Sei sulla pagina 1di 24

FLUSSI MIGRATORI E SICUREZZA DELLO STATO

CAPITOLO 1 – I CARATTERI DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE E DEL SUO DIRITTO


1. Nozione di diritto internazionale
Il diritto internazionale è quel complesso di norme che regolano il reciproco comportamento degli Stati, i
quali rappresentano il soggetto specifico di d.i. ma, se è vero che il diritto internazionale è quello che regola
i rapporti tra i soggetti dell’ordinamento (c.d. comunità internazionale) di certo c’è da dire che non è vero
che regola esclusivamente materie di interesse statale. Il diritto internazionale regola, quindi, i rapporti tra i
soggetti che sono membri della collettività internazionale. Gli Stati originariamente erano gli unici soggetti
di diritto internazionale; ad oggi, esistono anche altri soggetti, ma solo gli Stati hanno una soggettività
piena.
Il diritto internazionale va nettamente distinto dal diritto internazionale privato il quale è rappresentato da
un sistema di regole statali che hanno la funzione di individuare qual è la disciplina da applicare a
fattispecie che non sono riconducibili ad un solo ordinamento statale. Il diritto internazionale ha tre
funzioni imprescindibili: 1) produzione normativa; 2) attuazione del diritto; 3) accertamento del diritto nel
quadro della soluzione delle controversie tra i consociati. Nel diritto internazionale, al contrario di ogni
ordinamento statale, tali funzioni non possono derivare da un’autorità superiore rispetto ai consociati per il
semplice motivo che una tale autorità non esiste: “superiorem non recognoscente”. Uno Stato per quanto
piccolo sia non può considerarsi subordinato ad un altro Stato per quanto possa essere grande (es. San
Marino e gli Stati Uniti D’America, nell’ordinamento internazionale sono due soggetti paritari). In
conclusione, la società internazionale, in quanto priva di un’autorità superiore ai consociati, appare come
paritaria, decentrata, orizzontale e anorganica.

2. La società europea medievale


Perché ci sia bisogno del diritto internazionale c’è bisogno almeno di due soggetti dell’ordinamento
internazionale che si devono relazionare. Tale società internazionale, composta da enti posti sullo stesso
piano, nasce in Europa tra la fine del XV e l’inizio del XVII secolo. Tale società nasce nel momento in cui
venne a rompersi l’unità politica e religiosa del mondo medievale, dominato dai poteri del Papa e
dell’Imperatore e per cui si iniziava a sentire l’esigenza di regolare i rapporti tra i soggetti. L’autorità del
Pontefice è messa in crisi dalla Riforma protestante in seguito all’affissione sul portone della Cattedrale di
Wittengerb delle 95 tesi di Lutero contro le indulgenze.

3. La pace di Westfalia del 1648


La nascita di una comunità internazionale strutturata secondo il modello paritario che abbiamo descritto è
fatta risalire dalla dottrina alla pace di Westfalia, risultante dai Trattati di Osnabrück e Münster
rispettivamente del 6 agosto e 24 ottobre 1648, a chiusura della guerra dei Trent’Anni (1618-1648). Il
conflitto, originato da motivi religiosi tra nazioni cattoliche e protestanti per l’egemonia politica in Europa,
condusse a un nuovo equilibrio tra le potenze, segnando la nascita di una comunità internazionale diversa
rispetto al passato. La pace di Westfalia consacrò la fine del sistema feudale, di tipo gerarchico e
accentrato, che aveva imperato nel Medioevo, e la formazione di 335 Stati indipendenti, già membri del
Sacro Romano Impero germanico, insieme alla nascita di alcune Città libere e di due Stati confederali, le
Province Unite d’Olanda e la Confederazione dei Cantoni elvetici.
La nascita del sistema moderno di regole giuridiche internazionali viene generalmente ricondotta all’epoca
della formazione degli Stati nazionali, comunemente identificata con la fine della Guerra dei Trent’Anni,
sancita dalla Pace di Westfalia del 1648. Il significato simbolico di questo evento è quello di segnare la fine
di un tipo di distribuzione gerarchica del potere, quindi anche della potestà regolamentare, che trovasse il
suo vertice nell’Impero o nel Papato. Nell’anno in cui la Pace di Westfalia fu sancita, la storia dell’Europa e
del mondo subì un cambiamento totale e ciò ha determinato gli avvenimenti che da allora hanno avuto
luogo, dal momento che con questo trattato si è data vita a una delle più importanti creazioni della storia
moderna, vale a dire lo Stato Moderno. La comunità internazionale ha, seppur formale, un data di nascita:
1648. È la Pace di Westfalia del 1648 l’atto che sancisce la nascita della moderna comunità internazionale
tant’è che ancora oggi si parla di comunità internazionale a struttura westfaliana. È noto come, prima di
questo trattato, ci sia stato il Trattato di Qades del 1259 a.C. ma, è vero anche che prima di Westfalia
mancava il sistema; c’erano fenomeni isolati ma mancava l’ordinamento, come insieme di regole generali,
che disciplina i rapporti tra questi enti che si considerano paritari. Questa struttura si porta dietro una
specie di dogma della sovranità: “se siamo tutti uguali e nessuno riconosce qualcuno come superiore,
ognuno di noi è sovrano sul suo territorio e fa tutto quello che vuole”. Gli Stati, un tempo gelosi custodi
della propria sovranità, sono ora disponibili a limitarla, consentendo a una progressiva erosione della loro
domestic jurisdiction e dando vita a enti, le organizzazioni internazionali, le quali, situandosi accanto agli
Stati, rappresentano dei nuovi attori sulla scena internazionale.

