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DIRITTO ROMANO

Il diritto romano, è un diritto che si svolse per oltre 1300 anni, dalle origini di Roma nel VIII secolo a.C
alla morte dell’imperatore Giustiniano nel 565 d.C. Con questo imperatore ebbe luogo un evento
storico di straordinaria portata, ossia la compilazione del corpus iuris civilis.
Il diritto romano ma quello privato in è in particolare, è tra i diritti dell’antichità classica l’unico che fu
scientificamente elaborato.
A Roma si cominciò col ricavare dalle soluzioni dei casi concreti e dal confronto tra esse i principi
latenti che le ispiravano e si procedette alla costruzione ed elaborazione di concetti e categorie
giuridiche (servitù, mutuo, compravendita, ecc.)

ETA’ ARCAICA

Va dalle origini della civiltà fino il III secolo a.C.


Il regime costituzionale è dapprima monarchico con rex, senato e assemblea popolare e dal IV secolo
con la Repubblica.
Nella fase più antica il diritto è esclusivamente consuetudinario cioè un gruppo sociale è diretto da
regole non scritte e non poste da qualche legislatore, si sono formate nel tempo.
2 caratteri:

• CONSAPEVOLEZZA di tutti i membri della vincolabilità della norma


• QUANTIVITA’: chi viola le regole viene punito

Le regole non sono state né scritte né imposte da un organo che ha portato il gruppo a rispettarle.
Il diritto privato è di formazione consuetudinaria fondato sui mores (451 a.C vengono messe per iscritto
le famose leggi delle 12 tavole) sono norme di diritto, molte sono trasposizioni di consuetudini altre
sono innovazioni apportate dal legislatore da norme precedenti.

MORES MAIORUM: consuetudini


PACTIUM: accordo

ETA’ PRECLASSICA
metà del III secolo
Anni dell’apogeo e della crisi della Repubblica
Per quanto riguarda il diritto privato vengono tutelate altre posizioni giuridiche soggettive

ETÀ CLASSICA
va dal I sec. a.C. al III sec. d.C.
Trasformazione da repubblica a Impero
L’imperatore emana norme operando attraverso il rescrito (= risposta della cancelleria dell’impero) che
veniva chiamato appunto rescrito in caso di controversie tra privati (posto in calce all’istanza),
altrimenti veniva chiamato epistole in caso di controversie tra governatori o funzionari dello stato.
Queste erano considerate costituzioni imperiali. Ad un certo punto l’imperatore cerca di cooptare i
giuristi offrendo dapprima il consolato e poi un posto nella cancelleria dell’impero. Spariscono così gli
scritti dei giuristi che fanno ormai tutti parte della burocrazia.

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ETÀ TARDOANTICA o POST-CLASSICA

Va dal 235 d.C. al 565 d.CNel 312 d.C. diventa imperatore Costantino, che trasforma le fonti del
diritto: l’imperatore è l’unico legislatore e le costituzioni imperiali vengono formulate solo
dall’imperatore. Caratteristica di quest’età è la legislazione d’emergenza. Nel 531 d.C. Giustiniano
(imperatore d’Oriente) decide di recuperare il diritto classico in alcune raccolte:
• Il codice di Giustiniano: raccolta delle costituzioni imperiali in 12 libri (preceduto dal codice
Teodosiano)
• Il digesto: raccolta di opere di giuristi classici in 50 libri
• Institutiones: raccolta de fondamenti del diritto per studenti in 4 libri

IUS
Ius è un termine latino
Nell’antichità vigeva un principio chiamato personalità del diritto, il quale afferma che ogni cittadino
mantiene il diritto del suo stato e se lo porta con se, ovunque vada. E’ presente una sezione della legge
riservata solo ai cittadini romani, chiamata ius civilis, diritto proprio ed esclusivo dei cittadini di uno
stato, escludendo chiunque non sia romano. E’ diviso in due sezioni:

• Ius quiritium: è la prima parte nella quale era presente il principio “dominium ex iure quiritium”, la
quale è un’area riservata al diritto assoluto, cioè che vale nei confronti di tutta la società, ed è il
diritto di proprietà ed era valido solo per i cittadini romani. Vi erano riconosciute posizioni
giuridiche soggettive assolute ossia posizioni di potere su persone o cose, tra queste anche su
animali e schiavi con un affermazione di appartenenza.

• Ius civile: che è il secondo nucleo di norme, il quale aveva il compito di regolare i rapporti tra uomo-
uomo e non uomo-oggetto (cioè di proprietà). Tende a regolare rapporti ad obbligatori e non
influenza i terzi, i quali non hanno sottoscritto nessun contratto. Riguarda i cittadini romani e
comprende in sé il ius Quiritium ma è rispetto ad esso più ampio: le posizioni soggettive
riconosciute dal ius Quiritium sono le stesse del ius civile, ma non è vero il contrario perchè
vengono tutelate e riconosciute nella Roma arcaica posizioni giuridiche a carattere relativo, di
quelle per cui in età più matura di parlerà di obbligazioni e quindi di crediti e debiti caratterizzate
da un vincolo giuridico per cui un soggetto -il debitore- è tenuto ad un certo comportamento verso
un altro soggetto -il creditore-. La necessità giuridica del debitore di tenere il comportamento
dovuto fu espressa con il verbo oportere .
A partire dal III secolo si cominciò a dare tutela giudiziaria a nuovi negozi anche se compiuti da
cittadini peregrini . A questi negozi si riconobbe l’effetto di dar luogo ad obblighi qualificabili in
termini di oportere talchè i crediti corrispondenti furono pure essi tutelati da azioni civili. La
conseguenza fu che di ius civile si parlò in due diverse eccezioni, a seconda del punto di vista
considerato. Dal punto di vista della fruibilità, delle persone alle quali si estendeva, il ius civile era il
diritto riservato ai cives romani. Dal punto di vista degli effetti, il ius civile era il diritto nel cui ambito
diritti e doveri venivano qualificati in uno dei seguenti modi: ex iure Quiritium, ius, oportere. Questo
duplice modo di intendere il ius civile deve essere messo in relazione con: a) ius gentium, e b) ius
honorarium.

• ex fide bona: Il giudice era chiamato a decidere su una lite per cui si dava luogo a un giudizio di
buona fede e doveva valutare secondo buona fede i doveri del debitore convenuto. Si imponeva al
giudice un metro di giudizio, quello della buona fede che rimandava ai comuni criteri di lealtà e
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correttezza propri della prassi corrente tra gli uomini di affari. Si trattava di buona fede in senso
oggettivo perchè oggettivo era il metro di giudizio. Un metro di giudizio che consentiva costante
adeguamento a nuove realtà e a nuovi modi di essere e di pensare, senza interventi di tipo legislativo.

IUS HONORARIUM

E’ un’altra delle qualificazioni fondamentali del ius in senso oggettivo. Si tratta del diritto risultante
dall’attività sostanzialmente creativa di alcuni organi giurisdizionali: pretori urbano e peregrino, gli
edili curuli e i governatori delle province; in ogni caso magistrati eletti dal popolo con carica annuale.
Il pretore urbano, magistrato cum imperio (con potere supremo) fu istituito in seguito alle leges
Liciniae Sextiae del 367 a.C.: tra gli altri compiti ebbe quello di divere ius. Allo stesso periodo risale
l’istituzione degli edili curuli, anch’essi magistrati ma sine imperio: spettava loro la cura annonae con
poteri di vigilanza sui mercati e relativa giurisdizione: era competenti per controversie dipendenti dalla
vendita di schiavi e animali.
Il pretor peregrinus fu istituito più tardi, nel 242 a.C., per esigenze dipendenti dagli intensificati traffici
commerciali: ebbe il compito di dicere ius tra cittadini stranieri e romani o stranieri.
Il pretor peregrinus comincia ad offrire a chi litigava strumenti nuovi rispetto alle forme processuali
utilizzate fino al momento ed erano le formule, e porta alla formazione del processo classico o processo
formulare; la difesa della compravendita nasce nel sistema del pretore (nel quale ogni anno doveva
emanare in editto dove esponeva i mezzi di difesa). Tutte le controversie non potevano essere svolte
attraverso il processo civile; si crea una tutela per ogni situazione di contrasto tra privati. Il pretore
decide di difendere l’imputato, perché l’attore poteva estorcere e ottenere illegalmente o con l’inganno
un compenso. Non tutela quindi l’attore a priori ma la buona fede, che è un rapporto tra la parti, e verrà
giudicato se si è rispettata la correttezza dei comportamenti (nel codice civile è il principio
dell’affidamento): ogni parte ha intenzione che l’altra rispetti i patti. Il principio della fides era talmente
importante che chi non la rispettava (giurando il falso o imbrogliando) spezzava il rapporto con gli dei
e ne provocava l’ira furiosa, che avrebbero distorto la natura (es bambino con 6 dita), che i romani
pensavano di dover estirpare il prima possibile senza che contaminata nient’altro.

I negozi tutelati da azioni di buona fede appartengono al ius gentium, ovvero il diritto delle genti.
Questi sono riconosciuti sia ai cittadini, sia nei confronti dei non cittadini (peregrini) e quindi a soggetti
appartenenti ad altri popoli. Questo avviene perché si trattava di negozi giuridici riscontrati con uguali
strutture e modalità presso altri popoli.
Il ius gentium è però diverso dal ius naturale. Quest’ultimo a un significato principalmente teorico e
ideale, al più classificatorio. Per ius naturale si intende un diritto ideale del tutto conforme a giustizia,
con caratteri assoluti e universali. È però inteso anche come diritto conforme a natura e quindi comune
a tutti gli esseri umani.
Un’altra divisione si ha tra ius publicum e ius privatum.
- Il ius publicum corrisponde a nostro odierno diritto pubblico, che tutela gli interessi pubblici.
Riguarda quindi l’organizzazione ed il funzionamento della collettività. Il diritto pubblico trovava
applicazione in qualsiasi caso intervenisse il populus Romanus o un altro organo pubblico.
- Il ius privatum invece corrisponde al nostro diritto privato, tutelando gli interessi privati e individuali.
Riguarda i rapporti tra i singoli.

Altra divisione è tra ius commune e ius singulare.

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- ll ius commune riguarda gli istituti di applicazione generale.
- Il ius singulare riguarda regimi giuridici eccezionali fuori dalla logica generale del sistema.
Era importante che la norma con carattere eccezionale non venisse applicata al di fuori del caso
considerato, per evitare un’eventuale estensione analogica del suo utilizzo.

IL PROCESSO (27.09.2018)

Individuazione di una situazione giuridica controversa. Un soggetto afferma di avere una pretesa nei
confronti di un’altra persona; il primo quello che afferma di avere una pretesa verso un’altre persona è
l’attore (actor) mentre l’altro è il convenuto (reus).

Esistono tre tipi di processo:


• Il primo tipo di processo si chiama processo per legis actiones;

• Il secondo tipo di processo si chiama processo per formula, cioè formulare;

• Il terzo tipo di processo si chiama processo extra ordinem, cioè con delle formule straordinarie; (non
lo chiede all’esame)

Le legis actiones era l’unico processo privato fruibile dai cittadini romani durante l’età arcaica. Si suol
parlare di legis actiones come di un tipo di processo, ma si trattava di cinque diversi riti processuali. Le
legis actiones erano accessibili solo ai cittadini romani, la ritualità era rigorosa: pena la nullità
occorreva pronunziare le parole previste nelle più antiche legis actiones e compiere dei gesti stabiliti.
Era richiesta la partecipazione attiva, la presenza di entrambe le parti di litiganti ossia la parte che
aveva preso l’iniziativa della lite e la parte che l’aveva subita: rispettivamente attore (actor) e
convenuto (reus) e sia di un magistrato con iuris dictio. I due contendenti dovevano essere presenti
dinanzi al magistrato e l’attore doveva assicurare la presenza del convenuto. Successivamente avveniva
la in ius vocatio, un atto del tutto privato per cui una parte ingiungeva all’altra, attraverso la pronuncia
di determinate parole solenni davanti al magistrato. Il vocatus doveva obbedire altrimenti l’attore era
autorizzato ad usare la fora per trascinarlo in giudizio. La iuris dictio si manifestava con la pronuncia
dei verbi do, dico,addico.

Secondo la descrizione gaiana, le legis actiones erano cinque, tre di esse erano dichiarative, le altre due
esecutive.
Si dicono dichiarative le azioni volte all’accertamento di situazioni giuridiche incerte o controverse
mentre esecutive le azioni volte alla realizzazione di situazioni giuridiche certe o ritenute tali
dall’ordinamento giuridico. In caso di controversie o incertezze, si debba prima esercitare l’azione
dichiarativa, bisogna renderla certa e poi se del caso procedere con l’azione esecutiva. Questa regola
subirà nella legis actiones eccezioni molteplici.

Legis actio sacramenti

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Risale ai più remoti mores della civitas. Gaio la qualificava actio generalis perchè nel suo ambito era
possibile agire per ogni pretesa per cui non fosse prescritto l’esercizio di altra legis actio. Poteva essere
in rem o in personam.

La Legis actio sacramenti in rem

Impiegata per il riconoscimento e la tutela di posizioni giuridiche soggettive assolute, quelle con cui
più tardi si agirà con vindicationes.
il proprietario persegue la cosa che afferma appartenergli, l’erede persegue un’eredità che dice sua...Il
proprietario fa una pretesa dicendo che una cosa gli appartiene. Si agiva così: una volta presenti
entrambi i contendenti davanti al magistrato e presente pure la cosa controversa, la parte che aveva
preso l’iniziativa della lite tenendo in mano una bacchetta (festuca), faceva atto di appartenenza della
cosa e affermava solennemente che essa gli apparteneva - se per esempio l’oggetto di contestazione era
uno schiavo diceva:” dico che quest’uomo è mio ex iure Quiritium” - e lo toccava con la bacchetta.
L’altra parte compiva gli stessi gesti e pronunciava la stessa formula. Cosicchè alla vindicatio di una
parte, seguiva la controvindicatio dall’altra. A questo punto interveniva il pretore ingiungendo ai
litiganti di deporre la cosa, essi obbedivano ma subito si sfidavano al sacramentum che era prima un
atto di sacralità che comportava un giuramento e successivamente divenne una scommessa di pagare
all’erario 50 o 500 assi. Prestato il sacramentum interveniva il pretore il quale vindicias dicebat,
emanava cioè un provvedimento nel quale assegnava il possesso provvisorio il possesso della cosa
controversa a quella delle parti in lite che assicurasse l’intervento di garanti ritenuti più idonei. Questi
avrebbero assunto il ruolo di praedes perchè garantivano che la parte alla quale il magistrato aveva
assegnato il possesso provvisorio della cosa l’avrebbe restituita all’avversario insieme con i frutti
maturati durante il processo.
Chiusa la fese in iure, il giudizio continuava apud iudicem, qui ogni parte doveva dimostrare al giudice
che la cosa controversa gli apparteneva:l’onere della prova gravava su entrambe perchè l’una e l’altra
avevano in iure, con vindicatio e contravindicatio, affermato l’appartenenza della cose. Il giudice
raccolte le prove, dichiarava quale dei due sacramenta fosse iustum. Il giudice decideva indirettamente
il merito della lite.
L’esito non affermava chi fosse il proprietario ma solo che il iuramentum fosse iustus (cioè conforme al
diritto, non giusto moralmente) e l’altro iniustum (non conforme al diritto). Da questo si ricavava chi
fosse il legittimo proprietario del bene.

La legis actio sacramenti in personam

Il creditore insoddisfatto avrebbe agito contro il proprio debitore affermando, in iure e rivolto allo
stesso debitore ad esempio :”affermo che tu sei tenuto a darmi diecimila. Ti chiedo di ammettere o
negare.” Se il debitore-convenuto riconosceva il proprio debito, si aveva confessio in iure con
conseguenza interruzione del rito e potestà del creditore, se invece negava le parti si sfidavano al
sacramentum.

La legis actio per manus iniectionem

Gaio ci dice che con essa si agiva per la realizzazione di posizioni giuridiche soggettive per le quali una
legge vi avesse fatto rinvio.
Aveva funzione esecutiva e poteva essere esperita per espressa disposizione delle XII Tavole, per
l’esecuzione di un giudicato. Si parla di manus iniectio iudicati, aperta al creditore in favore del quale
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fosse stata emessa una sentenza iudicatum per cui l’avversario fosse stato riconosciuto debitore di una
somma di denaro. Con la mus iniectio si procedeva se il debitore dopo trenta giorni dalla sentenza non
avesse ancora pagato.
Al iudicatus (debitore) era verificato il confessus, il convenuto cioè che in iure aveva ammesso il
proprio debito. Con la manus iniectio si procedeva talora pure in difetto di iudicatum e di confessio, in
ipotesi relative a situazioni riconosciute a priori come certe: per alcune con manus iniectio pro iudicato,
per altre con manus iniectio pura.
Alla manus iniectio pro iudicato era così ammesso lo sponsor che aveva prestato garanzia. Un caso, di
iniectio pura era quello stabilito dalla lex Furia testamentaria, che consentì all’erede di agire
direttamente con la legis actio per manus iniectionem contro il legatario che avesse percepito
dall’eredità più di 1000 assi.
Il procedimento si svolgeva dinanzi al magistrato giusdicente, presenti creditore e debitore, o presenti
tali. Ad avere un ruolo attivo era dapprima soltanto il creditore il quale rivolgendosi all’avversario,
enunciava adottando i certa verba di un formulario la fonte (causa) del credito che pretendeva
spettargli, ne indicava l’importo e dichiarava di manus inicere; contemporaneamente afferrava il
preteso debitore. Il debitore poteva indicare un vindex, il cui intervento lo avrebbe sottratto alla manus
iniectio. Il vindex poteva negare il debito e così contestare il diritto dell’attore di procedere a manus
iniectio. Si istituiva al bisogno un’altra legis actio, una legis actio dichiarativa , nella quale il vindex se
soccombente, veniva condannato al doppio dell’importo del debito che risultasse in effetti esistente.
Se il preteso debitore non indicava in vindex o nessun vindex interveniva a suo favore, il pretore
pronunciava l’addictio in favore dell’altra parte, così questa avrebbe potuto trascinare con sé l’addictus
e tenerlo in catene 60 giorni. Durante questo tempo il creditore avrebbe dovuto però condurre il
debitore in tre mercati -nundinae(aveva luogo ogni nono giorno)- consecutivi e qui proclamare
l’importo del debito in modo da dare possibilità a chiunque di riscattare il debitore. Se nessuno si
presentava per riscattarlo, il debitore poteva esser venduto come schiavo fuori Roma, ma il creditore
avrebbe potuto anche uccidere il debitore e più debitori avrebbero potuto spartirsi il suo corpo dopo
averlo fatto a pezzi.
Manus iniectio pura: in essa il convenuto poteva sottrarsi alla manus iniectio anche se nessun vindex
fosse intervenuto per lui, e poteva da sé negare il debito affermato dall’attore, con la conseguenza di
dovere subire condanna al doppio in caso di soccombenza. La regola che si applicava qui fu espressa
dalla litiscrescenza e comportava l’obbligo di pagare il doppio se la contestazione fosse risultata
infondata.

Le altre legis actiones

La legis actio per pignoris capionem

La legis actio pignoris capionem è più recente rispetto le altre due precedenti. E’ una legis actio
particolare perché non richiedeva la presenza né del magistrato né dell’avversario, e poteva svolgersi
anche nei giorni nefasti tant’è che alcuni giuristi negarono che la pignores capio (legge emessa contro il
compratore di un animale destinato al sacrificio che non avesse pagato il prezzo) fosse propriamente
una legis actio. Il creditore, doveva pronunziare certa verba che prevedeva contestualmente possesso di
cose appartenenti al debitore e le teneva in ‘pegno’. Le applicazioni di questa legis actio erano stabilita
o da mores o da leges, e riguardavano crediti di natura prevalentemente pubblica e sacrale.

La legis actio per iudici arbitrive postulationem

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Meno antica ma nota alla legge delle XII Tavole. Era una legis actio dichiarativa, ed era esperibile per
pretese per le quali una legge vi avesse fatto espresso rinvio. A norma delle XII Tavole, era esperibile
per crediti nascenti di stipulatio e per la divisione di eredità comuni; per la divisione di singoli beni
comuni, anche non ereditari. Quando si agiva per crediti da stipulatio, il rito era simile, nella prima
parte, a quello della legis actio sacramenti in personam. E’ tuttavia certo che, in ogni caso, l’attore o le
parti dovevano fare riferimento alla fonte dei diritti vantati e, rivolgendosi al pretore, chiedere, con
parole determinate la nomina di un iudex o di un arbiter. Dal canto suo l’organo giudicante si
pronunziava direttamente sul merito della lite.

La legis actio per conditionem (era incomprensibile allo stesso Gaio, mistero del perchè è stata scritta)

Era la più recente delle legis actiones: introdotta da una lex Silia nel III secolo a.C. per crediti aventi ad
oggetto una somma determinata di denaro, fu estesa non molto tempo più tardi da una lex Calpurnia ai
crediti di cose determinate diverse dal denaro. Ebbero così riconoscimento, e insieme tutela, a Roma,
crediti del tipo di quelli per cui i classici parlarono più tardi di obbligatio re contracta, e quindi crediti
da mutuo, pagamento di indebito, etc.
Sul procedimento si sa molto poco: in iure l’attore, senza precisarne la fonte(causa), affermava un
proprio credito (es. trattandosi di credito di certa pecunia, diceva:’ Aio te sestertiorum X milia dare
oportere’; ‘ dico che tu mi devi dare 10000 sesterzi’. La necessità di adempire del debitore era espressa
anche qui in termini di oportere, con riferimento a un vincolo riconosciuto dal ius civile. Se il
convenuto negava, l’attore lo invitava a ripresentarsi dinanzi al pretore dopo trenta giorni per nomina
del giudice che avrebbe deciso la controversia. Da canto suo il giudice si sarebbe poi pronunziato
direttamente sul merito della lite.Contro il convenuto giudicato debitore di una somma determinata di
denaro il creditore procedeva ulteriormente con legis actio per manus iniectionem.

L’agere in rem per sponsiorem

Con riguardo soltanto alle vindicationes cioè ad azioni per le quali sarebbe stato possibile procedere
con la legis actio sacramenti in rem, si fece ricorso a un espediente processuale per cui la posizione
delle parti poteva risultare meno gravosa e il procedimento più snello: l’agere in rem per sponsionem.
Esso era caratterizzato dal fatto che in iure aveva luogo una sponsio (promessa solenne) detta
praeiudicialis, dove il convenuto prometteva all’attore una somma di denaro di importo simbolico, e
quindi minimo, per l’ipotesi in cui la cosa in contestazione risultasse appartenere all’attore. Con la
sponsio pro praede litis et vindiciarum così detta perchè il convenuto prometteva all’attore che, una
volta riconosciuto debitore in virtù della sponsio praeiudicialis, avrebbe restituito la cosa controversa
con i frutti del periodo processuale.
Per il resto la procedura seguiva il suo corso norma: l’attore proponeva l’azione (in personam) nascente
dalla sponsio praeiudicialis, nella quale il giudice in tanto condannava il convenuto al relativo importo
in quanto accertava preliminarmente che la res controversa era dell’attore. Il giudice si pronunziava sul
debito nascente dalla sponsio praediucialis, indirettamente sull’appartenenza della cosa. In caso di
accertamento positivo, la summa sponsionis riconosciuta dovuta neanche veniva esatta; e il convenuto,
avrebbe restituito cosa e frutti perché se non l’avesse fatto, l’attore avrebbe esercitato l’azione nascente
dall’altra sponsio, pure essa prestata in iure: la sponsio pro praede litis et vindiciarum: e in essa il
convenuto non avrebbe avuto difesa.
Dall’esposizione che s’è fatta emergono i vantaggi e le novità dell’actio (in rem) per sponsionem
rispetto alla legis actio sacramenti in rem: la presenza in iure dell’una e dell’altra parte era pur sempre
richiesta ma non si esigeva la presenza della cosa; non v’era posto per un provvedimento pretorile di
assegnazione del possesso provvisorio della res controversa: questa restava presso che l’aveva già, e
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pertanto presso il convenuto; l’attore agiva senza rischio per il caso di soccombenza, o al più, se ex
sponsione preaiudiciali si procedeva con legis actio sacramenti in personam, il suo rischio era limitato
al sacramentum di minore importo (50 assi)
Dal punto di vista della tecnica giuridica le novità di maggiore rilievo rispetto alla legis actio
sacramenti in rem riguardano l’onere della prova e il contenuto della sentenza. L’onere della prova
gravava solo sull’attore: il giudice era chiamato a decidere soltanto sulla questione se la res controversa
appartenesse all’attore. Sicché il convenuto bastava contestare ciò, non anche provare di essere lui
proprietario, l’erede, etc. Ne consegue la sentenza, quando non era di accoglimento, era di semplice
rigetto: il giudice avrebbe escluso la titolarità dell’attore ma nulla avrebbe detto circa quella del
convenuto. Si tratta di soluzioni che non verranno più abbandonate e che sono ancor oggi punti fermi
del nostro sistema giuridico.

Graduale abolizione della legis actione


Processo formulare

Il pretore ebbe un ruolo determinante già nella genesi del processo formulare, almeno per l’aspetto
formale, si può dire che sia stato tutto di formazione pretoria. Con l’intensificarsi delle relazioni
commerciali tra Romani e stranieri e con lo sviluppo della società romana, si avvertì l’esigenza di
strutture processuali diverse. Vi provvide il pretore consentendo agli interessati cives e peregini, di
litigare per formulas, dando luogo a un tipo di processo detto formulare che si realizzava dapprima solo
in forza dei poteri del pretore e al di fuori del ius civile. Accade così che dinanzi al pretore si litigasse
sia per legis actiones sia per formulas. Molto presto un solo pretore non bastava più quindi nel 242 a.C
fu istituita un’altra magistratura pretoria, quella praetus peregrinus, con il compito di dicere ius inter
cives et peregrinos, o anche solo inter peregrinos, di esercitare giurisdiizione cioè tra cittadini romani e
stranieri o tra stranieri soltanto ovviamente per formulas. Cosicché il pretore di più antica istituzione fu
detto ora praetor urbanus.
Intanto la legis actiones si andavano rivelando sempre più inadeguate rispetto alla nuova realtà e al
mutato contesto culturale. Furono pertanto gradatamente soppresse: una lex Aebutia, della seconda
metà del II secolo a.C. abolì la legis actio per conditionem e una legge approvata da Augusto abolì le
restanti legis actiones. Si fece eccezioni per le liti per le quali avrebbero deciso i centumviri e per
l’azione di danno temuto: in quest’ultima applicazione il ricorso alla legis actio cadde però presto in
desuetudine perché fu riscontrato assai più comodo il rimedio pretorio della cautio damni infecti.
La conseguenza fu che il processo formulare andò sostituendo le legis actiones, gli furono attribuiti
effetti anche per ius civile e divenne il processo privato ordinario e tale rimase per tutta l’età classica.

La ius vocatio

Al fine di assicurare la presenza in iure dell’avversario si provvedeva, con in ius vocatio. La quale
rimase pur sempre un atto privato, compiuto dall’attore soltanto senza alcuna partecipazione di organo
pubblico e con cui lo stesso attore invitava l’altra parte a seguirlo dinanzi al magistrato. Per essa non si
richiese più alcuna solennità orale; e l’attore avrebbe dovuto precisare al convenuto l’azione che
intendeva promuovere. Contro il vocatus che si rifiutava di seguirlo in giudizio, l’attore non avrebbe
potuto adesso fare ricorso alla forza. Era il pretore a esercitare coazione indiretta avendo egli promesso
nel suo editto missio in bona (immissione nel possesso di tutti i beni) contro il vocatus che non avesse
seguito l’attore.

Il vadimonium

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Denunzia la derivazione dell’intervento dei vades che nelle legis actiones assicuravano la ricomparsa in
giudizio della parte convenuta. Nel più recente vadimonium era lo stesso convenuto che mediante
stipulatio prometteva all’avversario che vi consentiva di comparire dinanzi al magistrato nel giorno
concordato. Il vantaggio per il convenuto era di sottrarsi all’obbligo di seguire immediatamente l’attore
in iure.

La fase in iure del processo formulare. La litis contestatio

Il processo era diviso in due fasi: in iurem e apud iudicem

In iure: Una volta fissati i termini giuridici della lite era necessaria la presenza sia dell’attore che del
convenuto. Il magistrato che la presiedeva era un magistrato con iuris dictio. Questa comportava pure
sempre, il potere di stabilire il principio di diritto da fare valere nel caso concreto, ma ciò si esplicava
attraverso la dato actionis. Con essa il magistrato, approvato il testo della formula (iudicium)
concordava tra le parti e concedeva l’azione richiesta. In questo modo egli dava via libera per
l’ulteriore procedimento sì che la lite potesse essere decisa con sentenza.
I magistrati del processo formulare erano il pretore urbano e peregrino, l’edile curule e i governatori
provinciali, tutti quanti esercitavano giurisdizione sulla base di un editto. Portata limitata ebbe l’editto
del’edile curule mentre fondamentale per il diritto onorario fu il pretore urbano.
Davanti il pretore, in iure, le parti manifestavano le proprie ragioni. L’attore indicava all’avversario la
formula dell’azione che intendeva promuovere facendo riferimento all’albo pretorio. Quest’ultimo
riproduceva l’editto, e qui erano contemplati i modelli delle diverse formule o iudicia. All’editio faceva
seguito la postulatio actionis, era rivolta al pretore e mediante la quale l’attore chiedeva che si
procedesse con l’azione indicata. Qui l’attore indicava le proprie pretese. Se il convenuto non le
ammetteva iniziava un dibattito informale dove le parti sostenevano ciascuna i propri punti di vista con
la partecipazione del pretore. Potevano emergere obiezioni, eccezioni e repliche.
Era possibile che al pretore la pretesa di parte risultasse infondata così da procedere oltre era inutile;
oppure nel dibattito era iniquo perseguirla. In entrambi i casi il pretore denegava l’azione (denegatio
actionis) ed il nome del relativo provvedimento: e per essa, il giudizio non avrebbe avuto seguito. Per
effetto della denegatio actionis la pretesa attrice restava di per sé impregiudicata perchè la denegatio
non era una sentenza.
La pretesa vantata dell’attore non poteva essere perseguitata perchè il pretore aveva denegato e non
dato l’azione.
Più spesso doveva accadere che il pretore desse l’azione dando così via libera ad un altro
procedimento. La datio actionis presupponeva che le parti, con la partecipazione del pretore,
utilizzando dei modelli edittali, avessero concordato il testo della formula da adottare nella specie
concreta. La formula consisteva in un documento scritto dove era indicato il nome del giudice e dove vi
era l’invito di condannare o assolvere a seconda se fossero vere o non le circostanze della formula
indicate. Nella formula erano sintetizzati i termini della controversia ritenuti determinanti ai fini della
decisione.

La litis contestatio

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Se il pretore fosse stato d’accordo sul testo della formula ecco che egli compiva la dato actionis:
iudicium dabat(dava giudizio), dava cioè la formula e quindi l’azione richiesta, autorizzando il relativo
procedimento sulla base di quella formula. L’attore ne recitava il contenuto e il convenuto l’accettava.
Questi atti volontari nel quale convergevano il dare iudicium del pretore, il dictare iudicium
dell’attore e l’accipere iudicium del convenuto costituiva la litis contestatio. L’invocazione solenne dei
testimoni sarebbe stata superflua nel processo formulare perchè qui l’impostazione giuridica della
controversia risultava da un documento scritto: la formula.
La litis contestatio era presupposto indispensabile perchè si potesse avere una decisione giudiziale di
merito sulla questione controversa, ed era insieme l’atto istitutivo del giudizio, punto di riferimento di
ogni effetto che si attribuiva all’esercizio dell’azione. I termini giuridici della lite restavano
definitivamente fissati così come espressi nella formula, la quale non avrebbe più potuto essere mutata.
La litis contestatio aveva effetti esclusori o preclusivi e l’azione non poteva essere ripetuta.
Un altro effetto della litis contestatio era quello conservativo: la pretesa dell’attore era messa al sicuro;
qualunque evento successivo non l’avrebbe pregiudicata. Le azioni penali potevano essere esercitate
soltanto contro l’autore dell’illecito e non contro gli eredi, ma se moriva dopo la litis contestatio e
prima della sentenza l’azione poteva essere continuata contro gli eredi.

Defensio e indifensio

La litis contestatio era l’atto istitutivo del giudizio. Esigeva la partecipazione di ambedue le parti, pure
del convenuto che doveva accipere iudicium. Senza la collaborazione del convenuto per fissare i
termini della lite, senza la sua defensio il giudizio non aveva luogo. Questo non vuol dire che il
convenuto non potesse impunemente rifiutare di defendere: contro il convenuto che assunse un
atteggiamento passivo il pretore minacciava sanzioni diverse che erano più gravi delle azioni in
personam (pg.93).

La fase apud iudicem

Con la litis contestatio si chiudeva la fase in iure. La fase apud iudicem aveva luogo davanti al giudice
che avrebbe deciso la controversia. Il pretore aveva esaurito il compito in iure: egli aveva iuris dictio e
questa non comportava il potere di decidere il merito della lite: non comportava iudicatio che era
compito del giudice riscuotere la fiducia delle parti. Le parti decidevano il giudice e il suo nome
figurava in apertura della formula. Il giudice poteva essere una persona singola ma vi erano anche
organi giudicanti collegiali come i recuperatores (3) e giudicavano processi di maggiore rilievo sociale
e per delitti più gravi.
Questa fase si svolgeva in presenza delle due parti e senza formalità. Ogni parte esponeva le proprie
ragioni e mostrava le prove utili: sull’attore l’onere di provare la propria pretesa, sul convenuto quello
relativo ad eventuali eccezioni. Il giudice era rigorosamente vincolato ai termini della formula. Questo
lo invitava a condannare il convenuto o assolverlo.
Il giudice avrebbe potuto o dovuto condannare il convenuto se avesse verificato al tempo della litis
contestatio l’esistenza degli elementi che nella formula erano condizioni della condanna. Diversamente
avrebbe dovuto assolvere.
La fase apud iudicem si concludeva con la sentenza che poteva essere di condanna o assoluzione,
potevano riguardare soltanto il convenuto e mai l’attore. La sentenza era espressa in denaro.

