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ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO.

Il diritto è il complesso di norme poste dallo Stato sia ai singoli, per prescrivere loro una determinata
condotta, sia a se stesso, per regolare l’esercizio del proprio triplice potere di legiferare, sanzionare e
amministrare. Compito di uno Stato che adempia bene alla sua funzione è quello di individuare tra le
innumerevoli regole di condotta quelle che, per il loro intrinseco contenuto, sono essenziali o almeno utili al
raggiungimento dei fini della società, sicché di esse soltanto è necessario pretendere l’osservanza sia da parte
della minoranza dei consociati che non ne riconoscano l’essenzialità, sia da parte di quegli associati che, pur
riconoscendole in astratto, trovino più conveniente per il proprio interesse individuale non conformarsi.
A caratterizzare come giuridica una norma è il fatto che essa sia emanazione degli organi dello Stato o degli
altri mezzi di produzione normativa da esso ammessi che, in un determinato momento storico, hanno la
funzione di porre le norme destinate ad organizzare la convivenza ordinata e pacifica di una collettività.
Per inquadrare un determinato fatto in una data norma giuridica, occorre, quando si tratti di norma enunciata
(lex), accertare il significato della norma stessa e la sua portata, ossia interpretarla. A tal fine bisogna prima
accertare il significato lessicale di ogni parola dell’enunciato normativo e il nesso grammaticale che lega le
varie parole contenute in esso (interpretazione grammaticale); occorre poi accertare il significato che la
norma assume al lume della logica giuridica, collocandola nel sistema dell’ordinamento giuridico. Talvolta
l’espressione letterale (lettera) ha tradito, per sua imperfezione, la reale volontà (spirito) della legge. Se si
accerta che la lettera è andata oltre lo spirito, si adotterà un’interpretazione restrittiva; nel caso inverso,
un’interpretazione estensiva: si cerca, cioè, di adeguare la lettera allo spirito della legge. Infine, quando
risulti che il caso concreto considerato non possa farsi rientrare sotto alcuna norma giuridica ( lacuna del
diritto), sarà necessario applicare a esso una norma che è stata dettata per un caso analogo (interpretazione
analogica).
L’attività interpretativa è normalmente svolta dal giudice (interpretazione giurisprudenziale) oppure dal
privato giurista (interpretazione dottrinaria). Nei casi più equivoci interviene lo Stato stesso, attraverso
suoi organi legislativi, a fornire l’interpretazione che esso vuole sia data di una norma ambigua; in questo
caso avviene un’interpretazione autentica, cioè promanante dallo stesso autore della norma giuridica. Si
tratta, però, non di un’interpretazione, ma dell’emanazione di una nuova norma che si sovrappone alla
precedente.
Nel significato di diritto come norma giuridica si parla di un diritto oggettivo: si allude, cioè, alla norma
giuridica in sé, indipendentemente dai soggetti a cui è indirizzata; invece, nel significato di diritto come
facoltà o potere concesso ai singoli, si parla di diritto soggettivo. Si tratta di due aspetti del medesimo
fenomeno. Il diritto oggettivo (norma agendi) ha ragione di esistere poiché conferisce ai singoli diritti,
facoltà e doveri; d’altro canto il diritto soggettivo (facultas agendi) può esistere in un determinato soggetto
proprio perché c’è una norma giuridica che glielo riconosce. La ragione per cui il diritto oggettivo conferisce
ai singoli consociati i diritti soggettivi è data dal fatto che nel contrasto fra gli opposti interessi dei
consociati, l’ordinamento giuridico ritiene che uno di essi sia maggiormente meritevole di tutela rispetto agli
altri. Il diritto oggettivo, ogni qualvolta attribuisca a una persona (soggetto attivo) un diritto soggettivo, altro
non fa che attribuirgli il potere di pretendere che uno o più altri soggetti (soggetto passivo) si comportino in
modo tale da consentirgli la realizzazione dell’interesse riconosciutogli. La relazione che intercorre tra
soggetto attivo e soggetto passivo prende il nome di rapporto giuridico.
L’espressione diritto romano designa l’ordinamento giuridico vigente durante i 13 secoli della storia di
Roma, compresi tra la data tradizionale della fondazione dell’Urbe (754 a.C.) e quella della morte
dell’imperatore Giustiniano (565 d.C.). I Romani furono giuristi e il diritto fu l’espressione più originale e
alta della loro civiltà, la quale, proprio in virtù del diritto in cui si era espressa, sopravvisse al crollo del
potere politico di Roma e sopravvive tuttora. Poiché il diritto romano, attraverso una tradizione millenaria, è
stato trasfuso nelle sue linee essenziali nei nostri codici, non potrebbe il giurista moderno rettamente
intendere e interpretarli senza risalire alle loro origini.
Il corso di Istituzioni di diritto romano studia l’ordinamento giuridico dei Romani dal punto di vista
interno, in quanto ne descrive i singoli istituti, ossia i singoli gruppi e sistemi di norme tendenti al
regolamento dei rapporti sociali, con particolare riferimento a quelli che hanno avuto una maggiore influenza
sugli ordinamenti di derivazione romanistica, cioè gli istituti del diritto privato. Non si tratta di un diritto
romano, ma di una serie di successivi sistemi giuridici sovrapposti nel tempo, collegati sempre da un unico
filo conduttore, che, però, si sostituivano progressivamente in base ad una legge evolutiva. Il diritto, infatti,
non è un sistema di norme immutabili ed eterne, fondato su una ratio scripta e perciò valido in tutti i tempi e
per tutti i luoghi; il diritto è invece un fenomeno sociale che si evolve e muta con l’evolversi e il mutare delle
condizioni ambientali: una norma giuridica, sorta in determinate circostanze di tempo e luogo, diviene
disadatta e superata con il cambiare di quelle circostanze che ne determinarono l’emanazione. In tal caso essa
viene abrogata e sostituita da un’altra norma più efficace, oppure si modifica e si adatta alle nuove esigenze.
In conseguenza della particolare mentalità dei Romani, così saldamente legata alla tradizione nel campo
politico e in quello giuridico, religioso, familiare, e così aliena da ogni repentina innovazione, tutto il diritto
di Roma, pubblico e privato, si svolge, senza esplicite riforme, continuamente, ma lentamente per via di
un’interna evoluzione. Pur non ripudiandosi i vecchi principi, anche se divenuti arcaici e inadeguati rispetto
alle nuove condizioni sociali, si costruisce su quella vecchia ossatura tutto un complesso sistema di deroghe,
deviazioni, eccezioni evolutive in modo tale da piegare gli antichi istituti a nuove funzioni.
Una periodizzazione abbastanza diffusa è quella che identifica nella storia di Roma 4 periodi, denominati
rispettivamente arcaico (754-367 a.C.), preclassico (367-27 a.C.), classico (27 a.C.-284 d.C.) e postclassico
(284-565 d.C.). Si ritiene, però, più opportuna una partizione in periodi fondata sul succedersi delle grandi
crisi e delle conseguenti trasformazioni subite dalla società romana nei suoi elementi economici, morali e
spirituali e nelle sue concezioni familiari. A queste grandi crisi e conseguenti trasformazioni della vita
sociale corrispondo, infatti, altrettante crisi e trasformazioni del sistema giuridico. Seguendo questo
orientamento, si possono individuare 3 fasi principali nel corso evolutivo del diritto privato romano.
A) Prima fase. Nel periodo che va dalle origini di Roma (754 a.C.) alla distruzione di Cartagine e Corinto
(146 a.C.) l’ordinamento giuridico dei Romani è arcaico e rigorosamente formalistico. Tutto il diritto riposa
sulle consuetudini degli antenati (mores maiorum, ius non scriptum) e la sola codificazione compiuta,
quella delle XII tavole, non ha la pretesa di soppiantare i mores maiorum, limitandosi a raccogliere e
precisare alcune delle principali norme di diritto pubblico, privato e processuale. Nell’interpretazione sia
delle leggi sia degli atti privati non s’indaga lo spirito delle norme giuridiche o la volontà dei privati autori,
ma semplicemente ci si attiene al significato letterale delle parole usate. L’errore nell’impiego di una sola
parola del formulario utilizzato rende nullo l’atto compiuto o determina la perdita della lite.
Quest’ordinamento, denominato ius civile Quiritium, tutto pervaso dei requisiti dell’oralità e della
solennità, è sufficiente in relazione alle esigenze di un piccolo comune agricolo qual è la Roma primitiva,
poiché gli inconvenienti lamentati sono rimossi, o almeno temperati, dalla lealtà (fides) degli originari
patres familias che si conoscono bene fra loro. In seno alle singole famiglie, poi, ogni contrasto manca,
oppure è facilmente eliminato dal potere sovrano e assoluto del pater familias, nell’esercizio della cui
autorità non si intromette neppure lo Stato, e di fronte al quale tutti gli altri membri del gruppo familiare
sono nella condizione di sudditi, privi di autonomia personale e patrimoniale. Su tutte le cose, mobili o
immobili, che costituiscono la ricchezza del gruppo familiare, il solo pater familias ha un’assoluta signoria
(dominium); tale signoria è persa solo con la morte, a favore di colui che succederà al pater (heres), per
designazione dell’ordinamento giuridico o del pater stesso mediante un apposito atto solenne
(testamentum). I rapporti di credito e debito fra i patres familias danno vita ad obbligazioni, concepite come
vincoli di personale asservimento del debitore al creditore, vincolo che può condurre anche alla prigionia,
alla schiavitù e all’uccisione del debitore inadempiente.
B) Seconda fase: dalla distruzione di Cartagine e Corinto (146 a.C.) all’impero di Diocleziano (284 d.C.). Il
ius civile Quiritium risulta inadeguato rispetto alle esigenze determinate dall’espansione mediterranea
dell’Urbe. Sotto i colpi delle nuove idee crollano tutti gli antichi idoli: si disintegra la saldezza originaria
dell’organismo familiare e si infrolliscono i costumi.
Ma, di fronte a questi risultati negativi, altri positivi e rilevanti sono prodotti dalla crisi dell’ultimo periodo
repubblicano, e la società si trasforma da agricola in mercantile e si diffonde la cultura superiore del mondo
ellenico.
Quel che è caratteristico del diritto romano è che l’evoluzione dell’ordinamento giuridico non procede in
Roma per via di successive riforme legislative: l’evoluzione si compie per opera di vari fattori che vi
collaborano in maggiore o minore misura.
a) Il ius honorarium. Nei primi due secoli della seconda fase, il preator (istituito dal 367 a.C.) emana ogni
anno, all’atto della sua entrata in carica, un edictum, col quale fissa e rende noto il programma a cui si
atterrà nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale. Egli non è un legislatore e quindi non può modificare
le norme del ius civile; tuttavia egli, in forza dell’imperium (supremo potere di cui è investito al pari del
console), enuncia:
1) una serie di casi che non sono sufficientemente regolati dal ius civile, per i quali promette una più
completa regolamentazione;
2) una serie di casi non contemplati dal ius civile, per i quali promette tutela o repressione;
3) una serie di casi per cui l’applicazione del ius civile condurrebbe a risultati che la nuova coscienza sociale
reputa ora iniqui.
Per questi casi il pretore, pur non dichiarando abrogata la norma civile, promette di regolarsi in modo
difforme da essa, al fine di obbedire alle esigenze dell’aequitas. Tali 3 finalità del ius praetorium (detto
anche honorarium essendo la carica magistratuale onorifica e onoraria), sono sintetizzate dal giureconsulto
Papiniano (“il diritto pretorio è quello che i pretori introdussero per la pubblica utilità, al fine di favorire, di
supplire o di correggere il diritto civile”).
b) Il ius gentium. Accanto al praetor urbanus, viene istituita, attorno al 240 a.C., un’altra magistratura
analoga, il praetor peregrinus, al quale è attribuita la iurisdictio relativa alle controversie fra cittadini
romani e peregrini, oppure fra peregrini di diversa nazionalità. Infatti, nelle liti fra cittadini romani e non
cittadini non potrebbe applicarsi il diritto romano, che è esclusivo dei cives, né il diritto del non cittadino,
che non si applica ai Romani (principio della personalità del diritto). In questi casi il praetor peregrinus
imposta la lite in base a quei principi che non sono propri dei singoli diritti nazionali, ma comuni a tutti
poiché fondati sulla naturalis ratio. Il giudice, quindi, esaminando la controversia così impostata, deciderà
tenendo conto di quei principi generali e della buona fede delle parti.
Dall’editto del pretore peregrino si vien formando così un ordinamento speciale, che, per essere fondato su
principi comuni a tutti i popoli, è detto ius gentium. Applicato dapprima ai rapporti tra Romani e peregrini,
questo viene ben presto recepito anche nel campo dei rapporti tra cives per i grandi vantaggi che presenta.
Esso, tuttavia, non è, come il ius honorarium, in opposizione al ius civile, ma si affianca a quest’ultimo fino
ad esserne quasi del tutto assorbito.
c) I senatus consulta. Sorti quali deliberazioni del Senato aventi valore consultivo, assumono nel tempo
carattere di mezzi creatori di norme giuridiche. Il giureconsulto Gaio li annovera tra le fonti del diritto, in
quanto i senatus consulta, nella comune coscienza, hanno la stessa forza cogente della lex.
d) Le costituzioni imperiali. Con il progressivo riconoscimento della posizione preminente del princeps su
tutti i cives si è indotti ad attribuire il più alto valore alle sue manifestazioni di volontà in materia giuridica
(constitutiones principis) nelle varie forme di edicta, rescripta, decreta e mandata.
e) La prassi delle cognitiones extra ordinem. A partire dall’ultima età repubblicana e poi sempre più in
quella del Principato, un gran numero di materie di lite è sottratto alla giurisdizione ordinaria del pretore e
del giudice privato (ordo iudiciorum privatorum) ed è, invece, sottoposto alla cognizione di magistrati o
funzionari particolarmente competenti (come il censor o il praefectus annonae) che giudicano al di fuori
della normale procedura (extra ordinem iudiciorum privatorum).
f) L’opera della giurisprudenza. A tutti i fattori dell’evoluzione del diritto romano sovrasta l’opera della
giurisprudenza, cioè l’elaborazione scientifica del diritto da parte dei giuristi. Mediamente essa agisce
attraverso gli altri fattori di evoluzione del diritto, poiché tutti questi possono essere ricondotti all’attività
multiforme della giurisprudenza stessa.
Direttamente l’opera della giurisprudenza si manifesta attraverso l’attività scientifica dei giuristi: questa si
concreta nei responsa dati agli interessati e nella compilazione di opere. Attraverso il profondo esame di
innumerevoli casi concreti i giureconsulti procedono ad una completa elaborazione del sistema giuridico: il
metodo di cui essi si servono è la interpretatio iuris. Nel mondo romano interpretari vuol dire, in certi
casi, addirittura creare il diritto: infatti, vi è una numerosa serie di casi per i quali, in mancanza di una norma
scritta, bisogna trarre dal costume la regolamentazione giuridica. Rispetto a questi casi, il giurista romano,
profondo conoscitore dei mores, doveva egli stesso trarre ed elaborare da essi la norma giuridica, inquadrarla
nel sistema e dedurne tutte le possibili conseguenze teoriche e pratiche.
Qualora il rigido attaccamento ai verba delle leggi o degli atti privati minacci di dare risultati iniqui, in
contrasto con la mens legis o con la reale voluntas dell’autore dell’atto, la giurisprudenza dell’età classica sa
dare il dovuto rilievo alla mens legis o alla voluntas, facendoli, dove occorra, prevalere sui verba.
Così l’arcaico ius civile, pur se ancora formalmente in vigore, è ogni giorno mitigato, paralizzato, scalzato
nella sua rigida applicazione dai nuovi principi, per rimanere punto di partenza teorico, ma in realtà non
applicato, di ogni singola decisione. Le diverse forze evolutive hanno in realtà ricreato il diritto romano,
giungendo alla costruzione di un ius novum, di un nuovo diritto equo e universale, atto a reggere la società
cosmopolita di un grande impero (diritto nuovo e universale che l’Editto di Caracalla del 212 d.C. estese a
tutti i popoli dell’Urbe romano).
C) Terza fase. Da Diocleziano (284 d.C.) a Giustiniano (565 d.C.). Nell’età postclassica si attua un processo
di semplificazione e di unificazione dei vari ordinamenti giuridici classici.
Scomparse le magistrature classiche per essere sostituite da altrettanti funzionari imperiali, che derivano la
loro autorità direttamente dall’imperatore (scomparso, quindi l’ordo iudiciorum privatorum), il nuovo
giudice di Stato, alla cui presenza si svolgono tutte le liti, decide le controversie applicando i principi più
equi, che si erano consolidati anche nella giurisdizione classica, ma superando tutta quella tecnica
processuale, impostata sulla contrapposizione edittale fra rimedi pretori e ius civile, alla quale era costretto,
per sua posizione costituzionale, il pretore. Nella prassi delle cognitiones extra ordinem si attua così la
fusione dei vari ordinamenti classici, in particolare del ius civile con il ius honorarium, in un unico
ordinamento, con naturale prevalenza dei principi introdotti dall’ordinamento onorario. Per designare questo
nuovo diritto nuovo diritto nato dalla prassi, giudiziaria e negoziale, del periodo postclassico, la dottrina ha
parlato di un “diritto romano volgare”.
Altri fattori hanno influito sulla trasformazione del diritto in età postclassica. Bisogna considerare l’influsso
dei diritti provinciali (soprattutto greci) conseguente all’editto emanato nel 212 d.C. dall’imperatore
Antonino Caracalla, con cui era stata estesa la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero romano. La
concessione, che, superando il principio della personalità del diritto, aveva reso dall’oggi al domani
obbligatoria l’applicazione del diritto romano in tutti i territori dell’impero, determinò infatti un’inevitabile
reazione dei diritti locali, precedentemente vigenti, sul diritto ufficiale, con la conseguente trasfusione in
quest’ultimo di molti principi orientali.
Le fonti di cognizione del diritto romano sono tutti quei documenti che riferiscono, in modo più o meno
tecnico, norme giuridiche romane. Può trattarsi così di fonti letterarie oppure di fonti giuridiche, come
epigrafi che riproducono testi di legge o scritti di giureconsulti. Dal punto di vista cronologico, le fonti
giuridiche vanno distinte in pregiustinianee e giustinianee. Le fonti giustinianee altro non sono che il
Corpus iuris civilis di Giustiniano, vale a dire la vasta e celebre compilazione ordinata dall’imperatore ad
apposite commissioni legislative. Questo fu compiuto dal 530 al 534 d.C. nelle prime 3 parti denominate
rispettivamente Digesta, Institutiones e Codex, mentre le singole leggi che Giustiniano continuò ad emanare
dal 535 al 565 d.C. furono raccolte, ad opera di privati, in una quarta parte del Corpus, denominata Novellae
(cioè novellae leges, nuove costituzioni). I Digesta sono un’antologia, in 50 libri, di brani (frammenti)
estratti dagli scritti di giureconsulti romani e ordinati sistematicamente per materia. Le Institutiones sono
un’operetta legislativa e didattica al tempo stesso, in 4 libri, avente carattere elementare e composta di brani
tolti dalle Institutiones dei giuristi romani, specialmente di Gaio. Il Codex è una raccolta in 12 libri di leggi
emanate dagli imperatori del periodo classico e postclassico nonché dallo stesso Giustiniano.
Le norme giuridiche del periodo arcaico di Roma non derivarono dalla volontà di un legislatore, ma dai
mores maiorum. Furono regole di condotta tramandate di padre in figlio, con il convincimento della loro
necessità e obbligatorietà, in quanto il loro fondamento risaliva alla volontà divina (fas) e in quanto gli
antenati che le avevano osservate e tramandate era divenuti, morendo, essi stessi dei (manes). Da questo
derivò la convinzione dell’immutabilità del ius civile. Tuttavia, i mores maiorum avevano bisogno di essere
interpretati e adattati ai singoli casi pratici della vita quotidiana e a questo provvide l’interpretatio. Nel
periodo della giurisprudenza pontificale, cioè del patriziato (alla cui classe appartenevano proprio i
pontefici), l’interpretatio si prestava ad arbitri della classe dominante ai danni della plebe. Da ciò le
agitazioni e le secessioni, fino a quando l’esigenza della certezza del diritto fu appagata con la concessione
da parte dei patrizi delle prime leggi scritte, le XII Tavole. Il complesso delle norme derivanti dai mores
maiorum (ius in senso stretto) e dalle leges comiziali, elaborato dalla giurisprudenza in sistema unitario,
costituì il ius civile, cioè il diritto applicato esclusivamente ai cives romani.
Nell’età postclassica, scomparsi tutti gli organi della costituzione repubblicana e del principato, unica fonte
del diritto fu la volontà del monarca, dominus e non più princeps. Il termine lex, prima sinonimo di volontà
popolare, divenne sinonimo di constitutio imperatoria. L’imperatore si degnò di riconoscere valore di norma
giuridica agli scritti dei più famosi giureconsulti dell’età classica, scritti che furono denominati
collettivamente iura. Iura et leges furono i due termini che ricompresero in sé ogni fonte del diritto.
Nell’uso romano, il termine ius, oltre alle accezioni di diritto oggettivo e diritto soggettivo, ricorre comunque
in numeroso altre accezioni: come rito o forma solenne da osservare (Gaio qualifica ius la mancipatio); come
situazione soggettiva di capacità patrimoniale; come condizione giuridica complessiva di un soggetto;
oppure ancora come luogo in cui, dinanzi al magistrato, si svolge la prima fase del processo privato.
Le norme del diritto furono raggruppate dalla giurisprudenza, per fini sistematici, in varie categorie:
A) Ius publicum e ius privatum. Questa distinzione allude a due aspetti dell’unica funzione che ha
l’ordinamento giuridico romano. Esso, infatti, tende alla regolamentazione di un’ordinata vita sociale,
nell’interesse dell’intera collettività e quindi del singolo; ma tale fine è raggiunto, da un lato mediante una
serie di norme che disciplinano il modo di essere (status) e il funzionamento dell’organizzazione sociale,
dall’altro, mediante un’altra serie di norme che si rivolgono ai singoli privati in quanto tali, nell’interesse
immediato di questi ultimi. L’utilità dei privati non è contrapposta a quella dello Stato perché le norme di
diritto privato, per quanto dettate nell’interesse immediato dei singoli, attuano sempre, per riflesso, un’utilità
indiretta o mediata dell’intera collettività, mentre, d’altro canto, le norme di diritto pubblico si risolvono, in
definitiva, nell’attuazione di un’utilitas per tutti i privati. Conseguenza del riconoscimento del carattere
pubblico o privato di una norma è il fatto che le norme di ius publicum sono inderogabili e vanno
assolutamente osservate, mentre le norme di ius privatum, poiché dettate per l’immediata utilitas dei singoli
privati, possono essere da questi derogate.
B) Ius commune, ius singulare, privilegium. L’antitesi si pone tra ius commune e ius singulare: il primo
rappresenta la regola, il secondo l’eccezione. Appartengono, infatti al ius commune tutte quelle norme che
sono di generale efficacia: è questo il caso normale. Talvolta, però, è opportuno, per ragioni di particolare
utilità, discostarsi dal sistema del ius commune e stabilire, per determinate categorie di persone, delle norme
speciali che derogano ad esso: tali norme costituiscono proprio il ius singulare.
Diverso da quello di ius singulare è, almeno in origine, il concetto di privilegium. Il termine designa in un
primo tempo una norma diretta contro una determinata persona (lex in privos lata); pertanto, i privilegia
furono vietati, fin dalle leggi delle XII Tavole, perché ripugnanti al concetto essenziale che tutti debbono
essere uguali di fronte alla legge. In epoca successiva, il termine assunse il significato favorevole che ancora
oggi gli è proprio, sicché a partire dalla tarda età repubblicana, i privilegia (in bonum) finirono spesso col
confondersi con il ius singulare.
C) Ius civile, ius gentium e ius naturale. Nella maggioranza delle opere dei giureconsulti classici non
appare accanto al ius civile e al ius gentium il “diritto naturale”, ma semplicemente si afferma che la
naturalis ratio, che sta a fondamento degli istituti del ius gentium, giustifica l’universale applicabilità proprio
del ius gentium a tutti gli uomini liberi.
La tricotomia tra ius civile, ius gentium e ius naturale emerge da alcuni passi del Corpus iuris civilis, nei
quali il ius naturale appare come un terzo ordinamento, autonomo rispetto agli altri due. L’origine filosofica
di tale tricotomia può desumersi dalla discussione svoltasi a proposito della schiavitù, che nel sistema di
Gaio si inquadrava nel ius gentium perché comune a tutti i popoli, mentre le dottrine stoica e cristiana furono
concordi nel rilevare che la schiavitù, sebbene riconosciuta dal ius gentium, non è certo conforme alla
naturalis ratio, anzi è contra naturam: da ciò lo spunto dell’impossibilità di far coincidere il ius gentium con
il ius naturale.
Il tentativo, che si riscontra nel Digesto, di costruire il ius naturale come un ordinamento ideale e astratto
perché fondato non sull’arbitrio del legislatore ma sulla naturalis ratio è attendibile, ma non ha resistito di
fronte alla dimostrazione, offerta dalla Scuola storica del XIX secolo, che non esiste un diritto immutabile
per tutti i tempi e tutti i luoghi, essendo al contrario il diritto un fenomeno essenzialmente sociale, mutevole
col mutare di luoghi e tempi.
D) Ius strictum e ius aequum. I termini aequitas, aequum significano originariamente “eguaglianza,
eguale” e vogliono esprimere il concetto che la norma giuridica deve essere applicata in modo da garantire
un eguale trattamento a due casi pratici identici. Ma poiché due casi uguali difficilmente esistono, l’aequitas
deve essere raggiunta tenendo conto di tutte le particolari circostanze soggettive e oggettive di ogni
fattispecie. Aequitas diviene allora sinonimo di “giustizia ideale”, nel senso che una norma giuridica, se
rigidamente applicata in modo da non corrispondere nel caso concreto all’ideale della giustizia, dà luogo ad
un’iniquitas. La distinzione fra ius strictum e ius aequum sorge in conseguenza dell’atteggiamento critico
assunto da una più evoluta coscienza giuridica, che sia già in grado di apprezzare la disarmonia tra il
contenuto di una norma positiva e un ideale astratto di giustizia. Simile contrasto si manifesta quando una
norma antica si va mostrando sempre più inadeguata alle esigenze dei nuovi tempi, in quanto conduce a
risultati non più socialmente apprezzati. Il rimedio più ovvio sarebbe allora l’abrogazione di quella norma;
ma tale rimedio è alieno alla mentalità tradizionalistica romana. Questa vi pone riparo o in via di fatto,
mediante i rimedi correttivi del pretore, oppure in via teorica, mediante l’interpretatio.
Secondo la concezione romano-classica, il ius aequum s’inquadra e trova il suo posto nel sistema giuridico,
di cui è parte integrante; l’aequitas, anzi, è proprio l’anima del diritto. Nella Compilazione giustinianea,
invece, il ius aequum e l’aequitas sono rappresentati come giustificazione di decisioni contrarie alle norme
dell’ordinamento giuridico. Qui l’aequitas non è più parte integrante dell’ordinamento giuridico, ma diviene
un’entità superiore, ma comunque estranea al diritto, che si confonde con concetti meno tecnici come pietas.
Si dicono diritti relativi quei diritti nei quali l’interesse del soggetto attivo non può realizzarsi se non
attraverso la collaborazione di soggetti passivi, nei cui soli confronti il titolare del diritto relativo può far
valere la sua pretesa. La posizione giuridica del soggetto passivo è definita “obbligo”. L’azione giudiziaria
che compete per far valere questi diritto, mirando ad affermare un oportere (cioè un dovere di
comportamento di una persona) è detta actio in personam.
Diritti assoluti sono, invece, quelli nei quali il soggetto attivo è in grado di realizzare il proprio interesse
senza la collaborazione di altri consociati, i quali, però, rispetto a tali diritti, sono tutti soggetti passivi. A
questa categoria appartengono i c.d. diritti reali, nei quali appunto il titolare può vantare il suo diritto contro
chiunque venga a turbarne il godimento (erga omnes). L’azione giudiziaria che compete in tal caso, mirando
ad affermare una pretesa su una res (cosa), è esperibile contro chiunque entri in relazione abusiva con la cosa
che forma oggetto del diritto assoluto, e dicesi actio in rem.
Quanto alla perdita dei diritti, dipendente dal verificarsi di eventi determinati, previsti per legge (fatti
giuridici), può configurarsi un’estinzione assoluta, allorché un determinato diritto cessa d’esistere, oppure
un’estinzione relativa all’attuale titolare del diritto, mentre il diritto in sé sopravvive, trasferendosi ad altro
soggetto. Un caso importante di estinzione di diritti è quello in cui essa può dipendere dal decorso del tempo
(prescrizione). Talvolta, poi, un diritto, per il verificarsi di circostanze che ne sospendono la possibilità di
esercizio, attraversa una fase di quiescenza cui può seguire, qualora tali circostanze cessino, la sua
reviviscenza.
Si ha in certi casi la volontaria alienazione del diritto da parte del titolare in favore di un altro soggetto;
perché l’alienazione sia efficace occorre che l’alienante abbia la facoltà di compierla (abbia, cioè, la capacità
di agire e la legittimazione). Non tutti i diritti sono alienabili: quelli intimamente connessi alla persona del
titolare (diritti personali) sono inalienabili. L’alienazione può essere compiuta dal titolare in modo che
abbia effetto durante la sua vita (inter vivos) oppure dopo la sua morte (mortis causa).
Un caso particolare di trasferimento del diritto è costituito dalla successione. In età classica si aveva
successione quando un soggetto subentrava nella situazione giuridica di un altro soggetto, estinto per morte
(successione mortis causa) o per sopravvenuta incapacità giuridica (successione inter vivos). Nel diritto
giustinianeo, scomparse le ipotesi di successione inter vivos, si distinse una successio in universum ius,
propria dell’erede che subentrava in blocco nella situazione giuridica del defunto, acquistando un unico
diritto complessivo (la hereditas con tutto il suo contenuto patrimoniale, attivo e passivo), da una successio
in singulas res, propria di chiunque subentrasse invece in un singolo rapporto giuridico. Da ciò ha tratto
origine la moderna terminologia che distingue una “successione a titolo universale” da una “successione a
titolo particolare”.
Una figura diversa dal diritto soggettivo, esposta comunque a vicende costitutive ed estintive analoghe, è
l’aspettativa. Questa si ha quando siano già in essere i presupposti per l’acquisto di un diritto, ma occorre
ancora, perché tale acquisto si verifichi, che accada un fatto al momento incerto (ad esempio, la nascita del
già concepito). L’ordinamento tutela le aspettative, disponendo il divieto di atti che potrebbero sia impedire
il verificarsi dell’evento atteso, sia vanificarne l’accadimento.
12. La personalità giuridica. Il soggetto che è, da un lato, destinatario del diritto oggettivo e, dall’altro,
titolare del diritto soggettivo, è denominato con termine giuridico “persona”. Questo soggetto ha una
personalità che gli viene riconosciuta dall’ordinamento giuridico e che perciò può dirsi in senso lato
“personalità giuridica”.
13. Capacità giuridica. L’attitudine che la persona ha ad essere titolare di diritti e destinatario di doveri è
detta “capacità di diritto o capacità giuridica”. I Romani non avevano termini tecnici idonei ad esprimere i
concetti di “soggetto” e di “capacità giuridica”; essi impiegavano espressioni varie che, pur potendo apparire
analoghe a quelle moderne, non hanno invece valenza tecnica o significato comune corrispondente: è il caso,
ad esempio, di espressioni come homo e caput (che designano sia il libero che lo schiavo) o anche persona,
che, pur avvicinandosi all’attuale espressione tecnica di soggetto, mira anch’essa però, nel suo significato più
diffuso, a designare solo l’essere umano in ogni sua possibile condizione.
14. Categorie di soggetti. Persone fisiche e persone giuridiche. La capacità giuridica non spetta
unicamente alla persona fisica, poiché il diritto riconosce la capacità giuridica anche ad alcuni enti astratti,
detti enti morali, che non sono essere umani, ma che, riguardo alla materia patrimoniale e sotto determinate
condizioni, sono considerati alla stessa stregua degli uomini, cioè come essi titolari di diritti e obblighi. Si
suole allora qualificare il soggetto-uomo come “persona fisica” e il soggetto-ente come “persona giuridica”.
15. Requisiti per la capacità giuridica delle persone fisiche.
A) L’esistenza fisica: inizio e fine. Mezzi di prova. Presupposto per il riconoscimento della capacità
giuridica di una persona fisica è la materiale esistenza di quest’ultima. Affinché una persona sia in essere è
sufficiente che sia nata viva, anche se la vita duri un solo istante. Almeno dall’ultima età repubblicana
l’individuo si considerava nato nel momento del suo distacco dalla madre, avvenuto spontaneamente o
provocato attraverso intervento chirurgico. Al fine della prova della vita, requisito essenziale poiché il nato
morto si considerava come mai esistito, si considerava sufficiente che il nato avesse dato un qualsiasi segno
di vita, oppure era richiesto che avesse emesso un vagito.
Se la nascita era requisito per il riconoscimento della soggettività, non per questo tuttavia il semplice
concepito (conceptus) era privo di considerazione giuridica. Vi erano casi (ad esempio, quando il nascituro
avesse aspettative ereditarie) nei quali esso si considerava come già nato e poteva perciò essergli nominato
un curatore (curator ventris), al quale spettavano poteri analoghi a quelli di un tutore. La persona fisica
cessava di esistere con la morte.
La prova delle vicende legate alla nascita, alla vita e alla morte degli individui si dava attraverso
dichiarazioni private (testationes). Solo a partire dal II sec. d.C. si introdusse l’obbligo di ciascun cittadino
di denunciare presso appositi funzionari la nascita dei propri figli.
B) Gli status personae. La Capitis deminutio. A differenza del diritto attuale, secondo il ius civile la
semplice esistenza fisica di un soggetto non era sufficiente per il riconoscimento della personalità giuridica.
Perché all’individuo potesse attribuirsi la capacità giuridica patrimoniale, occorreva che esso si trovasse in
una determinata situazione (status): occorreva, cioè, che l’individuo fosse libero, cittadino romano e sui iuris.
Tuttavia, dal punto di vista del ius honorarium (e poi anche di quello del diritto derivante dalle costituzioni
imperiali) la soggettività di diritto privato ebbe una regolamentazione diversa. Figli e schiavi furono
considerati, infatti, sotto vari profili, in una condizione giuridica, anche dal punto di vista dei diritti
patrimoniali, analoga a quella dei patres familias. Così, ad esempio, si riconobbe allo schiavo il diritto di
tenere rapporti d’affari, aventi specifica tutela pretoria, perfino nei confronti del proprio dominus.
Quando le modificazioni di status comportano l’estinzione dei vincoli agnatizi in atto, i Romani parlano di
capitis deminutio: maxima, quando è conseguenza della perdita di libertà; media o minor, quando è
conseguenza della perdita della condizione di cittadino romano; minima, quando è conseguenza di fatti che
non incidono sulla condizione di libertà e cittadinanza, ma implicano un mutamento dello status familiae:
adrogatio o adoptio, conventio in manum, mancipatio a scopo di noxae deditio.
17. Cause che limitano la capacità giuridica di diritto privato delle persone fisiche. Per quanto un
soggetto fosse sui iuris, egli poteva trovarsi in una di quelle situazioni che erano causa di limitazione della
sua capacità giuridica.
A) Disistima sociale. Ignominia e infamia. L’ordinamento giuridico romano sancì diverse limitazioni di
capacità giuridica a carico di persone meritevoli, per svariate ragioni, di disistima morale e sociale. In età
classica si parla di ignominia o di infamia. Sono colpiti da infamia tutti coloro che, per atti considerati
gravemente immorali, perdono la pubblica stima. Si distingue un’infamia mediata, come conseguenza di
una condanna per certi delitti infamanti (come il furto), da una infamia immediata, che colpisce una persona
senza bisogno di giudizio, per il fatto stesso di aver compiuto azioni ignominiose (come l’esercizio di
mestieri turpi). Questa infamia, rilevante nel campo del diritto pubblico (comportando la perdita del ius
suffragii e del ius honorum), produceva considerevoli diminuzioni della capacità di diritto privato in base
alle norme dell’Editto pretorio, il quale vietava agli infami di stare in giudizio in luogo d’altri e di farsi
rappresentare in giudizio da altri.
B) Addictio e nexum. Si tratta di condizioni personali note all’antico ius civile. L’addictio riguardava il
debitore inadempiente che, stante la natura personale dell’antica esecuzione contro i debitori, veniva dal
magistrato assegnato (addictus) al creditore, che poteva tenerlo in catene nel suo carcere privato e
all’occorrenza venderlo come schiavo o ucciderlo. La nexum riguardava la persona del debitore, che veniva
sottoposto al creditore quasi a titolo di pegno, in virtù di una speciale applicazione della mancipatio.
C) Redemptio ab hostibus. Chi è stato riscattato dalla prigionia di guerra si trova in posizione quasi servile
rispetto a colui che ha sborsato la somma del riscatto. Il riscattato rimarrà presso il riscattante quasi a titolo di
pegno, fino a quando avrà restituito la somma oppure l’avrà scomputata con il suo lavoro.
D) Auctoramentum. È il contratto con cui i gladiatori (auctorati), che venivano reclutati dall’impresario dei
giochi, si impegnavano, all’atto dell’arruolamento, a sostenere combattimenti nei circhi, anche a costo della
vita.
E) Sesso femminile. La posizione giuridica della donna romana (mater familias) è inferiore a quella
dell’uomo, in dipendenza della struttura rigidamente patriarcale della società romana. La donna romana, a
parte una totale incapacità nel campo del diritto pubblico, ha una capacità giuridica di diritto privato soggetta
a varie limitazioni; ella non può essere titolare di patria potestas sui figli, anche in mancanza del loro padre,
e per tutta l’età classica non può adottare figli e non può esercitare l’ufficio di tutrice.
F) Classi e condizioni sociali. Causa che limita la capacità di diritto privato fu anche talvolta l’appartenenza
ad una classe sociale reputata inferiore a quella che di volta in volta ebbe la supremazia sociale e quindi
giuridica.
Si contrapposero patriziato e plebe nell’età regia e nella prima età repubblicana; nobilitas, ordo equester e
plebs (nel nuovo senso di cittadini privi di censo) nell’ultima età repubblicana e in quella imperiale: tuttavia,
queste contrapposizioni sociali non ebbero rilevanza per il diritto privato. Grave diminuzione della capacità
comportò, invece, l’appartenenza, nel periodo post-classico, al colonato. I contadini e i loro figli divengono
glebae adscripti, legati alla terra, con cui formano un tutt’uno dal punto di vista giuridico, cosicché i coloni
seguono le sorti del fondo e passano col fondo stesso da un proprietario all’altro. Sebbene il colono sia un
uomo libero, egli subisce anche altre limitazioni, che ne distinguono la condizione da quella degli altri
uomini liberi: è soggetto alla disciplina corporale del padrone del fondo; se fugge, è trattato come lo schiavo
fuggitivo.
25. La capacità di agire. Mentre la capacità giuridica è la capacità di essere destinatari del diritto oggettivo
(di diventare cioè titolari di diritti soggettivi e destinatari di doveri), la capacità di agire è la capacità concreta
o di fatto di manifestare una volontà giuridicamente rilevante e quindi di compiere atti giuridici. La capacità
di agire è riconosciuta dai Romani, nel diritto privato, alle persone fisiche, indipendentemente dal fatto che
abbiano o meno la capacità giuridica.
26. Cause che escludono o limitano la capacità di agire delle persone fisiche sui iuris.
A) Età. L’uomo appena nato non ha, ovviamente, la capacità di esercitare i suoi diritti né può essere
responsabile dei suoi atti. Egli acquista questa capacità naturale, e con essa la capacità di agire, quando ha
compiuto il suo sviluppo fisico e mentale, il che, secondo la concezione romana, coincideva con il
raggiungimento della pubertà. E poiché tale momento varia da individuo a individuo e da luogo a luogo,
l’antica giurisprudenza riteneva che la pubertà dovesse accertarsi caso per caso. Nel diritto giustinianeo,
invece, prevalse l’opinione per cui gli uomini raggiungevano la pubertà all’età di 14 anni e le donne all’età di
12 anni. Il diritto romano classifica gli uomini secondo la loro età in impuberes e puberes. Tra gli impuberi,
è definito infans il bambino nei primi anni di vita; egli non ha alcuna capacità d’intendere e di volere e,
quindi, alcuna capacità di agire. In quest’età è perciò totalmente sostituito in ogni suo atto dal tutore. Dai 7
anni, il fanciullo si considera “infantia maior”, ha già una limitata capacità di agire. Poiché si tende a
tutelare la condizione degli impuberi, si ammette che essi possano compiere validamente da soli tutti quegli
atti che ridondano a loro vantaggio ma non tutti quegli atti che produrrebbero loro o una perdita o un obbligo
attuali o eventuali. Per compiere questi ultimi atti, gli impuberi hanno bisogno della assistenza del tutore
(auctoritatis interpositio). Raggiunta la pubertà, l’individuo acquista la piena capacità di agire. La tutela,
salvo che per le donne, si estingue.
B) Sesso femminile. L’appartenenza al sesso femminile è anche causa limitante della capacità di agire.
Infatti, la donna, pur avendo raggiunto la pubertà, continua ad essere considerata parzialmente incapace, a
causa della sua naturale leggerezza, per cui, uscita dalla tutela degli impuberi, ricade sotto la speciale tutela
mulierum. L’auctoritatis interpositio del tutore, tuttavia, è necessaria solo per gli atti giuridici più
importanti. Le limitazioni di capacità di agire della donna, fondate sull’originaria struttura patriarcale della
famiglia romana, vennero progressivamente attenuandosi, fino a diventare soltanto formali e a risultare
abolite nel diritto tardo antico.
C) Infermità. Come principio generale il diritto romano non pone le infermità fisiche tra le cause limitanti la
capacità di agire. D’altra parte, per alcuni atti per cui si richiedono particolari attitudini fisiche, sono
considerati incapaci coloro che, a causa di infermità, tali attitudini non possiedono. Molto più grave è la
questione relativa all’infermità di mente (furor o dementia). Poiché fondamento della capacità di agire è
l’idoneità del soggetto a intendere e volere, tale capacità non può essere riconosciuta al furiosus, il quale
sarà sostituito nella sua attività da un curator furiosi. L’incapacità di agire dell’alienato esisteva e durava in
quanto di fatto sussistesse la relativa infermità di mente. Si fini così con l’ammettere la validità o
l’imputabilità di un atto giuridico compiuto dal furioso durante un lucido intervallo.
D) Prodigalità. Il prodigo non poteva compiere tutti quegli atti che rendessero peggiore la sua condizione
patrimoniale. Era prevista una formale “interdizione” del prodigo (decreto del pretore, che gli vietava di
compiere atti di commercio), sicché non si ammettevano per esso lucidi intervalli. La gestione del patrimonio
del prodigo era affidata ad un curator.
30. Le persone giuridiche. L’esigenza della creazione della persona giuridica può presentarsi in relazione a
2 tipi di fenomeni: quello rappresentato dalla corporazione (cioè da un insieme di persone, collegate dal
perseguimento di uno scopo comune) e quello rappresentato dalla fondazione (cioè da un insieme di beni,
unificati dalla durevole destinazione a uno scopo).
31. Corporazioni. Un primo gruppo di persone giuridiche a base associativa è costituito dalle collettività
politiche (lo Stato, detto populus Romanus, i municipia, le coloniae). Il loro riconoscimento fu originario,
oppure derivò da uno specifico provvedimento (per le colonie, la legge che le istituiva). Mentre però il
populus Romanus ebbe sempre la sola capacità di diritto pubblico, sicché i rapporti in cui esso interveniva
erano regolati sempre e soltanto dal ius publicum, municipi e colonie ebbero capacità anche nel diritto
privato. Personalità giuridica di diritto esclusivamente privato ebbero, invece, le solidates e i collegia. Le
prime erano associazioni aventi finalità di culto; i secondi perseguivano finalità sociali o professionali.
La giurisprudenza elaborò il principio per cui non potesse costituirsi corporazione senza una pluralità di
associati, che fu determinata nel numero minimo di 3. Il successivo venir meno di tale pluralità non impediva
la sussistenza della corporazione. La capacità giuridica delle associazioni riguardava i diritti patrimoniali in
genere, ma si riconobbe loro talvolta la titolarità di diritti di contenuto anche personale (come il patronato).
