Sei sulla pagina 1di 76

lOMoARcPSD|6281793

Dimensioni DEL Diritto - filosofia del diritto

Filosofia del diritto   (Università degli Studi di Verona)

StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)
lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 1: GIUSTIZIA
1. Rapporto fra diritto e giustizia?
Giustizia È bisogno umano fondamentale e costante, fatto storico e sociale incontestabile
Kelsey: se un bisogno non può essere soddisfatto grazie alle conoscenza razionale, non significa che si
debba rinunciare ad esso.
Esseri umani non hanno mai smesso di cercare la giustizia, di valutare i comportamenti loro, dei sovrani e
le leggi.
Cercando di realizzare le aspettative di giustizia, si condiziona il diritto. Il diritto è condizionato dalla
domande di giustizia e dal bisogno di essa.
Bisogno che si manifesta in aspettative sociali, ideologie , sistema di valori, principi... non si può pensare ai
sistemi giuridici senza far riferimento alla giustizia.
Ogni definizione di giustizia ha ricadute sulla vita di un ordinamento, sul comportamento di soggetti.
Come la giustizia ed il suo bisogno condiziona il diritto e la vita degli ordinamenti?

2. Giustizia: una mappa storico-concettuale


Ernst Bloch “Che cosa è giusto?” (Pensiero giusnaturalistico). Il problema della giustizia non può essere
accantonato tantomeno il rapporto giustizia e diritto.
Il giusnaturalismo ha sempre affermato la necessità che nel diritto positivo siano costantemente integrati i
principi del diritto naturale, per garantire l’esigenza di giustizia. Nesso tra diritto e giustizia è stata la
funzione storica del giusnaturalismo.

2.1—Tre paradigmi per tre epoche:


—Giustizia nel mondo classico:
Filosofia di giustizia legata alla riflessione sulla realtà e sulla relazione fra realtà ed il soggetto che conosce
ed agisce.
La realtà inizialmente intesa in senso materiale, e poi spiritualizzata come principio di ragione o ordinatore,
o come idea. Realtà intesa come un dato oggettivo, come creatore di orizzonte all’interno del quale il
soggetto opera e conosce, e un dato a partire dal quale riflettere su azioni umane e strutture sociali.

nel pensiero classico greco è stata elaborata una filosofia della giustizia dipendente dalla speculazione
sulla realtà e sulla relazione tra realtà e il soggetto che opera e conosce. La realtà è vista come un dato
oggettivo, un presupposto nel quale il soggetto opera e conosce, e dunque un dato su cui riflettere per
quanto concerne le azioni umane e le strutture sociali. Giustizia come: PRINCIPIO DI ORDINE MORALE
(ciò che da ordine e valore alle azioni umane); PRINCIPIO COSMICO (che determina l'ordine necessario
della realtà fisica). Tale omogeneità e cioè tra ordine della realtà e dei rapporti umani è messo in
discussione dalla sofistica. Per la sofistica l'ordine naturale è conoscibile e comunicabile. Assume rilievo il
RUOLO DELLA LEGGE POSITIVA determinata dal ruolo degli uomini e che richiede capacità retoriche e
dialettiche per potersi affermare.
Platone, Aristotele emerge l'idea di giustizia come ORDINE e come corrispondenza tra ORDINE
NATURALE, SOCIALE E MORALE. Per Platone il concetto di ARMONIA si raggiunge solo quando la
RAGIONE domina sulle passioni, bisogni, impulsi, quando governano i sapienti lo STATO. Per Aristotele la
giustizia assume connotati differenti a seconda del tipo di relazione a cui si riferisce. Il concetto di Aristotele
dall'universale al particolare e dalla visione della giustizia come principio a quella della giustizia come virtù
viene poi approfondito dallo STOICISMO (si afferma l'idea di una giustizia come dominio della ragione sulla
vita e di una ragione omogenea a quella che domina la realtà fisica).

—La giustizia nel medioevo Cristiano:


Sant'Agostino 354-430 (PATRISTICA) Viene messo a fuoco in primis il rapporto di dipendenza tra
L'INDIVIDUO E LA VERITA", dunque fra la ragione umana e il LOGOS che fonda l'ordine del reale. L'uomo
è in grado di esercitare il logos e di indagare l'ordine della realtà, ma non e in grado di comprenderlo
pienamente. La VERITA' appartiene a DIO e solo ad egli perché Dio è questa verità. L'ordine è ratio vel
voluntas Dei, ragione o volontà di Dio.
RAZIONALISMO→ PENSIERO TOMISTA → LEGGE COME ORDINATIO RATIONIS.
La legge che gli essere umani producono è un ordine della ragione ed è orientata al bene umano in quanto
conforme alla legge naturale ( orizzonte). VOLONTARISTI: l’ordine della realtà è assunto come frutto della
volontà di Dio, come oggetto di un'obbedienza piena e meta-razionale dell'essere umano, che si riconosce
come sottomesso alla volontà divina. Dio crea la realtà e impone a essa una legge e un ordine

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

nell'esercizio della sua potenza limitata solo al principio di non contraddizione. Ciò che pare giusto o
ingiusto è tale solo perché ordinato cosi da dio. Tutto assume valore in quanto posto da dio.
Ragione umana = strumento per conoscere la volontà divina
Ordine = comando non disposizione razionale MEDIOEVO: si inizia a cristallizzare una differenza tra
giustizia e bene. Si inizia ad affermare l'idea che ciò che è dovuto per giustizia non coincide
necessariamente con ciò che è buono in senso morale. —Nella classicità bene e giusto sono dimensioni
interne al medesimo ondine, alla medesima legge che governa l'intera realtà
—Con il cristianesimo l'amore per dio e per il prossimo (dimensione ultima del bene morale), non hanno a
che fare con la giustizia ma la superano.

—LA giustizia nel mondo moderno:


Il pensiero giuridico e politico compie una radicale svolta in senso individualistico, razionalistico e
secolarista: questi 3 elementi sono comuni all'età moderna.
• L’individualismo è dato dal fatto che l’individuo singolo è non soltanto il centro dell'interesse speculativo,
ma il principio a partire dal quale l'ordine sociale viene ricostruito. Le grandi TEORIE
CONTRATTUALISTICHE a partire da Grozio, Hobbes, Locke muovono dall'idea che l'ordine politico è il
risultato di un accordo fra gli individui ( sono la società e la realtà politica a dover essere ordinate sulla
base delle necessità e della volontà degli individui che le compongono). L’idea di giustizia si costruisce a
partire dal soggetto, l’individuo la costruisce per se insieme ad altri. Il rispetto del principio pacta sunt
servanda (Hobbes) e la garanzia del diritto di proprietà alla vita e della libertà (Locke) sono la premessa di
un accordo fra individui finalizzati alla tutela del bene personale di ciascuno.
• Razionalismo: La ragione è il principio dell’ordine, è la misura della verità delle cose (≠ pensiero classico
o medievale che usavano la regione per indagare su un ordine di per se razionale). Il discorso sul metodo
di Cartesio e l’opera di Galileo, mostrano che non ce una ragione metafisica esterna all’individuo, ma è il
soggetto che usando un metodo razionale scientifico deve elaborare una spiegazione razionale dei
fenomeni ed edificare una struttura razionale della vita ci ile.
• Secolarismo: decisa indipendenza dalla fede e dai problemi teologici, separazione tra sfera del sacro e
del profano. Il diritto naturale (da Grozio) non ha più bisogno di essere compreso con la fede, perché la
ragione ne garantisce autonomia e conoscibilità. (In Hobbes) L’ordine sociale e la giustizia non si fondano
più sulla ratio vel voluntas dei, ma sulla ragione e volontà dei soggetti, che costruiscono questo ordine
all’interno di una realtà che la loro ragione ha il compito di comprendere a pieno:

2.2—Una mappa concettuale: Definizioni ed elementi di giustizia:


Giustizia tematizzata come ordine; armonia ed equilibrio, come constans et perpetua voluntas ius suum
cuique tribuendi, come eguaglianza, retribuzione, reciprocità , principio di distribuzione...
analisi di alcune caratteristiche che in tali definizioni si trovano, e di alcune tipologie all’interno delle quali
ricondurle.

Caratteristiche della giustizia:


• RELAZIONALITÀ= giustizia ha a che fare con la relazione con un altro soggetto al quale si deve
qualcosa. Non si può essere giusti o ingiusti da soli ne verso se stessi (sosteneva Aristotle). La giustizia si
distingue dal bene morale. Si tratta di rapporti orizzontali di scambio , o verticali di distribuzione o
attribuzione di colpe o meriti. La giustizia si può predicare sempre in comportamenti ed azioni relative a
qualcun’altro. Giustizia come eguaglianza o principio di distribuzione non è pensabile senza la relazionalità.
• AGENCY= la giustizia fa appello all’azione umana, a come i soggetti operano nel mondo e lo modificano.
Implica fare o non fare in rapporto all’azione umana. Non sono qualificabili come ingiusti gli Stati naturali o
ciò che non dipende dall’azione umana (terremoti malattie, ciò che dipende da fattori naturali climatici ecc).
Ciò che può essere qualificato in giustizia è il modo in cui i singoli (o istituzioni) stabiliscono di agire in
relazione a tali eventi o condizioni. La giustizia si fa, si agisce, è relativa alla sfera dell’inter-azione umana.
• DOVEROSITÀ= Dare a ciascuno il suo implica che questo sia riconosciuto come doveroso, che non si
tratti di generosità. Giustizia genere doveri e diritti, obbliga ad azioni reciproche, non favori o atti di carità.
La giustizia implica due conseguenze: 1) la COERCIBILITÀ DELLE AZIONI AD ESSA CONFORMI. Ciò che
è giusto viene esigito, e viceversa. //ES// si ritiene giusto che i genitori mantengano istruiscano ed educhino
i figli, (art30 costituzione); e così pure perché doveroso un figlio può esigere che tale obbligo sia
adempiuto./ 2) ciò che è giusto viene PRETESO, e motiva richieste pubbliche e rivendicazioni. //ES// inizio
900 donne lottarono per diritto di voto, lo rivendicavano in termini di giustizia come preteso e doveroso, e
oggi tale diritto lo consideriamo riconosciuto e non graziosamente concesso./

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Giustizia sostanziale, formale, procedurale:


Nessuna di queste definizioni fa riferimento ai contenuti della giustizia stessa.
Teorie della giustizia:
⁃ FORMALE= la giustizia si risolve nell’individuazione dei principi per l’azione e nell’applicazione di tali
principi in modo imparziale e rigoroso. Teorie che elaborano le condizioni necessarie affinché le relazioni
sociali si possano effettuare in termini di giustizia, senza garantirne però l’esito delle relazioni poiché
maggiormente determinato da fattori naturali. (Teorie liberali= teorie formali della giustizia). Il sistema
sociale e le azioni di visuali sono giustificabili nella misura in cui avvengono secondi debole prestabilite e
nel rispetto di certi principi fondamentali. Teorie di Hayeck, Nozick: il mercato diventa la struttura della
giustizia, garantisce a tutti uguali possibilità di accesso a risorse beni e opportunità, e stabilisce le
condizioni per l’accesso ad essi e le regole affinché i trasferimenti siano corretti; tutto questo si stacca dagli
esiti dei trasferimenti però , è a carico dei singoli il termine della transazione poiché dipende da fattori non
controllabili. Le Teorie FORMALI si occupano delle precondizioni necessarie affinché i rapporti sociali
possano essere giusti, ma non degli esiti interni sociali che non sono controllabili . Teorie ex ante, non ex
post.
⁃ SOSTANZIALE=riferimento ai soggetti destinatari della giustizia e ai criteri per determinare cosa in
concreto tali soggetti debbano avere o dare. Definire i soggetti e a che cosa abbiano diritto. Non basta dire
che tutti hanno diritto, ma da definire con precisione. Specificare inoltre il contenuto di tali diritti le modalità
di garanzia di essi, affinché ciò che è dovuto per giustizia sia effettivamente fruibile e possibili dai soggetti.
Teorie sostanziali principalmente venuto dalle teorie femministe, da studi su disabilità e prospettive
multiculturali: dalle categorie le quali condizioni è segnata da svantaggio e vulnerabilità:
⁃ PROCEDURALI= 900 Rawls e Habermas: ritenere che una procedura ritenuta giusta ed equa, possa
trasferire il suo valore agli esiti della sua applicazione. Ne esistono di due tipi: PURA in cui la giustizia
dell’esito dipende puramente e semplicemente dall’applicazione della procedura, e la verifica dell’effettivo
valore dell’esito è inutile. IMPERFETTA quando esiste un criterio esterno che permette di valutare l’esito
della riceduta ma non si dispone di una procedura che infallibilmente garantisce equità e accettabilità di
esso, garantendoli solo come probabilità. È la più frey ehehe soprattutto nelle procedure giuridiche.
(Procedure giudiziarie che non garantiscono infallibilmente la giustezza dell’esito, ma giustificabili in quanto
garantito con maggiore probabilità e garanzie rispetto ad altre procedure). Teorie di Rawls e Habermas:
Rawls= scelta di principi fondamentali sui quali basare la distribuzione di beni e opportunità tra membri di
società, è affidata ad una procedura, un contratto sociale stipulato dietro un velo di ignoranza, da individui
che non conoscono le proprie caratteristiche ne il loro ruolo nella società. La teoria di Rawls individua due
principi per la distribuzione dei beni e delle opportunità, quello di eguaglianza e differenza (secondo
meccanismo del maximin), cioè non sapendo nulla della propria identità e condizioni, coloro che stipulano il
contratto sociale sono portato ad accordarsi intorno ad una distribuzione egualitaria ed ammettere
diseguaglianza quando costituiscono benefici compensativi per i meno svantaggiati. Habermans= giustizia
è indipendente dal bene morale soggettivo, ed è esito ed oggetto del discorso pubblico razionale. La
valutazione delle normale e scelte politiche è frutto di un consenso tra soggetti che accettano la
discussione pubblica razionale e regolata come unico strumento idoneo a produrlo. Accettano di
considerare giustificabili solo le scelte create da un accordo al termine di un dialogo equo e paritario,
aperto e tutti e razionale. La giustificabilità della procedura si trasferisce agli esiti, che però non sono
determinati ne determinabili ex ante.

3. GIUSTIZIA E DIRITTO
Indagine tra i rapporti fra la giustizia e la vita della dirotto e degli ordinamenti: 3 prospettive:
1- dal punto di vista dell’ordinamento nel suo complesso = giustizia come LEGALITÀ =
2- dal punto si vista della singola norma = giustizia come CONFORMITÀ AD UN ORDINE DI FINI O
VALORI ulteriori al diritto
3- dal libro di vista della persona che agisce =

Pur facendo riferimento ad uno stesso concetto, si utilizza il parametro della giustizia in modi differenti.

L’unica cosa in comune tra queste tre prospettive, è in riferimento ad un criterio di giustizia come ORDINE:
quando consideriamo l’azione del singolo, facciamo riferimento alla giustizia come conformità ad un
d’ordine normativo dato e si ritiene che sia giusto ciò che è conforme alle norme vigenti e rilevanti per
quella specifica azione .
Una singola norma può essere considerata giusta o ingiusta in ragione della sua conformità ad un sistema
di principi ad essa superiori, con riferimenti in ogni caso ad un sistema (ordine) di principi in ragione dei
quali la singola norma viene giudicata giusta o meno.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Il comportamento del singolo o la singola norma, vengono ritenuti in caso giusti se conformi ad un ordine di
valori che in quanto superiori al diritto stesso, ne rappresentano il criterio di giustificazione o il fondamento.
Non è la conformità ad un ordine normativo a rilevare, ma la conformità a fatti o valori esterni al diritto e ad
esso superiori.

3.1—Giustizia, validità, efficacia: Altri criteri di valutazione del diritto


—GIUSTIZIA-VALIDITÀ = giustizia ha come oggetto la valutazione esterna del diritto in rapporto a valori/
criteri metagiuridici; la validità ha oggetto la valutazione INTERNA del diritto stesso ovvero in rapporto a
criteri intra-giuridici
Di conseguenza una norma è giusta de e riconosciuta come idonea ad attuare e realizzare uno o più valori,
ritenuti tali soggettivamente, o percepiti come oggettivi perché evidenti o perché contenuti in una
rivelazione religiosa, o accettati come tali in un momento storico. Comunque in tutti questi casi una norma
o comportamenti sono ritenuti giusti nella misura in cui sono idonei ad attuare tali valori e finché sono
conformi ad essi.
Il problema della validità è interpretabile come un giudizio di fatto sulle norme, relativo all’esistenza di una
data norma all’interno di un determinato ordinamento. La validità ha infatti riferimento all autorità che è
fonte di quella norma e alle modalità su produzione della norma stessa: una norma e valida se posta da chi
ha il potere di farlo e nelle forme previste.
Vi sono però anche criteri sostanziali per determinare la validità, poiché negli ordinamenti sono presenti
una serie di principi che operano come vincoli sostanziali alla produzione normativa: quindi una norma e
valida sia per essere stata posta in modo conforme ai criteri formali che disciplinano l’attività normativa, ma
anche perché coerente con i limiti sostanziali che la costrizione pone al potere legislativo, si tratta di criteri
interni all’ordinamento.
—EFFICACIA = Il criterio dell’efficacia fa riferimento all’EFFETTIVITÀ ovvero alla concreta capacità della
norma di condizionare le condotte dei soggetti cui è destinata. Una norma può infatti esistere
nell’ordinamento, essere giusta o ingiusta, ma non avere alcuna effettività perché disapplicata dai soggetti
cui è destinata; come viceversa ci sono norme che esistono sul piano materiale perché di fatto seguite dai
soggetti pur non esistendo formalmente. No
Quello sull’’effettività è un criterio storico e sociologico: esso valuta il grado cui una norma viene
effettivamente seguita ed applicata, all’interno di un determinato contesto sociale.

Criteri distinti o indipendenti?


Giusnaturalismo: il diritto contrastante con la giustizia non è vero e autentico diritto, e non può essere
obbligatorio. Un diritto ingiusto non è diritto e non deve essere obbedito. C’è una connessione forte tra
ESISTENZA giuridica di una norma e il VALORE della norma stessa.
Il positivismo giuridico rende indipendente il criterio dell’esistenza o validità, dal criterio del valore o
giustizia del diritto. La norma che esiste all’interno dell’ordinamento ed è obbligatoria, indipendentemente
dal suo valore morale e dalla sua conformità a ideali o criteri di giustizia.
Kelsen e Hart sostengono la teoria della SEPARABILITÀ TRA DIRITTO E MORALE, in ragione della quale
il diritto ingiusto è comunque giuridicamente valido e obbligatorio.
Il positivismo così e un approccio AVALUTATIVO allo studio del diritto, cioè un tentativo di studiare il diritto
scientificamente come fatto invece che come valore. Il valore di giustizia di una norma quindi non è
problema giuridico, ma politico e morale, perché la conoscenza del diritto e indipendente dalla valutazione
del diritto stesso, e delle norme che lo compongono, quindi non è compito della scienza del diritto porsi il
problema di giustizia.
La connessione tra diritto e valori, giustizia e validità, ha dimensione diversa a seconda dell’epoca. In
quella contemporanea, molti ritengono che la distanza tra giustizia e validità sia stata parzialmente
colmata. L’ordinamento neo-costituzionalista ha fatto leva sull’importanza dei principi costituzionale e sul
ruolo delle corti nel l’interpretazione di questi principi, tentando una via intermedia tra giusnaturalismo e
positivismo giuridico.
Secondo Dwirkin , i principi costituzionali esprimono esigenze di giustizia, e rappresentano standard morali
politici e giuridici: la costituzione contiene valori di giustizia nei principi fondamentali, che le corti hanno
compito di determinare bilanciare e interpretare.
Secondo Alexy, la constitution si pone come fondamento di validità e di giustizia dell’intero ordinamento;
non si sostiene che la legge non possa di fatto essere ingiusta o che non possa essere ritenuta tale, ma
secondo Alexy il diritto può non pretendere per se un certo grado di giustizia poiché un diritto che si
qualifica come ingiusto sarebbe assurdo e irriconoscibile come diritto. Quindi quando e dove si vuole che
un qualcosa sia percepito come diritto, non basta che abbia la forma di esso, ma è necessario che si ponga
come idonei alla realizzazione di giustizia.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Difficile però che il neo-costituzionalismo possa superare opposizione tra giusnaturalismo e positivismo:
l’incorporazione dei valori nel diritto non implica che le norme positive si fondono su valori morali o su un
ordine di giustizia, poiché i valori costituzionali formalizzati sono anche essi norme giuridiche cioè criteri di
validità. E non implica nemmeno che questi valori siano per forza riconosciuti, l’incorporazione dei valori
negli ordinamenti con le costituzioni è un dato storico ma non necessario dal punto di vista teorico. Il diritto
è pensabile come valido anche quando quei valori non siano affermati o riconosciuti, il diritto ingiusto può
essere perfettamente valido quindi.
In SINTESI: è vero che negli stati costituzionali di diritto l’ordinamento incorpora criteri di giustizia necessari
per stabilire cos’è diritto e cosa non lo è, ma questa funzione può essere svolta dai principi costituzionali
solo quando essi diventano norme giuridiche costituzionali, e non grazie al loro intrinseco valore o
razionalità; i principi valgono in quanto formalizzati in norme giuridiche, ma non per se stessi.

3.2—GIUSTIZIA ED EQUITÀ:
Dal punto di vista del giudizio e dell’applicazione della norma, il problema della giustizia diventa quello della
CAPACITÀ CONCRETA DEL DIRITTO DI RISOLVERE una lite, un torto, assegnare ragioni o torti: quella
determinata decisione può essere qualificato come GIUSTO o INGIUSTO, non soltanto conseguentemente
ad una corretta applicazione della norma, ma anche grazie alla concreta capacità di REALIZZARE LA
GIUSTIZIA NEL CASO CONCRETO.
(Aristotele) GIUSTIZIA vs EQUITÀ : la realtà delle relazioni umane ed i contesti nelle quali avvengono, non
riescono sempre ad essere disciplinate da norme generali ed astratte. La tensione tra il caso singolo e la
norma generale può produrre giustizia come anche ingiustizia nel caso specifico. La giustizia quindi, deve
essere integrata all’EQUITÀ che permette la considerazione delle circostanze del singolo caso adattando le
norme. L’esigenza di giustizia nel caso particolare è l’esigenza di una giustizia che si applica ai casi
particolari e nelle caratteristiche dei singoli.

3.3.—Il problema dell’obbedienza: certezza del diritto e limiti della disobbedienza:


Se ci si pone nella prospettiva del soggetto destinatario di norme, il problema diviene quello
dell’OBBEDIENZA: si tratta di capire se e fino a che punto si debba obbedire a una norma ingiusta, ma
valida e fino a che punto si debba spingere la disobbedienza alla norma.
- Se si guarda alla questione dall’ottica positivista, il problema dell’obbedienza e disobbedienza alla legge
ingiusta dipende dalla prospettiva che si assume.
1. Bobbio: Se si intende il positivismo come METODO (avalutativo), allora il problema diviene quello della
distanza fra diritto reale e diritto ideale: in tal caso la legge ingiusta deve può/deve essere
criticata, politicamente contestata e anche soggettivamente disapplicata, ma ciò nulla toglie
alla piena vigenza della norma stessa e alla sua obbligatorietà. In quest’ottica il positivismo è un
metodo per lo studio del diritto, non una regola d’azione per i singoli. (Bobbio)
2. Se invece si concepisce il positivismo come IDEOLOGIA, si può ritenere che la giustizia si riduca
alla validità e che dunque non sia giustificabile alcuna disobbedienza al diritto.

Ciò che comunque va sottolineato è che nel positivismo giuridico i giudizi di valore sono sempre soggettivi,
in quanto la decisione è fondata sull’ideologia morale/politica/religiosa del singolo.
L’unica conoscenza oggettiva possibile del diritto è quella di tipo avalutativo e fatuale e riguarda la
validità o efficacia del diritto e non la sua giustizia. Dunque, una norma sarà ritenuta ingiusta
sempre sulla base di valori propri e non sulla base di caratteristiche intrinseche alla norma stessa,
poiché non esistono criteri oggettivi in base ai quali operare tale valutazione.

-Nella tradizione giusnaturalista, il giudizio di valore sul diritto è sempre pensato come oggettivo. Per
questo il problema dell’obbedienza non è soggettivo, ma collettivo: chiunque di fronte a una norma
che si riconosce ingiusta dovrebbe negare la propria obbedienza, perché la giustizia di una norma è
questione di verità, non di opinioni.
Dunque, non essendo la legge ingiusta una vera legge, essa non merita obbedienza, non obbliga in
coscienza e anzi è doveroso riconoscere prevalenza alla legge naturale anziché alla legge umana
positiva: si deve obbedire alla verità delle cose piuttosto che al sovrano (cfr. Anigone).
Tuttavia, all’interno del comune paradigma giusnaturalista le cose sono più sfaccettate di così.
Non è infatti la mera ingiustizia che giustifica la disobbedienza, ma solo l’ingiustizia oltre una certa
soglia e particolarmente seria. L’ingiustizia infatti è una questione di grado.
Dunque, fino a un certo grado d’ingiustizia, l’obbedienza alla legge rimane comunque doverosa al
fine di preservare l’ordine della coesistenza civile, ordine che è a sua volta elemento costitutivo

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

della giustizia stessa. Se ogni ingiustizia giustificasse la disobbedienza, la coesistenza civile sarebbe
impossibile.
C’è pertanto un “giusto legale”, dipendente dalle leggi positive (identificabile con l’ordine che di per
sé le leggi garantiscono) che merita obbedienza fino a un certo punto. Quando però l’ingiustizia è
grave ed evidente (es. -> nel pensiero tomista, quando la legge umana contraddice la legge divina)
allora la tutela dell’ordine civile cede ripeto all’obbedienza alla verità e alla giustizia.
Questa forma menis ha avuto rinnovato successo con la formula di Radbruch (e concreta
applicazione nelle aule dei tribunali della DDR chiamati a giudicare dei crimini compiuti dai nazisti).
Secondo tale autore, il problema dell’obbedienza si inquadra, appunto, in un bilanciamento fra il
valore della giustizia e quello della certezza del diritto.
Quesi valori possono entrare in conflitto laddove la norma sia valutata come ingiusta. In quesi casi,
normalmente deve prevalere l’esigenza di certezza, ritenendo l’obbedienza a un diritto sostanzialmente
ingiusto preferibile al caos che sarebbe causato dall’assenza di diritto. Tuttavia quando l’ingiustizia diventa
intollerabile, in quanto contraria a ogni istanza di eguaglianza fra esseri umani, della legge non rimane che
il nomen e a ragione si può parlare di torto legale. In quesi casi la legge deve essere disapplicata,
disobbedita, negata come legge valida, a prescindere
dalla sua formale validità (cfr. con art. 7.2 CEDU, pg. 25)

4. CONCLUSIONE: DIMENSIONI ULTERIORI DELLA GIUSTIZIA


Necessità di contestualizzare la giustizia secondo il tempo e il luogo e i soggetti coinvolti. Spesso sono stati
trascurati i fattori sociali, condizioni politiche ed economiche e gli eventi storici.
— TEORIA: GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE= orizzonte di ricerca con il tema della giustizia in contesti post
bellici o successivi a violazioni di diritti umani. Oltre al problema di gestione e sanIone delle ingiustizie, c’è il
problema di ricostruzione di una ordinata e pacifica coesistenza civile (difficile in contesti in cui la società è
lacerata all’interno date le ingiustizie passate).
Quindi oltre al principio di retribuzione delle colpe con la punizione successiva, Così il diritto deve
considerate anche altre esigenze per perseguire la giustizia:
•L’ACCERTAMENTO DEI FATTI DEL PASSATO, impedirne la negazione e contestazione
•PUNIZIONE DEI RESPONSABILI DEI CRIMINI
•MEDIAZIONE TRA LA NECESSITÀ DI PUNIRE I RESPONSABILI E LA NECESSITÀ CHE LE
ISTITUZIONI FUNZIONINO ADEGUATAMENTE
•NECESSITÀ DI PERCORSO DI RICOSTRUZIONE DI LEGAMI SOCIALI, PACIFICAZIONE.

—TEORIA: GIUSTIZIA GLOBALE= si muove dalla consapevolezza della impossibile limitazione delle
questioni di giustizia ai contesti nazionali/locali. L’idea di giusto per natura è stata spesso affiancata all’idea
di giusto politico. Questa idea è evidente bei fenomeni di globalizzazione.
Avviene uno spostamento di piano delle questioni di giustizia dal livello locale a quello globale, con il
risultato il tema della giustizia con il cambio di orizzonte cambia anche i soggetti e gli oggetti della giustizia
stessa. La giustizia globale è pensata come indipendente dalle azioni individuali, e relativa all’opera di
strutture collettive o sistemi che necessitano un orientamento specifico.

La giustizia comunque, nel complesso rimane sempre un ideale da costruire, ma orizzonte irrinunciabile, in
quanto gli esseri umani hanno sempre pensato al diritto e alle relazioni giuridiche alla luce dell bisogno di
giustizia .
Vi è circolarità tra giustizia e diritto, perché se la giustizia è il fine del diritto (poiché strumento con cui
proteggere), è vero anche che il diritto è il fine della giustizia poiché l’attribuzione dei diritti e imposizione di
doveri è ciò che garantisce una dimensione della giustizia non solo morale ma anche giuridica.

CAPITOLO 2: POTERE
1. POTERE : Due facce della stessa medaglia:
‘Diritto e potere sono due facce della stessa medaglia’ hanno scritto due grandi teorici del diritto del ‘900.
Le parole di Alf Ross e Norberto Bobbio stanno a indicare come il diritto abbia sempre bisogno del potere
per farsi rispettare e ha quindi la forza organizzata come sua base e sostegno. Più in generale, può valere
per sostenere l’idea che la concezione che abbiamo dell’uno dipende dalla concezione che abbiamo
dell’altro.
Infatti, le grandi famiglie della filosofia del diritto e della scienza giuridica difficilmente possono essere
ridotte a sola concezione del solo diritto: esse sono anche concezioni del potere e del rapporto fra potere e
diritto. E si potrebbe infatti sostenere che quelle che chiamiamo concezioni del diritto sono in realtà
concezioni relative proprio a questo rapporto.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

La storia delle teorie giuridiche, è la storia del diritto e anche del potere, nel momento in cui non può essere
una storia dei rapporti tra diritto e potere.
Abbiamo a che fare con una convivenza necessaria e ineludibile, che può divenire talvolta travagliata
dando vita a una lotta che, in riferimento ad alcuni momenti, è definibile ‘quasi mortale’: ciò sopratutto
quando è stato il potere a voler assorbire il diritto totalmente e a presentarsi esso stesso come diritto.

Guardando alla storia del diritto e del pensiero giuridico, quando si parla di rapporti fra diritto e potere si
potrebbe dire che essi sono rappresentai da due tendenze opposte e contrarie:
1)quella del potere ad assorbire il diritto, facendosene padrone;
2)quella del diritto ad imbrigliare il potere fino a contenerlo, neutralizzandolo dentro le maglie delle norme
giuridiche.

La questione più rilevante in tale ambito – più che quella relativa all’ORIGINE (è il potere che genera il
diritto o viceversa?), forse insolubile e probabilmente inutile ai fini di stabilire chi debba stare al vertice di
una società organizzata – appare quella della NATURA di ciascun principio e dunque del limite che ognuno
di essi comporta per sé stesso e per l’altro, in quanto risolvibile e gravida di conseguenze sul piano pratico.
La trattazione di questo tema deve necessariamente partire dalla definizione di POTERE.
- potere è genericamente inteso come capacità di condizionare il comportamento altrui e di ottenere
riconoscimento e obbedienza,
-potere politico: legati quindi soprattutto al rapporto fra governanti e governati e alle modalità attraverso cui
i primi dirigono, controllano, condizionano la vita dei secondi.

È opportuno innanzitutto distinguerlo dalla POTENZA e dalla FORZA: questa distinzione viene
generalmente ricondotta a quella introdotta da Weber tra Herrschat e Macht, (potenza) cioè la possibilità di
trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini, da un lato; (forza) e la capacità di imporre
il proprio volere, anche contro la resistenza di altri soggetti, dall’altro.
In questa direzione, Weber aveva poi definito il potere politico mediante il riferimento al monopolio della
forza; Hannah Arendt ha distinto ulteriormente il potere dalla dalla potenza, dalla forza e dall’autorità
insistendo sull’elemento del consenso.

Se il potere è legato alla forza, esso può essere colto come fenomeno specifico solo quando sarà possibile
rapportarlo alla regola.
Tra il livello primordiale di forza e quello ideale superiore dell’autorità, il potere ricopre lo spazio intermedio
della forza regolata e dell’autorità spersonalizzata, e l’opera di regolazione è fatta dal diritto.

2. NOMOS E IUS TRA POLIS E IMPERO :

Nel pensiero greco si trova l’attestazione del fatto che il potere (in relazione al diritto) nasce nel momento in
cui si vuole superare il principio della forza, e si può dire che il pensiero politico greco ha aperto alla
civilizzazione del potere tramite il diritto.
Con Trasimaco, si ha la rivendicazione della priorità delle forza sul diritto, che andando contro Socrate,
afferma che “la giustizia non è altro che l’utile del più forte”, stabilendo anche così che è la forza il principio
prima da cui gli altri prendono forma e sostanza. Diritto e giustizia sono prodotto della forza, anzi una sua
manifestazione.
Questa visione pone la prevalenza del più forte principio fondamentale e naturale della società, che viene a
strutturarsi sulla base di un confronto/scontro nel quale il più forte è chiamato per natura a prevalere. Il
diritto viene così ad assumere una funzione solo strumentale. La legge positiva, della città, secondo la
lettura dei sofisti, viene a contrapposti alla legge della prevalenza del più forte, frutto di paura e Unione dei
deboli, che mettendo insieme le forze per prevalere sui più forti, e solo facendosi più forti dei forti i deboli
possono prevalere e imporsi altrimenti per loro non può esserci giustizia.
I grandi poeti greci come Esiodo e Pindaro, avevano individuato nel dominio della forza l’antitesi del diritto
e della giustizia, e avevano separato la società umana dal regno animale in virtù del fatto che il primo
grazie alla presenza del Nomos veniva meno il dominio del più forte.
Problema: in quale principio individuare l’alternativa più credibile al governo della potenza e della forza?
—PLATONE: via della SAPIENZA= trova nella sapienza il principio dell’anima razionale superiore alle altre
anime, e l’unica possibilità di ordinare con precisione la cosa più buona e giusta per tutti includendo
insieme il massimo di equità. Per Platone, il governo degli uomini è superiore al governo delle leggi. Per
Platone un governo dei sapienti appartiene al piano degli ideali inattingibili, e per questo per evitare il
governo arbitrario è necessario affidarsi al governo delle leggi (McIlwan).

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

La concreta possibilità di portare i principi della sapienza dentro al governo della legge è in effetti
alla base dell’opera conclusiva di Platone (Nomoi, leggi ): consapevolezza dell’impossibilità di
realizzare un’autentica tecnica politica capace di prescindere dalle leggi, conduce a individuare nella
legge il luogo di concretizzazione della ragione e per ciò stesso come criterio essenziale per distinguere il
buon governo dal malgoverno. La conclusione di questo itinerario di pensiero sta nella convinzione che la
polis in cui non governi la legge è desinata alla violenza e alla sopraffazione.
—ARISTOTELE: via della LEGGE = L’elaborazione aristotelica, fa del governo della legge non
un’alternativa di ripiego ma la miglior soluzione possibile nella polis abitata da uomini, in quanto il governo
della legge è il governo della ragione senza passione, e quindi garantisce che le decisioni siano prese in
modo imparziale e disinteressato, a differenza di ciò che avviene quando si ci si affida solo alle decisioni
degli uomini mossi da preferenze personali.
Dunque, quando ci si affida al governo degli uomini, è inevitabili che quesi siano nominati ‘guardiani
delle leggi e subordinati alle leggi’.

Dai due grandi padri della filosofia, è evidente la differenza tra GOVERNO DEGLI UOMINI E GOVERNO
DELLE LEGGI.
Dalla riflessione dei Greci appare chiaro che, da un lato, è solo la presenza delle leggi a legittimare il
potere e a renderlo differente dall’esercizio di forza e arbitrio; e, dall’altro, che la possibilità di stabilire una
superiorità del diritto rispetto al potere è legata alla capacità di non esaurire il diritto nella sfera della
decisione e della volontà politica.
Il nomos viene a rappresentare un elemento costituivo della società degli uomini che non è totalmente
nella disponibilità dei governanti ed è anzi ad essi e alle loro disposizioni superiore.
Si può in questo modo ben capire come sia in Platone che in Aristotele (mutais mutandis) il governo della
legge venga a costituire il criterio fondamentale per distinguere le forme di buongoverno da quelle corrotte
e rappresenti anche l’elemento tramite il quale si identifica l’esistenza stessa di una costituzione.
Quest’ultima, in Aristotele, coincide col rispetto della superiorità del nomos in quanto: ‘dove non imperano
le leggi, non c’è costituzione’(Politica).
Quanto detto dimostra come per i greci, ragionare del nomos significhi allo stesso tempo ragionare
dell’allocazione dei poteri nella polis (così fa Platone quando parla del governo dell’uomo sapiente in
contrapposizione a quello della legge e analogamente Aristotele quando raccomanda ai magistrati di
decidere in base alla legge). Si riscontrano in tale ambito una serie di tematiche che si ripresenteranno
nella storia del diritto ogni qualvolta si dovrà decidere se preferire un approccio particolaristico oppure
universalistico alle questioni pratiche che dovrà risolvere il diritto. Attribuire a un’autorità la possibilità di
decidere caso per caso oppure imporgli di decidere in base alla norme generali astratte.

Ciò è ancor più evidente se si guarda all’esperienza giuridica romana. Questa si caratterizza per aver visto
nel diritto una tecnica adatta a regolamentare non solo l’architettura istituzionale dello Stato, ma anche i
vari aspetti della vita individuale e sociale, a cominciare dai rapporti fra le persone e fra le persone e le
cose. È sempre l’esercizio di un potere che in qualche modo il diritto e chiamato a regolare e limitare.
L’esperienza romana è dunque caratterizzata da un intreccio ancor più stretto fra potere e diritto, in quanto
sono la struttura del potere e il funzionamento del diritto a far sì che essi interagiscano costantemente.
Chi detiene il potere deve quindi fare i conti con regole giuridiche precise e puntuali relative
all’organizzazione istituzionale e all’esercizio delle sue funzioni, e nella quale il diritto non è frutto della
decisione di singola autorità, ma collaborazioni di attori legittimati alla produzione del sistema normativo.
È questa l’idea della COSTITUZIONE MISTA celebrata da Polibio e Cicerone ad emergere dalla storia di
Roma come forma peculiare di equilibrio fra diritto e potere. Pur non potendosi parlare di divisione dei
poteri in senso moderno, abbiamo qui il perseguimento dell’esigenza tipica anche del costituzionalismo
moderno, della limitazione del potere, attraverso una compartecipazione equilibrata delle varie componenti
istituzionali alla gestione unitaria del potere stesso.
Partendo dalla constatazione che le forme di governo semplici (monarchia aristocrazia democrazia) sono
soggette a decadenza che porta sempre con sé la relativa forma corrotta (tirannide, oligarchia demagogia),
Polibio presenta la soluzione costituzionale romana come la più adatta per evitare che il governo sia
soggetto al ciclo delle continue degenerazioni. Questa soluzione prevede che il potere politico sia
distribuito fra i vari organi dello stato e che quesi abbiano la facoltà di opporsi uno all’altro ovvero di
collaborare nel comune interesse. Si tratta di una costituzione che funziona in quanto fondata su un
equilibrio fra poteri, stabilito e garantito dal diritto (e allora ‘è possibile che si mantenga senza mutamenti il
governo della repubblica’, Cicerone).
Questa testimonianza costituzionale conferma che anche nell’esperienza rimanda il diritto (ius) rappresenta
una realtà che ha una sua autonoma determinazione e non è riconducibile a estrinsecazione di forza o

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

potere. Solo molto tardi il diritto diverrà a Roma una prerogativa del potere tanti da giustificare le leggi, che
ormai non si facevano più nell’interesse comunque ma solo per singoli, che portava ad affermarsi il
principio generale secondo cui in uno stato più che mai corrotto più che mai numerose erano le leggi
(annales III).

3. LEGGE NATURALE E FONDAZIONE DEL POTERE :

La stretta connessione fra diritto e potere e la sostanziale alterità del primo rispetto al secondo troverà una
cristallizzazione efficace e duratura grazie all’emergere della nozione di LEGGE NATURALE.
Tale nozione era già nota ai greci, e in particolare ai sofisti, che ne avevano fato il loro cavallo di
battaglia per la critica al nomos della città.
Tuttavia, laddove i sofisti propugnavano in nome di essa il diritto della forza, il diritto naturale affermatosi
nella cultura giuridica romana ha caratteri ben diversi.
Esso si congiura, infatti, come DIRITTO DELLA RAGIONE, allo stesso tempo supporto e criterio di giudizio
della legge positiva; sarà la lex naturalis a delimitare il campo di legittimità del diritto positivo e quindi del
potere.
In tal modo, il richiamo del diritto naturale avrà il significato di un rinvio a ciò che sta prima e oltre la sfera
del potere.
In un celebre passo del De Republica, Cicerone riassume classicamente tutti i caratteri di questa legge [qui
sintesi, cfr. pg. 39]:
Il diritto naturale – immutabile ed eterno, radicato nella ragione – non può che essere svincolato da
qualsiasi volontà umana e dunque da qualsiasi potere che possa determinarlo o modificarlo.
A partire da questo momento, esso sarà riferimento costante per chi vorrà affermare un principio superiore
al potere degli uomini, cui invece verrà di fatto abbandonato il diritto positivo, che divverà lex humana
distinta e contrapposta alla lex naturalis.
Il concetto di legge naturale verrà così a sancire e a dar nome alla tendenza dualistica che diverrà tipica
della scienza giuridica successiva.
A essere storicamente produttiva nella duplice direzione di una critica e rifondazione del potere non è
comunque la nozione di diritto naturale rintracciabile nella tradizione romana, in cui essa viene a
sovrapporsi al ius genium o serviva tutt’al più come mezzo di interpretazione del diritto positivo.
Molto più significativo è il fatto che quella stessa nozione venga ripresa dai padri del pensiero cristiano che
ne fanno il criterio in base al quale fondare e giudicare le manifestazioni umane del diritto e del potere.
In virtù del legame che viene a stabilirsi con la divinità si assiste a una trasformazione, che porta il diritto
naturale a divenire assolutamente obbligatorio e prevalente su tutti gli altri diritti.
All’interno di questa cornice si ripropone la divisione far razionalisti e volontaristi, linee di pensiero
riconducibili rispettivamente a Tommaso d’Aquino e ad Agosino d’Ippona, che condurranno ad esiti
profondamente diversi in relazione alla legittimazione del potere.
1. Agostino -> la via volontaristica è basata sulla piena coincidenza fra legge divina e legge
naturale. Ciò porta paradossalmente ad esiti di tipo positivistico , nella misura in cui insiste sulla
volontà di chi pone la legge e dunque sulla riconduzione dell’elemento giuridico alla piena
disponibilità di chi della legge è Autore (Dio per la città celeste; il sovrano per la città degli uomini);
2. Tommaso -> la via razionalistica tende a preservare l’autonomia della legge e del diritto dalla
volontà di chi li pone: se il diritto naturale è parte di una legge eterna, la cui caratteristica è appunto
quella della razionalità esso stesso si pone come criterio di valutazione della legge umana, e come
criterio di razionalità cui la legge positiva dovrà aspirare per essere vera legge.