Le parti ordinarie della formula

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Formula: documento che dava il nome all’intero processo, detta anche iudicium e vi erano i dati
rilevanti della controversia.

Constava di più parti:

• nomina del giudice


• intentio
• demostratio
• condemnatio
• adiudicatio

Intentio: esprimeva la pretesa vantata dall’attore. La pretesa dell’attore era di essere proprietario della
cosa in contestazione o il creditore-attore pretendeva che il convenuto fosse civilmente obbligato nei
suoi confronti per l’importo di cento.
L’intentio caratterizzava la formula, non solo ne denunziava la natura consentendo di stabilire se fosse
quella di un’actio in rem o in personam di un’azione civile o pretoria, ma quando mancava la
demostratio consentiva anche di stabilire il tipo dell’azione.

Demostratio: indicava la causa, i fatti che vi avevano dato vita. Non tutte le formule avevano
demostratio: si davano anche formule astratte dove la causa non era espressa. Iniziava con la parola
quod (poichè) e figurava ad esempio nella formula iudicia bonae fidei.

La condemnatio: era la parte della formula con la quale si invitava il giudice a condannare il convenuto
se sussistevano le condizioni nella stessa formula indicate. Era diversa dalla sentenza della condanna
ma erano collegate per il fatto che la sentenza di condanna in tanto era possibile in quanto al giudice i
poteri relativi fossero stati conferiti dalla condemnatio della formula. Doveva precisare l’oggetto
eventuale della sentenza di condanna; i termini della condemnatio formulare erano tali che la sentenza
di condanna doveva essere espressa in denaro pure se la pretesa dell’attore fosse stata di diversa natura.
L’eventuale procedimento esecutivo contro il convenuto condannato e inadempimento presupponeva,
nell’ambito del processo formulare un debito espresso in una somma di denaro. La condemnatio era
integrata da una taxatio.

La adiudicatio: Stava solo nelle formule delle azioni divisorie e dell’azione per il regolamento dei
confini, autorizzava il giudice ad ‘aggiudicare’ ai partecipanti alla comunione o ai confinanti parti
definite di quanto era oggetto della divisione o parti definite di terreno a confine. Aveva efficacia
costitutiva.

Praescriptio. Clausola arbitraria.

Prende le mosse da quel che sappiamo sulle azioni per cui si procedeva con la formula con intentio
incerta, con le quali in creditore deduceva in giudizio tutto ciò che gli era dovuto in dipendenza di
quanto specificato dalla demostratio. La conseguenza era che per l’effetto preclusivo della litis
contestatio, il creditore-attore non avrebbe potuto più ripetere l’azione per lo stesso credito. Ma la
prestazione dovuta poteva essere frazionabile, quindi perseguibile come unica azione sicché, il
creditore avrebbe rischiato di non potere più esigere il resto. Si pensi a una stipulatio avente ad oggetto
un pagamento rateale con scadenze semestrali (la formula era con intentio incerta). Se alla prima
scadenza il creditore avesse proposto l’azione puramente e semplicemente, avrebbe ottenuto sì la
condanna del debitore al pagamento della rata scaduta ma non avrebbe potuto poi, alle successive
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scadenze, ripetere l’azione: tutto il suo credito era stato già dedotto in giudizio la prima volta, sicché
l’unica azione cui il creditore era legittimato si era consumata per effetto della litis contestatio.
A ciò rimediava la praescriptio dove l’oggetto dell’azione, e conseguentemente l’effetto preclusivo
della litis contestatio venivano limitati a quanto l’attore volesse o potesse intanto perseguire.
La praescriptio era quindi un rimedio che giovava all’attore.

Exceptio

E’ un rimedio a favore del convenuto. Veniva inserita nella formula dopo l’intentio e prima della
condemnatio. Era una condizione negativa della condanna: il giudice avrebbe potuto e dovuto
condannare il convenuto solo se le circostanze dedotte nell’exceptio non risultavano vere. Il giudice
pertanto, nel caso proposto, avrebbe condannato il convenuto se avesse verificato due condizioni: una
positiva e una negativa. Quella positiva riguardava l’intentio ed era che N.N fosse tenuto a pagare
cento; l’altra, negativa, era la circostanza dedotta nell’exceptio ed era che, A.A non avesse tenuto o non
tenesse un comportamento doloso. Così il giudice, pure se accertava che N.N. era realmente debitore,
avrebbe dovuto tuttavia assolverlo una volta verificato il dolo di A.A.
Poichè l’exceptio era un rimedio a favore del convenuto, essa era inserita nella formula a sua richiesta o
comunque nel suo interesse. La funzione era analoga a quella della denegatio actionis. Solo questa
impediva lo svolgimento del giudizio, e il pretore vi addiveniva quando già in iure emergevano
circostanze tali per cui la pretesa dell’attore, pur in sè fondata, appariva in concreto evidentemente
contraria all’equità pretoria. Il pretore concedeva l’exceptio quando quelle circostanze non erano
manifeste e venivano contestate dell’attore sì che occorreva per esse procedere a un accertamento;
l’exceptio veniva allora incorporata nella formula, e, previa litis contestatio, il giudizio continuava apud
iudicem. Non ogni difesa del convenuto era exceptio: il convenuto che, avesse detto “ non è vero” non
opponeva alcuna exceptio in senso formulare: negava l’intentio. Talché non sarebbe occorso
modificare la formula: il convenuto avrebbe accettato la formula-tipo e poi, apud iudicem, si sarebbe
adoperato per negare fondamento all’intentio. Se vi fosse riuscito, il giudice avrebbe dovuto assolverlo.
L’exceptio era invece necessaria quando, senza di essa, il giudice non avrebbe potuto tenere conto di
fatti che, si voleva venissero in considerazione. L’exceptio era pertanto la difesa del convenuto che alla
pretesa attrice opponeva, in sostanza: “ è vero ma…”.
L’effetto ipso iure era un effetto automatico - e di ius civile insieme- che di per sè escludeva l’intentio e
di cui, il giudice poteva e doveva tenere conto pure se la formula non ne faceva espressa menzione.
L’adempimento della prestazione estingueva l’obbligazione ipso iure.
L’effetto estintivo era automatico e pertanto non occorreva che il convenuto che avesse adempiuto e
che fosse tuttavia chiamato in giudizio per l’adempimento opponesse exceptio.
Si trattava di effetti opo exceptionis quando, per farli valere bisognava opporre una exceptio.
Un alltro rilievo: si avrà talvolta più avanti occasione di constatare come si dessero fatti che davano
luogo a pretese tutelate soltanto con l’exceptiones.
Nel primo caso il titolare avrebbe potuto comunque fare valere le sue spettanze esercitando l’azione,
promuovendo un giudizio. La tutela solo in via di exceptio era invece una tutela imperfetta perchè il
soggetto tutelato solo con exceptio non avrebbe potuto giovarsene che se e quando convenuto.
L’exceptio era un rimedio pretorio perchè era stato escogitato dal pretore. E con l’exceptio il convenuto
era ammesso ad opporre circostanze iure civili non rilevanti: l’exceptio rappresentava solitmente un
mezzo di attuazione dell’aequitas pretoria, volto a correggere il ius civile quando la sua applicazione al
caso concreto appariva iniqua.
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Anche le exceptiones erano tipiche essendo i relativi modelli contemplati generalmente dall’editto.
Solo che le possibili applicazioni dell’exceptio doli erano tali e tante che il fatto stesso della sua
previsione edittale costituì praticamente un forte correttivo alla tipicità delle eccezioni.
Poteva accadere che, a fronte dell’exceptio del convenuto, l’attore opponesse circostanze che avrebbero
fatto apparire iniquo dare corso all’exceptio. Nella formula si inseriva una replicatio in modo che il
giudice non tenesse conto dell’exceptio.

Azioni civili e azioni pretorie. Iudicua bonai fidei.

Le actiones erano tipiche e classificabili in categorie. Una prima classificazione è quella tra azioni civili
e azioni pretorie. Erano civili le azioni fondate sul ius civile, pretorie quelle fondate sul diritto onorario.
L’appartenenza a una o all’altra categoria si stabiliva agevolmente dall’intentio della formula, a
seconda che in essa la pretesa attrice apparisse o non fondata sul ius civile. Noi sappiamo che erano
fondate sul ius civile le pretese che si risolvevano in affermazioni:
a) di appartenenza ex iure Quiritium
b) b) di spettanza di un ius
c) di obbligazione a carico del convenuto espressa con il verbo oportere

Ogni altra pretesa era di diritto onorario.


Il pretore riproduceva nell’editto i modelli delle formule-tipo, sia delle azioni civili sia di quelle
pretorie: le prime erano fondate nel ius civile e bastava semplicemente che l’editto le contemplasse. Le
azioni pretorie avevano fondamento in apposite clausole contenute nello stesso editto dove il pretore
indicava le circostanze in presenza delle quali egli avrebbe concesso l’azione. Questo vuol dire che
ogni azione pretoria presupponeva una promessa edittale talché nell’editto la relativa formula
compariva dopo di questa.

Iudicia bonae fidei e iudicia stricta

Sappiamo che il dovere giuridico di adempire da parte del debitore fu in essi espresso in termini di
oportere ex fida bona e che, con essi, si diede sin dagli inizi tutela giudiziaria anche a non
cittadini(peregrini); onde l’appartenenza al ius civile e insieme al ius gentium.
Si trattava di azioni in personam che avevano formula con demostratio, intentio e condemnatio.
L’intentio, era incerta in cui l’oportere, che esprimeva l’obbligazione del convenuto, erano aggiunte le
parole ex fida bona. Il giudice era così invitato a stabilire secondo criteri di buona fede gli obblighi a
carico del convenuto. Buona fede in questo contesto voleva dire correttezza nella vita di relazione: si
trattava quindi di una buona fede oggettiva.
Le azioni civili in personam per contrapporle alle azioni di buona fede si dissero iudicia stricta, ‘giudizi
di stretto diritto’. Erano giudizi di stretto diritto la condictio e l’actio ex stipulatu. Le azioni di buona
fede erano quelle nascenti dai quattro contratti concessuali ossia compravendita, locazione, società e
mandato.

Azioni pretorie: utiles, con trasposizione di soggetti, in factum

Potevano essere utiles con trasposizione di soggetti e in factum: si trattava in ogni caso di rimedi volti
a colmare lacune del ius civile perchè tutelavano rapporti iure civile o reprimevano comportamenti iure
civili non specificatamente repressi. Se la funzione era uguale, diversa era la struttura delle rispettive
formule. Nell’intentio delle azioni utili e delle azioni con trasposizione di soggetti non mancava il
riferimento al ius civile: si operava con esse un’estensione di azioni civili a situazioni iure civili non
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contemplate. Nelle azioni in factum si prescindeva del tutto dal ius civile nelle formule relative, si
invitava il giudice a condannare o assolvere a seconda che verificasse o non che certi eventi avessero
avuto luogo. Mancava ogni riferimento a ius Quiritium, ius, oportere.
Circa le azioni utili si deve precisare che l’estensione della tutela civilistica che con esse si realizzava
poteva aver luogo con modalità diverse: la più nota era la fictio. Le azioni utili nelle quali si operava
mediante fictio erano dette actiones ficticiae. Nella intentio di queste formule il giudice era invitato a
giudicare sulla base di una finzione giuridica, a giudicare cioè come sè esistesse un elemento o una
circostanza in effetti mancati ma che secondo il ius civile erano necessari per dar luogo ad una
situazione riconosciuta e tutelata. Erano ficticiae l’azione Serviana in favore del bonorum emptor, le
azioni per l’attuazione della in integrum restitutio , l’azione Publiciana ossia azione di rivendica e altre.
Nelle azioni con trasposizione di soggetti il meccanismo era diverso. Pera dare modo al giudice di
condannare il convenuto nonostante il difetto nell’attore di legittimazione attiva si indicava
nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato e nella condemnatio il nome della parte che
stava effettivamente in giudizio al posto del legittimato.
Esempio: l’azione Rutiliana, che si dava al bonorum emptor per la tutela di pretese per le quali era
rimasto titolare il debitore insolvente; si procedeva con formule con trasposizione di soggetti anche
quando interveniva un cognitor, un procurator ad litem o altro sostituto processuale.

Azioni in rem e azioni in personam

Esisteva già nell’antica legis actiones sacramenti ma fu rivista nel processo formulare. Da essa deriva la
basilare distinzione del diritto soggettivi patrimoniali in diritto reali e diritti di credito (lato attivo
dell’obbligazione).
Nelle azioni reali la pretesa dell’attore è erga omnes (nei confronti di tutti) affidandosi al giudice,
nell’intentio della formula, il compito di accertare la spettanza all’attore di un potere assoluto sulla cosa
per cui si controverte. Sicchè nell’intentio (che esprimeva la pretesa dell’attore) figurava solo il nome
dell’attore; quello del convenuto, e di nuovo quello dell’attore comparivano nella condemnatio.
Emblematica era la formula della rivendica. E’ connesso a ciò che la persona del convenibile con
azioni reali non era determinata a priori, ma si determinava al momento dell’azione, al momento della
litis contestatio: l’azione reale segue la cosa. L’azione reale è proponibile contro chi possiede il bene
che ne è oggetto o che ha con esso una certa relazione al tempo dell’esercizio dell’azione. Al riguardo
può richiamare ancora una volta la rei vindicatio, che era esperibile dal proprietario contro chi
possedeva la cosa al momento della litis contestatio. Ma il possesso era uno stato di fatto, poteva
cambiare in ogni momento. Doveva essere cura dello stesso proprietario esercitare l’azione contro il
possessore attuale. Se la cosa era perita prima della lite, l’azione reale non era più proponibile; e se
prima della lite, l’azione reale più proponibile; e se prima della lite la cosa aveva subito deterioramenti
l’attore l’attore la perseguiva nelle condizioni di fatto in cui essa si trovava al tempo della litis
contestatio: in altri termini, dei deterioramenti ante litem contestatam il convenuto non era chiamato a
rispondere dell’azione reale.
Nelle azioni in personam l’attore si affermava creditore, che assumeva che l’avversario, suo debitore,
era tenuto verso di lui a un certo comportamento. La pretesa dell’attore era specifica verso un soggetto
determinato, aveva pertanto carattere relativo, non assoluto, talchè il nome del convenuto figurava,
insieme con quello dell’attore, pertanto tra le parti di un’azione in personam preesisteva un
rapporto(l’obbligazione), e in dipendenza di esso il debitore convenuto poteva essere chiamato a
rispondere per fatti, anteriori alla lite, pregiudizievoli per il credito vantato dall’attore.
Riguardo alle sole azioni civili giova ribadire che, se si trattava di azioni reali, nell’intentio era espressa
l’idea dell’appartenenza ex iure Quiritium all’attore della cosa controversa o anche la spettanza
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all’attore di un ius su un bene determinato e che, se si trattava di azioni in personam, al vincolo del
debitore-convenuto era fatto rinvio nell’intentio col verbo oportere. Poteva accadere che il proprietario
non possessore fosse anche legittimato all’esercizio di un’actio in personam, e che pure questa, al pari
della rei vindicatio, gli consentisse il recupero della cosa.

Defensio e indefensio

Contro il convenuto che rifiutasse di se defendere e insistesse nell’indefensio, il pretore poteva o dare
corso all’esecuzione sulla persona autorizzando l’attore a trascinare presso di sè l’avversario o
tenervelo in stato di assoggettamento, oppure dare corso all’esecuzione patrimoniale e pertanto,
autorizzare l’attore a immettersi nel possesso di tutti i beni dell’indefensus. Davanti a sanzioni così
gravi parlarono di una coazione alla defensio del convenuto con azioni in personam, di una
impossibilità di sottrarvisi.
Il convenuto avrebbe potuto si rem non defendere, a condizione però di consentire all’avversario
l’esercizio di fatto del diritto che questi reclamava. Si parla al riguardo di translatio possesionis. Contro
il convenuto che, non avendo assunto la defensio, nemmeno avesse soddisfatto l’onere del
‘trasferimento del possesso’ si davano sanzioni che erano volte appunto alla translatio possesionis: e
che erano l’actio ad exhibendum di beni mobili, l’interdictum quem fundum o interdicta analoghi
quando si trattava di beni immobili. (vedi pg 94 note)

Effetti preclusivi della litis contestatio

Azioni in rem e in personam avevano diverso regime per quanto riguarda gli effetti preclusivi della litis
contestatio: un diverso regime che deve far contrapporre non tanto azioni reali ad azioni personali
quanto azioni in personam che fossero al contempo iudicia legitima in ius a tutte le altre; tra le quali le
azioni reali. In virtù di un certo principio l’effetto preclusivo della litis contestatio che vietava di
tornare ad agire una seconda volta de eadem re operava a volte ipso iure in forza di exceptio. La lite
non sarebbe stata ripetibile ipso iure - con la conseguenza che il seconda giudice avesse assolto il
convenuto- se la precedente lite de eadem re fosse stata un iudicium legitimum a al contempo in iuss e
in personam. Considerato che erano iudicia legitima quelli che avevano luogo a Roma, con giudice
unico cittadino romano e tra cives Romani - gli altri erano iudicia imperio continentia-, si comprende
da sè come tutte le azioni che non erano in personam, quindi anche le azioni in rem, fossero di per sè
ripetibili persino tra le stesse persone e per la stessa res. Affinchè il secondo giudice tenesse conto che
de eadem re v’era stata già una precedente litis contestatio, doveva essere cura del convenuto opporre
tempestivamente una exceptio; exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae. (vedi note pg. 94)

Azioni arbitrarie. Temperamenti del principio della condanna in ogni caso pecuniaria

Sono dette arbitrarie le azioni la cui formula conteneva na particolare clausola - la clausola restitutoira,
o arbitraria- per cui il giudice, verificata l’intentio, prima di pronunziare la condanna avrebbe dovuto
invitare il convenuto a restituire, e condannarlo solo in caso di mancata restituzione.
Il ricorso alla clausola arbitraria va messo in relazione col principio per cui la condanna doveva essere
sempre espressa in denaro e ne rappresentava un evidente temperamento che giovava sia al convenuto
sia all’attore. Una peculiarità delle azioni arbitrarie era che, se il convenuto su invito del giudice non
restituiva, l’importo della condanna pecuniaria era stabilito dall’attore, sia pure sotto vincolo di
giuramento. Questi avrebbe solitamente giurato un valore parecchio superiore a quello di mercato,
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attribuendo alla res della quale si trattava un valore affettivo. La regola doveva essere pertanto che,
nelle azioni arbitrarie la lite si concludesse con la restitutio, con la conseguente assoluzione del
convenuto. Una clausola restitutoria avrebbe avuto senso in tutte le azioni in cui l’attore avanzava una
pretesa non espressa in denaro. Ad avere la clausola restitutoria erano tuttavia soltanto le azioni reali e
poche altre ancora. Quando la clausola restitutoria mancava, il giudice avrebbe dovuto condannare il
convenuto pure se questi dopo la litis contestatio avesse soddisfatto le giuste pretese dell’avversario:
questo perchè per la decisione bisognava fare rifermento alla situazione giuridica qual era la tempo
della litis contestatio. Nella iudicia bonae fidei in difetto di clausola arbitraria si giunse presto ad
ammettere che, se dopo la litis contestatio il convenuto avesse adempiuto ogni suo obbligo, il giudice
avrebbe dovuto assolverlo. Per iudicia stricta l ‘altra soluzione fu mantenuta più a lungo.
La tesi sabiniana prevalse nel corso dell’età classica. Dopo il successo della tesi, il principio formulare
della condanna necessariamente pecuniaria non desse luogo ad inconvenienti rilevanti nei casi in cui la
pretesa dell’attore non era in denaro, il convenuto soccombente avrebbe preferito più spesso restituire o
soddisfare le pretese attrici, anzichè subire condanna pecuniaria.

Azioni penali e azioni reipersecutorie

La funzione della pena pecuniaria o detentiva, in alcuni paesi anche corporale è stata concepita per
secoli come punitiva. Essa è sempre irrogata ed eseguita dai pubblici poteri e quando si tratta di pena
pecuniaria, il relativo importo va alle casse pubbliche. Il diritto penale è pertanto diritto pubblico.
L’autore di un atto illecito incorre, sia o non esso reato, in responsabilità civile: la materia è di diritto
privato.
Nel diritto romano i punti di vista erano diversi. Per l’esperienza giuridica romana attiene al diritto
privato la classificazione delle azioni in penali e reipersecutorie. Con le prime che erano azioni in
personam il privato vittima di un illecito, perseguiva dall’autore di esso una pena, che aveva funzione
afflittiva, punitiva. La pena poteva essere o corporale o pecuniaria: se corporale, veniva inflitta dalla
vittima, se pecuniaria, era percepita dalla stessa vittima. Nel processo formulare la pena era sempre
pecuniaria.
Con le azioni reipersecutorie si perseguiva la res. Il termine res assumeva un significato ampio che
andava oltre quello di cosa in senso fisico: nel nostro caso abbracciava ogni interesse patrimoniale che
si assumeva leso e nel quale chi agiva pretendeva di essere reintegrato. La funzione era pertanto
risarcitoria.
Nel processo formulare la pena era pecuniaria e la condanna anche, da qui la difficoltà di distinguere
tra azioni penali e reipersecutorie. Le azioni reali erano tutte reipersecutorie quelle in personam no:
potevano essere penali e reipersecutorie. Pure penali erano le azioni con condanna in un multiplo del
valore della cosa sottratta o del pregiudizio subito dall’attore perchè il risarcimento si realizza
assicurando all’interessato il corrispondente valore della cosa o del pregiudizio: una condanna al
doppio, al triplo o al quadruplo intente punire ed è pertanto a titolo di pena. Tutte le azioni
reipersecutorie erano al simplum ma non è vero il contrario perchè non mancavano azioni penali al
simplum: ad esempio, l’actio de dolo.
Le azioni penali nascevano sempre da un atto illecito extracontrattuale qualificato delictum o
maleficium. Ma da un delictum potevano derivare anche azioni reipersecutorie ad esempio, dal delitto
di furto, oltre che azione penale derivava la condictio ex causa furtiva, che era reipersecutoria. Per
stabilire quindi la natura dell’azione bisogna fare riferimento al relativo regime giuridico, che era
diverso perchè diversa era la funzione delle azioni penali rispetto a quella delle reipersecutorie:
punitiva la prima, risarcitoria l’altra.
Le azioni penali erano passivamente intrasmissibili, potevano essere esercitate contro l’autore
dell’illecito, non contro gli eredi. La poena è personale. Il risarcimento riguarda il patrimonio così
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l’azione reipersecutoria poteva essere esperita pure dopo la morte del responsabile e quindi contro gli
eredi.
Le azioni penali si cumulavano, quelle reipersecutorie no. Le prime si cumulavano contro più
responsabili. Se più erano gli autori di un illecito sanzionato da azione penale questo poteva essere
esercitata per l’intero contro ciascuno, e l’azione contro uno non precludeva quella contro gli altri :
ognuno doveva pagare l’intera pena perchè tutti andavano puniti.

Alla ripetizione dell’azione non ostava l’effetto preclusivo della litis contestatio: questa vietava di agire
due volte de eadem re ma le pene contro persone diverse erano entità giuridicamente distinte. Nelle
azioni reipersecutorie il cumulo era escluso: l’interessato che esige una volta il risarcimento per l’intero
deve ritenersi soddisfatto; e se ottiene qualcosa che riguarda anche altri eventuali responsabilità era
esclusa perchè de eadem re.
La questione del cumulo si poneva con riguardo alle azioni. Pena e risarcimento non sono
incompatibili: si può pretendere il risarcimento anche dopo aver ‘punito’, e viceversa, ma la
reintegrazione dell’interesse patrimoniale leso si ottiene una volta sola. Di qui la possibilità di
cumulare, se nascenti dello stesso illecito, azione penale e reipersecutorie.
Le azioni penali potevano essere civili o pretorie. Quelle pretorie erano annali, potevano cioè essere
esercitate non oltre l’anno della commissione dell’illecito.
Le azioni penali, potevano essere tutte esperite in via nossale. Actiones noxales erano le stesse azioni
penali che si esercitavano per gli illeciti commessi da soggetti a potestà: schiavi e filii familias. In
questi casi l’azione penale, era data come noxalis contro l’avente potestà -cominius o pater familias- il
quale, se soccombente, era posto dinanzi all’alternativa: o pagare la pena prevista per quell’illecito o
dare a nossa il colpevole soggetto alla sua potestà. La noxae deditio si compiva mediante mancipatio
sul servo l’attore avrebbe acquistato il dominium, sul filius il mancipium. Proprio dalle azioni nossali
era il principio ‘noxa caput sequitur’, che si può rendere liberamente dicendo che la responsabilità
penale per i delitti segue la persona del colpevole. Se un servo commetteva un furto ed era alienato
prima che il derubato avesse esercitato l’azione nossale, l’azione nossale doveva essere rivolta contro
l’acquirente; e se il servo acquistava la libertà, l’azione penale doveva essere rivolta direttamente
contro di lui.

Procedure esecutive

L’actio iudicati

Una volta verificate dal giudice le condizioni indicate nella formula, si concludeva con la condanna del
convenuto: una condanna espressa in denaro che dava luogo ad obligatio iudicati; onde il potere
dell’attore vittorioso di procedere con l’actio iudicati contro il soccombente che entro trenta giorni non
avesse adempiuto. L’actio iudicati era un’azione dichiarativa di accertamento, più precisamente di
un’actio in personam.
In essa, avviata la fase in iure, poteva accadere che il convenuto riconoscesse di essere tenuto: il pretore
dava allora corso alle procedure esecutive.
Ma il convenuto poteva pure fare opposizione. Non gli era consentito di rimettere in discussione il
contenuto del giudicato assumendo di essere stato condannato ingiustamente; il convenuto avrebbe
potuto negare che esistessero i presupposti dell’actio iudicati, opponend:

a) che non vi era stata alcuna valida sentenza di condanna ai suoi danni
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b) di avere adempiuto
c) i termini per l’adempimento non erano ancora trascorsi.

Si procedeva come in ogni azione dichiarativa. L’atteggiamento del convenuto che negava i
presupposti dell’azione costituiva l’infitiatio, e comportava, nell’actio iudicati la condanna al doppio in
caso di contestazione infondata. Da questa nuova sentenza di condanna non sarebbe nata altra actio
iudicati ma il pretore, come nel caso in cui il convenuto avesse subito ammesso di essere tenuto,
avrebbe dato corso all’esecuzione.

Contro il iudicatus. L’esecuzione personale

L’esecuzione personale era ricalcata sulla legis actios per manus iniectionem, ma con semplificazioni e
temperamenti notevoli. Il pretore pronunziava addictio del debitore in favore del creditore così
autorizzandolo a condurre il debitore nelle proprie carceri private e tenervelo in stato di
assoggettamento fin quando altri non l’avessero riscattato o fino quando lo stesso debitore non avesse
col suo lavoro riscattato il debito.

L’esecuzione patrimoniale

Culminava nella bonorum venditio. Si iniziava con la missio in bona, o missio in possessionem
omnium bonorum, mediante la quale il pretore immetteva il creditore che di seguito all’actio iudicati ne
avesse fatto istanza nel possesso di tutti quanti i beni del debitore. La funzione di questa missio era di
custodia e conservazione.
Contemporaneamente alla missio il pretore disponeva la proscriptio: con essa si dava notizia della
procedura in corso a tutti gli altri eventuali creditori in modo da dar loro l’opportunità di intervenire. La
procedura, partecipandovi i creditori diventava concorsuale. Dal canto suo il debitore, trascorsi trenta
giorni dalla proscriptio senza che il creditore che aveva dato impulso all’esecuzione fosse stato
soddisfatto, diveniva infamis, con le conseguenze negative che l’infamia produceva sulla capacità della
persona.
Intervenuti i creditori e trascorsi i termini della proscriptio, il pretore poteva nominare un curatori
bonorum per gestire in via provvisoria il patrimonio del debitore. I creditori, designavano un magister
bonorum, che preparava la vendita all’asta dello stesso patrimonio stabilendone le condizioni. Alla
vendita si procedeva una volta che queste fossero state approvate dal pretore. Vinceva la gara chi
offriva di pagare la più alta percentuale sui debiti. L’acquirente era detto bonorum emptor.
Il bonorum emptor avrebbe pagato subito la percentuale offerta al creditore che aveva promosso l’actio
iudicati e così messo in moto la procedura esecutiva; e avrebbe pagato pure, nella stessa percentuale,
quanto preteso dagli altri creditori i cui crediti egli non contestava. Per gli altri debiti egli poteva essere
convenuto in giudizio con azioni nella cui formula la condemnatio veniva limitata, con taxatio, alla
percentuale offerta. Ed avrebbe potuto recuperare i beni del debitore dei quali non avesse ottenuto il
possesso, ed esigere eventuali crediti a sua volta vantati dallo stesso debitore verso terzi. In sostanza il
bonorum emptor subentrava, dal lato attivo e da quello passivo, nella situazione giuridica patrimoniale
del debitore che aveva subito la bonorum venditio.
La bonorum venditio era istituto estraneo al ius civile e che in favore del bonorum emptor non aveva
luogo alcun atto idoneo a farlo subentrare iure civili nelle posizioni giuridiche soggettive che facevano
capo al debitore; non diventava proprietario iure civile dei beni del debitore, nè diventava iure civili
creditore al posto suo.

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Il bonorum emptor fu considerato successore universale del debitore - successore iure praetorio- perchè
il pretore dava al bonorum emptor le azioni che spettavano al debitore, adattandole al caso.
L’adattamento si realizzava in due modi o attraverso la fictio, con una formula dove si invitava il
giudice a giudicare come se il bonorum emptor fosse l’erede del debitore oppure per mezzo di una
formula con trasposizione dei soggetti, che prendeva il nome di actio Rutiliana: nell’intentio della
formula figurava il nome della persona legittima all’azione, e la condemnatio era volta in favore del
bonorum emptor.

Procedure esecutive in assenza di giudicato.

L’actio iudicati presupponeva un precedente iudicatum. Ma si poteva dar luogo alle procedure
esecutive -personale patrimoniale- anche a prescindere da una precedente sentenza di condanna; e
quindi anche a prescindere del preventivo esercizio dell’actio iudicati. Un caso era quello del
convenuto che ricusasse di se defendere nelle azioni in personam. Altre ipotesi - per le quali veniva in
considerazione solo l’esecuzione patrimoniale- erano: quella della vocatus in ius che non seguisse
l’attore nel luogo del giudizio; quella degli assenti; quella dei debitori morti senza eredi. Eventuali
accertamenti, sarebbero stati compiuti eventualmente nei confronti del bonorum emptor.

Cessio bonorum e distractio bonorum

L’esecuzione personale e quella patrimoniale del bonorum venditio, pure se meno dure della legis actio
per manus iniectionem, erano comunque procedure molto severe. Non mancarono temperamenti e
deroghe. In virtù d’una lex Iulia, al debitore insolvente la cui insolvenza a lui imputabile
giuridicamente non fosse a lui ugualmente imputabile sotto l’aspetto morale; in altre parole, al debitore
insolvente perchè sfortunato e come tale meritevole di considerazione, si consentì la cessio bonorum, la
cessio volontaria cioè di tutto il patrimonio ai creditori: avrebbero dato luogo così, a danno del
debitore, procedura concorsuale , vendita all’asta e acquisto dei beni da parte di un bonorum emptor ma
non proscriptio e infamia e neppure l’esecuzione personale.
Il privilegio si realizza in questo modo: il pretore nominava un curator bonorum il quale provvedeva a
vedere singoli cespiti patrimoniali ereditari tanto quanto bastava per soddisfare col ricavato i creditori.
Sì parlò al riguardo di distractio bonorum ex edicto.

Rimedi pretori

Nell’ambito del processo formulare, il pretore apprestava i rimedi suoi propri in tre direzioni. Tra i
rimedi pretori rientravano la denegatio actionis, l’exceptio, le actionies utiles, le azioni con
trasposizione di soggetti e le actiones in factum. Di istituzione pretoria era pure l’esecuzione
patrimoniale. Bisogna dire adesso di altri rimedi pretori che davano luogo a procedimenti speciali.

