in prospettiva universale.
Ne deriva che la mancata appartenenza a qualche forma di vincolo sociale strutturato (quale la polis, la
civitas o l’imperium) appare inconcepibile -> come scrive ARISTOTELE, ‘chi non vive in una città, per la
sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo’.
Passando all’analizzare il modello di diritto che ne deriva, si pone l’idea di diritto quale realtà o dimensione
naturale.
Il diritto non può che rappresentare una sfera oggettiva, ossia un ordine intrinseco alla natura e dunque
anche ai rapporti sociali. Il diritto è oggettivo in quanto naturale: si tratta di un livello originario e
antecedente alle contingenti opzioni normative rispetto alle quali funge da orientamento e filtro critico.
Tale concezione si radica nella concezione greco-arcaica che ritroviamo ne ‘teogonia e le opere e i giorni’
di ESIODO dove nel diritto trova espressione la realtà come ordine. Essa permane nella filosofia platonica.
In particolare, nel dialogo intorno alla giustizia contenuto ne la Repubblica, SOCRATE appare insoddisfatto
delle classiche definizioni della giustizia: in particolare, di fronte all’interpretazione di Trasimarco, per il
quale la giustizia è utile, la volontà del più forte, Socrate rimarca la natura oggettiva di giustizia e di diritto.
Ciò si riflette sul piano politico-istituzionale: il giusto si predica innanzitutto dal governo della città, sui
governanti grava l’onere di essere giusti, emanando norme giuste in quanto espressione di diritto oggettivo.
Dunque, il diritto rappresenta una dimensione oggettiva e universale, quando e se corrispondente a un
“giusto”, a sua volta concepito come dimensione naturale e intrinseca ai rapporti sociali.
E tale prospettiva, che possiamo definire lato sensu “giusnaturalistica”, la ritroviamo anche in SAN
TOMMASO, per il quale la legge naturale (lex naturalis) corrisponde al diritto naturale (ius naturale), dove
la legge naturale altro non è che partecipazione della legge eterna (lex aeternae) nelle creature razionali.
Ora, se la lex è ordinazione della ragione al bene comune, promulgata da chi ha il governo di una
comunità, ius e natura si saldano nella nozione di giustizia.
In principio, dunque, la legge è ordinatio rationis, un ordine della ragione.
Se ci trovassimo di fronte ad una legge non razionale saremmo già al di fuori della definizione di legge. E
tale razionalità, per non essere vuoto formale, si estrinseca nell’orientamento al bene
comune→il rapporto legislatore-comunità non è visto in chiave contrattualistica come avverrà nello Stato
moderno: il legislatore non è fuori dalla comunità ma è uno della comunità e all’interno della comunità se ne
prende cura. Dunque, ius in quanto giusto, non in quanto comandato.
Infine, l’idea di un diritto oggettivo e naturale si mantiene anche nella modernità (Jean BODIN, nel ‘500,
distingue ancora tra ius e lex) ma in una prospettiva molto diversa: l’oggettività del diritto risiede nella
capacità razionale, naturale e dunque universale, del soggetto (cartesiano) di individuare il diritto.
La norma giuridica, dunque, si fonda sulla ragione e ciò consente di progettare razionalmente la società.
Il passaggio storico-concettuale dal pensiero classico-medievale al pensiero moderno determina due
conseguenze:
- se il diritto è prodotto della ragione, il riferimento ad una dimensione oggettiva di giustizia diviene
irrilevante (talvolta dannoso) ,
- Se il diritto è prodotto di una ragione universale, ne deriva un’apertura progressiva al riconoscimento dei
diritti universali (con il pensiero di Grozio (1583-1645) e Pufendorf (XVII sec.) si passa da un’idea del diritto
come orizzonte oggettivamente unitario ad un’idea di diritti come riconoscimento di posizioni soggettive
giuridicamente rilevanti).
3. SOCIETÀ ARTIFICIALE
La società è una realtà artificiale o finzionale. In questo caso, l’uomo originario, l’uomo “nello stato di
natura”, non è affatto socievole, quanto piuttosto atomo irrelato ed in conflitto rispetto agli altri uomini.
È evidente che a ciascuna delle due prospettive in esame (quella della società naturale e quella della
società artificiale) corrisponda un presupposto diverso di modello antropologico. ➔ora la parte prevale sul
tutto e la priorità è conferita agli individui.
Questo modello concettuale è emblema della modernità, a partire da HOBBES nel Leviatano (1651).
L’idea di societas e di relazione scaturiscono da una convenzione: all’interno di uno stato di natura
conflittuale, anche un minimo assetto sociale strutturato non può che dipendere da un accordo stabile.
Dunque, nello stato di natura manca ogni affectio societatis e vige una situazione di
“guerra di tutti contro tutti”, solo un calcolo razionale di utilità consente all’uomo di uscirne: gli uomini,
innanzitutto, devono riconoscersi almeno come entità simmetriche (pactum unionis), frutto della pura
convenienza per superare quello stato di pericolo, accordandosi.
La società, dunque, è un artificio, una finzione, finalizzata alla salvaguardia della vita.
Stipulato il pactum unionis, ne deriva logicamente la stipulazione del pactum subiectionis, ossia di quel
patto mediante il quale i consociati si sottopongono al sovrano come garante della pace sociale, dando il
potere assoluto ad un terzo superiore.
Soffermandoci sulla categoria di contratto sociale, o più precisamente di pactum: gli effetti del
contratto sono il trasferimento della forza, intesa come potere assoluto, dai singoli al sovrano, per il quale
vige il solo limite di non attentare alla vita dei consociati. Il pactum, consente di passare dallo stato di
natura originario e conflittuale ad un contesto sociale (Commonwealth per Hobbes), legittimando altresì
l’idea di Stato e di diritto, creando una realtà artificiale.
Passando ad analizzare il riflessi che l’impostazione vista ha con riferimento all’idea di DIRITTO,
recuperiamo il passo de la Repubblica platonica relativo alla giustizia.
TRASIMACO=Diritto inteso come dimensione essenzialmente convenzionale o artificiale. due visioni:
—classico antica= definisce la giustizia come l’utile per il superiore, ossia per il più forte ,egli fa riferimento
al rapporto tra le forze in gioco,il diritto, è considerato come esito di un puro scontro, come dato di fatto, tra
antagonisti dove vince il più forte.
—versione moderna=nella quale la norma giuridica costituisce una stabilizzazione di uno stato di equilibrio
tra forze in competizione (contratto sociale).
In entrambi i casi, il rinvio alla sfera della giustizia viene rimosso. Il diritto è prodotto artificiale con finalità
utilitaristica e convenzionale.
Emerge poi un ulteriore punto: sia il modello di società naturale sia di società artificiale implicano che il
vivere associato necessita di forme strutturate di convivenza, es. istituzioni.
L’ISTITUZIONE (vivere associati, convivenza) può essere:
- una dimensione antropologicamente naturale (come la polis greca),
- l’esito di una fictio (lo stato moderno) basato sul contratto sociale,
- un livello originariamente interno alle relazioni sociali.
->si tratta dell’istituzionalismo: le istituzioni sono contesti/livelli di convivenza che auto-organizzandosi
(associazioni, gruppi, movimenti ecc.) generano originariamente diritto → il diritto (in chiave pluralistica)
precede la formalizzazione/esplicitazione normativa.
2 interrogativi:
—> la nozione di società esaurisce ogni modalità di interpretare la relazione ed il legame sociale o esistono
altri modelli?
—> la relazione tra società e diritto è sempre simmetrica cosa succede quando viene a mancare ogni
forma di regolazione giuridica e anarchia?
• Partiamo da ARISTOTELE: Nelle prime righe della “politica”, il filosofo greco sancisce che : ogni città è
una comunità è costituita in vista di qualche bene. Ogni polis è koinonia= ‘comunità’. In questa prospettiva,
comunità, società e popolo sono sovrapponibili.
• Questa impostazione è ripresa anche da TOMMASO D’AQUINO: egli individua nel bonum unius civitatis
la communitas perfecta.
• È con HOBBES: si inaugura un modo di concepire le organizzazioni sociali spontanee in termini di realtà
subordinate, di corpi intermedi tra il sovrano-Leviatano e gli individui frutto di una concessione del primo.
• Così in HEGEL può configurarsi la distinzione tra : società civile — L’universo della comunità.
• Ancora, nell’ambito della sociologia, la scienza fondata nel XIX secondo da COMTE ed DURKHEIM, si
teorizza la contrapposizione tra: (comunità) — (Società).
Dunque, nella seconda metà dell’800, in Germania, nasce tale polarizzazione e si sviluppa
l’idea che la società sia ciò che viene definita dallo stato, ponendosi dunque come entità artificiale.
La comunità,invece, fa riferimento a quelle dimensioni dell’esperienza sociale che in prima battuta
sfuggono ad una diretta regolamentazione del diritto statuale: della famiglia, associazioni, relazioni amicali.
• In particolare, il filosofo tedesco Ferdinand TONNIES,, sostiene come il binomio comunità e società
indichi un’opposizione tra modelli giuridici e, anche tra diversi modelli di “uomo”, tra diverse antropologie.
Non a caso, nel secolo scorso la dimensione comunitaria è stata evocata spesso e in contesti molto diversi:
- 'Dalla “comunità del popolo” nazionalsocialista,
- 'Alla classe-comunità marxiana,
-'Sino al recente rilancio dell’ideale comunitario come paradigma politico istituzionale (il riferimento è al
comunitarismo).
Quanto abbiamo visto consente di cogliere un duplice riflesso sul piano giuridico:
1. In un contesto dove comunità e società si sovrappongono (come nel mondo classico, civitas romana e
nella respublica Christiana medievale), il diritto è coestensivo al vivere associato: nel diritto della comunità
si esaurisce l’insieme delle norme che regolano la “società”;
2. Nel momento in cui viene meno tale corrispondenza, il diritto deve trovare qualche altro fondamento:
ancora una volta, il modello hobbesiano è paradigmatico, in quanto la subordinazione della comunità alla
società rappresenta la premessa concettuale per ricondurre il diritto alla sola volontà del sovrano.
• PROSPETTIVA MARXIANA :
Essa si basa su due idee di fondo:
1. Per Marx, la categoria ‘società’ è criticabile in quando appartenente al mondo dei borghesi, ossia alla
classe dei proprietari dei mezzi di produzione.
Da qui la critica al modello capitalista, basato sulla popolarità tra borghesia e proletariato i cui effetti
investono la ‘classe’ proletaria.
La classe proletaria è così consapevole delle strutture sottese alla dinamica storica, e vuole modificarne
l’evoluzione, correggendo l’asimmetria sociale ed eliminando la classe borghese.
2. Il diritto è un prodotto della società borghese-capitalista e dunque va rimosso tramite la lotta di classe:
spetta al proletariato instaurare, mediante lo stadio intermedio della dittatura del proletariato, un nuovo
modello sociale privo di classi e, di per sé primo di regole giuridiche.
Ciò premesso, anche in questa impostazione si mantiene il nesso società-diritto.
Infatti, la fase di transizione verso la società senza classi non può avvenire in un contesto completamente
anarchico, anzi, vale addirittura l’opposto.
• Questo ritorna in Max STIRNER e in NIETZSCHE che, pur muovendo da prospettive diverse, enfatizzano
la volontà individuale e il rifiuto dell’idea di una società normata.
• Tale impostazione è simmetrica al bellum omnium contra omnes di HOBBES (in Hobbes
frutto dello scontro tra libertà, nel modello anarchico frutto dell’assolutizzazione della
volontà-libertà individuale), talora riproposta anche con riferimento ai contesti democratico-costituzionali
come ad esempio da Robert NOZIK.
Emerge, pertanto, l’ambiguità e la complessità della prospettiva anarchica, che se da un lato sembra
revocare l’idea stesa di società, dall’altra, per rendersi praticabile, necessita di un contesto sociale
normativamente strutturato.
Ancora una volta bisogna guardare al modello di RELAZIONE, come presupposto sottostante a tutti i
paradigmi di società che abbiamo sino ad ora considerati.
In sostanza, esiste e si può parlare di una SOCIETÀ(sia nell’accezione di entità individuabile ossia univoca
sia nell’accezione di entità unitaria ossia organizzata) solo se si postula una qualche forma di
concettualizzazione della relazione: in assenza di ciò, non può
configurarsi alcun vincolo sociale.
- 'È riferibile ad un contesto comunque ancora unitario e spazialmente definito (lo Stato).
Si tratta dell’idea di massa monolite o massa-blocco che attiene alla prima metà del ‘900.
Dai sistemi totalitari, nei quali le masse vengono irreggimentate e diventano oggetto/soggetto di
politicizzazione, alle società e agli Stati “di massa” della seconda metà del ‘900, inclusi i modelli di Welfare.
I processi di massificazione implicavano forme di auto-riconoscimento e di identificazione collettiva.
Le masse subivano un processo di incorporazione all’interno di una entità collettiva e di un contesto sociale
identificabile (di natura politico-giuridica in rapporto a un territorio, ad esempio, ovvero ideale (il partito di
massa) o socio-economico (il c.d. Welfare State), o tutte queste cose insieme).
Negli odierni scenari, questo auto-riconoscimento viene a mancare e dunque muta il concetto di
massa→da massa-blocco a massa molecolare.
Il profilo chiave è rappresentato dalla progressiva transizione dalla nozione di riconoscimento-relazione a
quella di interazione. Hanno un ruolo cruciale:
-'Le nuove tecnologie come veicolo di tipologie di connessione sempre più complesse,
-'Il processo di globalizzazione.
Emerge dunque una rete di interazioni indistinte che determina due effetti:
1) Frammentazione,
2) La difficoltà di rappresentazione del tessuto sociale si riflette sul piano giuridico→ne deriva la
compromissione di categorie tradizionali quali quella di istituzione e di ordinamento.
Sono prospettive problematiche, cui si affiancano altre impostazioni maturate in ambito anglosassone e a
loro volta discutibili (es. Michael Bratman e Jules Coleman).
Si tratta di modelli che, a cavallo tra teoria e sociologia del diritto, tendono a indagare in chiave pragmatista
il rapporto tra contesto sociale e comportamento giuridicamente rilevante, enfatizzando l’orizzonte riflessivo
di condivisione sotteso alle condotte collettive e alla sfera giuridica e teorizzando un diritto come semplice
attività di coordinazione delle condotte.
Gli orientamenti qui considerati, seppur differenti tra loro, sono accomunati da almeno 2 elementi:
—>Il riferimento ad una società individuabile,
—>La convinzione della sussistenza di una sfera giuridica concepibile in modo unitario.
Dunque, anche tali impostazioni riposano ancora sull’idea che il diritto rinvii ad un unico contesto
sociale→si dà una società cui corrisponde un diritto.
Proprio tale schema concettuale sembra progressivamente tramontare.
Nel contesto contemporaneo proliferano apparati normativi di natura puramente funzionale che oscurano la
complessità della relazione tra società e diritto.
Alla categoria di ordinamento vanno sostituendosi quadri normativi disarticolati e con funzione gestionale
(si pensi al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea).
La rappresentazione teorica più diretta di tale scenario è la visione reticolare del diritto: il diritto, dunque,
diventa una “rete”. Ciò mette in dubbio 2 assunti:
- Non solo ubi societas ibi ius,
- Ma forse anche ubiiu sibi societas.
Emerge una circolarità: al mutare degli assetti sociali e dei modelli attraverso i quali essi sono compresi
corrisponde una diversa articolazione del diritto e, parallelamente, il radicarsi di un modello alternativo di
diritto retroagisce sulle modalità di concettualizzare il vivere associato.
Possiamo concludere con un interrogativo: esiste ancora la società? Ha ancora senso parlare del rapporto
società-diritto in senso circolare?
Molti dei modelli di società considerati vertevano sul presupposto di una qualche forma, sebbene minimale,
di omogeneità o coesione sociale, senza comportare necessariamente un’omologazione totalizzante.
Si aveva, sostanzialmente, un contesto socio-culturale implicitamente riconosciuto come comune o almeno
condiviso, seppur poi oggetto di interpretazioni diverse.
Nei contesti contemporanei questo aspetto si articola in forma di multiculturalismo, come esito dei flussi
migratori o più in generale dell’interazione tra universi socio-culturali eterogenei, veicolati dal processo di
globalizzazione.
In conclusione...
Se il binomio società e diritto appartiene alla nostra comune tradizione storico-giuridica, esso esige di venir
ripensato profondamente.
Ne va dell’idea stessa di legame sociale e dei modelli in funzione dei quali concettualizzare la libertà e la
responsabilità: dell’idea, insomma, di società.