La storia del diritto ci insegna che tanto più esso verrà ricondotto alla piena disponibilità di chi governa (sia
esso soggetto individuale o collettivo ) tanto più sarà attratto nella sfera del potere, fino ad esserne
assorbito. Il diritto naturale moderno, esaminato da Hobbes e da Locke, danno comunque visioni differenti:
• HOBBES (De Cive e Leviatano)
Nel diritto mestruale ha visti una facoltà/potere che il soggetto può usare a proprio arbitrio, affermando una
costruzione dello stato basata sul trasferimento attraverso il patto, del diritto individuale al capo collettivo
(pena situazione di insicurezza e guerra), e successivamente alla definizione della legge positiva come
manifestazione della volontà del sovrano. Da un lato, il potere del sovrano risulta costituito da tutte le
volontà che stipulano il patto che po autorizzano così a poter mettere in atto tutto il necessario per
mantenere ordine e pace; dall’altro lato la legge coincide totalmente con ciò che il sovrano riterrà utile o
giusto decidere.
Se si vuole salvaguardare sicurezza e pace per Hobbes, l’unico principio è quello secondo cui è l’autorità a
fare la legge è non la verità. Sostiene inoltre la teoria secondo cui: chi detiene il potere sovrano non è

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

soggetto alle leggi civili, perché porre le leggi civili al di sopra del sovrano vuol dire porre un giudice al di
sopra di lui che vorrebbe dire mettere un’altro sovrano al di sopra di lui. Inoltre ha il potere di modificare le
leggi a suo favore. Libero infatti è colui che può essere libero quando voglia.

• JOHN LOCKE (secondo trattato sul governo)


Attribuisce agli individui nello stato di natura la libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri
beni e persone come meglio credono, entro i limiti della legge di natura. Può sembrare simile a Hobbes, ma
egli specifica che ogni potere è autorità sono reciproci, e questo stato di libertà non è uno stato di licenza,
in quanto la legge di natura per tutti vincolante “insegna a tutti gli uomini che essendo uguali e indipendenti
nessuno deve recar danno ad altri”. Con Locke abbiamo una visione dell’uomo e la nozione di “diritto” che
incontrano un limite nella presenza degli altri uomini titolari di diritti.
Questa elaborazione di diritto di natura aiuta a definire il potere politico che si caratterizza fin dell’origine
per i limiti ai quali è sottoposto. Se la società civile nasce al solo fine di tutelare i diritti individuali, il potere
che sorge dal patto può solo essere finalizzato a questo scopo.
Ogni potere assoluto è quindi bandito dalla comunità in quanto nessuno che fa parte di una società civile
può essere esonerato dalle leggi di essa. Il potere politico a differenza degli altri poteri ha il consenso.
La concezione del diritto condiziona la concezione del potere. Per Locke nessuno ha un potere assoluto e
arbitrario su se stesso o su altri, tale da distruggere la sua vita o portare via quella di altri. Nessuno può
trasferire ad un’altro più potere di quanto egli non abbia per se. Il potere nella massima estensione è
limitato al pubblico bene della società e alla conservazione dei diritti naturali. Il potere assoluto o dispotico
quindi è incompatibile con l’idea di società civile. Locke legittima così il diritto di resistenza nei confronti del
governo, rifiutando la logica della forza opponendo la logica del diritto.

La stagione del Giusnaturalismo moderno da l’avvio ad un’epoca nella quale ogni potere deve essere
giustificato a partire dai diritti dei cittadini, in cui il potere viene legittimato dal basso invece che dall’alto.
A partire dal XVII secolo le due vie delineate da Hobbes e Locke vanno incontro a ulteriori radicalizzazioni:
rispetto alla prima (Hobbes) si pone il problema di chi governa, cercando di concepire il nuovo principio di
legittimazione in modo che per sua stessa logica interna garantisca una distanza radicale dalla forza;
rispetto alla seconda (Locke) ci si focalizza sul tema di come governare, cercando di individuare soluzioni
specifiche per far sì che chiunque sia a governare incontri sempre dei limii invalicabili (provando dunque a
elaborare tecniche di contenimento del potere stesso).
Si pensi in tal senso alle teorie elaborate nel XVIII secolo da Rousseau e Montesquieu.
• ROUSSEAU -> il Filosofo francese, nel ‘Contrato sociale’ porta alle estreme conseguenze il
ragionamento di Hobbes, rovesciando però la logica interna al patto sociale.
È ora il fatto di unirsi in società a produrre il dovere di obbedire a un potere comune, generando così una
necessità di sottomissione ancor più stringente in virtù dell’identificazione che viene a prodursi tra soggetto
attivo (governanti) e soggetto passivo (governati).
Essendo quindi la legge il prodotto della volontè gènèrale (strumento, perciò, tramite cui si realizza
l’autonomia del soggetto) non è ammissibile che si possa ubbidirle se non consentendole: ogni altra
ragione di obbedienza rischierebbe di riportare la società sotto il dominio della forza, ma ubbidire a
questa non è mai volontà, bensì necessità.
La forza mai potrà costituire il diritto e dunque mai si sarà obbligato a obbedire a poteri che non
siano quelli legittimi, ossia quelli derivanti dal patto sociale da cui scaturisce la volontè gèneralè:
occorre (paradossalmente) che chi da quest’ultima si discosta sia costretto a essere libero.
La prospettiva di Rousseau è quella di chi ripone tutta la fiducia possibile nella costruzione del corpo
sovrano
e nella sua completa coincidenza con i soggetti che esercitano il potere: questa identificazione porta
ad affermare che il corpo sovrano non essendo formato che dai singoli che lo compongono non ha,
né può avere, interesse contrario al loro stesso interesse e quindi non deve dare garanzie poiché è
impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri. Governanti e governati coincidono totalmente .
È una visione ottimistica, in cui non c’è che la forza dello stato che faccia la libertà dei suoi membri.

• MONTESQUIEU -> alla visione ‘ottimistica ’ di Rousseau, si contrappone quella ‘pessimistica’ di


Montesquieu (e del costituzionalismo moderno).
Alla base di questo filone di pensiero è la convinzione che il potere abbia una tendenza fatale a
degenerare. È per questo motivo che Machiavelli, nei ‘Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio’ sostiene la
necessità che le istituzioni siano organizzate in modo tale che chi esercita potere abbia qualcuno che
possa essere ‘come sua guardia, a farlo non uscire dalla retta via’.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Ed è proprio questo il compito che si assume il barone nel suo ‘Spirito delle leggi’, opera in cui viene
descritta la costituzione inglese per introdurre la teoria della separazione dei poteri ad organi diversi
(giudiziario, esecutivo e legislativo) che facciano capo a diverse formazioni sociali.
‘Tutto sarebbe perduto’, scrive Montesquieu, ‘se lo stesso uomo o lo stesso corpo di maggiorenti
[…] o di popolo esercitasse quesi tre poteri’.
La teoria della separazione dei poteri fa parte di un progetto ben più ampio, teso a controllare il potere
tramite il diritto e che prende il nome di costituzionalismo. Esso si realizza non solo mediante la tecnica
della SEPARAZIONE (BILANCIAMENTO secondo alcuni) dei poteri, ma anche con la diversa ma
convergente tecnica della LIMITAZIONE del potere attraverso i diritti (delimitazione di alcuni spazi immuni
all’intervento dei governanti).

Queste due tecnici sono così presentate da BOBBIO [testo pg. 46]: ‘ si possono distinguere 2 forme di
limitazione del potere:
una LIMITAZIONE MATERIALE, che consiste nel sottrarre agli imperativi del sovrano una sfera di
comportamenti umani, che son riconosciuti liberi per natura (la c.d. sfera di liceità); questa limitazione è
fondata sul principio della garanzia dei diritti individuali da parte dei poteri pubblici
e una LIMITAZIONE FORMALE, che consiste nel porre tutti gli organi del potere statale al di sotto di leggi
generali dello stato medesimo; questa limitazione è fondata sul controllo dei pubblici poteri da parte dei
cittadini. […]

Questo progetto si realizza, pur nella grande varietà di modi tempi spazi diversi, muovendosi dalla
convinzione che vadano trovati i giusti modi affinché chi detiene il potere debba esercitarlo senza abusarne
e senza violare i diritti dei cittadini. L’obbiettivo comune è quello di porre la legge al di sopra del potere.
È questa un’impresa intellettuale e politica che rinvia a una concezione del diritto che non si riduce a mera
ed esclusiva manifestazione della volontà del sovrano; è anzi proprio contro questo modo di guardare al
diritto che il costituzionalismo costruisce il proprio apparato teorico e la propria proposta istituzionale.

4. IL DIRITTO (POSITIVO) DEL POTERE:

Con l’affermarsi della dottrina positivista, fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, appare sempre più
difficile concepire l’idea di un diritto che sia sopra al potere, se è vero che esso viene ricondotto
interamente alla sua esplicita produzione da parte dell’autorità politica riconosciuta.
Questa nuova visione trova sistemazione teorica nei lavori di Jeremy Bentham e John Ausin, critici del
diritto naturale e giurisprudenziale e sostenitori dell’IDEA IMPERATIVISTICA: questa vede nella legge un
comando dotato di particolari caratteristiche, cioè un comando che viene dall’autorità politica titolare
del potere sovrano all’interno della comunità politica indipendente.
• BENTHAM -> ne ‘Il frammento sul governo’ propone una critica radicale del costituzionalismo che era
derivato dalla Glorious Revoluion e che era stato codificato da Blackstone.
Questa dottrina criticava un sistema giuridico che poneva il focus su lavoro e autorità dei giudici, e che di
conseguenza cerca il diritto veniva promanato solo da chi titolare di sovranità; ovviamente inaccettabile per
un positivista.
Bentham sosiene che parlare di diritti naturali sia una semplice insensatezza.
Secondo il filosofo inglese, ragione e buon senso, moventi da presupposti utilitaristici, inducono a
ritenere che i diritti possono essere affermati o annullati quando all’una o all’’altra cosa corrisponde un
vantaggio per la società.
• AUSTIN -> il contributo del filosofo è volto a delimitare con precisione la sfera della legge
‘propriamente detta’ da ciò che legge non è, pur essendo chiamato con lo stesso nome.
Le leggi in senso proprio sono in quest’ottica solo quelle aventi la natura di un comando, impartito
dai superiori politici; deve quindi esistere il potere e il proposito da parte del governante, di impartire una
sanzione o un male nel caso in cui il desiderio non venga soddisfatto.
La totale riconduzione del diritto nella sfera del potere politico e della sovranità statale è all’origine di tutti i
dogmi del positivismo giuridico (statualismo, legicentrismo e conseguente formalismo) ed è pure la causa
di tutte le accuse rivolte a questa tradizione giuridica, nel secondo dopoguerra, di aver favorito l’affermarsi
del mostro totalitario. Una falsata concezione del dirito, che lo riduce a mero strumento della volontà
sovrana rischiava infatti di essere visto come un puro mezzo con cui si realizzano gli scopi, qualsiasi essi
siano, dell’autorità politica. Celebre è la critica di Radbruch, e cioè che il positivismo ‘con la sua
convinzione che la legge è la legge’, ha reso la categoria dei giuristi inerme nei confronti di leggi arbitrarie e
dal contenuto criminale’.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Bisogna però considerare anche come la diffusione dell’approccio positivistico sia anche causa di un nuovo
modo di guardare al rapporto tra diritto e potere: uno sguardo, cioè, molto più attento alle dinamiche interne
al potere stesso e alle regole mediante le quali esso va esercitato.
È innegabile che in virtù della riduzione positivistica venga a determinarsi una connessione tra quelli che
Bobbio chiama “ciclo della norma” (giustizia validità efficacia), e “ciclo del potere” (legittimità legalità
effettività) conducendo ogni aspetto della vita del diritto ad essere intrecciato alle dinamiche del potere.
Se, dunque, è indiscutibile che in virtù della ‘riduzione positivista’ diritto e potere vengano a essere
intrecciati come non mai, si deve anche osservare che per questa stessa via il potere stesso venga a
essere
imbrigliato in un reticolo di regole, riguardanti il suo esercizio e che anzi, proprio in virtù di questo intreccio,
esso possa essere considerato potere solo in virtù del rispetto delle regole che lo legittimano e lo
strutturano.

Del nuovo scenario del XX secolo, i contributi sono:


• KELSEN = correlazione diritto potere.
• La nomodinamica (sistema in cui il giurista austriaco si occupa della costruzione a gradi
dell’ordinamento), chiarisce che nessuna norma può essere valida se non in conseguenza di un potere che
la pone, e contemporaneamente nessun potere può essere tale se non in conseguenza di una norma che
lo autorizza a produrre diritto. (Una norma vale come norma giuridica sempre e soltanto perché prodotta
secondo una regola determinata secondo metodo scientifico). Avviene così un rimando continuo dal potere
al diritto e viceversa, nel quale è chiaro come non ci sia norma al di fuori di quelle poste da coloro che sono
titolari del potere giuridico, e come nello stesso tempo non ci sia potere che non sia derivato da una norma
autorizzatrice posta a sua volta de un potere superiore. Un rimando continuo che culmina e termina in
quella che KELSEN chiama Norma Fondamentale, cosa è e cosa prevede davvero, cosa c’è prima della
Grundnorm?. Kelsen crea così un intreccio tra diritto e potere, in modo che ogni operazione giuridica
tragga la sua validità fa una norma. Diritto considerato come “un ordinamento o una organizzazione
specifica di potere. È un’organizzazione della forza, pone infatti certe condizioni all’uso della forza nelle
relazioni tra uomini autorizzandone l’impiego soltanto da parte di determinati individui e soltanto in
determinate circostanze.
Se diritto e potere trovano qualificazione all’interno del loro rapporto (diritto= solo quello posto dal potere
autorizzato a farlo, potere= solo quello autorizzato de una norma), allora la forza non può essere confusa
ne con il diritto ne con il potere, e costituisce così quel fenomeno che deve essere catturato e regolano
dentro il nesso diritto-potere.

• MAX WEBER = sostenitore della teoria secondo cui il diritto ha l’impresa di regolamentare la forza,
secondo cui ha individuato la pretesa di monopolizzazione dell’uso legittimo della forza avanzata dallo
stato. Weber descrive le caratteristiche di un potere la cui struttura non conosce una forma o un
procedimento ordinato, e che nel suo esercizio conosce soltanto determinazioni interne e limiti tratti sa se
stesso.
-potere legale-razionale= poggia sulla fede nella validità della norma di legge e della competenza fondata
su regole razionalmente formulate, su un generale adempimento di doveri stabiliti de norme. Ogni esercizio
del potere è regolato da norme. Raffigurata mediante l’immagine di burocrazia e del funzionario che svolge
i suoi compiti .
-potere tradizionale = rinvia ad una forma giuridica semplice , regolabile
-potere carismatico= rinvia ad una forma giuridica non regolabile, fondata sulla credenza nelle qualità
straordinarie del capo.

5. TRA TOTALITARISMO E DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE:


XX secolo, avviene una estremizzazione di 2 tendenze:
—Il potere ha cercatori assorbirete totalmente il diritto
—Il diritto ha tentato di regolamentare ogni esercizio di potere.

Totalitarismo e democrazia costituzionale rappresentano due fenomeni storico politico, espressione di tali
tendenze contrapposte e sono una tappa inedita nei rapporti fra diritto e potere, come se essi avessero
cessato di essere le due facce di una stessa medaglia e venissero ridotto a una medesima faccia, dentro
uno schema che finisce per pervertire uno dei due.
La testimonianza più rilevante del primo orientamento la si ritrova nel pensiero di Carl Schmit:

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

• CARL SCHMIT=
giurista molto vicino al Reich hitleriano che muove dalla negazione che il nuovo sistema costituzionale
tedesco possa trovare una legittimazione nella costituzione precedente. Egli predica l’idea di una sorta di
autofondazione del Reich, contrastando con gli assunti kelseniani: il giurista tedesco sostiene che il diritto
proceda invece da quell’atto con cui il potere afferma sé stesso (‘ciò che è vivo non può legittimarsi con ciò
che è morto e la forza non ha bisogno di legittimarsi con la debolezza’), contrapponendo con ciò l’idea di
legittimità a quella di legalità.
È stato osservato che durante il regime nazista convivevano in Germania uno stato normativo e uno stato
discrezionale, col risultato che il secondo annullava completamente il primo. Si trattava in sostanza di un
sistema ‘di dominio dell’arbitrio assoluto e della violenza che non conosce limite in alcuna garanzia
giuridica’; un sistema nel quale ‘mancano le norme e dominano i provvedimenti’.
Ciò vale per ogni totalitarismo, fenomeno incentrato su quella negazione di libertà e diritto individuale (che
era stata teorizzata nella celeberrima voce enciclopedica dedicata alla definizione di Fascismo, scritta da
Mussolini: ‘Il fascismo è per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e
dell’individuo nello Stato e nulla di umano o spirituale esiste e tanto meno ha valore al di fuori dello stato’.).
La riduzione dell’individuo allo Stato è alla base di una concezione del rapporto fra diritto e potere nella
quale il primo è molto meno di un mezzo per il raggiungimento dei fini del secondo.
Del costituzionalismo novecentesco si può dire senz’altro che si è trattato di un’impresa teorico istituzionale
volta a neutralizzare il potere costituente in un sistema di valori etici politici e giuridici (c.dd. principi) di cui
la costituzione diviene promotrice e garante. Il diritto non è più quindi uno strumento neutro, a disposizione
di chi esercita il potere ma diviene innanzitutto un insieme di regole e principi tesi a garantire i diritti dei
cittadini e la loro piena e libera
partecipazione alla vita della comunità.
Quest’impresa trova il suo coronamento nella presenza delle corti costituzionali, organi supremi degli
ordinamenti democratici, chiamati a garantire che il governo della legge – inteso sia come governo sub
legge che come governo per leges – non sia una forma mascherata di governo degli uomini legislatori, ma
piuttosto un sistema nel quale è la costituzione stessa a definire i contorni dell’azione politica.
Sistema costituzionale nel quale, come sottolinea Von Hayek, ‘il governo in tutte le sue azioni è vincolato
da norme stabilite e annunciate in anticipo.
Il diritto, dunque, è chiamato a regolare l’esercizio del potere e il potere, dal canto suo, viene sempre
esercitato in esecuzione di previsioni giuridiche.
Non è più quindi il diritto a essere strumentale rispetto all’attuazione del volere dell’autorità politica, ma è al
contrario la politica che diviene strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposi dal
principio costituzionale: vincolo negativo (diritti di libertà, inviolabili) e positivo (diritti sociali, da soddisfarsi).

6. LE NUOVE SFIDE DEL POTERE:


Confermiamo che la medaglia ha due facce che si rinnovano continuamente.
I sistemi democratici stanno attraversando delle difficoltà e criticità:
— criticità di tipo GIURIDICO= l’esercizio di poteri giuridici è pur sempre un esercizio di potere, e rientra
nella fisiologia dello stato costituzionale, e un sistema giuridicizzato non implica la scomparsa del potere.
—criticità di tipo ISTITUZIONALE= tema della separazione dei poteri. La Giuridicizzazione della vita sociale
appare a molti una via per togliere il potere politico ad ogni forma di autorità, e per concentrarlo nelle mani
dei giudici .
—criticità di tipo POLITICO= 2 rischi:
-regolamentazione estrema rischia di far dimenticare che ci saranno sempre situazioni particolari nelle quali
il diritto è costretto a lasciar spazio all’autorità
-regolamentazione estrema rischia che il potere non si lasci addomesticare facilmente e finisca per
emergere in forme irrazionali e incontrollabili .

Queste criticità mostrano la necessità di un equilibrio tra diritto e potere, a compito della scienza politica e
giuridica del XXI secolo nel cercare soluzioni, facendo si che le due facce della medaglia possano
coesistere .

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 3 : MORALE una questione di punti di vista


1. I TERMINI DEL PROBLEMA: QUALE MORALE? PER QUALE DIRITTO?
HART=diritto e morale insieme, rapporto che varia a seconda dei vari significati che tali termini possono
assumere, dal modo in cui questi vengono combinati e dal punto di vista dal quale è possibile approciare il
sistema.

La pluralità di questioni con cui si ha a che fare quando si analizzano i rapporti fra diritto e morale, deriva in
primo luogo dai vari significati che ciascun termine può assumere, dal modo in cui quesi significati possono
essere combinati nonché dalla prospettiva in cui ci si pone nell’affrontare il problema.

Del termine MORALE=Possono esser dati 4 significati, connessi ma concettualmente indipendenti:

1. Morale convenzionale/positiva/sociale -> Morale è innanzitutto l’insieme dei valori e dei principi
attorno al quale viene costruito il codice comportamentale di un certo gruppo sociale e sul quale il gruppo
sociale costruisce parte della propria identità: una sorta di collante che tiene coeso il gruppo stesso (es->
morale positiva= religiosa);
2. Morale critica/individuale/ideale ->in generale indica l’insieme dei principi che l’individuo pone a guida
della sua azione individuale, a prescindere dal gruppo culturale di cui fa parte; nella sua dimensione ideale,
la morale individuale indica l’insieme dei principi che qualunque individuo porrebbe a guida del proprio
comportamento se ragionasse in maniera puramente
razionale.
Ovviamente fra la morale critica a quella positiva intercorrono stretti rapporti in quanto l’individuo
costruisce la propria morale critica sempre all’interno di un gruppo sociale avente un proprio quadro
valoriale di riferimento, che se non obbliga, quanto meno condiziona le scelte individuali (certo è che la
morale critica dell’individuo può differire rispetto a quella del suo gruppo sociale);
inoltre, come sottolinea Nino, ‘la morale che risulta positiva consiste in un insieme di diritti e principi assunti
come validi i quali comunque non si riferiscono alla stessa morale positiva ma si considerano parte di una
morale critica e ideale.
3. Giustizia -> la morale può essere intesa per indicare quei principi standard che un determinato sistema
normativo, in primis quello giuridico, deve o dovrebbe avere per esser considerato moralmente (appunto)
accettabile, in particolare con riferimento alla distribuzione di diritti e doveri e risorse fra i consociati e ai
criteri per attuare questa (attorno ai quali ruoterà gran parte del dibattito filosofico – giuridico);
Tutti noi siamo portati a definire una certa istituzione soprattutto politica come giusta quando soddisfa
determinati standard morali ritenuti irrinunciabili.
4. Etica -> per ultimo, il termine morale può esser utilizzato come sinonimo di etica e in tal caso indica
non tanto i valori introno ai quali un individuo, gruppo o istituzione dovrebbe conformare la propria azione,
bensì la disciplina filosofica che li studia, nel tentativo di assegnare ai singoli comportamenti o classi di
comportamenti un determinato valore e statuto deontologico e quindi classificandoli come giusti/ingiusti.

Discorso analogo può esser fatto in relazione al termine ‘DIRITTO’, trovandone diversi usi del termine:
1. Diritto può, in primis, indicare l’insieme dei comandi (e delle relative sanzioni) imposto dal superiore
politico ai soggetti a esso sottoposti.
Questa definizione, nota come teoria imperativistica del diritto (vedi sopra) è riconducibile ad Austin, fra i
padri del giuspositivismo inglese. Quesi ha sostenuto come il termine diritto dovrebbe indicare solo
qualcosa di reale e presente, cioè ciò che il diritto concretamente comanda e dispone (la legge positiva), a
prescindere che soddisfi le esigenze della morale o meno. Il termine diritto in sostanza indica, per Austin,
ciò che il diritto è e non ciò che il diritto dovrebbe essere;
2. Secondo un’altra visione, ‘diritto’ dovrebbe essere usato per indicare l’insieme delle regole
legittimamente emesse, a patto che esse siano rispettose di ciò che la Natura, la Ragione, Dio o qualunque
altra Fonte vera e oggettiva dispongano. Di converso, qualora tali regole, pur legittimamente emesse, siano
contrarie a tali istanze di verità esse non sarebbero qualificabili come diritto: Lex iniusta non est lex.
Questa scuola di pensiero, nota come giusnaturalismo, ha radici assai risalenti, fino ad arrivare alla
celebre affermazione di essa fatta da Cicerone.
3. Terzo significato del termine diritto si colloca a metà strada fra il diritto positivo (giuspositivismo) e quello
necessariamente giusto (giusnaturalismo).
Diritto sarebbe sì quello positivo posto attraverso certe procedure legittime, ma a condizione che nessuna
delle disposizioni che lo compongono violi i principi giudici proclamati all’interno di un documento ufficiale,
quindi parte del diritto positivo posto al vertice del sistema normativo: documento costituzionale.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

In nome del diritto non si può dire o comandare qualunque cosa, i contenuti possibili sono solo quelli
compatibili con i principi disposti dalla costituzione. Questi principi con funzioni simili rispetto a quelli del
diritto naturale, non sono più vaghi ma sono frutto di un accordo politico scelta sociale e formulazione. I
principi della democrazia costituzionale sono quelli che un popolo in un determinato momento storico hai
letto propria guida proprio modello ideale di comportamento, credendo nell’uguaglianza libertà in tutti gli
altri diritti fondamentali, non per ragioni di fede o di speranza ma perché questi principi nel loro insieme
costituiscono il fondamento della loro civiltà giuridica.

Le definizioni che si danno alle teorie del diritto e della morale sono conoscitive la loro correttezza deve
essere misurata in relazione all’aspetto del fenomeno considerato e rispetto al contesto culturale. I teorici
nel definire i concetti compiono scelte evidenziando determinati aspetti e trascurandone altri. Come diceva
Brian Bix, Uno stesso oggetto può essere osservato da molteplici punti di vista, spesso diversi a seconda
dell’osservatore, a seconda dell’angolo visuale.

Riassunto:
1. Rapporto tra diritto e morale non costituisce un’unica questione ma un insieme di questioni che meritano
analisi indipendenti sostenere la tesi di connessione separazioni tra diritto e morale senza specificare a
quale tipo di relazione facciano riferimento non ha senso.
2. Il rapporto tra diritto e morale genera molteplici questioni indipendenti derivanti dalla pluralità dei
significati che il termine diritto e morale assumono.
3. Ogni definizione del termine diritto presuppone una teoria del concetto di diritto, 3: il positivismo
imperativista, giusnaturalismo classico, costituzionalismo.
4. Non esistono definizioni o teorie errate in assoluto o di converso corrette in assoluto. La validità delle
varie teorie va misurata in relazione ai fatti della storia.

2. DIRITTO, MORALE E METODO: la questione della neutralità della scienza giuridica


Questione: quale metodo usare nello studio dell’analisi del diritto e delle relazioni che trattiene con la
morale è se è necessario il riferimento alla morale(?).
• JOHN AUSTIN = (Sulla scia del maestro Bentham). Sottolinea la necessità di distinguere due approcci
all’analisi del fenomeno giuridico
1)la descrizione del diritto per come si presenta agli occhi dell’osservatore esterno;
2)la valutazione del diritto dal punto di vista morale, in base ai suoi meriti e demeriti morali .

Prima BENTHAM aveva sostenuto un’idea simile, secondo lui esistevano due atteggiamenti verso il diritto:
1)quello dell’espositore (Expositor) con il compito di spiegare che cos’è il diritto.
2)quello del critico (Censor) con il compito di mostrare cosa il diritto dovrebbe essere.

In base a queste idee, lo studio del diritto “della cosa giuridica” doveva limitarsi ad una conoscenza
descrittiva ed avalutativa dei fenomeni giuridici, senza mai comprendere valutazioni morali. Il diritto viene
concepito come un fatto che lo studio deve limitarsi a descrivere asetticamente, riportando la realtà
giuridica per come si presenta.
Si può comunque valutare giusti o ingiusti l’ordinamento o la norma che si ha davanti, è importante (per
Austin e Bentham) ma volevano dire che non è importante per lo studio del diritto questa valutazione.
Lo scienziato del diritto non ha il compito di valutare se una certa norma soddisfa o meno certi standard
morali, ma ha il compito solo di descrivere la norma in modo avalutativo.
Diritto= mero fatto
Morale=sinonimo di etica, che non è di interesse per il giurista, che ha il semplice compito di descrivere fatti
per come si svolgono nella realtà.

• HANS KELSEN E HERBERT HART = il diritto non è semplicemente un fatto, è un valore perché esprime
tensione verso qualcosa che è giusto o è bene realizzare. In quest’ottica il dritto appartiene al modo del
“dover essere” e non a quello “dell’essere”.
Hanno voluto chiedersi se fosse possibile sostenere contemporaneamente la natura scientifica dello studio
del diritto e la natura valoriale delle norme che lo compongono, e cioè se fosse possibile descrivere
avalutativamente i valori.
Per loro, le norme giuridiche sono un valore, La funzione della scienza del diritto non consiste
nell’attribuzione di valori o in una valutazione, ma consiste in una descrizione del proprio oggetto svolta
prescindendo dai valori.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Le norme che compongono i sistemi giuridici sono valori, esprimono una tensione verso qualcosa che è
bene realizzare, e non impone allo studioso l’abbandono dell’idea di neutralità e descrizione.
La descrizione del valore non comporta la sua condivisione, una cosa è l’oggetto del diritto ed il suo stato
morale, un’altra cosa è il metodo che viene usato per renderne conto.
Questione del metodo= a prescindere dal fatto che il diritto sia un fatto o sia un valore; per il
giuspositivismo di ogni epoca il compito dello studioso del diritto è di descrivere in modo avalutativo
fenomeni giuridici , descrizione disinteressata alla dimensione morale. Il carattere dell’avalutatività
garantisce il dibattito scientifico secondo regole specifiche.

• FULLER = critica al positivismo giuridico di Austin, della distinzione tra fatto e valore, tra ciò che è e ciò
che dovrebbe essere, tra diritto e morale.
È sufficiente per lui analizzare qualunque attività umana, per capire che i due piani sono sovrapposti e
indistinguibili. Chiunque opera in abito giuridico non può ignorare la morale e far si che non influenzi
l’operato, perché la morale fa parte del diritto.
Leggi e sentenze, come una storia raccontata (storia prima ascoltata, e storia dopo averla ascoltata con
interpretazione personale), includono per forza 2 elementi: una struttura formale per riconoscerli come
pezzi di diritto, e una tensione verso un obbiettivo (espresso chiaramente o in modo confuso)... la legge o
la sentenza non sono una porzione d’essere ma un processo in divenire.
Fuller identifica l’immagine di uno studioso immerso nella dimensione pratica del fenomeno giuridico che
vuole contribuire al miglioramento del sistema.

• DWORKIN = Disegna un nuovo modello di scienza del diritto, con un giudice con la funzione (non più di
rendere conto e descrivere in modo avalutativo), di offrire la migliore interpretazione possibile delle varie
pratiche seguendo determinati valori.
ES/ mettiamo che uno studioso deve ricostruire una pratica dell’etichetta, il lavoro di ricostruzione prevede
sempre 3 fasi
1)fase pre-interpretativa= isola la pratica rispetto alle altre osservabili, indivia una serie di casi su cui
elaborare un concetto condiviso di quella pratica
2)fase interpretativa= a partire del concetto condiviso individuato, deve trovare giustificazioni degli elementi
che caratterizzano la pratica.
3)fase post-interpretativa= tenta di mettere la pratica nella miglior luce possibile, fornendo l’interpretazione
che meglio realizza i valori del sistema, determinando ciò che la pratica sociale richiede.

Per DWORKIN tanto il diritto quando la teoria del diritto devono essere intesi come processi di una
interpretazione costruttiva , che esprime il proprio oggetto nel modo migliore.
Come diceva già Fuller, Non si tratta quindi di riportare fedelmente fatti e le pratica del diritto, ma di
migliorarle e vederle nel modo migliore. Deve essere come attuata un’opera di miglioramento.

Viene così una nuova idea di teoria del diritto, perché vede la caratteristica morale come fondamentale.
Una teoria che deve essere sia normativa sia concettuale, che non si limita a descrivere com’è il diritto ma
anche indica come esso dovrebbe essere.

Quale metodo preferire? Qual’e il ruolo quindi dello studioso del diritto? Non ci sono teorie corrette
assolute, ma è da capire quale modello metodologico è più adatto in un certo tipo di sistema giuridico, e
quale obbiettivo seguire a seconda del sistema scelto.
PP/72

3. DIRITTO, MORALE ED OGGETTO: la questione del diritto ingiusto


Rapporto tra diritto in quanto oggetto e la morale critica o ideale, tra ciò che gli studiosi analizzano i valori
morali che ogni essere razionale riconoscerebbe come imprescindibili se non fosse condizionato dalla
dimensione culturale.
Spesso il diritto è stato inteso come strumento al servizio di determinati valori ideali, che sono più forti di
qualunque morale positiva o maggioranza di persone.
Non sempre però è stato inteso così, il diritto è stato anche utilizzato per servire valori come la
disuguaglianza le minoranze i nemici: ad esempio la segregazione razziale statunitense e l’apartheid
sudafricano, totalitarismi 900, Tutte quelle segregazioni giuridiche volute promosse attraverso il diritto.

Dilemma fin dai tempi greci di Platone del diritto e del fatto che il diritto è potenza, può fare e disfare.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

—positivismo giuridico: anche il diritto moralmente deteriore è pur sempre diritto perché la sua
connotazione morale non è parte necessaria del concetto di diritto. Quest’idea di diritto è stata sottoposta a
critiche e dato responsabilità a positivisti dopo i totalitarismi del 900.
Il diritto e morale è diritto al pari di quello giusto, e chi lo giudica in suo nome e chi lo studia sono giuristi al
pari degli altri.
Il positivismo con la tesi di separazione tra diritto e morale, tra il diritto com’è ed il diritto come dovrebbe
essere, è stato accusato di non saper distinguere tra il sistema di regole di un gruppo di banditi e quello di
un sistema di regole del diritto.
Nell’ottica positivista il diritto è rappresentato come un contenitore che può essere riempito con un qualsiasi
liquidò salutare o velenoso, ma è indubitabile che sempre di una bottiglia/ contenitore si tratti. Il contenitore
quando riempito di veleni pregiudizi e ideologie belliche finirà col produrre danni, ma questi danni non sono
attribuibili al metodo positivista, ma sarà da attribuirgli la sua volontà né di osservare né di combattere quei
danni.
HART: positivista, ha giustificato l’astensione positivista metodologica attraverso un argomento di
coscienza o morale. Il fatto che le leggi moralmente riprovevoli siano giuridiche, non implica, loro
necessaria obbedienza. Esiste un criterio che supera quello della loro validità, un criterio che riguarda la
coscienza e la morale ma non il diritto. Davanti al diritto ingiusto sia sempre la possibilità di resistere e non
obbedire, ma si deve avere il coraggio soggettivo di farlo, nella consapevolezza che si sta violando
comunque una norma giuridica

Il Giusnaturalismo= Idea di considerare come non giuridiche le leggi estremamente ingiuste.


Secondo Art questo è impraticabile e offuscherebbe l’importanza morale tra scelta di bene e male

—RADBRUCH = elabora la formula di Radbruch = questa formula prescrive due esigenze


1)Quando si verifica un conflitto tra certezza e giustizia, tra legge positiva rispettosa delle forme e delle
procedure e la dimensione della morale—> prevarrà la certezza.
2)Accetta che le leggi possono essere contemporaneamente valide giuridicamente ma ingiuste
moralmente, ma questo schema prevede un’eccezione: solo il contrasto giunga ad un grado tale di
intollerabilità che la legge debba arretrare di fronte alla giustizia. Quando nel porre il diritto positivo viene
volutamente negata quell’eguaglianza che costituisce la giustizia, allora la legge è diritto ingiusto e anzi non
è affatto diritto.

Che posizione prendere: se guardiamo l’interesse del funzionamento dei sistemi giuridici costituzionali,
l’interesse deve rivolgersi alla formula di Radbruch, ogni costituzione contiene una soglia che coincide con
il rispetto dei diritti fondamentali, il cui superamento determina l’annullabilità del prodotto legislativo a
custodia della costituzione.

4. DIRITTO, MORALE E CONTESTO (SOCIALE): la questione dell’imposizione della morale


attraverso il diritto
A confronto morale in quanto morale convenzionale o positiva, e il diritto come strumento attraverso cui
limitare la libertà imponendo obblighi e divieti. Questione dell’impostazione giuridica della morale attraverso
il diritto. Il fatto che è un dato comportamento sia ritenuto immorale in base ai principi percepiti come
corretti della maggioranza è condizione sufficiente a giustificare la repressione giuridica e la conseguente
limitazione delle libertà degli individui?
•MILL = Che l’unico obiettivo che può indurre lo Stato a limitare la libertà degli individui contro la loro
volontà è quello di evitare che questi possono produrre danno a propri simili o allo Stato stesso. Al di fuori
di tale ipotesi ogni limitazione della libertà individuale e abuso per due ragioni:
1)il governo non ha il compito di educare o di moralizzare, ma solo quello di garantire la pacifica
convivenza tra soggetti. Il suo intervento deve rappresentare un’eccezione e avere come presupposto la
possibilità della produzione di un danno.
2)Una società progredisce se al suo interno è possibile un serio dibattito etico.

Mill sostiene una separazione tra il diritto che impone obblighi e divieti e la morale positiva, ma la sua
argomentazione poggia anche sulle azioni lesive e non lesive.
Azioni lesive= sono di interesse della comunità e dello Stato, legittimano l’esercitazione di un potere di
limitazione.
Azioni non lesive= non dovrebbero interessare nessuno se non le persone direttamente coinvolte.
Uno Stato che si interessa vietando o limitando le azioni non lesive sta quindi agendo al di fuori delle
funzioni del suo ruolo, in modo anche autoritario.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Il discorso si può ingrandire a tutte quelle azioni che sono controverse dal punto di vista del dibattito
morale, di fatto non producono danno alcuno consumandosi all’interno della sfera di libertà dei soggetti
agenti.

Con l’impostazione liberale sopracitata è sempre stata criticata. Le critiche provengono da coloro i quali
ritengono che la morale convenzionale a prescindere da ciò che professi sia da difendere in quanto tale. I
tradizionalisti nazionalisti ecc nella sfera privata e in quella pubblica portano avanti un’idea di questo tipo.
Se Mill parla secondo un’idea di razionalità per cui le persone non vanno giudicate moralmente per il loro
stile di vita a patto che non comprometta lo stile di vita altrui, i critici contrappongono una visione ideologica
che contiene irrazionalità e imprevedibilità (oggi può essere soggetta una determinata categoria, domani
un’altra). L’unico criterio che conta è quello dello status quo, del farsi che una maggioranza imponga i
propri valori arresto della società.

•DEVLIN = simile è sostenuta da lui, attraverso l’argomento della “ disintegration thesis” secondo cui al pari
del tradimento anche l’immoralità mette a repentaglio l’esistenza e l’unità della società politica.questo
perché la società detta anche “insieme materiale” e” unione fisica”, andrebbe considerato come una
comunità di idee senza alcun accordo su ciò che è bene su ciò che è male. secondo lui c’era la necessità
di imporre coattivamente con il diritto la comunione di idee.

•un’altra critica è quella secondo cui condividendo il vino generali principi cardine del liberalismo, è difficile
determinare se un’azione riguardi solo soggetto agente o si interferisca con le vite scelte e le libertà altrui.
Esistono azioni che apparentemente riguardano solo la sfera di libertà del soggetto agente, ma che
indirettamente finiscono col produrre effetti anche per altri soggetti sono addirittura nella società.

Il rapporto tra diritto e morale assume un nuovo significato connesso alla dimensione politica.
Interrogandoci sui rapporti che obblighi e divieti giuridici devono intrattenere con la morale convenzionale,
ci si chiede quale sia il ruolo del diritto dello Stato. Anche in questo caso non ci sono risposte definitive,
sicuramente una dimensione politica democratica costituzionale in cui vengono riconosciuti i diritti inviolabili
e l’uguaglianza è considerata il fondamento del sistema giuridico. Quando la morale convenzionale
interferisce con i principi costituzionali, anche quando condivise da quasi totalità di soggetti, A prevalere
sono i principi costituzionali.

5. CONCLUSIONI
I rapporti tra il diritto e la morale sono al cuore della filosofia del diritto radici antiche profonda. Qualunque
argomento condurrà verso norme giuridiche ed esigenze morali.
Abbiamo riflettuto attraverso il prisma diritto morale, su questioni di metodo, di giustizia e di conformismo
sociale il tutto con costante riferimento a al concetto di diritto.
PP.82

CAPITOLO 4 : SOCIETÀ (il rapporto problematico tra modelli relazionali e diritto)


1. SUL CONCETTO DI “SOCIETÀ”: PER INIZIARE
Cos’è la società?
Il termine società viene infatti usato come fosse un dato autoevidente, facendo riferimento a tutto ciò che in
modo immediato appare riconducibile a ciò che tradizionalmente indichiamo con suddetta parola: un
contesto di viver associato dotato di una qualche forma di ordine e struttura.
In realtà, quello di società non è un concetto immediatamente evidente. Si tratta di una dimensione
complessa che si compone di elementi eterogenei, ovverosia:
—elementi materiali- sperimentabili,
—Elementi immateriali- non sperimentali empiricamente ma fondamentali per qualificare la dimensione
materiale in termini di società.
Tale questione è fondamentale in quanto a seconda delle impostazioni adottate ne discendono differenti
modelli di società, cui corrispondono conseguentemente differenti modelli di diritto.
Il saggio si pone l’obiettivo di ragionare sulla relazione che intercorre tra la sfera dei vissuti o delle relazioni
e la regola giuridica.
È nella/della società che il diritto si genera originariamente ovvero il diritto è un livello accidentale,
arbitrario, finanche inutile?