32. Fondazioni. Una persona fisica può proporsi un fine benefico cui vuole destinare un complesso di beni o
una somma di denaro, preoccupandosi di vincolare a quel fine, anche dopo la sua morte, questi valori
patrimoniali. Per assicurare l’adempiersi in perpetuo di tale volontà, il diritto moderno talvolta distacca il
patrimonio dalla persona del disponente e fa vivere ad esso una propria vita, personificandolo. In tal modo, il
patrimonio è considerato esso stesso come un soggetto, avente come fine da perseguire quello impostogli dal
fondatore; il patrimonio-soggetto agisce attraverso le persone fisiche degli amministratori che si succedono
nel tempo e che agiscono non in nome proprio, ma quali organi del soggetto giuridico che è la fondazione
stessa. La personificazione del patrimonio richiede un maggiore sforzo di astrazione di quello che non sia
necessario per la personificazione delle corporazioni: per tale ragione, il concetto di fondazione era estraneo
al diritto romano classico. I classici usavano fare un lascito preferibilmente ad una corporazione (che, per il
suo carattere perpetuo, assicurava il perpetuo adempimento della volontà del disponente) e gravare la
corporazione, onorata del lascito, dell’onere (modus) di destinarne il reddito a quel fine determinato.
Nell’epoca cristiana, invece, si pongono le premesse per il sorgere del concetto moderno di fondazione.
33. Oggetto del diritto. Le cose. I diritti soggettivi trovano la loro giustificazione in un “interesse” (cioè in
un’aspirazione cosciente del titolare nei confronti di un’entità definita) che sia ritenuto dall’ordinamento
meritevole di protezione. L’entità definita del mondo esterno su cui si appunta l’interesse riconosciuto dalla
norma costituisce l’oggetto del diritto è può consistere: in una persona (il figlio, oggetto di patria potestas; la
donna oggetto di tutela); in un attributo della persona concepibile come altro da essa (vita, integrità fisica); in
“cose”, cioè in entità diverse dalla persona, sia materiali e perciò percepibili con i sensi, sia immateriali e
perciò percepibili solo con l’intelletto (come le operae, cioè l’attività lavorativa di persone o animali).
Per quanto riguarda le cose (res) occorre sottolineare che non tutte formano oggetto di diritto, ma solo quelle
che hanno un valore patrimoniale, che possono essere raggiunte e utilizzate dall’uomo per uno sfruttamento
economico. Il diritto considera come “cosa” quella parte della natura che, nella coscienza economico-sociale
e in relazione al singolo diritto che su di essa si vuole attribuire, è considerata come oggetto a sé stante,
suscettibile di un autonomo rapporto patrimoniale.
34. Nozione di patrimonium. Res corporales e incorporales. Secondo la giurisprudenza romana, il
patrimonium è il complesso degli elementi (bona) che attribuiscono ad un soggetto privato vantaggi
economici. Per Gaio, il patrimonium è costituito da res corporales e res incorporales. Le prime sono le
cose materiali, che si possono toccare, mentre le seconde sono situazioni giuridiche soggettive, come i diritti
di servitù o di credito. Tale distinzione serve a Gaio come premessa per spiegare il fatto che le res corporales
possono acquistarsi al patrimonium anche attraverso comportamenti materiali come la traditio, mentre le res
incorporales possono entrare di norma nel patrimonio di un soggetto solo attraverso specifici atti o fatti
giuridici (mancipatio, contractus, successio).
35. Res mancipi e res nec mancipi. Le res costituenti oggetto di patrimonio erano distinte in res mancipi e
res nec mancipi, secondo che si richiedesse o meno per il loro acquisto lo speciale atto della mancipatio.
Come precisa Gaio, erano res mancipi corporales i fondi e gli immobili urbani situati in suolo Italico, gli
schiavi e gli animali da soma; invece, le res mancipi incorporales erano le servitù rustiche. Tale distinzione
andando perdendo gran parte della sua importanza con il progredire dell’economia mercantile per essere
abolita completamente nel diritto giustinianeo.
36. Res in patrimonio ed extra patrimonium. Res quarum commercium non est. Dal fatto che non tutte
le res corporales fanno parte di un patrimonio, scaturiscono due distinzioni: alle res in patrimonio si
contrappongono le res extra patrimonium, a seconda che esse costituiscano o meno attualmente oggetto di
un diritto patrimoniale; alle res in commercio si contrappongono le res quarum commercium non est
(extra commercium), a seconda che esse siano potenzialmente suscettibili o meno di essere ricomprese in
un patrimonio. Le due distinzioni non coincidono tra loro: ad esempio, una cosa di nessuno (res nullius) non
è in patrimonio di alcuno, ma è in commercio, potendo costituire in futuro oggetto di rapporti privati. Per
vedere quali cose sono extra patrimonium bisogna prendere le mosse da un’altra distinzione (definita da Gaio
summa divisio): quella che si pone tra res divini iuris (cose di diritto divino) e res humani iuris (cose di
diritto umano); le prime sono tutte quante escluse dal commercium e quindi necessariamente extra
patrimonium, mentre le seconde sono di regola in commercio e quindi possono entrare nel patrimonium, con
l’eccezione delle res publicae.
37. Res divini iuris. Queste si distinguono in 3 sottospecie:
a) Res sacrae. Sono quelle destinate al culto degli dei superi: i templi, le are, le statue degli dei. Mediante
una cerimonia pubblica, e con il consenso del popolo romano, esse uscivano dalla disponibilità privata ed
erano considerati talora appartenenti alla corporazione cui era affidato il culto al quale esse consentivano di
provvedere; tuttavia, potevano ritornare nella disponibilità privata mediante cerimonia pubblica contraria.
b) Res religiosae. Sono i sepolcri, dedicati agli dei inferi e quasi in loro proprietà. Se il sepolcro non può
essere oggetto di diritti, ciò non toglie che in relazione ad esso possano esistere alcuni rapporti giuridici
inerenti alla sua funzione. Così esiste un ius sepulchri, che comprende il diritto di seppellire il cadavere e di
celebrare sul luogo i sacrifici funebri. I sepolcri si distinguono in hereditaria, per i quali il ius sepulchri si
trasmette di erede in erede senza aver riguardo dei vincoli familiari, e familiaria, per i quali invece il ius
sepulchri si trasmette di discendente in discendente, con esclusione dell’erede estraneo.
c) Res sanctae. Sono le mura e le porte della città. Gaio afferma che tali cose sono in certo qual modo di
diritto divino; tali res sono, infatti, nella proprietà dello Stato e i privati non possono farne oggetto di proprie
pretese (come il sovrapporvi una costruzione). È punito con l’esclusione dalla protezione cittadina (sacertas)
chi rechi alle res sanctae offese, o ne manifesti disprezzo.
38. Res humani iuris quarum commercium non est. Le res humani iuris sono, di regola, sia in patrimonio
sia in commercio. Restano escluse, però, dalla possibilità di costituire oggetto di rapporti giuridici privati le
res publicae, cioè le cose che appartengono allo Stato, al populus romanus. Esse escono dalla disponibilità
privata mediante la publicatio, oppure sono direttamente acquistate dallo Stato come bottino di guerra. Nel
diritto romano tanto le res in usu populi (strade, terme, fori), quanto le res in pecunia populi (fondi, schiavi
dello Stato) sono esenti dalle regole del diritto privato. Alle res publicae sono equiparate le res universitatis,
cioè le cose pubbliche che appartengono non allo Stato, ma alle singole comunità politiche (universitates)
distinte dallo stato: civitates, municipi, coloniae.
39. Classificazione delle res in commercio.
A) Cose mobili e cose immobili. Una prima distinzione è quella che si pone fra cose immobili (il suolo e
tutto ciò che vi inerisce stabilmente) e cose mobili (animali, schiavi e cose trasportabili). L’importanza della
distinzione cresce a partire dall’epoca postclassica, anche in relazione alla scomparsa della contrapposizione
tra res mancipi e res nec mancipi.
B) Cose di genere e di specie. Cose fungibili e infungibili. Le cose che formano oggetto di negozi giuridici
possono venire in considerazione per la loro individualità specifica (species: un’opera di un certo artista),
oppure in quanto facenti parte di un genus (un quintale di grano).
La distinzione è rilevante in materia di modi di estinzione delle obbligazioni (adempimento, impossibilità
sopravvenuta). Conseguenza di tale contrapposizione è che le cose di “genere” si presumono dotate tutte
della stesse caratteristiche qualitative essenziali e presentano quindi un’illimitata possibilità di sostituzione
nell’ambito del genus, nel senso che ogni quantità di esse è sostituibile con altrettanta quantità prelevata
dallo stesso genere, mentre le cose di “specie” non si prestano ad essere sostituite o surrogate da altre,
costituendo ciascuna di esse un unicum. Nei casi in cui (ad esempio nel mutuo) il genere considerato è
costituito da cose che per loro natura (denaro) o per volontà delle parti sono da ritenere identiche fra loro,
esse vengono in rilievo quindi solo per la quantità; i Romani parlavano di cose che vengono in
considerazione a peso, a numero e a misura; i moderni, parlano in questo caso di cose fungibili contrapposte
alle cose infungibili.
C) Cose consumabili e inconsumabili. Vi sono delle cose il cui uso consiste proprio nel distruggerle. Tali
sono tutte le derrate e tale è anche il denaro, non nel senso che si distruggono le singole unità metalliche, ma
nel senso economico, per cui il denaro si usa con lo spenderlo, cioè, riguardo al soggetto che lo uso, con il
distruggerne il valore. Vi sono, invece, altre cose che, pur deteriorandosi più o meno lentamente, non si
distruggono al primo uso e sono perciò dette inconsumabili (ad esempio, una macchina).
D) Cose divisibili e indivisibili. Dal punto di vista economico-sociale non tutte le cose sono divisibili,
poiché per molte di esse la divisione equivale alla distruzione. Si dice allora che sono giuridicamente
divisibili tutte quelle cose, le cui parti risultanti dalla divisione continuano ad adempiere alla medesima
funzione economico-sociale della cosa intera (come i fondi).
E) Cose semplici, composte e collettive. Dal punto di vista economico-sociale, alcune cose sono considerate
dall’uso comune come unità, tali che le parti che le compongono non hanno una loro indipendente esistenza,
non esistono, cioè, come cose a sé stanti: si parla in questo caso di cose semplici. Altre cose, invece, sono
tali che le parti costitutive sono individuabili e distinte, e conservano la propria essenza, salvo che in seguito
all’unione nella quale hanno perduto la loro autonomia funzionale per formare un tutto che abbia una propria
funzione, diversa da quella delle parti componenti: sono queste le cose composte. Tale distinzione ha
importanza perché, mentre riguardo alle cose semplici non si possono concepire rapporti giuridici autonomi
sulle singole parti componenti, riguardo alle cose composte può concepirsi l’esistenza sulle parti componenti
di diritti e rapporti che rimangono allo stato di quiescenza finché dura la congiunzione, ma si manifestano in
tutta lo loro efficacia qualora la congiunzione cessi (reviviscenza). Vi sono, infine, altre cose non
materialmente congiunte, che perciò mantengono la loro identità e autonomia, rappresentando ciascuna una
cosa a sé stante, ma che, tuttavia, sono tenute insieme dalla funzione collettiva alla quale adempiono: sono
queste le cose collettive, come il gregge di pecore.
F) Cose principali e accessorie. Avviene talvolta che una cosa sia in rapporto di dipendenza economica
rispetto ad un’altra senza essere essenziale per la compiutezza di essa. La cosa subordinata non
s’immedesima con l’altra così da costituirne una parte, ma è legata ad essa da un nesso di semplice
strumentalità, cioè serve a permettere o aumentare lo sfruttamento economico della cosa principale, rispetto
alla quale assume la qualità di cosa accessoria (la sella rispetto al cavallo). L’importanza della distinzione
tra cosa principale e cosa accessoria sta nel fatto che, a differenza di quanto avviene per le parti di cosa, non
ogni diritto o rapporto che investe la cosa principale abbraccia necessariamente la cosa accessoria, anzi
questo si verifica solo quando è così espressamente voluto dalle parti.
G) Cose fruttifere. I frutti. Alcune cose sono utili all’uomo non solo per sé stesse, ma per la capacità che
hanno di fornire un reddito. Tali cose si dicono “fruttifere” e il loro reddito “frutto”: il frutto è, quindi,
quella parte che si stacca da una cosa madre e che ne costituisce il reddito. I frutti possono essere considerati
in 2 momenti: quando sono pendentes, e allora non sono ancora tecnicamente frutto, ma costituiscono parte
della cosa madre, e quando sono separati, dal momento in cui acquistano esistenza autonoma. Oltre ai frutti
effettivamente percepiti, vengono in considerazione anche i frutti percipiendi, quelli cioè che si sarebbero
potuti o dovuti ricavare da una cosa fruttifera: questo concetto ha importanza ai fini di un’eventuale
responsabilità di chi abbia trascurato di trarre da una cosa tutti i frutti che avrebbe potuto o dovuto ricavarne.
Accanto a questo tipo di reddito (frutto naturale) se ne ha un altro, che consiste nell’utile che si ricava da
una cosa mediante un negozio giuridico (l’interesse di un capitale, ad esempio) e che si dice frutto civile.
46. Le impensae. Queste sono spese (impensae), cioè erogazioni di denaro fatte per il vantaggio di una cosa
o in relazione a essa. Le spese possono avere diversa funzione. Se esse sono rivolte a mantenere in essere o a
migliorare la cosa si parlerà di impensae in rem; se sono rivolte a trarre o accrescere il reddito della cosa si
parlerà di impensae in fructus. Occorre anche distinguere le spese necessariae (aventi il fine di assicurare
la sopravvivenza della res o la sua capacità di produrre reddito), le spese utiles (che servono a migliorare la
cosa o accrescerne la capacità di produrre reddito) e le spese voluptuariae, che rispondono a mere esigenze
personali dell’autore.
Qualora una res si trovi nella materiale disponibilità di un soggetto diverso dal proprietario, che la detiene in
forza di un titolo legittimante o in base a una semplice relazione di fatto (possesso) sorge il problema di
valutare in che misura le spese debbano gravare su di lui e sul proprietario, che dovrà quindi sostenerle o
rimborsarle. Il diritto romano non elaborò alcuna dottrina generale in proposito, valutando in ogni singolo
caso le caratteristiche peculiari di ciascuna fattispecie. Tuttavia, se colui che deteneva la cosa in forza di un
titolo valido non aveva alcun diritto di usarla (come il depositario) non era tenuto a sopportare alcuna spesa;
se chi deteneva la cosa aveva invece il potere di usarla, allora le impensae in rem dovevano essere sopportate
dal proprietario, mentre quelle richieste per l’uso della cosa gravavano su chi usava o sfruttava la cosa se
titolare di un diritto reale, oppure sul chi usava la cosa o sul proprietario di essa se chi la usava lo faceva in
forza di un diritto di obbligazione. Quando le spese erano anticipate da colui al quale non spettavano, egli
aveva diritto al rimborso, integralmente per le spese necessariae e nella minor somma fra lo speso e il
migliorato per le spese utiles; nessun rimborso poteva essere preteso per le spese voluptuariae, ma chi le
aveva effettuate poteva esercitare un ius tollendi, cioè il diritto di asportare gli abbellimenti, se questo
poteva avvenire senza recar danno alla cosa.
47. Concetto e classificazione dei fatti giuridici. Tra tutti i fatti della vita quotidiana il diritto ne isola
alcuni ai quali riconnette effetti giuridici; questi fatti, rilevanti per il diritto e quindi produttivi di
conseguenze giuridiche, sono definiti fatti giuridici. Alcuni fatti giuridici consistono in eventi che si
verificano indipendentemente dalla volontà umana o che comunque vengono in considerazione in sé, a
prescindere da un’eventuale volontà che li ha prodotti: questi sono i fatti giuridici in senso stretto. Altri,
invece, si verificano per effetto della volontà umana e sono definiti atti giuridici. Gli atti giuridici possono
essere diretti a un fine dall’ordinamento giuridico (atti giuridici leciti), oppure possono essere diretti a un fine
vietato dall’ordinamento (atti giuridici illeciti). La principale categoria degli atti giuridici leciti è costituita
dai negozi giuridici: si tratta di manifestazioni o dichiarazioni di volontà (contratto, testamento) rivolte a uno
scopo che il diritto riconosce, garantendo la produzione di effetti giuridici conformi allo scopo perseguito.
48. I fatti giuridici in senso stretto. Tra i fatti giuridici in senso stretto ve ne sono due che producono effetti
non limitati a singoli istituti, ma comuni a vasti e vari campi del diritto: il decorso del tempo e l’errore.
49. Il decorso del tempo. Il decorso del tempo può, quando concorrano determinati requisiti, produrre
l’acquisto di alcuni diritti soggettivi o di alcune capacità o, al contrario, la perdita di un diritto, come accade
nella decadenza, che si ha quando l’acquisto di un diritto è condizionato al compimento, entro un dato
termine, di un’attività giuridica dell’interessato e tale termine è trascorso inutilmente. Da questo deriva la
necessità del computo del tempo. Tale computo può farsi eccezionalmente a momento ad momentum, cioè
da un preciso istante del giorno iniziale al preciso istante corrispondente del giorno finale (computo
naturale); normalmente, tuttavia, si fa ad dies, considerando i giorni come unità indivisibili, cosicché si
parte dalla mezzanotte del giorno iniziale e si considera scaduto il termine alla mezzanotte del giorno finale
(computo civile).
50. L’errore. L’errore è la mancata o inesatta conoscenza della realtà. Esso può cadere sull’esistenza o
sull’esatta portata di una norma giuridica (error iuris) oppure sull’esistenza o l’esatta natura di un dato fatto
(error facti). L’errore di fatto può cadere sull’identità o sulle qualità di una persona (error in persona),
sull’identità di un oggetto (error in corpore), sull’essenza o sulle qualità di un oggetto (error in
substantia), oppure sulla natura di un atto giuridici (error in negotio) e così via.
Non sempre l’errore è giuridicamente rilevante, cioè non sempre esso assurge alla dignità di fatto giuridico.
L’errore di diritto è giuridicamente irrilevante, non potendosi ammettere che il soggetto adduca come
scusante l’ignoranza delle norme vigenti. Il diritto romano era però, in riguardo all’irrilevanza dell’error
iuris, meno intransigente del diritto privato moderno: esso ammetteva, infatti, che potessero addurre in
proprio favore l’ignoranza della norma tutti coloro i quali potessero provare di essere stati nell’assoluta
impossibilità di consultare un giurisperito, il minore di 25 anni e, limitatamente, le donne e i soldati.
L’errore di fatto, invece, è giuridicamente rilevante in una serie di ipotesi stabilite dall’ordinamento
giuridico. In linea di massima, l’errore era giuridicamente rilevante per i Romani quando fosse scusabile,
ossia quando non fosse dovuto a crassa ignoranza o eccessiva negligenza.
51. Il negozio giuridico. Concetto e classificazioni. Per negozio giuridico s’intende ogni manifestazione di
privata volontà rivolta a uno scopo consentito dall’ordinamento giuridico (causa del negozio), che il diritto
ritiene lecita e pertanto tutela, attraverso la predisposizione di effetti giuridici a essa adeguati. Dal punto di
vista della manifestazione di volontà, si distinguono i negozi solenni o formali, in cui la volontà deve essere
manifestata secondo le forme stabilite a pena di nullità, dai negozi non solenni, in cui la volontà può essere
manifestata comunque. Si distinguono poi i negozi unilaterali, che si perfezionano cioè con la volontà di un
solo soggetto dai negozi bilaterali che, invece, si perfezionano con la volontà di due o più soggetti, detti
parti, che tendono alla conciliazione di interessi opposti (contratto). Diversa è la natura dei negozi
complessi, che si perfezionano con le volontà convergenti di più soggetti, i quali tendono a non conciliare
interessi contrastanti, ma a raggiungere il medesimo fine. Dal punto di vista dello scopo (causa) si
distinguono i negozi causali, in cui lo scopo voluto appare evidente dall’atto stesso perché inerente alla sua
struttura (come la compravendita), dai negozi astratti, in cui non appare lo scopo per cui l’atto è compiuto.
Inoltre, sempre sotto l’aspetto della causa, si distinguono i negozi a titolo oneroso dai negozi a titolo
gratuito: i primi producono l’acquisto di un diritto a prezzo di un corrispettivo sacrificio patrimoniale; nei
secondi, invece, manca tale corrispettivo sacrificio, sicché l’acquisto è gratuito. Una particolare figura di
negozi gratuiti è costituita dagli atti di liberalità (come donazioni e manomissioni), tali perché espressione di
una volontà che, per essere valida, deve essere anche assolutamente libera. Dal punto di vista dell’efficacia
del negozio giuridico, si distinguono i negozi inter vivos (contratti) dai negozi mortis causa (testamento), a
seconda che producano effetti durante la vita o solo dopo la morte del loro autore.
52. Elementi essenziali del negozio giuridico. Gli elementi essenziali del negozio giuridico sono la
manifestazione di volontà e lo scopo tutelato dall’ordinamento giuridico o causa: la loro mancanza
impedisce la formazione del negozio giuridico. La manifestazione della volontà può essere espressa o
tacita: è espressa quando il soggetto si serve di uno qualsiasi dei mezzi a sua disposizione per esprimere la
propria volontà. La manifestazione è, invece, tacita quando la volontà non è appositamente manifestata con
atti deliberatamente compiuti a tal fine, ma si ricava implicitamente dal comportamento del soggetto, per
quanto tale comportamento sia diretto in sé ad altro scopo.
Cosa diversa dalla manifestazione tacita è il semplice silenzio, cioè la non manifestazione, il contegno
passivo. È ovvio, infatti, che a chi tace non si può attribuire, se non arbitrariamente, alcuna volontà. Talvolta,
però, il diritto fa derivare dal silenzio degli effetti giuridici, mettendo in opera una finzione di volontà nei
confronti di chi tace; così avviene, per esempio, quando il diritto considera come manifestazione di volontà
positiva il silenzio di chi aveva l’onere giuridico di contraddire e non ha contraddetto.
La causa del negozio giuridico si identifica con la funzione economico-sociale cui il negozio obiettivamente
è rivolto. Essa va distinta dai motivi del negozio giuridico: i motivi che possono spingere un soggetto a
compiere un negozio giuridico sono innumerevoli, ma la causa è il risultato ultimo nel quale tutti i motivi
trovano realizzazione, e rappresenta quindi la naturale composizione dei motivi stessi.
53. Elementi naturali del negozio giuridico. Accanto agli elementi essenziali, che non possono mancare a
pena di nullità, ve ne sono altri che, pur non essendo essenziali, normalmente si accompagnano a determinati
tipi di negozio e si considerano automaticamente inerenti ad essi, a meno che non siano esclusi da esplicita
dichiarazione delle parti. Questi sono gli elementi naturali.
54. Elementi accidentali del negozio giuridico. Vi è poi una terza categoria di elementi che, non essendo
essenziali e non essendo considerati inerenti al negozio giuridico nel silenzio delle parti, si dicono elementi
accidentali e possono di volta in volta essere aggiunti al negozio per esplicita dichiarazione delle parti.
A) Condicio. La condizione (condicio) è quella clausola per cui si fa dipendere l’efficacia oppure la
risoluzione di un negozio giuridico da un avvenimento futuro e incerto. Nel primo caso si parla di
condizione sospensiva, poiché gli effetti del negozio restano in sospeso, in attesa del possibile verificarsi
dell’evento previsto; nel secondo caso si parla, invece, di condizione risolutiva, in quanto, qualora l’evento
previsto si verifichi, si risolvono, cioè vengono meno, gli effetti che il negozio aveva prodotto. La dottrina
romana elaborò soltanto la teoria della condizione sospensiva.
L’evento dedotto nella condizione, oltre ad essere futuro e incerto, deve anche essere possibile. Se esso fosse
impossibile materialmente, il negozio sarebbe nullo per mancanza di una seria volontà da parte di un
soggetto; se, invece, l’evento fosse impossibile giuridicamente, il negozio sarebbe nullo per illiceità della
causa, in conseguenza dell’illiceità dei motivi. Tuttavia, per salvare ad ogni costo la validità dei testamenti
(favor testamenti), la giurisprudenza romana ammise che, qualora la condizione impossibile fosse stata
apposta a una disposizione testamentaria, questa fosse considerata valida, fingendo la condizione impossibile
come non apposta (regula Sabiniana). Inoltre, l’evento deve essere lecito e non contra bonos mores, non
potendo ammettersi dal diritto che l’efficacia di un negozio sia subordinata al compimento di un atto illecito
o turpe. La condizione illecita o turpe rende, quindi, nullo il negozio giuridico per illiceità della causa,
conseguente all’illiceità del motivo dedotto. Quanto alla natura dell’evento previsto, si parla di condizioni
positive, se l’efficacia del negozio dipende dal verificarsi di un fatto, o di condizioni negative, se la stessa
efficacia dipende dal non verificarsi di un fatto. Possono essere, inoltre, potestative, se il verificarsi
dell’evento dipende dalla volontà dell’interessato, casuali, se dipende dal caso o dalla volontà di terzi,
oppure miste, se dipende dall’una e dall’altra cosa insieme.
Il negozio sottoposto a condizione sospensiva attraversa sempre due stadi: in una prima fase (condicio
pendet) è in attesa dell’evento previsto; in una seconda fase, o condicio extat, qualora l’evento si sia
verificato, o condicio deficit, qualora sia ormai certo che l’evento non potrà più verificarsi. Durante lo stato
di pendenza della condizione (condicio pendet) gli effetti propri del negozio non si svolgono ancora e non si
sa se mai si svolgeranno; il negozio, però, può produrre degli effetti impropri di carattere secondario, rivolti
a garantire all’interessato che la sua legittima aspettativa non sia frustrata: in particolare, si considerano nulli
tutti gli atti di carattere irrevocabile lesivi della legittima aspettativa dell’interessato compiuti durante la
pendenza della condizione.
Qualora l’evento previsto si verifichi (condicio extat), il negozio comincia a produrre i suoi effetti, come se
fosse puro. La dottrina romana stabilì che il problema se la condizione dovesse considerarsi adempiuta o
meno fosse da decidersi caso per caso, interpretando la volontà del disponente. Inoltre, stabilì che si dovesse
considerare adempiuta la condizione quando chi ne fosse gravato avesse compiuto tutto il possibile per
realizzare l’evento, anche se questo non si fosse verificato per impedimento obiettivo o per volontà di altri;
doveva considerarsi adempiuta la condizione anche quando l’evento non si fosse verificato per ostacolo
apposto da chi ne avesse interesse contrario. Una volta verificatasi la condizione, gli effetti del negozio
decorrono secondo il diritto classico dal momento del verificarsi della condizione (ex nunc), mentre nel
diritto giustinianeo gli effetti decorrono dal momento della conclusione del negozio (ex tunc, efficacia
retroattiva della condizione).
B) Dies. Il termine (dies) è la clausola con cui si collegano a un avvenimento futuro e certo l’efficacia di un
negozio o la cessazione di questa: nel primo caso si parla di termine iniziale (dies a quo), nel secondo di
termine finale (dies ad quem). Quanto agli effetti del negozio sottoposto a termine iniziale bisogna
precisare: se si tratta di un negozio di disposizione (come quello traslativo di un diritto reale), gli effetti
decorreranno a partire dalla scadenza del termine; se, invece, si tratta di un negozio obbligatorio, i Romani
distinguono il momento in cui il diritto sorge (dies cedens), che coincide con la conclusione del negozio, dal
momento in cui il diritto può essere fatto valere (dies veniens), che si identifica con la scadenza del termine.
Questo determina una serie di differenze rispetto al negozio sottoposto a condizione sospensiva: il diritto
nascente da quest’ultimo non esiste durante la pendenza della condizione ed è quindi intrasmissibile agli
eredi, mentre il diritto sub die esiste fin dalla conclusione del negozio che ne è fonte ed è trasmissibile,
perché già esistente, anche se il titolare muoia prima della scadenza del termine. Inoltre, mentre la
condizione risolutiva annulla con effetto retroattivo tutti gli effetti del negozio, il termine finale non annulla
tutti gli effetti già prodotti dal negozio, ma fa sì che esso non continui a produrne per l’avvenire.
Il termine finale non può essere apposto a tutti quei negozi che creano un diritto per sua natura perpetuo
(come l’istituzione di erede). In alcuni negozi il termine è facoltativo, mentre in altri è essenziale per la
natura temporanea del diritto che si costituisce (per esempio, usufrutto): in questo secondo tipo di negozio,
quindi, il termine è fissato, nel silenzio delle parti, dall’ordinamento giuridico.
C) Modus. È la clausola con cui si impone al beneficiario di un atto di liberalità l’onere di tenere un
determinato comportamento, consistente di solito nel destinare, in tutto o in parte, l’oggetto della liberalità
per scopi di pubblica utilità o in favore di terzi. Il modus differisce dalla condizione potestativa nel fatto che,
mentre l’efficacia del negozio condizionale è subordinata all’adempimento della condizione, gli effetti del
negozio sub modo, cioè l’acquisto della liberalità, non sono subordinati all’adempimento dell’onere da parte
del gravato e quindi si producono in ogni caso.
58. Negozio giuridico e legittimazione dei soggetti: la rappresentanza. Ai fini della validità del negozio
giuridico non è sufficiente che il suo autore abbia la capacità di agire, ma è necessario che egli sia anche
legittimato a compierlo. Può accadere, infatti, che anche chi non dia titolare del diritto possa validamente
compiere un atto di disposizione (creditore pignoratizio che aliena l’oggetto del pegno). In questo campo
rientra la rappresentanza. Dicesi rappresentanza l’attività di una persona che compie un negozio giuridico
non nel proprio interesse, ma per conto altrui; il soggetto che compie il negozio è detto rappresentante,
mentre il soggetto nel cui interesse il negozio è compiuto è detto rappresentato. La natura giuridica del
rappresentante è diversa da quella del nuntius: quest’ultimo non è autore del negozio, poiché non manifesta
la propria volontà ma si limita a riferire la volontà di chi lo ha inviato e che perciò è l’autore del negozio. Il
rappresentante, invece, manifesta la propria volontà, frutto del libero apprezzamento, anche se nell’interesse
del rappresentato.
La rappresentanza può essere di carattere necessario o legale, quando il diritto conferisce a taluni il potere e
l’obbligo di rappresentare un altro soggetto (tutela), oppure di carattere volontario, quando questa trova il
suo fondamento in un incarico dato e accettato (mandato) di compiere un negozio giuridico per conto d’altri,
o nell’iniziativa spontanea di assumersi la cura di un affare altrui. In astratto possono poi concepirsi due tipi
di rappresentanza: nella rappresentanza diretta, il rappresentante agisce non solo per conto ma anche nel
nome del rappresentato, sicché la manifestazione della sua volontà dà luogo a un negozio che si considera
come direttamente compiuto dal rappresentato che produce, perciò, effetti che si riconnettono direttamente al
rappresentato. Nella rappresentanza indiretta, invece, il rappresentante nell’interesse del rappresentato ma
in nome proprio, sicché la manifestazione della sua volontà è fonte di un negozio che si considera da lui
stesso compiuto e che produce effetti per la sua persona. Sarà necessario, quindi, un ulteriore negozio, con il
quale il rappresentante trasferisca al rappresentato gli effetti del primo.
59. Invalidità e inefficacia del negozio giuridico. Il termine generico di invalidità ricomprende due ipotesi
principali nettamente diverse: la nullità e l’annullabilità del negozio. Un negozio si dice nullo quando
manca di uno dei requisiti essenziali. Di conseguenza, per impedire che esso produca effetti giuridici non è
necessario che l’interessato promuova un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Un negozio è annullabile
quando, pur non mancando dei requisiti essenziali, è affetto da un vizio che lo rende suscettibile di
successivo annullamento. Il negozio è efficace, ma la parte interessata può impugnarlo mediante un’apposita
azione giudiziaria e ottenerne l’annullamento da parte del giudice, che però non può procedere di sua
iniziativa: fino a quando, perciò, il negozio annullabile non sia annullato, la legge lo considera produttivo di
tutti i suoi effetti. Il negozio nullo non è suscettibile di sanatoria, mentre il negozio annullabile può essere
posteriormente sanato o convalidato.
Dalla fusione in un unico ordinamento del diritto civile e di quello pretorio è derivata la moderna figura
dell’annulabilità, quella, cioè, di un negozio efficace fintantoché l’interessato non faccia rilevare, mediante
impugnativa, i vizi che ne inficiano la validità.
Diverso dal concetto di invalidità è quello di inefficacia, che si riferisce all’idoneità del negozio a produrre
gli effetti che gli sono propri. L’inefficacia normalmente scaturisce dall’invalidità, ma può anche derivare da
determinate circostanze, indipendenti dall’intrinseca perfezione del negozio e quindi essere compatibile con
la sua validità.
60. Cause di nullità.
A) Incapacità dei soggetti. È causa di nullità sia la mancanza di capacità del soggetto, tanto giuridica quanto
di agire, anche se relativa solo a quel determinato tipo di negozio, sia la sua carenza di legittimazione.
B) Inidoneità dell’oggetto. La cosa che forma oggetto del negozio può essere inidonea a formare oggetto di
qualsiasi negozio giuridico, in quanto non suscettibile di rapporti patrimoniali, oppure in quanto sottratta alla
disponibilità dei privati (res extra commercium).
C) Mancanza di volontà. Errore.
a) Talvolta, il comportamento di un soggetto può essere tale da generare in altri l’errata convinzione che esso
abbia manifestato la volontà di compiere un negozio giuridico. Così avviene nel caso di chi sembra annuire
col capo a una proposta contrattuale perché affetto da tic nervoso: in questo e altri casi simili, non c’è alcuna
manifestazione di volontà e quindi l’apparente negozio è, in realtà, nullo.
b) Altre volte, invece, un soggetto compie volontariamente una manifestazione di volontà, ma essa non
corrisponde al suo interno volere, cosicché si verifica una divergenza tra volontà e manifestazione della
volontà. Questa divergenza è cosciente nella manifestazione fatta per scherzo, a scopo didattico, a scopo di
pubblicità e per simulazione. La simulazione avviene nei negozi non unilaterali, quando le parti sono
d’accordo nel far apparire di concludere un negozio fittizio (simulato), che in realtà non vogliono abbia
effetti (simulazione assoluta); oppure nel far apparire un dato negozio fittizio (simulato) per mascherarne
uno diverso (dissimulato) che non vogliono sia noto ad altri (simulazione relativa). Tanto nella simulazione
assoluta quanto nella relativa, il negozio simulato è sempre nullo in quanto c’è una manifestazione che non
corrisponde all’interno volere, cioè in esso manca la reale volontà. La nullità del negozio simulato pone
problemi complessi, poiché bisogna tener conto non solo della posizione delle parti, ma anche di quella dei
terzi ignari che in buona fede hanno riposto affidamento nel negozio simulato, ritenendolo realmente voluto
e quindi giuridicamente valido.
c) La divergenza tra manifestazione di volontà e interno volere è incosciente nel caso dell’errore ostativo.
Esso consiste nel fatto che l’autore del negozio, nell’atto di manifestare la sua volontà, commette un errore in
modo tale da esprimere una volontà diversa da quella realmente voluta. In questi casi non vale ciò che
manifesta, perché non è voluto; né può aver valore ciò che in realtà era voluto, poiché la volontà interna, non
manifestata, non può avere effetti giuridici. L’errore commesso nell’atto della manifestazione osta al sorgere
del negozio, e per questo è detto ostativo in dottrina.
d) L’errore, per i Romani, è causa di nullità anche in casi diversi dall’errore ostativo. Precisamente, quando
esso ha riguardato la rappresentazione che l’autore del negozio si è fatto di uno degli elementi essenziali del
negozio, quali la causa (error in negotio), ma anche il soggetto (error in persona) o l’oggetto.
D) Mancanza di forma. È causa di nullità, quando l’ordinamento prescrive ad substantiam, per un
determinato negozio, l’uso di una data forma.
E) Mancanza di causa. Ogni cosciente manifestazione di volontà ha uno scopo, ma non tutti gli scopi sono
causa di un negozio giuridico: quando la manifestazione è diretta a uno scopo empirico non tutelato dal
diritto, manca di causa. Ne consegue che, essendo la causa uno degli elementi essenziali del negozio, la
manifestazione non assurge alla dignità di negozio giuridico. Il negozio è nullo anche quando lo scopo cui
tende la volontà è vietato dal diritto: si tratta di causa illecita, che non può essere tutelata dall’ordinamento.
Alla causa illecita è equiparata, quanto agli effetti, quella palesemente contraria alla morale, che si dice turpis
o contra bonos mores. Ancora più ricorrente nella pratica è l’ipotesi di un negozio la cui causa, in sé lecita,
diviene illecita per l’illiceità dei motivi.
65. Cause di annullabilità. Queste riguardano tutte le anormalità nel processo volitivo del soggetto, il quale
manifesta una volontà realmente voluta, ma ha dovuto subire, durante il processo formativo della sua
volontà, influenze perturbatrici dall’esterno, senza le quali la volontà si sarebbe formata in direzione o con
contenuto diversi. Le cause perturbatrici del processo volitivo, poiché lo viziano, sono dette vizi della
volontà. I Romani riconoscono tra questi: la violenza morale, il dolo e l’errore sui motivi del negozio.
A) Violenza morale. La violenza morale (vis animo illata) consiste in una minaccia di morte o di altro
grave male alla persona che ne è vittima, a quella dei suoi familiari, ai suoi beni, che è fatta nel caso in cui la
vittima non si rassegni a compiere il negozio che le si vuole estorcere. Il soggetto passivo della violenza,
premuto dal timore (metus) del maggior male minacciatogli, sceglie il male minore e si adatta al negozio
impostogli: manifesta una volontà che realmente vuole, ma che, se fosse stato libero, non avrebbe voluto.
Se dal negozio nasceva un’azione stricti iuris, la vittima, in base al ius civile, non aveva alcun rimedio. Solo
nel I sec. a.C. il pretore pone due rimedi: 1) se il negozio estorto con minaccia aveva determinato una
diminuzione patrimoniale istantanea o era già stato eseguito e ne era perciò scaturito un danno per la vittima
(trasferimento di una cosa, ad esempio), la vittima avrebbe potuto ottenere dal pretore una restitutio in
integrum propter metum, con la quale sarebbe stata reintegrata nella situazione giuridica in cui si trovava
prima di concludere il negozio; 2) se, invece, il negozio estorto consisteva in una promessa non ancora
adempiuta, la vittima, citata in giudizio per adempiere all’obbligo che si era assunto, avrebbe potuto ottenere
una exceptio metus, mediante la quale avrebbe evitato la condanna di inadempimento. In virtù delle due
azioni concesse alla vittima dal pretore, il negozio, pur restando iure civili valido, diveniva inefficace.
B) Dolo. Il dolo (dolus malus) è definito dalle fonti romane come qualsiasi astuzia, intrigo o raggiro rivolto
a circuire, trarre in inganno o illudere altri. Anche qui il soggetto vuole ciò che manifesta, ma non l’avrebbe
voluto se non fosse stato vittima dell’inganno altrui. Il negozio affetto da dolo, valido sul piano del ius civile,
solo sul finire della Repubblica è reso attaccabile attraverso mezzi pretori analoghi a quelli previsti per la
violenza morale: un’exceptio doli, una restitutio in integrum propter dolum e un actio de dolo penale.
C) Errore sui motivi. Questo errore non incide, come quello ostativo, sulla manifestazione, facendo
manifestare una volontà diversa da quella effettiva, ma incide sui motivi che hanno indotto il soggetto a
formare quella determinata volontà negoziale. Poiché i semplici motivi non sono giuridicamente rilevanti,
non è possibile, di regola, addurre tale errore per impugnare la validità del negozio. In via eccezionale, però,
specie quando si potesse dimostrare che senza l’unico motivo determinante viziato da errore il negozio non
sarebbe stato compiuto, il diritto romano ammise l’annullamento del negozio.
69. Sanatoria (convalescenza) dei negozi giuridici. Ratifica. Il vizio di un negozio, che ne rende incerta
l’efficacia, può essere successivamente sanato. Questo fenomeno si dice sanatoria o convalescenza;
dipende dal comportamento del soggetto che potrebbe invocare l’annullabilità del negozio e che può
confermare il negozio stesso espressamente, dichiarando di riconoscerne la validità, oppure tacitamente,
dimostrando con la sua condotta di accettare gli effetti che esso produce.
Dalla sanatoria va distinta la ratifica (ratihabitio), che consiste nel posteriore completamente di un negozio,
mediante il successivo intervento dell’approvazione di un terzo che non vi ha preso parte, ma il cui
intervento è necessario perché il negozio possa avere effetti nei suoi confronti. Ad esempio, il pagamento di
un debito fatto erroneamente a una persona diversa dal creditore (falsus procurator) non libera il debitore
dalla sua obbligazione; ma se il creditore successivamente ratifica il pagamento effettuato, questo diviene
efficace ai fini dell’estinzione del debito.
70. Gli atti illeciti. Dicesi illecito ogni atto umano vietato dal diritto in quanto, per sua natura o per il fine
cui è rivolto, lede un interesse altrui giuridicamente protetto, cioè un altrui diritto soggettivo. Nel diritto
romano talora l’atto è illecito in quanto lede un interesse della collettività, o direttamente, oppure
indirettamente, nel senso che l’interesse leso trascende quello del privato offeso e si riflette in un’offesa
all’intera comunità (parricidium, uccisione di un pater familias). In questi casi si ha un illecito di carattere
pubblico (crimen), perseguito dallo Stato con speciale procedimento pubblico. Altre volte l’atto è illecito in
quanto lede un diritto soggettivo di carattere privato, proprio dell’offeso e quindi perseguibile soltanto da
quest’ultimo.
In questi casi, la sanzione consiste in una pena che resta sempre di carattere privato ed è ottenibile
dall’offeso mediante il processo privato ordinario (azione penale). Fra gli illeciti che danno luogo a una pena,
il ius civile ha riservato la qualifica di delicta solo ad alcuni: furto, rapina, danneggiamento e iniuria. Le altre
ipotesi di illecito privato che non furono sanzionate da una pena, comportavano l’obbligo di risarcire il danno
arrecato. Nell’ambito di questi atti illeciti, si distinguono dai moderni quelli commessi da chi era legato alla
parte lesa da un precedente rapporto giuridico e, cioè, in violazione di tale specifico rapporto; e gli illeciti il
cui autore non era precedentemente legato al danneggiato da rapporto alcuno. Per i primi si parla di illecito
(responsabilità) contrattuale, mentre per i secondi, di illecito (responsabilità) extracontrattuale.
71. La responsabilità. La condizione giuridica di chi, avendo commesso un atto illecito, è costretto a subire
la relativa sanzione (pena e obbligo del risarcimento), è detta responsabilità. Perché all’autore dell’atto
illecito possa addebitarsi la responsabilità dell’atto commesso, si richiede il concorso di vari requisiti:
1) Che l’atto illecito abbia prodotto un danno, una reale lesione di un diritto soggettivo altrui.
2) Che tra l’atto illecito e il danno prodotto vi sia un nesso di causalità diretta, non essendo equo addebitare
all’autore di un atto anche conseguenze indirette o mediate che potrebbero derivarne.
3) Che l’atto illecito sia addebitabile al suo autore come atto voluto. A tal fine occorre:
A) Che l’autore dell’illecito abbia capacità di intendere e di volere.
B) Che l’atto sia stato compiuto volontariamente. Le ipotesi di volontarietà dell’atto sono:
- Dolo. Può darsi che l’atto sia voluto come mezzo per produrre il danno. In questo caso la volontà è rivolta
in via principale al raggiungimento dell’evento dannoso e l’atto è voluto come mezzo per il raggiungimento
di quel fine. Pertanto, deve intendersi per dolo (dolus) la volontà di compiere un atto, pur con la
consapevolezza che tale atto è lesivo di un diritto altrui.
- Colpa. Può, poi, darsi che l’atto sia voluto, ma senza alcuna previsione o coscienza del danno prodotto. In
questo caso, la responsabilità dell’agente dipende dall’aver violato una norma di carattere generale, che
impone a ciascuno l’obbligo della diligenza nella vita sociale, l’obbligo di prevenire le eventuali
conseguenze dannose del proprio operato. Colpa (culpa) significa, in senso stretto, negligenza, imprudenza,
imperizia. Si ha culpa lata (equiparata al dolo) quando il soggetto non osserva alcuna regola di diligenza
comportandosi con estrema trascuratezza; si ha culpa levis quando, invece, la negligenza non è grave.