Due sorprese:
• Libero originariamente era considerato colui che apparteneva una famiglia stirpe o gruppo; un
collegamento tra LIBERTÀ E APPARTENENZA,che per noi risulta incomprensibile-> nessuna traccia di
indipendenza e di autonomia.
• Se la libertà era ricondotta a una condizione di appartenenza, questo perché si pensava che solo
nell’essere con gli altri si poteva essere davvero se stessi e dunque liberi.
Queste due sorprese ci consentono di introdurre quello
che si ritiene essere il tratto comune delle concezioni della libertà: la loro connotazione POLITICA (evidente
quando ci si distacca dall’ambito domestico voltando verso la polis o res publica). Lo ha spiegato
CONSTANT in una conferenza nel febbraio del 1819 a Parigi: attenzione a non confondere la libertà degli
antichi (= libertà intesa nei termini politici ) con quella dei moderni (= libertà intesa in termini civili,
dell’indipendenza di un >individuo dallo Stato).
Constant ne facevo una questione di estensione territoriale, a seconda del territorio una diversa
organizzazione del potere, di intendere i rapporti e quindi la libertà stessa.
la mano e il corpo: come una mano staccata dal corpo cessa di svolgere la propria funzione, così un uomo
fuori dalla Polis non è più un uomo, ma una belva o un dio.
—> questa è la ragione per cui, per i greci, la libertà era innanzitutto una questione teorica. Parlando di
libertà intendevano l’agire coerentemente alla misura dettata dalla propria natura, la quale viene pensata in
termini di un movimento dotato di un senso e di una direzione. Per Aristotele la natura è un fine, e il fine
dell’uomo è la felicità—> la realizzazione di ciò per cui si è nati. Già all’interno dal tempio Di Apollo a Delfi e
si trovava l’iscrizione “Conosci te stesso”. Da questa conoscenza che dipende la tua libertà e la tua felicità.
—Parentesi: questa idea che la libertà derivi dalla teoria si ritrova in un autore come SPINOZA.
Spinoza sostiene che nel mondo tutto è il risultato di cause ed effetti; se pensiamo di essere liberi è
soltanto perché ignoriamo le cause delle nostre azioni. Anche una pietra lanciata in aria, qualora potesse
pensare, crederebbe di essere libera di muoversi a suo piacimento-> la nostra condizione la stessa:
ignoriamo il fatto che le cause delle nostre azioni non dipendono da noi. Veramente libera è soltanto la
sostanza infinita, vale a dire Dio, la cui libertà finisce con il coincidere con la necessità. (Spinoza, uno dei
più grandi sostenitori della libertà di pensiero, espressione e democrazia).
->Il legame tra libertà e conoscenza spiega il motivo per cui per i greci la libertà era un concetto
essenzialmente politico: per loro la natura dell’uomo era essenzialmente politica. ARISTOTELE dice
“l’uomo è un animale politico per natura”, per natura deve vivere in una città. Il che non significa che non si
può isolare, ma se lo fa non diventa ciò che è. L’uomo trova il senso della propria vita soltanto nella
relazione con gli altri e nella partecipazione allo spazio pubblico della polis. In quanto animale dotato anche
di logos è soltanto nella Polis che l’uomo può realizzare pienamente la propria potenza ed essere dunque
veramente libero.
•Nel mondo dei ROMANI, La libertà non era intesa nei termini di una facoltà o di un diritto innato dell’uomo,
quanto piuttosto come la somma dei diritti civili garantiti dalle leggi di Roma. Anche per i romani non tutti gli
uomini erano liberi: no i barbari, schiavi, donne e in generale tutti coloro che non avevano accesso alle
cariche pubbliche.
•La libertà era una questione pubblica non privata. Per i romani propriamente libero era chi non era
soggetta al dominio di un altro uomo. Una libertà simile, per come la intendiamo noi ora, era riconosciuta
soltanto ai patres familiarum con piena capacità giuridica. La libertà consisteva nell’assenza di dominio,
non nell’indipendenza e neanche in autonomia della volontà.
•Libertas era anche sinonimo di res publica perché si riteneva che soltanto l’assetto istituzionale di
quest’ultima (e non il regno!) fosse in grado di proteggere ogni singolo cittadino del rischio della
dipendenza nei confronti di qualcun altro. —> si pensava che l’unico modo per sottrarsi a questo pericolo
fosse quella di sottomettersi al dominio delle leggi. Ripreso da Marco Tullio Cicerone “Delle leggi
infinite tutti siamo schiavi perché possiamo essere liberi” In assenza di leggi la libertà si sarebbe risolta in
anarchia.
In Grecia durante l’impero macedone e a Roma durante l’epoca del principato comincia a farsi strada
un’altra idea di libertà: non più politica ma antipolitica, “inventata” da primo fra tutti Zenone di Cizio.
Assistiamo a una sorta di fuga verso l’interno, caratteristica delle epoche in cui gli uomini perdono la
speranza di poter incidere sulle dinamiche politiche.
La libertà si identifica con la saggezza, trasferisco il concetto di libertà dal piano politico a quello delle
relazioni interne di ciascun uomo con sé stesso. La libertà continua essere pensata in opposizione alla
schiavitù, la schiavitù che nega la libertà viene intesa nei termini di schiavitù rispetto ai propri desideri.
Solo il saggio è libero perché sa dominare attraverso la ragione le proprie passioni senza esserne
dominato-> anche uno schiavo può essere libero purché non sia schiavo delle proprie passioni.
Schiavo era lo stoico Epitteto, Il suo celebre insegnamento per cui non avrebbe senso preoccuparsi per le
cose che sono in nostro potere, ma soltanto per quelle cose che dipendono dalla nostra volontà. Tra le
cose che non sono in nostro potere colloca anche le cariche pubbliche, con ciò sancisce una radicale
separazione tra la libertà intellettuale del saggio e la politica.
La libertà diventa una questione individuale, una faccenda interna chi a che fare con la volontà di me
singolo uomo. La questione della libertà comincia ad essere declinata nel problema del “libero arbitrio” (=
libertà o meno di fare ciò che vogliamo fare) Problema
affrontato dal cristianesimo.
—Il piano di elaborazione del concetto cristiano di libertà è un piano teologico. È davanti a Dio che tutti gli
uomini sono liberi; e lo sono perché Cristo li ha liberati -> questo è lo “scandalo” evangelico.
Il presupposto della libertà cristiana, è un dio che agisce liberamente nella storia, pretendendo dal suo
popolo fedeltà obbedienza e conversione. È solo cristo a liberare ogni uomo in quanto tale.
—“Fratelli siete chiamati alla libertà” scrive Paolo di Tarso-> La libertà di cui parla è la libertà dal peccato,
dalla morte, dalla legge mosaica: quella legge la cui osservanza costituiva un marchio distintivo
dell’appartenenza o meno al popolo eletto, e che Paolo ora ritiene inutile e dannosa perché genera la
credenza che ci si possa salvare limitandosi a osservarla mentre è solo la fede che salva. Ciò non significa
che la libertà consiste nel fare ciò che si vuole-> ritorna l’idea per cui non si dà libertà senza misura; la
misura e ora intesa nei termini dell’unica vera legge che è quella cristiana dell’amore e del servizio. “Amerai
il prossimo tuo come te stesso”.
—Nel Nuovo testamento il libero arbitrio è costantemente presupposto. La cosa interessante è la
spoliticizzazione del concetto di libertà all’interno del Cristianesimo. Il vangelo traduce la questione della
libertà nei termini del rapporto del singolo con Dio. Il problema del cristiano non è più quello di
comprendere il proprio posto all’interno dell’ordine storico e politico, ma quello di comprendere come si
deve agire per tornare al padre.
8. LA VITA È ALTROVE
La vera vita e la felicità è altrove. Due sono le città per un cristiano: la città degli uomini (= città di coloro
che vogliono vivere secondo la carne) e la città di Dio (=città di coloro che vogliono vivere secondo lo
spirito)
—AGOSTINO D’IPPONA.
Libero arbitrio: di decidere per o contro Dio. Un problema che riguarda la volontà, la scelta e non l’azione.
•Prima precisazione: Veramente libero è solo colui che sceglie di agire secondo la volontà di Dio e non chi
decide di fare ciò che vuole-> libertà e servizio si incontrano.
L’uomo è stato creato per vivere secondo colui che l’ha creato, non secondo se stesso.
•Seconda precisazione: il singolo uomo non può decidere per Dio da sé; il peccato originale lo ha segnato
e per scegliere il bene è necessario qualcos’altro: la grazia non dovuta di Dio.
La libertà assume così tratti del dono, E come ogni dono, si sottrae a qualunque calcolo o principio di
equivalenza. La garanzia di salvezza è data dalla sola fede nella parola di Dio.
—Verrà ripetuto da MARTIN LUTERO “la fede sola, senza opere, giustifica, libera e salva“. L’uomo per
Lutero è irrimediabilmente corrotto e nulla può fare per salvarsi senza l’intervento della grazia divina: “Ogni
cristiano ha una doppia natura, spirituale e corporale. Secondo l’anima è detto uomo spirituale, nuovo,
interiore; secondo la carne e il sangue è detto uomo corporale, vecchio ed esterno.
Un cristiano è un servo zelante.Il cristiano per Lutero è dentro libero e fuori schiavo-> perché doppia è la
sua natura. La libertà interiore si accompagna la servitù esteriore, schiavo delle proprie pulsioni e della
legge che le tiene a bada.
L’impostazione è dialettica ma non lascia spazio ad alcuna mediazione razionale; e meno che mai a una
mediazione istituzionale (non a caso Lutero si scaglia contra la chiesa di roma e la vendita delle
indulgenze: la salvezza non si calcola e non si compra).
Da un certo momento in poi avviene un capovolgimento nel modo di intendere il rapporto tra il tutto e le
parti—> si comincia a pensare che siano le parti a precedere il tutto.
Per capire questo passaggio è necessario leggere il ‘Leviatano’ di HOBBES (Londra 1651).
Il contesto è quello della guerra civile inglese e della nascita della Commonwealth.
Il problema di Hobbes è quello dell’ordine politico; un ordine inteso nei termini di un prodotto artificiale: fatto
dagli uomini e per gli uomini. Se la Politica di Aristotele prendeva le mosse dalla polis e solo
successivamente parlava dell’uomo, Hobbes capovolge il discorso.
L’uomo, lo Stato, uno Stato cristiano, il regno delle tenebre sono le quattro sezioni in cui è diviso il
Leviatano. Scansione che illustra la rivoluzione metodologica hobbesiana: non è il tutto a precedere le
parti, ma le parti a precedere il tutto. Il metodo di Hobbes è in tutto e per tutto quello suggerito da Cartesio:
se vuoi risolvere un problema smontalo prima nelle sue parti, ricomincia dalle idee chiare e distinte e poi
rimontalo. Le parti del problema, che è l’ordine politico, altro non sono che gli uomini, da qui bisogna
ricominciare per risolverlo.
—> da qui l’esigenza di una protezione che solo lo Stato può garantire: in questo contesto Hobbes inventa
la definizione negativa della libertà “libertà significa assenza di opposizione (impedimenti esterni al
movimento) e si può applicare tanto alle creature irrazionali e inanimate quanto a quelle razionali” “Un
uomo libero è colui che non è ostacolato nel fare ciò che vuole e le cose che in grado di fare con la propria
forza e con il proprio ingegno”
—> si tratta di una libertà che ha a che fare con l’azione e non con la volontà (ritenuta da Hobbes come
pura passione). Questa libertà declina nei termini di un vero e proprio diritto naturale: “il diritto di natura è la
libertà che ha ogni uomo di utilizzare il proprio potere come vuole per la preservazione della propria natura;
di fare tutto ciò che nel suo giudizio e nella sua ragione concepirà come i mezzi più adatti a questo scopo”
In quanto diritto soggettivo la libertà è un potere
—> il potere di fare tutto ciò che si può pur di sopravvivere. Ciò significa che nello stato di natura ogni
uomo ha diritto ad ogni cosa, perfino al corpo di un altro —> ogni uomo ha il diritto di uccidere qualcuno.
—Si comprende come sia proprio questa libertà la causa principale di quella vita solitaria, sofferta,
brutale e breve che non lascia spazio alla coltivazione, il commercio, la navigazione, le arti e lo sviluppo
della conoscenza.
Modo in cui Hobbes configura il rapporto tra diritto e legge: “una legge di natura è un precetto escogitato
dalla ragione per vietare che un uomo faccia cose che distruggono la sua vita. Diritto e legge andrebbero
distinti, perché il diritto consiste nella libertà di fare o non fare, mentre la legge determina e costringe a una
delle due cose; la legge e il diritto differiscono tanto quanto l’obbligazione e la libertà, incompatibili in una
ed una stessa materia”. Dove c’è libertà non c’è legge e dove c’è legge non c’è libertà. E ciò vale sia nel
caso in cui per legge si intende la legge natura sia nei termini della parola di chi comanda —> questa è la
libertà dei sudditi: “la libertà dei sudditi risiede nelle cose che il sovrano ha permesso Quando ha regolato
le loro azioni: comprare, vendere, scegliere la propria dimora, il proprio mestiere, educare i figli e cose
simili” con l’aggiunta al massimo di quelle cose su cui il sovrano non si è pronunciato.
A queste condizioni la libertà dei sudditi risulta compatibile con il potere assoluto del sovrano. Il fine dello
Stato è la sicurezza individuale e le leggi dello Stato servono a garantirla; la libertà e altra cosa—> è
assenza di leggi, indipendenza. Come ripeterà BENTHAM “la libertà non è niente di più niente e niente di
meno che l’assenza di coercizione. L’idea di libertà è puramente negativa. Non si tratta di un prodotto della
legge, ma di qualcosa che esiste senza la legge e non per mezzo suo. Anzi si tratta di qualcosa che non
può essere prodotto dalla legge. Ciò che viene tanto magnificato come il prodotto della legge è la sicurezza
e non la libertà.”
Questa idea di libertà la si ritrova tra 700/800 (rivoluzione francese e terrore giacobino) nei classici
del pensiero liberale (Benjamin Constant e John Stuart Mill) che rivendicano con forza l’esigenza di
individuare dei limiti all’esercizio del potere pubblico: primo fra tutti l’inviolabilità della libertà individuale. Per
capire come ciò sia stato possibile è necessario leggere parte del secondo dei due trattati di Locke.
—Si tratta di capire come cominciare a mettere in discussione l’assolutezza del potere da Hobbes
riconosciuta al titolare del potere sovrano; ed è proprio questo ciò che fa Locke introducendo un elemento
che lo condurrà a inventare la forma di Stato che oggi chiamiamo “stato di diritto”: dove l’esercizio del
potere di governo risulta subordinato al rispetto della legge e prim’ancora al rispetto di quei diritti soggettivi
che noi chiamiamo diritti umani.
—Anche per Locke è necessario capire quale sia la condizione degli uomini nello stato di natura:
“questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle
proprie persone entro limiti della natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun
altro” . Lo stato di natura è uno stato di piena libertà ( già detto da Hobbes), ma ci sono due differenze:
1)Già nello stato di natura ci sono delle leggi che costituiscono dei limiti a questa libertà. Questo è uno
stato di libertà, ma non è uno stato di licenza.
2)Già nello stato di natura gli uomini dispongono di possessi propri. Non si tratta di una situazione di fatto,
ma diritto: non è un semplice possesso ma di un’autentica proprietà delle proprie cose e persone.
—> questo modifica radicalmente la configurazione: è il diritto di proprietà che lo Stato deve garantire.
Vita, salute, libertà e proprietà sono i quattro diritti di cui, secondo Locke, ogni uomo risulta essere titolare
già nello stato di natura. Il fondamento di tali diritti di tipo teologico: siamo tutti uguali e indipendenti perché
siamo tutti figli dello stesso padre e questi diritti sono un suo dono. Il che spiega perché tali diritti sono
indisponibili: pur essendone titolari, non ci appartengono. Non solo i singoli uomini devono rispettarli ma
anche lo Stato, che nasce per garantirne l’esercizio e trova in questi diritti un limite al proprio potere.
—VIROLI dice “ gli scrittori politici repubblicani non hanno mai identificato i vincoli imposti da leggi non
arbitrarie con la mancanza di libertà, mentre hanno definito come tale la dipendenza alla volontà arbitraria.
Essi ritenevano che il governo della legge rende gli individui liberi perché la legge è un comando universale
e come tale protegge dall’arbitrio” -> essere liberi significa non essere soggetti alla volontà arbitraria di altri
individui o istituzioni. Questa libertà è solo il governo della legge a poterla garantire.