4. Quali sono i caratteri del diritto internazionale nelle sue funzioni essenziali?
L’assenza di un’autorità sovraordinata ai consociati fa sì che nell’ordinamento internazionale non esistano il
legislatore, il gendarme, il giudice e che le funzioni di tale ordinamento siano svolte dagli stessi consociati,
cioè essenzialmente dagli Stati. Ciò si verifica, anzitutto, per la funzione normativa, consistente nella
produzione, modificazione o estinzione delle norme del diritto internazionale. Nel diritto internazionale la
prima fonte è la consuetudine. La consuetudine, provenendo dall’opinione degli stessi consociati, mostra di
essere pienamente congeniale ad un ordinamento nel quale non è neppure ipotizzabile una fonte di diritto
che si imponga dall’alto ai soggetti, non esistendo, appunto, un’autorità a essi superiore.
Egualmente espressione dei consociati è l’accordo (seconda fonte tipica di d.i.). L’accordo non è altro che
l’incontro della volontà di due o più Stati che, consensualmente, si obbligano giuridicamente a rispettare ed
eseguire il contenuto dello stesso. Però, a differenza della consuetudine, l’accordo è la fonte di diritto
particolare poiché la sua efficacia giuridica è limitata agli Stati che lo abbiano concluso.
Per quanto concerne l’attuazione del diritto, il diritto internazionale fa affidamento all’autotutela. Quindi,
la forma di attuazione coercitiva del diritto è l’autotutela. Una delle caratteristiche fondamentali
dell’ordinamento internazionale è che gli enti agiscano in autotutela, cioè è previsto che gli Stati si facciano
giustizia da soli perché l’ordinamento non ha i giudici, non ha la polizia e quindi, quello che
nell’ordinamento interno è l’eccezione (es. legittima difesa) o divieto, nell’ordinamento internazionale è la
regola, non essendovi alcuna possibilità di chiedere l’intervento della forza pubblica, la quale non esiste:
comunità anarchica = tribù. Inoltre, l’autotutela si presta ad abusi poiché essa non è subordinata ad alcun
accertamento giuridico e giudiziario del diritto che si intende fare valere.
Infine, anche la soluzione delle controversie sconta l’assenza di una funzione giudiziaria istituzionalizzata.
La struttura della comunità impedisce che ci sia un organo sovraordinato e per cui la funzione di
accertamento è su base volontaria. La soluzione delle controversie nell’ordinamento internazionale è un
arbitrato: gli stati si mettono d’accordo per devolvere la soluzione di una loro controversia ad un soggetto.
Nel diritto internazionale, gli Stati hanno l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie internazionali
(art. 2, par. 3, della Carta delle Nazioni Unite), ma sono liberi di scegliere i mezzi di soluzione che ritengono
più appropriati. I procedimenti di soluzione si distinguono in: 1) procedimenti diplomatici, che possono
includere l’intervento di un terzo e sono tutti volti a facilitare il raggiungimento di un accordo tra le parti
(accordo risolutivo della controversia) e 2) mezzi giudiziali, ossia il deferimento della controversia a un
arbitro (arbitrato internazionale) o alla Corte internazionale di giustizia. Tali mezzi, a differenza dei mezzi
diplomatici, assicurano la soluzione della controversia, mediante un lodo arbitrale o una sentenza, che
hanno efficacia obbligatoria per le parti in lite. Se la sentenza appare come un atto autoritativo, bisogna
però sottolineare che la possibilità che sia pronunciata una sentenza è subordinata alla concorde volontà
degli Stati parti delle controversie.
Quindi, nel diritto internazionale i mezzi di regolamento delle controversie tra gli Stati sono: l’accordo e la
sentenza.
5. La contestazione del diritto internazionale e la riaffermazione della sua giuridicità
Se il diritto internazionale è veramente diritto lo possiamo dire alla luce di ciò che dice Hans Kelsen: “è
diritto qualunque fenomeno che ponga una condizione e che ricolleghi al mancato rispetto delle sanzioni”. Il
diritto internazionale, proprio perché pone delle condizioni attraverso i meccanismi di produzione
normativa e perché ricollega delle conseguenze al mancato rispetto (es. l’autotutela), è considerato diritto.
Un altro modo per affermare questo è quello di utilizzare l’effettività, cioè vedere se il d.i. è rispettato. E,
normalmente, le norme statisticamente più rispettate sono quelle del d.i. ed è così soprattutto perché il
fatto che esse non siano imposte da un’autorità superiore ai consociati, ma nascano dal convincimento di
questi ultimi, fa ragionevolmente presumere che detti Stati abbiano l’interesse a rispettarle.
Non è mai esistito un solo caso di comportamento di uno Stato che abbia violato un obbligo di diritto
internazionale o che abbia negato il fatto di essere tenuto al rispetto del d.i. Gli Stati quando violano un
diritto, mostrano di avvertire l’esigenza di scusarsi in base a una norma giuridica, o a una sua particolare
interpretazione; quindi, c’è sempre una giustificazione in termini giuridici e mai nessuno Stato quando gli è
stato contestato la violazione di un obbligo di d.i. ha risposto “quello non lo dovevo rispettare”. Quindi,
anche sotto questo profilo possiamo dire che il d.i. funziona.

CAPITOLO 2 – LO STATO COME SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE


1. Il concetto di stato nel diritto internazionale
Gli Stati, originariamente, erano gli unici soggetti di diritto internazionale e cioè i destinatari delle norme
giuridiche internazionali e i titolari dei diritti, degli obblighi e delle responsabilità da esse derivanti.
Nel diritto internazionale per soggettività giuridica s’intende l’astratta attitudine di un ente a diventare
titolare di diritti e obblighi previsti dalle norme di diritto internazionale. Per lungo tempo tale capacità è
stata attribuita esclusivamente allo Stato, ovvero all’organizzazione politica realizzatasi compiutamente nel
1648, anno in cui fu concluso il trattato di Westfalia che segnò il definitivo tramonto di Impero e Papato che
rappresentavano, in occidente, i due vertici dell’ordinamento internazionale. Ad oggi, esistono anche altri
soggetti, ma solo gli Stati hanno una soggettività piena. Dal momento che la capacità di agire nella vita delle
relazioni internazionali (ovvero la capacità di produrre atti giuridici, vedersi imputare illeciti internazionali,
accedere agli organismi deputati al regolamento pacifico delle controversie, ecc..) è propria degli organi di
vertice di un Paese, occorre riferirsi allo Stato-apparato cui spetta la titolarità della soggettività
internazionale. Stato-apparato è da intendersi correlativa a qualunque ente che vi eserciti delle potestà di
controllo su una comunità; è l’insieme degli organi che pongono in essere il controllo del governo della
comunità stanziata su quel territorio.
Uno Stato sovrano sussiste come soggetto autonomo di d.i. in presenza della triade territorio-popolo-
governo ed in presenza dei requisiti dell’effettività e dell’indipendenza.
È irrilevante che l’organo dello Stato eserciti un potere legislativo, esecutivo o giudiziario, ciò che conta è
che esso sia investito di un pubblico potere ed esprima l’autorità dello Stato.