Gli interdicta: Interdicere voleva dire proibire, e interdicta si dissero ordini magistratuali, soprattutto
pretori, che vietavano determinati comportamenti. L’impiego di interdicta nelle liti tra privati risale al
tempo in cui il processo ordinario era quello della legis actiones.
Agli inizi doveva trattarsi di divieti perentori del magistrato; in seguito, con la diffusione ed
affermazione del processo formulare, gli interdicta divennero ordini condizionati che, oltre a proibire
potevano ordinare di fare: donde la classificazione in interdicta proibitoria (che vietavano), interdicta
restitutoria (che ordinavano di restituire), interdicta exhibitoria (che ordinavano di esibire).
Gli interdicta erano emessi su domanda di un privato e contro altro privato, presenti ambedue le parti. Il
pretore procedeva a un esame sommario delle ragioni degli interessati ma l’ordine che egli emanava -
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l’interdictum- era alquanto articolato perchè faceva riferimento ai presupposti che ne giustificavano
l’emanazione: si trattava di un ordine condizionato. La conseguenza era che, se l’intimato avesse
riconosciuto l’esistenza di quei presupposti, avrebbe obbedito all’ordine del magistrato. Il
procedimento si sarebbe così concluso rapidamente. Ma l’intimato poteva non ammettere l’esistenza
dei presupposti previsti nel testo dell’interdetto. Si dava luogo allora a un procedimento volto ad
accertare se le condizioni cui l’ordine era subordinato effettivamente sussistessero. La relativa
procedura era assai complessa pure se i tempi di essa erano praticamente gli stessi di ogni
procedimento ordinario. Se l’esito erano contrario all’intimato, contro di lui si davano all’attore gli
strumenti processuali idonei alla realizzazione dell’interdictum. Es. Interdictume de vi (a difesa del
possesso).
Se l’intimato riconosceva di avere espulso Tizio con violenza dal fondo Corneliano nel corso
dell’ultimo anno, e che questo fondo era stato posseduto da Tizio in modo non viziato nei suoi
confronti, glielo avrebbe restituito. Non glielo avrebbe restituito nel caso contrario. Ed ecco allora che
si faceva ricorso alla procedura cui s’è fatto riferimento per accertare come fossero andate realmente le
cose: in tal modo si stabiliva se l’ordine magistratuale di restituire era stato effettivamente disatteso
oppure no. (vedi note pg. 106)

La in integrum restitutio

Può essere classificata tra i rimedi pretori corrigendi iuris civili gratia. Comportava il sostanziale
ripristino della situazione giuridica qual era prima dell’evento o dell’atto i cui effetti giuridici il pretore,
per motivi di equità, voleva rimuovere. Il relativo procedimento si svolgeva in contradditorio tra le
parti e in esso era lo stesso pretore che accertava se sussistessero o non le ragioni per la concessione
della restitutio. Il pretore non avrebbe potuto rendere nulli effetti giuridici che si erano prodotti iure
civili. Il pretore provvedeva pertanto concedendo agli interessati mezzi giudiziari tali da neutralizzare
quegli effetti ma senza formalmente annullarli. Può giovare, l’esempio della in integrum restitutio in
favore di un minore di 25 anni che, con mancipatio, avesse trasferito il dominium ex iure Quiritium di
cosa propria, Ebbene, il pretore non avrebbe avuto il potere di fare riacquistare al minore la proprietà
quiritaria annullando gli effetti della mancipatio ma, se risultava che questa era stata pregiudizievole
per il minore, il pretore concedeva allo stesso allo stesso minore la in integrum restitutio. Lo strumento
per realizzarla quando insieme alla mancipatio si era avuta, come di norma, la consegna della cosa
sarebbe stato una rei vindicatio utilis ficticia, per cui il giudice era invitato a giudicare come se la
mancipatio non avesse avuto luogo; con la conseguenza che il minore avrebbe conseguito il possesso e
quale possessore avrebbe potuto poi, col decorso del tempo, riacquistare il dominium per usocapione
secondo le regole proprie del ius civile.
La in integrum restituzio si realizzava solitamente in forza dell’atto stesso del pretore che concedeva
l’actio ficticia. Ma qualche volta il pretore emanava prima un decretum detto iudicium rescindes, per il
quale siamo in grado di dire solo questo, che vi si affermava l’esigenza che fosse reintegrata la
precedente situazione giuridica. Talché il pretore, se l’avversario non si adeguava spontaneamente,
concedeva al postulante l’actio ficticia. Un caso interessante in cui, ai fini della in integrum restitutio
non potevano non aver luogo, prima iudicum rescindes e poi iudicium rescissorium. I casi in integrum
restitutio erano indicati nell’editto.

Le cautiones, o stipulationes praetoriae

Vi si ricorreva in casi determinati per i quali mancava un obbligo giuridicamente sanzionato al


compimento di una certa prestazione e il pretore riteneva invece equo che quell’obbligo vi fosse; o
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anche, quell’obbligo esisteva e il pretore riteneva opportuno tutelarlo in maniera più congrua. Ecco
allora che, su istanza dell’interessato, compiuti, i necessari accertamenti, il pretore imponeva alla parte
contro cui era stata avanzata l’istanza di obbligarsi con stipulatio, con cui promettere all’avversario la
prestazione del caso. Nasceva una obligatio iuris civilis, sanzionata da un’azione civile. L’obbligo di
per sè mancante o garantito in modo non congruo sarebbe così scaturito da un contratto riconosciuto
iure civili. Se si parla al riguardo anche di stipulationes praetoriae è perchè il pretore esercitava
coazione affinchè la parte convenuta prestasse la stipulatio. Si trattava di coazione indiretta: per lo più
o dengatio actionis o missio in possesionem.
Con la stipulatio potevano essere promesse prestazioni tra le più diverse. Ma i contenuti delle cautiones
erano generalmente quelli corrispondenti ai modelli previsti nell’editto pretorio.

Le missiones in possessionem

Erano disposte dal pretore con decretum, su postulatio dell’interessato e previa cognitio pretoria per
l’accertamento dei presupposti, se del caso in contraddittorio con l’avversario. In forza della missio
l’istante era autorizzato a immettersi in possessionem ora di un singolo bene ora di un complesso
patrimoniale. Esempio del primo tipo: la missio in possessionem per il danno temuto; esempio del
secondo tipo; la missio in possessionem rei servandae causa.
Solitamente la missus non acquistava il possesso ma la semplice detenzione.
Missiones in possessionem si davano nelle sole ipotesi previste nell’editto. La funzione era diversa a
seconda del tipo: ora di custodia e conservazione, ora di pressione al compimento di un atto giuridico o
all’assunzione di un comportamento; talvolta si realizzava al contempo l’una funzione e l’altra.

Scomparsa del processo formulare

Fu in età classica avanzata che in alcune province e comunità italiche il processo formulare cominciò
ad essere adottato con modalità diverse da quelle che più lo caratterizzavano quale processo privato.
Per la chiamata in giudizio del convenuto si fece ricorso a forme ufficiali che richiedevano l’intervento
di un organo pubblico. La nomina del giudice divenne prerogativa del solo magistrato.
Il processo formulare ‘puro’ resistette più a lungo nella città di Roma ma qui, subì il concorso di
cognites extra ordinem. Fu abolito nel 342 dai figli di Costantino che proibirono espressamente e
categoricamente persino l’impiego delle formule, ritenute strumento eccessivamente formalistico.

FATTI E NEGOZI GIURIDICI

Fatto giuridico: Qualsiasi evento volontario e non produttivo di effetti giuridici che riassume in sè
fenomeni diversissimi: dal contratto al testamento, dalla nascita e morte al decorso del tempo e all’atto
illecito. La dottrina ha distinto i fatti volontari da quelli involontari. Per fatti giuridici involontari si
intendono fatti naturali, eventi che si verificano indipendentemente dalla volontà dell’uomo o vengono
in considerazione a prescindere dalla circostanza se siano stati determinati o non da azioni umane
volontarie. Per fatti giuridici volontari (atti giuridici leciti e illeciti) si intendono azioni umane
volontarie, giuridicamente rilevanti in quanto tali.

I fatti giuridici volontari si dicono più comunemente atti giuridici, essi a loro volta si distinguono in atti
leciti e illeciti.

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Atti giuridici leciti: è la categoria più importante, è quella dei negozi giuridici e per quest’ultimo
intendiamo la manifestazione di volontà da parte di privati dirette al conseguimento di risultati pratici
giuridicamente definibili in termini di acquisto, perdita o modificazione di situazioni giuridiche
soggettive. Sono categorie giuridiche estranee alle fonti romane, espresse ed elaborate dalla dottrina
giuridica moderna.

Un fatto giuridico involontario: il decorso del tempo. Computo

Il decorso del tempo, fatto giuridico involontario, poteva dare luogo ad acquisto di capacità e ad
acquisto e perdita di diritti soggettivi; il non usus prolungato per due anni determinava l’estinzione
delle servitù prediali. Talune azioni erano annuali, e quindi prescrittibili; le parti potevano subordinare
gli effetti di negozi giuridici al decorso di un termine.
E’ uso parlare di computo naturale e computo civile del tempo: secondo il primo criterio il tempo si
calcolava da un momento determinato del giorno iniziale allo stesso momento del giorno finale;
secondo l’altro criterio, del computo civile, ogni giorno viene comunque computato per intero. La
regola del diritto romano era quella del computo civile. Inoltre, si calcolava anche il giorno iniziale.
Quanto all’ultimo giorno si applicavano regole diverse: a volte, bastava che il giorno ultimo fosse
iniziato; altre volte si richiedeva che il giorno ultimo trascorresse interamente.
Normalmente valeva il principio del tempo ‘continuo’, per cui esso era computato secondo le regole del
calendario, senza omissione di alcun giorno. Eccezionalmente valeva il principio del tempo ‘utile’, per
cui si calcolavano soltanto i giorni nei quali il diritto o comunque la pretesa potevano essere fatti
valere.

Atti illeciti. Rinvio

Gli atti illeciti sono fatti giuridici vietati dall’ordinamento giuridico. L’effetto giuridico collegato al
compimento d’un atto illecito è l’applicazione d’una sanzione a carico dell’autore. L’atto in sè è voluto
mentre le conseguenze giuridiche no.

Negozi giuridici. Tipicità ed elementi

Anche i negozi giuridici, secondo la definizione adottata - manifestazione di volontà da parte di privati
diretta al conseguimento definibili in termini di acquisto, perdita o modificazione di situazioni
giuridiche soggettive -, sono fatti giuridici volontari. Ma sono atti leciti e gli effetti che vi sono
collegati sono gli stessi voluti dall’autore, o dagli autori dell’atto.

Tipicità

Sono molti nelle stesse fonti gli atti, i comportamenti volontari individuati che rientrano nello schema
di negozio giuridico proposto. Il criterio che è dato riscontrare è quello della tipicità: effetti giuridici si
riconobbero, per il diritto romano, solo a determinati ‘negozi giuridici’, a determinati tipi negoziali,
singolarmente individuati e in numero definito, ognuno con struttura e regimi propri.

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Elementi

Elementi essenziali: senza essi il negozio è nullo. Sono detti essenziali gli elementi strutturali
fondamentali nel negozio giuridico, in difetto dei quali esso non viene ad esistenza nel mondo giuridico
o in difetto dei quali il negozio è nullo.
In tutti i negozi è essenziale la manifestazione della volontà. Certi elementi del negozio giuridico sono
essenziali solo in alcune categorie di negozi: così, nei negozi formali è essenziale l’adozione di una
forma determinata ; nei negozi causali è essenziale l’esistenza della causa. Vi sono poi elementi
essenziali specifici soltanto di singoli tipi negoziali ad esempio, il prezzo nella compravendita.

Elementi naturali: quegli elementi conseguenti automaticamente al negozio-tipo pur nel silenzio delle
parti; le quali però possono, con patto contrario, espressamente escluderli

Elementi accidentali: clausole che non sono proprie dei singoli tipi negoziali ma che le parti possono,
se vogliono, espressamente inserire.

Negozi giuridici: soggetti e classificazioni

I soggetti: Ogni negozio giuridico doveva essere compiuto tra soggetti che avessero capacità di agire e
che fossero al contempo legittimati a compierlo. La capacità di agire corrisponde in buona sostanza alla
capacità intellettuale. Per legittimazione negoziale si intende l’idoneità a porre in essere un negozio in
relazione agli effetti che esso in concreto è destinato a produrre: a compiere un negozio di trasferimento
di proprietà, ad esempio, è legittimato il proprietario della cosa che si vuole alienare; ma vi è pure
legittimato il soggetto che ne ha la rappresentanza diretta.

Classificazioni: Diciamo formali i negozi nei quali la causa ne determinava la struttura, ne era quindi
elemento costitutivo ed essenziale; astratti, i negozi nei quali la causa non emergeva dalla struttura del
negozio, sicchè gli effetti negoziali si producevano indipendentemente da essa.
Diciamo unilaterali i negozi nei quali a manifestare la volontà era una sola parte: bilaterali, i negozi nei
quali convergevano manifestazioni di volontà di due parti; plurilaterali, i negozi dove convergevano
manifestazioni di volontà di tre o più parti. Ogni parte rappresenta un centro di interessi. La parte
coincideva con la persona singola ma era pure possibile che una parte fosse formata da più persone:
questo accadeva quando più persone, in un negozio, erano portatrici di interessi identici.
Si distingue tra negozi giuridici a titolo oneroso e negozi giuridici a titolo gratuito: nei primi, sempre
almeno bilaterali, ciascuna parte consegue un vantaggio dietro corrispettivo. Nei negozi a titolo gratuito
rientrano gli atti di liberalità: sono negozi giuridici che danno luogo ad un’attribuzione definitiva in
favore di chi ne trae vantaggio (es. atti con cui si realizza una donazione).
Un’altra classificazione tra negozi giuridici è quella tra negozi inter vivos e negozi mortis causa,
destinati a produrre effetti dopo la morte del loro autore (es. disposizioni testamentarie).
In relazione agli effetti si è soliti a discorrere di negozi con effetti reali e negozi con effetti obbligatori.
I primi idonei al trasferimento della proprietà o alla costituzione o estinzione di diritti reali limitati; gli
altri, alla nascita o estinzione di obbligazioni. In diritto romano i negozi con effetti reali erano
fondamentalmente diversi da quelli che davano luogo ad obbligazioni. Negozi con effetti reali erano
soprattutto mancipatio, in iure cessio e traditio, idonei al trasferimento della proprietà, alla costituzione
ed estinzione di servitù ad usufrutto ma fondamentalmente idonei a far nascere o estinguere
obbligazioni. Viceversa, i contratti erano negozi obbligatori e solo obbligazioni.

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In parte coincidente con quella dei negozi con effetti reali è la categoria dei negozi dispositivi, o atti di
disposizione: si tratta di atti in forza dei quali taluno aliena, estingue o comprime un proprio diritto.
Sono certamente dispositivi tutti i negozi con effetti reali, pure la rinunzia a un credito. Taluni negozi
giuridici, sono qualificati dalla moderna dottrina negozi fiduciari.

Le forme delle manifestazioni di volontà. I negozi formali


Ogni negozio giuridico comporta manifestazione della volontà. L’ordinamento giuridico riconosce
effetti giuridici alla volontà comunque manifestata; altre volte esige l’impiego di forme determinate. Si
parla nel primo caso di negozi non formali, nel secondo di negozi formali. Come per gli atti giudiziari,
anche per i negozi le formalità prescritte erano fondamentalmente orali, richiedendosi l’uso di parole
stabilite; talvolta anche il compimento di gesti predeterminati e la partecipazione di persone estranee
agli effetti dell’atto. La forma era rigorosamente imposta, lo schema dell’atto rigidamente
predeterminato: le parti avrebbero dovuto solo includere i dati del negozi concreto (nomi di persone,
denominazione di cose).
Le forme negoziali del ius civile di età arcaica non erano un involucro esterno che si aggiungeva o si
accompagnava all’atto ma esprimevano di per sé in modi stilizzati i contenuti dei negozi che con esse si
realizzavano . La mancata puntuale adozione delle forme prescritte era in ogni caso motivo di nullità.
Dalla maggior parte dei negozi formali e solenni del iusi civile antiquum (testamenti comiziali,
adrogatio, ecc.).

La mancipatio

Era un negozio del ius Quiritium e quindi del ius civile. Serviva a trasferire la proprietà di alcuni beni
detti res mancipi. La mancipatio comportava l'acquisto di un potere su persone o cose in favore del
mancipio accipiens e la perdita del potere sulle stesse del mancipi dans. Le parti della mancipatio erano
infatti il mancipio dans (il venditore) e il mancipio accipens (compratore). Questo negozio era
impiegato per l'acquisto della proprietà della res mancipi, ovvero fondi in suolo italico (beni situati in
territorio romano), schiavi, animali da tiro e da soma.

Era uno degli atti che si compivano con il rame o con il bronzo e con la bilancia.

Erano caratterizzati:

• pronuncia di parole determinate (certa verba) che avrebbe permesso ad una parte di conseguire un
vantaggio

• dall'impiego della libra (la bilancia) e del metallo che veniva pesato

• dalla presenza come testimoni di almeno 5 cittadini romani puberi

• dalla presenza di un altro cittadino (libripens) che reggeva la bilancia e provvedeva alla pesatura del
metallo

La mancipatio trasferiva:• in caso di beni mobili, sia la proprietà sia il possesso• in caso di beni
immobili, trasferiva la proprietà, ma non il possesso, che veniva trasferito quando il mancipio dans
avesse fatto ulteriore consegna. Una volta che venne introdotta a Roma la moneta coniata, la pesatura

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del metallo diventò un passaggio simbolico in cui il mancipio accipiens percuoteva la bilancia con un
raudusculum (pezzetto di metallo grezzo) che verrà poi sostituito da una moneta. Con l’avvento della
moneta, il denaro non veniva più pesato ma semplicemente contato. A questo punto la mancipatio
poteva essere eliminata oppure modificata. I romani decisero di mantenere la mancipatio
modificandola, così smise di essere un rapporto di compravendita. Il pagamento infatti viene fatto a
parte e diventa un negozio astratto: la pesatura del bronzo diventa puro atto simbolico, non più il
pagamento di un corrispettivo. A questo punto poteva essere compiuto anche per cause diverse dalla
vendita.

La in iure cessioEra un negozio formale e solenne fruibile dai soli cittadini romani. Poteva essere
impiegato per il trasferimento della proprietà su res mancipi e nec mancipi, per la costituzione e la
rinuncia di servitù prediali e usufrutto, per l'acquisto della patria potestas nel processo di adoptio, per
la cessione della tutela mulieris e a determinate condizioni anche per la cessione di eredità.

La stipulatioEra un negozio formale e bilaterale con effetti obbligatori. La forma era agile e si tratta di
un negozio astratto che permetteva quindi di usarlo per le cause più diverse. Le parti erano lo stipulator
(stipulante) e promisor (promittente). Il negozio aveva luogo con un'interrogazione con cui lo
stipulante chiedeva al promittente se intendeva assumere l'impegno a tenere un determinato
comportamento. Il promittente si limitava a promettere ("prometti che mi darai 100?" "prometto").
Nasceva a carico dl promittente e in favore dello stipulante un'obbligazione sanzionata iure civile ed
avente ad oggetto la prestazione promessa. Il prototipo fu la sponsio.

I VIZI DELLA VOLONTÀ Le dichiarazioni ioci causa e similiLe dichiarazioni ioci causa sono
delle dichiarazioni fatte per scherzo o nel contesto di una rappresentazione teatrale. Altre dichiarazioni
simili sono quelle demonstrandi causa, fatte a scopo di ammaestramento. Non possono essere prese sul
serio, neppure se compiute rispettando le modalità dei negozi formali.

La riserva mentale È il caso di chi consapevolmente e senza averlo concordato con altri, dichiari ciò
che non vuole. Il negozio resta valido ed efficace.

La simulazione Presuppone un negozio almeno bilaterale. In questo caso la consapevolezza di non


volere ciò che si dichiara di volere è comune ad entrambe le parti e l'intento di non volere il negozio
dichiarato è tra esse concordato. Si ha quindi un negozio simulato.Si distingue tra:

• simulazione assoluta: le parti manifestano di volere un negozio mentre in realtà ne vogliono un altro
negozio simulato

• simulazione relativa: le parti vogliono un negozio diverso da quello palesemente dichiarato 􏰀 negozio
dissimulato

Se ad essere simulato fosse stato un negozio per i quali la volontà non poteva mancare, la conseguenza
sarebbe stata la nullità. I negozi solenni invece rimanevano validi ed efficaci anche se simulati (per loro
il compimento delle formalità è sufficiente).L'interessato avrebbe potuto opporre l'exceptio pacti

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conventi all'azione dell'altra parte che avesse preteso l'adempimento del negozio simulato, finché
questo sarebbe stato invalidato iure praetorio in forza di exceptio.

Il negozio dissimulato invece era valido in via di principio, occorreva ovviamente che ne ricorressero i
requisiti di forma e di sostanza.

L'errore negoziale

Ad oggi esiste una differenza tra errore ostativo ed errore-vizio. L'errore ostativo nei negozi bilaterali
può nascere perché una parte attribuisce alla manifestazione di volontà dell’altra parte un valore
diverso da quello obiettivo. L'errore vizio di per sé non esclude la volontà, ma incide sul suo processo
formativo, ognuno convinto di circostanze non vere e in dipendenza di ciò, compie il negozio, la
volontà c’è ma è viziata.

I romani non hanno questa differenza.

L'errore è la falsa rappresentazione della realtà per entrambe le parti.

Quando l'errore riguardava un negozio solenne, questo era irrilevante ed il negozio comunque valido.
Al contrario quando riguardava una parte variabile dei negozi solenni oppure altri negozi, l'errore
poteva dar luogo all'invalidità del negozio.

L'errore di diritto dipende da ignoranza o fraintendimento di norme ed istituti giuridici, è solitamente


irrilevante e il negozio valido, perché su tutti i consociati incombe l’onere di conoscere l’ordinamento
giuridico in cui vivono (fatta eccezione per le persone gravemente ignoranti, le donne, i minori di 25
anni e i militari).

L’errore di fatto invece è solitamente ritenuto rilevante e il negozio nullo, a patto che sia un errore
scusabile (non grossolano) ed essenziale (investe il negozio nei suoi aspetti fondamentali).

Esistono varie tipologie di errore:

• l'error in negotio: è quello che cade sull'identità del negozio da compiere. Fu ritenuto essenziale e
rilevante.

• l'error in persona: riguarda l'identità del destinatario o dell'altra parte nel negozio. Era sempre
rilevante nelle disposizioni mortis causa, nei negozi inter vivos invece erano rilevanti solo se
questi erano tali per cui l'elemento della fiducia era determinante. L'error in persona poteva
riguardare anche la qualità della persona.

• 'error in corpore: riguarda l'identità fisica dell'oggetto del negozio ed era sempre rilevante.

• l'error in nomine: si ha quando una persona o un oggetto perfettamente identificabili sono indicati
con un nome diverso da quello proprio, oppure quando una persona o un oggetto sono descritti
in modo sbagliato. L'errore è irrilevante e si tratta di falsa demonstratio.

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• l'error in substantia (o in materia): si riferisce alla composizione materiale dell'oggetto del negozio
(scambiare rame per oro). Era rilevante solo in riferimento ai negozi che davano luogo a iudicia
bonae fidei.

• l'error in qualitate: concerne solamente la qualità dell'oggetto. Era sempre irrilevante.

• l'error in quantitate: riguardava la quantità. La sua rilevanza era valutata caso per caso.L'errore
poteva anche ricadere sui motivi ovvero sulle circostanze di fatto credute esistenti e per cui
taluno è indotto a compiere un negozio. Si trattava di un errore-vizio irrilevante per il negozio.

Il dolo È una macchinazione volta a trarre in inganno altra persona in modo che questa compia un
negozio per lei pregiudizievole che diversamente non avrebbe voluto e quindi non avrebbe compiuto,
oppure avrebbe compiuto a condizioni diverse. Il dolo è sempre volontario, infatti fu sempre rilevante
per il negozio.

Il dolo negoziale è il dolus malus, al contrario esiste anche il dolus bonus con cui si intendono le usuali
furberie tollerate dal costume (è irrilevante).

Il dolo può essere poi attivo o passivo. È attivo quando si finge che il bene oggetto del negozio abbia
delle proprietà che in realtà non possiede e che sono il motivo del negozio. Il dolo è passivo quando si
tace un elemento essenziale del contratto che avrebbe alterato il negozio.

Il dolo negoziale era inizialmente irrilevante, infatti un negozio giuridico viziato a dolo rimaneva
comunque valido ed efficace. Il principio subì deroga riguardo i negozi che davano luogo a giudizi di
buonafede. Se l'impegno assunto dal convenuto è conseguenza del dolo dell'attore, il giudice dovrà
concludere che il convenuto non è tenuto a nulla e quindi ad assolverlo. Nel caso in cui la vittima abbia
adempiuto all'attore prima di essere chiamata in giudizio, allora questa potrà agire contro l'altra parte e
chiedere il ristoro del pregiudizio subito.

Il dolo dava quindi luogo ad invalidità solo in caso di rapporti tutelati da iudicia bonae fidei, in forza
della pronunzia del giudice.

􏰀 L'exceptio doli: era uno strumento necessario per invalidare i negozi dai quali nascevano azioni che
non erano di buona fede. La vittima poteva essere chiamata in giudizio per l'adempimento, e questa
azione era iure civili fondata, ma in virtù dell'exceptio doli, il convenuto sarebbe stato assolto.
L'ingannato non ha quindi ancora dato esecuzione al negozio.

L'exceptio doli poteva essere speciale (preterito) o generale (presente). L'exceptio doli speciale
riguardava il dolo avvenuto nelle fasi preliminari del negozio. Al contrario l'exceptio doli generalis
faceva riferimento al dolo che l'attore commetteva nel momento stesso in cui agiva e per il fatto stesso
che agiva. Non consisteva in un vero e proprio inganno, bensì in un comportamento iniquo.

􏰀 L'actio de dolo: era uno strumento utilizzabile dalla vittima che, inconsapevole dell'inganno, avesse
dato esecuzione al negozio. Era un'azione penale al simplum, ovvero l'importo della pena

corrispondeva al danno subito dall'attore. Comportava inoltre l'infamia a carico di chi fosse stato in
essa condannato. Era un'azione arbitraria e sussidiaria, cioè il pretore la concedeva solo in difetto di
altro mezzo giudiziario in favore dell'ingannato.Il negozio già eseguito non veniva invalidato ma

[Data]
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l'ingannato poteva ottenere la condanna dell'autore del dolo a una pena corrispondente alla stima del
pregiudizio subito.

La violenza - metusIl metus è il timore generato dall'altrui violenza (vis), che non è la violenza fisica.
La violenza è la minaccia di provocare un male se il minacciato non compie un certo negozio. È una
violenza morale. È un vizio della volontà perché la volontà si è formata per effetto del timore generato
dalla minaccia.

La minaccia genera timore e la vittima è indotta a compiere un negozio per lui pregiudizievole quale
l'autore della vis pretende, negozio che altrimenti non avrebbe voluto oppure avrebbe voluto a
condizioni diverse. Deve trattarsi di una minaccia grave che crei un pregiudizio maggiore di quello
rappresentato alla conclusione del negozio. Il male minacciato deve essere ingiusto e la minaccia deve
essere seria.

Il negozio estorto con la minaccia era iure civili valido ed efficace. Il convenuto con un'azione ex fide
bona avrebbe potuto opporre, senza bisogno di exceptio, che l'impiego per cui l'altra parte pretendeva
l'adempimento gli era stato estorto con la minaccia, oppure una volta adempiuto, la vittima del metus
avrebbe potuto con la stessa azione ex fide bona propria del rapporto tra le parti ottenere la restituzione.

Nel corso del I secolo a.C. viene istituita la exceptio metus, in virtù della quale chi avesse compiuto un
negozio per metus, una volta convenuto per l'adempimento avrebbe ottenuto l'assoluzione. Era espressa
impersonalmente, senza riferimento all'autore del metus. Poteva essere opposta anche a persona diversa
dall'autore della violenza, purché l'attore fondasse la sua pretesa su un negozio al convenuto comunque
estorto con le minacce. Venne poi qualificata exceptio in rem scripta.

Poteva accadere che la vittima di metus diede esecuzione al negozio prima di essere chiamato in
giudizio, in questo caso erano disponibili altre azioni.

• L'actio quod metus causa era un'azione penale. La pena, entro l'anno, era pari al quadruplo del
valore del pregiudizio arrecato, mentre la pena superiore all'anno era al simplum. Si trattava di
un'azione arbitraria. Poteva essere esperita contro l'autore dl metus, ma poteva essere esercitata
pure contro terzi che avessero acquistato alcunché o si fossero avvantaggiati in dipendenza del
metus. Era detta per tanto in rem scripta. Poteva eventualmente essere esercitata come noxalis
(non poteva essere esercitata contro gli eredi dell'autore del metus).

• Altra azione è la in integrum resitutio propter metum, per cui gli effetti del negozio compiuto sotto
minaccia venivano praticamente ignorati.

LA CAUSA NEI NEGOZI GIURIDICI È la ragion d’essere oggettiva del negozio e quindi la
funzione che si intende realizzare attraverso gli effetti che il negozio andrà a produrre. In poche parole
è l'elemento oggettivo a base del negozio. Nei negozi bilaterali è comune alle parti.Nei negozi causali,
la causa determina la struttura del negozio, in caso di difetto di causa il negozio non viene
giuridicamente ad esistenza (nullo).Nei negozi astratti, la causa non emerge dalla struttura del negozio
perché è ad esso esterna, la struttura del negozio esprime solo gli effetti giuridici. In linea di massima
restano iure civili validi ed efficaci pure se la causa manca o è illecita.

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La condictio È la versione formulare della legis actio per condictionem, serve per perseguire crediti per
cui l’attore pretendeva sussistere, a proprio favore e a carico dell’altra parte, un obbligo di dare
espresso con oportere. Può avere per oggetto una certa pecunia (actio certae creditae pecuniae) o una
certa res (condictio certae rei). È un'azione civile, in personam e di stretto diritto. La formula è senza
demonstratio, mentre la condictio presuppone una datio, intesa come trasferimento di proprietà􏰀
presuppone che l’attore avesse in precedenza trasferito al convenuto la proprietà di una res. Deve
sussistere una ragione valida per cui il convenuto non debba trattenere la cosa􏰀 obbligo del convenuto
soccombente di trasferire all’attore la proprietà della stessa cosa ricevuta (se si tratta di cosa individuata
nella specie) o dell’equivalente (se si tratta di denaro o cose fungibili). Nell'età classica ebbe carattere
eccezionale la condictio ex causa furtiva, non presuppone una tecnica datio, infatti il convenuto
soccombente non sarebbe stato tenuto a una datio in senso tecnico. Della condictio si davano
applicazioni contrattuali, che presuppongono una datio compiuta con l’intesa che quanto si trasferiva
sarebbe stato poi restituito (es. mutuo). Le applicazioni extracontrattuali, al contrario riguardando
dationes compiute per una causa inesistente o venuta a mancare. La condictio veniva anche impiegata
come rimedio contro il difetto di causa nei negozi astratti di trasferimento (es. taluno trasferisce la
proprietà di qualcosa nell’erronea convinzione di esservi obbligato, il falso creditore è perseguibile con
la condictio indebiti e tenuto a restituire la stessa cosa o l’equivalente).

GLI ELEMENTI ACCIDENTALI DEI NEGOZI GIURIDICI Sono delle clausole che le parti
possono aggiungere al negozio per modificare o integrare gli effetti tipici, la loro mancanza non rende
nullo il negozio.Le più comuni sono la condizione, il termine e il metus (o onere). La condizione Per
condizione si intende la clausola che contempla un evento futuro e oggettivamente incerto dal quale si
fanno dipendere gli effetti del negozio. Gli effetti del negozio sono spostati nel tempo. Si distinguono
in condizioni sospensive e risolutive:• sospensive: gli effetti del negozio sono sospesi fino a che non si
verificherà l'evento• risolutive: il negozio produce effetti che cesseranno però quando si verificherà
l’evento.

Alcuni negozi, gli actus legitimi, non tollerano l'aggiunta di condizioni, che comporterebbero
l'invalidità del negozio. Questi sono i negozi che si compiono attraverso certa verba. Le parti possono
comunque stipulare alcuni patti attinenti agli effetti lasciandone intatto il formulario.

• Condicio iuris: è una condizione tipica di alcuni atti (ad es. dotis dictio), anche se non si tratta di
una condizione in senso proprio e non era pertanto soggetta al relativo regime giuridico.

•  Condizioni in preasens vel in praeteritum conlatae: non sono condizioni in senso proprio che
facevano dipendere gli effetti del negozio da eventi attuali o passati (non quindi futuri) e nemmeno
oggettivamente incerti. Il negozio sarebbe stato efficace subito se l'evento dedotto risultava
verificato, altrimenti non avrebbe mai prodotto effetti.

•  Condizioni impossibili: l'evento poteva essere materialmente o giuridicamente impossibile. Questa


condizione in un negozio inter vivos produce invalidità, mentre in un negozio mortis causa questa
lascia il negozio valido ed efficace come se non fosse stata apposta.

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• Condizioni illecite: seguono un regime simile alle condizioni impossibili. Nei negozi che
producono iudicia bona fidei questa porta alla nullità. In caso di stipulatio inizialmente una
condizione illecita produceva un'invalidità iure praetorio (il pretore, e avverata la condizione,
denega l'actio ex stipulatio oppure concede l'exceptio doli) e in seguito iure civili. Nei negozi mortis
causa non si tiene conto della condizione illecita.

• Condizioni positive o negative: sono positive le condizioni che subordinano gli effetti del negozio
al verificarsi dell'evento, al contrario sono negative le condizioni che subordinano gli effetti del
negozio al non verificarsi dell'evento.

• Condizioni potestative, casuali o miste: sono potestative le condizioni in cui l'evento dipende da
un'atto volontario della persona interessata. Il negozio con una condizione potestativa il cui
verificarsi fosse rimesso alla mera volontà della persona che avesse interesse contrario, viene
considerato nullo. Una condizione è casuale se il verificarsi dell'evento dipende dal caso o dalla
volontà di terzi. Sono miste invece le condizioni in cui l'evento dipende sia dalla volontà della
persona interessata sia dal caso.

• Condicio pendet: a condizionel "pende", ovvero non si è verificata e non si sa se si verificherà. Il


negozio non produce effetti, tuttavia esiste ed è valido. - Condicio deficit: la condizione viene a
mancare, il negozio è nullo perché si rivela senza effetti.

• Condicio extitit: la condizione si verifica ed il negozio incomincia a produrre effetti ex nunc


(decorrono dall'avveramento della condizione). Poi si affermerà la retroattività degli effetti (ex tunc).