—MONTESQUIEU: “la libertà politica consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione
che ciascuno ha della propria sicurezza. Perché questa libertà esista bisogna che il governo sia
organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino.”
—HARRINGTON aveva criticato il Levitano di Hobbes nel quale veniva detto che i cittadini di una
Repubblica come Lucca non sarebbero stati più liberi dei sudditi del sultano di Costantinopoli-> entrambi
sottomessi alle leggi. Per Harrington invece i primi sono più liberi perché non sono controllati da alcuno se
non dalla legge, la quale diventa la libertà della Repubblica.
Per Rousseau, essere liberi significa obbedire a se stessi-> autonomia. Questa è la libertà che in società
fondate sul dominio dell’uomo sull’uomo gli uomini hanno perduto devono riconquistare
-> per capire come è necessario evidenziare una differenza del patto sociale di Rousseau e Hobbes:
HOBBES: Per quest’ultimo gli uomini sono chiamati a cedere la propria libertà a una persona artificiale che
si chiama Stato, di cui si fa carico il sovrano che mi rappresenta la volontà;
ROUSSEAU: gli uomini devono cedere a tutti i loro diritti, non a un terzo, ma alla comunità-> tutti devono
cedere tutto a tutti. (Idea che sta alla base della democrazia).
—Differenza che risulta chiara se ci si chiede quale sia il problema che tale contratto a chiamata risolvere:
per Hobbes È il problema della sicurezza individuale; per Rousseau è quello di diventare “veramente“ liberi
-> si raggiunge nel momento in cui la libertà naturale cede il passo alla libertà civile e morale.
“con il contratto sociale l’uomo perde la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta;
guadagna invece la libertà civile e la proprietà di ciò che possiede. È necessario distinguere la libertà
naturale, che ha per limiti le sole forze dell’individuo, dalla libertà civile, che ha limitato dalla libertà
generale; il possesso, solo effetto della forza o del diritto del primo occupante, dalla proprietà, che è
fondata su un titolo positivo. All’acquisto dello stato civile si aggiunge quello della libertà morale, la sola che
rende l’uomo padrone di se stesso (in quanto sottostare all’impulso dei soli appetiti è schiavitù, mentre
l’obbedienza a una legge che l’uomo si è prescritta è libertà)
—Tra la vera libertà e la legge non vi è un rapporto di opposizione-> essere liberi non significa non avere
leggi, ma dare leggi a se .stessi
—Risposta di ROUSSEAU: “Il patto sociale include tacitamente il solo impegno capace di dar forza a tutti
gli altri e cioè che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale non sarà costretto dall’intero corpo;
ciò significa che sarà costretta essere libero”.
—Si dirà che è soltanto un problema di educazione: bisogna far si che gli uomini imparino a essere liberi.
Soluzione razionale, ma non per questo meno inquietante.
—BERLIN sottolinea le implicazioni totalitarie delle concezioni positive della libertà -> tutte quelle
concezioni che declinano la libertà nei termini dell’autonomia piuttosto che in quelli dell’indipendenza. —
Non a caso ROUSSEAU costituisce uno dei riferimenti principali del repubblicanesimo moderno nonostante
quest’ultimo abbia un’idea in parte diversa di libertà: l’autonomia è soltanto un mezzo per poter vivere
liberamente, ma non si identifica con la libertà.
Non si tratta di stabilire soltanto se una legge sia o meno voluta, quanto piuttosto se tale legge sia arbitraria
o meno-> solo una legge non arbitraria è davvero in grado di proteggere i singoli individui. Entra così la
tensione tra democrazia e stato di diritto. Lo stato di Rousseau, per quanto democratico, è uno stato
assoluto: perché la volontà generale non incontra limiti; mentre lo Stato repubblicano è uno Stato di diritto:
dove non vige soltanto il dominio della legge, ma anche la divisione dei poteri e la presenza di garanzie->
da qui l’introduzione di carte dei diritti fondamentali e il riconoscimento di vincoli costituzionali sovraordinati
alle leggi ordinarie.
Quello che può essere determinato dall’inclinazione (impulso sensibile) è l’arbitrio bestiale” (=Vale a
dire da una ragione “depurata” da tutto ciò che appartiene al campo dell’esperienza sensibile). “ L’arbitrio
umano è invece influenzabile, ma non determinato da un impulso sensibile; non è puro per se stesso, ma
può essere determinato a certe azioni della volontà pura.
•La libertà dell’arbitrio è l’indipendenza dalla sua determinazione da ogni impulso sensibile-> questo è il
concetto negativo della libertà.
•Concetto positivo-> la libertà è la facoltà della ragione pura di essere per se stessa pratica.”
L’uomo dunque non è un animale, ma non è nemmeno Dio: gli impulsi sensibili influenzano il suo arbitrio,
ma non lo determinano, non costituendo mai la causa delle sue azioni. A differenza degli altri animali gli
uomini possono sempre resistere ad un impulso sensibile. Da qui I due concetti della libertà, quello
negativo e quello positivo (due facce della stessa medaglia) : L’arbitrio è libero in quanto può essere
determinato dalla ragione (concetto positivo) indipendentemente dall’impulso sensibile (concetto negativo).
—Che cosa mi garantisce che sia davvero la ragione pura a poter determinare le mie scelte e che il mio
arbitrio sia veramente libero? A questo problema Kant dedica alla seconda delle sue critiche (critica della
ragione pura):“La libertà è reale; poiché quest’idea si manifesta con la legge morale. La libertà è l’unica fra
tutte le idee della ragione di cui noi conosciamo a priori la possibilità senza percepirla, perché essa è la
condizione della legge morale che noi conosciamo.”
—>la libertà non può essere dimostrata empiricamente (perché tutto ciò che appartiene al campo
dell’esperienza sensibile è soggetto al nesso di causalità), ma può essere dimostrata sul piano dell’uso
pratico della ragione. Tale dimostrazione risiede nel nesso tra legge morale e libertà: dove la libertà è la
condizione di possibilità della prima; è attraverso la coscienza della legge morale che si acquisisce la
consapevolezza della realtà della libertà: “la legge morale non esprime nient’altro che l’autonomia della
ragione pura pratica, cioè della libertà”.
Per Kant appartengono alle leggi della libertà e non alle leggi di natura, l’etica e il diritto. Questo perché
l’etica il diritto si fondano sulla libertà, trovando nella libertà dell’arbitrio la loro condizione di possibilità.
-> leggi etiche= riguardano le intenzioni interne.
-> leggi giuridiche= riguardano i comportamenti che chiamano in causa la nostra relazione con gli altri, così
da avere una reciproca influenza.
Diritto per Kant= “ il diritto all’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può
accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà”.
Legge universale per Kant = “ agisce esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa
coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale”
—PRECISAZIONI:
•La definizione del diritto è puramente formale. Il diritto non riguarda la materia dell’arbitrio ma riguarda la
sua forma. cioè il modo in cui libero arbitrio dell’uno può accordarsi con il libero arbitrio di tutti gli altri.
•La definizione di diritto costituisce un criterio di giudizio di ogni possibile legislazione positiva. Saranno
legittime e razionali solo quelle disposizioni giuridiche che rendono compatibile la libertà dell’uno con quella
di tutti gli altri.
— essere liberi significa assoggettarsi alle leggi meritevoli di senso razionale (autonomia), ma le leggi
meritevoli di consenso razionale sono quelle che tutelano lo spazio in cui ciascuno si governa secondo il
proprio libero arbitrio (indipendenza). Solo queste leggi sono così universali da poter essere volute a priori
da ognuno.
Eccezioni: ANTIFONTE afferma che tutti gli uomini sono eguali perché respirano con il naso.
ARISTOTELE, sostiene il principio della disuguaglianza politica ma ritiene che una certa forma di
eguaglianza sia necessaria (riguarda solo i cittadini, esclusi dalla cittadinanza schiavi,servi, artigiani,
agricoltori, commercianti, donne, meteci).
Eguaglianza degli eguali: uguali davanti alla legge (isonomia), prendono la parola in pubblico (isegoria),
votano nelle assemblee (democrazia).
— gli uomini quindi possono dirsi uguali ma al tempo stesso riconoscere le differenze e le disuguaglianze.
L’eguaglianza naturale degli uomini è compatibile con le disuguaglianze:
PAOLO DI TARSO: rimanda al padrone lo schiavo fuggitivo;
SANT’AGOSTINO: la servitù si giustifica partire dalla giusta sentenza di Dio;
SAN TOMMASO: riconosce l’ineguaglianza degli uomini e ritiene che i governino i migliori.
Così l’idea di eguaglianza è compatibile con le terrene disuguaglianze economiche sociali e politiche.
—eccezioni≠ MARSILO DA PADOVA= Per lui il potere politico deriva Esclusivamente dal consenso del
popolo. Getta le basi Per l’eguaglianza politica (Che si affermerà con le rivoluzioni democratiche).
La metafora di un eguaglianza naturale tra uomini costituisce la base con la quale viene costruito lo Stato
moderno. Eguaglianza sottoposta a insicurezze e incertezze.
— il modello contrattualistica determina linee di esclusione in ambito sociale, razziale, sessuale, nazionale.
La tradizione democratica è finalizzata a colmare L’esclusione sociale: se per lungo tempo gli uomini sono
diseguali e l’eguaglianza si pone come limitazione, piano piano il condizionale della tradizione gli uomini
sarebbero uguali diventa gli uomini sono uguali.
—nozione eguaglianza :
—>Descrittiva= individua classi di soggetti eguali
—>Prescrittiva= stabilisce come devono essere trattati gli individui che appartengono ad una determinata
classe di soggetti.
—> critica e sovversiva, ma anche costruttiva ed edificatoria.
— con le rivoluzioni del settecento (americana e francese) L’eguaglianza diventa ideale politico
democratico. L’idea di eguaglianza diventa così chiave della cultura politica dell’epoca, Incipit Per la
dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776 (= tutti gli uomini sono di natura egualmente libri indipendenti
e hanno diritti innati), E la dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino Francia 1789 (=art 1 e 6 L’idea di
eguaglianza assume una consistenza reale).
— È così evidente che l’idea di eguaglianza sia una rappresentazione soggettiva che produce mutamenti a
seconda dei fenomeni storici.
2. DIMENSIONI DELL’EGUAGLIANZA
Per CASADEI, la nozione di eguaglianza ha almeno 5 dimensioni:
Etica o morale, giuridica, politica, economica, sociale.
DIMENSIONE ETICA
Rinvia a due correnti di pensiero antiche:
stoicismo e cristianesimo.
•STOICISMO= predica L’eguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto dotati di ragione e sotto un’unica
legge universale ovvero quella naturale. Ogni uomo equiparato agli altri, perché partecipe della ragione
universale (logos) e dotato come gli altri di ragione. Uomini accomunati dalla stessa finalità etica.
•CRISTIANESIMO= si riconosce nel pensiero di CICERONE (che segue la dottrina stoica), secondo cui
l’uomo assomiglia a Dio. “De Officiis” afferma che c’è un consorzio di tutto il genere umano, con i due
vincoli di ragione e parola. In questo tipo di società vi è una comunanza di tutte le cose. Dato che l’uomo è
per sua natura un essere sociale, vi è una società hominum tale solo se gli uomini sono uguali e liberi.
Secondo Cicerone nella società umana eguaglianza e giustizia sono collegate tra loro.
DIMENSIONE GIURIDICA
Le radici dell’eguaglianza, grazie alla modernità e l’affermarsi del contrattualismo, sconfina anche nella
sfera giuridica.
•LOCKE=necessità di garantire i diritti pre-giuridici di proprietà di cui tutti gli esseri umani sono titolari, in
virtù del loro essere creati eguali da Dio . Questa è giustificazione della costituzione di un’autorità politica.
•HOBBES=gli esseri umani sono sufficientemente simili per costituzione fisica. Per questa somiglianza, lo
stato di natura è costantemente di guerra di tutti contro tutti, dal quale possono uscire solo sottomettendosi
ad un sovrano. C’è quindi eguaglianza giuridica di tutti i sudditi, quel prodotto del contratto con cui gli esseri
umani rinunciano alla loro libertà naturale assoluta a condizione che tutti gli altri lo facciano. L’esito è quello
del Leviatano.
•KANT=si approda allo stato di diritto (stato repubblicano), una comunità razionale che garantisce la libertà
di ciascun individuo affidando al potere pubblico (non a persone private) la decisione sulla legge.
DIMENSIONE POLITICA
Sostenitori dell’eguaglianza democratica (ROUSSEAU) secondo cui solo la partecipazione di tutti i membri
della comunità politica come cittadini, può garantire che quella autorità sia esercitata nell’eguale interesse
di tutti. Nel contratto sociale difende la democrazia diretta non quella rappresentativa.
Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini, critica la proprietà personale e le disparità materiali
che ne derivano. Secondo Rousseau la proprietà non è un diritto naturale (come sosteneva Locke e
Smith), ma è fondata sull’approvazione originaria ingiustificata.
DIMENSIONE ECONOMICA
Centrale il socialismo dell’800: FOURIER, MARX, MILL, BAKUNIN.
Percorsi che si legano alla mobilitazione e rivendicazione della classe operaia.
Lo stato ha il ruolo di promuovere una società di eguali.
Es/ Francia le istituzioni intervengono su ciò che governava il legame sociale, instaurando un senso di
appartenenza e eguaglianza.
L’eguaglianza è così centrale nelle comunità politica, genera però timore di una generale omologazione
delle credenze e costumi (MILL).
DIMENSIONE SOCIALE
La dimensione sociale porta L’eguaglianza nelle dinamiche della cittadinanza, nell’articolazione dello stato
e nelle sue basi culturali. Mette in luce basi culturali nazionali dell’eguaglianza.
2ª metà dell’800, avvengono eventi fondamentali per l’affermazione dell’eguaglianza come dimensione
concreta e fattuale:
Abolizione schiavitù, suffragio universale paritario, norme sul riconoscimento del diritto di sciopero.
4. SOGGETTI
Le traiettorie dell’eguaglianza sono diverse a seconda dei soggetti
—> a partire dai singoli individui che stipulano un contratto (Hobbes, Locke, Kant)
—>a partire dai cittadini (Rousseau)
—> a partire dai ceti subalterni (Marx, Lenin)
Si percepisce come gli esclusi siano il proletariato, le donne, i soggetti della colonizzazione quali soventi e
schiavi, i popoli colonizzati e le minoranze.
Fase rivoluzioni del 700= affermazione nell’ 800 del modello di costituzionalismo democratico,
L’eguaglianza diventa principio fondamentale-
Nascita delle teorie femministe (OLYMPE DE GOUGES), rivendicazione del diritto all’istruzione, diritto di
voto. Eguaglianza diventa anche una sfida e provocazione, lotta. Le donne fon la richiesta di aver vice ed
essere visibili nello spazio pubblico e politico, richiedono L’eguaglianza tra sessi (SARAH MOORE).
PIETRO COSTA= l’intera vicenda dell’emancipazione è una lotta per l’attribuzione dei diritti e la definizione
del soggetto, del suo ruolo e delle sue aspettative e relazioni. In primis e il modo della famiglia quelli da
sciogliere, famiglia come rete di poteri e differenze basata su gerarchia. Ridefinendo i soggetti si
ridefiniscono i ruoli sociali e le competenze. È nella lotta per i diritti che il soggetto nega l’invisibilità che lo
condanna lo stesso ordine. È in nome dell’eguaglianza che su autorizzano rivendicazioni mobilitazioni,
tentando una trasformazione dell’ordine politico sociale.
Il principio dell’eguaglianza non è solo norma giuridica di promozione della parità dei sessi, ma anche
riconoscimento delle differenze in positivo.
Ad essere in questione dunque, sono i rapporti di potere che configurano i rapporti di eguaglianza e
cittadinanza, cioè l’universalismo e il riconoscimento delle differenze senza che esse siano discriminazioni.
5. INTERROGATIVI
PP.177-178-179
La rilevanza dei soggetti mostra come sia utile partire dagli schemi teorici della diseguaglianza. La
diseguaglianza si dà come un sistema di dipendenze, un ordine necessario e naturale e come tale ritenuto
giusto. Esso si sostanzia in un assetto gerarchico e su vincoli imposti da ordinamenti istituzionali.
Studiare la lotta dell'uguaglianza a partire dagli esclusi (in un'ottica di classe, genere o razza) non significa
aggiungere pezzi mancanti a un puzzle ma modificare il disegno nel suo insieme. La scoperta di nuove
tessere porta a ripensare il mosaico nel suo complesso.