2. La dimensione territoriale della sovranità


Lo Stato è un ente sovrano e il che significa che ha una potestà di governo esclusiva, libera e, un tempo,
piuttosto illimitata sulla propria comunità territoriale. Noi dobbiamo pensare a tutto il diritto
dell’ordinamento internazionale come a una progressiva erosione di questo dominio assoluto. Il diritto
internazionale non è altro che un insieme di limiti alla potestà assoluta di governo degli Stati, i quali,
possono fare tutto nei limiti degli obblighi e dei divieti imposti dal diritto internazionale. Gli Stati non hanno
nessuna autorità a essi sovraordinata e per questo motivo pretendono un indisturbato esercizio di tale
potestà nei confronti di tutti gli altri Stati, i quali, non devono interferire in detto esercizio.
La sovranità (esclusiva, libera e illimitata) ha una dimensione essenzialmente territoriale il che significa che
gode della potestà esclusiva nell’ambito del proprio territorio e, viceversa, non può esercitare tale potestà
in territorio altrui. Quindi, i confini dello Stato rappresentano la misura entro la quale lo Stato opera come
ente sovrano. Va precisato, però, che laddove un altro Stato dia il consenso, l’attività propriamente
esecutiva dello Stato, circoscritta entro i confini del suo territorio, può svolgersi nel territorio di un altro
Stato.
L’esercizio della sovranità limitato al territorio riguarda il potere coercitivo dello Stato e pertanto, solo nel
proprio territorio, lo Stato può effettuare un arresto, impiegare la forza pubblica, svolgere indagini di
polizia. Al contrario, dal punto di vista del diritto internazionale uno Stato può ben legiferare riguardo a
situazioni, fatti e persone che si trovino al di fuori del proprio territorio: è consentita la c.d. applicazione
extraterritoriale della legge, cioè l’adozione di leggi riguardanti situazioni esterne al territorio dello Stato.
Una fortissima tendenza all’applicazione extraterritoriale di norme giuridiche caratterizza il diritto
dell’Unione Europea. Normalmente, il diritto dell’UE si applica ai soggetti che sono stabiliti sul territorio
dell’UE; tuttavia, ci sono diverse eccezioni a riguardo, come tutte quelle che riguardano il trattamento dei
dati.

3. Quali sono i requisiti della soggettività internazionale dello Stato?


Non sono gli Stati a concedere la soggettività di diritto internazionale agli altri Stati; non c’è un
procedimento di concessione della soggettività, ma questa viene riconosciuta dall’ordinamento
internazionale in presenza di certi requisiti: effettività e indipendenza. Per l’acquisto della soggettività non
sono richiesti altri parametri che non siano quelli appena citati e, per cui, la democraticità
dell’organizzazione di governo, non è un requisito per l’acquisto della soggettività.
L’effettività va intesa come la capacità di un governo di esercitare effettivamente la propria potestà di un
imperio sulla comunità stanziata sul territorio nazionale. Il diritto internazionale si fonda per vari profili sul
principio della effettività, sicché può dirsi che, di regola, esso nasce dai fatti. È l’effettività il criterio che
regola i confini, cioè i confini di uno Stato finiscono dove finisce la capacità effettiva di governo di quello
Stato.
L’indipendenza è intesa, invece, come parità nei confronti degli altri Stati o di qualsiasi altro ordinamento
che rende lo Stato superiorem non recognoscens. Secondo la dottrina migliore, va intesa nel senso che
l’ordinamento giuridico di tale organizzazione si debba fondare su una Costituzione originaria e che non
derivi, cioè, dalla Costituzione di un altro Stato. (questo è uno dei motivi per i quali le regioni, seppur enti
rilevanti, non sono soggetti di d.i. perché gli statuti delle stesse si appoggiano sulla Costituzione. Viceversa,
proprio perché portatori di un proprio ordinamento giuridico, vanno qualificati come soggetti di d.i. i
Microstati, cioè quelli Stati che hanno dimensioni estremamente ridotte, come San Marino, Monaco,
Tonga, Palau, Nauru…

