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Filosofia del diritto (1)[5982]-5

Filosofia del diritto (Università di Pisa)

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questo comportamento nei confronti degli altri. Insomma, come il detto non fare agli altri ciò che
non vorresti fosse fatto a te, e anche fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te. Il diritto
coordina queste sfere individuali, sulla base di questo criterio della universalizzabilità delle azioni.
Se il diritto vieta l'omicidio, è anche e soprattutto perchè non crede che l'uccisione di un uomo sia
una azione che sia facilmente universalizzabile.
Facevamo riferimento al diritto cosmopolitico che richiama intuitivamente questa idea di
universalizzabilità. Si devono considerare le proprie azioni e i propri diritti dal punto di vista
cosmopolitico, quindi certamente ciò che ci si aspetta dalla società, oggi la chiameremmo società
globale, è qualcosa per la quale anche l'individuo si dispone a comportarsi in un certo modo verso il
resto della umanità, verso il resto del mondo. E questo diritto non deve essere diverso da Paese a
Paese, ma Kant immagina che debba essere lo stesso in ogni punto della terra.
Si faceva l'esempio del diritto di visita e del diritto di ospitabilità che ciascuno Stato o Paese
dovrebbe fornire a ciascun individuo sulla faccia della Terra. Anche questo è facilmente
universalizzabile, è lo stesso diritto o dovere che ciascuno di noi, se vuole pensare al diritto di
visita, deve garantire a chiunque venisse a casa propria. Solo in questa misura il diritto di visita è
universalizzabile.
Kant immagina questa società globale, questo ordinamento cosmopolitico, in cui vige il diritto
cosmopolitico, lo immagina come attuato da una federazione di Stati, ma non scompare lo Stato, nel
senso di Stato nazionale sovrano, tipico della modernità. Emerge perciò un imperativo categorico
per Kant, questi Stati devono smettere di fare la guerra per federarsi e coordinarsi tra loro. Kant
scrive ciò in un'opera intitolata Per la Pace perpetua. Se gli Stati si comportano razionalmente
anch'essi, non possono che fondare questa cooperazione, questa federazione, che realizza il diritto
cosmopolitico su scala globale. La condizione perchè uno Stato si possa federare con gli altri Stati,
venga riconosciuto come uno Stato federabile, è il fatto che uno Stato integri una serie di requisiti.
Kant nella Pace perpetua studia il comportamento e l'organizzazione degli Stati del suo tempo e la
condizione fondamentale è quella di essere degli Stati repubblicani, degli Stati in cui a governare, a
vigere sopra ogni altra cosa è il diritto. Uno Stato di diritto, lo Stato in cui è il diritto il vero potere,
lo Stato in cui tutti sono soggetti al diritto, non solo i cittadini ma anche e soprattutto gli organi che
amministrano il potere nello Stato, lo Stato sottoposto al suo diritto.
Queste sono delle intuizioni che Kant alla fine del Settecento e primi anni dell'Ottocento quasi
lancia al futuro dell'Europa. L'Europa all'epoca era ancora molto divisa, ma di lì a un secolo o
secolo e mezzo, si attuerà qualcosa che ricorda molto a questi argomenti Kantiani, si pensi alla
nascita della Società delle Nazioni, poi diventata l'ONU. L'idea è proprio quella, il fine è quello
della Pace, il fine kantiano, e il diritto cosmopolitico è quello che garantisce questa finalità. Quindi
trovare una formula, una regolazione, un coordinamento degli arbitri di tutti gli Stati, che fondi una
legge universale di libertà, tale per cui, aggiunge Kant, ciascun individuo, essendo cittadino di uno
Stato, è anche cittadino del mondo, cittadino di tutti gli altri Stati, un diritto ultrastatuale. Non solo
diritti nei confronti all'interno del proprio Stato, ma anche diritti al di fuori di esso, un diritto
cosmopolitico. Si pensi all'avvento dei così detti diritti umani. Certamente come cittadini italiani
godiamo di diritti fondamentali, oltre ai diritti tipici della cittadinanza. Ma ci sono alcuni di questi
diritti, tra i più importanti, che possono esser vantati in quanto cittadini del Mondo, in quanto esseri
umani. Quindi valgono certamente fuori dai confini dello Stato di appartenenza, a prescindere dal
requisito della cittadinanza.

• KANT E KELSEN A CONFRONTO


Un autore che guarderà molto a questi aspetti di Kant, sia sulla distinzione tra diritto e morale sia
sulla proiezione del diritto in senso cosmopolitico, sarà Kelsen, nella prima metà del '900. In
particolare Kelsen prenderà molto sul serio la tipologia degli imperativi ipotetici, e spiegherà che le
norme giuridiche valgono in quanto sono formulabili, da un punto di vista strutturale, logico-
formale, come dei giudizi ipotetici. Perchè ogni norma, afferma Kelsen, è scomponibile in almeno
due parti. La prima parte è chiaramente la formulazione di una ipotesi: se A, allora deve seguire B.
Nella prima parte della norma si ipotizza un comportamento, considerato dall'ordinamento illecito.

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Nella seconda parte della norma c'è la conseguenza di questo comportamento, c'è l'effetto. Come
una sorta di legge causa-effetto. Vedremo che Kelsen si preoccupa di distinguere non tanto il diritto
dalla morale, come aveva fatto Kant, quanto il diritto, le leggi giuridiche, dalle leggi del mondo
fisico, che pure sono strutturate in base a questo meccanismo di causa-effetto. Ma l'effetto nelle
norme giuridiche, le conseguenze di queste ipotesi da cui partiamo (se A), sono di un tipo
particolare. Sono cioè delle conseguenze e degli effetti che non si verificano, come nelle leggi del
mondo fisico, necessariamente, inevitabilmente, naturalmente. Ma si verificano doverosamente, si
verificano perchè si devono verificare queste conseguenze se viene posto in essere un qualche
comportamento illecito. Ma attenzione non si verificano automaticamente. Un conto è lasciar cadere
un oggetto e vedere come effetto il fatto che tale oggetto cada sempre verso il centro della Terra, ciò
accade sempre necessariamente e inevitabilmente, naturalmente. È una legge del mondo fisico la
legge di gravità, se l'oggetto lo lasciamo cadere, esso cadrà, non dovrà cadere. Se invece si cagiona
la morte di un uomo, si dovrebbe esser puniti con la pena relativa. La norma giuridica non si pone
in termini strettamente causali, di necessità causale: se si cagiona la morte di un uomo allora si è
puniti con la pena dell'ergastolo. Il diritto non funziona in modo automatico, altrimenti quando
qualcuno compie un illecito, automaticamente e naturalmente gli si dovrebbe applicare una
sanzione, ma non è così. Se A deve essere B, questo non significa che B accadrà necessariamente e
sicuramente. Nel diritto si devono attivare delle procedure, i soggetti preposti alla applicazione delle
norme devono applicarle, tutto succede perchè deve succedere, non succede automaticamente,
inevitabilmente, naturalmente. Il diritto è il mondo del sollen, del dover essere, le cose accadono in
base a un meccanismo tipico di doverosità, non è invece il mondo del sein, dell'essere, in cui le
cose accadono inevitabilmente, a prescindere da tutto e da chiunque. Questa è un'altra differenza
fondamentale, questo è un altro modo di pensare il diritto in termini esclusivi, in termini che
escludono, che tipizzano il diritto come qualcosa di specifico. Al punto che, afferma Kelsen, se una
legge del mondo fisico, una legge che è tipica del mondo dell'essere, non dovesse anche solo per
accidente, una sola volta funzionare, non dovesse produrre i suoi effetti, effetti che essa descrive,
quella legge sarebbe davvero come se non fosse mai esistita, sarebbe invalida certamente, avremmo
sbagliato nel formularla. Se dopo 1000 volte che si lascia cadere un oggetto, la 1001 volta l'oggetto
non cade più ma inizia ad andare in alto, la legge di gravità è come se non fosse in realtà mai
esistita. Se dopo aver violato una norma giuridica si è subito tutte le volte la sanzione, poi per
l'ennesima volta che si viola la norma non si subisce la sanzione, non si può dire che la norma sia
invalida, come se non fosse mai esistita. La norma resta valida, tant'è che se si violasse ancora la
norma, si potrebbe incorrere ancora una volta nella sanzione. Anche perchè nel diritto, vedremo nel
pensiero di Kelsen, la validità di una norma è ben distinta dalla sua efficacia. Il fatto che le norme
vengano applicate, che la sanzione venga effettivamente applicata, non inficia, non ha nulla a che
fare con la validità, con la esistenza della norma giuridica. Si può trattare di norme inefficaci, che
non vengono più seguite e applicate, ma rimangono valide nel nostro ordinamento. Restano valide e
quindi possono comunque esser applicate, non si può far valere il fatto della inefficacia della norma
per mettere in dubbio la validità della norma. Validità ed efficacia sono due cose distinte perchè
distinti sono, dice Kelsen, i due mondi, il mondo dell'essere e il mondo del dover essere. Il fatto che
la norma sia applicata ricade nel mondo dell'essere, dei fatti. Si può descrivere quanto le norme
vengano applicate o meno, si può descrivere il fatto che non si è mai stati sottoposti alla sanzione,
questo è un fatto, ma questo non dice nulla sulla validità della norma che continua a esistere e a
vincolare l'individuo. Quella norma non si pone nel mondo dei fatti, dell'essere, ma nel mondo del
dover essere, non sul piano dell'essere, ma sul piano del dover essere, ed impone sempre la stessa
cosa: se A, allora B. Il fatto che B non avvenga mai, non mette in dubbio l'esistenza e la validità
della norma. Nel mondo dell'essere, le leggi del mondo fisico, il fatto che un determinato fenomeno
non accada come quanto stabilito dalla legge fisica, questo fatto metterebbe certamente in crisi la
validità della legge del mondo fisico, farebbe capire come queste norme, queste leggi, in realtà è
come se non fossero mai esistite. Si pensi quando venne ribaltato il sistema tolemaico. Si scoprì che
le leggi del mondo fisico fino ad allora ritenute valide, in realtà non erano mai esistite, perchè i fatti
dimostrarono il contrario. Questo non può accadere nel mondo del diritto. Se pure i fatti dimostrano

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il contrario, che una certa norma non è mai applicata e non vengono azionate le sanzioni,
perseguitati i trasgressori, non per questo la norma che prevede in termini di doverosità quel
comportamento, non viene meno.
Vedremo poi che altri autori considereranno il diritto in termini diversi, diranno che il diritto
riguarda solo l'efficacia delle norme e che il diritto non può che essere colto come fatto, sul piano
dei fatti, che il diritto riposa sul piano dell'essere. La corrente del così detto realismo giuridico dirà
proprio il contrario e il fatto che i giudici applichino certe norme e non altre, che fa esistere quelle
norme e non le norme non applicate quindi per capire quale sia il diritto valido in un certo momento
storico, in un certo Paese, si deve guardare al diritto che viene seguito e applicato e non il diritto che
è scritto nei Codici, che viene posto, ma al diritto che viene utilizzato concretamente. Non si deve
guardare al law in books, come dicono i realisti americani, ma al law in action.
È un percorso inverso da quello che fa Kelsen, che parte dalla validità per mostrare l'efficacia,
avvisando che si devono tenerle distinte, ma certo la norma dal punto di vista kelseniano non può
essere efficace senza essere anche valida. Intanto una norma deve essere valida ed esistente, deve
essere stata prodotta, dice Kelsen, secondo i criteri contenuti nelle norme di rango superiore.
Quindi non ci sono norme efficaci o inefficaci, che non siano anche valide. Per il Realismo più
radicale possono esserci norme efficaci anche se non siano mai state poste in termini formali. Si
pensi al diritto consuetudinario, agli usi giuridici. Le consuetudini e usi giuridici si basano solo su
fatti, su comportamenti di fatto, che un certo popolo ha tenuto per un tempo considerevolmente
lungo, e se si è anche sviluppata la convinzione, l'opinio iuris ac necessitatis, cioè che quel
comportamento sia doveroso in termini giuridici, allora si forma per un realista il vero diritto, da
considerare valido pur non essendo mai stato prodotto come diritto, posto, da chi aveva l'autorità
per farlo. Vedremo che nel '900 si fronteggeranno queste varie concezioni del diritto, una
concezione normativistica, tipica kelseniana, la norma come giudizio ipotetico, e una concezione
antiformalistica, antinormativistica, una concezione pattualistica del diritto. La cosa interessante
è che non si ragionerà più di diritto naturale e positivo, ma si è dentro al paradigma del diritto
positivo, del positivismo giuridico. Semmai si tratterà di capire appunto se sia l'efficacia e validità a
determinare l'esistenza del diritto. Si è dentro un paradigma giusnaturalistico e l'avvento e
consolidamento via via sempre più forte del paradigma giuspositivistico. Per cui ragioniamo solo
sul diritto che noi possiamo constatare e vedere, o sul diritto che viene seguito, ma non
consideriamo elementi metafisici, l'idea di un diritto naturale che fonda quello positivo.

(22/11/21)
• OTTOCENTO E NOVECENTO
Analizziamo il pensiero giuridico di questi due secoli, per fare cenni anche al dibattito
contemporaneo, le concezioni maggiormente diffuse e dibattute su cosa sia il diritto e la sua natura.
È l'ultima epoca post Rivoluzione francese, che esaurisce e completa la modernità, l'epoca della
nascita dello Stato, della concezione della sovranità, l'epoca delle teorie del diritto naturale
moderno, si è parlato di giusnaturalismo moderno. Abbiamo visto come questo pensiero
giusnaturalista moderno si articoli, nel pensiero filosofico da Grozio fino a Kant. Un pensiero
articolato in vario modo, in modi differenti, questo diritto naturale che in Hobbes finiva per
convertirsi in un pensiero giuspositivistico, in altri come in Rousseau finiva per legittimare istanze
democratiche, in altri come Kant finisce per costituire il presupposto per una teoria di separazione
del diritto dalla morale, per svuotare poi i contenuti del giusnaturalismo, di portarlo a compimento
perchè lo stato politico e il diritto pubblico in Kant non sono altro che il completamento dello stato
di natura e del diritto privato, un passaggio dal diritto provvisorio al diritto perentorio. Abbiamo
visto la visione di Kant a riguardo del diritto cosmopolitico, che aiuta a intendere meglio come in
questo autore ci si trovi in una fase successiva rispetto al giusnaturalismo moderno. Si è analizzato
poi diversi pensieri di Kelsed, autore che attingerà molto dal bagaglio di Kant, abbiamo analizzato
l'idea per cui il diritto divenga qualcosa, un oggetto di studio, in sé definito, qualcosa di autonomo,
che una schiera di studiosi, quelli che appunto nell'Ottocento verranno identificati come gli
scienziati del diritto. A quel punto il diritto è un prodotto che si può osservare soprattutto e quasi