Il problema dell'uguaglianza, connesso a quello di giustizia, implica la formulazione di 3 interrogativi:
Eguaglianza fra chi? Eguaglianza in che cosa? Eguaglianza come?
L'eguaglianza è dunque una categoria normativa che risulta sempre innestata in una trama storicamente
determinata di pratiche sociali.
— L’unità dell’orientamento vuol dire individuazione di un presupposto logico e giuridico a partire dal quale
le organizzazioni istituzioni possono essere pensati come giuridici e normativi. Il pluralismo sociale: non
sarebbe concepibile senza l’idea forte di unità dell’ordinamento). C’è sempre un’esigenza di ricondurre il
diritto a una unità.
•MAURICE HAURIOU= A un’idea direttiva che richiama il legame tra legittimazione e diritto, e consente di
cogliere quella normatività che non si appiattisce su reale e che cercano solo di ordinarlo ma anche di
modificarlo.
•RAZ= Istituzione: metti in azione tensione tassabilità e mutamento, mette in rilievo la struttura complessa
del diritto che rivela il suo essere normativo istituzionalizzato e coercitivo (Joseph Raz).
Normativo= serve come guida del comportamento umano.
Istituzionalizzato= la sua applicazione modificazione sono realizzate per mezzo di istituzioni.
Coercitivo= L’obbedienza adesso la la sua applicazione sono garantite per mezzo dell’uso della forza.
Non ci può essere normatività senza istituzione, ed istituzione senza normatività.un sistema giuridico non
può essere solo forza o coercizione. La normatività, l’istituzione, la coercitività di ogni ordinamento
giuridico? rimandano a legittimità del sistema di diritto.
•PAOLO GROSSI= L’istituzione la chiave di volta per capire il mistero del diritto: il fatto dell’organizzazione
e il fatto dell’osservanza spontanea di regole organizzative.
L’evoluzione del diritto vede una sorta di primato del dato sociale su quello potest attivo, e nell’istituzione
l’esito di quel processo auto organizzativo. Secondo il fenomeno giuridico è la stessa società che si auto
organizza percependo certi valori storici disegnando su di essi regole e osservandole nella vita quotidiana.
Il carattere dell’unitarietà del diritto è necessario per la comprensione del fenomeno stesso.
•NORMATIVISMO ROMANO=il diritto esistente è il diritto positivo, la norma riveste un ruolo secondario
rispetto all’istituzione.
•per entrambe è chiara l’affermazione della preminenza del giuridico sul politico. Sia l’istituzionalismo sia il
normativismo sono teorie positiviste perché per esse il diritto che esiste ed è valido è quello positivo.
???
2. L’UNITÀ DELL’ORDINAMENTO
Sia in KELSEN sia in ROMANO, il carattere dell’unità dell’ordinamento è centrale
•ROMANO= ordinamento statuale necessità di rappresentazione unitaria così da delineare un ordinamento
e non un coercitivo di norme.
•KELSEN= costituito dalla Grundnorm (norma fondamentale) grazie alla quale ciascuna norma e
delegazione trae la propria validità, da essa che è suprema. Viene così ad indentificarsi un ordinamento
giuridico composto da norme dinamico : Stufenbau=costruzione a gradi, la validità delle norme giuridiche
non deriva dal loro contenuto ma dal corretto modo in cui sono prodotte, secondo un procedimento
regolato dal diritto stesso. Alla base appunto ce la norma fondamentale, che non è una norma posta ma
presupposta ipotizzata al fine di individuare una base d’appoggio del sistema.
La Norma sopra dell’ordinamento è la costituzione, quale norma autorizza il potere costituente?
Per kelsen sarà il primo usurpatore che prenderà il potere, soggetto non autorizzato, e si dovrà ipotizzare
una norma che imponga di obbedire a ciò che il potere costituente ha stabilito.
La norma fondamentale non è la fonte delle fonti, ma la presupposizione della necessità di una fonte
originaria, di inizio del sistema stesso che è anche la sua identità, di ciò che permette di costituire un
sistema di norme nella sua complessità.
•ROMANO= basilare anche il per lui L’Unità logica dell’ordinamento. Si ammette che un ordinamento
giuridico non è una somma di varie parti ma un’unità a se concreta ed effettiva. Ma non si può avere un
concetto adeguato delle norme che vi si comprendono senza anteporre il concetto unitario di esso.
L’ordinamento non è giuridico perché composto da norme, ma le norme sono di diritto perché c’è un
ordinamento che le raccoglie in un quadro unitario.
2. PROPOSIZIONI FALLACI
—Fallacia naturalistica: errore logico che commette chiunque intenda derivare il dover essere dell’essere,
la norma dalla natura, costituisce la base per ogni teoria giuridica positivista.
—Trattato sulla natura di DAVID HUME: il dover essere non è derivabile logicamente dall’essere.
Impossibilità linguistica di passare indifferentemente da proposizioni descrittive (=quando descrive ciò che
è presente e visibilmente verificabile) a proposizioni prescrittive (=quando esprime un ordine o un
comando, è solo possibile verificare se valida o meno) : LEGGE DI HUME.
Questa legge dimostra anche che è impossibile dedurre proposizioni valide da proposizioni vere.
—Teorici del COGNITIVISMO ETICO: rifiutano la grande divisione di Hume; ritengono che le proposizioni
prescrittiva e possono essere ricondotte a proposizioni descrittive. È possibile conoscere l’universo del
dover essere indagando la sfera dell’essere, e conoscendo ciò che accade in natura. La verità delle
proposizioni descrittive fonda la validità di quelle prescrittive.
—Teorici del NON COGNITIVISMO ETICO: dividono essere e dover essere, proposizioni descrittive e
prescrittiva. Essere e dover essere sono due mondi paralleli la conoscenza dell’uno (proposizioni
descrittive) non può essere determinante per accertare l’altro (proposizioni prescrittive).
—Fallacia = errore nel ragionamento logico, argomentazione che può sembrare vera ma che si dimostra
non essere tale.
Dal fatto non si deduce mai la norma, il dovere, il valore che può motivare l’obbligo di dover compiere
quella determinata azione. Da una proposizione descrittiva non si deduce mai una proposizione
prescrittiva.
——> rissunto:
•dal punto di vista logico la fallacia naturalistica dimostra l’impossibilità di dedurre il dover essere
dell’essere la verità della validità.
•Dal punto di vista linguistico pare evidente l’impossibilità di poter derivare proposizioni prescrittiva da
proposizioni descrittive. (Hume)
•L’errore logico della fallacia naturalistica: se non è possibile dedurre logicamente alcuna proposizioni
prescrittiva da una proposizione descrittiva, non è neanche possibile dedurre dalla natura di un ente e il
dover essere relativo a quel determinato ente.
Politici ideologici ecc. iConoscere il diritto non significa analizzare la sostanza, ma solo chiarire la forma.
Kelsen rimane fedele alla separazione della naturalistic fallacy, emancipa il dover essere da ogni possibile
contatto con l’essere.
- È proprio la VALIDITÀ che permette di individuare e definire il diritto come dover essere obiettivo e
formale. Validità: esistenza specifica di una norma in esame in e per un ordinamento. Una norma è valida
quando esiste l’interno ed in funzione di un ordinamento giuridico. Una norma o è valida oppure
semplicemente non è e non esiste in quanto norma.
Kelsen raffigura l’ordinamento come una piramide costruita da gradi, dove ogni dover essere del livello
inferiore prende validità dal dover essere del livello superiore. La validità non è mai sostanziale e non
riguarda mai il contenuto del dover essere, ma solo il modo in cui il dover essere posto nell’ordinamento, la
presenza o meno di requisiti formali richiesti dal dover essere espresso dalla norma superiore.
- Norma giuridica come SCHEMA DI QUALIFICAZIONE. La norma qualifica e quindi rende
giuridicamente rilevante atti sociali e comportamenti umani.
Ha la seguente forma: “se a deve essere b”, a=fatto umano illecito, b=sanzione prevista; il legame tra a e b
è il dover essere che esprime il nesso di imputazione.
Kelsen contrappone fenomeni naturali (=sono regolati dal principio di causalità, Regolati da leggi di causa
ed effetto) e i fatti giuridici (=sono regolati dal nesso di imputazione, sono prodotti dall’artificio umano).
• HART: L’oggetto giuridico è per sua natura plasmabile e modificabile per poter essere utilizzato al meglio
dai suoi fruitori.
Destinatari di Hart: I partecipanti al gioco sociale sono il perno cui ruota l’elaborazione della teoria della
validità e della definizione di norma giuridica.
- Una norma è un sistema di norme sono validi, non solo quando è possibile riscontrare la regolarità dei
comportamenti all’interno di un determinato contesto sociale, ma anche quando quelli che partecipano al
gioco del diritto accettano e si riconoscono in quel sistema di norme. La validità è subordinata a: la
regolarità dei comportamenti; E l’accettazione dell’obbligatorietà delle norme.
I destinatari condividono non solo le emozioni ma anche le ragioni che giustificano l’obbligatorietà delle
norme. Così l’osservatore diviene osservante, il destinatario partecipante all’attivo gioco del diritto.
- A chi accetta o si riconosce in qualcosa, inevitabilmente è chiamato a fare delle valutazioni
che non possono riguardare solo la tipicità o la forza dell’obbligatorietà, ma anche la bontà, seppur minima,
dei contenuti della proposta normativa. Non basta che la norma sia valida, entrano in gioco valutazioni sul
contenuto della norma, sulla giustizia delle prescrizioni previste dalla norma e dagli ordinamenti che
contengono quelle determinate norme.
-In conclusione, essere e dover essere sono separati ma il nostro ragionamento suggerisce che la validità
formale non basta dirci della giuridicità del dover essere. Dunque, l’essere, in determinate circostanze,
influenza il dover essere.
5. UN MINIMO DI GIUSTIZIA
La tesi secondo cui la definizione di cos’è una norma deve riferirsi necessariamente ad un minimo di
giustizia risale a RADBRUCH:
Nazismo appena concluso: Radbruch si interroga sulla legittimità di ordinamenti giuridici che sono
perfettamente legali ma producono norme giuridiche che non hanno un minimo di giustizia. Sono
formalmente legali ma ingiusti nel materiale di esse.
•—Il diritto crea fatti istituzionali che non esistono nella realtà empirica= Il diritto stesso crea fatti che, senza
di esso, non esisterebbero. (Differenza tra fatti bruti e fatti istituzionali).
Es/ guardando fuori, un albero sfiorito è un fatto la cui esistenza non presuppone quella del diritto.
Es/ il fatto che sia proprietario di qualcosa non potrebbe esistere se non ci fossero istituzioni come il diritto
a renderlo possibile. Se non ci fosse il diritto non sarei proprietario di qualcosa.
Quindi, quando si parla di fatti, nel diritto si intende spesso anche situazioni oggetti o cose la cui esistenza
dipende dal diritto stesso .
•—Il diritto rende esistente fatti inesistenti e viceversa= Il diritto ha sempre operato, anche con riguardo ai
fatti empirici, rivendicando una notevole libertà, manipolandoli trasformandoli a seconda delle necessità.
Questo, in diritto può far considerare un fatto accaduto anche ciò che il diritto stesso riconosce come
certamente non accaduto.
La depravazione del fatto dalla realtà dei fatti è fondamentale per capire il funzionamento del diritto.
È il diritto che determina che cosa sia un fatto, nella sua piena libertà ed autonomia.
La norma non dice che cosa accade naturalmente ma dice che cosa deve accadere, se accade A deve
accadere anche B.
Il diritto non si fonda sul principio di causalità, ma sul principio di imputazione.: la sanzione viene imputata
al fatto, nel caso in cui la legge prevede la conseguenza al verificarsi del fatto.
I fatti e le norme quindi, si direbbero separati: i fatti sono relativi a ciò che accade (essere) mentre le norme
riguardano ciò che deve accadere (dover essere).
Kelsen quindi separa le norme dai fatti, il dover essere dall’essere.
—per i realisti scandinavi è la separazione tra essere e dover essere che va messo in discussione, perché
presuppone una concezione metafisica del diritto considerato come una realtà esistente in maniera
indipendente e distinta rispetto a quella empirica.
•HÄGERSTRÖM= bisogna distinguere il senso che si prova a dovere qualcosa (come un comportamento)
ed il dovere in se stesso considerato. I fatti vengono pensati come entità che esistono in se stesse,
indipendentemente e separatamente rispetto alla realtà empirica.
•OLIVECRONA= diritti e doveri non sono entità reali, ma sono l’idea che noi abbiamo di essi, e devono
essere studiati indagando quei fatti sociali che costituiscono il complesso di credenze che inducono gli
uomini a crederli come qualcosa di esistente. C’è un vincolo psicologico che si prova quando si compie una
certa azione , con l’esistenza di qualcosa di doveroso. Ma ciò che esiste è il vincolo non il dovere.
La distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di valore pone il problema del rapporto tra fatti e norme,
Tra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittiva.
—> consenso della scienza giuridica con il divisionismo: fra enunciati di tipo descrittivo e quelli di tipo
prescrittivo, cioè una relazione di reciproca inderivabilità logica, in quanto non è possibile far derivare una
conclusione prescrittiva da sole premesse descrittive e viceversa. (Es/ Giorgio ha comprato 2 mele al
mercato, non posso concludere che Giorgio doveva comprare 2 mele al mercato. — Giorgio doveva
comprare 2 mele al mercato, non posso concludere che allora Giorgio ha comprato 2 mele al mercato)
Non si può passare dall’essere al dover essere, dai fatti alle norme, e viceversa, perché si incorre in una
scorrettezza logica (fallacia naturalistica).
Bisogna inoltre ricordare che il contesto decide se il linguaggio utilizzato utilizzato in funzione descrittiva o
prescrittiva.
Riepilogo dei quattro aspetti che consentono di distinguere le proposizioni descrittive di fatti da
quelle proposizioni che esprimono norme:
Differenze:
- FUNZIONE: giudizi di fatto forniscono informazioni su com’è la realtà; le norme hanno la funzione di
guidare la condotta e di prescrivere un’azione.
- DIREZIONE DI ADATTAMENTO: i giudizi di fatto usano una parola che mira a corrispondere a com’è il
mondo (dal mondo alla parola); le proposizioni prescrittive usano una parola che mira ad adeguare a sé il
mondo e a cambiarlo nella direzione di ciò che essa prescrive (dalla parola al mondo).
- IL COMPORTAMENTO DEL DESTINATARIO: una proposizione descrittiva richiede che il destinatario
creda che la proposizione sia vera ; una proposizione prescrittiva pretende che il destinatario esegua
quanto viene richiesto.
- CRITERIO DI VALUTAZIONE: Nei giudizi di fatto si può dire che sono veri o falsi; mentre per le
proposizioni prescrittiva non è possibile dire se sono vere o false. I giudizi di fatto possono essere verificati
mentre i giudizi di valore possono essere solo argomentati e giustificati.
5. VALIDITÀ ED EFFETTIVITÀ
5.1. LA NORMA
Validità: modo in cui le norme esistono. Una norma è valida quando:
• prodotta in conformità alle norme che ne disciplinano la creazione (validità formale),
• il suo contenuto non è in contrasto con quello di eventuali norme sovraordinate (invalidità materiale).
Tale definizione presuppone che ogni ordinamento giuridico moderno abbia una struttura gerarchica.
• KELSEN
Una norma è valida = assumere che essa deve essere obbedito e che la sua esistenza coincide con il suo
dovere essere, la sua obbligatorietà —>il dovere di obbedire ad una norma non può essere posto dalla
norma stessa perché dipende sempre da un’altra norma valida che disponga il dovere di obbedire alla
prima; la validità di una norma non annulla che vedere con la questione se essa sia o meno osservata.
KELSEN afferma che una norma non si rivolge mai direttamente ai cittadini, ma al giudice che dovrà
applicarla.
ROSS: anche per lui le norme sono direttive rivolte ai giudici più che i cittadini
Effettiva si dirà la norma nella misura in cui viene direttamente osservata dai cittadini o applicata nei
tribunali da parte dei giudici.
Ma la distinzione tra validità ed effettività viene intesa diversamente nella teoria del diritto.
—>realismo giuridico: identifica l’esistenza di una norma giuridica con la sua applicazione di fatto da parte
dei giudici.
—>idee diverse:
HOLMES= diritto è ciò che i giudici dicono che esso sia.
Scetticismo sulle norme, posizioni di chi sostiene che il diritto consista nelle sentenze dei tribunali.