Le condizioni risolutive comportavano la nullità dell'intero actus legitimi, ovvero il trasferimento della
proprietà, l'istituzione d'erede e la liberazione dei servi. Se si trattava di un negozio diverso (ad esempio
la sipulatio) la condizione si considerava come non apposta. Venne riconosciuta la validità e l'efficacia
nella costituzione dell'usufrutto e in qualche altro caso. A lato del negozio giuridico inter vivos che si
andava a compiere, di qualunque natura esso fosse, si potevano concludere patti sospensivamente
condizionati: patti che prevedessero la risoluzione degli effetti del negozio al verificarsi di una
condizione sospensiva, così che risultasse nella sostanza un negozio con condizione risolutiva. Tali
patti avrebbero avuto l'efficacia dei pacta:• ope exceptionis: se riferiti a negozi tutelati da azioni di
stretto diritto • ipso iure: se riferiti a negozi tutelati da iudicia bona fidei

Il termine (dies)È una clausola che prevede un avvenimento futuro e certo dal quale si fanno dipendere
gli effetti del negozio. L'avvenimento poteva essere un evento di cui si è certi non solo che avvenga,
ma anche quando (data sul calendario), oppure un evento di cui si è solo certi che avvenga, ma non si
sa quando (la morte di Tizio). Può essere:• iniziale (dies a quo): il negozio non produceva effetti, li
avrebbe prodotti alla scadenza, una volta verificato l'evento• finale (dies ad quem): il negozio
produceva immediatamente i suoi effetti che sarebbero cessati alla scadenza.L'aggiunta di termini agli

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actus legitimi dava luogo a nullità dell'atto. In altri negozi (nell'istituzione di erede, nella traditio e
nella stipulatio) il termine iniziale era ammesso, quello finale si considera come non apposto.

Prima della scadenza i negozi con termine iniziale non producevano gli effetti tipici. Il debitore il quale
avesse adempiuto prima della scadenza non avrebbe potuto pretendere la restituzione di quanto
prestato.

Alla scadenza del termine, se si tratta di termine iniziale, il negozio comincia a produrre effetti, mentre
se si tratta di termine finale, il negozio cessa di produrre i suoi effetti 􏰀 in entrambi i casi avveniva
ipso iure (automaticamente) e con decorrenza dal momento della scadenza.

ll modusConsiste nell'imposizione al destinatario di un atto di liberalità di adottare un comportamento


determinato. Non è una clausola accidentale, infatti non incide sulla produzione degli effetti. Viene
apposto solo agli atti di ultima volontà.

Dato che si tratta di un comportamento volontario, il modus può essere accostato alla condizione
potestativa. Il negozio modale è immediatamente efficace e rimane efficace indipendentemente
dall'adempimento del modus, solo che il beneficiario sarà obbligato a compiere quanto il modus gli
impone. Mentre condizione e termine subordinano, ma non obbligano, il modus ordina, ma non
subordina. L'onorato (chiamato così perché a capo di un onere) deve fare qualcosa. Ad esempio: sarai
mio erede, se mi farai il sepolcro.

Gli strumenti giuridici che impongono all'onorato di adempiere sono vari. Il legato sub modo obbliga il
legatario a prestare una stipulatio (prima di dare esecuzione all'atto) con cui promette

all'erede l'esecuzione del modus, questa applicazione viene poi estesa ai fedecommessi. Poi con il
modus aggiunto all'istituzione di erede, ciascun erede può pretendere dagli altri l'adempimento del
modus al momento della divisione dell'eredità, se il modus invece è a favore di un terzo, questo viene
considerato come titolare di un fedecommesso. Se il modus riguarda l'interesse collettivo può
intervenire l'autorità pubblica a costringere l'onerato ad adempiere. La donazione modale infine
permette al donante, in caso di inadempimento del donatario al modus che accompagna l'atto traslativo
di proprietà, la condictio per la restituzione di quanto donato e l'actio preascriptis verbis per
l'adempimento del modus.

IMPUTAZIONE DEGLI EFFETTI NEGOZIALI

Gli effetti principali del negozio giuridico si connettono all causa e vengono imputati in via diretta ed
esclusiva alle parti del negozio.

Il nuntis È un semplice portavoce, uno strumento materiale da considerare alla stregua di una lettera.
Non può essere quindi considerato l'autore del negozio, perché non dichiara una volontà propria. È
colui che si avvale del nuntis l'autore ed è perciò che si collegano direttamente a lui gli effetti dell'atto.
Proprio per questo non può essere considerato un terzo estraneo al negozio.

Non tutti i negozi potevano essere compiuti attraverso il nuntis, come i negozi formali e solenni che
richiedevano la presenza delle parti, al contrario dei contratti consensuali e dei patti.

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La rappresentanza organica

Si ha in caso di persone fisiche, che agiscono e concludono negozi, quali organi di collettività a cui
viene riconosciuta soggettività giuridica. Queste sono legali rappresentanti che esprimono una volontà
propria, ma i cui effetti si producono direttamente ed esclusivamente in capo all'ente. Non agiscono
quali soggetti autonomi.

Un caso simile è quello di negozi di acquisto conclusi da soggetti alieni iuris, questi negozi erano validi
ed efficaci, solo che ad acquistare non era lo schiavo o il filius familias (o altro soggetto alieni iuris),
bensì direttamente ed esclusivamente il dominus o il pater familias (o il soggetto avente potestà).

La responsabilità adiettiziaIn particolari casi gli effetti del negozio venivano imputati direttamente sia
agli autori del negozio sia a terzi. Uno di questi casi è quando in determinate circostanze ad assumere
un'obbligazione con atto lecito è una persona soggetta a potestà (alieni iuris), e viene vincolato sia lo
stesso alieni iuris, sia l'avente potestà.

La rappresentanza (diretta)

È il fenomeno per cui un soggetto autonomo e giuridicamente capace (= rappresentante),

conclude un negozio, esprimendo quindi la sua volontà, in nome e per conto di un altro soggetto (=
rappresentato), con effetti in via immediata diretta ed esclusiva non in capo a se sesso, ma in capo al
rappresentato. Può essere volontaria (quando i poteri al rappresentante sono conferiti dal rappresentato
con un suo atto volontario) o legale (negli altri casi, ad esempio il tutore).

I Romani furono tendenzialmente contrari a riconoscere che gli effetti negoziali fossero imputati
direttamente a terzi. La rappresentanza differisce dalle figure sopra descritte poiché il nuntius non è un
rappresentante perché non esprime la propria volontà, la rappresentanza organica non è conclusa da un
soggetto autonomo e infine la responsabilità adiettizia perché in essa gli effetti adiettizi si imputano sia
al dichiarante, sia ad un terzo.

La rappresentanza indiretta

Consiste nel concludere un negozio per conto altrui ma in nome proprio, ovvero con effetti imputati al
dichiarante, salvo poi il dovere del dichiarante di trasferire al terzo (per conto del quale ha concluso il
negozio) i diritti acquistati, e il dovere del terzo di addossarsi gli obblighi del negozio. I Romani vi
fecero spesso ricorso.

Le deroghe all'esclusione della rappresentanza

I Romani concedettero delle deroghe alla rappresentanza diretta. La deroga fu concessa al curator
furiosi, legittimato ad alienare i beni del furiosus e venne derogato anche ai curator prodigi, al tutor
impuberis, al curatore di un minore di 25 anni e al procurator omnium bonorum.

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Nell'età classica si ammise che che ogni persona libera, agendo in nome di un terzo potesse acquistargli
il possesso persino a sua insaputa.

PATTI E CONTRATTI A FAVORE DI TERZI

Riguardano gli effetti obbligatori. Inizialmente patti e contratti a favore di terzi erano vietati, pena la
nullità del negozio. Le parti non potevano infatti convenire che dal negozio nascessero crediti a favore
di terzi al negozio estranei. Questo divieto verrà derogato con costituzioni imperiali che concedono a
terzi actiones utiles ein factum (ad esempio: donazione reale con modus a favore di un terzo, in caso di
deposito, dote e pegno).

IL COGNITOR, IL PROCURATOR E ALTRI SOSTITUTI PROCESSUALISi tratta di un


fenomeno simile alla rappresentanza. L'esigenza che l'una o l'altra parte si facesse sostituire sin
dall'inizio della lite fu tenuta presente nel processo formulare.

Il cognitor eLa figura del cognitor era un sostituto processuale nominato direttamente dalla persona
che desiderava farsi sostituire nel processo, con pronunzia orale e solenne rivolta direttamente
all'avversario. Il cognitor poteva partecipare sia come attore sia come convenuto e vi interveniva
nomine alieno (in nome altrui). Compiva anche la litis contestatio con l'avversario.

Tuttavia il cognitor non era legittimato in ordine alla situazione giuridica per cui litigava. Nell'intentio
della formula compariva il nome del dominus litis, mentre nella condemnatio compariva quello del
cognitor. La formula adottata era pertanto con trasposizione di soggetti: il giudice accertava il diritto o
il dovere in capo al dominus litis e pronunziava la condanna a favore del cognitor o contro di lui.
Alcuni effetti da o contro il cognitor si producevano direttamente o esclusivamente nei confronti del
dominus litis: una volta fatta la litis contestatio dal cognitor, la lite non poteva essere ripetuta da parte
del dominus litis nè contro di lui. L'actio iudicati spettava direttamente ed esclusivamente al dominus
litis o contro di lui.

Il procurator ad litemIl procurator ad litem veniva nominato in maniera informale e solitamente in


assenza dell'avversario. Anche in questo caso la formula era con trasposizione di soggetti.

Gli effetti dell'azione promossa dal procurator non deduceva in giudizio il rapporto sostanziale, quindi
il dominus litis poteva ripetere l'azione qualunque fosse stato l'esito. La litis contestatio e la sentenza
non hanno effetti sul dominus litis.

L’avversario che sostiene la lite nel ruolo di convenuto solitamente pretende che il procurator presti la
cautio ratam rem dominum habiturum (promessa che il dominus litis ratifichi l’iniziativa del
procurator, non riproponendo l’azione); l’avversario attore invece pretende dal procurator la cautio
iudicatum solvi, promettendo che l’eventuale sentenza di condanna sarebbe stata comunque adempiuta.

Nel corso dell'età classica la figura del procurator (verus) verrà assimilata a quella del cognitor.

Altre figure di sostituti processuali

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Altri possibili sostituti processuali sono il tutore dell'impubere, i curatores furiosi, prodigi e
adulescentis, il defensor e il filius familias. Il regime giuridico non è uniforme, varia caso per caso.

PERSONE E FAMIGLIA

• pater familias: è il capo della famiglia, è un soggetto che gode di capacità giuridica e esercita forme
di potere sui soggetti sotto di lui.

• potestas: rapporto di soggezione tra figli e pater

• dominium: rapporto tra pater e schiavo, gli schiavi sono oggetti di dominium sono calcolati come
una res(cosa) e potevano essere oggetto di rapporti patrimoniali.

La schiavitù era un istituto riconosciuto a tutte le popolazioni antiche e ciò da un certo punto di vista
tutelava gli schiavi dalla loro condizione servile(gli schiavi fuori Roma erano trattati in modo paritario
come quelli di Roma).
Lo schiavo da oggetto(res) comincia ad assumere un certo peso per essere utilizzato nell’attività
negoziale e il dominus lo può usare per esercitare attività di tipo commerciale.
Nonostante l’evoluzione della struttura economica, l’attività commerciale non è nobile quindi le classi
superiori non si abbasseranno mai a certi livelli, non ritengono sia nobilitante esercitare attività
commerciale.

cosa vuol dire parziale capacità di agire?


Gli schiavi potranno utilizzare tutti gli strumenti del diritto ma con una peculiarità, che qualsiasi atto
compiranno sarà a vantaggio del dominus, non c’è un passaggio intermedio perchè il dominus esercita
una potestas completa sullo stato.

Obbligazioni civili: originano un’azione, in caso di inadempimento genera azione


Obbligazioni naturali: è un obbligazione che non fa nascere un’ azione, si crea un rapporto obbligatorio
(promessa di dare e fare) ma non ha una tutela giuridica dell’azione, non è azionabile e ha varie
applicazioni. E’ priva di tutela giudiziale perchè l’obbligazione è naturale. E’ un’attività negoziale
limitata con vantaggio.

Azioni adettizie: lo schiavo gestisce gli affari del dominus


A uno schiavo non venivano lasciati tutti i beni del dominus ma solo una parte che si chiama peculio e
un tot di beni come fondi, denaro e altri schiavi che veniva dato in gestione allo schiavo per
commerciare con i terzi.
• azioni pretorie e vanno a tutelare la posizione del terzo che entra in rapporti commerciali e
patrimoniali con lo schiavo e servono a dare maggiore sicurezza al terzo
• queste azioni prevedono nella parte dell' intentio nella condennatio il nome del dominus così si rende
azionabile qualcosa che non lo era.

due categorie dove il dominus risponde per intero dell’attività negoziale con il suo schiavo:
- actio institoria
- actio quod iussu
- actio exercitoria
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due azione dove il dominus risponde dell’attività dello schiavo entro un limite che sono indicati dalla
stessa azioni
- actio depeculio: limite del valore attivo del peculio
- de in rem verso
Azioni adiettizie: alla responsabilità naturale del servo si aggiunge la responsabilità del dominus,
sanzionata da actio, nei casi in cui il dominus si fosse assunto esplicitamente la responsabilità di certe
operazioni finanziare compiute dal servo.
Actio quod iussu: abbiamo un iussum(autorizzazione), presuppone che l’impegno del servo nei
confronti del terzo sia stato assunto di seguito ad un’autorizzazione esplicita, il dominus si assume la
responsabilità dal dominus al terzo, di negoziare col servo, assumendone il dominus ogni rischio!
dominus risponde dell’intero debito. il dominus risponderà per intero.

Il soggetto a differenza dello schiavo il figlio può diventare soggetto su iuris e quindi godere della
pienezza dei tre stati solitamente alla morte del pater, quando il padre muore, il figlio acquista completa
capacità giuridica e di agire poi ci sono casi eccezionali di acquisto stato su iuris per mezzo di istituti
particolari che ne prevedevano la totale autonomia e pienezza di capacità che riguardavano il padre.
Come si diventava filii familias?
Si diventava filii familia per nascita, non tutti i figli nascavano come soggetti riconosciuti dall
ordinamento come filii familias doveva essere nati dalle cosi dette iuste iuptia ossia il matrimonio
legittimo romano che per i romani era il matrimonio tra soggetti liberi e cittadini (cives) se il figlio
nasceva da iuste iupte automaticamente godeva dello stato di filius familias altrimenti i romani avevano
ideato due sistemi diversi per permettere a un soggetto di acquisire lo stato di filius familias questo
status poteva essere ottenuto con da un lato un istituto chiamato adrogatio e dall altro con un istituto
chiamato adoptio. Sono due istituti che oggi si dicono adozioni.
Mentre l’adrogatio era un istituto preposto alla ‘adozione’ di un soggetto sui iuris quindi un pater
familias vuole adottare un altro pater familias. L’istituto dell’adotio che più tradizionalmente
assomiglia all’adozione moderna ed era l’adozione da parte di un pater familias di un altro filius
familias ossia di un figlio di un altro pater.
Esistevano due modi di adottare a Roma e mutavano in base al soggetto che si voleva adottare.
Per i soggetti che sono cittadini e liberi la piena capacità giuridica cioè lo stato sui iuris viene
tramandato alla morte del padre, muore il pater e i figli diventano completamente capaci a prescindere
dall’età.
A differenza di oggi che la piena capacità si raggiunge a 18 anni, nel mondo romano non esiteva alcun
limite di età, l’età valeva per altri istituti, per la tutela, parentela ecc. ma piena capacità era legata
all’evento ‘morte del padre’ o all’emacipatio.
Quando si voleva fare un’adozione a Roma, potevano esserci due ipotesi o adottare il soggetto già sui
iuris, ossia pienamente capace dal punto di vista del diritto che poteva avere qualsiasi età oppure si
poteva adottare un soggetto che era sottoposto alla patria potestas di un altro soggetto sui iuris (come
quando oggi si adotta un figlio)
L’adoptio era un’adozione soggetto *** iuris, cioè soggetto sottoposto alla potestà di un padre che
ricadeva sotto la potestà di un nuovo pater. L’adozione è un fatto di costituzione di rapporti contestativi
a Roma se la regola è che il rapporto potestativo si acquisisce con la nascita l’adozione è un modo di
crearlo artificialmente.
(la patria potestas era la prerogativa solo maschile)
Le fonti parlano di mater ma non esisteva una potestà materna.
Adrogatio: adozione del soggetto su iuris, come avveniva?

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Un soggetto su iuris, completamente capace decide, d’accordo con il loro pater di entrare nella sua
famiglia in una posizione di soggezione quindi perdere la prerogativa della piena capacità e assogettarsi
ad un'altra persona concretamente questo nelle fonti è denominato come capitis deminutio ossia è ogni
variazione peggiorativa dello stato di una persona, cioè quando dallo stato pieno in questo caso su iuris
si acquisiva uno stato minore avveniva una capitis deminutio, diminuzione della pienezza del proprio
stato, è minima perché riguarda lo status familie. La capitis deminutio massima era quella che dallo
stato di libertà vedeva soggetto diventare schiavo, quandi era la perdita dello status libertatis, quella
media invece, era la perdita della cittadinanza, da cives a non cives.
L’adrogatio è un istituto molto antico, risale all’età arcaica e nasce da un’ interpretazione dei pontefici
di una regola prevista nel corpo delle 12 tavole. Nasceva come risposta alla necessità di trovare una
forma di tutela a soggetti che all’interno di una famiglia si ritrovavano sui iuris pur non avendo la
capacità naturale. Poi viene esteso ad ogni forma di adozione di soggetto sui iuris. Nasce in età arcaica
come ricompattamento familiare poi invece diventa motivo di adozione a causa di motivi economici o
altro. Era una forma solenne di adozione di natura pubblica, che avveniva nelle forme di una lex perché
la cerimonia dell’adrogatio diveniva di fronte all’assemblea dei comitia curiata, che sono la più antica
assemblea a roma con 30 curie che si riunivano e rappresentavno le 30 gens piu importanti e davanti a
loro i potifex dirigeva la cerimonia di adrogatio e in tale cerimonia compariva il pater che voleva
adrogare e l’altro soggetto sui iuris che doveva essere adrogato quindi il pater e primo filius
comparivano dinanzi all’ assemblea rivolgendo la prima domanda al pontefice, esprimendo la volontà
di adrogare ed essere adrogato entrambi. Il pontefice operava dei controlli, guardava se effettivamente
si poteva dare corso all’adrogatio questo perché, mentre originariamente non c’era nessun limite
all’adrogatio nel senso che poteva adrogare ed essere adrogatio qualunque sui iuris ma furono poi
introdotti una serie di limiti quindi era necessario che il soggetto che voleva adrogare non avesse altri
discendenti, doveva esserci almeno una differenze di 18 anni tra uno e l’altro e il soggetto da adrogare
doveva essere più piccolo di quello adrogato. Questi sono dei limiti che piano piano sono emersi.
Adrogatio presuppone due erogazioni, prima al pontefice che controllava il caso dopo di chè
formalmente la domanda proposta è di domizia curiata e quindi anche l’assemblea era chiamata ad
esprimersi in senso favorevole all’adrogatio.
-Prima domanda con Senso favorevole al pontefice
-seconda domanda all’assemblea con risposta affermativa, l’adrogatio si conclude
Con due erogationes, due risposte affermative l’istituto è compiuto
E’ molto importante capire il ruolo della domitia curiata della cerimonia perché rappresenta il controllo
pubblico sulla creazione del rapporto potestativo. Il rapporto potestativo ossia la creazione di una
famiglia comporta con se conseguenze patrimoniali ed economiche molto importanti considerato che
essere adottato, adrogato era un soggetto su iuris che molto spesso si portava dietro un patrimonio. Era
un soggetto autonomo, con tutte le capacità del caso quindi poteva essere proprietario di bene, creditore
di rapporti obbligatori e la conseguenza dal punto di vista patrimoniale e giuridico di questa adrogatio
era che lui diventando un soggetto adottato trasferiva tutte le sue posizioni soggettive e attive da se
stesso al nuovo pater quindi si spostava la ricchezza da un soggetto all’altro.
Con il trasferimento delle ricchezze, una famiglia diventa più potente.
Questo trasferimento di posizioni soggettive da un soggetto all’altro si chiama successione a titolo
universale intervivos.
Quando passano tutte le posizioni da un soggetto all’altro bisogna fare una domanda: se uno aveva dei
debiti cosa fa?
I debiti si annullano con l’adrogatio perché un soggetto che era sui iuris diventa meni iuris e perde la
capacità di agire, di essere chiamato in causa ecc. e quindi il debito andrà perso e magari qualcuno
avrebbe potuto pensare di farsi adrogare anche perché così non pagava i debiti. Onde evitare che
l’adrogatio fosse usata per cose fraudolenti interviene il pretore concedendo un actio che si chiama
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actio recissa capitis denutione che era un actio concessa al creditore del nostro debitore che si era fatto
adrogare che li permetteva di chiamare in giudizio il suo debitore come se la capitis deminutio non
fosse avvenuta ossia come se l’adrogatio non fosse avvenuta. Questo è il modo tradizionale di adrogare
ma fu poi introdotto in epoca imperiale una forma diversa di adrogatio che si chiama rescriptum
principis quindi il sistema ad un certo punto la comparsa dinanzi al comitia curiata viene meno e quindi
per velocizzare il sistema viene introdotta questa possibilità di chiedere direttamente all’imperatore
l’autorizzazione di adrogare ed essere adrogato, quindi si introduce la richiesta diretta, il rescriptum. Il
vantaggio è inanzittutto che non bisogna comparire davanti i comitia curiata ed era più pratica e veloce.

La patria potestas era una prerogativa maschile quindi le donne non potevano adrogare però oltre a non
poter adrogare non potevano nemmeno essere adrogate questo era dovuto dal fatto che non poteva
prendere parte ai comitia curiata percui l’era interdetto compleatamente l’istituto dell’adrogatio sia dal
punto di vista attivo che passivo. Quando fu introdotto l’istituto per il rescriptum in principi invece, la
donna può essere adrogata ma permane il divieto di adrogare ma c’è un'unica eccezione Dioclezianea
di adrogare per la donna ed è un’eccezione molto particolare nel senso che viene reso possibile a una
donna di adrogare e si chiama insolacium, alla vedova alla quale erano morti tutti i figli poteva
adrogare e poi adottare come forma di consolazione per la morte dei figli. In questo caso l’adrogatio e
l’adoptio non crea comunque un rapporto potestativo ma solo di filiazione.

Adoptio:
E’ un'altra operazione che permetteva di adottare un soggetto che fosse alieni iuris, già sottoposto alla
potestas di un altro padre.
Come faccio a scindere un legame di potestà che già esiste quello con padre naturale e crearne uno
nuovo con il padre adottivo?
Nelle 12 tavole era previsto questo: se un padre avesse venduto per tre volte il figlio avrebbe perso la
patria potestas sul figlio.
Nell’età piu arcaica è possibile che il padre venda il figlio per diverse ragioni e si ritrova come uno
schiavo.
Il pater era un padrone assoluto e poteva vendere un figlio era considerata una res mancipi come
quando vendevano gli schiavi ma il figlio anche se venduto rimaneva figlio del pater.

MATRIMONIO

Istituto che ha come oggetto il diritto delle persone.


Questo istituto nell’antica roma è molto diverso da quello odierno: matrimonio o ius denunzie
costituisce il fondamento della famiglia (dalla quale si origina la discendenza legittima e dal quale
derivano i riferimenti patrimoniali) come concetto giuridicamente rilevante .

Il matrimonio non si costituiva come oggi attraverso un rito ma era un fatto che veniva a sussistere solo
per la concorrenza di due elementi: convivenza stabile tra due soggetti (uomo e donna) e affectio
maritali (era un concetto che consisteva nella volontà dedite soggetti he convivono di convivere come
marito e moglie, non è solo un consenso ma una volontà che qualifica quella convivenza, senza questa
volontà specifica che era un requisito psicologico non sarebbe stato matrimonio, era importantissima,
se veniva meno, riaveva divorzio il matrimonio finiva;)

I romani davano molta importanza ai rapporti di convivenza:

[Data]
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• Contrubernium: rapp di convivenza riconosciuto socialmente, rapporto tra due schiavi, o tra una
persona libera e uno schiavo; non era riconosciuto giuridicamente ma si dava atto della loro
esistenza, era una famiglia di fatto.
• Concubinato: famiglia alternativa, che nasce dal matrimonio monogamico, ma accanto al
matrimonio si aveva un rapporto con un’amante. Li differenziava sempre l’affectio maritali 
poteva essere espressa per una persona alla volta, il concubinato non prevedeva questo aspetto.

Il matrimonio si costituisce per convivenza e affectio  ha molto valore per il matrimonio anche se è
un aspetto psicologico, c’erano elementi che faceva presumere che fosse costantemente presente:
• Possibilità di accompagnare matrimonio con cerimonie religiose, ma che non erano rilevanti per
affermare il matrimonio (era una prova della sussistenza dell’affectio);
• Possibilita che il matrimonio sia accompagnato dalla conferito inmanum  moglie entrava nella
potestà del marito, non era obbligatoria, era anche questa un indizio ma affermava l’affectio)
• Deductio fomali: Ingresso ufficiale, con il quale si sottolineava l’ingresso della donna nella casa
del marito, poteva essere indice dell’affectio.

Il matrimonio era un accordo tra due soggetti o tra famiglie.

A monte ci sono delle condizioni perché il matrimonio fosse valido per lo ius civile:
Tre condizioni per Ulpiano:
• Connubium: capacità civile; rappresenta un nucleo di condizioni che dovevano essere presenti in
capo ai singoli individui perché il matrimonio avesse valore: 1. cittadinanza (il matr. era valido se
era fatto tra cives romani)  eccezioni perché si poteva concedere un connubium (capacità
matrimoniale specifica)
• es. nativi prisci che non facevano parte della penisola italica che non avrebbero contratto valido
matrimonio con un cittadino romano, come popolazione estranea perché considerati vicini e con
particolari rapp. Con i romani.
• Altro es. matrimonio con stranieri che non avevano il connubium generalizzato (se il cittadino
romano s fosse sposato con una straniera che non aveva il consenso di sposarsi con lui non
sarebbero nati figli non ritenuti cittadini legittimi, al contrario se fosse stata la donna ad essere
romana, i figli venivano riconosciuti  consuetudine riconosciuta nel mondo antico) i romani
intervengono su questa imposizione per tutelare la razza, viene promulgata la lex minicia de
liberi che sovverte nello ius civile la regola per il quale veniva bloccata la regola per la quale i
figli di una donna romana fatti con straniero non venivano riconosciuti, per evitare che figli di
padre straniero accedessero alla romanità: ;
• C’era anche il divieto di matrimonio tra parenti, è sempre vietato dalla morale, dalla natura e dal
diritto, ma col tempo attraverso la morale poteva effettuarsi il matrimonio tra zio e nipote
(Claudio che voleva sposare agrippina).
• È vietato anche matrimonio tra affini  due parenti che rimangono dopo il divorzio o la
vedovanza, che val anche se ha origine giuridica e quindi di adrogaptio o adoptio (ex. cognati)
• Erano vietati anche i matrimoni misti: tra ingenui (nati liberi) e le donne di cattiva reputazione LE
PUTTANE. In questo caso il matrimonio era valido ma erano previste sanzioni: impedimento
passaggi patrimoniali; successivamente viene istituita la nullità per questo matrimonio.
• Matrimonio con la vedova: era previsto che la vedova dovesse rispettare il lutto vedovile, non
poteva risposarsi prima che fossero passati 10 mesi dalla morte del marito, perché 10 mesi?
Catone dice che durava dieci mesi che in realtà erano 9 perché i romani contavano in modo
diverso. Questi 10 mesi vennero successivamente elevati a 1anno.
[Data]
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• Età pubere: capacità naturale; perché due potessero sposarsi dovevano avere la capacità di
generare figli (donne 12 anni) per gli uomini c’era un problema, vennero istituite due tesi diverse:
saviniani: tratti tipici che facevano riconoscere la maturazione e quindi il potere di generare;
proculeiani: introducono limite di età  14 anni; vinsero i proculeiani. Il fatto che fosse prevista
una capacità naturale impediva che potessero contrarre., potevano sposarsi gli impotenti (finchè
non si prova non si sa)
• Consenso: condizione ancora a monte per la quale bisogna dimostrare la propria volontà a
contrarre il matrimonio, perchè? Ci sono rapporti di soggezione, pater e figli e nipoti che gli sono
soggetti  in questo caso il consenso doveva essere prestato la pater dei futuri coniugi. Si
prestava consenso personalmente quando i soggetti erano sui iuris. (eccezione: i pazzi non
potevano sposarsi, prestare consenso, fare stipulatio……)

Dal matrimonio, discendono altre conseguenze:


• La donna acquista il medesimo rango sociale del marito, medesima dignità sociale;
• Divieto di testimoniare contro l’altro (contro marito es)
• Infedeltà era punita nei confronti della donna  adulterio per la donna, la quale era punita nel
pino giuridico molto seriamente fino alla punizione con la morte. (permane fino al 1 sec. 
eliminava la morte). Poteva esserci il caso dello stuprum  rapporto adulterino dell’uomo se
avesse giaciuto con una vedova, una vergine o una minore.
• Actio furti  quando la donna in vista del divorzio prendeva beni del marito, il quale se li poteva
riprendere con la rerum amotorum.
• Divieto di donazione.

Conventium manum: può eventualmente accompagnare il matrimonio; era un eventuale accordo che
poteva accompagnare il matrimonio, con questo la donna si assoggettava alla manus del marito per
identificare dominium, potere che quindi esercitava il marito su di lei, la donna si assoggetta alla
potestà del marito volontariamente o attraverso il pater  questa potestà assume il nome di manus e ha
il contenuto simile alla protesta che ha il per sui figli. In questo caso avrebbero equiparato la donna ad
una figlia, la donna entrava nella famiglia del marito come se fosse una figlia (giuridicamente
parlando). Questa soggezione poneva la donna in una condizione particolare, se fosse stata sui iuris non
sarebbe diventata alieni iuris del marito, altrimenti la donna da alieni iuris del padre sarebbe diventata
alieni iuris del marito.

Veniva usata la conventio anche nell’ipotesi in cui la donna dovesse denominarsi un tutore o per fare
testamento.
Tre modi per realizzare la conventio:
• confarreatio: rito sacro, dimagrire religiosa che prevedeva un’offerta a Giove di focaccia di farro,
accompagnata da pronunce di certa verba che non conosciamo, dovevano esserci 10 testimoni e i
sacerdoti di giove. Era obbligatorio qualora si dovessero sposare due soggetti e uno avesse delle
mire di carriera sacerdotale. Per scioglierla veniva usata la diffareatio.
• Coemtio: era una mancipatio fittizia, che viene riadattata per compiere degli atti, costituiva il
vincolo della manus con il marito, la donna se sui Uris o alieni iuri, faceva una finta mancipatio o
veniva fatta dal padre al marito o al padre del marito se fosse stato anch’esso alieni iuris.
Usus: nasce come istituto volto a sanare alcuni difetti della confarreatio o della coemtio: una
convivenza prolungata ininterrotta per almeno 1 anno garantiva la manus della moglie da parte del
marito. Veniva evitato quando i coniugi per tre notti di fila non avrebbero convissuto (usurpatio tri-
nocti) in questo caso non veniva acquistata la manus restavano sposati ma senza l’acquis.

[Data]
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Obbligazioni verbali:
1. stipulatio (e sponsio)  maggiormente rappresentativa;
2. dotisdictio  unapersona che parla, negozio unilaterale, parla colui che si obbliga a dare la dote in
occasione di un matrimonio. Un soggetto che parla, coli che promette che può essere il padre della
donna oppure lei stessa con dotis dictio. (uno che parla uno che si assume l’obbligazione.
3. promissio iurata liberti  parla uno solo lo schiavo liberato che fa un giuramento con il quale si
assume l’obbligo di compiere in favore del suo ex favore delle opere (atti di cura dei defunti ecc) o di
prestare una somma di denaro. Aveva la forma di un giuramento con valore obbligatorio e riguardava
anche lo schiavo, soggetto alieni iuris. Lo schiavo in questo caso promette prima di essere liberato,
questa promessa non ha effetto obbligatorio sul piano del diritto perchè fatto dallo schiavo, ma lo ha sul
piano religioso perché impone allo schiavo di ripetere lo stesso giuramento ma da libero (ci sono 2
promesse una sul piano religioso e una sul piano del diritto promette da libero e acquista valore
giuridico)
Sono non solo contratti unilaterali ma anche negozi unilaterali.