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Uno sguardo etimologico:


Socius significa ‘colui che segue qualcun altro’ o ‘ colui che si impegna in una impresa comune’ dotata di
regole comuni. La societas consisterebbe in un’impresa/attività volontaria condivisa da più soggetti.
Ne derivano alcune questioni:
—cosa intendiamo per impresa/attività condivisa?
—Cosa significa ‘comune’? E conseguentemente, come si può parlare di regole ‘comuni’?
Per riflettere sugli aspetti qui emersi è necessario partire alla distinzione tra 2 prospettive:
1) prospettiva naturale : pensiero classico (da Aristotele) la relazione sociale è una dimensione naturale
dell’essere umano;
2) Prospettiva artificiale: pensiero moderno, la società si origina in un vincolo artificiale.
La distinzione tra tali prospettive è fondamentale anche in quanto:
-A ciascuna prospettiva un diverso modo di concepire il legame sociale e le regole che lo governano (ossia,
il diritto)- ne derivano altrettanti due modelli:
•Il diritto come realtà oggettiva o naturale;
•Il diritto come realtà artificiale o convenzionale.
N:B: come abbiamo già detto sopra, ai differenti modelli di società corrispondono conseguentemente
differenti modelli di diritto.
-tali prospettive hanno connotato gran parte della tradizione a noi più nota e sono ancora oggi sottese, in
qualche modo, ai nostri vissuti.

2. SOCIETÀ NATURALE
Si tratta della prospettiva per la quale la relazione sociale consiste in una realtà o dimensione ‘naturale’.
L’uomo ha per natura la capacità di allestire relazioni e istituire un legame sociale strutturato, come modello
di vere associato e con regole di convivenza.
Questa impostazione si sviluppa a partire dal pensiero di ARISTOTELE, il quale, nella politica, scrive:
‘l’uomo è un animale sociale’, più precisamente politico.
Ciò significa che per potersi definire uomini, gli individui debbano essere calati in un contesto sociale,
riconoscibile e strutturato (polis).
-> il tutto prevale sulle parti: il collettivo prevale sulle singolarità.
Così CICERONE, nel De legibus, sottolinea la correlazione tra:
-civilis societas: società, -Civitas: città. -Ius: diritto.
Ciò confluisce nell’idea della tradizione medievale della societas christiana intesa come societas
universalis. Dunque, ciò che viene contrapposto alla societas civili non è lo stato, ma la societas domestica.
Questa prospettiva ritorna, all’interno di una cornice teologica, in SAN TOMMASO D’AQUINO, il quale, ne
La Somma teologica, la raccorda non solo all’idea di lex ma al concetto di bonum commune.
Essa si spinge sino alle soglie della modernità con GROZIO ed il suo appetitus societatis ovvero con
Rousseau ed il suo modello di ‘stato di natura’.
ROUSSEAU propone una sorta di ‘dissociazione’ tra relazione e società. Ne ‘il contratto sociale’, la società,
intesa come processo di civilizzazione-
interculturazione, determina un decadimento rispetto allo ‘stato di natura’. Tale stadio originario appare non
privo di forme naturali di relazione legate a qualche affectio societatis e alle categorie di bene/male e
giusto/ingiusto.
Dunque, ROUSSEAU sembra non negare l’esistenza di una relazione sociale come struttura costitutiva
dell’homo naturel.
Questa ambiguità traspare anche nella nozione di KANT di ‘insocievole socievolezza’, elaborata dal filosofo
in chiave universalistica: ancora una volta si pone la tensione per la quale la relazione sociale è una
dimensione costitutiva dell’uomo ma al contempo si pone l’esigenza di istituire norme che la regolino.
Dunque, la società si configura come un livello non discutibile in quanto dimensione oggettiva, strutturale e
antecedente ai singoli individui.
Allo stesso tempo la società , è come un livello dotato costruttivamente di regole giuridiche, di relazione tra
uomini in prospettiva universale.

Si crea una sorta di corrispondenza biunivoca tra:


-idea di relazione, -Idea di società.
-> non c’è relazione senza società, non c’è società senza relazione -> à la ROUSSEAU, la relazione
naturale diventa relazione civile. =
relazione = società = perfetto

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Ne deriva che la mancata appartenenza a qualche forma di vincolo sociale strutturato (quale la polis, la
civitas o l’imperium) appare inconcepibile -> come scrive ARISTOTELE, ‘chi non vive in una città, per la
sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo’.

Passando all’analizzare il modello di diritto che ne deriva, si pone l’idea di diritto quale realtà o dimensione
naturale.
Il diritto non può che rappresentare una sfera oggettiva, ossia un ordine intrinseco alla natura e dunque
anche ai rapporti sociali. Il diritto è oggettivo in quanto naturale: si tratta di un livello originario e
antecedente alle contingenti opzioni normative rispetto alle quali funge da orientamento e filtro critico.
Tale concezione si radica nella concezione greco-arcaica che ritroviamo ne ‘teogonia e le opere e i giorni’
di ESIODO dove nel diritto trova espressione la realtà come ordine. Essa permane nella filosofia platonica.
In particolare, nel dialogo intorno alla giustizia contenuto ne la Repubblica, SOCRATE appare insoddisfatto
delle classiche definizioni della giustizia: in particolare, di fronte all’interpretazione di Trasimarco, per il
quale la giustizia è utile, la volontà del più forte, Socrate rimarca la natura oggettiva di giustizia e di diritto.
Ciò si riflette sul piano politico-istituzionale: il giusto si predica innanzitutto dal governo della città, sui
governanti grava l’onere di essere giusti, emanando norme giuste in quanto espressione di diritto oggettivo.
Dunque, il diritto rappresenta una dimensione oggettiva e universale, quando e se corrispondente a un
“giusto”, a sua volta concepito come dimensione naturale e intrinseca ai rapporti sociali.
E tale prospettiva, che possiamo definire lato sensu “giusnaturalistica”, la ritroviamo anche in SAN
TOMMASO, per il quale la legge naturale (lex naturalis) corrisponde al diritto naturale (ius naturale), dove
la legge naturale altro non è che partecipazione della legge eterna (lex aeternae) nelle creature razionali.
Ora, se la lex è ordinazione della ragione al bene comune, promulgata da chi ha il governo di una
comunità, ius e natura si saldano nella nozione di giustizia.
In principio, dunque, la legge è ordinatio rationis, un ordine della ragione.
Se ci trovassimo di fronte ad una legge non razionale saremmo già al di fuori della definizione di legge. E
tale razionalità, per non essere vuoto formale, si estrinseca nell’orientamento al bene
comune→il rapporto legislatore-comunità non è visto in chiave contrattualistica come avverrà nello Stato
moderno: il legislatore non è fuori dalla comunità ma è uno della comunità e all’interno della comunità se ne
prende cura. Dunque, ius in quanto giusto, non in quanto comandato.
Infine, l’idea di un diritto oggettivo e naturale si mantiene anche nella modernità (Jean BODIN, nel ‘500,
distingue ancora tra ius e lex) ma in una prospettiva molto diversa: l’oggettività del diritto risiede nella
capacità razionale, naturale e dunque universale, del soggetto (cartesiano) di individuare il diritto.
La norma giuridica, dunque, si fonda sulla ragione e ciò consente di progettare razionalmente la società.
Il passaggio storico-concettuale dal pensiero classico-medievale al pensiero moderno determina due
conseguenze:
- se il diritto è prodotto della ragione, il riferimento ad una dimensione oggettiva di giustizia diviene
irrilevante (talvolta dannoso) ,
- Se il diritto è prodotto di una ragione universale, ne deriva un’apertura progressiva al riconoscimento dei
diritti universali (con il pensiero di Grozio (1583-1645) e Pufendorf (XVII sec.) si passa da un’idea del diritto
come orizzonte oggettivamente unitario ad un’idea di diritti come riconoscimento di posizioni soggettive
giuridicamente rilevanti).

3. SOCIETÀ ARTIFICIALE
La società è una realtà artificiale o finzionale. In questo caso, l’uomo originario, l’uomo “nello stato di
natura”, non è affatto socievole, quanto piuttosto atomo irrelato ed in conflitto rispetto agli altri uomini.
È evidente che a ciascuna delle due prospettive in esame (quella della società naturale e quella della
società artificiale) corrisponda un presupposto diverso di modello antropologico. ➔ora la parte prevale sul
tutto e la priorità è conferita agli individui.

Questo modello concettuale è emblema della modernità, a partire da HOBBES nel Leviatano (1651).
L’idea di societas e di relazione scaturiscono da una convenzione: all’interno di uno stato di natura
conflittuale, anche un minimo assetto sociale strutturato non può che dipendere da un accordo stabile.
Dunque, nello stato di natura manca ogni affectio societatis e vige una situazione di
“guerra di tutti contro tutti”, solo un calcolo razionale di utilità consente all’uomo di uscirne: gli uomini,
innanzitutto, devono riconoscersi almeno come entità simmetriche (pactum unionis), frutto della pura
convenienza per superare quello stato di pericolo, accordandosi.
La società, dunque, è un artificio, una finzione, finalizzata alla salvaguardia della vita.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Stipulato il pactum unionis, ne deriva logicamente la stipulazione del pactum subiectionis, ossia di quel
patto mediante il quale i consociati si sottopongono al sovrano come garante della pace sociale, dando il
potere assoluto ad un terzo superiore.
Soffermandoci sulla categoria di contratto sociale, o più precisamente di pactum: gli effetti del
contratto sono il trasferimento della forza, intesa come potere assoluto, dai singoli al sovrano, per il quale
vige il solo limite di non attentare alla vita dei consociati. Il pactum, consente di passare dallo stato di
natura originario e conflittuale ad un contesto sociale (Commonwealth per Hobbes), legittimando altresì
l’idea di Stato e di diritto, creando una realtà artificiale.

Passando ad analizzare il riflessi che l’impostazione vista ha con riferimento all’idea di DIRITTO,
recuperiamo il passo de la Repubblica platonica relativo alla giustizia.
TRASIMACO=Diritto inteso come dimensione essenzialmente convenzionale o artificiale. due visioni:
—classico antica= definisce la giustizia come l’utile per il superiore, ossia per il più forte ,egli fa riferimento
al rapporto tra le forze in gioco,il diritto, è considerato come esito di un puro scontro, come dato di fatto, tra
antagonisti dove vince il più forte.
—versione moderna=nella quale la norma giuridica costituisce una stabilizzazione di uno stato di equilibrio
tra forze in competizione (contratto sociale).

In entrambi i casi, il rinvio alla sfera della giustizia viene rimosso. Il diritto è prodotto artificiale con finalità
utilitaristica e convenzionale.

Nel pensiero di HOBBES i tratti della convenzionalità, dell’artificialità e della finalità


utilitaristica sono fortemente compresenti.
Il diritto (law) ha carattere artificiale e convenzionale e ha origine volontaristica:
- il diritto riposa su una dimensione convenzionale, ossia il contratto sociale (che nel lessico hobbesiano è
talvolta pact, talvolta contract, talvolta covenant), da cui il sovrano trae legittimazione;
Istituita la societas, si ha regola giuridica solo quando essa viene posta come tale dalla volontà del
sovrano.

Occorrono due precisazioni:


1. Sostenere che il diritto riposi su una convenzione e non sulla ‘natura’ non significa automaticamente
precarietà e arbitrio, anzi: da un lato, significa conferire alla convenzione tratti di stabilità e, dall’altro,
significa concepire la sfera giuridica come dotata di coerenza interna.
Il pactum di Hobbes, infatti, è rivedibile solo a determinate condizioni (ossia nel caso in cui il sovrano attenti
alla vita dei consociati) e il diritto non coincide con una mera somma di decisioni arbitrarie→il sovrano ha
l’onere di garantire l’unitarietà e la non
contraddittorietà della sfera giuridica, con l’obiettivo di preservare e salvaguardare i consociati.
2. Lo schema Hobbesiano è paradigmatico della scissione tra diritto e giustizia -> se le norme giuridiche
esistono e sono valide in quanto poste dall’autorità (come sarà anche in Hans Kelsen nel ‘900, seppur con
alcune differenze), allora non vi è alcun motivo per commisurarle a un entità oggettiva ed esterna (la
giustizia).
Dunque, ius in quanto comandato (iussum), non in quanto giusto (iustum).

4. SINTESI INTERMEDIA: due costanti


A prescindere dal modello di riferimento (società naturale o società artificiale), emergono 2 elementi tra loro
connessi:
1- In entrambi i casi, le relazioni umane sono concettualizzate come società (seppur secondo orizzonti
differenti); inoltre, entrambe le prospettive forniscono i criteri per elaborare una rappresentazione unitaria e
individuabile della società medesima.
Dunque, polis, respublica e Stato svolgono una duplice funzione: •In astratto, configurano modelli di
relazione sociale (l’idea di polis, l’idea di respublica, l’idea si Stato), •In concreto, esse fanno riferimento a
esperienze specifiche e storiche (le poleis greche, le strutture romane e poi feudali, gli Stati moderni ecc.).
2- Entrambi i modelli postulano l’esistenza al loro interni di regole di condotta ascreivibili al diritto :nel
modello della società naturale, la sfera giuridica configura un dato oggettivo; nel modello della società
artificiale, il diritto si fonda su una qualche forma di accordo o convenzione.
Possiamo dunque porci i seguenti interrogativi:
—> 'In che senso il diritto “fa parte” della società e si radica nel tessuto sociale? ‘
—>’Esiste una correlazione costante tra società (o modello di società) e diritto (o modello di diritto)?’

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

5. UBI SOCIETAS IBI IUS?


Quanto abbiamo visto fino ad ora sembra confermare l’antico brocardo ubi societs ibi ius= l’esistenza di
una qualche correlazione tra società e diritto. Ciò in 2 modi:
-posta una società, essa presenterà di fatto un diritto, nel senso che non può prescindersi da una qualche
forma di regolazione ascrivibile alla sfera del diritto;
-Perché un consorzio umano possa definirsi ‘società’ dovrà esservi un apparato di
normazione riconducibile a ciò che definiamo ‘diritto’.

Dunque: un certo modello di società implica un particolare assetto giuridico e, simmetricamente, le


modalità in cui si strutturano le norme giuridiche sottendono un particolare modello sociale.
Tra i modelli di società considerati, società naturale (oggettivo naturale )società artificiale (artificiale
convenzionale), i 2 approcci al diritto possono avere relazioni:
All’idea di SOCIETÀ NATURALE sembra corrispondere un modello di DIRITTO OGGETTIVO/naturale : se
la società esprime una relazione intrinseca ai rapporti umani senza senso utilitaristico, il diritto configura un
livello naturale e dunque antecedente le decisioni contingenti ed intrinseche-> l’origine del diritto è ‘interna’
alla società e alle relazioni sociali.
Sull’idea di SOCIETÀ ARTIFICIALE corrisponde un modello di DIRITTO ARTIFICIALE: se la società è frutto
di una CONVENZIONE o accordo, il diritto si articolerà come prodotto di una volontà-autorità che pone le
norme. Quindi la relazione diritto società non viene del tutto rimossa. Solo la presenza di un pactum unionis
e societatis consente (via sovrano) il sorgere del diritto.

Emerge poi un ulteriore punto: sia il modello di società naturale sia di società artificiale implicano che il
vivere associato necessita di forme strutturate di convivenza, es. istituzioni.
L’ISTITUZIONE (vivere associati, convivenza) può essere:
- una dimensione antropologicamente naturale (come la polis greca),
- l’esito di una fictio (lo stato moderno) basato sul contratto sociale,
- un livello originariamente interno alle relazioni sociali.
->si tratta dell’istituzionalismo: le istituzioni sono contesti/livelli di convivenza che auto-organizzandosi
(associazioni, gruppi, movimenti ecc.) generano originariamente diritto → il diritto (in chiave pluralistica)
precede la formalizzazione/esplicitazione normativa.

2 interrogativi:
—> la nozione di società esaurisce ogni modalità di interpretare la relazione ed il legame sociale o esistono
altri modelli?
—> la relazione tra società e diritto è sempre simmetrica cosa succede quando viene a mancare ogni
forma di regolazione giuridica e anarchia?

5.1. SOCIETÀ COMUNITÀ E DIRITTO


PRIMA QUESTIONE
La categoria di SOCIETÀ non rappresenta l’unica modalità con la quale possiamo qualificare un gruppo di
entità umane.
Si pensi ai concetti di COMUNITÀ e di MASSA.
L’idea di COMUNITÀ viene avvertita come una dimensione di prossimità e intimità, dove prevale il
riconoscimento reciproco tra chi ne fa parte.
Due precisazioni:
-abbiamo già accennato a come nel mondo classico non esista una vera e propria scissione tra società e
comunità, società non viene distinta da comunità o popolo.
-La polarità tra società e comunità matura alle origini della modernità, nel quadro di formazione dello stato
come nuovo soggetto politico-giuridico.

• Partiamo da ARISTOTELE: Nelle prime righe della “politica”, il filosofo greco sancisce che : ogni città è
una comunità è costituita in vista di qualche bene. Ogni polis è koinonia= ‘comunità’. In questa prospettiva,
comunità, società e popolo sono sovrapponibili.
• Questa impostazione è ripresa anche da TOMMASO D’AQUINO: egli individua nel bonum unius civitatis
la communitas perfecta.
• È con HOBBES: si inaugura un modo di concepire le organizzazioni sociali spontanee in termini di realtà
subordinate, di corpi intermedi tra il sovrano-Leviatano e gli individui frutto di una concessione del primo.
• Così in HEGEL può configurarsi la distinzione tra : società civile — L’universo della comunità.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

• Ancora, nell’ambito della sociologia, la scienza fondata nel XIX secondo da COMTE ed DURKHEIM, si
teorizza la contrapposizione tra: (comunità) — (Società).

Dunque, nella seconda metà dell’800, in Germania, nasce tale polarizzazione e si sviluppa
l’idea che la società sia ciò che viene definita dallo stato, ponendosi dunque come entità artificiale.
La comunità,invece, fa riferimento a quelle dimensioni dell’esperienza sociale che in prima battuta
sfuggono ad una diretta regolamentazione del diritto statuale: della famiglia, associazioni, relazioni amicali.
• In particolare, il filosofo tedesco Ferdinand TONNIES,, sostiene come il binomio comunità e società
indichi un’opposizione tra modelli giuridici e, anche tra diversi modelli di “uomo”, tra diverse antropologie.
Non a caso, nel secolo scorso la dimensione comunitaria è stata evocata spesso e in contesti molto diversi:
- 'Dalla “comunità del popolo” nazionalsocialista,
- 'Alla classe-comunità marxiana,
-'Sino al recente rilancio dell’ideale comunitario come paradigma politico istituzionale (il riferimento è al
comunitarismo).

Quanto abbiamo visto consente di cogliere un duplice riflesso sul piano giuridico:
1. In un contesto dove comunità e società si sovrappongono (come nel mondo classico, civitas romana e
nella respublica Christiana medievale), il diritto è coestensivo al vivere associato: nel diritto della comunità
si esaurisce l’insieme delle norme che regolano la “società”;
2. Nel momento in cui viene meno tale corrispondenza, il diritto deve trovare qualche altro fondamento:
ancora una volta, il modello hobbesiano è paradigmatico, in quanto la subordinazione della comunità alla
società rappresenta la premessa concettuale per ricondurre il diritto alla sola volontà del sovrano.

5.2. SOCIETÀ, ANARCHIA E DIRITTO


Qui la questione è quella di ipotizzare una società senza diritto, anarchica, priva di norme o regole di
convivenza. Tale prospettiva va intesa secondo 2 livelli:
1. Come possibilità teorica, ossia luogo originariamente privo di norme (stato di natura Hobbesiano);
2. Come esperienza storica legata alla crisi d’un apparato normativo (guerre civili).
Anche la prospettiva anarchica ha radici antiche, basti pensare alle correnti filosofiche dell’età ellenistica,
da Epicuro al Cinismo.
Le impostazioni della ‘società senza diritto’ sono due: -quella marxiana ; -Quella propriamente anarchica.

• PROSPETTIVA MARXIANA :
Essa si basa su due idee di fondo:
1. Per Marx, la categoria ‘società’ è criticabile in quando appartenente al mondo dei borghesi, ossia alla
classe dei proprietari dei mezzi di produzione.
Da qui la critica al modello capitalista, basato sulla popolarità tra borghesia e proletariato i cui effetti
investono la ‘classe’ proletaria.
La classe proletaria è così consapevole delle strutture sottese alla dinamica storica, e vuole modificarne
l’evoluzione, correggendo l’asimmetria sociale ed eliminando la classe borghese.
2. Il diritto è un prodotto della società borghese-capitalista e dunque va rimosso tramite la lotta di classe:
spetta al proletariato instaurare, mediante lo stadio intermedio della dittatura del proletariato, un nuovo
modello sociale privo di classi e, di per sé primo di regole giuridiche.
Ciò premesso, anche in questa impostazione si mantiene il nesso società-diritto.
Infatti, la fase di transizione verso la società senza classi non può avvenire in un contesto completamente
anarchico, anzi, vale addirittura l’opposto.

• Prospettiva radicalmente anarchica è di BAKUNIN .


Nel suo pensiero, la libertà individuale è una dimensione assoluta e senza restrizioni, se non quelle legate
alla natura o all’indole personale, contraria ad ogni struttura sociale e ad ogni regolazione giuridica. La
sfera della libertà ha valore assoluto e vuole il massimo spazio di espressione.

• Questo ritorna in Max STIRNER e in NIETZSCHE che, pur muovendo da prospettive diverse, enfatizzano
la volontà individuale e il rifiuto dell’idea di una società normata.

• Tale impostazione è simmetrica al bellum omnium contra omnes di HOBBES (in Hobbes
frutto dello scontro tra libertà, nel modello anarchico frutto dell’assolutizzazione della
volontà-libertà individuale), talora riproposta anche con riferimento ai contesti democratico-costituzionali
come ad esempio da Robert NOZIK.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Possiamo dunque formulare 2 osservazioni:


1-La prospettiva anarchica sembra non lasciare spazio ad alcun modello di società e regolazione sociale e
giuridica. Se non vi è società non vi sono norme e viceversa l’assenza di norme impedisce l’idea di società.
2-Anche un modello di anarchia assoluta (come quello di Bakunin) postula una qualche forma di
regolazione giuridica, in un duplice senso:
—>L’assolutizzazione della libertà individuale presuppone la sua accettazione come unica regola di
condotta, in altre parole la libertà del singolo si configura come norma suprema;
—>A livello logico, occorre contemplare la sussistenza di qualche consesso umano, quantomeno una
società minima (lo Stato minimo di Nozick), che garantisca la cornice istituzionale entro cui possano
estrinsecarsi le molteplici libertà =in assenza di ciò, si avrebbe il caos.

Emerge, pertanto, l’ambiguità e la complessità della prospettiva anarchica, che se da un lato sembra
revocare l’idea stesa di società, dall’altra, per rendersi praticabile, necessita di un contesto sociale
normativamente strutturato.

6. IL LEGAME SOCIALE TRA MASSA E DIRITTO = sintesi


Tra società e diritto sembra sussistere un nesso ineliminabile, anche nella prospettiva radicalmente
anarchica: ad un modello di società corrisponde un diritto, inteso come dimensione umanitaria articolatile
secondo l’idea di ordinamento.
I presupposti su cui si basa il ragionamento svolto sono i seguenti:
-esiste una società (nel senso di unicità) -> non solo esiste un vivere associato individuale, ma si suppone
che esso sia una realtà unitaria o comunque interpretabile in chiave di unitarietà.
-Esiste un diritto (anche qui nel senso di unicità) -> non solo si presuppone un apparato di regolazione del
vivere associato, ma anche che tale apparato si all’unico presente all’interno di quel determinato contesto
sociale, al limite anche solo per costruire
oggetti di contestazione.

6.1. DALLA SOCIETÀ ALLA MASSA


Partiamo dalla prima precondizione: esiste una società (nel senso di unicità) -> non solo esiste un vivere
associato individuabile, ma si soppone che esso sia una realtà unitaria, o comunque interpretabile in chiave
di unitarietà. Si fa riferimento nuclei sociali coesi e condivisi e l’unità e unitarietà si uniscono.
Nello scenario odierno, l’intersecarsi di livelli e dimensioni contrapposti, tipico dei contesti contemporanei,
determina la complessità di quest’ultimi: essi sono privi di un tratto di unicità immediatamente riconoscibile
e dunque resistenti ad una lettura in chiave unitaria.

Ancora una volta bisogna guardare al modello di RELAZIONE, come presupposto sottostante a tutti i
paradigmi di società che abbiamo sino ad ora considerati.
In sostanza, esiste e si può parlare di una SOCIETÀ(sia nell’accezione di entità individuabile ossia univoca
sia nell’accezione di entità unitaria ossia organizzata) solo se si postula una qualche forma di
concettualizzazione della relazione: in assenza di ciò, non può
configurarsi alcun vincolo sociale.

Oggi, la transizione è dalla società alla massa.


In che senso “MASSA”? = In termini generici, la massa rappresenta una costante delle dinamiche sociali,
ogni epoca ha avuto le sue masse.
L’assunzione di tale nozione in chiave politico-giuridica avviene a cavallo tra l’800 e ‘900. Perché?
Perché nel corso del ‘900 la massa diventa rilevante:
- 'Si pensi ai processi di urbanizzazione conseguenti alla rivoluzione industriale,
- 'Si pensi alle pressioni che le masse esercitano per avere un ruolo politico-istituzionale,
- Si pensi al ruolo della massa nel sistema economico, intesa come “massa di consumatori”.

Il ruolo della massa è messo in luce da due autori in particolare:


- 'Elias Canetti – Massa e potere (1960),
- 'Ortega y Gasset - La rivolta delle masse (1930).
La “massa” è una metafora presa dalla fisica ed indica l’emersione di “masse compatte” caratterizzate dalla
presunta e assoluta indistinzione o neutralità degli elementi che le compongono.
In questa prospettiva, la nozione di massa presenta due tratti essenziali:
- 'È utilizzata in senso tendenzialmente negativo (non è popolo, non è cittadinanza e così via, è amorfa),

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

- 'È riferibile ad un contesto comunque ancora unitario e spazialmente definito (lo Stato).
Si tratta dell’idea di massa monolite o massa-blocco che attiene alla prima metà del ‘900.
Dai sistemi totalitari, nei quali le masse vengono irreggimentate e diventano oggetto/soggetto di
politicizzazione, alle società e agli Stati “di massa” della seconda metà del ‘900, inclusi i modelli di Welfare.
I processi di massificazione implicavano forme di auto-riconoscimento e di identificazione collettiva.
Le masse subivano un processo di incorporazione all’interno di una entità collettiva e di un contesto sociale
identificabile (di natura politico-giuridica in rapporto a un territorio, ad esempio, ovvero ideale (il partito di
massa) o socio-economico (il c.d. Welfare State), o tutte queste cose insieme).

Negli odierni scenari, questo auto-riconoscimento viene a mancare e dunque muta il concetto di
massa→da massa-blocco a massa molecolare.
Il profilo chiave è rappresentato dalla progressiva transizione dalla nozione di riconoscimento-relazione a
quella di interazione. Hanno un ruolo cruciale:
-'Le nuove tecnologie come veicolo di tipologie di connessione sempre più complesse,
-'Il processo di globalizzazione.
Emerge dunque una rete di interazioni indistinte che determina due effetti:
1) Frammentazione,
2) La difficoltà di rappresentazione del tessuto sociale si riflette sul piano giuridico→ne deriva la
compromissione di categorie tradizionali quali quella di istituzione e di ordinamento.

6.2. UBI IUS IBI SOCIETAS? RICONFIGURAZIONE DEL DIRITTO


Consideriamo ora la seconda precondizione: esiste un diritto (anche qui nel senso di unicità) → non solo si
presuppone un apparato di regolazione del vivere associato, ma anche che tale apparato sia l’unico
presento all’interno di quel determinato contesto sociale, al limite anche solo per costituire oggetti di
contestazione (come nell’idea anarchica).

Si pone il problema dell’UNICITÀ e dell’UNITARIETÀ del DIRITTO.


Le mutazioni che investono le aggregazioni sociali non possono, infatti, che riflettersi sui modelli concettuali
che intendono interpretarle e, dunque, sull’idea di diritto → ancora una volta, tra idea di società e modello
giuridico si ha simmetria.
Non solo è difficile muovere da una rappresentazione del diritto come dimensione individuabile e riferibile a
un contesto specifico, ma anche come dimensione unitaria (già citato “ordinamento”).
Bisogna considerare vari aspetti (ciò che accade, e cosa è e a cosa serve il diritto):
- Ciò che accade→oggi, come dato di fatto, si pone un crescente intersecarsi di livelli e forme di
regolazione giuridica. Si tratta della multilevel regulatory (regolazione multilivello)o della governance→sono
espressioni che rinviano all’intreccio sempre più incoerente di discipline e attori giuridici di matrice diversa
(dalla normativa interna al diritto UE, dalle regole di diritto internazionale al diritto transnazionale).

Questo processo ha una serie di corollari:


•La presa d’atto della compresenza di tipologie di regolazione giuridica diverse,
•L’emergere di problemi legati al concreto funzionamento del diritto→l’erosione della tradizionale gerarchia
delle fonti compromette l’idea stessa di ordinamento (si pensi al rapporto complicato tra Costituzioni
nazionali e diritto europeo). A ciò si aggiunge l’ibridazione tra la sfera giuridica e altre dimensioni sociali,
quali il sapere scientifico l’ambito economico.
Tutto ciò compromette la possibilità di considerare il diritto in termini di unicità e unitarietà.
- Cos’è e a cosa serve il diritto (natura e ruolo del diritto)→le due impostazioni “classiche” che abbiamo
considerato (diritto oggettivo e diritto artificiale-convenzionale) sono messe in discussione.
Innanzitutto, sembra tramontare l’idea di una coincidenza tra diritto e tessuto sociale.
Inoltre, la crisi ordinamentale ha fatto emergere schemi interpretativi considerati più funzionali a
comprensione - descrizione delle trasformazioni in atto – ex multis:
• Il giurista americano ROSCOE POUND, già negli anni ’20, auspicava ad una maggiore connessione tra
dinamiche sociali e produzione di regole giuridiche, con l’obiettivo di articolare una sorta di social
engineering (istanza che troviamo in vario modo sin dall’inizio del ‘900 in contesti differenti – si pensi allo
sviluppo dell’Interessenjurisprudenz in ambito tedesco); o Il sociologo Niklas LUHMANN (anni ’70-’80) ha
fornito una lettura del diritto quale processo di stabilizzazione di aspettative sociali – all’interno di una teoria
che assume la società come sistema, la sfera giuridica va intesa come sottosistema di regole
linguisticamente distinto da altri sottosistemi (l’economia, la religione, la scienza ecc.) che, interagendo con
essi, risulta funzionale alla preservazione non dell’ordine (classicamente inteso) ma dell’equilibrio
sistemico-sociale.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Sono prospettive problematiche, cui si affiancano altre impostazioni maturate in ambito anglosassone e a
loro volta discutibili (es. Michael Bratman e Jules Coleman).

Si tratta di modelli che, a cavallo tra teoria e sociologia del diritto, tendono a indagare in chiave pragmatista
il rapporto tra contesto sociale e comportamento giuridicamente rilevante, enfatizzando l’orizzonte riflessivo
di condivisione sotteso alle condotte collettive e alla sfera giuridica e teorizzando un diritto come semplice
attività di coordinazione delle condotte.
Gli orientamenti qui considerati, seppur differenti tra loro, sono accomunati da almeno 2 elementi:
—>Il riferimento ad una società individuabile,
—>La convinzione della sussistenza di una sfera giuridica concepibile in modo unitario.
Dunque, anche tali impostazioni riposano ancora sull’idea che il diritto rinvii ad un unico contesto
sociale→si dà una società cui corrisponde un diritto.
Proprio tale schema concettuale sembra progressivamente tramontare.
Nel contesto contemporaneo proliferano apparati normativi di natura puramente funzionale che oscurano la
complessità della relazione tra società e diritto.
Alla categoria di ordinamento vanno sostituendosi quadri normativi disarticolati e con funzione gestionale
(si pensi al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea).
La rappresentazione teorica più diretta di tale scenario è la visione reticolare del diritto: il diritto, dunque,
diventa una “rete”. Ciò mette in dubbio 2 assunti:
- Non solo ubi societas ibi ius,
- Ma forse anche ubiiu sibi societas.

7. Esiste ancora la società? Una sintesi e qualche prospettiva


a) Concetto di società =
La nozione di società implica sempre una qualche forma di comprensione unitaria della relazione collettiva,
sia essa in chiave oggettivo-naturale o in chiave artificiale-convenzionale, nonché il riferimento a un
contesto omogeneo sotteso al vivere associato.
b) Nesso costitutivo tra società e diritto =
Perché si dia una società e non un mero aggregato umano, casuale e contingente, occorre che il vivere
associato si doti di una anche minima regolazione giuridica.
c) Configurazioni società-diritto =
Solo la comprensione del legame sociale come dimensione unitaria consente l’articolazione di un modello
di diritto.

Emerge una circolarità: al mutare degli assetti sociali e dei modelli attraverso i quali essi sono compresi
corrisponde una diversa articolazione del diritto e, parallelamente, il radicarsi di un modello alternativo di
diritto retroagisce sulle modalità di concettualizzare il vivere associato.

Possiamo concludere con un interrogativo: esiste ancora la società? Ha ancora senso parlare del rapporto
società-diritto in senso circolare?
Molti dei modelli di società considerati vertevano sul presupposto di una qualche forma, sebbene minimale,
di omogeneità o coesione sociale, senza comportare necessariamente un’omologazione totalizzante.
Si aveva, sostanzialmente, un contesto socio-culturale implicitamente riconosciuto come comune o almeno
condiviso, seppur poi oggetto di interpretazioni diverse.
Nei contesti contemporanei questo aspetto si articola in forma di multiculturalismo, come esito dei flussi
migratori o più in generale dell’interazione tra universi socio-culturali eterogenei, veicolati dal processo di
globalizzazione.

In conclusione...
Se il binomio società e diritto appartiene alla nostra comune tradizione storico-giuridica, esso esige di venir
ripensato profondamente.
Ne va dell’idea stessa di legame sociale e dei modelli in funzione dei quali concettualizzare la libertà e la
responsabilità: dell’idea, insomma, di società.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 5 : LIBERTÀ, la legge come misura


1. DUE STRADE
LIBERTÀ —> associata a indipendenza e autonomia
Isaiah BERLIN:
Libertà negativa = libertà come assenza di vincoli che impediscono di fare ciò che altrimenti si potrebbe, ci
si sente liberi quando si può fare tutto ciò che è in nostro potere, senza limiti
Libertà positiva= libertà con riferimento alla legge, condizione affinché si possa parlare di libertà.
Non ce un concetto universale per libertà, ogni concetto è composto da altri concetti e rinvia sempre alla
storia che da il senso al concetto. Non è possibile riferimento alla libertà senza riferimento alla legge,
regola o misura. Ci sono inoltre diverse concezioni dell’uomo. Si aprono già due strade.

2. UNA CURIOSA INCOERENZA


Notiamo una curiosa incoerenza che caratterizza il nostro attuale sistema di credenze: da occidentali
siamo convinti di aver vinto la battaglia per la libertà e di essere più liberi di coloro che ci hanno preceduto,
ma a quanto pare abbiamo perso la fiducia nella possibilità di cambiare il nostro presente.
Lo sottolinea BAUMAN: “certamente noi consideriamo la libertà umana un fatto ovvio e non sentiamo il
bisogno di scendere in piazza per rivendicare ed esigere una libertà maggiore. D’altro canto tendiamo a
credere con uguale fermezza di non poter fare molto per cambiare il modo in cui vanno o sono fatte andare
le cose del mondo.”
È come se avessimo pagato la nostra libertà perdendo la speranza in un mondo migliore.
—> bisogna così tornare indietro e iniziare dall’inizio riavvolgendo il nastro della storia .

3. COSÌ VICINI, COSÌ LONTANI


È importante leggere gli antichi classici perché ciò consente di trovare le nostre radici culturali (greche,
rimane, ebraiche, cristiane). È importante non solo per capire da dove veniamo, ma soprattutto per
educarci alla differenza confrontandoci con altre immagini dell’uomo, del pensiero, concetti di vita e mondo.
LIBERTÀ (greca e romana): Ad Atene e a Roma c’erano gli schiavi, e liberi erano considerati coloro che
schiavi non erano-> dettaglio non trascurabile per misurare la distanza tra il loro mondo e il nostro,
riconducibile alla nostra idea di libertà come indipendenza.
Inoltre, come diceva EMILE BENVENISTE,
In latino in greco l’uomo libero si definisce per il suo appartenere a una famiglia o stirpe: nascere bene ed
essere libero sono un tutt’uno. In germanico l’affinità tra la parola libero e amico (Rispettivamente frei e
Freud) permette di ricostruire una nozione primitiva della libertà: l’individuo deve non solo essere libero ma
anche essere sé stesso, compagno e alleato. Unità sociale, in cui ogni membro scopre se stesso solo nel
suo essere con gli altri.

Due sorprese:
• Libero originariamente era considerato colui che apparteneva una famiglia stirpe o gruppo; un
collegamento tra LIBERTÀ E APPARTENENZA,che per noi risulta incomprensibile-> nessuna traccia di
indipendenza e di autonomia.
• Se la libertà era ricondotta a una condizione di appartenenza, questo perché si pensava che solo
nell’essere con gli altri si poteva essere davvero se stessi e dunque liberi.
Queste due sorprese ci consentono di introdurre quello
che si ritiene essere il tratto comune delle concezioni della libertà: la loro connotazione POLITICA (evidente
quando ci si distacca dall’ambito domestico voltando verso la polis o res publica). Lo ha spiegato
CONSTANT in una conferenza nel febbraio del 1819 a Parigi: attenzione a non confondere la libertà degli
antichi (= libertà intesa nei termini politici ) con quella dei moderni (= libertà intesa in termini civili,
dell’indipendenza di un >individuo dallo Stato).
Constant ne facevo una questione di estensione territoriale, a seconda del territorio una diversa
organizzazione del potere, di intendere i rapporti e quindi la libertà stessa.

4. DAL TUTTO ALLE PARTI


Nel MONDO ANTICO (e medievale) il tutto veniva prima delle parti. Cioè che le singole parti sono più
importanti del tutto perché quest’ultimo altro non è che è una mera somma delle prime.
—In PLATONE leggiamo che anche noi siamo piccoli uomini, parti che mirano al tutto e tendono ad esso.
Gli uomini per i greci sono piccoli frammenti di un ordine immutabile ed eterno.
—“Il tutto precede necessariamente la parte” afferma ARISTOTELE (È una precedenza assiologica non
cronologica). Il tutto è più importante delle parti perché è della appartenenza al tutto che le parti ricavano il
loro senso. Non a caso Aristotele per spiegare il rapporto tra il singolo cittadino e la Polis rinvia rapporto tra

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

la mano e il corpo: come una mano staccata dal corpo cessa di svolgere la propria funzione, così un uomo
fuori dalla Polis non è più un uomo, ma una belva o un dio.
—> questa è la ragione per cui, per i greci, la libertà era innanzitutto una questione teorica. Parlando di
libertà intendevano l’agire coerentemente alla misura dettata dalla propria natura, la quale viene pensata in
termini di un movimento dotato di un senso e di una direzione. Per Aristotele la natura è un fine, e il fine
dell’uomo è la felicità—> la realizzazione di ciò per cui si è nati. Già all’interno dal tempio Di Apollo a Delfi e
si trovava l’iscrizione “Conosci te stesso”. Da questa conoscenza che dipende la tua libertà e la tua felicità.
—Parentesi: questa idea che la libertà derivi dalla teoria si ritrova in un autore come SPINOZA.
Spinoza sostiene che nel mondo tutto è il risultato di cause ed effetti; se pensiamo di essere liberi è
soltanto perché ignoriamo le cause delle nostre azioni. Anche una pietra lanciata in aria, qualora potesse
pensare, crederebbe di essere libera di muoversi a suo piacimento-> la nostra condizione la stessa:
ignoriamo il fatto che le cause delle nostre azioni non dipendono da noi. Veramente libera è soltanto la
sostanza infinita, vale a dire Dio, la cui libertà finisce con il coincidere con la necessità. (Spinoza, uno dei
più grandi sostenitori della libertà di pensiero, espressione e democrazia).
->Il legame tra libertà e conoscenza spiega il motivo per cui per i greci la libertà era un concetto
essenzialmente politico: per loro la natura dell’uomo era essenzialmente politica. ARISTOTELE dice
“l’uomo è un animale politico per natura”, per natura deve vivere in una città. Il che non significa che non si
può isolare, ma se lo fa non diventa ciò che è. L’uomo trova il senso della propria vita soltanto nella
relazione con gli altri e nella partecipazione allo spazio pubblico della polis. In quanto animale dotato anche
di logos è soltanto nella Polis che l’uomo può realizzare pienamente la propria potenza ed essere dunque
veramente libero.

5. LIBERTAS IN LEGIBUS CONSUSTIT


La concezione greca della libertà era politica perché per loro non si dava libertà di fuori della Polis.
Ciò valeva soltanto a condizione che la Polis fosse una Polis bene ordinata: si pensava che il bene
dell’uomo non fosse distinto dal bene della Polis. Il termine greco politeia= ‘costituzione’ da noi utilizzato nel
linguaggio medico quando parliamo di un corpo dotato di sana e robusta costituzione. -> corpo all’interno
del quale ogni singola parte svolge adeguatamente il proprio ruolo in funzione del bene comune.
——>I ROMANI riprendono questa idea declinandola in modo specificamente GIURIDICO; sono loro ad
avere “inventato” la scienza giuridica. Anche a Roma la libertà è un concetto politico: è una libertà di cui
si gode nella RES PUBLICA e grazie alle sue leggi. Il termine libertas indicava uno status: regime giuridico
di coloro che non erano schiavi.
Veniva usato anche per indicare la stessa res publica (come scriveva TITO LIVIO).
Il confronto con il mondo dei romani ci consente di spiegare perché la storia di un concetto va distinta da
quella della parola che lo esprime.