Se vogliamo sapere quale sia realmente il diritto che esiste in un certo ordinamento non è a ciò che dice la
legge che dobbiamo guardare, ma quello che fanno le corti, al diritto in quanto viene applicato.
LLEWELLYN= realismo americano: l’esistenza della norma coincide con la sua applicazione: non potrebbe
esistere una norma se non dopo che essa sia stata applicata da parte dei tribunali. La norma esiste solo
dopo essere stata applicata. Non ce il problema della validità in quanto esistono solo dopo essere
applicate.
≠ ROSS= realismo scandinavo: l’esistenza della norma consiste nel suo essere sentita obbligatoria da
parte dei giudici e bella sua probabilità di essere applicata in futuro. La norma esiste ed è valida quando è
probabile che essa sarà applicata in futuro dai tribunali.
Secondo Ross la norma N1 stabilisce già di per se il dovere di seguirla. La validità intesa come
obbligatorietà sarebbe un tentativo di introdurre una giustificazione morale dei doveri che il diritto pone.
Quindi una norma N2 che richiede l’obbedienza della N1, sarebbe inutile Perché basta la N1.
La norma quindi deve essere denotata valida nella misura in cui essa viene seguita ed applicata a dai
tribunali in quanto sentita come vincolante .
—La norma precede i fatti perché in base ad essa che qualcosa può assumere, giuridicamente, la
natura di un fatto. Allo stesso tempo, è solo perché il giudice ha già valutato, in una prima fase, i
vari elementi della situazione concreta, che gli può inquadrare la vicenda partire da quella norma.
Quindi, da questo punto di vista, si potrebbe dire che il fatto precede la norma, nel senso che è a
partire da esso che l’interprete individua la norma di riferimento, in base alla quale poi, ritornando
sulla vicenda, selezionerai fatti rilevanti.
Tra i fatti così come accertati e i fatti così come essi si erano realmente svolti, dunque, vi sarebbe
sempre una differenza tale da poter affermare che i primi, i fatti che il giudice pone alla base della
decisione, in realtà non sono mai esistiti, non sono mai accaduti
— tradizionalmente questioni relative all’applicazione del diritto ad un caso concreto vengono presentate
come problemi di sussunzione del fatto nella norma o nella classe dei fatti identificati nella norma. —> non
è mai il fatto concreto ad essere su sunto, la sussunzione avviene tra concetti difatti e concetti giuridici
— Inoltre c’è il problema dell’interpretazione Che viene suscitato dal fatto accaduto: (la fattispecie astratta
non esiste prima del fatto).
Deve essere fatta una distinzione tra giustificazione esterna in fatto (= parte della sentenza in cui il giudice
giustifica la ricostruzione dei fatti), e la giustificazione interna in diritto (=il giudice rende ragione perché ha
ritenuto applicabili certe disposizioni).
La crisi del giudizio è una crisi di senso: crisi dell’idea di regole, crisi a livello dei macrosistemi globali, dei
sistemi regionali e nazionali, dei microsistemi sociali e familiari.
“La nostra età non vuole giudizio” è la tesi per esprimere la fragilità dei legami sociali.
Il giudizio è comunque inevitabile, nonostante il rifiuto. A partire dall’inevitabilità di giudizio dell’uomo sulla
condotta di un’altro.
Il problema del giudizio è individuabile nello scarto tra ciò che conosciamo e ciò che giudichiamo un
determinato soggetto\oggetto. Nel giudizio che formuliamo ci sta la nostra libertà, è perciò una facoltà
individuale e una condizione sociale essenziale dell’uomo.
C’è dall’1-4 un Aumento della responsabilità che il soggetto si assume fino alla presa di posizione.
La responsabilità è irrilevante quando si esprime un giudizio pour Parler, ma forte e rilevante alla quarta
posizione von la presa di posizione in una certa situazione. Il salto tra intelletto e volontà è il salto del
giudizio.
Con la secolarizzazione tutto il peso del giudizio (morale politico giuridico) ricade sulla ragione dell’uomo:
CARTESIO= Conoscere e volere sarebbero le cause dell’errore di giudizio. Cartesio essendo il padre del
razionalismo , La causa dell’errore non è nell’intelletto o nella volontà, ma va individuata nella difficile
congiunzione di queste due nella mente.
L’intelletto ha dei limiti conoscitivi (non posso conoscere tutto), la volontà è tendenzialmente illimitata, da
questo scarto nasce l’errore.
Quando la volontà si posa su ciò che non conosco sufficientemente siamo di fronte ad un salto nel buio,
secondo Cartesio in questi casi converrebbe astenersi dal giudizio. Tra intelletto e volontà è sempre
presente l’abisso del giudizio.
4. L’ESEMPIO DEL GIUDIZIO DI GIUSTO NELLA “CRITICA DEL GIUDIZIO” DI KANT 1790
KANT=Il giudizio è un’autonoma facoltà della mente, che trova in se stessa il suo principio e non è fondata
su alcuna regola.
Kant ripropone lo scarto cartesiano tra intelletto e volontà attraverso la contrapposizione di mondo
fenomenico, conoscibile dall'uomo e noumenico, quest’ultimo è il mondo delle cose in sé, l’uomo può
pensarlo ma non può conoscerlo.
Nella critica del giudizio Kant si interroga sull’esistenza di vie per superare questo scarto, individuando una
traccia della natura conoscibile anche là dove le
categorie dell’intelletto non possono giungere, queste vie sono: l’ordine della natura e la bellezza .
Il giudizio è quindi sentimento puro, la facoltà che media tra l’intelletto (la necessità) e la ragione pratica (la
libertà che determina la volontà razionale).
Tramite lo studio del giudizio estetico (il giudizio del giusto che è soggettivo, personale ma comunicabile
agli altri), Kant comprende la natura del giudizio che media tra necessità e libertà nell’uomo.
(Se il giudizio deve trovare il particolare dall’universale, allora sarà determinate.
Se invece è dato solo il particolare e il Giudizio dovrà trovare l’universale, esso è riflettente).
Il fondamento del giudizio estetico( riflettente) non è logico ma è l’esito di una riflessione del soggetto sullo
stato immediato di piacere o dispiacere provocato dall’oggetto stesso percepito.
Com’è possibile che un giudizio che si fonda sul piacere soggettivo giunga a proclamare l’universalità del
piacere? Kant risponde evidenziando il piacere del bello insito nei giudizi di gusto, dato dalla riflessione,
alla percezione di un oggetto segue la riflessione su di esso attraverso l’immaginazione. Quando un
soggetto afferma che una cosa è bella considera il suo sentimento di piacere come universalmente
comunicabile. Kant afferma il principio della comunicabilità universale del sentimento di gusto attraverso la
facoltà di immaginazione. Affinché possa vigere il principio della comunicabilità universale è necessario un
sensus communis, che è facoltà comune di giudicare.
Per Kant si tiene conto del senso comune quando nella costruzione del nostro giudizio siamo in grado di
confrontarci con i giudizi possibili ed effettivi degli altri.
Da questa interpretazione del senso comune derivano 3 massime che guidano il giudizio di gusto:
1)Pensare da se,
2)Pensare mettendosi al posto degli altri(massima del giudizio)
3)Pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. Quando un singolo si eleva al di sopra
delle condizioni soggettive del giudizio e riflette sul proprio giudizio da un punto di vista universale.
Le massime del senso comune che scaturiscono dalla riflessione kantiana sono alla base del giudizio
giuridico, inteso come decisione del giudice alla fine del processo.
—Questa struttura, apprezzata anche da CESARE BECCARIA, viene formulata per rendere
oggettivamente valida la decisione del giudice. Merito di aver distinto giudizio di diritto(applicazione della
norma al fatto) e giudizio di fatto (natura conoscitiva).
—Positivismo giuridico classico= Il giudice dovrebbe già possedere gli strumenti necessari per
individuare la premessa maggiore(tramite le fonti) e la premessa minore(tramite le regole probatorie).
—Tardo ‘900=Dopo la 2 guerra mondiale, con l’evoluzione logica nell’ambito scientifico e l’evoluzione dei
profili di ordine valoriale, contribuirono alla crisi della pretesa di collegare teorie logico razionali al processo
decisionale del giudice. Queste dottrine antiformalistiche mettono in discussione non solo il modello
sillogistico ma anche la possibilità stessa di elaborare una teoria generale del giudizio.
Riconosciuto il merito della teoria del sillogismo riguardo la differenza tra giudizio di diritto e giudizio di
fatto. La costruzione di entrambi i giudizi avviene parallelamente, colui che giudica analizza i fatti per farsi
un’idea sulla norma da applicare e analizza le norme per farsi un’idea sulla configurazione del fatto da
accertare. Non vi è alcun ordine di precedenza.
—TARUFFO= Nel giudizio giuridico giocano un ruolo essenziale i giudizi di valore formulati dal giudice, la
sussunzione dei fatti nella fattispecie astratta non è un’operazione logica ma un’operazione intellettuale
creativa che comporta un inevitabile margine di discrezionalità.
Più confacente alla pratica del giudizio giuridico la forma di giudizio che Kant qualifica come riflettente. Il
giudizio nasce dal particolare alla ricerca della regola.
SALVATORE SATTA=Il giudizio procede da un’intuizione che a sua volta procede da una secolare
millenaria esperienza giuridica. Il giudizio giuridico è destinato a valutare le condotte e formulare delle
prescrizioni con la pretesa di fare giustizia. E’ una pretesa di giustizia perché l’uomo deve sempre giudicare
il particolare umano senza avere un’idea del concetto universale di giustizia.
Il giudizio non si risolve nella verifica della legalità, ma è uno strumento che serve a cogliere la giustizia
nella legalità attraverso l’intuizione del senso del tutto (buon senso).
3 massime del giudizio in relazione al rapporto tra chi giudica con gli altri:
•La prima massima implica la necessità di liberarsi da idiosincrasie e punti di vista pregiudizievoli,
•la seconda è che il giudice liberatosi da abitudini e interessi personali debba indossare i panni degli altri,
ascoltare le parti dal loro punto di vista. Il giudice è terzo perché può adottare più punti di vista senza
perdere la sua autonomia. La capacità di giudicare esprime il talento di leggere la realtà anche da punti di
vista diversi dal proprio. Più sarà intensa la capacità immaginativa più sarà valido il giudizio. Come per il
giudizio di gusto il giudice spera che altri condividano il suo piacere,nel giudizio giuridico il giudice deve
tener conto del contesto morale e sociale.
•La terza massima suggerisce che il giudice debba seguire un’argomentazione coerente priva di
contraddizioni logiche a sostegno della sua decisione (il giudice ha l’obbligo di motivare la sua sentenza) .
All'estremo opposto alla concezione espressiva delle norme si trova la teoria per cui il discorso giuridico si
può spiegare solo in riferimento a ciò che il diritto si propone di ottenere, alle sue finalità, obiettivi (come le
regole per fare il caffè si comprendono solo alla luce di quello che quelle regole vogliono realizzare, il caffè
appunto). Da questo punto di vista una teoria del diritto e della sua autorità deve contenere anche una
giustificazione del perché l'autorità è legittimata a comandare e i destinatari hanno il dovere di obbedire. Il
presupposto è la natura razionale degli agenti, sia chi comanda sia chi obbedisce.
Il linguaggio è uno degli elementi più tangibili del diritto: giuspositivismo spesso ha usato il binomio diritto-
linguaggio, sostenendo che il diritto è il linguaggio di un soggetto qualificato, il legislatore. Tuttavia il diritto
non è solo la parola di qualcuno. Dopo che è stato proferito il diritto deve essere azione.
DIALOGO: scambio tra domande risposte fra qualcuno che afferma una certa cosa e qualcun altro che
ascolta ma chiede anche chiarimenti, magari contestando la prima pretesa e così obbligando chi la
sostiene ad offrirle buone ragioni, per far sì che chi domanda possa consentire.
ARGOMENTAZIONE: attività dell’argomentare, cioè di offrire ragioni a sostegno di ciò che affermiamo.
L’argomento è una ragione che fa fede rispetto a qualcosa di cui non siamo sicuri O rispetto a un
enunciato o una proposizione di cui non si conosce il valore di verità. —>Argomentazione necessaria
quando si voglia mostrare la credibilità di una tesi incerta.
Inferenza: processo con cui si giunge a una conclusione partendo da certe premesse.
INFERENZA=processo con chi si giunge ad una conclusione partendo da certe premesse. Mettendo
insieme gli argomenti si arriva ad una conclusione.
“Se P ..allora C”= P di premesse e C la conclusione. Premesse e conclusione è ragionamento possono
essere di varia natura.
ENUNCIATI: descrittivi, prescrittivi, particolari, universali e generali.
RAGIONAMENTI: tipo induttivo, deduttivo, abduttivo, per descrivere qualcosa, per inferire qualcosa, per
comandare qualcosa, per deliberare intorno a qualcosa.
—È molto importante la logica del discorso e la capacità che abbiamo di suscitare delle emozioni in
chi ci ascolta e predisporlo così ad accettare il nostro argomentare, Dovendo risultare credibili e facendo
valere il nostro carattere e valore personale. Queste tre componenti: logica emozioni e carattere= logos,
pathos, ethos compongono il modo in cui si genera persuasione.
ARISTOTELE: L’arte della Retorica si esercita in tre generi particolari di discorso:
—>epidittico= relatore parla al pubblico di spettatori per ottenere biasimo e lode= cerimonie
—>deliberativo= relatore parla ad una assemblea per consigliarla o meno sul da farsi=deliberazioni
politiche.
—>giudiziale= relatore parla ad un guide per persuaderli su certi accadimenti= processo
—Legame diritto retorica forte. Il modo in cui il diritto si forma è retorico, il diritto ha una componente
autoritaria perché è una decisione, ma ha anche una componente razionale e una componente emotiva e
una componente etica.
—I contesti in cui si svolgono sono dialogici e trialigici, se le parti non sono almeno in tre quel discorso non
è un processo + un confronto fra tre parti è un processo se si svolge in un luogo istituzionalizzato
chiamata sofistica. —>Per i sofisti, non esistono la verità o il giusto o il bene in sé: esistono solo come
opinione personale ma nessuna opinione preferibile un’altra se non nella misura in cui chi la propugna sia
più brava del proprio avversario.
—PLATONE contrappone (alla sofistica) la retorica autentica, volta alla ricerca e custodia della verità, del
giusto e del bene. L’esercizio di una retorica che manifesti la capacità di conoscere il vero dialogando,
prendendosi cura dell’altro che ascolta e del legame che ci costituisce in società.
Messaggio trasmesso da Platone ad Aristotele.
—Nella prospettiva sviluppata da ARISTOTELE, la retorica è sempre un’attività del logos, ancorata all’arte
del corretto ragionare entro un dialogo a partire da ciò che il mio interlocutore accetta.
—Occorre affiancare al logos della dialettica, il pathos e l’ethos nella retorica. La dialettica è l’arte del
corretto ragionare e la retorica adesso si accompagna ma non si oppone: anzi, vi si aggiunge,
inglobandola.
Il discorso retorico persuade non solo attraverso la mozione dei sentimenti dell’ascoltatore (pathos) e la
credibilità delle qualità personali del retore (ethos), ma anche con l’esercizio comune della ragione (logos).
filosofica detta analitica. Il nucleo centrale di questo metodo è l’idea che il linguaggio naturale
maschera l’autentica forma logica degli enunciati che va invece rivelato e analizzata, con strumenti
messi appunto da Russell.
—Nell’800 c’è una vera e propria ideologia legale-razionale, tesa a raffigurare la sentenza del giudice come
la conseguenza di un processo meramente dichiarativa e conoscitivo, e non invece come l’esito di una
decisione frutto di scelte discrezionali. Da allora in poi il sillogismo giudiziale sarà il modello del
ragionamento giuridico ma non sono mancate CRITICHE.
•KELSEN: Egli sostiene che la decisione giuridica cioè la norma individuale trovi la sua ragion d’essere nel
fatto che il giudice appare soggetto delegato, e quindi autorizzato, a porre in essere, nel contesto
dell’ordinamento giuridico gerarchico piramidale. In questo contesto l’opera del giudicante è costitutiva.
L’idea resta sempre quella di liberare il diritto dall’incertezza implicata dalla soggettività impressa dai giudizi
di valore.
Ragionevole era ciò che veniva accettato da certe persone (uditorio) in certi tempi e luoghi. La verità
dipende dalle opinioni.
Ma Perelman non riesce a trovare una vera soluzione.