Mail pilloni: sarapilloni@virgilio.it

Le obbligazioni verbali  nell’ambito dei rapporti obbligatori, le obbligazioni potevano creare


obbligazioni contrattuali, verbali, consensuali; per costituire un’obbligazione doveva esserci la
pronuncia di un formulario specifico che consisteva in una domanda e in una risposta. Le obb. Verbali,
nascevano soltanto e producevano obbligazioni vincolanti solo per effetto della domanda e della
risposta (non era necessario un documento e nemmeno che ci fosse una prestazione del consenso,
bastava che fosse formalmente rispettato lo schema domanda  risposta). Non necessitava di una
causa specifica. Con il modello di stipulatio di obbligazione verbale era possibile qualsiasi azione
(dare, fare), bastava che le parti si obbligassero
Il contratto verbale è valido soltanto perché le parti pronunciano una domanda alla quale corrisponde
una risposta: la stipulatio è un istituto originato dalla sponsio (ist. Di garanzia che consisteva
nell’incontro tra domanda e risposta che era legata al verbo spondere, la struttura era sempre la stessa)
ci sono due parti domanda spondes - risposta  spondo = sponsio. Era valida la sponsio qualunque
fosse la prestazione dedotta.
La particolarita della sponsio: istituto di ius civile sia per quanto riguarda la fruibilità (solo i cives
romani a poter porre in essere la sponsio) che per gli effetti (sanzionata sul piano del ius civile azione
corrispondente nel sistema delle legis actiones prima e nel processo formulare poi -mancato
adempimento prestamento  giudizio-).
Stipulatio mantiene il sistema domanda  risposta ma è un istituto che trova sviluppo parallelamente
all’espansione dei confini romani. Il prob. Della sponsio è che solo i cittadini possono compere la
sponsio e i peregrini no. Per fruibilità è un istituto di ius gentum: è possibile che anche gli stranieri
possano porre in essere una valida stipulatio, rimanendo però per l’effetto un istituto del ius civile.
Natura che condivide con la sponsio è di essere un negozio bilaterale ma un contratto unilaterale: sia la
sponsio che la stipulatio sono due negozi che necessario per essere validi la presenza di due soggetti
però gli effetti obbligatori che nascono da entrambe sono soltanto in capo a uno dei soggetti 
debitore promittente (colui che risponde alla domanda). Le fonti dicono che era un istituto eloquente,
dove due persone parlano. Questa cosa separa sponsio e stipulatio dalle altre due che sono negozi
unilaterali oltre ad essere contratti unilaterali, e parla solo una persona, gli effetti di conseguenza si
creano attorno a colui che parla.

Ci sono per validamente porre in essere una stipulatio 5 condizioni da rispettare:


[Data]
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1. Oralità dell’atto: essendo verbale come contratto è necessario che lo schema domanda
risposta venga riprodotto solo verbalmente, una stipulatio si conclude parlando, no sono valide e
stipulationi per iscritto.
Problemi:
a) se l’atto è orale ci sono persone escluse dal poter contrarre un’obbligazione verbale (i
muti e i sordi non potevano validamente stipulare, come nemmeno i pazzi non potevano
intervenire curatori perché era un obbligo personale).
b) Le due persone che stipulano devono capirsi  originariamente significava che
dovevano parlare la stessa lingua (latino); quando diventa uno strumento utilizzato anche
dove non si parlava il latino sorge un problema: i romani quindi ammettono anche le
lingue diverse dal latino (greco-greco per es.). più ci avviciniamo ad una certa
liberalizzazione delle forme della stipulatio, più erano valide le stipulationes dove la
lingua della domanda e quella della risposta erano diverse purché si corrispondessero.
Per essere certi che la traduzione fosse vera era ammesso l’uso dei traduttori (interprete)
il quale non aveva nessun ruolo obbligatorio ma era solo uno strumento di ausilio e
garanzia per le parti.
Il fatto che la stipulatio sia parlata rendeva non valide le stipulationi per iscritto: iniziano però
ad inserirsi nella prassi col tempo delle sfaccettature, si aggiunge l’uso dell’instrumentum 
documento che accompagnava la stipulatio ed era scritto. In origine non serviva per contrarre
validamente la stipulatio ma per provare la presenza dei soggetti; aveva effetto probatorio,
serviva per provare che le parti fossero presenti nel luogo e nel momento dichiarato nel
momento stabilito. Con il tempo entra nella prassi e inizia a prendere il posto della stipulatio
stessa, abbiamo quindi persone in qualsiasi posto che usano , l’instrumentum diventa quindi
sinonimo della stipulatio e fa prova anche dell’avvenuto scambio (della domanda  risposta)
tanto che Leone nel 472, con una costituzione abolisce ogni formalità orale della stipulatio e di
fatto ammette che questa possa essere possa essere compiuta in qualsiasi forma quindi anche
con la trasposizione con instrumentum, l’unica cosa che rimane ancorata rimane che se tizio e
caio sono a Costantinopoli in un determinato momento risulta ciò incontrovertibile (unico tratto
caratteristico che rimane della stipulatio)

2/3. Il fatto che l’atto debba essere tra presenti e contestualità dell’atto: persone presenti nello
stesso luogo, nello stesso momento e devono pronunciare domanda e risposta nell’immediatezza
 unitas actus (unità dell’atto, tutto nello stesso momento, deve esserci contestualità tra
domanda e risposta). Se passava troppo tempo tra domanda e risposta altrimenti veniva
interpretato come una mancanza di interesse e l’obbligazione non si sarebbe costituita.

4. Simmetria dell’atto: la simmetria è sempre tra due soggetti ciò significa che non possono
intervenire terzi nella struttura della stipulatio.

5. Personalità dell’obbligo assunto: si assume l’obbligo solo il promettete che risponde alla
domanda, che rispetta i canoni di contestualità, presenza ecc. non altri soggetti per lui e
valevano una serie di altre regole legate all’assunzione dell’obbligo:
1. altri stipulari neo potes  non era possibile stipulare a favore di un terzo e a carico di
n terzo, non si poteva promettere che qualcuno avrebbe fatto qualcosa (prometti di dare
a tizio? Stipuazione a favore di un terzo; prometti che tizio mi darà?).
2. addiectus solutionis causa: prometti di dare a me o a tizio…? tizio serviva solo per
trasmettere l’obbligazione a un terzo in caso di assenza della persona che aveva fatto la

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stipulatio. Questo non si poteva fare. Soggetto aggiunto nella domanda non come
obbligato ma come alternativa solo per l’adempimento.

COSE DIRITTI REALI POSSESSO

Il termine res indica una cosa, un oggetto materiale.

Possono classificarsi in:

→ Res corporales e res incorporales


Con res corporales si intendono gli oggetti materiali, ovvero le cose che si possono toccare.
Al contrario le res incorporales sono le cose che non si possono toccare, ovvero ciò che è classificabile
come iura (eredità, usufrutto, obbligazioni e servitù prediali). Si trattava di diritti soggettivi o di
situazioni giuridiche soggettive che generalmente avevano ad oggetto res corporales. La proprietà
rientra però nelle res corporales.

→ Cose in commercio (res quarum commercium est) e fuori commercio (res quarum commercium non
est)

Le cose in commercio potevano essere oggetto di proprietà privata o comunque di rapporto giuridici
patrimoniali.
Erano fuori commercio i beni che non possono essere oggetto di rapporti giuridici patrimoniali e non
vengono considerate res dal diritto privato.

Si tratta di :
- res divini iuris (beni appartenenti o riferite al mondo divino). Fanno parte delle cose divine anche:

- cose sacre: cose dedicate agli dei celesti, come i templi (gli edifici), i boschi sacri, il templum (spazio
sacro)

- cose religiose: si tratta esclusivamente del sepolcro (cose per gli dei degli inferi, dei Mani), dal
momento in cui viene inserita la prima salma o urna cineraria.

- cose sancte: sono le mura e le porte della città di Roma, mentre le mura e le porte delle altre città
erano solo assimilate. La sanctio era la morte, poiché per i romani l'entrata in città dalle mura era un
gesto ostile.

• res humani iuris (cose appartenenti al mondo umano) possono essere:


- publicae: cose destinate all'uso pubblico, che servono quindi alla comunità.

Sono le cose appartenenti allo Stato ma destinate all'uso pubblico (strade, piazze, teatri pubblici, ecc) e
che sono quindi non suscettibili di rapporti giuridici tra privati. Le cose appartenenti allo Stato dalle
quali ricava direttamente un reddito (schiavi, denaro e fondi) potevano essere oggetto di rapporti
giuridici con i privati. Una volta però che entravano definitivamente a far parte del patrimonio del
singolo, le res pubbliche diventavano private a tutti gli effetti. - privatae: sono i beni non pubblici e
sono in commercio.

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→ Res mancipi e res nec mancipi
Le res mancipi includono le cose di maggior peso, ovvero i fondi (terreni ed edifici) sul suolo

italico, gli schiavi, gli animali da tiro e da soma. Per il loro trasferimento era necessario l negozio
solenne della mancipato o della iure cessio.
Tutte le altre res si dissero res nec mancipi e per il loro trasferimento era sufficiente la traditio.
La distinzione tra res mancipi e res nec mancipi perse la sua importanza, mentre ne acquistò molta la
differenza tra beni mobili e immobili.

→ Beni mobili e beni immobili


Si dice immobile il suolo insieme a ciò che vi inerisce stabilmente.

Si dicono mobili invece gli animali e gli oggetti inanimati trasportabili o comunque inamovibili, tra cui
anche gli schiavi.
La distinzione tra beni mobili e immobili era utile ai fine dell'usucapione e per la difesa del possesso.

→ Cose fungibili e cose infungibili


Le cose fungibili sono i beni rilevabili in rapporto al peso, al numero o alla misura (grano, monete,
ecc). Vengono infatti considerate come insiemi. Si tratta di cose sostituibili per le quali è
rappresentabile un equivalente corrispondente per quantità, numero o misura.
Le cose infungibili sono invece quelle che vengono prese in considerazione nella loro individualità.
Questa distinzione era rilevante quando si faceva questione di restituzione: le cose infungibili dovevano
essere restituite esse stesse; le cose fungibili doveva essere restituito l'equivalente.

→ Cose di genere e cose di specie


Le cose di genere corrispondono a grandi linee alle cose fungibili, così come le cose di specie
corrispondono alle cose infungibili.
Nonostante ciò per cose di genere si sottolinea l'appartenenza di un bene ad una categoria determinata
(genus) e si intente una cosa non ancora determinata, ma individuabile.
Per cose di specie si intendono cose già perfettamente individuate, ognuna di loro costituisce una specie
(species).
Era una classificazione rilevante in campo di obbligazioni, poiché il regime dell'obbligazione era
diverso a seconda che l'oggetto fosse un genus o una species.

→ Cose consumabili e cose inconsumabili


Le cose consumabili sono i beni che si consumano con l'uso e sono quindi suscettibili di una sola

utilizzazione. La loro funzione è tale per cui esse vengono di norma utilizzate o distruggendone
l'essenza, oppure alienandole.
Le cose inconsumabili invece consentono un loro uso continuato.
Questa distinzione aveva grande rilievo poiché alcuni diritto o contratti potevano avere ad oggetto solo
cose inconsumabili.

→ Cose divisibili e cose indivisibili


Sono divisibili le cose che sono suscettibili di essere materialmente divise senza perire e senza
apprezzabile pregiudizio economico.
Sono indivisibili invece i beni che non sono suscettibili di tale divisione.
Questa distinzione ha rilievo a proposito di divisione delle cose comuni.
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→ Cose semplici, composte o collettive
Le cose semplici costituiscono una unità naturale (ad es. la pietra, lo schiavo e la trave).
Le cose composte sono quelle costituite da più cose semplici tra loro congiunte artificialmente ma
tuttavia riconoscibili (ad es. l'edificio, la nave e l'armadio).
Le cose collettive constano di più cose semplici non congiunte e tuttavia considerate unitariamente (ad
es. il gregge).

→ Pertinenze e partes
Il nostro codice civile definisce come pertinenze "le cose destinate in modo durevole a servizio o

ad ornamento di un'altra cosa". Stabilisce anche che "gli atti o i rapporti giuridici ch hanno per oggetto
la cosa principale comprendono anche le pertinenze, se non è diversamente disposto".

Secondo le fonti romane è la pars (la parte) che segue giuridicamente la sorte della cosa a cui
appartiene. Si intendeva una porzione di materia concepita non come indipendente ma come elemento
di una cosa sì che questa senza di essa non sarebbe stata integrata.
Le cose che secondo l'apprezzamento di fatto della società romana non erano considerate partes e
conservavano giuridicamente la propria autonomia pure se destinate stabilmente al servizio di altre.

→ I frutti
Si fa distinzione tra:
- frutti naturali: parti staccate della cosa che secondo gli usi sociali ne costituiscono il reddito

normale
- frutti civili: il corrispettivo che si ottiene concedendo ad altri in godimento la stessa cosa (ad es.

i fitti in caso di locazione, ecc)


I Romani considerarono propriamente frutti soltanto i frutti naturali (piante e animali). I prodotti di
piante e animali diventano frutti una volta separati dalla cosa-madre (prima erano partes).
Venne stabilito che i figli di una schiava non erano frutti o non erano comunque ad essi assimilabili.
Erano frutti però le attività lavorative degli schiavi, al pari dei frutti civili.
I frutti assumevano rilevanza nel diritto privato a proposito di usufrutto, di rivendica, di locazione, ecc.

I DIRITTI REALI

Sono diritti soggettivi patrimoniali che si dividono in: diritti reali e diritti patrimoniali.

I diritti patrimoniali o di credito sono un diritto patrimoniale relativo per cui a fronte di uno o più
creditori (soggetti determinati) stanno uno o più debitori pure essi precisamente individuati.
L'adempimento di una prestazione consiste in un comportamento positivo.

I diritti reali sono dei diritti soggettivi su una cosa a carattere assoluto (erga omnes) opponibili cioè a
tutti i membri della collettività. Tutti i consociati sono potenzialmente in ugual misura obbligati. Il loro
pertanto è un dovere meramente negativo, devono astenersi da comportamenti che con quel diritto
siano in contrasto.

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Il diritto reale per eccellenza è la proprietà, ma esistono anche altri diritti reali, ovvero i diritti reali
limitati o su cosa altrui (iura in re aliena). Si suddividono in:
• diritti reali di godimento che attribuiscono al titolare facoltà di godimento più o meno limitate

sulla cosa (servitù ed usufrutto)


• diritti reali di garanzia danno possibilità al titolare di soddisfare il proprio credito rivalendosi sulla

cosa quando il debitore non adempie (pegno e ipoteca)


Nel diritto di proprietà il carattere reale è manifesto, poiché al diritto dei proprietario corrisponde il
dovere di tutti i consociati di non impedirne l'esercizio, e questo vale anche per i diritti reali limitati.

I Romani ponendosi dal punto di vista del processo e non del diritto sostanziale, distinguono: actiones
in personam (definendo obligatio ogni rapporto sottostante alle actiones in personam) e actiones in rem
(definendo i diritti a ciascuna di esse sottostanti: dominium in relazione alla rei vindicatio, usufrutto in
relazione alla vindicatio usus e servitù in relazione alle vindicationes servitutis).

I diritti reali sono tipici, ovvero il loro numero, nonostante sia cambiato a seconda dei diversi periodi
storici, è sempre stato contenuto.

Il diritto giustinianeo conosce la proprietà, i diritti reali di godimento, di cui fanno parte le servitù
prediali, l'usufrutto e diritti affini, l'enfiteusi e la superficie, e i diritti reali di garanzia, composti da
pegno e ipoteca.

PROPRIETÀ

La proprietà è un diritto soggettivo reale, per cui al proprietario si riconosce sulla cosa che ne è oggetto
una signoria generale.
Le facoltà spettanti al proprietario rientrano tutte più o meno nell’idea di godimento e della
disponibilità piena ed esclusiva del bene oggetto di proprietà. Queste facoltà possono subire delle
limitazioni che possono essere legali (se imposte dell’ordinamento giuridico) o volontarie. Uno dei
caratteri più importanti della proprietà è l’elasticità, ovvero una volta che queste limitazioni vengono a
mancare, il proprietario riacquista la pienezza delle facoltà a lui spettanti.

Il diritto di proprietà prescinde inoltre dall’esercizio o meno dello stesso diritto. Il diritto di proprietà
infatti non si perde per il fatto in sé che non venga esercitato, ma sussiste finché non si verifica, se si
verifica, un fatto che ne determini l’estinzione. Di norma il proprietario è anche il possessore della cosa
propria, ma può non esserlo restandone tuttavia il proprietario. Esiste un principio fondamentale
secondo cui nessuno può trasferire ad altri più di quanto egli stesso non abbia, sicché il non dominus
non può trasmettere un diritto di proprietà che non ha e il proprietario di un bene gravato da diritti reali
limitati trasmetterà la con gli stessi pesi. A sua volta il proprietario di un fondo che gode di servitù
attive lo trasmetterà con le stesse servitù. Venne chiamato auctor il soggetto che trasmetteva il diritto
(anche detto dante causa) e avente causa era chiamato l'acquirente.

Era un diritto tutelato dal ius civile e per questo potevano esserne titolari solo i cives. Possono esserne
oggetto le res corporales mancipi e nec mancipi, mobili e immobili (solo se sul suolo italico). Il
dominio era invece considerato proprietà pretoria. Il potere dei privati sui fondi provinciali, qualificato
come possessio, viene designato proprietà provinciale. I peregrini potevano usare uno dei modi ius

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gentium per l’acquisto della proprietà, ma sarebbe stata una proprietà peregrina. Questa venne meno
con l’editto di Caracalla.

Nell’età postclassica venne sempre meno la netta separazione tra possesso e proprietà, inoltre perse
significato la distinzione tra proprietà civile, pretoria e peregrina.
Con la compilazione di Giustiniano si torna agli schemi classici assimilando la proprietà provinciale a
quella civile e sopprimendo ogni differenza tra proprietà civile e pretoria.

Il dominium ex iure Quiritium, estensione e limiti

La prima idea di proprietà fu quella di un diritto tendenzialmente assoluto ius utendi et abutendi re sua
che consisteva nell’usare il bene, tanto da abusarne e distruggerlo. Visto che era un diritto assoluto,
esisteva da parte della comunità l’obbligo di astenersi dall’interferire nel rapporto di proprietà.

I caratteri del dominio quiritario sono:

 la natura reale (tutela giudiziaria mediante actionis in rem)


 era un diritto riservato ai cives
 aveva come oggetto solo le cose corporali (in quanto ai beni immobili si trattava solo di quelli
su suolo italico)
 diritto inteso come potere assoluto, ma comunque soggetto a limitazioni legali (di diritto sia
pubblico, sia privato)

La proprietà civile immobiliare era esente da tributi, caratteristica connaturata al dominium ex


iure Quiritium, fino a Diocleziano. La proprietà sui beni immobili si estendeva illimitatamente
in altezza e in profondità (usque ad sidera, usque ad inferos). Era inammissibile una proprietà
divisa per piani orizzontali. Esisteva poi il principio superficies solo cedit per cui il proprietario
del suolo non poteva non essere al contempo proprietario di tutto ciò che era incorporato al
suolo. Erano considerate poi dai giuristi romani come tutela spettante ai proprietari di fondi
vicini, la cautio damni infecti e l’actio acquae pluviae arcendae.

Una delle limitazioni più importanti fu la possibilità di imposizione al privato (da parte
dell’autorità pubblica) di vendere una cosa allo Stato. Altra limitazione era la regolamentazione
dei rapporti di vicinanza, come anche il divieto di costruire oltre una certa altezza in città.
Esistevano inoltre l’obbligo di consentire l’uso delle rive dei fiumi per fini della navigazione e
l’obbligo di consentire temporaneamente il passaggio sul proprio fondo se la via pubblica è
impraticabile.

Per quanto riguarda invece i beni mobili, esisteva la repressione del maltrattamento
ingiustificato a danno dello schiavo (considerato una cosa dal diritto).

I rapporti di vicinanza costituiscono altre limitazioni legali della proprietà. Le comunità pre-
civiche non conoscevano la proprietà privata, le terre appartenevano alla collettività (ager
publicus). Ad un certo punto le porzioni di ager publicus cominciarono ad essere assegnate in
[Data]
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via definitiva, diventando proprietà dei privati attraverso la limitatio, rito che aveva
connotazione sacrale ed era compiuto con un magistrato ed un agrimensore.

Si ebbe cura di lasciare attorno a ciascun appezzamento dei limes, che erano lo spazio libero tra due
fondi. Questo non veniva assegnato in proprietà a nessuno e non poteva essere usucapito, per ridurre al
minimo le interferenze tra vicini. Tra aedes (edifici) di diversi proprietari viene lasciato un ambitus
libero, anche questo non usucapibile. La limitatio cessa di essere indispensabile da età repubblicana,
quando la gente inizia ad espandersi, facendo nascere così i fondi agri arcifinii (fondi direttamente
confinanti).

Nel caso in cui tra più fondi rustici non si scorgessero più i confini, si procedeva con la actio finium
regundorum per il regolamento di questi.

In caso di interferenze, se queste erano entro dei limiti modesti, dovevano essere tollerate (limitazioni
legali del dominio). Sono strumenti giudiziari diretti contro i soggetti che hanno il dovere di astenersi
dal compiere sul proprio fondo opere che provochino nel fondo altrui, come la nociva sovrabbondanza
di acque o danni di altro genere, e di mantenere il proprio immobile in modo tale da non poter nuocere
al fondo del vicino.

I modi di acquisto della proprietà sono diversi. Il dominium si acquista con alcuni fatti o atti
precisamente individuati. Si classificano in:

• modi d'acquisto del ius civile, modi d'acquisto del ius gentium e del ius naturale: i modi d'acquisto del
ius civile sono riservati ai cives (cittadini romani) e ne fanno parte la mancipatio, la in iure cessio e la
usucapio. I modi d'acquisto del ius gentium (o naturale) invece sono estesi anche ai peregrini, ne fanno
parte l'occupazione, l'accessione, la specificazione e la traditio.

• modi d'acquisto a titolo originario o a titolo derivativo (distinzione non presente nelle fonti romane): i
modi d'acquisto a titolo originario hanno luogo a prescindere da ogni relazione col precedente
proprietario. Si tratta di una qualificazione che può riguardare sia cose non appartenenti a nessuno, sia
cose in precedenza d'altri. L'acquisto prescinde infatti da riferimenti al precedente proprietario. I modi
d'acquisto a titolo derivativo hanno luogo con la trasmissione del diritto di proprietà che passa da un
titolare all'altro. Riguarda quindi il diritto di proprietà così com'è presso il precedente titolare.

• modi d'acquisto derivativo-costitutivi: sono modi d'acquisto normalmente accostati a quelli costitutivi.
Riguardano l'acquisto di diritti reali limitati con cui un soggetto diventa titolare di un diritto soggettivo
che si costituisce ex novo, ma che trova radice nel più ampio diritto del soggetto che lo costituisce.

• modi d'acquisto a titolo particolare e a titolo universale: i modi d'acquisto a titolo particolare
riguardano l'acquisto di uno o più beni, individuati e determinati. Si producono così degli effetti
solamente reali. Gli acquisti a titolo universale riguardano invece l'acquisto di beni o diritti in seguito a
quello di complessi patrimoniali non definiti (es: acquisto ereditario, successioni pretorie mortis causa e
inter vivos, adrogatio e conventio in manum). Si producono effetti sia reali che obbligatori.

→ TRADITIO

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La traditio sin dall'età arcaica era un negozio bilaterale (tradens e accipiens) che si compiva con la
consegna della cosa. Era fruibile anche dai non cittadini e venne perciò qualificata iuris gentium e
appartenente al ius naturale. Aveva ad oggetto beni mobili e immobili, trasferiva il possesso →
riguardava quindi soltanto le res corporales, le uniche passibili di possesso. Trasferiva solo il possesso
quando riguardava delle res mancipi, ne trasferiva anche la proprietà invece quando si trattava di res
nec mancipi.

La consegna: era fondamentale una consegna del bene, non doveva essere necessariamente materiale.
Era necessario che una parte (tradens) facesse acquistare all'altra (accipiens) la disponibilità della cosa.
Il costituto possessorio si ha quando il dominus che teneva la cosa, nell'alienarla, conveniva con
l'acquirente che questi avrebbe continuato a tenerla presso di sé non più come proprietario, ma a nome
dell'acquirente. Il costituto possessorio vanifica, riducendola al solo consenso, l'idea della traditio come
consegna.

La traditio poteva essere:

- traditio longa manu: è quel tipo di consegna che avviene in modo mediato e senza contatto manuale
(ad esempio, tramite l'indicazione del bene o del fondo, situati ad una certa distanza, fatta da una
posizione elevata che ne permettesse la visione).

- traditio brevi manu: è un modo di acquisto derivativo del possesso in cui la trasmissione del possesso
stesso avviene senza la consegna della cosa: ciò accade quando colui che acquista il possesso di una
cosa ne abbia già la detenzione (per esempio, una persona acquista un immobile che già detiene per
effetto di un contratto di locazione).

Il trasferimento del possesso: la consegna poteva avvenire per gli scopi più vari. Per scopi di custodia
(deposito), prestito (comodato), locazione, e casi simili, l'accipiens ne acquistava la detenzione. Per
scopi di pegno, sequestro, ecc, l'accipiens ne acquistava il possesso. Se la consegna veniva fatta invece
a titolo di vendita, donazione, ecc, l'accipiens acquistava sia il possesso che la proprietà, solo nel caso
in cui venissero rispettate alcune condizioni. La traditio era anzitutto un atto di trasferimento del
possesso.

Il trasferimento della proprietà civile: la traditio poteva comportare il trasferimento insieme del
possesso e della proprietà. Interessa solo la proprietà civile, ovvero la traditio di cose suscettibili di
dominio quiritario e in favore di persone capaci di esserne titolari.
Con la traditio passava oltre al possesso anche la proprietà se: l'alienante era egli stesso il proprietario,
o comunque era legittimato ad alienare e se era oggetto del negozio una res nec mancipi. Era richiesta
inoltre la volontà concorde delle parti di trasferire specificatamente il possesso suo nomine in modo che
l'accipiens iniziasse a tenere la cosa come sua propria (uti dominus). Questo atteggiamento si risolve
nella volontà di una parte di trasmettere e dell'altra di acquistare il dominium ex iure Quiritium.

La iusta causa traditionis: è la ragione oggettiva che sta alla base della traditio, la causa per cui vi si
procede e che giustifica l'acquisto della proprietà. È iusta perché riconosciuta dall'ordinamento
giuridico.
Non sembra che una iusta causa dovesse necessariamente esistere ai fini del passaggio della proprietà:
poteva infatti essere creduta esistente, ma in effetti mancare; poteva essere una causa illecita, non iusta;
oppure poteva succedere che la causa prospettata come futura, venga poi a mancare. L'esigenza di una

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iusta causa è necessaria affinché l'acquirente possa mantenere la proprietà, altrimenti dovrebbe
ritrasferirla all'alienante, al quale si concede si dà una condictio.

- causa vendendi: perché si vende e si intendeva adempiere la relativa obbligazione - causa dotis:
perché si voleva costruire una dote
- causa donandi: perché si voleva donare
- causa solvendi: perché si voleva adempiere ad una obbligazione di dare

1. ll legato per vindicationem: atto mortis causa → si trattava di una disposizione testamentaria con cui
il testatore attribuisce una cosa ad un legatario, il quale, con la morte del testatore, acquista la proprietà
civile. È un'acquisto a titolo particolare. Al legato per vindicationem (effetti reali), viene opposto il
legato per damnationem (effetti obbligatori).

2. L'adiudicatio: era la pronunzia del giudice formulare nei giudizi divisori (actio communi dividundo e
actio familiae erciscundae) e nell'azione per il regolamento dei confini. Il potere gli viene attribuito in
quella parte di formula detta pure essa adiudicatio. Per effetto di adiudicatio i comproprietari, o i
coeredi, di quote ideali cessavano di essere tali e diventavano proprietari esclusivi di beni determinati
(sia res mancipi che res nec mancipi). L'adiudicatio aveva carattere costitutivo. Lo stesso vale anche
per l'adiudicatio per il regolamento dei confini, che una volta stabiliti, diventano incontrovertibili.

3. La litis aestimatio: nel processo formulare la condanna era sempre espressa in denaro, poteva quindi
accadere che il possessore, una volta soccombente, anziché restituire subisse la condanna pecuniaria. Il
convenuto manteneva il possesso della cosa, se queste era res nec mancipi, ne diveniva anche il
proprietario ex iure Quiritium. Delle res mancipi, nelle stesse

La traditio era un negozio astratto. Sono cause:

- causa credendi: perché si intendeva dare a mutuo


→ Modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo.

condizioni, ne acquistava la proprietà pretoria → possesso (pro emptore) valido ai fini dell'usucapione.

USUCAPIONE

Trovava fondamento nelle XII Tavole e stabilivano che esso fosse di due anni per i fondi e di un anno
per le altre cose (res mancipi e res nec mancipi). L'usucapione escludeva i non cives e le res furtivae.
Fu un istituto del ius civile riservata quindi ai cives Romani e comportava l'acquisto del dominium ex
iure Quiritium. I requisiti dell'usucapione sono cinque:

- Res habilis: erano usucapibili solo le cose suscettibili dominium ex iure Quiritium, idonee cioè ad
essere usucapite → per essere usucapita una cosa deve essere usucapibile. Non possono essere
usucapite le res furtivae e le cose extracommercium. Questo criterio fu ribadito nella lex Antinia. Col
furto e con l'impossessamento violento si imprimeva alla cosa che ne era stata oggetto una sorta di
vizio oggettivo che l'avrebbe seguita presso qualsiasi possessore. Questa macchia sarebbe stata
cancellata, così che la cosa tornasse usucapibile, col ritorno della cosa in possesso del suo proprietario.
In caso di furto e di condanna del ladro, il dante causa potrà sempre essere portato in giudizio con
l'actio auctoritas (azione esperibile dal mancìpio accìpiens convenuto in giudizio da un terzo che

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rivendicava la proprietà della res alienata, contro il mancìpio dans: quest’ultimo era, infatti, tenuto a
prestare la garanzia auctòritas per evizione).

 Possessio: il possesso che conduceva all'usucapione era solo quello di chi teneva la cosa come
propria (uti dominus). Non potevano essere usucapite le res incorporales che non era suscettibili
di possesso. Doveva essere ininterrotto (si interrompeva per usurpatio).
 Tempus: Il termine per l'usucapione è di 2 anni per le cose immobili (fondi) e di 1 anno per le
cose mobili. Il possesso per dare luogo all'usucapione doveva essere continuo e quindi
ininterrotto. Si aveva interruzione (usurpatio) con la conseguenza che il tempus usucapionis
avrebbe dovuto essere computato da capo per intero. L'esercizio della rivendica non
interrompeva l'usucapione in corso. Non la interrompeva nemmeno la morte del possessore: con
il principio della successio possessionis, l'erede subentrava nel possesso del dante causa e nella
sua stessa posizione possessoria, cosicché l'usucapione iniziata dal defunto avrebbe potuto
essere portata a termine dall'erede. Se il possessore vende il bene ad un'acquirente prima di
averlo usucapito, questo può subentrare nel possesso del dante causa con il principio
dell'accessio possessionis.
 Fides: era l'elemento soggettivo. Per usucapire un bene è richiesta la buona fede soggettiva
(bona fides) cioè la convinzione del possessore che col proprio possesso non reca ad altri (che
abbiano una posizione sul bene più forte della sua: il proprietario) ingiusto pregiudizio. Il
possessore era inoltre convinto di essere egli stesso il dominus ex iure Quiritium. Era
considerato in buona fede anche il possessore di una res mancipi che ne avesse avuto trasmesso
il possesso dal dominus mediante traditio, e anche colui che fosse stato immesso ex secundo
decreto nel possesso del fondo del vicino a causa di danno temuto. La buona fede doveva
sussistere al momento dell'acquisto del possesso, una mala fede sopravvenuta non sarebbe stata
d'ostacolo.
 Titulus o iusta causa: era l'elemento oggettivo. Si parla di iusta causa possessionis, ovvero la
ragione oggettiva che stava a base dell'acquisto del possesso quale base per l'ulteriore acquisto
della proprietà una volta usucapita. Si tratta della causa per cui il ius civile considera idoneo per
l'acquisto della proprietà per usucapione. I titoli per l'usucapione erano molti e tutti indicati con
la preposizione pro. Poteva trattarsi di un negozio giuridico causale, di una mera causa
negoziale o di un provvedimento magistratuale o giudiziale. Ai fini dell'usucapione, il titolo
doveva essere effettivamente esistente e valido, non erroneamente ritenuto tale. Veniva fatta
eccezione per il titolo pro soluto.

• pro emptore: era il titolo più frequente che ricorreva quando il venditore, in adempimento
dell'obbligazione nascente a suo carico dall'emptio venditio, consegnava al compratore la cosa
venduta. Se oggetto della vendita era una res mancipi e il venditore ne faceva mancipatio o in
iure cessio, il compratore acquistava la proprietà quiritia. Al contrario nel caso di res mancipi
traditia (il venditore faceva traditio della res mancipi) o nel caso di alienazione a non domino
(l'alienante non ne era proprietario della cosa), il compratore acquistava il possesso pro
emptore.

 pro donato e pro dote: riguardavano la donazione e la datio dotis e pertanto anche la
mancipatio, la in iure cessio e la traditio compiute donationis causa o dotis causa. Se l'atto non

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era idoneo o se il donatore o il costituente non erano domini, il donatario o il marito
acquistavano la possessio pro donato o pro dote.
 pro legato: era il caso del legatario che prendeva possesso della cosa legatagli per
vindicationem dal testatore non dominus. Acquista quindi il possesso pro legato.
 pro soluto: si ha quando il debitore adempiendo ad un'obbligazione di dare rem nascente da
stipulatio o legato per damnationem, effettua l'atto di trasferimento: se questo non era idoneo al
passaggio della proprietà o se il debitore non era dominus, il creditore diventa possessore pro
soluto.
 pro derelicto: riguardava sia le res mancipi derelictae (delle quali l'occupante acquistava solo il
possesso pro derelicto) sia le res nec mancipi derelictae a non domino (delle quali l'occupante
acquistava immediatamente la proprietà civile).
 altre figure: il missus in possessionem possedeva cum iusta causa il fondo del vicino che avesse
ripetutamente rifiutato di prestare la cautio per il danno temuto, così come il bonorum emptor
possedeva i beni del debitore contro cui i creditori avessero proceduto in via esecutiva e il
bonorum possessor possedeva i beni ereditari.