•Nel mondo dei ROMANI, La libertà non era intesa nei termini di una facoltà o di un diritto innato dell’uomo,
quanto piuttosto come la somma dei diritti civili garantiti dalle leggi di Roma. Anche per i romani non tutti gli
uomini erano liberi: no i barbari, schiavi, donne e in generale tutti coloro che non avevano accesso alle
cariche pubbliche.
•La libertà era una questione pubblica non privata. Per i romani propriamente libero era chi non era
soggetta al dominio di un altro uomo. Una libertà simile, per come la intendiamo noi ora, era riconosciuta
soltanto ai patres familiarum con piena capacità giuridica. La libertà consisteva nell’assenza di dominio,
non nell’indipendenza e neanche in autonomia della volontà.
•Libertas era anche sinonimo di res publica perché si riteneva che soltanto l’assetto istituzionale di
quest’ultima (e non il regno!) fosse in grado di proteggere ogni singolo cittadino del rischio della
dipendenza nei confronti di qualcun altro. —> si pensava che l’unico modo per sottrarsi a questo pericolo
fosse quella di sottomettersi al dominio delle leggi. Ripreso da Marco Tullio Cicerone “Delle leggi
infinite tutti siamo schiavi perché possiamo essere liberi” In assenza di leggi la libertà si sarebbe risolta in
anarchia.

6. UNA FUGA VERSO L’INTERNO


—HANNA ARENDT ha affermato che la libertà e la politica sono due facce di uno stesso argomento -> “la
libertà non si limita a costituire uno dei molti problemi e fenomeni inerenti all’ambito politico: la libertà è la
vera ragione per cui gli uomini vivono insieme in un’organizzazione politica, elemento senza il quale la
stessa vita politica sarebbe priva di significato. La politica trova nella libertà la sua ragione d’essere.”
La politica trova nella libertà la sua ragione d’essere, ed è vero anche l’inverso: la libertà trova nella politica
la sua ragione d’essere.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

In Grecia durante l’impero macedone e a Roma durante l’epoca del principato comincia a farsi strada
un’altra idea di libertà: non più politica ma antipolitica, “inventata” da primo fra tutti Zenone di Cizio.
Assistiamo a una sorta di fuga verso l’interno, caratteristica delle epoche in cui gli uomini perdono la
speranza di poter incidere sulle dinamiche politiche.
La libertà si identifica con la saggezza, trasferisco il concetto di libertà dal piano politico a quello delle
relazioni interne di ciascun uomo con sé stesso. La libertà continua essere pensata in opposizione alla
schiavitù, la schiavitù che nega la libertà viene intesa nei termini di schiavitù rispetto ai propri desideri.
Solo il saggio è libero perché sa dominare attraverso la ragione le proprie passioni senza esserne
dominato-> anche uno schiavo può essere libero purché non sia schiavo delle proprie passioni.
Schiavo era lo stoico Epitteto, Il suo celebre insegnamento per cui non avrebbe senso preoccuparsi per le
cose che sono in nostro potere, ma soltanto per quelle cose che dipendono dalla nostra volontà. Tra le
cose che non sono in nostro potere colloca anche le cariche pubbliche, con ciò sancisce una radicale
separazione tra la libertà intellettuale del saggio e la politica.
La libertà diventa una questione individuale, una faccenda interna chi a che fare con la volontà di me
singolo uomo. La questione della libertà comincia ad essere declinata nel problema del “libero arbitrio” (=
libertà o meno di fare ciò che vogliamo fare) Problema
affrontato dal cristianesimo.

7. UNO SCANDALOSO ANNUNCIO


Sono in tanti a ritenere che è con il CRISTIANESIMO che entra nella storia quella “è”la nostra idea di
libertà. —HEGEL: “ gli orientali non sanno ancora che lo spirito è libertà in se; poiché non lo sonno non
sono liberi. Gli orientali sanno soltanto che uno solo è libero, ma proprio per questo questa libertà è
solamente arbitrio, docilità. Per questo l’individuo unico nel suo genere è soltanto un despota, non un uomo
libero. Solo tra i greci è sorta per la prima volta la coscienza delle libertà e per questo che essi sono stati
liberi; ma i greci sapevano soltanto che alcuni sono alberi, non l’uomo in quanto tale. Nemmeno Platone e
Aristotele lo sapevano. Solo le nazioni germaniche sono giunte alla coscienza, nel cristianesimo, che
l’uomo è libero in quanto uomo.”
Tutti gli uomini nascono liberi e uguali-> questo è il grande lascito del Cristianesimo. Ogni uomo è libero in
quanto uomo, prima ancora che in quanto membro della polis o della res publica, che sia saggio o stolto.
Affermazione che ora troviamo nella dichiarazione universale dei diritti umani 1948.

—Il piano di elaborazione del concetto cristiano di libertà è un piano teologico. È davanti a Dio che tutti gli
uomini sono liberi; e lo sono perché Cristo li ha liberati -> questo è lo “scandalo” evangelico.
Il presupposto della libertà cristiana, è un dio che agisce liberamente nella storia, pretendendo dal suo
popolo fedeltà obbedienza e conversione. È solo cristo a liberare ogni uomo in quanto tale.
—“Fratelli siete chiamati alla libertà” scrive Paolo di Tarso-> La libertà di cui parla è la libertà dal peccato,
dalla morte, dalla legge mosaica: quella legge la cui osservanza costituiva un marchio distintivo
dell’appartenenza o meno al popolo eletto, e che Paolo ora ritiene inutile e dannosa perché genera la
credenza che ci si possa salvare limitandosi a osservarla mentre è solo la fede che salva. Ciò non significa
che la libertà consiste nel fare ciò che si vuole-> ritorna l’idea per cui non si dà libertà senza misura; la
misura e ora intesa nei termini dell’unica vera legge che è quella cristiana dell’amore e del servizio. “Amerai
il prossimo tuo come te stesso”.
—Nel Nuovo testamento il libero arbitrio è costantemente presupposto. La cosa interessante è la
spoliticizzazione del concetto di libertà all’interno del Cristianesimo. Il vangelo traduce la questione della
libertà nei termini del rapporto del singolo con Dio. Il problema del cristiano non è più quello di
comprendere il proprio posto all’interno dell’ordine storico e politico, ma quello di comprendere come si
deve agire per tornare al padre.

8. LA VITA È ALTROVE
La vera vita e la felicità è altrove. Due sono le città per un cristiano: la città degli uomini (= città di coloro
che vogliono vivere secondo la carne) e la città di Dio (=città di coloro che vogliono vivere secondo lo
spirito)
—AGOSTINO D’IPPONA.
Libero arbitrio: di decidere per o contro Dio. Un problema che riguarda la volontà, la scelta e non l’azione.

•Prima precisazione: Veramente libero è solo colui che sceglie di agire secondo la volontà di Dio e non chi
decide di fare ciò che vuole-> libertà e servizio si incontrano.
L’uomo è stato creato per vivere secondo colui che l’ha creato, non secondo se stesso.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

•Seconda precisazione: il singolo uomo non può decidere per Dio da sé; il peccato originale lo ha segnato
e per scegliere il bene è necessario qualcos’altro: la grazia non dovuta di Dio.
La libertà assume così tratti del dono, E come ogni dono, si sottrae a qualunque calcolo o principio di
equivalenza. La garanzia di salvezza è data dalla sola fede nella parola di Dio.

—Verrà ripetuto da MARTIN LUTERO “la fede sola, senza opere, giustifica, libera e salva“. L’uomo per
Lutero è irrimediabilmente corrotto e nulla può fare per salvarsi senza l’intervento della grazia divina: “Ogni
cristiano ha una doppia natura, spirituale e corporale. Secondo l’anima è detto uomo spirituale, nuovo,
interiore; secondo la carne e il sangue è detto uomo corporale, vecchio ed esterno.
Un cristiano è un servo zelante.Il cristiano per Lutero è dentro libero e fuori schiavo-> perché doppia è la
sua natura. La libertà interiore si accompagna la servitù esteriore, schiavo delle proprie pulsioni e della
legge che le tiene a bada.
L’impostazione è dialettica ma non lascia spazio ad alcuna mediazione razionale; e meno che mai a una
mediazione istituzionale (non a caso Lutero si scaglia contra la chiesa di roma e la vendita delle
indulgenze: la salvezza non si calcola e non si compra).

9. DALLE PARTI AL TUTTO


Come abbiamo detto, anche nel mondo cristiano il tutto precede la parte. Questo perché è che accanto alla
declinazione della libertà nei termini del libero arbitrio, nel Cristianesimo continua a essere presente una
concezione “lato sensu” politica-> la libertà viene pensata nei termini dell’appartenenza a una città che non
è più quella degli uomini, ma è la città di Dio.
TOMMASO D’AQUINO parla di partecipazione quando spiega la relazione tra legge naturale e legge
eterna-> partecipazione al piano della divina salvezza.
Differenza importante perché rischia di portare con se una sorta di indifferenza dei cristiani nei confronti
delle dinamiche della città degli uomini. Tanto che ROUSSEAU arriverà a scrivere “il cristianesimo che
predica che servitù e dipendenza e il suo spirito è favorevole alla tirannia. I veri cristiani sono fatti per
essere schiavi, essi lo sanno e non se ne preoccupano”. Proprio perché la libertà è soltanto interiore e la
vera giustizia è quella divina, esternamente non ci si può sottrarre al potere costituito. Anche l’ordine
politico è parte dell’ordine divino e in quanto tale ad esso sottomesso.

Da un certo momento in poi avviene un capovolgimento nel modo di intendere il rapporto tra il tutto e le
parti—> si comincia a pensare che siano le parti a precedere il tutto.
Per capire questo passaggio è necessario leggere il ‘Leviatano’ di HOBBES (Londra 1651).
Il contesto è quello della guerra civile inglese e della nascita della Commonwealth.
Il problema di Hobbes è quello dell’ordine politico; un ordine inteso nei termini di un prodotto artificiale: fatto
dagli uomini e per gli uomini. Se la Politica di Aristotele prendeva le mosse dalla polis e solo
successivamente parlava dell’uomo, Hobbes capovolge il discorso.
L’uomo, lo Stato, uno Stato cristiano, il regno delle tenebre sono le quattro sezioni in cui è diviso il
Leviatano. Scansione che illustra la rivoluzione metodologica hobbesiana: non è il tutto a precedere le
parti, ma le parti a precedere il tutto. Il metodo di Hobbes è in tutto e per tutto quello suggerito da Cartesio:
se vuoi risolvere un problema smontalo prima nelle sue parti, ricomincia dalle idee chiare e distinte e poi
rimontalo. Le parti del problema, che è l’ordine politico, altro non sono che gli uomini, da qui bisogna
ricominciare per risolverlo.

10. UN POTERE ASSOLUTO


—Se per sapere come è possibile istituire l’ordine pubblico devo prima sapere come sono fatti quegli
uomini che ne sono artefici. Chiedersi che cosa accadrebbe qualora questi uomini si trovassero a
vivere originariamente in uno stato di natura.
Per HOBBES in questo stato gli uomini sono tutti uguali e lo sono perché non esiste uomo che non è
sufficiente forte per uccidere un proprio simile. Dall’uguaglianza nasce la diffidenza; e dalla diffidenza la
guerra—> una guerra preventiva dove ogni uomo cercherà di fare il possibile per uccidere i propri simili
prima che loro provino a fare lo stesso.
—Per Hobbes l’uomo è un animale la cui inclinazione generale consiste in un incessante desiderio di
potere che cessa solo con la morte. (Nulla in comune con l’animale politico di cui parlava Aristotele)
“La felicità è il progredire del desiderio da un oggetto all’altro; ottenere il primo equivale ad aprirsi la via per
il secondo. La causa di ciò è che l’obiettivo del desiderio di un uomo non è l’essere felici una volta sola ma
il tentativo di assicurarsi per sempre l’accesso al proprio desiderio futuro”.
L’uomo desidera il potere: solo il potere gli garantisce di continuare incessantemente a desiderare.
La condizione originale di Hobbes è una condizione di disordine e non di ordine.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

—> da qui l’esigenza di una protezione che solo lo Stato può garantire: in questo contesto Hobbes inventa
la definizione negativa della libertà “libertà significa assenza di opposizione (impedimenti esterni al
movimento) e si può applicare tanto alle creature irrazionali e inanimate quanto a quelle razionali” “Un
uomo libero è colui che non è ostacolato nel fare ciò che vuole e le cose che in grado di fare con la propria
forza e con il proprio ingegno”
—> si tratta di una libertà che ha a che fare con l’azione e non con la volontà (ritenuta da Hobbes come
pura passione). Questa libertà declina nei termini di un vero e proprio diritto naturale: “il diritto di natura è la
libertà che ha ogni uomo di utilizzare il proprio potere come vuole per la preservazione della propria natura;
di fare tutto ciò che nel suo giudizio e nella sua ragione concepirà come i mezzi più adatti a questo scopo”
In quanto diritto soggettivo la libertà è un potere
—> il potere di fare tutto ciò che si può pur di sopravvivere. Ciò significa che nello stato di natura ogni
uomo ha diritto ad ogni cosa, perfino al corpo di un altro —> ogni uomo ha il diritto di uccidere qualcuno.
—Si comprende come sia proprio questa libertà la causa principale di quella vita solitaria, sofferta,
brutale e breve che non lascia spazio alla coltivazione, il commercio, la navigazione, le arti e lo sviluppo
della conoscenza.

11. DUE COSE INCOMPATIBILI


Dallo stato di natura gli uomini devono uscire-> è la ragione a imporglielo. La prima legge di natura
(che è il primo precetto della ragione) impone a tutti gli uomini di “ricercare la pace e perseguirla” . Da
questo primo precetto ne deriva un altro, una seconda legge naturale: “che un uomo sia disposto a deporre
questo diritto a tutte le cose per la pace e la propria difesa, e che si accontenti di tanta libertà contro gli altri
uomini quanta ne concederebbe agli uomini contro sé stesso”. Per ottenere la pace e la sicurezza
individuale bisogna cedere la propria libertà naturale; e bisogna cederla a un terzo: il sovrano-> unico
soggetto destinato a risultare titolare di un potere assoluto tanto quanto assoluta era la libertà che gli
uomini gli hanno ceduto.

Modo in cui Hobbes configura il rapporto tra diritto e legge: “una legge di natura è un precetto escogitato
dalla ragione per vietare che un uomo faccia cose che distruggono la sua vita. Diritto e legge andrebbero
distinti, perché il diritto consiste nella libertà di fare o non fare, mentre la legge determina e costringe a una
delle due cose; la legge e il diritto differiscono tanto quanto l’obbligazione e la libertà, incompatibili in una
ed una stessa materia”. Dove c’è libertà non c’è legge e dove c’è legge non c’è libertà. E ciò vale sia nel
caso in cui per legge si intende la legge natura sia nei termini della parola di chi comanda —> questa è la
libertà dei sudditi: “la libertà dei sudditi risiede nelle cose che il sovrano ha permesso Quando ha regolato
le loro azioni: comprare, vendere, scegliere la propria dimora, il proprio mestiere, educare i figli e cose
simili” con l’aggiunta al massimo di quelle cose su cui il sovrano non si è pronunciato.
A queste condizioni la libertà dei sudditi risulta compatibile con il potere assoluto del sovrano. Il fine dello
Stato è la sicurezza individuale e le leggi dello Stato servono a garantirla; la libertà e altra cosa—> è
assenza di leggi, indipendenza. Come ripeterà BENTHAM “la libertà non è niente di più niente e niente di
meno che l’assenza di coercizione. L’idea di libertà è puramente negativa. Non si tratta di un prodotto della
legge, ma di qualcosa che esiste senza la legge e non per mezzo suo. Anzi si tratta di qualcosa che non
può essere prodotto dalla legge. Ciò che viene tanto magnificato come il prodotto della legge è la sicurezza
e non la libertà.”

Questa idea di libertà la si ritrova tra 700/800 (rivoluzione francese e terrore giacobino) nei classici
del pensiero liberale (Benjamin Constant e John Stuart Mill) che rivendicano con forza l’esigenza di
individuare dei limiti all’esercizio del potere pubblico: primo fra tutti l’inviolabilità della libertà individuale. Per
capire come ciò sia stato possibile è necessario leggere parte del secondo dei due trattati di Locke.

12. IL LIMITE DEI DIRITTI


esigenza di individuare dei limiti all’esercizio del potere pubblico: TRATTATI DI LOCKE:
I “Due trattati sul governo” vengono pubblicati nel 1690. Data importante perché un anno prima si era
conclusa in Inghilterra la rivoluzione che aveva portato all’incoronazione di Guglielmo III e all’emanazione
del “Bill of Right” dove venivano riconosciute le prerogative del parlamento e stabiliti i limiti del potere regio.

—Si tratta di capire come cominciare a mettere in discussione l’assolutezza del potere da Hobbes
riconosciuta al titolare del potere sovrano; ed è proprio questo ciò che fa Locke introducendo un elemento
che lo condurrà a inventare la forma di Stato che oggi chiamiamo “stato di diritto”: dove l’esercizio del
potere di governo risulta subordinato al rispetto della legge e prim’ancora al rispetto di quei diritti soggettivi
che noi chiamiamo diritti umani.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

—Anche per Locke è necessario capire quale sia la condizione degli uomini nello stato di natura:
“questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle
proprie persone entro limiti della natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun
altro” . Lo stato di natura è uno stato di piena libertà ( già detto da Hobbes), ma ci sono due differenze:

1)Già nello stato di natura ci sono delle leggi che costituiscono dei limiti a questa libertà. Questo è uno
stato di libertà, ma non è uno stato di licenza.
2)Già nello stato di natura gli uomini dispongono di possessi propri. Non si tratta di una situazione di fatto,
ma diritto: non è un semplice possesso ma di un’autentica proprietà delle proprie cose e persone.
—> questo modifica radicalmente la configurazione: è il diritto di proprietà che lo Stato deve garantire.
Vita, salute, libertà e proprietà sono i quattro diritti di cui, secondo Locke, ogni uomo risulta essere titolare
già nello stato di natura. Il fondamento di tali diritti di tipo teologico: siamo tutti uguali e indipendenti perché
siamo tutti figli dello stesso padre e questi diritti sono un suo dono. Il che spiega perché tali diritti sono
indisponibili: pur essendone titolari, non ci appartengono. Non solo i singoli uomini devono rispettarli ma
anche lo Stato, che nasce per garantirne l’esercizio e trova in questi diritti un limite al proprio potere.

13. UN’IDEA CHE RITORNA


—La libertà di cui parla Locke sembra essere ancora una libertà intesa nei termini dell’indipendenza; la
legge di natura ne costituisce un limite.
Sembra persistere l’opposizione tra libertà e legge-> il che spiega perché Locke è considerato uno dei
padri del pensiero liberale, dove la libertà è intesa come libertà dallo Stato. In quanto lo Stato sorge per
tutelare la libertà in Locke troviamo un’altra configurazione del rapporto tra libertà e legge:
“ la legge non è tanto la limitazione quanto la guida, non prescrive null’altro che ciò che promuove il bene
generale. Il fine della legge non è reprimere la libertà, ma conservarla e accrescerla; dove non c’è legge
non c’è libertà perché la libertà consiste nell’essere libero dalla repressione e violenza il che non ci può
essere dove non c’è la legge“.
—Non c’è opposizione dunque tra libertà e legge; solo grazie alla legge un uomo può seguire liberamente
la propria volontà. -> altra idea che segnato la storia del pensiero moderno, propria della tradizione
repubblicana: la libertà è innanzitutto assenza di dominio. (stessa idea dei romani e di Cicerone). idea che
era già stata presa da Niccolò Machiavelli e ripresa ai giorninostri da Quentin Skinner e Maurizio Viroli.

—VIROLI dice “ gli scrittori politici repubblicani non hanno mai identificato i vincoli imposti da leggi non
arbitrarie con la mancanza di libertà, mentre hanno definito come tale la dipendenza alla volontà arbitraria.
Essi ritenevano che il governo della legge rende gli individui liberi perché la legge è un comando universale
e come tale protegge dall’arbitrio” -> essere liberi significa non essere soggetti alla volontà arbitraria di altri
individui o istituzioni. Questa libertà è solo il governo della legge a poterla garantire.
—MONTESQUIEU: “la libertà politica consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione
che ciascuno ha della propria sicurezza. Perché questa libertà esista bisogna che il governo sia
organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino.”
—HARRINGTON aveva criticato il Levitano di Hobbes nel quale veniva detto che i cittadini di una
Repubblica come Lucca non sarebbero stati più liberi dei sudditi del sultano di Costantinopoli-> entrambi
sottomessi alle leggi. Per Harrington invece i primi sono più liberi perché non sono controllati da alcuno se
non dalla legge, la quale diventa la libertà della Repubblica.

14. RESTARE LIBERI COME PRIMA


Il modo di intendere il rapporto tra libertà e legge costituisce la chiave per comprendere la differenza tra la
concezione liberale e quella repubblicana.
• LIBERALE -> la libertà consiste nell’assenza di leggi, in tese come un male necessario.
Bentham: “ La legge può essere un male necessario, ma in ogni modo sarà sempre un male”.
• REPUBBLICANA-> è grazie alla legge che siamo liberi; resta concezione negativa della libertà. Si parla
sempre di indipendenza, ma non nei confronti di qualsiasi ostacolo, ma nei confronti di qualsiasi possibilità
di forma di dominio personale che incide sulla mia volontà. La concezione repubblicana della libertà chiama
in causa la “autonomia“ —> parola in cui la legge diventa condizione della libertà e non limite perché
l’assenza di dominio risulta essere garantita soltanto dalle leggi. La libertà repubblicana coincide con la
capacità di dare regole se stessi.
Nel “contratto sociale” di ROUSSEAU la questione della libertà compare subito nell’incipit “l’uomo è nato
libero, ma in ogni luogo egli è in catene” “ il contratto sociale offre la soluzione al problema di trovare una
forma di associazione che difenda e protegga le persone e i beni degli associati i quali, pur unendosi a tutti
gli altri, non obbediscono che a se stessi e restano liberi come prima.”

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Per Rousseau, essere liberi significa obbedire a se stessi-> autonomia. Questa è la libertà che in società
fondate sul dominio dell’uomo sull’uomo gli uomini hanno perduto devono riconquistare

-> per capire come è necessario evidenziare una differenza del patto sociale di Rousseau e Hobbes:
HOBBES: Per quest’ultimo gli uomini sono chiamati a cedere la propria libertà a una persona artificiale che
si chiama Stato, di cui si fa carico il sovrano che mi rappresenta la volontà;
ROUSSEAU: gli uomini devono cedere a tutti i loro diritti, non a un terzo, ma alla comunità-> tutti devono
cedere tutto a tutti. (Idea che sta alla base della democrazia).

—Differenza che risulta chiara se ci si chiede quale sia il problema che tale contratto a chiamata risolvere:
per Hobbes È il problema della sicurezza individuale; per Rousseau è quello di diventare “veramente“ liberi
-> si raggiunge nel momento in cui la libertà naturale cede il passo alla libertà civile e morale.
“con il contratto sociale l’uomo perde la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta;
guadagna invece la libertà civile e la proprietà di ciò che possiede. È necessario distinguere la libertà
naturale, che ha per limiti le sole forze dell’individuo, dalla libertà civile, che ha limitato dalla libertà
generale; il possesso, solo effetto della forza o del diritto del primo occupante, dalla proprietà, che è
fondata su un titolo positivo. All’acquisto dello stato civile si aggiunge quello della libertà morale, la sola che
rende l’uomo padrone di se stesso (in quanto sottostare all’impulso dei soli appetiti è schiavitù, mentre
l’obbedienza a una legge che l’uomo si è prescritta è libertà)
—Tra la vera libertà e la legge non vi è un rapporto di opposizione-> essere liberi non significa non avere
leggi, ma dare leggi a se .stessi

15. ESSERE COSTRETTI A ESSERE LIBERI


—Dalla falsa libertà come indipendenza si passa alla vera libertà come autonomia. -> obbedire a una
volontà del corpo sovrano che non si presenta come un terzo/rappresentante significa obbedire a se stessi.
—Tuttavia resta da capire cosa succede nel momento in cui la volontà di un singolo individuo risulti essere
contraria o diversa rispetto a quella espressa dalla volontà generale.

—Risposta di ROUSSEAU: “Il patto sociale include tacitamente il solo impegno capace di dar forza a tutti
gli altri e cioè che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale non sarà costretto dall’intero corpo;
ciò significa che sarà costretta essere libero”.
—Si dirà che è soltanto un problema di educazione: bisogna far si che gli uomini imparino a essere liberi.
Soluzione razionale, ma non per questo meno inquietante.

—BERLIN sottolinea le implicazioni totalitarie delle concezioni positive della libertà -> tutte quelle
concezioni che declinano la libertà nei termini dell’autonomia piuttosto che in quelli dell’indipendenza. —
Non a caso ROUSSEAU costituisce uno dei riferimenti principali del repubblicanesimo moderno nonostante
quest’ultimo abbia un’idea in parte diversa di libertà: l’autonomia è soltanto un mezzo per poter vivere
liberamente, ma non si identifica con la libertà.
Non si tratta di stabilire soltanto se una legge sia o meno voluta, quanto piuttosto se tale legge sia arbitraria
o meno-> solo una legge non arbitraria è davvero in grado di proteggere i singoli individui. Entra così la
tensione tra democrazia e stato di diritto. Lo stato di Rousseau, per quanto democratico, è uno stato
assoluto: perché la volontà generale non incontra limiti; mentre lo Stato repubblicano è uno Stato di diritto:
dove non vige soltanto il dominio della legge, ma anche la divisione dei poteri e la presenza di garanzie->
da qui l’introduzione di carte dei diritti fondamentali e il riconoscimento di vincoli costituzionali sovraordinati
alle leggi ordinarie.

16. LA REALTÀ DELLA LIBERTÀ


—Ammesso che la libertà riguardi la volontà (e non l’azione) chi mi dice che non sia una semplice
illusione? È la questione sollevata a suo tempo da SPINOZA e che oggi è ritornata sulla scena grazie lo
sviluppo delle neuroscienze. Ciò che noi chiamiamo libero arbitrio potrebbe essere un arbitro di cui
ignoriamo le cause.
—KANT da una possibile risposta a coloro che ritenevano che la libertà fosse una pura e semplice
illusione-> una risposta che chiama in causa il rapporto tra libertà e legge. Una risposta che ci fa capire
come il rapporto tra indipendenza e autonomia sia in termini di una reciproca coappartenenza. Per Kant “
L’arbitrio, che può essere determinato dalla ragione pura*, si chiama libero arbitrio.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Quello che può essere determinato dall’inclinazione (impulso sensibile) è l’arbitrio bestiale” (=Vale a
dire da una ragione “depurata” da tutto ciò che appartiene al campo dell’esperienza sensibile). “ L’arbitrio
umano è invece influenzabile, ma non determinato da un impulso sensibile; non è puro per se stesso, ma
può essere determinato a certe azioni della volontà pura.
•La libertà dell’arbitrio è l’indipendenza dalla sua determinazione da ogni impulso sensibile-> questo è il
concetto negativo della libertà.
•Concetto positivo-> la libertà è la facoltà della ragione pura di essere per se stessa pratica.”

L’uomo dunque non è un animale, ma non è nemmeno Dio: gli impulsi sensibili influenzano il suo arbitrio,
ma non lo determinano, non costituendo mai la causa delle sue azioni. A differenza degli altri animali gli
uomini possono sempre resistere ad un impulso sensibile. Da qui I due concetti della libertà, quello
negativo e quello positivo (due facce della stessa medaglia) : L’arbitrio è libero in quanto può essere
determinato dalla ragione (concetto positivo) indipendentemente dall’impulso sensibile (concetto negativo).
—Che cosa mi garantisce che sia davvero la ragione pura a poter determinare le mie scelte e che il mio
arbitrio sia veramente libero? A questo problema Kant dedica alla seconda delle sue critiche (critica della
ragione pura):“La libertà è reale; poiché quest’idea si manifesta con la legge morale. La libertà è l’unica fra
tutte le idee della ragione di cui noi conosciamo a priori la possibilità senza percepirla, perché essa è la
condizione della legge morale che noi conosciamo.”
—>la libertà non può essere dimostrata empiricamente (perché tutto ciò che appartiene al campo
dell’esperienza sensibile è soggetto al nesso di causalità), ma può essere dimostrata sul piano dell’uso
pratico della ragione. Tale dimostrazione risiede nel nesso tra legge morale e libertà: dove la libertà è la
condizione di possibilità della prima; è attraverso la coscienza della legge morale che si acquisisce la
consapevolezza della realtà della libertà: “la legge morale non esprime nient’altro che l’autonomia della
ragione pura pratica, cioè della libertà”.

17. LE LEGGI DELLA LIBERTÀ


—KANT, dopo aver definito libertà (positivamente) con la facoltà della ragion pure di determinare l’arbitrio;
Torna il nesso libertà - legge: L’arbitrio è libero quando il principio soggettivo di un’azione si assoggetta a
una condizione, cioè di valere come principio valido per tutti in ogni tempo e luogo.
Criterio dell’universalizzazione: forma con cui si esprime l’incondizionatezza della legge morale. Per sapere
se ti stai comportando bene chiediti cosa accadrebbe se tutti adottassero come principio delle loro azioni
quello che hai deciso di adottare tu.
“ agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una
legge universale”
—Essendo essere finiti, le massime delle nostre azioni non sempre concordano con i principi della ragion
pura pratica, che perciò non possono che presentarsi sotto la forma prescrittiva propria delle leggi
(soprattutto leggi della libertà, distinte da quelle di natura).
— “queste queste leggi della libertà si chiamano morali per distinguerle dalle leggi della natura”: E
all’interno delle leggi della libertà o morali che per Kant entri in gioco la distinzione tra leggi etiche e leggi
giuridiche.

Per Kant appartengono alle leggi della libertà e non alle leggi di natura, l’etica e il diritto. Questo perché
l’etica il diritto si fondano sulla libertà, trovando nella libertà dell’arbitrio la loro condizione di possibilità.
-> leggi etiche= riguardano le intenzioni interne.
-> leggi giuridiche= riguardano i comportamenti che chiamano in causa la nostra relazione con gli altri, così
da avere una reciproca influenza.

Diritto per Kant= “ il diritto all’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può
accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà”.
Legge universale per Kant = “ agisce esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa
coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale”

—PRECISAZIONI:
•La definizione del diritto è puramente formale. Il diritto non riguarda la materia dell’arbitrio ma riguarda la
sua forma. cioè il modo in cui libero arbitrio dell’uno può accordarsi con il libero arbitrio di tutti gli altri.
•La definizione di diritto costituisce un criterio di giudizio di ogni possibile legislazione positiva. Saranno
legittime e razionali solo quelle disposizioni giuridiche che rendono compatibile la libertà dell’uno con quella
di tutti gli altri.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

— essere liberi significa assoggettarsi alle leggi meritevoli di senso razionale (autonomia), ma le leggi
meritevoli di consenso razionale sono quelle che tutelano lo spazio in cui ciascuno si governa secondo il
proprio libero arbitrio (indipendenza). Solo queste leggi sono così universali da poter essere volute a priori
da ognuno.

18. UN TRATTO PERVERSO


— Gli uomini credono di essere liberi perché possono soddisfare tutti i loro bisogni, ma in realtà sono servi,
E non credono più nella possibilità di migliorare il mondo in cui si trovano a vivere (BAUMAN)
—MARCUSE= nella società industriali capitalistiche gli uomini credono di essere liberi perché possono
soddisfare tutti i loro bisogni, in realtà sono servi perché quelli che ritengono essere i loro bisogni sono in
realtà falsi bisogni prodotti dallo stesso sistema che si propone di soddisfarli.
—Dietro Marcuse c’è MARX, e dietro Marx ROUSSEAU.
—ROUSSEAU sosteneva che lo sviluppo delle scienze e delle arti non aveva contribuito al progresso dei
costumi, e quindi allo sviluppo della libertà.
—Marcuse, Marx, Rousseau: intravedono la possibilità di un cambiamento radicale, quasi come fossa
scritta nel corso della storia.
— Secondo BAUMAN: noi abbiamo perso qualunque speranza senza accorgercene
—>ricompare idea stoica= non ha senso preoccuparsi per come va il mondo, dato che la stessa politica
risponde ormai alle leggi ferree dell’economia . La soluzione è ritirarsi nell’interiore del libero arbitrio .
—>La libertà non è più questione pubblica ma provata, la pura soddisfazione di piaceri privati.
—>Figura della PERVERSIONE (Freud, Lacan)=
Freud: non consiste solo aberrazione delle pratiche sessuali o impulso alla trasgressione della legge; ma
consiste nell’elevare a legge il nostro stesso godimento.
—> imperativo del presente: devi godere
Legge ora intesa come struttura totalitaria di espressione di un movimento dell’economia e delle pulsioni di
cui l’economia si alimenta.
Legge della libertà si rovescia nella libertà della Legge.

CAPITOLO 6 : EGUAGLIANZA, un concetto controverso e sovversivo


PREMESSA:
—Il concetto uguaglianza è evocativo e potente , ma problematico, controverso, inafferrabile e travisabile.
Nella storia si è giunti anche a considerare l’eguaglianza un’idea vuota, potentissimo mito politico. Il
carattere problematico è l’elemento unificante con il quale l’uguaglianza procede nella cultura occidentale.
—Ci sono una serie di binomi Che ci accompagnano fino alla situazione attuale: amico-nemico, padrone-
schiavo, cittadino-straniero, civile-selvaggio, governante-governato, bianco-colorato, proprietario-proletario,
uomo-donna. Alcune tutt’oggi non risolte (cittadinanza-schiavitu).
— fa la differenza il punto di vista dal quale si osserva studia e valuta l’uguaglianza.
A seconda dei punti di vista possono mutare anche gli interrogativi con i quali approfondire l’uguaglianza.
— L’autore Matteucci fa riferimento a cinque nodi che costituiscono un reticolo di temi e problemi necessari
per comprendere il concetto dell’uguaglianza.
1)carattere e contorni del concetto uguaglianza, libertà e giustizia;
2)dimensioni e ambiti uguaglianza
3)questione centrale dell’uguaglianza
4)indicazione dei soggetti
5)interrogativi che pone l’uguaglianza una volta affermata.
—Dalla trattazione di questi nodi sarà possibile individuare il carattere critico e sovversivo dell’eguaglianza.

1. IL CONCETTO DI EGUAGLIANZA (prospettiva storico - concettuale)


La storia aiuta a comprendere il significato dell’eguaglianza nelle diverse epoche e quali relazioni
intercorrono tra l’eguaglianza e gli altri concetti.

1.1. QUALE EGUAGLIANZA?


—MONDO ANTICO: È la differenza, gerarchia che determina,anticipa, limita, contiene l’eguaglianza.
Atene V sec a.C. Esclude la partecipazione politica a donne e meteci, produce la “douleía” cioè forma più
rigida di schiavitù. Nella polis c’è un ordine interno di diversificazione delle funzioni delle parti e gerarchia.
La disuguaglianza tra uomini è esplicita da molti autori: PLATONE e MENENIO AGRIPPA.

Eccezioni: ANTIFONTE afferma che tutti gli uomini sono eguali perché respirano con il naso.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

ARISTOTELE, sostiene il principio della disuguaglianza politica ma ritiene che una certa forma di
eguaglianza sia necessaria (riguarda solo i cittadini, esclusi dalla cittadinanza schiavi,servi, artigiani,
agricoltori, commercianti, donne, meteci).
Eguaglianza degli eguali: uguali davanti alla legge (isonomia), prendono la parola in pubblico (isegoria),
votano nelle assemblee (democrazia).

—CULTURA CRISTIANO MEDIEVALE: eguaglianza in fratellanza universale, amore incondizionato e


sconfinato. Con la diffusione del cristianesimo si diffondono:
•tradizione filosofica pagana classica (=idea stoica dell’eguaglianza);
•nozione teologica dell’eguaglianza degli uomini davanti a Dio.
Antico testamento= gli uomini sono tutti uguali perché tutti figli di Dio, possiedono una dignità umana
perché Dio gli ha creati a sua immagine somiglianza. (Dignità umana diventa fondamento per le costituzioni
del dopo guerra e le carte dei diritti fondamentali).

— gli uomini quindi possono dirsi uguali ma al tempo stesso riconoscere le differenze e le disuguaglianze.
L’eguaglianza naturale degli uomini è compatibile con le disuguaglianze:
PAOLO DI TARSO: rimanda al padrone lo schiavo fuggitivo;
SANT’AGOSTINO: la servitù si giustifica partire dalla giusta sentenza di Dio;
SAN TOMMASO: riconosce l’ineguaglianza degli uomini e ritiene che i governino i migliori.
Così l’idea di eguaglianza è compatibile con le terrene disuguaglianze economiche sociali e politiche.
—eccezioni≠ MARSILO DA PADOVA= Per lui il potere politico deriva Esclusivamente dal consenso del
popolo. Getta le basi Per l’eguaglianza politica (Che si affermerà con le rivoluzioni democratiche).
La metafora di un eguaglianza naturale tra uomini costituisce la base con la quale viene costruito lo Stato
moderno. Eguaglianza sottoposta a insicurezze e incertezze.
— il modello contrattualistica determina linee di esclusione in ambito sociale, razziale, sessuale, nazionale.
La tradizione democratica è finalizzata a colmare L’esclusione sociale: se per lungo tempo gli uomini sono
diseguali e l’eguaglianza si pone come limitazione, piano piano il condizionale della tradizione gli uomini
sarebbero uguali diventa gli uomini sono uguali.

—nozione eguaglianza :
—>Descrittiva= individua classi di soggetti eguali
—>Prescrittiva= stabilisce come devono essere trattati gli individui che appartengono ad una determinata
classe di soggetti.
—> critica e sovversiva, ma anche costruttiva ed edificatoria.
— con le rivoluzioni del settecento (americana e francese) L’eguaglianza diventa ideale politico
democratico. L’idea di eguaglianza diventa così chiave della cultura politica dell’epoca, Incipit Per la
dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776 (= tutti gli uomini sono di natura egualmente libri indipendenti
e hanno diritti innati), E la dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino Francia 1789 (=art 1 e 6 L’idea di
eguaglianza assume una consistenza reale).
— È così evidente che l’idea di eguaglianza sia una rappresentazione soggettiva che produce mutamenti a
seconda dei fenomeni storici.

1.2. EGUAGLIANZA E GIUSTIZIA


Nelle diverse epoche storiche, L’idea di eguaglianza è collegata a quella di giustizia.
ARISTOTELE= “ ciò che è ingiusto è iniquo, ciò che è giusto è equo”.
PERELMAN= L’idea di giustizia suggerisce a tutti l’idea di una certa uguaglianza
ALF ROSS= L’idea della giustizia comporta l’esigenza di eguaglianza. Giustizia è eguaglianza.
HART= (giuspositivismo 900)= giustizia consiste nell’idea che gli individui hanno diritto nei loro rapporti
reciproci a una certa posizione di uguaglianza e disuguaglianza.
RAWLS= le concezioni di giustizia hanno in comune l’idea che le istituzioni sono giuste quando non viene
fatta distinzione tra le persone nell’assegnazione di diritti e doveri fondamentali. Le norme determinano
equilibrio tra pretese contrastanti riguardo i vantaggi della vita sociale. Concetto eguaglianza= idea che
bisogna trattare casi uguali in modo uguale, e casi diversi in modo diverso.
GIOVANNI TARELLO= tutte le formule di giustizia proposte tendono a incorporare il principio di
uguaglianza con una tendenza all’ugualitarismo.
KELSEN= Anche lui costituisce un nesso tra eguaglianza e giustizia. Egli distingue tra “ eguaglianza di
fronte alla legge” (applicazione della legge in maniera corretta), ed “ eguaglianza nella legge”.
— si osserva così che eguaglianza è quasi +1 problema, costituisce il nome chi è stato dato al problema
della giustizia in passato e tuttora nel presente.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

1.3. EGUAGLIANZA E LIBERTÀ


L’eguaglianza è connessa anche all’idea di libertà:
Si sono consolidate le possibilità di combinarle in maniera sinergica:
—>art3 costituzione: Si coniugano eguaglianza formale (davanti alla legge), ed eguaglianza sostanziale
(che implica il perseguimento della giustizia sociale).
—AMARTYA SEN= si incorre in un errore categoriale quando si contrappongono eguaglianza e libertà
come fossero valori alternativi escludendosi a vicenda. Spiega invece come il campo di applicazione delle
eguaglianza È la libertà, l’eguaglianza è una delle possibili configurazioni della distribuzione delle libertà.
— possono darsi regimi nei quali eguaglianza e libertà non sono combinati, ma nelle democrazie
costituzionali la combinazione espressa dalla sintesi dell’eguaglianza nella libertà e della libertà eguale
(quest’ultima rinvia alla figura dei diritti sociali, condizione necessaria per l’esercizio delle libertà,
realizzazione della personalità di ciascuno nel rispetto delle differenze).

2. DIMENSIONI DELL’EGUAGLIANZA
Per CASADEI, la nozione di eguaglianza ha almeno 5 dimensioni:
Etica o morale, giuridica, politica, economica, sociale.

DIMENSIONE ETICA
Rinvia a due correnti di pensiero antiche:
stoicismo e cristianesimo.
•STOICISMO= predica L’eguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto dotati di ragione e sotto un’unica
legge universale ovvero quella naturale. Ogni uomo equiparato agli altri, perché partecipe della ragione
universale (logos) e dotato come gli altri di ragione. Uomini accomunati dalla stessa finalità etica.
•CRISTIANESIMO= si riconosce nel pensiero di CICERONE (che segue la dottrina stoica), secondo cui
l’uomo assomiglia a Dio. “De Officiis” afferma che c’è un consorzio di tutto il genere umano, con i due
vincoli di ragione e parola. In questo tipo di società vi è una comunanza di tutte le cose. Dato che l’uomo è
per sua natura un essere sociale, vi è una società hominum tale solo se gli uomini sono uguali e liberi.
Secondo Cicerone nella società umana eguaglianza e giustizia sono collegate tra loro.

DIMENSIONE GIURIDICA
Le radici dell’eguaglianza, grazie alla modernità e l’affermarsi del contrattualismo, sconfina anche nella
sfera giuridica.
•LOCKE=necessità di garantire i diritti pre-giuridici di proprietà di cui tutti gli esseri umani sono titolari, in
virtù del loro essere creati eguali da Dio . Questa è giustificazione della costituzione di un’autorità politica.
•HOBBES=gli esseri umani sono sufficientemente simili per costituzione fisica. Per questa somiglianza, lo
stato di natura è costantemente di guerra di tutti contro tutti, dal quale possono uscire solo sottomettendosi
ad un sovrano. C’è quindi eguaglianza giuridica di tutti i sudditi, quel prodotto del contratto con cui gli esseri
umani rinunciano alla loro libertà naturale assoluta a condizione che tutti gli altri lo facciano. L’esito è quello
del Leviatano.
•KANT=si approda allo stato di diritto (stato repubblicano), una comunità razionale che garantisce la libertà
di ciascun individuo affidando al potere pubblico (non a persone private) la decisione sulla legge.