L’uditorio: è all’uditorio che si tributa il maggior ruolo nel giudizio di ragionevolezza e quindi il criterio di
valutazione dipende sempre dal giudizio si singole persone e non esiste un parametro oggettivo per
controllare la ragionevolezza di un’argomentazione. =Perelman non riesce a soddisfare i criteri razionalità.
—Diverse teorie:
• HABERMAS: per lui la teoria dell’argomentazione non è una disciplina specifica che valuta e ricostruisce
certe istanze linguistiche; ma coincide con la teoria della razionalità umana. La razionalità umana è
comunicativa e ha una struttura profonda argomentativa.
•APEL e la sua pragmatica trascendentale: sostiene che quando si parla di prescrittività delle teorie
dell’argomentazione si intende la capacità di fornire regole che possono permettere di valutare le
argomentazioni, e anche di giustificare le norme argomentative fornite o la teoria stessa.
—Da Habermas e APEL, c’è un impegno a costruire una vera etica del discorso che interessa gli sviluppi
dei modelli di ragionamento nelle pratiche sociali e quindi anche nel diritto.
—Tutti gli approcci manifestati e hanno diversi limiti, problemi connessi alla natura dei principi fondatori e
dalle regole che sono state identificate di volta in volta.
—È evidente che la teoria dell’argomentazione giuridica non è più una teoria del ragionamento giuridico,
ristretta negli angusti domini logici di controllo del discorso del giudice, ma è diventata pieno titolo una parte
ineliminabile della riflessione sul diritto nel suo complesso.
La teoria dell’argomentazione giuridica per poter dare conto della razionalità della decisione giuridica
sembra dover presupporre la razionalità della legislazione che
presuppone l’assunzione della razionalità del processo di deliberazione politica: in caso contrario la
razionalità di ogni decisione giuridica finirebbe per essere relativizzata o messa del tutto in questione.
8. CONCLUSIONI
—In tal scenario sono maturati i diversi approcci che compongono variegato mondo di teorie di
argomentazione che rappresenta oggi un campo di studio in evoluzione—> nuovi scenari espressi da stati
di diritto costituzionale hanno definitivamente confermato il fatto che giudizi di valore rappresentano parte
ineliminabile del diritto e del ragionamento giuridico= necessario recuperare qualche forma di razionalità
che ne sappia dare conto.
—È l’interpretazione a fare parte del processo argomentativo,
—Argomentazione: dinamica e non statica. Dovrebbe riportare il focus sulla retorica in senso aristotelico.
—Se si guarda fuori da dir ciò è lampante: oggi come allora dir risulta in ritardo rispetto a passi avanti che
sviluppo di sapere ha fatto. = logica, retorica, teorie di argomentazione.
—concetto di ragionevolezza: identifica i confini entro cui può svolgersi la persuasione che però, in sé
stessa, non può fare a meno dell’utilizzo di opportuni mezzi retorici.
ROCCI nota che assenso che avremo a fine del “manouvering” si baserà sull’ effettività di mezzi retorici
usati: tale assenso non è puramente ragionevole, libero. Le mie ragioni non bastavano a persuadere altro;
e io ci ho aggiunto parole prestigiose Metafore trucchi. La persuasione non può essere neutra rispetto alla
ragionevolezza di un discorso: o gioca ruolo positivo o gioca ruolo inevitabilmente negativo.
tesi evidente nel Leviatano: dove Hobbes separa il concetto di essere umano da quello di persona.
Prosopon: travestimento, maschera. "Una persona è colui le cui parole o azioni sono considerate o come
sue proprie, o come rappresentanti - sia veramente sia mediante finzione le parole o zioni vuoi di un altro,
vuoi di qualunque altra cosa cui vengono attribuite".
Il problema dell'identità personale torna in Locke, connotato da una rilevanza giuridica. La concezione
hobbesiana di persona come maschera e rappresentazione diviene in Locke qualcosa di diverso: la
persona è il termine, il nome pubblico del sè.
L'identità umana assume senso in Locke nella riferibilità all'individuo di ciò che gli è proprio. Essa riguarda
un giudizio di corrispondenza e non di identità, il quale si affida alla percezione che si ha di sè. E' la
coscienza a mantenere nel tempo la persona unita nel proprio sè poiché essa unisce nella stessa persona
azione tra loro lontane. Non avendo più alcuna consistenza ontologica che la leghi alla natura, l'identità
personale si definisce come la condizione alla quale è possibile affidare un'esigenza di mantenimento di sè
nel tempo, "la sostanza di cui l'io personale consisteva in un certo tempo, in un altro tempo può venire
modificata, senza che cambi l'identità personale" perché " non vi sarà questione circa l'identità della
persona anche lì dove siano stati tagliati da essa quegli arti che fino a un attimo addietro ne facevano
parte". (Saggio sull'intelligenza umana). L'identità della persona per Locke non consiste né nell'identità
della sostanza, né in quella del corpo, ma in quella della coscienza, che è capace di proiettarsi
retroattivamente nel passato come memoria, e di tendere al futuro come cura. L'uomo, come natura, e la
persona, come identità, ne vengono intesi come termini distinti: l'essere umano è sempre lo stesso,
immutabile, l'altra, la persona, è coscienza e consapevolezza di sè sul piano della propria estrinsecazione
pubblica.
frammentazione che ha colto la definizione del sul concetto. Tema della soggettività: oggetto di una critica
che si concentra sulla mera illusorietà dei suoi attributi di universalità e uguaglianza. Si tratta di una cornice
generale in cui assumono rilievo 2 temi: il discorso sul rapporto tra diritto e la cultura & la riflessione sulle
soggettivazioni di genere: entrambi riguardano la critica al soggetto giuridico e politico della modernità, e la
decostruzione antropologica e filosofica, del concetto stesso di identità umana.
La riflessione sul pluralismo normativo e il tema delle identità di genere sono i principali contesti teorici in
cui si coltiva una tensione a oltrepassare il concetto di identità: a cui si rivolgono obiezioni di cui la
principale verte su impossibilità di affermare una qualche concezione dell'identità che non sia innervata da
una tensione a rappresentare la condizione umana nel segno di una universalità artificiale più ancora che
reale e come tale asservita a esigenze di omologazione.
concentrato sul concetto di genere: nella necessità di emancipare dal biologico la condizione femminile.
L'obiettivo critico di quel femminismo differenzialista era un'interpretazione dell'uguaglianza come
dispositivo di neutralizzazione e assimilazione della differenza e questa concezione dell'eguaglianza non
corrisponde affatto al suo principio giuridico.
4. OLTRE L’IDENTITÀ:
In uno scenario di frammentazione identitaria, in cui cioè la pluralità delle identità prevale su una
concezione unitaria e universale dell'identità, il discorso gius filosofico ha mostrato una particolare
attenzione nei riguardi del concetto della vulnerabilità, intesa come condizione che riguarda l'esistenza
materiale di ciascun essere umano. Si tratta di un tema che interpreta in chiave giuridica una tendenza a
definire, attraverso la vulnerabilità, un nuovo approccio all'identità soggettiva, v. Butler. In queste tesi
ritornano le obiezioni sull'identità umana: la pretesa universalità che è derivata all'identità dalla congiuntura
con il soggetto politico giuridico della modernità + l'accezione deterministica implicata, il suo essere
declinazione di categorie statiche come nel caso di sesso/genere e cultura. In questa cornice la
vulnerabilità esprime la funzione rivolta a pensare ancora all'identità muovendo da una comune condizione
umana. V. Hart: la vulnerabilità rinvia a un contenuto minimo del diritto senza il quale gli uomini così come
sono non avrebbero motivo per obbedire volontariamente a nessuna norma.
4.1. LA VULNERABILITÀ:
Diversamente dalla riflessione gius filosofica che della vulnerabilità accentua il carattere di condizione
materiale che fa universale l'esistenza umana, il linguaggio giuridico accoglie la rilevanza della categoria
intendendola come idonea a denotare talune posizioni giuridiche di individualità o gruppi. In questa cornice
la rilevanza giuridica della vulnerabilità soggettiva è una condizione che si riferisce a classi o categorie di
soggetti, titolari (non n quanto persona ma in quanto appartenenti a alcune categorie come genere etnia
etc) di una strutturale esposizione ad essere discriminati. Tuttavia anche qui vi è una prospettiva normativa
contestabile: la costruzione di una tale qualificazione consente obiezioni poiché il riferimento alla
vulnerabilità rinnova un argomento che fa leva sulla circostanza di appartenere a una categoria statica,
riferita a classi soggettive assunte vulnerabili per definizione. Per effetto della qualificazione, la definizione
di classi di soggettività vulnerabili finisce per il fissare normativamente l'esistenza dei soggetti che tipizza al
punto che il soggetto vulnerabile diventa strutturalmente portatore di una condizione permanente, come se
si trattasse di un dato ontologico e identitario.
La vulnerabilità umana apparterrebbe solo a queste classi di soggettività (il minore, migrante, donna vittima
di violenza) definendo chi è vulnerabile e chi non lo è. Piuttosto che attributo di gruppi o categorie
predefinite Fineman alla vulnerabilità riconosce la capacità di evocare una condizione condivisa: essa mai
è esclusivamente soggettiva, ma si qualifica a muovere dalla dimensione istituzionale coinvolta nei
meccanismi di esclusione.
Tuttavia teorizzare una condizione di vulnerabilità della condizione umana significa accettare la sfida di una
nuova forma di soggettivazione, capace di fissare un aspetto universale permanente e inerente alla
condizione umana. Radicata nel discorso giuridico, con la vulnerabilità si prende atto che il soggetto
vulnerabile sia la persona e per essa si dia una vulnerabilità situata, la quale iscrive nel corpo e nelle
esigenze della vita materiale il proprio elemento distintivo, in un accento che si sposta dalla metafora del
corpo politico, alla politica dei corpi, della relazione tra corpi e potere. (Casalini, il peso del corpo e la
bilancia della giustizia).
In un discorso che va oltre l'identità, la vulnerabilità umana sembra così porre al centro la questione
sempre aperta della matrice moderna del legame tra identità umana e diritti, quel del diritto ad avere diritti
di cui scrive Arendt.
Consolidatasi nel segno del paradigma giuridico dell'universalità e dell'uguaglianza, la storia concettuale
dell'identità umana nell'età moderna è stata oggetto di diverse ricostruzioni: se nella tradizione positivistica
l'identità è prodotta da regole giuridiche e non può che darsi nel loro contesto, in un complesso di teorie
che mantengono un più o meno esplicito legame con una qualche concezione di natura, essa non cessa di
saldarsi a condizioni innate e universali, che instaurano dinamiche di conflitto tra identità le quali per
esistere rivendicano di far ingresso nella sfera pubblica, nel nome del principio di uguaglianza. La
concezione contemporanea dell'identità e percorsa da criticità: fragilità di un regime di appartenenza
politica segnato da trasformazioni del dispositivo di cittadinanza, contesto pluralistico che caratterizza gli
stati costituzionali del dopoguerra. Problemi che ricadono sulla crisi di cui l'identità è stata fatta oggetto.
Pluralismo e personalismo come principi ispiratori delle costituzioni del secondo Novecento siglano il
passaggio dal soggetto alla persona. (Rodotà, dal soggetto alla persona).
Vulnerabilità come condizione umana, e dunque uguale e universale presupposto dell'identità umana.
Stato. Hegel considera una necessità storica il fatto che le nazioni civilizzate considerino e trattino altre,
come barbari, con la coscienza di un diritto diseguale.
—Prospettiva giuridica: relazione stato-territorio
Popolo: non è uno stato a prescindere, lo stato è l’esito di un processo storico in cui ha forte influenza la
parte geografica e climatica di un territorio. Per Hegel tra spirito e natura vi è una dialettica particolare che
finisce per plasmare il carattere di un popolo e le sue istituzioni, allo stesso tempo però l’uomo ha la
capacità e la possibilità di dominare la natura arrivando a una propria liberazione in cui la natura da
padrona diventa serva —>tale processo di dominio non si è potuto però realizzare ovunque nel globo: gli
estremi non sono favorevoli allo sviluppo spirituale, la natura lì primeggia sull’uomo. È in Europa secondo
Hegel che l’uomo ha saputo meglio adattarsi e oggettivarsi in virtù delle caratteristiche geografiche —
>questo primato storico ha fatto in modo che le nazioni civilizzate potessero trattare come barbare quelle
che stanno loro dietro nei momenti sostanziali dello stato.
3. IL TERRITORIO STATO-PERSONA
3.1.
—Savigny: il popolo storicamente e territorialmente determinato costituisce la matrice dell’ordine giuridico e
politico.
—Gerber: (Statocentrismo)
il popolo è ridotto a dato naturalistico e tutto sommato contingente: solo nel momento in cui è incluso nello
Stato giunge ad essere riconosciuto e a valere giuridicamente come un’unità etica totale.
Lo Stato è custode e rivelatore di tutte le forze del popolo che sono tese al compimento etico della vita
collettiva. Lo Stato è la suprema personalità di diritto che l’ordinamento giuridico conosco.
L’individuo, con il suo catalogo di diritti di libertà che la
tradizione giusnaturalistica e liberale aveva posto a fondamento dell’ordine politico, in sé risulta irrilevante:
non è infatti ammissibile alcun limite al potere sovrano dello Stato. La sfera soggettiva è semplicemente il
prodotto dell’autolimitazione dello Stato-persona, i diritti individuali non sono altro che i riflessi di un ordine
normativo imperniato sulla volontà statuale.
Lo Stato-persona Gerberiano trasforma la metafora Hobbesiana del leviatano in un soggetto giuridico
originario e metastorico, fondante e non fondato, separate e superiore alla politica.
3.2. Per Gerber solo lo Stato può esercitare un dominio assoluto sullo spazio territoriale e può pretenderne
il riconoscimento come sfera territoriale di potere.
È lo Stato persona, attraverso una specifica manifestazione di volontà, a proiettare su di una porzione di
spazio fisico il proprio potere sovrano ed è sempre il soggetto medesimo a rivendicare nei
confronti degli altri Stati la Signoria esclusiva. È proprio nell’ambito del suo territorio che lo Stato trova la
sua qualificazione corporea ed in esso viene realmente individualizzato.
Il territorio, assieme al popolo, è al tempo stesso il fondamento naturale dello Stato e ciò che lo qualifica
come tale, che ne contrassegna la individualità —>non è pensabile uno stato disgiunto dal suo territorio —
> principio primo: indivisibilità del territorio
3.3. Costituzione Reich: art.1 = elencava i territori —> qualificazione tra reich e territori
Stato = fenomeno sociale, esito di un lungo percorso che il diritto ha avuto il compito d disciplinare.
JELLINEK: lo Stato persona è un’unità essenzialmente teleologica. L’ordine politico nasce da una pluralità
di soggetti che si trovano nella necessità di perseguire finalità comuni. Allo stato nessuno può sottrarsi.
Il potere che esercita lo Stato assume la forma di un rapporto di dominazione sovraordinato ad ogni altro, è
originario, non deriva da altri che da sé —>Uno Stato può storicamente essere formato da un altro ma
giuridicamente esso ha il suo potere sempre e soltanto da se stesso.
Nella prospettiva jellinekiana lo Stato si configura come un’unità di associazione di uomini con sede fissa,
dotata di un potere di dominazione originario. (A partire da Jellinek si può attribuire al fattore spaziale una
funzione più ampia e pervasiva).
4.1. ROMANO: per romano era necessario prendere atto che la società aveva raggiunto un grado di
complessità inusitato, tale da rendere obsoleto ogni ipotesi Statocentrica. Emerge l’istituzionalismo:
—Emersione di un io collettivo del cittadino che il potere Borghese aveva da sempre ignorato e
riconosciuto in esso la minaccia più pericolosa.
—Lo Stato non è nulla di astratto, è un’entità reale, concreta, che ettaro come elementi costitutivi un
• CARL SCHMITT: per Schmitt, come già per Romano, occorre abbandonare l’idea che l’ordinamento sia
soltanto una somma di norme: la norma o regola non crea l’ordinamento, essa, piuttosto, sulla base dentro
il quadro di un ordinamento dato, una certa funzione regolativa con una misura relativamente contenuta di
validità in sé autonomo. Ma l’ordinamento un preciso fondamento essendo il frutto di una decisione su e
per uno spazio tellurico.
—>All’inizio della storia dell’insediamento di ogni popolo, di ogni comunità e di ogni impero sta sempre in
una qualche forma il processo costitutivo di un’occupazione di terra. La presa di terra è condizione di
pensabilità dell’ordinamento al tempo stesso suo fondamento storico. Lo spazio tellurico consente lo
sviluppo del diritto privato del diritto pubblico ma verso l’esterno permette il diritto internazionale. Si pone il
problema degli spazi altri e del loro ruolo soprattutto dello spazio marittimo—> a partire dalla modernità:
rivoluzione spaziale. Il nomos della modernità nasce
dall’antagonismo tra terra e mare.