L'usucapio pro herede

Per questa usucapio si prescindeva dalla iusta causa e dalla buona fede. Con l'usucapio pro herede la
persona che aveva preso possesso anche di una sola cosa ereditari, dopo un anno acquistava l'eredità
nel suo complesso e diveniva erede. L'usucapione si compiva anche se il possessore fosse stato
cosciente di non essere erede, quindi anche se in mala fede. Questa usucapio presupponeva che non vi
fossero eredi necessari e che nessun erede volontario avesse ancora posseduto l'eredità → eredità
giacente. Questo regime si andò modificando, nell'età preclassica la persona avrebbe usucapito le
singole cose e non l'hereditas. Con Adriano poi si concedette all'erede di "revocare" l'usucapio già
verificata in capo al possessore di mala fede: si diede all'erede l'hereditas petitio, come se l'usucapione
non vi fosse mai stata.

La perdita del dominium ex iure Quiritium La proprietà si perde in vari casi:

 -  la proprietà si perde con il perimento del bene oggetto di proprietà


 -  la proprietà di uno schiavo si perde quando questo acquista la libertà
 -  si perde la proprietà ogni qual volta si verifichi un passaggio di proprietà (l’alienante perde la
proprietà)
 -  il proprietario non possessore perde la proprietà quando il possessore l’acquista per
usucapione
 -  la proprietà sulle res nec mancipi viene meno con la derelictio
 -  si perde la proprietà anche a seguito di confisca e per effetto della emptio ab invito
(espropriazione per pubblica utilità)

LA REI VINDICATIO

È lo strumento giudiziario fondamentale a tutela del dominium ex iure Quiritium. È inoltre il prototipo
delle actionis in rem. Questa azione spettava al proprietario quiritario non possessore ed era rivolta al
possessore non proprietario, con lo scopo di far conseguire al proprietario il possesso del bene.

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Nell’ambito delle legis actionis era impiegata la legis actio sacramenti in rem, prevalse poi l’agere in
rem per sponsionem e poi ancora l’agere per formulam petitoriam. Parleremo d’ora in poi di rivendica
formulare. Alcune regole delle legis actiones rimangono invariate: veniva presa in considerazione solo
l’appartenenza della cosa all’attore. Il magistrato lasciava la cosa in possesso al convenuto (che la
possedeva anche prima del giudizio e in caso di soccombenza l’avrebbe restituita insieme ai frutti del
tempo del processo) e l’onere della prova ricadeva solo sull’attore. Il giudice si pronunciava
sull’appartenenza o meno della cosa all’attore.

La formula tipo dell’azione di rivendica era composta da iudicis nominatio, intentio, clausola
restitutoria ed infine la condemnatio [“Tizio sarà giudice, se risulta che la cosa appartiene a Caio ex
iure Quiritium ,e non verrà restituita, condannerai Sempronio in favore di Caio del denaro pari al valore
della cosa. Se non risulta, assolverai”].

Il giudice deve pertanto emanare una sentenza di condanna pecuniaria del convenuto a due condizioni:
una positiva espressa nell’intentio (che la cosa appartenesse all’attore ex iure Quiritium) ed una
negativa espressa nella clausola restitutoria (che la cosa, su invito del giudice, non venisse restituita
all’attore). Il giudice deve quindi verificare che l’attore sia il proprietario e in caso negativo il
convenuto veniva assolto, mentre in caso positivo il giudice invitava il convenuto a restituire e se lo
avesse fatto sarebbe stato assolto, altrimenti veniva condannato a pagare il valore della cosa stabilito
dall’attore con giuramento.

L’onere della prova: grava solo sull’attore. Veniva chiamata dai giuristi medievali “probatio diabolica”
perché si doveva dimostrare di aver acquistato in forza di un adeguato negozio traslativo di proprietà e
di aver acquistato dal proprietario, ma non solo, bisognava dimostrare che anche il dante causa avesse
acquistato dal proprietario e così via. Soccorreva l’usucapione, bastava che si dimostrasse di aver
posseduto la cosa in buona fede per il tempo necessario per usucapirla.

Le spese ed il ius retentionis: poteva succedere che il convenuto possessore (prima della lite) avesse
erogato sulla cosa delle spese che sarebbe stato equo gli venissero rimborsate. Gli venne quindi
concessa l’exceptio doli con cui il convenuto (che non avesse recuperato le spese) sarebbe stato assolto
e avrebbe così trattenuto la cosa. Per ciò gli venne concesso il ius retentionis. Venne concesso però ai
soli possessori in buona fede e solo per le spese necessarie ed utili. Le spese voluttuarie restavano a
carico del possessore al quale era concesso però lo ius tollendi, ovvero la possibilità di portare via gli
oggetti nei quali la spesa voluttuaria si era concretata a due condizioni però: che non si trattasse di cose
che per accessione erano state acquistate in proprietà al rivendicante, e che queste potessero essere
portate via senza danneggiare il bene rivendicato.

La legittimazione passiva: nella formula non era espresso alcun criterio per stabilire chi fosse
passivamente legittimato alla rei vindicatio. Il giudice avrebbe dovuto condannare il convenuto che non
avesse restituito a prescindere se fosse o meno nella condizione di poter restituire e quindi a
prescindere se fosse o meno possessore. Il non possessore convenuto avrebbe potuto rem non defendere
e sottrarsi all’azione. Era possibile però che accettasse di rem defendere

perché erroneamente convinto di possedere → principio secondo cui ad essere convenibile con la rei
vindicatio fosse solo il possessore ad interdicta (soggetto tutelabile con gli interdetti possessori, più
tardi invece era convenibile chiunque tenesse la cosa e ne avesse la facultas restituendi.

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In età classica si ammise che fosse da condannare in sede di rivendica il non possessore che, cosciente
di non possedere, avesse dolosamente accettato di rem defendere facendosi credere egli stesso
possessore per distrarre l’attore e provocargli conseguenze pregiudizievoli.

I frutti: l’oggetto dell’azione era definito nell’intentio, se in essa si faceva riferimento a una cosa
determinata, il convenuto avrebbe dovuto restituire quella cosa e niente altro. Era perciò che nella
rivendica formulare il convenuto non era obbligato a restituire i frutti percepiti prima della lite. I frutti
post litem invece dovevano essere consegnati insieme alla cosa in forza della XII Tavole. Lo stesso
obbligo derivava anche dall’interpretazione dei giuristi secondo cui il convenuto doveva restituire la
cosa cum causa rei, doveva cioè porre l’attore nelle condizioni di fatto e di diritto in cui si sarebbe
trovato se la cosa gli fosse stata restituita già al tempo della litis contestatio. Da qui deriva poi
l’ulteriore obbligo di restituire all’attore oltre ai frutti percepiti anche quelli percipiendi (che avrebbe
potuto percepire con un’amministrazione più adeguata della cosa).

La responsabilità del convenuto: esisteva il principio secondo cui la res si persegue presso colui che la
possedeva al tempo della litis contestatio e che si persegue com’era al tempo della litis contestatio →
effetto conservativo. La conseguenza era che il convenuto non rispondeva di nessun evento ante litem
contestatam: non era responsabile se la cosa era perita prima del giudizio, non era responsabile per
danni arrecati alla cosa ante litem contestatam (ne rispondeva in altra sede). Invece del perimento e del
danneggiamento e della perdita del possesso post litem contestatam il convenuto era responsabile (nella
stessa sede della rivendica). Per realizzare la restitutio egli avrebbe dovuto risarcire l’attore. Il
convenuto era però responsabile per eventi post litem contetatam solo se imputabili a sua colpa o dolo,
altrimenti se erano dipendenti da forza maggiore o da caso fortuito non ne rispondeva (si sarebbero
verificati ugualmente anche se la cosa fosse stata restituita tempestivamente).
Al convenuto che avesse usucapito dopo la litis contestatio si imponeva non solo di consegnare la cosa
all’attore, ma anche di compiere a suo favore un idoneo atto di trasferimento del dominio.

Litis aestimatio: il convenuto che, una volta rimasto soccombente, non avesse restituito la cosa
rivendicata, sarebbe stato condannato a pagarne il valore, stabilito dall’attore tramite giuramento.

Altre azioni o rimedi pretori in difesa della proprietà quiritaria

 Azioni negatorie: spettavano al dominus possessore, che era legittimato all’esercizio delle
azioni negatorie di servitù (actio negatoria servitutis) e di usufrutto (actio negatoria usus
fructus). Si concedevano contro gli autori di turbative corrispondenti all’esercizio arbitrario di
servitù e usufrutto. Si tratta di actio in personam.
 Actio acquae pluviae arcendae: trovava fondamento nelle XII Tavole. Veniva concessa al
proprietario di un fondo rustico contro il proprietario del fondo vicino nel quale fossero state
realizzate opere che avevano alterato lo scorrere naturale delle acque piovane con la
conseguenza che queste confluivano più copiose ed oltre misura nel fondo dell'attore. L'azione
era diretta a proteggere i proprietari dalla sovrabbondanza di acque. Il convenuto, se egli stesso
è l'autore dell'opera, avrebbe dovuto ripristinare la situazione. Se autore era un terzo l'onere
sarebbe stato più lieve, niente altro che "patientiam praestare" (convenuto deve consentire
all’attore di ripristinare lo stato dei luoghi antecedente alle opere pregiudizievoli). Quando il
convenuto non ottemperava, era al quanti ea res erit, nel corrispettivo cioè del pregiudizio
patrimoniale che ne era derivato all'attore. Si tratta di actio in personam, con clausola
restitutoria.

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L'AZIONE PUBLICIANA

Il possesso non era tutelato dal ius civile, infatti i possessori in buona fede e cum iusta causa, d'una res
usucapibile che ne avessero perso il possesso prima del compimento dei termini per l'usucapione,
quindi prima di acquistare la proprietà e la legittimazione attiva alla rivendica (rei vindicatio). Il pretore
creò così l'actio Publiciana. Questa azione era concessa ai soli cittadini romani. Era un'azione in rem,
con clausola restitutoria e con condanna al quanti ea res erit. Vi era passivamente legittimato il
possessore attuale. L'intentio era tale per cui il giudice era chiamato ad accertare se col decorso del
termine, l'attore sarebbe diventato per effetto dell'usucapione proprietario della cosa già posseduta. Era
pertanto un'azione fictio iuris → il giudice doveva giudicare come se il possessore spossessato fosse il
proprietario, ovvero fosse terminato il tempo dell'usucapione. La finzione riguardava solo il decorso del
termine, era compito del giudice verificare che la cosa fosse usucapibile e che l'attore l'avesse
posseduta cum iusta causa e in buona fede. In caso di conflitto tra proprietario civile e possessore ad
usucapionem, avrebbe prevalso il dominus. Infatti il possessore non opponendo alcuna valida exceptio
alla rivendica del dominus, non avrebbe potuto che soccombere. Inoltre lo stesso possessore, una volta
perduto il possesso del bene prima di ancora di aver usucapito, avrebbe avuto l'actio Publiciana contro
qualsiasi possessore attuale, tra cui anche il proprietario se fosse stato lui a possedere. Il proprietario
però avrebbe opposto l'exceptio iusti dominii e l'actio Publiciana sarebbe stata respinta. Nel caso
appena descritto però il possesso era stato trasmesso a non domino, ovvero da un terzo non
proprietario.

Nel caso invece di venditore di res mancipi che ne aveva fatto solo traditio, che prevalesse il venditore
non era equo. Viene concesso così al compratore, contro la rivendica del dominus alienante, l'exceptio
rei venditae ac traditae; e nel caso avesse esercitato l'azione Publiciana, di neutralizzare l'exceptio iusti
dominii con la replicatio doli.

In conclusione il possessore ad usucapionem con l'actio Publiciana godeva di tutela relativa contro i
terzi, ma cedeva contro il dominus ex iure Quiritium. Aveva invece tutela giuridica assoluta in caso di
res mancipi tradita.

Si inizia a parlare di duplex dominium → anche la situazione giuridica del possessore fu detta
dominium, ha quindi una posizione tutelata erga omnes (a carattere assoluto) e tutelato inoltre dal

iure pretorio. Alla proprietà si attribuì in sostanza lo stesso regime giuridico della proprietà quiritaria,
sia per quanto riguarda sia per quanto riguarda gli strumenti di tutela giudiziaria, sia per quanto
riguarda i contenuti.

(115)Diritti reali sulle cose altrui

Possono essere di due tipi: godimento e garanzia

Diritto di garanzia, cessione di bene come ostaggio da parte del debitore al creditore, il creditore in
questo modo ha una sorta di assicurazione da parte del debitore.

SERVITÙ
I romani ci hanno dato tanti spunti che hanno consentito al legislatore moderno di darne una
definizione logistica, il manuale si apre con la definizione presente nella costituzione (n1028), sulla
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servitù, questo articolo dice: la servitù è un peso che grava su un fondo per l’utilità di un altro fondo
appartenete a proprietario diverso.
Cos’è un peso? Va inteso come una figura, è una restrizione dei poteri del proprietario del fondo che è
funzionale alla utilità che un altro fondo viene ad aver grazi a questa restrizione del primo dei due
fondi.
Utilità di servizio: nelle epoche più antiche sia nei fondi rustici che nei fondi urbani i lotti non avevano
un confine congiunto, erano confini separati da uno spazio che aveva nomi diversi a seconda del tipo
dei fondi (Lines x rustici, ambitus x urbani).
Queste strisce di terreno erano proprietà pubblica, nei fondi rustici servivano per la viabilità
interpoderale ovvero servivano a fare in modo che ogni fondo avesse una viabilità libera dai fondi
vicini, ma nel corso dei secoli questi spazi vengono usurpati dai coltivatori senza che lo stato reagisca,
a questo punto i fondi al posto di esser limitati vengono a trovarsi con i confini attaccati (fu di arcifinii)
come si fa quindi a passare senza libertà interpoderale? Attraverso fondi intermedi ma senza il
consenso del proprietario non si può, vengono così a crearsi dei rapporti che permettono il l’assaggio
sui fondi dei proprietari.
Questo tipo di servitù era chiamata Servitù di passaggio, c’è ne sono almeno due distinte in base allo
spazio concesso dal proprietario del fondo, servitù di iter (passaggio a piedi) servitù di actus
(passaggio con mezzi es. carro o gregge).

Il peso dunque è funzionale all’ottimazione di un altro fondo;

Due tipi di fondi: fondo titolare= fondo dominante, fondo dove grava il peso= fondo servente
I fondi reali sono ambulatori, ciò significa che i fondi sono irrilevanti al fine della persistenza della
servitù, il diritto reale si conserva per quanti sono i diritti di proprietà.
Principio della doppia realità: un diritto reale che grava su un fondo servente.
I due proprietari dei fondi devono essere diversi, non si può creare una servitù su una cosa propria.
Unitarietà, indivisibilità della servitù: se sono più di uno i titolari del diritto di servitù la servitù non è
divisibile tra i vari titolari ma viene esercitata per intero da ognuno di loro. Questo è abbastanza
rilevante per la servitù di passaggio, potrebbe essere rilevante in tema di servitù di acquedotto.
Principio della utilitas: per analizzare se un diritto su cose altrui sia una servitù, bisogna vedere a
vantaggio di chi o cosa va questa utilità.
Un soggetto ha una fabbrica di laterizi sul suo fondo ma non ha una cava di argilla (per fare laterizi
serve argilla) la cava si trova però nel fondo confinante, quindi il titolare della fabbrica chiede al
titolare del fondo confinante di poter usufruire della cava per ricavarne tegole o anfore.
Per fare ciò bisogna vedere a vantaggio di chi viene esposta questa attività, se la coltivazione della cava
serve per la cava di contenitori che servono per la commercializzazione del prodotto agricolo del fondo
dominante, questa è una servitù perché l’attività di estrazione dell’argilla va ad utilità del fondo
dominante;
Nel caso in cui la produzione della manifattura di anfore sia finalizzata alla vendita sul mercato e non
per la commercializzazione dei prodotti del suo fondo, non potrebbe essere qualificata come servitù
perché non è finalizzata alla commercializzazione sul fondo, ma all’utilità oggettiva del fondo per
ottenere un reddito nei confronti del fondo dominante. Attività soggettiva del proprietario➡️usufrutto.

Come si costituivano le servitù?

Servitù prediali: sono solo servitù di passaggio (a piedi, con carro o gregge) e di acquedotto

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Altre servitù: servitù agrarie rustiche, servitù urbane. Queste due macro aree di servitù si costituivano
in due macro aree, quelle previali si costituivano con la mancipatio, mentre le altre servitù si
costituivano con in iure cessio.
Però c’erano altri modi, uno molto usato era quello del deductio o della ecteptio servitutis che
consistevano nel fatto che a lato della mancipatio con cui il mancipio accise acquistava il fondo
sottraeva dal complesso delle facoltà che gli venivano consegnate insieme al fondo una attività (diritto
di scavare o costruire un acquedotto) in questo modo dal complesso delle facoltà inerenti alla facoltà
che venivano consegnate sottraeva un’attività che conservava all’ acciaio dans.
Un altro modo che però crea problemi interpretativi era la pazienza, il proprietario di un fondo vedendo
un vicino che faceva attività sul suo fondo non reagiva, lo lasciava fare. Col passare del tempo si dice
che il proprietario del fondo il vicino accettava quella attività. Era un mezzo di prova, nel senso che è
un modo per provare in un eventuale processo che il proprietario aveva instaurato un rapporto di
servizio con il vicino.
Una servitù si può estinguere nel modo più totale con la distruzione del bene: fiume esonda e crea il
suo letto sul fondo, quindi la servitù si estingue
-Non uso: se nel tempo prescritto dal l’ordinamento (2 anni) la servitù non viene esercitata la servitù si
estingue. Problema: le servitù non si esercitano tutte allo stesso modo, alcune necessitano di singoli atti
di esercizio (servitù di accingimento: persone vanno a prender acqua su un pozzo in un fondo vicino,
per esercitarla bisogna avere i singoli atti di esercizio, il problema è stabilire il momento di inizio del
biennio, che parte dall’ultimo atto di esercizio il quale viene interrotto dall’atto di esercizio successivo.
Se non viene più esercitato l’atto, la servitù si estingue.)
Iter ad auriendum: servitù che si serve di un sentiero per esempio nel caso dello spostamento di acqua.
In questo caso parliamo di servitù di passaggio in quanto da un acquedotto attraverso il sentiero si
arriva all’acquedotto del fondo vicino.
Se perdo la servitù accessoria perdo anche la servitù principale e viceversa. Sono strettamente connesse
l’una all’altra.
Ci sono dei titolari di un acquedotto, la fonte dell’acquedotto cessa di funzionare per due anni, la
servitù si estingue, dopo i due anni la fonte funziona di nuovo. Cosa fanno i titolari? Chiedono di riaver
la servitù in quanto non avevano esercitato la servitù per un fatto indipendente dalla loro volontà (no
negligenza o colpa). Il ius civile predisponeva che se la servitù non veniva esercitata per due anni si
perdeva, ma non si parlava di diritti soggettivi, quindi questo fatto era esclusivamente retorico.
L’imperatore a questo punto dice che la richiesta non gli era sembrata iniqua, quindi pone la decisone
sul piano del ius (ciò che è giusto) ma la mette sul piano dell’equitas e quindi sulla giustizia sul piano
concerto, decide così restituire ai richiedenti l’esercizio della servitù e di restituirla dal momento in cui
l’acqua aveva cessato di arrivare: elemento fondamentale per vedere l’efficacia del procedimento➡️ ha
effetto retroattivo, è come se ai fini del l’efficacia della servitù, i due anni di cessamento della servitù a
causa della fonte non funzionante non fossero mai esistiti.

Servitù positive: astensione del proprietario del fondo servente


Servitù negative: imposto al proprietario del fondo servente di non fare qualcosa.
-usucapio libertatis: se c’è servitù per non costruire ma altro costruisce. Il proprietario del fondo
dominante rimane inerte sostenendo che altro proprietario non avrebbe potuto costruire. (?)

USUFRUTTO
Il diritto di usare una cosa altrui e di concepirne i frutti salva rerum substantia (senza mutarne la
destinazione economica).
Diritto di usare una cosa (che naturalmente deve essere altrui, non si può fare usufrutto su una cosa
propria): l’usufrutto toglie tutti i diritti al proprietario tranne appunto quello di appartenenza, proprietà,
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cioè la titolarità del diritto sul bene. Tutte le altre facoltà sono trasmette a chi fa usufrutto con una
limitazione, cioè che ne proprietario ne usufruttuario non possono mutare la substanzia della cosa,
ovvero non può cambiarne la ragione economica (se il fondo gravato di usufrutto gli viene trasmesso
con il campo di cereali, l’usufruttuario non può dire che il mercato dei cereali è crollato, così per
agevolare il suo mercato con un altro alimento ad esempio).
Perché esiste questa regola? L’usufrutto è un diritto temporaneo, cioè le parti possono costituire
l’usufrutto per un termine di tipo dieci anni, ma qua il temine è naturale. Inoltre è un diritto
personalissimo e non può essere passato in eredità, dura finché dura usufruttuario, al termine il fondo
va restituito al proprietario. Si considera restituito solo ciò che viene restituito nelle stesse condizioni in
cui viene consegnato.

L’usufrutto può migliorare il fondo? Solo per alcuni.

L’usufrutto nasce dalla prassi.

Le origini del l’usufrutto avevano fondamento dal matrimonio nel quale la moglie non entrava a far
parte della famiglia del marito, né spezzava i vincoli di agnatio con la famiglia di origine.

Diritti reali di garanzia

Indica un delitto che il creditore viene ad avere su un bene del debitore, questo delitto ha lo scopo di
costituire a favore del creditore un ostaggio del debitore il quale consegna una cosa con il quale se un
obbligazione viene adempiuta il creditore restituisce il bene, altrimenti si rifà su di esso.
Troveremo garanzie personali, persone che garantiscono sull’adempimento del debitore con il loro
patrimonio.

Nel periodo più antico non esisteva il pegno, ma non era un sistema vero e proprio di garanzia.
All’inizio era possibile costituire un diritto reale di garanzia: fiducia.
La fiducia era in realtà una causa per la quale due parti facevano la mancipatio (fiduciae causa) che
poteva aver due scopi: fiducia cum amico: soggetto trasferisce la proprietà di un suo bene a un altro
fiduciario perché questo lo conservasse o lo potesse usare e poi restituirla(contratti di deposito e
comodato odierni) oppure fiducia cum creditore: il fiduciario trasferiva un bene al fiduciane come
garanzia ed adempimento della sua garanzia.
La causa di questa mancipatio erano scopi limitati come per esempio la custodia di un bene del
fiduciante, o la possibilità del fiduciario di usare il bene del fiduciario. Anche in questo caso l’obiettivo
era quello di dare un bene in ostaggio che avrebbe restituito in caso di adempimento o che se la sarebbe
tenuta in caso contrario.
Tutto ciò veniva accompagnato da un pacto fiduciae: il contenuto era quello di obbligare il fiduciario a
restituire il bene al fiduciante nella fiducia come amico o quando il fiduciante chiedesse restituzione o
quando il fiduciando avesse finito di usare il bene o quando avesse adempito alla sua obbligazione (in
caso di creditore).
Se il bene non veniva restituito? Aveva conseguenza grave perché si fondava sulla fiducia, è se il
fiduciario non avesse compiuto la restituzione, avrebbe rotto la fides che per i romani era una cosa
drammatica era infamante e quindi una morte civile.
La fiducia veniva attuata nell’ambito delle res mancipi.
All’inizio del secondo terzo secolo a.C. Comincia una prassi per la quale anche per le res Mancipi si
comincia a non fare il trasferimento della proprietà. Comincia la prassi con il pegno con la quale si
trasferiva solo la disponibilità materiale del bene senza trasferire la proprietà che rimaneva al creditore.
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Vengono cancellate le problematiche in base alle quali il trasferimento della proprietà fiduciaria creava
dei disordini. La mancipatio fiduciaria ad esempio creava problemi grossi, per il quale si è iniziato a
non fare più la mancipatio per quanto riguardava il trasferimento.
Quando i pretori dovettero tutelare un bene su quelle era stato acceso pegno sul quale possesso veniva
aggredito da un terzo per prendersi un bene, a chi doveva essere dato l’interdetto a tutela del possesso?
Secondo i principi doveva essere concesso al debitore. Problema: chi è più interessato ad avere
l’interdetto del possesso? Il terzo soggetto, creditore pignoratizio, al quale vengono dati gli interdetti
possessori, non è possessore ma allo stesso tempo lo è.
Gli interdetti possessori sono dati al l’unico che ha i titoli per chiederli quindi il creditore pignoratizio.
Questo è un possesso anomalo.
Nel secondo secolo a.C avviene che nell’ambito di un contratto specifico, ovvero la locazione di fondi
rustici, il debitore accende garanzia su dei propri bene ma non li consegna al creditore pignoratizio,
garanzia nasce ma il bene rimane al creditore. Colui che riceve il bene si chiama conduttore, il quale
deve pagare una merces (canone). Il conduttore di un bene rustico non ha tantissimi beni, aveva
qualche schiavo e qualche attrezzo per lavorare, quindi in questo caso specifico siccome senza attrezzi
e braccia il conduttore non poteva lavorare, questo accendeva garanzia sui suoi beni ma non
consegnava al creditore così per lavorare e poterli usare. Questa locazione nasce su beni mobili e la
causa di questa strana nascita sta propio nella specificità del contratto sulla quale è nata questa pratica.
Si crea una seconda forma di pegno cioè una prassi con la quale il debitore accende garanzia sui suoi
beni ma non li consegna al creditore (conventio pignoris) presto viene estesa ai contratti di locazione di
fondi urbani, che vedevano come beni ad esempio i mobili, ma anche gli schiavi.
È possibile la situazione che il creditore si impossessasse del bene su cui era stata fatta la garanzia, così
veniva creato l’interdetto salviamo, che impediva al creditore di fare atti di violenza contro il creditore
pignoratizio il quale per impedirgli di impossessarsi sul bene su cui era stata fatta la garanzia per
evitare che il creditore entrasse nella casa per prendersi i beni.
Se il creditore dopo l’adempimento voleva comunque impossessarsi del bene pignorato
Il creditore non aveva adempiuto e voleva impossessarsi un bene diverso da quello pignorato e il
creditore faceva atti di violenza, Il pretore a questo punto faceva la demigrando che violava al creditore
pignoratizio di fare atti di violenza per impedire al debitore di prendersi delle sue cose e portarsele via
dal fondo.
Contro chi venivano espediti gli interdetti? Interdetto era dato solo contro il debitore, l’interdetto
demigrando era dato solo contro il creditore pignoratizio.
Il debitore avrebbe potuto accendere garanzia su un bene in favore con persone diverse. Il problema era
vedere quali erano i rapporti tra i creditori e il bene della garanzia, quindi chi avrebbe avuto diritto di
avere il bene per primo? L’ordine gerarchico non era tra chi avesse il credito più vecchio ma tra chi
aveva il pegno più vecchio non bisognava verificare chi avesse concluso il contratto dell’obbligazione
primo, ma bisognava vedere chi avesse acceso garanzia sul bene per primo.
Il creditore pignoratizio che avesse il bene è obbligato a restituire il bene in caso di datio pignoris.
L’ex commissoria possibilità di tenersi il bene con titolo di proprietà
Ius vendendi, diritto del creditore pignoratizio di vendere il bene che gli era stato concesso e restituire
solo parte di esso.
Questa viene successivamente vietata da una regola di Costantino.

IL POSSESSO

È un esercizio di fatto di un diritto, nel diritto romano era una cosa diversa, era un dominio di fatto su
una cosa cioè un rapporto tra l’uomo e la cosa contenutisticamente identico alla proprietà ma che non
poteva essere qualificato dominiamo per svariate ragioni, o perché si era acquisito su un bene sul quale
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non si poteva avere una proprietà. Questa forma di possesso ha anche un nome diverso dal possesso da
usucapionem, ma parliamo di possesso di un bene su cui non si potrà mai diventare proprietari.
La nozione romana si riferisce ad una signoria di fatto su una cosa che all’inizio si poteva avere solo su
porzioni di agere publicus.
Era una signoria concessa dallo stato dietro pagamento di vectiga (tasse), dimostrava di non essere il
proprietario pagandone l’imposta.
All’inizio la possessio era essenzialmente di agere publicus. Col passare del tempo si verificano due
fenomeni paralleli, la possessio viene usurpata dai privati, i quali vendono i fondi, li danno in eredità
ecc.. e lo stato non reagisce, poiché sono propio i governanti a fare gli atti di usurpazione.
La possessio si estende anche sulla proprietà perché comincia a non esserci la distinzione tra possesso e
proprietà. I giuristi iniziano a parlare di possesso sia per le cose che non potranno mai diventare di
proprietà, ma anche delle cose che potranno diventare possesso di qualcuno, come usucapione. Non
viene più fatta distinzione tra beni su cui non si può diventare proprietari e quelli invece sui quali può
esserci la proprietà. Per i giuristi il possesso è l’uso di un bene come se fosse sua.
Per definire proprietà su una cosa, questa deve essere utilizzata o conservata presso di se (elemento
essenziale non sufficiente).

POSSESSORI E DETENTORI: entrambi hanno la cosa presso di se ma il possessore la tiene come se


la cosa posse propria e la usa come se fosse il proprietario, il detentore usa la cosa ma sa che la deve
restituire e quindi non ha il possesso perché non usa la cosa come fosse propria. L’usufruttuario non ha
il possesso del bene ha soltanto la detenzione.

Problema: già dall’età repubblicana i primi giuristi si trovarono di fronte ad alcune difficoltà rispetto a
situazioni specifiche soprattutto a riguardo della pace sociale: Pascoli di alta quota che si potevano
usare solo d’estate, quando le greggi lasciavano i pascoli, avrebbe significato perdere il possesso di
quei Pascoli. Il problema ingiungeva quando erano Pascoli pubblici e non privati.
In caso dei Pascoli di alta quota si possedeva con il solo animus, il pascolo dunque non doveva essere
tenuto tutto l’anno in uso.

La stessa cosa avviene per lo schiavo, se lo schiavo scappa ma viene catturato da un altro che lo usa
come schiavo, lo schiavo a questo punto di chi è? Anche se lo schiavo e stato catturato da un altro ed è
fuggito dalla custodia del padrone e viene catturato da un altro padrone, lo schiavo resta comunque di
proprietà del primo. Il padrone non perde ne la proprietà ne il possesso pur avendo perso il “bene”.
Questi sono due eccezioni casi limite.

LA TUTELA DEL POSSESSO

Siccome il possesso non era un delitto non era tutelato dal ius civile, ognuno poteva difendere la sua
cosa anche con la violenza. Presto però interviene il pretore proponendo degli strumenti di difesa sotto
forma di interdetti (ordini preventori che il pretore emanava per singole azioni).
Tre categorie di interdetti possessori:
1. interdetti adipiscendae possessionis (interdetti volti all’acquisto del possesso);

2. interdetti retinende possessionem: finalizzati a far si che chi chiedesse l’interdetto


conservasse il possesso, erano interdetti proibitori ed erano di due tipi: uti possidentis e utrubi,
si chiamavano così perché impedivano di attuare atti violenti per togliere il possesso del bene al
possessore attuale che l’ero nei confronti del destinatario del l’interdetto non avesse iniziato a
possedere con violenza, clandestinamente o per concessione precaria. Era un interdetto doppio
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 anche se era richiesto da una parte nei confronti dell’altra era indirizzato ad entrambi.
Veniva dato al possessore attuale a condizione che nei confronti del soggetto che stava
compiendo l’atto di violenza e contro il quale si chiedeva l’interdetto, il possessore attuale non
avesse iniziato a possedere con violenza, clandestinamente o per concessione precaria. Valeva
solo per beni immobili.
Es. tizio possiede un bene immobile, un soggetto estraneo come atto di turbativa violenza per
spossessare il possessore. Il possessore a questo punto chiede l’interdetto  il pretore compie
una indagine e l’interdetto veniva dato.
Es. soggetto al quale viene dato immobile in condizione precaria da qualcuno che poi lo
richiede, ma non gli viene restituito, il proprietario quindi cerca di spodestarlo dal bene per
riprendersi l’immobile, il pretore in questo caso non avrebbe dato l’interdetto.

3. interdetti recuperand possessionis: per recupero del possesso perduto, quindi siccome
avevano funzione di recupero erano interdetti restitutori. Erano di due tipi: unde vii è interdetto
di via armata

Obbligazioni: è un vincolo giuridico che lega sue soggetti, debitore (sogg passivo che per scogliere il
vincolo che lo lega al creditore deve solvere qualche cosa) e creditore (sogg attivo), in base al quale
siamo costretti adsolvere qualche cosa secondo l’ordinamento, secondo le norme, della nostra civitas.
Utilizzando per estensione analogica il verbo utilizzato per lo scioglimento di un nodo, il linguaggio
giuridico usa il verbo per sciogliere il vincolo obbligatorio. Il debitore quindi usa il verbo per soglie e
questo vincolo obbligatorio = compimento prestazione.
Non tutti i vincoli giuridici hanno il titolo di chiamarsi obligatio ma solo quelli riconosciuti dal ius
civile quindi questo crea una divisione tra due complessi di rapporti obbligatori: obligatio in senso
tecnico che il solo vincolo riconosciuto dallo ius civile, tutti gli altri vincoli proposti dal pretore dal
punto di vista logico e formale non possono chiamarsi vincoli. Questa distinzione si basa sulla struttura
della obbligazione.
Se il vincolo era civile veniva usato il verbo oporte (necessario bisogna) indica un dovere che il
debitore doveva assicurare l’adempimento senza possibilità di opporsi.
I vincoli pretori i giuristi li catalogavano come ationis teneri, possibilità di essere chiamati in giudizio
in caso di inadempimento.