DIMENSIONE POLITICA
Sostenitori dell’eguaglianza democratica (ROUSSEAU) secondo cui solo la partecipazione di tutti i membri
della comunità politica come cittadini, può garantire che quella autorità sia esercitata nell’eguale interesse
di tutti. Nel contratto sociale difende la democrazia diretta non quella rappresentativa.
Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini, critica la proprietà personale e le disparità materiali
che ne derivano. Secondo Rousseau la proprietà non è un diritto naturale (come sosteneva Locke e
Smith), ma è fondata sull’approvazione originaria ingiustificata.

DIMENSIONE ECONOMICA
Centrale il socialismo dell’800: FOURIER, MARX, MILL, BAKUNIN.
Percorsi che si legano alla mobilitazione e rivendicazione della classe operaia.
Lo stato ha il ruolo di promuovere una società di eguali.
Es/ Francia le istituzioni intervengono su ciò che governava il legame sociale, instaurando un senso di
appartenenza e eguaglianza.
L’eguaglianza è così centrale nelle comunità politica, genera però timore di una generale omologazione
delle credenze e costumi (MILL).

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

DIMENSIONE SOCIALE
La dimensione sociale porta L’eguaglianza nelle dinamiche della cittadinanza, nell’articolazione dello stato
e nelle sue basi culturali. Mette in luce basi culturali nazionali dell’eguaglianza.
2ª metà dell’800, avvengono eventi fondamentali per l’affermazione dell’eguaglianza come dimensione
concreta e fattuale:
Abolizione schiavitù, suffragio universale paritario, norme sul riconoscimento del diritto di sciopero.

3. IL NUCLEO DELL’EGUAGLIANZA, TRA DIVERSE DIALETTICHE


Dalle dimensioni di eguaglianza scaturiscono obbiettivi politici che rimandano ad assetti del potere.
Nel corso della 2ª metà dell’800, due grandi indirizzi:
• Versione democratica dello stato rappresentativo, come mezzo inevitabile per l’ingresso alla vita politica
delle masse popolari. (BENTHAM, MAZZINI, TOQUEVILLE, MILL).
• Rovesciare I fondamenti della modernità per ricostruirla secondo l’ottica della classe operaia (ES/MARX=
l’instaurazione del comunismo, dopo la fase rivoluzionaria della dittatura del proletariato x instaurare una
vera eguaglianza materiale) . Il diritto diviene di promozione sociale e lavoro istruzione imposizione
tributaria. Ambiti privilegiati nel suo intervento economico.

Si individuano anche due PARADOSSI: attenzione I soggetti che rivendicano uguaglianza:


1)rapporto eguaglianza universalismo.
2)rapporto eguaglianza e differenze.

4. SOGGETTI
Le traiettorie dell’eguaglianza sono diverse a seconda dei soggetti
—> a partire dai singoli individui che stipulano un contratto (Hobbes, Locke, Kant)
—>a partire dai cittadini (Rousseau)
—> a partire dai ceti subalterni (Marx, Lenin)

Si percepisce come gli esclusi siano il proletariato, le donne, i soggetti della colonizzazione quali soventi e
schiavi, i popoli colonizzati e le minoranze.

4.1 L’”ALTRA METÀ” : LA LINEA DEL GENERE


L’autore si occupa anche di due altre metà: femminile, secondo il colore.
• FEMMINILE= (700) si ritiene che le donne siano naturalmente più deboli degli uomini, inadatte alla vita
civile e giuridica e sociale. Non devono entrare nello spazio politico.
LOCKE= vede nella natura un fondamento che giustifica la subordinazione della moglie al marito, dato
dalle differenti intelligenze e volontà. Il governo ricade sull’uomo perché più abile e forte.
ROUSSEAU= afferma l’ineguaglianza dei sessi: esalta il ruolo della donna nella famiglia. Propone una
educazione volta ad insegnargli il loro ruolo nel mondo. La donna rappresenta un essere subordinato e
funzionale al maschio.
Da queste concezioni deriva il diritto un diritto fondato sulle disparità.
PROUDHON= il posto della donna e davanti al focolare, educatrice naturale della prole.
—> donne quindi escluse dalla sfera pubblica, politica e come testo situazionali. La loro voce assenze
soggettività giuridica negata, presenza fuori dallo spazio domestico impossibile. Condizione di invisibilità.

Fase rivoluzioni del 700= affermazione nell’ 800 del modello di costituzionalismo democratico,
L’eguaglianza diventa principio fondamentale-
Nascita delle teorie femministe (OLYMPE DE GOUGES), rivendicazione del diritto all’istruzione, diritto di
voto. Eguaglianza diventa anche una sfida e provocazione, lotta. Le donne fon la richiesta di aver vice ed
essere visibili nello spazio pubblico e politico, richiedono L’eguaglianza tra sessi (SARAH MOORE).

PIETRO COSTA= l’intera vicenda dell’emancipazione è una lotta per l’attribuzione dei diritti e la definizione
del soggetto, del suo ruolo e delle sue aspettative e relazioni. In primis e il modo della famiglia quelli da
sciogliere, famiglia come rete di poteri e differenze basata su gerarchia. Ridefinendo i soggetti si
ridefiniscono i ruoli sociali e le competenze. È nella lotta per i diritti che il soggetto nega l’invisibilità che lo
condanna lo stesso ordine. È in nome dell’eguaglianza che su autorizzano rivendicazioni mobilitazioni,
tentando una trasformazione dell’ordine politico sociale.
Il principio dell’eguaglianza non è solo norma giuridica di promozione della parità dei sessi, ma anche
riconoscimento delle differenze in positivo.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

4.2. LA “LINEA DEL COLORE”


—Altra forma di esclusione: rinvia alla sottomissione coloniale (in rapporto al rango, condizioni sociali,
classe, L’eguaglianza è privilegio dei bianchi dominatosi rispetto ai popoli inferiori).
—denuncia dal pensiero abolizionista americano, contro la schiavitù, per L emancipazione del popolo nero,
proclama principi di eguaglianza libertà democrazia.
Francia: schiavato abilità nel 1791 ma mantenuta in colonie a protezione degli interessi dei grandi
piantatori. —> terza rivoluzione 700, compiuta con la conquista dell’indipendenza della parte occidentale
dell’isola di Santo Domingo.
• TOUSSANT= nacque schiavo, ottenne affrancamento dalla seconda fase della rivolta, guida la
popolazione degli schiavi all’istituzione di una repubblica anti-segregazionista, dove nessun uomo può
essere proprietario di un simile.
• DOUGLASS= figlio di una chiara e un uomo bianco, fugge dagli Stati schiavisti e diventa l’idea
abolizionista e sostenitore dei diritti delle donne, dei nativi ed immigrati. “Mi assicurerei con chiunque per
fare la cosa giusta, e con nessuno per fare quella sbagliata”.

Ad essere in questione dunque, sono i rapporti di potere che configurano i rapporti di eguaglianza e
cittadinanza, cioè l’universalismo e il riconoscimento delle differenze senza che esse siano discriminazioni.

5. INTERROGATIVI
PP.177-178-179
La rilevanza dei soggetti mostra come sia utile partire dagli schemi teorici della diseguaglianza. La
diseguaglianza si dà come un sistema di dipendenze, un ordine necessario e naturale e come tale ritenuto
giusto. Esso si sostanzia in un assetto gerarchico e su vincoli imposti da ordinamenti istituzionali.
Studiare la lotta dell'uguaglianza a partire dagli esclusi (in un'ottica di classe, genere o razza) non significa
aggiungere pezzi mancanti a un puzzle ma modificare il disegno nel suo insieme. La scoperta di nuove
tessere porta a ripensare il mosaico nel suo complesso.

Il problema dell'uguaglianza, connesso a quello di giustizia, implica la formulazione di 3 interrogativi:
Eguaglianza fra chi? Eguaglianza in che cosa? Eguaglianza come?

L'eguaglianza è dunque una categoria normativa che risulta sempre innestata in una trama storicamente
determinata di pratiche sociali.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 7 : ISTITUZIONE incontro tra diritto e società


1. TRA SOCIETÀ E DIRITTO: L’ISTITUZIONE
—Non ci sarebbe vita sociale se non ci fossero le istituzioni. Istituzione= organizzazione e fissazione di
criteri condivisi di azioni, rappresenta la strutturazione della società.
Il problema per chi interpreta l’istituzionalismo, la fragile interazione tra essere e dover essere
dell’istituzione. SANTI ROMANO esponente: privilegia l’essere.
—Importanza dell’istituzione sul piano di giuridicità: Per il pensiero sociologico e antropologico l’istituzione
è trasformazione di fatti social, strutture di senso permanenti durevoli e continue.
•EMILE BENVISTE= le istituzioni non hanno soltanto rilevanza rispetto al potere al diritto alla religione, ma
riguardo le forme della vita sociale: relazioni, interazioni, coordinazione, strutture linguistiche e di pensiero.
—Dal punto di vista GIURIDICO, (Bobbio) L’istituzione mostra qualcosa di originario e fondamentale di
fronte al rapporto giuridico. Questo perché l’istituzione ha nella sua origine una serie di avvenimenti
oggettivi. Questo significa che sono le istituzioni a fare le regole di diritto, e non le regole di diritto fare le
istituzioni. Possono cambiare gli elementi i soggetti e le norme dell’istituzione, ma non muta l’identità
dell’istituzione stessa.
•SANTI ROMANO= ti destituzione è ordinamento, e precede le forme giuridiche i rapporti disciplinati da
essa come ente giuridico. Avviene Il progressivo organizzarsi sulla base di particolari interessi della società
(900), esigenza di un’organizzazione superiore lo Stato che unisca Le organizzazioni minori. Santi Romano
così mostra come cerchi di inquadrare giuridicamente questo assetto sociale, della conformazione della
società pluriclassi in un assetto mobile; rispetto agli schemi della società borghese dell’800.
•MORTATI= nel suo pensiero teorico Romano ha un ruolo fondamentale. MORTATI sviluppa la sua
rilevanza costituzionalista e pluralistica .

— L’unità dell’orientamento vuol dire individuazione di un presupposto logico e giuridico a partire dal quale
le organizzazioni istituzioni possono essere pensati come giuridici e normativi. Il pluralismo sociale: non
sarebbe concepibile senza l’idea forte di unità dell’ordinamento). C’è sempre un’esigenza di ricondurre il
diritto a una unità.
•MAURICE HAURIOU= A un’idea direttiva che richiama il legame tra legittimazione e diritto, e consente di
cogliere quella normatività che non si appiattisce su reale e che cercano solo di ordinarlo ma anche di
modificarlo.

•RAZ= Istituzione: metti in azione tensione tassabilità e mutamento, mette in rilievo la struttura complessa
del diritto che rivela il suo essere normativo istituzionalizzato e coercitivo (Joseph Raz).
Normativo= serve come guida del comportamento umano.
Istituzionalizzato= la sua applicazione modificazione sono realizzate per mezzo di istituzioni.
Coercitivo= L’obbedienza adesso la la sua applicazione sono garantite per mezzo dell’uso della forza.
Non ci può essere normatività senza istituzione, ed istituzione senza normatività.un sistema giuridico non
può essere solo forza o coercizione. La normatività, l’istituzione, la coercitività di ogni ordinamento
giuridico? rimandano a legittimità del sistema di diritto.

—900–>teorizzazione del pensiero anti istituzionale (psichiatria e manicomi)


— il concetto di istituzione permette di individuare i punti di intersezione tra diritto e società, e di costituire
una congiunzione tra i due principali modelli che interpretano nesso tra politica e diritto:
Modello aristotelico= la società è diretta e naturale espressione della socievolezza umana
Modello hobbesiano= la società è una costruzione artificiale grazie al patto e si sviluppa per ridurre i rischi
della contingenza naturale
In entrambi i casi: L’istituzione rappresenta il momento insieme di raccordo tra diritto e società e di
distinzione ma non separazione tra diritto e società.

•PAOLO GROSSI= L’istituzione la chiave di volta per capire il mistero del diritto: il fatto dell’organizzazione
e il fatto dell’osservanza spontanea di regole organizzative.
L’evoluzione del diritto vede una sorta di primato del dato sociale su quello potest attivo, e nell’istituzione
l’esito di quel processo auto organizzativo. Secondo il fenomeno giuridico è la stessa società che si auto
organizza percependo certi valori storici disegnando su di essi regole e osservandole nella vita quotidiana.
Il carattere dell’unitarietà del diritto è necessario per la comprensione del fenomeno stesso.

—normatività ed effettività insieme nell’ordinamento trovano la realizzazione:


•NORMATIVISMO KELSENIANO= concetto di effettività ha un ruolo decisivo come condizione necessaria
e orizzonte di senso della normatività

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

•NORMATIVISMO ROMANO=il diritto esistente è il diritto positivo, la norma riveste un ruolo secondario
rispetto all’istituzione.
•per entrambe è chiara l’affermazione della preminenza del giuridico sul politico. Sia l’istituzionalismo sia il
normativismo sono teorie positiviste perché per esse il diritto che esiste ed è valido è quello positivo.

???
2. L’UNITÀ DELL’ORDINAMENTO
Sia in KELSEN sia in ROMANO, il carattere dell’unità dell’ordinamento è centrale
•ROMANO= ordinamento statuale necessità di rappresentazione unitaria così da delineare un ordinamento
e non un coercitivo di norme.
•KELSEN= costituito dalla Grundnorm (norma fondamentale) grazie alla quale ciascuna norma e
delegazione trae la propria validità, da essa che è suprema. Viene così ad indentificarsi un ordinamento
giuridico composto da norme dinamico : Stufenbau=costruzione a gradi, la validità delle norme giuridiche
non deriva dal loro contenuto ma dal corretto modo in cui sono prodotte, secondo un procedimento
regolato dal diritto stesso. Alla base appunto ce la norma fondamentale, che non è una norma posta ma
presupposta ipotizzata al fine di individuare una base d’appoggio del sistema.
La Norma sopra dell’ordinamento è la costituzione, quale norma autorizza il potere costituente?
Per kelsen sarà il primo usurpatore che prenderà il potere, soggetto non autorizzato, e si dovrà ipotizzare
una norma che imponga di obbedire a ciò che il potere costituente ha stabilito.
La norma fondamentale non è la fonte delle fonti, ma la presupposizione della necessità di una fonte
originaria, di inizio del sistema stesso che è anche la sua identità, di ciò che permette di costituire un
sistema di norme nella sua complessità.
•ROMANO= basilare anche il per lui L’Unità logica dell’ordinamento. Si ammette che un ordinamento
giuridico non è una somma di varie parti ma un’unità a se concreta ed effettiva. Ma non si può avere un
concetto adeguato delle norme che vi si comprendono senza anteporre il concetto unitario di esso.
L’ordinamento non è giuridico perché composto da norme, ma le norme sono di diritto perché c’è un
ordinamento che le raccoglie in un quadro unitario.

3. ISTITUZIONE COME LIMITE E ILLIMITE DEL DIRITTO


4. LA NECESSITÀ ANTROPOLOGICA DELL’ISTITUZIONE
5. ISTITUZIONI E PLURALISMO

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 8: NORMA, tra forma e sostanza del diritto


1. UN MONDO DI REGOLE
Il termine norma in latino ha una connotazione geometrica: indica la squadra, lo strumento che serve per
disegnare misurare angoli e segmenti.
La norma è ciò che squadra i comportamenti dei destinatari.
Le norme si presentano come proposizioni che parlano un linguaggio prescrittivo, di obblighi permessi e
divieti, indicano la direzione degli atti sociali.
Si tratta diOggetti linguistici che pongono un dover essere, dicendo come ci si deve comportare o meno in
certe situazioni.
Il diritto naturale aveva legato il concetto di norma quello di natura umana giustificando così l’obbligatorietà
delle norme; il compito del giurista era esclusivamente scoprire leggi intrinseche alla natura delle cose o
alla razionalità umana per poi verificare la conformità dell’ordine storico vigente ai principi e valori assoluti
dedotti dalla natura o dalla razionalità.
La scienza del diritto moderno abbandona l’idea che il sapere giuridico debba dipendere dalla conformità a
principi extra giuridici, tentando di costruire un sapere autonomo ed oggettivo.
Ogni norma è sempre il prodotto di un atto di volontà e non ha la consistenza fisica o soggettiva di un
fenomeno naturale. Viene spostato l’attenzione dal contenuto della norma alla forma del dover essere.
Le teorie devono fare i conti con le molteplici ed impreviste metamorfosi del reale
Il concetto di diritto di ciò che deve o non deve essere considerato giuridico, dipende dal rispetto di
condizioni formali o procedurali, mostrando i suoi Limiti con il dibattito sulla giustificazione
dell’obbligatorietà con le norme giuridiche.

2. PROPOSIZIONI FALLACI
—Fallacia naturalistica: errore logico che commette chiunque intenda derivare il dover essere dell’essere,
la norma dalla natura, costituisce la base per ogni teoria giuridica positivista.
—Trattato sulla natura di DAVID HUME: il dover essere non è derivabile logicamente dall’essere.
Impossibilità linguistica di passare indifferentemente da proposizioni descrittive (=quando descrive ciò che
è presente e visibilmente verificabile) a proposizioni prescrittive (=quando esprime un ordine o un
comando, è solo possibile verificare se valida o meno) : LEGGE DI HUME.
Questa legge dimostra anche che è impossibile dedurre proposizioni valide da proposizioni vere.
—Teorici del COGNITIVISMO ETICO: rifiutano la grande divisione di Hume; ritengono che le proposizioni
prescrittiva e possono essere ricondotte a proposizioni descrittive. È possibile conoscere l’universo del
dover essere indagando la sfera dell’essere, e conoscendo ciò che accade in natura. La verità delle
proposizioni descrittive fonda la validità di quelle prescrittive.
—Teorici del NON COGNITIVISMO ETICO: dividono essere e dover essere, proposizioni descrittive e
prescrittiva. Essere e dover essere sono due mondi paralleli la conoscenza dell’uno (proposizioni
descrittive) non può essere determinante per accertare l’altro (proposizioni prescrittive).
—Fallacia = errore nel ragionamento logico, argomentazione che può sembrare vera ma che si dimostra
non essere tale.
Dal fatto non si deduce mai la norma, il dovere, il valore che può motivare l’obbligo di dover compiere
quella determinata azione. Da una proposizione descrittiva non si deduce mai una proposizione
prescrittiva.

——> rissunto:
•dal punto di vista logico la fallacia naturalistica dimostra l’impossibilità di dedurre il dover essere
dell’essere la verità della validità.
•Dal punto di vista linguistico pare evidente l’impossibilità di poter derivare proposizioni prescrittiva da
proposizioni descrittive. (Hume)
•L’errore logico della fallacia naturalistica: se non è possibile dedurre logicamente alcuna proposizioni
prescrittiva da una proposizione descrittiva, non è neanche possibile dedurre dalla natura di un ente e il
dover essere relativo a quel determinato ente.

3. TRE CONCETTI DI VALIDITÀ


Come giustificare un diritto senza verità?
• KELSEN: LA PUREZZA DEL DIRITTO r
- Riguarda l'aspetto epistemologico della teoria di kelsen. La scienza del diritto intende depurare il proprio
oggetto di studio da ogni possibile contaminazione epistemologica, bisogna liberare il dover essere da tutti
quei fenomeni morali

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Politici ideologici ecc. iConoscere il diritto non significa analizzare la sostanza, ma solo chiarire la forma.
Kelsen rimane fedele alla separazione della naturalistic fallacy, emancipa il dover essere da ogni possibile
contatto con l’essere.
- È proprio la VALIDITÀ che permette di individuare e definire il diritto come dover essere obiettivo e
formale. Validità: esistenza specifica di una norma in esame in e per un ordinamento. Una norma è valida
quando esiste l’interno ed in funzione di un ordinamento giuridico. Una norma o è valida oppure
semplicemente non è e non esiste in quanto norma.
Kelsen raffigura l’ordinamento come una piramide costruita da gradi, dove ogni dover essere del livello
inferiore prende validità dal dover essere del livello superiore. La validità non è mai sostanziale e non
riguarda mai il contenuto del dover essere, ma solo il modo in cui il dover essere posto nell’ordinamento, la
presenza o meno di requisiti formali richiesti dal dover essere espresso dalla norma superiore.
- Norma giuridica come SCHEMA DI QUALIFICAZIONE. La norma qualifica e quindi rende
giuridicamente rilevante atti sociali e comportamenti umani.
Ha la seguente forma: “se a deve essere b”, a=fatto umano illecito, b=sanzione prevista; il legame tra a e b
è il dover essere che esprime il nesso di imputazione.
Kelsen contrappone fenomeni naturali (=sono regolati dal principio di causalità, Regolati da leggi di causa
ed effetto) e i fatti giuridici (=sono regolati dal nesso di imputazione, sono prodotti dall’artificio umano).

• ROSS: concetto di validità e teoria del diritto:


- attraverso il metodo del neo empirismo applicato alla teoria del diritto : È reale solo ciò che è
verificabile empiricamente. L’autore si preoccupa di depurare ogni concetto giuridico dalle scorie e
metafisiche, riducendo il diritto ad una serie di proposizioni e asserzioni empiricamente verificabili. La
validità del diritto di una norma equivale alla sua verificabilità.
- ma essendo le norme non oggetti fisici o materiali non visibili o toccabili come si accerta empiricamente
l’esistenza? Validità come verificabilità: Le norme sono proposizioni che, quando esistono e sono valide
in un ordinamento, obbligano a determinati comportamenti prescritti dalla norma stessa. La validità di una
norma è la sua efficacia cioè l’adempimento da parte dei giudici che applicano e seguono la regola
giuridica. Sono le corti per i destinatari della norma giuridica.
Inoltre. Chi segue le norme deve anche avvertire interiormente la forza vincolante di quella regola, la
pressione psicologica che la norma esercita sul destinatario. Gli effetti della norma sono socialmente
osservabili (fatto sociale) e richiedono una motivazione interna (fatto psicologico) che spinga a seguire rego
—>Una norma è valida alla duplice condizione di essere applicata con regolarità e di essere interiormente
sentita come vincolante delle corti.
-Ross definisce le norme come asserzioni giuridicamente qualificate, intendendo per norma valida proprio il
prodotto dell’interpretazione dell’applicazione al caso concreto da parte del giudice e inoltre come fatti
psico-sociali empiricamente osservabili.

• HART: L’oggetto giuridico è per sua natura plasmabile e modificabile per poter essere utilizzato al meglio
dai suoi fruitori.
Destinatari di Hart: I partecipanti al gioco sociale sono il perno cui ruota l’elaborazione della teoria della
validità e della definizione di norma giuridica.
- Una norma è un sistema di norme sono validi, non solo quando è possibile riscontrare la regolarità dei
comportamenti all’interno di un determinato contesto sociale, ma anche quando quelli che partecipano al
gioco del diritto accettano e si riconoscono in quel sistema di norme. La validità è subordinata a: la
regolarità dei comportamenti; E l’accettazione dell’obbligatorietà delle norme.
I destinatari condividono non solo le emozioni ma anche le ragioni che giustificano l’obbligatorietà delle
norme. Così l’osservatore diviene osservante, il destinatario partecipante all’attivo gioco del diritto.
- A chi accetta o si riconosce in qualcosa, inevitabilmente è chiamato a fare delle valutazioni
che non possono riguardare solo la tipicità o la forza dell’obbligatorietà, ma anche la bontà, seppur minima,
dei contenuti della proposta normativa. Non basta che la norma sia valida, entrano in gioco valutazioni sul
contenuto della norma, sulla giustizia delle prescrizioni previste dalla norma e dagli ordinamenti che
contengono quelle determinate norme.
-In conclusione, essere e dover essere sono separati ma il nostro ragionamento suggerisce che la validità
formale non basta dirci della giuridicità del dover essere. Dunque, l’essere, in determinate circostanze,
influenza il dover essere.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

4. PROPOSIZIONI NON FALLACI Cosa implica davvero la fallacia naturalistica?


Commettiamo una fallacia se deriviamo il valore di un fatto dal suo semplice prodursi, dalla sua mera
esistenza. Quindi da un mero fatto che accade non è possibile derivare alcun giudizio di valore su di esso.
Aggirare la fallacia naturalistica, esempio del
• HUSSERL (fenomelogia): “un guerriero deve essere valoroso” = il dover essere valoroso del guerriero è
indipendente da qualsiasi richiesta o comando correlato all’idea di guerriero. Guerriero e colui che
combatte in battaglia, e deve essere un minimo valoroso. Posso esistere guerrieri vili e non valorosi, ma il
concetto di guerriero rinvia all’essenza del guerriero. Sarebbe difficile concepire l’idea di guerriero non
includendo le proprietà essenziali di calorosità. È la grammatica del concetto è dirci che un guerriero deve
essere un minimo valoroso.
• Dall’essere guerriero, si è giunti al dover essere che definisce ogni guerriero. Questo dover essere
implica un minimo di calorosità necessaria affinché si possa parlare di guerriero. Il dover essere valoroso
del guerriero indica una soglia minima sotto la quale ci si trova di fronte ad un disertore e un vile.
• Applicando questo ragionamento al concetto di diritto: il concetto di norma giuridica risulta impensabile
senza un minimo di quel valore costituito dalla giustizia dei suoi contenuti, della sua materia: nutriremmo
seri dubbi a chiamare ancora diritto un sistema di norme formalmente ineccepibile ed efficace, ma
assolutamente ingiusto

5. UN MINIMO DI GIUSTIZIA
La tesi secondo cui la definizione di cos’è una norma deve riferirsi necessariamente ad un minimo di
giustizia risale a RADBRUCH:
Nazismo appena concluso: Radbruch si interroga sulla legittimità di ordinamenti giuridici che sono
perfettamente legali ma producono norme giuridiche che non hanno un minimo di giustizia. Sono
formalmente legali ma ingiusti nel materiale di esse.

Si interroga partendo dall’esame di casi giurisprudenziali della Germania post bellica.


—1) riguarda la condanna all’ergastolo di Nordhausen (funzionario del Reich che aveva a sua volta fatto
condannare un commerciante oer aver scritto su un bagno pubblico “Hitler è un carnefice responsabile
della guerra”. Il funzionario ha adempiuto all’obbligo di delazione nei confronti dei soggetti che tradivano la
fedeltà del Terzo Reich, questa era la sua giustificazione).
Secondo il procuratore, Gli ordinamenti, e coloro i quali agiscono in nome della legge di questi ordinamenti,
che non rispettino criteri minimi di giustizia non possono essere considerati come ordinamenti giuridici.
Nonostante la norma valida prescriveva il dovere di relazione, essa era talmente riprovevole e ingiusta da
non poter nemmeno costituire l’oggetto di una norma.
Un ordinamento così ingiusto non ha nemmeno i requisiti minimi di giuridicità.
—2)altre corti si sono pronunciate sulla colpevolezza dei giuridiche che hanno emesso sentenze
formalmente valide Perché conformi all’ordinamento giuridico nazista, ma disumane per la violazione di un
criterio minimo di giustizia. Così, nessun giudice può richiamarsi a una legge che non solo è ingiusta, ma
criminale, contro il diritto naturale e i diritti umani.
—3)In alcuni casi (legge jazzista secondo cui la cittadinanza tedesca privava della cittadinanza gli ebrei
emigrati per motivi razziali), il contenuto dei doveri prescritti e così inaccettabile da travolgere anche la
validità formale: norme che si fondano o alimentano la discriminazione razziale semplicemente non sono, e
non potranno mai essere, norme giuridiche.
—Senza il rispetto di minime condizioni di giustizia ed equità non si è in presenza di norma giuridica.
Radbruch precisa che il diritto è sole soltanto quello positivo che, però, non devo oltrepassare quella soglia
minima di giustizia oltre la quale non sia più diritto ma solo abuso o crimine.
La positività, ossia la validità formale efficace, è condizione necessaria, ma non sufficiente, di ogni
norma che voglia dirsi giuridica. Deve esserci un minimo di giustizia.

6. UNA METAFORA VISIVA


Ogni norma giuridica deve fondarsi su un minimo di giustizia:
Consideriamo l’ordinamento giuridico come un enorme recipiente vuoto:
se le travi e i mattoni sono ben costruiti e incastrati secondo le regole, avremo un ordinamento giuridico in
grado di produrre norme valide e certe.
Se versiamo una sostanza acida nel recipiente, questo inizierebbe a liquefarsi e la preziosa struttura non
potrebbe che cedere dinanzi ad un contenuto altamente corrosivo, (come succede con i contenuti di una
norma che producono ingiustizia, tipo quelle del Terzo Reich).
Senza un minimo di giustizia quindi, non ci possono essere norme e doveri giuridici.
Una norma giuridica quindi deve essere formalmente valida ed efficace se contiene un minimo di giustizia.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 9: FATTO, realtà empirica e qualificazione giuridica


1. INTRODUZIONE
Con fatto ci si riferisce talora ad un accadimento, storicamente verificatosi, da cui il diritto tra una
serie di conseguenze giuridiche (fatto giuridico); altre volte ci si riferisce al fatto in quanto fattispecie
astratta ossia in quanto classe di azioni considerate astrattamente da una norma; altri volte ci si riferisce al
fatto in quanto ricostruzione di una vicenda da parte dell’interprete, e così via.
Rapporto diritto - fatto .
1)spedizione sul piano della natura del diritti, tra essere e dover essere + critica
2)distinzione giudizi di fatto- giudizi di valore
3)rapporto tra validità ed effettività
4)accertamento della fatto nel ragionamento giuridico

2. REALTÀ GIURIDICA E FATTI


Un fatto nel linguaggio giuridico è sempre tale solo in quanto venga in considerazione per il diritto.
Quando si parla di fatto, lo si fa per come considerato dalla realtà giuridica. 3 tesi ad esso collegate:
•—Separazione tra fatto e diritto una separazione di diritto= spesso si separa fatti e diritto. I giudici sono
spesso chiamati a risolvere questioni di fatto (=accertarsi come si sono svolti gli eventi che devono
giudicare) e questioni di diritto (=individuare quale norme applicare a quel fatto, come interpretarla ecc).
Es/ marito uccide la moglie e l’amante di lei. Questo è un fatto cioè qualcosa che accade nella realtà
empirica. Però il diritto da questo fatto “determinandolo omicidio” fa seguire determinate conseguenze
come l’obbligo di condanna.
Va quindi distinto il fatto empirico (in circostanze di tempo e luogo), dal fatto in quanto considerato dal
diritto (con una direttiva del tribunale conseguente ad es). A distinguere tra fatto e diritto è il diritto stesso, la
separazione tra fatto e diritto è una separazione di diritto. Un fatto va pertanto distinto da un oggetto di
esperienza o da uno stato di cose, indicando, ciò che un enunciato giuridico enuncia come tale.

•—Il diritto crea fatti istituzionali che non esistono nella realtà empirica= Il diritto stesso crea fatti che, senza
di esso, non esisterebbero. (Differenza tra fatti bruti e fatti istituzionali).
Es/ guardando fuori, un albero sfiorito è un fatto la cui esistenza non presuppone quella del diritto.
Es/ il fatto che sia proprietario di qualcosa non potrebbe esistere se non ci fossero istituzioni come il diritto
a renderlo possibile. Se non ci fosse il diritto non sarei proprietario di qualcosa.
Quindi, quando si parla di fatti, nel diritto si intende spesso anche situazioni oggetti o cose la cui esistenza
dipende dal diritto stesso .

•—Il diritto rende esistente fatti inesistenti e viceversa= Il diritto ha sempre operato, anche con riguardo ai
fatti empirici, rivendicando una notevole libertà, manipolandoli trasformandoli a seconda delle necessità.
Questo, in diritto può far considerare un fatto accaduto anche ciò che il diritto stesso riconosce come
certamente non accaduto.
La depravazione del fatto dalla realtà dei fatti è fondamentale per capire il funzionamento del diritto.
È il diritto che determina che cosa sia un fatto, nella sua piena libertà ed autonomia.

3. LA SEPARAZIONE TRA ESSERE E DOVER ESSERE


Qual è il carattere essenziale del diritto, che cos’è il diritto?
• KELSEN: diritto= dover essere (sollen) ≠ essere (sein). Ma quale significato ha il termine fatto in questa
distinzione?
—“Il diritto deve essere staccato il più chiaramente possibile dalla natura. “ (natura=ciò che accade,
insieme di fatti che esistono in un certo spazio e tempo, empiricamente verificabili e visibili).
Anche il diritto ha ad oggetto fatti che accadono nella realtà, ma non ha ad oggetto quei fatti in quanto
accadimenti, ma il loro significato e la loro qualificazione. Il diritto non guarda al fatto in quanto tale, ma
guarda il suo significato.
Il diritto non considerai mai i fatti per come sono appartenenti al mondo dell’essere/natura, ma li considera
quando assumono il carattere di fatti qualificati in un certo modo dalle norme, che fanno conseguire ad essi
effetti giuridici. Il diritto quindi, non ha mai ad oggetto fatti come accadimenti, ma soltanto il significato di
questi fatti.
—Secondo Kelsen tutto ciò che accade ha una causa, è retto dal principio “se A, allora è necessario che
segua B”.
Tra il delitto è la sanzione, in altri termini, il diritto non stabilisce un rapporto di causalità, poiché la sanzione
non è un fatto che segue, sul piano di ciò che accade (non ce un rapporto di causa-effetto).

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

La norma non dice che cosa accade naturalmente ma dice che cosa deve accadere, se accade A deve
accadere anche B.
Il diritto non si fonda sul principio di causalità, ma sul principio di imputazione.: la sanzione viene imputata
al fatto, nel caso in cui la legge prevede la conseguenza al verificarsi del fatto.
I fatti e le norme quindi, si direbbero separati: i fatti sono relativi a ciò che accade (essere) mentre le norme
riguardano ciò che deve accadere (dover essere).
Kelsen quindi separa le norme dai fatti, il dover essere dall’essere.
—per i realisti scandinavi è la separazione tra essere e dover essere che va messo in discussione, perché
presuppone una concezione metafisica del diritto considerato come una realtà esistente in maniera
indipendente e distinta rispetto a quella empirica.

•HÄGERSTRÖM= bisogna distinguere il senso che si prova a dovere qualcosa (come un comportamento)
ed il dovere in se stesso considerato. I fatti vengono pensati come entità che esistono in se stesse,
indipendentemente e separatamente rispetto alla realtà empirica.
•OLIVECRONA= diritti e doveri non sono entità reali, ma sono l’idea che noi abbiamo di essi, e devono
essere studiati indagando quei fatti sociali che costituiscono il complesso di credenze che inducono gli
uomini a crederli come qualcosa di esistente. C’è un vincolo psicologico che si prova quando si compie una
certa azione , con l’esistenza di qualcosa di doveroso. Ma ciò che esiste è il vincolo non il dovere.

4. GIUDIZI DI FATTO - GIUDIZI DI VALORE


• GIUDIZI DI FATTO
I giudizi di fatto coincidono con le proposizioni con le quali ci si limita a descrivere una certa realtà e
informare gli altri di come essa è. Questo tipi di giudizi potranno essere veri o falsi e, a seconda che ciò che
affermano corrispondo meno la realtà esterna che pretendono di descrivere.
• GIUDIZI DI VALORE
Con i giudizi di valore non si intende descrivere una certa situazione, Ma valutarla e formulare un giudizio
di calore. Spesso si sta anche suggerendo determinati provvedimenti, tentando di convincere l’interlocutore
di tale necessità. (BOBBIO: “influenzo gli altri attraverso la mia valutazione e l’invito a fare o non fare una
determinata cosa”.)

Fatto e valore in quest’ottica si contrappongono:


FATTO= ciò che può essere constatato descritto attraverso giudizi veri o falsi
VALORI= ciò che deve essere realizzato e quindi che ancora non è, da spesso luogo ad enunciati di tipo
prescrittivo (norme).

La distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di valore pone il problema del rapporto tra fatti e norme,
Tra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittiva.
—> consenso della scienza giuridica con il divisionismo: fra enunciati di tipo descrittivo e quelli di tipo
prescrittivo, cioè una relazione di reciproca inderivabilità logica, in quanto non è possibile far derivare una
conclusione prescrittiva da sole premesse descrittive e viceversa. (Es/ Giorgio ha comprato 2 mele al
mercato, non posso concludere che Giorgio doveva comprare 2 mele al mercato. — Giorgio doveva
comprare 2 mele al mercato, non posso concludere che allora Giorgio ha comprato 2 mele al mercato)
Non si può passare dall’essere al dover essere, dai fatti alle norme, e viceversa, perché si incorre in una
scorrettezza logica (fallacia naturalistica).
Bisogna inoltre ricordare che il contesto decide se il linguaggio utilizzato utilizzato in funzione descrittiva o
prescrittiva.

Riepilogo dei quattro aspetti che consentono di distinguere le proposizioni descrittive di fatti da
quelle proposizioni che esprimono norme:
Differenze:
- FUNZIONE: giudizi di fatto forniscono informazioni su com’è la realtà; le norme hanno la funzione di
guidare la condotta e di prescrivere un’azione.
- DIREZIONE DI ADATTAMENTO: i giudizi di fatto usano una parola che mira a corrispondere a com’è il
mondo (dal mondo alla parola); le proposizioni prescrittive usano una parola che mira ad adeguare a sé il
mondo e a cambiarlo nella direzione di ciò che essa prescrive (dalla parola al mondo).
- IL COMPORTAMENTO DEL DESTINATARIO: una proposizione descrittiva richiede che il destinatario
creda che la proposizione sia vera ; una proposizione prescrittiva pretende che il destinatario esegua
quanto viene richiesto.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

- CRITERIO DI VALUTAZIONE: Nei giudizi di fatto si può dire che sono veri o falsi; mentre per le
proposizioni prescrittiva non è possibile dire se sono vere o false. I giudizi di fatto possono essere verificati
mentre i giudizi di valore possono essere solo argomentati e giustificati.

5. VALIDITÀ ED EFFETTIVITÀ
5.1. LA NORMA
Validità: modo in cui le norme esistono. Una norma è valida quando:
• prodotta in conformità alle norme che ne disciplinano la creazione (validità formale),
• il suo contenuto non è in contrasto con quello di eventuali norme sovraordinate (invalidità materiale).
Tale definizione presuppone che ogni ordinamento giuridico moderno abbia una struttura gerarchica.

• KELSEN
Una norma è valida = assumere che essa deve essere obbedito e che la sua esistenza coincide con il suo
dovere essere, la sua obbligatorietà —>il dovere di obbedire ad una norma non può essere posto dalla
norma stessa perché dipende sempre da un’altra norma valida che disponga il dovere di obbedire alla
prima; la validità di una norma non annulla che vedere con la questione se essa sia o meno osservata.

Non si deve confondere validità con l’effettivita:


Effettività: indica il fatto che una norma venga osservata o applicata.
E a volte si parla anche di efficacia ma che è un termine più ambiguo perché si riferisce al fatto che una
norma sia applicabile, idonea produrre determinati effetti, capace di realizzare lo scopo. (Noi usiamo il
termine efficacia per riferici a norme osservate dai cittadini ed applicate nei tribunali). Ciò è importante per i
destinatari delle norme:

KELSEN afferma che una norma non si rivolge mai direttamente ai cittadini, ma al giudice che dovrà
applicarla.
ROSS: anche per lui le norme sono direttive rivolte ai giudici più che i cittadini
Effettiva si dirà la norma nella misura in cui viene direttamente osservata dai cittadini o applicata nei
tribunali da parte dei giudici.

Ma la distinzione tra validità ed effettività viene intesa diversamente nella teoria del diritto.
—>realismo giuridico: identifica l’esistenza di una norma giuridica con la sua applicazione di fatto da parte
dei giudici.

—>idee diverse:
HOLMES= diritto è ciò che i giudici dicono che esso sia.
Scetticismo sulle norme, posizioni di chi sostiene che il diritto consista nelle sentenze dei tribunali.
Se vogliamo sapere quale sia realmente il diritto che esiste in un certo ordinamento non è a ciò che dice la
legge che dobbiamo guardare, ma quello che fanno le corti, al diritto in quanto viene applicato.
LLEWELLYN= realismo americano: l’esistenza della norma coincide con la sua applicazione: non potrebbe
esistere una norma se non dopo che essa sia stata applicata da parte dei tribunali. La norma esiste solo
dopo essere stata applicata. Non ce il problema della validità in quanto esistono solo dopo essere
applicate.
≠ ROSS= realismo scandinavo: l’esistenza della norma consiste nel suo essere sentita obbligatoria da
parte dei giudici e bella sua probabilità di essere applicata in futuro. La norma esiste ed è valida quando è
probabile che essa sarà applicata in futuro dai tribunali.
Secondo Ross la norma N1 stabilisce già di per se il dovere di seguirla. La validità intesa come
obbligatorietà sarebbe un tentativo di introdurre una giustificazione morale dei doveri che il diritto pone.
Quindi una norma N2 che richiede l’obbedienza della N1, sarebbe inutile Perché basta la N1.
La norma quindi deve essere denotata valida nella misura in cui essa viene seguita ed applicata a dai
tribunali in quanto sentita come vincolante .

HART: critica il realismo americano:


1)riguarda le posizioni più radicali per le quali il diritto consiste nelle sole decisioni dei tribunali —> x Hart
incoerente Perché l’esistenza dei tribunali implica l’esistenza di norme che attribuiscono al tribunale la
competenza di decidere
2)rapporto validità effettività —> affermare che una norma sia valida solo dopo essere stata applicata dal
giudice significa non capire il funzionamento del diritto—> la validità precede l’applicazione (giudici
applicano la norma perché la riconoscono come valida).

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

5.2. L’ORDINAMENTO GIURIDICO:


L’ordinamento ha una costruzione a gradi STUFENBAU, ma c’è un problema: regresso all’infinito.
La validità della N1 è condizionata dalla presenza della N2, in conformità della quale è stata prodotta la N1.
Ma per essere valida N2 dovrà essere valida e quindi in conformità ad una N3 di grado superiore ad essa.
La validità di ciascuna norma presuppone la validità di un’altra norma ad essa superiore.
Ma se non si riesce e a trovare una norma al vertice, tutto l’ordinamento non sarà quindi valido.

Quindi su cosa si fonda l’ordinamento giuridico?