6. CONCLUSIONI
Con Kelsen prevale il diritto internazionale come ordinamento originario.
Nella prospettiva Kelseniana, L’ordinamento internazionale assume una natura autenticamente cosmo
politica, finendo per divenire occasione di palingenesi per l’umanità stessa, una volta rimossa la sovranità
statale.
Kelsen: pacifismo che costituisce l’immagine rovesciata dell’imperialismo
Il territorio da dimensione fondativa dell’esperienza giuridica diventa un costrutto artificiale, finisce per
smarrire la propria concretezza, fino ad essere assorbito nell’orizzonte della validità della norma.
I possibili sviluppi? Un sempre maggior avvicinamento all’ipotesi giuridica del diritto internazionale.
—Progresso scientifico e potere —>hanno portato l’essere umano sul territorio del dominio: dominio
e aspirazione alla sconfinata dominazione appartengono alla natura della scienza moderna.
—Hannah Arendt: le conquiste dell’uomo sul terreno scientifico rappresentano davvero un segno o una
prova della sua grandezza?
—Tecnica e potere si toccano —>bomba atomica —> rischio che l’umanità non potesse continuare ad
esserci—>conduce a una reazione —>al bisogno di un’assunzione di responsabilità pertinente e
adeguata.
—Responsabilità = lato complementare del potere —> entra in gioco l’importanza della norma che riesca a
stabilire argini a un fiume promettente che può presentarsi come minaccioso.
Tale riduzionismo metodologico sarebbe neutrale rispetto ai valori del dover essere.
Secondo Jonas infatti a dover essere riconsiderato è il dogma della natura neutrale di fronte ai valori e la
frattura tra essere e dover-essere che ne deriva: la libertà della ricerca non può essere libera
incondizionata.
La libertà concessa al pensiero non si estende all’azione, ogni azione sottostà a limitazioni giuridiche e
morali.
—>il riconoscimento del principio di responsabilità diventa fondamentale come guida per un agire
improntato alla prudenza —>PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: uno dei principi peculiari della
discussione bioetica e biogiuridica —>l’approdo decisivo diventa dunque la produzione di norme
giuridiche nazionali, prescrizioni internazionali e protocolli internazionali.
—Summit per la terra di Rio 1992: convenzione sulla diversità biologica, art.15: chi intende svolgere una
certa attività rischiosa ha l’onere di dimostrare che quell’attività non crea una minaccia di un danno grave e
irreversibile per l’ambiente e l’habitat umano, nonché l’onere di adottare le misure idonee a fugare i rischi
potenziali collegati o conseguenti all’attività collegata.
—200: Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, art 1 —>principio di precauzione
—Si chiede al diritto di farsi carico delle esigenze della tutela dell’umanità, per i suoi membri e per il suo
futuro a fronte del progresso scientifico e tecnologico.
—Idea centrale = distinguere tra libertà e anomia, coniugare libertà e norme per arrivare a un’autonomia di
una scienza e di una ricerca regolate dalla comunità in cui si sviluppano e alla quale dirigono i propri
risultati.
—Porre limiti alla scienza = NO porre limiti al sapere ma trasformare la licenza in libertà: la sfera dell’agire
necessita di regole che limitando le azioni umane possano assicurare all’uomo la libertà, possano
controllare e contenere il nesso tra scienza e potere.
3.1. DAL PRIMO TRAPIANTO DI ORGANI ALLA DEFINIZIONE DI MORTE CEREBRALE. GLI ANNI
SESSANTA
—Ruolo rivoluzionario =1967 Christian Bernard: primo trapianto di cuore.
1958: nascita delle prime unità di rianimazione con la pubblicazione del protocollo ufficiale relativo
al massaggio cardiaco esterno.
Sempre alla nascita di queste nuove circostanze compare per la prima volta la condizione di
sopravvivenza definita come coma irreversibile —> dimensione in cui i confini tra vita e morte sono difficili
da disegnare.
Ha inizio il ripensamento della definizione di morte che culmina con un nuovo criterio di accertamento di
questa: la cessazione dell’attività cerebrale.
3.2. DALLA SPERIMENTAZIONE SUGI ANIMALI ALL’ETICA AMBIENTALE. GLI ANNI SETTANTA
•Anni ’70=nuovi sviluppi scientifici e nuove ricerche mediche e biologiche —>sperimentazione sugli animali
—> risposta animalista per il conseguimento di protocolli, vincoli e codici deontologici basati anche sul
riconoscimento di un’ideale di giustizia valido anche per gli animali.
•1977: Singer =Animal Liberation = manifesto di rivoluzione culturale per gli animali, fondata su una
peculiare forma di razzismo: lo specismo cioè manifestazione della discriminazione violenta che
sancisce il primato e la dominazione della specie umana su tutte le altre.
Sempre in quest’epoca parte il dibattito sulla questione ecologica =il principio di responsabilità trova una
nuova declinazione nell’ambito delle questioni ambientali —>diventa il centro di nuove proposte etiche per
la difesa di terra e biosfera —>è necessario un nuovo radicale ripensamento del rapporto uomo-natura —
>proposte anti-antropocentriche: negano il primato della specie umana e ampliano l’attribuzione di un
valore intrinseco alla natura.
Vi è la richiesta di giustizia e equità esibita, la denuncia di forme di oppressione che passano attraverso il
dominio di un paradigma economico e giuridico-politico che non tutela i deboli, siano animali, esseri umani,
la denuncia di illegittimità di condotte di azione e di scelte politiche ed economiche distruttive per il pianeta
e per le generazioni future.
È necessario un nuovo tipo di responsabilità che significa anche consapevolezza del limite
oggettivo ed epistemologico
3.4. DALLA MAPPATURA DEL GENOMA ALLA RICERCA SULLE CELLULE STAMINALI. DAGLI ANNI
90 A OGGI
•1990 USA, Wilkinson: mappatura del genoma umano
•Jonas =mappatura del genoma umano: rappresenta l’esempio più eclatante dell’intreccio di innovazione
scientifica e dimensione morale —> è un terreno che bisogna affidare con urgenza al diritto per
l’istituzionalizzazione di prassi e protocolli di condotta.
•Diagnostica prenatale = tecniche di clonazione OMS: “la diagnosi prenatale è eseguita solo per dare ai
genitori informazioni sul codice genetico e ai medici informazioni sulla salute del feto. L’uso della diagnosi
prenatale per test di paternità, eccetto in caso di stupro o incesto, o per selezione legata al sesso non è
accettabile” —>lo spettro che secondo alcuni può aggirarsi tra le maglie di accesso e uso di questa tecnica
diagnostica è quello della discriminazione e della strumentalizzazione.
•1996: clonazione della pecora Dolly = parole di condanna da parte del Consiglio d’Europa nella
convenzione sui diritti umani e la biomedicina: “la strumentalizzazione degli esseri umani è contraria alla
dignità umana” è necessario “proteggere la dignità e l’identità di tutti gli esseri umani”
•La clonazione delle cellule somatiche è eticamente accettabile, che però va regolata da un protocollo di
protezione dell’embrione.
La clonazione di un essere umano per scissione embrionale o per trasferimento nucleare è proibita —>
ribadita dall’UNESCO nel ’99 definendola come pratica contraria alla dignità umana.
•Jurgen Habermas = tanto la selezione di embrioni ai fini dell’impianto quanto la modifica sul genoma
istituirebbero una forma di discriminazione ai danni dell’individuo. Alla base della sua argomentazione c’è il
principio di autonomia sulla scorta del quale tali pratiche sarebbero da ritenersi illegittime poiché il nuovo
nato sarebbe da ritenersi dipendente dalla coppia di genitori in modo irreparabile a più in genare alle cure
sanitarie. Vi è una disuguaglianza sotto il profilo dell’autonomia, cioè di chi è autonomo e di chi ha perduto
per sempre questa possibilità si riflette in società. In società i cittadini non sarebbero più tutti uguali: alcuni
di loro sarebbero diversi per la loro perdita di autonomia, discriminati per quella scelta procreativa
controllata ed eterodiretta.
•L’idea che si determini con la clonazione una modificazione moralmente rilevante del rapporto
genitori-figli e società-individuo.
“con tale tecnica si afferma una competenza decisionale assimilabile all’esempio storico della schiavitù,
che è una relazione giuridica e significa che un uomo è a disposizione di un altro come possesso.
•Per Habermas pratiche di eugenetica migliorativa non possono essere normalizzate entro una società
pluralista democratico-costituzionale che attribuisca ad ogni cittadino l’uguale diritto a un autonomo
progetto di vita, perché la selezione delle disposizioni desiderate non può essere sciolta a priori dal pre-
giudizio relativo ai progetti di una vita determinata.
•In gioco vi è il principio di responsabilità, perché è del nostro agire che siamo responsabili, sia come
genitori che come figli. La scelta della clonazione scardina il naturale equilibrio delle responsabilità
connesse, ripensa le libertà possibili tra le maglie di quella relazione e al di là di essa.
•Problema dei brevetti e della possibilità o meno di legittimare la brevettabilità di materiali genetici —> la
possibilità di vincolare la disponibilità dei dati al possesso del brevetto non è altro che un riduzionismo
economico applicato alle biotecnologie e alla genetica. Connesso a ciò vi è anche una limitazione
improvvida della ricerca, bloccata nell’accesso a un sapere sottoposto a royalties spessoinsostenibili o
discriminanti. Rimangono compromessi in generale la libertà di ricerca e quei diritti fondamentali come il
diritto alle cure e all’accesso ai farmaci.
•Clonazione umana volta alla gestazione ≠ clonazione umana finalizzata alla produzione di tessuti e organi
destinati al trapianto —>clonazione terapeutica: finalizzata alle cure di gravi patologie largamente diffuse,
spesso di carattere genetico attraverso l’impiego di tessuti e organi prodotti dalla coltivazione in laboratorio
di cellule staminali provenienti da embrioni umani destinati esclusivamente a tale scopo.
—ADAM SMITH: la mano invisibile e su un ordine spontaneo della società e del mercato;
—KARL MARX: rapporto economia-diritto in termini di struttura e sovrastruttura.
—Gran parte della discussione successiva sul rapporto tra diritto ed economia è stato un tentativo di
ripensare
e superare l’impostazione crociana.
CAPOGRASSI: ha cercato di riconfigurare tale rapporto come una relazione tra esperienza giuridica ed
esperienza economica .
CARNELUTTI: l’ha pensata nei termini di una sussunzione o una subordinazione dell’economia al diritto, il
diritto regolamenta l’economia.
—Da una prospettiva giuridica invece il rapporto tra diritto e economia è sempre stato oggetto di studio del
diritto dell’economia.
Approcci di diritto dell’economia: rimangono nell’orizzonte di un approccio regolativo dell’economia
affrontato con lenti giuridiche ≠ approcci economici al diritto: tendono a leggere il problema della
regolamentazione giuridica dell’economia e del comportamento umano con lenti economiche.
—Tale differenza è fondamentale perché Vi è un cambiamento di paradigma = non il diritto come misura
del mondo economico ma la scienza economica misura del mondo giuridico.
Gli approcci economici al diritto iniziano a diventare il nuovo codice del mondo giuridico e del mondo
economico e sociale.
—Approcci dominanti: approcci economici al diritto che hanno avuto una proliferazione di studi e
pubblicazioni. —> essi dominano l’analisi e la discussione di questioni giuridico-economiche ma hanno
anche influenzato la regolamentazione di aree sempre più estese delle relazioni umane. —>tale dominio è
stato
spesso etichetta come imperialismo della scienza economica: applicazione sistematica del metodo adottato
dalla scienza economica nello studio del comportamento umano a tutti gli ambiti in cui tale comportamento
può essere oggetto di studio e criterio esplicativo delle relazioni umane e del funzionamento della società.
•—>Tale approccio di EAL si è sviluppato negli USA e nei sistemi di common law, per poi influenzare quelli
di civil law. Ha sviluppato teorie sempre più sofisticate (teorie economiche della proprietà, dei contratti,
della responsabilità civile e penale, del processo…) —>ha conquistato ambiti che si ritenevano prima di
dominio esclusivo giuristico.
Tali domande non sembrano molto distanti da quelle studiate dai giuristi, ma il mutamento paradigmatico
imposto dall’EAL sta nel cercare di rispondere a tali domande con le lenti e il metodo dell’economia.
La Scienza economica: fornisce gli strumenti per prevedere gli effetti della sanzione giuridica sul
comportamento umano: si assume la sanzione come un prezzo e che gli individui rispondano alla sanzione
e alle norme nello stesso modo in cui rispondono alla variazione del prezzo.
—>Quindi: prezzo alto di un bene : minor consumo del bene = sanzione giuridica più pesante : riduzione
dell’attività sanzionatoria.
—Di quali effetti si occupa l’EAL? Qual è il criterio regolativo che qualifica la bontà o desiderabilità di questi
effetti? —> la risposta sta nel concetto economico di efficienza.
L’EAL concepisce il diritto e le norme come incentivi e si occupa della ricerca di norme efficienti = ha come
obiettivo la formazione di regole che garantiscano la realizzazione di transazioni in grado di massimizzare
l’efficienza o il benessere complessivo.
—Concetto centrale della microeconomia: il libero scambio tende a spostare le risorse fino a che non
arrivano al loro valore di uso massimo,in tal caso l’allocazione delle risorse raggiuge l’efficienza di
Pareto.
COASE estende tale sistema allo scambio dei diritti riconosciuti ai singoli individui. Coase afferma che
l’allocazione iniziale di tali diritti non presenta alcun problema in termini di efficienza nella misura in cui è
possibile scambiarli liberamente: se la legge allocca i diritti in modo inadeguato, il problema può essere
risolto dal libero scambio di detti diritti sul mercato.
Secondo tale interpretazione per conseguire l’efficienza giuridica basta rimuovere gli ostacoli che
impediscono il libero scambio dei diritti, i quali sono spesso vaghi e indeterminati e ciò rende difficile
stabilire quale sia il loro valore.
L’efficienza giuridica deve essere assicurata definendo con maggior chiarezza la natura dei diritti attribuiti
dalla legge ai singoli e tutelando la validità dei contratti di vendita dei diritti stessi stipulati dai privati.
—Secondo gli economisti per allocare le risorse sui mercati in modo efficiente oltre alla libertà di scambio
sono necessarie altre condizioni:
1. Riguarda il concetto di costi di transazione (in senso stretto si riferiscono al tempo e agli sforzi richiesti
per portare a buon fine una transazione —>se molto elevati possono bloccare il funzionamento del mercato
che altrimenti sarebbe efficiente) (in senso ampio sono tutti gli usi delle risorse necessari per negoziare e
far valere gli accordi).
Secondo il teorema di Coase l’allocazione iniziale dei diritti non pone problemi i termini di efficienza fin
tanto che i costi di transazione sono nulli —> il legislatore dovrebbe preoccuparsi di rendere più snelli i
meccanismi dello scambio.
—>Se in assenza di costi di transazione si raggiunge l’efficienza, ovvero un massimo di benessere
collettivo lo scopo del diritto è: evitare di creare nuovi costi di transazione, abbattere quelli esistenti, o
favorire la realizzazione delle transazioni che gli interessati avrebbero realizzato in assenza di costi di
transazione.
—CRITICHE:
lato economico:
••Secondo molti l’impianto della microeconomia neoclassica a cui la EAL delle origini faceva riferimento è
ormai superato —>la EAL però ha dimostrato una notevole capacità di adattamento, rinnovo e integrazione
di teorie e paradigmi provenienti dalla scienza economica.
••Le scoperte di psicologia e economia comportamentale hanno assertato un duro colpo al
modello di homo oeconomicus obbligando l’EAL a un ripensamento dei suoi assunti
Lato giuridico:
••Critiche riguardanti l’incapacità dell’incapacità dell’EAL di cogliere l’importanza dei diritti umani, o le
questioni di giustizia distributiva, o di fornire una teoria generale del diritto che sappia rispondere alle
domande sulla natura del diritto.
••Critiche sul tale punto di vista sul mondo che non è mai neutrale: il punto di vista di un sapere su un altro
sapere non è mai neutrale.