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esclusivamente dal lato del diritto positivo. La grande opera di codificazione fatta all'indomani della
rivoluzione francese ha permesso questo: si perderà sempre di più il riferimento a un diritto
naturale, a dei principi che precedono l'installazione dello Stato e del diritto positivo, si guarderà
direttamente al risultato che si ha a disposizione storicamente, il diritto codificato, il diritto positivo.
Si uscirà fuori dallo schema tipico di tutti i giusnaturalisti moderni, lo schema contrattualistico: stat
di natura, contratto sociale e stato politico. Non ci sarà più bisogno di legittimare lo Stato e il diritto
positivo, su qualcosa che precede logicamente o cronologicamente lo stato politico. Lo stato
politico diventerà una realtà a tutti gli effetti che dovrà ritrovare il proprio fondamento in sé stesso,
nella idea che lo Stato si identifichi con il popolo. Anche se gli Stati nell'Ottocento non sono
democratici in senso stretto come gli Stati odierni, però certo inizia un grande processo di
avvicinamento, di massimizzazione democratica degli Stati, dall'Ottocento in avanti. Vengono
inclusi nella schiera dei rappresentabili politicamente, schiere e categorie di soggetti via via sempre
più numerose (suffragio universale e così via). Altri processi di democratizzazione della sfera
pubblica dello Stato sono quelli che portano i lavoratori, attraverso organizzazioni sindacali del
lavoro come accade nella seconda metà dell'Ottocento, a vedere rappresentati i loro interessi, non
solo come cittadini ma anche di lavoratori, quindi a determinare la nascita della categoria dei diritti
di terza generazione, i diritti sociali, come il diritto al lavoro, che è uno dei principali, come anche
istruzione e sanità. Quindi un percorso in cui lo Stato, con il suo diritto, si trova a dover includere
queste istanze democratiche, senza dover più fare leva sul diritto naturale, il contratto sociale, su ciò
che precede lo stato politico, ma lo Stato può trovare in sé, nel suo diritto, nella legge come
espressione del popolo, della volontà generale come l'aveva chiamata Rousseau, il proprio
fondamento e la propria legittimazione ad agire. Per fare una legge non c'è bisogno di immaginare
determinati diritti nello stato di natura, come diritti naturali, ma si può, attraverso lo strumento della
legge, positivizzare direttamente queste istanze e fare una legge in cui tali interessi vengono statuiti
come diritti positivi. Del resto con la codificazione, ancora prima con la Dichiarazione dei Diritti
dell'Uomo e del Cittadino del 1789, assistiamo a una conversione pressocchè integrale di quello che
i giusnaturalisti avevano immaginato come diritti naturali, in diritti positivi, positivizzati. Con il
Code Civil del 1804 francese per esempio viene reso davvero positivo il diritto di proprietà, uno di
quei diritti su cui i giusnaturalisti si erano confrontati, su cui si erano esplicate le loro teorie, da
Locke a Rousseau. Il Code Civil considera un diritto sacro e inviolabile il diritto di proprietà e lo
traduce in diritto positivo. Ancora oggi il Codice Civile è organizzato intorno alla difesa della
proprietà privata e tutti i diritti secondari connessi.
Il Code Civil francese viene da Napoleone esportato in tutti i Paesi europei, poi anche introdotto in
Italia dopo l'Unificazione del 1861, un Codice unitario per tutta la Penisola, organizzato e
improntato sul modello francese. Codice che poi verrà riformato nel 1942, sotto l'influenza fascista
(diritto corporativo). Con l'ordinamento repubblicano del 1948, si decise di non abrogare il Codice,
ma di riformarlo in parte per esser conservato, proprio perchè manteneva ancora l'impronta del
Codice del 1804. Un Codice costruito anch'esso tutto intorno alla figura del proprietario e della
proprietà privata. Quindi è il diritto che viene fuori dalla Rivoluzione francese e dell'esperienza
della codificazione, è quello che traduce in diritto positivo tutto quello che era stato considerato fino
ad allora come diritto naturale. È come se il giusnaturalismo avesse realizzato il proprio obiettivo,
cioè quello appunto di rendere conforme il diritto positivo al diritto naturale. Se il diritto positivo
finisce per essere ciò che era stato considerato fino a un momento prima il diritto naturale, è come
se non ci fosse più bisogno di postulare ancora l'esistenza di un diritto naturale, quando il diritto
naturale viene interamente positivizzato. Il diritto naturale ha senso di esistere come diritto teorico,
come teoria del diritto, fintanto che vi sia una incongruenza tra il diritto positivo e quello naturale,
fintanto che il diritto positivo debba esser guidato dal diritto naturale. Allora ha senso pensare questi
due ordini normativi. Una volta che il diritto positivo con la codificazione viene in qualche modo ad
essere un diritto che recepisce integralmente un modello di diritto naturale, non c'è più bisogno di
ipotizzare e articolare l'esistenza di due ordini normativi, differenti, che devono entrare in questo
rapporto. Si ha già un diritto positivo, che è un diritto che certamente non tradisce i principi di
diritto naturale, anzi li ha interamente interiorizzati. Ecco perchè l'Ottocento diverrà il secolo in cui

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il paradigma teorico dominante non sarà più quello del giusnaturalismo, ma quello del
giuspositivismo, perchè questo diritto positivo basterà a sé stesso e troverà in sé stesso la propria
ragion d'essere senza ricorrere a confronti col diritto naturale. La filosofia del diritto avrà allora un
orientamento giuspositivisto, affermando che il diritto positivo deve essere obbedito, per il fatto
stesso che questo esiste ed è stato posto, il fatto di essere il prodotto della volontà del legislatore e
dello Stato. Codice, legge, parlamenti, popolo, sono questi i concetti che andranno per la maggiore
nell'Ottocento, ma sono concetti appunto che riportano al giuspositivismo. Così sarà anche nella
prima metà del Novecento, in cui il giuspositivismo la farà da padrone, fino alla teorizzazione di
Kelsen, che certamente riflette sul diritto, proprio perchè diritto positivo, a prescindere da qualsiasi
riferimento metafisico come lo chiama Kelsen. Certo dopo gli anni dove opera Kelsen, il secondo
dopo guerra, qualcosa anche all'interno di questo paradigma giuspositivista sarà destinato a mutare,
perchè il mondo del diritto sarà sconvolto in positivo, dall'avvento delle costituzioni
novecentesche. Non solo in Italia, ma nella gran parte dei Paesi europei occidentali, soprattutto
quelli che avevano conosciuto esperienze dittatoriali, uscite dalla Seconda Guerra Mondiale
distrutti, sentirono l'esigenza di rifondare lo Stato e il diritto su basi nuove, senza doversi appellare
al diritto naturale, senza riprendere il diritto contrattualistico seicentesco e settecentesco.
I Paesi, soprattutto quelli che hanno conosciuto esperienze dittatoriali, si daranno delle costituzioni
scritte. Emerge ancora perciò l'influenza del giuspositivismo, non basta una dichiarazione di
princìpi, come era stata fatta nel 1789 in Francia, ma si farà una Costituzione scritta, che avrà vaore
di legge. Ancora oggi la Costituzione del 1948 è considerata legge e può esser fatta valere nei
giudizi ordinari, a differenza della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, che invece
non poteva esser fatta valere di fronte al giudice, questa dichiarazione non aveva valore strettamente
giuridico, rappresentava dichiarazioni di principio, era più vicina al campo morale che non di stretto
diritto. Cosa che invece si può fare con la Costituzione del 1948 repubblicana, la quale dà non delle
dichiarazioni di principio, ma proclama e statuisce dei diritti che poi vengono garantiti dalle leggi.
La Costituzione non esordisce con una dichiarazione di diritti di principio (tutti gli uomini), ma
afferma che tutti i cittadini, hanno una serie di diritti e di doveri specificati dallo Stato e dalla
legge, specificata nei codici (penale, civile, di procedura). Tutti diritti contenuti nella legge che sono
qualcosa che si può invocare di fronte al giudice, per ottenere tutela, esecuzione, inibizione e così
via. Tutta una concezione del diritto che fonderà le proprie basi nel Settecento, con la Rivoluzione
francese, e che si attuerà e specificherà nel corso dell'Ottocento e Novecento e ancora di più a
seguito dell'avvento del costituzionalismo. Vedremo che le Costituzioni segnano anche scompiglio
nel campo del giuspositivismo perchè introducono l'idea secondo cui il legislatore non possa
statuire o legiferare su tutto ciò che vuole, ma ci sono alcuni punti fermi che le costituzioni
Ottocentesche fissano.
Per esempio nella Costituzione repubblicana del 1948 italiana, questo meccanismo si mostra
proprio nell'ultimo articolo, l'art.139, perchè tale articolo fissa un punto chiave di tutta la
Costituzione, che ha a che fare con tutta la Costituzione e con la forma ed organizzazione del diritto
e del potere dello Stato. L'ultimo articolo afferma che la forma repubblicana non può mai essere
oggetto di revisione costituzionale, vuol dire questo dare un limite al legislatore, il legislatore che
può anche fare leggi che modificano la Costituzione, leggi di revisione costituzionale, leggi che
certo sono molto particolari, hanno bisogno di una maggioranza rafforzata e qualificata per essere
approvata (approvazione dei 2/3 e referendum popolare), ma sono sempre leggi che possono essere
approvate dal parlamento, il quale può modificare la Costituzione, ed è successo dal 1948 ad oggi
che alcune leggi abbiano modificato in alcune parti la Costituzione, ma ci sono materie che non
possono mai essere oggetto di modifica, come la forma repubblicana del l'art.139. Con questa
forma repubblicana non si intende solo, per i costituzionalisti, la forma meramente repubblicana,
cioè che non si possa tornare a una forma di governo monarchico. Certo è anche questo, non si può
pensare a una legge che reintroduca il Re, ma non è solo questo. Entra anche una sostanza
repubblicana, l'idea che lo Stato sia organizzato in un certo modo, i poteri bilanciati tra di loro e ci
siano alcune garanzie costituzionali che abbiano a che fare con la protezione di certi diritti, con tutto
quello che si può ritrovare nella così detta prima parte della Costituzione, Capo I, intitolato Princìpi

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Fondamentali, sono 13 articoli, anch'essi considerati dalla dottrina come espressione della forma
repubblicana, quindi anch'essi sottratti alla volontà del legislatore. Il modello Ottocentesco di
legislatore in realtà potrebbe ammettere che quest'ultimo possa liberamente legiferare, quindi se
vuole statuire qualcosa lo può fare perchè legittimato dalla volontà generale, dal popolo. In realtà
non solo questa volontà legislatore è limitata dal vincolo della forma repubblicana, ma se anche il
legislatore volesse approvare delle leggi che modificano i primi 13 articoli, non potrebbe farlo,
perchè vi è un sistema di controllo della legislazione, approntato dalla Costituzione stessa, un
controllo di costituzionalità delle leggi. Ogni legge del legislatore può esser assoggettata da un
controllo di legittimità, compiuto da un organo, appositamente creato dalla stessa Costituzione, che
è la Corte Costituzionale e che è un organo giudicante, solo che non giudica i cittadini, non giudica
chi ha commesso un reato, ma giudica le leggi e il legislatore e se ravvisa una incostituzionalità in
una legge, se ravvisa qualcosa che viola una legge, un qualche articolo della Costituzione, può
dichiarare quella legge come incostituzionale e significa far perdere a quella legge la propria
validità, quindi quella legge non è più valida né vincolante. Questa è una sorta di falla che viene
aperta nella rappresentazione giuspositivistica del diritto. Il giuspositivismo afferma che la legge è
valida in quanto posta, nel rispetto delle procedure e se promulgata da chi ne abbia potere. Il
sistema di controllo costituzionale delle leggi al contrario afferma che anche se una legge è posta ed
è valida, essa è valida solo fino a che non venga dichiarata incostituzionale, il che vuol dire far
perdere alla legge la propria validità, nonostante per lo schema giuspositivistico tale legge dovrebbe
continuare ad esser valida. Questo perchè per il pensiero giuspositivista la legge perde validità solo
se il legislatore fa un'altra legge con cui abroga la legge precedente. Il sistema di controllo
costituzionale afferma perciò che esiste un giudice, prima ancora del legislatore, che può porre fine
alla validità di una legge e può farlo perchè tale legge ha violato il diritto costituzionale. In un certo
senso laddove prima i giusnaturalisti immaginavano l'esistenza di un diritto naturale, oggi con il
controllo delle leggi costituzionali abbiamo il costituzionalismo al posto del diritto naturale, che
costituisce un limite alla volontà del legislatore e lo vincola al rispetto della Costituzione. Quindi in
un modo o nell'altro si potrebbe dire che questa volontà del legislatore, questo diritto positivo come
qualcosa che trova la propria ragion d'essere e giustificazione è un modello che vale ma solo fino a
un certo punto. Certo uno dei momenti in cui vale maggiormente, in cui sembra non incontrare
alcun limite è proprio l'Ottocento, grande secolo del diritto positivo, in cui il diritto viene
positivizzato, in cui non c'è più questa idea del diritto naturale, in cui ancora non ci sono le
costituzioni novecentesche, queste ultime definite anche come costituzioni rigide. Le costituzioni
rigide sono quelle costituzioni che intanto valgono come leggi, intanto fissano dei limiti al potere di
revisione costituzionale e istituiscono un meccanismo di controllo e protezione della costituzione
stessa. Sono quindi rigide, differenti dalle costituzioni ottocentesche, perchè queste ultime non
stanno al di sopra della legge e non vincolano la legge. Sono fonti che hanno lo stesso valore delle
leggi ordinarie, e quindi possono con leggi ordinarie del Parlamento possono essere modificate o
addirittura abrogate e non hanno alcun meccanismo di controllo, non c'è nessun giudice
costituzionale in queste costituzioni. Una di queste costituzioni è lo Statuto Albertino, una
costituzione che organizza lo Stato italiano all'indomani dell'Unità. Per altro si dice sempre che lo
Statuto Albertino è una costituzione ottriata, concessa dal sovrano al popolo. Al contrario le
Costituzioni rigide novecentesche sono espressione del popolo, provengono dal basso. La
Costituzione del 1948 infatti, pur essendo stata scritta da un gruppo ristretto di parlamentari, è stata
frutto di discussione nella Assemblea Costituente, organo dei rappresentanti del popolo eletti. Non è
stata quindi una costituzione calata dall'alto, una concessione del Capo dello Stato.
Nell'Ottocento le costituzioni sono flessibili, sono sullo stesso rango delle leggi del Parlamento e
possono essere modificate con legge ordinaria, con una legge approvata con maggioranza assoluta,
o addirittura il sovrano le può revocare così come il sovrano le ha concesse. Quindi il diritto
nell'Ottocento è davvero diritto espressione della volontà del legislatore, dei parlamenti. Il diritto è
tutto ciò che sta nei Codici. Oltre al Codice civile ci sono altri codici che riguardano per intero tutto
lo scibile giuridico, il Codice Penale che si occupa del diritto penale, i Codici del Commercio che si
occupano del diritto commerciale, il Codice del Lavoro, i Codici di procedura e così via. Tutto il