4. Lo stato per nascere deve rispettare, sotto il profilo procedimentale, delle norme di d.i.?
Il diritto internazionale non dice se uno Stato deve o non deve nascere ma dice che i procedimenti di
nascita degli Stati devono rispettare delle norme e quindi non possono essere violati alcuni principi che
sono quelli consacrati nelle norme di d.i. inderogabile: principi di ius cogens. L’illiceità della nascita
dell’autorità, consistente nella violazione di norme di ius cogens, può impedire che tale autorità sia
riconoscibile come soggetto di diritto internazionale. Gli Stati che nascono in violazione di questi principi di
ius cogens non sono considerati legittimante costituti e, inoltre, esiste una prassi consolidata
dell’ordinamento internazionale che, non solo non li riconosce ma, impone agli Stati di non riconoscere
alcun effetto alle attività e agli atti prodotti da questi Stati (c’è l’obbligo di disconoscimento). A tal proposito
va citato l’art.41 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti,
il quale prescrive, tra l’altro, che nessuno Stato debba considerare legittima una situazione, quindi anche
uno Stato, creata/o mediante una grave violazione di una norma imperativa del diritto internazionale
generale. Il termine jus cogens, o diritto cogente, sta ad indicare l’insieme di norme internazionali che,
poste a tutela dei valori considerati fondamentali dalla comunità Internazionale considerata nel suo
insieme, non possono essere in alcun modo derogate dagli Stati. Per tale motivo, quest’insieme di norme
vengono considerate dagli studiosi della materia come il nocciolo duro del diritto internazionale.
5. Che cos’è il riconoscimento? Qual è il suo valore?
Il riconoscimento è un atto unilaterale volontario con il quale uno Stato dichiara la propria volontà di
intrattenere rapporti con un altro Stato. Nell’ordinamento internazionale contemporaneo, il
riconoscimento non ha alcun valore costitutivo; non è altro che la dichiarazione di uno Stato riconoscente
che intende avere relazioni diplomatiche con lo Stato riconosciuto. Quindi, non essendo un obbligo ma una
mera facoltà non presuppone la soggettività. Se la personalità giuridica di uno Stato dipendesse dal
riconoscimento degli altri, uno Stato non riconosciuto dovrebbe essere considerato giuridicamente
inesistente; tuttavia, generalmente quando uno Stato non riconosce un altro Stato, questo si astiene
esclusivamente dall’avere rapporti con lo stesso, specie quelli diplomatici, ma mostra di non considerarlo
giuridicamente inesistente. Quindi, il riconoscimento rivela null’altro che l’intenzione di stringere rapporti
amichevoli, di scambiare rappresentanze diplomatiche e di avviare forme di collaborazione mediante la
conclusione di accordi.
Il riconoscimento può essere:
- de jure, quando lo Stato preesistente, esaminati i diversi titoli che consentono l’acquisto della
soggettività internazionale, ritiene legittima la creazione sul suo territorio del nuovo Stato;
- de facto, nel caso in cui lo Stato preesistente si limiti solo a prendere atto della nascita del nuovo
soggetto, senza tuttavia pronunciarsi sulla legittimità o meno della sua costituzione;
- espresso, quando avviene mediante un atto formale;
- tacito, se derivante da un comportamento tale da risultare incompatibile con una volontà di non
riconoscere la nuova entità statuale.
Bisogna però ricordare che il riconoscimento non è del tutto privo di efficacia giuridica; ha una conseguenza
giuridica che fa applicazione di un istituto di d.i. che è l’estoppel (equivalente della preclusione): nel
momento in cui uno Stato pone in essere un comportamento ne deve sopportare tutte le conseguenze e
quindi uno Stato che ne riconosce un altro non potrà poi contestare l’esistenza dello Stato riconosciuto.
Secondo la prassi recente, il riconoscimento viene negato agli Stati che si siano formati ricorrendo all’uso
della forza, non rispettino i diritti umani o violino il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Inoltre,
come affermato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella Dichiarazione sui principi di diritto
internazionale relativi alle relazioni amichevoli tra gli Stati, nessuna acquisizione territoriale ottenuta con la
minaccia o con l’uso della forza può essere riconosciuta come legale dalla Comunità Internazionale.

6. I confini dello Stato


Sapendo che il d.i. ha l’obiettivo di garantire la stabilità dei rapporti dobbiamo capire qual è l’ambito entro il
quale ogni Stato ha la sua sovranità, cioè i confini dello Stato. I confini dello Stato coincidono con il limite
dove giunge la sua effettiva capacità di governo ma, poiché questo non sempre risulta utilmente
applicabile, nella pratica, si provvede a delimitare i propri territori mediante i c.d. accordi di delimitazione.
Ma, se cambiano le condizioni essenziali per le quali due Stati avevano concluso un trattato, il trattato cessa
di esistere.
L’obiettivo del d.i. di garantire stabilità ai rapporti è tale che esiste una norma che viene enunciata con
l’espressione uti possidetis, ita possideatis (“come possedevi tu, cosi possiedo io”). La regola dell’uti
possidetis iuris è strettamente legata al fenomeno della decolonizzazione. Tale principio può essere definito
come il criterio in base al quale i nuovi Stati devono rispettare e mantenere come frontiere i limiti
coloniali esistenti al momento dell’ottenimento dell’indipendenza, nel modo in cui erano stati stabiliti dal
diritto interno del precedente Stato colonizzatore.
Teniamo presente che per decolonizzazione intendiamo quel fenomeno in cui Stati che erano stati
colonizzati da potenze straniere raggiunsero l’indipendenza tra la fine della seconda guerra mondiale e gli
anni70. Tale percorso ha accomunato perlopiù paesi africani e asiatici. Con l’ottenimento dell’indipendenza
viene così riconosciuta la soggettività giuridica di diritto internazionale per uno Stato. 
CAPITOLO 5 - I SOGGETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE DIVERSI DAGLI STATI
1. Chi sono i soggetti di diritto internazionale?
Innanzitutto, bisogna precisa che essere soggetto del diritto internazionale significa essere titolare di diritti
e di obblighi derivanti dall'ordinamento internazionale. La soggettività internazionale è un concetto
giuridico, il quale comporta anche la responsabilità di tali soggetti in caso di violazione delle norme
internazionali. Gli Stati sono i principali soggetti del diritto internazionale e sono gli unici, tra gli altri
soggetti, ad avere una piena personalità giuridica. Tuttavia, oltre agli Stati esistono altre categorie di enti
dotati di soggettività internazionale, seppur ben più ridotta rispetto ai primi. Questi sono: la Santa Sede,
l'Ordine di Malta, gli insorti, i movimenti di liberazione nazionale, le organizzazioni internazionali, i micro-
Stati e gli individui.

2. Quando un ente va considerato soggetto di diritto internazionale?


Un dato ente va considerato soggetto di diritto internazionale se può essere titolare di una situazione
giuridica soggettiva nascente da tali norme. Pertanto, per comprendere se un ente possiede soggettività
internazionale bisogna compiere questo tipo di accertamento, basandosi sulle norme di diritto
internazionale consuetudinario, in quanto aventi portata generale a differenza delle norme internazionali
stipulate mediante accordo, che producono effetti giuridici solo per le parti che lo hanno concluso.
Nonostante ciò, bisogna considerare che il fatto che un ente concluda accordi internazionali dimostra come
esso sia dotato di personalità, in quanto solo i soggetti di diritto internazionale hanno la capacità di
stipulare tali accordi, divenendo così destinatari della norma che conferisce tale capacità.