72. Funzione del processo. Il processo privato. L’attività dello Stato, volta a realizzare coattivamente il
diritto nel caso concreto è detta attività giurisdizionale; la serie degli atti giuridici tendenti a tal fine
costituisce il processo. Nell’esperienza romana si hanno due tipi di processo. Alcune volte questo tende
all’accertamento e alla punizione di fatti lesivi di interessi dell’intera collettività (crimina, si parla così di
processo criminale); altre volte, invece, il processo mira alla tutela di situazioni giuridiche riconosciute
nell’interesse di privati (processo privato, che può aver luogo solo in seguito a un’iniziativa dei diretti
interessati). Le norme di carattere processuale appaiono fuse, nel sistema romano, con quelle che
attribuiscono ai soggetti i singoli diritti; questo perché i Romani consideravano il fenomeno giuridico non,
come oggi, da un punto di vista statico, ma da un punto di vista dinamico o patologico; si configurava il
diritto soggettivo non dal punto di vista del suo contenuto sostanziale, ma da quello dell’azione con cui il
titolare poteva tutelarlo contro possibili offese. È stato detto, perciò, che il diritto romano più che un sistema
di diritti soggettivi è un sistema di azioni.
73. Nozioni generali. Essendo il processo privato affidato all’iniziativa del titolare della situazione giuridica
che si pretende violata, esso presuppone un atto d’impulso proveniente da questo, che consiste nell’esercizio
dell’azione (actio). In ogni lite giudiziaria (lis) sono contrapposte due parti: chi pretende di difendere il suo
diritto leso (attore) e che è chiamato in giudizio (convenuto). All’attore incombe sempre l’onere di provare
il suo diritto. Le parti, in origine, dovevano intervenire personalmente in giudizio e svolgervi la loro attività
processuale. In seguito, fu ammessa in via generale la rappresentanza processuale nelle figure del cognitor
e del procurator. La prima figura, vincolata a determinate formalità, scomparve nel diritto giustinianeo, in
cui sopravvisse la sola procura; il procurator doveva garantire che il suo operato sarebbe stato ratificato dal
dominus e, qualora intervenisse per il convenuto, doveva anche garantire che avrebbe personalmente
sopportato in vece del convenuto l’eventuale condanna.
L’actio non si estingue con la morte, ma si trasmette agli eredi (trasmissibilità passiva e attiva delle azioni).
Le principali eccezioni alla trasmissibilità sono costituite, dal lato attivo, dalle azioni che tutelano i diritti
intrasmissibili, cioè quei diritti che si estinguono alla morte del titolare perché ineriscono alla sua persona;
dal lato passivo, non si trasmettono contro l’erede innocente le azioni penali che erano sorte contro il defunto
autore di un delitto. Tutte le azioni erano, in antico, perpetuae; furono temporales (annales di solito) quelle
introdotte dal magistrato e perciò vincolate alla durata della sua carica.
74. Evoluzione storica. La lotta per l’attuazione del diritto fu, alle origini, un conflitto tra due forze private
(offeso e offensore), che l’ordinamento giuridico si limitava a contenere entro forme legali. La difesa del
diritto soggettivo violato era affidata allo stesso offeso (autodifesa), che svolgeva a tal fine un’attività privata
(actio), cui il magistrato assisteva come semplice moderatore affinché la lite non oltrepassasse i limiti legali
(agere lege). Mano a mano che la forza dello Stato si andò affermando di fronte ai singoli, si ebbe un
progressivo aumento della sua ingerenza nel processo privato, sino alla fase finale di tale sviluppo, raggiunta
nell’età giustinianea, in cui il processo fu attuato dagli organi dello Stato. È possibile, quindi, identificare,
nell’evoluzione del processo privato romano, tre diversi sistemi processuali succedutisi nel tempo: le legis
actiones, il processo per formulas e le cognitiones extra ordinem.
75. Le legis actiones. Il processo di cognizione. La procedura per legis actiones corrisponde al periodo
storico del diritto quiritario e ne presenta le caratteristiche. Prima fra tutte, quella della solennità: qualsiasi
lite deve farsi rientrare in uno dei soli cinque schemi prestabiliti per agere lege. Questi schemi consistono in
un rito simbolico complesso, costituito da gesti e parole sacramentali che debbono essere compiuti e
pronunciati con scrupolosa esattezza sotto pena di perdere la lite.
Per la scelta della legis actio da intentare e le modalità di esercizio gli interessati devono chiedere di volta in
volta istruzioni al Collegio dei Pontefici. Delle 5 legis actiones (o, meglio, dei 5 modi agendi per legis
actiones), 3 hanno come scopo l’accertamento del diritto controverso e la conseguente condanna della parte
soccombente, rispondendo così alla funzione del moderno processo di cognizione.
Il procedimento passa attraverso due stadi: il primo si svolge alla presenza del magistrato giusdicente ed è
detto in iure. Lo stadio in iure si apre con la in ius vocatio, atto formale con cui l’attore invita o trascina con
la forza il convenuto alla presenza del magistrato; le parti pronunciano le parole solenni e compiono i gesti
propri di ogni singola legis actio, mentre il magistrato assiste come custode della legalità dell’attività delle
parti. Questa prima fase in iure termina con la litis contestatio, ossia con l’invocazione solenne dei testes, i
quali presenziano, per testimoniare poi dell’accaduto nella seconda fase del procedimento. Il secondo stadio,
detto in iudicio o apud iudicem, si apre, dopo determinati giorni, alla presenza di iudex, che è un privato
cittadino o un collegio di privati, scelti dalle parti col concorso del magistrato. Il iudex, dopo la narrazione
dei testimoni di quello che è avvenuto nello stadio in iure, esamina le prove ed emette una sententia, cioè
esprime la sua opinione personale: la sententia non vincola quindi la parte soccombente alla coattiva
osservanza, ma produce soltanto un’indiretta responsabilità dei garanti (praedes).
I 3 tipi di legis actiones che danno luogo a un processo di cognizione sono:
1) Legis actio sacramento. Fu il tipo più antico e di più ampia applicazione. Nello schema più antico, le
parti affermavano, con parole solenni e tassative, l’appartenenza ad esse di una cosa (legis actio sacramento
in rem), oppure una parte affermava e l’altra negava l’esistenza fra loro di un credito-debito (legis actio
sacramento in personam). Per risolvere la lite si sfidavano l’un l’altra a una solenne scommessa
(sacramentum), impegnandosi a pagare, in caso di sconfitta, la summa sacramenti. Nella forma in rem,
doveva essere presente, nello stadio in iure, l’oggetto controverso, o parte di esso, che veniva toccato dai
contendenti con una verga (vindicta); il magistrato imponeva, poi, di lasciar libera la cosa e l’affidava
provvisoriamente a una delle parti, purché questa si impegnasse mediante garanti (praedes) a restituirla, con i
frutti prodottisi nel frattempo, in caso di soccombenza. Nello stadio in iudicio, spettava al iudex stabilire
quale delle parti avesse giurato il falso e, quindi, per decidere sulla scommessa, egli doveva implicitamente
risolvere la questione di diritto controversa.
2) Legis actio per iudicis arbitrive postulationem. Si applicava alle liti circa i crediti nascenti da stipulatio
e ai giudizi divisori; qualora il convenuto resistesse alla domanda, l’attore rivolgeva richiesta al magistrato
(postulatio) affinché questi nominasse un giudice (nel caso di stipulatio) o un arbitro (nel caso di divisione
del patrimonio).
3) Legis actio per condictionem. Fu introdotta per i crediti aventi ad oggetto una somma di denaro (certa
pecunia) e poi estesi ai crediti aventi per oggetto una determinata cosa (certa res); qualora il convenuto
negasse il debito, l’attore gli fissava un convegno a 30 giorno innanzi al magistrato, per procedere alla
nomina del giudice.
76. Le legis actiones esecutive. Gli altri due tipi di legis actiones hanno come scopo la coattiva
soddisfazione delle ragioni già certe (o accertate mediante le precedenti azioni) dell’attore, sulla persona o
sui beni del debitore inadempiente, rispondendo così alla funzione del moderno processo esecutivo.
1) Legis actio per manus iniectionem. L’attore che aveva vinto la lite, trascorsi 30 giorni dalla sentenza
senza che il debitore condannato lo avesse ancora soddisfatto, poteva trascinarlo nuovamente in iure e qui,
acciuffandolo (manum inicere), proclamare con parole sacramentali il fondamento di questa nuova azione.
Se, ciò nonostante, il debitore non pagava, il magistrato lo dava in balia del creditore (addictio);
quest’ultimo era autorizzato a portare il debitore nel suo carcere privato e tenervelo incatenato per 60 giorni.
Durante la prigionia, il creditore doveva condurlo per 3 giorni di mercato consecutivi, in ius, per proclamare
l’esistenza e l’ammontare del debito: se nessuno si faceva avanti per adempiere in luogo del debitore, il
creditore poteva, secondo l’antico diritto, vendere l’addictus fuori Roma come schiavo, ma anche ucciderlo.
Il debitore non poteva opporsi alla manus iniectio; era solo consentito che intervenisse in suo favore un
vindex, che poteva rimettere in discussione il fondamento dell’azione esecutiva. Si apriva così un nuovo
processo dichiarativo, al cui termine il vindex, in caso di soccombenza, avrebbe dovuto subire una manus
iniectio per il duplum.
2) Legis actio per pignoris capionem. Consisteva nell’impossessarsi di una cosa del debitore (pignus)
pronunciando parole solenni e determinate. A differenza delle altre legis actiones, questa si svolgeva extra
ius ed era ammessa per i crediti connessi a una destinazione sacra o alla riscossione delle imposte.
77. Il processo per formulas. In seguito alle mutate condizioni sociali della fine della repubblica, si ebbe
l’introduzione di un nuovo tipo di procedimento, detto agere per formulas, perché basato su un documento
scritto, denominato appunto formula. Il processo formulare si divide sempre in due stadi (in iure e apud
iudicem), ma non si svolge più secondo schemi prestabiliti e con riti solenni: le ragioni delle parti,
liberamente esposte, sono concretate per opera del magistrato e delle parti nella formula, che contiene le
istruzioni impartite dal magistrato al giudice per la decisione della controversia. Il magistrato ( praetor) non
è più un semplice moderatore della lite, ma collabora con le parti e assume la direzione del processo
intervenendovi, col peso del suo imperium. Le direttive generali cui il pretore si ispirerà nell’esercizio della
giurisdizione durante l’anno di carica sono da lui stesso fissate nell’Editto e la sua ingerenza nel processo gli
consente di influire, attraverso la procedura, in maniera potente sull’evoluzione del diritto; questa prassi
consacrata nell’Editto forma il ius honorarium.
Il processo formulare si può aprire con la in ius vocatio; spesso, tuttavia, si preferisce utilizzare un antico e
oscuro istituto del ius civile, il vadimonium, il quale comporta una solenne promessa del convenuto di
presentarsi in un determinato giorno e a ora fissata. L’attore comincia con l’indicare l’azione che intende
esperire e ne fa richiesta (postulatio) al pretore che può, secondo l’equità del caso, dare o denegare
actionem; quando un’azione, che pur spetta all’attore secondo il ius civile, condurrebbe nel caso concreto a
risultati iniqui, il pretore la denega: con ciò il pretore priva di tutela giuridica l’attore e, quindi, paralizza nel
caso in concreto, un diritto riconosciuto dal ius civile. Se l’azione è accordata, l’attore può interrogare il
convenuto sull’esistenza di alcuni presupposti di fatto (interrogatio in iure) e la relativa risposta ha valore
vincolante per il convenuto, anche se non corrisponde a verità. Il procedimento si arresta nella fase in iure
nei casi in cui è ammesso che l’attore possa porre il convenuto nell’alternativa di pagare il debito controverso
o di giurarne l’inesistenza.
Se non interviene denegatio actionis o altro fatto estintivo del processo, le parti concretano, con l’assistenza
del pretore, i termini della controversia e la scelta del giudice, dopo di che il pretore redige per iscritto la
formula, che è proposta dall’attore al convenuto e da quest’ultimo accettata. Questo atto costituisce la nuova
litis contestatio; se il convenuto non si presenta in iure (contumacia) o non accetta la formula, non si può
giungere alla litis contestatio e quindi non si può svolgere il processo. Perciò l’Editto pretorio comminava
sanzioni durissime contro il convenuto che non si presentasse in iure o rifiutasse di collaborare. La litis
contestatio costituisce il momento centrale del processo; essa determina la soggezione delle parti alla
decisione del giudice, cui queste si sono volontariamente sottoposte. Inoltre, gli estremi della controversia si
cristallizzano nella formula con riferimento al momento della litis contestatio: ne consegue, da un lato, che
saranno irrilevanti le modificazioni del rapporto avvenute successivamente e, dall’altro, che il giudice,
nell’accertare l’esistenza del diritto controverso e nel determinare l’ammontare della condanna per l’oggetto
principale e per quelli accessori, dovrà sempre riferirsi al momento della litis contestatio. Infine, alla litis
contestatio è collegata la consunzione dell’azione (espressa dalla massima, “non sia ammessa un’azione due
volte per il medesimo rapporto”); l’attore, quindi, una volta contestata la lite, non potrà tornare ad agire
nell’ambito dello stesso rapporto.
Segue, poi, la fase apud iudicem. Qui le parti producono le prove delle loro affermazioni e il giudice decide
la lite in base alle istruzioni impartitegli nella formula, emettendo entro termini stabiliti la sententia. Alla
sententia si accompagna un iudicatum, cioè un ordine che il giudice emana poiché investito di tale potere
dal pretore (iussus iudicandi). Se la sentenza è di condanna, questa sarà sempre pecuniaria. Questo ha nella
pratica due temperamenti: da un lato, per esercitare una pressione psicologica nei confronti del convenuto, è
l’attore che procede alla stima della cosa; dall’altro, il pretore può introdurre nella formula la clausola con la
quale subordina la condanna alla circostanza che il convenuto non abbia spontaneamente restituito la cosa
controversa (la formula è detta in questo caso arbitraria). Il iudicatum costituisce la base per l’esecuzione
forzata (actio iudicati), a meno che non sia impugnato mediante appellatio rivolta extra ordinem
all’imperatore. L’actio iudicati può dar luogo al riconoscimento della condanna da parte del convenuto, e in
tal caso egli è addictus al creditore, oppure alla contestazione di un vizio del procedimento di condanna: in
questo caso si apre un nuovo processo per accertare tale punto, con la conseguente condanna al doppio se
risulterà che il convenuto ha contestato l’esistenza della condanna precedente senza giusto fondamento.
Ma all’esecuzione sulla persona del debitore si affiancò, per poi sostituirla, l’esecuzione sul complesso dei
beni del debitore, nel cui possesso erano immessi i creditori per via di un decreto pretorio (missio in bona).
Trascorsi 30 giorni (15 nel caso di debitore già defunto) si passava alla nomina di un magister bonorum,
che procedeva alla vendita in blocco dei beni del debitore. Il compratore in blocco ( bonorum emptor)
subentrava nei diritti del debitore assumendo d’altra parte l’obbligo di pagare ai creditori una percentuale dei
debiti. Accanto alla venditio, che era una sorta di procedura fallimentare, sorse una procedura più mite, la
bonorum distractio, che divenne poi la forma generale di esecuzione forzata e consisteva nell’apprensione e
successiva vendita di singoli beni, nella misura necessaria a coprire il debito.
78. Struttura della formula. La formula presenta una struttura estremamente variabile, che scaturisce però
dalla combinazione di alcune parti fisse. Come parti normali della formula, Gaio elenca:
1) la intentio, che esprime la pretesa che l’attore fa valere in giudizio;
2) la demonstratio, che ha la funzione di individuare, quando necessario, il fondamento della controversia,
cioè di precisare i presupposti di fatto dell’azione intentata;
3) la condemnatio, con cui il magistrato conferisce al giudice il potere di condannare o assolvere, a seconda
che risulti provata o meno l’affermazione dell’attore;
4) la adiudicatio, con cui il magistrato conferisce al giudice il potere di aggiudicare, in conseguenza di un
giudizio divisorio, singole cose o singole parti di cose o singoli diritti a ogni parte in causa.
Oltre queste parti principali, la formula può anche contenerne altre accessorie:
1) la taxatio, che si collega alla condemnatio, cioè a limitare l’ammontare della condanna in considerazione
delle qualità del convenuto o dei suoi rapporti personali con l’attore;
2) l’exceptio, che si utilizza quando il convenuto, pur senza negare la verità di quanto afferma l’autore,
adduce dal canto suo l’esistenza di un altro fatto che, se vero, rende iniqua la sua condanna. Un caso
particolarmente importante è costituito dall’exceptio doli generalis, che non ha nulla a che vedere con
l’exceptio prevista per le ipotesi di dolo negoziale: questa, infatti, è concessa nei confronti dell’attore che
intenda far valere una pretesa sostanzialmente ingiusta, perché contraria alla bona fides, anche se
formalmente fondata sul ius civile. Talvolta può anche avvenire, peraltro, che un’exceptio, che a prima vista
può presentarsi giusta, nuoce iniquamente all’attore: a quest’ultimo il pretore concederà allora una
replicatio, cui può seguire una duplicatio del convenuto, e poi ancora una triplicatio dell’attore e così via;
3) il pretore interviene all’occorrenza anche in favore dell’attore inserendo nella formula una praescriptio,
con cui sottrae alla cognizione del giudice, e quindi alla consunzione processuale, una parte del rapporto
controverso che l’attore per il momento non vuole pregiudicare. Se l’attore vuol far valere in giudizio un
credito avente per oggetto prestazioni periodiche e intende agire solo per la rata scaduta, avviene che, una
volta contestata la lite, l’attore, per effetto della consunzione dell’azione non avrebbe la possibilità di agire in
seguito per le altre rate. Soccorre allora la praescriptio pro actore, in virtù della quale gli effetti estintivi
della litis contestatio si limitano alla parte di credito scaduto, lasciando salva la possibilità di riproporre
successivamente l’azione mano a mano che altre rate scadranno.
79. Vari tipi di azioni formulari. La duttilità della formula permise al magistrato di innovare nel campo del
ius civile, attraverso l’introduzione di nuove azioni (dette honorariae proprio perché create dal magistrato) o
attraverso l’estensione con vari artifizi di quelle fondate sul ius civile, dette perciò civiles.
a) Si parla di azioni in factum conceptae quando il pretore, anziché limitarsi a tutelare una pretesa fondata
sul ius civile, prende in considerazione e tutela una pretesa fondata su una situazione di fatto degna di
protezione, anche se non riconosciuta dal ius civile.
b) Altre volte, il pretore ricorre a una formula ficticia, con cui fa rientrare in un’ipotesi già tutelata dal ius
civile un’altra ipotesi analoga, fingendo (fictio) esistente un presupposto di fatto che il ius civile richiede e
che nel caso contemplato manca, oppure fingendo inesistente un presupposto di fatto che in verità c’è, ma
che il ius civile non vorrebbe. Ne consegue che la formula ficticia è modellata su quella civile che
competerebbe qualora esistesse, o non esistesse, quel dato presupposto.
c) Un altro artifizio cui il pretore ricorre risulta dalle formule con trasposizione di soggetti, in cui mentre
nell’intentio è riportato il nome di una persona, la condemnatio è riferita ad un’altra.
Nell’ampio panorama delle azioni consentite dall’agere per formulas si trovano altre classificazioni elaborate
dai giuristi classici relativamente alla procedura formulare:
d) Azioni reali (in rem) e personali (in personam). Le azioni reali, in quanto tendono ad affermare una
signoria o un potere sulla cosa, indipendentemente dalla persona che contesti tale diritto, sono esperibili erga
omnes; le azioni personali, in quanto tendono ad affermare una soggezione, verso il titolare, di una
determinata persona, sono esperibili solo contro questa.
e) Azioni reipersecutorie, tendenti alla restituzione di una cosa o al risarcimento del danno subito; azioni
penali, tendenti a irrogare una pena pecuniaria all’autore di un delitto.
f) Azioni di stretto diritto (stricti iuris) e di buona fede (bonae fidei). La differenza sta nel fatto che, nelle
azioni di stretto diritto assume rilevanza solo il comportamento negoziale, sicché nella formula si ha stretta
corrispondenza fra intentio e condemnatio (se risulterà provato che si deve dare 100, condanna a 100),
mentre nelle azioni di buona fede, per la speciale natura della causa negoziale, può essere presa in
considerazione la condotta morale delle parti nei loro rapporti (bona fides).
g) Azioni popolari, con cui poteva agire ogni cittadino per la tutela di un interesse non esclusivamente
privato, ma riguardante l’intera collettività.
h) Azioni nossali, esperibili contro chiunque avesse in suo potere lo schiavo o il filius familias delinquenti, e
che consentivano al convenuto l’alternativa di assumere la responsabilità del delitto o di abbandonare
l’offeso al colpevole.
80. Interventi straordinari del magistrato. Complementari al sistema delle azioni sono altri mezzi
processuali, fondati sull’imperium, dei quali il pretore si serve per troncare o prevenire una controversia.
a) In alcuni casi il pretore, su istanza dell’interessato o di un qualsiasi cittadino, emette un ordine ( decretum)
o un divieto (interdictum). Gli interdetti possono classificarsi, secondo il fine cui tendono, in 3 categorie:
interdicta esibitori, che contengono l’ordine di esibire in iure cose o persone; interdicta restitutori, che
contengono l’ordine di restituire una data cosa; interdicta proibitori, che contengono l’ordine di astenersi
da un determinato comportamento. Poiché l’emanazione dell’interdetto avviene sulla base di un’indagine
sommaria, può accadere che il destinatario ne contesti il fondamento: in questo caso si instaura un processo
che può considerarsi speciale, in quanto segue regole diverse da quelle del rito ordinario.
b) Il pretore può anche intervenire ordinando a una parte la prestazione di una solenne promessa, che ha la
funzione di rafforzare un diritto già esistente o tutelare un interesse non protetto dal ius civile.
c) Si parla di restitutio in integrum alludendo a un rimedio pretorio che considera come non avvenuto un
atto o un fatto di per sé validi, ma iniquamente nocivi. La restitutio reintegra il danneggiato nella stessa
condizione giuridica in cui si trovava prima che gli atti si compissero.
d) Il pretore, infine, può interporre la sua autorità mediante la missio in possessionem, con cui immette un
individuo nel possesso di una determinata cosa (in rem) o di un complesso di beni (in bona). Tale
provvedimento può avere scopi cautelari e conservativi oppure servire da mezzo all’esecuzione forzata. Il
pretore può anche ammettere una persona nel possesso dei beni ereditari, in attuazione di un diritto di
successione secondo il ius civile (hereditas) o, indipendentemente, perfino contro tale diritto; questa missio
in possessionem dà luogo all’istituto della bonorum possessio, autonomo sistema di successione ereditaria.
81. Le cognitiones extra ordinem. Il processo formulare costituisce la procedura ordinaria, applicabile in
età classica alle controversie tra privati (ordo iudiciorum privatorum). Già a partire dall’ultima età
repubblicana, tuttavia, in una serie di giudizi cominciò ad applicarsi una procedura diversa: tali giudizi
furono definiti cognitiones extra ordinem. Sempre a partire dalla prima epoca classica, furono decise extra
ordinem anche alcune controversie fra privati (in materia di stato di libertà, di tutela e di fedecommessi)
affidate ad appositi magistrati speciali; qualcuna di queste materie (i fedecommessi) ottenne proprio per
questa via il primo riconoscimento giuridico.
Con la progressiva affermazione del Principato, infine, il princeps ebbe modo di intervenire sempre più
spesso nei giudizi privati mediante sue costituzioni che talora si limitavano a fornire un orientamento ai
giudici privati dell’ordo (rescripta), altre volte decidevano direttamente un giudizio (decreta) in prima
istanza o in appello, introducendo così la possibilità, inesistente nel processo formulare, di riformare una
sentenza. Si giunse così, nel 342 d.C., all’abolizione delle formule per cui i processi extra ordinem rimasero
l’unica forma di processo civile.
Il processo extra ordinem ha delle caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono da quello formulare.
Innanzitutto è soppressa la divisione del procedimento in due stadi, perché il giudicare è ormai funzione
dello Stato. Tutta la causa si svolge alla presenza del giudice-funzionario che imposta la lite, esamina le
prove ed emette la sentenza. Questo giudice non è più strettamente legato all’osservanza del ius civile, e
quindi non è costretto, per sfuggirvi, a servirsi di espedienti indiretti, come era invece costretto a fare il
pretore. Tutta l’esperienza accumulata nella secolare prassi del pretore è ormai ius al pari del ius civile;
pertanto, non c’è più differenza tra azioni civili e pretorie, in factum e in ius; non c’è più formula in senso
tecnico; i casi che prima davano luogo a intervento diretto del magistrato, danno ora luogo ad altrettante
azioni normali; l’exceptio, che rispecchiava in modo evidente il contrasto fra il diritto civile e l’equità
pretoria, ora diventa un contro diritto del convenuto e sta sullo stesso piano dell’azione. Nella prassi del
processo extra ordinem si fondono in un unico ordinamento il diritto civile e il pretorio, con la prevalenza
naturale del secondo. La condanna del giudice di Stato mira a realizzare direttamente la pretesa dell’attore e,
dove necessario, può essere eseguita coattivamente ai danni del convenuto con l’intervento di funzionari
statali (apparitores). Ne consegue che ora l’appello diventa un mezzo normale d’impugnativa, che introduce
un secondo grado di giurisdizione; questo vuol dire che, essendo i giudici di Stato ordinati gerarchicamente,
la parte soccombente può rivolgersi al giudice di grado superiore perché riesamini la lite già decisa, in primo
grado, dal giudice inferiore.
82. Il procedimento extra ordinem. Il procedimento extra ordinem si apre, nella sua prima età storica, con
un ordine di comparizione del convenuto emesso dal magistrato o funzionario e notificato a cura del suo
ufficio (evocatio). Ad essa si sostituì in seguito la litis denuntiatio, una specie di citazione fatta dall’attore e
notificata per mezzo di un pubblico ufficiale. Nell’ultima epoca è in uso la procedura per libellos, che
consiste in una specie di scambio di comparse tra attore e convenuto.
Dinanzi al giudice l’attore espone la sua pretesa e il convenuto le sue difese e le eventuali contro domande
(contradictio), dopodiché entrambe le parti prestano il ius iurandum de calumnia, con cui giurano di non
agire al solo scopo di iattanza. Il giudice, allora, con provvedimento apposito, ammette e ordina le prove, che
saranno da lui vagliate non secondo un libero convincimento, ma secondo precisi criteri legali (ad esempio,
la testimonianza di uno solo non prova; il documento prevale sui testimoni); quindi, accertato il diritto,
emana la sentenza, che ha i caratteri di ufficialità, appellabilità e esecutorietà.
83.Liberi e servi. La principale distinzione nell’ambito del diritto delle persone è che tutti gli uomini sono
liberi o schiavi. A loro volta, fra gli uomini liberi si distinguono gli ingenui (nati liberi) dai liberti (liberati
dalla schiavitù). La condizione sociale degli schiavi muta sensibilmente attraverso le varie epoche di Roma.
Alla fine della repubblica il numero di servi era aumentato per via dei prigionieri riversati sul mercato dalle
guerre vittoriose; questi erano oggetto di un vero traffico a scopo di speculazione. Il padrone non conosceva
più i suoi schiavi neppure per nome: essi dipendevano da appositi sorveglianti che li sottoponevano a una
disciplina durissima, sicché il fenomeno dei servi fuggitivi divenne imponente, al punto che era d’uso saldare
al collo di ogni schiavo un collare di rame con incisa la promessa di ricompensa a chi lo avesse riportato al
padrone. Nell’età del principato inizia, tuttavia, un movimento in favore degli schiavi: ad esempio, una
costituzione di Antonino Pio vietò l’uccisione del servo fatta senza valido motivo. La condizione dei servi fu
ancora più mitigata dalla legislazione di Giustiniano che, pur non potendo giungere all’abolizione della
schiavitù, si sforzò di alleviare le miserie di questa classe sociale.
84. Condizione giuridica degli schiavi nel diritto privato. Dal punto di vista del diritto privato, lo schiavo
non è soggetto di diritto secondo il ius civile, quindi non può avere alcun diritto, né personale né
patrimoniale, e non ha capacità di stare in giudizio; al contrario, egli è oggetto di diritti, è una res corporalis
e mancipi, anche se sia privo di padrone. Lo schiavo è una cosa sui generis che ha, per la sua stessa natura
umana, tutta una serie di attitudini e di capacità naturali o di fatto che le altre cose non hanno.
Particolarmente importanti sono le conseguenze giuridiche che il diritto annette all’attività dello schiavo. Si
ammette che egli possa validamente manifestare la volontà negoziale del dominus (rientrando nella figura
del nuncio), che possa autonomamente compiere alcuni affari del commercio, che nel loro lato passivo non
obbligano il padrone, ma per la parte attiva (crediti, acquisti) si riversano automaticamente nel patrimonio
del dominus. All’irresponsabilità del dominus per l’operato dello schiavo fanno eccezione i debiti derivanti
da un delitto dello schiavo, per i quali il padrone è posto nell’alternativa tra l’assumere la responsabilità o
l’abbandonare il servo delinquente all’offeso. In molti casi, poi, era d’uso che il padrone concedesse allo
schiavo il godimento di fatto e l’amministrazione di un peculium, un gruzzolo di varia entità donato dal
padrone o raggranellato dallo schiavo e del quale il padrone restava, dal punto di vista giuridico, proprietario.
Nei limiti del peculio, lo schiavo traffica liberamente, coperto, di fronte alla fiducia di terzi, dall’eventuale
responsabilità del domino introdotta dal pretore (actio de peculio); può così entrare in rapporto di affari
perfino con il padrone. Infine, nell’età imperiale, lo schiavo fu ammesso direttamente a far valere extra
ordinem le proprie ragioni nei confronti del dominus, in relazione all’acquisto della libertà.
85. Cause della schiavitù. Servi si nasce o si diventa: bisogna quindi distinguere cause della schiavitù
inerenti alla nascita e cause posteriori alla nascita.
86. Cause inerenti alla nascita. Nasce schiavo il figlio della schiava (partus ancillae); infatti, l’unione con
la schiava è un semplice rapporto di fatto, che non può produrre relazioni giuridiche tra il padre e la prole.
Tuttavia, durante il principato fu ammesso il principio secondo cui doveva considerarsi nato libero
(ingenuus) il figlio della schiava che fosse stata, anche per poco, libera tra il concepimento e il parto.
87. Cause posteriori alla nascita.
a) Prigionia bellica. La prigionia bellica è la prima causa della schiavitù. Affinché essa comporti schiavitù
occorre che la prigionia derivi dall’esistenza di un bellum iustum, cioè di una guerra conforme alle regole
del diritto internazionale. Secondo la concezione romana, questa causa di schiavitù riposa su un fondamento
comune a tutti i popoli contemporanei, perciò è iuris gentium e ha carattere di reciprocità. Quindi anche il
Romano caduto prigioniero del nemico subisce la perdita della libertà; tuttavia, in favore dei Romani, il ius
civile ammetteva un beneficio speciale (ius postliminii) per cui il Romano prigioniero, che fosse tornato in
patria con l’intenzione di restarsi, si considerava ipso iure reintegrato nella situazione giuridica di cui
godeva prima della prigionia. Non si reintegrano però con tale beneficio il matrimonio e il possesso, poiché
entrambi non sono considerati come diritti, ma come rapporti fondati su presupposti di fatto.
b) Cause iuris civilis. Le altre cause di schiavitù posteriori alla nascita appartengono al ius civile e possono
quindi colpire solo i Romani. Divenivano schiavi: il debitore inadempiente, il renitente alla leva (indelectus),
chi si sottraeva all’obbligo di censimento (incensus), il ladro flagrante che era addictus al derubato.
Nel diritto classico divengono schiavi: l’uomo libero maggiore di 20 anni che dolosamente si sia fatto
vendere come schiavo per dividere il prezzo con il venditore; la donna libera, che mantenga una tresca con
uno schiavo altrui, nonostante la diffida del dominus; il condannato ai lavori forzati nelle miniere o ad altre
gravi pene.
89. Cause estintive della schiavitù.
A) Manomissione civile. Il servo acquista la libertà (diventando liberto), mediante l’atto volontario del suo
padrone che lo scioglie dalla dominicia potestas (manumissio). Il ius civile riconosce 3 forme di
manomissione. La prima, mortis causa, è la manumissio testamento, disposta dal testatore in forma diretta e
imperativa; poiché lo schiavo liberato resta legato da vincoli di soggezione verso chi lo ha manomesso
(patronus), ne consegue che questa forma di manomissione è la più vantaggiosa per lo schiavo, che diventa
liberto senza patrono (orcinus), poiché il suo patrono è ormai defunto. La seconda forma civile è la
manumissio vindicta; verso la fine della repubblica, essa si svolge davanti a un magistrato competente, in
qualunque luogo: è il dominus che dichiara solennemente di voler liberare il servo, accompagnando la
dichiarazione con gesti rituali, fra cui quello di toccare lo schiavo con la vindicta, e il magistrato da efficacia
a tale dichiarazione, confermandola. Nel diritto giustinianeo, la manumissio vindicta si riduce a una
dichiarazione, priva di particolari formalità, resa dal domino al magistrato competente.
La terza forma civile, la manumissio censu, consiste nell’iscrizione del servo nelle liste censuali degli
uomini liberi, fatta con l’assenso del padrone, in occasione delle operazioni di censimento dei censori.
Queste 3 forme civili di manomissione hanno il singolare effetto di far acquistare al manomesso non solo la
piena libertà, ma anche la cittadinanza romana.
B) Manomissione pretoria. Accanto alle originarie forme civili di manomissione ne sorsero altre nell’uso
pratico: si trattava di dichiarazioni del dominus che, essendo prive delle formalità richieste dal ius civile, non
producevano l’acquisto della libertà: il padrone, quindi, avrebbe potuto ricominciare a trattare il manomesso
come schiavo. Ma, poiché simile condotta sarebbe stata iniqua e immorale, il pretore tutelava nel godimento
della sua libertà di fatto chi era stato manomesso in forma non solenne: pertanto, simili forme di
manomissione si dicono pretorie. La condizione ambigua dei manomessi con le forme pretorie (liberi di
fatto, ma schiavi iure civili e privi di cittadinanza) fu sanata da una lex Iunia Norbana, che concesse a essi la
libertà e li assimilò, quanto alla cittadinanza, ai Latini.
C) Altri tipi di manomissione. Il dominus poteva, facendo testamento, anziché manomettere direttamente lo
schiavo, pregare l’erede o il legatario, cui lo avesse attribuito, di manometterlo: lo schiavo diveniva libero
solo con l’atto di manomissione conseguente. In epoca cristiana, è ammesso un altro tipo di manomissione
(in sacrosanctis ecclesiis), consistente in una dichiarazione resa dinnanzi all’assemblea dei fedeli.
92. Limitazioni alle manomissioni. L’abuso delle manomissioni, alla fine della repubblica, provocò una
massa di spostati sempre pericolosa per l’ordine pubblico. Da ciò la tendenza a limitare le manomissioni
determinatasi nell’età augustea. Nell’età imperiale avanzata, per influsso dello stoicismo, si andò delineando
un contrario movimento legislativo, inteso a favorire con ogni mezzo le manomissioni.
93. Acquisto della libertà per disposizione di legge. L’acquisto della libertà può dipendere, in via
eccezionale, da una disposizione di legge, per cui la libertà è acquistata indipendentemente dalla volontà del
domino e anche contro questa. Acquistano la libertà ope legis, in virtù di singole disposizioni emanate
nell’età classica: il servo abbandonato in stato di infermità dal suo padrone; il servo che ha denunciato
l’uccisore del domino; lo schiavo venduto per essere manomesso, che non sia stato poi liberato dal
compratore. Nel diritto giustinianeo, la serie dei casi di liberazione legale diviene numerosissima.
94. Il diritto di patronato. Concetto e contenuto. Lo schiavo liberato (liberto o libertino), sebbene libero e
cittadino, non è del tutto uguale al nato libero. In primo luogo, il liberto è affetto da alcune particolari
incapacità di diritto pubblico e di diritto privato; in secondo luogo, egli resta parzialmente vincolato al
manomittente (patrono) e ai discendenti di questo. Il liberto deve al patrono, del quale assume anche
prenome e nome, obsequium et reverentia, il che comporta il divieto di accusarlo in giudizi criminali o di
intentare contro di lui azioni infamanti, nonché l’obbligo di prestargli una serie di servigi. Il patrono ha anche
il diritto a succedere ereditariamente al liberto che non abbia sui heredes: a lui spetta, inoltre, la tutela
legitima sul liberto impubere e sulla liberta.
95. Cessazione del diritto di patronato. L’ingratitudine grave del liberto può provocare, nel diritto
imperiale, il suo ritorno in schiavitù; per converso, il patrono può perdere il suo diritto di patronato, quando
abbia compiuto gravi atti contro il liberto. L’inferiorità politica e sociale del liberto poteva essere eliminata, a
partire dall’età augustea, mediante la concessione dell’anello d’oro, distintivo dell’ingenuus; ma una
completa equiparazione del liberto all’ingenuo, con conseguente estinzione dei diritti di patronato, si ebbe
solo con la restitutio natalium, concessa in età più tarda dall’imperatore col consenso del patrono.
96. Persone in mancipio (o in causa mancipii). Una condizione personale, che Gaio assimila alla schiavitù,
è quella dei filii familias (maschi e femmine) che sono stati mancipati dal loro pater ad altri, in virtù del suo
ius vendendi, e delle donne in manu mancipate dal coemptionator. Le persone in mancipio conservano la
libertà e la cittadinanza romana e sono parificate ai liberi sotto il profilo dei diritti personali; dal punto di
vista patrimoniale, però, la loro situazione è più simile a quella degli schiavi. La situazione di persona in
mancipio cessa con la manumissio, realizzata nelle stesse forme civili richieste per l’affrancazione degli
schiavi. Nel diritto giustinianeo, la figura delle persone in mancipio scompare.
98. Concetto e contenuto della cittadinanza. Il godimento della civitas romana costituisce l’optimus
status, poiché solo il cittadino ha la pienezza della capacità di diritto pubblico e privato nell’orbita del ius
civile. Nella capacità di diritto pubblico rientrano il ius suffragii e il ius honorum: il primo consiste nel
diritto di votare nei comizi, ossia di esercitare i tre fondamentali poteri che ai comizi stessi sono attribuiti
(legislativo, elettorale e giudiziario in materia criminale); il ius honorum consiste nel diritto di essere eletti
alle magistrature. Nella capacità di diritto privato rientrano: il ius commercii, che importa il diritto di
compiere atti giuridici nelle forme e con gli effetti stabiliti dal ius civile; il ius connubii, cioè il diritto di
contrarre matrimonio legittimo; la testamenti factio, cioè il diritto di disporre e di ricevere per testamento; la
patria potestas, che comporta il potere giuridico assoluto, personale e patrimoniale, riconosciuto al pater
familias sui discendenti. Nel sistema romano la categoria dei cittadini, dapprima comprendente tutti i
membri della civitas, fu presto solo una (la meno numerosa) tra quelle degli individui sottoposti allo Stato,
che si distinsero tra cives, latini e peregrini.
99. Cives romani. In Roma la qualifica di cittadino si acquistava per diritto di discendenza: nasceva
cittadino romano il figlio di genitori cittadini. Qualora uno solo dei genitori fosse cittadino, la condizione del
figlio era determinata a seconda che i genitori fossero o meno uniti in iustae nuptiae: se i genitori lo erano, il
figlio seguiva la condizione del padre, considerata al momento del concepimento; se, invece, i genitori non
erano uniti in iustae nuptiae, allora la condizione del figlio seguiva quella della madre.
La cittadinanza romana poteva anche acquistarsi dallo schiavo manomesso con forme civili; da ogni soggetto
con speciali benefici di legge; per naturalizzazione, cioè per concessione fatta a singoli o a determinate classi
di persone. Il movimento di estensione della cittadinanza culminò nell’Editto del 212 d.C. con cui Antonino
Caracalla concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero: in seguito alla constitutio Antoniniana
risulta soppressa la distinzione dei sudditi in cives, latini e peregrini.
La cittadinanza può perdersi pur conservandosi la libertà: ciò avviene in conseguenza dell’esercizio del ius
exulandi, del diritto di sottrarsi, cioè, con l’esilio, a gravi condanne. Inoltre, la cittadinanza si perde anche
con la volontaria rinuncia da parte di un cittadino che si trasferisce in una colonia e assume lo status di
latinus coloniarius.
100. Latini. La seconda categoria di sudditi romani è quella dei latini, distinti in veteres, coloniarii e
iuniani. Le antiche comunità viventi nel Lazio erano legate a Roma da una confederazione (Lega Latina),
che riconosceva una condizione giuridica tendenzialmente assimilata a quella dei cives Romani. Sciolta la
lega Latina nel 338 a.C., alcune città latine furono incorporate da Roma, mentre altre conservarono
l’indipendenza: ai cittadini delle ultime furono conservati gli stessi diritti di cui godevano nell’ambito della
lega; sono questi i latini prisci o veteres (antichi).
I latini coloniarii divenivano tali andando a stabilirsi nelle colonie fondate da Roma, perdendo così lo status
civitatis originario; la loro posizione ricalcava quella dei latini prisci, pur con qualche limitazione (talora non
godevano del ius connubii con i cives romani).
La classe dei latini iuniani fu costituita dagli schiavi manomessi con forme pretorie, a cui si aggiunsero altri
liberi che per varie ragioni erano esclusi dalla cittadinanza. La loro condizione è peggiore di quella degli altri
latini, poiché essi muoiono come servi, nel senso che il loro patrimonio non si trasmette per successione
ereditaria, ma ritorna al patrono iure peculii, come avviene per il peculio alla morte dello schiavo. Inoltre,
essi sono affetti da una limitata capacità di acquistare per testamento.
101. Peregrini. I peregrini sono esclusi dal godimento del ius civile, ma possono contrarre coi cives relazioni
giuridiche riconosciute e tutelate dell’ordinamento speciale del ius gentium. In particolare, sono detti
peregrini alicuius civitatis gli abitanti delle regioni conquistate da Roma. Essi, oltre a godere nei rapporti
coi romani dell’uso del ius gentium, continuano a godere, nei rapporti interni di diritto privato, del loro
ordinamento nazionale. I peregrini dediticii sono, invece, gli abitanti delle comunità che, per aver resistito
ad oltranza alla conquista romana, sono state sciolte: essi godono del ius gentium, ma non hanno
riconosciuto un proprio ius civile.
102. Struttura della famiglia romana. La famiglia romana, nel periodo antico, è un aggregato di persone
fondato non sulla base della parentela di sangue (cognatio), ma su di un comune vincolo di soggezione
giuridica a un capo (adgnatio). Questi è il pater familias, il cui potere assoluto sui membri della familia si
esprime col termine potestas, che si differenzia in: patria potestas sui figli e sui discendenti di essi
all’infinito, e dominica potestas sugli schiavi. Dal punto di vista patrimoniale, poi, sono giuridicamente
sottoposte al pater le donne convetae in manum, entrate cioè a far parte della familia a causa di matrimonio
e le persone in mancipio. Alla morte del pater, tutti i discendenti che non abbiano il padre vivo diventano sui
iuris, ciascuno di essi a sua volta pater familias: la familia si fraziona allora in tante famiglie quanti sono i
discendenti del pater defunto e l’insieme di queste nuove familiae proprio iure, costituisce la familia
communi iure. Un gruppo di più vaste dimensioni è poi la gens, costituita dalle familiae che, per ragioni di
risalente discendenza, conservano un nomen comune.
Mano a mano che lo Stato assume una posizione progressivamente più forte di fronte ai singoli gruppi
familiari, questi si disgregano. Decade il vincolo di soggezione giuridica al pater e va di pari passo
assumendo riconoscimento e rilievo il vincolo di parentela naturale (cognatio). La patria potestas si attenua e
si trasforma nel suo contenuto, adattandosi a una nuova funzione, analoga alla potestà moderna dei genitori.
103. Acquisto e perdita della patria potestas. Il pater familias acquista la potestas sui figli da lui
procreati in matrimonio legittimo, fin dal momento della loro nascita; si presumono da lui procreati i figli
nati dalla moglie, purché nati non prima di 180 giorni dall’inizio del matrimonio né 300 giorni dopo lo
scioglimento di esso. Il pater familias, infine, acquista la potestas anche sui figli naturali mediante la
legittimazione.
Tuttavia, il pater può acquistare la potestas anche su persone a lui estranee, che gli sono sottoposte in qualità
di filii familias mediante un atto giuridico (adoptio). La patria potestas è considerata dall’ordinamento
romano perpetua e perciò si estingue con la morte del pater; oltre la morte, però, estinguono la patria potestas
anche i fatti che determinano capitis deminutio del soggetto. Infine, un caso speciale di estinzione della
potestas sul figlio, è costituito dalla sua emancipatio (proscioglimento dalla potestà paterna).