Il dilemma è una variante del possibility puzzle: Per poter fondare l’esistenza del diritto dovremmo sempre
affermare due tesi che si presuppongono a vicenda:
•non ci può essere nessun potere che abbia il diritto di obbligarci, se non si presuppone una norma che lo
autorizzi;
•non ci può essere nessuna norma di questo tipo se non si presuppone un potere autorizzato ad emanarla
che la ponga in essere.
—> L’esistenza del potere giuridico implica infatti quella della norma che lo autorizza, ma, sua volta,
l’esistenza della norma implica quella del potere che la pone in essere.
—> Con riferimento all’ordinamento giuridico si parla qui di diritto come fatto per indicare quelle posizioni
per le quali l’esistenza dell’ordinamento coincide con il fatto della sua osservanza (con la sua efficacia).

6. FATTO E RAGIONAMENTO GIURIDICO


nel risolvere una controversia, l’interprete applica le norme giuridiche ai fatti. Cioè?
HRUSCKA= fatti così come accertarti nel corso di un giudizio; per come sono storicamente accaduti.
Es/ UOMO Per strappare il portafogli ad una signora getta dell’acido—> Per stabilire i fatti rilevanti il
giudice dovrà ipotizzare la norma in base alla quale selezionali—> norma precede i fatti—> I fatti non
esistono se non con riferimento alle norme con cui la vicenda viene interpretata. È solo perché il giudice ha
già valutato i vari elementi della situazione concreta che può inquadrare la vicenda a partire dalla norma.
Il fatto precede la norma perché è a partire da esso che l’interprete individua la norma di riferimento in base
alla quale ritornare sulla vicenda selezionando i fatti rilevanti.

—La norma precede i fatti perché in base ad essa che qualcosa può assumere, giuridicamente, la
natura di un fatto. Allo stesso tempo, è solo perché il giudice ha già valutato, in una prima fase, i
vari elementi della situazione concreta, che gli può inquadrare la vicenda partire da quella norma.
Quindi, da questo punto di vista, si potrebbe dire che il fatto precede la norma, nel senso che è a
partire da esso che l’interprete individua la norma di riferimento, in base alla quale poi, ritornando
sulla vicenda, selezionerai fatti rilevanti.
Tra i fatti così come accertati e i fatti così come essi si erano realmente svolti, dunque, vi sarebbe
sempre una differenza tale da poter affermare che i primi, i fatti che il giudice pone alla base della
decisione, in realtà non sono mai esistiti, non sono mai accaduti
— tradizionalmente questioni relative all’applicazione del diritto ad un caso concreto vengono presentate
come problemi di sussunzione del fatto nella norma o nella classe dei fatti identificati nella norma. —> non
è mai il fatto concreto ad essere su sunto, la sussunzione avviene tra concetti difatti e concetti giuridici
— Inoltre c’è il problema dell’interpretazione Che viene suscitato dal fatto accaduto: (la fattispecie astratta
non esiste prima del fatto).
Deve essere fatta una distinzione tra giustificazione esterna in fatto (= parte della sentenza in cui il giudice
giustifica la ricostruzione dei fatti), e la giustificazione interna in diritto (=il giudice rende ragione perché ha
ritenuto applicabili certe disposizioni).

Schema PP. 246

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 10: GIUDIZIO, lo scarto tra intelletto e volontà


1. IL GIUDIZIO NECESSARIO
SALVATORE SATTA=La crisi del giudizio è la conseguenza della crisi dell’uomo che ha smarrito la fede, il
senso angusto del proprio destino. Rendermene conto è già riconquistarlo.

La crisi del giudizio è una crisi di senso: crisi dell’idea di regole, crisi a livello dei macrosistemi globali, dei
sistemi regionali e nazionali, dei microsistemi sociali e familiari.
“La nostra età non vuole giudizio” è la tesi per esprimere la fragilità dei legami sociali.

Il giudizio è comunque inevitabile, nonostante il rifiuto. A partire dall’inevitabilità di giudizio dell’uomo sulla
condotta di un’altro.
Il problema del giudizio è individuabile nello scarto tra ciò che conosciamo e ciò che giudichiamo un
determinato soggetto\oggetto. Nel giudizio che formuliamo ci sta la nostra libertà, è perciò una facoltà
individuale e una condizione sociale essenziale dell’uomo.

2. GIUDICARE NEL MONDO ANTICO


Ce in atti una ricerca della comprensione filosofica dell’esercizio della facoltà giuridica del giudice.
L’uomo vivendo giudica continuamente la realtà che lo circonda, attribuendo a ciò nomi e significati. È così
possibile identificare più dimensioni quotidiane e ordinarie dell’esercizio della facoltà di giudicare.
GRECI= Krinein significa giudicare con saggezza, quale espressione del logos.
ERACRLITO= La Sapienza (capacità di giudicare con misura uomini e cose) ha a che vedere con la facoltà
di intuire il logos a partire dal particolare di
ogni fenomeno. Il logos è la trama che sostiene il mondo, di ciò che appare a noi. Giudicare consiste nel
distinguere e ricondurre il particolare al logos, missione impossibile in senso assoluto a causa
dell’ineffabilità del logos.
PLATONE=Identificare il diverso è l’atto liberatorio della
comprensione della differenza ed espressione stessa della capacità di giudicare cogliendo il particolare.
Bisogna però distinguere i diversi elementi dell’ordine.
ARISTOTELE=Nella dimensione etico-pratica il giudizio acquista una portata filosofica perché svolge una
funzione critica (synesis) sulla base della saggezza (phronesis). Per Aristotele la critica non ha per oggetto
realtà eterne e immobili, ma realtà particolari sui quali può nascere un dubbio ed è necessaria una
valutazione.
La perspicacia è una virtù individuale, cioè la capacità di giudicare\valutare correttamente; questo implica
La saggezza come capacità di impartire gli ordini, la perspicacia si limita ad emettere il giudizio.
CICERONE=Difficoltà di rinvenire criteri oggettivi per il giudizio del particolare ha condotto allo scetticismo.
Ad ogni verità è unito qualcosa che vero non è, ma vi sono delle conoscenze, che sebbene non siano
propriamente accertate, appaiono così nobili ed
elevate da poter fungere da linee guida per il saggio.

CRISTIANESIMO=Coscienza come giudice interno


TOMMASO D’AQUINO=Il giudizio che rimane ancorato ai limiti della conoscenza appartiene alla
coscienza.

3. IL PROBLEMA DEL GIUDIZIO ALLE ORIGINI DELLA MODERNITÀ


PAUL RICOER=vari significati per il termine giudicare:
1)esprimere un’opinione su qualcosa (senso debole),
2)valutare come sinonimo di giudicare, (senso più forte) cioè associare l’apprezzamento e approvazione ,
3)giudicare come l’incontro tra una proposizione oggettiva ritenuta vera da qualcun, e la soggettività di chi
vi aderisce (grado di forza maggiore)
4)giudicare è ciò che unisce l’intelletto con la volontà; con l’intelletto bisogna considerare il vero e il falso,
con la volontà bisogna decidere.

C’è dall’1-4 un Aumento della responsabilità che il soggetto si assume fino alla presa di posizione.
La responsabilità è irrilevante quando si esprime un giudizio pour Parler, ma forte e rilevante alla quarta
posizione von la presa di posizione in una certa situazione. Il salto tra intelletto e volontà è il salto del
giudizio.

Con la secolarizzazione tutto il peso del giudizio (morale politico giuridico) ricade sulla ragione dell’uomo:

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CARTESIO= Conoscere e volere sarebbero le cause dell’errore di giudizio. Cartesio essendo il padre del
razionalismo , La causa dell’errore non è nell’intelletto o nella volontà, ma va individuata nella difficile
congiunzione di queste due nella mente.
L’intelletto ha dei limiti conoscitivi (non posso conoscere tutto), la volontà è tendenzialmente illimitata, da
questo scarto nasce l’errore.
Quando la volontà si posa su ciò che non conosco sufficientemente siamo di fronte ad un salto nel buio,
secondo Cartesio in questi casi converrebbe astenersi dal giudizio. Tra intelletto e volontà è sempre
presente l’abisso del giudizio.

4. L’ESEMPIO DEL GIUDIZIO DI GIUSTO NELLA “CRITICA DEL GIUDIZIO” DI KANT 1790
KANT=Il giudizio è un’autonoma facoltà della mente, che trova in se stessa il suo principio e non è fondata
su alcuna regola.
Kant ripropone lo scarto cartesiano tra intelletto e volontà attraverso la contrapposizione di mondo
fenomenico, conoscibile dall'uomo e noumenico, quest’ultimo è il mondo delle cose in sé, l’uomo può
pensarlo ma non può conoscerlo.
Nella critica del giudizio Kant si interroga sull’esistenza di vie per superare questo scarto, individuando una
traccia della natura conoscibile anche là dove le
categorie dell’intelletto non possono giungere, queste vie sono: l’ordine della natura e la bellezza .
Il giudizio è quindi sentimento puro, la facoltà che media tra l’intelletto (la necessità) e la ragione pratica (la
libertà che determina la volontà razionale).
Tramite lo studio del giudizio estetico (il giudizio del giusto che è soggettivo, personale ma comunicabile
agli altri), Kant comprende la natura del giudizio che media tra necessità e libertà nell’uomo.
(Se il giudizio deve trovare il particolare dall’universale, allora sarà determinate.
Se invece è dato solo il particolare e il Giudizio dovrà trovare l’universale, esso è riflettente).
Il fondamento del giudizio estetico( riflettente) non è logico ma è l’esito di una riflessione del soggetto sullo
stato immediato di piacere o dispiacere provocato dall’oggetto stesso percepito.
Com’è possibile che un giudizio che si fonda sul piacere soggettivo giunga a proclamare l’universalità del
piacere? Kant risponde evidenziando il piacere del bello insito nei giudizi di gusto, dato dalla riflessione,
alla percezione di un oggetto segue la riflessione su di esso attraverso l’immaginazione. Quando un
soggetto afferma che una cosa è bella considera il suo sentimento di piacere come universalmente
comunicabile. Kant afferma il principio della comunicabilità universale del sentimento di gusto attraverso la
facoltà di immaginazione. Affinché possa vigere il principio della comunicabilità universale è necessario un
sensus communis, che è facoltà comune di giudicare.
Per Kant si tiene conto del senso comune quando nella costruzione del nostro giudizio siamo in grado di
confrontarci con i giudizi possibili ed effettivi degli altri.
Da questa interpretazione del senso comune derivano 3 massime che guidano il giudizio di gusto:
1)Pensare da se,
2)Pensare mettendosi al posto degli altri(massima del giudizio)
3)Pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. Quando un singolo si eleva al di sopra
delle condizioni soggettive del giudizio e riflette sul proprio giudizio da un punto di vista universale.

Le massime del senso comune che scaturiscono dalla riflessione kantiana sono alla base del giudizio
giuridico, inteso come decisione del giudice alla fine del processo.

5. UNA TEORIA GENERALE DEL GIUDIZIO GIURIDICO?


—Dal XVIII al 900 la teoria generale del giudizio giuridico è dominata dalla teoria del sillogismo giudiziale.
Teoria del sillogismo= Forma di sillogismo pratico che individua nella norma generale e astratta la
premessa maggiore( Chiunque commetta P dovrà subire Q), nel fatto accertato la premessa minore(Il
soggetto B ha commesso P) e nella decisione del giudice la conclusione(Il soggetto B dovrà subire Q).

—Questa struttura, apprezzata anche da CESARE BECCARIA, viene formulata per rendere
oggettivamente valida la decisione del giudice. Merito di aver distinto giudizio di diritto(applicazione della
norma al fatto) e giudizio di fatto (natura conoscitiva).

In ogni delitto si deve fare del giudice un sillogismo perfetto:


Maggiore=legge morale
Minore= azione conforme o meno alla legge
Conseguenza = libertà o pena

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

—Positivismo giuridico classico= Il giudice dovrebbe già possedere gli strumenti necessari per
individuare la premessa maggiore(tramite le fonti) e la premessa minore(tramite le regole probatorie).
—Tardo ‘900=Dopo la 2 guerra mondiale, con l’evoluzione logica nell’ambito scientifico e l’evoluzione dei
profili di ordine valoriale, contribuirono alla crisi della pretesa di collegare teorie logico razionali al processo
decisionale del giudice. Queste dottrine antiformalistiche mettono in discussione non solo il modello
sillogistico ma anche la possibilità stessa di elaborare una teoria generale del giudizio.

Riconosciuto il merito della teoria del sillogismo riguardo la differenza tra giudizio di diritto e giudizio di
fatto. La costruzione di entrambi i giudizi avviene parallelamente, colui che giudica analizza i fatti per farsi
un’idea sulla norma da applicare e analizza le norme per farsi un’idea sulla configurazione del fatto da
accertare. Non vi è alcun ordine di precedenza.

—TARUFFO= Nel giudizio giuridico giocano un ruolo essenziale i giudizi di valore formulati dal giudice, la
sussunzione dei fatti nella fattispecie astratta non è un’operazione logica ma un’operazione intellettuale
creativa che comporta un inevitabile margine di discrezionalità.
Più confacente alla pratica del giudizio giuridico la forma di giudizio che Kant qualifica come riflettente. Il
giudizio nasce dal particolare alla ricerca della regola.

6. LINEAMENTI DI FILOSOFIA DEL GIUDIZIO GIURIDICO


CARNELUTTI= Il termine iudicium rinvia all’idea di diritto che si rivela nel dire, il diritto è perciò incarnato
nel giudizio. La forza del diritto è colta a pieno solo nel processo, in cui si assiste alla lotta generata dal
dubbio, dove il giudizio si forma attraverso plurime valutazioni (del giudice e delle parti) che conducono al
giudizio vero e proprio.
Il giudizio del giudice è preceduto da una profonda indagine “cerca di illuminare quanto è possibile la strada
davanti a lui”. Il giudice vorrebbe continuare l’indagine all’infinito, ma non potendo dovrà a un certo punto
necessariamente esprimere il giudizio( un salto nel buio dal noto all’ignoto).
Il giudizio critico cioè il vero giudizio, si nutre del giudizio storico, della cognizione intellettuale del passato,
per prepararsi al salto del giudizio vero e proprio.
Giudicando la condotta di un altro uomo non si fa altro, che regolare la sua vita futura attribuendo un
significato, nel futuro a ciò che è avvenuto nel passato. Il presente, il fatto accessibile alla conoscenza è
solo una parte di ciò che si cerca nel giudizio; Il futuro,il significato che si attribuisce al passato, non è dato.
Per giudicare a partire dal particolare ci sarebbe bisogno del senso del tutto individuato nel buon senso,
simile al sensus communis kantiano. La libertà del giudicare non è se non la facoltà di regolarsi secondo
buon senso. Il soggetto che giudica, come uno specchio, rifletta sulla realtà esterna la sua realtà interiore( il
senso del tutto).

SALVATORE SATTA=Il giudizio procede da un’intuizione che a sua volta procede da una secolare
millenaria esperienza giuridica. Il giudizio giuridico è destinato a valutare le condotte e formulare delle
prescrizioni con la pretesa di fare giustizia. E’ una pretesa di giustizia perché l’uomo deve sempre giudicare
il particolare umano senza avere un’idea del concetto universale di giustizia.
Il giudizio non si risolve nella verifica della legalità, ma è uno strumento che serve a cogliere la giustizia
nella legalità attraverso l’intuizione del senso del tutto (buon senso).

3 massime del giudizio in relazione al rapporto tra chi giudica con gli altri:
•La prima massima implica la necessità di liberarsi da idiosincrasie e punti di vista pregiudizievoli,
•la seconda è che il giudice liberatosi da abitudini e interessi personali debba indossare i panni degli altri,
ascoltare le parti dal loro punto di vista. Il giudice è terzo perché può adottare più punti di vista senza
perdere la sua autonomia. La capacità di giudicare esprime il talento di leggere la realtà anche da punti di
vista diversi dal proprio. Più sarà intensa la capacità immaginativa più sarà valido il giudizio. Come per il
giudizio di gusto il giudice spera che altri condividano il suo piacere,nel giudizio giuridico il giudice deve
tener conto del contesto morale e sociale.
•La terza massima suggerisce che il giudice debba seguire un’argomentazione coerente priva di
contraddizioni logiche a sostegno della sua decisione (il giudice ha l’obbligo di motivare la sua sentenza) .

Rispondendo alle tre massime il giudice terzo giunge


ad una decisione universalmente comunicabile cioè razionalmente accettabile anche se non
necessariamente da tutti condivisa.
ARENDT= si scaglia contro i critici del giudizio poiché l’uomo è inevitabilmente portato a giudicare.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 11: LINGUAGGIO, il discorso giuridico tra linguaggio e azioni


1. INTRODUZIONE AL TEMA
L'uomo pensa il mondo attraverso il linguaggio e il suo modo di vedere il mondo è condizionato dal
linguaggio. Perciò trattare del linguaggio è anche trattare del pensiero e delle sue regole, = della logica.

Il linguaggio implica anche l'esistenza di una comunanza di regole, di significati, è una forma di interazione
sociale. Il linguaggio cioè implica una relazione e una sfera di esperienza intersoggettiva. Esso postula
l'esistenza e l'interazione. In questa situazione intersoggettiva le parole sono importanti, il linguaggio crea
uno spazio nuovo che si colloca tra le parole e le azioni: quello dei significati. E' in questo spazio che la
dimensione normativa prende forma.
Bobbio: introducendo allo studio della norma giuridica ha notato come sia una proposizione, ovvero un
insieme di parole aventi un significato, nel caso del diritto aventi un significato normativo. Carnelutti: non si
comprende il diritto se non si conosce il discorso.

Il diritto dunque è popolato da entità linguistiche, semplici e progressivamente più complesse, ma è da
intendersi come un'attività discorsiva e si comprende alla luce di intenzioni scopi e azioni umane.
Diritto: attività discorsiva (1) e si serve del linguaggio(2): (2) il linguaggio è anche il veicolo attraverso cui il
diritto viene formulato e comunicato, ma il diritto allora è altro dal linguaggio. (1) il diritto non usa il
linguaggio ma è azione di natura linguistica e comunicativa.

1.1. Le caratteristiche specifiche del linguaggio giuridico:



Diritto: in quanto guida dell'azione umana e dunque parte della ragione pratica volta all'azione -> il suo
carattere più evidente è la NORMATIVITA, il diritto riguarda il dovuto e il dover essere dell'azione
individuale e collettiva. La normatività presuppone comunicazioni PRESCRITTIVE, col proposito di
imprimere un certo corso alle azioni umane.

La prescrittività mira a indurre qualcuno ad agire in un certo modo e ovviamente il diritto non è il solo ad
essere prescrittivo. Il problema è quello di individuare la specificità del diritto. Si può dire che il modo di
guidare l'azione del diritto è attraverso regole a loro volta prodotte da altre regole. La prescrittività è
approfondita dalla logica deontica: consiste nello studio delle strutture e della comunicazione del dover
essere. La qualità distintiva della prescrittività: direzione di adattamento del discorso va dalle parole ai fatti.
Mentre il discorso descrittivo o referenziale deve corrispondere e adattarsi alla realtà (al referente) -> il
discorso giuridico prescrittivo invece mira ALLA TRASFORMAZIONE DELLA REALTA: è la realtà a doversi
adeguare al diritto. E la realtà a cui il diritto si rivolge è quella delle azioni umane. Il diritto è rivolto a
soggetti da cui ci si aspetta che trasformino il linguaggio in azioni.

La funzione di prescrizione inoltre esige che il linguaggio del diritto non possa essere del tutto tecnicizzato
poiché deve essere ben compreso dai destinatari ai quali è diretto. Il diritto parla la lingua del destinatario.

Inoltre il linguaggio giuridico deve possedere una certa indeterminatezza, caratteristica tipica delle regole. Il
linguaggio delle regole infatti non può essere tanto determinato da riferirsi a un'azione unica, né tanto poco
determinato da non orientare l'azione in una qualche direzione.

1.2. Linguaggio e azione, di chi?


Quando si insiste sulla funzione prescrittiva si enfatizza la posizione di CHI EMETTE LA PRESCRIZIONE.
Lo studio del rapporto tra diritto e linguaggio porta all'attenzione il tema dell'AUTORIA DEL MITTENTE, la
problematica delle fonti del diritto, le caratteristiche del comando: tutti aspetti centrali in una concezione
imperativistica del diritto:il diritto è l'insieme dei comandi sovrani trasmessi attraverso enunciati linguistici.
Ma per comprendere il diritto e anche il suo rapporto col linguaggio: occorre considerare anche la
prospettiva del DESTINATARIO della comunicazione linguistica: quello che la giurisprudenza
contemporanea con Hart ha chiamato "il punto di vista interno", di chi vuole agire secondo diritto. Qui il
linguaggio è veicolato da significati che costituiscono ragioni per agire in un determinato modo. Il linguaggio
del diritto qui veicola ragioni e giustificazioni delle regole giuridiche in senso pratico, cioè in vista dell'azione
da compiere. Questo porta a prendere le distanze dalle concezioni espressive delle norme secondo cui le
regole sono l'espressione del desiderio di qualcuno (autorità) che altri si comportino in un modo.
La differenza fra queste 2 diverse letture del diritto dipendono dal modo in cui si comprendono il linguaggio
e l'autorità. Da una parte vi è il ritenere che conti solo il soggetto principale parlante (chi ha autorità) e il suo
linguaggio, dall'altra vi è chi tiene di conto anche di chi deve seguire il diritto. Questa alternativa fa il paio
con quella che riguarda il rapporto fra significato e forza: se sia la forza a dare significato al diritto o se
siano i significati a dare forza al diritto. Quindi: la concezione espressiva della norma mostra di concepire il
linguaggio in senso strumentale: ciò che conta è la volontà di chi comanda. Per la riuscita della pratica
giuridica conta certamente il soggetto che detiene autorità e la forza, MA conta anche chi opera obbedendo
alle regole —> e da questo punto di vista il linguaggio deve rispettare certe condizioni come il fatto che sia
comprensibile. I soggetti coinvolti nella comunicazione sono attivi, diritto= un'azione comunicativa comune.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

All'estremo opposto alla concezione espressiva delle norme si trova la teoria per cui il discorso giuridico si
può spiegare solo in riferimento a ciò che il diritto si propone di ottenere, alle sue finalità, obiettivi (come le
regole per fare il caffè si comprendono solo alla luce di quello che quelle regole vogliono realizzare, il caffè
appunto). Da questo punto di vista una teoria del diritto e della sua autorità deve contenere anche una
giustificazione del perché l'autorità è legittimata a comandare e i destinatari hanno il dovere di obbedire. Il
presupposto è la natura razionale degli agenti, sia chi comanda sia chi obbedisce.
Il linguaggio è uno degli elementi più tangibili del diritto: giuspositivismo spesso ha usato il binomio diritto-
linguaggio, sostenendo che il diritto è il linguaggio di un soggetto qualificato, il legislatore. Tuttavia il diritto
non è solo la parola di qualcuno. Dopo che è stato proferito il diritto deve essere azione.

1.3. La necessità dell'interpretazione:



Il diritto usa diverse forme linguistiche: parlata, scritta, e si esprime attraverso simboli e comportamenti.
Tutti questi elementi sono segni, veicolano significati, e perciò richiedono interpretazioni.

Il linguaggio è sia essenziale per capire a cosa abbiamo diritto o no, quali sono i nostri obblighi etc ma allo
stesso tempo crea problemi giuridici nella forma di conflitti interpretativi: a causa del significato controverso
e a causa della difficoltà a capire le situazioni a cui esso va applicato. E queste controversie non sono solo
linguistiche bensì sottendono questioni pratiche. L'irriducibilità del diritto alle sue espressioni linguistiche
permea tutta la problematica dell'interpretazione giuridica. Per poter guidare l'azione il linguaggio ha una
struttura aperta sia in senso semantico che casistico: da un lato non impone permette o vieta una azione
concreta, ma un modello di azione; da un altro lato non è possibile prevedere il modo in cui quelle azioni
tipizzate si presenteranno nel mondo reale delle azioni umane col cambiare del tempo e dei contesti.
Questa indeterminatezza è legata anche al fatto che il diritto usa le lingue naturali ed esse sono vaghe. La
necessità dell'interpretazione è indice dell'apertura delle regole ai casi della vita.
Conclusione: sebbene le diverse discipline linguistiche (grammatica semantica sintassi etc) diano un
contributo importante alla competenza del giurista tuttavia quello che davvero rileva è capire la logica
interna del diritto: le sue finalità, il suoi mezzi etc. Oltre ad essere linguaggio dell'autorità il diritto è rivolto
ad agenti razionali e liberi che devono poter decidere di seguire le sue regole.

2.2. Giuspositivismo e linguaggio:


Precursore della svolta linguistica: Bentham, che non si è limitato a paragonare il diritto alla lingua, ma ha
propriamente definito servendosi del linguaggio. Il diritto è per Bentham l'espressione linguistica della
volontà del sovrano. In polemica col giusnaturalismo (che focalizzava l'attenzione sulle ragion i diritti e i
doveri ritenuti da Bentham inconsistenti e mitologici) egli si concentra sugli atti linguistici come fenomeni
empirici, capaci di fornire elementi per una teoria empirica del diritto. La sua teoria del diritto però è
costruita sui significati e sugli usi delle parole in un senso meccanico: il significato delle parole dovrebbe
suscitare quasi materialmente certe conoscenze ed emozioni in chi le riceve.
Bentham è in polemica anche con la common law, il sistema giuridico inglese, che ritiene incontrollabile e
irrazionale. Egli nota che la preferenza per il diritto consuetudinario fondato su precedenti vincolanti ha
come effetto la minore rilevanza del linguaggi del legislatore all'ora di definire il diritto. Un diritto costruito
attraverso fatti sociali appare per un empirico come Bentham problematico.

2.3.Le filosofie del diritto dopo la svolta linguistica:


Svolta linguistica nel rapporto fra diritto e linguaggio: attenzione sul linguaggio. Tale svolta è all'origine di
una divaricazione che ancora oggi divide la filosofia del diritto contemporanea tra analitici & filosofi
fenomenologici e ermeneutici. Qui siamo di fronte a 2 tendenze della filosofia del diritto ognuna portatrice di
un modo di intendere il linguaggio e il diritto.
Frege: il pensiero può essere studiato solo attraverso il linguaggio in cui si esprime -> Wittgenstein: il
linguaggio è lo specchio della realtà ma mentre a realtà non può essere studiata e controllata, il linguaggio
sì. E infatti dal punto di vista epistemologico la scienza deve sostituire fatti con il linguaggio. Nella fase
finale Wittgenstein ridimensiona la funzione referenziale del linguaggio: come esistono tanti giochi e
ognuno ha le proprie regole così esistono molti linguaggi ognuno con regole diverse, Il significato è l'uso
del linguaggio che si fa nel gioco. Il significato dipende dal gioco che si sta giocando non ha più basi
referenziali. E poi abbiamo Bobbio Bentham Austin.
Una seconda tradizione di pensiero riconducibile alla svolta: trova il suo capostipite in Husserl: secondo il
suo approccio fenomenologico il linguaggio è quella parte della realtà che ci consente di comprendere il
resto della realtà. Heidegger, allievo di Husserl: il linguaggio è la casa dell'essere. Gadamer traduce in
termini epistemologici il portato della corrente fenomenologica: insistendo sulla comprensione come
metodo delle scienze umane e la spiegazione come metodo delle scienze naturali e fisiche. Ermeneutica:
interpretazione non è solo una tecnica bensì svela la stessa natura del diritto.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 12: RETORICA , il diritto al servizio della verità


1. INTRODUZIONE
—La retorica può essere definita come l’arte di persuadere o convincere qualcuno della bontà della
tesi che sosteniamo in forza degli argomenti che siamo capaci di offrire a sostegno e in virtù della capacità
di presentarli in modo adeguato, dovendo noi risultare credibile chi ci ascolta. Chi parla illustra i motivi che
sorreggono la sua tesi, così da rendere possibile la valutazione di essi dall’altra parte. L’interlocutore potrà
così ritenerli fondati e condividerli, o infondati e criticarli respingendo la sua tesi.

DIALOGO: scambio tra domande risposte fra qualcuno che afferma una certa cosa e qualcun altro che
ascolta ma chiede anche chiarimenti, magari contestando la prima pretesa e così obbligando chi la
sostiene ad offrirle buone ragioni, per far sì che chi domanda possa consentire.
ARGOMENTAZIONE: attività dell’argomentare, cioè di offrire ragioni a sostegno di ciò che affermiamo.
L’argomento è una ragione che fa fede rispetto a qualcosa di cui non siamo sicuri O rispetto a un
enunciato o una proposizione di cui non si conosce il valore di verità. —>Argomentazione necessaria
quando si voglia mostrare la credibilità di una tesi incerta.
Inferenza: processo con cui si giunge a una conclusione partendo da certe premesse.
INFERENZA=processo con chi si giunge ad una conclusione partendo da certe premesse. Mettendo
insieme gli argomenti si arriva ad una conclusione.
“Se P ..allora C”= P di premesse e C la conclusione. Premesse e conclusione è ragionamento possono
essere di varia natura.
ENUNCIATI: descrittivi, prescrittivi, particolari, universali e generali.
RAGIONAMENTI: tipo induttivo, deduttivo, abduttivo, per descrivere qualcosa, per inferire qualcosa, per
comandare qualcosa, per deliberare intorno a qualcosa.

—È molto importante la logica del discorso e la capacità che abbiamo di suscitare delle emozioni in
chi ci ascolta e predisporlo così ad accettare il nostro argomentare, Dovendo risultare credibili e facendo
valere il nostro carattere e valore personale. Queste tre componenti: logica emozioni e carattere= logos,
pathos, ethos compongono il modo in cui si genera persuasione.
ARISTOTELE: L’arte della Retorica si esercita in tre generi particolari di discorso:
—>epidittico= relatore parla al pubblico di spettatori per ottenere biasimo e lode= cerimonie
—>deliberativo= relatore parla ad una assemblea per consigliarla o meno sul da farsi=deliberazioni
politiche.
—>giudiziale= relatore parla ad un guide per persuaderli su certi accadimenti= processo

—Legame diritto retorica forte. Il modo in cui il diritto si forma è retorico, il diritto ha una componente
autoritaria perché è una decisione, ma ha anche una componente razionale e una componente emotiva e
una componente etica.
—I contesti in cui si svolgono sono dialogici e trialigici, se le parti non sono almeno in tre quel discorso non
è un processo + un confronto fra tre parti è un processo se si svolge in un luogo istituzionalizzato

2. IL PREGIUDIZIO SULLA RETORICA


—si usava questo termine con accezione negativa “stratagemmi retorici”: questa visione si sostanzia
nella visione banale ma diffusa, che la persuasione è sempre irrazionale e perciò indistinguibile dalla
manipolazione dall’altro.
—Questa visione è diffusa anche oggi in quanto, tutto è diventato comunicazione ridotto a segno
messaggio o persuasione uniformandosi ad una convinzione comune. Il nostro tempo è di transizione, è
un’epoca di crisi di certezze in cui parole come fake news e post-truth sono diventate parte del gergo
quotidiano e del mondo in cui viviamo, e in cui fatichiamo a ritrovare la certezza del diritto.
—la retorica è l’arte che si sviluppa in quei contesti in cui esistono punti di vista diversi su qualcosa, in cui
la discussione è sempre possibile perché le versioni dei fatti e le opinioni dei parlanti non coincidono.
—disponiamo degli strumenti per controllare ciò che gli altri dicono e i modi della persuasione ma
disponiamo anche degli strumenti per dire il falso.

3. LE ORIGINI DELLA RETORICA


—Siracusa 485 a.C.: i processi per garantire alcuni diritti di proprietà, mobilitavano grandi giurie popolari
davanti alle quali, per convincere, bisognava essere eloquente. Questa eloquenza si costituì rapidamente
in oggetto di insegnamento. Gorgia, Protagora.
—Secondo Gorgia ed i SOFISTI, l’arte retorica era da esercitarsi solo per convincere l’uditorio,
guadagnando la persuasione con qualunque tecnica. Ma questo tipo di retorica dovrebbe, piuttosto, essere

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

chiamata sofistica. —>Per i sofisti, non esistono la verità o il giusto o il bene in sé: esistono solo come
opinione personale ma nessuna opinione preferibile un’altra se non nella misura in cui chi la propugna sia
più brava del proprio avversario.
—PLATONE contrappone (alla sofistica) la retorica autentica, volta alla ricerca e custodia della verità, del
giusto e del bene. L’esercizio di una retorica che manifesti la capacità di conoscere il vero dialogando,
prendendosi cura dell’altro che ascolta e del legame che ci costituisce in società.
Messaggio trasmesso da Platone ad Aristotele.
—Nella prospettiva sviluppata da ARISTOTELE, la retorica è sempre un’attività del logos, ancorata all’arte
del corretto ragionare entro un dialogo a partire da ciò che il mio interlocutore accetta.
—Occorre affiancare al logos della dialettica, il pathos e l’ethos nella retorica. La dialettica è l’arte del
corretto ragionare e la retorica adesso si accompagna ma non si oppone: anzi, vi si aggiunge,
inglobandola.
Il discorso retorico persuade non solo attraverso la mozione dei sentimenti dell’ascoltatore (pathos) e la
credibilità delle qualità personali del retore (ethos), ma anche con l’esercizio comune della ragione (logos).

4. DAL PERIODO CLASSICO E MEDIOEVALE ALL’ETÀ MODERNA


—Tal riscatto di retorica realizzatosi con Aristotele si trasmette a tradizione romana —> mette in atto pratica
con cicerone, pedagogia con Quintiliano = con loro opere retorica prende fisionomia che consoceremo in
distinzione di diverse parti di c.d. “reticolo retorico” (inventio, dispositio, elocutio, actio, memoria) e in stretta
connessione con precisa idea di retore = “vir bonus dicendi peritus”, = abilità nel dire non è sufficiente : si
mantiene distinzione tra retorica (che richiede virtù) e sofistica (no virtù).
—Periodo tra II e IV sec. a.c. è età anche in cui si elabora “retorica generalizzata” = retorica come teoria
dello scrivere e tesoro di forme letterarie insieme. Si intravede ciò che retorica diverrà: arte del bello
scrivere.
—In matura età moderna finirà per scomparire ma precordi di ciò si intravedono già allora anche se retorica
era difesa da una certa strutturazione del sapere nel suo complesso —> per tutto alto medioevo si
presenta in forma di c.d. arti liberali suddivise in 2 gruppi trivium e quadrivium —> questo costituito da
musica, aritmetica, geometria, astronomia mentre altro da grammatica, dialettica, retorica = arti del
discorso = arte sermocinales .
Ancora presente legame tra dialettica e retorica interpretata secondo lezione aristotelica: es in giovani di
Salisbury, Petrarca che critica alcuni suoi contemporanei, “pseudo dialettici” (sofisti). —> retorica di
Aristotele rimasta sconosciuta a mondo medievale che l’apprese in max parte da opera di cicerone. Sist. Si
sapere che alto medioevo aveva tramando con sopratt opera di Boezio si stava sgretolando e iniziò a
formarsi divisione fra saperi umanistici e scientifici.
Vs tal divisionismo si spesero già alcuni filosofi come Vico = recupera idea classica di retorica per cui punto
di svolta si registra con passaggio a età moderna: mom. In cui in formazione di nuovo sapere retorica di
Aristotele può entrare e arrecare ulteriore complemento. Ciò che accade con affermarsi di scienza
moderna e aristotelismo insieme a altro filo antiche inizia suo lento declino in occidente.
Riv scientifica (galileo Galilei maggior rappresentante) fu anche proposta di concezione diversa rispetto a
precedente filo aristotelica. —> tt contribuirà a gettare basi di razionalismo successivo in cui separazione
fra logica (ex dialettica) e retorica si consumerà.
—Contrariamente a quanto si dirà in positivismo retorica per qnt ridotta a forma letteraria no estranea a tal
opera di fondazione di scienza = esiste “retorica della scienza”, opere di Galileo es + imp.

5. LO SVILUPPO DI UNA CERTA IDEA DI LOGICA


—In maturo ‘600 si assiste a un cambio di prospettiva radicale e definitivo rispetto a logica: da Aristotele
fino a medievali logica identificava teoria di inferenza corretta, era connessa a tematiche filosofiche
generali e intrinsecamente parte di statuto di retorica.
—Nel XVII secolo la logica conosce le prime avvisaglie di quella matematizzazione della logica che venne
in modo conclamato e nell’800.
—> rivoluzione che si registrò qualche sec fa fu così profonda che ancora oggi a parlare di logica si pensa
a teoria fatta di simboli e calcoli simile a matematica , e estranea a formazione umanistica —> ciò si
intravede in LEIBNIZ che ebbe idea importante .: opportuno sviluppare sistemi di segni ( a cui ridurre
linguaggio e pensiero) e operazioni matematiche (a cui ridurre le inferenze) per risolvere tutte le dispute,
filosofiche e giuridiche calcolando.
—Inizia quindi la stagione di logica formale con opere di FREGE = vero iniziatore di sapere di “logica”:
legame fra logica e matematica è tanto potente che l’espressione “logica matematica” è stata usata sempre
più raramente restando, implicito il fatto che ogni logica in senso proprio è in qualche misura matematica.
—RUSSEL mise a punto un nuovo metodo filosofico, che restò poi caratteristico della tradizione

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

filosofica detta analitica. Il nucleo centrale di questo metodo è l’idea che il linguaggio naturale
maschera l’autentica forma logica degli enunciati che va invece rivelato e analizzata, con strumenti
messi appunto da Russell.

6. UNA LOGICA DEL DIRITTO PRIVATO DELLA RETORICA


—C’è un’Evoluzione dei sistemi di civil Law: valore assegnato la certezza del diritto consacrato dalla
codificazione.
•MONTESQUIEU: Il giudice non può creare diritto ma altro non deve fare che essere bocca della legge,
stabilita però dall’unico legislatore sovrano di cui deve limitarsi a pronunciare le parole
•CESARE BECCARIA: la causa dell’incertezza del diritto, è che Ciascun uomo ha il suo punto di vista,
Ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge è dunque il risultato di una buona
o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue
passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso e da tutte quelle minime forze
che cambiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo.
Il rimedio da Beccaria fu nell’applicazione della deduzione logica nel diritto, Che lui muta nel metodo
scientifico: In ogni delitto si deve fare da giudice un sillogismo perfetto; la maggiore deve essere la legge
generale, la minore l’azione conforme o no, alla legge; le conseguenze la libertà e la pena. Quando il
giudice sia costretto a fare due sillogismi, si apre la porta l’incertezza che non può essere tollerata.
Nascono però dei problemi da questa impostazione: la formazione del diritto non dipende solo dei due
soggetti legislatore e giudice, perché gli attori sono in numero maggiore. Inoltre il diritto è tutto fuorché il
dominio della certezza: incerta è la premessa maggiore, incerto è il fatto che costituisce la premessa
minore mediante le ricostruzioni delle parti, ed incerto è il procedimento logico che dovrebbe condurre alla
conclusione.

—Nell’800 c’è una vera e propria ideologia legale-razionale, tesa a raffigurare la sentenza del giudice come
la conseguenza di un processo meramente dichiarativa e conoscitivo, e non invece come l’esito di una
decisione frutto di scelte discrezionali. Da allora in poi il sillogismo giudiziale sarà il modello del
ragionamento giuridico ma non sono mancate CRITICHE.
•KELSEN: Egli sostiene che la decisione giuridica cioè la norma individuale trovi la sua ragion d’essere nel
fatto che il giudice appare soggetto delegato, e quindi autorizzato, a porre in essere, nel contesto
dell’ordinamento giuridico gerarchico piramidale. In questo contesto l’opera del giudicante è costitutiva.
L’idea resta sempre quella di liberare il diritto dall’incertezza implicata dalla soggettività impressa dai giudizi
di valore.

7. DIRITTO, RETORICA E TEORIE DELL’ARGOMENTAZIONE


—Secondo dopo guerra, aperto dal processo di Norimberga :
Speculazione di RADBRUCH e crisi del positivismo giuridico, problema rapporto diritto-morale, rinascita
studi sulla retorica e sull’argomentazione, revisione del del ragionamento giudicio.
• Rinascita della retorica: PERELMAN, ma anche TOULMIN (= settore della logica e dell’epistemologia,
creando nuovi filoni di studio come quello della logica informale) E VIEHWEG(= accento su un aspetto
particolare del metodo retoricò, sul reticolo retorico e la fase topica del rinvenimento delle premesse del
ragionamento è discorso del retore).
PERELMAN: (si concentra su dottrina e teoria). Fino a quel momento la convinzione diffusa era quella che
di “autentico sapere” di “autentica logica” si potesse parlare solo guardando i campi delle scienze deduttiva
e induttiva, mentre tutto ciò che ne restava fuori fosse in qualche modo una forma di conoscenza di
carattere secondario. C’era un pregiudizio ideologico positivista che interessi anche il sapere giuridico.
KIRCHMANN: c’era la convinzione diffusa che solo il sapere giuridico era stato in grado di cantare canoni
precisi di avalutatività tipici dei modelli delle scienze naturali allora, e potesse essere considerato scienza.
Si pensava esistesse solo un metodo che dovesse valere per tutti i contesti.
—oggi (Nel tempo le cose cambiano) proprio il sapere giuridico, e in particolare la sua parte più
rappresentativa, ossia la giurisprudenza, è stato l’oggetto delle teorie di Viehweg, Perelman e Toulmin.
TOULMIN= ha proposto una concezione della logica definita come giurisprudenza generalizzata,
PERELMAN= voleva proporre un’analisi per la fondazione di una nuova retorica, guardava principalmente
il momento del processo come idealtipico per rifondare il concetto di razionalità nei contesti pratici,
convinto, conciò che i concetti di valore e giudizi valutativi non dovessero essere semplicemente espulsi
dal dominio della razionalità. Cercò di Restaurare il legame aristotelico tra logica e giudizi di valore,
recuperando il peso della lezione classica. Cercò di spostare il criterio di accettabilità e valutazione del
consenso dall’oggettività, all’accettabilità quest’ultima basata sul criterio prudenziale della ragionevolezza.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Ragionevole era ciò che veniva accettato da certe persone (uditorio) in certi tempi e luoghi. La verità
dipende dalle opinioni.
Ma Perelman non riesce a trovare una vera soluzione.
L’uditorio: è all’uditorio che si tributa il maggior ruolo nel giudizio di ragionevolezza e quindi il criterio di
valutazione dipende sempre dal giudizio si singole persone e non esiste un parametro oggettivo per
controllare la ragionevolezza di un’argomentazione. =Perelman non riesce a soddisfare i criteri razionalità.