3. Perchè i Governi in esilio non sono considerati soggetti di diritto internazionale?


Un Governo in esilio è un gruppo politico che sostiene di essere il Governo legittimo di una nazione, ma che
per varie ragioni non è in grado di esercitare il proprio potere legale, pertanto risiede in un paese straniero.
Un esempio di Governo in esilio è quello del generale Charles de Gaulle del 1940, il quale fuggì dalla Francia
in seguito all'invasione tedesca e venne accolto a Londra; in questo caso, il controllo effettivo del territorio
era esercitato dai tedeschi, che però non rappresentavano il Governo legittimo. Dal momento che il
Governo in esilio non ha l'effettivo controllo dello Stato, questo non ha il titolo per rappresentarlo sul piano
internazionale, in quanto manca il requisito dell'effettività, tipico del diritto internazionale. Inoltre, il
principio di legalità internazionale prevede che un Governo in esilio debba continuare ad essere
riconosciuto come il legittimo rappresentante di uno Stato occupato o annesso con l'uso della forza.
Pertanto, va disconosciuta l'annessione o un Governo fantoccio, inteso come un governo posto a capo di
uno Stato da parte di una potenza occupante, come nel caso della Russia attualmente. In questi casi, manca
la corrispondenza tra Governo e governo del territorio effettivo, quindi mancano i parametri fondamentali
della legalità, nonché anche dell'indipendenza, che l'ordinamento internazionale impone.

4. Le Regioni italiane possono essere considerate soggetti di diritto internazionale?


No, in quanto difettano del requisito dell'indipendenza che l'ordinamento internazionale impone, assieme a
quello dell'effettività, della legalità e dell'obiettivo di garantire la stabilità dei rapporti. Questo perchè gli
ordinamenti giuridici delle Regioni italiane non sono originari, ma derivano la loro giuridicità dallo Stato dal
quale dipendono (Stato italiano); lo stesso vale per gli Stati membri di uno Stato federale. Pertanto, le
Regioni italiane sono da considerarsi come organi dello Stato, in quanto esercitano poteri appartenenti alla
sua sovranità e la loro condotta è giuridicamente imputata allo Stato, unico soggetto internazionale.

5. Cos'è un Governo fantoccio?


Il Governo fantoccio è una forma di governo che, anche se formalmente appartiene alla cultura del popolo
governato, in realtà deve la sua esistenza ad un'entità più potente (di solito uno Stato estero), che la
controlla, l'appoggia e la difende. Pertanto, esso è un Governo posto a capo di uno Stato da parte di una
potenza occupante, il quale non può essere considerato un soggetto di diritto internazionale in quanto
manca il rispetto dei parametri fondamentali della legalità che l'ordinamento internazionale impone, ossia
la corrispondenza tra Governo e governo del territorio effettivo. Tra l'altro, manca molto spesso anche il
requisito dell'indipendenza.

6. La Santa Sede è un soggetto di diritto internazionale? Da cosa lo si deduce?


La Santa Sede è un'entità sovrana indipendente e il massimo organo di governo spirituale, rappresenta la
suprema autorità di governo della Chiesa cattolica ed ha al suo vertice il Papa. Essa è retta da un proprio
ordinamento giuridico fondato sul diritto canonico ed esprime il concetto di societas fidelium, che è un
fenomeno sociale di carattere spirituale. La personalità internazionale della Santa Sede deriva dal fatto che,
innanzitutto, ha una propria indipendenza ed autonomia a prescindere da qualsiasi requisito territoriale e,
governando una piccola parte di territorio, è da considerarsi un micro-Stato, e quindi soggetto di diritto
internazionale. Inoltre, essa è destinataria della norma consuetudinaria che le conferisce la capacità di
stipulare accordi internazionali, bilaterali e multilaterali. Tra questi vi sono i concordati, al cui interno è
contenuta la disciplina della materia religiosa nello Stato contraente, ma a cui vengono riconosciuti tutti i
requisiti formali e sostanziali di cui un accordo internazionale necessita. Un altro elemento che prova la
soggettività internazionale della Santa Sede è il suo diritto di legazione attivo e passivo, inteso come diritto
di accreditare rappresentanze diplomatiche presso Paesi terzi, potendo nominare i suoi ambasciatori
presso gli altri soggetti di diritto internazionale e ricevere gli ambasciatori; la missione permanente della
Santa Sede nei Paesi con i quali intrattiene rapporti diplomatici è guidata da un alto prelato, qualificato
come Nunzio apostolico. Infine, la sua personalità giuridica la si deduce dal fatto che tale ente partecipa a
numerose organizzazioni e conferenze internazionali e, ad esempio, nelle Nazioni Unite essa è considerata
“Stato osservatore permanente”.

7. Quali sono le criticità in merito al riconoscimento della soggettività internazionale dell'Ordine di


Malta?
Il Sovrano Militare Ordine di Malta (S.M.O.M.) è stato istituito come ordine religioso laicale della Chiesa
Cattolica con bolla di Papa Pasquale II, e in passato ha esercitato una sovranità territoriale a San Giovanni
d'Acri, a Cipro, a Rodi e a Malta, che perse dopo la conquista di Napoleone Bonaparte nel 1798. Non
avendo una base territoriale, dal 1834 l'Ordine di Malta ha sede a Roma in due palazzi. L'Ordine di Malta si
incentra nello svolgimento di compiti assistenziali, caritatevoli e ospedalieri, ed ha un proprio ordinamento
e una propria struttura organizzativa indipendente dalla Santa Sede. Il Governo italiano ha stipulato diversi
accordi internazionali con tale ente nelle materie delle quali esso si occupa, come l'attività assistenziale
sanitaria. L'Ordine di Malta ha caratteri del tutto singolari e una soggettività funzionale/parziale molto
dibattuta. Esso ha un rapporto particolare con la Santa Sede, che lo ha istituito, in quanto l'Ordine di Malta
pretende di nominare i suoi vertici da solo, ma, essendo un ente della Chiesa cattolica, è sottoposto al
controllo del Pontefice, che secondo la Santa Sede è l'unico sovrano assoluto che potrebbe nominare i
vertici dell'Ordine di Malta. Questa è una questione ancora aperta e non risolta.