••Critiche sull’approccio riduzionista della EAL: 3 tipi di riduzionismo:
-Metodologico: il dominio dell’approccio economico al diritto è visto come una forma di riduzione dello
studio del diritto ai soli metodi economici —>molte critiche interne e tentativi di ristabilire equilibrio tra
economia e diritto.
-Riduzionismo antropologico: espressa nei termini di un sostanziale appiattimento della complessità del
comportamento e motivazioni degli individui alla singola metrica della massimizzazione dell’utilità,
trascurando altre dimensioni dell’agire umano
-Riduzionismo giuridico: concezione riduttiva dell’EAL delle norme giuridiche che se intese esclusivamente
come vincoli e incentivi trascurano il problema dell’obbligazione giuridica.
2. INSTITUTIONAL ECONOMICS
—In questa visione sono istituzioni non solo le organizzazioni giuridiche e politiche o le norme che
presiedono al loro funzionamento, ma anche il matrimonio, la famiglia, la borsa, la moneta, le imprese, i
partiti e i sindacati, la proprietà privata e il contratto.
—Per OIE si intende la corrente di pensiero americana di fine 19° secolo che si è sviluppata in
contrapposizione al formalismo deduttivo e astratto della scienza economica dominante.
Maggiori esponenti: Veblen, Mitchell, Commons.
Tale corrente ha definito in vario modo le istituzioni
Per VEBLEN le istituzioni sono le abitudini di pensiero ampiamente seguite e le pratiche che prevalgono in
un
dato periodo
Per COMMONS le istituzioni sono forme di azione collettiva che garantiscono il controllo la libertà e
l’espansione dell’azione individuale. Egli pone l’accento sulle basi sociali dell’individuo.
Il focus della ricerca dell’OIE è centrato sulla relazione tra micro e macro, tra azione individuale e livello
istituzionale. Gli istituzionalisti mirano a sviluppare un’analisi contestuale e storicamente situata di
specifiche istituzioni economiche o processi economici.
Le istituzioni quale specifico oggetto di studio dell’OIE hanno un’esistenza ontologica e una legittimità
empirica, cioè sono degne di studio tanto quanto gli individui.
Analisi sviluppate dagli autori riconducibili all’OIE riguardano Il modo in cui le istituzioni giuridiche
influenzano:
•••il sistema economico in generale.
CRITICHE: l’OIE è stata spesso accusata di aver fornito solo un insieme di idee sparse più che un vero e
proprio paradigma teorico alternativo all’economia ortodossa.
—La NIE condivide con l’OIE la premessa fondamentale che le istituzioni sono un fattore determinante
della struttura e performance economica.
Ha come riferimento teorico i lavori di molti studiosi che hanno innovato la scienza economica dalla
seconda metà del 900: Coase, Williamson, Buchanan.
• North:
Indaga il ruolo dello stato nello sviluppo dei sistemi economici per capire perché storicamente Alcuni
sistemi sono avanzati e altri regrediti —>North ha mostrato che buona parte dell’interazione sociale che
determina la crescita di un sistema economico sia influenzata dal quadro istituzionale e dallo stato—>
attraverso la sua istituzione garantisce i diritti di proprietà, il rispetto e l’applicazione dei contratti, riducendo
i costi di transazione, facilitando gli scambi e migliorando la performance dei sistemi economici.
CRITICHE:
• HODGSON :
Riflessione su alcuni limiti della NIE e riformulazione e sviluppo di alcune delle categorie chiave dell’OIE .
Limiti della NIE = la poca chiarezza concettuale nella distinzione tra regole e vincoli, formali e informali.
Non è chiaro se per regole formali si devono intendere le regole giuridiche legali e per informali quelle
illegali.
Non è chiaro se la distinzione tra formale e informale deve intendersi in termini di regole espresse o tacite o
regole frutto della progettazione umana e regole sviluppatesi spontaneamente. Inoltre, North ha definito in
vari modi le istituzioni chiamandole regole e vincoli, lasciando intendere che le regole siano un caso
specialedei vincoli ma se ciò accade allora tutte istituzioni sono formali.
Hodgson evidenzia poi come la concezione delle istituzioni come vincoli tradisca l’assenza di una seria
riflessione sul fondamento di legittimità delle istituzioni e sul problema di obbedienza alle istituzioni.
Secondo Hodgson spiegare le istituzioni in termini di incentivi o sanzioni associate alle regole è
insufficiente poiché non spiegherebbe come le persone comprendono interpretano o valutano le sanzioni e
gli incentivi
—>muovono un gioco fondamentale invece le abitudini cioè il meccanismo psicologico mediante il quale gli
individui acquisiscono le disposizioni per impegnarsi in comportamenti precedentemente adottati o Acquisti.
Esse sono materiale costitutivo delle istituzioni che le dota di stabilità nel tempo potere e autorità
normativa.
• Altri critici
hanno sottolineato come l’NIE muova assunti antropologici discutibili o riduttivi rendendo la
nozione di istituzione estremamente riduttiva dandogli importanza solo perché costitutrici di vincoli e
lasciando sullo sfondo fattori determinanti dello sviluppo economico come le idee, le ideologie e l’etica.
3. LIBERTARIAN PATERNALISM
Il Libertarian Paternalism (LP) esprime l’idea che sia possibile e legittimo che le istituzioni pubbliche e
private influenzino il comportamento delle persone (tipico del paternalismo) rispettando al tempo stesso la
loro libertà di scelta (tipico libertario) —>
Tale espressione è stata coniata nel 2003 da THALER e SUNSTEIN, ed ha avuto maggior risonanza e
influenza soprattutto nell’ultimo decennio.
Tale approccio è nato da una critica all’anti-paternalismo fondata sui risultati della psicologia e della
economia comportamentale.
Secondo Thaler e Sunstein l’anti-paternalismo si basa su un assunto falso e almeno due idee sbagliate:
—•il falso assunto è che le persone fanno scelte che sono sempre nel loro migliore interesse —> psicologia
e economia comportamentale hanno dimostrato che non è vero: che hanno dimostrato che i processi
decisionali dell’individuo sono soggetti ad errori sistematici che vanno a scapito del suo benessere —>in
ottica di LP tali errori decisionali sono casi di fallimenti del mercato comportamentali, sono quindi utilizzati
per giustificare la regolamentazione pubblica improntata sul paternalismo.
—•La prima idea sbagliata dell’anti-paternalismo è che ci sono valide e praticabili alternative al
paternalismo. In molti casi infatti il paternalismo è inevitabile: soggetti privati o pubblici devono fare scelte
che condizionano inevitabilmente le scelte di altre persone.
—•La seconda idea sbagliata è che il paternalismo implichi sempre la coercizione.
Infatti, si possono scegliere diverse politiche paternaliste:
•Vi è una distinzione tra paternalismo dei mezzi e dei fini. Quello dei mezzi cerca di influenzare le scelte
degli individui relative ai mezzi, quello dei fini influisce direttamente sui fini attraverso obblighi e divieti.
•Vi è distinzione tra paternalismo forte e debole. Quello debole mira a preservare la libertà di scelta, con
quello forte entra in gioco la coercizione.
Le politiche di Nudging rientrano generalmente nella categoria del paternalismo dei mezzi e in
quello debole.
—CRITICHE:
Il LP è stato oggetto di molte critiche quali:
1. Chi controlla il controllore? I funzionari pubblici e gli esperti di Nudging potrebbero essere influenzati da
pressioni o lobbying di potenti gruppi privati oppure potrebbero commettere errori sistematici .
2. Per alcuni studiosi il criterio di riferimento normativo sottostante è ancora quello dell’homo oeconomicus
nonostante i suoi esponenti dicano il contrario.
3. Altre critiche sono state mosse sul potenziale carattere manipolativo di certi interventi di Nudging.
4. Altro problema è la difficoltà di distinguere tra paternalismo dei fini e quello dei mezzi, spesso infatti
le scelte dei mezzi da utilizzare riguardano i fini da raggiungere.
5. Il problema più rilevante è quello della libertà. Il LP considera solo la libertà di scelta o alcuni aspetti di
questa ma tralascia completamente altri aspetti della più ampia nozione di libertà e del suo rapporto con la
dignità umana.
Parlare di Humanities significa provare a opporsi a questo sistema, a farlo all'interno di un sapere, il diritto.
Come rileva criticamente Bockenforde: LO STATO LIBERALE CONTEMPORANEO NON RIESCE PIU A
GARANTIRE I PRESUPPOSTI ANTROPOLOGICI SU CUI PUR SI FONDA. Si tratta di dire che il diritto è
anche letteratura musica teatro retorica, poiché quelli sono FRUTTI e non prodotti del pensiero e della
cultura, tra i quali vi è anche il diritto.
Come nella banalità del male: oggi vige l'assenza di pensiero. Stiegler: critica le nuove tecnologie,
indicando come oggi si sia invertito il rapporto tra controllore e controllante: non siamo noi a controllare
Google e i suoi processi di ricerca, è bensì il motore di ricerca che sottopone idealmente a critica i nostri
comportamenti e rappresenta un vero e proprio standard normativo a cui dobbiamo alienarci: LA
VALUTAZIONE SI TRASFORMA QUI IN CONTROLLO. Oggi l'essere presente sui social network assume
un tratto di sovranità emblematica, se letta da una prospettiva estetico-giuridica: come un tempo il
battesimo, e poi la cittadinanza, faceva entrare in un sistema sovrano (la chiesa lo stato), oggi l'accesso ai
social network getta dentro un sistema che aspira ad essere sovrano.
IL RAPPORTO TRA UOMO E MACCHINA si inverte: la domanda se le macchine possano pensare rischia
di trasformarsi nella ingiunzione all'uomo di comportarsi come una macchina, vale a dire di non pensare: v.
assenza di pensiero rilevata da Arendt, veicolata dal venir meno del controllo di quel quarto potere. Il
rischio è di rendere l'uomo parte del mondo digitale costruito per le macchine, svuotando di senso i
processi di comprensione e lettura critica. La nuova possibilità di manipolazione della verità tramite l'uso
dei social network (fake news, la politica via twitter) sono un tratto che rappresenta uno dei punti critici delle
democrazie liverali contemporanee. Pratiche come la scrittura a mano e la lettura hanno cerato nell'uomo
competenze specifiche plasmando il suo cervello e le sue sinapsi: il passaggio dal reading brain al digital
brain (Carr) è in corso e non sappiamo ancora quale sarà l'esito.
La nozione proposta da Stiegler di psicopotere: intesa come un apparato di cattura dell'attenzione legato a
insieme di situazioni di servitù volontaria, manipolazione, anestesia del pensiero, caratterizzerebbe la
nostra condizione DISUMANA contemporanea. Questo è un problema che accompagna la filosofia dai suoi
esordi: già Platone e Socrate temevano che la nuova tecnologia della scrittura conducesse a una sorta di
incapacità di memorizzare e di pensare - e dunque di indebolimento dell'umano. Le nuove tecnologie oggi
come ieri sono dunque un PHARMAKON: al tempo stesso rimedio e veleno (Derridà). Sono oggetto di un
uso ambivalente. Stiegler propone una farmacologia: una terapia fondata sull'emergere di una nuova forma
di pensiero critico.
Affectio iuris:
Padre della svolta retorica Parelman: ritorno al sapere retorico in ambito giuridico, Il trattato
sull'argomentazione. La nuova retorica 1958. -> indicare il senso delle humanities nell'insegnamento del
diritto. Uno dei primi articoli di Parelman all'indomani della fine della seconda guerra mondiale muove dalla
critica all'orribile evento dell'Olocausto e indica una strada per riproporre il problema etico del diritto.
Avvalorando l'uso civile della retorica, pensata come metodo, potenzialmente dotato di una valenza etica
nel trattare la questione della verità al di fuori del dominio esclusivo della ragione -> egli giunge a
estendere anche all'ambito delle passioni e dei valori l'ambito di riflessione sul concetto di giustizia.
Secondo Parelman, all'accostamento metafisico in filosofia, volto alla conoscenza dei principi primi
immutabili, si contrappone costantemente nella storia del pensiero un diverso atteggiamento: lo scetticismo
(e poi il nichilismo) che muove invece dalla negazione della possibilità di individuare tali principi primi,
rinviando le scelte all'ambito del contingente -> filosofia prima negativa, negazione dell'esistenza di ogni
principio assoluto. V. Popper: problema circa la giustificazione del principio di verificazione: per Popper non
è esso stesso scientifico, bensì ha uno statuto di filosofia prima, è un'affermazione metafisica, perché non
può essere esso stesso provato vero tramite un esperimento, cioè tramite il criterio che statuisce, è
un'asserzione che fonda una metafisica della scienza. E così, al fine di mantenere una demarcazione fra
scienza e metafisica, la proposta popperiana, è di sostituire la verificazione con la falsificazione. La scienza
è quella conoscenza in cui è possibile una falsificazione delle teorie, attraverso esperimenti che ne provino
la falsità. Un simile paradosso -> affligge il pensiero neopositivistico anche nel diritto: la norma
fondamentale kelseniana fonda la gerarchia delle norme validamente poste senza essere essa stessa una
norma posta e valida, ma solo logicamente presupposta. Anche il positivismo scientifico o giuridico quindi si
fonda su un principio primo che tuttavia non può essere fondato ma solo creduto necessario.
Scetticismo nichilismi e scienza: incapaci di fornire risposta al problema dei valori e della giustizia, senza
sfuggire al problema del ricorso a una qualche filosofia prima.
Una risposta si può trovare solo nel coinvolgimento della resposnabilità personale e della scelta libera (ma
ragionata) del filosofo. In questo senso si deve intendere la rivalutazione della retorica che rappresenta una
sorta di terza via in grado di porre la serietà antropologica e storica del problema della responsabilità e
della giustizia contro le posizioni scettiche.
L'assunzione della retorica come terza via, implicando la resposnabilità e la scelta, fa tornare a prendere in
conto quell'ambivalenza di fondo della condizione umana che già Pico aveva indicato nel configurare
l'uomo come un camaleonte in grado di innalzarsi o inabissarsi e che Stiegler postula alla base di una
farmacologia per le nuove sfide antropologiche che la tecnologia pone all'uomo di oggi: l'ambivalenza che
le humanities provano a custodire, facendo una rappresentazione realistica della condizione umana. Di
fronte al carattere realistico di tale ambivalenza, la retorica cerca di fornire una risposta che non si riferisce
a verità universali ma relative alla situazione e contingenti, senza escludere l'ambito della ragione e senza
ridursi al mero arbitrio ritenuto irrazionale. La retorica apre lo spazio della discussione pubblica, civile,
collettiva, democratica, la cui forma giuridica è la continuazione della rappresentazione letteraria, teatrale.
Le humanities hanno un valore critico: indicano la rilevanza del problema dell'ambivalenza della libertà,
senza identificare una troppo facile soluzione. NON SI SFUGGE AL PENSIERO, AL CONFLITTO, L'ESITO
RIMANE SEMPRE APERTO; l'uomo è ancora quel camaleonte di Pico che può elevarsi o inabissarsi e per
questo è importante la sfera della responsabilità, individuale e collettiva, che il diritto custodisce.
Vico: con la sua opera rilegge in senso civile la retorica classica, pure egli considera l'ambivalenza
dell'uomo che può creare paradisi o inferni sulla terra.
Le humanities possono creare umanità nel giurista, rinviando a un oltre la legge che è fondativo di ogni
secondum legem che aspiri alla giustizia. Esse possono proporre percorsi di individuazione che la libertà
del singolo può decidere come utilizzare. Vico contrappone una scienza nuova, antropologica, letteraria,
anticipando la crisi del positivismo e fondando la ripresa dei saperi umanistici.
Spinoza critica il dualismo cartesiano, e cerca di ridurre a una sola sostanza l'intera conoscenza, cosa che
fa anche Vico cercando di tenere insieme il vero e il fatto.
Condizione di ambivalenza come condizione realistica in cui umano si trova ad esistere. Vico
contrariamente a Cartesio restituisce ai saperi umanistici il compito di rendere conto della condizione
umana.
Il linguaggio riduce la complessità dell'esperienza, che proprio per questo deve essere avvertita in modo
non linguistico. Per questo la giustizia non può essere ridotta al linguaggio della legge, deve essere anche
avvertita, percepita. Il linguaggio delle humanities costruisce questa sensibilità umanistica e possono
servire a costruire strumenti per criticare il riduzionismo del positivismo. Esse non sono un insieme di
contenuti teorici ma rappresentano una esperienza da fare, in cui il vero, o una rappresentazione di esso
deve essere fatto. Esse possono costituire il fondamento per una svolta affettiva in filosofia e nel diritto, da
intendersi non in opposizione alla legge, ma come suo sviluppo.