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diritto, dal diritto sostanziale a quello processuale, dal diritto civile al diritto penale, viene tutto
positivizzato e si può trovare all'interno di questi Codici la soluzione a qualsiasi caso, a qualsiasi
fattispecie concreta. Gli scienziati del diritto dell'Ottocento diranno che il giudice non dovrà altro
che sussumere la fattispecie concreta nella fattispecie astratta, senza ulteriori operazioni logiche.
Non a caso all'indomani della codificazione, la filosofia del diritto, la teoria del diritto, la scienza
giuridica, questo indirizzo giuspositivistico che comincia a consolidarsi, teorizza due grandi dogmi.
Due grandi dogmi che sono quelli della completezza dell'ordinamento giuridico e della coerenza
dell'ordinamento giuridico. I due grandi dogmi dell'Illuminismo giuridico, un movimento di
pensiero che fa da seguito all'Illuminismo culturale settecentesco. Nei primi anni dell'Ottocento
l'Illuminismo continua, soprattutto nel campo del diritto. Infatti le Codificazioni anch'esse
considerate come una grande opera illuministica, come frutto maturo dell'Illuminismo. Questo
perchè i legislatori che scrivono questi codici sono considerati appunto come illuminati dalla
ragione. È possibile, dicono gli illuminisi, avere il diritto codificato nel nostro tempo, perchè i
parlamenti sono i rappresentanti del popolo, ed è come se il popolo stesso si fosse illuminato dalla
Ragione e dà il potere di scrivere e di fare codici, a questo Legislatore che sarà certamente un
legislatore razionale, un legislatore illuminato. Come tale, quando questo scriverà e produrrà questo
diritto positivo, sarà in sé illuminato e razionale, certamente sarà coerente e completo al suo interno.
Completo vuol dire che riuscirà a riguardare tutti i casi, a coprire tutta la realtà, non ci saranno
lacune, dicono gli illuministi giuridici. Non ci saranno lacune, un qualche caso concreto della vita
reale e concreto che non potrà esser fatto rientrare in fattispecie astratte. Tutto sarà rapportabile a
ciò che il legislatore razionalmente ha coperto, anche ciò che non sembra direttamente riferito ad
una qualche norma di diritto positivo, anche ciò che non sembra tale in realtà può essere apportato a
quelle norme per via interpretativa.
Vi è anche il dogma della coerenza. Non solo si ha sempre qualche norma riferita al caso specifico,
ma non si avrà mai due norme che su di un caso specifico siano contraddittorie tra di loro. Il diritto
in sé non è solo completo, ma è anche coerente, non vi sono antinomìe. Il legislatore è razionale, se
ha previsto qualcosa nell'ordinamento, non può aver previsto qualcosa poi di contrario.
Non solo non ci sono lacune nel diritto, ma non ci sono nemmeno appunto antinomìe, conflitti fra
norme. Il comportamento che gli individui pongono in essere non solo è sempre previsto da una
norma, ma gli individui possono anche sapere con buona certezza se quel comportamento sia
dall'ordinamento vietato oppure permesso. Questo perchè c'è una norma che dirà chiaramente
questo, che preveda tale comportamento. Non a caso si usa il termine certezza, perchè per gli
illuministi giuridici affermano che questi due dogmi creino certezza nel diritto. Questo vuol dire che
ciascun individuo può porre in essere un comportamento, anche il più strano, anche il più insolito,
stravagante e particolare, e sa già se tale comportamento potrà rischiato o meno di esser sanzionato,
se quel comportamento sia considerato ammissibile o meno dall'ordinamento. In realtà vedremo che
questi due dogmi dell'Illuminismo giuridico si sgretoleranno, vi sono sempre casi con un certo
grado di incertezza. Comunque all'indomani delle codificazioni, quando appunto vennero scritti
questi codici dove tutto è disciplinato nel minimo dettaglio, si creò la grande illusione di questi
illuministi, cioè questa assoluta certezza del diritto. Cioè appunto che ogni individuo fosse certo, dal
punto di vista del diritto, del proprio comportamento. Vedremo come nei sistemi di Common Law,
dove il diritto non fu codificato, un autore, Jeremy Bentham, dirà che tale diritto fosse altamente
incerto per i cittadini, questo perchè non ci sono leggi scritte in codici e unico riferimento che si ha
sono i precedenti giudiziali, le sentenze dei giudici. Quindi per ogni caso si può creare anche un
conflitto tra precedenti giudiziali. Quindi in questi sistemi quando si pone in essere il
comportamento non si ha una legge o norma che previamente (principio di irretroattività delle leggi)
abbia disciplinato tale comportamento. Fino a che un giudice non abbia deciso, vi è grande
incertezza, non si può sapere se un tale comportamento sia vietato o meno.
Il rischio è che il giudice, come afferma Bentham, giudichi non tanto per aver commesso o meno
quel determinato fatto, ma che giudichi soprattutto su ciò che abbia fatto l'individuo, operare un
giudizio sul suo comportamento. L'individuo potrà allora sapere se tale comportamento sia
sanzionato o meno solo a sentenza ultimata.

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(23/11/21)
• IL PENSIERO FILOSOFICO DEL DIRITTO POSTMODERNO
Un altro dei grandi risultati a cui l'Illuminismo giuridico perviene nei primi anni dell'Ottocento è
l'enuclearsi di quello che viene definito come garantismo penale. Il diritto che nasce dalla
Rivoluzione francese e che si afferma nei codici è un diritto di tipo garantista. Già il valore emerso
della certezza del diritto dovrebbe far comprendere qualcosa del garantismo. Garantismo significa
mettere a punto, pensare un diritto, progettarlo, in modo che venga assicurato il valore della
certezza del diritto, quantomeno su due piani. Un piano è quello della previsione che ciascun
individuo fa riguardo alle conseguenze giuridiche dei propri comportamenti. Si accennava a questo,
nei sistemi di Civil Law, questo calcolo, questa previsione, è abbastanza certa. Si può con alto
grado di certezza stabilire e prevedere quali siano le conseguenze giuridiche di un comportamento
posto in essere, sapendo già se tale comportamento sia vietato o permesso dal diritto, questo perchè
esiste una legge previa che lo ha disciplinato e normato. Non si ha una incertezza giuridica, non si
rischia di non sapere quali saranno conseguenze a cui si va incontro se si pone un certo
comportamento. Si conosce la norma, essa è prevista, statuita, nei sistemi di Civil Law è resa
pubblica soprattutto, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale e nei Codici, quindi si presume che sia
conosciuta da tutti i cittadini. Questo è un primo livello di certezza, naturalmente il più importante
dal punto di vista dei consociati e dei cittadini, perchè consente loro di comportarsi in un
determinato modo, di scegliere e di agire anche violando la legge, se sembra sopportabile il costo
della sanzione prevista, o se sembra conveniente violare la legge (come nel caso del free rider)
sostenendo un costo, quello della sanzione, che non fa venire meno la convenienza. Questo
ragionamento di convenienza può esser solo fatto se vi sia certezza giuridica.
Vedremo come Bentham spieghi la differenza, sottolineando la criticità dei sistemi di Common
Law, perchè secondo Bentham questi sistemi non garantirebbero la certezza giuridica, non permette
ai cittadini di compiere tali calcoli per decidere di obbedire o meno alle leggi.
Un altro livello, un altro piano su cui si sviluppa la certezza giuridica è quello appunto garantista. I
due piani non sono disgiunti, perchè anche la certezza nel senso ora spiegato è certamente un
passaggio e un momento fortemente garantista, una garanzia per il cittadino. Ma garanzie per il
cittadino sono anche tutta una serie di strumenti, procedure, di diritti, che al cittadino vengono
riconosciuti nei confronti dello Stato e dei pubblici poteri. Si sviluppa l'idea che il diritto non deve
avere solo una garanzia nei confronti dell'altro, questa dimensione orizzontale, ma debba avere una
garanzia in senso verticale, nei confronti di chi detiene ed eserciti il potere. Qui siamo agli antipodi
del Leviatano, dove la dimensione verticale era la dimensione della paura e della protezione. Certo
Hobbes non poteva pensare che bisognava esser protetti da chi ci dovrebbe proteggere. Un aspetto
che si afferma successivamente e che emerge dopo la Rivoluzione francese. Lo Stato, a differenza
dell'anciene regime, il sovrano, i governanti, devono veramente esser limitati nell'esercizio dei
propri poteri, una sorta di autolimitazione. Questo è possibile perchè si mettono in campo queste
garanzie nei confronti dei cittadini. Le principali tra esse sono quelle di tipo penalistico, ecco perchè
si parla di garantismo penale. Analizzeremo famosi brocardi che vengono formulati utilizzando
delle forme latine e che valgono a rappresentare l'idea garantista nel diritto penale: nullum crimen
sine lege o nulla pena sine lege, sono diversi ma fondamentalmente esprimono la stessa idea, cioè
che senza una legge retrostante e senza un provvedimento motivato della autorità giudiziaria,
nessuno possa esser assoggettato a limitazioni della propria libertà personale. Questo diventerà uno
dei princìpi cardine del diritto penale post-rivoluzionario. La libertà è diventata davvero un valore
fondamentale, è il primo dei tre princìpi rivoluzionari che la Rivoluzione francese fa valere: libertè,
egalitè, fraternitè. Quindi nonostante la nostra soggezione allo Stato, si rimane liberi (Rousseau), si
rimane liberi nei confronti dello Stato stesso, che non può assoggettare l'individuo a limitazioni
della propria libertà, se non per legge. Rousseau resiste ancora in questa concezione perchè se si
viene assoggettati a una limitazione di libertà, in base a una legge, è come rimanere comunque
liberi, perchè a quella legge si è dato il proprio consenso, si è contribuito alla sua formazione.
Quindi limitando la propria libertà in base a quella legge, è come se fosse un'autolimitazione della

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propria libertà, per propria decisione, quindi si rimane liberi obbedendo a quella legge. Stesso
principio per il provvedimento della autorità giudiziaria, perchè il giudice non può disporre
qualcosa se non in base alla legge. Come nell'ordinamento italiano, dove per dettato costituzionale
il giudice è soggetto soltanto alla legge. Questo vuol dire che tutto ciò che il giudice deciderà,
giudicherà, sarà deciso e giudicato in base alle leggi vigenti, il giudice non potrà mettere in campo
un argomento che non sia una norma di legge, per esempio non può decidere in base a un principio
di diritto naturale. Non a caso nelle sentenze penali e civili che si sente proclamare, il dispositivo
contiene la formula “ai sensi dell'articolo...”. Il giudice si pronuncia solo in base alla legge ed è
soggetto alla legge nel senso che nessun altro potere può influire su di lui, il giudice è indipendente,
se non appunto sottoposto alla sola legge.
Quindi tutto ciò a cui si può esser soggetti nello Stato, dipende solo dalla legge e dal giudice che
applica la legge. Certo anche in passato c'erano istituti e funzioni di tipo garantista, come la Magna
Charta Libertatum del 1215 inglese, che in alcune sue parti si basava su questa idea garantista, per
esempio che non si poteva esser arrestati se non per ordine del giudice. Ma è solo dopo la
Rivoluzione francese che questo principio diventa cardine dell'intero ordinamento, solo tra la fine
del Settecento e i primi dell'Ottocento che tutto questo viene teorizzato come un sistema di diritti
che i cittadini possono far valere nei confronti dello Stato. Quindi le pene, i reati, l'incriminazione,
devono dipendere dalla legge. Si pensi che fino a qualche decennio prima, i pubblici poteri, le forze
di polizia, le istituzioni carcerarie potevano verosimilmente impiegare il loro potere in modi e forme
che non erano strettamente normativizzati. Per esempio le forze di polizia potevano per esempio
arrestare, torturare e così via. Quando invece si afferma il principio garantista tutto questo non può
esser più fatto e se viene fatto l'agente di polizia o chi per lui diviene passibile di denuncia, compie
lui stesso un reato. Si ha una garanzia nei confronti dell'esercizio della forza dei pubblici poteri.
Cose come appunto la tortura, la carcerazione preventiva o l'incriminazione sulla base di sospetti
non possono più avere luogo.
Non a caso alla fine del 1700 non a caso circola in Europa Dei Delitti e delle Pene di Cesare
Beccaria. Un pamphlet giuridico in cui Beccaria afferma quasi in anticipo quanto detto fin'ora,
Beccaria precorre i tempi. Sul finire degli anni '70 del Settecento, prima in forma anonima, poi
circolando liberamente, il testo di Beccaria diventerà uno dei best seller del diritto nei Paesi
occidentali. Beccaria mette già in campo queste idee: certezza della pena, incriminazione solo sulla
base delle leggi, restrizione della libertà personale solo con provvedimento motivato della autorità
giudiziaria, basato sulle leggi anch'esso, abolizione della tortura e soprattutto abolizione della pena
di morte. Anche questo nell'ottica di Beccaria e del suo pensiero diventa una garanzia, che lo Stato
non disponga, attraverso lo strumento della pena, della vita stessa.
È rinata la discussione proprio recentemente sulla tortura, dopo l'attentato alle Torri Gemelle del
2001. In un carcere iracheno e in una base militare adibita a carcere militare, alcune detenuti furono
sottoposti a tortura perchè si riteneva che avessero informazioni importanti per sgominare attentati.
Fu poi teorizzato da alcuni giuristi americani un caso di scuola, il così detto caso del ticking bomb,
della bomba ad orologeria. Il caso viene formulato in questi termini, e la realtà dimostrò che
potevano accadere cose non così lontane. Se si avesse notizia di una bomba piazzata in un luogo
pubblico particolarmente frequentato, una bomba che sia impossibile da spostare perchè potrebbe
esplodere e la cui unica possibilità di essere disinnescata sia data da una combinazione alfanumerica
che solo chi ha creato il dispositivo conosce, e lo se Stato avesse tra le mani uno dei collaboratori
del gruppo terroristico che ha approntato questo ordigno e che si presume possa conoscere anch'egli
la combinazione, cosa si dovrebbe fare? Si dovrebbe torturare o no questo soggetto per ottenere le
informazioni?. Allora si mettono sul piatto della bilancia queste istanze, da un lato torturare il
soggetto per disinnescare la bomba, dall'altro mettiamo centinaia di vite umane. Molti giuristi si
scandalizzarono all'indomani della formulazione di questo caso, un caso che fece discutere. Infatti si
era dimostrato come in effetti l'opinione pubblica fosse sensibile a questo tema. Ancora non si parla
di tortura ma di pratiche che sono sempre ai limiti del garantismo. Se si avrebbe saputo in anticipo
la volontà degli attentatori delle Torri Gemelle, si avrebbe potuto disporre dell'abbattimento degli
aerei dirottati, in modo da scongiurare la morte di migliaia di persone?. Si sarebbe sacrificata la vita

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degli attentatori e dei passeggeri degli aerei, ma almeno numericamente inferiori rispetto alle
vittime delle Torri Gemelle. Tutti questi casi, questi argomenti, mettono in campo dei numeri,
quante vite si è disposti a sacrificare e quante vite si è disposti salvare, attraverso il sacrificio o la
tortura di qualcuno. Si è davanti alla prospettazione di un tipico dilemma, anche qui si calcola in
termini di costi e benefici, in modo utilitaristico. Vedremo poi cosa affermi questa corrente di
pensiero dell'utilitarismo. In questo caso quindi è più utile salvaguardare il principio del divieto di
tortura, o salvare il maggior numero di vite umane?. Si tratta di una decisione giuridico-politica, che
i rappresentanti del governo, l'autorità, deve decidere se permettere o meno questo.
Tra i primi padri dell'utilitarismo vi troviamo Jeremy Bentham. Ma anche Beccaria, ne Dei Delitti
e delle Pene, si ispira a questa filosofia utilitaristica, che circola accanto all'Illuminismo, negli
ambienti colti di Francia e Inghilterra, già alla fine del Settecento. Di fatto nel libro di Beccaria si
ritrova il vero argomento che smonta l'idea della pena di morte, non è un argomento basato sulla
dignità umana, sulla umanità delle pene, che la pena di morte sia disumana e aberrante. Beccaria
non dirà questo, ma una cosa più penetrante, dirà che la pena di morte è inutile, non produce l'utilità
sperata. L'utilità sperata è l'abbassamento del tasso di criminalità. Quindi un costo certo alto, come
quello appunto della pena di morte, un costo alto ma che dà in termini di utilità, un beneficio
immenso, cioè risolvere il problema della criminalità. Beccaria dimostra che dati alla mano,
statistiche alla mano, questo non è vero, anzi negli ordinamenti dove è prevista la pena di morte, il
tasso di criminalità aumentava, quindi la pena di morte non era utile a fini sociali. Anche perchè
dirà Beccaria che la psiche umana, l'animo umano (tant'è che anche gli utilitaristi si occuperanno
tanto di tale tema, di come si comportano gli uomini in determinate circostanze, in particolare
Bentham), dice Beccaria siano strani, gli uomini hanno meno paura di un male forte e improvviso,
limitato nel tempo, come la pena di morte, piuttosto che un patimento protratto per anni e anni ma
di minore intensità, come l'incarcerazione. Quindi se si vogliono delle pene utili si deve guardare a
qualcosa di diverso rispetto alla pena di morte, si deve guardare al carcere o ai lavori forzati. Se un
pluriomicida lo si condanna all'ergastolo, alla pena della reclusione, con i lavori forzati, per il resto
della sua vita, egli si pentirà e non penserà più di uccidere, perchè penserà che il rischio sia quello
di perdere la libertà, un valore più importante che perdere la vita. Se invece si sa che la sanzione a
cui si va incontro è quella della pena di morte, intanto l'individuo continua a delinquere, però
dovranno catturarlo, affrontare un processo, o addirittura se si inceppa la ghgliottina è addirittura
una delle cause di liberazione del condannato. Certo la morte è un momento, e fino a quel momento
si è potuto agire come meglio si è creduto. È proprio questo l'argomento più penetrante di Beccaria,
ed è un argomento utilitaristico.
Bentham più tardi dirà che due sono i grandi padroni della psiche umana, dell'animo umano, che ci
governano e ci assoggettano: il piacere e il dolore. La nostra psiche non fa altro che confrontarsi
costantemente con queste due forze a cui si è sottoposti, evitando, dice Bentham, il più possibile
l'una (il dolore) e massimizzando il più possibile l'altra (il piacere). Attenzione, sono in strettissima
connessione le due, alla minimizzazione dell'una corrisponde la massimizzazione dell'altro. In
termini utilitaristici, il dolore è rappresentato dai costi, dai patimenti, dalle pene, a cui si va
incontro, per realizzare qualcosa che invece dà piacere, per conseguire dei benefici. La psiche
umana funziona in questo modo, si cerca col minimo costo di ottenere il massimo vantaggio, il più
piacevole dei risultati. Il principio dell'utilità, si basa dice Bentham, su di un calcolo “felicifico”,
una traduzione italiana che esprime poco e male l'espressione inglese, ma Bentham vuole portarci a
riflettere su questo. Beccaria lo stesso quando ragiona sul garantismo penale, sulla pena di morte e
su tutte le altre pene. Beccaria afferma che si deve stabilire delle pene, che funzionino, che
rappresentino un costo tale, per i consociati, per arrivare a pensare che delinquere non sia più
qualcosa di conveniente. Perchè il diritto, questo è il motto di Beccaria, deve soddisfare alla fine la
maggior felicità per il maggior numero. Questa è un'altra tipica formulazione utilitaristica del
principio dell'utilità sociale. Quindi non solo questo principio funziona a livello individuale, a
livello psichico di ogni soggetto, che porta a compiere o non compiere certe azioni in base a dei
calcoli che si compiono, ma questo principio opera anche e soprattutto a livello sociale, facendo
funzionare la società in base a questo meccanismo della utilità, che appunto non è altro la maggior