—Diverse teorie:
• HABERMAS: per lui la teoria dell’argomentazione non è una disciplina specifica che valuta e ricostruisce
certe istanze linguistiche; ma coincide con la teoria della razionalità umana. La razionalità umana è
comunicativa e ha una struttura profonda argomentativa.
•APEL e la sua pragmatica trascendentale: sostiene che quando si parla di prescrittività delle teorie
dell’argomentazione si intende la capacità di fornire regole che possono permettere di valutare le
argomentazioni, e anche di giustificare le norme argomentative fornite o la teoria stessa.
—Da Habermas e APEL, c’è un impegno a costruire una vera etica del discorso che interessa gli sviluppi
dei modelli di ragionamento nelle pratiche sociali e quindi anche nel diritto.
—Tutti gli approcci manifestati e hanno diversi limiti, problemi connessi alla natura dei principi fondatori e
dalle regole che sono state identificate di volta in volta.
—È evidente che la teoria dell’argomentazione giuridica non è più una teoria del ragionamento giuridico,
ristretta negli angusti domini logici di controllo del discorso del giudice, ma è diventata pieno titolo una parte
ineliminabile della riflessione sul diritto nel suo complesso.
La teoria dell’argomentazione giuridica per poter dare conto della razionalità della decisione giuridica
sembra dover presupporre la razionalità della legislazione che
presuppone l’assunzione della razionalità del processo di deliberazione politica: in caso contrario la
razionalità di ogni decisione giuridica finirebbe per essere relativizzata o messa del tutto in questione.

8. CONCLUSIONI
—In tal scenario sono maturati i diversi approcci che compongono variegato mondo di teorie di
argomentazione che rappresenta oggi un campo di studio in evoluzione—> nuovi scenari espressi da stati
di diritto costituzionale hanno definitivamente confermato il fatto che giudizi di valore rappresentano parte
ineliminabile del diritto e del ragionamento giuridico= necessario recuperare qualche forma di razionalità
che ne sappia dare conto.
—È l’interpretazione a fare parte del processo argomentativo,
—Argomentazione: dinamica e non statica. Dovrebbe riportare il focus sulla retorica in senso aristotelico.
—Se si guarda fuori da dir ciò è lampante: oggi come allora dir risulta in ritardo rispetto a passi avanti che
sviluppo di sapere ha fatto. = logica, retorica, teorie di argomentazione.
—concetto di ragionevolezza: identifica i confini entro cui può svolgersi la persuasione che però, in sé
stessa, non può fare a meno dell’utilizzo di opportuni mezzi retorici.
ROCCI nota che assenso che avremo a fine del “manouvering” si baserà sull’ effettività di mezzi retorici
usati: tale assenso non è puramente ragionevole, libero. Le mie ragioni non bastavano a persuadere altro;
e io ci ho aggiunto parole prestigiose Metafore trucchi. La persuasione non può essere neutra rispetto alla
ragionevolezza di un discorso: o gioca ruolo positivo o gioca ruolo inevitabilmente negativo.

—Per uscire da dilemma 2 strade:


-si torna indietro di 100 anni ignorando sviluppi di tipo epistemologia, filosofico, scientifico e del diritto=
condotto a necessità di dover considerare questione di ragionevolezza.
—Si abbandona posizione compatibilista debole.
Chi adotta una posizione compatibilista forte non ritiene solo che sia possibile essere ragionevoli e
persuasivi, ma anche che non sia possibile essere pienamente ragionevoli senza un impegno persuasivo =
non si può avere teoria dell’argomentazione senza retorica.
—Il ragionamento che si attua attraverso un sillogismo retorico è un vero e proprio ragionamento, nulla
invidiando a quello dialettico deduttivo induttivo delle scienze, ma anzi avendo in più il pregio di sapere
coinvolgere l’ascoltatore, cognitivamente ed emotivamente, nel recupero autentico di una nozione unitaria
di ragione. L’ascoltatore non è mai passivo. Inoltre, piacere e conoscenza per Aristotele non sono in
alternativa e per questo la persuasione non è soltanto manipolazione seduttiva, ma un processo discorsivo
che mette in gioco dimensione cognitiva e sfera emotiva di tutti i partecipanti.
• Aristotele: uomo è animale politico.
• Senza la retorica difficilmente sarebbero nati polis e diritto almeno così come li abbiamo conosciuti e
senza la retorica essi avrebbero avuto vita molto difficile.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 13: IDENTITÀ, la soggettività giuridica moderna e i suoi paradossi


1. LA COSTRUZIONE MODERNA DELL’IDENTITÀ UMANA

Diversamente dai precedenti modelli di diritto naturale, il pensiero etico moderno si caratterizza per una
spiccata attenzione rivolta alla condizione umana: tendenza da cui deriva l'elaborazione di teorie
concentrate su concezioni dell'identità, che emergevano dalla descrizione di un primigenio e supposto stato
di natura dell'esistenza. Non più idea di natura come universo di principi a cui attingere, ci si concentra ora
su una condizione umana a cui, secondo natura, inerivano il possesso di prerogative e la rivendicazione di
diritti innati: a cui si affidava il profilo dell'identità e delle personalità individuali. = PARADIGMA
INDIVIDUALISTICO: in cui il rinvio alla natura conferisce alla definizione di identità umana un connotato
importante: si andava ancorando sui principi dell'universalità e dell'uguaglianza. N. B.: universalità e
uguaglianza: attributi affermati in quelle teorie, ma in realtà circoscritti soggettivamente e come tali
escludenti. Tuttavia è indubbio che sin dalla loro affermazione abbiano costituito un ideale normativo, lungo
un processo di continua espansione degli spazi di inclusione. E' in questo perimetro che l'identità che in
origine era un argomento fondato sulla natura: trasla progressivamente su di una costruzione (giuridica e
personale) relativa a una soggettività artificiale e astratta in costante espansione. Dell'identità si afferma
una concezione pubblica che insiste su una definizione normativa della personalità, sia sul piano giuridico
che politico. E così accade che siano il soggetto di diritto e il cittadino i nomi che assorbono il significato
dell'identità umana, qualificando ciò che rileva dell'individuo.

In questa visione del mondo: il "progetto giuridico" della modernità si costituisce in una dinamica tra privato
e pubblico istituita secondo esigenze di distinzione reciproca, ma risponde anche, come dice Foucault, a
una pretesa di colonizzazione della sfera privata da parte del potere, istituendo una amministrazione
pervasiva dell'esistenza, che occupa e contrae ambiti in origine sottratti alla rilevanza politica e giuridica,
aspirando a governare la vita stessa.

Nell'età moderna: chi sia essere umano è domanda centrale anche per prospettiva filosofico- politica. I tratti
dell'identità umana (quelli della sua natura e quelli che essa assume come costruzione) sono richiamati in
funzione delle teorie delle dottrine giuridico-politiche che in essi ricercano il fondamento di legittimazione
della società politica. Il significato dell'identità naturale è decisivo nelle dottrine del contrattualismo politico.

Nel rapporto tra società di natura e società civile o politica, fino a Hegel è la natura dell'individuo a
costituire l'argomento che giustifica l'esigenza della vita associata secondo regole, indicando nel consenso
il modello della sovranità in cui si riconosce e giustifica il fondamento del potere politico. Questo accade
quando si affida alla società civile il compito di custodia di alcune attitudini innate all'essere umano, ovvero
quando la natura in cui si afferma consistere l'identità umana istituisce termini di patto tra individui-sovrano.

Nel corso del secondo Novecento: si discute delle distanze tra giusnaturalismo antico e moderno, e il nodo
era ricondotto al ruolo di Hobbes. Ciò si inquadrava in una indagine più ampia volta a stabilire cosa potesse
intendersi per giusnaturalismo moderno.

Occorre ricordare che la concezione dello Stato come unità, e del diritto come prodotto della volontà del
sovrano consentivano di collocare Hobbes come il primo rappresentante del positivismo giuridico inglese.
Anche alla luce di ciò per Bobbio non solo vi era da rimarcare che i 2 termini in questione, giusnaturalismo
e positivismo giuridico, fossero concetti ambigui, ma occorreva valutare che la presunta polarizzazione in
cui erano state costrette le 2 teorie non funzionassero, soprattutto nel caso di Hobbes.

Tesi di Bobbio: proprio nella riflessione sulla natura umana tipica del pensiero del diritto naturale della
modernità, in Hobbes è presente il metodo ma non l'ideologia del giusnaturalismo: era quella di Hobbes
una dottrina che apre la strada al positivismo giuridico, capace di tradurre i canoni tipici del diritto naturale
in gigantesca macchina dell'obbedienza.

Questa lettura di Bobbio è tesa a riconoscere in Locke, e non in Hobbes, l'autentica affermazione del
giusnaturalismo moderno. Considerando il giusnaturalismo come un'ideologia dei diritti intesi quali limite al
potere statuale, il discorso sulla natura umana affermato da Locke perfeziona, nell'interpretazione di
Bobbio, il tratto che ne avrebbe caratterizzato il corso. Le inclinazioni naturali istituiscono le prerogative
giuridiche e grazie a esse costituiscono il soggetto nella sfera politica e pubblica, per l'uguale possesso di
posizioni innate e universali alla condizione umana.
Gli individui e le naturali attitudini che reclamano di essere affermate come diritti sul piano della sfera
pubblica sono entità e pretese entrambe ANTERIORI al potere stesso e allo stesso ordinamento giuridico.
A questa pretesa (che corrisponde a un modo tipico con cui il discorso sul diritto naturale moderno
costruisce il rapporto tra identità umana e ordine politico e giuridico) si riallacceranno tutte quelle teorie che
proclamandosi apertamente giusnaturalistiche ambiranno a consolidare sulla natura il fondamento di
universalità dell'identità umana.
A una tale direttrice la teoria hobbesiana si sottrae, anticipando un altro discorso della modernità giuridica
sull'identità umana. Se quella di Hobbes, come dice Bobbio, si mostra essere la prima teoria moderna dello
Stato, ciò si deve in ragione della specifica concezione dell'identità che si ritrova nella sua dottrina. E' una

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

tesi evidente nel Leviatano: dove Hobbes separa il concetto di essere umano da quello di persona.
Prosopon: travestimento, maschera. "Una persona è colui le cui parole o azioni sono considerate o come
sue proprie, o come rappresentanti - sia veramente sia mediante finzione le parole o zioni vuoi di un altro,
vuoi di qualunque altra cosa cui vengono attribuite".
Il problema dell'identità personale torna in Locke, connotato da una rilevanza giuridica. La concezione
hobbesiana di persona come maschera e rappresentazione diviene in Locke qualcosa di diverso: la
persona è il termine, il nome pubblico del sè.

L'identità umana assume senso in Locke nella riferibilità all'individuo di ciò che gli è proprio. Essa riguarda
un giudizio di corrispondenza e non di identità, il quale si affida alla percezione che si ha di sè. E' la
coscienza a mantenere nel tempo la persona unita nel proprio sè poiché essa unisce nella stessa persona
azione tra loro lontane. Non avendo più alcuna consistenza ontologica che la leghi alla natura, l'identità
personale si definisce come la condizione alla quale è possibile affidare un'esigenza di mantenimento di sè
nel tempo, "la sostanza di cui l'io personale consisteva in un certo tempo, in un altro tempo può venire
modificata, senza che cambi l'identità personale" perché " non vi sarà questione circa l'identità della
persona anche lì dove siano stati tagliati da essa quegli arti che fino a un attimo addietro ne facevano
parte". (Saggio sull'intelligenza umana). L'identità della persona per Locke non consiste né nell'identità
della sostanza, né in quella del corpo, ma in quella della coscienza, che è capace di proiettarsi
retroattivamente nel passato come memoria, e di tendere al futuro come cura. L'uomo, come natura, e la
persona, come identità, ne vengono intesi come termini distinti: l'essere umano è sempre lo stesso,
immutabile, l'altra, la persona, è coscienza e consapevolezza di sè sul piano della propria estrinsecazione
pubblica.

2. Le concezioni giuridiche dell'identità e il principio pluralistico, la questione identitaria nel


dibattito contemporaneo:

Problema: ambiguità del concetto di identità, che stabilizza diversi significati impedendo una definizione
valida in assoluto. Anche se considerata all'interno del perimetro del giuridico, il linguaggio del diritto non
restituisce di essa un'univoca determinazione. Il significato giuridico di identità insiste su almeno 2
dimensioni: quella del corpo politico (l'identità della Nazione); e quella specifica della condizione soggettiva
e delle sue prerogative (identità del soggetto individuale o di gruppo).
Sebbene nel senso comune oggi prevale l'intendere l'identità come condizione soggettiva o di gruppi e per
questo la pratica delle rivendicazioni identitarie, sia l'una che le altre non escludono ma implicano la
declinazione simbolica e più propriamente politica del suo concetto. Le rivendicazioni basate su qualche
concezione dell'identità infatti fanno leva su di una fisionomia identitaria di tipo politico, che si riconosce
nella vocazione pluralistica degli ordinamenti contemporanei. Il pluralismo si delinea come un connotato
indiscusso in cui si identificano gli ordinamenti del secondo dopoguerra. Esso si dà come dato: il pluralismo
è un aspetto descrittivo recepito dalle costituzioni (pluralismo di valori, articolazione plurale delle comunità
politiche); e si dà come idea: esso è un valore da tutelarsi, un principio di carattere normativo a cui tendere.
In questi 2 volti si manifesta il carattere della vocazione pluralistica dei sistemi giuridici e politici
contemporanei. Essi non solo assumono il pluralismo delle identità come principio fondamentale, ma sono
anche strutturati per resistere e assorbire i conflitti e le trasformazioni che le rivendicazioni identitarie fanno
valere, incanalandoli nelle forme e nelle garanzie previste dai modelli liberal- democratici degli stati di diritto
contemporanei. Nel costituzionalismo si istituisce dunque una connessione tra il pluralismo, come elemento
che conferisce identità al corpo politico, e le pretese identitarie delle persone.
Le rivendicazioni identitarie, pur promuovendo l'affermazione di differenze, sono da ricomprendere nei
regimi tipici delle pretese di uguaglianza, ciò si rivolge a considerare l'adeguatezza del principio di
uguaglianza a garantire le differenze di cui le identità sono portatrici. Le identità offrono un'articolazione
decisiva dello specifico significato giuridico dell'uguaglianza: rinfrangendosi nello spettro delle
rivendicazioni identitarie, questi temi richiamano dell'uguaglianza tanto la dimensione della garanzia
formale al pari trattamento dinanzi alla legge, quanto quella che implica l'assunzione delle condizioni di
differenza in cui si esplica la concerta vita materiale della persona. Le pretese dei paradigmi identitari sono
da considerarsi nell'alveo del principio giuridico dell'uguaglianza.
Il pluralismo normativo rappresenta un modello che si indaga i rapporto tra complessi di norme, giuridiche e
non, concorrenti a costituire le ragioni per agire dell'individuo. In questa cornice le plurali dimensioni
dell'appartenenza in cui l'individuo si riconosce, producono differenti regimi normativi che concorrono a
definire ordini di prescrittività non necessariamente armonici e talvolta in conflitto reciproco. Ciò interviene a
costruire una definizione dell'identità che si lega all'appartenenza a categorie (genere razza cultura
religione) portatrici di specificità e differenze.
3. OLTRE L’IDENTITÀ: Prospettive critiche sull’identità umana e teoria del diritto

Il processo che ha trasformato il discorso politico e giuridico sull'identità umana riguarda il fenomeno di

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

frammentazione che ha colto la definizione del sul concetto. Tema della soggettività: oggetto di una critica
che si concentra sulla mera illusorietà dei suoi attributi di universalità e uguaglianza. Si tratta di una cornice
generale in cui assumono rilievo 2 temi: il discorso sul rapporto tra diritto e la cultura & la riflessione sulle
soggettivazioni di genere: entrambi riguardano la critica al soggetto giuridico e politico della modernità, e la
decostruzione antropologica e filosofica, del concetto stesso di identità umana.

La riflessione sul pluralismo normativo e il tema delle identità di genere sono i principali contesti teorici in
cui si coltiva una tensione a oltrepassare il concetto di identità: a cui si rivolgono obiezioni di cui la
principale verte su impossibilità di affermare una qualche concezione dell'identità che non sia innervata da
una tensione a rappresentare la condizione umana nel segno di una universalità artificiale più ancora che
reale e come tale asservita a esigenze di omologazione.


3.1. Le identità culturali:



Diffusa tendenza degli studi contemporanei a far confluire un presupposto descrittivo, riguardante il
carattere pluralistico delle società contemporanee, su di una concezione normativa, che assorbe le identità
nei termini di differenze culturali. In questa accezione differenzialista della cultura ha trovato modo di
esprimersi una specifica funzione argomentativa svolta dal fattore culturale, come ragione capace di
motivare l'azione individuale e idoneo a concorrere in potenziale condizione di conflitto con la norma
giuridica.

Nel contesto del pluralismo normativo, quello tra norma giuridica e norma culturale pone un'ipotesi di
conflitto tra sfere prescrittive particolarmente insidiosa. Si tratta di una impostazione che non può ridursi al
conflitto tra sfere prescrittive dell'agire umano, che ebbe la sua declinazione classica nel rapporto tra diritto
e morale. Questa specificità la si deve all'elemento valutativo che si accetta di accogliere quando si
definisce l'azione dell'individuo motivata da un'appartenenza culturale nei termini di una differenza.
Contrapposizione tra sistema culturale maggioritario e dominante al quale la norma giuridica partecipa, e i
sistemi culturali altri, che al primo sono estranei, che al diritto sono esteriori, e del diritto sono
potenzialmente antagonisti. I termini che cosi ne vengono polarizzati: identità/differenza, maggioranza/
minoranza, io/altro: sono il prodotto di una interpretazione ideologica del multiculturalismo, che è il fattore
identitario delle culture.
Nello scenario tutt'altro che neutrale del multiculturalismo prevale l'idea della cultura come differenza che
dà ragioni al soggetto per agire in contrasto o in concorrenza con la capacità motivante del diritto, ovvero
con la capacità della norma di costituirsi come ragione per agire. E così la dimensione dell'appartenenza
identitaria finisce con l'essere rilevante come unico fattore capace di dar fondamento alle ragioni dell'azione
soggettiva, in una sorta di retaggio deterministico che avvince solo chi appartiene alle minoranze.
L'insidiosa rappresentazione di una logica di normalizzazione della differenza è in agguato: essa risolvendo
quest'ultima nell'appartenenza identitaria a gruppi etnici o comunità religiose, rischia di lasciar entrare di
nuovo nel discorso giuridico categorie che già in passato tentarono di spiegare e chiudere la differenza in
un destino deterministico. E la cultura rischia di essere questa categoria che declinandosi in un sistema di
valori e pratiche sopravvive solo nei sistemi altri, i quali resistono all'ordine della razionalizzazione formale
garantita dal diritto, esplicando una forza normativa per il comportamento individuale. In questo scenario è
apparso cruciale la necessità di sollecitare soprattutto nelle fasi di giudizio adeguate consapevolezze di
ordine antropologico. Nella sfida ad aprire gli orizzonti della conoscenza giuridica all'antropologia occorre
tenere in considerazione il radicale ripensamento che riguarda il concetto di cultura. La cultura è un
concetto di cui l'antropologo osserva i limiti: essa appare aver smarrito la sua funzione interpretativa.
All'antropologia contemporanea appare come una barriera eretta a ostacolare la comprensione dell'umano.

3.2. IDENTITÀ DI GENERE E PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA :


La critica all'identità del pensiero femminista. 1. Necessità di declinare oltre la biologia del corpo l'identità;
2. Passaggio dalle identità sessuali alle identità di genere: con ciò si pone in crisi il principio
dell'uguaglianza come dispositivo di normalizzazione e occultamento della differenza. Io tema dell'identità
di genere è andato a trascendere l'orizzonte proprio del femminismo, da esso si è aperto un orizzonte
critico che percorre tutti i temi che le pluralità identitarie basate sul genere pongono alla teoria del diritto:
dalla libertà procreativa, alla ridefinizione del modello di famiglia e matrimonio, al riconoscimento di diritti
civili e sociali connessi. N. B.: riflessione sul carattere ambiguo delle forme di legittimazione, che
istituirebbero una polarizzazione tra ciò che è legittimo e ciò che è illegittimo rivolta a governare, secondo
una concezione di ciò che è normale, l'esistenza individuale. I processi di soggettivazione di genere, come
quelli di soggettivazione femminile, non cesserebbero di porre la medesima domanda che questi avevano
avanzato: è possibile pensare a forme di riconoscimento delle differenze che on ricadano nel doppio
binario legittimo/illegittimo con cui le classi dominanti predeterminano ciò che è desiderabile o meno? Dopo
la domanda di inclusione e di accesso all'uguaglianza giuridica, a partire dagli anni 70 il femminismo si è

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

concentrato sul concetto di genere: nella necessità di emancipare dal biologico la condizione femminile.
L'obiettivo critico di quel femminismo differenzialista era un'interpretazione dell'uguaglianza come
dispositivo di neutralizzazione e assimilazione della differenza e questa concezione dell'eguaglianza non
corrisponde affatto al suo principio giuridico.

4. OLTRE L’IDENTITÀ:

In uno scenario di frammentazione identitaria, in cui cioè la pluralità delle identità prevale su una
concezione unitaria e universale dell'identità, il discorso gius filosofico ha mostrato una particolare
attenzione nei riguardi del concetto della vulnerabilità, intesa come condizione che riguarda l'esistenza
materiale di ciascun essere umano. Si tratta di un tema che interpreta in chiave giuridica una tendenza a
definire, attraverso la vulnerabilità, un nuovo approccio all'identità soggettiva, v. Butler. In queste tesi
ritornano le obiezioni sull'identità umana: la pretesa universalità che è derivata all'identità dalla congiuntura
con il soggetto politico giuridico della modernità + l'accezione deterministica implicata, il suo essere
declinazione di categorie statiche come nel caso di sesso/genere e cultura. In questa cornice la
vulnerabilità esprime la funzione rivolta a pensare ancora all'identità muovendo da una comune condizione
umana. V. Hart: la vulnerabilità rinvia a un contenuto minimo del diritto senza il quale gli uomini così come
sono non avrebbero motivo per obbedire volontariamente a nessuna norma.

4.1. LA VULNERABILITÀ:

Diversamente dalla riflessione gius filosofica che della vulnerabilità accentua il carattere di condizione
materiale che fa universale l'esistenza umana, il linguaggio giuridico accoglie la rilevanza della categoria
intendendola come idonea a denotare talune posizioni giuridiche di individualità o gruppi. In questa cornice
la rilevanza giuridica della vulnerabilità soggettiva è una condizione che si riferisce a classi o categorie di
soggetti, titolari (non n quanto persona ma in quanto appartenenti a alcune categorie come genere etnia
etc) di una strutturale esposizione ad essere discriminati. Tuttavia anche qui vi è una prospettiva normativa
contestabile: la costruzione di una tale qualificazione consente obiezioni poiché il riferimento alla
vulnerabilità rinnova un argomento che fa leva sulla circostanza di appartenere a una categoria statica,
riferita a classi soggettive assunte vulnerabili per definizione. Per effetto della qualificazione, la definizione
di classi di soggettività vulnerabili finisce per il fissare normativamente l'esistenza dei soggetti che tipizza al
punto che il soggetto vulnerabile diventa strutturalmente portatore di una condizione permanente, come se
si trattasse di un dato ontologico e identitario.

La vulnerabilità umana apparterrebbe solo a queste classi di soggettività (il minore, migrante, donna vittima
di violenza) definendo chi è vulnerabile e chi non lo è. Piuttosto che attributo di gruppi o categorie
predefinite Fineman alla vulnerabilità riconosce la capacità di evocare una condizione condivisa: essa mai
è esclusivamente soggettiva, ma si qualifica a muovere dalla dimensione istituzionale coinvolta nei
meccanismi di esclusione.

Tuttavia teorizzare una condizione di vulnerabilità della condizione umana significa accettare la sfida di una
nuova forma di soggettivazione, capace di fissare un aspetto universale permanente e inerente alla
condizione umana. Radicata nel discorso giuridico, con la vulnerabilità si prende atto che il soggetto
vulnerabile sia la persona e per essa si dia una vulnerabilità situata, la quale iscrive nel corpo e nelle
esigenze della vita materiale il proprio elemento distintivo, in un accento che si sposta dalla metafora del
corpo politico, alla politica dei corpi, della relazione tra corpi e potere. (Casalini, il peso del corpo e la
bilancia della giustizia).

In un discorso che va oltre l'identità, la vulnerabilità umana sembra così porre al centro la questione
sempre aperta della matrice moderna del legame tra identità umana e diritti, quel del diritto ad avere diritti
di cui scrive Arendt.

Consolidatasi nel segno del paradigma giuridico dell'universalità e dell'uguaglianza, la storia concettuale
dell'identità umana nell'età moderna è stata oggetto di diverse ricostruzioni: se nella tradizione positivistica
l'identità è prodotta da regole giuridiche e non può che darsi nel loro contesto, in un complesso di teorie
che mantengono un più o meno esplicito legame con una qualche concezione di natura, essa non cessa di
saldarsi a condizioni innate e universali, che instaurano dinamiche di conflitto tra identità le quali per
esistere rivendicano di far ingresso nella sfera pubblica, nel nome del principio di uguaglianza. La
concezione contemporanea dell'identità e percorsa da criticità: fragilità di un regime di appartenenza
politica segnato da trasformazioni del dispositivo di cittadinanza, contesto pluralistico che caratterizza gli
stati costituzionali del dopoguerra. Problemi che ricadono sulla crisi di cui l'identità è stata fatta oggetto.
Pluralismo e personalismo come principi ispiratori delle costituzioni del secondo Novecento siglano il
passaggio dal soggetto alla persona. (Rodotà, dal soggetto alla persona).
Vulnerabilità come condizione umana, e dunque uguale e universale presupposto dell'identità umana.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 14: SPAZIO, la questione del territorio statale


1. INTRODUZIONE
Quale relazione ha il diritto con lo spazio fisico?
Diritto= dimensione concettuale immateriale. Principi. E regole nelle carte costituzionali e codici.
Spazio fisico= dimensione naturale empirica. Fenomeni concreti che si percepiscono con i sensi.
NATALINO IRTI: ha definito geo-diritto. Questione del rapporto tra Stato e territorio, ovvero tra le istituzioni
politiche e lo spazio in cui si radicano, assume una rilevanza prioritaria.

2. IL TERRITORIO DELLA FILOSOFIA IDEALISTA


—Il processo di unificazione del Reich del 1867 aveva imposto una riflessione sul concetto di territorio.
•Friedrich Savigny (stoicismo)= per lui, l’ordinamento si fondava sulla sedimentazione degli usi e dei
costumi,
l’individuo è descritto come un soggetto storicamente radicato nel Volk=popolo, la cui sfera soggettiva è
definita dei concreti vincoli di appartenenza che lo legano alla comunità E allo Stato.
L’unità della comunità era prima di tutto unità geografica. Il termine volk, popolo, alludeva alla totalità dei
soggetti stabilmente stanziatisi in un ambito spaziale definito: il radicamento territoriale era infatti la
garanzia dell’appartenenza del soggetto allo Stato, ciò che determinava la sua soggezione all’ordinamento
giuridico.
—Nella cultura giuridica tedesca altri sono stati i riferimenti decisivi: Fichte e Hegel hanno posto la
questione della spazialità dello Stato.
• FICHTE: riflessione sull’ Identità del popolo germanico che, proprio in virtù del suo specifico radicamento
spaziale, aveva saputo mantenere il carattere di urvolk=popolo originario, conservando una coesione. A
questo, un ruolo decisivo fu quello dello stato commerciale chiuso, che fu capace di sviluppare una forza
esclusiva e respingente intensa.
Ogni uomo e cittadino di uno Stato, o non è tale, così ogni prodotto di un’attività umana appartiene alla
sfera commerciale di esso o no, e non è ammissibile alcuna ulteriore possibilità. —>Questo presuppone
l’esistenza di un territorio che consenta il radicamento non solo del diritto della politica, ma anche
dell’economia. Infatti, chiusura del territorio e chiusura del commercio si condizionano e assorbono a
vicenda.
Ma qual è l’ampiezza di uno Stato commerciale chiuso? Si innesta il Problema della frontiera naturale.
Nella prospettiva Fichtiana il principio della frontiera naturale rappresenta equilibrio. Infatti la guerra e il
conflitto sono fasi che vengono superate quando lo
Stato raggiunge la propria frontiera naturale, ovvero il proprio punto di equilibrio sul piano territoriale: “dopo
non altro da richiedere a nessun altro Stato, perché possiede ciò che cercava. Inoltre, nessuna nulla da
pretendere da esso, poiché non è uscito dei suoi confini e non è entrato in quello di altri. “.
• HEGEL: “lo Stato è volontà divina, in quanto attuale spirito esplicantesi a forma reale e ad organizzazione
di un mondo”. “L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si
realizza come volontà”.
Lo Stato per Hegel È il compimento della eticità, ovvero
Incarna la morale sociale ed il bene comune: è sostanza etica consapevole di sé. Rifiuta ogni concezione
contrattualistica,, promuovendo una concezione organistica per cui lo Stato si pone prima e al di sopra
degli individui. “Lo Stato è un tutto
superiore anteriore alle sue parti, in una somma di parti indipendenti tra loro”.
“Il popolo in quanto Stato è lo spirito della sua razionalità sostanziale e nella sua immediata realtà e, quindi,
è il potere assoluto sul territorio”. Lo spirito, incarnato nello Stato, si manifesta attraverso l’esercizio della
sovranità su di uno spazio fisico.
Gli Stati sono totalità particolari in sé autonome ed esclusive ma le loro relazioni non sono
necessariamente improntate alla guerra, anzi, le nazioni europee formano una famiglia. Allo stesso
tempo, però, la guerra è qualcosa che appartiene alla fisiologia dei rapporti interstatali e rappresenta il
modo ordinario attraverso cui gli Stati, di fronte all’impossibilità di un accordo, risolvono le proprie
controversie. La dimensione bellica rappresenta un momento di straordinaria vitalità, in cui lo Stato ha
modo di temprare la propria coesione, reprimendo ogni manifestazione di individualismo disgregatore. La
guerra potrebbe pregiudicare l’esistenza stessa dello Stato nel momento in cui mina la sua consistenza
territoriale. Quando viene in pericolo lo Stato, il dovere chiama tutti cittadini dello Stato alla sua difesa ma la
forza interna che viene trascinata all’esterno trasforma la guerra di difesa in guerra di conquista.
—Lo Stato è l’esito di un processo storico ma non scontato durante il quale si manifesta il potente
condizionamento della geografia del clima. La natura plasma il carattere di un popolo. Allo stesso tempo,
l’uomo ha la capacità e la possibilità di sfuggire ai vincoli posti dalla natura, fino a poi dominarla. Ma alcuni
elementi della natura sono troppo forti ed è naturale che vincolino e comandino l’uomo e la creazione dello

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Stato. Hegel considera una necessità storica il fatto che le nazioni civilizzate considerino e trattino altre,
come barbari, con la coscienza di un diritto diseguale.
—Prospettiva giuridica: relazione stato-territorio
Popolo: non è uno stato a prescindere, lo stato è l’esito di un processo storico in cui ha forte influenza la
parte geografica e climatica di un territorio. Per Hegel tra spirito e natura vi è una dialettica particolare che
finisce per plasmare il carattere di un popolo e le sue istituzioni, allo stesso tempo però l’uomo ha la
capacità e la possibilità di dominare la natura arrivando a una propria liberazione in cui la natura da
padrona diventa serva —>tale processo di dominio non si è potuto però realizzare ovunque nel globo: gli
estremi non sono favorevoli allo sviluppo spirituale, la natura lì primeggia sull’uomo. È in Europa secondo
Hegel che l’uomo ha saputo meglio adattarsi e oggettivarsi in virtù delle caratteristiche geografiche —
>questo primato storico ha fatto in modo che le nazioni civilizzate potessero trattare come barbare quelle
che stanno loro dietro nei momenti sostanziali dello stato.

3. IL TERRITORIO STATO-PERSONA
3.1.
—Savigny: il popolo storicamente e territorialmente determinato costituisce la matrice dell’ordine giuridico e
politico.
—Gerber: (Statocentrismo)
il popolo è ridotto a dato naturalistico e tutto sommato contingente: solo nel momento in cui è incluso nello
Stato giunge ad essere riconosciuto e a valere giuridicamente come un’unità etica totale.
Lo Stato è custode e rivelatore di tutte le forze del popolo che sono tese al compimento etico della vita
collettiva. Lo Stato è la suprema personalità di diritto che l’ordinamento giuridico conosco.
L’individuo, con il suo catalogo di diritti di libertà che la
tradizione giusnaturalistica e liberale aveva posto a fondamento dell’ordine politico, in sé risulta irrilevante:
non è infatti ammissibile alcun limite al potere sovrano dello Stato. La sfera soggettiva è semplicemente il
prodotto dell’autolimitazione dello Stato-persona, i diritti individuali non sono altro che i riflessi di un ordine
normativo imperniato sulla volontà statuale.
Lo Stato-persona Gerberiano trasforma la metafora Hobbesiana del leviatano in un soggetto giuridico
originario e metastorico, fondante e non fondato, separate e superiore alla politica.

3.2. Per Gerber solo lo Stato può esercitare un dominio assoluto sullo spazio territoriale e può pretenderne
il riconoscimento come sfera territoriale di potere.
È lo Stato persona, attraverso una specifica manifestazione di volontà, a proiettare su di una porzione di
spazio fisico il proprio potere sovrano ed è sempre il soggetto medesimo a rivendicare nei
confronti degli altri Stati la Signoria esclusiva. È proprio nell’ambito del suo territorio che lo Stato trova la
sua qualificazione corporea ed in esso viene realmente individualizzato.
Il territorio, assieme al popolo, è al tempo stesso il fondamento naturale dello Stato e ciò che lo qualifica
come tale, che ne contrassegna la individualità —>non è pensabile uno stato disgiunto dal suo territorio —
> principio primo: indivisibilità del territorio

3.3. Costituzione Reich: art.1 = elencava i territori —> qualificazione tra reich e territori
Stato = fenomeno sociale, esito di un lungo percorso che il diritto ha avuto il compito d disciplinare.
JELLINEK: lo Stato persona è un’unità essenzialmente teleologica. L’ordine politico nasce da una pluralità
di soggetti che si trovano nella necessità di perseguire finalità comuni. Allo stato nessuno può sottrarsi.
Il potere che esercita lo Stato assume la forma di un rapporto di dominazione sovraordinato ad ogni altro, è
originario, non deriva da altri che da sé —>Uno Stato può storicamente essere formato da un altro ma
giuridicamente esso ha il suo potere sempre e soltanto da se stesso.
Nella prospettiva jellinekiana lo Stato si configura come un’unità di associazione di uomini con sede fissa,
dotata di un potere di dominazione originario. (A partire da Jellinek si può attribuire al fattore spaziale una
funzione più ampia e pervasiva).

4. SANTI ROMANO E CARL SHMITT: nuove prospettive sullo spazio territoriale


4.1. - 4.2. - 4.3. - 4.4

4.1. ROMANO: per romano era necessario prendere atto che la società aveva raggiunto un grado di
complessità inusitato, tale da rendere obsoleto ogni ipotesi Statocentrica. Emerge l’istituzionalismo:
—Emersione di un io collettivo del cittadino che il potere Borghese aveva da sempre ignorato e
riconosciuto in esso la minaccia più pericolosa.
—Lo Stato non è nulla di astratto, è un’entità reale, concreta, che ettaro come elementi costitutivi un

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

popolo, un potere sovrano è un territorio.


—Il territorio è un fattore essenziale, costitutivo e implicito alla nozione stessa di Stato, laddove senza il
territorio quest’ultimo non esiste.
Romano dice che è stato ordinamento giuridico statuale sono la medesima cosa poiché è l’ordinamento
giuridico nel suo complesso che determina la struttura statale ed assegna alle sue
singole parti la condizione dei suoi elementi. E se il territorio è un elemento dello Stato, non può che avere
una natura intrinsecamente giuridica.
Stato e territorio sono in rapporto di identità: il territorio per lo stato ha valore positivo e negativo: rende
reale lo stato ma allo stesso tempo lo limita.
Inoltre, romani identifica un diritto che discende direttamente dalla sovranità statale, senza per questo
confondersi con essa: i diritti sulla propria persona non sono altro che delle speciali estrinsecazioni delle
attrazioni della personalità statale. Il diritto il territorio si configura come diritto sulla persona.

• CARL SCHMITT: per Schmitt, come già per Romano, occorre abbandonare l’idea che l’ordinamento sia
soltanto una somma di norme: la norma o regola non crea l’ordinamento, essa, piuttosto, sulla base dentro
il quadro di un ordinamento dato, una certa funzione regolativa con una misura relativamente contenuta di
validità in sé autonomo. Ma l’ordinamento un preciso fondamento essendo il frutto di una decisione su e
per uno spazio tellurico.
—>All’inizio della storia dell’insediamento di ogni popolo, di ogni comunità e di ogni impero sta sempre in
una qualche forma il processo costitutivo di un’occupazione di terra. La presa di terra è condizione di
pensabilità dell’ordinamento al tempo stesso suo fondamento storico. Lo spazio tellurico consente lo
sviluppo del diritto privato del diritto pubblico ma verso l’esterno permette il diritto internazionale. Si pone il
problema degli spazi altri e del loro ruolo soprattutto dello spazio marittimo—> a partire dalla modernità:
rivoluzione spaziale. Il nomos della modernità nasce
dall’antagonismo tra terra e mare.

5. HANS KELSEN: LA NEGAZIONE DELLO SPAZIO


5.1. - 5.2.
Per KELSEN, le affermazioni di Schmitt sono erronee.
—negazione del riferimento allo spazio geografico: secondo Kelsen, piuttosto che alla dimensione tellurica,
l’ordinamento giuridico fa riferimento alla Grundnorm, alla norma fondamentale, che in quanto tale è il frutto
di una preso posizione logica. Lo Stato in quanto ordinamento sociale munito di forza coattiva, dunque,
coincide necessariamente con l’ordinamento giuridico, tanto che non è possibile alcuna manifestazione
della volontà statale che non si manifesti come norma giuridica. L’ordinamento giuridico non esiste alcun
radicamento territoriale e lo Stato non è altro che la ipostatizzazione dell’ordinamento stesso.
Lo spazio territoriale è inteso come realtà geografica non ha valore, il territorio non è altro che un elemento
del contenuto normativo dell’ordinamento statale, infatti, la norma è valida in quel tempo e anche in quel
luogo.
—Nella prospettiva normativista di Kelsen , Il territorio statale e privato della sua materialità, della sua
concretezza, fino a divenire una mera convenzione linguistica che qualifica la proiezione esteriore del
diritto: ne consegue che ogni ripartizione spaziale non è più un dato a priori ma è notevole ed elastica,
potendo essere adattata plasticamente i contesti più differenzi, Il territorio statale e privato della sua
materialità, della sua concretezza, fino a divenire una mera convenzione linguistica che qualifica la
proiezione esteriore del diritto: ne consegue che ogni ripartizione spaziale non è più un dato a priori ma è
mutevole ed elastica, potendo essere adattata
plasticamente i contesti più differenziati.

6. CONCLUSIONI
Con Kelsen prevale il diritto internazionale come ordinamento originario.
Nella prospettiva Kelseniana, L’ordinamento internazionale assume una natura autenticamente cosmo
politica, finendo per divenire occasione di palingenesi per l’umanità stessa, una volta rimossa la sovranità
statale.
Kelsen: pacifismo che costituisce l’immagine rovesciata dell’imperialismo
Il territorio da dimensione fondativa dell’esperienza giuridica diventa un costrutto artificiale, finisce per
smarrire la propria concretezza, fino ad essere assorbito nell’orizzonte della validità della norma.
I possibili sviluppi? Un sempre maggior avvicinamento all’ipotesi giuridica del diritto internazionale.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 15 : SCIENZA, ambivalenze, insidie, prospettive .


1. SCIENZA POTERE E IMMORTALITÀ
‘900: secolo del rischio —>ha generato stupefacenti progressi
—Anni Trenta: Huizinga: la scienza sembra essersi avvicinata al limite della nostra capacità pensante
-> il progresso è cosa delicata e concetto ambiguo

—Progresso scientifico e potere —>hanno portato l’essere umano sul territorio del dominio: dominio
e aspirazione alla sconfinata dominazione appartengono alla natura della scienza moderna.
—Hannah Arendt: le conquiste dell’uomo sul terreno scientifico rappresentano davvero un segno o una
prova della sua grandezza?

—Progresso = ha prodotto incertezze fabbricate, responsabili di uno schiudersi di un oceano di non


sapere al quale si accompagna un’incertezza derivante dalle decisioni della civilizzazione.
Società del rischio —>diventa una società espansiva sotto il profilo del potere e dell’assunzione di
responsabilità
Civiltà = irrazionalità razionalizzata

—Foucault —>intravede l’affermarsi progressivo di un processo che tende al controllo ma produce


incertezza.
—Castoriadis —>usa un’espressione comprensiva per indicare il carattere contradditorio del progresso
tecnologico —>impossibile tecnocrazia: una forma del potere impossibile perché destinata a auto negarsi,
il dominio della tecnica dell’uomo è l’altra faccia della sua dominazione.

—Tecnica e potere si toccano —>bomba atomica —> rischio che l’umanità non potesse continuare ad
esserci—>conduce a una reazione —>al bisogno di un’assunzione di responsabilità pertinente e
adeguata.

—Responsabilità = lato complementare del potere —> entra in gioco l’importanza della norma che riesca a
stabilire argini a un fiume promettente che può presentarsi come minaccioso.

2. DIRITTO COME LIMITE ALL’INTRECCIO DI SCIENZA E POTERE. IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE


—Legittimità delle applicazioni biotecniche o di ricerche innovative = problema della liberta della
conoscenza —>è dovere di tutti i ricercatori proteggere nella ricerca medica l vita, la salute, la privacy e la
dignità del soggetto umano.
—Hans Jonas: secondo lui andrebbe riconsiderata la comprensione della scienza che nutre una malriposta
sicurezza nel proprio presunto essere libera, in una duplice accezione:
•Libera dai valori morali, da ogni dovere di rispetto nei confronti dei valori.
•Libera nelle sue ricerche e nelle sue applicazioni tecniche.

Tale riduzionismo metodologico sarebbe neutrale rispetto ai valori del dover essere.
Secondo Jonas infatti a dover essere riconsiderato è il dogma della natura neutrale di fronte ai valori e la
frattura tra essere e dover-essere che ne deriva: la libertà della ricerca non può essere libera
incondizionata.
La libertà concessa al pensiero non si estende all’azione, ogni azione sottostà a limitazioni giuridiche e
morali.