104. Contenuto personale della patria potestas. Il potere assoluto del pater sui figli si manifesta in alcune
facoltà che gli erano riconosciute sin dall’antichità dai mores. Il pater poteva mettere a morte i propri
discendenti; l’esercizio di questa facoltà trovava, però, un freno nel costume, poiché era considerata cosa
riprovevole per un pater mettere a morte una persona in sua potestà senza aver prima consultato gli adgnati
più autorevoli. Quando il freno dei mores divenne insufficiente, intervennero a limitare l’esercizio del diritto
di vita e di morte, la legislazione e il controllo dei censori.
Al pater spettava il ius noxae dandi, che gli consentiva di mancipare all’offeso il membro della sua
famiglia che si fosse reso colpevole di un delitto; in tal modo egli restava esonerato dalla relativa
responsabilità che avrebbe potuto sopportare. Il carattere personale della patria potestas si manifesta ancora
nella vindicatio filii spettante al pater contro chiunque tenesse presso di sé uno dei suoi sottoposti.
105. Contenuto patrimoniale della patria potestas. Tutti i sottoposti alla potestas del pater non hanno
alcuna capacità patrimoniale. Ogni vantaggio patrimoniale che possa loro pervenire, si riversa
automaticamente nel patrimonio del pater. Al contrario, il pater non assume alcuna responsabilità per i debiti
eventualmente contratti dai suoi sottoposti, ad eccezione di quelli derivanti ex delicto.
Nell’età giustinianea appare sovvertito l’originario principio dell’incapacità patrimoniale del filius familias;
ogni suo acquisto gli appartiene: il padre ha, sui beni del sottoposto, solo una sorta di usufrutto legale.
106. Natura del matrimonio romano. Il diritto romano, in età classica, considera il matrimonio come uno
stato di fatto (res facti), anche se produttivo di conseguenze giuridiche. Il matrimonio romano prescinde
nella sua essenza da una solennità iniziale: si perfeziona e perdura in quanto di fatto sussistano i due
fondamentali elementi della coabitazione (requisito obiettivo) e della maritalis affectio (requisito
subbiettivo); quindi si scioglie col venir meno di uno di questi due elementi.
Il matrimonio è fondato sulla costante affectio maritalis, che imprime alla convivenza un elevato carattere di
dignità. Il venir meno dell’affectio rompe ipso iure quello che ormai sarebbe un mero vincolo. La
coabitazione non deve intendersi nel senso materiale della permanente convivenza dei coniugi; affinché la
coabitazione sia realizzata occorre solo che, alla stregua degli usi sociali, i coniugi siano considerati come
coabitanti: è opportuno comunque che la coabitazione inizi in modo inequivocabile e pubblico, con
l’ingresso solenne della sposa nella casa del marito. La maritalis affectio consiste, invece, nella reciproca
intenzione dei coniugi di convivere monogamente come marito e moglie in completa comunanza di vita,
comunione di diritto divino e umano. Trattandosi di elemento psicologico, la maritalis affectio deve essere
desunta, caso per caso, dal comportamento reciproco dei coniugi, dalla posizione di alta dignità che la donna
occupa nella casa rispetto ai dipendenti e agli ospiti e dal titolo di mater familias che le è attribuito: il
complesso di queste manifestazioni è detto honor matrimonii e differenzia la moglie dalla concubina.
107. Presupposti del matrimonio. Perché il matrimonio possa sussistere è necessario il concorso di alcuni
presupposti essenziali e inderogabili:
a) lo status libertatis (l’unione fra schiavi non è matrimonio, ma contubernio);
b) lo ius connubii, cioè la capacità giuridica a porre in essere iustae nuptiae. In mancanza di esso non può
aversi matrimonio valido iure civili, ma soltanto iure gentium. In alcuni casi, tuttavia, pur essendovi il ius
connubii in senso assoluto, esso manca in senso relativo, cioè in relazione ad alcune categorie di persone fra
loro (ad esempio, i patrizi non potevano sposare i plebei prima della lex Canuleia). Il connubium poteva
mancare anche per ragioni di parentela naturale o adottiva. Costituisce impedimento al matrimonio la
parentela diretta all’infinito; la parentela collaterale fino al quarto grado;
c) l’idoneità fisica. Non possono unirsi in matrimonio gli evirati. Quanto all’età si richiede il
raggiungimento della pubertas;
d) l’inesistenza attuale di altro matrimonio. Il matrimonio romano è monogamico; inoltre, vi è il divieto di
nuovo matrimonio per la vedova, prima di 10 mesi (in età postclassica un anno) dalla morte del precedente
marito: questo al fine di evitare l’incertezza della paternità. L’inosservanza di tale divieto, tuttavia, non dava
luogo alla nullità del successivo matrimonio, ma a sanzioni consistenti nell’infamia;
e) il consenso dei coniugi (le nozze non si realizzano con la consumazione, ma con il consenso). Se gli sposi
sono alieni iuris, occorre anche il consenso del pater familias; per il filius familias, dato che i suoi eventuali
discendenti cadranno anch’essi in potestate, occorre il consenso non solo dell’ascendente maschio che in
quel momento è titolare della potestas, ma anche degli altri ascendenti intermedi, poiché in futuro i nascituri
da quelle nozze potrebbero divenirne eredi. Non così per la figlia, i cui discendenti apparterranno alla familia
del marito: per lei basta quindi il consenso del pater familias.
108. Gli sponsali. Gli sponsali sono denominati così dall’antico uso di scambiarsi, per sé o per i propri figli
alieni iuris, solenni reciproche promesse di nozze future, nell’antica forma della stipulatio, detta sponsio. In
età classica, essi non sono più legati alla forma della sponsio e perciò non determinano più alcun obbligo, ma
costituiscono soltanto un precedente del matrimonio imposto dal costume sociale. Quando, però, gli sponsali
abbiano luogo, producono conseguenze giuridiche: creano una quasi affinità tra i fidanzati e i loro parenti;
legittimano il fidanzato all’actio iniuriarum in difesa della fidanzata e all’accusa di adulterio per il
tradimento di lei; impediscono, a pena di infamia, di contrarre contemporaneamente altri sponsali. In età
classica, quindi, gli sponsali non obbligano a concludere il matrimonio promesso, perché questo sarebbe in
contrasto con la libertà matrimoniale.
109. La manus. La conventio in manum. Nell’età antica, tutti i matrimoni erano cum manu; in seguito al
matrimonio, cioè, la moglie entrava a far parte della famiglia agnatizia del marito, trovandosi, in quanto in
manu del marito, nella condizione di alieni iuris rispetto allo stesso. Se la moglie, prima del matrimonio, era
alieni iuris, essa usciva dalla potestas paterna per cadere sotto la manus del marito; se, invece, era sui iuris,
perdeva a causa della conventio in manum tutti i suoi diritti, nei quali subentrava il marito in forza di una
successione universale inter vivos. Le forme attraverso cui si acquistava la manus erano, per gli antichi
Romani, due: la confarreatio, propria della classe patrizia, che era una solennità religiosa, svolta alla
presenza di 10 testimoni e consistente in un sacrificio a Giove con l’offerta di una vittima e la consumazione
in comune di libagioni sacre; la coemptio matrimonii causa consisteva, invece, in una speciale applicazione
della mancipatio. In mancanza di tali forme, il marito poteva acquistare la manus sulla moglie anche
mediante l’antico istituto dell’usus, cioè in conseguenza della coabitazione ininterrotta della donna per un
anno nella casa del marito.
Il matrimonio accompagnato da conventio in manum, perfettamente consono alla struttura dell’antica
famiglia patriarcale, cominciò a presentare, in seguito al disfacimento di essa, gravi inconvenienti: sembrava
ora eccessivo imporre l’ingresso della donna nella famiglia agnatizia del marito. Così si diffuse la pratica del
matrimonio sine manu; in esso, il marito non acquista alcun potere sulla moglie, la quale, se alieni iuris, resta
sotto la potestas paterna e conserva tutti i diritti derivanti dalla sua appartenenza alla famiglia di origine,
mentre, se è sui iuris, conserva la sua autonomia personale e patrimoniale.
110. Scioglimento del matrimonio.
A) Cause obbiettive. Non è solo la morte a sciogliere il matrimonio romano. Possono condurre allo
scioglimento cause obbiettive o involontarie, cioè quelle che fanno venire meno uno dei presupposti
necessari alla validità del matrimonio. Quindi: a) perdita della libertà (capitis deminutio maxima) da parte
di uno dei coniugi; b) perdita della cittadinanza (capitis deminutio media) da parte di uno dei coniugi
(con essa viene meno il connubium in senso assoluto e il matrimonio può continuare a valere solo iure
gentium); c) nomina a senatore del marito di una liberta (causa poi abolita da Giustiniano); d) incesto
sopravvenuto: si verifica quando, mediante adozione, si crea una parentela agnatizia tra i coniugi, tale da
costituire impedimento alle nozze.
B) Cause subbiettive. Cause subiettive di scioglimento del matrimonio sono quelle dipendenti dalla volontà
dei coniugi o dei loro patres familias.
a) Divorzio. Causa subbiettiva di scioglimento dovuta alla volontà dei coniugi è la cessazione della maritalis
affectio, che può essere unilaterale o bilaterale: si parla in tal caso di divortium e, per lo scioglimento
unilaterale, anche di repudium, che è l’atto con cui si notifica all’altro coniuge la volontà di interrompere il
matrimonio. Con il rilassamento degli antichi costumi e con la dissoluzione del solido organismo familiare,
dilaga in Roma, alla fine della repubblica, l’abuso dei divorzi, che addirittura diventa una moda.
A partire dall’età postclassica, la legislazione imperiale, per influsso dell’etica cristiana, pur non potendo
vietare il divorzio, che era connaturato all’essenza del matrimonio romano, tentò di porre freno agli abusi. Il
divorzio unilaterale fu considerato lecito se compiuto ex iusta causa, cioè per grave colpa dell’altro coniuge
(adulterio della moglie, concubinato del marito), oppure bona gratia, cioè per un giustificato motivo
prescindente dalla colpa dell’altro coniuge (impotenza, voto di castità, prigionia bellica); viceversa, il
repudium sine causa, pur dando luogo allo scioglimento del matrimonio, era colpito da gravi sanzioni. Per
quanto riguarda il divorzio consensuale, cioè non fondato su giusta causa ma solo sulla mutata volontà dei
coniugi, esso fu considerato lecito e solo Giustiniano lo colpì con sanzioni.
Altro discorso è lo scioglimento della manus, in conseguenza del divorzio, nel caso di antichi matrimoni
accompagnati dalla conventio in manum. A tal fine, occorreva un atto contrario a quello costitutivo di essa:
la diffarreatio, rispetto alla confarreatio; la remancipatio e seguente maumissio, rispetto alla coemptio.
b) Volontà dei patres familias dei coniugi. Nei matrimoni sine manu, il pater familias della moglie, avendo
conservato su di lei patria potestas, poteva richiamarla presso di sé, rendendo così impossibile la convivenza
tra i coniugi che è uno dei due elementi costitutivi del matrimonio. In ogni caso, quando entrambi i coniugi
fossero alieni iuris, uno dei patres poteva scioglierne il matrimonio vietando loro la coabitazione.
113. Rapporti patrimoniali fra coniugi. La dote. La dote fu un istituto peculiare dei Romani, connesso al
matrimonio. Essa consiste in ogni apporto patrimoniale (beni mobili o immobili, crediti e altri diritti) che la
moglie, o il suo pater familias o un terzo, fanno al marito per contribuire agli oneri del matrimonio.
Costituire la dote era un obbligo puramente sociale, del costume. La dote può essere costituita mediante la
promissio dotis (una stipulatio con cui il costituente si obbliga a trasferire al marito i beni dotali in un
momento successivo), mediante dictio dotis (un contratto verbale di pari contenuto, effettuabile solo dalla
moglie o dal pater familas), oppure ancora mediante la datio dotis (che non consiste in una promessa, ma
nell’immediato ed effettivo trasferimento dei singoli beni dotali al marito).
114. Diritto del marito sui beni dotali. In origine, il marito poteva disporre a suo arbitrio della dote, in
quanto ne era proprietario. Successivamente, però, fu vietato che il marito alienasse i fondi italici dotali
senza il consenso della moglie e, in ogni caso, che li gravasse di ipoteca; tale divieto fu poi esteso a tutti i
beni immobili. Per quanto riguarda i beni mobili dotali, la libera disponibilità di essi da parte del marito era
temperata dalla sua eventuale responsabilità all’atto della restituzione della dote, che conseguiva allo
scioglimento del matrimonio.
115. Restituzione della dote. Dalla speciale destinazione per cui la dote è costituita, deriva la conseguenza
che, una volta scioltosi il matrimonio, il marito non ha più alcun titolo per ritenere la dote e dovrebbe perciò
essere tenuto a restituirla. Questo principio, tuttavia, si affermò gradatamente e il diritto alla restituzione
della dote fu inizialmente realizzato con espedienti indiretti. Dall’evoluzione di questi espedienti, sorse, però,
alla fine dell’età classica, la concezione opposta al principio originario, per cui la dote appartiene alla moglie
(res mulieris), mentre il marito ne ha, finché duri il matrimonio, il godimento e la percezione dei frutti per
contribuire agli oneri del matrimonio stesso; cioè, il marito è ormai titolare di un diritto più simile
all’usufrutto che alla nuda proprietà. Il marito deve, in ogni caso, restituire la dote allo scioglimento del
matrimonio; egli è tenuto a farlo da un’actio ex stipulatu, non nascente più necessariamente da un’apposita
stipulatio, considerandosi l’implicita promessa di restituzione connaturata a ogni costituzione di dote.
116. Donazione nuziale. Nell’epoca postclassica si andò generalizzando l’usanza, di origine orientale, per
cui il marito, prima delle nozze, faceva alla donna una donazione, considerata come un corrispettivo della
dote e pari a metà della dote stessa. L’imponenza di tale fenomeno sollecitò numerosi interventi della
legislazione imperiale, la quale considerò la donatio ante nuptias, prima vietata, alla stregua della dote. Con
Giustiniano si stabilì che la donazione fatta prima del matrimonio potesse essere aumentata durante il
matrimonio (donatio propter nuptias) divenendo pari alla dote.
117. Unioni extra-matrimoniali.
A) Il concubinato. Il concubinato era una forma di unione, inferiore al matrimonio, ma riconosciuta dal
diritto; aveva luogo ogni qualvolta un’unione non potesse assurgere alla dignità di matrimonio per mancanza
di qualche presupposto o per la mancanza della maritalis affectio.
Il concubinato, diffusosi come conseguenza delle restrizioni introdotte dalla legislazione matrimoniale
augustea, ricevette diretta regolamentazione in età cristiana, con la previsione di determinati requisiti, in
mancanza dei quali l’unione era considerata indifferente per il diritto o illecita. Si richiese che non vi fossero
impedimenti di parentela; che i concubini non fossero legati da matrimonio o altro concubinato; che la
convivenza avesse carattere continuativo e in certo senso stabile. I figli nati dal concubinato erano detti liberi
naturales e perciò non avevano alcun legame giuridico con il padre; essi potevano, però, assurgere al grado
di figli legittimi mediante la legittimazione.
B) Il contubernium. La relazione di carattere continuativo e abituale tra schiavi o tra un libero e una
schiava, o viceversa, si dice contubernium.
119. Figli legittimi e naturali. Sono considerati legittimi i figli nati dalla propria moglie; essi si presumono
concepiti ad opera del marito purché nati non prima di 180 dall’inizio del matrimonio e non dopo 300 giorni
dallo scioglimento di esso: tale presunzione ammette comunque la prova del contrario, che può dare luogo a
un disconoscimento di paternità. I figli legittimi si dicono iusti solo se nati da iustae nuptiae; in tal caso
questi sono legati al padre da adgnatio e perciò sottoposti alla sua patria potestas. Se, il matrimonio è valido
solo sul piano del ius gentium per mancanza di connubium tra i coniugi, i figli nati da tale unione sono
iniusti e sono legati al padre solo da cognatio.
Tutti i figli non legittimi si dicono naturales: tra essi distinguiamo i liberi naturales in senso stresso, che
sono quelli nati da concubinato, dai figli spurii, nati da unioni giuridicamente irrilevanti o illecite (figli
adulterini o incestuosi). Tutti i figli naturali non hanno alcun legame giuridico con il loro padre, che è
giuridicamente ignoto, e godono solamente di una parentela (cognatio) con la madre e i suoi parenti.
120. Figli legittimati. L’istituto della legittimazione, dovuto all’influsso dell’etica cristiana, sorge nell’età
costantiniana e si consolida nella legislazione giustinianea. Mediante legittimazione il figlio naturale
acquista la qualità di figlio legittimo. La forma principale di legittimazione consiste nel successivo
matrimonio dei genitori:l’effetto si ottiene, però, solo quando le nozze sarebbero state possibili al momento
del concepimento e quando concorre il consenso dei legittimandi. Nei casi in cui non fosse possibile il
successivo matrimonio per morte o assenza della madre, il diritto giustinianeo ammise che la legittimazione
si potesse ottenere attraverso un provvedimento dell’imperatore.
121. Figli adottivi. La categoria dei figli adottivi comprende persone non procreate dal pater familias ma a
lui sottoposte in qualità di figli, mediante un atto giuridico detto adozione. La funzione originaria
dell’adozione consiste nell’aumentare la forza politica e lavorativa di un gruppo familiare in declino, con
l’aggregazione di soggetti estranei, che, essendo sottoposti alla patria potestas del pater, sono equiparati ai
filii. Questi estranei aggregati alla famiglia possono essere filii di un’altra familia che escono dalla potestas
del loro pater originario per sottoporsi a quella dell’adottante (adoptio), oppure possono essere patres
familias che perdono tale qualità di sui iuris e cadono, quali filii familias, sotto la potestà dell’adottante
(adrogatio). Forme ed effetti tra i due istituti dell’adozione sono differenti. Per ottenere l’adoptio occorreva
sciogliere l’adottato dalla potestas del suo pater familias originario; questo si otteneva servendosi fino a un
certo punto dell’emancipatio. Per ottenere l’adrogatio, invece, era necessaria la partecipazione dei comizi
curiati (sostituiti successivamente da un rescritto imperiale) e la preventiva approvazione del collegio
imperiale; questo si spiega poiché, per effetto dell’adrogatio, si estingueva una famiglia con i relativi culti
domestici, dato che, passando il pater familias arrogato sotto la potestà dell’arrogatore con tutta la sua
famiglia, quest’ultima era incorporata nella nuova. L’adrogatio produceva anche gravi effetti patrimoniali, in
quanto determinava una successione universale inter vivos dell’arrogatore nel patrimonio dell’arrogato,
anche se non passavano i debiti, per il principio che il pater non rispondeva dell’attività debitoria del figlio.
Con il decadere dell’antica struttura della famiglia agnatizia, l’adozione si presta a nuove funzioni; essa
diviene un mezzo per sopperire alla mancanza di discendenza naturale o per consolare la perdita di essa.
Requisiti per l’adozione, avente simili funzioni, sono il consenso dei due patres familas e dell’adottando
(quanto meno la sua non opposizione) e una differenza di età di almeno 18 anni tra adottante e adottato;
l’adoptio si ottiene tramite una dichiarazione delle parti, ricevuta dal magistrato.

122. Adgnatio e cognatio. L’adgnatio è il vincolo che lega al pater familias, e fra di loro, tutti coloro che
sono sottoposti alla potestas di uno stesso soggetto ed è indipendente dall’esistenza di vincoli di sangue: sono
infatti adgnati i figli adottivi e le donne conventae in manum, che sono dal punto di vista del sangue degli
estranei; non sono adgnati, invece, i figli procreati dal pater, ma da lui emancipati e usciti quindi dalla
potestà e dalla famiglia agnatizia. La cognatio è, invece, il vincolo che lega fra loro tutti i parenti di sangue,
discendenti da un comune capostipite, siano essi adgnati o no: perciò è cognatus il figlio emancipato, ma
non lo è il figlio adottivo.
123. Linee e gradi di parentela. Si distinguono due linee, la retta (recta), costituita da ascendenti e
discendenti all’infinito, cioè da tutti coloro che discendono uno dall’altro a cominciare dall’originario
capostipite, e la collaterale (transversa), costituita da tutti coloro che discendono da un unico capostipite, ma
non discendono l’uno dall’altro. Entro queste due linee si computano vari gradi (gradus). Nella linea retta il
grado di parentela si computa contando gli intervalli che separano i parenti (primo grado tra padre e figlio);
nella linea collaterale, invece, il grado di parentela si computa salendo lungo un ramo fino al comune
capostipite e ridiscendendo quindi per l’altro ramo fino al parente che si considera (secondo grado tra fratelli;
terzo tra zio e nipote; quarto grado tra cugini).
124. Affinità. Il vincolo che lega un coniuge con i parenti dell’altro è affinità (adfinitas). Esso è rilevante
poiché costituisce impedimento a contrarre matrimonio. Un coniuge è affine rispetto ai parenti dell’altro
nello stesso grado in cui l’altro ne è parente.
125. La tutela e la curatela. La tutela nel diritto giustinianeo è un istituto che ha la funzione di supplire alla
totale o parziale mancanza di capacità di agire di un soggetto (pupillo), sottoponendolo a un tutore. Nel più
antico periodo del diritto romano, tuttavia, la tutela rispondeva, invece, all’esigenza di salvaguardare gli
interessi del gruppo familiare agnatizio, in particolare della familia communi iure, mediante l’esercizio di un
potere sulla persona di un sui iuris che, a cagione dell’età impubere, non aveva ancora capacità di agire.
Secondo la più antica concezione romana, però, non solo l’età impubere era considerata causa imitatrice
della capacità di agire, ma anche il sesso, poiché si riteneva che la donna, per la sua naturale leggerezza,
avesse bisogno di una permanente guida e di un controllo per tutta la vita; vi era quindi, in origine, accanto
alla tutela degli impuberi, quella delle donne, che andò tuttavia attenuandosi fino a svanire nell’età classica.
126. Tutela impuberum. Fonti della tutela. La scelta del tutore è attribuita in primo luogo al padre, che
può designare nel suo testamento il tutore al proprio figlio impubere (tutela testamentaria). In mancanza di
tale designazione, la tutela spetta di diritto al più prossimo parente in linea collaterale, che è chi
raccoglierebbe la successione ereditaria del pupillo se questi morisse prima di aver potuto fare testamento.
Alla tutela del liberto o dell’emancipato impubere sono chiamati rispettivamente il patrono e il pater
familias, che hanno proceduto alla manomissione o all’emancipatio. Infine, in mancanza di un tutor
legitimus, riconosciutosi l’interesse del pupillo ad avere un tutore, provvide una lex Atilia de tutore dando,
che autorizzò il pretore a nominare un tutore (tutor dativus).
In origine, poteva essere tutore chiunque fosse capace di patria potestas, quindi il cittadino romano (in antico
anche se impubere), ma non la donna. Con Giustiniano si ammise la donna tutrice e si richiese per il tutore il
compimento dei 25 anni di età.
127. Poteri del tutore. Il principale contenuto dei poteri del tutore sta nell’amministrazione del patrimonio
del pupillo. Il tutore, però, esercita tale potere con differenti modalità: se il pupillo è ancora infans, il tutore
compie da solo e in nome proprio tutti gli atti giuridici necessari, salvo l’obbligo di trasferire
successivamente al pupillo, cessata la tutela, gli effetti utili del suo operato; se, invece, il pupillo è infantia
maior, è il pupillo stesso, già capace di intendere e di esprimersi, a compiere l’atto, al quale assiste il tutore,
integrando la deficiente capacità del pupillo con la sua approvazione (sono comunque nulli tutti i negozi che
possono produrre uno svantaggio economico per il pupillo, se compiuti senza l’auctoritas tutoris).
128. Responsabilità del tutore. I poteri del tutore, in origine illimitati poiché attribuiti nell’interesse del
gruppo agnatizio e non del pupillo, trovarono più tardi un freno nella responsabilità del tutore, tenuto a
render conto del suo operato, in forme sempre più incisive, man mano che l’aspetto della tutela come istituto
di protezione dell’incapace andava prevalendo su quello potestativo.
Per il caso di dolose sottrazioni del tutore, esisteva già in epoca antica un’actio rationibus distraendis,
rivolta a costringere il tutore a presentare una contabilità del patrimonio pupillare separata da quella del
proprio, da intentarsi al momento del rendiconto finale, e che era di carattere penale e infamante. Qualora,
invece, non vi fosse stata sottrazione, ma cattiva amministrazione da parte del tutore, egli poteva essere
convenuto con un’actio tutelae infamante, che, essendo di buona fede, ammetteva l’esame della rettitudine
del tutore; questa actio fu poi estesa dal pretore al caso in cui il danno fosse derivato al pupillo non da cattiva
gestione, ma da colposa astensione del tutore (cessatio). Con un’actio tutelae contraria, il tutore poteva a
sua volta convenire il pupillo per chiedergli il rimborso delle spese e il risarcimento dei danni. Il pupillo
aveva, nell’età classica, la precedenza rispetto ai creditori del tutore.
129. Contutela. È possibile che a uno stesso pupillo siano nominati più tutori, perché disposto dal testatore
(contutela testamentaria) oppure, in mancanza di designazione del testatore, perché più di uno siano coloro
che si trovano nello stesso grado di parentela agnatizia rispetto al pupillo (contutela legittima).
130. Fine della tutela. La tutela si estingue quando il pupillo abbia raggiunto la pubertà; essa, però, può
estinguersi anche per cause che ineriscono alla persona del tutore: a) morte del tutore; b) capitis deminutio
maxima e media del tutore; c) la rinuncia (abdicatio tutelae) del tutore, nell’epoca in cui la tutela era un
diritto. Vi sono poi cause estintive che ineriscono alla persona del pupillo: a) morte del pupillo; b) capitis
deminutiones del pupillo.
131. Tutela mulierum. La donna sui iuris era sottoposta fino ai 12 anni alla tutela impuberum; uscita da
questa con il raggiungimento della pubertà, ricadeva sotto la tutela mulierum. L’incapacità della donna non
era totale, ma limitata a quegli atti che potevano apportare pregiudizio economico al gruppo stesso; ella
poteva quindi compiere da sola atti di acquisto o di disposizione, che però non comportassero l’uso di forme
speciali; non poteva, invece, senza l’auctoritas tutoris, alienare le res mancipi, agire in giudizio, fare
testamento, assumere obbligazioni, costituire una dote, manomettere gli schiavi e accettare un’eredità.
La tutela delle donne perdette gradatamente d’importanza e di rigore; rimase formalmente in vita, come tutti
gli istituti del ius civile, ma svuotata di pratico valore. I tempi furono presto maturi per l’abolizione
dell’istituto: la lex Iulia et Papia dell’età augustea svincolò dalla tutela la donna che avesse 3 figli se ingenua,
4 se liberta; non si hanno più tracce della tutela mulierum dopo l’età di Diocleziano.
132. Curatele. Le XII Tavole conoscevano l’istituto della cura del furioso, per cui l’amministrazione del
patrimonio dell’alienato, incapace di agire, era affidata a un curator. Da questo archetipo si svolsero tante
altre applicazioni della cura, tutte rivolte ai casi in cui un soggetto fosse bisognevole di assistenza, di
controllo o di integrazione delle sue minorate capacità. La differenza rispetto alla tutela stava, nell’antico
diritto romano, nel fatto che la curatela consisteva esclusivamente in una protezione e un’assistenza limitate
al campo patrimoniale (il tutore si dà alla persona, il curatore al patrimonio). Tuttavia, venuto meno
l’originario carattere di potestas della tutela, l’elemento differenziatore più importante fra tutela e cura svanì,
in modo che si fusero insieme i due istituti nell’età giustinianea. Le principali specie di cura sono: cura del
furioso, cura del prodigo, cura di minori di 25 anni, cura ventris, cura absentis nomine per
l’amministrazione del patrimonio dell’assente.
133. Diritti reali e diritti di obbligazione. Il diritto patrimoniale contempla i vari aspetti dell’attività
economica degli individui, tendente alla soddisfazione dei vari bisogni, e disciplina questa attività,
riconoscendo ai singoli il diritto di esercitare un potere di godimento e talora di disposizione su determinati
oggetti (diritti reali), oppure riconoscendo ai singoli il diritto di pretendere che altri presti in loro favore una
data attività economica (diritti di obbligazione o di credito).
Nel caso dei diritti reali, il conseguimento di un bene da parte del titolare del diritto si raggiunge direttamente
mediante il riconoscimento di un potere immediato che il soggetto esercita sulla cosa e che prescinde dalla
collaborazione di altri soggetti. Il diritto reale si limita a pretendere da parte di tutti gli altri consociati un
atteggiamento negativo, un’astensione o una non ingerenza riguardo all’oggetto del diritto stesso. Tale
pretesa può farsi valere, quindi, erga omnes e la relativa azione giudiziaria a tutela di un diritto reale è
un’actio in rem che, mirando ad affermare una pretesa che si rivolge direttamente sulla res che ne è oggetto,
può esperirsi contro chiunque entri con la cosa in relazione tale da ledere il diritto del titolare.
Nel caso del diritto di obbligazione, il risultato economico si raggiunge, invece, mediante il riconoscimento
che l’ordinamento giuridico fa al titolare (creditore) del potere di pretendere che un altro soggetto
(debitore) esplichi in suo favore una attività di carattere patrimoniale (dare, facere, praestare). Tale pretesa
può farsi valere, perciò, soltanto nei confronti della persona obbligata e la relativa azione giuridica è un’actio
in personam.
134. Classificazione dei diritti reali. Un posto preminente spetta al diritto di proprietà, l’unico ad avere per
oggetto una cosa che appartiene in modo esclusivo al titolare del diritto stesso. Tutti gli altri diritti reali,
invece, oltre ad avere per oggetto una cosa appartenente ad altri (diritti reali su cosa altrui), conferiscono al
titolare solo alcuni poteri determinati: sono pertanto detti diritti reali limitati o parziari. Fra questi ultimi,
alcuni assicurano in misura più o meno ampia il godimento di una cosa altrui, o comunque qualche vantaggio
che si possa trarre dalla cosa altrui: sono diritti reali di godimento (servitù prediali, usufrutto, enfiteusi,
superficie). Altri diritti reali, invece, tendono a fornire a un soggetto, titolare di un diritto di credito, una
garanzia che maggiormente lo assicuri del soddisfacimento del credito stesso: sono perciò diritti reali di
garanzia (pegno e ipoteca).
135. Concetto di proprietà. Nella proprietà si possono rilevare due aspetti: quello della signoria, costituito
dal potere assoluto, immediato e indipendente che il proprietario esercita sulla sua cosa, e quello della
pertinenza, costituito dal fatto che l’oggetto della proprietà appartiene al titolare di essa in modo completo
ed esclusivo. Tuttavia, l’ordinamento giuridico può imporre certi confini all’assoluta libertà del proprietario,
stabilendo al diritto di proprietà alcune limitazioni nell’interesse pubblico e altre nell’interesse privato.
Bisogna porre in rilievo anche un altro carattere peculiare della proprietà, l’elasticità del dominio, per cui il
diritto del proprietario, anche se temporaneamente compresso dall’esistenza di diritti altrui sulla cosa, tende
ad espandersi automaticamente, riprendendo tutta la sua primitiva estensione, qualora questi diritti altrui
cessino. In conclusione, si può affermare che la proprietà è la più indipendente e assoluta signoria, in atto o
in potenza, riconosciuta su una cosa dall’ordinamento giuridico.
136. Oggetto della proprietà. Esso può essere costituito da ogni cosa, mobile o immobile, purché corporale.
Per i beni immobili (in particolare per i fondi) si pone il problema dei confini entro cui si estende il diritto di
proprietà. Quanto al suolo, i confini dei campi erano nell’antico diritto romano determinati con una
cerimonia sacra (limitatio); per i fondi non limitati, invece, i confini erano segnati da siepi, argini, fossi,
steccati e cosi via. Quanto al sottosuolo e allo spazio atmosferico sovrastante, il proprietario del suolo aveva
anche la proprietà dello spazio atmosferico sovrastante il fondo, fin dove questo fosse suscettibile di
sfruttamento economico, nonché di tutto il materiale sottostante fin dove era possibile l’utilizzazione del
sottosuolo. Inoltre, il proprietario del suolo diveniva proprietario anche di tutto ciò che fosse costruito sul
suolo stesso, senza limitazioni di altezza.
137. Varie specie di proprietà. Il diritto romano non conosce un concetto unico di proprietà. L’antico ius
civile tutela solo il dominium ex iure quiritium, che ha i caratteri rigorosi e formalistici del diritto
quiritario; esso è accessibile ai soli cives e si applica soltanto al suolo italico; inoltre, il dominium ha una
forza di assorbimento e di attrazione di tutto ciò che è incorporato alla res o che successivamente la
incrementi, ed è esente da ogni specie di tributo fiscale.
Accanto al dominium, si svolse, a causa dell’espansione territoriale di Roma, la proprietà provinciale;
infatti, le terre conquistate fuori della Penisola, non godendo del ius italicum, non potevano formare oggetto
di dominium ex iure. Si ritenne, quindi, che la proprietà di tali terre spettasse al populus romanus o, in
seguito, al princeps e che i concessionari di esse avessero soltanto un godimento economico in cambio del
quale erano tenuti a pagare un canone.
Il terzo tipo di proprietà è detto proprietà pretoria o bonitaria; esso si svolse dall’attività del pretore intesa
a tutelare il compratore di un res mancipi che non l’avesse ricevuta con la forma solenne della mancipatio. Il
pretore tutelò l’acquirente contro l’alienante che, in difetto di mancipatio, era rimasto proprietario ex iure
quiritium e che poteva rivendicare la cosa, concedendo all’acquirente una exceptio rei venditae, con cui
questo poteva evitare la condanna e trattenere la cosa, adducendo che essa era stata venduta e trasferita.

Il pretore tutelò, poi, l’acquirente di fronte ai terzi, concedendogli un’azione reale fittizia, detta Publiciana,
con la quale il compratore poteva pretendere da chiunque la restituzione della cosa, come se fosse sua,
fingendosi trascorso il termine necessario all’usucapione.
A partire dalla fine del III secolo d.C., tende a cessare ogni differenziazione di regime tra dominium
(comprensivo di proprietà civile e proprietà pretoria dopo la fusione del ius civile col pretorio) e proprietà
provinciale. Dal 275 d.C., inoltre, la proprietas si caratterizza per il solo aspetto della pertinenza.
138. Il condominio. Anche la proprietà può spettare in concorrenza a due o più soggetti sulla medesima res:
si parla in questo caso di condominio o comproprietà (communio e res communis). Il condominio può
derivare dal libero accordo di due o più soggetti (comunione volontaria) oppure da cause estranee alla
volontà dei condomini (comunione incidentale). Nel condominio che ha ad oggetto una cosa indivisa
(communio pro indiviso) ciascun condomino ha l’intero diritto di proprietà sull’intera cosa; ma, poiché
egual diritto lo hanno anche gli altri condomini, i diversi diritti di proprietà, eguali e concorrenti, si limitano
reciprocamente: ne deriva una divisione in quote ideali, rapportate al valore dell’oggetto, che determina la
possibilità di esprimere il diritto del condominio con una frazione avente per denominatore il numero dei
condomini. Altra cosa, invece, accade quando concorrono i diritti di proprietà di più soggetti su cose
materialmente distinte, ma funzionalmente connesse: in questo caso (communio pro diviso) ciascuno ha la
proprietà solitaria su una parte individuata della cosa, cioè sulla porzione a lui pervenuta; la rilevanza della
comunione sta solo nel fatto che possono esistere diritti accessori che spettano in comune ai proprietari.
Ciascun condomino, libero di compiere da solo gi atti di disposizione che investivano unicamente la sua
quota, poteva compiere atti di disposizione giuridica dell’intera res solo con il consenso di tutti gli altri
condomini. Quanto alla disciplina degli atti di godimento economico, il principio affermatosi fu che ciascun
condomino potesse usare la cosa secondo quanto convenuto in un eventuale regolamento tra i condomini, e
in mancanza liberamente, senza poter però mutare l’attuale destinazione economica della cosa;
l’inosservanza di tali limiti legittimava ogni condomino a interporre la sua prohibitio. Altra conseguenza
della speciale natura del condominio è il diritto di accrescimento (ius adcrescendi): questo consiste in ciò,
che qualora una quota di condominio sia lasciata libera da uno dei condomini, il diritto degli altri si espande
automaticamente, per via dell’elasticità del dominio, alla quota vacante, che si accresce proporzionalmente a
quelle di tutti gli altri condomini (in caso di morte del condomino il diritto sulla quota trapassa ai suoi eredi).
Il condominio è, però, uno stato anormale della proprietà ed è considerato sfavorevolmente dal diritto
romano; quest’ultimo favorisce perciò lo scioglimento del condominio, che può verificarsi volontariamente o
giudizialmente. Lo scioglimento volontario si realizza attraverso in iure cessio della quota ad uno dei
condomini, oppure attraverso alienazione della res a terzi. Lo scioglimento giudiziale della communio si
realizza, invece, attraverso una speciale azione (actio communi dividundo).
139. Modi di acquisto della proprietà. Si possono distinguere i modi di acquisto riconosciuti dal ius civile,
sia di diritto pubblico (vendita del bottino di guerra) sia di diritto privato (mancipatio), dai modi di acquisto
ammessi dal ius gentium (come la traditio). Si possono, poi, distinguere i modi di acquisto a titolo oneroso
dai modi di acquisto a titolo gratuito. Infine, si possono distinguere i modi di acquisto a titolo derivativo,
che si fondano su una relazione giuridica col precedente proprietario per cui si verifica un trapasso di
proprietà dall’uno all’altro soggetto, dai modi di acquisto a titolo originario, nei quali si prescinde da ogni
rapporto con un precedente proprietario, per cui la proprietà si acquista in modo autonomo e indipendente o
per un fatto involontario o per un atto del solo acquirente (come l’occupazione).
140. Modi di acquisto a titolo originario.
A) Occupazione. Consiste nella presa di possesso di una cosa che sia di nessuno, o perché non ha mai avuto
proprietario (res nullius) o perché è stata intenzionalmente abbandonata dal proprietario (res derelicta).
B) Invenzione del tesoro. Consiste nella scoperta (inventio) di un tesoro, cioè di qualsiasi cosa mobile di
pregio nascosta ovunque da tempo immemorabile tale che non se ne possa più identificare il proprietario.
Fino all’età di Adriano (117-138 d.C.) il tesoro spettava al proprietario del fondo in cui era nascosto, per il
carattere assorbente del dominium ex iure quiritium. Adriano stabilì, invece, per l’ipotesi in cui l’inventore
fosse persona diversa dal proprietario del fondo, che il tesoro fosse diviso in parti eguali tra i due soggetti.
C) Accessione. Consiste nell’unione di una cosa, ritenuta accessoria, ad un’altra cosa, ritenuta principale. In
presenza di certi presupposti, ne deriva l’effetto che il proprietario della cosa principale acquista, per effetto
di una forza espansiva del diritto di proprietà, anche la proprietà della cosa accessoria (si tratta di una res
nuova, costituita dall’unione della principale con l’accessoria). I requisiti perché l’accessione comporti
acquisto della proprietà sono la congiunzione e l’accessorietà. Quanto alla congiunzione occorre che essa
sia definitiva e inseparabile; se, invece, è temporanea o separabile la proprietà della cosa accessoria non si
estingue, ma rimane, fin tanto che dura la congiunzione, allo stato di quiescenza, salvo rimanifestarsi per
reviviscenza quando per causa spontanea o provocata, la congiunzione cessi. Quanto all’accessorietà, è
necessario stabilire quale delle due cose mobili congiunte debba considerarsi principale e quale accessoria; la
soluzione accolta nel diritto giustinianeo e prevalente, è quella che considerava principale non la cosa di
maggior valore o volume, ma quella che imprimeva al tutto la funzione economica. L’acquisto da parte del
proprietario della cosa principale non è a titolo gratuito: egli deve indennizzare il proprietario della cosa
accessoria pagandogli il valore di essa.
D) Confusione e commistione. Quando due masse omogenee, liquide o solide appartenenti a proprietari
diversi, si mescolano (per caso fortuito o per atto volontario), poiché non si può stabilire un rapporto tra cosa
principale e accessoria, si ha una confusione (per i liquidi) o commistione (per i solidi). Il fatto della
mescolanza estingue i due originari diritti di proprietà e fa sorgere nei due soggetti un condominio sull’intera
massa derivante dalla confusione, per quote proporzionali al valore delle cose mescolatesi.
E) Specificazione. Consiste nel trarre per proprio conto da una materia prima altrui un manufatto che, nella
coscienza economico-sociale, è considerato come una res nuova e diversa.
F) Adiudicatio. Si verifica nei 3 giudizi divisori: actio communi dividundo fra i condomini, actio familiae
erciscundae tra i coeredi, e actio finium regundorum per il regolamento dei confini tra proprietari di fondi
limitrofi. In essi il giudice, per effetto dell’adiudicatio inserita nella formula, ha il potere di attribuire ai
litiganti la proprietà delle parti risultanti dalla divisione. Tale proprietà deve considerarsi come un diritto
nuovo rispetto al condominio prima esistente.
G) Acquisto dei frutti. Finché il frutto è attaccato alla cosa madre (frutto pendente), esso non ha ancora
esistenza autonoma e non è suscettibile di separata proprietà. Al momento della separazione, esso cadrà in
proprietà del dominus della cosa fruttifera, per effetto della proiezione di quel diritto di proprietà su tutto ciò
che della cosa costituisce il reddito. Qualora poi esistesse un particolare diritto alla percezione dei frutti in un
titolare diverso dal proprietario della cosa fruttifera (usufruttuario, conduttore), la proprietà dei frutti si
acquista con l’esercizio di tale diritto da parte del relativo titolare, cioè con l’effettiva percezione.
148. Modi di acquisto a titolo originario.
A) Mancipatio. Consiste in una forma solenne del ius civile applicata all’acquisto non solo del dominum,
ma anche di altre situazioni di potere. Dinanzi ad almeno 5 testimoni, cittadini romani, e puberi, e con
l’intervento di un libripens (un soggetto, cittadino romano e pubere, che recava in mano una bilancia o
libra), l’acquirente (mancipio accipiens) pronunciava determinate parole solenni e compiva gesti rituali. La
controparte (mancipio dans) taceva e quindi approvava: in virtù di tale assenso, la controparte rimaneva
esposta, in caso di evizione, cioè qualora l’acquirente avesse successivamente perduto l’oggetto acquistato in
seguito a una vindicatio esperita vittoriosamente nei suoi confronti dall’effettivo titolare dell’oggetto, ad una
responsabilità nei confronti dell’acquirente per il doppio del valore della cosa. In età postclassica, la
mancipatio venne svuotandosi da ogni contenuto e trasfondendosi, come una clausola di stile, nel documento
scritto, che assunse l’effettiva efficacia traslativa della proprietà o costitutiva di altri diritti; nel diritto
giustinianeo, la mancipatio fu formalmente abolita.
B) In iure cessio. Si tratta di un modo generale di acquisto di diritti assoluti; quanto alla proprietà, si applica
per il trasferimento delle res mancipi e delle res nec mancipi. Consiste in un negozio di origine processuale,
che si presenta nella forma come una finta lite che però non prosegue in iudicio. L’acquirente (nelle vesti di
attore) e l’alienante (nelle vesti di convenuto) sostanzialmente d’accordo, si presentano al magistrato e il
primo finge di rivendicare la cosa come sua e contemporaneamente tocca la cosa, che deve essere presente in
iure, con una festuca.
L’alienante non si oppone e consente o tace. Con ciò finge di riconoscere vera l’affermazione dell’attore
perdendo la lite e ritirandosi (in iure cedit). Formalmente, quindi, la in iure cessio non attua un trapasso di
proprietà, bensì il riconoscimento giudiziale di una preesistente proprietà dell’acquirente. Con la decadenza
del formalismo del diritto civile, l’atto perde nella forma il suo carattere processuale e diviene
semplicemente cessio, cioè cessione di una cosa o di un diritto come quella moderna.
C) Traditio. Consiste nella materiale consegna della cosa dall’alienante (tradens) all’acquirente (accipiens),
accompagnata da una iusta causa traditionis abile a trasferire la proprietà; divenne, nell’età giustinianea,
l’unico modo di trasferimento della proprietà. Nella traditio, il passaggio della proprietà richiede la
trasmissione del possesso della cosa; tuttavia, non basta questa materiale trasmissione del possesso affinché
avvenga il passaggio di proprietà, potendosi trasferire il possesso di una cosa senza trasferirsi la proprietà
(come avviene nella traditio a scopo di locazione); occorre anche, perché passi la proprietà, che il tradens e
l’accipiens intendano rispettivamente trasferire ed acquistare tale diritto, e che tale intenzione sia fondata su
una iusta causa traditionis, cioè su di un titolo che il diritto riconosce idoneo a trasferire la proprietà.