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felicità del maggior numero di persone. Una formula che non afferma semplicemente che il bene
comune o la volontà generale coincidono con la volontà della maggioranza, per riprendere
Rousseau, ma afferma la maggior felicità per il maggior numero. Quindi per capire che cosa
garantire, che cosa assicurare, cosa proteggere o non proteggere, si deve guardare a una sorta di
calcolo felicifico a livello sociale, su larga scala, un calcolo che porta al raggiungimento della
felicità del maggior numero di persone. Certo ci sarà un minor numero che rimarrà scontento, certo
ci saranno delle minori felicità che pure potrebbero essere realizzate, promosse, ma sono appunto
minori, rispetto a una maggiore felicità, seguita, voluta, desiderata da un maggior numero di
persone. Dirà Bentham, conoscere in anticipo le pene a cui si va incontro, questo certamente porta
una maggior felicità per il maggior numero delle persone, questo è quello che la maggior parte degli
individui vogliono come bene maggiore, perchè così possono massimizzare la loro utilità, decidere
di comportarsi in un certo modo o modo diverso. Il diritto esprime questa tendenza. Dice Beccaria
che il diritto deve assecondare questa tendenza utilitaristica, individuale e sociale. Il diritto penale in
particolare ma non solo, tutta la legislazione deve essere improntata a questo principio e tendenza.
Non si tratta solo di una visione illuministica e razionalistica di codici, il legislatore illuminato
tipico dell'Illuminismo giuridico. Le cose sono più complesse, si affacciano in questo periodo
storico, all'indomani della Rivoluzione francese, molte e le più varie tendenze, tra cui anche quella
utilitaristica. Il diritto non solo deve essere ispirato dal lume della ragione, ma proprio perchè
ispirato dal lume della ragione non può non operare in base a un criterio utilitaristico. Perchè questi
calcoli, queste statistiche, queste proporzioni, queste proiezioni, del piacere, del dolore, dei costi e
dei benefici, chiaramente sono calcoli di tipo razionale.
A questo impianto che si potrebbe chiamare razionalistico e utilitaristico e che geograficamente si
situa all'incirca tra la Francia e l'Inghilterra, due Paesi che in questo periodo trainano l'Europa e il
diritto verso una fase nuova, come il Razionalismo francese e l'Utilitarismo inglese, si aggiunge
anche l'Empirismo, la tendenza che basa il diritto sulla realtà delle cose. Anche Locke per esempio
è ispirato su una visione empirista, ci si basa su quello che i sensi comunicano, appunto i sensi
comunicano piacere e dolore, ci fanno percepire qualcosa come piacevole e qualcosa come
spiacevole. Abbiamo quindi noi stessi la possibilità di regolare le nostre azioni e il diritto deve fare
specchio di questo, riflettere questa sensibilità e realtà delle cose. Da un'altra parte, il controcanto,
la critica a questo modello razionalisitco, utilitaristico, empiristico, viene fatta da quelle correnti, da
quei Paesi come la Germania, comunque i Paesi di area tedesca, che sviluppano una tendenza
culturale diversa. I Paesi di area germanica sviluppano una tendenza culturale diversa, dove non a
caso nasce una corrente che solitamente viene considerata opposta all'Illuminismo, cioè il
Romanticismo, il romanticismo tedesco. Esprimono una tendenza di tipo diverso, dicono qualcosa
che non va nel senso dell'utilitarismo, dell'empirismo, di ciò che vogliono i sensi, ma vanno nel
senso di ciò che vuole la storia, le tradizioni, i Popoli, i costumi, le antiche usanze. Un diritto che
affonda le proprie radici non nella psiche umana, ma nella storia di un Popolo, nel passato. Per
esempio il fascino dei romantici tedeschi per le rovine, le rovine classiche in particolare, del mondo
latino e greco. Per questi autori è qui che si deve guardare per vedere cosa sia il diritto, come
funzioni e che cosa sia il diritto, e che diritto darsi oggi. Anche nell'Ottocento per questi autori si
deve riconsiderare un diritto che già c'è e c'è sempre stato, il diritto della tradizione romanistica, il
diritto della Roma imperiale, vagamente interpretato durante il medioevo, rideterminato come Ius
Commune e che può valere anche oggi, perchè tale diritto rappresenta la nostra storia, la storia dei
Paesi Europei. Lo storicismo è una tipica istanza dei movimenti romantici, di critica
all'Illuminismo. La Scuola Storica del Diritto nasce e si sviluppa nei primi anni dell'800 nei Paesi
di area tedesca. Suo fondatore è un grande giurista, professore di storia del diritto romano:
Frederick Von Savigny. Questo, all'indomani della codificazione del diritto del 1804, afferma che si
deve resistere alla tentazione dei codici e della codificazione francese, che Napoleone vuole
esportare anche nei Paesi di area tedesca. La codificazione è la morte del diritto, perchè non
consente a questo di attingere alle proprie radici, di realizzare la storia del proprio popolo, di cui il
diritto dovrebbe essere espressione, e di svilupparsi storicamente anche nel futuro. La codificazione
del diritto recide il legame tra diritto e storia, è come se fosse una istantanea la codificazione del

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diritto, una fotografia che fotografa il diritto in quel dato momento, e che poi lo rende astorico,
valevole per tutte le età e soprattutto non lo determina come diritto di un certo popolo, con la
propria storia e i propri usi, ma lo fa apparire come un diritto, come era l'intento dei codificatori
francesi, valevole per tutti i popoli, tutti i luoghi e tutti i tempi, proprio perchè frutto della ragione
illuminata. Un diritto che si sono dati i francesi, ma se lo sarebbero potuto dare identico altri Popoli,
perchè frutto della ragione, uguale in tutti gli uomini. Questo ideale illuministico viene criticato dai
rappresentanti della scuola storica del diritto, come Savigny, per cui non è il codice a dover ispirare
il diritto, ma le consuetudini di un popolo. Un diritto consuetudinario che non è stato mai codificato,
immesso in forma di legge, ma che si è sempre seguito, tradizionalmente, nella convinzione che tali
comportamenti tenuti e tramandati di generazione in generazione fossero comportamenti vincolanti,
comportamenti giuridicamente significativi, che corrispondessero a diritti. Ancora oggi, anche se in
misura molto limitata, tra le fonti del diritto compaiono, al di sotto della legge, regolamenti e così
via, le consuetudini. Per esempio le consuetudini mercantili, alcune consuetudini agrarie. Certo oggi
è un diritto residuale. Ma si immagini la scossa data dalla codificazione, un diritto che sta nei codici
e si doveva perciò mettere fine a tutta una serie di consuetudini, i codici regolamentavano tutto,
ogni aspetto della vita pratica. La legge e le leggi dello Stato predeterminavano ogni cosa. Per
Savigny non si può porre fine a tutto questo con una legge, a tutto quello che un Popolo ha fatto in
tanti anni di storia, come può la legge o un codice istituire qualcosa dal nulla o imporlo, come
qualcosa che vale per tutti, quando invece ogni popolo, ogni mercato, ogni città ha le sue tradizioni
e usi. Savigny afferma che si deve far sì che emerga questo diritto consuetudinario e anziché
individuare il legislatore come colui che statuisce il diritto, si deve affidare tutto il diritto nelle mani
dei giuristi, nelle mani dei grandi conoscitori del diritto e della storia del diritto, i quali soltanto
possono dire quale sia il diritto vigente oggi in ogni luogo, perchè conoscono il diritto, lo conoscono
storicamente. Un diritto che non c'è bisogno di statuirlo e metterlo nei codici, il diritto già c'è, va
solo mostrato, spiegato. Questo è quello che Savigny pensa, in particolare con riguardo al ruolo
della dottrina. Oggi nei manuali appunto si studia la dottrina, così come creata da scienziati del
diritto, che non sono esegeti del codice. Non a caso in Francia si sviluppa la scuola dell'esegesi, che
si oppone alla scuola storica del diritto. Gli esegeti sono questi scienziati del diritto che invece
considerano il Codice come centrale e decidono di fare l'esegesi del codice, il commento letterale
delle singole disposizioni di tutti i codici. Mentre in un manuale, come in un manuale di Savigny, vi
si ritrova spiegato il diritto privato come quel diritto a base romanistica, ritrovandovi più strati di
diritto romano così come riadattato, in un manuale scritto da un esegeta francese ritroviamo il diritto
come un commento sistematico a tutte le norme del Code Civil. Due visioni completamente
differenti, che producono dei risultati. In Francia il codice nasce subito agli inizi dell'Ottocento,
mentre in Germania la scuola storica del diritto è così forte, l'opinione pubblica è così aderente a
questo ideale storicistico e romantico, che il primo Codice tedesco arriverà solo nel 1900 (BGB).
Questo quando tra l'altro il Paese è unificato e diventa difficile stabilire quali siano i diritti
consuetudinari e costumi di un Popolo, proprio perchè la Nazione tedesca è ora formata da tanti
popoli: Bavaresi, Prussiani, Sassoni e così via. Allora si deve omologare e uniformare tutto. Questo
naturalmente può farlo solo un Codice Civile. Savigny e i suoi seguaci sicuramente avrebbero
certamente osteggiato e criticato questo modo di unificare il Popolo, una nazione, omologando il
diritto e rendendolo uguale per tutti. Per Savigny si deve valorizzare le storicità, diversità peculiarità
di ciascun popolo.
Vedremo come questo secolo si svilupperà il confronto tra questo formalismo giuridico, il diritto
messo in forma, la forma della legge, del codice, forme razionali, e l'antiformalismo giuridico, un
diritto indeterminato, un qualcosa che sempre ribolle, che va letto storicamente e la preminenza di
altre figure, che non sono per esempio il legislatore, ma sono i giuristi, sono i giudici che
interpretano il diritto e lo adeguano alle esigenze della storia e lo caratterizzano nel senso specifico
delle esigenze di un certo popolo. I giudici, i giuristi, gli interpreti, costoro sono coloro che devono
fare il diritto, non invece il legislatore, non l'organo politico. Si creerà questa contesa tra l'organo
politico rappresentante del popolo e i tecnici e operatori del diritto, professionisti e giuristici, i
giudici del diritto, che non sono legittimati come invece il legislatore, sono l'elitè, delle aristocrazie,

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ma che fanno l'interesse del popolo, che deve guardare a quello che fanno i giuristi e non i politici, a
quello che predispone il legislatore.

(24/11/21)
• LA FILOSOFIA DEL DIRITTO NELL'OTTOCENTO E NOVECENTO
Abbiamo analizzato due teorie che si confrontano dal 1830 in avanti, la Scuola Storica del Diritto di
area germanica, la quale sostiene qualcosa di diverso e contrastante con quanto sostiene la
tradizione dell'Illuminismo giuridico. Analizzeremo poi anche l'utilitarismo inglese di Bentham. La
Scuola Storica del diritto sostiene la non opportunità della codificazione, avanza la proposta teorica
del tutto insolita in questa fase illuministica, che risente già degli stimoli del romanticismo, l'idea
che il diritto debba esser fondato, ritrovato e giustificato storicamente, nelle peculiarità di ciascun
popolo. In quello che appunto Savigny chiamava lo spirito del popolo, volkgeist. Un qualcosa che è
difficile da individuare, non è ben determinato. Già è difficile definire i contorni di un popolo. Si
pensi alla Germania, formata da diversi popoli, oggi i Lander, che hanno la loro specificità
culturale, le loro storie, i popoli della Germania del nord sono diversi dai popoli della Germania del
sud e così via. È difficile individuare un concetto unitario di popolo, ma Savigny voleva dire questo,
più il diritto è specifico, più è aderente alla storia di un determinato popolo, alle sue consuetudini,
costumi, usi, più quel diritto è vero, reale, qualcosa che non costringe qualcuno con la forza della
legge, non uniforma e non omologa. L'accusa che gli storicisti muovono contro i codicisti. La
codificazione infatti promuovo una uniformità del diritto.
La critica che gli storicisti muovono contro i codicisti è proprio l'astoricità del diritto, questa perdita
di legame tra la storia e il diritto, compiuta con la codificazione. Per Savigny la consuetudine è un
prodotto della storia, fa parte della storia di un popolo. La codificazione invece va oltre tutto questo,
pone l'idea di un legislatore razionale, di un legislatore che può scrivere un codice, può fare
qualsiasi tipo di legge, a prescindere dai condizionamenti storici. Anzi gli unici due fari che devono
guidarlo nella codificazione sono il dogma della completezza e il dogma della coerenza. Quindi il
legislatore potrebbe compiere un'opera matematica, il legislatore, quasi come formule matematiche,
può creare delle norme in cui disciplinare alcune fattispecie con delle sanzioni. Questo si potrebbe
fare in modo del tutto astorico, anzi per superare le differenze tra un certo popolo e un altro, tra la
storia giuridica di una regione e un'altra regione, in Francia infatti vi è questo fenomeno
problematico del particolarismo giuridico, la Francia si è unificata non da tanto e nella sua
unificazione ha dovuto ridurre il particolarismo giuridico (Voltaire annotava che in Francia era
possibile cambiare così tante coutumes quanti cavalli necessari per attraversarla). Anche la Francia,
divisa in tante regioni con ognuna suoi usi e consuetudini, ha visto nella codificazione proprio
l'occasione di eliminare queste differenze e creare un diritto nuovo, uguale per tutti, che prescinde
dalle storicità e specificità di ogni regione. Savigny in particolare critica uno dei grandi
rappresentanti dell'Illuminismo Giuridico e della codificazione, Thibaut, il quale sostiene appunto
che il codice sia un prodotto perfetto, matematizzato della ragione umana, una ragione universale
che può esser riferita a tutti i popoli, in tutti i punti della Terra e in tutti i momenti storici.Savigny
criticherà questo modo di concepire il diritto, il diritto che non è qualcosa che va ricercato in una
ragione universale, che unifichi rendendo tutti uguali i popoli, ma il diritto è qualcosa che va
ricercato nelle consuetudini, nelle storie dei vari popoli, nelle specificità dei vari popoli. Certamente
la base del diritto romano, per Savigny costituisce una base unificante, che la storia giuridica di
molti popoli europei condivide. Ma Savigny afferma che non sia un diritto razionale e universale il
diritto romano, è un diritto che si è prodotto storicamente e siccome si sono poi prodotti incontri tra
varie culture del Nord e centro Europa, dapprima con la colonizzazione romana e poi con le
invasioni barbariche, allora questi incontri-scontri tra culture dei popoli di queste aree europee,
hanno prodotto una assimilazione del diritto romano, una interpretazione del diritto romano, lo ha
adattato ai propri usi e costumi ed è a questo che si deve guardare. Questa è forse la prima delle
istanze antiformalistiche che si sviluppano nel corso dell'Ottocento e che arrivano a buona parte
dell'Ottocento. C'è una reazione a quello che i giuristi, i critici dell'Illuminismo giuridico
chiameranno Formalismo Giuridico. Formalismo Giuridico perchè il diritto che sta nei codici, lo

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studio del diritto come esegesi del codice, e soprattutto la concettualizzazione di ciò che sta nei
codici, rischiano di ridurre il diritto a mera forma, a una forma, poiché per il giurista conterà di più
la forma del diritto, come il diritto risulta formato, non a caso Kelsen, che sarà uno dei
rappresentanti del formalismo giuridico, che il diritto è intanto una norma, non può assumere altre
forme altre forme che quella della norma giuridica, che ha anch'essa una forma standard. È un
giudizio ipotetico, la sua forma è: se A, deve essere B. Nel formalismo il diritto verrà sempre più
studiato come un linguaggio, una struttura logico-formale. Un autore come Kant che già va verso
questo formalismo, questo intellettualismo delle forme giuridiche, con l'a priori della giuridicità,
con l'imperativo categorico e ipotetico, le forme del diritto e della morale, fino ad arrivare a Kelsen.
Questo lungo filo che unisce questi due autori è un filo che passa attraverso il formalismo giuridico.
I critici saranno invece rappresentanti dell'Antiformalismo Giuridico, che assumerà diverse forme,
declinato in diversi modi, a seconda del diverso pensiero, che vengono tutte accomunate in questa
formula dell'antiformalismo. Lo storicismo giuridico sono tra i primi movimenti antiformalistici.
Accenneremo ad altri movimenti antiformalistici, come il Movimento per il Diritto Libero,
l'Istituzionalismo e soprattutto il Realismo Giuridico dei primi del '900. Del Realismo giuridico
abbiamo già anticipato che si ricerca il diritto non nella validità formale delle norme, ma nella
efficacia delle norme stesse, che può esser posta solo sul piano dei fatti, della realtà.

• UTILITARISMO GIURIDICO E JEREMY BENTHAM


In questo confronto si inserisce l'Utilitarismo Giuridico, di cui certamente fa parte Beccaria, anche
se l'autore di riferimento è Jeremy Bentham, autore inglese della fine del 1700 e dei primi anni del
1800. Abbiamo già anticipato la sua idea di utilità sociale, il collegamento tra diritto e utilità
sociale, analizziamo ora la critica che Bentham rivolge al sistema di Common Law. Bentham
rimane affascinato dai sistemi di Civil Law, i sistemi giuridici dell'Europa continentale. Un autore
che critica il proprio sistema giuridico, quello inglese, sulla base del principio della certezza del
diritto, perchè per Bentham il Common Law aumenta l'incertezza, e l'incertezza aumenta il dolore e
fa diminuire il piacere. Qualcosa che certamente non va nella direzione della massimizzazione della
utilità individuale e sociale. Se non si sanno le conseguenze giuridiche del proprio comportamento,
certamente non si trae da questo un piacere, un qualcosa che non massimizza la propria utilità,
sarebbe molto utile invece per gli individui, sapere in anticipo quali siano le leggi e quali siano le
previsioni che queste leggi attuano. Siccome nei sistemi di Common Law lw leggi previe non
esitono, non esiste un sistema di codificazione, di legislazione, ma tutto viene basato sui precedenti
giurisprudenziali, sulle decisioni che altri giudici, altre corti, hanno preso precedentemente, e che
evidentemente i cittadini non possono conoscere nel dettaglio a differenza della legge, che invece è
pubblicata e resa nota a tutti previamente. Questo sistema pe Bentham produce incertezza, quindi
non è certamente utile. C'è una critica contro la Common Law che Bentham conduce e su cui ci
soffermiamo. Essa ha a che fare col principio della irretroattività della legge, tipica espressione del
garantismo penale. Infatti si parla di principio di irretroattività della legge penale, per quanto poi
questo principio dal diritto penale sia diventato principio generale di tutto l'ordinamento. Nasce
come principio del diritto penale, quindi la legge penale non può che disporre per il futuro, non può
riferirsi a fatti che sono avvenuti in passato, precedentemente alla approvazione di quella legge e la
sua entrata in vigore. La legge qualifica un comportamento come reato e da quel momento in poi,
quel comportamento potrà essere considerato reato, certo non prima della venuta ad esistenza di
quella legge. È una forma di garanzia, solo in questo modo è possibile che ciascun cittadino abbia la
possibilità di comprendere e di conoscere quale sarà il suo destino, nel porre in essere un certo
comportamento, infatti quel comportamento potrà esser giudicato secondo le leggi vigenti al
momento in cui il comportamento è stato posto in essere, secondo leggi che in quel momento
vigono e non secondo leggi che arriveranno successivamente e che potranno disporre anche nel
passato. Bentham afferma che con la Common Law accada proprio questo. Intanto non ci sono
leggi vere e proprie, è un sistema che non basa il suo funzionamento sul diritto scritto e codificato,
ma si basa sul precedente giudiziario. Il precedente giudiziario funziona secondo questa modalità,
per esempio qualcuno pone in essere un certo comportamento, non essendo però chiaro che quel

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comportamento sia lecito o meno, mancando una legge che qualifichi quel comportamento. Un
giudice però ritiene, o chi denuncia questo comportamento ad un giudice, che quel comportamento
potrebbe essere ritenuto da un giudice come vietato, quindi come illecito. Il processo instaurato è
volto a stabilire non se sia stato tenuto quel comportamento, ma se quel comportamento tenuto sia
da considerare lecito o illecito. Il giudice, afferma Bentham, non avendo altri criteri, non avendo
una legge scritta con cui valutare il fatto, ricercherà nel repertorio delle pronunce dei giudici
precedenti. Solo dopo che il giudice avrà trovato una decisione analoga al sua caso, potrà decidere
se stare (principio dello stare decisis), di rimanere, di utilizzare quella pronuncia, emessa da un
giudice precedente, senza mutare l'indirizzo giurisprudenziale. Stare decisis significa proprio di
rispettare il precedente giudiziale. Infatti nel Common Law i precedenti hanno una certa forza
vincolante. Il giudice però potrebbe anche, ma deve motivarlo, di non stare, di innovare, e decidere
in modo difforme. In ogni caso, sia che si decida di stare come di innovare, il cittadino è soggetto
alla mercè del giudice, che andrà a ricercare queste sentenze, deciderà di stare o non stare, ma solo
alla fine del processo, quando il giudice deciderà, il cittadino potrà sapere se il comportamento sia
vietato o meno, solo a quel punto il cittadino saprà di aver commesso qualcosa che in quel momento
viene dichiarato illecito, oppure lecito. Certo tutte le sentenze si riferiscono per forza a fatti
commessi prima dei processi. Ma siccome la sentenza diventa una sorta di legge per il cittadino,
allora quella è una legge che certamente sta producendo sicuramente degli effetti retroattivi, infatti
si riferisce a un comportamento che è stato posto in essere prima della sentenza stessa. Siccome la
sentenza non è semplicemente una mera sentenza, ma è attribuzione di liceità o illiceità di un
determinato comportamento e quindi di fatto funziona come una legge, per Bentham finisce per
violare apertamente il principio di irretroattività delle leggi. Meglio sarebbe per Bentham un diritto
codificato. Da autore inglese Bentham guarda al modello codicistico francese, un diritto codificato,
conoscibile, alla portata di tutti, che attribuisca diritti e obblighi, sanzioni, pene, che metta in
condizione tutti di fare i propri calcoli felicifici e che quindi massimizzi la felicità, la felicità
maggiore per il maggior numero (Beccaria). Altra parte importante di questo discorso che compie
Bentham, è il modo in cui viene esposta questa tesi. Bentham afferma che certamente quello che si
sta proponendo qui, partendo dalla critica del diritto vigente e auspicando un diritto diverso da
quello che c'è in Inghilterra, riguarda un piano del discorso in cui si parla del diritto come dovrebbe
essere.
Ma attenzione a confondere del diritto come dovrebbe essere, discorsi fatti sul diritto diverso da
quello che è, con i discorsi che i giuristi fanno sul diritto come è, non sul come essere del diritto ma
l'essere del diritto. Bentham insiste su questa distinzione perchè un conto è descrivere il diritto,
esporlo, quasi come se dovesse essere fatta una lezione su di esso, spiegato quale sia il diritto
vigente, altro conto è dire invece come dovrebbe essere quindi non fare un compito meramente
espositivo e descrittivo, ma un compito prescrittivo, valutativo.
Molto spesso i giuristi, secondo Bentham, fanno l'errore di mettere insieme questi due piani del
discorso. Per Bentham si deve cercare di distinguere i due piani. Bentham è uno dei primi autori che
distingue questi due modi attraverso cui si può studiare e parlare del diritto. Due modi che Bentham
chiama usando il termine jurisprudence, un modo è detto expository jurisprudence (giurisprudenza
espositoria) e l'altro censory jurisprudence (giurisprudenza censoria). Jurisprudence qui indica,
nella tradizione giuridica e terminologia inglese, proprio lo studio del diritto, la scienza del diritto,
l'attività degli studiosi. Questo se si vuole è anche il motivo per cui il termine giurisprudenza,
tradotto letteralmente, anche in quei Paesi che inglesi non sono, è ancora il termine designato per
indicare i corsi di laurea, le facoltà di studi giuridici. Fare attenzione al termine, perchè nel mondo
non anglosassone, il termine giurisprudenza ha finito per indicare anche una cosa in parte diversa,
l'insieme delle decisioni dei giudici. Bentham resta fedele al termine, che prima di avere una origine
inglese, ha una origine latina (iuris prudentia), che indicava un essere esperti del diritto (prudentia
nel senso di esperienza). La cosa interessante che Bentham individua due modi di fare
jurisprudence, di studiare il diritto. Un modo espositivo e un modo censorio, un modo descrittivo,
un modo avalutativo, e un modo valutativo, prescrittivo. Importante per Bentham è tenere separati
questi due piani del discorso. Bentham rientra in quello schema secondo cui il diritto diventa, da

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questo momento in poi, un oggetto di studio, un qualcosa che si autodefinisce, viene limitato
rispetto a tutto il resto e può essere studiato come gli scienziati studiano la natura o qualche
fenomeno ben individuato. Anzi una delle operazioni che ci consente di delimitare il diritto, rispetto
ad altri fenomeni simili (Kant e la distinzione tra diritto e morale), è proprio il modo di studiarlo
scientificamente, quindi il modo in cui Bentham decide di tenere separati discorsi. Dal punto di
vista descrittivo ed espositivo si può per esempio distinguere una cosa, una norma giuridica, da una
norma che giuridica non è, una norma giuridica da una norma morale, una norma che esiste, che
vige, da una norma che non vige più. Questo si può fare adottando un atteggiamento di tipo
avalutativo e descrittivo. Per esempio si può notare che un diritto che viene rivendicato non
corrisponde ad una norma posta, ad una norma vigente stabilita e dotata di una sanzione, allora
questo diritto, la norma che questo diritto presuppone, non è ancora diritto, forse potrà diventarlo,
forse dovrebbe diventarlo (giurisprudenza censoria), ma ad oggi non è diritto, ma è morale. Quindi
servono questi due tipi di jurisprudence, proprio per delimitare il più possibile il campo del diritto e
far sì che il diritto diventi sempre di più oggetto di studio e di conoscenza scientifica.
Questo modo di studiare il diritto va tenuto presente, perchè vedremo come diventerà un modo
tipico della jurisprudence anglosassone. Una modalità che poi si trasmetterà anche al mondo
continentale. Analizzeremo l'allievo di Bentham, Austin, poi come questo metodo passi nell'Europa
continentale ed adottato anche da un autore come Kelsen, al quale interesserà solo ed
esclusivamente la giurisprudenza descrittiva, avalutativa. Una volta posta questa distinzione, gran
parte degli autori, come vedremo, si interesseranno solo di come il diritto è, come per esempio
quando Kelsen parla di fare una dottrina pura del diritto, uno studio depurato da qualsiasi influsso,
qualsiasi ideologia e preconcetto. Lo scienziato deve porsi davvero in modo avalutativo e descrivere
in termini oggettivi e neutrali il diritto. Ultimo accenno si può fare anche ad un'altra idea di
Bentham, legato alla jurisprudence censoria, come il diritto dovrebbe essere, per realizzare al
meglio il principio della utilità. Bentham pubblica un'opera rimasta ancora oggi originalissima,
perchè inaugura un nuovo modo di guardare il diritto, che oggi trova molta attuazione. L'opera si
intitola Panopticon, come dice il termine stesso latino, vuol dire vedere tutto. L'opera in realtà ha a
che fare con il progetto, non una relazione sulle carceri esistenti, ma progetto di un carcere ispirato
a dei modelli e principi, di massima utilità. Un opera che Bentham compie, insieme a un suo amico
architetto. Questo scritto è corredato a tutto un insieme di disegni e progetti, che spiegano il
funzionamento della struttura di questo carcere, che è basato sulla idea del Panopticon. Idea di
fondo è di realizzare un carcere nuovo, che a differenza dei carceri tradizionali dove le guardie
carcerarie dovevano continuamente girare per tutte le celle per controllare i carcerati, si compone ed
ha una struttura diversa. Il carcere ha una struttura circolare o semicircolare, tutte le celle sono
disposte a raggiera e guardano tutte un unico centro, una torre al centro, dotata di vetri oscurati, tali
per cui chi controlla vede tutto, ma non è mai visto. Quindi i detenuti non sanno se davvero in quel
determinato momento siano controllati effettivamente oppure meno. Quindi dovranno presumere
che un guardiano ci sia sempre. Un principio molto attuale, che sta dietro alla videosorveglianza.
Questa è in realtà una implicazione contemporanea, Bentham lo riferiva al discorso carcerario,
perchè nelle carceri all'epoca succedevano una serie di eventi che creavano subbuglio, come
ribellioni, evasioni, reati nei carceri. Quindi si cercava un modo per controllare ma non esser
controllati, con la massima efficienza. Questo perchè con tale progetto e metodo sarebbe stato
possibile non avere necessariamente un gra numero di guardie carcerarie per il controllo costante
dei carcerati, ma ci si poteva basare sul fatto che il panoptismo divenisse qualcosa di efficace, l'idea
che ci sia sempre qualcuno dietro i vetri oscurati avrebbe fatto comportare i detenuti in un certo
modo. Quindi riducendo i costi, riducendo il numero di secondini, cambiando progetto, si potevano
massimizzare i benefici, un controllo più penetrante, un tasso di criminalità minore nel carcere. Si
ritornerà su tale principio panoptico, ed oggi il diritto ha per molti versi una declinazione
tipicamente panoptica, anzi si dice che il diritto non sia altro che questo strumento che dovrebbe
consentire sempre di vedere, di sanzionare, senza però essere scoperti, essere visti. L'idea che
Bentham ha alla fine del Settecento è una idea originale per quel tempo e attualissima ancora oggi,
in cui i meccanismi di videosorveglianza, di automatismo, di rilevamento dei comportamenti

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illeciti, di erogazione delle sanzioni, è come se mettessero in pratica questo modello.


(29/10/21)
• BENTHAM E AUSTIN
Abbiamo analizzato Bentham, autore utilitarista e già precursore del positivismo. Bentham non fa
riferimento a cose come il diritto superiore o un diritto naturale.
Un autore utilitarista, che è già dentro al positivismo giuridico, si parla di positivismo giuridico
inglese legandovi spesso Bentham, anche se si muove in un contesto storico e filosofico differente.
Ma già molte cose che aveva anticipato Hobbes si ritrovano anche in Bentham, questa idea per cui il
diritto promana sempre dalla fonte sovrana, anche se in Bentham vi è evidenziato qualcosa che in
Hobbes era implicito: l'utilità che il diritto deve avere. Quindi non principi di diritto superiore o
naturale, ma il criterio della utilità come unico criterio che deve guidare il sovrano, il legislatore,
nella statuizione del diritto. Una statuizione che è tutta nell'ottica del diritto positivo. È al diritto
positivo che si deve guardare, soprattutto quando si fa giurisprudenza espositoria, cioè quando si
descrive il diritto. Nel descrivere il diritto non si può far certamente altro che constatare quale sia il
diritto esistente, il diritto posto. Questo è il compito primario del giurista, se poi il giurista vuole
fare anche il politico del diritto, il censore (giurisprudenza censoria), parlerà del diritto come
dovrebbe essere. Per Bentham è importante distinguere i due piani del discorso, se così non si fa, si
incorre nello stesso errore che facevano gli autori giusnaturalisti, che confondevano il piano
descrittivo con il piano prescrittivo del diritto. Questo avviene anche nel considerare lo stato di
natura come qualcosa che precede lo stato politico, e nel dire che nello stato di natura le cose sono
in un certo modo, per poi concludere che proprio perchè sono così allora le cose nello stato politico
devono rimanere così, o diventare in altro modo. Per Bentham questo è un modo di ragionare
fallace, un conto è descrivere le cose così come stanno, un conto è dire come le cose dovrebbero
essere.
Questo è un modo di ragionare che tra l'altro un autore dello stesso periodo di Bentham, un filosofo
scozzese molto noto, anch'egli vicino all'empirismo e utilitarismo inglese, David Hume, aveva
formulato in termini teorici precisi, al punto che la teoria di Hume viene ancora chiamata oggi la
legge di Hume, come se questo filosofo avesse quasi enunciato un principio legislativo per il
pensiero e le operazioni di ordine logico. Hume dice proprio questo, non si può logicamente
derivare delle prescrizioni, delle conclusioni prescrittive, da asserzioni, da enunciati di tipo
descrittivo e viceversa, questo sul piano logico e del ragionamento. Sul piano delle valutazioni,
delle opportunità e della morale il discorso è diverso, ma a Bentham intanto interessa mostrare
l'errore in cui incorrono i giusnaturalisti e in tutti coloro che appunto non distinguono i discorsi
descrittivi dai discorsi prescrittivi e non evitano di sovrapporli, che non evitano di far derivare il
prescrittivo dal descrittivo e viceversa.
Per Bentham un conto è la giurisprudenza espositoria e un conto è la giurisprudenza censoria.
Il principale allievo di questo autore è John Austin, che scrive un'opera considerata importantissima
anche per tutto il secolo successivo, intitolata Delimitazione del Campo della Giurisprudenza, il
termine giurisprudenza qui è sempre inteso nella accezione inglese, cioè lo studio del diritto.
Lo scopo della riflessione di Austin è quello appunto di delimitare il campo di lavoro della
jurisprudence, dello studio del diritto, di cosa si debba occupare questo studio del diritto, cosa deve
fare il giurista nella sua attività di studioso, che tipo di discorso deve produrre. La lezione del
maestro, Bentham, viene portata avanti da Austin, che sostiene sostanzialmente due piani del modo
di fare jurisprudence. C'è un piano analitico, non a caso Austin verrà considerato fondatore della
analitic jurisprudence, della giurisprudenza analitica, e poi un piano diverso, che Austin chiama
politica del diritto o scienza della legislazione, ma questo piano si occupa di come il diritto
dovrebbe essere per essere più giusto, migliore di quello che è, si occupa delle valutazioni del
diritto, di giudizi di valore o di opportunità del diritto. Si occupa anche della scienza della
legislazione, cioè di come si può pensare prima ancora di fare le leggi, a fare le leggi migliori in
assoluto. Questo in un certo senso, dice Austin, non è il compito precipuo dei giuristi. È un compito
che spetta ai politici, ai legislatori. I giuristi si devono invece occupare di studiare il diritto in modo
analitico. Intanto certamente in un modo descrittivo, in particolare questo modo descrittivo funziona

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nel seguente modo. Austin propone di strutturare la descrizione del diritto su due piani, o in due
momenti: una giurisprudenza generale e una giurisprudenza particolare. È interessante cogliere
il rapporto tra queste due giurisprudenze, questi due modi di descrivere il diritto, anche se pur
sempre due modi descrittivi. Mentre la jurisprudence generale astrae in qualche modo dal singolo
ordinamento giuridico concreto e cerca di confezionare dei concetti giuridici che possano valere per
tutte le esperienze giuridiche e tutti gli ordinamenti giuridici, la jurisprudence particolare si
occuperà di descrivere un particolare e dato ordinamento giuridico. È evidente come un legame tra
il particolare e il generale ci sia e come dalla descrizione di tutti i singoli particolari ordinamenti
giuridici il giurista possa, sempre sul piano descrittivo, attraverso questo metodo analitico,
formulare dei concetti più generali, che sono sempre descrizione del diritto così come è, come
appare, nella maggior parte degli ordinamenti giuridici vigenti. Per esempio la proprietà privata può
esser disciplinata in modi diversi dai diversi ordinamenti, in un ordinamento può esser limitata da
esigenze di interesse pubblico, in un altro può esser disciplinata in modo diverso, però la proprietà
privata ricorre in tutti gli ordinamenti giuridici, quindi in sede di giurisprudenza generale si può
concettualizzare la proprietà privata, come un concetto giuridico, come un qualcosa che esiste in
tutti gli ordinamenti, che fa parte del diritto ed esprime il diritto, che lo rappresenta, non che
dovrebbe rappresentarlo. Non si sta auspicando che il diritto debba includere un istituto come la
proprietà privata, ma si prende atto che il diritto positivo disciplina già qualcosa come la proprietà
privata. Allora tale proprietà privata si può concettualizzare. La giurisprudenza generale cerca di
cogliere l'essere del diritto, e non può che farlo descrivendo e concettualizzando il diritto così come
è, astraendo dal diritto così come è questi concetti generali.
Questo è il metodo analitico, quel metodo che è proprio degli scienziati in senso stretto. Con Austin
siamo alla metà dell'Ottocento, in cui il modello predominante di scienziato è quello delle scienze
esatte. Tutti questi autori cercheranno di prendere il modello delle scienze esatte e di applicarlo al
campo del diritto. Chiaramente quel modello si basa su un metodo analitico, perchè vuol dire
analizzare la realtà, vuol dire scomporla per ricomporla a livello concettuale. Un conto sono i
singoli numeri, anche in matematica, un conto è il concetto stesso di numero. In fondo la
matematica fa proprio questo, non solo spiega come funzionino i numeri (matematica particolare),
ma la matematica generale ci spiega anche cosa sia il concetto di numero, perchè esista qualcosa
come il numero, oppure anche il concetto di zero od infinito e così via. Anche la matematica ha
bisogno di concettualizzare, di astrarre, di analizzare la realtà per farne poi dei concetti.
Analizzare vuol dire anche, dice Austin, distinguere una cosa da un'altra, un istituto da un altro,
distinguere un concetto da un altro concetto. Per esempio il concetto di validità delle norme, che
sarà affrontato da Kelsen, dal concetto di efficacia delle norme, che sono due cose diverse. Spesso
infatti si fa confusione, si considera la validità in termini di efficacia o viceversa, perchè non si è
sufficientemente analitici, non si distinguono a livello concettuale due aspetti diversi.
Quindi metodo analitico, concettualizzazione, fare gli opportuni distinguo, descrivere in termini
generali ciò che figura a livello particolare: questo è il compito proprio del giurista, questo è
delimitare il campo della jurisprudence. Quindi sempre meno il giurista diventa un moralista o un
filosofo del diritto nel senso tradizionale del termine mentre sempre più diventa uno scienziato del
diritto, un tecnico, un espositore, un concettualizzatore del diritto. Questo metodo è importante
perchè si afferma come predominante per il tempo successivo e viene utilizzato da Kelsen, il quale
parlerà non a caso della jurisprudence, della scienza del diritto, ovvero una scienza pura del diritto,
una scienza esclusivamente concettuale, una scienza formale fatta di concetti, che non si confronta
più con cose come la morale, la religione, la politica, ma che cerca di autonomizzare il diritto, farne
oggetto scientifico di studio e di approcciare e studiare il diritto nel modo più puro possibile,
depurato da tutte le ideologie e da tutti i condizionamenti esterni che vi possono essere.
La cosa interessante in Austin è che questo autore riflette e applica questo metodo analitico e cerca
di cogliere queste costanti nel diritto vigente, queste categorie e concetti con i quali a livello
generale possiamo comprendere il diritto, possiamo descriverlo, rappresentarlo, e afferma che se
guardiamo il diritto estraendo dal particolare una giurisprudenza generale, studiamo con metodo
analitico, emerge che il diritto altro non è, in altro non possiamo rappresentarlo se non nella forma

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del comando. Il diritto è un comando, un insieme di comandi. Analizzeremo poi come descrive
Austin questa forma di comando, intanto tramite questo studio analitico, deduttivo dal particolare a
generale, Austin ha finito per considerare la forma precipua del diritto nella forma del comando.
Ciò vuol dire che tutto il diritto vigente è leggibile in termini di comandi, un concetto applicabile al
tutto il diritto quello del comando. Non è un concetto valutativo, prescrittivo, ma descrittivo,
descrive la realtà del diritto così come è. Il diritto ha a che fare con il comando, afferma Austin, e
descrive anche il modo del comandare della autorità sovrana. Intanto si deve dire che questo
comando, questa forma del comando, permette a Austin di distinguere già in prima istanza, le leggi
proprie da quelle improprie. Con un concetto derivato analiticamente si può quindi distinguere le
leggi proprie del diritto da quelle improprie, una distinzione importante, serve a includere nel
diritto, a riconoscere proprie del diritto alcune leggi e a non riconoscer come proprie del diritto altre
leggi. Ad esempio una legge derivata dalla morale può essere esclusa dal diritto. La teoria di Austin
serve per delimitare il più possibile non solo il campo dello studio del diritto e tramite tale
delimitazione si delimita anche il diritto stesso, l'oggetto di studio, attraverso una delimitazione e
una considerazione del modo in cui si studia il diritto. Scrive Austin a questo proposito: “Le leggi in
senso proprio sono comandi e quelle che non sono comandi non sono leggi in senso proprio e sono
così chiamate impropriamente. […] Le leggi che sono così chiamate nel loro senso più comune e
più stretto, sono le leggi positive che costituiscono l'oggetto proprio tanto della giurisprudenza
generale quanto della giurisprudenza particolare. In ciò vanno separate dagli altri tipi di leggi,
quali ad esempio le leggi divine.”. È quindi un approccio totalmente diverso rispetto agli autori
affrontati fin'ora. Le leggi divine non fanno parte del diritto. Austin prosegue: “ […] ossia le leggi
di Dio poste alle sue creature umane, oppure le regole di moralità positiva, o ancora le leggi in
senso metaforico o figurato.”. Ecco tutte queste sono leggi improprie, che non sono intanto positive
e soprattutto non sono comandi. Non sono comandi nel senso che Austin poi specificherà. Infatti si
potrebbe dire che la legge di Dio è una legge formulata in termini di comando, una legge che Dio dà
e pone, si pensi ai Dieci Comandamenti, espressi nella forma di comando. Austin ha quindi bisogno
di specificare ancora di più e di approfondire questi concetti per dare di conto a questa separazione
iniziale tra leggi proprie e improprie. Infatti Austin sottolinea che le leggi propriamente dette sono
una specie di comandi, quindi ha bisogno di specificare di che comando si tratti, sempre utilizzando
un metodo analitico, attraverso distinzioni, specificazioni, astrazioni, concettualizzazioni. Certo
esistono comandi di diversa natura e Austin lo sa bene, ma afferma che intanto rileva, se vogliamo
specificare di che tipo di comandi si trattino le leggi giuridiche, che si tratta di comprendere la
tipologia di rapporto che si instaura tra chi comanda e chi è comandato. Su un rapporto di natura
tecnica o professionale, si baseranno quei comandi che danno vita a leggi così dette di seconda
classe, ma che non interessano, come le prescrizioni che un medico dà a un paziente. Qui c'è un
rapporto particolare tra comandato e comandante, un rapporto di cura, assistenza, certamente dice
Austin quel comando non ha bisogno di dotarsi di una sanzione nei confronti del paziente, è
nell'interesse del malato osservare le indicazioni date dal medico.
Si pensi a quei comandi che si caratterizzano per un rapporto di sovraordinazione e subordinazione
politica. Questi sono invece i comandi che per Austin possono attagliarsi alle leggi propriamente
dette. Qui Austin fa un'altra precisazione, che è quella di spiegare cosa si debba intendere per diritto
positivo. Il diritto positivo, afferma Austin, è: “Quell'insieme di comandi che vengono posti da una
persona o da una assemblea sovrana a uno o più membri della società politica indipendente, in cui
tale persona o assemblea è sovrana o superiore. Ogni legge positiva o legge in senso stretto è
direttamente o indirettamente il comando di un sovrano o di una assemblea sovrana nella loro
qualità di superiori politici, vale a dire che il comando diretto o indiretto di un monarca o di un
assemblea sovrana a una o più persone che sono sudditi del suo autore.”. Ecco dunque questa
sovraordinazione o subordinazione politica. In un altro passo Austin chiarisce un aspetto che
diventerà rilevante e interessante in Harte. Austin afferma che questa subordinazione politica si
esprime nel fatto che a questo sovrano o assemblea sovrana viene tributata una obbedienza
abituale, un habit of obedience. Lì ritroviamo rappresentata al meglio la sovranità. Una obbedienza
abituale della società politica indipendente come afferma Austin, usando analiticamente questo

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termine per far comprendere come la sovranità si eserciti su un determinato popolo, all'interno di un
certo Stato, che politicamente è indipendente da tutti gli altri Stati, ma anche nei confronti di altri
popoli e altre entità politiche, anche di entità non politiche. Un popolo non può esser soggetto
contemporaneamente e politicamente a un sovrano e anche al Papa per esempio, vi deve essere una
soggezione diversa, l'unica soggezione politica è quella che riguardi il diritto posto come insieme di
comandi che appunto un superiore politico pone a una società politica indipendente la quale gli
tributa una obbedienza abituale.
Vedremo Austin si preoccupa di specificare la fonte del comando e come il comando operi, ma
anche che cosa viene comandato generalmente, quali siano questa specie di comandi, in che cosa
sono speciali i comandi che contraddistinguono le leggi proprie, le leggi giuridiche propriamente
dette.
Austin si preoccupa di trarre anche dalla sua analisi del diritto qualche indicazione utile a
individuare una sorta di contenuto generale che i comandi devono avere e che va a qualificare il
comando nel senso delle leggi proprie del diritto, quindi che valga a specificare quel comando come
legge giuridica. Le leggi sono di varia natura e di varia fonte come detto. Austin è esplicito
nell'affermare, in un asso emblematico, che un comando si distingue da altre espressioni di
desiderio, non per la forma nella quale il desiderio viene manifestato, perchè a volte quella forma
rischia di ricorrere anche in altre specie di comandi, ma per il potere ed il proposito da parte di chi
comanda di infliggere un male o una sofferenza nel caso che il desiderio non venga soddisfatto.
Austin qui dà l'idea di quale sia quel contenuto minimo che ricorre in ogni comando che è tipico del
diritto. Questa specie di comandi che sono propri delle leggi propriamente giuridiche è dato infatti
da questo aspetto. Austin afferma che il diritto è fatto di comandi, che alla fine consistono in un
proposito, da parte di chi comanda, di infliggere un male nel caso in cui il desiderio, ciò che viene
comandato, non venga soddisfatto. Anche questo è un altro contenuto rilevante che possiamo
inscrivere in tutto il diritto. Ben aldilà della forma o del soggetto proposto a comandare, a rilevare è
ciò che avviene in base a un comando, alla osservanza o inosservanza del comando, cioè allo scopo
a cui il comando mira, il male potenziale che il comando veicola. Questo è proprio del diritto, solo
se un comando contiene questo potere di infliggere un male o un dolore nel caso in cui il desiderio
che costituisce l'oggetto del comando non venga rispettato per inosservanza del comandato, allora il
comando sarà propriamente tale, ovvero propriamente giuridico, quindi potrà costituire il diritto
positivo, consistere in diritto positivo. In sostanza Austin cerca di mettere in evidenza la rilevanza
del momento della sanzione, l'inflizione di un male o una sofferenza è questo. Austin fa una serie di
specificazioni ulteriori, per esempio che a differenza dei comandi divini, dove pure qualcuno
potrebbe dire che vi sia il proposito della inflizione del male, una punizione ultraterrena per chi ci
crede, Austin dirà che quello che intende è che si tratta di un male o una sofferenza che si scontano
sulla Terra, qui ed ora, quindi un male o sofferenza mondani, terreni. Cosa che aveva già avuto
modo di specificare Marsilio da Padova, che distingueva proprio il diritto divino, le leggi divine, dal
legislatore umano. Dal punto di vista della comprensione del diritto possiamo dire che siamo
disposti a comprendere qualcosa come giuridico e a intendere l'enunciato come tipico del diritto,
solo se quell'enunciato, se questo qualcosa sia dotato della capacità di procurare dolore nel caso in
cui non ci si attenga a ciò che viene enunciato. Dice Austin, si pensi a fenomeni come il diritto
consuetudinario o il diritto premiale, dove all'osservanza delle norme consegua un premio o
vantaggio, la cui inosservanza non corrisponde nulla, questi fenomeni sono parzialmente giuridici.
Anche il diritto consuetudinario è un diritto dove questo potere di inflizione di sofferenza non opera
e non è manifesto, a volte non c'è proprio. Solo nel diritto, che promana dal superiore politico su
una comunità politica indipendente, solo in quel tipo di comandi è dato vedere questo contenuto di
potere e di inflizione di un male o sofferenza nel caso di inosservanza da parte del comandato.
Si richiama questo punto perchè è certo il centro della dottrina di Austin, una dottrina passata alla
storia come una dottrina di tipo imperativistico, perchè riduce tutto il diritto a degli imperativi, a dei
comandi. Imperativo non lo si intende tanto nel senso kantiano quanto nel senso del comando,
comandi che vengono a loro volta a sanzioni, al momento patologico della inosservanza del
comando.

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Pur muovendosi, questa teoria, nel campo dell'imperativismo, riducendo a imperativi e comandi
sanzionati il diritto ed essendo una dottrina di stampo giuspositivistico, nonostante questo c'è una
assonanza, o meglio una consonanza interessante con un'altra teoria che giuspositivistica non è.
Cioè se si ripensa alla teoria della legge naturale, della autoesecuzione della legge naturale di John
Locke, troviamo qualcosa che ha a che fare con la teoria di Austin. Il meccanismo di funzionamento
della legge naturale e sua autoesecuzione Locke lo aveva spiegato in questi termini, cioè attraverso
la definizione di quello che lui chiamava right to punish: “Affinchè sia rispettata la legge di natura
che vuole la pace e la conservazione di tutto il genere umano, l'esecuzione della legge di natura
nello stato di natura è affidata nelle mani di ciascuno. Per cui ognuno ha il diritto di punire (right
to punish) i trasgressori di quella legge di natura in misura tale da impedirne la violazione.”. Cosa
intende Locke? Quale è questa misura tale da impedirne la violazione?
Questo potere nelle mani di ogni individuo consiste secondo Locke il far rispettare i precetti della
legge naturale, impiegando a questo fine la propria forza, cioè procurando del male qualora vi sia
una violazione dei precetti della legge naturale, in modo da impedirne altri possibili violazioni e in
misura tale da ottenere, dice Locke, una adeguata riparazione. Violando quei precetti si commette
un reato contro l'intera specie, e la sua pace e sicurezza a cui presiede la legge di natura, e per tale
ragione ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza della umanità, può
reprimere o se necessario distruggere ciò che è ad esso nocivo, quindi recare a chiunque abbia
trasgredito quella legge, un male, tale da indurlo a pentirsi di averlo fatto e con ciò distogliere lui e
sul suo esempio altri, dal commettere lo steso male. Si parla quindi di nuovo della inflizione di un
male, nel caso della inosservanza della legge. Si deve porre attenzione a questo contenuto logico, il
funzionamento del diritto, del right to punish. Perchè è la stessa logica giuridica che
contraddistingue il comando che abbiamo appena esaminato in Austin. In quel caso questa logica
giuridica della intuizione di un male, emergeva in un percorso che va dalla forma del comando al
suo contenuto. In Locke è il contenuto del comando, della legge naturale, a dover essere
formalizzato. Se è vera questa logica giuridica, che è già presente nello stato di natura ed è
caratteristica della autoesecuzione della legge naturale, in Locke non scompare affatto nello stato
politico, in cui quel potere di esecuzione della legge naturale, quel right to punish, passa dalle mani
di ciascuno alle mani del magistrato comune. Locke definisce il potere politico del magistrato
comune in termini che non lasciano ambiguità, per potere politico egli intende il diritto di fare leggi
che contemplino la pena di morte e di conseguenza tutte le pene minori, in vista di una
regolamentazione e conservazione della proprietà e il diritto di impiegare la forza della comunità
nella esecuzione di tali leggi e nella difesa dello Stato da attacchi esterni, tutto questo soltanto ai
fini del pubblico bene. Quindi lo Stato, il potere politico, il sovrano, non fanno altro, anche
nell'ottica lockiana, che fare leggi che contemplino pene, cioè nell'infliggere delle sofferenze nel
caso in cui a queste leggi si disobbedisca. Forse Austin ha ragione nell'affermare questa idea della
penalità del diritto, di questa inflizione di un male che contraddistingue il diritto e i comandi del
diritto come tali, davvero questa è la giuridicità, caratteristica propria di tutto quello che è giuridico.
In un passaggio significativo Locke, che pure imperativista non è, scrive che siamo sottoposti alla
ragione come un comando, come un vincolo di diritto, quindi se non vi è comando, comunque sarà
il sovrano in futuro a comandare, certo rispettando il diritto naturale. Ma questo diritto naturale in
altro non consiste se non nella ragione, la quale è un vincolo per gli uomini, un comando, ed è un
comando già sanzionato nello stato di natura. Se un individuo nello stato di natura si comporta in
modo irrazionale, altri possono, anzi devono, utilizzare la forza nei suoi confronti, ed infliggere a
questo individuo una sofferenza. Questo diritto viene ceduto e utilizzato dal magistrato comune ma
sempre in ciò consiste, cioè nel punire qualcuno per aver fatto qualcosa che non doveva fare o
omesso di fare qualcosa che era obbligato a fare.
Quindi un carattere sostanzialmente penale del diritto, che da Locke e della modernità in avanti
viene poi ripreso dalla riflessione di Austin, il quale poi quando vuole applicare il suo metodo
analitico e comprendere cosa sia tipico del diritto, si rende conto dalla osservazione di tutti gli
ordinamenti particolari e della elaborazione di una giurisprudenza particolare, che il diritto alla fine
non è altro che comandi e che questi comandi consistono in non altro se non nella possibilità di

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infliggere un male nel caso della loro inosservanza. Questo è il senso dell'essere, si può descrivere
così obiettivamente il diritto, che non è nient'altro che questo.
È un punto di arrivo, ma anche di partenza molto importante, perchè alla fine ci si dovrà confrontare
con questa idea, una idea molto diffusa e condivisa, anche Kelsen la condividerà. Harte cercherà di
smontarla in parte e cercherà di mostrare come nel diritto ci sia ed esistano anche delle norme, delle
regole, che sono prive di sanzione, o che pur potendola in teoria avere, non la necessitano affatto.
Quindi delle norme, delle regole, che Harte comunque si guarda bene da identificarle come
comandi, infatti parla di regole, che non sono sanzionate né tanto meno sanzionabili, che non hanno
a che fare con questo potere di infliggere un male o sofferenza, che invece secondo questa
tradizione precedente sarebbe tipico del diritto e della giuridicità. In realtà, a proposito di Kelsen,
già prima di Harte Kelsen, pur mantenendo questa teoria della penalità del diritto, aveva criticato
l'idea che il diritto consistesse proprio in comandi. Di Austin Kelsen condivideva il metodo, di fare
giurisprudenza di tipo analitico, ma secondo Kelsen Austin si sbagliava nell'identificare proprio
nella forma, nel concetto, nella categoria del comando, l'essenza e il funzionamento del diritto. Per
Kelsen non si trattava di individuare e ridurre il diritto a comandi, ma di identificare e ridurre il
diritto a norme (concetto tipicamente kelseniano), a norme giuridiche. La norma non è un comando,
né può esser formulata in termini semplici di comando perchè la norma, come anticipato, da un
punto di vista logico-formale è un giudizio ipotetico: se A, deve essere B. Quindi se si verifica
l'illecito (A), allora deve seguire la sanzione (B). La sanzione c'è sempre, non si esce dal solito
schema, anzi per Kelsen la sanzione è ciò che costituisce la norma, quella parte che Austin
considerava secondaria e chiamava norma secondaria, per Kelsen diventa la norma primaria, la
parte primaria delle norme, quel allora deve essere B. Kelsen afferma che questo tipo di struttura
logica, la norma pensata e logicizzata in questo modo si può invertire, deve essere B ogni qual volta
si verifichi A. La preminenza è quella della sanzione, deve essere applicata la sanzione se si
verificano i casi previsti dalla norma. Il proprio del giuridico, l'attività propria del giuridico, è
comminare sanzioni nel caso si verifichino certe ipotesi.
Le norme non sono però riducibili alla forma del comando perchè appunto la norma in Kelsen si
configura nel seguente modo, se si verifica un illecito allora deve seguire l'applicazione di una
sanzione. La norma così come pensata si riferisce in prima istanza agli organi di applicazione delle
sanzioni, agli organi che devono eseguire la norma, quindi ai giudici. Solo di riflesso queste norme
si rivolgono ai cittadini, ma si rivolgono innanzitutto ai giudici. Si pensi al caso in cui tutti i
cittadini contravvengano alle norme e i giudici non applicassero le norme, tutti i cittadini potrebbero
pensare che quel comportamento non sia considerato come vietato. Il fatto che questa norma si
rivolga ai giudici, per Kelsen, è confermato dalla presenza di altre norme nell'ordinamento, che lui
chiama norma sovraordinate o norme superiori, che non sono norme di diritto naturale ma norme
poste, norme giuridiche dell'ordinamento, che contengono e prescrivono delle sanzioni nel caso in
cui i giudici non applichino le norme di grado inferiore e che si rivolgono ai soli giudici.
Quindi anche gli organi di applicazione del diritto sono a loro volta soggetti ad altre norme, che li
costringono ad agire in quel modo, pena l'applicazione di una sanzione nei loro confronti. Il diritto è
quindi una specie di macchina in cui tutte le norme sono collegate, in una struttura a gradini, in una
specie di piramide, detta stufenbau, e dalla norma di rango più inferire si può risalire man mano alle
norme di grado superiore. Però le norme per Kelsen non sono comandi, come pensava Austin,
perchè se fossero comandi innanzitutto dorebbero rivolgersi ai cittadini, ai subordinati politici, ai
membri della società politica indipendente, e dire loro, in forma di comando, di enunciati tipici del
comando, che certi comportamenti sono vietati, pena l'inflizione di una sofferenza. Ma il diritto,
afferma Kelsen, se osservato nella sua struttura formale, non corrispondono a questo. La norma
nella sua struttura formale non afferma che l'individuo debba fare qualcosa, ma solo in un senso
derivato che la norma può essere questa. In prima istanza la struttura è quella di una ipotesi: se A
allora deve essere B. Questa è la struttura della norma, che si rivolge ai giudici prima ancora dei
cittadini. Norma che si rivolge, se si vuole proseguire nella teoria di Kelsen, non tanto in termini di
comando, ma si rivolge in termini impersonali, in termini di doverosità. Qualora si verifichi un
illecito, si devono attivare le procedure affinchè venga disposta la sanzione. Quindi si devono

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attivare i giudici e il procedimento tale perchè si possa arrivare alla sanzione. Non è un comando
puro e semplice, è qualcosa di più complesso, è una norma che funziona connettendo un illecito a
una sanzione, connettendolo in termini di doverosità, non in termini di necessità causale, non in
termini di causa-effetto, perchè solo apparentemente sembra essere così, ma in realtà non lo è.
Questo perchè le procedure, i giudici, si devono attivare, perchè vi sono altre norme che prevedono
che si attivino, pena una sanzione. Appunto questo non vuol dire che tutto questo si attivi
automaticamente e necessariamente, che si attivino effettivamente nel senso di causa-effetto. Nel
diritto non c'è nulla di scontato, non c'è nulla di automatico e di naturale (rapporto causa-effetto),
ma tutto deve essere, deve accadere, altrimenti non accade nulla di per sé.
A seguito di un omicidio la polizia e gli organi giudicanti devono attivarsi per procedere all'arresto,
ma questo potrebbe anche non avvenire. Anche se non avvenisse la norma rimarrebbe comunque
valida e tali aspetti riguarderanno solo l'effettività della norma. Certo scatteranno altre sanzioni,
altre norme che puniranno polizia e organi e giudicanti, ma anche tali norme potrebbero non esser
efficaci. Potrebbe allora determinarsi una situazione in cui a seguito di n omicidio non si attivi
nessuna norma. Nonostante questo queste norme resterebbero tutte valide, resterebbero una serie di
illeciti che dovranno esser puniti, c'è sempre una attivazione del diritto, le norme si rivolgono a
coloro i quali devono attivarle, altrimenti la norma di per sé non fa nulla, né tanto meno funziona
come comando. Questa è la differenza tra validità ed efficacia delle norme, come vedremo in
Kelsen. Analizzeremo anche la differenza tra diritto come norma e diritto come regola (primaria e
secondaria) tra Kelsen e Harte (domanda di esame).
A proposito di primaria e secondaria, con riguardo al rapporto tra Austin e Kelsen, si diceva che già
Austin parlava di norma primaria e norma secondaria, ovvero una parte primaria delle norme, che
appunto era il comando, e una parte secondaria che era la sanzione. Secondaria qui non è da
intendere in ordine di importanza, per Austin è importante infatti che il comando sia sanzionato. Qui
Austin intende dire secondario nel senso di accessorio al comando, la sanzione è un accessorio del
comando, ma ciò che rileva è appunto che il diritto sia espresso nella forma del comando. Kelsen al
contrario afferma che sia importante che nel diritto sia espressa una sanzione innanzitutto. Quindi la
parte secondaria diventa norma primaria in Kelsen, perchè solo esprimendo una sanzione che si
attiva questo nesso di dover essere, di doverosità della norma, perchè la sanzione deve essere
applicata. È la sanzione la norma primaria e diventa secondario tutto ciò che per Austin era norma
primaria, tutto quello che la norma disciplina, l'illecito, i diritti e gli obblighi che discendono dalla
norma, questo è secondario, questo è quello che in seconda istanza la norma rivolge poi a cittadini.
In prima istanza la norma si rivolge agli organi della applicazione e devono farlo perchè
assoggettati ad altre norme di grado superiore. Vedremo in Harte come questa combinazione tra
norme primarie e secondarie verrà rivista ancora, Harte affermerà che nel diritto le norme primarie
sono quelle che contengono delle sanzioni, ma vi sono anche delle norme secondarie non meno
importanti, che invece sono sprovviste di sanzione, che fanno altre cose rispetto alle altre norme:
non disciplinano, non prevedono l'erogazione di una sanzione a fronte di illeciti, non infliggono
sofferenza nel caso in cui il comando non venga osservato, ma si occupano di cose diverse, di
attribuire dei poteri a ciascun individuo, delle facoltà, senza prevedere una sanzione.
(30/11/21)
• HANS KELSEN
La dottrina pura di Kelsen risponde alla domanda cosa sia il diritto, nel senso dell'essere del diritto.
Quindi intenti certamente descrittivi ed espositori, come li chiamava Bentham, analitici come li
chiamerebbe Austin, puri come li chiama Kelsen, una dottrina pura del diritto significa depurata da
qualsiasi tipo di ideologia, approccio valoriale al diritto, di preconcetti, di influenze da parte di altri
ordinamenti normativi, come la morale o il diritto naturale. Kelsen si concentra solo sull'essere del
diritto. Un diritto chiaramente positivo, perchè il diritto altro non è se non riconoscibile attraverso il
dato della positivizzazione, della esistenza, come la chiama Kelsen, delle norme giuridiche. Quindi
il giurista nel rispondere alla domanda sull'essere del drititto, appronta questo approccio puro, di
tipo avalutativo, formalistico e normativistico, cioè deve guardare al diritto da un punto di vista
della forma che esso assume, a prescindere dai contenuti che veicola, e la forma che il diritto

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assume, così come a Austin era sembrato che la forma tipica del diritto fosse il comando, la forma
che il diritto assume per Kelsen è quella norma, la quale a sua volta è descritta, esposta, riconosciuta
da Kelsen come giudizio ipotetico, questa forma logico-strutturale se A allora deve essere B, dove A
è l'illecito e B la sanzione.
Kelsen premette la purezza della dottrina del diritto, il discorso sul metodo della scienza giuridica,
su come il giurista debba rispondere alla domanda su cosa sia il diritto, in una famosa opera
intitolata La Dottrina Pura del Diritto1, la cui prima edizione è del 1935, ci troviamo in un periodo
travagliato del '900. Kelsen stesso subì, in quanto autore di origini ebraiche la persecuzione del
regime nazista, emigrando negli anni '40, dopo aver pubblicato la prima edizione del '35 de La
Dottrina Pura del Diritto, entrando in contatto con ambienti culturali e giuridici diversi da quelli
dell'Europa Continentale e di area tedesca, in cui Kelsen si era formato. L'ispirazione kantiana
infatti non è un caso in un autore come Kelsen. Egli entrerà in contatto in particolare modo con le
dottrine nordamericane del realismo, che pure criticherà ma che in qualche modo, in particolar
modo nella riscrittura e nella riedizione di questa opera della Dottrina Pura del Diritto, che Kelsen
riscriverà nel periodo americano e che editerà nel 1960. Ci troviamo in un contesto mutato nel 1960,
una edizione in cui Kelsen rivede alcune cose molto significative.
Partiamo dagli anni Trenta, anni in cui Kelsen matura il suo pensiero, si forma sui grandi classici,
prende verosimilmente in prestito l'idea degli imperativi ipotetici da Kant proprio per presentare la
norma giuridica come un giudizio ipotetico. Ma prende in prestito altre cose, come il dibattito
creatosi intorno ai così detti valori della scienza, come le posizioni di Max Weber. Non si ha tempo
di approfondire questi aspetti, ma nel Novecento è chiara ormai l'idea che il mondo dei valori, il
mondo delle valutazioni, delle ideologie, deve esser tenuto al di fuori del discorso scientifico. Il
discorso scientifico è centrato solo sull'oggetto che descrive e studia e Kelsen certo importa questo
modello anche nel mondo della scienza e del diritto. Quindi valori, ideologie, preconcetti ed
influenze di altri ordinamenti normativi, tenute il più possibile confinate fuori dallo studio del
diritto, si deve allora autonomizzare il diritto, rendere il diritto qualcosa di sciolto da tutto il resto,
così come sciolto da tutto il resto è chi studia il diritto. Nel fare questo, afferma Kelsen nella prima
edizione della Dottrina Pura del Diritto, una delle prime operazioni concettuali e necessarie di
pulizia concettuale, di purificazione della scienza giuridica è quella di tenere il più possibile separati
e distinti i due modi attraverso cui le leggi, le leggi nel loro concetto generale funzionano. Afferma
Kelsen che vi è un tipico modo di funzionamento delle leggi giuridiche, che è diverso dal modo in
cui funzionano tutte le altre leggi. Come , Kelsen è alla ricerca di peculiarità del giuridico, di una
tipicità del fenomeno giuridico. Perchè le leggi del mondo giuridico funzionano in modo diverso da
tutte le altre leggi? In particolare, afferma Kelsen, in modo diverso dalle leggi del mondo fisico.
Kelsen mostra come qui, anche nell'ambito delle scienze esatte, fisiche, naturali, che studiano in
modo scientifico i fenomeni naturali, il diritto ha anche in questo metodo scientifico, nello studiare i
fenomeni naturali, ha delle caratteristiche proprie da tutto il resto del discorso scientifico. Perchè le
leggi del mondo del diritto funzionano in un modo particolare. Mentre le leggi del mondo fisico,
come quella di gravità, tutte le leggi che uno scienziato può descrivere e ricavare dal funzionamento
della natura, mentre queste leggi sono strutturate secondo un modo o meccanismo di funzionamento
tipicamente causale, cioè si basano su uno stretto rapporto tra causa e effetto, le leggi del mondo
giuridico invece sembrano animate dallo stesso modo di funzionamento, ma in realtà non lo sono.
Per Kelsen anche le leggi del mondo fisico possono distinguersi in due parti, in una prima parte da
una seconda parte. In una prima parte sono appunto descritte le cause di un evento, nella seconda
parte delle leggi del mondo fisico sono descritte le conseguenze e gli effetti di quell'evento. Quindi
le leggi del mondo fisico sono formulate secondo questo principio, a quella maniera. Se un corpo
viene lasciato cadere, allora la conseguenza sarà che cadrà sempre verso il centro della terrà (legge
di gravità), ma così anche le leggi di gravitazione, della termodinamica, qualsiasi legge che descrive
un fenomeno di tipo fisico e naturale presenta questo schema, questa forma logica: sa A, allora B.
Dove A è la causa naturale, l'evento, e B è la conseguenza, B è l'effetto che si verifica a
quell'evento.

1 Kelsen è un autore molto prolifico, scrive anche La Teoria Generale del Diritto e La Teoria Generale dello Stato.

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Questo allora, dice Kelsen, questo rapporto causa-effetto, questo nesso, è causale nel senso che è un
nesso sempre necessitato, date queste cause, questi fattori, l'evento si verificherà necessariamente.
Le conseguenze di queste cause e gli effetti di queste cause sono necessitati, non c'è modo
nemmeno una sola volta per sbaglio. Date certe cause, nel mondo fisico, in natura, seguiranno per
forza di cose questi effetti. L'acqua portata ad una certa temperatura, ogni volta raggiunta quella
temperatura l'acqua inizierà a bollire. Se dovesse per caso, anche solo mezza volta, questa cosa non
verificarsi, allora quella legge che descrive quel fenomeno, sarebbe all'istante da considerare
invalida. Anzi meglio ancora dice Kelsen del tutto inesistente, come se non fosse mai esistita,
perchè ci saremmo sbagliati nel formularla. Quella legge quindi diverrebbe invalida, termine che
utilizzerà Kelsen anche per le leggi giuridiche. Termine che utilizza per far vedere che tali leggi del
mondo fisico siano necessitate, o hanno la capacità di descrivere gli effetti di un fenomeno, o
altrimenti è come se non esistessero, non avessero senso di esistere.
Il nesso di necessità causale, effetti che necessariamente conseguono dalle cause, questo fa
funzionare le leggi del mondo fisico. Nel mondo giuridico, le leggi in senso giuridico, sembrano
avere lo stesso schema logico formale di funzionamento, perchè anche in queste leggi si può
separare concettualmente una prima parte, di tipo ipotetico, se A, da una seconda parte in cui si
possono vedere descritte le conseguenze di A: se A, allora B.
Se qualcuno cagiona la morte di un un uomo, la conseguenza sarà la sanzione, quella prevista dalla
norma. Eppure, dice Kelsen, solo apparentemente lo schema di funzionamento è uguale, in realtà
quel nesso, quell'allora, quelle conseguenze, non sono di tipo strettamente causale, non è un nesso
di necessità causale, non sono conseguenze necessitate, quelle che possiamo vedere in una norma
giuridica, dati certi presupposti, dato un fatto illecito. L'evento sanzione, la conseguenza, non si
verificherà sempre e comunque, non si verificherà necessariamente ed inevitabilmente,
naturalmente. Afferma Kelsen che l'evento, la conseguenza, allora B, quella seconda parte della
struttura logico-formale della norma, si dovrà verificare, ma ciò non significa che si verificherà
senz'altro, quindi quel nesso, quell'allora, non è semplicemente un allora ma è un allora deve, deve
integrare questa doverosità in esso delle norme giuridiche. Mentre nelle leggi del mondo fisico,
Kelsen chiama questo nesso causale, nesso di necessità causale, nelle leggi del mondo giuridico
Kelsen chiama allora deve essere B come nesso di imputazione normativa. Già questo termine dice
tutto, nella norma vengono imputate certe conseguenze al verificarsi di certi comportamenti, che la
norma qualifica come illeciti. Vengono imputate normativamente, vuol dire che vengono attribuite
in base a un meccanismo di dover essere. Queste conseguenze non vengono attaccate in modo
necessitato ad A, ma in un modo che è tipico dell'imputazione normativa, del dover essere. Quindi
questi due grandi mondi che vanno distinti e separati tra loro, il mondo dell'essere, sein in tedesco,
dal mondo del dover essere, del sollen. È più o meno la stessa differenza che passa tra i verbi
inglesi, come dice Kelsen, il verbo to be (essere), e have to be (dover essere). Sembrano esprimere
la stessa cosa il termine must e have, ma in realtà un termine fa riferimento a una causalità
necessaria, inevitabile, naturale, mentre l'altro termine fa riferimento a una causalità necessaria, di
tipo doveroso. È una differenza importante, perchè rappresenta essa stessa la differenza fra i
discorsi che si possono fare, la differenza tra le cose, così come sono o così come dovrebbero
essere. Non si deve però fare confusione, anche se questo discorso ha certamente a che fare con
tutto il metodo precedentemente teorizzato da Bentham e Austin sulla jurisprudence, espositoria e
censoria, ma non si deve fare confusione terminologica con l'essere e il dover essere di cui parla
Kelsen. Kelsen ha come scopo quello di descrivere il diritto, di dire ogni cosa che riguarda l'essere
del diritto, quindi si muove certamente nel campo della jurisprudence espositoria, della descrizione
avalutativa del diritto, altrimenti non formulerebbe una dottrina pura del diritto, ma nel muoversi e
nell'avere come obiettivo la descrizione, l'essere del diritto, Kelsen afferma che il diritto è un dover
essere, esprimibile e rappresentabile nelle forme tipiche del dover essere. Un dover essere da non
confondere con il dover essere della giurisprudenza censoria, perchè quel tipo di dover essere
faceva riferimento al metodo della scienza giuridica. Esso affermava che tutti i discorsi che non
sono di tipo descrittivo, espositivo, di tipo avalutativo, sono invece discorsi valutatiti, prescrittivi, in
cui si producono giudizi di valore e si pensano alle cose come dovrebbero essere, il diritto come

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dovrebbe essere. Ma il dover essere di cui Kelsen parla, quando parla dell'essere del diritto, essere
come dover essere, l'essere del diritto, il dover essere, è un dover essere di tipo diverso, cioè il
modo con cui il diritto funziona, il modo di funzionamento delle regole giuridiche, che funzionano
collegando a certi fatti certe sanzioni, in modo appunto che queste sanzioni non siano
semplicemente, non accadono, non seguono, ma debbano seguire, debbano seguire all'illecito,
proprio perchè ci deve essere qualcuno che le faccia seguire, si devono attivare le norme. Il diritto è
fatto di prescrizioni, il che non vuol dire fare discorsi di tipo prescrittivo. Un conto è parlare del
diritto come prescrizioni, la norma è una prescrizione, perchè prescrive qualcosa, afferma che se si
verifica qualcosa allora deve seguire qualche altra cosa, altro conto è fare discorsi di tipo
prescrittivo, valutativo, quello è il senso del dover essere della giurisprudenza censoria. Kelsen
distingue inizialmente anch'egli i due grandi modi di parlare del diritto e certamente sceglie il modo
di parlare dell'essere del diritto. In questo modo Kelsen descrive il diritto come una serie di
prescrizioni, un insieme di norme che sono caratterizzate nel loro funzionamento da un meccanismo
di dover essere. È importante, come vedremo, tenere a mente questo, perchè quando Kelsen
distinguerà la validità dalla efficacia della norma, mostrerà come nella validità sia compendiato
questo dovere essere, mentre nell'efficacia invece si ricade nel mondo dell'essere. La norma non ha
funzionato, non ha prodotto i propri effetti, vuol dire che si è rivelata inefficace. Ecco questo lo si
può descrivere come un fatto, siamo nel mondo dell'essere, lo si nota così come notiamo un
fenomeno naturale, ma questo non vuol dire che la norma abbia perso la sua validità, cioè ha perso
il suo dover essere, la sua caratteristica di funzionamento. Infatti anche se la norma si è rivelata
inefficace in determinate circostanze, potrà esserlo in altre circostanze, perchè rimane valida la
previsione normativa, l'imputazione.

Nella descrizione del fenomeno giuridico si può quindi dire di ridurre tutto il giuridico a norme,
come afferma Kelsen, che il diritto non è altro che un insieme di norme. Queste norme sono
descrivibili nella loro struttura logico-formale come dei giudizi ipotetici, tali per cui se A deve
essere B, e funzionano in modo diverso dalle altre norme, dalle leggi del mondo fisico. Queste
ricollegano delle conseguenze, le sanzioni, a dei comportamenti, in termini di imputazione
normativa, imputano certe conseguenze a certi fatti e lo fanno non in termini di necessità causale
ma di doverosità. Questa è quella che Kelsen chiama la nomostatica, cioè analizzare la norma in
modo statico e vedere il funzionamento della norma, afferma Kelsen che tutte le norme funzionano
in questo senso, sono animate da questo meccanismo tipico del dover essere. Ancora più
interessante è studiare e descrivere la norma, come la chiama Kelsen, in movimento, cioè queste
norme nel momento in cui vengono prodotte ed entrano in rapporto con altre norme. Appunto il
diritto è un insieme di norme, vedremo infatti come accanto al concetto di norma giuridica in
Kelsen risulti altrettanto fondamentale il concetto di ordinamento giuridico, che è appunto
l'insieme di queste norme e che dà senso, conferisce validità alla norma considerata staticamente.
Non basta la nomostatica, afferma Kelsen, l'osservazione della norma dall'interno, il suo
meccanismo di funzionamento interno, ma si deve passare dalla nomostatica alla nomodinamica,
considerare la norma in rapporto ad altre norme, la norma in movimento, la norma nel contesto
dell'ordinamento giuridico, che è appunto un ordinamento di norme, un modo di mettere in ordine le
norme e che non è altro che lo Stato. Alta grande novità nella descrizione del diritto che apporta
Kelsen. Dire che l'ordinamento giuridico non è altro che lo Stato, significa che lo Stato si risolve in
nient'altro se non nel suo ordinamento giuridico, nell'ordinare tutta una serie di norme, norme
positive, che sono appunto le norme statali e vuol dire quindi sorpassare, scavalcare tutti i discorsi
filosofico-politici sull'origine della sovranità, sul concetto della sovranità, sui limiti della sovranità,
non si tratta, quando si parla di diritto in senso puro, di mischiare i discorsi sul diritto ad altri
discorsi, come veniva fatto precedentemente. Si tratta anzi di autonomizzare il campo del giuridico
e di considerare lo Stato come esso stesso un ordinamento giuridico, l'ordinamento giuridico
statuale. Vedremo come anche il diritto internazionale, il diritto degli Stati nei loro rapporti tra loro,
possa esser configurato anch'esso come un ordinamento giuridico, un ordinamento giuridico
sovranazionale. Quindi per Kelsen la categoria dell'ordinamento giuridico è centrale, perchè serve

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