8. Chi sono gli insorti?


Gli insorti sono anche noti come partito o movimento insurrezionale e sono un gruppo organizzato, il quale
riesce ad inserirsi in una parte del territorio di uno Stato e a governarlo, sottraendola al controllo del
Governo legittimo di tale Stato. Per quanto riguarda il riconoscimento della personalità giuridica di tali
gruppi, è irrilevante la finalità del partito, in quanto ciò che conta è che l'organizzazione degli insorti abbia
conquistato una base territoriale, costituendo un Governo di fatto locale. Pertanto, è necessario il rispetto
del requisito dell'effettività affinchè tali movimenti insurrezionali siano considerati soggetti di diritto
internazionale; requisito che mancava, ad esempio, nel caso delle Brigate Rosse che, nonostante fossero un
movimento insurrezionale, non detenevano il controllo effettivo di un territorio, quindi non erano soggetti
di diritto internazionale. Agli insorti è riconosciuta una limitata soggettività internazionale e, trattandosi di
soggetti che si sovrappongono con la forza armata al Governo, sono destinatari delle norme del diritto
internazionale umanitario, che regolano l'uso della forza e sono applicabili ai conflitti armati. Inoltre, sono
destinatari anche delle norme consuetudinarie relative al trattamento degli stranieri e dei loro beni che si
trovino nel territorio da essi controllato e hanno una limitata capacità di concludere accordi internazionali,
sia con Stati terzi che con lo Stato nel quale sono insediati, che possono riguardare la situazione derivante
dal conflitto, eventuali tregue o una pacificazione. Gli insorti, per loro natura, rappresentano un fenomeno
transitorio.

9. Cos'è il diritto all'autodeterminazione?


Il diritto all'autodeterminazione è il riconoscimento della capacità di scelta autonoma e indipendente
dell'individuo, liberandosi da una dominazione coloniale, razzista o straniera e di costituirsi in Stato. Tale
principio è stato riconosciuto dalla Carta delle Nazioni Unite nell'art. 1, il quale tra i fini dell'organizzazione
contempla lo sviluppo tra le Nazioni di relazioni amichevoli, fondate sul rispetto di tale principio, e nell'art.
55, in cui esso viene indicato come fondamento dei rapporti pacifici e amichevoli tra le Nazioni. Il diritto
all'autodeterminazione assume un valore esterno, in quanto in origine nel diritto internazionale vi era una
sostanziale coincidenza tra popolo e Stato. Quello che rileva per il diritto internazionale è lo Stato-apparato,
ossia i governanti, e non lo Stato-comunità o i governati; pertanto, il diritto all'autodeterminazione è un
diritto degli Stati e non dei popoli. In questo senso, depongono anche norme internazionali vincolanti, come
i Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici e sociali del 1966. Tuttavia, tale
principio assume anche un valore interno a ciascuno Stato, in quanto quest'ultimo è tenuto a rispettare sia i
diritti individuali sanciti nei Patti, sia le aspirazioni politiche, sociali o economiche della collettività. Questo
porta ad affermare l'obbligo degli Stati parte di Patti di osservare i principi fondamentali della democrazia,
come il rispetto della volontà popolare. Il principio di autodeterminazione dei popoli ha avuto un grande
sviluppo nell'ambito della decolonizzazione, promossa dalle Nazioni Unite a partire dagli anni '60; tutti i
popoli soggetti alla dominazione straniera hanno il diritto all'autodeterminazione, il quale implica l'obbligo
della potenza coloniale di ritirarsi dal territorio occupato. Il diritto all'indipendenza è riconosciuto anche ai
popoli sottoposti a regimi razzisti o ad altre forme di dominazione straniera, là dove vi sia assoluta
estraneità tra il popolo in questione e la potenza al quale esso è sottoposto. Tuttavia, il diritto
all'autodeterminazione incontra un limite, rappresentato dal rispetto dell'unità nazionale e dell'integrità
territoriale degli Stati. Siamo in presenza di due principi giuridici incompatibili: il diritto
all'autodeterminazione prevale nel caso di popoli soggetti ad una dominazione straniera; in mancanza di
tale requisito prevale il rispetto dell'unità nazionale e dell'integrità territoriale degli Stati. A questo punto,
però, dobbiamo prendere consapevolezza di un dato: in questo modo sembrerebbe che il diritto
internazionale non dà alcuna rilevanza alle aspirazioni delle minoranze. E allora cosa si fa nel caso di
minoranze maltrattate come, per fare un esempio attuale, nel caso dell'Ucraina? Ci sono dei diritti
fondamentali che le tutelano, ma nel contesto di uno Stato. Infine, bisogna dire che la norma che riconosce
il diritto all'autodeterminazione dei popoli ha non solo natura consuetudinaria, ma anche di ius cogens,
inteso come quel nucleo centrale di norme dell'ordinamento che non può essere derogato né mediante
accordi internazionali, né da altre norme di diritto consuetudinario.

10. Cosa sono i movimenti di liberazione nazionale e cosa li differenzia dai movimenti insurrezionali?
Il movimento di liberazione nazionale è una struttura organizzata che rappresenta un popolo in lotta
nell'esercizio del diritto di autodeterminazione, con lo scopo di raggiungere l'indipendenza liberandosi da
una dominazione coloniale, straniera o razzista e di costituirsi in Stato. Esso presenta delle analogie con il
movimento insurrezionale, in quanto entrambi sono dei gruppi organizzati di persone che cercano di
contrapporsi ad una potenza dalla quale si vogliono liberare. Tuttavia, mentre nel caso dei movimenti
insurrezionali per il diritto internazionale è irrilevante lo scopo dell'insurrezione, nel caso dei movimenti di
liberazione nazionale il motivo è rilevante e deve essere l'esercizio del diritto all'autodeterminazione, intesa
come indipendenza. Inoltre, il diritto internazionale non pretende che il movimento di liberazione nazionale
controlli una base territoriale, in quanto avrebbe comunque una personalità internazionale là dove
rappresenta l'ente esponenziale organizzato di un popolo che esercita il diritto all'autodeterminazione. I
movimenti di liberazione nazionale, pertanto, sono titolari del diritto all'autodeterminazione del popolo da
essi rappresentato. Essi hanno una soggettività funzionale, limitata alle necessità richieste dalla loro attività
per perseguire l'obiettivo prefissato, e hanno la capacità di concludere accordi internazionali che si
occupano di questioni riguardanti un conflitto armato come, per esempio, un accordo di tregua. Possiamo
ricordare l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che era una struttura organizzata del popolo
palestinese che poteva concludere accordi internazionali necessari al perseguimento dell'obiettivo, come
accordi di tregua sull'uso della forza. Là dove i movimenti di liberazione nazionale controllino un territorio,
sono destinatari delle norme internazionali consuetudinarie sul trattamento degli stranieri, e se
commettono degli illeciti internazionali con la propria organizzazione sono soggetti alle conseguenze
previste per il fatto illecito, come l'obbligo di riparazione.