D) Litis aestimatio. Nella rei vindicatio del processo formulare, la condanna non ha mai per oggetto la
restituzione della cosa, ma il pagamento di una somma di denaro (condanna pecuniaria). L’attore in
revindica, non può coattivamente ottenere la restituzione della sua cosa, ma potrà solo, quando il convenuto
si rifiuti all’ordine del giudice di restituirla, procedere alla valutazione della cosa (litis aestimatio), mediante
uno speciale giuramento, sicché il convenuto, che si accontenti di pagare la aestimatio, acquista la proprietà
della cosa litigiosa.
E) Legato per vindicationem. Questo modo di acquisto della proprietà appartiene al diritto ereditario. Si
tratta di un negozio mortis causa, consistente nella solenne disposizione del testatore, il quale ordina che un
singolo bene o un complesso di bene o un complesso di beni siano detratti, dopo la sua morte, dall’asse
ereditario e passino alla persona da lui indicata, detta legatario.
153. L’acquisto della proprietà per usucapione. L’acquisto della cosa, pur essendosi verificato in uno dei
modi elencati con apparente regolarità, può, in realtà, contenere un vizio tale da escludere l’acquisto della
proprietà. In questo caso, l’effettivo proprietario potrebbe sempre rivendicare la sua cosa (evizione), sicché
l’alienante dovrebbe sempre rispondere verso l’acquirente. L’usucapione fu introdotta per pubblica utilità,
affinché di alcune cose non restasse a lungo e incerta la proprietà, essendo sufficiente al proprietario, per
richiedere le proprie cose, il decorso di un tempo determinato. Con riferimento alla proprietà, requisiti perché
avesse luogo l’usucapio erano, al tempo delle XII Tavole, il godimento di fatto della cosa o possesso e la
durata di tale possesso, che era fissata in due anni solo per i fondi. Ben presto, però, si richiese che l’oggetto
dell’usucapione non fosse una cosa rubata o acquistata con violenza, e la giurisprudenza richiese, perciò, che
in ogni caso il possessore dovesse essere, al momento dell’acquisto del possesso, in buona fede, cioè dovesse
avere la coscienza di non ledere un diritto altrui; inoltre, il possessore doveva vantare anche un fondamento
idoneo dell’acquisto del possesso (titolo o iusta causa). L’usucapio, essendo un istituto del ius civile, non
poteva applicarsi ai non cives, né ai fondi posti fuori del suolo italico: alle stesse esigenze sopperiva, però,
nelle provincie un istituto simile (longi temporis praescriptio).
Nell’età postclassica, usucapione e longi temporis praescriptio si fondono in un unico istituto per effetto
dell’abolizione della distinzione tra cives e peregrini e tra suolo italico e provinciale. Ne deriva la disciplina
giustinianea dell’usucapione o prescrizione acquisitiva, che richiede i seguenti requisiti: res habilis (idoneità
dell’oggetto ad essere usucapito), titulus o iusta causa (causa dell’acquisto, idonea a far acquistare la
proprietà se non viziata), bona fides (convincimento del possessore di non ledere un diritto altrui), possessio
(materiale detenzione della cosa, accompagnata dall’intenzione del possessore di tenerla con sé), tempus
(durata ininterrotta del possesso, fissata in 3 anni per le cose mobili e in 10 anni per gli immobili).
L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario poiché, sebbene la cosa usucapita sia
appartenuta prima a un precedente proprietario, tuttavia l’acquisto si verifica indipendentemente dal suo
concorso, ex novo, per opera di un fatto obiettivo, cioè il decorso del tempo, e per opera di requisiti
soggettivi posti in essere dall’acquirente.

154. Perdita della proprietà. Tutti i modi di acquisto a titolo derivativo della proprietà costituiscono,
rispetto all’alienante, altrettanti casi di perdita del suo diritto. Ma, indipendentemente da un trasferimento, la
proprietà può estinguersi per altre cause, relative all’oggetto o al soggetto del diritto.
È causa oggettiva di estinzione della proprietà il perimento totale della cosa oggetto del diritto (può trattarsi
di distruzione materiale dell’oggetto o di sua sopravvenuta inidoneità giuridica a formare oggetto di
dominio). Le cause soggettive di estinzione della proprietà possono essere volontarie, come l’abbandono
(derelictio) oppure involontarie, come tutte le cause che producono un’incapacità del soggetto ad essere
titolare di diritti.
155. Tutela della proprietà.
A) Rei vindicatio. L’azione processuale principale in difesa della proprietà è detta rei vindicatio e serve a
tutelare il proprietario contro il fatto di un altro soggetto che detenga illegittimamente la cosa. Quest’azione
può essere esperita con successo dal proprietario che non possiede, contro il possessore che non possa
opporgli una iusta causa possidendi. La rei vindicatio mira a conseguire non solo la restituzione della cosa,
ma anche tutti i vantaggi connessi con essa (omnis causa rei), che il proprietario avrebbe avuto se la cosa gli
fosse stata restituita al momento della litis contestatio. Qualora il possessore abbia fatto delle spese in
relazione alla cosa detenuta (impensae in rem), nell’età classica egli non può pretenderne il rimborso, se
non ricorrendo all’ausilio del pretore, che gli concede una exceptio doli generalis con cui paralizza la
domanda dell’attore in revindica; nel diritto giustinianeo, al possessore è riconosciuto un diritto al rimborso,
regolato a seconda che il possesso sia in buona o mala fede e che le spese sostenute siano necessarie, utili o
voluttuarie. La rei vindicatio tutelava solo il dominium ex iure quiritium; per la proprietà provinciale si
adoperava un’azione analoga, mediante adattamento della formula della rei vindicatio, mentre per la
proprietà pretoria fu introdotta l’actio Publiciana.
B) Actiones negativae. Si tratta di azioni in rem tendenti a respingere chi, pur non contestando la proprietà
dell’attore, pretenda di esercitare un ius in re aliena (servitù, usufrutto) sulla cosa dell’attore. Il convenuto
soccombente in tali azioni è invitato dal giudice ad assumere l’impegno ad evitare per l’avvenire altri atti di
turbativa. Il nome di tali azioni deriva dalla struttura negativa della formula, rivolta all’accertamento non
dell’esistenza di un diritto dell’attore, ma dell’inesistenza di un diritto del convenuto.
164. Concetto e varie figure di possesso. Per possesso in genere s’intende lo stato di fatto (res facti) per cui
un soggetto ha la materiale detenzione di una cosa, indipendentemente dalla questione se egli abbia anche il
diritto a tale detenzione. Secondo l’ordinamento giuridico romano si distinguono varie figure di possesso. La
prima figura è costituita dal possesso di chi si trovi in un rapporto con la cosa che permetta la riferibilità
oggettiva a lui dell’appartenenza di essa (corpore possidere) e abbia l’intenzione di tenere la cosa, in buona
o in male fede, per conto proprio (animus possidendi). Quando concorrono questi due elementi, vi è un
possesso perfetto, considerato indipendentemente dal diritto a possedere e degno di tutela giuridica; poiché
tale tutela si attua mediante interdetti pretori, questo possesso è detto possessio ad interdicta.
Vi è, poi, un diverso tipo di possesso, detto naturalis possessio, che consiste nella mera detenzione materiale
della cosa, senza l’intenzione di tenerla per sé, poiché si ha l’intenzione di tenere la cosa per conto di un altro
soggetto, che ne è considerato vero possessore. Qui si ha l’elemento del corpore possidere, ma non quello
dell’animus possidendi e perciò al semplice detentore per contro altrui non compete la protezione del pretore;
questa è, invece, accordata a colui per conto del quale il detentore tiene la cosa presso di sé, perché egli ha
l’animus possidendi. Vi è, infine, un possesso qualificato, detto possessio civilis o ad usucapionem: qui il
possessore, oltre alla detenzione e all’animus possidendi, ha anche un titolo (iusta causa possidendi) su cui
è fondato il suo possesso. Tale possesso può condurre all’acquisto della proprietà mediante usucapione.
165. Acquisto del possesso. Il possesso si acquista quando il soggetto attua entrambi i requisiti, quello
obbiettivo della detenzione della cosa e quello psicologico dell’animus possidendi; tuttavia, non è necessario
che i due requisiti sorgano contemporaneamente. L’oggetto del possesso può acquistarsi tanto a titolo
originario quanto a titolo derivativo; l’acquisto derivativo del possesso si attua mediante la traditio.
In altri casi la traditio si realizza attraverso il consenso espresso in occasione del negozio o del fatto giuridico
che la giustifica.
Una prima figura è la traditio brevi manu, per cui chi ha presso di sé la cosa a titolo di mera detenzione,
acquista l’animus possidendi, convertendo così, senza rinnovare l’apprensione della cosa, la sua naturalis
possessio in una possessio ad interdicta, poiché aggiunge l’animus al corpore possidere che già aveva. Da
questo e altri casi si giunse nell’età giustinianea alla pura finzione della consegna della cosa, con la consegna
del documento contenente menzione del trasferimento del possesso, senza che esso fosse praticamente
avvenuto. Infine, l’animus possidendi si acquista quando sorge nel soggetto l’intenzione di tenere la cosa per
sé, di avere una signoria sulla cosa autonoma ed esclusiva. Ciò può avvenire in conseguenza di una traditio o
di altri fatti (come una successione), ma anche per propria determinazione: in quest’ultimo caso, il soggetto
che, detentore di una cosa per conto di altri inizia a nutrire l’animus possidendi, trasforma la propria
detenzione in possesso.
166. Conservazione e perdita del possesso. Quanto alla conservazione del possesso, si deve ritenere che
esso duri fintanto che sussistono i due requisiti essenziali del corpore possidere e dell’animus possidendi: il
venir meno di uno solo di essi estingue il possesso. Affinché si consideri perdurante la detenzione della cosa,
non occorre certo che vi sia un ininterrotto contatto fisico tra il possessore e la cosa, ma è sufficiente che la
cosa si trovi sempre nella pratica disponibilità del possessore, sicché egli possa effettivamente usarne ogni
qualvolta lo voglia. Oltre che per il venir meno di uno dei due elementi essenziali, il possesso si può
estinguere sia per la sopravvenuta incommerciabilità della cosa, sia per la capitis deminutio maxima del
possessore che, divenuto schiavo, non può più possedere suo nomine, onde se anche la cosa restasse nella
detenzione del servo, ne sarebbe comunque considerato possessore il dominus, attraverso il ministerium
dello schiavo.
167. Casi anomali di possesso. Vi sono tre ipotesi di possesso anomalo, in cui, pur mancando l’animus
possidendi, il pretore ritenne utile, in via eccezionale, considerare la relazione tra il soggetto e la cosa non
come mera detenzione ma come possessio ad interdicta. Esse sono: il possesso del creditore pignoratizio,
cioè del creditore che detiene il pegno consegnatogli dal debitore; il possesso del precarista che ha la
detenzione di una cosa concessagli graziosamente da altri e revocabile a richiesta del concedente; il possesso
del sequestratario, che ha la detenzione della cosa a lui affidata a titolo di sequestro, affinché la riconsegni, al
momento dovuto, a chi ha ragione.
168. Difesa del possesso. L’editto pretorio tutela il possesso mediante due categorie di interdetti: i primi
(retinendae possessionis) proteggono il possessore da molestie e turbative, i secondi (reciperandae
possessionis) tendono a far recuperare il possesso a chi ne sia stato spogliato. Nella seconda categoria
rientrano l’interdictum de vi, che assicura il recupero della cosa a chi sia stato violentemente spogliato del
possesso, e l’interdictum de vi armata, per il caso di spoglio del possesso compiuto attraverso una violenza
esercitata con le armi. Questi interdetti sono concessi solo a colui che possa vantare un possesso non affetto
da vizi (iusta possessio), cioè non acquistato violentemente o a titolo precario rispetto all’avversario.
Nell’età giustinianea, l’interdictum utrubi assicura la tutela del possesso attuale, mentre la funzione di
recupero del possesso è attribuita ad un interdetto unico, denominato interdictum de vi, ma con un regime
corrispondente a quello classico del de vi armata.
169. Quasi-possesso e possessio iuris. I classici parlavano di quasi possessio, per indicare il fatto che al
titolare del diritto limitato spettava una possessio corrispondente limitata sulla res oggetto del suo diritto. Nel
diritto giustinianeo si parlò di quasi possesso alludendo non più al possesso limitato di una cosa corporale,
ma al possesso avente ad oggetto una cosa incorporale, cioè all’esercizio di fatto di un diritto di servitù o di
usufrutto. Tale possesso fu definito possessio iuris in contrapposizione alla possessio rei; in quest’ottica, poi,
si ammise anche la possessio status, consistente nel godimento di fatto di uno status personale.
170. Concetto e principi generali. Le servitù sono diritti reali di godimento su cosa altrui, che conferiscono
al titolare un diritto su un immobile altrui a favore del proprio. Si crea così un vincolo di subordinazione
giuridica di un immobile (fondo servente), a favore di un altro immobile (fondo dominante),
subordinazione che è indipendente dalle vicende che possono colpire gli attuali o futuri proprietari degli
immobili e che inerisce agli immobili stessi, investendoli nella loro interezza e costituendone una qualitas.
La materia delle servitù, in età classica, è regolata da vari principi fondamentali:
a) nulli res sua servit. Poiché la servitù è un ius in re aliena, non può sussistere se non tra fondi appartenenti
a proprietari diversi;
b) servitus in faciendo consistere nequit. Il contenuto pratico della servitù non può consistere, per la sua
natura di diritto reale, in un obbligo di facere, cioè di tenere una condotta attiva, da parte del proprietario del
fondo servente. Il diritto grava sul fondo stesso ed è esercitato dal proprietario del fondo dominante, mentre
il proprietario del fondo servente deve tenere, rispetto alla servitù, un comportamento puramente negativo,
cioè il sopportare l’esercizio della servitù;
c) servitus fundo utilis esse debet. Il contenuto della servitù deve rispondere a un’esigenza o un’utilità
economica obbiettiva del fondo stesso, aumentandone il valore, non ad un’esigenza personale o soggettiva
dell’attuale proprietario del fondo dominante. Non sono ammesse le servitù industriali (il diritto di utilizzare
la creta esistente nel fondo vicino per ricavarne vasi da vendere). L’inerenza della servitù al fondo rende
anche inammissibile l’alienazione di una servitù, indipendentemente dall’alienazione del relativo immobile;
d) perpetuità delle servitù. L’utilità obiettiva che la servitù offre al fondo dominante la rende
potenzialmente perpetua, in contrasto con il carattere temporaneo degli altri diritti reali su cosa altrui,
costituiti non per l’utilità di un immobile, ma per l’utilità di un determinato soggetto;
e) vicinitas dei due fondi. Essa non deve intendersi necessariamente come contiguità, ma come una
relazione topografica tale da permettere il rapporto di utile subordinazione di un fondo all’altro.
f) indivisibilità delle servitù. Poiché la servitù è inerente al fondo nella sua interezza, non è concepibile una
servitù gravante su una parte del fondo servente, o a favore di una parte del fondo dominante. Anche se, in
concreto, essa si eserciti su una porzione del fondo servente (ad esempio, servitù di passaggio), la servitù
s’intende sempre estesa a tutto l’immobile, a meno che sia espressamente stabilita nell’atto costitutivo la
limitazione ad una parte del fondo individuata.
171. Classificazione delle servitù. Le servitutes si distinguono, già dall’età repubblicana, in rustiche e
urbane; le prime sono quelle costituite a favore di un fondo dominante rustico, cioè di un podere adibito allo
sfruttamento agricolo, mentre le seconde sono quelle costituite a favore di un fondo dominante urbano, cioè
di un edificio o di una villa.
A) Servitù rustiche. L’antico diritto romano non conosceva un concetto astratto e unitario di servitù, ma
singole figure tipiche di servitutes: una servitù consisteva nel diritto di far passare l’acqua per l’irrigazione
da un fondo altrui (aquaeductus), un’altra consisteva nel diritto di passare attraverso il fondo altrui a piedi o
a cavallo (iter) e un’altra ancora consistente nel diritto di passare con carri, greggi e bestie da soma (actus).
B) Servitù urbane. Si dividono in tre categorie e le più importanti riguardano il diritto di poggiare il trave
all’edificio altrui e il diritto di appoggiare la propria parete a quella dell’edificio adiacente.
Formatosi il concetto di servitù come schema giuridico generale si poté ammettere in epoca più tarda
qualsiasi altro tipo di servitù, purché avesse come contenuto l’apporto di un’utilità obbiettiva al fondo
dominante. Nel sistema della compilazione giustinianea, le servitù antiche si trovano contrapposte col nome
di servitù prediali alle servitù personali, che sarebbero costituite da usufrutto, uso, abitazione, opere degli
schiavi e degli animali altrui. Tuttavia, l’estendere a simili diritti il concetto di servitù è un erroneo frutto
della mentalità bizantina, poiché risultano inapplicabili a questi diritti alcuni principi generali caratteristici
della servitù, come il rapporto obiettivo tra 2 immobili, la perpetuità e indivisibilità della servitù.
172. Costituzione delle servitù. Perché vi sia servitù riconosciuta dal ius civile, occorre che i due fondi
siano in suolo italico e che la servitù sia costituita in uno dei modi riconosciuti dallo stesso ius civile.
a) il legato per vindicationem, forma di costituzione mortis causa, con cui il testatore dispone la servitù a
carico di un suo immobile e a favore di un immobile altrui per dopo la sua morte (legato di servitù);
b) la mancipatio servitutis, per le sole servitù rustiche, che erano res mancipi;
c) la in iure cessio servitutis, per la costituzione di tutte le servitù;
d) la adiudicatio, nei giudizi divisori, nei quali il giudice, diviso un immobile fra i litiganti, può procedere
alla costituzione di servitù tra le parti del fondo risultanti dalla divisione.

Per i fondi posti fuori del suolo italico, essendo inapplicabili le forme di costituzione previste dal ius civile,
si sopperì con l’ammettere che lo stesso risultato pratico potesse ottenersi mediante un insieme di patti e
stipulazioni, e si ebbe così la costituzione di un rapporto giuridico tra i due fondi che, se non era una servitù
iure constituta, era però un rapporto sostanzialmente corrispondente. Venute meno le antiche forme e caduta
la tipicità dei modi di costituzione dei diritti reali, questa forma divenne quella ordinaria, perché preferita per
la sua semplicità e, per effetto della fusione del ius civile col praetorium e dell’equiparazione di tutto il
territorio romano, la forma normale di costituzione inter vivos delle servitù. Nel diritto giustinianeo, infine,
essendo ammesso il possesso di una servitù, la servitù stessa può anche acquistarsi per longi temporis
praescriptio, entro i termini della normale usucapione della proprietà immobiliare.
173. Estinzione delle servitù. Le servitù si estinguono per varie cause:
a) per rinuncia del titolare del fondo dominante; per il ius civile non è sufficiente la semplice rinuncia per
estinguere una servitù, ma occorre un idoneo atto solenne (in pratica, una in iure cessio del proprietario del
fondo dominante, a favore del proprietario del fondo servente che afferma in iure l’inesistenza della servitù).
b) per non uso della servitù; questo produce una prescrizione estintiva per il titolare del fondo dominante.
c) per confusione, quando venga meno l’appartenenza dei due fondi a proprietari diversi.
d) per perimento totale del fondo dominante o servente; in caso di perimento parziale, la servitù si limita
alla parte superstite e riacquista estensione con la ricostruzione o la naturale reintegrazione dell’immobile.
e) per mutatio rei, quando si verifica un tale mutamento nello stato dei luoghi da rendere impossibile o
inutile l’esercizio della servitù (ad esempio, la trasformazione in palude di un fondo gravato da servitù di
passaggio).
174. Difesa delle servitù. Poiché la servitù è un diritto reale, essa è tutelata con un’actio in rem: questa è
analoga alla vindicatio rei in difesa della proprietà e si denomina vindicatio o petitio servitutis. La relativa
formula è l’inverso di quella dell’actio negatoria in difesa della proprietà, e perciò i compilatori giustinianei
la chiamarono, per contrapposizione, actio confessoria. Essa compete al proprietario del fondo dominante
contro l’attuale proprietario del fondo servente. A completare la tutela delle servitù, sono concessi al
proprietario del fondo dominante mezzi complementari analoghi a quelli che tutelano la proprietà, nonché
alcuni interdetti pretori contro il proprietario del fondo servente, sia per garantirgli, anche senza la preventiva
prova del diritto, l’esercizio della servitù di cui egli sia già stato in godimento, sia per rimuovere le
opposizioni al compimento di opere necessarie a rendere possibile l’esercizio delle servitù.
175. Concetto e contenuto dell’usufrutto. L’usufrutto è un diritto reale su cosa altrui, che conferisce al
titolare il potere di usare della cosa e di percepirne i frutti, ma non gli attribuisce alcun potere sulla substantia
(da intendersi quale condizione giuridica e destinazione economica) della cosa fruttifera, della quale, salvi i
diritti dell’usufruttuario, continua a disporre il proprietario. Il proprietario della cosa, per essere privo
dell’uso e dei frutti, è detto nudo proprietario. Vi è, però, un’altra caratteristica essenziale tanto
dell’usufrutto quanto degli altri diritti analoghi: essi, contrariamente alle servitù, sono tutti intimamente
connessi con la persona del loro titolare, essendo costituiti intuitu personae, e perciò seguono le sorti del
titolare stesso, estinguendosi con la sua morte o con l’estinzione della sua capacità per capitis deminutio.
Perciò si denominano anche diritti personali di godimento su cosa altrui.
L’usufrutto ebbe, fin dal suo sorgere, funzione spiccatamente alimentare e la sua prima forma fu quella
dell’usufrutto lasciato per legato dal pater familias alla vedova, onde assicurarle il reddito dei beni ereditari,
che, dopo la morte di lei, sarebbero ritornati nella proprietà piena dei figli. L’usufrutto può, comunque,
costituirsi su qualunque cosa, immobile, mobile o semovente (animali, schiavi), purché fruttifera e
inconsumabile. L’usufruttuario, prima di iniziare l’esercizio del suo diritto, è tenuto a prestare una cautio,
detta fructuaria, con cui garantisce l’adempimento dei suoi doveri, e cioè: che egli userà e fruirà della cosa
conformemente ai criteri di un buon padre di famiglia; che restituirà alla fine dell’usufrutto la cosa stessa;
che si comporterà in tutto il rapporto in modo esente da dolo. Inoltre, l’usufruttuario non può apportare
alcuna modifica della cosa, neppure per migliorarla, ma deve fruirne secondo la naturale e attuale
destinazione economica; non può gravare la cosa di servitù passive e neppure acquistare ad essa servitù
attive, poiché questi poteri sono riservati al proprietario.
L’usufruttuario ha anche una serie di obblighi oltre quello di prestare la cautio e di non eccedere dai limiti
del suo diritto; egli deve mantenere la cosa in buono stato, sopportando le spese in fructus e anche quelle in
rem nei limiti delle riparazioni ordinarie. Inoltre, l’usufruttuario sopporta l’onere dei tributi gravanti sulla
cosa. Nel diritto giustinianeo, il contenuto dell’usufrutto è notevolmente ampliato, riconoscendosi
all’usufruttuario un limitato potere sulla cosa (miglioramenti) e alcune facoltà (difesa della cosa) che prima
erano ad esclusivo appannaggio del proprietario.
176. Costituzione dell’usufrutto. I modi di costituzione dell’usufrutto sono in parte quelli delle servitù.
Restano tra i modi previsti dal ius civile: il legato per vindicationem, la in iure cessio e l’adiudicatio, cui si
aggiunge la deductio (la riserva, cioè, in sede di attribuzione della proprietà). Si applica anche all’usufrutto,
come per le servitù, la costituzione pactionibus et stipulationibus. Per l’età giustinianea ai modi di
costituzione noti per le servitù, si aggiunge la volontà della legge (usufrutto legale).
177. Estinzione dell’usufrutto. L’usufrutto, per la sua natura strettamente personale, è inalienabile. È
ammessa solo la cessione dell’esercizio economico dell’usufrutto, con la conseguenza che titolare del diritto
resta sempre il cedente: egli rimane responsabile degli obblighi verso il proprietario e tutte le cause estintive
dell’usufrutto che operano nella sua persona estinguono l’usufrutto anche presso il cessionario.
L’usufrutto può estinguersi per cause obiettive e per cause subbiettive. Sono cause obiettive di estinzione:
a) il perimento totale dell’oggetto, inteso sia come fisica distruzione della cosa, sia come sua sopravvenuta
inidoneità giuridica a formare oggetto di usufrutto;
b) la mutatio rei. Poiché l’usufruttuario ha il diritto di usare e fruire della cosa in conformità della sua
attuale destinazione economica, un mutamento della cosa, tale da cambiarne la destinazione economica,
estingue l’usufrutto. Il diritto di usufrutto, infatti, non investe la cosa nella sua sostanza, sicché anche
l’eventuale ricostruzione dell’edificio, ad esempio, non determina ricostituzione dell’usufrutto, essendo il
nuovo edificio cosa diversa da quella perita;
c) la consolidazione, cioè il successivo riunirsi nella stessa persona delle due qualità di usufruttuario e di
proprietario;
d) la scadenza del termine, se l’usufrutto è stato costituito a termine finale.
Sono, invece, cause subbiettive di estinzione dell’usufrutto:
a) la morte dell’usufruttuario; sempre per la natura strettamente personale, l’usufrutto è intrasmissibile agli
eredi;
b) la capitis deminutio dell’usufruttuario; solo la maxima e la media nell’età giustinianea;
c) la rinuncia dell’usufruttuario, che deve essere manifestata come la rinuncia per le servitù;
d) il rifiuto di prestare la cautio fructuaria, che legittima il proprietario a rivendicare la cosa.
178. Difesa dell’usufrutto. All’usufruttuario compete innanzitutto la vindicatio usus fructus per ottenere il
riconoscimento del suo diritto contestato. Qualora poi non sia contestato il diritto dell’usufruttuario, ma siano
arrecate delle turbative all’esercizio di esso, il pretore accorda all’usufruttuario gli interdetti possessori,
adattati in via utile. Nel diritto giustinianeo si consente all’usufruttuario l’esperimento di una serie di mezzi
processuali, esclusivi, nell’età classica, della difesa della proprietà.
179. Il quasi-usufrutto. Un senatoconsulto dell’età di Augusto ammise che potessero formare oggetto di
usufrutto anche le cose consumabili; tuttavia, la giurisprudenza fu pronta ad ammonire che in tal caso non
poteva parlarsi di usufrutto in senso tecnico, per l’incompatibilità tra la consumabilità dell’oggetto e
l’obbligo dell’usufruttuario di fruire della cosa e di restituirla. Questa figura anomala nulla ha in comune con
l’usufrutto, ma è piuttosto simile al mutuo: infatti, il titolare di tale diritto sui generis acquista la proprietà
della cosa, ne gode distruggendola al primo uso, salvo l’obbligo di restituire alla sua morte, o in caso di sua
capitis deminutio, il tantundem, cioè un’altrettanta quantità di cose dello stesso genere (cose fungibili).
Tuttavia, poiché l’azione che tutelava tale diritto era la stessa vindicatio usus fructus, i classici affermarono
che si poteva agire in giudizio quasi ex usufructu, stabilendo un’analogia processuale, che fu mutata poi,
per opera dei bizantini e degli interpreti, in un’errata analogia sostanziale (quasi-usufrutto).

180. L’uso. Anche l’uso è un diritto reale di godimento su cosa altrui, strettamente connesso con la persona
del titolare, che si dice usuario. Il contenuto di tale diritto, però, è limitato all’uso della cosa, restandone
esclusa la percezione dei frutti, che spetta interamente al proprietario. Nel diritto giustinianeo si riconobbe
all’usuario anche il diritto a percepire una modica parte dei frutti della cosa, limitatamente ai bisogni
personali suoi e della sua famiglia. L’usuario è vincolato rispetto all’uso della cosa dagli stessi limiti che
valgono per l’usufruttuario. S’intende che la cautio che egli è tenuto a prestare, pur essendo analoga a quella
fruttuaria, è purgata della parte relativa al frui. Inoltre, l’usuario deve subire anche un parziale uso della cosa
da parte del proprietario, nella misura in cui ciò è necessario perché questo ottenga la produzione e la
percezione dei frutti. Quanto ai modi di costituzione e di estinzione dell’uso e alla sua tutela processuale, si
applica, in quanto compatibile, la regolamentazione dell’usufrutto.
183. Origine dell’enfiteusi. L’istituto dell’enfiteusi si svolge storicamente dalla locazione degli agri
vectigales. I municipi e le corporazioni private (collegia) solevano dare in affitto ai privati cittadini le proprie
terre dietro pagamento di un periodico canone (vectigal). La giurisprudenza discuteva se tale rapporto fosse
da assimilare a una compravendita o ad una locazione (per la presenza di un canone). Si trattava, comunque,
di un rapporto obbligatorio, per cui al conduttore competeva un’actio in personam. Tuttavia il pretore, in
considerazione del carattere perpetuo del rapporto, ritenne opportuno tutelarlo in modo più energico rispetto
alla comune locazione, concedendo al conduttore un speciale azione reale (actio vectigalis). Sorse così un
diritto reale sui generis, che conferiva al titolare un ampio potere di usare e fruire del fondo, anche
trasformandolo, e di trasmettere tale potere ad altri, sia inter vivos (alienazione) che mortis causa
(trasmissione ereditaria). In prosieguo di tempo, si andarono affermando altri due rapporti analoghi di
carattere pubblicistico: da questi due precedenti, sorse nel diritto giustinianeo l’istituto unico dell’enfiteusi.
184. Struttura e regime dell’enfiteusi. L’enfiteusi consiste in un diritto reale alienabile e trasmissibile su un
fondo altrui, che attribuisce all’enfiteuta ogni più ampio potere sulla cosa, con l’obbligo di pagare al
concedente un annuo canone. Sopravvive, però, nel concedente un diritto sul fondo, detto dominio
eminente, rispetto al dominio utile dell’enfiteuta; il dominio eminente può rivendicare il fondo qualora il
canone non sia pagato per due anni (devoluzione) e che ha il diritto di essere preferito, a parità di condizioni,
a qualunque altro acquirente del fondo (prelazione). L’enfiteusi si costituisce per convenzione tra le parti
(contratto enfiteutico) o per disposizione di ultima volontà. Si estingue, oltre che per devoluzione, per
perimento del fondo, per confusione, per rinuncia o per scadenza di un eventuale termine finale.
185. Il diritto di superficie. Dal carattere assorbente dell’antico dominio, che si estende al sottosuolo, deriva
il principio civile per cui tutto ciò che viene edificato su suolo altrui spetta, per accessione, al proprietario di
esso. Tuttavia, lo Stato soleva fare a privati una concessione di carattere amministrativo, avente per
contenuto il diritto di costruire su suolo pubblico e di godere in perpetuo o a tempo determinato dell’edificio
costruito, dietro pagamento di un solarium. Ad imitazione di questo istituto, sorsero tra i privati rapporti
analoghi sul suolo privato, concepiti come locazione o come compravendita, a seconda che fosse stabilito un
corrispettivo sotto forma di canone annuo o di prezzo versato una tantum. Il pretore, però, per la speciale
natura del rapporto, concesse al conduttore o al compratore uno speciale interdetto de superficiebus e
un’azione nuova che permetteva la possibilità di riottenere il godimento della superficie da chiunque ne fosse
venuto in possesso. Da questa evoluzione, trasse origine un nuovo diritto reale su cosa altrui (superficies)
che si configura, nel diritto giustinianeo, come un diritto alienabile e trasmissibile, che attribuisce al titolare
(superficiario) il godimento dell’area, dietro pagamento di un corrispettivo. Esso si costituisce per contratto o
per atto di ultima volontà e si estingue per le stesse cause dell’enfiteusi, eccetto la devoluzione.
186. Pegno e ipoteca. Svolgimento storico. I diritti reali di garanzia tendono a rafforzare la posizione di un
creditore, assicurandolo maggiormente della realizzazione del suo credito. Non oltre il III secolo a.C. sorse
l’istituto del pegno, consistente nel trasferire al creditore la mera detenzione di una cosa del debitore a
garanzia del credito, con la conseguenza che, essendo rimasto il debitore proprietario del pegno, avrebbe
potuto rivendicarlo dal creditore pignoratizio quando egli avesse pagato il debito. Per la sua grande utilità il
pegno ebbe ben presto ampia tutela giuridica, in quanto fu estesa al creditore pignoratizio la tutela interdittale
che compete a un possessore.
Nella pratica, intanto, andava svolgendosi, a partire dal II secolo a.C., un altro istituto di garanzia, fondato
non sulla consegna di una cosa (pignus datum), ma su un accordo fra le parti (pignus conventum). Nel
sistema giustinianeo vigono due distinti istituti: il pegno, gravante su beni, dei quali si trasferisce il possesso
(datio pignoris) e l’ipoteca, gravante su beni (immobili, di regola), che rimangono, fino alla scadenza del
debito, nel possesso del debitore.
187. Costituzione del diritto di pegno. Può costituire il pegno sia il debitore, sia un terzo, purché il
costituente abbia, in ogni caso, la facoltà di alienare la cosa pignorata. Il pegno può essere costituito per
volontà delle parti (contratto di pegno) oppure per disposizione del magistrato (pegno giudiziale), o ancora
per volontà della legge (pegno legale). Nel diritto giustinianeo il pegno può costituirsi anche per atto di
ultima volontà.
188. Contenuto del diritto di pegno. Al creditore pignoratizio compete la materiale detenzione della cosa.
Nel pegno essa si acquista con la materiale consegna della cosa medesima fatta dal debitore, mentre
nell’ipoteca la detenzione si acquista mediante l’esercizio dell’actio quasi serviana, dopo che, scaduto il
termine, il creditore sia rimasto insoddisfatto. In età imperiale si ammise anche che il creditore potesse
trattenere presso di sé la cosa oppignoratagli, anche se era stato soddisfatto del credito garantito, come
garanzia di altri crediti esistenti verso lo stesso debitore, opponendo al debitore che agisse per la restituzione
del pegno una exceptio doli generalis. Il creditore pignoratizio non fa suoi i frutti del pegno; è ammessa
un’apposita convenzione (anticresi), in forza della quale i frutti della cosa pignorata sono percepiti dal
creditore, quale che ne sia l’ammontare, a titolo di interessi.
In origine il creditore pignoratizio non aveva alcun potere di soddisfarsi sull’oggetto del pegno, che poteva
solamente essere tenuto fino a quando il creditore non fosse stato soddisfatto. Successivamente, però, si
introdusse la pratica di convenire, in occasione della costituzione del pegno, un patto (lex de distrahendo
pignore) con cui si dava facoltà al creditore insoddisfatto di alienare il pegno a trattativa privata (pur non
essendo il creditore proprietario del pegno), curando di fare gli interessi del debitore, e di trattenere sul
ricavato l’ammontare del credito, restituendo l’eccesso al debitore.
189. Estinzione del diritto di pegno. Il diritto di pegno si estingue, essendo venuta meno la sua funzione,
con l’estinzione del credito che esso garantisce. Tuttavia, per la sua natura di diritto reale su cosa altrui, può
anche estinguersi per perimento della cosa pignorata; per confusione delle qualità di creditore pignoratizio e
proprietario del pegno nella stessa persona; per remissione da parte del creditore e infine per prescrizione.
190. Concetto, contenuto e oggetto dell’obbligazione. L’obbligazione si presenta come il vincolo giuridico
in forza del quale un soggetto (debitore) è tenuto a compiere verso un altro soggetto (creditore) una
determinata attività patrimoniale (prestazione). L’obbligazione costituisce il carattere distintivo dei diritti di
credito, che si contrappongono ai diritti reali per il fatto che il titolare non può soddisfare il proprio interesse
da se stesso, ma solo attraverso la collaborazione di un diverso soggetto, cioè chi è obbligato verso di lui.
Quanto al vincolo giuridico, la dottrina moderna è pervenuta a una costruzione, che identifica tale vincolo in
due elementi: il debito, inteso come l’aspettativa patrimoniale del creditore, e la responsabilità, intesa come
conseguenze cui va incontro il debitore ove non soddisfi l’attesa del creditore. Quanto al contenuto del
vincolo giuridico, esso può assumere un triplice aspetto: dare, consistente nel trasferimento di una cosa e
nella costituzione di un diritto reale; facere, comprendente qualunque altra attività personale, positiva o
negativa (non facere); praestare, come relativo obbligo di garanzia processuale, ma che divenne poi
genericamente comprensivo di qualsiasi contenuto dell’obbligazione.
L’oggetto della prestazione può consistere in una cosa materiale o in un servigio; in una cosa individuata
nella sua identità (species) o compresa entro il genus cui appartiene; in una sola cosa dovuta ( obbligazione
semplice) oppure in due o più cose dedotte alternativamente; in una cosa divisibile o indivisibile. Oltre
all’oggetto principale, il debitore può anche essere tenuto alla prestazione di accessori: di carattere naturale,
come i frutti dell’oggetto dovuto, oppure di carattere giuridico, come gli interessi del capitale (sors).
In ogni caso, perché sorga un’obbligazione, occorre che la prestazione sia: materialmente e giuridicamente
possibile; lecita, cioè non contraria al diritto e ai boni mores; infine determinata, non potendo ammettersi,
per mancanza di serio contenuto, un’obbligazione con oggetto indeterminato.
È ammissibile, però, un’obbligazione il cui oggetto, se anche indeterminato inizialmente, sia
successivamente determinabile in modo obbiettivo, cioè non rimesso all’arbitrio delle parti: la
determinazione può essere rimessa a un evento naturale (“il raccolto che si produrrà”) o all’ arbitrium boni
viri di un terzo, la cui decisione potrà essere sottoposta al controllo del giudice.
191. Origine e sviluppo storico dell’obbligazione. È certo che la terminologia obligatio non è recente (non
compare nelle fonti prima della fine del III secolo a.C.) e che la situazione corrispondente alla moderna
obbligazione si presenta con riferimento a varie ipotesi: talora appare relativa al vincolo di soggezione
personale (nexum) che lega il debitore inadempiente al creditore e lo espone al dovere di lavorare per
quest’ultimo; altre volte, invece, si presenta come relativa a un rapporto meramente giuridico in forza del
quale un soggetto (in molti casi diverso dal debitore) è esposto alla possibilità di un’esecuzione personale
promossa nei suoi confronti dal creditore insoddisfatto. In questa prima fase è evidente, quindi, la distinzione
tra debito e responsabilità, spesso gravanti su due soggetti diversi. In prosieguo di tempo, diviene normale la
riunione nella stessa persona delle due figure del debitore e del responsabile, mentre progressivamente si
attenua il carattere personale dell’asservimento e l’obbligazione si avvia verso la sua moderna natura di
vincolo di carattere esclusivamente patrimoniale.
192. Obligationes civiles e honorariae. Nell’età classica sono configurati come obligationes solo quegli
obblighi che erano considerati tali dall’antico ius civile. Solo in quelle originarie figure di obbligazione il ius
civile ravvisava un oportere (verbo latino che esprime non solo l’obbligatorietà di un comportamento, ma
anche la sua opportunità) essendo l’adempimento il solo comportamento idoneo a sottrarre il debitore
all’esecuzione personale; e l’oportere rimase, per tutta l’età classica, il carattere distintivo delle azioni a
tutela di una vera e propria obligatio, cioè di un’obligatio civilis.
Tutti gli obblighi successivamente riconosciuti dal diritto non contenevano, quindi, un oportere, ossia non
erano obligationes; essi erano tutelati da azioni pretorie, quindi vi era comunque la possibilità di essere
chiamato in giudizio mediante un’azione concessa dal pretore. Sostanzialmente, la natura del rapporto non
era identica, per cui si andò progressivamente estendendo nella pratica l’uso dei termini obligatio, obligare
anche a questi nuovi obblighi, che avevano ricevuto sanzione giuridica mediante un’azione pretoria
(obligationes honorariae).
193. Fonti delle obbligazioni nelle varie epoche storiche. La prima giurisprudenza cominciò a impostare
su basi sistematiche la dottrina delle fonti delle obbligazioni, riconducendo tutte le ipotesi esistenti ai due tipi
fondamentali: il contractus, nel suo significato originario di affare (atto lecito) e il maleficium o delictum,
cioè l’atto illecito. Il vincolo obbligatorio sorgeva cioè o come conseguenza di un affare compiuto tra le
parti, o in quanto un soggetto era tenuto ad una pena pecuniaria per un atto illecito compiuto in danno d’altri,
in sostituzione delle conseguenze personali cui era esposto originariamente. Poiché il concetto di contractus
era venuto assumendo il più specifico significato di convenzione o accordo, la giurisprudenza classica più
avanzata era costretta a rilevare che vi erano ipotesi di obbligazione che non potevano più rientrare in quello
schema tradizionale, poiché sorgevano da un atto, che era bensì lecito, ma non fondato sulla convenzione
delle parti. Questi spunti di riflessione critica in ordine alla bipartizione tradizionale sfociano in una
tripartizione delle fonti dell’obbligazione; ora le obbligazioni nascono o da contratto, o da atto illecito, o in
modo a sé stante da svariate figure di cause. La giurisprudenza classica, inoltre, rilevò che alcune di queste
figure autonome di obbligazione erano tutelate con azione simile a quella di altre obbligazioni, nascenti ex
contractu, poiché presentavano qualche analogia con esse. Da questa analogia processuale, i Compilatori
giustinianei elaborarono un concetto astratto e unico di obbligazione nascente quasi ex contractu. Da tutto
questo derivò la quadri partizione giustinianea delle fonti delle obbligazioni, per cui esse derivano da
contratto, o da quasi contratto, o da delitto o da quasi delitto.
194. Intrasferibilità originaria e rimedi successivi. Dalla natura strettamente personale del vincolo
obbligatorio derivò originariamente l’inammissibilità della cessione, a titolo particolare, dei crediti e dei
debiti, sia inter vivos sia mortis causa. Col prevalere del carattere patrimoniale dell’obbligazione,
l’intrasferibilità dell’obbligazione si rivelò un inconveniente non lieve, al quale, però, data la teorica
intangibilità dei principi civili, non si poteva ovviare se non con rimedi indiretti.
L’istituto della novazione poteva servire solo parzialmente allo scopo, attraverso la sostituzione
dell’obbligazione con un’altra, avente un diverso debitore o un diverso creditore. Per conseguire la cessione
del credito indipendentemente dalla cooperazione del debitore, ci si serviva di un’apparente rappresentanza
processuale, nel senso che il creditore cedente nominava come suo procuratore il cessionario del credito, il
quale, agendo in giudizio contro il debitore, intentava l’azione in nome del cedente, ma otteneva dal pretore,
mediante una trasposizione di soggetti nella formula, la condemnatio in nome proprio. Tuttavia, anche
questo espediente era imperfetto, perché, dal punto di vista tecnico era costruito come un mandato di agire
contro il debitore, che il cedente dava al cessionario: l’inconveniente stava nel fatto che il mandato, che era il
mezzo tecnico impiegato per attuare la cessione, è revocabile a discrezione del mandante, e si estingue sia
per morte del mandante sia per morte del mandatario; sicché il cessionario non aveva mai la certezza di
realizzare il credito che gli era stato ceduto. Il problema fu, allora, risolto in epoca classica avanzata,
attraverso diversi interventi imperiali, che ammisero la concessione al cessionario, in via utile, delle stesse
azioni che, in via diretta, cioè iure civili, sarebbero spettate al cedente. Infine, nel diritto giustinianeo,
scomparsa la differenza tra azioni dirette e utili, la cessione dei crediti fu pienamente riconosciuta.
195. Trasmissibilità ereditaria. Contrariamente a quanto stabilito per il trasferimento a titolo particolare, il
ius civile ammise ab origine che nella successione universale verificatasi per hereditas si trasmettessero
anche le obbligazioni, sia dal lato attivo dei crediti che dal lato passivo dei debiti. Tuttavia, la successione
universale inter vivos comportava solo il trasferimento dei crediti con l’estinzione dei debiti.
196. Concetto e classificazione delle garanzie delle obbligazioni. Per garanzia dell’obbligazione si intende
ogni mezzo concesso dal diritto al fine di rafforzare la posizione del creditore, assicurandolo maggiormente
della soddisfazione diretta o indiretta del suo credito. Tali mezzi consistono o nel conferire al creditore un
diritto reale su un bene che appartiene al debitore o a un terzo e che sarà aggredito nell’ipotesi di
inadempimento dell’obbligazione, oppure nel porre, accanto all’obbligazione da garantire, un’altra
obbligazione, a carico dello stesso debitore o di un terzo garante, avente, rispetto alla prima, funzione
accessoria o sussidiaria.