—>il riconoscimento del principio di responsabilità diventa fondamentale come guida per un agire
improntato alla prudenza —>PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: uno dei principi peculiari della
discussione bioetica e biogiuridica —>l’approdo decisivo diventa dunque la produzione di norme
giuridiche nazionali, prescrizioni internazionali e protocolli internazionali.

—Summit per la terra di Rio 1992: convenzione sulla diversità biologica, art.15: chi intende svolgere una
certa attività rischiosa ha l’onere di dimostrare che quell’attività non crea una minaccia di un danno grave e
irreversibile per l’ambiente e l’habitat umano, nonché l’onere di adottare le misure idonee a fugare i rischi
potenziali collegati o conseguenti all’attività collegata.
—200: Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, art 1 —>principio di precauzione
—Si chiede al diritto di farsi carico delle esigenze della tutela dell’umanità, per i suoi membri e per il suo
futuro a fronte del progresso scientifico e tecnologico.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

—Idea centrale = distinguere tra libertà e anomia, coniugare libertà e norme per arrivare a un’autonomia di
una scienza e di una ricerca regolate dalla comunità in cui si sviluppano e alla quale dirigono i propri
risultati.
—Porre limiti alla scienza = NO porre limiti al sapere ma trasformare la licenza in libertà: la sfera dell’agire
necessita di regole che limitando le azioni umane possano assicurare all’uomo la libertà, possano
controllare e contenere il nesso tra scienza e potere.

3. NORME AI CONFINI DELLA SCIENZA. Questioni di bioetica


—Valore della libertà della scienza deve entrare in un processo di ponderazione con gli altri valori morali
coinvolti nell’azione —> tale esigenza con la fine della Seconda guerra mondiale assume declinazione
specifiche in parallelo alle scoperte scientifiche.
—Anni ’60-’70 =bioetica: concentrerà la riflessione multidisciplinare su queste nuove questioni al fine di
orientare il legislatore e il giudice nel dirimere questioni urgenti di etica applicate alla vita, umana, animale e
dell’aMbiente.

3.1. DAL PRIMO TRAPIANTO DI ORGANI ALLA DEFINIZIONE DI MORTE CEREBRALE. GLI ANNI
SESSANTA
—Ruolo rivoluzionario =1967 Christian Bernard: primo trapianto di cuore.
1958: nascita delle prime unità di rianimazione con la pubblicazione del protocollo ufficiale relativo
al massaggio cardiaco esterno.
Sempre alla nascita di queste nuove circostanze compare per la prima volta la condizione di
sopravvivenza definita come coma irreversibile —> dimensione in cui i confini tra vita e morte sono difficili
da disegnare.
Ha inizio il ripensamento della definizione di morte che culmina con un nuovo criterio di accertamento di
questa: la cessazione dell’attività cerebrale.

3.2. DALLA SPERIMENTAZIONE SUGI ANIMALI ALL’ETICA AMBIENTALE. GLI ANNI SETTANTA
•Anni ’70=nuovi sviluppi scientifici e nuove ricerche mediche e biologiche —>sperimentazione sugli animali
—> risposta animalista per il conseguimento di protocolli, vincoli e codici deontologici basati anche sul
riconoscimento di un’ideale di giustizia valido anche per gli animali.
•1977: Singer =Animal Liberation = manifesto di rivoluzione culturale per gli animali, fondata su una
peculiare forma di razzismo: lo specismo cioè manifestazione della discriminazione violenta che
sancisce il primato e la dominazione della specie umana su tutte le altre.

Sempre in quest’epoca parte il dibattito sulla questione ecologica =il principio di responsabilità trova una
nuova declinazione nell’ambito delle questioni ambientali —>diventa il centro di nuove proposte etiche per
la difesa di terra e biosfera —>è necessario un nuovo radicale ripensamento del rapporto uomo-natura —
>proposte anti-antropocentriche: negano il primato della specie umana e ampliano l’attribuzione di un
valore intrinseco alla natura.

Vi è la richiesta di giustizia e equità esibita, la denuncia di forme di oppressione che passano attraverso il
dominio di un paradigma economico e giuridico-politico che non tutela i deboli, siano animali, esseri umani,
la denuncia di illegittimità di condotte di azione e di scelte politiche ed economiche distruttive per il pianeta
e per le generazioni future.

È necessario un nuovo tipo di responsabilità che significa anche consapevolezza del limite
oggettivo ed epistemologico

3.3. LA PRIMA BIMBA PROVETTA. GLI ANNI 80.


•Rivoluzione della medicina in ambito di riproduzione = nuove riflessioni etiche e giuridiche e dibattito sulla
fecondazione medicalmente assistita

3.4. DALLA MAPPATURA DEL GENOMA ALLA RICERCA SULLE CELLULE STAMINALI. DAGLI ANNI
90 A OGGI
•1990 USA, Wilkinson: mappatura del genoma umano
•Jonas =mappatura del genoma umano: rappresenta l’esempio più eclatante dell’intreccio di innovazione
scientifica e dimensione morale —> è un terreno che bisogna affidare con urgenza al diritto per
l’istituzionalizzazione di prassi e protocolli di condotta.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

•Diagnostica prenatale = tecniche di clonazione OMS: “la diagnosi prenatale è eseguita solo per dare ai
genitori informazioni sul codice genetico e ai medici informazioni sulla salute del feto. L’uso della diagnosi
prenatale per test di paternità, eccetto in caso di stupro o incesto, o per selezione legata al sesso non è
accettabile” —>lo spettro che secondo alcuni può aggirarsi tra le maglie di accesso e uso di questa tecnica
diagnostica è quello della discriminazione e della strumentalizzazione.
•1996: clonazione della pecora Dolly = parole di condanna da parte del Consiglio d’Europa nella
convenzione sui diritti umani e la biomedicina: “la strumentalizzazione degli esseri umani è contraria alla
dignità umana” è necessario “proteggere la dignità e l’identità di tutti gli esseri umani”
•La clonazione delle cellule somatiche è eticamente accettabile, che però va regolata da un protocollo di
protezione dell’embrione.
La clonazione di un essere umano per scissione embrionale o per trasferimento nucleare è proibita —>
ribadita dall’UNESCO nel ’99 definendola come pratica contraria alla dignità umana.
•Jurgen Habermas = tanto la selezione di embrioni ai fini dell’impianto quanto la modifica sul genoma
istituirebbero una forma di discriminazione ai danni dell’individuo. Alla base della sua argomentazione c’è il
principio di autonomia sulla scorta del quale tali pratiche sarebbero da ritenersi illegittime poiché il nuovo
nato sarebbe da ritenersi dipendente dalla coppia di genitori in modo irreparabile a più in genare alle cure
sanitarie. Vi è una disuguaglianza sotto il profilo dell’autonomia, cioè di chi è autonomo e di chi ha perduto
per sempre questa possibilità si riflette in società. In società i cittadini non sarebbero più tutti uguali: alcuni
di loro sarebbero diversi per la loro perdita di autonomia, discriminati per quella scelta procreativa
controllata ed eterodiretta.
•L’idea che si determini con la clonazione una modificazione moralmente rilevante del rapporto
genitori-figli e società-individuo.
“con tale tecnica si afferma una competenza decisionale assimilabile all’esempio storico della schiavitù,
che è una relazione giuridica e significa che un uomo è a disposizione di un altro come possesso.
•Per Habermas pratiche di eugenetica migliorativa non possono essere normalizzate entro una società
pluralista democratico-costituzionale che attribuisca ad ogni cittadino l’uguale diritto a un autonomo
progetto di vita, perché la selezione delle disposizioni desiderate non può essere sciolta a priori dal pre-
giudizio relativo ai progetti di una vita determinata.
•In gioco vi è il principio di responsabilità, perché è del nostro agire che siamo responsabili, sia come
genitori che come figli. La scelta della clonazione scardina il naturale equilibrio delle responsabilità
connesse, ripensa le libertà possibili tra le maglie di quella relazione e al di là di essa.
•Problema dei brevetti e della possibilità o meno di legittimare la brevettabilità di materiali genetici —> la
possibilità di vincolare la disponibilità dei dati al possesso del brevetto non è altro che un riduzionismo
economico applicato alle biotecnologie e alla genetica. Connesso a ciò vi è anche una limitazione
improvvida della ricerca, bloccata nell’accesso a un sapere sottoposto a royalties spessoinsostenibili o
discriminanti. Rimangono compromessi in generale la libertà di ricerca e quei diritti fondamentali come il
diritto alle cure e all’accesso ai farmaci.
•Clonazione umana volta alla gestazione ≠ clonazione umana finalizzata alla produzione di tessuti e organi
destinati al trapianto —>clonazione terapeutica: finalizzata alle cure di gravi patologie largamente diffuse,
spesso di carattere genetico attraverso l’impiego di tessuti e organi prodotti dalla coltivazione in laboratorio
di cellule staminali provenienti da embrioni umani destinati esclusivamente a tale scopo.

4. LA SCIENZA ALLEATA DEL DIRITTO TRA GENETICA E NEUROSCIENZE


Diritto: si giova del contributo alla scienza —> l’acquisizione della genetica può rivestire un importante ruolo
in ambito di processo penale —>prova del DNA = prezioso strumento di accertamento della verità
processuale.
“la prova scientifica non può ambire a un credito incondizionato di autoreferenziale affidabilità in
sede processuale”.
Impiego delle neuroscienze in ambito forense —>la genetica, la psicologia cognitiva e la neurologia hanno
negli ultimi 30 anni sferrato un attacco alla giurisprudenza penale basato sull’idea che il libero arbitrio e la
connessa responsabilità individuale siano invenzioni alle quali non solo non corrisponde alcuna certezza
oggettiva ma che verrebbero confutate da evidenti prove scientifiche.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 16: ECONOMIA, il codice giuridico del mondo.


0. INTRODUZIONE
—Riflessione economia- diritto: inizia ad acquisire rilievo con la nascita e lo sviluppo del sistema
capitalistico
moderno e della scienza economica.
Rapporto economia diritto ovvio, non ce sistema economico senza regole quindi senza diritto.

—ADAM SMITH: la mano invisibile e su un ordine spontaneo della società e del mercato;
—KARL MARX: rapporto economia-diritto in termini di struttura e sovrastruttura.

—Prima metà del 900, tentativi di ripensare il rapporto economica e diritto.


—BENEDETTO CROCE: ruolo cruciale sulla riflessione sia sul diritto che sull’economia (dibattito contro
PARETO, con la conclusione della frase di croce “agli economisti il calcolare , e ai filosofi il pensare”)
—>individua il carattere distintivo dell’azione economica nell’utile (rapporto strumentale tra mezzi e fini),
azione che di per se non è ne morale ne immorale ma amorale. Riduce il diritto all’economia, si sbarazza
della discussione tra diritto positivo e diritto naturale riconducendola al rapporto-distinzione tra economia e
morale —>croce fonda l’autonomia dell’economia dall’etica.

—Gran parte della discussione successiva sul rapporto tra diritto ed economia è stato un tentativo di
ripensare
e superare l’impostazione crociana.
CAPOGRASSI: ha cercato di riconfigurare tale rapporto come una relazione tra esperienza giuridica ed
esperienza economica .
CARNELUTTI: l’ha pensata nei termini di una sussunzione o una subordinazione dell’economia al diritto, il
diritto regolamenta l’economia.

—Da una prospettiva giuridica invece il rapporto tra diritto e economia è sempre stato oggetto di studio del
diritto dell’economia.
Approcci di diritto dell’economia: rimangono nell’orizzonte di un approccio regolativo dell’economia
affrontato con lenti giuridiche ≠ approcci economici al diritto: tendono a leggere il problema della
regolamentazione giuridica dell’economia e del comportamento umano con lenti economiche.
—Tale differenza è fondamentale perché Vi è un cambiamento di paradigma = non il diritto come misura
del mondo economico ma la scienza economica misura del mondo giuridico.
Gli approcci economici al diritto iniziano a diventare il nuovo codice del mondo giuridico e del mondo
economico e sociale.

—Approcci dominanti: approcci economici al diritto che hanno avuto una proliferazione di studi e
pubblicazioni. —> essi dominano l’analisi e la discussione di questioni giuridico-economiche ma hanno
anche influenzato la regolamentazione di aree sempre più estese delle relazioni umane. —>tale dominio è
stato
spesso etichetta come imperialismo della scienza economica: applicazione sistematica del metodo adottato
dalla scienza economica nello studio del comportamento umano a tutti gli ambiti in cui tale comportamento
può essere oggetto di studio e criterio esplicativo delle relazioni umane e del funzionamento della società.

1. ECONOMIC ANALYSIS OF LAW (EAL)


—È la disciplina che applica gli strumenti della microeconomia all’analisi delle regole e istituzioni giuridiche.
Nasce intorno agli anni ‘60 con i lavori di Ronald Coase e Guido Calabresi.
•Coase: nel 1991 riceve il Nobel per l’economia: molti studi ed analisi economiche del diritto erano presenti
in
quel periodo —>tra gli studiosi più attivi c’era Richard Posner, autore di EAL
In tali studi la parte più importante è attribuita agli economisti tra cui Becker (che ha esteso il metodo e
l’approccio economico al comportamento umano, applicando le ipotesi comportamentali della scienza
economica ad aspetti del comportamento umano), Douglass C. North, Oliver Williamson ed Elinor Ostrom.

•—>Tale approccio di EAL si è sviluppato negli USA e nei sistemi di common law, per poi influenzare quelli
di civil law. Ha sviluppato teorie sempre più sofisticate (teorie economiche della proprietà, dei contratti,
della responsabilità civile e penale, del processo…) —>ha conquistato ambiti che si ritenevano prima di
dominio esclusivo giuristico.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

—Tale approccio cerca di rispondere a 2 domande fondamentali:


- Quali sono gli effetti delle norme giuridiche sul comportamento degli attori sociali? = domanda di
approccio positivista. Studia gli effetti delle norme comprendendo quali sono le possibili conseguenze sugli
attori sociali di norme vigenti o norme possibili:
- Gli effetti delle norme giuridiche sono socialmente desiderabili? = tipica dell’approccio di analisi
normativa. Rivela l’intento volto a riformare o cambiare le norme/gli istituti qualora i loro effetti sociali non
siano buoni o desiderabili.

Tali domande non sembrano molto distanti da quelle studiate dai giuristi, ma il mutamento paradigmatico
imposto dall’EAL sta nel cercare di rispondere a tali domande con le lenti e il metodo dell’economia.
La Scienza economica: fornisce gli strumenti per prevedere gli effetti della sanzione giuridica sul
comportamento umano: si assume la sanzione come un prezzo e che gli individui rispondano alla sanzione
e alle norme nello stesso modo in cui rispondono alla variazione del prezzo.
—>Quindi: prezzo alto di un bene : minor consumo del bene = sanzione giuridica più pesante : riduzione
dell’attività sanzionatoria.

—Di quali effetti si occupa l’EAL? Qual è il criterio regolativo che qualifica la bontà o desiderabilità di questi
effetti? —> la risposta sta nel concetto economico di efficienza.
L’EAL concepisce il diritto e le norme come incentivi e si occupa della ricerca di norme efficienti = ha come
obiettivo la formazione di regole che garantiscano la realizzazione di transazioni in grado di massimizzare
l’efficienza o il benessere complessivo.

—Principali assunti che l’EAL mutua dalla scienza economica:


1. Gli individui rispondo a incentivi= l’agente razionale massimizza i benefici netti delle sue scelte e quindi il
suo benessere. In quest’ottica il diritto è un metodo per ordinare la società e conseguire obiettivi sociali
(creando incentivi e aiutando gli individui a raggiungerli) —> ecco perché l’economia fornisce tecniche per
esaminare gli effetti del diritto.
2. La scarsità delle risorse= se nella prospettiva economica gli individui interagiscono tra loro cooperando e
confliggendo nell’uso di risorse scarse e queste possono essere assegnate attraverso transazioni e
scambi, nella prospettiva giuridica tali transazioni sono disciplinate da regole che possono essere stabiliti
tramite contratti o dal legislatore —> per l’EAL regole = meccanismi di allocazione di risorse scarse e di
risoluzione dei confitti generati dalla scarsità.
•••Nella prospettiva dell’EAL: realizzare il massimo benessere collettivo significa incentivare i
comportamenti che equivale ad assegnare le risorse a coloro che le valutano di più o le utilizzano in
maniera efficiente.•••
3. Gli scambi sono mutamente benefici o vantaggiosi= tale postulato è connesso al teorema di Coase e al
problema dei costi di transazione.

—Concetto centrale della microeconomia: il libero scambio tende a spostare le risorse fino a che non
arrivano al loro valore di uso massimo,in tal caso l’allocazione delle risorse raggiuge l’efficienza di
Pareto.
COASE estende tale sistema allo scambio dei diritti riconosciuti ai singoli individui. Coase afferma che
l’allocazione iniziale di tali diritti non presenta alcun problema in termini di efficienza nella misura in cui è
possibile scambiarli liberamente: se la legge allocca i diritti in modo inadeguato, il problema può essere
risolto dal libero scambio di detti diritti sul mercato.

Secondo tale interpretazione per conseguire l’efficienza giuridica basta rimuovere gli ostacoli che
impediscono il libero scambio dei diritti, i quali sono spesso vaghi e indeterminati e ciò rende difficile
stabilire quale sia il loro valore.
L’efficienza giuridica deve essere assicurata definendo con maggior chiarezza la natura dei diritti attribuiti
dalla legge ai singoli e tutelando la validità dei contratti di vendita dei diritti stessi stipulati dai privati.

—Secondo gli economisti per allocare le risorse sui mercati in modo efficiente oltre alla libertà di scambio
sono necessarie altre condizioni:
1. Riguarda il concetto di costi di transazione (in senso stretto si riferiscono al tempo e agli sforzi richiesti
per portare a buon fine una transazione —>se molto elevati possono bloccare il funzionamento del mercato
che altrimenti sarebbe efficiente) (in senso ampio sono tutti gli usi delle risorse necessari per negoziare e
far valere gli accordi).

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Secondo il teorema di Coase l’allocazione iniziale dei diritti non pone problemi i termini di efficienza fin
tanto che i costi di transazione sono nulli —> il legislatore dovrebbe preoccuparsi di rendere più snelli i
meccanismi dello scambio.
—>Se in assenza di costi di transazione si raggiunge l’efficienza, ovvero un massimo di benessere
collettivo lo scopo del diritto è: evitare di creare nuovi costi di transazione, abbattere quelli esistenti, o
favorire la realizzazione delle transazioni che gli interessati avrebbero realizzato in assenza di costi di
transazione.

—CRITICHE:
lato economico:
••Secondo molti l’impianto della microeconomia neoclassica a cui la EAL delle origini faceva riferimento è
ormai superato —>la EAL però ha dimostrato una notevole capacità di adattamento, rinnovo e integrazione
di teorie e paradigmi provenienti dalla scienza economica.
••Le scoperte di psicologia e economia comportamentale hanno assertato un duro colpo al
modello di homo oeconomicus obbligando l’EAL a un ripensamento dei suoi assunti
Lato giuridico:
••Critiche riguardanti l’incapacità dell’incapacità dell’EAL di cogliere l’importanza dei diritti umani, o le
questioni di giustizia distributiva, o di fornire una teoria generale del diritto che sappia rispondere alle
domande sulla natura del diritto.
••Critiche sul tale punto di vista sul mondo che non è mai neutrale: il punto di vista di un sapere su un altro
sapere non è mai neutrale.
••Critiche sull’approccio riduzionista della EAL: 3 tipi di riduzionismo:
-Metodologico: il dominio dell’approccio economico al diritto è visto come una forma di riduzione dello
studio del diritto ai soli metodi economici —>molte critiche interne e tentativi di ristabilire equilibrio tra
economia e diritto.
-Riduzionismo antropologico: espressa nei termini di un sostanziale appiattimento della complessità del
comportamento e motivazioni degli individui alla singola metrica della massimizzazione dell’utilità,
trascurando altre dimensioni dell’agire umano
-Riduzionismo giuridico: concezione riduttiva dell’EAL delle norme giuridiche che se intese esclusivamente
come vincoli e incentivi trascurano il problema dell’obbligazione giuridica.

2. INSTITUTIONAL ECONOMICS
—In questa visione sono istituzioni non solo le organizzazioni giuridiche e politiche o le norme che
presiedono al loro funzionamento, ma anche il matrimonio, la famiglia, la borsa, la moneta, le imprese, i
partiti e i sindacati, la proprietà privata e il contratto.

—L’economia istituzionale è divisa in:


- Old Istitutional Economics (OIE)
- New Istitutional Economics (NIE)

—Per OIE si intende la corrente di pensiero americana di fine 19° secolo che si è sviluppata in
contrapposizione al formalismo deduttivo e astratto della scienza economica dominante.
Maggiori esponenti: Veblen, Mitchell, Commons.
Tale corrente ha definito in vario modo le istituzioni
Per VEBLEN le istituzioni sono le abitudini di pensiero ampiamente seguite e le pratiche che prevalgono in
un
dato periodo
Per COMMONS le istituzioni sono forme di azione collettiva che garantiscono il controllo la libertà e
l’espansione dell’azione individuale. Egli pone l’accento sulle basi sociali dell’individuo.

Il focus della ricerca dell’OIE è centrato sulla relazione tra micro e macro, tra azione individuale e livello
istituzionale. Gli istituzionalisti mirano a sviluppare un’analisi contestuale e storicamente situata di
specifiche istituzioni economiche o processi economici.
Le istituzioni quale specifico oggetto di studio dell’OIE hanno un’esistenza ontologica e una legittimità
empirica, cioè sono degne di studio tanto quanto gli individui.

Analisi sviluppate dagli autori riconducibili all’OIE riguardano Il modo in cui le istituzioni giuridiche
influenzano:
•••il sistema economico in generale.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

•••le attività/ comportamenti economici.


••• l’analisi comparata di istituzioni e regole alternative e lo studio dei loro effetti economici.

CRITICHE: l’OIE è stata spesso accusata di aver fornito solo un insieme di idee sparse più che un vero e
proprio paradigma teorico alternativo all’economia ortodossa.

—La NIE condivide con l’OIE la premessa fondamentale che le istituzioni sono un fattore determinante
della struttura e performance economica.
Ha come riferimento teorico i lavori di molti studiosi che hanno innovato la scienza economica dalla
seconda metà del 900: Coase, Williamson, Buchanan.

Dal punto di vista metodologico ha due pilastri o assunti fondamentali:


••Gli individui perseguono razionalmente il loro self-interest seppur soggetto a vincoli: l’agente razionale è
diverso dall’homo oeconomicus della scienza economica neoclassica, in quanto è soggetto sia a vincoli
interni (rappresentati riconducibili alla razionalità limitata: processo di decisione dell’individuo è determinato
da vari fattori: informazioni che possiede, limiti cognitivi della sua mente, la quantità finita di tempo di cui
dispone per prendere una decisione) che esterni (rappresentati dalla cornice istituzionale).
••L’idea della massimizzazione del benessere o ricchezza —>da qui la ricerca di strutture istituzionali che
massimizzano la capacità produttiva dei sistemi economici.
Istituzioni efficienti =quelle che abbassano i costi di transizione, danno certezze agli scambi o favoriscono
situazioni di cooperazione tra individui.

• North:
Indaga il ruolo dello stato nello sviluppo dei sistemi economici per capire perché storicamente Alcuni
sistemi sono avanzati e altri regrediti —>North ha mostrato che buona parte dell’interazione sociale che
determina la crescita di un sistema economico sia influenzata dal quadro istituzionale e dallo stato—>
attraverso la sua istituzione garantisce i diritti di proprietà, il rispetto e l’applicazione dei contratti, riducendo
i costi di transazione, facilitando gli scambi e migliorando la performance dei sistemi economici.

CRITICHE:
• HODGSON :
Riflessione su alcuni limiti della NIE e riformulazione e sviluppo di alcune delle categorie chiave dell’OIE .
Limiti della NIE = la poca chiarezza concettuale nella distinzione tra regole e vincoli, formali e informali.
Non è chiaro se per regole formali si devono intendere le regole giuridiche legali e per informali quelle
illegali.
Non è chiaro se la distinzione tra formale e informale deve intendersi in termini di regole espresse o tacite o
regole frutto della progettazione umana e regole sviluppatesi spontaneamente. Inoltre, North ha definito in
vari modi le istituzioni chiamandole regole e vincoli, lasciando intendere che le regole siano un caso
specialedei vincoli ma se ciò accade allora tutte istituzioni sono formali.
Hodgson evidenzia poi come la concezione delle istituzioni come vincoli tradisca l’assenza di una seria
riflessione sul fondamento di legittimità delle istituzioni e sul problema di obbedienza alle istituzioni.
Secondo Hodgson spiegare le istituzioni in termini di incentivi o sanzioni associate alle regole è
insufficiente poiché non spiegherebbe come le persone comprendono interpretano o valutano le sanzioni e
gli incentivi
—>muovono un gioco fondamentale invece le abitudini cioè il meccanismo psicologico mediante il quale gli
individui acquisiscono le disposizioni per impegnarsi in comportamenti precedentemente adottati o Acquisti.
Esse sono materiale costitutivo delle istituzioni che le dota di stabilità nel tempo potere e autorità
normativa.

• Altri critici
hanno sottolineato come l’NIE muova assunti antropologici discutibili o riduttivi rendendo la
nozione di istituzione estremamente riduttiva dandogli importanza solo perché costitutrici di vincoli e
lasciando sullo sfondo fattori determinanti dello sviluppo economico come le idee, le ideologie e l’etica.

3. LIBERTARIAN PATERNALISM
Il Libertarian Paternalism (LP) esprime l’idea che sia possibile e legittimo che le istituzioni pubbliche e
private influenzino il comportamento delle persone (tipico del paternalismo) rispettando al tempo stesso la
loro libertà di scelta (tipico libertario) —>

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Tale espressione è stata coniata nel 2003 da THALER e SUNSTEIN, ed ha avuto maggior risonanza e
influenza soprattutto nell’ultimo decennio.

Tale approccio è nato da una critica all’anti-paternalismo fondata sui risultati della psicologia e della
economia comportamentale.
Secondo Thaler e Sunstein l’anti-paternalismo si basa su un assunto falso e almeno due idee sbagliate:
—•il falso assunto è che le persone fanno scelte che sono sempre nel loro migliore interesse —> psicologia
e economia comportamentale hanno dimostrato che non è vero: che hanno dimostrato che i processi
decisionali dell’individuo sono soggetti ad errori sistematici che vanno a scapito del suo benessere —>in
ottica di LP tali errori decisionali sono casi di fallimenti del mercato comportamentali, sono quindi utilizzati
per giustificare la regolamentazione pubblica improntata sul paternalismo.
—•La prima idea sbagliata dell’anti-paternalismo è che ci sono valide e praticabili alternative al
paternalismo. In molti casi infatti il paternalismo è inevitabile: soggetti privati o pubblici devono fare scelte
che condizionano inevitabilmente le scelte di altre persone.
—•La seconda idea sbagliata è che il paternalismo implichi sempre la coercizione.
Infatti, si possono scegliere diverse politiche paternaliste:
•Vi è una distinzione tra paternalismo dei mezzi e dei fini. Quello dei mezzi cerca di influenzare le scelte
degli individui relative ai mezzi, quello dei fini influisce direttamente sui fini attraverso obblighi e divieti.
•Vi è distinzione tra paternalismo forte e debole. Quello debole mira a preservare la libertà di scelta, con
quello forte entra in gioco la coercizione.

Le politiche di Nudging rientrano generalmente nella categoria del paternalismo dei mezzi e in
quello debole.

—CRITICHE:
Il LP è stato oggetto di molte critiche quali:
1. Chi controlla il controllore? I funzionari pubblici e gli esperti di Nudging potrebbero essere influenzati da
pressioni o lobbying di potenti gruppi privati oppure potrebbero commettere errori sistematici .
2. Per alcuni studiosi il criterio di riferimento normativo sottostante è ancora quello dell’homo oeconomicus
nonostante i suoi esponenti dicano il contrario.
3. Altre critiche sono state mosse sul potenziale carattere manipolativo di certi interventi di Nudging.
4. Altro problema è la difficoltà di distinguere tra paternalismo dei fini e quello dei mezzi, spesso infatti
le scelte dei mezzi da utilizzare riguardano i fini da raggiungere.
5. Il problema più rilevante è quello della libertà. Il LP considera solo la libertà di scelta o alcuni aspetti di
questa ma tralascia completamente altri aspetti della più ampia nozione di libertà e del suo rapporto con la
dignità umana.

CAPITOLO 17: RELIGIONE, Secolarizzazione e laicità delle istituzioni

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

CAPITOLO 18: HUMANITIES, umanesimo e svolta effettiva


Perché parlare di diritto come umanità (humanities) usando una parola inglese? Perché abbiamo perso la
parola Humanities, soprattutto nella cultura giuridica. E pensare che che siamo stati noi a portarla al
massimo del suo fulgore con l'Umanesimo: periodo storico e artistico unico per sintesi di arte, filosofia,
politica, letteratura che ha prodotto intorno a un centro: l'uomo.
Pico della Mirandola, che morì a soli 24 anni, scrisse le Conclusiones nongentae (le 900 conclusioni), una
sorta di Summa umanistica. Egli ha fondato umanisticamente un concetto ancora oggi centrale per la
cultura giuridica: LA DIGNITA, - la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000 si apre con
l'art. 1: "La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata".
Pico scrisse anche un testo divenuto manifesto della cultura umanistica: l'Orazione sulla dignità dell'uomo.
Partendo da una visione ottimistica dell'uomo e dell'ambivalenza della sua libertà, per cui "Grande
miracolo, è l'uomo", dovendo cogliere la sintesi dell'eccellenza dell'umano, Pico ne scelse il tratto della
libertà. Dio: "Tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la ta natura in base al tuo arbitrio, nelle
cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo perché tu da lì potessi meglio osservare
tutto quanto è nel mondo. (...) tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa
foggiarti nella forma che preferirai". Pico faceva dell'uomo e della sua dignità un essere libero, e in quanto
tale un camaleonte, simboleggiato da Proteo: un essere di natura varia, multiforme e cangiante, in grado di
produrre paradisi e inferni in vita.
Oggi possiamo pensare che questa immagine di uomo pichiana sia ancora attuale senza cadere nel
ridicolo, ai tempi del postumano e del transumano? Oggi l'uomo si pensa artefice del suo destino, ma si
spinge fino al sogno di diventare immortale attraverso la scienza e la tecnologica, di rendersi felice
attraverso il mercato e immortale in quanto uomo-macchina, cyborg. Al punto di concepire l'immortalità su
questa terra, coltivando il sogno di un mind uploading, il trasferimento della mente a un supporto non
biologico (l'io ridotto a una specie di chiavetta USB, in grado di cambiare hardware (corpo). Il discorso di
Pico di fronte a ciò suona necessariamente fuori tempo. E' in discussione il centro del discorso: la libertà,
postulare l'esistenza della libertà appare tanto illusorio all'uomo di oggi quanto postulare un Dio creatore
dietro la natura. Se la libertà non si può vedere con il neuroimaging o con una TAC, allora non esiste,
sembrano dirci scienziati oscurantisti.
Cosa resta allora delle humanities - studi umanistici - e dove dobbiamo collocare il diritto rispetto a questo
ambito?

Il diritto moderno, nella sua formalizzazione kelseniana, provenendo dal pessimismo antropologico di
Hobbes, colloca il diritto il più vicino possibile alla scienza moderna: dove regna il principio di causalità in
base a cui la scienza può fare previsioni affidabili. Allo stesso modo il sapere giuridico si basa sul principio
di imputazione, ridotto a: "se vi è un evento X, un illecito, allora deve seguire l'effetto Y, sanzione".
Dovrebbero essere insegnate agli studenti l'informatica giuridica o la teoria generale del diritto, non certo le
humanities o la filosofia del diritto, e parlare di Pico non avrebbe alcun senso. MA per realizzare questo
l'uomo deve essere pensato come una macchina. Il sogno di sostituire il giudice con una macchina della
vecchia giuscubernetica degli anni 50, è sempre dietro l'angolo delle posizioni neoscientiste.
Cosa è l'uomo? In realtà la differenza fra principio di causalità e principio di imputazione kelseniano è
considerevole, e proprio lì inserisce la questione delle humanities. L'uomo non è una macchina e il
pensiero non è un calcolo semplicemente perché l'uomo comunica attraverso il linguaggio e attraverso
segnali non verbali, la comunicazione non è riducibile a una scarica di elettroni.
E così, dopo il positivismo, da sempre ritornano ciclicamente le Humanities, come dopo l'illuminismo è
tornato il romanticismo, in una sorta di dialettica storica che fa del diritto un sapere aperto e
critico e non una scienza chiusa. Una delle ultime volte è accaduto dopo il processo di Norimberga, in cui
tornò in auge il vecchio diritto naturale.

Dopo: Stati Uniti elaborano una visione cibernetica e scientista per quanto riguarda la scienza, per il
pensiero giuridico, e l'ordine sociale. Oggi necessitiamo del ritorno alle humanities: ripensare la visione
dell'uomo, e conseguente il diritto a fronte delle nuove sfide epocali, economiche tecnologiche. Costruire
una filosofia prima.

Come si è giunti a tanto?



RIFORMA DELL'UNIVERSITA: tutto deve essere calcolato, quantificato, misurato. Obiettivo: creare delle
figure professionalizzanti al fine di ridurre la distanza tra università e mondo del lavoro: per "immettere sul
mercato laureati già pronti per l'uso, senza quel fastidioso bagaglio di nozioni teoriche e sapere critico di
cui il tardo capitalismo non sa proprio che farsi". -> la formazione degli studenti come prodotto e non come
processo, secondo un modello di spendibilità immediata delle conoscenza. Eccellenza: simulacro di
un'idea senza contenuto. Quando si annuncia l'assunzione di nuovi ricercatori si dice investire sul capitale
umano.


Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

Parlare di Humanities significa provare a opporsi a questo sistema, a farlo all'interno di un sapere, il diritto.
Come rileva criticamente Bockenforde: LO STATO LIBERALE CONTEMPORANEO NON RIESCE PIU A
GARANTIRE I PRESUPPOSTI ANTROPOLOGICI SU CUI PUR SI FONDA. Si tratta di dire che il diritto è
anche letteratura musica teatro retorica, poiché quelli sono FRUTTI e non prodotti del pensiero e della
cultura, tra i quali vi è anche il diritto.

Come nella banalità del male: oggi vige l'assenza di pensiero. Stiegler: critica le nuove tecnologie,
indicando come oggi si sia invertito il rapporto tra controllore e controllante: non siamo noi a controllare
Google e i suoi processi di ricerca, è bensì il motore di ricerca che sottopone idealmente a critica i nostri
comportamenti e rappresenta un vero e proprio standard normativo a cui dobbiamo alienarci: LA
VALUTAZIONE SI TRASFORMA QUI IN CONTROLLO. Oggi l'essere presente sui social network assume
un tratto di sovranità emblematica, se letta da una prospettiva estetico-giuridica: come un tempo il
battesimo, e poi la cittadinanza, faceva entrare in un sistema sovrano (la chiesa lo stato), oggi l'accesso ai
social network getta dentro un sistema che aspira ad essere sovrano.

IL RAPPORTO TRA UOMO E MACCHINA si inverte: la domanda se le macchine possano pensare rischia
di trasformarsi nella ingiunzione all'uomo di comportarsi come una macchina, vale a dire di non pensare: v.
assenza di pensiero rilevata da Arendt, veicolata dal venir meno del controllo di quel quarto potere. Il
rischio è di rendere l'uomo parte del mondo digitale costruito per le macchine, svuotando di senso i
processi di comprensione e lettura critica. La nuova possibilità di manipolazione della verità tramite l'uso
dei social network (fake news, la politica via twitter) sono un tratto che rappresenta uno dei punti critici delle
democrazie liverali contemporanee. Pratiche come la scrittura a mano e la lettura hanno cerato nell'uomo
competenze specifiche plasmando il suo cervello e le sue sinapsi: il passaggio dal reading brain al digital
brain (Carr) è in corso e non sappiamo ancora quale sarà l'esito.

La nozione proposta da Stiegler di psicopotere: intesa come un apparato di cattura dell'attenzione legato a
insieme di situazioni di servitù volontaria, manipolazione, anestesia del pensiero, caratterizzerebbe la
nostra condizione DISUMANA contemporanea. Questo è un problema che accompagna la filosofia dai suoi
esordi: già Platone e Socrate temevano che la nuova tecnologia della scrittura conducesse a una sorta di
incapacità di memorizzare e di pensare - e dunque di indebolimento dell'umano. Le nuove tecnologie oggi
come ieri sono dunque un PHARMAKON: al tempo stesso rimedio e veleno (Derridà). Sono oggetto di un
uso ambivalente. Stiegler propone una farmacologia: una terapia fondata sull'emergere di una nuova forma
di pensiero critico.

Affectio iuris:
Padre della svolta retorica Parelman: ritorno al sapere retorico in ambito giuridico, Il trattato
sull'argomentazione. La nuova retorica 1958. -> indicare il senso delle humanities nell'insegnamento del
diritto. Uno dei primi articoli di Parelman all'indomani della fine della seconda guerra mondiale muove dalla
critica all'orribile evento dell'Olocausto e indica una strada per riproporre il problema etico del diritto.
Avvalorando l'uso civile della retorica, pensata come metodo, potenzialmente dotato di una valenza etica
nel trattare la questione della verità al di fuori del dominio esclusivo della ragione -> egli giunge a
estendere anche all'ambito delle passioni e dei valori l'ambito di riflessione sul concetto di giustizia.
Secondo Parelman, all'accostamento metafisico in filosofia, volto alla conoscenza dei principi primi
immutabili, si contrappone costantemente nella storia del pensiero un diverso atteggiamento: lo scetticismo
(e poi il nichilismo) che muove invece dalla negazione della possibilità di individuare tali principi primi,
rinviando le scelte all'ambito del contingente -> filosofia prima negativa, negazione dell'esistenza di ogni
principio assoluto. V. Popper: problema circa la giustificazione del principio di verificazione: per Popper non
è esso stesso scientifico, bensì ha uno statuto di filosofia prima, è un'affermazione metafisica, perché non
può essere esso stesso provato vero tramite un esperimento, cioè tramite il criterio che statuisce, è
un'asserzione che fonda una metafisica della scienza. E così, al fine di mantenere una demarcazione fra
scienza e metafisica, la proposta popperiana, è di sostituire la verificazione con la falsificazione. La scienza
è quella conoscenza in cui è possibile una falsificazione delle teorie, attraverso esperimenti che ne provino
la falsità. Un simile paradosso -> affligge il pensiero neopositivistico anche nel diritto: la norma
fondamentale kelseniana fonda la gerarchia delle norme validamente poste senza essere essa stessa una
norma posta e valida, ma solo logicamente presupposta. Anche il positivismo scientifico o giuridico quindi si
fonda su un principio primo che tuttavia non può essere fondato ma solo creduto necessario.
Scetticismo nichilismi e scienza: incapaci di fornire risposta al problema dei valori e della giustizia, senza
sfuggire al problema del ricorso a una qualche filosofia prima.

Una risposta si può trovare solo nel coinvolgimento della resposnabilità personale e della scelta libera (ma
ragionata) del filosofo. In questo senso si deve intendere la rivalutazione della retorica che rappresenta una
sorta di terza via in grado di porre la serietà antropologica e storica del problema della responsabilità e
della giustizia contro le posizioni scettiche.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)


lOMoARcPSD|6281793

L'assunzione della retorica come terza via, implicando la resposnabilità e la scelta, fa tornare a prendere in
conto quell'ambivalenza di fondo della condizione umana che già Pico aveva indicato nel configurare
l'uomo come un camaleonte in grado di innalzarsi o inabissarsi e che Stiegler postula alla base di una
farmacologia per le nuove sfide antropologiche che la tecnologia pone all'uomo di oggi: l'ambivalenza che
le humanities provano a custodire, facendo una rappresentazione realistica della condizione umana. Di
fronte al carattere realistico di tale ambivalenza, la retorica cerca di fornire una risposta che non si riferisce
a verità universali ma relative alla situazione e contingenti, senza escludere l'ambito della ragione e senza
ridursi al mero arbitrio ritenuto irrazionale. La retorica apre lo spazio della discussione pubblica, civile,
collettiva, democratica, la cui forma giuridica è la continuazione della rappresentazione letteraria, teatrale.
Le humanities hanno un valore critico: indicano la rilevanza del problema dell'ambivalenza della libertà,
senza identificare una troppo facile soluzione. NON SI SFUGGE AL PENSIERO, AL CONFLITTO, L'ESITO
RIMANE SEMPRE APERTO; l'uomo è ancora quel camaleonte di Pico che può elevarsi o inabissarsi e per
questo è importante la sfera della responsabilità, individuale e collettiva, che il diritto custodisce.
Vico: con la sua opera rilegge in senso civile la retorica classica, pure egli considera l'ambivalenza
dell'uomo che può creare paradisi o inferni sulla terra.

Le humanities possono creare umanità nel giurista, rinviando a un oltre la legge che è fondativo di ogni
secondum legem che aspiri alla giustizia. Esse possono proporre percorsi di individuazione che la libertà
del singolo può decidere come utilizzare. Vico contrappone una scienza nuova, antropologica, letteraria,
anticipando la crisi del positivismo e fondando la ripresa dei saperi umanistici.

Spinoza critica il dualismo cartesiano, e cerca di ridurre a una sola sostanza l'intera conoscenza, cosa che
fa anche Vico cercando di tenere insieme il vero e il fatto.
Condizione di ambivalenza come condizione realistica in cui umano si trova ad esistere. Vico
contrariamente a Cartesio restituisce ai saperi umanistici il compito di rendere conto della condizione
umana.

Il linguaggio riduce la complessità dell'esperienza, che proprio per questo deve essere avvertita in modo
non linguistico. Per questo la giustizia non può essere ridotta al linguaggio della legge, deve essere anche
avvertita, percepita. Il linguaggio delle humanities costruisce questa sensibilità umanistica e possono
servire a costruire strumenti per criticare il riduzionismo del positivismo. Esse non sono un insieme di
contenuti teorici ma rappresentano una esperienza da fare, in cui il vero, o una rappresentazione di esso
deve essere fatto. Esse possono costituire il fondamento per una svolta affettiva in filosofia e nel diritto, da
intendersi non in opposizione alla legge, ma come suo sviluppo.

Scaricato da gianfranco rosati (gianfrirosati@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche