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UN LESSICO GIURIDICO – PAOLA GIORDANO

(Colore blu=Paolo Grossi)

Che cos’è il DIRITTO? Come direbbe Kant, farsi questa domanda è come chiedersi “che cos’è la verità?”.
P.Grossi diceva che data la sua immaterialità non si può dare una definizione precisa.
Lo possiamo identificare in due modi come:

1. PRETESA A CUI CORRISPONDE UN OBBLIGO.

2. REGOLAMENTAZIONE DELLA VITA SOCIALE (SOCIALITA’ DEL DIRITTO): una società è definita secondo
uno schema organizzativo dal punto di vista giuridico.
Alla base c’è il LINGUAGGIO che rende possibile la coesistenza tra soggetti in nome della convivenza
pacifica per tutti (punto di vista FISIOLOGICO DELL’ORDINAMENTO: diritto legato agli ambiti di
regolazione della vita dei soggetti, es. privato, civile, commerciale, e quello PATOLOGICO es. diritto
penale che studia l’infrazione delle regole).
Esso va inteso come FUNZIONE ORDINATIVA DELLA CONDOTTA UMANA col fine della LIBERTA’ per
l’uomo.

È importante la SOCIALITA’ DEL DIRITTO: P. Grossi diceva che non va confuso con la SOCIOLOGIA perchè non
c’è diritto senza che vi sia un obbligo corrispondente; esso non è una richiesta.

Il diritto ha una MATRICE ARTIFICIALE: non c’è una connotazione naturale del diritto, esso è giuridicamente
voluto. Inoltre ha una MANIFESTAZIONE DI LIBERTA’ perché un fatto naturalisticamente evidente cambia
giuridicamente a seconda della fattispecie giuridica a cui viene imputata.
Kelsen diceva che se una persona muore per mano di un’altra persona, è un omicidio (e lo è tecnicamente) ma
il fatto naturale ed oggettivo dell’uomo che perde la vita per mano di un altro uomo diventa soggettivizzato
giuridicamente perché può trattarsi ad esempio di omicidio volontario, di omicidio colposo ma anche di
un’uccisione di guerra o della pena di morte (ed in questo caso non prevede la sanzione).

Kelsen diceva: gli esseri umani sono liberi perché possono ricorrere alla ricompensa, alla penitenza e al castigo
come conseguenza al comportamento umano.
La libertà di cui parla il giurista non va confusa con il libero arbitrio, vuol dire piuttosto che sia l’individuazione
dell’illecito che le conseguenze dell’illecito sono legate a scelte umane, pertanto risulta molto difficile definire
oggettivamente il bene e il male.

P.Grossi interpreta il diritto come volontà umanamente necessaria di autoregolamentarsi.

STORICITA’ DEL DIRITTO: Il diritto ha assunto diverse concezioni in 3 epoche storiche:

1. Fine dell’Impero romando d’Occidente – Diritto naturale classico

Nell’antica Grecia, le leggi etiche e civili erano degli Dei e facevano parte del concetto di NOMOS, cioè le regole
sul costume, la tradizione, l’ethos sacro (ovvero quei comportamenti dettati da una divinità condivisa es.
accettazione totale del concetto di schiavitù).

Il diritto era la “Regola e misura del mondo”, dato da Dike, figlia di Zeus e Temi. La legge diceva che se ci fosse
stato un disordine nel mondo, Dike avrebbe pensato a ristabilirlo. Il compito di Dike però, non era quello di
punire ma di ripristinare l’ordine.
L’ADIKIA (l’ingiustizia) era intesa come la violazione di una regola superiore da parte di chi era spinto
dall’arroganza (iubris).

Nell’antica Roma Il diritto per i romani era concepito come IUS inteso come ordine dato, non ordine donato
dagli Dei (il comportamento che l’uomo deve avere per ristabilire l’ordine è dettato da Dio nella sua vita).

STATICITA’ DEL DIRITTO (diritto come “ordo ordinatus”): è la fase in cui il diritto coincide con la giustizia e la
giustizia è naturale come le leggi che reggono il cosmo. Il diritto coincide con la giustizia, e la giustizia è
naturale come le leggi che reggono il cosmo e la creazione dell’universo.

Per i romani nacque lo IUS CIVILIS, il testo normativo nato con l’obiettivo di proteggere la proprietà da chi
commette atti illeciti.

Prevale la civitas: la possibilità di essere membri di un’entità giuridica che prevede la condivisione di un
sistema istituzionale.

C’era l’idea che fosse buono rispettare e ricevere l’influenza degli altri popoli per costituire una comunità
politico-religiosa multiforme:
La libertà per i romani era intesa in due modi: il soggetto pieno di diritti, e il soggetto che in assenza della
cittadinanza è privo di diritti ma è anche indipendente dallo straniero (che vive in assenza di schiavitù).
Essa per il cittadino romano ha una duplice connotazione:

1. qualifica la condizione di chi è soggetto pieno di diritti contrapposto a chi, in assenza di cittadinanza
non ne ha.

2. indica l’appartenenza ad un popolo libero e non assoggettato dallo straniero. Il cittadino libero è
contemporaneamente titolare dei doveri nei confronti della res publica e del privilegio della
cittadinanza, ciò che rende il “civis” diverso dal suddito è la sua consapevolezza dei doveri di
partecipazione e fedeltà alle istituzioni.
In epoca romana comincia a prevalere la rilevanza della volontà umana che crea il «ius», inteso come
ordine dato che a volte oppone alla volontà degli dei.
Si determina nella costruzione dell’impianto logico del diritto civile: dalla pratica giudiziaria che si
realizza mediante leggi, consulti del senato e soprattutto sentenze giurisprudenziali, si compone il «ius
civile» come regolamentazione dell’attività del cittadino che attraverso l’«actio» (un mezzo
processuale per accertare la violazione del diritto da parte di un soggetto e l'applicazione della norma
e della sanzione, concessa dal pretore a chi si trovava in una situazione di diritto o di fatto che, non
riconosciuta da una norma dello ius civile, era tuttavia giudicata degna di tutela) assume la facoltà e
l’onere di proteggere la sua proprietà nei confronti di chi commette atti che gli arrechino danni.
Si definisce il concetto di rapporto giuridico come corrispondenza di potere-obbligo, ma si è ancora
lontani dal distinguere nitidamente l’autonomia del diritto rispetto alla morale e di quella delle regole
giuridiche da quelle etiche.

ARISTOTELE distingue nell’Etica Nicomachea, gli ATTI VOLONTARI dagli ATTI INVOLONTARI (per cause di
ignoranza, forza, mali peggiori etc).
Per Aristotele il bene consiste nell’esercizio del pensiero, e si realizza nell’esito di ogni scelta che renda la vita
degna d’esser vissuta secondo il criterio della virtù che conduce alla felicità (“eudaimonìa”). L’uomo ha una
virtù per cui deve comportarsi bene, egli è libero di scegliere la vita che lo conduce alla felicità. Egli è libero fino
a quando non ha una costrizione dall’esterno.
Per Aristotele l’uomo è un “animale politico” che vive nella comunità politica e trova la sua felicità solo
conducendo una vita secondo virtù.

Passaggio da IUS a DIRECTUS


Il termine diritto si afferma abbastanza tardi e viene fatto risalire ad un frammento di Cassiodoro del Tardo
Antico (400-500 d.C.) “Directus dicitur quod, de curvo, rectus, efficitur” (“E’ detto diritto ciò che cerca di
rendere retto ciò che non lo era”); questo perché la funzione del diritto è quella di orientare i comportamenti,
esso è fondato sulla normatività e non sulla normalità. Il termine «directus», participio passato del verbo
dirigere, differisce da “ius” poiché ha in sé una dimensione dinamica;
con i romani si inizia a pensare ad un tipo di diritto più vicino a quello contemporaneo, ma continua ad esserci
uno scarso interesse per il diritto individuale in quanto tutto si fa in funzione della cittadinanza (“civitas”) e al
maschio adulto e libero.
È proprio con questo passaggio da ius a directus che si inizia ad intravedere la possibilità di far nascere un
cambiamento, non prendendo atto passivamente di ciò che avviene ma prescrivendo dei comportamenti
(CARATTERE PRESCRITTIVO E DINAMICO DEL DIRITTO).

2. Medioevo – Diritto naturale

DIRITTO NATURALE: dottrina secondo cui esiste un “diritto naturale”, inteso come un insieme di norme di
condotta di per sé vigenti in natura, indipendentemente che vi sia un diritto posto dagli esseri umani, che
rappresentano l’istituzione politica. Esistono delle LEGGI NATURALI CHE REGGONO IL COSMO e danno VALORE
alle cose ed esiste una giustizia naturale.

In questo periodo un elemento importante è il concetto di GIURISDIZIONE (affrontato da Grossi): nella cultura
medievale tenuta insieme dalla volontà divina, il diritto viene in realtà amministrato in maniera eterogenea e
variabile (es. il feudo è una giurisdizione autonoma che deve fare i conti con la volontà dell’impero a sua volta
tenuto insieme dalla volontà divina).
Non c’è differenziazione tra pubblico e privato, non si distinguono nemmeno gli aspetti di natura civile da quelli
penalistici e si diffonde la faida, ovvero la vendetta privata; essa si esplicita nell’Editto di Rotari dove è
considerata come comune forma di sanzione e strumento privilegiato per rimuovere l’offesa e ripristinare la
pace tra famiglie.

Nel MEDIOEVO si concepì che l’uomo è soggetto di relazioni fondate su rapporti legati alle COSE, più che alle
persone. A questo proposito si sviluppa:

Il DIRITTO DI PROPRIETA’ che viene concepito come una condizione economica complessiva, studiarne le
regole è importante perché dobbiamo capire il funzionamento degli oggetti/cose in vista del loro utilizzo nella
vita comune.

Il Principio di tipicità viene sostituito dal principio di effettività: la consuetudine degli usi prevale sulla volontà
delle parti e sull’idea di consenso.

GIUSNATURALISMO POSITIVO
Con il consolidamento della dottrina cristiana e con la diffusione di testi religiosi, SANT AGOSTINO sosteneva
che un atto non rendeva colpevoli, a meno che la mente non fosse colpevole, e questo fu un pensiero
rivoluzionario poiché introdusse l’elemento psichico delle azioni umane e le relative conseguenze.

Questo tema trova manifestata la sua proiezione in ambito giuridico nel DECRETO DI GRAZIANO: introduce il
concetto di VOLONTÀ LIBERA (libero arbitrio), e con l’affermazione del PRINCIPIO DELLA CAPACITÀ DI
INTENDERE E DI VOLERE, viene introdotto il concetto per cui l’uomo può scegliere tra il bene e il male è solo
con la CHIESA può sperare nella salvezza dal male.
Autori contemporanei:
HANNAH ARENDT diceva le regole che distinguono il bene e il male servono per giustificare sé stessi e gli altri.

HERBERT HART, nel GIUSPOSITIVISMO NOVECENTESCO diceva che ci sono alcuni principi concepiti come
MORALE e altri no, che sono intrinsechi nell’uomo (es. furto e violenza sono state sempre considerate attività
malvagie, anche senza un testo giuridico scritto e posto dall’uomo).

Il concetto di MORALE è stato introdotto da NORBERTO BOBBIO che diceva che ciò che noi concepiamo come
morale è la consapevolezza di dover vivere in uno stato di insopportabile insofferenza.
3. Età moderna contemporanea – Diritto positivo

DIRITTO POSITIVO: dottrina per la quale le leggi generate dal cosmo trovano fondamento nella
ragione degli esseri umani, i quali decidono di associarsi tra loro tramite un contratto sociale.
In questo caso il diritto è posto dall’uomo.
Aristotele sosteneva che del giusto civile, una parte è di origine naturale e un’altra si fonda sulla
legge. Il giusto è quello che mantiene ovunque lo stesso effetto, non dipende dal fatto che a uno
sembra buono oppure no. La legge serve per sancire un effetto giusto.
Non esista un bene o un male in sé in quanto ognuno ha una propria concezione di giustizia e valore,
ma allo stesso tempo diventa necessario prendere una posizione giuridica che poi diventa legittima.

La difficoltà di stabilire i confini del giusto e del bene è uno degli elementi che conduce all’affermazione della
nuova forma di diritto naturale, il quale, a sua volta, conduce al GIUSNATURALISMO MODERNO il cui padre
è Thomas Hobbes e in cui il diritto naturale non risiede più nel Nomos o nel Dio cristiano che non unifica ma
divide, ma nella razionalità ovvero nella capacità di esprimere attraverso il linguaggio ciò che si pensa.
Le leggi generali che reggono il cosmo sembrano trovare il loro fondamento nella ragione universale che li
spinge ad associarsi tra loro mediante la stipula di un «contratto sociale»; in questo modo gli uomini passano
volontariamente da una condizione naturale ad uno stato civile, in cui il diritto è posto e riconosciuto nella sua
artificialità.

*[Il contrasto tra diritto naturale (diritto legato alla persona, all’essere umano) e diritto positivo raggiungerà la
sua massima enfasi con le leggi razziali promulgate all’inizio del ‘900 dagli Stati totalitari presenti in Europa].

Con la MODERNITÀ dunque vengono distinti i diritti soggettivi, il diritto positivo e positivismo
giuridico, e il concetto di stato sovrano.

DUE TESTI PER DIRITTO NATURALE E DIRITTO POSITIVO:

1. ETICA NICOMACHEA DI ARISTOTELE:


ARISTOTELE diceva che Esiste la parte naturale e la parte legale dell’uomo, quindi ci sono
cose naturali che non possono mutare e cose giuste che mutano (esempio: chi nasce con la
mano mancina cambia rispetto a chi scrive con la mano destra, considerando che per natura
la mano destra è migliore, comunque sta nel giusto). In base all’utilità le azioni sono
considerate giuste e non.

2. LEVIATANO DI HOBBES: Per HOBBES, esiste il diritto di natura, cioè ogni uomo è libero di
usare il suo potere come egli vuole, usando il suo giudizio e la sua ragione (a prescindere
dagli impedimenti esterni). Per HOBBES esiste anche LEGGE NATURALE, che impone la
mancanza di libertà per determinate cose; secondo questa legge ci sono due regole: l’uomo
deve cercare la pace per la propria vita e deve difendersi con tutti i mezzi possibili fin quando
ci sarà competizione tra gli uomini.

4. MODERNITA’/STATO MODERNO/SOVRANITA’
Con il trattato di Westfalia del 1648 nasce il concetto di STATO MODERNO, definito come
organizzazione della vita di un determinato gruppo sociale (popolo) su un determinato territorio, che
assume l’esclusività del potere.
Questo nasce da un bisogno di ordine di tutti gli ambiti (economico, politico, sociale) dell’Europa fino
a quel momento, scossa dalle guerre di religione, la quale non rappresenta piu’ un riferimento
unitario.
Con questo trattato, lo Stato accetta di riconoscere i diritti degli altri Stati.

L’enunciazione più chiara ed esaustiva del significato dello Stato moderno è di MAX WEBER:
LO STATO è l’unica fonte del diritto all’uso della forza: È UNA COMUNITÀ CHE PRETENDE PER SÈ IL
MONOPOLIO DELL’USO LEGGITTIMO DELLA FORZA FISICA (secondo i limiti imposti da esso).
Lo stato moderno, appunto, nasce nell’epoca della MODERNITÀ, periodo in cui c’è uno spartiacque
tra la fine dei totalitarismi della fine della prima guerra mondiale e il periodo a seguire. Esso nasce da
un’esigenza di razionalizzazione, soprattutto quando subentra Cartesio il quale ridefinì la funzione
della scienza introducendo il concetto di DUBBIO.
Il cambiamento avvenne con questi eventi:

- La secolarizzazione dei concetti relativi alla religione: LAICIZZAZIONE DELLE ISTITUZIONI con
la quale si separa ciò che è spirituale e religioso da ciò che è politico, quindi una separazione
tra Chiesa e Stato.
- Con MACHIAVELLI, il quale distinse l’etica dalla politica e dal diritto.
Nel suo testo “Il principe nuovo” sostiene che il principe debba essere temuto piuttosto che
amato e che l’azione del governante debba essere un’azione finalizzata ad ottenere uno
scopo. Il principe deve ottenere, senza farsi irretire da inutili moralismi, è la sicurezza della
vita. Per salvaguardarla c’è bisogno di una politica forte.
Si pongono in questo periodo le basi per il GIUSPOSITIVISMO MODERNO.
- Scoperte scientifiche: nasce la stampa (cominciano a diffondersi testi scritti di uso privato,
l’uomo può cominciare ad interpretarli e commentarli).
- Con la nascita del telescopio, con la quale si cambia la percezione degli spazi del mondo, e
c’è l’introduzione del dubbio Cartesiano e della conoscenza empirica, che portano alla libertà
di pensiero e al voler testare la realtà dei fatti sul mondo dopo anni di non reale conoscenza
di esso, dunque si perde la certezza. Questo porta l’uomo a voler RIORDINARE IL MONDO
SECONDO LA RATIO.
- La Scoperta dell’America (modifica dello spazio fisico: percezione diversa dello spazio nel
mondo dell’uomo). Gli USA inoltre, erano visti come il “laboratorio della democrazia
sociale”, si apprende la loro visione dell’economia e della ricchezza, e si capisce che il lavoro
porta ricchezza. Con questa concezione il lavoro acquisì dignità.

- La Riforma Protestante (introduce l’interpretazione personale dei testi sacri: l’uomo cambia
la sua concezione del mondo, è più libero di pensare).

Questi due avvenimenti insieme hanno modificato la concezione dell’uomo sull’estensione degli
spazi, lo spazio fisico circoscritto, gli scambi commerciali, rapporto degli uomini sul lavoro e il
denaro.
La Arendt affermò infatti che la più importante tra le conseguenze spirituali delle scoperte dell’età
moderna era stato il “rovesciamento dell’ordine gerarchico tra la vita contemplativa e la vita activa”.
Questo perché mentre nel cattolicesimo il lavoro e il denaro erano visti come segno del diavolo, il
protestantesimo aveva come “faro” proprio il lavoro, simbolo della grazia divina.
VITA ACTIVA, LA CONDIZIONE UMANA – HANNAH ARENDT – MODERNITA’
Per Hannah Arendt col tempo si è persa la contemplazione, si pensa piu’ all’azione, e questa
trasformazione dell’uomo è avvenuta a seguito delle tesi di Cartesio, del dubbio, della voglia di
conoscere empiricamente le cose. Per A.Arendt l’uomo pensa piu’ all’azione e non si dedica piu’ alla
contemplazione, gli è rimasto solo il pensiero ma è interiore. L’uomo non contempla.
La perdita di certezze, unita alla perdita dell’unico riferimento religioso e politico che nel medioevo
era la cristianità, provoca insicurezza e mancanza di punti di riferimento, è premessa del disordine
che si contrappone alla prevedibilità dell’organizzazione medievale, ordinata gerarchicamente.
L’elemento della paura segna le popolazioni dell’epoca e condiziona e indirizza alla scelta della
sicurezza come priorità assoluta in termini politici e giuridici.

Di conseguenza il problema dell’ordine diventa un argomento decisivo: bisogna sottrarre l’individuo


all’insicurezza e per farlo occorre un’autorità nuova e forte, che si ponga come custode di un ordine
nuovo.
LEVIATANO DI HOBBES
Hobbes affermava “Homo homini lupus = L'uomo è lupo per l'altro uomo”, con questa massima egli
voleva sottolineare come l’uomo non sia né buono né cattivo, egli è un essere vivente e come tali
simili ad altri animali, tipo i lupi, i quali non attaccano per malignità ma per fame.

Secondo Hobbes, lo scopo degli uomini è di preservare loro stesso. Se non è stabilito un potere, o
se esso non è abbastanza forte per assicurarci, l’uomo preferisce affidarsi a sé stesso e alla propria
forza.
Lo Stato dunque è per Hobbes il freno regolatrice di tutti gli uomini (se ognuno facesse come vuole
non ci sarebbe ordine), il potere comune va assegnato allo Stato, che tramite un contratto tra loro,
genera la pace tra gli uomini. Per Hobbes gli uomini sono continuamente in competizione (e questa
fa nascere odio e invidia tra loro), sono poi dotati di ragione (ognuno pensa di ragionare meglio
dell’altro), sono dotati di sentimenti (a differenza degli animali come le formiche), possono parlare
tra loro, possono essere irragionevoli, e nei rapporti tra loro sono soggetti a giudizi reciproci.
Egli sosteneva che il concetto di giustizia appartenesse solo al Leviatano, cioè a chi governava il
popolo per garantire la sicurezza e la vita ai cittadini. cioè come un SIMBOLO DELL’ONNIPOTENZA
DELLO STATO NEI CONFRONTI DI UN INDIVIDUO, col fine di generare la pace e la difesa.

In piu’, per Hobbes la proprietà privata era definita dallo Stato e quindi non era un diritto.
La rivoluzione sta nel fatto che per ottenere la proprietà privata bisogna lavorare.

Scoperta dello spazio → sfruttamento dello spazio per arricchirsi → favorito dall’etica protestante
→ nascita del concetto di individuo con diritti e doveri → l’uomo è un essere razionale →
giusnaturalismo moderno.

Eugenj d’Ors (anni 20) identificò il passaggio dal medioevo alla modernità con quello dal gotico al
barocco e quindi dalla «guglia» (simbolo della tensione spirituale dell’uomo verso Dio del medioevo)
alla «cupola (con una base molto ampia e un vertice in cui confluiscono tutte le linee dell’edificio,
che simbolizzava la condizione moderna degli Stati territoriali dominati da un sovrano laico, assoluto
ma umano).
Al concetto di Stato è associato il concetto di «sovranità» che rappresenta la “summa potestas”, cioè
il potere massimo. La SOVRANITA’, invece, può essere intesa come esterna (tutela dello Stato
rispetto ad altri stati), ed interna (stabilire l’ordine in una popolazione). Lo STATO SOVRANO si
distingue dal TOTALITARISMO perché quest’ultimo impone il terrore come strumento per la
propaganda.

I SEI LIBRI DELLO STATO – JEAN BODIN


Jean Bodin diceva che nessuno, nemmeno il Re, ha il potere al di sopra dello Stato. Dal latino la
parola legge significa il comando di chi ha il potere sovrano.
Egli elenca caratteristiche della sovranità:
- originarietà: il potere dello stato non deriva da nessun potere precedente.
- perpetuità: il ruolo del potere dello stato persiste nel tempo.
- assolutezza: uno stato fa le leggi senza dover chiedere a nessun superiore gerarchico (nemmeno
Dio).

Con lo Stato moderno si evidenzia anche la differenza tra diritto pubblico e diritto privato: parlare di
diritto pubblico vuol dire che lo Stato cambia struttura rispetto al concetto di stato patrimoniale
tipico della società medievale. Nello Stato moderno il patrimonio diventa pubblico poiché alimentato
dai singoli cittadini attraverso le tasse ed usato a beneficio di tutti, ad esempio nella difesa.

In relazione alla distinzione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato vediamo come lo Stato sovrano
moderno assoluto (ad es. quello di Re Sole del Seicento) è paradossalmente

l’altra faccia dello Stato liberale, perché favorisce gli spazi di commercio tra privati. Per capirlo
bisogna innanzitutto differenziare il concetto di Stato assoluto da quello di Stato tirannico e di Stato
totalitario. Il comando del sovrano è infatti assoluto ma non illimitato, esso è inoltre razionale e
prevedibile al contrario della tirannide che è caratterizzata dall’arbitrarietà. La nozione di assolutismo è anche
molto diversa da quella di totalitarismo, dal momento che il potere di quest’ultimo è pervasivo, mira a
trasformare la natura dell’uomo, a plasmarne la personalità mediante il terrore e la propaganda; infine gli Stati
totalitari controllano politicamente la sfera economica, al contrario lo Stato assoluto è tale dal punto di vista
della gestione ma lascia spazio libero all'azione tra privati, i cittadini sono lasciati liberi di muoversi “nello
spazio lasciato libero dalle leggi” (Hobbes), all’interno dei confini delimitati dalle leggi lo Stato moderno
assoluto pone le premesse della libertà economica ed individuale.

Mentre nel medioevo il diritto era consuetudinario, nell’età moderna esso viene concepito come complesso di
regole rese obbligatorie in un gruppo sociale poiché dettate dalla volontà di un’autorità superiore che esprime
e genera razionalità ed ordine. Durante il medioevo l’individuo appartiene indissolubilmente ad un corpo
sociale che attribuisce privilegi e doveri, con la modernità si fissa anche il criterio di consapevolezza
dell’esistenza dei diritti soggettivi ed individuali.

LINEAMENTI DI FILOSOFIA DEL DIRITTO – HEGEL – STATO MODERNO


Per Hegel il diritto studia la volontà libera in sé e per sé, nel suo concetto astratto e nella determinazione
dell’immediatezza. Il diritto è quindi formale perché prescinde dall’intenzione.

TEOLOGIA POLITICA – CARL SCHMITT – STATO SOVRANO


Per Schimitt lo Stato Sovrano ha il potere superiore a tutto e tutti, ma con una eccezione: in casi di emergenza
può intervenire la costituzione se necessario, che la regola, ma lo Stato sovrano può sempre decidere di
sospenderla.

IL PROBLEMA DELLA SOVRANITA’ E LA TEORIA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE – KELSEN – STATO SOVRANO
Kelsen distingue il diritto statale (indipendenza nel rapporto stato-sudditi) e diritto internazionale (rapporto
stato-altri stati; ogni stato è indipendente dagli altri).
LA SOVRANITA’ IN DISCUSSIONE. DIRITTO, STATO E NAZIONE NEL COMMONWEALTH EUROPEO –
MACCORMICK –STATO SOVRANO
Egli analizza i vari trattati che hanno portato all’Unione europea: nasce un diritto comunitario che regola il
rapporto tra stati, ed è di livello superiore rispetto a tutti.
L’efficacia della politica di un singolo stato aiuta nella definizione del diritto comunitario.
Di questo concetto non fa parte la Sovranità assoluta, essa è assente dal sistema politico e giuridico della
Comunità Europea.

DIRITTI SOGGETTIVI

Prima della modernità l’individuo non era considerato come soggetto autonomo di diritti.
L’immagine tipica è quella del “dovere” e non del diritto: la società viene preservata attraverso l’imposizione di
regole, formulate come comandi o divieti, che hanno la funzione di disciplinare e rendere possibile la
convivenza tra i soggetti. L’individuo (e con sé l’individualismo) era ritenuto pericoloso in quanto elemento
disgregatore della società.

Dopo la modernità subentrano i DIRITTI SOGGETTIVI per gli individui (in precedenza c’erano solo comandi e
divieti che permettevano la convivenza pacifica tra gli uomini, ma la loro persona in sé era sottovalutata). Si
parla di INDIVIDUALISMO (Hobbes diceva che esso porta a disgregare la società).
Nel 1689 subentra il BILL OF RIGHTS in Inghilterra, per cui si parla di DIRITTO DI LIBERTA’ DEL CITTADINO che
non può essere limitato, purchè sia consentito dalle leggi vigenti.
I diritti soggettivi esprimono:

• Libertà: il soggetto è libero di decidere se avvalersi o meno del potere conferitogli.

• Forza: una volta esercitato, il diritto è in grado di realizzare pienamente l’interesse.

Si comincia a parlare di DIRITTI REALI (tra l’uomo e le cose), DIRITTI DI CREDITO (rapporto economico tra gli
uomini come debitori/creditori), e di OBBLIGAZIONE GIURIDICA.

DIRITTI SOGGETTIVI PRIVATI= rapporti di diritto privato e civile tra soggetti che si trovano in una posizione
paritaria.

DIRITTI PUBBLICI SOGGETTIVI= tra individui e Stato. Essi coincidono con i diritti umani (diritto di libertà:
lasciare liberi i cittadini di agire nell’ambito della vita politica ed economica; diritti sociali: scuola, lavoro salute,
uguaglianza, privacy etc).
Con la costituzione francese e quella tedesca, si pongono le basi. Con Leone 19* si parla di “giusto salario”.

Il tema dei diritti umani pone due questioni, diverse ma connesse, quella della loro storicità (l’origine
giusnaturalistica del concetto si percepisce fin dal senso del termine “dichiarazione”, con cui si esprime la
condizione di un diritto pre-esistente e indipendente dall’organizzazione giuridica) e quella della giustiziabilità:
il problema dei diritti umani si pone a partire dall’osservazione della difficoltà di trovare un fondamento
assoluto ed immutabile; sono state perciò individuate 4 generazioni di diritti a partire dall’osservazione che in
ogni caso il concetto della protezione dei diritti nasce come esigenza di difesa dal potere nelle sue diverse
forme (prima il potere religioso, poi quello politico, poi quello economico e infine quello tecnologico che si
identifica con la scienza e le sue applicazioni). Secondo Norberto Bobbio ne “L’età dei diritti”, i diritti di
I°generazione sono i «diritti individuali», i primi di cui storicamente si richiede ed ottiene la tutela giuridica,
anche detti “diritti di libertà”, assicurano la protezione dei diritti civili e politici (riunione, stampa, pensiero,
parola…).
La II° generazione è quella dei cosiddetti «diritti sociali», quelli relativi ad esempio alla pubblica istruzione o
alla tutela della salute, per i quali è necessaria l’azione dello Stato che ne deve assicurare l’esecuzione oltre che
la tutela.
LA LIBERTA’ DEGLI ANTICHI PARAGONATA A QUELLA DEI MODERNI – BENJAMIN CONSTANT – MODERNITA’
La libertà come la intendiamo oggi (libertà di opinione, di esporsi, di essere chi si vuol essere etc.) è diversa da
quella degli antichi. Gli antichi erano liberi quando potevano concludere trattati di alleanza con gli stranieri,
leggere gli atti, votare le leggi, denunciare i magistrati etc. era una libertà limitata; l’opposizione a queste cose
era considerata un crimine.
Secondo Constant, gli antichi erano piu’ dipendenti dalla vita politica, a differenza di oggi che pensiamo ai
diritti individuali (di cui non ci occupiamo personalmente, e lasciamo che le istituzioni facciano a loro
piacimento).

Egli distingueva:

▪ Libertà nello Stato: che egli assimilava alla tradizione antica, identificandola con la partecipazione alla
vita pubblica. In questo caso si è liberi di agire perseguendo attivamente un progetto in termini politici. Questa
forma antica di libertà corrisponde secondo Constant alla condizione tipica di Sparta e poi di Roma.

▪ Libertà dallo Stato: che egli assimilava alla tradizione moderna, identificandola con l’indipendenza
nelle attività private. In questo caso lo Stato deve evitare di creare impedimenti all’azione individuale. Questa
forma moderna di libertà vede il suo embrione nella condizione di Atene che mostra un sistema istituzionale,
di vita e di pensiero molto vicini a quello moderno.

III° generazione di diritti: quella in cui i diritti, individuali o sociali, riguardano i gruppi umani e i cittadini del
mondo e non più i singoli individui come cittadini di un solo Stato, in questa generazione l’uomo è visto da
diversi punti di vista o in diversi momenti: fanciullo, anziano, malato, disabile, consumatore, ecc. e le tematiche
riguardano l’ambiente, la qualità della vita, la pace.

IV° generazione di diritti: coincide con la diffusione delle nuove tecnologie, si riferisce all’uomo nel villaggio
globale e riguarda tematiche come la tutela della privacy ed i problemi relativi alla bioetica nati dalle nuove
scoperte della scienza medica.

In Germania l’influenza della visione kantiana del diritto e poi la scuola storica di
Friederich von Savigny pone al centro i rapporti intersoggettivi e degli istituti giuridici, marginalizzando la
tematica dei diritti soggettivi.
Anche in Francia, dopo l’entrata in vigore del Codice Napoleonico e con la Scuola dell’Esegesi, fiorisce un
movimento di critica radicale al soggettivismo giuridico che ha come scopo il far emergere gli aspetti sociologici
e l’essenza solidaristica del diritto. Il maggior esponente di questa tendenza è Leon Duguit, il cui percorso
filosofico è contrassegnato dalla volontà di eliminare dalla scienza giuridica tutti i concetti ritenuti “metafisici” -
tra cui il diritto soggettivo e la proprietà privata - nel tentativo di edificare un sistema giuridico basato sui
principi immanenti della solidarietà e della funzione sociale di ogni norma ed istituto.
Quindi sebbene l’origine del diritto soggettivo costituisce un rovesciamento, la sua evoluzione è caratterizzata
da un duplice ed opposto fenomeno: da un lato c’è un’espansione delle rivendicazioni individuali e collettive che
trova terreno fertile nella “teoria dei diritti umani”, la quale ha il pregio di porsi a priori e in assoluto rispetto
ad esso; dall’altro lato il concetto di diritto soggettivo sembra subire un ridimensionamento che ne limita il suo
potenziale egoistico e antisociale, equilibrando il rapporto tra la libertà dei privati ed il bene comune.

Solo con il «COSTITUZIONALISMO» si può parlare effettivamente di diritti, nella


misura in cui le costituzioni passano da una funzione meramente descrittiva ad una
prescrittiva:

Con il COSTITUZIONALISMO si è capito di dover creare sempre il giusto equilibrio. Inoltre non concedevano ai
cittadini tutte le garanzie piu’ necessarie. Subentrano i DIRITTI FONDAMENTALI.

I diritti fondamentali: non ha senso l’enunciazione dei diritti se non c’è contestualmente una disciplina
organizzativa che attribuisce loro esistenza giuridica.
Per questi motivi si comincerà a parlare di LEGGITTIMITA’: avere un diritto significa imporre un obbligo e
disporre della forza di un terzo (giudice) che costringe un soggetto ad avere un determinato comportamento
nei confronti di un altro.

Il diritto in termini contemporanei: «è una struttura deontica, la pretesa legittima da parte di un soggetto
(individuo o gruppo) a che altri soggetti facciano/non facciano qualcosa nei suoi confronti; non in termini di
aspirazione interiore ed inefficace, bensì un meccanismo che provoca azioni e reazioni».
La LEGGITTIMITA’ è il criterio di validità del potere, il titolo in base al quale esso emana le sue regole ed
esigere obbedienza (osservanza) da coloro a cui si rivolge. È la condizione dell’« autorità»: ciò che rende il
potere diverso dalla forza; un attributo che qualifica lo Stato come sovrano, che si fonda sulla presenza in una
parte rilevante della popolazione (Kelsen diceva che non è possibile che tutti siano obbedienti, che tutti
manifestino il consenso, nel caso in cui ciò avviene c’è qualcosa che non va. Il diritto presuppone l’illecito, se
abbiamo un ordinamento giuridico dobbiamo presuppore la sua trasgressione) di un grado tale di consenso da
assicurare l’obbedienza, ricorrendo alla forza solo in casi eccezionali.
È la caratteristica che assicura ad un ordinamento il riconoscimento interno (da parte dei cittadini) ed esterno
(da parte degli altri ordinamenti sovrani); riguarda la titolarità del potere, non il suo esercizio .

Max Weber distingue tre tipi di legittimità:

- Tradizionale: le regole si trasmettono per tradizione e si rinnovano per opera del corpo giudiziario.

- Carismatica: si fonda su una “forza eroica soprannaturale” (non sono professionisti della politica).

- Legale: che definisce la modernità; l’obiettivo dello Stato moderno è quello di avere potere legislativo,
cioè di emanare e decidere su tutte le leggi che possano esistere in uno stato. Questo potere è
rappresentato da un giudice, che però non ha potere di cambiarle le leggi, deve solo far valere la
regola interpretativa del sistema legislativo (per un determinato caso).

INTERESSE LEGITTIMO= posizione giuridica tutelata solo indirettamente rispetto ad un interesse piu’
generale
Kelsen era contro questa distinzione, e diceva che si devono distinguere diritto pubblico e diritto
privato, e che questa novità è solo una giustificazione per gli uomini per raggiungere sempre piu’ lo
stato liberale.

La PERSONA GIURIDICA, invece, è una nozione dell’800, che individua nel mondo altri soggetti, oltre
agli esseri umani, come titolari di diritti e doveri. Per questo motivo lo Stato affida il potere ad un
ente astratto, per così chiedere privilegi per sé mascherandoli (ad es. nell’800 si mascherava con la
borghesia).

Carl Schmitt poi individuerà la differenza tra SOVRANITA’ E STATUALITA’ poiché lo Stato non
sembrerà piu’ in grado di interpretare il suo ruolo politico (questa è la base anche del tipo di stato
che abbiamo oggi).
In seguito, con la razionalizzazione, che coincide con il DIRITTO POSITIVO/POSITIVISMO GIURIDICO)
subentra:
- la necessità di un testo di regole scritto (dopo aver visto il CODICE NAPOLEONICO di
NAPOLEONE BONAPARTE che volle sistemare il sistema politico in Francia).
- Al diritto positivo vanno escluse tutte le istanze extragiuridiche (natura e religione).
- Il diritto positivo, nasce in Europa tra 700-800, ed è una dottrina secondo cui non esiste altro diritto se
non quello posto dallo Stato mediante atti autoritativi, come le leggi, la cui violazione implica la
previsione di sanzioni, a loro volta fissate dallo Stato secondo criteri precisi.
- Coincide con il giusnaturalismo moderno: si fonda sull’idea della ragione universale e del contratto
sociale, consolidate anche grazie alla spinta illuminista.

Kelsen, aveva una visione negativa della cosa, diceva che con il diritto naturale la legge te la dava il
divino, per cui non si necessitava di un ordinamento sociale.

Norberto Bobbio elenca 7 caratteristiche del positivismo giuridico:


- Avalutatività: il diritto si fonda su una struttura formale/un testo

- Coattività: il diritto si avvale della forza


- Legalità: la legge dello Stato è la fonte prevalente

- Imperatività: il diritto è un insieme di norme giuridiche che sono imposte come comandi,
alle quali corrisponde una sanzione.

- Sistematicità: le leggi vanno considerate nell’insieme e non singolarmente


- Il meccanicismo interpretativo: il giudice si deve avvalere solo e sempre del testo
normativo, senza interpretarlo; egli funge da arbitro.
- La teoria dell’obbedienza: impone di rispettare le regole a prescindere dalla condivisione dei
contenuti.
Il Giusnaturalismo moderno (detto anche giuspositivismo) si basa sul principio del formalismo
scientifico ed interpretativo: Il diritto è una scienza che si crea sulla base di qualificazioni normative di
fatti rilevanti (aborto, immigrazione, pluralismo culturale etc).

Ogni norma indica quali sono i caratteri formali dell’atto giuridicamente rilevanti, in modo che, solo quando un
determinato comportamento li possieda, si produce l’effetto giuridico.
Questi caratteri sono determinati dalla fattispecie della norma.

La FATTISPECIE è la concretezza della norma: le condizioni elencate dalla norma definiscono quelle per cui la
norma debba essere fatta valere.

Si distingue tra “fattispecie concreta” (indica un fatto o un insieme di fatti che si verificano effettivamente e
che vengono ricondotti alla descrizione astratta contenuta nella norma) e “fattispecie astratta” cioè la norma,
anche detta “ipotesi normativa”.

A seguito della seconda guerra mondiale però, questo scenario cambia: IL GIUSPOSITIVISMO COMINCIA A
SEMBRARE PERICOLOSO (lo stato è un padrone). Si comincia a parlare di Costituzione, diritti individuali (in
maniera concreta) etc.

LA LEGGE
Nel passaggio allo Stato moderno, accanto alla monopolizzazione della produzione giuridica da parte dello
Stato, subentra la LEGGE con la quale avviene l’unione di tutte le fonti tradizionali del diritto in un’unica fonte.

L’ordine giuridico della società, lo IUS prevaleva sulla LEX e bisognava IURIS DICERE, attuare un diritto
preesistente rispetto all’autorità politica.
Prima il principe si comportava da giustiziere, il sovrano moderno in

vece concepisce il diritto come funzione fondativa della dimensione politica: diviene strumento di espressione
e controllo del potere, e di fonda sempre di piu’ sulla legge, che a sua volta si configura come ESPRESSIONE
DELLA SOVRANITA’ (del sovrano).
La legge dunque diviene lo strumento della protezione dei diritti.

Il diritto si statalizza e ne deriva la supremazia della legge su ogni altra manifestazione giuridica.

(( L’insieme di norme costituiscono l’ordinamento giuridico. A livello piu’ alto ci sono la COSTITUZIONE, e
ancora piu’ in alto il DIRITTO INTERNAZIONALE e L’ORDINAMENTO EUROPEO.

*La COSTITUZIONE non è un insieme di norme ma di principi normativi, che è diverso.


La Costituzione è lunga però per quanto lunga ha solo 139 articoli. Non è un codice, è un tipo specifico di
norma, che ha particolari caratteristiche. La nostra Costituzione è molto piu’ lunga e complessa di quelle
anglosassoni.

*I PRINCIPI COSTITUZIONALI sono un concetto ancora piu’ superiore alla legge.

La NORMA non è altro che una regola che è in grado di prescrivere un tipo di comportamento da applicare. Le
norme possono essere le leggi, ma anche le sentenze dei giudici e i regolamenti amministrativi.

La legge è diventata strumento fondamentale soprattutto nell’800, dalla Rivoluzione Francese fino ai
totalitarismi (essi sono andati al potere legalmente, utilizzando strumenti parlamentari che permettevano ciò),
che hanno portato l’affermarsi della borghesia nel mondo occidentale, che fissa l’eguaglianza formale (lo so
che se compio un atto le conseguenze saranno tali, indipendentemente, si è “tutti uguali davanti alla legge”,
fissando questo principio di mobilità sociale.

Questa condizione borghese era rappresentante del Parlamento ottocentesco, che fino alla Costituzione post-
fascista (contemporanea) non tollerava il suffragio cosiddetto: ELETTORATO PASSIVO che consente di essere
eletti.

La legge ha comunque una sua peculiarità per garantire quegli elementi del diritto borghese, che sono comune
a una forma etica, ma anche di garanzia.
Si tratta di un principio economico, che facilita quello della libera concorrenza, ma anche etico perché
garantisce l’uguaglianza dei cittadini.))

La modernità si compie attraverso il primato della legge GENERALE ed ASTRATTA, che


garantisce PREVEDIBILITA’ e EGUAGLIANZA:

 L’ASTRATTEZZA della legge non fa riferimento ad una fattispecie concreta, ma ad una fattispecie
astratta ed è applicabile ad una pluralità indeterminata di casi qualvolta la fattispecie si verifichi
concretamente (es. una norma che punisce l’omicidio, essa fa riferimento ad una classe di fattispecie
astratta (gli omicidi), non ad un omicidio concreto (es. del signor Mario)).
Si riferisce ad una categoria di azioni, a un fare o non fare tipizzato. Il requisito dell’astrattezza vale
anche a quelli che riguardano la caratterizzazione del diritto soggettivo, poggia su un fondamento di
tipo economico che ‘normalizza’ l’uomo, lasciando fuori categorie che vengono considerate ininfluenti
dal punto di vista dell’economia di mercato.

 LA GENERALITA’ della legge fa riferimento ad una categoria di soggetti e mai quindi ad un singolo
individuo, e garantisce una normatività media, adatta per tutti, tipica dello Stato di diritto, borghese e
monoclasse, della cui la legge interpreta l’omogeneità sociale e se ne fa espressione.

*Tuttavia la legge nella sua generalità deve essere specifica, altrimenti si rischia di mascherarne il senso
effettivo e i provvedimenti che prevede, il contenuto viene lasciato in un’indeterminatezza, che a sua volta può
produrre arbitrio, come nel caso delle GENERALKLAUSEIN (Clausole generali) prodotte dall’interpretazione
dei tribunali in epoca nazista, per stabilire dei comportamenti che, attraverso la corrispondenza formale,
rendevano l’interpretazione troppo generica al punto da poter essere riempita di qualsiasi contenuto.
Clausole che dal punto di vista giuridico erano considerate legittime, ma dal punto di vista morale non lo
erano.

• La CERTEZZA DEL DIRITTO si basa sulla PREVEDIBILITA’ delle conseguenze giuridiche delle proprie
azioni, perché le decisioni giurisdizionali e amministrative non sarebbero prevedibili se non fossero
fondate su norme preesistenti e note ai loro destinatari.
 L’EGUAGLIANZA della legge: tutti sono trattati allo stesso modo dinnanzi al potere giudiziario ed
esecutivo.

+ L’EGUAGLIANZA della legge in senso NEGATIVO: le leggi non sono uguali tra loro, ognuna serve a qualcosa, e
ognuna funge da limite per un qualcosa, dunque è una sorta di “freno” al potere politico.

 Es. fascisti, nazisti e Stalin sono andati al potere legalmente utilizzando la flessibilità delle costituzioni precedenti.
 Es. i contratti che violano le consuetudini pubbliche che siano ragionevoli e immorali.
 Es. il mio concetto di morale può essere condizionato da altri, lasciare questo concetto così generico rappresenta
una forma dio pressione politica su cui deve interpretare l’azione dei contratti, quindi annulla il principio di
certezza, che è uno dei principi di solidità del mondo borghese, attraverso la fissazione di leggi scritte per tutti. In
questo modo una legge può essere interpretata in qualsiasi modo.
 Es. se il tipo viene accusato di aver stipulato il contratto morale, uno che osteggio, viene considerato un nemico,
il suo contratto può essere annullato in nome di questa ‘clausa’, attraverso la quale si scrive una legge e si scrive
male, non per errore, ma per scelta.
 Es. L’articolo 2 del codice penale nazista diceva che un soggetto meritava punizione perché in conflitto con il sano
sentimento popolare (ebraismo).

La funzione della legge è quindi quella di garantire stabilità, razionalità e sicurezza.


La razionalità è l’applicazione calcolabile e dunque controllabile razionalmente di un principio giuridico
astratto, che assicura la giustezza di tutte le decisioni assunte.

La NOVITA’ è una caratteristica del concetto di legge: ogni legge rappresenta un elemento di novità. Sono atti
normativi che non si riferiscono a nulla, non ci si rifà ad un altro elemento normativo già esistente in
precedenza.

In Francia il Tribunal de Cassation, istituito nel 1791, aveva la funzione di salvaguardare la legge (non i diritti)
dall’interpretazione giurisdizionale, considerata come una minaccia.
Benjamin Constant, trattando il problema degli abusi del legislativo, riprende Rousseau, il quale in “buona
fede” aveva elaborato un’idea di legge che era stata strumentalizzata dai rivoluzionari, che giustificavano ogni
estensione del loro potere in nome di una presunta moralità della volontà generale.

La LIBERTA’ in relazione alla legge, è vista come la limitatezza da parte degli individui di voler far predominare
la propria volontà, quindi annullano l’amore per sé, per il bene comune.

La libertà secondo ROUSSEAU: l’uomo ha deciso di affidare il potere allo stato, per non nuocere sé stesso e
tutti i membri della società, lo fa per salvaguardarsi. Anche se questa concezione è stata poi utilizzata da alcuni
tiranni che hanno sfruttato questa idea per far predominare il proprio potere, sfruttando l’idea che tutto quello
che facevano era per il bene collettivo.

Rousseau teorizzò uno stato in cui la sovranità appartiene al popolo, quindi secondo lui il potere legislativo
(fare le leggi) appartiene al popolo, e il potere esecutivo (far eseguire le leggi) è del governo.

Carl Schmitt, alla metà del XX sec, dice lo Stato è la legge, la legge è lo Stato. Solo alla legge è dovuta
UBBIDIENZA (solo alla legge è negato il diritto di resistenza).
Esiste solo la legalità, quindi non esiste il comando dall’alto e non esiste autorità. La democraticità, la volontà
dello stato e la volontà del popolo, furono messe allo stesso piano, di conseguenza la legge era una
manifestazione della volontà popolare, ovvero tutto ciò che il popolo voleva, attribuendo alla legge dignità e
superiorità in virtu’ del suo legame con il diritto e la giustizia.

Nel diritto positivo, la legge è definibile come una delle fonti del diritto positivo mediante la quale il diritto si
produce in modo “volontario” (cioè non spontaneo), in quanto risultato di una specifica deliberazione, e
“specialistico” poiché la funzione legislativa è attribuita ad organi specificamente competenti: i PARLAMENTI.

In Italia la Costituzione prevede la formazione della legge all’art.70 e successivi. L’iniziativa legislativa (proposta
di legge) è affidata in prima istanza al Governo, ma anche al Parlamento, al corpo elettorale, ai consigli
regionali o al CNEL. La procedura formale inizia con l’esame della proposta di legge da parte della commissione
competente per materia, la quale conclude l’esame con l’approvazione di un testo, eventualmente anche
diverso da quello originario. La proposta passa poi all’Assemblea che la discute basandosi sul testo e sulla
relazione presentata dalla commissione (detta “referente”).
Tuttavia la procedura normale può essere abbreviata in caso di urgenza e può essere prevista una “procedura
speciale” con cui si affida alla commissione (in questo caso agisce in sede deliberante) il compito di deliberare
e approvare la proposta di legge. Il procedimento si conclude con la promulgazione da parte del Capo di Stato
e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Il rispetto dei requisiti formali rappresenta tutt’oggi una garanzia per il cittadino, in quanto assicura una tutela
rispetto alla possibilità che le autorità statali impartiscano ordini o divieti solo sulla base della propria volontà.
Difatti, se ad esempio viene richiesta una prestazione obbligatoria in materia economica, il cittadino ha il
diritto di verificare se questa sia autorizzata da una legge espressa dal Parlamento:
si tratta del «PRINCIPIO DI LEGALITA’» (nessuna prestazione economica può essere imposta dagli individui a
caso, va prima consultata la legge), il quale si specifica attraverso il concetto di «RISERVA DI LEGGE» che
prevede che la disciplina di una determinata materia sia regolata soltanto dalla legge e non da fonti secondarie
(decreti, regolamenti, consuetudine).
Ha una specifica funzione di garanzia poiché vuole assicurare che in materie particolarmente delicate, come i
diritti e le libertà fondamentali, le decisioni siano prese dall’organo rappresentativo del potere sovrano, ossia il
Parlamento.

Il principio di legalità va dunque inteso come il principio in base al quale tutti gli organi dello Stato che
esercitano un pubblico potere sono tenuti ad agire nell’ambito delle leggi, salvo i casi eccezionali,
espressamente stabiliti e legalizzati, in modo da garantire la discrezionalità e non l’arbitrarietà dell’azione della
Pubblica Amministrazione.

Il principio di legalità non va tuttavia confuso con il “legalismo”, cioè quella teoria per cui un atto è giusto in
quanto risulta conforme alla legge (formalismo etico) anche dal punto di vista dei contenuti.

La riserva di legge può essere:

• ASSOLUTA: nei casi in cui la materia deve essere regolata solo dalla legge.

*Riserva di legge assoluta - articolo 13 della Costituzione italiana, tutela, garanzia alla libertà personale, la
materia deve essere regolata dalla legge:
La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

A quali tipi di diritti si riconduce?

- Libertà personale e inviolabile. Non può essere soggetto di perquisizione. Tutela della persona.
Concetto specifico del DIRITTO PUBBLICO SOGGETTIVO (diritti che vengono fatti valere all’interno di
un soggetto privato nei confronti dell’autorità pubblica).
Es. se viene un poliziotto non può perquisirmi se non si presenta con un mandato che attesta e venga
approvato dalla legge.
- Le norme. Sono quelle tali secondo Kelsen, in quanto sono formulate come una proposizione ipotetica
che prevede un’ipotesi di comportamento illecito, e una sanzione che viene applicata a quest’ultimo.
Es. se io ammazzo qualcuno vado in prigione.

- La coazione. Limitazione della libertà, restrizione della libertà personale. Es. sanzioni.

• RELATIVA: nei casi in cui i regolamenti amministrativi possono contribuire a regolare la


materia, ma i principi devono essere stabiliti dalla legge (ART 97 della costituzione).

• RINFORZATA: nei casi in cui la materia è disciplinata dalla legge secondo un contenuto o
un procedimento ben preciso (ART 16 della costituzione).

*ART 16: ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo
le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può
essere determinata da ragioni politiche.
Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e rientrarvi, salvo gli obblighi di legge. La
costituzione non lascia alle leggi, ma specifica soltanto per sanità durante il lockdown ad es. è consentito
impedire la circolazione.

CRITONE – PLATONE
Platone scrive un dialogo immaginario tra Socrate e Critone, nel quale si affronta il tema del RISPETTO DELLE
NORME (indicate sia come norme positive che usanze).
Socrate è condannato a morte perché accusato di empietà e corruzione di giovani; si domanda se è giusto
fuggire via da dov’è carcerato, alla fine Socrate accetta il suo destino e sostiene che una res publica si tiene in
piedi solo se gli individui rispettano le norme.

STATO DI DIRITTO/STATO SOCIALE

Nel Medioevo l’uomo apparteneva ad una scala gerarchica della società, con l’evoluzione della borghesia, della
modernità, sono nati i diritti soggettivi e individuali. Nella lotta tra la borghesia e l’assolutismo monarchico
nacque il principio di legalità.
Esso indica l’eliminazione dell’arbitrio dall’attività statale, che incide sulla vita dei cittadini, e il nucleo di
giustizia completa a protezione della vita, della libertà e della proprietà.

Il principio di legalità è uno dei punti cardine dello STATO DI DIRITTO ➔ è la forma in cui lo stato riconosce
determinate forme di diritti individuali, diritti di libertà, ai cittadini, per cui lo stato si astiene dall’intervenire e
dal sanzionare determinati comportamenti.

(Lo stato di diritto indica l’eliminazione dell’arbitrio dalle attività statali che incidono sulle posizioni individuali
dei cittadini, a protezione della vita, della libertà e della proprietà).

Secondo Carl Schmitt, «il termine “stato di diritto” può significare cose tanto diverse, quanto il termine stesso
“diritto” e anche cose tanto diverse quanto lo sono le numerose modalità organizzative implicite nel termine
“stato”, che era comprensibile che propagandisti ed avvocati di ogni genere si appropriassero del termine per
diffamare i propri avversari come nemici dello stato di diritto».
Il concetto fu teorizzato da Kant, che non aveva formalizzato il pensiero, ma ne evidenziò gli elementi
essenziali.

Solo nella prima metà dell’800, con Robert van Mohl ha inteso lo stato di diritto come contrapposizione allo
Stato di polizia; la sua struttura può essere sintetizzata come fondata su 5 requisiti formali:

- La separazione dei poteri in legislativo, amministrativo e giudiziario


Quando parliamo di «separazione dei poteri» facciamo riferimento all'accezione data da Montesquieu: potere
legislativo (di chi emana le leggi) - potere esecutivo (proprio di un’istituzione, che sia il governo o la corona, ha
il compito di amministrare e far applicare le leggi) - potere giudiziario. Nello stato di diritto c’è quindi
un’attribuzione dei poteri ad organi specifici, nello stato costituzionale invece la divisione dei poteri non è
determinata dall’individuazione dei singoli organi depositari del potere, sebbene ci siano organi che
principalmente svolgono delle funzioni, soprattutto quelle legislative ed esecutive sono svolte da diversi
organi. (es. in Italia il potere legislativo è dato al Parlamento, composto da due camere, tuttavia alcuni atti
possono essere emanati in particolari circostanze, secondo particolari procedure, anche dal Governo o anche
da enti locali come le Regioni.
La Costituzione, sebbene non abbia mai avuto particolare riscontro, prevede anche la possibilità di presentare
al Parlamento leggi su iniziativa popolare. Bisogna poi tener conto dei referendum: quello «costituzionale» per
cui il corpo elettorale può fare entrare in vigore o bocciare un tentativo di riforma o quello «abrogativo» che
determina la possibilità di abrogare una determinata norma giuridica. Anche nel caso del potere esecutivo,
sebbene questo sia prevalentemente svolto dal Governo, vi sono gli enti locali, cioè le Regioni ma anche
autorità indipendenti, come Banca Italia che regola i rapporti tra le banche).

- L’indipendenza della magistratura, che risulta sottoposta solo alla legge:

il giudizio dei giudici non può essere totalmente discrezionale ed arbitrario ma deve trovare fondamento nella
legge.

- La tutela giuridica dei diritti del cittadino (anche contro l’azione del potere pubblico).

- La legalità dell’amministrazione che garantisce la regolarità formale dell’azione amministrativa che


può agire solo nei limiti imposti dalla legge. Rappresenta la tutela del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione.

- Il principio di indennizzo, che tutela gli affari del singolo e, in special modo, la proprietà privata .
Dice che lo stato può esplorare una proprietà privata ad un soggetto, ma riconoscendogli un
indennizzo, una giusta retribuzione.

Lo stato di diritto, dunque, tende a SALVAGUARDARE LA SFERA DELLA LIBERTA’ DEL SINGOLO ATTRAVERSO UN
SISTEMA DI GARANZIE, COME IL PRINCIPIO DELLA LEGALITA’.
Si ridimensionano le funzioni dello Stato, che diventa Stato minimo; l’individuo diviene il protagonista della
scena giuridica, si richiama ai presupposti tematici del liberalismo e del giusnaturalismo moderno.

E’ detto anche “STATO GUARDIANO NOTTURNO” perché fa riferimento a libertà negative (negative perché lo
Stato deve lasciare lo spazio ai cittadini di agire, non deve reagire.

Kant diceva che l’illuminismo segna “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, avvalendosi del proprio
intelletto”. Nella teoria kantiana, lo Stato doveva essere una collettività giuridicamente ordinata ed operante in
modo da garantire possibilità di espansione e realizzazione del singolo, lasciandolo però libero di diventare
adulto.

Tocqueville invece pensava che lo stato di diritto dà agli uomini un modo di pensare già bello e fatto, toglie agli
uomini anche la fatica di pensare. Tocqueville lo definisce Stato-tutore➔ cioè cerca di arrestare la vita dei suoi
figli all’infanzia, togliendogli “il fastidio di pensare e la fatica di vivere”.
Diventa, perciò, compito di tutti i cittadini sottrarsi al “tutorato” che spesso viene offerto, mascherato sotto
forma di protezione.

Questa libertà “moderna”, espressa nello stato di diritto, in cui l’uomo vuole tutelare solo sé stesso e sottrarsi
alle sue funzioni sociali, è differente dalla concezione antica di libertà, in cui l’uomo realizzava la propria
natura solo attraverso l’attività pubblica.
Si trattava di una libertà collettiva, compatibile solo con il totale asservimento del singolo a uno stato di tipo
sociale, che è pervasivo e condiziona totalmente la vita dell’individuo (dal discorso di Benjamin Constant del
1819 in “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”).
È da questo discorso che si può definire, in termini contemporanei, del concetto di libertà ➔ intesa come
indipendenza del singolo che, però, non può esistere senza la partecipazione alla vita politica (es. senza libertà
civili, la partecipazione alla vita politica risulterebbe vuota, ma anche senza tale partecipazione, le libertà civili
non durerebbero. Quindi, le due realtà devono coesistere per poter. Parlare correttamente di libertà).

La libertà politica è, quindi, un mezzo che consente a un individuo di varcare i propri confini e diventare un
cittadino consapevole e partecipe alla vita sociale (grazie all’ esercizio del voto), influenzandone le decisioni.

LO STATO SOCIALE
Nella seconda metà dell’800, con l’affermarsi della società industriale, nasce il problema della questione
sociale che richiede l’intervento diretto dello stato per poter attuare concretamente gli ideali di solidarietà e
giustizia sociale.
Si comincia a parlare di società e a considerarla come un nuovo soggetto, con delle esigenze autonome rispetto
all’autorità statale.

Al concetto di stato di diritto si affianca quello di STATO SOCIALE che deve garantire i livelli minimi di reddito,
alimentazione, salute, educazione e abitazione e li assicura ad ogni cittadino come diritto politico e non sulla
base della carità occasionale dei più benestanti (definizione che va fatta risalire a Lorenz Von Stein, che non la
cita espressamente, ma ne descrive la condizione, prodotta dalle conseguenze della rivoluzione industriale).
Es. diritto o dovere di andare a scuola fino ai 14 anni.

Lo stato sociale nasce dalla contrapposizione tra Stato e società industriale ed è caratterizzato dall’accumulo di
capitale e dallo sviluppo tecnologico, dal conflitto tra classi e dalla diffusione dell’istruzione tra le classi più
disagiate.

Questa serie di condizioni poste a tutela del proletariato industriale, si erano già delineate nella Germania di
Bismarck, del 1880 in cui si garantiva previdenza ed assistenza con l'attuazione di assicurazioni obbligatorie a
tutela del proletariato industriale, e che fu perfezionato poi con la costituzione di Weimar del 1919.
In Italia, un avvio dello stato sociale si ebbe con il fascismo, che introdusse un sistema previdenziale valido per
tutti.

Quando nasce in Italia lo Stato Sociale? Con il Fascismo. Anche Giolitti aveva dato il suo avvio.

Lo Stato, dunque, entra direttamente in contatto con i cittadini provvedendo alla sicurezza e alla soddisfazione
di tutti i bisogni della società, tendendo ad autonomizzarsi rispetto alla giurisdizione.
Quindi lo stato sociale si realizza esigendo l'azione e l'intervento dello Stato laddove lo stato di diritto ne
richiedeva l'astensione (mentre quest'ultimo considerava la legge come strumento per ottenere le finalità della
borghesia) lo Stato sociale si attua attraverso l'azione della Pubblica Amministrazione.

LA CRISI DELLA LEGGE


La crisi della legge avviene per la mancanza di un ordine comune tra poteri dello stato e si assiste a casi di
sovrabbondanza dell'attività legislativa (anche le questioni meno rilevanti sono spesso regolate con legge e
anche le relative modifiche richiedono nuove leggi), il Parlamento invece, appare lento, diviso in molteplici
partiti e la sua attività sembra mercificata.

Questa situazione confusionaria, porterà alla crisi dello stato sociale, che lascerà il posto allo Stato
costituzionale democratico, fondato sul suffragio universale, e la COSTITUZIONE assume il ruolo di
espressione del popolo sovrano (concetto di “sovranità della Costituzione”).

IN GRAN BRETAGNA (rule of law, common law e statute law)


La sovranità della costituzione, che andrà a sostituire quella della legge, era da tempo presente nella cultura
inglese, che ha sempre ignorato il concetto di stato, usando quello di governo che aveva il potere esecutivo e
legislativo. Esso differiva dallo Stato di diritto con il «Rule of Law» britannico:

RULE OF LAW indica una sorta di regola del diritto , che vede, accanto alla produzione legislativa parlamentare,
la presenza di un COMMON LAW, di cui i giudici sono custodi e, tramite il quale, essi possono dichiarare nulle
le leggi del parlamento che vadano contro il diritto e la ragione, limitando l'onnipotenza parlamentare; per
questo i sovrani inglesi non hanno mai avuto quella condizione di assoluto predominio che ebbero in altri
paesi.

L’origine del common law risale al 1066 quando Guglielmo il conquistatore istituì le 3 Corti centrali, con le quali
si sviluppò un diritto centralizzato fondato sull’uso delle autorità passate per quelle future: una decisione
pronunciata su un caso già risolto diviene utilizzabile per le decisioni sui casi futuri.
Nella seconda metà del ‘700 viene ripreso questo principio, e nasce il “PRINCIPIO DELLA TASSATIVITA’ DEL
VINCOLO DEL PRECEDENTE”: la common law non si crea, ma viene continuamente scoperta dai giudici che la
adattano di continuo ai diversi casi nel corso del tempo.

La STATUTE LAW è la LEGISLAZIONE britannica, diversa dalla common law perchè quest’ultima è basata sulle
decisioni passate prese da altri giudici, la Statute law invece si riferisce alle leggi scritte da organi legislativi
come il Parlamento.

La Gran Bretagna, nonostante non abbia una costituzione scritta, segue il criterio del costituzionalismo
(menzionato nell’art. 16 della dichiarazione dei diritti francese del 1789), perché riconosce i diritti e attua la
separazione dei poteri.

Si parla di un costituzionalismo inglese inteso come espressione del valore della difesa dei diritti dell’individuo ,
fondato sul bilanciamento reciproco tra le funzioni governative e i centri di potere pubblico.
Esso è diverso ad esempio da quello francese, sorto dopo la rivoluzione, che subordina i diritti del singolo alla
costituzione (i diritti e le attribuzioni di potere devono essere fissati dalla costituzione) e riconosce la
predominanza del legislatore.

LA COSTITUZIONE
La Costituzione: l’insieme dei principi che stanno alla base del sistema normativo, di cui costituiscono il
nucleo fondamentale inderogabile e il relativo tentativo di cristallizzazione.

In origine il termine indicava “ciò che è stabilito” (statuto) e dunque la struttura costitutiva e ordinativa di una
comunità politica organizzata. Una riflessione su concetti simili a quelli costituzionali si possono trovare:

 Nell’età antica: parliamo di «politèia» intesa come insieme dei cittadini, o delle magistrature o come
organizzazione giuridica.

 Nel medioevo: con studi e teorizzazioni sulla figura del re-tiranno, sul diritto di resistenza e sulle leggi
fondamentali. Per Aristotele ➔ la costituzione era l’ordinamento delle varie magistrature di uno
stato.

Come primo esempio di costituzione, si può prendere in considerazione la magna charta del 1215, promulgata
da Giovanni senza terra in Inghilterra, con la quale si sanciva la limitazione di alcuni privilegi del Re, che da
quel momento, dovevano essere sottoposte all’approvazione di un consiglio, formato da esponenti della
nobiltà e del clero.

Con la MODERNITA’ che si può iniziare a parlare di costituzione come “ordinamento dei rapporti politici e
sociali”, fondato sull’idea della limitazione del potere sovrano e della protezione dei diritti.
Nel 1718, a Philadelphia, fu promulgata la prima vera costituzione moderna, composta di soli 7 articoli che
disciplinavano l’organizzazione e i poteri dello stato federale. L’anno dopo le fu affiancato il Bill of Rights, il
nucleo formativo posto a protezione dei diritti.

COSTITUZIONE SOSTANZIALE, FORMALE E MATERIALE

La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino promulgata come atto iniziale della rivoluzione francese,
segna l’esordio del concetto di COSTITUZIONE SOSTANZIALE: l’enumerazione dei diritti da tutelare contiene in
sé il senso dei principi filosofico-politici su cui si fonda.

Solo successivamente si è arrivati alla definizione di un concetto più ampio di costituzione senza particolari
riferimenti a specifici modelli di organizzazione politica: ogni Stato ha le sue regole fondamentali, in base alle
quali si organizza e si struttura l’apparato giuridico, poiché le regole costituzionali non si considerano
subordinate alle ragioni della politica, ma vi<<<ceversa. Quindi ogni Stato è una Costituzione ed ogni Stato ha
una Costituzione, che può essere o meno scritta.

Con la formalizzazione (scrittura) della Costituzione, essa può essere definita COSTITUZIONE FORMALE.
(La maggior parte delle costituzioni sono state scritte, quella britannica invece no dato che la sua
organizzazione si basa sull’attività giudiziale protetta dalla common law).

Oltre alle norme scritte, in Italia è stato elaborato da Costantino Mortati un altro concetto, quello di
COSTITUZIONE MATERIALE:
L'insieme dei principi e delle prassi utilizzate dalla classe politica dominante in un determinato momento
storico. Nasce dalla necessità di colmare le lacune della Costituzione scritta, o per adattarla ai mutamenti
storici senza modificarla formalmente.
Es. il Fascismo non poteva rinunciare ad una costituzione formale, ma ne ha apportato delle modifiche in
relazione ai suoi principi politici, pur rispettando i principi della costituzione formale di quei tempi.
Durante l’interpretazione da parte di un giudice, essa non può andare in contrasto con la Costituzione formale
perché la violerebbe.

Lo Stato dunque si è evoluto nel tempo divenendo uno STATO COSTITUZIONALE: i diritti individuali e le scelte
politiche entrano a far parte della vita degli Stati, giuridificandosi mediante le costituzioni, intese come la
massima espressione della razionalizzazione del potere.

Nel XX sec, soprattutto dopo la prima guerra mondiale e grazie al positivismo giuridico il concetto di
Costituzione tende a perdere di credibilità, difatti le dittature degli anni ’20 e ’30 (la Rivoluzione Russa, il
fascismo, il nazismo) intimidirono i giuristi, costringendoli a non fiatare. La Costituzione divenne uno strumento
puramente organizzativo di limitazione di alcune regole.

Ad oggi, essa ammette una pluralità di orientamenti e di scelte politiche diverse nel tempo purché compatibili
con i suoi principi attuali (anche i principi costituzionali possono cambiare nel tempo, ma si tratta di
un’evoluzione estremamente lenta). L’innovazione politica deve necessariamente avvenire ma entro i limiti
segnati dal rispetto costante dei principi costituzionali.

Si pone dunque il problema del “consenso”: inteso come adesione ai principi fondamentali dell’ordinamento
giuridico da parte della maggioranza dei membri che lo compongono , indispensabile per reggere un sistema
giuridico.
L’ORDINAMENTO GIURIDICO
L’etimologia del termine «ordinamento» deriva da “ordo” che indica la composizione di più parti in un sistema:
implica quindi un giudizio di fatto ma anche di valore poiché designa un insieme ben ordinato; esso si intende
come “DOVER ESSERE” non “essere” in senso sociologico.

“L’ordinamento giuridico” è anche il titolo di un libro del giurista Santi Romano che nei primi decenni del ‘900
elabora una teoria dell’ordinamento, fondamentale come interpretazione della crisi dello Stato moderno, di
cui costituisce una forte critica, che individua il fondamento della giuridicità non più nelle norme prodotte dallo
Stato in termini autoritativi bensì nella società che si struttura autonomamente in un’organizzazione giuridica.

Il diritto prima di essere norma è organizzazione, di conseguenza il concetto necessario e sufficiente per
rendere in termini esatti quello di diritto è il concetto di istituzione. Ogni ordinamento giuridico è
un’istituzione, ed ogni istituzione è un ordinamento giuridico.

PLURALISMO DEGLI ORDINAMENTI

La tesi di Santi Romano si unisce inevitabilmente alla concezione pluralistica degli ordinamenti
➔ secondo cui va considerato ordinamento giuridico ogni organismo sociale che contiene al suo interno un
ordinamento di autorità, poteri, norme e sanzioni.

Quindi, lo stato, per Romano, è un’istituzione, è un ordinamento, ma non è l’unico: ci sono associazioni (spesso
per delinquere) interne ad uno stato, di cui violano le leggi, che, però, hanno un’organizzazione giuridica,
quindi autorità legislative ed esecutive: sono quindi ordinamenti giuridici se presi isolatamente.

Il pluralismo dei gruppi sociali fa nascere l’idea secondo cui non solo la legge, ma anche fonti come i
regolamenti delle associazioni o la scienza giuridica, siano a pieno titolo delle espressioni di diritto.

Dentro lo Stato si impongono, a volte, “governi particolari o privati” con le loro fonti e regole concorrenti, a cui
corrisponde la limitazione del ruolo della legge che spesso lascia spazio a fonti normative diverse e derivanti da
soggetti sociali diversi, i quali a volte possono essere nemici dell’ordinamento statuale che in tal caso li
persegue, considerandoli illeciti, ma finché essi vivono vuol dire che sono costituiti, hanno un’organizzazione
interna e un ordinamento che, considerato in sé per sé, non può qualificarsi giuridico. Si dà così rilievo al
significato giuridico del pluralismo dei gruppi sociali, aprendo la strada all’idea oggi ormai consolidata- secondo
cui non solo la legge ma anche altre fonti come i regolamenti delle associazioni interne e delle organizzazioni
internazionali, e la prassi giurisprudenziale, debbano essere considerati a pieno titolo espressioni del diritto.

Ciò induce a ripensare il problema delle fonti in termini diversi e più complessi e disancorati dall’obbligatorietà
della gerarchia normativa di matrice kelseniana.

Secondo Kelsen, il concetto di ordinamento coincide con quello del NORMATIVISMO ➔ un atto o un fatto si
considera giuridico solo se qualificato da una norma, che ne definisce la validità formale, al di là del suo
contenuto.

SISTEMA DINAMICO E STATICO


L’ordinamento viene, quindi, inteso come un sistema dinamico, in cui è pienamente presente il principio di
autorità ➔ le norme indicano, in pratica, i soggetti autorizzati a fare qualcosa, che assume un proprio specifico
significato giuridico.

Un ordinamento giuridico, inteso nella sua dinamicità, fondato sul principio della delega formale di autorità, si
distingue dai sistemi statici (come i comandamenti), basati su criteri normativi di origine giusnaturalista, che
fanno, cioè, riferimento a delle norme di base, fondamentali, da cui vengono tratte tutte le altre norme.
La staticità del sistema implica una ricerca della verità sostanziale, fondata sul criterio della deduzione dal
particolare all’universale.

Per comprendere meglio le differenze tra un sistema statico e uno dinamico, si può fare riferimento a Kelsen:

«Secondo secondo la natura del principio di validità, si possono distinguere due diversi tipi di ordinamenti:
sistemi statici e sistemi dinamici.
In un ordinamento statico, le norme sono “valide” (cioè noi assumiamo che gli individui, la cui condotta è
regolata da norme, devono comportarsi come prescrivono le norme) in virtù del loro contenuto, il quale ha
una qualità evidente che ne garantisce la validità: norme come “non mentire”, “mantieni la tua promessa”,
derivano dalla norma generale che prescrive la veridicità.

un ordinamento dinamico si basa invece sull’idea di un insieme di regole, ordinate tra loro in una scala
gerarchica in cui ogni norma “produce” il significato giuridico della norma immediatamente subordinata e allo
stesso tempo “esegue” la prescrizione prevista dalla norma di grado superiore. Al vertice della scala si pone
una norma fondamentale che rende valido l’intero sistema e alla base vi sono gli atti esecutivi e quelli derivanti
dall’autonomia negoziale.

Le varie norme dell’ordinamento non possono essere ottenute da quella fondamentale mediante alcuna
operazione intellettuale, esse devono essere create mediante “atti di volontà” da parte di quegli individui
autorizzati a creare norme da una qualche norma più elevata, tale autorizzazione è una “delegazione”.
La natura autoritativa si manifesta quindi chiaramente e rende più semplice la valutazione del profilo morale,
ideologico o culturale poiché esso appare chiaramente distinto dagli aspetti puramente giuridici: una sentenza
viene riconosciuta valida ed i suoi effetti diventano esecutivi, indipendentemente dal suo contenuto e dalle
opinioni sul merito che può suscitare.

LE FONTI
Le fonti si definiscono come: quei fatti e quegli atti da cui l’ordinamento fa dipendere la produzione di norme
giuridiche. Si tratta di fatti o atti se è presente o meno l’aspetto soggettivo riconducibile alla “conoscenza” e
alla “volontà” del soggetto che pone l’atto; per i fatti si parla invece di “idoneità”. Nel primo caso l’esempio
classico è quello della legge, nel secondo quello della CONSUETUDINE. Distinguiamo:

- Le fonti sulla produzione: possono essere definite come “norme sulla produzione di Norme”, sono
norme che individuano quali siano i fatti/atti idonei a creare norme giuridiche in un dato
ordinamento. Quindi l’ordinamento giuridico, oltre a regolare il comportamento delle persone, regola
anche il modo in cui si devono produrre le norme: nella Costituzione ci sono norme che attribuiscono
direttamente diritti e doveri ai cittadini (es. quelle che riguardano i diritti di libertà), ma anche norme
che regolano la procedura che il parlamento deve seguire per esercitare il potere legislativo.

- Le fonti di cognizione: sono gli atti scritti, emanati da pubbliche autorità ma privi di contenuto
normativo ed esclusivamente rivolti al fine di rendere conoscibile il diritto oggettivo vivente, come ad
esempio la Gazzetta Ufficiale.

- Le fonti di produzione: sono gli atti/fatti considerati idonei a produrre norme giuridiche in un
determinato ordinamento.

- Le fonti riconosciute: corrispondono alla ricezione di norme esistenti, l’esempio lampante è quello
della consuetudine: essa viene considerata produttiva di diritto quando si ritrova la ripetizione
generale, costante ed uniforme di un determinato comportamento (usus), protratta nel tempo
(diuturnitas) con la convinzione di rispettare una norma giuridica (opinio juris ac necessitatis); è una
fonte importante nelle società a carattere statico ma non riesce ad ordinare la complessità
contemporanea, in quanto essa nasce dal particolare. (Recentemente, di fronte alla nuova condizione
giuridica connotata dall’economia globale, dal dominio del diritto delle imprese transnazionali, dal
rilievo del diritto internazionale, le fonti consuetudinarie hanno riacquisito un ruolo significativo).

- Le fonti delegate: sono quelle che derivano dalla delega che un potere giuridico di grado superiore fa
ad uno inferiore affinché produca norme in sua vece. È una condizione tipica degli ordinamenti
complessi, in cui la produzione normativa viene affidata dal potere legislativo a quello esecutivo per
integrare leggi che contengono solo direttive di massima e non potrebbero essere applicate senza
essere specificate; tale compito spetta appunto agli organi esecutivi, che hanno l’incarico di renderle
eseguibili. (Il regolamento è, rispetto alla legge, la tipica fonte delegata. Un altro rapporto di
delegazione è quello tra Costituzione e leggi ordinarie).

Le fonti normative sono legate tra di loro attraverso rapporti di produzione ed esecuzione, analizzate e inserite
in una struttura gerarchica, in cui la norma di grado superiore stabilisce limiti formali e materiali per quella di
grado inferiore.

Il CRITERIO DI TIPO GERARCHICO segue l’idea kelseniana di ordinamento giuridico, costruito a gradi, che
implica la relatività dei termini di “produzione” ed “esecuzione” delle norme, ciascuna delle quali esercita un
potere e crea un obbligo.
Questo sistema si fonda sull’ipotesi di un criterio di unità formale che definisce la validità di tutte le norme che
compongono l’ordinamento, assicurato da una norma fondamentale che postula per convenzione la chiusura
del sistema.

È indispensabile stabilire quando una norma è VALIDA, cioè quando fa parte di un ordinamento giuridico
poiché risponde ai requisiti formali da cui l’ordinamento stesso fa dipendere la validità, poiché ciò significa che
contravvenire a tale norma, implica incorrere in una sanzione che il giudice deve applicare.
Per spiegare il fondamento di validità formale delle norme, il giuspositivismo normativista di stampo
kelseniano ricorre all’espediente teorico della «norma fondamentale», la quale stabilisce il criterio di
appartenenza delle norme a un sistema senza uscire dall’ordinamento inteso in senso giuspositivistico, cioè
senza ricorrere all’idea del fondamento ultimo del diritto nella legge divina, nella razionalità umana o nel
contratto sociale.

La norma fondamentale autorizza chi detiene il potere ad esercitare la forza, non pretende che questa sia
giusta.

Questo modo di intendere l’ordinamento risponde ad una convenzione perché quello gerarchico non è l’unico
criterio di sistemazione delle fonti: si deve tener conto anche del «principio della competenza» - conseguenza
del carattere pluralistico degli ordinamenti contemporanei - e soprattutto del nostro che implica una forma di
sistemazione e di riconoscimento delle fonti che segue una linea orizzontale e non più soltanto verticale.
Ciò è la conseguenza dell’affermazione dello Stato Costituzionale che da un lato allunga la scala gerarchica
delle fonti con il rapporto tra Costituzione e legge, dall’altro introduce/accresce l’importanza di un altro
criterio di composizione dell’ordinamento, attribuendo alcune materie a fonti specifiche (es. leggi regionali).

Elenco delle fonti del diritto (non esiste una disposizione che contenga in modo esaustivo tutte le fonti del
diritto):

- Un primo elenco è contenuto nell’art.1 delle preleggi premesse al codice civile del 1942 che indica

 le leggi

 i regolamenti

 le norme corporative

 gli usi

Si tratta di un elenco superato con l’entrata in vigore della costituzione repubblicana e incompleto poiché non
tiene conto di tutte le disposizioni della costituzione che individuano fonti del diritto (es. quelle che
attribuiscono potestà legislativa alle regioni, gli atti con forza di legge cioè i decreti legislativi e i decreti legge).
In realtà nemmeno esaminando l’insieme delle norme costituzionali si può definire l’elenco completo delle
fonti poiché la costituzione non prevede le fonti comunitarie (direttive e regolamenti) che ormai si considerano
fonti a pieno titolo anche nell’ordinamento italiano.

- Un secondo elenco si trova nell’art.1 della legge 11/12/1984 che enumera:

 leggi costituzionali

 leggi ordinarie dello Stato

 decreti che hanno forza di legge

 altri decreti del Presidente della Repubblica o del consiglio e delibere

 i dispositivi di sentenze della Corte costituzionale che dichiarino l’illegittimità costituzionale di leggi
o atti aventi forza di legge

 gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali

Non si menziona la costituzione poiché, in qualità di “fonte delle fonti”, resta fuori dall’ordinamento che essa
stessa costituisce. Anche in questo caso però restano fuori le leggi regionali, gli statuti degli enti locali, le fonti
comunitarie, e il «referendum abrogativo» - previsto dall’art.75 della Costituzione, considerato fonte
normativa poiché abrogare non significa non disporre, ma disporre diversamente.

Le fonti comunitarie sono state introdotte all’entrata in vigore della Costituzione italiana, con leggi ordinarie di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Si distinguono in due categorie:

 I regolamenti: hanno portata generale, sono obbligatori in ogni loro parte e si considerano applicabili
direttamente in ogni Stato membro.

 Le direttive: non sono immediatamente efficaci e sono dirette agli Stati che devono conformarvi le
rispettive legislazioni.

Affinché si possa parlare di ordinamento nell’accezione giuspositivistica del termine, è necessario individuare
dei criteri di sistemazione delle fonti, che servano a risolvere i casi di incompatibilità tra norme ugualmente
valide. Il sistema deve essere una «totalità ordinata» per rispondere all’esigenza di un alto grado di
“prevedibilità” nell’ambito dell’ordinamento: l’“indeterminatezza” comporterebbe la presenza di “fonti
parallele” che sfuggono alla legittimazione democratica senza necessariamente garantire maggiore giustizia e
razionalità.

Criteri delle fonti:

- il primo criterio è quello gerarchico, che si attua determinando la supremazia di uno o più organi su altri.
Questo criterio determina la cosiddetta FORZA DI LEGGE, cioè la capacità di immettere nuove norme o di
abrogare le precedenti.

- Il secondo criterio è quello di competenza, che delimita il raggio d'azione delle fonti di produzione, in base
alle materie disciplinate.

- Il terzo criterio è quello cronologico, in base al quale, in caso di antinomia tra due norme giuridiche prevale
quella che è stata promulgata successivamente, ossia quella più recente.

- L’ultimo criterio è quello di specialità, che stabilisce la preferenza della legge speciale su quella avente
carattere generale, anche se successiva.

Negli ordinamenti giuridici di civil law, le norme invalide restano presente fino a che l’invalidità non è
dichiarata espressamente con l’esplicitarsi dell’«ABROGAZIONE» - che è una conseguenza specifica del criterio
cronologico - o dell’«ANNULLAMENTO», che riguarda invece il rapporto gerarchico.

Il giudice deve verificare se una norma si possa considerare conforme alle norme introdotte da fonti superiori e
se sia stata prodotta da una fonte competente a regolare quella materia.
Questo avviene poiché, come dice Kelsen, in un ordinamento non può esserci contraddizione logica tra norme:
«Se è possibile che una legge incostituzionale, cioè una legge valida che contraddice le prescrizione della
costituzione vigente per la forma o per il contenuto, sia in un ordinamento è perché la costituzione non solo
ammette la validità delle leggi conformi ad essa ma in qualche modo anche di quelle incostituzionali poiché
prescrive che, se una legge viene prodotta in una forma diversa da quella prescritta o ha un contenuto diverso
da quello prescritto, in nessun modo deve ritenersi nulla fino a che essa non sia esplicitamente annullata da
un’istanza ad hoc».

Il sistema della “DISAPPLICAZIONE” connota invece il rapporto tra le norme comunitarie e le norme nazionali:
la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE e della Corte costituzionale italiana hanno stabilito che, in caso
di contrasto tra norme nazionali e diritto comunitario, sia il giudice che l’amministrazione dello Stato membro
devono disapplicare il diritto nazionale contrastante con il diritto comunitario.

NORMA

LA NORMA GIURIDICA NON È UNA LEGGE, NON TUTTE LE NORME SONO LEGGI: l’ordinamento giuridico è
composto da norme che hanno un livello di forza differente, sono molteplici e diverse, e non tutte
rispondono alle caratteristiche di generalità e astrattezza (proprie della legge).

NON È UN COMANDO E NON È UN IMPERATIVO, perché presuppone un rapporto tra DUE VOLONTA’.

- Il comando definisce un’espressione di volontà diretta a modificare la volontà altrui, si parla in merito
alla morale.

- Il comando giuridico non può dare garanzie che il comportamento altrui si adegui alla volontà di chi
prescrive.

Nel definire una norma giuridica, si fa una distinzione tra «statuizione normativa» cioè il testo scritto della
norma e «disposizione normativa» derivante dall’INTERPRETAZIONE. Si tratta di due concetti distinti ma
collegati perché la norma si trae dalla disposizione attraverso l’operazione intellettuale dell’interpretazione,
che è a sua volta regolata dal diritto.

INTERPRETAZIONE
L’interpretazione giuridica può intendersi come «una tecnica di integrazione della produzione normativa che
mette in relazione reciproca segni e significati diversi»

Il regolamento dell’interpretazione da parte del diritto avviene mediante la predisposizione di norme


specifiche, ma è anche caratterizzata dal ruolo dell’INTERPRETE che è attivo e generativo, tende cioè a
modificare la realtà sociale. La sua attività è creativa in quanto non si risolve nella mera applicazione di un
comando.

Nella fase in cui il positivismo giuridico esigeva razionalità e prevedibilità, realizzate attraverso la prevalenza
pratica e concettuale della legge, la funzione del giudice doveva limitarsi ad un’interpretazione letterale del
testo normativo, in quanto egli - come diceva Montesquieu - non era altro che “la bocca della legge”. Tale
concezione culturale era condivisa nell’Europa dell’illuminismo e del Codice napoleonico e diede vita alla
Scuola dell’Esegesi (movimento culturale che si affermò in Francia tra il 1830 e il 1870 e che sosteneva che
l’attività del giurista dovesse esaurirsi nel commento analitico del Codice napoleonico).
Nel ’900, invece, la complessità della struttura sociale non può più corrispondere a questa passività
intellettuale: le fonti normative si moltiplicano e se ne modifica la gerarchia. C’era una struttura sociale molto
complessa, che non permetteva questa “passività intellettuale” della fase precedente.
Perciò, le fonti normative si moltiplicano, l’economia si estende al di fuori della nazione e i parlamenti si
compongono sulla base di un suffragio sempre più ampio. Queste sono le premesse per il cambiamento
dell’interpretazione giuridica.

L’interpretazione secondo Kelsen


Kelsen dice che l’interpretazione è un procedimento spirituale che accompagna tutte le norme di
ordinamento dei vari gradi.
Il rapporto tra una norma di grado superiore e una di grado inferiore, come la costituzione e la legge ordinaria,
non è definito perfettamente: rimane sempre un margine di potere discrezionale (decisionale, libero) che può
essere colmato solo con un atto di volontà, non di conoscenza, da parte dell’interprete.

Tutti i metodi di interpretazione portando ad un risultato possibile, che, pero, non è l’unico corretto.
Il problema di trovare un a norma giusta, si basa sull’illusione della certezza del diritto.

Tuttavia quando Kelsen separa la conoscenza dalla volontà dell’interprete, ne trascura l’elemento di
connessione: il giurista, quando interpreta, non trae delle conclusioni di tipo sillogistico (di ragionamento,
deduzione) per capire il senso di una norma, ma ha bisogno di utilizzare dei passaggi dialettici progressivi,
tramite i quali può motivare la sua tesi interpretativa e scegliere il significato della norma che gli sembra più
adeguata a un determinato caso.

A partire dalla riflessione sulla crisi teorica del positivismo giuridico tradizionale e di quello kelseniano, emerge
il concetto di «ERMENEUTICA GIURIDICA», insieme con la teoria del “ragionamento” e
dell’“argomentazione”: secondo queste impostazioni, il giurista quando interpreta non si limita ad applicare
una premessa maggiore ad una minore per arrivare alla conclusione sillogistica con cui si deduce il senso
“vero” di una norma, ma argomenta cioè organizza il ragionamento in passaggi dialettici progressivi e a volte
discordanti tra loro; arriva così a motivare la tesi interpretativa che lo conduce a scegliere, tra i possibili
significati della norma, quello che appare più adeguato alla risoluzione del caso in esame.

In ciò influisce la «precomprensione» intesa come “un’ipotesi di partenza influenzata dall’appartenenza


dell’interprete ad un preciso contesto decisivo e vitale”. Ogni atto di ermeneutica giuridica comporta una
correlazione dialettica tra il messaggio normativo e la sua interpretazione: interpretazione ed applicazione
danno vita ad un “circolo ermeneutico” cioè la connessione tra la singola norma, l’ordine normativo in cui si
colloca il testo originario e la coscienza giuridica e sociale dell’interprete che condiziona il processo.

Negli ordinamenti di common law, i teorici del diritto della scuola del “Realismo giuridico” (movimento che ha
caratterizzato la riflessione giuridica in ambito statunitense e scandinavo già dalla fine dell’800, fondato
sull’idea della prevalenza dell’evoluzione sociologica rispetto alla staticità delle forme tradizionali del
giuspositivismo, e su quella del ruolo dell’efficacia delle norme giuridiche (invece che la validità). Roscoe Pound
distingue tra «law in action» e «law in books», la prima corrisponderebbe al “diritto in azione”, cioè al diritto
come fatto, che si oppone a quello astratto; Pound esprime in questo modo la “rivolta contro il formalismo”
tipica del clima intellettuale americano, dominato dal pragmatismo) hanno sottolineato il peso concettuale del
procedimento di formazione del giudizio da parte delle Corti e l’influenza che le convinzioni individuali
esercitano nell’elaborazione delle sentenze.

L’attività dell’interprete non è completamente libera e arbitraria, essa deve essere svolta secondo regole
giuridiche: le norme sull’interpretazione delle norme (in Italia l’art.12 delle preleggi al Codice Civile recita:
«Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può
essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie
analoghe. Se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello
Stato»).
NORMA GIURIDICA
La norma è una «proposizione prescrittiva che ha lo scopo di influenzare il comportamento degli individui e
di dirigerne la condotta verso determinati obiettivi».

Essa si distingue dalle proposizioni descrittive per la maggiore oggettività della descrizione rispetto alla
prescrizione (la prima si riferisce alla realtà osservabile empiricamente) e da quelle espressive per
l’impersonalità (viene esclusa la partecipazione emotiva di chi pone la norma e di chi ne è destinatario,
rispetto alla valutazione dei criteri con cui viene prodotta la norma; e non importa nemmeno il motivo per cui
una norma viene eseguita).

Le norme sono dotate di:

- FORZA PRECETTIVA, cioè della “capacità di modificare il comportamento del destinatario”

- LA PRESCRITTIVITA’ dalla sua formulazione basata sull’uso di VERBI DEONTICI (è obbligatorio, deve,
ecc.)

- si ricava anche dal contesto in cui le norme sono inserite (es. “Il Presidente della Repubblica indice le
elezioni delle nuove Camere” è una norma se corrisponde all’art.87 della Costituzione, ma potrebbe
essere una notizia, cioè una proposizione con valore descrittivo, se fosse pubblicata su un quotidiano).

Forme di produzione normativa:

- Le sentenze: concretizzazione di una norma dal generale all’individuale

- Le norme giuridiche: definiscono i fatti in senso giuridico selezionando tra gli aspetti della vita umana

- La funzione specifica: un comportamento che influenza quelli altrui

- La specialità del diritto: orientare i comportamenti e non riprodurli.

Le norme, in virtù della loro molteplicità e diversità, non vanno tutte ricondotte alle categorie della generalità e
dell’astrattezza (come fa invece Celotto quando parla della norma, tali principi sono ascrivibili alla legge, che è
solo una delle tipologie di norme possibili), esistono infatti anche norme individuali e concrete, come ad
esempio le sanzioni o gli atti che derivano dalle transazioni tra privati; ogni norma di grado superiore viene
individualizzata nella norma di grado inferiore che a sua volta definisce, con un procedimento creativo di
produzione normativa, la disciplina giuridica che si riferisce a casi specifici.

Le norme giuridiche non si limitano a rispecchiare la realtà, la loro funzione specifica è quella di influenzare
direttamente il comportamento altrui; esse hanno per oggetto non fatti del mondo fisico o umano, ma
qualificazioni normative di fatti e sono riconducibili alla categoria dei “giudizi ipotetici” (NB: nella norma la
parte principale riguarda la sanzione e non la parte ipotetica del comportamento corrispondente), che
collegano normativamente determinate conseguenze giuridiche al verificarsi di una FATTISPECIE (deriva dal
latino “facti species”=figura del fatto; si riferisce a una situazione-tipo, considerata astrattamente da una
norma come produttiva di effetti giuridici. Corrisponde ad uno schema prefissato: quando nella realtà si
verifica un fatto che vi corrisponde, si realizzano in concreto le conseguenze giuridiche previste in termini
astratti dalla norma. Il concetto è usato anche per indicare il caso concreto che forma l’oggetto di una
questione, con il termine «fattispecie concreta»).

Kelsen ha profondamente innovato la dottrina giuridica la dottrina giuridica di impostazione statualistica


ottocentesca con la sua teoria dell’imputazione: fondata sull’idea della norma come espressione di imperio da
parte dello Stato, e che considerava l’illecito come una violazione del diritto: l’illecito è, al contrario, il mezzo
con cui il diritto si realizza. In tal senso, la norma giuridica non è un comando: difatti il comando definisce
un’espressione di volontà diretta a modificare la volontà altrui, per questo si può parlare di comando rispetto
alla morale, ma il comando giuridico non può dare garanzie che il comportamento altrui si adegui alla volontà
di chi prescrive naturalisticamente.
La concezione imperativistica del diritto si mostra però inidonea, nella contemporaneità, a spiegare fatti
produttivi di aspetti giuridici come la consuetudine o il diritto internazionale; in essa lo Stato si presenta come
la personificazione di un’entità superiore, ciò non permette di spiegare l’impersonalità delle norme e gli effetti
concreti che ne derivano, come il problema degli illeciti commessi da coloro che si definiscono incapaci
(infermità mentale, droga, interdizione, ecc.).
Il rapporto di imputazione implica una prescrizione diretta non ai cittadini ma agli organi che devono applicare
la sanzione nel caso si trovino in presenza di un illecito:

per Kelsen la norma giuridica si definisce “primaria” quando alla condizione della condotta contraria segue un
atto coattivo come conseguenza (costringere con forza), e “secondaria” quella norma che ordina il
comportamento evitando la sanzione; questo perché per Kelsen il diritto si riconduce ad «un insieme di norme
che regolano l’uso della forza, dotate di potere coercitivo»., di conseguenza tale teoria si fonda su una
“prospettiva coercitiva” che individua nella sanzione negativa l’elemento cardine del diritto.

Herbert Hart assume un punto di vista più raffinato fondato sul binomio “obbligo-potere”; egli definisce
“norme primarie” quelle che impongono obblighi e “norme secondarie” quelle che attribuiscono potere sia in
ambito pubblico che in ambito privato.

A partire dalla riflessione sulla crisi teorica del positivismo giuridico tradizionale, si è perfezionato il concetto di
ermeneutica giuridica, insieme con la teoria del ragionamento e dell’argomentazione, secondo cui un giurista
quando interpreta, non si limita ad applicare una premessa maggiore ad una minore per arrivare ad una
conclusione, con cui si deduce il senso ‘vero’ di una norma, ma argomenta cioè struttura e organizza il
ragionamento attraverso passaggi dialettici, progressivi e discordanti tra loro.
Arriva a ‘motivare’, la tesi interpretativa che lo conduce a scegliere, tra i possibili significati della norma, il piu’
adeguato alla risoluzione del caso in esame.
Influisce la cosiddetta ‘precomprensione’, intesa come ipotesi di partenza, una sorta di rappresentazione
anticipata del risultato.

*Cose che ha detto la prof:

CIRCOLO ERMENEUTICO: CONNESSIONE TRA LA SINGOLA NORMA, L’ORDINE NORMATIVO IN CUI SI COLLOCA
IL TESTO ORIGINARIO, E LA COSCIENZA GIURIDICA E SOCIALE DELL’INTERPRETE CHE NE CONDIZIONA.

È il meccanismo secondo il quale un essere umano, con il suo bagaglio culturale, con la consapevolezza di
scelte, di valori, si accosta un testo scritto e ne emerge una terza cosa: la norma interpretata (es.
interpretazione artistica del pianista: ogni soggetto interpreta a modo suo).

Ermeneutico riguarda tutte le forme interpretative (artistiche, letterarie, teatrali, musicali).

Il testo è scritto (statuizione normativa) perché è stato in seguito al periodo dell’Illuminismo che si è preteso
che il diritto fosse scritto, reso evidente e conoscibile da tutti, perché a partire dall’Illuminismo, la conoscenza
rende liberi, sapere ci aiuta a vivere meglio.

La norma non si esaurisce nella sua formulazione, ma acquista nuova forza se attraverso la coscienza
dell’interprete si riconnette alla condizione sociale dell’ordinamento in cui è inserita, adattandosi alla realtà.
Negli ordinamenti di common low, i teorici del diritto riconducibili alla scuola del realismo giuridico, hanno
sottolineato con forza il procedimento di formazione del giudizio da parte delle corti.

La disposizione normativa è quella che emerge dal fatto che un giudice o un Parlamento si pone di fronte ad
un testo e aggiunge quel di piu’ che è l’espressione della cultura valoriale, come dice Paolo Grossi nel suo
testo, di un determinato momento storico.

L’atto interpretativo non è dunque un’azione che si risolve meccanicamente in sé stessa ma è l’espressione di
un procedimento complesso, in cui si mettono in relazione reciproca piu’ componenti, oggettive e soggettive,
che insieme contribuiscono all’esito conclusivo del testo normativo. L’attività dell’interprete non è
completamente libera, né tantomeno arbitraria, ma deve essere svolta secondo precise regole giuridiche.

Ogni espressione normativa nell’espressione tiene conto del fatto che la coscienza sociale cambia, per cui, per
quanto le norme scritte dalla Costituzione fino alle sentenze, rappresentino negli ordinamenti di civil low dei
punti fermi, un dettato normativo, quest’ultimo può assumere un’ampiezza maggiore, una posizione diversa a
partire dall’interpretazione. Anche un principio costituzionale può essere interpretato.

I Parlamenti rappresentano dei principi costituzionali che sono rigidi, sottoposti ad un procedimento di
predizione costituzionale, ma che possono essere modificati a seconda dell’evoluzione e dei valori,
specificando che non si tratta di valori eterni e immutabili tipici del diritto antico naturale, ma che in realtà
hanno una loro storicità. Anche noi come popolo abbiamo una nostra visione del mondo che si definisce
attraverso dei principi che decidiamo consapevolmente di osservare, rispettare (RELAZIONE TRA OSSERVANZA
E OBBEDIENZA).

Quando si parla di norme giuridiche e di sanzioni, si parla di un tipo di linguaggio diretto ad ottenere un
determinato comportamento senza imporre un obbligo, ma prospettando un’imputazione che collega un
comportamento ad una sanzione; che è prospettata per dirigere il comportamento dei soggetti verso un
determinato atteggiamento.

Ciò dipende dagli ordinamenti giuridici, per cui le sanzioni sono misure e ognuno di questi prevede certe
imputazioni di certe azioni e certe conseguenze, come risposta alla violazione delle norme, cioè l’illecito: una
norma prescrive ciò che deve essere e non ciò che è, n’è ciò che sarà.
*

LA SANZIONE
Le sanzioni sono «misure predisposte dall’ordinamento come risposta alla violazione delle norme », questo
perché la norma prescrive ciò che “deve essere” non ciò che è dal momento che è nella natura di ogni
proscrizione l’ipotesi che essa venga disattesa. La sanzione è sempre concepita come conseguenza rispetto ad
una causa.

La sanzione evoca una reazione ad un determinato comportamento, come conseguenza a una causa.

Non è compito della scienza giuridica ricercare i motivi dell’obbedienza al diritto (ES. dire come conseguenza di
un atto è prevista una sanzione, non vuol dire che certamente il comportamento degli uomini sarà quello
immaginato o desiderato o giusto, poiché non si possono conoscere i motivi reali che inducono
all’obbedienza).

Tale modo di considerare la sanzione giuridica sottolinea l’aspetto dell’«artificialità» e della «convenzionalità»
del diritto positivo: il fatto non è illecito perché vi siano degli accadimenti intrinsecamente illeciti, come
sosteneva il giusnaturalismo, ma diventa illecito se c’è nell’ordinamento una sanzione che viene imputata
come conseguenza al fatto stesso.
Secondo Kant la morale non è coercibile, il diritto sì: «il puro accordo o disaccordo di un'azione con la legge,
senza riguardo all'impulso di essa, si chiama «legalità» (conformità alla legge); quando invece l’idea del dovere
derivata dalla legge è nello stesso tempo impulso all'azione abbiamo la «moralità». I doveri che impone la
legislazione giuridica possono essere solo “doveri esterni”, ad esempio il mantenere la propria promessa non è
un dovere di virtù ma un dovere di diritto, all’adempimento del quale si può essere costretti».

I doveri che impone la legislazione giuridica possono essere soltanto doveri esterni. Non è un dovere in virtu’
mantenere la propria promessa, ma un dovere di diritto, al quale si può essere costretti.

La sanzione giuridica si distingue da quella morale per il carattere dell’« esteriorità» (la sanzione morale è
interna, es. rimorso) e da quella sociale per il carattere dell’«istituzionalizzazione» (la violazione delle regole
sociali provoca risposte non sempre prevedibili). Questi caratteri implicano certezza, prevedibilità e
imparzialità della sanzione.
Es. ciascuno di noi può sapere che se una regola viene trasgredita, incorre in una determinata sanzione che ha
dei limiti giuridici (es. cado Cucchi o guardie penitenziarie che abusavano dei detenuti nel carcere di S. Maria
Capua Vetere).

Le sanzioni morali sono considerate piu’ “forti” e piu’ utili, anche se spesso dipende dall’ordine morale interno
e dall’educazione ricevuta.

Le sanzioni sociali possono essere molto “forti” perché alcune di queste funzionano meglio delle sanzioni
giuridiche, ma non sono la stessa cosa e sono vietate dalla legge, perché possono eccedere rispetto ai limiti che
la legge pone fissando quali sono le sanzioni rispetto a determinati argomenti.

Questi caratteri implicano CERTEZZA, PREVEDIBILITA’, IMPARZIALITA’ nella risposta che l’ordinamento dà di
fronte alla commissione dell’illecito.

TIPI DI SANZIONE nella dottrina contemporanea:

 Sanzioni risarcitorie: hanno lo scopo di reintegrare il danno subito da un soggetto come conseguenza
di un illecito, esse mirano a colpire le conseguenze dell’atto illecito e a ricompensare chi è stato leso
in suo diritto.

 Sanzioni punitive: questo tipo di sanzione è anche noto come “pena”, condanna il comportamento
illecito in sé ed è caratterizzata dall’essere «afflittiva» per il trasgressore, ciò vuol dire che porta
limitazioni alla libertà personale (contrario di quella pecuniaria). Attualmente l’afflittività coincide con
la reclusione e l’espulsione, in epoche meno recenti comportava l’esposizione del corpo del
condannato al pubblico.

 Sanzioni pecuniarie: consistono nel pagamento di una somma di denaro all'erario (finanze dello
stato). Il Codice penale italiano vigente prevede due pene pecuniarie: la multa, inflitta a chi ha
commesso un delitto e l'ammenda, inflitta a chi ha commesso una contravvenzione.

 Sanzioni alternative: come gli arresti domiciliari, lavori di pubblica utilità, ecc.

 Sanzioni positive: quelle dirette ad agevolare determinati comportamenti socialmente desiderabili


invece che scoraggiarli predisponendo, rispetto ad alcune azioni, delle conseguenze favorevoli per il
soggetto che le compie.

L’AFFLITTIVITA’ è un carattere essenziale della pena. Una volta stabilito di sanzionare un determinato
comportamento, il legislatore ha il compito di individuare lo strumento piu’ adatto e piu’ efficace da utilizzare.

Negli ultimi anni in Italia si tende a perseguire una politica di sistemi sanzionatori differenti: accanto alla pena
si prevedono le cosiddette “pene alternative”, come gli arresti domiciliari.
Non esiste piu’ la sola pena fissa predeterminata per legge, il giudice è comunque vincolato dai tipi di pena, dai
limiti legislativi, dal dovere di motivazione.

LE SANZIONI POSITIVE sono dirette ad agevolare determinati comportamenti, invece che scoraggiarli,
conseguenze considerate favorevoli per il soggetto che le compie, con lo scopo di raggiungere l’attuazione di
comportamenti socialmente desiderabili.
Es. il soldato in guerra che uccide il suo nemico, non viene accusato di omicidio, ma riceve una medaglia per
aver difeso il suo paese. È lo stesso meccanismo naturale che può prevedere delle sanzioni a seconda di ciò che
imputa un determinato comportamento ad una determinata norma giuridica.

La sanzione quindi non corrisponde necessariamente alla COAZIONE (ricorso alla violenza inteso a inibire
l'altrui libertà d'azione). Negli anni sono state raggiunte alcune conquiste di civiltà, come:

• Il principio della personalità della pena: secondo il quale essa è applicabile solo al reo, mai ai terzi.

• Il principio della proporzionalità della pena: secondo il quale essa deve essere applicata in modo
proporzionale rispetto alla gravità del reato commesso.
• Il principio della determinatezza della pena: secondo il quale essa si attribuisce come conseguenza di un
fatto precedentemente individuato.

Una volta stabilito di sanzionare un comportamento, il legislatore deve individuare la sanzione più adatta,
tenendo conto del principio che considera il diritto penale come “extrema ratio”, per cui prima di ritenerlo
necessario devono essere tentate vie diverse da quella afflittiva.

Negli ultimi anni in Italia si tende a perseguire una politica di sistemi sanzionatori differenziati; tale sistema è
definito a DISCREZIONALITA’ VINCOLATA poiché non esiste più la sola pena fissa predeterminata per legge ma
non si può nemmeno parlare di discrezionalità libera in quanto il giudice è comunque vincolato dai tipi di pena,
dal dovere di motivazione, ecc.

In un testo costituzionale molte delle norme relative all’organizzazione del potere dello Stato non prevedono
sanzioni per la loro violazione: esse sono norme poste talmente in alto nella gerarchia delle fonti da non
consentire l’esistenza di potere coattivo. Ai gradi superiori dell’ordinamento si trovano le norme che
rappresentano le fonti del potere, cioè un insieme di regole destinate a far sì che un potere possa esercitarsi
(solitamente corrisponde alle norme della Costituzione) e che non consentono la previsione di una sanzione
dal momento che la loro eventuale violazione provoca la produzione di nuove norme che modificano le
precedenti (in questo caso le norme sono prodotte dagli stessi soggetti che dovrebbero eseguirle) e generano
una nuova configurazione dell’ordinamento.

La parte della dottrina kelseniana, in cui il diritto si considera fondato sulla coazione, può essere considerata
riduttiva rispetto alla complessità della giuridicità contemporanea: un ordinamento giuridico può contare,
infatti, sull’adesione dei destinatari, cioè sull’obbedienza data non per il timore delle conseguenze spiacevoli
ma per convinzione o abitudine. Si apre quindi il problema dell’obbedienza al diritto, come rapporto articolato
in relazione alla differenza tra “regole” e “principi”. Il rapporto tra l’indefinitezza dei principi e l’esigenza della
certezza del diritto è uno degli argomenti su cui si misurerà la dottrina dello Stato contemporanea, soprattutto
dopo il ripensamento sul ruolo formale della legge, a seguito delle esperienze totalitarie.

Difatti dalla seconda metà del ‘900, specialmente con la promulgazione di Costituzioni rigide nei Paesi
continentali, il diritto costituzionale si comincia a delineare come un “diritto per principi” (es. la Costituzione
italiana contiene una sezione intitolata ai principi fondamentali). Il richiamo ai principi esige che il contenuto
della massima vada circostanziato e specificato poiché il problema dei principi deriva dall’incertezza della
definizione e dalla possibile ambiguità dei concetti.

(Neumann ha posto il problema della pericolosa indeterminatezza che si accompagna all’ipotesi di quelle
norme di comportamento che nella giurisprudenza tedesca vengono indicate come “Generalklauseln”. Solo
quando ne viene specificato il contenuto, una legge è veramente generale, altrimenti la generalità rischia di
tramutarsi in genericità e aprire la strada all’incertezza, la quale a sua volta produce l’arbitrio: «Siccome nella
società odierna non vi può essere unanimità sulla questione se una data azione in un caso concreto sia
immorale o se una certa punizione corrisponda o meno ad un sano sentimento popolare, esse non hanno alcun
contenuto specifico. Un sistema di diritto che derivi le sue massime giuridiche dai principi generali o da “norme
giuridiche di comportamento” non è che una maschera dietro la quale si celano provvedimenti individuali».
A tal proposito Kelsen propone di ridurre il numero di principi al fine di evitare un’eccessiva discrezionalità da
parte del giudice costituzionale).

Nella seconda metà degli anni ’60, la Corte costituzionale riteneva ancora che le leggi di esecuzione delle
direttive della Comunità Europea, essendo recepite con legge ordinaria, avessero una forza pari a quella delle
leggi ordinarie e potessero essere abrogate da altre leggi ordinarie promulgate successivamente.
Tuttavia con una serie di sentenze tra il 1973 e il 1998, la Corte costituzionale ha rivisto questo criterio: le leggi
di esecuzione possono derogare anche alle norme costituzionali e non possono essere abrogate da leggi
posteriori (si è parlato a tal proposito di un livello di fonti definibile come “super-primario”).
La tesi della distinzione forte tra principi e regole si fonda sulla definizione di alcuni caratteri specifici che
distinguono i due concetti: i principi hanno una genericità di contenuti superiore rispetto a quella delle regole;
queste ultime poi prescrivono i comportamenti secondo il criterio del “tutto o niente” e quindi possono essere
tra loro in rapporto di reciproca opposizione e contraddittorietà (antinomia), mentre i principi non impongono
una condotta definita ma prescrivono il riferimento ad alcuni valori giuridici fondamentali, che possono
eventualmente conciliarsi; infine, l’applicabilità dei principi richiede il ricorso al bilanciamento e all’azione
ponderata di chi li utilizza come riferimento in termini di diritto. Si tratta di una differenza sostanziale che
riguarda la forza giuridica dei principi e la loro efficacia normativa; in una condizione istituzionale in cui il
potere legislativo appare preponderante, anche la scelta dei principi di riferimento viene, di fatto, esercitata
dal Parlamento, rischiando di produrre confusione tra leggi e i principi. Tuttavia nell’attività giurisprudenziale
(più dinamica) dei Paesi anglosassoni, i principi vengono comunemente individuati come un orientamento
obbligatorio per la risoluzione dei casi più complessi: Ronald Dworkin mostra con un esempio la distanza tra
principi e regole e sottolineando la specificità della prassi giudiziaria anglosassone: «Nel 1889 un tribunale di
New York, nel famoso caso “Riggs v. Palmer”, doveva decidere se una persona- designata erede nel
testamento del nonno -potesse ereditare in base a quel testamento, sebbene a tale scopo avesse assassinato il
nonno. Il tribunale ammise che sebbene le leggi attribuissero la proprietà all’assassino, resta il fatto che tutte le
leggi ed i contratti possono essere attenuati nel loro operare e nei loro effetti generali, per cui a nessuno
sarebbe stato permesso di acquisire una proprietà per mezzo di un delitto. Così l’assassino non ottenne la sua
eredità». La libertà di giudizio personale implica l’interpretazione e l’adesione all’ordinamento come tratto
caratterizzante il ruolo del cittadino in una società di cui egli è parte attiva. Il rapporto di responsabilità
reciproca tra lo Stato e i cittadini, e la necessità di modulare l’obbedienza in relazione al ruolo che ciascuno
assume nello Stato, divengono il fulcro della teoria giuridica di Herbert Hart, il quale partendo dalla critica
dell’imperativismo classico ottocentesco ma anche dalla sua idea di “società libera”, fonda l’obbligatorietà del
diritto sull’esistenza di una «norma di riconoscimento» che presuppone un “punto di vista interno” come
espressione dell’adesione critica ai precetti normativi espressi in un ordinamento: riemerge quindi l’aspetto
soggettivistico del diritto.

L’ordinamento giuridico secondo Hart è composto da due tipi di norme:

 Norme primarie: impongono obblighi e sono dirette ai cittadini comuni a cui è richiesta
genericamente l'obbedienza.

 Norme secondarie: attribuiscono i poteri, sono rivolte ai funzionari pubblici che devono aderire
criticamente alle norme che sono chiamati ad eseguire.

Per Hart diviene secondaria la questione dell’accettazione attiva e critica da parte del cittadino comune, il
quale può decidere di obbedire alla legge anche solo perché lo ritiene più conveniente in vista delle probabili
sanzioni. Il rapporto tra “consenso” e “obbedienza”, tra adesione più o meno esplicita ai principi
dell’ordinamento e accettazione passiva delle sue regole, diviene uno dei cardini intorno a cui ruotano alcuni
degli aspetti più discussi dell’evoluzione novecentesca del positivismo giuridico. Il legalismo tipico dello Stato di
diritto dell’800 implicava un atteggiamento avalutativo e di accettazione passiva nei confronti degli atti
legislativi che raramente veniva messo in discussione dai rappresentanti della scienza giuridica. Questa
concezione di Stato legislativo fondato sull’ordine legale-razionale troverà il suo apice ma anche l’inizio della
crisi nella Costituzione di Weimar del 1919 e verrà poi ripensata in seguito alle conseguenze dei totalitarismi.

Uno dei maggiori critici di Kelsen in Italia, Capograssi, nel 1950 in un suo saggio sul tema dell’obbedienza della
legge, mostra come sia fondamentale il senso della valutazione soggettiva dell’atto legislativo come momento
dell’esperienza giuridica: «Resta indiscusso il ruolo del diritto positivo ma è altrettanto fondamentale la
consapevolezza di sottendere l’obbedienza come atto di accettazione, di adesione cosciente all’ordinamento
giuridico di cui il soggetto è parte. Ciò significa pure che dietro il singolo atto di obbedienza vi è la coscienza del
soggetto, la quale giudica necessario tale atto di obbedienza perché è necessaria l’adesione all’ordine generale
e concreto del diritto».

Negli ordinamenti giuridici contemporanei, piu’ che di obbedienza si parla di OSSERVANZA alla legge, proprio
per sottolineare il carattere attivo di partecipazione alla realtà giuridica.

OSSERVANZA/OBBEDIENZA

Secondo la Arendt, l’equivoco ruota attorno al tema dell’obbedienza: «solo un bambino ubbidisce, se lo fa un
adulto in realtà appoggia quel qualcosa/qualcuno che pretende obbedienza».
Hannah Arendt dice che “solo i bambini obbediscono” ma in realtà l’avere, il partecipare ad un contesto
giuridico, anche attivamente, alla produzione giuridica normativa di uno Stato implica una partecipazione
normativa collettiva, questo concetto si lega al concetto di EFFETTIVITA’ GIURIDICA, a proposito del DIRITTO
INTERNAZIONALE e LEGITTIMITA’.

Il consenso non è richiesto inerente a tutte le norme dell’ordinamento giuridico, ma è complessivo.

P. GROSSI dice che bisogna aderire ai valori del linguaggio dell’ordinamento giuridico. Il concetto di valore è un
concetto che ha in sé una forte connotazione etica. Dice che questo non è uno svantaggio del termine,
deteriore del termine valore, perché lui dice che i valori sono l’insieme di:

-Ethis: ciò che ha a che fare con l’etica


-Ethnos: che ha a che fare con il popolo.

Noi utilizziamo il termine valore:

-Nel senso GIUSNATURALISTICO, nel quale il valore è divino, un obbligo uguale per tutti
-Ma legato alla condizione storica di un popolo.

IL CONCETTO ETNICO non è legato alla razza ma ad un popolo, il concetto di popolo è culturale.

TEMA DELLA LINGUA: avere una lingua comune vuol dire avere una concessione di un’idea culturale, che porta
ad una coordinazione. La nazione tedesca ad esempio era unita dalla guerra Austria-Germania, Trentino
(oggetto di contesa durante il primo conflitto e guerre risorgimentali), sono una condizione di “un eguale
concetto di nazione”; a questo si allaccia P. GROSSI quando parla di “ethnos”, in riferimento all’aspetto
culturale.
Uno stato popolo fondato sui valori comuni, potremmo anche parlare dell’Europa come un ethnos collettivo,
se pensassimo all’Europa non come lingua unica, ma come un insieme, concetto culturale che accomuna un
insieme di persone.

Es. di una guerra europea, che ci porta al tema dell’obbedienza, di parla tanto del concetto di
autodeterminazione dei popoli, un popolo può democraticamente scegliere il proprio governo, nel senso come
essere governati e a quale concetto giuridico fa parte. Parliamo di consenso e di osservanza delle regole, che
non è l’obbedienza passiva, che suppone una anche forma di paura che c’è nella qualunque forma di
“coscienza”.

L’obbedienza passiva può apparire inevitabile nei confronti del potere assoluto.

Riferimento di Hannah Arendt del libro: IL RAPPORTO FRA CONSENSO E OBBEDIENZA DIVIENE UNO DEI
CARDINI INTORNO A CUI RUOTANO ALCUNI DEGLI ASPETTI DELL’EVOLUZIONE NOVECENTESCA DEL
POSITIVISMO GIURIDICO.

In “la banalità del male” tema del libro processo fatto da Gerusalemme a colui (funzionale nazista) che avrebbe
dovuto portare a termine la soluzione finale (sterminio degli ebrei).
Il libro fu oggetto di tante polemiche. Questo processo terminò con la morte di Eichmann, richiamato e portato
in terra israeliana negli anni 60.

È un titolo diventato poi anche una locuzione comune: è un ingranaggio meccanico per cui non cambiava nulla
se ci fosse lui o un altro, come se la coscienza umana non avesse valore, su questo punto si sofferma la Arendt,
perché sosteneva che se l’ingranaggio si inceppasse, si incepperebbe anche il meccanismo che potrebbe
portare all’evoluzione di queste azioni, solo i bambini obbediscono.

L’OBBEDIENZA, in uno stato o costruzione, organizzata giuridicamente e burocraticamente (lo stato è un


insieme di uffici e di ruoli pubblici che hanno una loro connotazione specifica) non priva gli esseri umani della
loro connotazione specifica, che sempre Hannah Arendt dice di essere il pensiero. Il pensiero è quello che
distingue.
Ne abbiamo parlato con il DIRITTO NATURALE MODERNO che rappresenta il momento in cui si distingue la
razionalità degli uomini come elemento dominante, ciò che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi è il
logos.
L’ottocento si concentrava sull’istanza legislativa e l’attività dei giuristi si poneva come semplice servizio alla
legge. Questa concezione di stato legislativo troverà il suo momento piu’ altro di realizzazione, nella
costituzione di Weimar del 1919, ripensata poi a partire dal fallimento dell’esperienza weimariana e dalle
conseguenze dei totalitarismi novecenteschi, che hanno mostrato i punti deboli di un sistema giuridico-politico
fondato sull’ipotesi della prevalenza assoluta della legalità formale.

Nella seconda metà del novecento con l’affermarsi degli Stati costituzionali, si comincerà a porre in discussione
quell’inerzia mentale, che aveva caratterizzato il periodo precedente.

Se ricordiamo il linguaggio biblico, vediamo che Dio è il verbo e gli uomini sono ad immaginare somiglianza di
Dio perché hanno questa capacità di parola, che non è l’emissione di soli suoni ma la razionalità che portano il
logos, non è solo l’abbagliare di un cane o lo squittire di uno scoiattolo, non sono i versi degli animali a segnare
paura, fame o rabbia, ma la capacità di razionalità degli uomini è qualcosa a che fare con la coscienza
razionalizzata, che porta sul piano giuridico a condividere l’insieme dei principi (non valori come parla
Grossi), ma utilizziamo il concetto di PRINCIPI che tengono uniti “uno stato” nell’accettazione
contemporanea del termine.

Quando parliamo di diritti, parliamo di DIRITTI FONDAMENTALI e non umani. Se si parla di diritti umani devono
essere intesi nella loro accettazione di diritti fondamentali.

DIRITTO FONDAMENTALE: condizione giuridica di un diritto condiviso in una determinata fase storica e su
determinati spazi storici; c’è bisogno della sedimentazione come dice Grossi, di certe condizioni etiche, che
non in tutti i popoli vengono considerate tali.

VALORI E PRINCIPI

Sono concetti giuridici, in una condizione piu’ ampia, di quella singola norma o di quell’ordinamento giuridico
fatto di norme, anche della legge.

A partire dalla seconda metà del novecento, specialmente con la promulgazione in molti paesi continentali di
costituzioni lunghe e rigide, pensate per essere dotate di forza normativa, superiore alla legge ordinaria, il
diritto costituzionale si delinea come “diritto per principi”.

Negli ordinamenti giuridici contemporanei molti principi sono infatti proclamati nelle disposizioni
costituzionali.

La costituzione, quella italiana lunga di 139 articoli, e quelle anglosassoni brevi, sono l’insieme di principi
condivisi da un popolo sulla cui base si emettono delle leggi al di sotto altre norme (amministrativo –
giudiziario – contrattuale), così come avviene nell’ordinamento giuridico. La costituzione contiene una sezione
intitolata ai “principi fondamentali”.

La nozione di principio fondamentale può coincidere con quella di principio costituzionale.

Il richiamo ai principi se:

- Da un lato è essenziale in riferimento alla legittimità della costituzione.

- Dall’altra parte esige che il contenuto vada specificato.

- Implicano l’esigenza di assicurare stabilità dei riferimenti giuridici fondamentali, evitando d’incorrere
negli esiti della pericolosa indeterminatezza.

Es. le tasse (attribuzione fiscale), elemento che fa intendere il concetto fra principi costituzionali e leggi, ovvero
che distingue principi e regole.

Es. la nostra costituzione prevede che tutti i cittadini paghino le tasse in virtu’ del loro reddito. Questo è un
esempio, un principio intangibile della nostra costituzione, tutti devono pagarle ma a secondo delle formazioni
di gruppo di governo, ci sono delle scelte politiche che fanno i governi o parlamenti che vengono votati in
epoche diverse della storia, rimane intangibile il principio, che cambia la forma.
Ci possono essere leggi che regolano la tassazione con una aliquota maggiore o minore, rimane intangibile il
principio che tutti devono contribuire attraverso la contribuzione fiscale.

Es. Legge di garanzia sullo sciopero, attraverso una legge che regola il rapporto fra sciopero e danni. Ci sono dei
giorni in cui, tipo quello estivo, il trasporto pubblico deve essere consentito, per cui lo sciopero sebbene sia un
diritto del cittadino va limitato.

I principi occupano un luogo intermedio tra i valori e le regole.

La REGOLA vieta l’uso della tortura per ottenere una confessione, poggia sul principio che vieta la tortura e
quest’ultimo rimanda alla dignità umana.

Nella seconda metà degli anni 60, la corte costituzionale riteneva che le leggi di esecuzione dei trattati e
direttive della Comunità Europea, essendo recepite come leggi ordinarie, avessero una forza pari a quella delle
leggi ordinarie, sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale, e potessero essere abrogate tra altre leggi
ordinarie.
Con una serie di sentenze, ha rivestito il criterio secondo cui le leggi di esecuzione possono derogare anche alle
norme costituzionali, e non possono essere abrogate da leggi posteriori.

Il principio quindi fissa una cornice normativa, entro cui possono muoversi le norme che sono al di sotto della
costituzione, a cominciare dalle leggi.

Il consenso, l’osservanza, l’obbedienza sono principi fondamentali dell’unione.

- Sulle leggi si può dissentire, ancora di piu’ sulle regole di rango inferiore.

- Le sentenze si osservano ma si possono commentare. Posso commentare quello che voglio. Tutti
quelli che perdono le cause, possono scrivere quello che vogliono e dove vogliono, a meno che non si
compiano atti violati, ma il commento è sempre legittimo, visto che viviamo in un paese in cui c’è
libertà di pensiero e di stampa, e su questi principi diamo il nostro consenso, se mai questi venissero
violati, l’obbedienza verrebbe contro, con il consenso, con un atteggiamento passivo, condannabile
contro il consenso.

I PRINCIPI: possono dare stabilità proprio nel lasciare spazio autonomo di “movimento”, giudizio – critico.
Non ci dicono nulla a questo proposito, ma ci danno criteri per prendere posizione di fronte a situazioni a priori
indeterminate. Ai principi a differenza delle regole, non può darsi alcun significato operativo se non facendoli
“reagire” con qualche caso concreto. Il loro significato non è determinabile ma solo in concreto.
I principi hanno una genericità di contenuti superiore rispetto a quella delle regole, non impongono una
condotta definitiva, ma prescrivono il riferimento ad alcuni valori giuridici fondamentali, che possono
conciliarsi.

Le REGOLE: ci danno il criterio delle nostre azioni, ci dicono come dobbiamo, possiamo agire in
determinate/specifiche situazioni, previste dalle regole stesse. Esse prescrivono i comportamenti secondo il
criterio del ‘tutto o niente’, possono essere tra loro in rapporto di reciproca opposizione e contraddittorietà.

L’applicabilità dei principi richiede il ricorso al bilanciamento e all’azione ponderata di chi li utilizza. Si tratta di
una differenza sostanziale che riguarda la forza giuridica e la loro efficacia normativa.

Es. in una condizione istituzionale in cui il potere legislativo appaia pre-ponderante, anche la scelta dei principi
e la relativa traduzione in termini normativi, viene esercitata dal Parlamento. Rischiando di produrre
confusione fra le leggi e i principi.

Nei paesi di tradizione e cultura anglosassone, i principi vengono individuati come un orientamento
obbligatorio.

La presenza e il ruolo dei principi sembra così sollecitare un ripensamento del rapporto tra diritto e morale.

Non bisognerebbe pensare l’individualità – modernità come causa di distrazione dei pubblici uffici ma anzi
come un elemento di consapevolezza del proprio ruolo, in una società di cui si è parte attiva.
Il rapporto di responsabilità reciproca fra lo Stato e i cittadini e la necessità di modulare l’obbedienza in
relazione al ruolo che ciascuno assume nello Stato, diviene il fulcro della teoria giuridica di uno degli autori che
rappresenta il positivismo giuridico contemporaneo: Herbert Hart.

Herbert Hart fonda l’obbligatorietà del diritto sull’esistenza di una cosiddetta “norma di riconoscimento”, che
presuppone un punto di vista interno. Secondo Hart, l’ordinamento giuridico è composto da due tipi di norme:

- PRIMARIE: impongono obblighi, i destinatari sono i cittadini comuni, a cui è richiesta l’obbedienza.

- SECONDARIE. Attribuiscono poteri, sono rivolte ai funzionari pubblici, che devono aderire
criticamente alle norme che sono chiamati ad eseguire. Devono considerare come “dei criteri
comuni”, di comportamento ufficiale e valutare criticamente le deviazioni proprie e di altri come
errori.

Diviene secondaria la questione dell’accettazione “attiva” da parte del cittadino comune, il quale può decidere
di obbedire alla legge anche soltanto perché lo ritiene piu’ conveniente in vista delle probabili sanzioni che
possono seguire ad un suo comportamento in violazione delle norme giuridiche.

In questo ordinamento piu’ complesso può accadere che soltanto i funzionari accettino a usino i criteri di
validità giuridica dell’ordinamento.

Hart parla di una società di cittadini liberi e consapevoli, nella quale il riconoscimento di una norma (come
espressione di diritto positivo), non significa che essa venga approvata o addirittura giustificata moralmente.

Il diritto appare solo come uno strumento necessario per la sicurezza e la libertà.

EFFETTIVITA’/DIRITTO INTERNAZIONALE

Un ordinamento giuridico esiste ed è valido se i soggetti che lo compongono si attengono, in numero


prevalente, alla maggior parte delle regole che l’ordinamento prevede;

Si parla in tal senso del principio dell’«effettività», riconosciuto come elemento fondativo della validità di un
ordinamento: «quella regola in base a cui si considera legittimamente costituita la comunità politica, nella
quale esiste un governo che per un periodo di tempo esercita un potere stabile e realmente obbedito dalla
maggior parte dei membri della comunità». Se ne può parlare anche come quel “livello di obbedienza media”
che distingue l’“efficacia” (possibile) di una singola norma dall’“effettività” (necessaria) dell’ordinamento nel
suo complesso, con un duplice significato in termini di organizzazione giuridica interna e in termini di ordine
internazionale.

Appunti a lezione:
La concezione dell’effettività giuridica: concetto con il quale si sente di appartenere ad una comunità giuridica,
che sente di darci regole di condotta, norme giuridiche: a cui noi osserviamo e obbediamo e non perché lo
facciamo passivamente, ma perché nella nostra condizione di cittadini, sentiamo di dover far parte di una
condizione complessiva che abbiamo approvato nei suoi principi fondamentali.

E’ una nuova forma di sovranità, che riguarda l’osservanza delle regole di un ordinamento giuridico nel loro
insieme-complesso, che corrisponde alla presa d’atto della legittimità del potere che viene osservato, che può
venir meno laddove la maggioranza dei cittadini comuni, ma che nella maggior parte di coloro che devono
essere funzionari, di un ordinamento giuridico, coloro che devono applicare le norme, custode delle norme che
dobbiamo osservare, un pubblico ministero, giudice, poliziotto, parlamentare, se tutti vengono meno nel loro
ruolo, non riconoscendo (norma di riconoscimento libero), se nessuno riconosce l’effettività dell’ordinamento
di cui fa parte, disconosce il concetto di osservanza, noi ci troviamo in un altro ordinamento giuridico o
comunque viviamo in una situazione di caos, anomia, assenza di legge, condizione globale complessiva.

Un ordinamento giuridico esiste ed è valido se i soggetti che lo compongono si attengono, in numero


prevalente, alla maggior parte delle regole che lo stesso prevede. Si possono considerare irrilevanti le
motivazioni che inducono ad osservarle, può trattarsi di paura, soggezione, convenienza, convinzione,
approvazione espressa, adesione consapevole di tipo politico, emotivo, psicologico.
L’ordinamento riconosce il criterio o principio di effettività, come elemento fondativo della validità, quella
regola base a cui si considera legittimamente costituita la comunità politica, nella quale esiste un governo che
esercita uno stabile potere.

Se ne può parlare anche come quel “livello di obbedienza media” che distingue:

- L’efficacia (possibile) di una singola norma

- Dall’effettività (necessaria) dell’ordinamento nel suo complesso.

Es. L’Ucraina oggi si riconosce in certi principi e valori che vuole difendere anche a costo di distruzione, se non
ci fosse questa prevalenza di questi principi, ci troveremmo a cambiare il rapporto di potere e accettarne uno
diverso.

Sono la nuova forma della SOVRANITA’: unificazione di politica-diritto, la politica in un qualche modo definisce
la forza legittima (il potere che è forza legittima), non si individua piu’ nel potere, per quanto legittimo forte ma
nella capacità del popolo di dare il proprio consenso, in un sistema di ordine mentale.

Kelsen non rileva la corrispondenza del comportamento dei soggetti singoli rispetto al contenuto delle
prescrizioni normative, cioè la loro efficacia. Questa diventa condizione di validità.

Una norma si può considerare valida solo se è parte di un ordinamento che nel suo complesso si dimostra
efficace. Questa rimane valida perché è in quanto si trova inserita nella concatenazione produttiva di un
ordinamento valido.

Si ripropone il tema della validità e della riconoscibilità degli ordinamenti, dove si manifestano le nuove forme
del diritto contemporaneo:

- In cui il criterio della validità viene sostituito da quello dell’effettività.

- In cui si intrecciano aspetti concreti legati ai comportamenti sociali e altri solo formali.

Il fatto che la validità di un ordinamento dipenda dalla sua efficacia non deve indurre a sovrapporre i due
concetti e confondere l’essere – la realtà naturale con il dover essere – normativo; così come non sarebbe
corretto identificare il diritto con la forza, pur nella consapevolezza che il diritto non può esistere sena la forza,
della quale costituisce l’organizzazione.

- La realtà può conformarsi o contraddire al diritto

- Il comportamento umano può essere qualificato come lecito o illecito

Kelsen sostiene così l’esigenza di “efficacia” delle norme, che nel loro insieme costituiscono un ordinamento,
affinchè questo possa essere considerato valido.

Il comportamento effettivo dei membri dell’ordinamento deve essere tale da consentire la pensabilità
dell’illecito, che è a sua volta l’elemento essenziale del diritto.

La corrispondenza completa dei destinatari: alle prescrizioni normative renderebbe l’ordinamento, come
insieme di norme che regolano una sanzione privo di qualunque significato logico.

L’inosservanza totale delle norme sarebbe l’espressione di una trasformazione radicale, di una modifica
definitiva della norma fondamentale e dunque dell’ordinamento che la sottende.

La norma fondamentale mostra il suo contenuto, il suo significato specifico.

Queste vengono considerate valide, in virtu’ della presupposizione, che un nuovo fondamento della validità si
sia sostituito a quello precedente, determinando la legittimità di un nuovo e diverso ordinamento.
Questa concezione Kelsiana dell’effettività, intesa come principio di diritto internazionale, secondo cui
un’autorità di fatto costituita è il governo legittimo, riassume la crisi della modernità, intesa come il tempo
della sovranità degli stati territoriali, e mostra la difficoltà di definire il concetto di ordinamento internazionale.

Fine appunti lezione.

Alfonso Catania: «Il diritto è effettivo se e quando risponde all’accettabilità culturale e morale, che è sempre
meno omogenea; se e quando possiede una giustificabilità che lo rende riconoscibile; se la sua effettività
poggia sulla mera accettazione fattuale di rapporti di forza o valori condivisi».

Herbert Hart scrive che «bisogna distinguere l’inefficacia di una singola norma - che può avere o meno effetti
sulla sua validità - dalla generale inosservanza sulle norme dell’ordinamento. Quest’ultima può essere così
prolungata da dover dire, nel caso di un ordinamento nuovo, che questo non si è mai stabilito come
ordinamento giuridico o, nel caso di un ordinamento stabilito da tempo, che esso ha cessato di essere
l’ordinamento giuridico del gruppo».

Per Kelsen non è rilevante, ai fini della validità dell’ordinamento giuridico, l’efficacia delle prescrizioni
normative (cioè la corrispondenza del comportamento dei soggetti ad esse), tuttavia essa diventa
paradossalmente condizione di validità perché una norma si può considerare valida solo se è parte di un
ordinamento che nel suo complesso si dimostra efficace. Il fatto che la validità di un ordinamento dipenda
dalla sua efficacia non deve indurre a sovrapporre i due concetti e confondere l’«essere» cioè la realtà
naturale, con il «dover essere» normativo. Difatti, solo se il diritto e la realtà naturale sono due regni diversi, la
realtà può conformarsi o contraddire il diritto ed il comportamento umano può quindi essere qualificato come
lecito o illecito.
Il comportamento effettivo dei membri dell’ordinamento deve essere tale da consentire a pensabilità
dell’illecito, poiché la corrispondenza totale dei comportamenti dei destinatari alle prescrizioni normative
renderebbe l’ordinamento (concepito come insieme di norme che regolano una sanzione) privo di qualunque
significato logico. D’altra parte l’inosservanza totale delle norme sarebbe l’espressione di una modifica
definitiva della norma fondamentale e quindi dell’ordinamento che la sottende. La norma fondamentale
mostra il suo significato specifico quando ci si trova in presenza di un cambiamento repentino- originariamente
illegale- dell’ordine istituzionale: una rivoluzione o un colpo di Stato in cui un’organizzazione sociale sorge
dandosi regole nuove, le quali sono considerate giuridicamente valide in virtù della “presupposizione” che un
nuovo fondamento di validità si sia sostituito a quello precedente, determinandone la validità.

Per l’ordinamento internazionale ci si richiama al principio dell’effettività per chiarire il fatto che anche i
governi che abbiano raggiunto il potere mediante una rivoluzione o un colpo di Stato vengono considerati
legittimi dal punto di vista del diritto internazionale quando riescono a procurare durevole obbedienza alle
norme emanate.

DIRITTO INTERNAZIONALE: è il diritto della comunità degli Stati, vige su base consensuale e non imperativa
quindi dipende dal “fatto empiricamente verificabile” che gli Stati lo rispettino spontaneamente, in virtù
dell’osservanza delle norme consuetudinarie che ne costituiscono la fonte prioritaria (“Pacta sunt
servanda”). Ha un fondamento organizzativo paritario e non gerarchico (c’è uguaglianza giuridica anche se
non è possibile quella politica sostanziale tra Stati). Nella definizione classica del diritto internazionale,
prevalente fino alla metà del XX sec., veniva negata la validità di qualsiasi norma dell’ordinamento
internazionale qualora essa non fosse espressione di un vincolo autonomamente imposto dallo Stato stesso.

La questione del diritto internazionale è uno dei temi più complessi nell’analisi kelseniana: egli rileva come
manchi in tale ambito la possibilità di delegare la responsabilità delle decisioni e dell’attribuzione di sanzioni ad
un soggetto terzo imparziale, e anche la possibilità di collegare direttamente obblighi, autorizzazioni e
responsabilità ai singoli membri dell’ordinamento. Per questo, l’ordinamento giuridico internazionale viene
paragonato ad un “ordinamento primitivo”, in quanto privo di un’organizzazione burocratica accentrata;
perciò le norme che disciplinano i rapporti internazionali appaiono dotate di efficacia ridotta proprio per la
maggiore facilità con cui possono essere violate e per la maggiore difficoltà di stabilire sanzioni, in quanto
manca quel grado sufficiente di accentramento che negli ordinamenti interni consente l’individuazione di un
«organo per la produzione e l’esecuzione di norme giuridiche, il quale funzioni secondo la divisione del lavoro
così lo Stato leso è anche autorizzato a reagire con l’atto coattivo istituito dal diritto internazionale generale,
cioè con la rappresaglia o la guerra». La guerra viene considerata come sanzione e come forma estrema di
autotutela, in questo modo però le conseguenze delle azioni compiute dallo Stato (quindi da chi governa)
ricadono su tutti i cittadini, riproponendo una condizione di responsabilità collettiva che sembrava essere stata
superata dalla prospettiva moderna del diritto.

La concezione monistica del rapporto tra diritto interno (fatto essenzialmente di leggi, cioè decisioni del
sovrano) ed internazionale (regola i rapporti tra Stati mediante fonti di natura consuetudinaria) è recepita nella
Costituzione italiana nella seconda parte dell’art.11 che recita: «L'Italia consente alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Questa parte fu pensata in vista dell’ingresso dell’Italia
nell’ONU (che ci fu nel 1955) ed ha avuto la funzione di legittimare dal punto di vista costituzionale le
limitazioni alla sovranità statale derivanti dall’adesione dell’Italia alla Comunità e poi all’Unione Europea. Si
può considerare il fondamento giuridico della “cessione” da parte dello Stato italiano di quote di sovranità a
favore delle istituzioni comunitarie. Sul fondamento dell’art.11 i poteri sovranazionali operano legittimamente
e, nell’ambito definito dai trattati, prevalgono sui poteri interni, quindi le leggi nazionali non possono operare
in contrasto con le norme comunitarie. Quest’articolo rende lo Stato italiano “permeabile” ai poteri
sovranazionali, anche come conseguenza dell’istituzione della “Corte europea di giustizia”, la cui funzione è
garantire che la normativa europea sia interpretata ed applicata in modo uniforme in tutti i Paesi dell’Unione
(es. essa garantisce che i tribunali nazionali non emettano sentenze differenti in merito alle medesime
questioni).

DIRITTO SOVRANAZIONALE: come dice Ferrarese è «un nuovo modo di essere del diritto, che accompagna un
nuovo modo di essere della politica: man mano che gli Stati perdono il carico teorico derivante dalla tradizione
assolutistica e legato al concetto di sovranità, diventa possibile il riconoscimento di forme di diritto che non
sono più il prodotto di una volontà politica degli Stati e che anzi, spesso, contribuiscono a vincolare la sovranità
statale». Da una parte è ancora legato allo scenario della sovranità in quanto corrisponde a forme di
decisione pubblica, dall’altra ha rinunciato a puntare prevalentemente sulla modalità legislativa, difatti si
affida per lo più a iniziative della Commissione o a varie forme di “soft law”. Caratterizza il processo europeo
di integrazione politica tra Stati sulla base di quella che originariamente era una convergenza di interessi
economici.

La questione si complica relativamente al tema della tutela internazionale dei diritti dell’uomo: la
“Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” approvata il 10/12/1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni
Unite recita nel Preambolo che «è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si
vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e
l'oppressione». Sebbene anni dopo siano stati approvati la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” (1959) e la
“Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” (1963), si ritornati all’antica
definizione di «Dichiarazione», di ascendenza giusnaturalistica, che presuppone il riconoscimento di diritti
esistenti a prescindere dallo Stato. All’interno dei singoli Stati, i diritti dell’uomo sono protetti quando la
Costituzione prevede che il cittadino possa ricorrere in giudizio nel caso di una loro violazione. La “Convenzione
europea dei diritti dell’uomo” del 4/11/1950 istituì gli organi che dovrebbero tutelarli: la Commissione europea
e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2000 nella “Carta di Nizza” furono enunciati i diritti fondamentali
dell’UE e nel 2004 è diventata parte integrante

della Costituzione europea. Tuttavia la Convenzione vale solo per gli Stati firmatari e il potere di far eseguire le
eventuali sentenze appartiene sempre al singolo Stato: la Corte non può annullare gli atti degli Stati, anche se
questi dovrebbero essere obbligati a dare esecuzione alle sentenze e ad attribuire un indennizzo alla parte lesa
se non fosse possibile ripristinare il diritto violato. Il tema si complica ancor di più quando si considerano i
rapporti tra Stati diversi tra loro sul piano religioso, culturale, socio-economico. Nel 1946 sono stati istituiti per
conto dell’ONU due meccanismi di garanzia operanti a livello universale: la Commissione dei diritti umani (nel
2006 diventata “Consiglio ONU per i diritti umani”) e l’Alto Commissariato per i diritti umani che da metà anni
’90 gestisce tecnicamente le situazioni critiche per la tutela dei diritti.
La Corte penale internazionale (il cui Statuto fu firmato a Roma nel 07/1998) è un tribunale per i crimini
internazionali che ha sede a L’Aia e si occupa dei reati più gravi come i genocidi e i crimini contro l’umanità; ha
una competenza complementare a quella dei singoli Stati, per cui può intervenire solo se e quando gli Stati non
vogliano/possano agire per punire i crimini internazionali. Va da sé che occorrerebbe una tutela più efficace
che tuttavia sembra difficile da ottenere visto che molti governi, soprattutto quelli non democratici, non
ammettono interferenze e non considerano vincolante l’autorità della Comunità internazionale.

Sul piano dell’interpretazione i giudici nazionali e quelli costituzionali tentano di adeguare le Costituzioni degli
Stati alle dichiarazioni internazionali, si comincia così ad attenuare la differenza tra “diritti riconosciuti a tutti gli
uomini” e quelli riservati ai soli cittadini. Si parla in tal senso di una rivoluzione prospettica del diritto
costituzionale, il quale non appare più legato solo all’organizzazione dei singoli ordinamenti statali, poiché
l’attenzione per i diritti umani induce i giudici a cercare una sorta di “dialogo di costituzionalismo” tra loro e
con le istituzioni non governative; ciò sembra la premessa di una “Costituzione globale” che esprima una
posizione comune in merito a questioni delicate come la tutela dei diritti.

Il diritto sovranazionale che trova la sua massima realizzazione nel suolo europeo è caratterizzato da un
rapporto ambivalente con il tema dei confini: continua ad essere contrassegnato da confini esterni (quelli
dell’Europa) ma attenua i confini interstatuali; al contrario il diritto transnazionale non si rapporta più in alcun
modo con i confini statuali.

DIRITTO TRANSNAZIONALE: un diritto prodotto privatamente e che pur passando attraverso confini e Stati,
resta privo di identità e radicamenti territoriali. La più importante manifestazione di diritto transnazionale
nel mondo globale è la cosiddetta «lex mercatoria», ossia quell'insieme di regole, principi e modelli
contrattuali che vengono creati dagli stessi operatori economici su base consuetudinaria, nel corso della loro
esperienza commerciale transnazionale e che sono indipendenti sia dalle norme di diritto internazionale
privato degli Stati coinvolti, sia dai riferimenti alle codificazioni interne. La condizione propria del diritto
transnazionale è esemplificabile mediante l’immagine simbolica della “rete”.

A metà ‘900 Carl Schmitt, ultimo esponente tra i giuristi dello” jus publicum europaeum”, propone una visione
del diritto lontana dal legalismo dominante della modernità borghese: secondo il giurista, il diritto non si riduce
alla norma o alla legge né si racchiude nei confini che delimitano il territorio dello Stato, bensì va riconsiderato
nella sua accezione di “nomos”, un diritto autonomo anche perché cronologicamente precedente rispetto alla
nascita e alla formazione degli Stati. La trasformazione del rapporto tra diritto e territorio sta alla base di quel
processo di modifica sostanziale delle relazioni giuridiche che sostituisce al diritto internazionale pubblico (“il
diritto per diplomatici”), basato su accordi reciproci e sul rispetto dei trattati stipulati tra Stati sovrani, il
«diritto internazionale “dei privati”» che concerne quel fenomeno di privatizzazione e di frammentazione delle
fonti di produzione del diritto, che ha il suo aspetto più eclatante nella globalizzazione giuridica. Si parla più
specificamente, appunto, di diritto transnazionale per indicare quella condizione in cui la limitazione della
sovranità dei singoli Stati si accompagna alla questione della pluralità delle fonti e al mutamento delle regole
fondamentali del commercio mondiale.

Il concetto di sovranità statale si è radicalmente modificato insieme alla trasformazione della gerarchia delle
fonti: gli Stati territoriali esistono come entità necessarie in relazione alla protezione dei diritti sociali, ma
consentono lo sviluppo di istituti, in specie di diritto privato e commerciale, che promuovono rapporti tra
soggetti di nazionalità diverse, mentre si adeguano alle disposizioni normative che disciplinano gli accordi tra
Stati in materia penale. La legge si svaluta come fonte prevalente, non solo rispetto alla Costituzione ma anche
rispetto alla consuetudine che assume una connotazione nuova in relazione allo sviluppo dei rapporti giuridici
extra statuali e territoriali. Il positivismo giuridico resta un riferimento teorico necessario per la
determinazione delle scelte normative ma si diversifica negli orientamenti che assume:

si muta in “neocostituzionalismo” (costituzionalismo degli Stati contemporanei in cui le Costituzioni sono


rigide e gerarchicamente superiori alla legge ≠ costituzionalismo ottocentesco poco distinguibile dallo Stato di
diritto di cui condivide l’esigenza della limitazione del potere assoluto) o si qualifica come «giuspositivismo
inclusivo» (corrente scientifica che considera inevitabile includere nella nozione di diritto alcuni concetti
morali, traducendoli mediante il ragionamento e l’argomentazione in regole giuridiche ≠ giuspositivismo
esclusivo), rendendo esplicita un’attenzione verso quei valori etici che perdono la pretesa giusnaturalista di
eternità e universalità e si traducono nei principi costituzionali.

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