197. Garanzie reali. Le garanzie reali sono il pegno e l’ipoteca.
198. Garanzie personali offerte dallo stesso debitore. Sotto questa denominazione, si possono
ricomprendere svariati istituti accomunati dal fatto di costituire un rafforzamento della posizione del
creditore nei confronti del debitore:
a) L’arra (arrha), consiste in un oggetto di valore che il compratore soleva consegnare al venditore all’atto
della conclusione di un contratto di compravendita, per suggellarla (arrha confirmatoria), col patto che non
avrebbe potuto ripeterla in caso di inadempimento.
b) La stipulazione penale (stipulatio poenae), consistente nella promessa mediante stipulatio fatta dal
debitore, di pagare una determinata somma a titolo di penale in caso d’inadempimento dell’obbligazione
principale. Si applica specialmente alle obbligazioni di facere.
c) Il costituto di debito proprio (constitutum debiti propri), è una promessa informale con cui il debitore
di una somma di denaro (e, nel diritto giustinianeo, di qualsiasi altro oggetto) si impegna ad adempiere a una
determinata scadenza.
d) Il giuramento (ius iurandum) che può fungere da garanzia quando sia prestato dal minore di 25 anni per
confermare un debito da lui assunto: in tal caso, infatti, egli non può più invocare in suo favore la restitutio in
integrum.
199. Garanzie personali offerte da un terzo. Sono:
a) Il costituto di debito altrui (constitutum debiti alieni), con la medesima struttura e funzione del
costituto di debito proprio.
b) Il mandato di credito che consiste in ciò: A da mandato a B di dare una somma di denaro in mutuo a C,
fungendo in questo modo da garante di quest’ultimo. Poiché il mandante è responsabile verso il mandatario
dei danni che questo eventualmente abbia subito per avere eseguito il mandato, se B (mandatario), che ha
eseguito l’incarico di dare la somma a mutuo a C, ne ha subito un danno, poiché C non gli ha restituito alla
scadenza la somma mutuatagli, può rivolgersi contro A (mandante) per il risarcimento del danno.
c) L’adpromissio, che consiste nell’intervento, accanto al debitore principale, di un terzo, il quale si assume
in via accessoria, mediante stipulatio, il medesimo debito. Si distinguono tre forme di adpromissio: le due più
antiche, la sponsio e la fideipromissio, che differivano fra loro per le parole solenni impiegate, accedevano
solo alle obbligazioni verbis, avevano efficacia limitata ad un biennio ed erano intrasmissibili agli eredi. La
figura più recente di adpromissio, invece, la fideiussio era applicabile ad ogni sorta di obbligazioni, aveva
efficacia illimitata nel tempo ed era trasmissibile ereditariamente; il fideiussore era tenuto sullo stesso piano
del debitore principale e poteva essere convenuto, a scelta del creditore, anche prima di quello. Giustiniano
fuse le 3 figure di adpromissio nel tipo unico della fideiussio, imprimendole carattere di obbligazione
accessoria, per cui il fideiussore poteva essere escusso, cioè chiamato in giudizio per l’adempimento solo
dopo il debitore principale e per quel residuo per cui il creditore fosse eventualmente rimasto insoddisfatto.
200. Senatoconsulto Velleiano. Emanato nel 46 d.C. sotto Claudio, vietò alle donne, in ragione della loro
inesperienza, di intercedere per i debiti altrui. La giurisprudenza prese da qui le mosse per elaborare il
concetto generale di intercessio, che consiste nell’assunzione di un debito altrui e può essere privativa,
sostituendosi così l’intercedente al debitore, oppure cumulativa, aggiungendo l’intercedente la propria
obbligazione a quella principale. Giustiniano richiese, sotto pena di nullità, che la intercessione fosse
compiuta mediante atto pubblico.
201. Classificazione delle cause estintive delle obbligazioni. Una volta raggiunto, con il soddisfacimento
del creditore, il suo fine patrimoniale, l’obbligazione si estingue poiché non ha più ragione di esistere. Essa
ha, dunque, un carattere essenzialmente transitorio: nasce proprio in funzione della sua naturale tendenza a
estinguersi. Tuttavia, l’obbligazione si estingue anche per una serie di altre svariate cause, suscettibili di
diverse classificazioni.
La più importante di queste classificazioni contrappone l’estinzione che si verifica iure civili a quella che si
verifica iure pretorio. Vi è una serie di fatti e atti cui il ius civile riconosce l’efficacia di estinguere
totalmente e definitivamente il rapporto obbligatorio, onde, avveratasi una di tali cause estintive, il creditore
non ha più azione contro l’ex debitore. Vi sono, invece, altri fatti e atti, cui il ius civile non riconosce
efficacia dell’obbligazione, ma che renderebbero iniqua la condanna del debitore. In questi casi, non essendo
l’obbligazione estinta iure civili, il creditore ha l’azione, ma il pretore, intervenendo in difesa dell’equità,
inserisce nella relativa formula una exceptio in favore del convenuto. Nel diritto giustinianeo, in seguito alla
fusione dei due ordinamenti, poiché il diritto pretorio è divenuto ius, quei fatti e atti prima tutelati mediante
eccezione, divengono anch’essi cause estintive ipso iure; l’exceptio non ha più valore di rimedio contro la
sopravvivenza dell’obbligazione, ma vale ora solo come mezzo processuale offerto al debitore per ottenere il
riconoscimento dell’avvenuta estinzione dell’obbligazione.
202. Estinzione ipso iure. A) Solutio. Nel significato classico, solutio è sinonimo di adempimento in
generale. Nella concezione più antica, viceversa, solutio (da solvere, cioè sciogliere) indicava l’atto formale
attraverso cui il debitore si liberava del vincolo personale che lo legava al creditore; all’adempimento era
riconosciuta efficacia estintiva solo se esso era accompagnato da speciali forme. Riconosciutasi, con
l’affermarsi dei contratti reali e consensuali, generale efficacia estintiva all’adempimento in sé, i giuristi
classici richiesero, per la liberazione del debitore, che esso avvenisse nel rispetto di determinate modalità:
a) La prestazione deve essere adempiuta in modo esatto e completo. Tuttavia, con il consenso del creditore, il
debitore può eseguire una prestazione diversa da quella dovuta (datio in solutum), col che, secondo
Giustiniano, l’obbligazione si estingue ipso iure.
b) L’adempimento va fatto al creditore, ma può anche essere fatto a un terzo. Si distinguono l’ adiectus
solutionis causa, che non è creditore, ma è abilitato a ricevere, con efficacia liberatoria del debitore,
l’adempimento, e l’adstipulator, che è sostanzialmente un mandatario a riscuotere. L’adiectus, quindi, può
validamente ricevere, ma non può agire contro il debitore; l’adstipulator, invece, è munito di azione, poiché
formalmente è anche lui creditore.
c) L’adempimento va fatto necessariamente dal debitore nelle obbligazioni in faciendo costituite in
considerazione delle attitudini personali del debitore (per esempio, nel caso di un pittore che si sia obbligato
a dipingere un quadro).
d) Circa il luogo e il tempo dell’adempimento, essi vanno determinati sulla base dell’atto costitutivo
dell’obbligazione o, in mancanza di questo, sulla base delle circostanze e della natura della prestazione.
203. B) Acceptilatio. Per il rigoroso formalismo del ius civile, un’obbligazione nata verbis non poteva in
origine estinguersi se non per mezzo di un contra verba; un’obbligazione nata litteris, se non per mezzo di
contrariae litterae. A tal fine, dopo che il debitore aveva eseguito la prestazione dovuta, s’impiegava
l’acceptilatio (verbale o scritta), consistente nella formale domanda rivolta dal debitore al creditore e nella
conseguente risposta di quest’ultimo, che si dichiarava soddisfatto (hai ricevuto? Ho ricevuto).
204. C) Contrarius consensus. In conseguenza del principio del contrarius actus, le obbligazioni sorte
senza alcuna forma solenne, nudo consensu, cioè per semplice accordo tra le parti, potevano sciogliersi per
risoluzione convenzionale (contrario consensu). Come regola generale, quindi, un’obbligazione sorta per
convenzione tra le parti non può estinguersi se non col consenso di entrambe le parti; in casi eccezionali,
tuttavia, si ammette l’estinzione dell’obbligazione per recesso unilaterale, cioè per volontà di una sola delle
parti (per esempio, nell’istituto del mandato).
205. D) Remissione del debito. Si intende con tale espressione la rinuncia del creditore alla riscossione del
proprio credito; tale rinuncia poteva realizzarsi, con efficacia iure civili, mediante ricorso all’acceptilatio.
206. E) Novazione. Consiste nella trasfusione di una precedente obbligazione, che con ciò rimane estinta, in
una nuova, che la sostituisce, assumendone il medesimo contenuto economico. La nuova obbligazione deve
contenere, però, un elemento di novità, altrimenti sarebbe nulla, in quanto superflua; questo elemento di
novità può consistere nel mutamento di uno dei soggetti obbligati, oppure nell’aggiunta o nella soppressione
di un termine o di una condizione (Giustiniano ammise, poi, anche il mutamento dell’oggetto). In alcune
ipotesi pratiche, unico criterio per decidere se si tratti di novazione o di indipendente obbligazione che si
aggiunge alla precedente, è l’indagine sull’intenzione delle parti (animus novandi). Giustiniano stabilì che
tale animus dovesse risultare da espressa dichiarazione; in mancanza, la nuova obbligazione si aggiungeva
alla precedente, anziché sostituirsi ad essa. Il mezzo usato per ottenere la novazione è la stipulatio.
207. F) Litis contestatio. La litis contestatio nel processo per formulas opera una novazione necessaria,
poiché, avendo le parti convenuto di rimettere la decisione della lite al giudice, il debitore, da questo
momento, non è più considerato vincolato dall’obbligazione dedotta in giudizio (tale obbligazione si
considera estinta), ma dall’impegno assunto in virtù della litis contestatio, in cui si trasfonde il contenuto
della precedente obbligazione.
208. G) Impossibilità della prestazione. La sopravvenuta impossibilità di adempiere all’obbligazione libera
il debitore, solo quando è di carattere obbiettivo o, comunque, non imputabile al debitore stesso. Essa,
tuttavia, non opera se il debitore è in mora.
209. H) Confusione. Consiste nella riunione nella medesima persona delle due qualità di creditore e
debitore, in quando, ad esempio, l’uno dei due sia divenuto erede dell’altro. È ovvio, quindi, che
l’obbligazione si estingue, non potendo essere alcuno creditore o debitore di se stesso.
210. I) Morte dei soggetti. La morte dei soggetti estingue l’obbligazione solo in via eccezionale, e
precisamente per quei crediti e debiti che sono intrasmissibili agli eredi.
211. L) Capitis deminutio del debitore. Estingue l’obbligazione per sopravvenuta incapacità del debitore.
212. M) Prescrizione estintiva. L’estinzione dell’obbligazione deriva in questo caso dall’impossibilità di
esercitare la relativa azione, essendo questa stata prescritta.
213. O) Compensazione. Secondo il ius civile, la sussistenza di due reciproche obbligazioni fra gli stessi
soggetti non influiva sull’esistenza delle obbligazioni stesse. Per motivi di equità, si introdusse
successivamente, ad opera del pretore, l’obbligo dei banchieri di dedurre dall’ammontare del debito richiesto
al cliente l’ammontare del credito inverso che questo cliente avesse proprio verso i banchieri. Dal risultato di
questa compensazione processuale, Giustiniano trasse la teoria dell’efficacia estintiva ipso iure dell’esistenza
di obbligazioni reciproche. Nel regime giustinianeo, la compensazione è applicabile solo quando i reciproci
crediti hanno entrambi per oggetto denaro e sono liquidi, cioè hanno esistenza e ammontare monetario certi.
Tuttavia, è ammissibile anche una compensazione parziale, sopravvivendo così l’obbligazione maggiore
solamente per l’eccedenza.
215. Estinzione ope exceptionis. Il caso fondamentale è quello del pactum de non petendo, con cui il
creditore si impegna, se pure con semplice patto, cioè in modo non formale, a non richiedere mai più
l’adempimento. Poiché, tuttavia, dal semplice pactum non scaturiscono effetti obbligatori secondo il ius
civile, il creditore potrebbe ugualmente chiamare in giudizio il debitore per richiedergli l’adempimento.
Contro tale pretesa, allora, il pretore concede una exceptio pacti conventi, che non estingue l’obbligazione,
ma la rende praticamente inutile.
216. Le cause dell’inadempimento delle obbligazioni. Qualora l’obbligazione non possa adempiersi per
impossibilità obbiettiva e sopravvenuta della prestazione, nessuna conseguenza sfavorevole ne deriva per il
debitore. Anzi, non si può nemmeno parlare di inadempimento, poiché l’obbligazione è già estinta ipso iure.
Le fonti parlano in questi casi di forza maggiore (vis maior) o di caso fortuito (casus fortuitus),
comprendendovi l’ipotesi del perimento fortuito della cosa dovuta, l’ipotesi della sopravvenuta
incommerciabilità della cosa dovuta e, in genere, ogni obbiettivo impedimento frapposto dal caso
all’adempimento dell’obbligazione. Se, invece, pur essendo obbiettivamente possibile la prestazione, il
debitore non la compie, o se la prestazione è divenuta impossibile per cause dipendenti dal debitore stesso, si
ha l’ipotesi dell’inadempimento in senso proprio.
217. Responsabilità per inadempimento. La naturale conseguenza dell’inadempimento è la responsabilità
cui l’inadempiente va incontro. Tale responsabilità è detta contrattuale. In epoca più tarda, si ammette una
responsabilità del debitore anche per fatto altrui, e precisamente di quei suoi dipendenti di cui si era servito
per l’adempimento, o in quanto non li ha oculatamente scelti, o in quanto non li ha adeguatamente
sorvegliati. Il contenuto della responsabilità nelle azioni stricti iuris, data la perfetta corrispondenza tra
intentio e condemnatio, non può superare il contenuto del debito: ad esempio, se il debito ha per oggetto una
somma di denaro, il debitore sarà condannato ad egual somma.
Nelle azioni di buona fede, oltre che al contenuto del debito, l’inadempiente può essere condannato nella
maggior misura dell’interesse che il creditore aveva a che l’obbligazione fosse esattamente e
tempestivamente adempiuta; l’interesse è determinabile dal creditore mediante giuramento estimatorio. Il
diritto giustinianeo estende a tutte le azioni quest’ultima possibilità, instaurando così il principio generale del
risarcimento del danno prodotto dall’inadempimento.
218. Revoca degli atti fraudolenti. Una particolare ipotesi di inadempimento doloso dell’obbligazione è la
frode dei creditori, consistente in ogni atto di alienazione compiuto dal debitore, per creare o aggravare la
propria insolvenza, allo scopo di danneggiare i creditori. Il pretore introdusse per tali ipotesi un interdictum
fraudatorium (restitutorio), spettante al singolo creditore per recuperare dal terzo acquirente i beni alienati
dal debitore, e inoltre una restitutio in integrum, allo scopo di incrementare l’attivo patrimoniale, prima
della bonorum venditio, attraverso la revoca delle alienazioni fraudolente compiute dal debitore. Questi due
mezzi pretori hanno in comune i requisiti di applicazione: per tutti si richiede l’effettivo danneggiamento dei
creditori, l’intenzione fraudolenta del debitore e, nel caso di alienazioni a titolo oneroso, anche la
consapevolezza del terzo acquirente.
219. Mora. Finché la prestazione è ancora possibile, il debitore è obbligato ad adempiere; il colpevole
ritardo dell’adempimento è detto mora. A partire dall’età classica, si richiede, per la messa in mora del
debitore, un’intimazione ad adempiere (interpellatio) da parte del creditore, tranne che in 2 casi: quando si
tratti di obbligazioni da atto illecito e quando sia stato fissato un termine per l’adempimento, la cui scadenza
mette automaticamente in mora il debitore.
La mora del debitore produce due effetti fondamentali:
a) La perpetuatio obligationis, per cui, anche quando l’adempimento sia divenuto impossibile per caso
fortuito, l’obbligazione sopravvive, nel senso che il debitore moroso è considerato responsabile per
l’inadempimento.
b) L’obbligo, nel caso di iudicia bonae fidei, di pagare speciali interessi, in misura proporzionata alla
lunghezza del ritardo.

Questi due principi subirono modificazioni nel diritto giustinianeo. Quanto alla perpetuatio obligationis, si
ammise che il debitore potesse liberarsi fornendo la dimostrazione che, anche se la prestazione fosse stata
eseguita tempestivamente, la cosa sarebbe ugualmente perita presso il creditore. Riguardo, invece, agli
interessi moratori, Giustiniano ne generalizzò l’applicazione. A questa mora del debitore (mora solvendi) si
contrappone la mora del creditore (mora accipiendi), consistente nel rifiuto o nel temporeggiamento da
parte del creditore ad accettare l’adempimento. In tal caso il debitore vede limitata la sua responsabilità per
l’eventuale perimento della cosa al solo caso di dolo. Inoltre, per le obbligazioni pecuniarie, il debitore
poteva depositare il denaro offerto, dopo averlo contrassegnato, presso un tempio o altro luogo pubblico,
facendo così cessare il decorso di eventuali interessi.
220. Categorie anomale di obbligazioni. Dalla figura normale di obbligazione si discostano alcune figure
speciali, che presentano qualche anomalia in taluno degli elementi costitutivi del rapporto obbligatorio;
l’anomalia può essere relativa ai soggetti, all’oggetto o al vincolo obbligatorio.
221. Anomalie relative ai soggetti.
A) Obbligazioni ambulatorie. Nel caso particolare di un filius familias o di uno schiavo che abbiano
commesso un delitto, il debito che ne deriva, non potendo gravare sul delinquente stesso per la sua
incapacità, grava sul soggetto che ha attualmente in potestà o in potere il delinquente. In caso di successivi
passaggi del colpevole dalla potestà o dal potere di un pater familias a quelli di un altro, il debito si sposta di
pari passo, fino al momento in cui non è domandato l’adempimento: ecco il perché del nome di obbligazioni
ambulatorie o con soggetto passivo variabile.
B) Obbligazioni con pluralità di soggetti. La figura normale di obbligazione presuppone un creditore e un
debitore; tuttavia, non è esclusa una pluralità di soggetti attivi o passivi.
Un primo caso è quello in cui ogni creditore ha il diritto di pretendere, oppure ogni debitore ha il dovere di
adempiere solo una parte della prestazione; in tale ipotesi, ove la natura della prestazione lo consenta, ove
cioè si tratti di un’obbligazione divisibile che si possa adempiere per partes, essa è frazionata in tante
obbligazioni minori quante sono le possibili combinazioni tra gli opposti soggetti presi a due a due (creditore
e rispettivo debitore). L’obbligazione si dice parziaria (obbligazioni ereditarie).
Un secondo caso è quello in cui più creditori, sulla base del titolo costitutivo dell’obbligazione, a prescindere
dalla divisibilità o meno della prestazione, possono pretendere l’intera prestazione (solidum) dall’unico
debitore, oppure l’unico creditore da ciascuno dei debitori, o ciascun creditore da ciascun debitore. Allora
l’obbligazione si dice solidale e la solidarietà può essere, rispettivamente, attiva, passiva oppure attiva e
passiva insieme. L’obbligazione solidale si distingue in due sottospecie: nell’obbligazione solidale
cumulativa (ad esempio, obbligazioni da delitto, per il carattere penale del debito per cui tutti i colpevoli
devono sopportare la pena), l’intera e unica prestazione va compiuta tante volte quanti sono i creditori o i
debitori; nell’obbligazione solidale elettiva (che nasce principalmente da un’unica stipulatio cui abbiano
preso parte più soggetti), invece, l’intera e unica prestazione, sebbene dovuta da tutti a tutti, va eseguita una
volta sola (il creditore, ad esempio, può scegliere il debitore da escutere e, qualora quello scelto abbia
adempiuto, anche gli altri condebitori restano liberati).
Bisogna sempre tener presente che nelle obbligazioni solidali, malgrado la pluralità dei soggetti,
l’obbligazione è sempre una, onde qualsiasi causa estintiva relativa all’oggetto o al vincolo obbligatorio
scioglie l’obbligazione nei confronti di tutti i soggetti.
223. Anomalie relative all’oggetto.
A) Obbligazioni generiche. Uno dei requisiti essenziali della prestazione è la sua determinatezza. Talvolta,
però, la cosa dovuta è determinata anziché nella sua identità, solo nella quantità, da prelevarsi da un genus,
più o meno ampio, cui la cosa appartiene (esempio, un cane, un cane-lupo, un cane-lupo di un anno e così
via). In questo secondo caso, l’obbligazione è detta generica. La determinazione concreta dell’obbligazione
si ha, quindi, solo all’atto dell’adempimento: secondo il diritto classico, il debitore si riteneva liberato
prestando una qualsiasi delle cose comprese nel genus; il diritto giustinianeo, invece, pose le basi del
principio generale per cui il creditore non può pretendere la cosa migliore, né il debitore si libera prestando la
peggiore, ma si deve prestare la media qualitas.
Particolare attenzione va prestata nel caso di estinzione di un’obbligazione generica per impossibilità della
prestazione; infatti, poiché in linea di massima genus non perit, è infrequente l’estinzione dell’obbligazione
generica per il perimento dell’oggetto. Occorrerebbe, infatti, che perisse tutto quanto il genus, il che può
avvenire solo quando il genus dal quale è prelevato l’oggetto è molto ristretto.
B) Obbligazioni alternative. Normalmente l’oggetto dell’obbligazione è unico; ma è possibile che
nell’obbligazione siano dedotte alternativamente due o più cose, in modo tale che siano tutte ugualmente
dovute, ma il debitore si liberi prestandone una sola. Successivamente, quindi, l’obbligazione si concentra su
uno degli oggetti dovuti, cioè da obbligazione alternativa diventa obbligazione semplice. La concentrazione
su uno degli oggetti dovuti può scaturire dalla scelta del debitore (caso normale), del creditore o di un terzo;
tuttavia il creditore fino alla litis contestatio e il debitore fino al pagamento, possono mutare la loro scelta
(ius variandi), salvo che si siano impegnati a non farlo.
La concentrazione può anche essere dovuta al perimento di uno degli oggetti dovuti: se la scelta spetta al
creditore, il perimento fortuito di una delle cose lo priva del diritto di scelta, mentre il perimento imputabile
al debitore non impedisce al creditore l’aestimatio della cosa perita. Se la scelta spetta al debitore:
a) qualora la prima cosa perisca per fatto del debitore, e come se questi avesse esercitato la sua scelta, onde
l’obbligazione si concentra sulla seconda cosa. Poiché in tal modo l’obbligazione è divenuta semplice, il
perimento successivo della seconda cosa, se fortuito, estingue l’obbligazione, ma se invece è imputabile al
debitore, lo rende responsabile. Giustiniano stabilì, invece, che perita la seconda cosa per caso fortuito,
l’obbligazione non si estingue, ma il debitore risponde (per aver cagionato il perimento della prima cosa) con
un’actio doli, tendente al valore medio delle due cose.
b) qualora la prima cosa perisca per caso fortuito, l’obbligazione si concentra sulla seconda cosa, ma
Giustiniano ammise che il debitore potesse ancora avvalersi della scelta, prestando il valore della prima cosa
perita.
Dall’obbligazione alternativa si distingue l’obbligazione facoltativa, in cui una sola cosa è dovuta, ma il
debitore ha la facoltà di liberarsi prestando un’altra cosa; essendo una sola la cosa dovuta, in questo caso il
suo perimento fortuite estingue l’obbligazione.
225. Anomalie relative al vincolo. Obbligazioni naturali. L’essenza propria dell’obbligazione sta nel
vincolo giuridico, che si manifesta nella relativa actio in personam. Tuttavia, la coscienza sociale romana
ravvisò in alcuni casi un rapporto economico di dare e avere, che non generava un vinculum iuris e quindi
non era riconosciuto come civilis obligatio. Tale rapporto dava luogo a un natura debitum, ossia a
un’obbligazione naturale. La caratteristica delle obbligazioni naturali sta nel fatto che, mancando il vincolo
giuridico, il creditore naturale non ha alcuna azione verso il debitore per costringerlo ad adempiere; tuttavia,
se il debitore adempie spontaneamente, la sua prestazione non si considera indebita e quindi egli non può
ripeterla (cioè richiederla indietro). L’obbligazione naturale produce anche altri effetti: può essere garantita
da un’obbligazione accessoria civile (fideiussione); può venire in compensazione con un’obbligazione civile;
può essere trasformata in un’obbligazione civile mediante novazione.
226. Le obbligazioni da atto lecito. Evoluzione della dottrina del contractus. Nel più antico diritto
romano, i termini contrahere, contractus non indicavano una delle fonti da cui nasce l’obbligazione, bensì
indicavano l’obbligazione stessa, e più precisamente, in opposizione al vincolo obbligatorio derivante da
delitto, quello derivante da atto lecito, definito anch’esso contractus. Nella giurisprudenza classica, invece,
venne formandosi la concezione per cui, in ogni negozio bilaterale del commercio, la forza produttiva
dell’obbligazione è nella convenzione intervenuta tra le parti. Tale convenzione, in alcuni casi, è da sola
sufficiente al sorgere dell’obbligazione; in altri casi, invece (nei negozi del ius civile), occorre che sia
rivestita di forme solenni o accompagnata dal compimento di determinati atti. Contrahere, contractus
allora, alla fine dell’età classica, assumono il nuovo significato soggettivo di convenzione, e si riferiscono
solo a quelle obbligazioni che sorgono per convenzione tra le parti, mentre non si applicano più a quelle altre
obbligazioni che sorgono da un atto lecito ma non convenzionale. In questo nuovo significato di accordo
come fonte di obbligazione, il termine contractus è stato accolto nella Compilazione giustinianea e nella
dottrina moderna.
227. Teoria e classificazione dei contratti. Il contratto, nella sua ultima configurazione, può definirsi come
l’accordo di due soggetti o gruppi di soggetti (parti contraenti), tendente a costituire tra di essi un rapporto
obbligatorio. Pertanto il contratto, in quanto è un negozio giuridico bilaterale, è soggetto a tutte le regole
relative al negozio giuridico, per ciò che riguarda la capacità delle parti, gli elementi essenziali, naturali e
accidentali. Nel sistema del ius civile era indubbio che il contratto, stipulato tra le parti, non potesse far
sorgere obbligazioni a favore o carico di terzi (nullità dei contratti a favore di terzi); tuttavia, l’antica regola
per cui nessuno può stipulare per un altro, fu oggetto di una serie sempre più cospicua di eccezioni,
soprattutto nel sistema giustinianeo: in questo sistema, la nullità del contratto a favore di terzi fu limitata ai
casi in cui l’obbligazione che ne derivava non presentasse alcun interesse per lo stipulante stesso.
I contratti sono suscettibili di varie classificazioni; molte di esse dipendono dal fatto che, essendo il contratto
una sottospecie del negozio giuridico, ad esso si applicano le stesse distinzioni e classificazioni che valgono
per i negozi. Si distinguono, quindi, contratti: a) solenni e non solenni; b) causali e astratti; c) a titolo
oneroso e a titolo gratuito; d) stricti iuris e bonae fidei, secondo il tipo di azione che ne sorgeva; e) iuris
civili e iuris gentium, secondo l’ordinamento che li riconobbe come fonte di obbligazione. Nettamente
diversa da quella omonima che si fa per i negozi giuridici è, invece, la distinzione dei contratti in unilaterali e
bilaterali. Nella materia dei negozi giuridici, infatti, la distinzione in unilaterali e bilaterali si riferisce al
modo in cui i vari negozi si perfezionano: i negozi unilaterali richiedono la volontà di un solo soggetto o di
un solo gruppo di soggetti; i negozi bilaterali richiedono, invece, la volontà di due soggetti, ossia di due parti
contrapposte (quindi i negozi giuridici bilaterali sono proprio i contratti). Nella materia dei contratti, invece,
la distinzione in unilaterali e bilaterali si riferisce agli effetti del contratto, cioè alle obbligazioni che derivano
dal contratto stesso: sono unilaterali i contratti da cui sorge obbligazione a carico di una sola delle parti (per
esempio, il mutuo); mentre sono bilaterali i contratti da cui sorgono due reciproche obbligazioni,
economicamente collegate in modo tale che l’una è in funzione dell’altra, onde la parte inadempiente non
può pretendere l’adempimento della controparte (contratti sinallagmatici, così definiti dai compilatori
giustinianei). Vi è poi una categoria di contratti, detti bilaterali imperfetti, dai quali sorge una sola
obbligazione principale, che costituisce la causa del contratto, ma il creditore, a sua volta, può essere tenuto a
un’obbligazione secondaria ed eventuale (per esempio, comodato o mandato), che è sanzionata con la stessa
azione contrattuale, invertita (actio contraria).
Tipicamente romana è, infine, una classificazione che tiene conto del modo in cui dai vari contratti sorge
l’obbligazione. Gaio mette in evidenza che il momento determinante per il sorgere dell’obbligazione è nelle
quattro categorie di contratti rispettivamente, la consegna della cosa (re), la pronuncia di parole solenni
(verbis), l’impiego di una determinata forma scritta (litteris), o il semplice consenso manifestato in qualsiasi
modo (consensu). Si possono, quindi, distinguere quattro categorie di contratti in base alla classificazione di
Gaio: contratti reali, verbali, letterali e consensuali.
228. Contratti reali. In questi contratti, l’obbligazione, che ha per oggetto la restituzione di una cosa
ricevuta o del suo equivalente, non può sorgere se non in quanto la res sia consegnata dal creditore al
debitore. Il contratto si perfeziona solo con la consegna della cosa.
A) Fiducia. Consisteva nel formale trasferimento della proprietà di una cosa, mediante mancipatio, dal
fiduciante al fiduciario a scopo di custodia (fiducia cum amico) o a scopo di garanzia di una precedente
obbligazione (fiducia cum creditore), col patto che il fiduciario avrebbe ritrasferito la proprietà della cosa
rispettivamente a richiesta o dopo che il suo credito fosse stato soddisfatto. L’azione che ne sorgeva era
l’actio fiduciae, infamante, che poteva ritorcersi contro il fiduciante come actio fiduciae contraria, per il
risarcimento dei danni. La fiducia scomparve nel diritto giustinianeo, sostituita dal pegno.
B) Mutuo. È un contratto unilaterale, che consiste nel trasferimento di proprietà di denaro o di altre cose
fungibili dal mutuante al mutuatario, il quale si obbliga a restituire un’altrettanta quantità di cose dello
stesso genere e della stessa qualità (tantundem). Al mutuante spetta la condictio certae rei se si tratta di cose
fungibili e non di denaro. Dalla natura stricti iuris della condictio, che importava stretta corrispondenza tra
intentio e condemnatio, derivava l’impossibilità di condannare il mutuatario a pagare più del ricevuto e
quindi a pagare interessi: il mutuo romano è, perciò, un contratto a titolo gratuito.
A questo, in pratica, ovviava l’uso di affiancare al mutuo un ulteriore contratto (stipulatio usurarum) avente
ad oggetto appunto la promessa del pagamento di interessi. Un senatoconsulto dell’età di Vespasiano vietò,
sotto pena di nullità, la concessione di mutui ai filii familias (mutui nei quali l’obbligazione di restituire
sarebbe divenuta esigibile solo quando essi fossero divenuti sui iuris).
C) Deposito. Consiste nella consegna di una cosa mobile dal depositante al depositario, affinché
quest’ultimo la custodisca e la restituisca a richiesta del depositante. Il depositario ha la sola naturalis
possessio. Il contratto è essenzialmente gratuito: l’aggiunta di un corrispettivo lo avvicinerebbe alla
locazione d’opera. Si distinguono un’actio depositi directa, infamante, spettante al depositante per la
restituzione della cosa, e un’actio depositi contraria, spettante al depositario per ottenere il rimborso di
eventuali spese o il risarcimento del danno. Trattandosi di contratto gratuito, concluso nell’interesse del
depositante, egli risponde solo per dolo. Vi sono poi tre figure speciali di deposito:
a) deposito necessario o miserabile, fatto da chi, in occasione di un grave e urgente pericolo, sia costretto a
depositare la cosa presso il primo venuto: questi risponderà per il doppio della sua negligenza o infedeltà per
aver abusato della situazione di necessità in cui il depositante non ha potuto scegliere un depositario;
b) deposito a causa di sequestro. Una cosa contesa giudiziariamente tra due soggetti o della quale è
comunque incerta l’appartenenza è affidata a un sequestratario, il quale dovrà restituirla non a richiesta, né a
uno qualsiasi dei contendenti, ma solo a chi dei due contendenti si troverà nella situazione giuridica di poter
pretendere la restituzione della cosa;
c) deposito irregolare. Si applica ad una somma di denaro, depositata con la clausola che il depositario
possa usarne e poi restituire il tantundem (deposito bancario): sostanzialmente si tratta di un mutuo.
D) Comodato. Consiste nella consegna di una cosa inconsumabile, fatta dal comodante al comodatario,
affinché quest’ultimo ne usi secondo la normale destinazione economica e la restituisca dopo l’uso o alla
scadenza stabilita. Si distingue dal mutuo perché non si trasferisce la proprietà della cosa, ma soltanto la
naturalis possessio e perché il comodatario deve restituire la cosa medesima e non il tantundem. Perciò il
comodato è anche detto prestito di uso. Il comodato è essenzialmente gratuito, ma il comodatario risponde,
oltre che per dolo, per custodia e per culpa levis: poiché infatti il contratto è nell’interesse esclusivo del
comodatario, a lui si richiede la massima diligenza.
E) Pegno. Consiste nella consegna di una cosa mobile dal debitore oppignorante al creditore pignoratizio,
perché questi la tenga presso di sé a garanzia di una precedente obbligazione e la restituisca solo quando sia
stato completamente soddisfatto.
234. Contratti verbali. In questi contratti, l’obbligazione sorge in quanto siano pronunciate determinate
parole solenni. La forma solenne è richiesta ad substantiam.
A) Stipulatio. È il contratto per eccellenza dei Romani, il prototipo dei negozi obbligatori. Oltre che
formale, esso è astratto, unilaterale, stricti iuris. Consiste nella solenne domanda rivolta oralmente dallo
stipulator e nell’immediata, solenne e congrua risposta del promissor, avente per oggetto un dare o un
facere di un certum o di un incertum. Tale solenne scambio di domanda e risposta era in origine necessario
e sufficiente a far sorgere l’obbligazione; solo successivamente venne affermata la nullità di una stipulatio
non pienamente conforme all’intento delle parti. Caratteristiche del contratto sono: oralità, presenza di
entrambe le parti, unitas actus (successione immediata fra proposta e accettazione), perfetta corrispondenza
nell’impiego delle parole.
La sua natura astratta rendeva la stipulatio idonea, oltre che a fungere da contratto economicamente
autonomo, anche a rivestire di sé qualunque rapporto obbligatorio precedente, sia al fine di aggiungere
all’azione già esistente in base al contratto originario una nuova azione più rapida e pratica; sia al fine di
novazione della precedente obbligazione; sia al fine di far sorgere una garanzia personale (adpromissio); sia
al fine di tradurre in un unico debito di denaro una serie di varie obbligazioni già intercedenti tra le parti
(stipulatio Aquiliana). La considerazione delle sue molteplici applicazioni spinge ad una facile analogia
funzionale con la moderna cambiale.

Accanto alla stipulazione convenzionale, conclusa per effetto di libera volontà contrattuale, vi sono anche
delle stipulazioni imposte dal magistrato (stipulationes pretoriae) allo scopo di fornire al soggetto, che sia
abilitato dall’Editto a farne richiesta, una speciale garanzia.
I profili formali della stipulatio subiscono uno sviluppo: in seguito alla diffusione della forma scritta, dovuta
ai contatti con l’Oriente al fine della Repubblica, fu consuetudine redigere un documento (instrumentum)
attestante l’avvenuta domanda e la conseguente risposta: documento che aveva efficacia meramente
probatoria, poiché l’obbligazione nasceva sempre dai verba. Gradatamente, però, l’instrumentum cominciò a
formare corpo con i verba: in teoria l’obbligazione nasceva ancora dalla forma orale, che si considerava
assorbente del contenuto del documento; ma in pratica, si verificò uno sviluppo, tendente a porre in rilievo il
documento e a considerare i verba come una clausola confermativa, necessaria, ma accessoria. Da qui
all’abolizione dei verba il passo era breve e fu compiuto, in armonia con il fenomeno generale della caduta
delle forme solenni nell’età postclassica. Nel diritto giustinianeo, infine, la stipulatio può compiersi
oralmente o per iscritto e con intervallo tra proposta e accettazione (quindi anche tra assenti). Se la risposta
non è del tutto congrua, le disarmonie rispetto al domanda relative al quale e al quanto, si considerano come
controproposte.
B) Dotis dictio. Consiste nella promessa di dote, fatta con parole solenni al marito, da parte della donna, o
del debitore di lei, o di un ascendente paterno della donna. Si differenzia dalla stipulatio perché non richiede
lo scambio di domanda e risposta, ma si perfeziona con la dichiarazione di un solo soggetto.
C) Promissio iurata liberti. Prima di manomettere uno schiavo, il dominus poteva farsi promettere per
l’avvenire la prestazione di servigi; ma tale promessa, non potendo esser fatta in forma giuridica per
l’incapacità del servo, era fatta sottoforma di giuramento di carattere religioso, valido nell’ambito sacrale.
Dopo la manomissione, il liberto rinnovava il giuramento e da questa promessa sorgeva un’obbligazione
civile.
D) Vadiatura e praediatura. Si tratta di antichi contratti verbali con funzione di garanzia processuale. La
vadiatura serviva a garantire la comparizione in giudizio del convenuto; la praediatura serviva a garantire la
restituzione della cosa litigiosa, e dei suoi frutti, da parte del litigante che ne avesse avuto assegnato il
possesso interinale.
239. Contratti letterali. In questi contratti, l’obbligazione sorge in quanto sia posta in essere una
determinata forma scritta, richiesta ad substantiam.
A) Nomen transscripticium. Consiste in una complessa registrazione contabile fatta dal pater familias sul
suo libro di cassa. Tale registrazione può essere di due specie:
a) transscriptio a re in personam: il pater familias, su richiesta del suo debitore, annotava nella colonna
dell’acceptum, come ricevuta, una somma dovutagli, poi tornava ad annotarla nella colonna dell’expensum,
come se fosse tornato a sborsarla allo stesso debitore. Così la precedente obbligazione rimaneva estinta e ad
essa se ne sostituiva una nuova, nascente da codesta scritturazione (litteris), della quale sarebbe stato più
facile provare l’esistenza, per la corrispondenza dell’annotazione con la richiesta del debitore.
b) transscriptio a personam in personam: il pater familias annotava nell’acceptum, come ricevuta, una
somma dovutagli da un soggetto e poi annotava la stessa somma nell’expensum, come se la sborsasse a un
altro soggetto. Si attuava, quindi, anche qui una novazione per cui sorgeva (litteris) una nuova obbligazione a
carico del secondo soggetto. L’istituto potrebbe trovare giustificazione nell’esigenza di superare
l’impossibilità di novazione iure civili del titolo di un’obbligazione senza la contestuale presenza delle parti.
242. Contratti consensuali. Nei contratti consensuali, l’obbligazione sorge per effetto del semplice
consenso scambiato dalle parti; vale a dire che in questa categoria di contratti, il consenso delle parti è
elemento necessario e sufficiente al sorgere dell’obbligazione. I contratti consensuali furono introdotti in
Roma attraverso il ius gentium; successivamente furono recepiti in seno al ius civile per i grandi vantaggi
pratici che presentavano rispetto al rigido formalismo del diritto quiritario.
A) Compravendita. La emptio-venditio è un contratto bilaterale, per cui una parte (venditor) si obbliga a
consegnare una merce, dietro il corrispettivo in denaro (pretium) che l’altra parte (emptor) si impegna a
pagargli. Si perfeziona con il semplice scambio dei consensi sulla merce e sul prezzo.
Può formare oggetto di compravendita qualunque cosa commerciabile, non solo presente, ma anche futura
(ad esempio, il ricavato della pesca in corso). Si parla in proposito di emptio rei speratae: la compravendita
s’intende in tal caso subordinata al venire in essere della cosa futura, il cui prezzo, fissato per ogni unità, sarà
dovuto in proporzione della quantità prodottasi. Quanto al prezzo, è essenziale che esso sia costituito in
denaro. La compravendita romana non ha, come la moderna, efficacia reale, cioè non trasferisce essa stessa
la proprietà della merce e del prezzo, ma, come ogni altro contratto romano, è solo fonte di obbligazione,
della reciproca obbligazione di trasferire.
Dalla compravendita non nasce nemmeno per il venditore l’obbligo di trasferire la proprietà della cosa, che
può invece sorgere da un’apposita stipulatio; normalmente, il venditore è tenuto solo a trasferire il possesso
della cosa venduta e a assicurarne il pacifico godimento. In ogni caso, il diritto classico avanzato, il venditore
risponde per l’eventuale evizione; inoltre, risponde per i vizi occulti della merce. Infine, agli edili curuli nella
polizia dei mercati di schiavi e bestiame si deve l’introduzione di due mezzi a favore del compratore:
un’actio redhibitoria, tendente a risolvere il contratto, e un’actio quanti minoris, tendente al rimborso
parziale del prezzo. Le reciproche obbligazioni derivanti dalla compravendita sono tutelate da due reciproche
azioni distinte, ma collegate: l’actio venditi a favore del venditore e l’actio empti a favore del compratore.
Le relative formule sono di buona fede, come tutti i contratti iuris gentium. Ne consegue che possono essere
valutate dal giudice, senza apposita exceptio, anche tutte le clausole e convenzioni accessorie, che le parti
possono avere apposto al contratto. Fra tali clausole spiccano per importanza e frequenza:
a) in diem addictio, con cui il venditore si riserva la facoltà di rivendere, entro un termine stabilito, a un
migliore offerente;
b) lex commissoria, con cui il venditore si riserva la facoltà di ritenere sciolto il contratto se il compratore
non avrà pagato il prezzo entro un termine stabilito;
c) pactum displicentiae, in favore del compratore a prova, che può recedere se scontento della merce;
d) pactum de retroemendo, con cui il venditore si riserva la facoltà di ricomprare la merce dal compratore,
alle stesse condizioni, entro un termine stabilito.
B) Locazione – conduzione. I Romani ricomprendono nello schema della locatio-conductio tre differenti
fattispecie, riconducibili nel diritto moderno ad altrettanti contratti.
a) La locazione/conduzione di cosa (locatio/conductio rei) è il contratto bilaterale per cui una parte
(locator) si obbliga a concedere per un tempo stabilito o indeterminato il godimento di una cosa, dietro un
periodico corrispettivo, che l’altra parte (conductor) si obbliga a prestargli. L’oggetto può essere mobile o
immobile; la mercede è normalmente in denaro, ma può essere anche in natura (ad esempio, i frutti del
fondo). Il locatore deve mantenere la cosa, per tutta la durata del rapporto, in stato tale da consentirne il
godimento al conduttore, secondo la normale destinazione economica della cosa. Il conduttore, che ha solo la
naturalis possessio, è tenuto, oltre che a sopportare le spese di manutenzione, a restituire la cosa al termine
della locazione e risponde dei deterioramenti della cosa a lui imputabili. Le due obbligazioni sono tutelate da
due distinte azioni di buona fede, l’actio locati e l’actio conducti. Se non è stato convenuto un termine, la
locazione perdura indefinitamente fra gli eredi, salva disdetta di una delle parti.
b) Nella locazione d’opera (locatio operis) conduttore è un imprenditore che si obbliga a conseguire con le
opere sue o dei suoi operai un risultato finale (opus; per esempio, la costruzione di un edificio), mentre
locatore è colui che ha diritto al compimento dell’opus, dietro pagamento della mercede. La
locazione/conduzione d’opera è trasmissibile ereditariamente, a meno che l’opus non sia tale da dover essere
eseguito personalmente dal conduttore (per esempio, un’opera d’arte). Il conductor operis risponde per dolo
e per colpa.
C) Società. È il contratto per cui due o più parti (socii) convengono di mettere in comune un complesso di
beni per il raggiungimento di un fine comune lecito. Le reciproche prestazioni cui le parti si obbligano
(conferimenti) possono consistere in denaro, in altri beni materiali, o in servigi personali (industria), e non
si richiede che siano di egual valore. Secondo l’oggetto e lo scopo si distinguono:
a) societas omnium bonorum, che comprende tutti i beni presenti e futuri dei soci (forma più antica di
associazione);
b) societas alicuius negotiationis, limitata a un determinato settore di attività;
c) societas quaestus o lucri o compendii, limitata ai proventi e alle perdite derivanti da negozi a titolo
oneroso.
La società romana non ha personalità giuridica; i diritti e gli obblighi verso i terzi non sono, quindi, della
società, ma dei singoli soci. Inoltre, poiché il ius civile non ammette la rappresentanza diretta, ne consegue
che se un negozio nell’interesse della società non fu concluso con l’intervento di tutti i soci, ma da alcuni o
da uno soltanto di essi, i diritti e gli obblighi che da tale negozio sorgono verso i terzi ricadono unicamente
sui soci o sul socio che lo hanno stipulato. Successivamente, costoro o costui, potranno rivalersi verso i
consoci che non parteciparono al negozio, regolando i loro rapporti interni con l’actio pro socio. Dal
contratto deriva ai soci il diritto a partecipare agli utili: nel silenzio delle parti, gli utili vanno ripartiti in
quote eguali ma i soci possono convenire liberamente una diseguale ripartizione. In nessun caso, però, si può
convenire che un socio abbia tutti gli utili e l’altro sopporti tutte le perdite (cosiddetta società leonina).
L’azione reciproca tra i soci è l’actio pro socio, di buona fede e infamante. La durata della società può essere
convenuta a termine o per tutta la vita. Il contratto è intrasmissibile agli eredi, per l’ intuitus personae che ne
sta alla base. La società si scioglie quindi per la morte di uno dei soci, né vale un eventuale patto in contrario.
Se i soci superstiti vogliono continuare la società con l’erede del socio defunto, debbono stipulare con lui un
nuovo contratto. Oltre che per morte e per capitis deminutio di un socio, il contratto può risolversi ex
voluntate: ciò può avvenire o per contrarius consensus, il che è principio comune a tutti i contratti
consensuali, o per recesso unilaterale (renuntiatio), il che costituisce una norma eccezionale, non potendo
ammettersi in linea di massima che una parte si sciolga da un contratto contro la volontà dell’altra;
l’eccezione è giustificata dalla affectio societatis, cioè dalla necessità che sussista un consenso permanente
tra i soci affinché la società perduri. Infine, la società può sciogliersi ex rebus, cioè per circostanze obiettive,
quali il venir meno dello scopo o la sopravvenuta incapacità patrimoniale di un socio.
D) Mandato. È il contratto per cui una parte (mandante) dà incarico all’altra (mandatario), che accetta, di
svolgere gratuitamente una qualsiasi attività lecita. La gratuità è essenziale: l’aggiunta di un corrispettivo
muterebbe il mandato in una locazione d’opera. È nullo, per mancanza di interesse, il mandato che giovi
esclusivamente al mandatario. Il mandatario si obbliga ad eseguire fedelmente l’incarico e a renderne conto,
e risponde per dolo, ma, in qualche ipotesi più tarda, anche per colpa. L’azione che ne deriva al mandante è
l’actio mandati directa, di buona fede e infamante. Sebbene dal mandato nascano normalmente
obbligazioni solo a carico del mandatario, il mandante può essere tenuto, con un’actio mandati contraria, al
rimborso delle spese e al risarcimento dei danni. Si parla perciò di contratto bilaterale imperfetto. Il
contratto si risolve per mutuo consenso, per revoca da parte del mandante in qualunque momento, per
rinuncia del mandatario solo in via eccezionale e per morte di una delle parti.
247. Contratti innominati. Malgrado la creazione, dovuta al ius gentium, dei contratti consensuali, il
sistema contrattuale si mostrò insufficiente, in età classica avanzata, alle più complesse esigenze degli affari,
sicché si sentì il bisogno di dare riconoscimento giuridico a nuovi rapporti contrattuali di fatto già largamente
praticati. Il riconoscimento di tali negozi non avvenne, però, in base alla loro singola e tipica individualità,
bensì per categorie astratte, raggruppanti i negozi con caratteristiche comuni, onde, in mancanza di singoli
nomi tipici, questi contratti vengono detti innominati. Nel diritto giustinianeo, in seguito alla più generale
costruzione della categoria astratta del contratto; al principio che ogni convenzione avente causa lecita
genera obbligazione; alla fusione delle azioni civili con le pretorie, nulla più ostava al pieno riconoscimento
di questi contratti. Giustiniano, quindi, concesse alla parte che avesse già eseguito la sua prestazione una
condictio causa data causa non secuta per ottenere la restituzione. Introdusse, infine, uno ius poenitendi a
favore della parte che, pur avendo eseguito la sua prestazione ed essendo l’altra parte pronta ad eseguire la
propria, volesse recedere dal contratto.
I nova negotia furono raggruppati in quattro categorie principali: do ut des; do ut facias; facio ut des; facio
ut facias, a seconda della natura (dare o facere) delle due prestazioni. Alcuni di questi nuovi negozi
assumono particolare rilievo:

a) Permuta (permutatio). Consiste nella dazione di una cosa per ottenerne un’altra. Si distingue dalla
compravendita perché il corrispettivo non è in denaro e perché l’obbligazione non nasce dall’accordo delle
parti, ma dalla dazione effettuata per prima (re).
b) Contratto estimatorio (aestimatium). Consiste nell’affidare ad altri una cosa stimata per venderla, con
l’obbligo del ricevente di restituire il valore di stima, restando a favore del ricevente l’eventuale ricavato in
più, oppure la cosa stessa invenduta.
c) Transazione (transactio). È la rinuncia che una parte fa, accontentandosi di qualcosa di meno della sua
originaria pretesa, ad un suo diritto controverso, o la parziale rinuncia reciproca ad obbligazioni controverse
esistenti tra le parti, al fine di evitare il sorgere o la prosecuzione di una lite giudiziaria.
248. I patti. I Romani non consideravano il semplice accordo, la convenzione tra due parti (pactio) come
produttivo di obbligazione. Perché ad esso fosse attribuita la natura di contractus si richiedeva, infatti, o che
il consenso fosse manifestato re, verbis o litteris, oppure che esso si riferisse ai contratti consensuali. Solo il
pretore, per ragioni di equità, promise nel suo Editto che avrebbe tutelato i patti conclusi senza dolo e non
contrari o in frode a leggi, costituzioni imperiali o senatoconsulti. Questa tutela fu particolarmente
importante per quei patti rivolti a eliminare in tutto o in parte gli effetti di un’obbligazione civile già
esistente. Al principio generale dell’inefficacia dei patti fanno eccezione, tuttavia, tre categorie di
convenzioni:
a) pacta adiecta, o convenzioni accessorie a un contratto di buona fede, tendenti a modificarne il normale
contenuto. Tali patti furono considerati parte integrante del contratto e quindi, data l’ampia natura dei bonae
fidei iudicia, tutelabili mediante azione contrattuale di buona fede, purché fossero contestuali al contratto e
non successivi ad esso;
b) pacta pretoria, muniti addirittura di azione (in factum) dall’Editto pretorio;
c) pacta legitima, riconosciuti da costituzioni imperiali di epoca postclassica. Vi sono compresi: il pactum
donationis, consistente in una promessa di donazione, cui viene riconosciuta efficacia obbligatoria anche in
mancanza di una stipulatio, e il pactum compromissum, con cui le parti di un rapporto controverso
convenivano di risolverlo in via extra-giudiziale, sottoponendolo a un privato arbitrio.
249. Altre obbligazioni “rei persecutoriae”. L’evoluzione del concetto di contrctus indusse i classici a
considerare nascenti ex variis causarum figuris una serie di obbligazioni che, pur avendo come fonte un
atto lecito, non nascevano da un accordo. Non è possibile porre alcun concetto unitario di carattere
dogmatico né alcun principio generale comune ai vari casi eterogenei di questa specie di obbligazioni.
A) Gestione di affari altrui. Dal fatto che un soggetto, senza averne ricevuto mandato, abbia intrapreso
spontaneamente e utilmente la gestione di un affare altrui, con l’intenzione di obbligare a sé il titolare
dell’affare, sorgono fra quest’ultimo e il gestore reciproche obbligazioni, sanzionate con un’azione civile,
bonae fidei. Requisiti per l’efficacia obbligatoria della gestione sono: l’effettiva gestione, costituita da uno o
più negozi e atti; che la gestione sia stata iniziata utilmente, cioè che si sia mostrata vantaggiosa per il titolare
dell’affare; la spontaneità della gestione; l’inesistenza di un divieto del titolare; l’assoluta alienabilità
dell’affare. La mancanza di taluno di questi requisiti può essere sanata con successiva ratifica del titolare
dell’affare, in virtù della quale il rapporto è sostanzialmente equiparato al mandato.
Il contenuto delle reciproche obbligazioni è già nel diritto classico il seguente: il gestore è obbligato a
condurre a termine l’affare intrapreso e a renderne conto al titolare, trasferendogliene il risultato utile; il
gestore risponde fino alla culpa levis e, a volte, perfino per caso fortuito; il titolare dell’affare è tenuto per le
spese e i danni subiti dal gestore e deve liberarlo dalle obbligazioni assunte verso i terzi. A tutela di queste
reciproche pretese, il titolare dell’affare dispone di un’actio negotiorum gestorum directa nei confronti del
gestore, e quest’ultimo dispone di un’actio contraria verso il titolare dell’affare.
B) Pagamento d’indebito. Ricorre tale figura, quando un soggetto esegue una prestazione di dare non
dovuta o perché si tratta di un’obbligazione inesistente o perché l’obbligazione esiste, ma in capo a un
debitore o nei confronti di un creditore diversi. Si richiede l’errore di chi paga (altrimenti potrebbe parlarsi di
donazione) e anche quello di chi riceve (che altrimenti commetterebbe un furto). In presenza di tali requisiti,
chi riceve la prestazione non dovutagli è obbligato a restituirla.
C) Comunione incidentale. Dalla communio incidens, cioè dal condominio verificatosi per cause
indipendenti dalla volontà dei soci, sorgono reciproche obbligazioni, che si fanno valere in sede divisoria con
l’actio communi dividundo.
D) Pollicitatio e votum. La pollicitatio è una promessa unilaterale cui gradatamente fu riconosciuta
efficacia obbligatoria; trae la sua origine storica da una consuetudine della vita pubblica dei municipia, per
cui un cittadino prometteva alla civitas di versare una somma di denaro o di compiere qualche opera di
pubblico interesse. L’obbligo di ottemperare alla promessa poteva ottenersi solo con la cognitio extra
ordinem. Il votum è una promessa di carattere religioso, tutelata quindi dal fas. Tuttavia, se fatto da un pater
familias, il votum era ritenuto giuridicamente obbligatorio, nel senso che i sacerdoti interessati potevano
costringere il pater ad adempiere per mezzo della cognitio extra ordinem.
255. Le obbligazioni da atto illecito. I delicta. Alcuni atti sono considerati dai Romani produttivi di
obbligazione, avente come oggetto una pena pecuniaria, surrogato della più antica vendetta personale, e
sanzionata da un’azione penale. Le figure più importanti inquadrabili in questa categoria sono solo le quattro
che ricevettero dal ius civile la qualifica di delicta: il furto, la rapina, il danneggiamento e l’iniuria.
Occorre, però, ricordare che anche in altre ipotesi trovano applicazione altrettante azioni penali:
a) l’azione nascente dalla lex Laetoria contro chi avesse ingannato un minore di 25 anni;
b) l’actio de pauperie, per i danni prodotti da animali.
L’azione penale presenta specifici caratteri:
a) cumulabilità di due azioni contro due correi o a favore di due soggetti offesi dal delitto, in quanto
l’obbligazione nascente da delitto è solidale cumulativa: la prestazione, che consiste in una pena pecuniaria,
va eseguita tante volte quanti sono i colpevoli e gli offesi;
b) cumulabilità di un’azione penale con una reipersecutoria: l’offeso del delitto può agire contro il reo due
volte, per chiedere sia la pena sia il risarcimento del danno;
c) intrasmissibilità passiva e nossalità.
A) Furto. È definito nelle fonti come “stabilire una relazione fraudolenta con una cosa allo scopo di trarre
profitto o dalla cosa stessa o dall’uso o dal possesso della cosa”. L’elemento obiettivo è dato dalla
contrectatio, che consiste in qualsiasi atto rivolto a trarre da una cosa illecito profitto, contro la volontà del
proprietario o del titolare di altro diritto reale sulla cosa stessa. Non è necessaria l’asportazione della cosa,
sicché commette furto chi utilizzi, senza che ne avesse il diritto, una cosa che ha presso di sé; il furto, poi,
non consiste necessariamente nella lesione dell’altrui proprietà, sicché accanto al furtum rei, si configurano
il furtum usus (uso indebito) e il furtum possessionis, che si ha quando il semplice detentore comincia a
considerarsi come possessore.
Secondo la dottrina dominante fra i giuristi romani, si può avere furto solo delle cose mobili. L’elemento
subbiettivo è dato dal dolo del ladro, che ha la coscienza di utilizzare la cosa contro la volontà dell’avente
diritto. La sanzione del furto era, in epoca antica, di carattere personale. La legislazione decemvirale, invece,
contemplava anche il furtum conceptum e il furtum oblatum, per i quali era possibile una composizione
pecuniaria nella misura del triplum. Rispondeva di furtum conceptum il terzo presso il quale, alla presenza
di testimoni, fosse stata ritrovata la cosa rubata; chi aveva nascosto la cosa rubata presso un terzo ignaro,
rispondeva invece di furtum oblatum nei confronti del terzo.
In epoca successiva a quella decemvirale, per iniziativa del pretore, si introdussero per ogni tipo di furto
conseguenze solo patrimoniali: la giurisprudenza ne trasse così il principio per cui il furtum generasse
un’obligatio a carico del ladro. Tale obbligazione si concretava in una pena pecuniaria più o meno grave a
seconda del tipo di furto. L’azione per conseguire la pena era l’actio furti, infamante, che compete non
necessariamente al proprietario in quanto tale, ma a chiunque avrebbe avuto interesse a che il furto non fosse
commesso. Accanto a tale azione è concessa la condictio furtiva, cioè un’azione tendente a recuperare
l’aestimatio della cosa, che compete esclusivamente al proprietario della cosa stessa, anche qualora non sia
esperibile la rei vindicatio per il sopravvenuto perire della cosa rubata. Actio e condictio sono cumulabili,
poiché tendenti a scopi diversi: l’actio tende alla pena, mentre la condictio tende al risarcimento del danno.

B) Rapina. Secondo il sistema civile, la rapina era compresa nel furto, avendo in comune con esso la
contrectatio, con la sola particolarità che la rapina è compiuta con violenza. Nelle conseguenze era
equiparata al furtum. Ma durante le guerre civili (I secolo a.C.), il pretore Lucullo introdusse, accanto
all’actio furti, una speciale azione, l’actio vi bonorum raptorum, nel caso di rapine compiute da bande
armate. L’azione spettava per il quadruplo del valore dei danni arrecati o delle cose asportate, entro l’anno;
successivamente, spettò per il semplice valore. L’actio vi bonorum raptorum fu estesa poi ad ogni caso di
rapina, qualunque ne fosse l’oggetto e da chiunque fosse compiuta. La rapina assunse, quindi, una precisa
identità, pur non dimenticandosi la sua natura di furto qualificato: questo spiega l’inserimento della rapina,
nonostante l’origine pretoria, nell’elenco di Gaio dei delicta del ius civile.
C) Danneggiamento. In armonia con il principio della tipicità delle singole cause di obbligazione, l’antico
ius civile (XII Tavole) non prevedeva una figura astratta di danneggiamento, ma singole ipotesi concrete, cui
corrispondevano altrettante azioni. Alla costruzione di un concetto astratto di damnum iniuria datum ci si
avviava solo con la lex Aquilia de damno che, integrando le singole figure antiche, conteneva due previsioni
fondamentali: a) chi avesse ucciso uno schiavo o animale altrui avrebbe dovuto pagare al proprietario il
maggior valore raggiunto dalla cosa nell’anno precedente; b) chiunque avesse danneggiato, mediante
“bruciare, rompere, infrangere” una cosa altrui, avrebbe dovuto pagare al proprietario il maggior valore
raggiunto dalla cosa stessa entro i 30 giorni precedenti. L’actio legis Aquiliae competeva, però, solo se
ricorressero vari requisiti: a) che il danno fosse stato arrecato contrariamente al diritto; b) che il danno
derivasse da dolo o colpa dell’agente; c) che il danno consistesse in una materiale lesione prodotta con la
forza fisica; d) che il danno fosse immediata conseguenza dell’azione. Nel diritto giustinianeo, l’applicabilità
della lex Aquilia ha raggiunto la sua massima ampiezza soggettiva e oggettiva. In conseguenza di tale
estensione, l’azione non ha più carattere penale, ma piuttosto tende al risarcimento del danno
extracontrattuale (aquiliano), sicché si può dire ormai posta la base del moderno principio per cui “qualunque
fatto dolo o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire
il danno” (art. 2043 c.c.).
D) Iniuria. Il diritto delle XII Tavole non era pervenuto a un concetto astratto di iniuria, limitandosi a
sanzionare alcune ipotesi particolari, singolarmente considerate: a) iniuria (lesioni meno gravi o percosse
non produttive di frattura) che importava una pena di 25 assi; b) membrum ruptum (mutilazione) per cui
sopravviveva ancora l’originaria vendetta sottoforma di taglione, salvo che le parti non addivenissero a
volontaria composizione. Tale regolamentazione si mostrò in seguito inadeguata alle nuove esigenze sociali:
pertanto il pretore sostituì alla primitiva actio iniuriarum un’actio iniuriarum aestimatoria, in cui si teneva
conto delle circostanze di tempo, di luogo e di persona e si punivano tutte le possibili ipotesi di iniuria.
L’actio iniuriarum, oltre ad essere penale, è infamante, annuale, ed intrasmissibile ereditariamente non solo
dal lato passivo, come tutte le azioni penali, ma anche dal lato attivo (cioè all’erede dell’offeso).
260. Delitti pretori. Il pretore concesse un’azione penale in varie ipotesi di illecito, che non furono
inquadrate nei delicta e perciò sono dette “delitti pretori”. Tra i principali:
a) metus. L’azione relativa (actio metus), oltre che penale, è arbitraria, intrasmissibile passivamente. Può
essere intentata anche contro i terzi che non hanno partecipato alla violenza, ma che ne hanno tratto profitto;
b) dolus malus. L’azione relativa (actio de dolo), oltre che penale è infamante, annuale, arbitraria e
intrasmissibile. Essa è concessa dal pretore solo quando manchi alla vittima altro mezzo processuale per
ottenere la riparazione del torto (actio subsidiaria).
261. Le obbligazioni quasi ex delicto. Alcuni atti illeciti trovano posto, secondo il sistema giustinianeo
delle fonti delle obbligazioni, nella categoria dei “quasi delitti”. La teoria che sembra più accettabile è che si
tratta di una categoria avente fondamento analogo a quella dei “quasi contratti”: rientrano cioè tra le
obligationes quasi ex delicto quelle obbligazioni da atto illecito penale che, per vari motivi, non possono
inquadrarsi fra i delitti, sicché anche per esse potrebbe ripetersi che nascono ex variis causarum figuris. I
casi che Giustiniano inquadra fra le obbligazioni quasi ex delicto sono:
a) Iudex qui litem sua fecit. È il caso del giudice che in mala fede o per negligenza ha emesso una sentenza
ingiusta o è venuto meno all’obbligo di giudicare.
b) Positum et suspensum. Si punisce il fatto di tener sospesa o appoggiata una cosa all’esterno di un
edificio, per il danno che potrebbe derivare dall’eventuale caduta di essa.
c) Actio furti adversus nautas, caupones, stabularios. Compete contro il nocchiero, l’oste o lo stalliere, al
viaggiatore che sia stato derubato delle merci, o del bagaglio, o dei quadrupedi.
262. La donazione inter vivos. Nel sistema romano la donazione non è un negozio giuridico autonomo, ma
è piuttosto il risultato positivo (causa) cui tende chi spontaneamente diminuisce il proprio patrimonio a
vantaggio di altri. Per conseguenza, ogni atto di alienazione patrimoniale in senso lato costituisce donazione
quando sia deliberatamente rivolto a quella causa. La spontaneità va intesa nel senso che il donante non è
giuridicamente obbligato all’alienazione: non è necessario quindi che egli sia mosso dall’intenzione di fare
un beneficio. L’intenzione di liberalità (animus donandi) è, invece, elemento essenziale e caratteristico del
rapporto nel diritto giustinianeo.
263. Limitazioni. Nell’età del diritto quiritario, non si avvertì il bisogno di porre un freno alle donazioni,
poiché in una società di agricoltori, risparmiatori, non si dona con leggerezza. Un freno fu invece necessario
in seguito alla decadenza dei primitivi costumi. Provvide a tal fine una lex Cincia de donis et muneribus,
del 204 a.C., che vietò le donazioni eccedenti un certo limite, ad eccezione di quelle giustificate da speciali
finalità. Tuttavia il divieto della lex Cincia non portava come sanzione la nullità delle donazioni vietate,
sicché si tentava di renderle inefficaci attraverso vari espedienti.
A partire dall’ultima epoca della repubblica, invece, si introdusse, per consuetudine, il divieto rigoroso delle
donazioni fra coniugi, che furono colpite da nullità assoluta, salva la convalida alla morte del donante. Tale
divieto è da porsi in relazione alla larga diffusione dei matrimoni sine manu: non entrando più la moglie a far
parte della famiglia agnatizia del marito, una donazione fra coniugi avrebbe comportato spostamenti
patrimoniali da una familia all’altra, cosa che si preferiva evitare.
A partire da Costantino, la donazione cessa di essere considerata causa di qualunque alienazione a titolo
gratuito e diventa un autonomo negozio giuridico, qualificato contractus. Per le donazioni di rilevante
ammontare si richiese ad substantiam la forma scritta, la presenza di testi e la trascrizione in pubblici registri.
Si distinsero: una donazione reale, immediatamente traslativa di proprietà, una donazione obbligatoria
consistente in una stipulatio a titolo gratuito, e una donazione liberatoria consistente nella remissione di un
debito.
264. Revoca. In deroga al normale principio di irrevocabilità, per alcune ipotesi di donazione valgono
speciali regole che ne disciplinano la revoca. Così, ad esempio, la donazione sub modo è revocabile in caso
di mancata esecuzione del modus. Giustiniano stabilì il principio generale della revocabilità di ogni
donazione per ingratitudine del donatario, ad eccezione delle donazioni remuneratorie, fatte in compenso
di servigi ricevuti, che restarono in ogni caso irrevocabili.
265. La donatio mortis causa. Concetto e struttura. È una figura speciale di donazione, effettuata in vista
della morte del donante, il quale si trova a dover affrontare un imminente pericolo (guerra, viaggio) o
semplicemente pensa di non sopravvivere al donatario. Nelle fonti si trovano documentati due tipi di donatio
mortis causa, sicché è controverso il rapporto cronologico fra di essi nell’evoluzione dell’istituto: o la
donazione ha efficacia solo dopo la premorienza del donante (donazione sotto condizione sospensiva) oppure
ha efficacia immediata, ma il donatario sarà tenuto alla restituzione della liberalità in caso di sopravvivenza
del donante (donazione sotto condizione risolutiva). L’azione concessa al donante per ottenere la restituzione
di quanto donato, in caso di scampato pericolo o di premorienza del donatario, è la condictio. Dal punto di
vista sostanziale, infine, la donatio mortis causa è analoga al legato.
266. La successione universale inter vivos. Il trapasso, in blocco e in dipendenza di un unico atto,
dell’intera e identica situazione giuridica patrimoniale di un soggetto (antecessore) ad un altro (successore),
che i Giustinianei chiamano successio in universum ius, non si verifica solo in dipendenza della morte di un
soggetto (hereditas), ma altresì nei confronti di un soggetto vivente. Si ha, in quest’ultimo caso, la
successione universale tra vivi che, nell’età classica, si verifica nei casi dell’adrogatio e della conventio in
manum, cui si aggiunge, per diritto pretorio, la bonorum venditio. Nel diritto giustinianeo, la successione
universale tra vivi può considerarsi scomparsa.
267. Effetti della successione inter vivos. Nei casi esaminati di successione inter vivos, il successore
(arrogante, pater familias del gruppo in cui la donna conviene in manum) subentra nell’intero patrimonio
dell’antecessore, con esclusione dei diritti intrasmissibili (ad esempio l’usufrutto) nonché dei debiti
dell’antecessore, che si estinguono. Tuttavia, l’intrasmissibilità dei debiti dell’antecessore, non intacca la
natura di successio in ius del rapporto, poiché trova il suo fondamento non in una speciale natura della
successio inter vivos, bensì in un altro e indipendente principio proprio della familia originaria: il principio
per cui il pater familias non risponde mai dei debiti assunti dai suoi sottoposti. L’estinzione dei debiti deriva
poi dal fatto che i creditori del nuovo assoggettato non possono neppure rivolgersi contro di lui, perché
questi, divenuto ormai alieni iuris, non ha più capacità giuridica patrimoniale.
La coscienza sociale più evoluta reputò, però, questo risultato iniquo per il creditore, quindi il pretore
apprestò, attraverso l’Editto, dei rimedi a favore dei creditori: nei casi di capitis deminutio minima (adrogatio
e conventio in manum) il creditore poteva agire contro l’arrogato o contro la donna come se la capitis
deminutio non avesse avuto luogo, e questo oltre la normale responsabilità ex peculio del pater familias.
268. La successione ereditaria. Concetto e fondamento della hereditas. Per successione ereditaria (mortis
causa) si intende quel fenomeno per cui, alla morte di una persona che è soggetto di dritti, uno o più soggetti
(eredi) subentrano, tranne poche limitazioni, nella titolarità dei rapporti patrimoniali attivi e passivi dei quali
la persona morta era titolare. Si trasmettono all’erede tutti i diritti e gli obblighi del suo antecessore, anche
quelli che sarebbero stati intrasferibili a titolo particolare (ad esempio, le obbligazioni). Fanno eccezione
alcuni diritti e rapporti che perciò sono detti intrasmissibili: alcuni rapporti personali di carattere familiare; il
mandato; la società; alcuni diritti di carattere strettamente personale, come l’usufrutto; e dal lato passivo, le
azioni penali.
269. Presupposti della hereditas. Per il verificarsi della successione ereditaria si presuppone: a) la morte del
de cuius (infatti, non può aversi eredità di un vivente); b) la capacità del de cuius di avere eredi; c)
l’esistenza e la capacità del soggetto chiamato all’eredità. Qualora ricorrano tutti questi presupposti, si
richiedono inoltre i seguenti requisiti:
a) che in favore di un determinato soggetto abbia luogo la chiamata a succedere, o delazione;
b) che il chiamato all’eredità manifesti la sua accettazione, o adizione. Questo secondo requisito non si
richiedere, però, per gli heredes sui per gli heredes necessari, i quali succedono ipso iure, cioè
indipendentemente dalla loro volontà, all’atto della delazione.
270. Delazione dell’eredità. Per delazione si intende la chiamata all’eredità, che può avvenire in base a due
diversi titoli e, pertanto, può essere di due tipi:
a) Delazione testamentaria. Ha luogo in base alla istituzione di erede disposta in un valido testamento;
b) Delazione ab intestato. Ha luogo, in caso di mancanza di erede testamentario, a favore di determinate
persone chiamate a succedere dalla legge (delazione legittima, imposta dall’ordinamento giuridico).
Fuori di queste cause di delazione, non ne è ammessa altra. In particolare, non sono ammessi i patti
successori (cioè le convenzioni per cui una parte vorrebbe obbligarsi a istituire erede l’altra parte, o
entrambe le parti vorrebbero obbligarsi ad istituirsi eredi reciprocamente) poiché tali patti, creando un
obbligo, priverebbero il soggetto che esegue il testamento dell’irrinunciabile revocabilità del testamento
stesso fino all’ultimo istante della sua vita. Si parla anche di un terzo tipo di delazione, quella necessaria o
contro il testamento; essa avrebbe luogo quando, pur esistendo un valido testamento, la legge chiama
all’eredità alcuni soggetti, in tutto o in parte diversi da quelli istituiti nel testamento, a tutela di un diritto
all’eredità che la legge riconosce loro in considerazione di speciali rapporti di parentela con il de cuius.
Tuttavia, si tratta sostanzialmente di limiti alla libertà di testare, in favore di alcune persone, che sono
eventualmente chiamate a succedere contro la volontà del testatore; non è, quindi, una terza delazione.
271. Rapporto tra delazione testamentaria e intestata. A contrastanti soluzioni ha dato luogo in dottrina il
problema della priorità cronologica fra le due forme di delazione, ex testamento e ab intestato. Si è andata
affermando come dominante l’opinione che ipotizza una maggiore antichità della delazione ab intestato,
riservata originariamente ai soli discendenti del de cuius; solo successivamente, si sarebbe ammessa la
possibilità di modificare, proprio mediante testamento, questo ordine naturale delle cose.
Comunque sia, è certo che le due delazioni sono, secondo il sistema civile, inconciliabili fra loro: non può
aversi nei confronti di una persona per una parte successione testamentaria e per una parte successione
intestata. In seguito, tuttavia, l’incompatibilità delle due delazioni non fu più considerata dai Romani come
necessità ineluttabile e subì varie e sempre maggiori eccezioni.
272. Alienazione e trasmissione della delazione. Per il carattere strettamente personale della chiamata a
succedere, questa non può essere, di regola, né alienata, nel senso che si ceda ad altri il diritto di accettare un
eredità deferitaci, né trasmessa, nel senso che trapassi al nostro erede il diritto di accettare un’eredità a noi
semplicemente deferita, ma da noi non ancora accettata. Altra cosa è, invece, l’alienazione separata o
complessiva dei singoli beni compresi nell’eredità, anche se non ancora accettata, alienazione che in questo
caso segue la normale sorte dell’alienazione di cosa altrui. Era ammessa, però, un’eccezione all’inalienabilità
della delazione: la in iure cessio hereditatis, che è un’altra applicazione della in iure cessio, con l’effetto,
dal punto di vista formale, di far riconoscere che l’eredità è stata delata non al cedente, ma al cessionario, il
quale può così divenire erede diretto del de cuius. Tale in iure cessio era però ammessa solo se fatta
dall’erede ab intestato e voluntarius, prima dell’accettazione.
Ad ancora più numerose eccezioni diede luogo il principio dell’intrasmissibilità della delazione. Dapprima il
pretore, poi la giurisprudenza e la legislazione imperiale, ammisero il passaggio della delazione agli eredi di
persone che, per varie ragioni, erano giustificate per non aver accettato l’eredità in tempo utile. Al termine di
questa evoluzione, Giustiniano rese possibile in generale, purché entro il termine di un anno, la trasmissione
agli eredi di ogni delazione di eredità non accettata.
273. Acquisto dell’eredità. Acquisto ipso iure e adizione. Quanto all’acquisto dell’eredità, si distinguono
due categorie di eredi: i necessarii da un lato, e gli extranei o voluntarii dall’altro. Sono eredi necessarii il
filius familias che era in potestate alla morte del pater e lo schiavo istituito erede (e manomesso) dal padrone.
Costoro acquistano l’eredità ipso iure all’atto della delazione, non solo senza manifestazione della loro
volontà, ma anche contro di essa, non potendo rifiutare la successione. Questo poteva produrre danno nel
caso di eredità passiva, data la responsabilità illimitata di ogni erede per i debiti del de cuius, danno
aggravato nell’età più antica dall’esecuzione sulla persona del debitore. A tale inconveniente ovviò il pretore
con l’introduzione di due rimedi edittali:
a) al filius familias concesse la facultas abstinendi, per cui egli era considerato estraneo agli effetti
patrimoniali dell’eredità, pur rimanendo civilmente erede. La concessione di tale facultas era però
subordinata dal pretore alla condizione che il filius familias erede non avesse ancora compiuto atti di
gestione dell’eredità (immixtio), a meno che non si trattasse di un minore di 25 anni, nel qual caso gli si
concedeva, attraverso restitutio in integrum, la facultas abstinendi;
b) allo schiavo erede, il pretore concesse il beneficium separationis, per cui lo schiavo poteva tenere
separati, evitando che fossero coinvolti nella responsabilità ereditaria, gli acquisti fatti dal momento della
libertà. Non poteva, però, evitare la bonorum venditio e la conseguente infamia.
Tutti gli altri eredi (extranei) sono voluntarii, nel senso che l’acquisto dell’eredità è subordinato alla loro
volontà di accettarla, mediante adizione.
274. Requisiti per l’adizione. Per la validità dell’adizione, non è sufficiente l’esistenza oggettiva dei
presupposti della delazione stessa, ma si richiede il convincimento soggettivo del chiamato all’eredità circa
l’esistenza e la validità di tali presupposti e circa la propria capacità di accettare validamente. Se il chiamato
è un filius familias o un servo, occorre l’assenso del pater familias o del dominus, dato che a questi si riferirà
in definitiva l’acquisto. L’adizione deve essere pura e semplice, senza termine né condizione. Il chiamato
all’eredità può adire fino alla propria morte, salvo che un termine finale sia stato fissato dal testatore.
275. Forme di adizione. Le forme di accettazione risalenti e ancora vigenti in età classica sono:
a) Cretio. È una forma solenne e orale; se imposta dal testatore, è obbligatoria e deve essere compiuta entro
il termine da lui fissato, che ordinariamente è di 100 giorni. Il testatore poteva comminare espressamente la
diseredazione per il caso in cui il chiamato non compisse la cretio impostagli (cretio perfecta); si ammise,
però, in seguito che il chiamato, sebbene il testatore gli avesse imposto la cretio, potesse adire anche in altra
forma. La cretio, decaduta in età postclassica, fu abolita da Giustiniano.
b) Pro herede gestio. È l’accettazione tacita, mediante il compimento di atti da erede, dai quali si deduce
implicitamente e necessariamente la volontà di accettare.
276. Rinuncia all’eredità. Per la rinuncia di un’eredità non ancora adita non è prescritta alcuna forma
solenne: essa può quindi compiersi con qualunque manifestazione di volontà, espressa o tacita. La rinuncia
non può essere ritrattata, salvo il beneficio della in integrum restitutio per i minori di 25 anni.
Diverso è il caso della semplice non accettazione (silenzio) il cui effetto negativo, salvo il caso della cretio
perfecta, può essere sempre eliminato con l’adizione.
277. Eredità giacente. Concetto e natura giuridica. Nel periodo intercorrente tra la delazione e l’adizione,
l’eredità si dice giacente (hereditas iacet). Le cose ereditarie, durante la giacenza, sono nullius, ma, per la
tutela del diritto del futuro erede, si trovano in una situazione speciale, onde non si applica nella sua
interezza il principio dell’occupabilità delle res nullius; anzi, nell’età del principato, l’occupazione di cose
facenti parte di un’eredità fu considerata criminosa. Si tratta di una situazione giuridica complessiva,
temporaneamente priva di titolare, che, in attesa di essere acquistata da qualcuno, subisce incrementi e
diminuzioni, naturali e giuridici, che sono riservati al futuro erede.
278. Usucapio pro herede. Durante il periodo di giacenza, non si ammette occupazione dell’eredità; se ne
consente, tuttavia, l’acquisto mediante l’usucapio pro herede. È in antico un’applicazione alla hereditas
dell’istituto dell’usucapione assai controversa, poiché con il possesso di una singola cosa appartenente
all’eredità giacente, protratto per un anno, chiunque può acquistare non tanto la proprietà della cosa
posseduta, ma addirittura la qualità stessa di erede e, di conseguenza, tutta l’eredità. Si vuole con ciò
garantire che in ogni caso vi sia un erede, in grado di far fronte ai debiti e anche agli oneri non direttamente
patrimoniali (sacra) connessi all’eredità.
279. Effetti dell’acquisto dell’eredità. Confusione ereditaria e sue conseguenze. Dalla natura giuridica
della successio in locum defuncti, deriva la confusione ereditaria, per cui la situazione giuridica del de
cuius si fonde con quella dell’erede, il quale diviene titolare di un’unica massa indifferenziata di diritti e
obblighi. Primo effetto di tale confusione è l’estinzione di tutti quei rapporti, prima intercorrenti tra de cuius
e erede, i quali presuppongono necessariamente una duplicità di soggetti (ad esempio, le obbligazioni o i
diritti reali su cosa altrui). In secondo luogo, la confusione fa sì che l’erede debba rispondere dei debiti del de
cuius, ora divenuti suoi, eventualmente anche con il proprio patrimonio. Per questo, all’erede fu apprestata
una serie di rimedi, onde ovviare alla responsabilità illimitata, mentre ai creditori del defunto furono concessi
dei mezzi per eliminare l’effetto della confusione ereditaria, separando, ai fini dell’esecuzione patrimoniale,
il patrimonio del defunto da quello dell’erede.
280. Rimedi contro la responsabilità illimitata. Gli heredes sui e gli heredes necessarii, pur non potendo
rifiutare l’eredità, ottengono dal pretore i mezzi per evitare le conseguenze patrimoniali dell’acquisto di
un’eredità passiva. Per gli eredi volontari, resta sempre la possibilità di rinunciare all’eredità; ma i creditori
del defunto, piuttosto che correre il rischio di una rovinosa vendita all’asta del patrimonio ereditario, possono
indurre l’erede ad accettare, venendo ad accordi con lui, per contenere la sua responsabilità ereditaria entro
certi limiti. Mezzi tecnici per questo fine sono:
a) il patto con cui i creditori del de cuius promettono al chiamato che, se accetterà l’eredità, essi si
accontenteranno di una data percentuale dei propri crediti.
b) l’accettazione su mandato dei creditori, consistente in un regolare mandato ad accettare l’eredità, conferito
dai creditori del de cuius al chiamato, con l’intesa che quest’ultimo, una volta divenuto erede, pagherà
soltanto una percentuale dei loro crediti.
Tali espedienti sono sostituiti nel diritto giustinianeo dal beneficium inventarii, concesso indistintamente a
tutti gli eredi che lo desiderino, e obbligatorio per gli eredi sottoposti a tutela. L’erede che voglia limitare la
propria responsabilità per i debiti del de cuius fino all’ammontare del patrimonio ereditario, senza che vi resti
coinvolto cioè il suo patrimonio personale, può ottenere tale scopo iniziando entro 30 giorni dalla notizia
della delazione, e completandolo entro 60 giorni, un inventario dei cespiti ereditari.
281. La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede. Il primo rimedio concesso dal pretore ai
creditori del de cuius, per evitare loro i danni prodotti dalla confusione, è la satisdatio suspecti heredis.
L’heres si ritiene suspectus indipendentemente dal suo atteggiamento doloso, e cioè quando obbiettivamente
le sue condizioni finanziarie (facultates) facciano ragionevolmente temere circa la sua completa solvibilità.
La satisdatio imposta dal pretore consiste, perciò, in una garanzia che l’erede deve prestare.
Ma il rimedio più efficace e definitivo è la separazione dei beni, che ha l’effetto di eliminare, anche se
soltanto dal punto di vista pratico, la confusione tra i due patrimoni. Tale risultato pratico si ottiene
dividendo in due gruppi distinti i creditori del defunto: quelli che hanno chiesto la separazione e gli altri, con
la conseguenza che i primi possono soddisfarsi sul patrimonio proveniente dal de cuius, mentre i secondi
concorrono, insieme ai creditori dell’erede, sul patrimonio che prima della confusione era dell’erede.
282. Difesa dell’eredità. Azioni speciali ed hereditatis petitio. In conseguenza dell’acquisto ereditario e
della relativa confusione, l’erede, divenuto titolare di ogni diritto del de cuius, è legittimato a tutte le azioni
speciali che competevano al de cuius stesso per la tutela di ogni singolo diritto. Ma nel caso che altri, più che
violare singoli diritti dell’erede, leda nel complesso il suo diritto, contestandogli espressamente o tacitamente
la sua qualità di erede, si applica in difesa dell’eredità un’azione unitaria e complessiva, la hereditatis
petitio, che dispensa l’erede della gravosa necessità di intentare tante azioni quanti sono i singoli diritti
compresi nella successione. L’hereditatis petitio mira quindi ad affermare e difendere l’esistenza nell’attore
del titolo di erede, con la conseguente reintegrazione di ogni diritto relativo a tale titolo che sia stato leso. In
origine compete solo all’erede civile, contro chiunque possieda anche un solo bene ereditario, sia che questi
si ritenga o si qualifichi erede (possessor pro herede), sia che non tenti alcuna giustificazione (possessor
pro possessore). Nel diritto giustinianeo, l’hereditatis petitio tende non solo alla restituzione delle cose
ereditarie, ma anche a prestazioni di altro genere (ad esempio, il risarcimento delle cose ereditarie perdute o
distrutte); si trasforma, inoltre, in azione di buona fede. In conseguenza di queste nuove caratteristiche, essa è
definita dai giustinianei non più actio in rem, ma actio mixta, tam in rem quam in personam.
283. Hereditatis petitio utilis. L’azione fu estesa dal pretore in via utilis, per ragioni di equità, ad altre
categorie di attori e contro altre categorie di convenuti. Così furono attivamente legittimati, oltre l’erede
civile, altri successori tra cui il fedecommissario universale e, passivamente, anche colui al quale il
possessore illegittimo avesse alienato in blocco o costituito in dote l’eredità della quale, in realtà, non aveva
il diritto di disporre.
284. Coeredità. Il fatto che più eredi acquistino l’eredità dallo stesso de cuius determina fra loro la stessa
situazione di collegialità del condominio. Ciascuno dei coeredi è, potenzialmente, erede per l’intero, ma, per
l’urto reciproco di due o più diritti egualmente illimitati sull’intero oggetto, il diritto di ciascun coerede è
praticamente limitato a una quota astratta, espressa da una frazione che ha per denominatore il numero
totale dei coeredi. L’intero patrimonio del de cuius costituisce l’asse ereditario (divisibile per quote). Nella
successione testamentaria, la ripartizione delle quote, anziché in misura eguale, può essere disposta in misura
diseguale dal testatore.
285. Consortium ercto non cito. La coeredità si risolve mediante la materiale divisione dell’asse ereditario
fra i coeredi in ragione delle loro quote. Ma nella più antica età di Roma, tale divisione era sconosciuta: alla
morte del pater familias, gli heredes sui, che a lui succedevano per testamento o ab intestato, restavano uniti
in una societas inseparabilis, che non sorgeva consensu come la società contrattuale, ma re, cioè
necessariamente per effetto della comune successione nello stesso asse. Caratteristica di tale consorzio era
che anche uno solo dei coeredi poteva validamente disporre dei beni ereditari comuni.
286. Divisione volontaria dell’eredità. In età storica, lo stato di coeredità cessa mediante la divisione, che
ha per effetto quello di creare tanti eredi solitari, ciascuno su una parte dell’asse, quanti erano i coeredi. Tale
effetto può raggiungersi per accordo (pactum), che però avrebbe solo un’efficacia obbligatoria. I coeredi,
quindi, per ottenere effetti reali, mettevano in opera di comune accordo un complesso sistema di reciproci
trasferimenti parziali dell’asse ereditario.
287. Divisione giudiziale dell’eredità. Si attua mediante l’actio familiae erciscundae, per iniziativa di uno
qualunque dei coeredi. Il iudicium è detto in età classica duplex, nel senso che ogni coerede è al tempo
stesso attore e convenuto e si formano tante coppie di parti in lite quante sono le coppie dei coeredi presi a 2
a 2.
La relativa formula conteneva l’adiudicatio, onde il giudice, formate le quote e liquidati i reciproci rapporti
fra i coeredi per i frutti, le spese e le obbligazioni, procedeva alla aggiudicazione delle quote e, dove
necessario, alla costituzione di nuovi diritti fra le parti in lite.
288. Diritto di accrescimento. Dalla natura collegiale della coeredità deriva il diritto di accrescimento (ius
adcrescendi), in forza del quale, se uno dei coeredi non può o non vuole accettare la sua quota ereditaria,
questa si accresce proporzionalmente alle quote degli altri coeredi. Presupposto per l’applicazione del ius
adcrescendi è il non acquisto di una quota, non il suo abbandono, essendo questo inammissibile nella
coeredità per il carattere definitivo della qualifica di erede.
289. Accrescimento nella successione testamentaria. Il normale funzionamento del ius adcrescendi può
essere modificato nella successione testamentaria dalla volontà del testatore. Ad esempio, il testatore può
raggruppare i coeredi in modo vario mediante la chiamata congiuntiva, sicché ad ogni gruppo corrisponda
una quota, con la conseguenza che il mancato acquisto di un erede si accresce solo a quello o a quelli che
sono a lui congiunti entro la stessa quota, con esclusione degli altri: nell’esempio dei coeredi A, B e C, di cui
solo B e C siano coniuncti, la quota vacante di B si accresce solo a C e viceversa, restando sempre escluso A.
La coniunctio è distinta dagli interpreti in 3 sottospecie: re et verbis, se i coniuncti sono chiamati alla stessa
quota e nella medesima frase del testamento; re tantum, se i coniuncti sono chiamati alla stessa quota ma in
due disposizioni separate; verbis tantum, se i coniuncti sono chiamati all’eredità nella medesima frase ma a
quote distinte. Giustiniano mantenne in vigore il principio per cui chi acquista per accrescimento una quota
altrui sopporta non solo gli oneri ereditari generali in proporzione accresciuta dalla nuova quota, ma anche
quegli oneri che dal testatore erano stati imposti nominativamente all’erede la cui quota è stata acquistata.
290. La collazione. Per collazione si intende genericamente il conferimento di beni da parte di un coerede,
nei confronti degli altri coeredi, allo scopo di poter prendere parte alla divisione dell’eredità. La collatio fu
introdotta dal pretore e sfociò, a partire dall’epoca postclassica, nella più generale collatio descendentium.
291. Evoluzione storica della collazione. L’istituto della collazione sorse dall’editto pretorio, il quale,
chiamando alla successione contra tabulas del pater familias anche i figli emancipati, obbligò costoro (se
volevano partecipare alla divisione dell’eredità paterna) a conferire ai sui heredes, cioè ai fratelli rimasti in
potestate, gli acquisti fatti dopo l’emancipazione (collatio bonorum). Il fondamento di equità dell’istituto sta
nel fatto che i coeredi non emancipati avevano continuato ad acquistare al pater fino alla sua morte, sicché
l’asse ereditario comprendeva gli acquisti fatti dai coeredi non emancipati, cui avrebbero partecipato gli
emancipati, mentre non comprendeva gli acquisti dei coeredi emancipati, i quali acquisti sarebbero così
rimasti fuori dalla divisione.
Nell’età postclassica sorse il più generale istituto della collatio descendentium, definitivamente disciplinato
nel sistema del diritto giustinianeo. Secondo tale regime fra coeredi discendenti del de cuius corre l’obbligo
giuridico di conferire alla massa ereditaria, prima della divisione, tutti gli acquisti ricevuti dal de cuius in
vita. La collazione può farsi in natura, cioè apportando alla massa ereditaria la somma o il bene ricevuto
affinché siano ripartiti tra tutti gli eredi, oppure per imputazione, cioè deducendo dalla propria quota il
valore della liberalità ricevuta.
292. La bonorum possessio. La bonorum possessio è un istituto del ius honorarium, per cui il pretore
attribuisce a un soggetto che ne abbia fatto richiesta e che abbia le qualità determinate nell’Editto pretorio,
non solo il possesso dei singoli beni ereditari, ma anche il godimento di fatto della situazione di erede,
indipendentemente dal diritto che il richiedente possa avere all’eredità, secondo il ius civile. Poiché il pretore
non può conferire il titolo di heres, si verifica in ogni caso la contemporanea esistenza (nella medesima
persona o in due persone diverse) di due indipendenti qualità: heres e bonorum possessor. Tale fenomeno è
più evidente nel caso che le due qualità non coincidano nella medesima persona: avremo allora da un canto
un heres, fornito del titolo civile, ma in realtà privo di tutte le attribuzioni patrimoniali che sarebbero inerenti
al suo titolo e, dall’altro lato, un bonorum possessor, privo del titolo di erede, ma tutelato dal pretore nei
confronti dei terzi e dello stesso heres, nel godimento di tali attribuzioni. Si può quindi dire che,
parallelamente al sistema del ius civile della hereditas, la bonorum possessio costituisce una autonomo
sistema di successione, che potrebbe essere indicato con il nome di successione pretoria.
293. Specie di bonorum possessio. Dal punto di vista dogmatico, si distinguono una bonorum possessio
edictalis, competente in base a qualità soggettive e presupposti oggettivi predeterminati nell’Editto, da una
bonorum possessio decretalis, concessa mediante decretum, in base all’opportunità riscontrata caso per
caso, in ipotesi diverse.
Quanto poi alle ipotesi generali in cui la bonorum possessio può essere concessa, si distinguono:
a) la bonorum possessio secundum tabulas, attribuita a chi è istituito erede nelle tabulae testamenti che
siano conformi a requisiti fissati dal pretore, indipendentemente dal fatto che tali tabulae presentino oppure
no i requisiti di un testamento valido secondo il ius civile. (si sovrappone alla hereditas ex testamento).
b) la bonorum possessio sine tabulis o ab intestato, concessa (in mancanza di un legittimato alla bonorum
possessio secundum tabulas, o nel caso in cui il legittimato non ne faccia richiesta) a un soggetto che
appartenga ad una delle categorie a tal fine prestabilite dall’Editto. (si sovrappone alla hereditas ab intestato).
c) la bonorum possessio contra tabulas, concessa a persona non contemplata o diseredata nel testamento
civile, ma meritevole, secondo l’Editto, di venire alla successione del testatore anche contro la volontà di
quest’ultimo. Tale bonorum possessio realizza la successione necessaria o contro testamento.
294. Evoluzione storica dell’istituto. La bonorum possessio sorse in funzione dell’esercizio di una
hereditatis petitio. Qualora i ruoli dei due contendenti non fossero chiari (perché, ad esempio, ciascuno
possedeva una parte dei beni ereditari) il pretore assegnava il possesso a uno di essi, consentendogli così di
assumere la posizione di convenuto. Tale concessione era però interinale, poiché i beni dovevano essere
restituiti, in caso di soccombenza, alla controparte: la bonorum possessio era quindi necessariamente sine re.
Successivamente, sganciatosi da tale funzione processuale, l’istituto assunse funzione autonoma, servendo a
produrre un rafforzamento della posizione dell’erede civile, cui apprestava altre e più spedite difese, oppure a
tutelare la posizione di chi, in base alle nuove concezioni sociali, fosse ritenuto preferibile all’heres. Il vero è
che ormai la bonorum possessio prevalse nettamente, nella coscienza sociale e nella quotidiana applicazione,
rispetto alla hereditas, della quale modificò pian piano i più antiquati principi. Nel diritto giustinianeo i due
sistemi appaiono definitivamente e esplicitamente fusi in uno solo, con la naturale prevalenza dei principi e
degli effetti elaborati dai classici per la bonorum possessio.
295. Singole cause della delazione ereditaria. La delazione testamentaria. Il concetto di testamento . Sin
dall’età più antica, il diritto romano riconobbe al soggetto la possibilità di stabilire, attraverso uno speciale
atto denominato testamentum, quale sorte dovesse avere il proprio patrimonium in caso di morte. Il
testamento, tuttavia, ebbe sempre carattere di negozio giuridico unilaterale, formale, mortis causa, ed
essenzialmente revocabile da parte del testatore fino al momento della sua morte. Attraverso il testamento, il
testatore poteva sia designare un soggetto che gli succedesse nel complesso dei rapporti dei quali egli era
titolare (heres, i Romani parlavano in questo caso di successio in ius), sia stabilire disposizioni particolari,
come ad esempio legati o manomissioni. Tali disposizioni particolari furono però considerate a lungo
subordinate e dipendenti rispetto all’istituzione di erede, essendo anche considerate valide solo se il
testamento contenesse una valida istituzione di erede.
296. Testamenti factio attiva. La testamenti factio attiva è la capacità di fare testamento, ed è considerata
una delle più notevoli prerogative dei cives romani. Il requisito della cittadinanza presuppone quello della
libertà; ma la libertà non è sufficiente, poiché si richiede ancora uno status familiae idoneo: gli alieni iuris
non hanno testamenti factio attiva e in antico essa non era riconosciuta alle donne, per una preoccupazione di
tutela delle aspettative ereditarie degli adgnati. Malgrado l’esistenza dei tre status, il soggetto sui iuris poteva
essere privo di testamenti factio attiva per una di quelle cause che limitano la capacità di agire, ma che in
questo caso valgono, dato il carattere essenzialmente personale del testamento, come altrettante cause
limitanti la capacità giuridica. Così, sono esclusi dalla testamenti factio il pupillo, anche se assisto dal tutore;
il furiosus; il prodigo; il sordomuto. Quest’ultima incapacità, derivante dall’oralità delle forme testamentarie
nell’età classica, fu abolita nell’età giustinianea grazie alla forma scritta del testamento. Quanto alla donna
sui iuris, cadute le antiche forme, la giurisprudenza suggerì un espediente che la rendesse capace di testare.

Allo scopo, occorreva che la donna sui iuris si liberasse dei vincoli agnatizi originari mediante coemptio
fiduciaria, fatta con il consenso del suo tutore. Attraverso la coemptio, la donna subiva una capitis deminutio
e si sottraeva così al legame agnatizio e alla tutela attuale. Remancipata dal coemptionator, e manomessa da
colui che la riceveva in mancipio, tornava sui iuris, sottoposta non più al tutore originario, ma al
manomittente, divenutone tutor fiduciarius, con la cui assistenza poteva ora compiere il testamento nella
forma liberale. Questa regola fu abolita da Adriano, che autorizzò la donna a testare con l’auctoritas del
tutore, pur restando nella famiglia agnatizia e sotto la tutela originaria.
Non è sufficiente per la validità del testamento che la testamenti factio attiva esista nel momento in cui si
compie l’atto, ma occorre che il testatore la conservi ininterrottamente fino alla morte.
297. Testamenti factio passiva. Era, in origine, la capacità di essere istituiti eredi in un testamento, ma, con
l’ampliarsi del contenuto del testamento stesso, divenne la capacità di essere contemplati in esso a qualsiasi
titolo. Per essere istituiti eredi non occorre lo status libertatis: se il testatore istituisce erede uno schiavo
altrui, lo schiavo potrà accettare, ma solo con il iussus del suo padrone; se il testatore istituisce erede un
proprio servo, deve, nel testamento stesso, manometterlo, poiché senza la manomissione l’istituzione sarebbe
nulla. Giustiniano, tuttavia, volle che la manomissione si considerasse implicita in ogni istituzione ad erede
di schiavo proprio del testatore. Quanto allo status civitatis, sono incapaci i peregrini fino alla costituzione di
Caracalla. In particolare, poi, non hanno testamenti factio passiva:
a) le personae incertae, cioè quelle della cui identità il testatore non ha una precisa rappresentazione (ad
esempio “sarà erede il primo che verrà al mio funerale”);
b) i postumi, cioè le persone nate dopo la morte del testatore. Il principio della loro generale incapacità subì
però successive e sempre più gravi eccezioni, a favore di varie categorie di discendenti del testatore.
La testamenti factio passiva si richiede in tre momenti: della confezione del testamento, della morte del
testatore e dell’accettazione dell’eredità.
298. Capacitas. Alcune categorie di persone, pur essendo dotate di testamenti factio passiva, e quindi pur
potendo essere validamente contemplate in un testamento, non possono in concreto acquistare l’eredità o il
lascito disposti in loro favore perché colpite da particolari divieti posti da leggi speciali. Si parla allora in
senso tecnico di mancanza di capacitas. Queste leggi speciali vietano di capere:
a) ai celibi, vedovi, divorziati, a meno che non contraessero matrimonio entro 100 giorni (due anni per le
vedove e un anno e mezzo per le divorziate);
b) agli orbi, cioè ai coniugi senza figli, per metà della quota loro attribuita;
c) al pater solitarius (vedovo con figli), in una misura non nota.
Le quote o i lasciti rimasti in tal modo vacanti furono detti caduca e spettavano ai coeredi che fossero
ascendenti e discendenti del testatore fino al terzo grado; in mancanza, alle altre persone contemplate nel
testamento, che fossero in regola con le disposizioni delle leggi speciali. Il regime dei caduca fu abolito da
Giustiniano, in armonia la repulsione delle seconde nozze che anima la legislazione cristiana.
299. Indegnità. L’indegnità dà luogo a una terza figura d’incapacità a ricevere per testamento. L’indegno ha
la testamenti factio passiva, quindi può essere contemplato in un testamento; ha la capacitas, e quindi può
acquistare l’eredità o il lascito; ma non può ritenere l’acquisto fatto, che quindi è ereptum, cioè portato via
dal fisco. L’indegnità ha effetto anche per la successione ab intestato, ma non toglie la qualità di erede, né gli
effetti della confusione ereditaria.
La serie dei casi di indegnità è tanto numerosa quanto incerta: alcuni si riferiscono a gravissime offese
arrecate dall’indegno al de cuius, come l’uccisione, o l’attentato alla vita, dell’ereditando, oppure il non aver
perseguito giuridicamente i responsabili della morte, oppure ancora la gravi accuse mosse al de cuius o alla
sua memoria. Altri casi d’indegnità fungono da sanzione per determinati atti illeciti, specialmente per la
contrazione di unioni sessuali vietate e per il compimento di atti in frode alla legge.
300. Forme di testamento. A) Forme più antiche. Due sono le forme di testamento note all’età romana più
antica, e richiedono entrambe l’intervento di tutto il popolo della civitas. La prima (testamentum calatis
comitiis) consisteva nella designazione solenne dell’erede fatta dinanzi ai comizi curiati, che si riunivano
due volte l’anno nel Foro.
La seconda (testamentum in procinctu) consisteva nell’eguale dichiarazione fatta, fuori di quei giorni
stabiliti, dinanzi all’esercito schierato in armi (esercito che altro non è se non la stessa assemblea popolare
nel suo assetto bellico). È discusso se il comizio si limitasse a prendere atto della designazione o se questa
dovesse anche essere approvata dal comizio stesso; è preferibile la prima soluzione.
B) Forme preclassiche e classiche. Chi, preso alla sprovvista dagli eventi, avesse necessità di testare fuori
delle epoche stabilite per l’adunanza dei comizi e non potesse neppure testare in procinctu ricorreva a uno
speciale atto, suggerito dalla giurisprudenza, detto mancipatio familiae. Esso consisteva in una particolare
applicazione della mancipatio: il pater familias mancipava la sua familia (nel senso antico di patrimonio) a
una persona di sua fiducia (familiae emptor), la quale era considerata heredis loco e acquistava inter vivos
uno speciale potere che la consentiva di ritrasferire a suo tempo i singoli oggetti costituenti il patrimonio, alle
persone designate dall’autore dell’atto. Successivamente, allo scopo di rendere possibile la diretta
attribuzione della familia all’heres, la giurisprudenza suggerì di utilizzare la mancipatio solo come
espediente formale per giustificare una nuncupatio del testatore (cioè una solenne dichiarazione accessoria
della mancipatio, ammessa ab antiquo per specificarne o eliminarne gli effetti). Ne derivò una
trasformazione di struttura, che diede vita alla normale forma di testamento del ius civile, denominata
testamentum per aes et libram, che soppiantò del tutto le due primitive forme pubbliche: il familae emptor
e il libripens assunsero la funzione di testimoni che, uniti ai 5 della mancipatio, completarono il numero di 7
testimoni. In prosieguo di tempo, la complessità delle disposizioni e l’esigenza della segretezza del
contenuto, fecero sorgere, accanto a questa forma orale, un’altra forma mista in cui il testatore, dopo aver
manifestato la sua volontà servendosi di tavolette, dopo averle legate con un linum e fatte sigillare dai 7
testimoni, aggiungeva la forma orale della mancipatio e della nuncupatio testamenti con la quale però non
rendeva più note le sue volontà, ma si limitava a confermare solennemente il contenuto delle tavolette. Si
noti bene però che la validità del testamento derivava sempre dalla nuncupatio orale, mentre le tavolette
avevano efficacia meramente probatoria del contenuto, ma da sole non costituivano testamento. Pertanto, la
comune coscienza cominciò a ravvisare nel testamento munito dei sigilli dei 7 testimoni una forma
autonoma, tutelata dal pretore, e perciò chiamata in dottrina testamento pretorio.
C) Forme postclassiche. Nell’età postclassica si ha, da un canto, la decadenza della forma solenne civile e,
dall’altro, la fusione dei duplici effetti (civili-pretorii) in un concetto unitario di testamento, che può farsi,
indifferentemente e con eguale efficacia, in forma orale o in forma scritta (forme private). Sono introdotte
anche forme pubbliche, cioè con il concorso di pubblici ufficiali o dell’imperatore stesso.
D) Forme giustinianee. Si distinguono anzitutto le forme private dalle forme pubbliche. Le forme private
sono orali o scritte: la forma orale si compie mediante dichiarazione fatta dal testatore alla presenza di 7
testimoni; la forma scritta può essere olografa, cioè interamente scritta e sottoscritta dal testatore, oppure
allografa, cioè dettata dal testatore e da lui sottoscritta. La forma scritta è chiamata da Giustiniano
testamentum tripertitum, poiché trae i principi regolatori da tre diversi regimi (ius civile, diritto pretorio e
costituzioni imperiali). Le forme pubbliche consistono nella trascrizione del testamento in pubblici registri
tenuti dai magistrati provinciali o cittadini, oppure depositando il testamento presso la cancelleria imperiale.
E) Forme speciali. Consistono nell’aggiunta di un ottavo testimone per il cieco e l’analfabeta; nella
riduzione a 5 dei testimoni quando il testamento sia redatto in campagna.
305. Il testamentum militis. Con una serie di mandata imperiali fu concesso ai militari un ius singulare,
che li dispensava dall’osservanza delle forme testamentarie stabilite per i borghesi. Essi potevano quindi
testare nelle forme più varie, che normalmente rispecchiavano quelle dei paesi di origine, essendo ormai
l’esercito formato in gran parte da stranieri. Da questa esenzione dalle regole di forma, si passò ben presto,
per estensione consuetudinaria, alla più grava esenzione anche delle regole di sostanza, sicché il militare fu
dispensato dall’osservanza di tutti i principi, anche se fondamentali, relativi al diritto ereditario comune. Il
fondamento di una simile dispensa mutò nel diritto giustinianeo, poiché poterono usufruirne da un canto i
militari non in quanto tali, ma solo in quanto impegnati in zone d’operazioni e, dall’altro lato, anche i
borghesi che fossero al seguito delle truppe operanti. Più che una forma straordinaria di testamento, il
testamentum militis costituisce quindi un diritto testamentario singolare.
306. Contenuto del testamento. A) Institutio heredis. L’istituzione di erede è il contenuto necessario e
sufficiente di ogni testamento. Essa deve essere fatta dall’inizio del testamento e la validità e l’efficacia di
tutte le altre disposizioni eventualmente contenute dipendono da quelle dell’istituzione di erede. L’institutio
heredis richiede una forma solenne e imperativa (“ordino che Tizio sia erede”). Tuttavia, la giurisprudenza
scalzò direttamente, o per tramite dell’Editto pretorio e della cancelleria imperiale, la saldezza di questi
antichi principi. Quanto alla forma, fu ammesso l’uso di altre parole equipollenti e l’uso di espressioni
ellittiche, fino al caso estremo di una sola parola; quanto alla sostanza, si pervenne a mantenere la pratica
efficacia delle altre disposizioni testamentarie contenute in un testamento anche quando la heredis institutio
fosse invalida o inefficace. Fu ammesso, infine, che il testatore potesse riservarsi espressamente d’indicare il
nome dell’erede in un separato documento.
La disposizione contraria all’istituzione di erede è la diseredazione (exheredatio), richiesta talvolta sotto
pena di nullità del testamento: infatti, quando il testatore vuole istituire soltanto alcuni dei sui heredes (cioè
dei suoi discendenti in potestate) è tenuto a diseredare espressamente tutti gli altri.
B) Istituzione di coeredi. Il testatore può istituire più di un erede, separatamente o congiuntamente, dando
così luogo alla coeredità testamentaria.
C) Institutio “excepta re” ed “ex certa re”. Se il testatore ha disposto che dalla successione dell’erede sia
detratta una certa res (res excepta) o, al contrario, che la successione abbia luogo in una res determinata
(certa res), l’istituzione è iure civili nulla, poiché contrasta con la natura universale della successione
ereditaria. Ma poiché tale nullità faceva cadere l’intero testamento, la giurisprudenza ammise che si dovesse
ritenere valida l’istituzione, considerando come non apposta la limitazione alla res certa, sicché l’erede si
riteneva successore nell’intero patrimonio ereditario. Con ciò si salvava il testamento, anche se non si
rispettava esattamente la volontà del testatore. Giustiniano risolse radicalmente il problema, considerando
l’istituzione ex certa re come un prelegato.
D) Sostituzione volgare. Il testatore, prevedendo il caso che l’erede istituito non voglia o non possa
acquistare l’eredità, può sostituirgli un secondo erede, il quale sarà chiamato solo se si verifichi la condizione
della mancanza dell’istituto. Salvo casi eccezionali, istituito e sostituto non possono quindi compartecipare
alla successione. Il sostituto si considera come erede diretto del testatore: non doveva quindi, in origine,
sopportare i pesi di cui il testatore aveva gravato espressamente il primo istituito. Tuttavia, posteriormente,
fu stabilito che il sostituto dovesse prestare anche i legati disposti a carico dell’istituito, salva la prova della
contraria volontà del testatore. Questo tipo di sostituzione, in quanto era quello più frequente, fu detto dagli
interpreti vulgaris.
E) Sostituzione pupillare. Il testatore che ha istituito il proprio figlio in potestate impubere, prevedendo il
caso che questi muoia prima di aver raggiunto la pubertà (e cioè prima di poter a sua volta testare), gli
nomina un sostituto, detto in dottrina pupillare. Diversamente dalla sostituzione volgare, si verificano qui
due trapassi ereditari: il primo dal pater al filius impubere e il secondo dal figlio impubere al sostituto.
Quest’ultimo subentra quindi nella situazione giuridica del pupillo, la quale a sua volta, per l’avvenuta
confusione, comprende anche quella del testatore. La sostituzione pupillare (detta anche secundae tabulae,
perché solitamente disposta in un testamento separato) trova il suo fondamento nella patria potestas, che si
proietta oltre la vita del pater familias, ed è quindi condizionata all’esistenza di tale potestà. La finalità
dell’istituto consiste nell’evitare che, morendo il figlio nell’impossibilità di testare, la successione sia deferita
agli eredi legittimi. Lo stesso istituto, applicato al caso del figlio muto o infermo di mente, prende il nome di
sostituzione quasi pupillare.
F) Sostituzione fedecommissaria. Affermatosi l’istituto del fedecommesso, la giurisprudenza ammise che il
pater familias, nell’istituire l’erede, potesse aggiungere la preghiera (rogatio) che questi, alla sua morte,
trasmettesse l’eredità a una persona da lui designata.
314. Apertura del testamento. Per i testamenti privati segreti, la legislazione imperiale dettò una serie di
disposizioni, variabili coi tempi, che ne disciplinavano l’apertura. Tali disposizioni, assai minuziose, relative
ai termini, alle materiali modalità e ai testimoni, avevano la duplice funzione di garantire l’autenticità del
testamento e del suo contenuto e di assicurare al fisco la percezione dell’imposta successoria.
315. Invalidità e inefficacia del testamento. Le ipotesi in cui il testamento non raggiunge il suo effetto,
sicché si fa luogo alla successione legittima, hanno, dal punto di vista giuridico, natura e conseguenze
diverse. Un primo caso è quello del testamento nullo sin dall’inizio, secondo il ius civile, o per mancanza
iniziale di testamenti factio attiva, o per difetto di forma, oppure per violazione di norme sostanziali nel
contenuto del testamento. Un secondo caso è quello di un testamento perfettamente valido all’atto della sua
confezione, ma divenuto successivamente invalido per cause sopravvenute (ad esempio, la successiva perdita
della testamenti factio attiva). Un terzo caso è poi quello di un testamento che, pur essendo valido per il ius
civile, può essere attaccato o con effetti civili o, più generalmente, da parte del diritto pretorio, come avviene
quando la volontà del testatore sia stata viziata da dolo, violenza o errore: si ha, in questi casi, l’annullabilità
del testamento. Lo stesso effetto si consegue, sebbene il testamento resti formalmente in piedi, quando il
pretore concede la bonorum possessio contra tabulas, al fine di tutelare la posizione dei cognati.
Si può parlare, infine, di semplice inefficacia nel caso di un testamento che, pur essendo perfettamente
valido, non produce praticamente effetti perché l’erede in esso istituito non accetta. L’invalidità può colpire
l’intero testamento (invalidità totale) o le singole disposizioni in esso contenute (invalidità parziale).
316. Revoca del testamento. Poiché il testamento è un atto revocabile, il testatore può fino all’ultimo istante
di vita mutare la sua volontà. Secondo il ius civile, la revoca può effettuarsi solo mediante un testamento
posteriore perfetto, con la conseguenza che il testamento successivo revoca sempre e in toto il precedente,
anche se non contenga disposizioni incompatibili con quelle contenute nel primo. Anche questi principi,
però, subirono progressive eccezioni da parte della giurisprudenza, del pretore e degli imperatori: si ammise,
infatti, che il testamento successivo non revocasse necessariamente tutte le disposizioni del precedente, ma
soltanto quelle che fossero incompatibili con le nuove disposizioni, sicché le varie disposizioni compatibili
fra loro, dettate dal testatore in due testamenti successivi, si integravano a vicenda. Nella compilazione
giustinianea, pur conservandosi per tradizione la menzione dell’antica regola in materia di revoca del
testamento, si può riconoscere come vigente il principio opposto, della revocabilità del testamento mediante
una serie di atti chiaramente indicativi di una mutata volontà.
317. I codicilli. Questo istituto trasse origine dalla consuetudine, generalizzatasi alla fine della Repubblica,
di redigere, in aggiunta al proprio testamento, un documento separato, in cui si fissavano altre disposizioni
che non potevano trovar posto opportunamente nel testamento. A questi documenti (codicilli, cioè piccoli
codices) fu dato per la prima volta riconoscimento da Augusto. La tutela giudiziaria dei codicilli si
realizzava, conformemente alla natura del riconoscimento imperiale, attraverso la cognitio extra ordinem.
Nell’età classica si distinguono, così, i codicilli testamentari dai codicilli ab intestato, in mancanza di
testamento. Quanto ai requisiti, si richiede anche per il codicillo la testamenti factio attiva, ma non
l’osservanza di forme prescritte: è sufficiente la sola volontà del disponente, con qualunque mezzo
manifestata. In età postclassica i due istituti tendono ad avvicinarsi fino a confondersi. Da un lato, infatti, si
attenua il formalismo dei testamenti, mentre si estendono al codicillo, per garantirne l’autenticità, alcuni
requisiti di forma (principalmente, la presenza di testimoni); dall’altro lato, scompare l’importante differenza
della tutela processuale, dato che ormai tutti i giudizi sono extra ordinem. Ecco spiegato, quindi, come
Teodosio possa ritenere che il medesimo atto possa farsi valere come codicillo o come testamento per
semplice scelta dell’interessato.
318. La delazione legittima. Il sistema di successione ab intestato nelle XII Tavole. Quando, per
mancanza o invalidità del testamento, non può aver luogo la successione testamentaria, si apre la delazione
ab intestato in favore dei più prossimi parenti del de cuius. Le XII Tavole dispongono in proposito tre
ordines di chiamati: sui, adgnati e gentiles. I sui sono i discendenti in potestate e le donne conventae in
manum; essi succedono tutti in parti eguali, indipendentemente dal grado di parentela col de cuius, ma
succedono per stirpes anziché per capita: ciò significa che si formano tante quote ereditarie quante sono le
linee collaterali discendenti dal de cuius. La successione degli adgnati avviene invece per capita; il più
prossimo esclude tutti quelli di grado successivo. La successione dei gentiles si attua a favore di tutti i patres
familias appartenenti alla stessa gens del de cuius.

A tutti e 3 i casi si applica il principio secondo il quale, se il chiamato non acquista l’eredità, non si passa alla
chiamata del parente di grado immediatamente successivo, né si passa ai parenti dell’ordine seguente, ma
l’eredità rimane vacante.
319. Il sistema dell’Editto ai fini della bonorum possessio. Con la progressiva valorizzazione della
cognatio, apparvero iniqui l’esclusione dei figli emancipati e il nessun riconoscimento dell’aspirazione
all’eredità degli altri cognati (parenti in linea femminile) e quella del coniuge superstite. Pertanto il pretore
stabilì un ordine, secondo il quale, in mancanza di testamento, avrebbe concesso la bonorum possessio. Le
categorie dei chiamati sono 4:
1) I figli, sia quelli in potestate, sia gli emancipati. In caso di concorso fra due gruppi di figli si ha collazione.
2) I legitimi, vale a dire gli eredi già chiamati dalle XII Tavole (questa categoria si riduce ai soli adgnati).
3) I cognati, cioè tutti i parenti di sangue, che non siano anche adgnati, in ordine di prossimità.
4) Il coniuge superstite di un matrimonio sine manu.
In contrasto con il sistema civile, il pretore ammise il successivo passaggio della chiamata da un ordine
all’altro e da un grado all’altro (successio ordinum et graduum).
320. Riforme dell’età imperiale. Queste riforme tesero a tutelare in modo più efficace l’aspettativa dei
cognati all’eredità. Il caso principale da rivedere era quello della successione tra madre e figlio, esclusa del
tutto dal sistema civile qualora il figlio fosse nato da un matrimonio sine manu e quindi non fosse agnato
della propria madre, ammessa nel sistema pretorio, ma solo nella categoria dei cognati, cioè dopo quella
degli adgnati. Un senatoconsulto dell’età di Adriano, chiamò la madre alla hereditas del figlio subito dopo i
sui, il padre e i fratelli, ma a preferenza degli altri adgnati.
321. Il sistema giustinianeo. La successione ab intestato fu oggetto di assidue cure da parte di Giustiniano e
da lui definitivamente sistemata con due Novellae (118 e 127). L’ordine di chiamata, fondato sulla parentela
di sangue, è il seguente:
1) I discendenti (in linea maschile e femminile). Se i discendenti appartengono tutti a una stessa stirpe, il
discendente più prossimo esclude i successivi. Se, invece, i discendenti appartengono a più stirpi, allora si
formano tante quote ereditarie quante sono le stirpi ed entro ogni stirpe il discendente più prossimo al de
cuius esclude i successivi (successione per stirpes). La quote spettanti alle varie stirpes non sono
comunicabili fra loro, sicché se il capo di una stirpe è già morto al momento dell’apertura della successione,
la quota spettante alla sua stirpe non si accrescerà a quella dei pari grado delle altre stirpi, ma sarà devoluta ai
discendenti del capo stirpe premorto, che sono chiamati in sua rappresentazione.
2) Gli ascendenti (paterni e materni) in ordine di grado.
3) Fratelli e sorelle unilaterali (aventi cioè in comune solo uno dei genitori), per capi.
4) Altri collaterali, per capi, in ordine di grado.
Nel silenzio delle Novellae 118 e 127, bisogna ritenere che sopravviva, in mancanza di altri parenti, la
successione del coniuge superstite.
322. La successione contro il testamento o necessaria. Nel diritto moderno, il concetto di successione
contro il testamento, consiste nel fatto che alcuni congiunti del de cuius, in considerazione dello stretto
vincolo di parentela, debbono necessariamente succedergli, anche contro la sua volontà. Nel disporre per
testamento, il de cuius ha quindi l’obbligo di riservare loro una quota (quota legittima) dell’eredità; se egli
viola quest’obbligo, interviene la legge, riducendo le disposizioni testamentarie nella misura necessaria a far
salva la quota dei legittimari. A questo regime il diritto romano pervenne solo per gradi, attraverso una lunga
evoluzione storica di questo istituto.
323. Successione necessaria formale. Il ius civile non riconosce alcuna successione necessaria dei congiunti
come tali, poiché nella successione intestata esso non riconosce il vincolo di parentela se non in quanto
coincide con l’adgnatio, mentre nella successione testamentaria nessun limite è concepibile alla libera e
sovrana volontà del testatore. L’unica garanzia concessa dal ius civile ai sui in quanto tali, sta nell’obbligo
del testatore di non ometterne la menzione: egli è tenuto, quindi, ad istituirli oppure a diseredarli. Tale
prerogativa dei sui dà luogo, quindi, a una successione necessaria meramente formale, poiché il suus non ha
diritto alla successione, ma ha solo il diritto di essere contemplato nel testamento.
324. Intervento pretorio. Bonorum possessio contra tabulas. La preterizione del figlio emancipato non
rende civilmente nullo il testamento. All’emancipato preterito, però, il pretore concede una bonorum
possessio, che è contra tabulas, al fine di tutelare l’aspettativa ereditaria fondata sulla cognazione. Il
testamento resta iure civili valido, ma è reso inefficace iure pretorio, o totalmente, se gli eredi istituiti sono
estranei, o parzialmente, se gli eredi istituiti sono anch’essi cognati di pari grado del preterito.
La bonorum possessio contra tabulas fu usata anche per attuare la successione contro il testamento fra
patrono e liberto, con l’aggiunta a favore del patrono di due azioni per rescindere le alienazioni fatte in vita
dal liberto per frodare l’aspettativa del patrono alla sua eredità.
325. Successione necessaria sostanziale. Il suus, se regolarmente diseredato, doveva accontentarsi di essere
stato contemplato nel testamento. Ma poiché con l’evoluzione dei tempi cominciò a considerarsi la questione
più nella sostanza che nella forma, la successione necessaria formale del ius civile apparve più una beffa che
una garanzia. Di conseguenza, un testamento in cui un prossimo congiunto fosse stato senza giusto motivo
preterito o diseredato, fu considerato inofficiosum, cioè contrario a quel dovere di affetto che deve animare
il testatore verso i parenti prossimi. Costoro potevano allora chiederne la rescissione, mediante la querella
inofficiosi testamenti, sottoposta alla competenza dello speciale collegio giudicante dei centumviri. Sono
legittimati a proporre la querella (nei confronti degli eredi testamentari) in primo luogo i figli, sui ed
emancipati, del testatore; in mancanza, i genitori e anche i fratelli e le sorelle. Per tutti, si richiede che non
abbiano ricevuto nel testamento almeno un quarto della quota loro spettante ab intestato. In seguito
all’esperimento vittorioso della querella, i centumviri pronunciano la rescissione del testamento, che opera
iure civili e può essere totale o parziale.
326. La successione necessaria nelle Novellae. Giustiniano disciplinò la materia in due importanti
Novellae, la 18 e la 115. Egli anzitutto provvide a fissare tassativamente le cause che giustificavano la
diseredazione e quindi escludevano la legittima, cause che precedentemente dipendevano dalla valutazione
del giudice. La quota legittima spetta, salvi i casi di giusta diseredazione, a tutti i discendenti e ascendenti e
deve essere riservata come quota di eredità e non ad altro titolo. Il suo ammontare varia secondo il numero
degli aventi diritto, ma non può al massimo superare la metà dell’asse ereditario; in caso di violazione della
quota a lui dovuta, spetta al legittimario un’azione rivolta all’integrazione della quota stessa.
327. I legati. Il legato, nel suo assetto definitivo, è una disposizione di ultima volontà, contenuta in un
testamento o in un codicillo confermato, con cui il testatore attribuisce a un soggetto, normalmente diverso
dall’erede, singole cose o singoli diritti, o un complesso di cose o diritti, a carico dell’eredità. La differenza
tra legato e quota di eredità sta in ciò: la quota di eredità, anche se in concreto comprende un singolo bene,
dà sempre luogo a una successione universale e quindi ha per effetto il subentrare dell’erede nella stessa
situazione giuridica del de cuius, con l’importante conseguenza della confusione ereditaria e quindi della
responsabilità illimitata per il passivo dell’eredità; mentre il legato, anche se comprende una serie cospicua
di beni, o perfino tutto il patrimonio, dà sempre luogo a una successione a titolo particolare nei singoli
diritti che ne formano il contenuto. Il legato è dipendente dalla successione testamentaria, e costituisce un
onere a carico di essa, dovendosi detrarre dall’asse ereditario. Tre soggetti danno vita al rapporto: il
disponente (testatore), l’erede onerato e il legatario o onorato.
328. I quattuor genera legatorum. Il ius civile non conosce un unico istituto, il legato, ma 4 distinte e
tipiche specie di legati, che si differenziano nettamente nella forma, negli effetti e nei requisiti:
a) legatum per vindicationem. Richiede la forma “do, lego” e ha per effetto il trasferimento diretto
dell’oggetto (o del diritto) legato, dal testatore al legatario, il quale ne diviene titolare ipso iure e, quindi, può
senz’altro convenire l’erede con un’azione reale (vindicatio); per conseguenza l’oggetto del legato deve
essere un diritto costituibile dal testatore o una cosa che gli appartenga ex iure quiritium;
b) legatum per damnationem. Richiede la forma “il mio erede sia tenuto a dare”, e ha l’effetto di far
sorgere un’obbligazione di cui debitore è l’erede e creditore è il legatario. L’acquisto del lascito dipende
perciò dall’adempimento dell’obbligazione da parte dell’erede, contro il quale il legatario ha un’ actio ex
testamento, che è un’actio in personam;

c) legatum sinendi modo. Richiede la forma “il mio erede sia tenuto a subire” ed è anch’esso produttivo di
un’obbligazione che si distingue da quella del legatum per damnationem perché la prestazione non consiste
in un dare o facere, ma in un semplice pati, cioè nel subire che il legatario faccia da sé l’apprensione
dell’oggetto che, perciò, può essere di pertinenza del testatore o dello stesso erede;
d) legatum per praeceptionem. Ha efficacia reale analoga a quella del legatum per vindicationem e se ne
distingue perché disposto a favore di uno dei coeredi, il quale acquista il lascito prima della divisione
ereditaria, che poi ha luogo sul netto (prae-capito); la forma richiesta è “prenda con diritto di precedenza”.
329. S.C. Neronianum e fusione dei tipi di legato. L’effetto del senatoconsulto Neronianum fu quello
dell’indifferenza della forma adoperata per il legato, poiché il legato poteva valere, indipendentemente
dall’impiego di questa o di quella determinata forma, purché presentasse i requisiti di sostanza. Con la
completa caduta delle forme solenni avvenuta in età postclassica, si giunse nell’età giustinianea alla
formazione di un unico tipo di legato, il quale produce al tempo stesso effetti reali ed effetti obbligatori, con
la conseguente scelta rimessa al legatario tra l’actio in rem e l’actio in personam, contro l’erede.
330. Acquisto del legato. L’acquisto del legato si verifica in due tempi: in un primo momento (dies cedens),
che coincide con la morte del testatore o con l’apertura del testamento, dies legati cedit, il che vuol dire che
il legato si fissa nella persona del legatario, il quale ha d’ora in avanti il diritto di acquistare il legato e di
trasmetterlo eventualmente ai suoi eredi; in un secondo momento (dies veniens), che coincide con
l’accettazione dell’eredità da parte dell’erede o con lo scadere del termine iniziale, dies legati venit, e cioè il
legatario può in concreto esercitare il diritto attribuitogli dal legato. Giustiniano introdusse, a garanzia del
legatario, un’ipoteca legale sui beni ereditari.
331. Nullità del legato. La nullità del legato può dipendere dalla nullità del testamento che lo contiene, o
anche dalla nullità della sola heredis institutio. Si ricordi, però, la benigna interpretazione che salvava i legati
pur essendo caduta l’istituzione di erede: in tali casi, il legato grava sul sostituto, o sul bonorum possessor o
perfino sull’erede ab intestato. Ma il legato può essere invalido anche per cause autonome che lo colpiscono
in sé, indipendentemente dalla validità del testamento: il difetto di forma, l’incapacità del legatario,
l’inidoneità dell’oggetto. La nullità del legato può essere poi iniziale o sopravvenuta.
332. Revoca del legato. Anche riguardo alla revoca può distinguersi quella che deriva dalla revoca di tutto il
testamento, o della sola heredis institutio, dalla revoca relativa al solo legato (ademptio legati). Secondo il
ius civile, l’ademptio doveva essere formale, mediante verba contraria a quelli adoperati per disporlo. Ma si
venne, poi, riconoscendo, attraverso mezzi indiretti, l’effetto revocatorio di una ademptio non formale,
comunque espressa, e perfino di una revoca tacita, desunta da un successivo comportamento del testatore che
fosse incompatibile con il legato (per esempio, l’intenzionale alienazione della cosa legata).
333. Limitazioni ai legati. Nessuno limite ammettevano le XII Tavole alla libertà di esaurire il proprio
patrimonio in legati. In seguito, l’assoluta libertà nella misura dei legati fu sempre più osteggiata, poiché
produceva un duplice inconveniente: l’erede, se riverente verso la memoria del testatore, accettava l’eredità
oberata di legati, assumendosi in proprio tutta la responsabilità per i debiti ereditari; diversamente, non
accettava, con pregiudizio dell’esistenza dei legati stessi e con il ripugnante effetto di fare acquistare tutto il
patrimonio agli eredi legittimi contro la volontà del testatore. Intervenne perciò una serie di leggi che
limitavano l’assoluta libertà di compiere legati:
a) lex Voconia, la quale stabilì che nessun legatario potesse ricevere più dell’erede; essa fu però inane, in
quanto all’erede poteva rimanere una quota irrisoria, di fronte ai numerosissimi legati, anche se nessuno di
questi superasse da solo tale quota;
b) lex Falcidia, del I secolo a.C. Questa legge risolse il problema in modo definitivo, disponendo che
all’erede dovesse restare, in ogni caso, almeno un quarto netto dell’asse ereditario. Se la somma dei legati
eccedeva i tre quarti dell’asse, essi si riducevano in proporzione e nella misura necessaria. Il disposto della
lex Falcidia fu considerato inderogabile anche da espressa disposizione contraria del testatore.
334. Il fedecommesso. Il fedecommesso consiste in una preghiera o raccomandazione rivolta dal de cuius
all’erede o al legatario, perché essi diano o facciano o subiscano qualche cosa nei confronti dell’onorato o
fedecommissario.
Nel caso più frequente si tratta di ritrasferire in tutto o in parte la quota ereditaria o il legato; si attua così un
duplice passaggio: dal disponente all’onerato e dall’onerato al fedecommissario. Quanto alla forma, il
fedecommesso è disposto in forma di preghiera, senza alcun termine tecnico stabilito; può essere contenuto
in un testamento, o in un codicillo, che ne è la sede naturale, ma può anche essere disposto per lettera o
oralmente. Dal fedecommesso non sorge alcun obbligo giuridico per l’onerato: l’adempimento della volontà
del defunto è del tutto rimesso alla sua lealtà (fidei commissum); di conseguenza, il fedecommissario non ha
alcuna azione civile ma è tutelato solo extra ordinem, a partire dall’età augustea. Quanto all’oggetto, poi,
esso può essere di contenuto assai vario e di pertinenza del disponente o dell’onorato o di un terzo qualsiasi.
Il fedecommesso, essendo disposto senza solennità, può essere revocato, senza alcuna forma vincolante, con
qualunque atto idoneo a mostrare la mutata voluntas.
335. Evoluzione storica. L’istituto era molto diffuso nella pratica già sul finire della Repubblica, ma senza
effetti giuridici di sorta; era usato soprattutto per far pervenire dei vantaggi a persone che sarebbero state
incapaci di riceverli direttamente per eredità o per legato. Le fonti informano che la prima tutela giuridica
dell’istituto si ebbe ad opera di Augusto, il quale ordinò ai consoli d’interporre la loro autorità per ottenere
nei singoli casi l’adempimento. Ricevuta così cittadinanza nel mondo giuridico, il fedecommesso ebbe vita
sempre più rigogliosa, soprattutto per gli enormi vantaggi che presentava rispetto ai legati, data la completa
scioltezza da tutti quei vincoli formalistici che ai legati derivavano dal ius civile. Infine, venuto meno, con la
caduta delle forme solenni, il formalismo dei legati, scomparso il dualismo tra processo formulare e cognitio
extra ordinem, divenuti perciò conseguibili direttamente tutti quei risultati che nel processo formulare erano
raggiunti mediante exceptio, nessuna differenza sopravviveva più tra legati e fedecommessi: ecco perché i
due istituti si fusero insieme nel diritto giustinianeo.
336. Fedecommesso universale. È una figura speciale di fedecommesso per cui il testatore, dopo aver
regolarmente istituito un erede, lo prega di restituere tutta l’eredità ad altra persona. Secondo il ius civile,
erede resta l’istituito (heres fiduciarius), il quale spontaneamente o costrettovi extra ordinem, trasferirà al
fedecommissario la proprietà dei singoli beni ereditari e i diritti patrimoniali trasferibili, mentre resterà
titolare dei diritti intrasferibili, lasciandone al fedecommissario il semplice esercizio.
Il senatoconsulto Pegasianum, per evitare che l’erede, non accettando l’eredità, facesse cadere il
fedecommesso, diede ordine al pretore di costringere l’erede fiduciario ad accettare l’eredità per restituirla al
fedecommissario, ma concesse per equità all’erede il diritto di trattenere un quarto netto dell’eredità.

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