Problemi sull’inadempimento: se non avveniva l’adempimento il debitore era sempre responsabile,


L’inadempimento poteva avvenire per situazioni varie. In genere l’inadempimento genera
responsabilità, però non sempre quando c’è inadempimento c’è responsabilità bisogna vedere le singole
situazioni.
La qualificazione dell’inadempimento ha due fondamenti:

Dolo: diverso dal dolo negoziale (vizio del consenso), qua il dolo è una cosa diversa, è un
atteggiamento mentale, e la volontà di arrivare ad un risultato negativo per l’altra parte mediante una
condotta esplicitamente mirata a quello scopo, e una condotta specificatamente mirata a provocare un
danno alla controparte. Es. io ho avuto in deposito una cosa dal deponente, il quando il deponente me la
chiede indietro non glie la do= inadempimento doloso, perché col mio comportamento voglio
provocare un danno contrattuale alla persona. Noi abbiamo anche un danno extra contrattuale, che si
provoca tramite delictum: furto
Colpa:

COSA È UN CONTRATTO
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Nel diritto romano c’è una storia della nozione di contratto, il significato è quello di accordo volto a
creare una obbligazione.
Il contratto romano era idoneo solamente a creare un’obbligazione mentre quello moderno può sia
creare che estinguere qualsiasi accordo giuridico purché abbia natura patrimoniale: es paternità non si
può estinguere tramite contratto ma la proprietà si, perché ha natura patrimoniale.

Negli ordinamenti moderni esiste il contratto con effetti reali, che sono quelli con i quali si
trasferiscono o si creano i diritti reali, per esempio una servitù, ma nel diritto romano un contratto non
può costituire un diritto reale, perché devono esistere dei negozi specifici.

Esiste un’altra differenza tra diritto romano è positivo, per quando riguarda il sistema contrattuale nel
suo insieme. Oggi il sistema dei contratti è aperto, ciò significa che l’obbligazione può nascere non solo
dai contratti disciplinati del codice, ma anche da qualsiasi altro accordo tra le parti purché non sia
contrario alla legge o ai buoni mores (sistema aperto).

Il sistema contrattuale romano invece era un sistema chiuso, tipico (se le parti volevano concludere
certe situazioni tra di loro, dovevano necessariamente utilizzare schemi precostituiti dal diritto civile:
es. volete trasferire un oggetto con corrispettivo valore in denaro, c’è la compravendita... ecc) significa
che se le parti avessero avuto delle controversie tra loro avrebbero potuto utilizzare delle figure
preselezionate per quello specifico caso.
Questi eventuali accorti che le parti avessero preso al di fuori dalle figure tipiche non riconosciute dallo
ius civile sarebbero state valide, ma se nasceva una controversia queste non erano tutelate con azioni.

Tutela processuale accordi atipici: contratti innominati, era una breccia nel sistema tipico dei contratti
perché consentiva alle parti di regolare il loro assetto di interessi in forme diverse, con il problema però
di come tutelare giudiziariamente l’interesse delle parti in caso di controversia. Quindi questi sono una
prima breccia nella chiusura del sistema impermeabile romano.

C’è un’altra breccia che si apre, la stipulatio: su quale fondamento i contratti romani sono tipici? sono
tipici sul piano della causa, ogni contratto ha una causa a se, tipica, quindi, ad es. la compravendita ha
una sola causa. Tutti i contratti hanno una causa tipica hanno una causa tipica tranne la stipulatio. La
stipulatio e tipica per la forma, perché si poteva fare solo in un modo. Cioè domanda è congrua
risposta, se la stipulatio era fatta con questa forma qualsiasi causa poteva essere riversata con la
stipulatio purché creassero un’obbligazione.

Categorie di contratti:

• Distinzione tra contratti unilaterali e bilaterali: il contratto è sempre un negozio almeno bilaterale
(due parti, creditore, debitore) quando si parla di contratto si parla sempre di un negozio bilaterale.
Quante parti obbliga il contratto? se obbliga solo una parte, il contratto (che è un negozio
bilaterale) è unilaterale, perché obbliga solo una delle due parti (stipulatio e mutuo). Se si
obbligano entrambi le parti, il contratto (che è un negozio bilaterale) è anche un contratto
bilaterale, perché entrambe la parti si obbligano.
• Ci sono contratti dalla bilateralità particolare, perché la bilateralità è ancora più pronunciata perché
l'obbligazione si una parte è funzionale all’obbligazione dell’altra. Significa che sono uno
obbligato rispetto all’altro da un Unione che non è solo bilaterale ma di più. (Es. compravendita)
questi contratti si chiamano oggi contratti sinallagmatici.

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• Ci sono alcuni contratti in cui l'obbligazione sorge sempre a carico del debitore, ma può sorgere re,
in alcune circostanze anche a carico del creditore: es. mandato, deposito, comodato. Questi
contratti si chiamano contratti bilaterali imperfetti.

Gaio: per contratto ci si può obbligare in quattro modi: re, verbis, litteri, consensu.
Esistono quindi contratti reali, verbali, letterali e consensuali.
Come si fa a capire a quale categoria appartiene un contratto? Per capire a quale categoria contratti
bisogna saper rispondere a quale momento sorge l’obbligazione tipica di quel contratto. Ci sono
momenti diversi. In alcuni contratti l’obbligazione sorge quando le parti si accordano tra di loro, ci
sono contratti nei quali l’accordo è necessario ma non è sufficiente a creare l’effetto obbligatorio che
sorge solo con il trasferimento di una cosa, quindi questi sono contratti reali. Il mutuo quindi non è
consensuale ma è reale.

Contratti reali:
Mutuo: è il più importante, (pecunia numerata) il mutuo è un contratto reale, con il quale una parte
detta mutuante trasferisce la proprietà di denaro o di altre cose fungibili al mutuatario, il quale si
obbliga a restituirne l’equivalente. Perché il mutuante trasferisce denaro? Perché il mutuatario lo usi,
quindi la causa è il prestito di uso, attenzione perché l’oggetto del contratto di uso sono sempre le cose
(fungibili, vengono in essere in numero peso o misura). Il mutuatario nell’estate quello che gli viene
dato in prestito lo consuma perché è connaturato nelle cose fungibili di essere anche consumabili,
quindi il denaro viene speso, il grano viene trasformato in pane ecc, ma il mutuatario non può restituire
le stesse cose che ha avuto. Da questo capiamo che il mutuo, siccome le cose si consumano, è un
prestito di consumo. Il fatto che questo prestito sia di consumo ci spiega due cose:
• Perché le cose che vengono prestate il mutuatario le riceve in proprietà altrimenti consumandole
commetterebbe un furto.
• Obbligazione che nasce a carico del mutuatario: restituire l’equivalente, cioè la stessa quantità in
genere o in numero. Il mutuatario non dov’era restituire gli interessi: il mutuo nel diritto romano
era un contratto gratuito e non oneroso: il contratto è oneroso quando alla perdita patrimoniale di
una parte corrisponde una partita patrimoniale dell’altra parte o è una prestazione di una parte
corrisponde un corrispettivo, nel mutuo invece c’è solo una parte che subisce una perdita
patrimoniale, il mutuante.
I romani calcolavano gli interessi a parte con un altro contratto: gli interessi venivano riversati in una
stipulatio, che era un contratto astratto perché la causa non doveva esse esplicitata nel contratto, restava
implicita quindi le parti concludevano un contratto con cui il promittente prometteva di restituire un
importo al creditore.
La struttura del mutuo era particolare perché le parti separatamente dal mutuo concludevano un
contratto che aveva come scopo le usure, gli interessi.

Se i beni venivano persi prima dell’uso? Res perit domino: se per caso la quantità di beni che aveva
ricevuto in prestito il mutuatario fosse andata perduta prima del suo uso, lui sarebbe rimasto obbligato
alla restituzione perché era diventato proprietario di quei beni e quindi non poteva sentirsi liberato dalla
sua obbligazione. Il mutuo che veniva concluso tra creditore e debitore in caso di navigazione si
chiamava fenus nauticum: era un finanziamento, un mutuo, che aveva caratteristiche peculiari perché le
attrezzature navali dell’epoca erano pericolosissime, così come la navigazione.

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DEPOSITO: contratto reale imperfettamente bilaterale con il quale il deponente trasferisce una cosa
(materialmente) al depositario così costui la costudisca e la restituisca a richiesta; è dunque un contratto
reale perché un’obbligazione tipica sorge quando la cosa passa dal deponente al depositario;
La causa del contratto sta nella custodia della cosa mentre l’obbligazione sta nel restituire la cosa.
Quando sorge per il depositario l’adempimento dell’obbligazione? A semplice richiesta il deponente va
dal depositario e chiede di restituire la cosa, quello è il momento in cui il depositario deve adempiere la
sua obbligazione.
Questo contratto è gratuito, cioè per sua definizione il deposito romano non prevede un compenso per il
depositario, deve essere gratuito altrimenti non è più deposito è qualcosa di diverso.
Come nasce e perché il deposito?
Per molto tempo, il deposito non ha avuto una connotazione contrattuale, il prestito non veniva
effettuato con contratto, ma c’era un trasferimento di proprietà però fiduciario, la stessa cosa avveniva
quando veniva chiesta una cosa per farla o allo scopo di consegnare al creditore una cosa in garanzia. Il
fiduciario non restituendo al sfiduciante violava il vincolo fides che era oltretutto infamante.
Il pretore verso l’inizio del I secolo a.c dare una sanzione così infamante alla persona che aveva la cosa
in custodia, era troppo grave, quindi introduce due azioni di deposito per due situazioni distinte:
1. Per il deposito normale che non avesse come fonte una particolare circostanza di urgenza: in
questo caso l’azione sarebbe stata data contro al depositario; ma in alcuni casi specifici nelle
quali il deponente dava custodia in caso di esigenze eccezionali (naufragio, incendio, crollo,
ecc.). La mancata restituzione avrebbe comportato una mancanza di azione in durum; anche
quando il pretore creava l’astio deposito, il fine era sempre quello di imporre una pena perché
c’era sempre infamia, diventa contrattuale ma è sempre penale.
2. Nell’actio depositi infactum manca una clausola che lo facesse scegliere se restituire la cosa ed
essere assolto o tenersi la cosa ed essere condannato  il depositario dovrebbe pagare una
somma di denaro, per la restituzione della cosa avrebbe dovuto utilizzare l’azione di rivendica
per esempio o usare la condictio, ma non avrebbe potuto utilizzare l’actio deposito.
3. Il deposito è sempre a carico del depositario ma in alcuni casi potrebbero esserci obbligazioni
del debitore: chiede prima della restituzione il rimborso o il risarcimento.
Caso tipico di dolo generale: il creditore chiede l’azione perché concessa dallo ius civile ma allo stesso
tempo la richiesta è iniqua perché il rifiuto di restituzione del debitore non è perché questo vuole
tenersi la cosa ma perché aspetta il risarcimento.

Nei contratti imperfettamente bilaterali c’è un’azione diretta tra creditore e debitore ossia l’actio
depositi ma anche un’azione contraria da parte debitore che diventa lui che ha l’iniziativa contro il
creditore, quindi il depositario quando il deponente non vuole pagare le spese lo chiama in giudizio con
l’actio depositi contraria. Le due azioni sono identiche cambiano solo l’identificazione dell’attore e del
convenuto. C’è però una differenza nelle conseguenze delle azioni perché la dichiarazione d’infamia
nel caso di azione contraria non ci sarebbe stata cioè l’infamia era solo a carico del depositario.
Con l’azione in factum il deponente non può aspirare a riottenere la cosa ed ecco la ragione per la quale
verso il I secolo d.C. viene creata un’azione in ius con la clausola ex fide bona (azione di buona fede).
Perché quest’azione viene creata e perché non sostituisce l’azione in factum ma le si affianca? Perché
l’azione in ius non viene a sostituire l’azione in factum se affianca ad essa, a questo punto il deposito
dovrebbe avere due azioni in factum, quella diretta e quella contraria e una azione in ius ex fides bona.
Nei giudizi di buona fede il giudice doveva controllare l’intera situazione che si era venuta a creare
quindi non solo l’esistenza del vincolo ma anche come si era fondato. Nel giudizio di buona fede il
giudice aveva un potere molto più ampio dei giudizi selettivi.
Qual’era la conseguenza?

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Prima di tutto il giudice non avrebbe dovuto necessariamente condannare, far pagare la somma di
denaro ma avrebbe dovuto condannare a tutto quello che in base alla buona fede il convenuto deve dare
o fare.
Nei giudizi di buona fede se il depositario, convenuto avesse avuto delle pretese nei confronti del
deponente, attore (es. avesse avuto diritto di deposito delle spese) il giudice avrebbe potuto compensare
rispettivi crediti e debiti, quindi avrebbe potuto condannare il convenuto a pagare una somma di denaro
pari alla differenza fra quello che doveva avere il creditore e quello che doveva avere il convenuto. Nei
giudizi di buona fede questo non era sempre possibile.

COMODATO: sostanzialmente il comodato segue un percorso storico parallelo a quello del deposito,
solo successivo di qualche decennio. Il comodato non ha una tutela di attenzione autonoma ma viene
tutelato dal furto, dall’azione di furto. Ci sono piu fonti che ci raccontano di un episodio che è molto
indicativo dove viene considerato il prestito d’uso.
Episodio:
un tizio prende in prestito un cavallo per andare da Roma ad Ariccia ma non si ferma li ma prosegue su
una collina. Questo tizio fu condannato per furto per aver usato il bene non modo congruente con
quanto era stato concordato tra le parti creava dei problemi con responsabilità penale. In questo caso il
furto era un’azione infame. Evidentemente il pretore aveva nei confronti del prestito d’uso una
responsabilità penale per una irregolarità di una cosa di uso altrui era esagerata, così crea un’azione in
factum: come anche per il deposito quando queste azioni sono tutelate solo da azioni pretorie non sono
contratti, solo gli accordi che creano vincoli civilisti hanno titolo di chiamarsi contratti. Non sono
contratti perché non fanno fanne parte dello ius civile. Se andiamo a vedere regole e contratti reali nelle
istituzioni civili di Gaio infatti, troviamo solo il mutuo, mentre nelle res quotidiane troviamo nei
contratti reali anche il comodato, il deposito e il pegno. Quando il pretore crea solo azioni in factum il
deposito e il comodato non sono ancora contractus e non vengono tutelati dallo ius civile, diventano tali
quando la giurisprudenza concorde crea le azioni in ius ex fidae bona. Il rapporto tra creditore e
debitore è un rapporto civile quindi questo vincolo si chiama contratto.

Il comodato è un contratto reale imperfettamente bilaterali con il quale il soggetto, comodante


trasferisce al comodatario una cosa affinchè la usi e la restituisca al termine dell’uso. (contratto reale)
L’obbligazione del comodatario non nasce soltanto quando le parti si mettono d’accordo ma quando la
cosa viene ufficialmente trasferita al comodatario. E’ anche questo sottoposto alla regola del deposito
cioè il comodatario deve essere rimborsato dalle spese che ha sostenuto (tutte le volte che i romani
discutono di spese in qualsiasi circostanza, i giuristi romani distinguono tre categorie di spese
necessarie, quelle utili e quelle superflue senza le quali il bene perisce.
Spese utili: servono a migliorare la condizione del bene ma non sono indispensabili.
Spese superflue: quelle per abbellimento che se le fai o no non sono dispensabili.
In questo caso c’erano due azioni in factum, quella diretta che era quella ordinaria, quella del creditore
contro il debitore nel caso di mancato adempimento dell’obbligazione, ma c’era anche un’azione
contraria cioè l’azione che era a disposta a favore del comodatario qualora il comodante non avesse
adempiuto alla sua obbligazione di rimborsare le spese. Anche in questo caso il pretore o giuristi
creano a fianco all’actio comodatio infactum creano actio comodati in ex fidae bona, l’azione di buona
fede non sostituisce l’azione in factum, le si affianca e come per il deposito finiamo ad avere tre azioni:
infactum diretta, infactum contraria, actio ius ex fidae bona.
Normalmente non contratto, nel concluderlo le parti si mettono d’accordo sull’uso perché in primo
luogo il bene dato in prestito deve essere usato secondo sua natura però le parti possono concordare una
limitazione dell’uso. (Es. prestito del cavallo usato per mezzo di locomozione e che invece il
comodatario porta in guerra. Il cavallo torna salvo, quindi in teoria il comodante non ha ricevuto nessun
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danno invece il comodatario è responsabile perché ha usato il bene in modo difforme. Da cio si puo
capire una cosa che il criterio con cui si forma le responsabilità del comodatario è estremamente
rigorosa, è una forma di responsabilità che non libera il comodatario da nessuna causa di
inadempimento tranne per forza maggiore e pirati. L’evento di forza maggiore che avrebbe permesso al
debitore di scorrere la propria responsabilità è avvenuto in contesto di uso del bene e allora anche se in
linea teoria la forza subita dal comodatario ha escluso la sua responsabilità in questo caso è
responsabile. Questo fatto della responsabilità deriva da prinicipio di utilitas contraentium principio che
vuole rispondere alla domanda: a favore di chi è concluso il contratto? Ci sono contratti che per la
compravendita sono a vantaggio di debitore e compratore, per alcuni casi è a vantaggio solo del
creditore per altri solo del debitore. Talvolta nel comodato ci potrebbe essere un interesse del
comodante per esempio il comodatario chiede un oggetto in prestito per esibirlo in una cena ma al
comodante interessa di far sapere che è suo in modo che anche lui sia coinvolto nell’apprezzamento
degli ospiti.

COMPRAVENDITA:
Si tratta di contratti consensuali: la compravendita è un contratto consensuale perché il consenso serve
a creare l’effetto tipico del contratto.
La compravendita è un contratto consensuale con il quale una parte detta venditore obbliga a trasferire
il pacifico godimento della cosa al compratore il quale a qua volta si obbliga a trasferire al venditore la
proprietà del prezzo. Nella struttura del contratto la merce e il prezzo costituiscono soltanto l’oggetto di
obbligazioni, cioè con il contratto ne il venditore trasferisce la cosa ne il compratore trasferisce il
prezzo entrambi si obbliga, questi trasferimenti sono l’adempimento delle obbligazioni del compratore
e del venditore, l’oggetto del contratto sono le obbligazioni. I trasferimenti vengono attraverso due
negozi appositi diversi dal contatto. La compravendita poteva avere solo ad oggetto obbligazioni. Atto
composito. Contratto che crea obbligazioni, negozi che creano l’adempimento alle obbligazioni.
Anche se il compratore non aveva pagato il bene, il venditore non poteva non trasferire il bene perchè
non aveva pagato ma era obbligato a farlo. (Nella compravendita greca era in uso la caparra
confirmatoria che prevedeva di dare appunto una caparra quando il bene veniva acquistato, in età
romana questo non succedeva più).
Obbligazione del compratore: il prezzo come doveva essere commisurato? Si crea una controversia tra
saviniani (dicevano che il corrispettivo poteva essere una somma di denaro ma anche un’altra cosa
perchè la causa rimaneva uguale) e procuriani (affermavano che si poteva parlare di compravendita
solo se il corrispettivo pagato fosse espresso in denaro, se espresso in altre cose non sarebbe più stata
una compravendita). Secondo Giustiniano prevalsero i proculiani poiché secondo lui l’obbligazione del
compratore doveva essere per forza il trasferimento di una somma di denaro.

Quale era l’obbligazione del compratore?


La causa del contratto è il trasferimento del godimento di una merce dietro il corrispettivo di un prezzo,
la cosa è presente però la prassi era abbastanza abituaria a fare anche contratti di compravendita di cose
future, però può avere due aspetti diversi:
a. Aspetto di una vendita sottoposta a condizione: acquirente si impegna a pagare un
prezzo per una cosa che in futuro verrà presa dal venditore  emptio rei sperate
(vendita di una cosa che si spera in futuro ci sia) la struttura di questa vendita è una
vendita sottoposta a condizione, se la cosa messa a condizione no viene in essere la
vendita è nulla
b. Emptio spei: vendita di una speranza  compratore paga un prezzo per un carico di
pesce qualunque esso sia (indifferentemente se fossero stati pescati 1, 20, 100 pesci) in
questo caso la vendita ha effetto anche se il risultato della speranza fosse nullo; in
[Data]
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questo caso bisogna vedere la comune intenzione le parti. L’obbligazione unica del
compratore è pagare il prezzo (vedi sabiniani e proculiani)  il prezzo da pagare deve
essere per forza denaro o un’altra cosa? permuta è una specie della compravendita o
una cosa assestante? Se il corrispettivo di una cosa può essere considerato il prezzo
sarebbe stata specie della compravendita, ma se per prezzo si intenderebbe denaro, la
permuta sarebbe stata esclusa dalla compravendita. I giuristi sabiniani affermarono che
il corrispettivo in una res fosse una forma di prezzo quindi erano dell’idea che l permuta
fosse una specie della compravendita e che quindi il corrispettivo poteva consistere non
in denaro ma in un’altra cosa. I sabiniani giunsero a questa conclusione guardando la
causa della compravendita e della permuta e si accorsero che le cause erano le stesse
(scambio dietro corrispettivo) quindi in ogni caso sia che il corrispettivo fosse in denaro
o in una res saremmo rimasti in ambiente di compravendita. Sabino  la fonte che lo
faceva essere sicuro che la permuta facesse parte della compravendita era la
testimonianza di Omero: amico alleato di Agamennone e Menelao manda una
consistente partita di vino ai due re i quali o usano in un banchetto ma che avanza, lo
offrono alla truppa, omero a questo punto dice che i greci se lo procurarono attraverso la
permuta. I proculiani affermavano che la permuta non fosse una specie della
compravendita perché nella compravendita si sa chi è il compratore e chi è il venditore,
le due prestazioni in oggetto sono diverse, il compratore trasferisce il denaro e il
venditore trasferisce la cosa: si sa quale delle due parti può utilizzare l’azione del
compratore e chi quella del venditore, mentre nella permuta non c’è questa distinzione,
ma un altro sabino aveva proposto una soluzione semplice a questo problema dei
preculiani  il venditore per quello che metteva per primo sul mercato la cosa (non fu
accettata). Almeno secondo Giustiniano prevale l’opinione dei proculiani quindi la
permuta viene esclusa dalla compravendita. Il ius civile non conosce la causa dello
scambio e quindi non la tutela, la permuta quindi diventa una convenziona atipica che in
età giustinianea verrà chiamato contratto innominato.

Obbligazioni del venditore:

1. Assicurare al compratore il pacifico godimento della cosa, quindi il possesso,


l’obbligazione del venditore è quello di trasferire il possesso, sembra strano ma siccome
siamo nell’ambiente delle relazioni commerciali tra cives e stranieri era necessario
trasferire la proprietà e non il possesso.(?)
2. Prestare la garanzia per la dedizione: nel corso del tempo diventa un elemento naurale
del contratto. (Per fare la mancipatio bisognava fare una lunga serie di cose, era quindi
più semplice completare la vendita con la traditio della cosa così di che il compratore
avrebbe preso il possesso tramite l’usucapione. Se l’acquirente prima dell’usucapione
avesse venduto il bene ci sarebbero stati dei problemi. Quando vendita e mancipatio si
differenziano (4 sec a.C) il venditore non fa più l’auctoritas perché a mancipatio non è
più negozio di acquisto.)(?)
3. Garanzia per i vizi occulti: (questa era sempre obbligatoria) sono i difetti del bene che
non sono apparenti a prima vista (es. schiavo malato  lo schiavo all’apparenza
sembrava sano ma in realtà aveva il diabete, poteva anche difetti comportamentali 
schiavo fuggitivo, colui che tende sempre a scappare ma non viene ucciso; schiavo erro
 schiavo che scappa per qualche giorno e poi torna, ha la tendenza di sparire per
qualche giorno e poi ritorna. Nei documenti la distinzione tra i due c’è sempre, non si
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trova in alcuni documenti in cui lo schiavo è minorenne  il venditore assicura al
compratore che lo schiavo non è fuggitivo ma non che è vagabondo perché un bambino
non ha la tendenza ad essere vagabondo) il venditore doveva garantire al compratore che
l’oggetto della vendita non aveva difetti non visibili. Le parti potevano aggiungere al
contratto di compravendita delle clausole: erano tre  2 a favore del venditore: lex
commissoria  consisteva nel patto secondo il quale il contratto di compravendita
aveva subito effetto translativo, però se entro una determinata data non avesse pagato il
prezzo avrebbe dovuto restituire la cosa al venditore, in diem addictio  trasferimento
del possesso del bene all’acquirente ma qualora fosse giunta una migliore offerta al
venditore, il compratore avrebbe dovuto restituire la cosa al venditore. 1 patto a favore
del compratore: pactum displicentiae  vendita con riserva di accoglimento: possessore
trasferiva il bene ma se entro un termine prestabilito dalle parti quel termine non sarebbe
andato a genio al compratore, lo avrebbe potuto restituire al venditore.
I giuristi si interrogavano sulla struttura di questo patto  si tratta di due negozi distinti: c’è il contratto
di compravendita (negozio puro perché privo di condizioni), accanto a questo le parti aggiungono un
altro pactum, accordo, questo patto ha come oggetto la restituzione del bene e quini ha come contenuto
la restituzione del contratto di compravendita, quindi l’oggetto del patto è la risoluzione del contratto
che è sottoposta a condizione  questa condizione era sospensiva (positiva o negativa), ma aveva
come effetto la risoluzione del contratto.

Paericulum: rischio contrattuale in caso di perimento della cosa per causa non imputabile a una delle
parti, qualora il bene perisca per forza maggiore o caso fortuito il rischio contrattuale su chi ricade?
a. Il paericulum è del compratore: nel momento in cui fu creato questo principio non aveva lo stesso
significato odierno. Nell’antichità se il bene periva tra il momento della conclusione del contratto e
nel momento del trasferimento del bene, il paericulum ricadeva sul compratore anche se non aveva
ricevuto il bene. Se il compratore avesse già pagato il prezzo e il bene fosse perito prima che
venisse trasferito, il compratore non poteva chiedere la petizione della somma.

Introdotta la rex rodia de iactum: nelle prassi di molte popolazioni costiere del mediterraneo c’era un
diritto vantato chiamato ius naufragi  diritto degli abitati ti appropriarsi delle merci arrivate a riva
con la corrente o comunque trovate in mare. Questo diritto vantato dalle pop. costiere
Alcune pop. costiere favorivano i naufragi accendendo dei fuochi sulla costa, il navigante vedendo il
fuoco pensasse fosse un faro che indicasse un fosso quindi la nave si infrangeva sulla costa e gli
abitanti ne approfittavano del relitto. Questa pratica non era ben vista dagli imperatori. La rex voleva
che i proprietari delle merci sarebbero rimasti proprietari anche dopo essere state disperse in mare,
sostituire questi incidenti con una regola che prevedeva che tutti coloro che avrebbero partecipato al
percorso marittimo fossero rimasti proprietari dei beni che erano caduti in mare, quindi coloro che si
fossero impossessati del bene avrebbero fatto un furto.
La seconda regola era che i prop. dei beni trasportati dalla nave avrebbero dovuto partecipare alle
spese: a seconda del tipo di contratto cambiava il tipo di locazione, poteva essere messa a disposizione
dei commercianti un pezzo di stiva della nave e il locatore avrebbe dato in locazione una porzione della
stiva, il conduttore sarebbe stato il proprietario dele merci che dovevano essere portate da un porto
all’altro.
Secondo caso: i prop. Delle merci consegnavano le merci al prop. della nave perché le trasportasse 
non c’è la vocatio rei ma la vocatio operis; se le merci fossero perse per cause non dipendente dal
magister navis, il proprietario avrebbe avuto diritto di chiedere rimborso al magister navis.

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Il magister navis perché doveva pagare le conseguenze? Lui veniva chiamato in giudizio con l’actio
conducti ma avrebbe avuto anch’esso l’actio conducti contro i proprietari delle merci che si erano
salvate.

(163) CONTRATTO DI SOCIETÁ

Con l’introduzione, in età preclassica, dell’actio pro socio, in ius ex fide bona, ebbe riconoscimento, a
Roma, la societas consensuale, espressamente qualificata in iuris gentium e aperta a cives e peregrini.
Possiamo definirla come contratto consensuale e plurilaterale per cui due o più persone – i socii –
convengono di mettere in comune o beni o attività di lavoro, o insieme gli uni e le altre, al fine di
conseguire un lucro per tutti, previa divisione di profitto e perdite.
La società consensuale sopravviverà invece allo stesso diritto romano. Il tipo più antico fu assai
verosimilmente la societas omnium bonorum, nella quale i soci convenivano di mettere in comune tutti
i beni, presenti e futuri. La società era un singolare contratto consensuale perché non solo le parti si
obbligavano in forza del semplice consenso che nelle fonti è detto effectio societas.
La società si scioglieva, pertanto, oltre che per reciproco dissenso, per recesso unilaterale, quando uno
solo dei soci manifestava la volontà di recedere dal contratto. Si scioglieva altresì per esaurimento dello
scopo, impossibilità sopravvenuta di raggiungerlo, morte e capitis deminutio, anche minima, di un
socio; e pure se un socio subiva procedura esecutiva per insolvenza con conseguente bonorum venditio.
Dal contratto di società nascevano obbligazioni reciproche tra soci. Tra queste, anzitutto, le
obbligazioni relative al conferimento di beni e lo svolgimento di attività nell’interesse comune; e poi le
obbligazioni di dividere tra tutti i profitti e le perdite inerenti alla gestione sociale: in parti uguali se
nulla era stato convenuto in proposito; altrimenti, secondo gli accordi. Il patto per cui un socio avrebbe
partecipato agli utili e non alle perdite era valido; era nullo, invece, il patto che limitava la
partecipazione di un socio alle perdite era valido; era nullo, invece, il patto che limitava la
partecipazione di un socio alle perdite soltanto (cosidetta societas leonina). Le obbligazioni ex societate
erano sanzionate dall’actio pro socio, nell’ambito della quale, per la natura di buona fede dell’azione,
era possibile procedere a compensazione, e quindi al saldo del reciproco di dare ed avere. L’actio pro
socio, poiché era di buona fede, poteva essere esperita per il risarcimento dei danni provocati dal
recesso doloso o intempestivo. A parte ciò, il grado di responsabilità per inadempimento, o cattivo
adempimento, era diverso a seconda delle situazioni e circostanze: il socio rispondeva ora per il dolo
ora per la colpa; in qualche caso, per custodia. Ma il criterio generale, almeno nel diritto giustinianeo,
era quello della cosiddetta culpa in concreto. La condanna nell’actio pro socio era infamante per il
soccombente (che era colpito da infamia; sanzionava, infatti, un comportamento giudicato con severità
perché, tra soci si stabiliva una sorta di fraternitas che comportava fiducia reciproca. In dipendenza di
questa stessa fraternitas, d’altronde, il convenuto godeva dell’actio pro socio del beneficium
competentiae sì che l’eventuale condanna pecuniaria non avrebbe potuto superare le sue possibilità
economiche; condanna che il soccombente avrebbe generalmente evitato pagando tempestivamente
entro tali limiti.
Al contrario, per i debiti contratti con i terzi nell’interesse comune ciascun socio rispondeva
direttamente ed esclusivamente con la propria persona e col proprio patrimonio. Per limitare la
responsabilità verso i terzi nell’esercizio dell’attività commerciale si fece ricorso all’espediente di
svolgerla per mezzo di schiavi, appositamente forniti di peculio; trattandosi di società, per mezzo di
schiavi comuni, ugualmente con peculio. In tal modo la responsabilità, per mezzo di schiavi,
appositamente forniti di peculio; trattandosi di società, per mezzo di schiavi comuni, ugualmente con
peculio. In tal modo la responsabilità dei domini non sarebbe andata oltre il valore del peculio; al più,
non oltre il limite del loro arricchimento conseguente all’attività del servo. (pg.198)

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MANDATO: contratto consensuale con il quale un soggetto detto mandante conferisce ad un altro
soggetto detto manadatario l’incarico di svolgere una determinata attività il manadatario si obbliga a
mandare a termine questa attività. È imperfettamente bilaterale e gratuito, il mandatario non percepisce
un compenso, perché altrimenti il contratto non sarebbe più un mandato (denaro  locatio operis; nel
fare qualcosa  convenzione atipica).
Può darsi il caso che il madatario nello svolgere l’attività spenda denaro proprio o subisca danni
conseguenti all’attività svolta per adempiere all’obbligazione, in questo caso il mandatario avrebbe
avuto azione contro il mandante  actio mandati contraria (actio mandati diretta  da mandante a
mandatario) il mandato è fondato sulla fides, il mandato lega il suo destino a quello del mandante sulla
base della fides, non adempiere all’obbligazione significa mancare a fides. L’actio mandati diretta era
infamante anche se era un’azione contrattuale.

CONTRATTI INNOMINATI (convenzioni atipiche): sono l’altro spiraglio che si apre nella tipicità
del sistema contrattuale romano però ci sono delle aperture ossia stipulatio e convenzione atipiche che
sono convenzione tra le parti che non sono trasfigurabili in nessuna della fattispecie tipizzate nel
sistema contrattuale romano ma che fungono da tutela degli interessi delle parti.
C’è un testo infelicissimo che è attribuito al giurista Paolo, giurista dell’epoca dei severi. Questo passo
dice : ci possono essere 4 tipologie di convenzioni atipiche bisogna vedere quale prestazione è fatta per
prima, come prima prestazione potrebbe essere fatta una prestazione di dare: una delle due parti da
qualcosa perché l’altra faccia a sua volta una prestazione di dare (do u des) questa prestazione di dare
potrebbe essere finalizzata a una controprestazione di fare do ut facia e infine la prima prestazione
potrebbe essere una prestazione di fare finalizzata ad una controprestazione di dare e inoltre la prima
prestazione potrebbe essere una prestazione di fare finalizzata a una controprestazione di fare
La prima prestazione sia stata compiuta e la controparte non abbia compiuto la sua
Ciò porta alla controversia: può sorgere sul fatto che la prima parte ha fatto prestazione di dare ma la
controprestazione non ha
L’attore ha due possibilità:
Restituzione: non c’era nessun problema, c’era l azione apposita ossia la condictio (condictio ob rem
dati, re non secuta oppure condictio causa data causa non secuta) Il problema sorgeva nel caso in cui la
prima parte non chiedesse la restituzione ma l’adempimento non essendo uno schema predisposto dallo
ius civile non c era un azione specifica
azione sussidiaria per eccellenza ossia l’actio de dolo che però ha una funzione risarcitoria ma è penale
perché è infamante
adempimento
All’inizio del secondo secolo inizia il ripensamento della situazione da parte dei giuristi in particolare
cè uno di cui noi non abbiamo frammenti diretti ma solo citazioni indirette di giurista Mauriciano.