11. Tutte le organizzazioni internazionali hanno una soggettività internazionale?


Le organizzazioni internazionali sono degli enti che hanno una propria struttura e un proprio apparato e che
sono creati dagli Stati membri attraverso accordi internazionali per il perseguimento di loro interessi
comuni tramite l'attività degli organi dell'ente. Pertanto, non sono enti originari come gli Stati, ma sono
costituiti dagli Stati mediante accordi internazionali; non essendo organi originari, non hanno una
competenza generale, non potendo così intervenire in ogni settore, ma solo nei settori per i quali gli Stati
hanno trasferito loro determinate competenze. Questo principio prende il nome di “principio delle
competenze di attribuzione. Le organizzazioni internazionali non hanno solo competenze loro attribuite
dagli Stati, ma anche una struttura organizzativa formata da organi, che sono: organo a composizione
plenaria, organo a composizione più ristretta e organo di gestione amministrativa (struttura tripartita).
Tuttavia, molto spesso tali enti sono composti da più organi, tra i quali vi sono i tribunali internazionali,
come la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, che hanno il compito di dirimere le
controversie fra gli Stati membri o tra i dipendenti dell'organizzazione e l'organizzazione stessa. Questo
perchè qualora l'organizzazione internazionale abbia la soggettività internazionale, beneficia di una serie di
guarantige simili a quelle degli Stati (es. immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione statale). Non tutte
le organizzazioni internazionali hanno la soggettività internazionale, in quanto ciò dipende dalla sussistenza
di due requisiti: l'effettività, ossia l'organizzazione deve esercitare di fatto le funzioni ad essa attribuite dagli
Stati, e l'indipendenza, nel senso che l'organizzazione deve essere in grado di esprimere una propria
volontà che non sia coincidente con la somma delle volontà degli Stati che l'hanno costituita. Questi due
requisiti hanno un significato diverso per le organizzazioni internazionali, rispetto a quello per gli Stati: per
questi ultimi, l'indipendenza è un requisito giuridico che si sostanzia nel fatto che l'atto istitutivo
(Costituzione) non si appoggia sulla Costituzione di un altro Stato; per le organizzazioni internazionali,
invece, l'atto istitutivo non è la Costituzione, ma il trattato. Il riconoscimento della personalità
internazionale alle organizzazioni internazionali può comportare conseguenze pericolose, in quanto può
consentire agli Stati di nascondersi dietro il velo delle organizzazioni, sottraendosi così all'osservanza degli
obblighi, trasferendoli alle organizzazioni, e sfuggendo alle relative responsabilità in caso di violazione.
Questo fenomeno rende difficile per lo Stato o individuo vittima dell'illecito far valere i propri diritti, in
quanto sono esperibili procedimenti giudiziari per azioni contro Stati, e non contro organizzazioni
internazionali. Un esempio di organizzazione internazionale priva di personalità internazionale è il GATT
(accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio), il cui accordo che lo costituiva non è mai entrato
formalmente in vigore, in quanto era richiesto un certo numero di ratifiche formali mai raggiunte, quindi è
stato applicato in via di fatto; inoltre, non vi era una struttura organizzativa, quindi gli Stati si appoggiavano
alla struttura organizzativa delle Nazioni Unite.

12. Qual è la condizione dell'individuo in quest'ottica?


In passato si riteneva che gli individui non avessero una soggettività internazionale per due ragioni: erano
assoggettati alla potestà del proprio Stato, quindi non avevano una propria indipendenza, ed erano
considerati sproporzionati i poteri dello Stato rispetto ai poteri degli individui sul piano dell'effettività. Ad
oggi, la visione collettiva è mutata rispetto al passato, in quanto esistono delle norme internazionali che si
rivolgono direttamente agli individui e conferiscono loro diritti, obblighi, responsabilità e poteri giuridici.
Tali norme, che sono importanti per la constatazione di una possibile soggettività internazionale
dell'individuo, sono quelle volte a tutelare i suoi diritti fondamentali e quelle relative ai suoi crimini
internazionali, là dove vi sia stata un'inosservanza dell'individuo nei confronti dei divieti derivanti dal diritto
penale internazionale. Infatti, ci sono delle norme di diritto internazionale che vietano e sanzionano
determinati comportamenti, e questo diritto internazionale che ha rilevanza penale prevede i c.d. crimini
internazionali dell'individuo, e non degli Stati. Questo diritto internazionale si rivolge direttamente agli
individui, e li sanziona in caso di crimini di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità e crimini di
aggressione. I crimini internazionali hanno origine nel diritto consuetudinario, in quello pattizio e negli
statuti dei tribunali penali internazionali. Il riconoscimento dei diritti fondamentali dell'individuo, invece,
avviene con la nascita delle Nazioni Unite nel 1945, che ha rappresentato un passo avanti rispetto al
passato, in cui gli Stati non erano tenuti a dare conto alla comunità internazionale del trattamento dei
propri cittadini, che rientrava nella sua “domestic jurisdiction”. Le Nazioni Unite precisarono il contenuto
dei diritti umani, promuovendone l'arricchimento a seconda delle esigenze che emergevano nella comunità
internazionale e della necessità di tutelare i soggetti più fragili, come le donne, i bambini, i rifugiati o i
disabili. In quest'ottica, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 svolse un ruolo
fondamentale, e rappresenta tutt'ora la base sulla quale si fonda la costruzione del diritto internazionale
dei diritti umani. La tematica dei diritti fondamentali dell'individuo diventa così importante a livello
internazionale che arriva a formarsi una norma consuetudinaria che sancisce il divieto di gross violations,
consistenti in violazioni massicce o sistematiche dei diritti umani fondamentali.