Agere praescripti verbis: clausola scritta prima e fuori della formula. Era una clausola nella quale
veniva prescritta nello specifico la situazione di fatto che aveva dato luogo alla controversia ed era
simile alla demostrazio (parte della formula). Nella formula il rapporto che si era venuto a creare tra
creditore e debitore si chiamava oportere.
Nelle fonti noi troviamo scritto che in queste convenzioni atipiche bisogna usare l’actio prescriti verbis
ossia un’azione da esperire in qualsiasi caso di convenzione atipica. Siccome pero questo modo di agire
era consentito in tutti i casi in cui l’assetto di interessi che le parti avevano voluto concludere
La prescriptio sarebbe stata sempre diversa

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DELICTA: erano 4  furto, rapina, in iuria e danneggiamento.

In iuria: ingiuria che è una forma non troppo grave di diffamazione ma nel latino originale non voleva
dire attacco all’onore, nel latino delle 12 tavole, della legislazione più antica la possiamo qualificare
come una questione personale di tre possibili forme di lesione personale di gravità in senso decrescente
e sono: membrum ruptum, os fractum (frattura), in iuria.

La più grave è il membrum ruptum: perdita definitiva di un arto o un senso, (rupitia  qualunque
danno) questo danno fisico patito dalla persona ed è un danno reversibile. La norma delle 12 tavole è
concepita in questo modo: se gli avrà rotto un membro, se non avrà fatto con lui una pactio (qui si sta
parlando dell’autore dell’illecito) con lui vi sia il taglione, quindi cosa significa taglione? È la così detta
part vindictia (occhio per occhio, dente per dente). L’inflizione di un danno permanente irreversibile ad
una persona, come pena avrebbe avuto il taglione ma la norma 12 tavole non si limitava a ciò ma
aggiungevano una condizione negativa se non ci sia stata una pactio. La norma ci viene a dire questo:
se un soggetto ha subito un danno irreversibile alla sua persona, il taglione è la strada residuale che
rimane dopo un fallito tentativo di pactio.
Cos’era la pactio? Era un tentativo di composizione pecuniaria che però la legge non quantificava e se
non si raggiugeva questa pactio, avveniva il taglione. La pena del taglione è l’estrema ractio a cui si
arriva se prima le parti non sono riuscite a comporre questo dissidio tra di loro mediante una
composizione pecuniaria. Siccome questa composizione non è stabilita dalla legge nella quantità è una
composizione volontaria.

Pactio: nelle 12 tavolo non è la pactio più tarda è qualcosa di diverso, composizione pecuniaria che
l’autore dell’illecito effettuava con la vittima allo scopo di evitare la pena. La pactio è il mezzo per
evitare la pena del taglione.

Os fractum: (frattura) indica più generalmente una qualsiasi lesione fisica ma reversibile, quindi non si
da il taglione. La pena per la lesione fisica è una composizione pecuniaria ma stabilita dalla stessa
legge delle 12 tavole. La pena era di 300 assi se la vittima fosse stata libera, 150 assi se fosse stata
schiava (schiavo vale la metà dell’uomo libero). Veniva fatta una valutazione pecuniaria
qualitativamente, uguale a quella dell’uomo libero, questo significa che lo schiavo non doveva essere
una cosa ma doveva essere ovviamente trattato peggio dell’uomo libero però aveva una sua valutazione
come l’uomo libero.
Per il danno reversibile la pena era legale, perché era la legge che diceva di quanto sarebbe stata la
punizione ed era stabilita in senso diverso per il libero e per lo schiavo.

In iuria semplice: (es. schiaffo ad una persona, percuotere qualcuno) la pena era una pena legale di 25
assi. Il pretore sostituisce poi la pena con l’actio iniuriarum, era un’azione aestimatoria, una persona
che sosteneva di aver subito un danno doveva andare dal magistrato e dire quanto secondo lui era
l’ammontare del danno fisico subito, poi in sede di valutazione pecuniaria il giudice avrebbe potuto o
condannare l’autore del danno alla stessa somma richiesta dalla vittima (attore) o di una somma
inferiore se pensava che la vittima avesse sparato una cifra eccessiva, non avrebbe però potuto
condannare l’autore a una somma superiore a meno che l’aggrassione fisica non fosse particolare come
le aggressioni dette inuria atrox. Questa azione è la più tipica delle azioni cum taxationes, (taxatio: fino
a che) era un’azione che poteva condannare con una taxa. Questa è un’azione di in iuria che ha a che
fare con le lesioni fisiche.
Nel I a.C. il pretore inizia a creare delle azioni inioriarum che hanno come oggetto una lesione
all’onore e crea diverse tipologie di azione di ingiuria che sono sostanzialmente analoghe ma con causa
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diversa. Una riguarda il condicium che è un vociale di una folla che quando entra qualcuno in un luogo
pubblico (teatro) e inizia ad inveire però c’erano altre come ad esempio per la pudicizia delle persone
in cui venivano ricomprese tante fattispecie diverse che però avevano un fondamento comune come
l’aggressione della pudicizia come il caso comitem abducere (condurre via) consisteva che solitamente
una ragazza di buoni costumi veniva accompagnata fuori da una donna più grande che facesse da
sorvegliante, chi chiamasse l’accompagnatrice in un canto (dietro angolo di una casa) e lasciava sola la
ragazza, pensavano che questa ragazza lasciata sola andasse incontro a guai.
Raptori no consetienti: (costituzione di Costantino emanata ad Aquileia) Se una ragazza veniva rapita
era in parte colpa sua perché non ha gridato ‘aiuto’ più forte per farsi soccorrere oppure si era fatta
vedere troppo perché è uscita prima del matrimonio e quindi è stata rapita.

Infine con l’Actio iniuriarum estimatoria generale, l’attività del pretore si conclude qua, quando il
pretore si accorge che è inutile moltiplicare le azioni in iuria perché sono tutte sostanzialmente uguali,
fondate sulla nozione di in iuria come lesione dell’onore personale e quindi sono tutte catalogabili
come specie
di un’azione generale, allora un pretore elimina tutte le azioni speciali e le sostituisce con una generale
ed entrano in gioco i giuristi.
I giuristi iniziano a discutere dei confini della nozione di in iuria perché all’inizio era una lesione fisica
poi il pretore la mette in una visione di onore personale. Nella lesione dell’onore personale dobbiamo
ricomprendere anche delle aggressioni, attacchi non alla persona ma alla possibilità che lui usi
debellum pudici ed ecco che i giuristi iniziano a convincersi che anche l’impedimento dell’uso di un
bene aperto ad uso pubblico come per esempio un teatro, una piazza, uno stabilimento termale viene
considerato come un atto di in iuria.

Damnum in iuria datum: questo delitto viene disciplinato legislativamente nel III secolo a.C. da una
legge importantissima che si chiama Lex Aquilia de damnum. Questa legge conteneva tre capitoli:
 Il primo riguardava l’uccisione di schiavi o di animali che andassero in gregge (pecùres) ,anche
l’uccisione di un maiale veniva sanzionata con questa legge. La pena a carico dell’autore
dell’illecito era una condanna a pagare un simbrum qualificato cioè era il massimo valore che la
cosa aveva avuto nell’ultimo anno. Quindi il giudice nel stabilire la valutazione pecuniaria
avrebbe dovuto fare una valutazione di mercato e stabilere nell’ultimo anno quale fosse il
presso più altro che avrebbe avuto il bene e a quel prezzo condannare il convenuto.
 Il secondo capitolo puniva il danno compiuto dall’adstipulator che avesse fatto a certi l’actio
dell’obbligazione/debito in frode al debitore. L’adstipulator era una sorta di creditore aggiunto,
era un soggetto che era stato incaricato dal creditore di riscuotere la somma voluta. Questo
invece di riscuotere la somma aveva fraudolentemente, in frode al creditore fatto accerti latio
del debito ossia una remissione del debito. La pena sarebbe stata il pagamento del simbrum.
Questo secondo capitolo cadde prestissimo in desuetudine perché venne sostituito
sostanzialmente dal mandato e quindi il rapporto tra il creditore e l’adstipulator veniva
rincuorato mediante contratto rimandato ed erano sufficienti le azioni a favore del creditore del
mandante nei confronti dell’adstipulatior mandatario.
 Il terzo capitolo disciplinava o il ferimento di schiavi, animali entranti nel pecures oppure un
danno a qualsiasi altro bene però la legge indicava precisamente le condotte che rientravano
nella disposizione normativa e sono importanti perché segnano una specie di recinto oltre il
quale i giuristi non possono andare nell’interpretazione e questi casi erano tre: bruciare,
rompere e infrangere. L’autore del danno sarebbe stata costretta a pagare una somma di denaro

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che però non era il massimo valore dell’ultimo anno ma degli ultimi 30 giorni, il tempo che
avrebbe dovuto prendere in considerazione il giudice era molto ristretto.

Se la legge Aquilia considerava al suo interno solo danni compiuti in questo modo (uccisione, rottura,
incendio, infrangimento) vuol dire che il danno compiuto contro la cosa altrui doveva essere stato
necessariamente compiuto con uno sforzo fisico dell’autore del danno contro la materialità della cosa.
Il danno come dicono i giuristi romani doveva essere stato inferto corpore (sforzo fisico) o corpori
(contro materialità della cosa altrui) ma i giuristi fanno questo esempio: io incarico uno schiavo altrui
di salire su una scala per prendere della frutta ma la scala si rompe e si rompe anche lo schiavo, il
danno è stato inferto corpori ma non corpore. Io passo per la strada e in un angolo c’è uno schiavo
incatenato che è in attesa di essere posto alla crocifissione, mi impietosisco, lo libero dalle catene e lui
scappa. Il danno è stato inferto corpore? Si, perché ho impiego sforzo fisico per rompere le catene ma
non è stato inferto danno corpori. Il danno può essere inferto in modi diversi dal danno inferto con
sforzo fisico contro la materia.

In un secondo momento ancora viene emanata la legge Cecileia  il creditore entro un termine ristretto
avrebbe dovuto esporre in pubblico solennemente:
1) i nomi dei garanti;
2) la quota per la quale i Garanti si facevano garanti del debito principale. Se questa productio
non fosse avvenuta i garanti avrebbero avuto il diritto di andare dal magistrato e chiedere
un’azione di accertamento (pregiuditia) bisognava rispondere ad una domanda (è vero che è
successa una certa cosa?) il giudice doveva accettarsi che fosse accaduto  il giudice doveva
stabilire de il creditore dunque avesse fatto la productio.

Legge Cornelia: lo stesso garante non si sarebbe potuto presentare come garante dello stesso debitore
nei confronti dello stesso creditore nello stesso anno per più di 20 mila sesterzi.
La fideiussione non aveva una forma di regresso, ma aveva dei vantaggi rispetto alla sponsio e alla fede
promissio:
-sponsio e fede promissio garantivano solo obbligazioni del tipo….

C’era un secondo modo più versatile  quando il garante veniva chiamato in giudizio e questo pagava
al posto del debitore principale, se il garante avesse pagato l’obbligazione come adempimento
dell’obbligazione del debitore principale avrebbe estinto l’obbligazione  si sarebbe trovato privo
dell’azione di regresso: il pagante non pagava l’inadempimento dell’obbligazione ma a titolo
dell’acquisto del debito. Il garante non adempie all’obbligazione ma la compra, acquista il credito e di
conseguenza l’azione, acquistava quindi l’azione che avrebbe potuto esperire il creditore nei confronti
del debitore.
Indipendentemente dal compimento di un contratto di mandato tra garante e debitore, il garante
avrebbe potuto ottenere il regresso tramite una funzione giuridica, il garante pagava l’ammontare del
debito a titolo di acquisto del debito  funzione giuridica, adempiva all’azione a cui non aveva
adempito il creditore principale. Il garante veniva a prendere le veci del creditore potendo utilizzare
contro il debitore l’azione che non aveva usato il creditore. Questa possibilità di acquistare il debito era
possibile solo se il credito era in denaro, se il credito fosse stato una prestazione di fare la possibilità
veniva meno.

Per il mutuo  la prassi diventa uno strumento che apparentemente è complicato a che in realtà è
semplicissimo: il mandato del credito. Questo vede tre soggetti:
[Data]
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1.il creditore
2.Il debitore
3. Il garante

Il garante incarica il mutuante di trasferire una somma di denaro al mutuatario, quindi si creano due
contratti (principale tra mutuante e mutuatario, quello parallelo, di mandato, tra mutuante e garante).
Colui che da l’incarico è il garante, il mutuante è il mandatario.
Nasce un rapporto tra il mutuante e il garante: il mutuante incarica una terza persona di prestare una
somma di denaro di trasferire una somma di denaro al mutuatario, si vengono a creare due rapporti: uno
che ha come soggetti il mutuante che siccome ha dato incarico con mandato in questo ambito diventa
mandante, l’incaricato è il mandatario he deve trasferire la somma di denaro al mutuatario. L’altro
rapporto è tra creditore che ha dato in prestito il denaro e che funge anche da mandatario, il garante che
abbia adempiuto all’obbligazione principale possa avere un’azione di regresso verso il debitore
principale.
Il sistema nasce dall’espediente di creare un rapporto di mandato tra il mutuante e il garante, il
mutuante incarica il garante di trasferire una somma di denaro al mutuatario, il mutuante
contemporaneamente opera con due vesti (creditore principale nel mutuo, mandante nei confronti del
mandato, anche il garante opera sia come mandatario che come garante).
In caso di inadempimento del debitore, il mutuante avrebbe avuto due possibilità diverse: o chiamare in
causa il debitore (con condictio  mutuo) oppure chiamare il garante (mandante) con azione di
mandato contrario, perché il mutuante aveva prestato il denaro al mutuatario in adempimento della sua
obbligazione di mandato, quindi nel manato il mutuante nei confronti del debitore avrebbe potuto
richiedere il risarcimento delle spese. (mutuante e garante intervengono con due maschere diverse, il
mutuante è il creditore principale e l’altro è il garante, nel contratto di mandato il garante è il mandate e
il mutuante è il mandatario, con la conseguenza che in caso di inadempimento il creditore avrebbe
potuto avere due strade possibili, una contro il debitore ma avrebbe anche potuto chiedere in alternativa
un’azione contro il garante al quale chiede il rimborso delle spese).

In realtà le due azioni non hanno la stessa causa perché una ha come causa un mutuo mentre l’altra ha
come causa un mandato, ciò significa che se il creditore avesse chiesto l’adempimento con la condictio,
una volta fatto condannare il mutuatario non avrebbe potuto chiedere risarcimento, il problema sorgeva
se l’azione veniva fatta contro il garante, una volta chiesto il mandato cntro il garante lui teoricamente
avrebbe potuto chiedere l’azione contro il mutuatario per l’adempimento. Per evitare ciò qualora il
mutuante chiedesse l’aione di mandato contrario contro il mandante il magistrato glie l’avrebbe chiesta
alla condizione che cedesse all’azione di mutuo e subordinava la concessione di mandato contrario
all’accessione dell’azione di mutuo al mandante garante.

SUCESSIONI:
Nel diritto romano ci sono diverse forme di successioni: acquirente detto natario che riceve la proprietà
di un bene da un altro soggetto e poi vi è la successione universale nella quale un soggetto entra nelle
posizioni giuridiche dell’altro.

I sono due tipi di successione universale:


1. inter vivos: oggi non esiste più.
2. inter mortuos: oggi esiste. Un oggetto subentra nel complesso delle posizioni giuridiche di un altro
dopo la sua morte, vi sono due forme diverse:
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a) testamentaria: viene effettuata dal soggetto che deve pensare al destino di patrimonio dopo la sua
morte tramite testamento
b) legittima: successio ab intestato, dove intestato significa da parte di uno che non avesse fatto
testamento. Quado il soggetto proprietario del complesso dei beni muore senza aver fatto testamento,
quindi si incarica la legge di indicare coloro che devono succedere ad acquisire il patrimonio.

Oggi questa successione è residuale a quella testamentaria molto più praticata (es. se uno muore con
incidente) ma nell’epoca antica la successione normale era quella ad intestatio.

Ci sono due momenti nella successione:


1. delazione: è il momento dell’apertura della successione, la successione si apre al momento della
morte del decuius (modo sintetico di indicare il soggetto testatore)
2. adizione: momento in cui l’erede entra nella disponibilità dei beni successori;

Questo è importante perché ci sono casi in cui delazione e adizione si identificano nello stesso
momento: delazione che coincide con la adizione  eredi necessari, i sui, ovvero coloro che sono
sottoposte alla potestà del pater familia e che alla morte del decuius diventano sui iuris (sono solo i
discendenti diretti, i figli).

SUCCESSIONI AD INTESTATO: residuale rispetto a quella ordinaria (testamentaria)


Abbiamo una norma civilistica che indica chi sono i successivi (persone che possono essere chiamate a
questa successione  norma delle XII Tavole) questa norma dice “se il testatore è morto senza fare
testamento e mancano i sui, il patrimonio se lo prenda l’agnato prossimo. Se manca l’agnato prossimo
il patrimonio se lo tenga i gentiles.” Sono segnalati 3 ordini di successori: i sui, l’agnato prossimo, i
gentiles. Ognuno di questi può essere chiamato solo se manca l’ordine precedente; c’è una regola di
successione per ordini.

Soggetti che vengono connotati come:


1. sui: ai fini della norma sulla successione sono tutti i soggetti liberi sottoposti alla potestà del
capostipite testatore che alla morta del testatore diventavano sui iuris. Non tutti i successori del
capostipite diventavano sui iuris perché se questo avesse avuto 3 linee di discendenza chi sarebbe
decaduto nella condizione sarebbero stato solo i figli (prima discendenza), a meno che il padre non
fosse premorto a capostipite, in questo caso il nipote avrebbe rappresentato il padre pre-morto nella
successione al capostipite. Regola importante  quanti soggetti avrebbero partecipato alla
successione? Tre  due nipoti del capostipite e il figlio; in quante parti si sarebbe diviso il
patrimonio? In due parti perché c’era una regola per successione per stirpi (i nipoti subentrano nella
unica posizione del padre premorto  la metà divisa in due), non per capita (si divide per quanti sono
gli eredi).
I soggetti che venivano chiamati per primi erano i figli e le figlie (filius figli e figlie). C’era un altro
soggetto importante che rientrava nei sui  la moglie. I figli non naturali (che erano considerati
comunque figli) rientravano nei sui, anche l’adrogato rientrava nei sui, mentre il figlio diventato pater
familias non era considerato tra i sui. In questo caso il padre poteva morire senza fare testamento
perché il patrimonio veniva trasferito nel gruppo familiare stretto ma la norma delle dodici tavole
diceva che senza testamento e in assenza di sui il suo patrimonio passava all’agnato prossimo.

[Data]
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2. agnato prossimo: erano tutti i soggetti legati all’ego del soggetto di cui si parla) in linea maschile
(soggetti diretti e parenti), siccome la norma delle XII tavole diceva che mancava la linea di
discendenza diretta gli agnati sono solo i collaterali (sono legati al soggetto di cui si parla entro 7/6
gradi, dopo il settimo grado non si è piu parenti. La norma dice che il patrimonio se lo prende l’agnato
prossimo, ed esclude gli agnati successivi  c’è un divieto per successione per gradi. (gli eredi
possono essere necessari (soggetti che non hanno bisogno di accettare l’eredità, ma c’era una
distinzione  gli eredi necessari erano i sui ma c’era una distinzione tra soggetti che potevano
astenersi dal compiere tutte le attività sull’eredità rifiutandola non compiendo nessun atto di
disposizione sui bei ereditari  sui et necessari  liberi  figli e moglie; l’altra categoria di eredi
necessari non avevano la possibilità di astenersi sull’eredità  schiavi  eredi necessari tantum) e
volontari (tutti coloro che non erano sui).
L’agnato prossimo non essendo sui poteva evitare l’eredità, se mancava l’agnato prossimo o appunto
rifiutava il patrimonio sarebbe passato ai gentiles.

N.B. se l’eredità con debiti fosse andata ai figli, essi rischiavano l’infamia. Per evitare ciò il padre li
diseredava mettendo il nome di uno schiavo nel testamento al quale fosse andata l’eredità.

3. gentiles: coloro che sono accumunati dallo stesso nome gentilizio  questi cominciano a
suddividersi in stirpi; come funzionasse questa successione non lo sappiamo perché mancano le fonti,
ne abbiamo una: cicerone racconta di una famosa controversia che riguardava il patrimonio del figlio di
un liberto morto senza successori di nessun tipo e senza fare testamento, chi era il successore del
liberto? Il patrono, questo interveniva come l’agnato prossimo. Nasce una controversia tra i Claudi
Marcelli (erano conviti che l’eredita spettasse a loro stirpe perché il liberto apparteneva a loro) si
levano i gens Claudi (dicevano che spettava a loro perché faceva parte dei gentilizi). In questa
controversia furono discusse molte cose riguardo il diritto gentilizio. Non sappiamo come finisce.

Senato consulto Tertuliano  disciplina la successione della madre al figlio, la madre che aveva un suo
patrimonio e non faceva parte degli agnati non avrebbe potuto trasmettere il suo patrimonio al figlio,
che nel II secolo sembrava disdicevole così viene emanato il sento consulto Olfiziano la madre
poteva trasmettere il patrimonio al figlio.

SUCCESSIONE TESTAMENTARIA: non era la successione ordinaria, la forma più antica è un atto
pubblico, veniva fatta davanti al popolo con i comizi  testamentum calatis comitiis (comizi calati)
c’erano due giorni all’anno nei quali il re convocava il popolo ma non riunito nelle 30 curie del comizio
curiato ma alla rinfusa (senza suddivisioni) di fronte al popolo riunito, l’edificio davanti a quale si
riuniva il popolo era la curia calabra, si chiamavano cosi perché quel giorno un funzionario subordinato
del re (calator) convocava il popolo nel comizio, il quale indicava pubblicamente il nome del suo
successore. Era un testamento eccezionale al quale il testatore ricorreva quando voleva nominare erede
un estraneo, ed evitare che il patrimonio seguisse l’iter normale ad intestatio.
Nel corso del tempo subito dopo legge delle xii tavole si inizia a fare una forma di successione detta
mancipatio familie il testatore in previsione della successione faceva la mancipatio del suo
patrimonio a un suo soggetto di fiducia il quale lo riceveva con delle clausole nelle quali in origine
pubblicamente il testatore indicava partitamente quali bene sarebbero dovuti andare a quali persone.
Per come era organizzata non si puo dire che sia una vera successione universale perchè il testatore
indicava a chi sarebbero dovuti andare i beni e poi era spressa subito all’atto della mancipatio come
avrebbe dovuto essere ripartito il patrimonio e a chi. In questo modo si crea un problema: tutti vengono
a sapere quel è l volontà del testatore  si faceva la mancipatio ma invece di indicare esplicitamente e
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a voce il destino del patrimonio immediatamente questa enunciazione solenne faceva riferimento al
contenuto di alcune tavolette, il testatore chiudeva la sua volontà in tavolette che poi sigillava, queste
venivano aperte solo nel momento della sua morte. Con questo passaggio dall’espressione solenne del
testatore al momento della mancipatio all’esprimere la volontà del testatore al momento della sua
morte, si attua il passaggio al testamento classico  per aest et libera (bisognava avere 5 testimoni che
firmavano le tavolette, il testamento con mancipio accipes indicava chi doveva esporre il testamento).

Nel testamento classico ci sono delle regole:


1. regola di successione materiale: la legge impone al testatore che almeno un quarto del patrimonio
sarebbe dovuta andare ad alcuni soggetti predeterminati dalla legge (parenti vicini)  quarta falcidia. Il
testatore romano non aveva nessun limite, poteva dare il suo patrimonio a chi voleva, la regola
originale della quarta falcidia non diceva che il testatore doveva trasferire un quarto del patrimonio a
soggetti predeterminati, ma diceva che nel rapporto tra quota di patrimonio dispersa legati (ai legatari)
e quella destinata a gli eredi questa seconda parte doveva essere almeno per un quarto destinata agli
eredi. La nomina dell’erede è la prima clausola che deve aprire il testamento, se il decurius (testatore)
voleva nominare un estraneo ma aveva dei figli prima di nominare erede l’estraneo doveva diseredare i
figli, anche la regola della diseredazione dei figli era sottoposta a sua volta a una regola  i figli
maschi dovevano essere diseredati nominalmente uno per uno “tizio figlio mio sia diseredato”; se
avesse avuto delle figlie  “le mie figlie siano diseredate” non c’è indicazione nominale.

N.B. i figli diseredati iniziarono a investire il tribunale centuvirale dell’ingiustizia della diseredazione.
Dicevano che il padre essendo vicino la morte aveva perso la ragione  color insania che aveva
creato una situazione deplorevole, il padre avrebbe quindi diseredato il figlio senza motivo, questa
querela era chiamata in officiosi testamenti. Di fronte a diseredazioni immotivate il tribunale
considerava il testamento nullo  quindi il testamento sarebbe diventato ab intestatio la diseredazione
quindi doveva essere motivata.

Cosa succedeva se il testatore non a conoscenza di queste regole avesse omesso il nome dell’erede al
primo posto? In questo caso si sarebbe venuti a sapere dell’errore alla morte del testatore, scatta un
principio generale chiamato favor testamenti  dato che il testatore non può correggere il testamento e
nessuno può farlo al suo posto, bisogna cercare il salvabile del testamento. Questa regola consentiva di
considerare come apposte le clausole inserite prima della nomina dell’erede così che tutto ciò che
veniva dopo sarebbe stato ritenuto corretto.

Se il testatore non aveva nessun vincolo rispetto al testamento del patrimonio ma aveva solo vincoli di
relazione del documento testamentario, nel diritto di successione non vigeva un principio di
successione necessaria, ma c’erano regole formali da seguire per rendere il testamento valido.

I sui dovevano essere o nominati o diseredati  cosa succedeva se il testatore in presenza di sui li
dimenticava? Poteva darsi il caso che il testatore in presenza di alcuni sui non li nominasse ne per farli
eredi ne per diseredarli (praeterizio  dimenticanza); qui gli effetti erano diversi a seconda dal tipo di
suus che era stato preterito: i sui erano i figli ma tra i figli cerano anche quelli che il padre aveva
concepito ma che quando il padre era morto non erano ancora nati il figlio nasceva postumo
(postumi sui nascono sui iuris ma il padre mentre ha fatto il testamento si è dimenticato di aver
concepito il figlio). Qui c’è un suus postumo preterito il testamento è radicalmente nullo quindi si
passa alla successione ad intestatio.
Se il padre si dimenticava di nominare o diseredare un suus figlio o moglie in manu o il postumo,
provocava la rottura completa del testamento.
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C’erano altri sui ceteri sui: l’adottato, l’adrogato (persone che non facevano parte della prima
categoria) il testamento qua era imparzialmente invalido ma non era totalmente nullo, le loro quote si
accrescevano di una sottrazione di quote di coloro che erano stati indicati nel testamento.

N.B. Qua c’è una violazione di una regola fondamentale moderna: successione testamentaria e
successione ad intestatio non possono coesistere, devono essere in toto.
I giuristi romani non la videro in questo modo ma la misero nel modo del diritto di accrescimento a
favore dell’erede con una quota sottratta agli eredi chiamati.

L’ADIZIONE: gli eredi non sui come dovevano accettare? Poteva avvenire in due modi diversi:
1. in modo esplicito e solenne  cretio: la parola cretio deriva dalla formula solenne che
doveva pronunciare l’erede “poiché sono stato nominato fanc hereditate adeo cernoque” si
chiama così perché l’accettante doveva pronunciare questo verbo. Spesso la cretio era imposta
dallo stesso testatore appena di diseredazione (era frequente che il testatore disponesse tizio con
la cretio se non lo fa sia diseredato) con la cretio colui che era stato chiamato all’eredità
effettuava questa dichiarazione solenne. C’era un termine entro la quale bisognava farla?
L’erede chiamato poteva dire che non aveva ancora deciso ma il pretore a quel punto gli
imponeva un termine di 100 giorni.
2. formalità di accettazione tacita pro aerede prestio: era semplice, si compivano gli atti di
disposizione che il testatore aveva disposto a carico dell’erede. L’erede compie il legato e
automaticamente dimostra di voler accettare l’eredità.
Se il testatore avesse imposto all’erede estraneo di compiere la testio l’erede non poteva diventare tale
tramite l’accettazione tacita ma doveva fare la cretio. Se il soggetto non l’avesse fatta sarebbe stato
diseredato: problema se l’estraneo non accetta? I testatori più intelligenti si ponevano il problema e
disponevano una sostituzione “tizio sia erede se non accetta sia erede caio”  sostituzione (volgare o
pupillare  perché se l’erede fosse stato un pupillo -colui che avesse meno di 7 anni- se moriva prima
di diventare maggiorenne cosa succedeva? Se moriva diventava erede un altro; “se il pupillo muore sia
erede tizio”). Crea dei problemi enormi.

LEGATI: sono atti, disposizioni testamentarie, non sono persone. Sono inserite nel testamento da parte
del testatore allo scopo di conferire singoli beni determinati a soggetti che normalmente non sono eredi.
C’è una distinzione tra:
 Erede implica la successione universale se l’erede è uno tutto il complesso del patrimonio
e delle potestà del testatore transitano all’erede, se gli eredi sono più, il complesso viene
suddiviso in quote che se il testatore non dispone altrimenti sono uguali.
 Legato  conferisce al legatario singoli beni determinati. Il testatore non può costituire un
erede per una cosa singola determinata.
Quali erano i tipi di legati: due avevano effetti reali, due avevano effetti obbligatori. I legati con effetti
reali erano: il legato per vindicationem e il legato per praeceptionem; i due con effetti obbligatori erano
il legato per damnationem e il legato sinendim modo.
I due più in uso erano quello per vindicationem e quello per damnationem.

 Per vindicationem: trasferiva immediatamente (in base alla tipologia di erede, per erede 
avveniva subito; se era necessario  passava del tempo) il dominium (il titolo di proprietà) al
legatario. Il possesso del bene legato lo aveva però l’erede che avrebbe dovuto compiere i
negozi translativi necessari per immettere il legatario alla disponibilità concreta del bene,
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attraverso negozi di trasferimento del titolo  se non lo faceva? Se il legatario non si fosse
visto consegnare il possesso del bene poteva vendicarsi (rei vindicatio). Siccome il bene
diventava subito di proprieta del legatario a chi doveva appartenere il bene prima della
successione? Al testatore, era impossibile che con il legato per vindicationes il bene di un terzo
diventasse di appartenenza del legatario. Il proprietario del bene poteva essere solo il testatore.
Aveva effetti reali.
 Per damnationem: si chiamava così perché il nome del legato veniva dalla formula la quale
obbligatoriamente il testatore doveva utilizzare per attuare questo tipo di legato. “io obbligo il
mio erede a trasferire a tizio questa determinata cosa” obbligava l’erede a compiere un certo
comportamento, prestazione a favore di un terzo, il verbo obbligo nella formula era damnio (il
mio erede sia condannato damnas esto dare) che era più forte del verbo obbligo. Data la
struttura della formula e la natura del rapporto che si instaurava tra testatore erede e il legato,
l’oggetto del legato poteva essere di chiunque “tizio sia condannato a dare a caio la macchina
di sempronio”  l’erede doveva cercare di procurarsi il bene in modo lecito, cercando di
acquistarlo ma siccome il terzo non era obbligato a venderlo, questo poteva rifiutarsi, cosa
succedeva? L’ erede avrebbe dovuto trasferire al legatario l’equivalente monetaria.

Il legato sidenti modo era simile a quello per damnatione, ma quest’ultimo nel quale l’erede aveva un
comportamento attivo, in quello sidenti modo l’erede poteva permettere al legatario di prendersi il bene
in eredità in quanto imposto dal testamentario.

Il legato per praeceptionem c’è una preceptio e il legato si chiamava cosi perché nella disposizione il
verbo usato era praecipito (se lo prenda prima della divisione ereditaria). Questo legato almeno fino
alla prima età imperiale era un legato che poteva essere disposto solo a favore di un coerede, il coerede
avrebbe dovuto rima in qualità di legatario sottrarre dall’eredità il bene del legato e poi sulla rimanente
eredità sarebbe ritornato in qualità di coerede. All’inizio questo legato aveva questa limitazione netta di
efficacia, ma dei giuristi proculiani iniziato a dire che se questo prefisso preclitico non ci fosse e invece
di dire praecipito il testatore scrivesse capito, il bene non potrebbe essere trasferito a un terzo invece
che al coerede?
Quando prevalse l’opinione dei proculiani questa poteva essere effettuato anche a favore di un terzo e
on solo verso il coerede.
Questa tipologia di legati era molto cogente perché se il testatore avesse sbagliato qualcosa nei
confronti del legato, il legato sarebbe stato nullo.  i testatori spesso mettevano le mani avanti per
evitare errori utilizzando due formule diverse, perché se era sbagliata una l’altra era giusta. Ecco che al
tempo di Nerone viene emanato un senato consulto (neroniano) importantissimo perché è il primo
passo di un processo storico che porta all’equiparazione dei legati  se il legato fosse stato disposto
con una formula sbagliata bisogna fare finta che fosse stato disposto con una formula giusta
(conversione del legato).

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