CAPITOLO 6 - LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE


1. Cosa sono e quali sono le fonti del diritto internazionale?
Le fonti del diritto internazionale sono quei atti, fatti o procedimenti in grado di creare, modificare ed
estinguere norme giuridiche che appartengono a tale diritto. L'art. 38 dello Statuto della Corte
internazionale di giustizia, che è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, ha la funzione di
decidere le controversie che le sono sottoposte alla luce del diritto internazionale, e fornisce un quadro
delle fonti che essa applica. Tra queste vi sono: le convenzioni internazionali sia generali che particolari, che
stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite; la consuetudine internazionale,
consistente in una pratica generale accettata come diritto; i principi generali di diritto riconosciuti dalle
Nazioni civili; le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più qualificati delle varie Nazioni.
L'ordinamento internazionale è l'unico ordinamento che riconosce la dottrina giuridica come fonte del
diritto.

2. Come sono ordinate le fonti del diritto internazionale da un punto di vista gerarchico?
Da un punto di vista gerarchico, la fonte di primo grado dell'ordinamento internazionale è la consuetudine,
dotata di efficacia generale in quanto è rivolta a tutti gli Stati e agli altri soggetti di diritto internazionale. Tra
le norme consuetudinarie, ve n'è una di carattere strumentale che è definita nel brocardo “pacta sunt
servanda”, la quale rappresenta il fondamento giuridico della obbligatorietà dell'accordo, per gli Stati parte.
In altri termini, gli accordi, i trattati o le convenzioni internazionali (vari terminologie per indicare lo stesso
oggetto) sono previsti come atti giuridicamente vincolanti da una norma consuetudinaria, quindi trovano il
fondamento della loro vincolatività per gli stati da una norma generale di diritto internazionale. Ed è per
questo motivo che questi sono da considerarsi fonti di secondo grado, essendo applicabili solo agli Stati che
fanno parte di quel determinato accordo. Vi sono poi i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni
civili, che esprimono delle regole di logica giuridica, di buon senso e di giustizia sostanziale, e il più delle
volte assumono una portata universale. Tali principi hanno un ruolo sussidiario e integrativo rispetto alla
consuetudine e agli accordi. Infine, vi sono le decisioni prese dagli organi giurisdizionali internazionali, la
dottrina giuridica e gli atti unilaterali, che sono dei singoli tipi di atti che esprimono la volontà di un singolo
Stato.

3. Quali sono i rapporti tra consuetudine e accordo?


Il rapporto tra consuetudine, fonte primaria di diritto internazionale, e accordo, fonte di secondo grado,
non è paragonabile al rapporto tra la Costituzione e la legge a livello di diritto interno, in quanto un accordo
può derogare le consuetudini, anzi in genere nascono proprio con questa funzione. Bisogna dire, però, che
l'accordo non può derogare tutte le norme consuetudinarie, in quanto esiste una categoria di norme
consuetudinarie inderogabili che prende il nome di ius cogens, le quali sono inderogabili a opera dei trattati
e immodificabili ad opera di norme consuetudinarie comuni o ordinarie, ma solo da una norma di ius
cogens successiva. La consuetudine e l'accordo hanno la stessa efficacia giuridica: l'accordo si pone come
norma speciale rispetto alla norma generale di natura consuetudinaria. Tuttavia, anche il diritto
consuetudinario ha può modificare o estinguere una norma convenzionale preesistente, là dove una nuova
norma consuetudinaria preveda un contenuto incompatibile con quello dell'accordo o produca una
disciplina che regola in maniera completa la materia oggetto di tale accordo. In questo caso, si verifica
un'abrogazione o modificazione tacita dell'accordo.

4. Cos'è il ius cogens?


Nel corso della seconda metà del secolo scorso è emersa una specifica categoria di norme consuetudinarie,
ossia le norme imperative del diritto internazionale generale, meglio note come ius cogens, le quali sono
dotate di un rango giuridico superiore rispetto sia ai trattati che alle altre norme consuetudinarie. Tali
norme hanno avuto un riconoscimento ufficiale nell'art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati del 1969, il quale sostiene che è nullo qualsiasi trattato che sia in conflitto con una norma
imperativa del diritto internazionale generale, intesa come quella norma riconosciuta dalla comunità
internazionale degli Stati che non può essere derogata in alcun modo e che può essere modificata solo da
un'altra norma del diritto internazionale avente lo stesso carattere. La superiorità gerarchica dello ius
cogens si esprime sia nei confronti degli accordi che della consuetudine ordinaria o comune: nel primo
caso, i trattati in contrasto con norme imperative producono la sanzione della nullità giuridica e l'estinzione
di qualsiasi precedente accordo confliggente; nel secondo caso, la superiorità delle norme imperative
risulta dal fatto che le norme consuetudinarie comuni non possono modificarle, a differenza delle prima che
possono sempre modificare una norma consuetudinaria preesistente. Non abbiamo un elenco delle norme
imperative, ma sicuramente tra queste rientrano tutti quei valori condivisi dalla comunità internazionale,
considerati dalla stessa come irrinunciabili, come: divieto di aggressione, diritto di autodeterminazione dei
popoli, divieto delle violazioni più gravi o sistematiche dei diritti umani, divieto di privare uno Stato di ogni
risorsa economica e il principio di non-refoulement, secondo il quale uno Stato non può respingere uno
straniero verso un Paese dove correrebbe il rischio di perdere la vita o di essere sottoposto a tortura o altro
trattamento inumano o degradante.

5. Quali sono gli elementi costitutivi della consuetudine?


La consuetudine è la fonte di diritto internazionale generale, in quanto si rivolge a tutti i soggetti di diritto
internazionale, e può produrre la nascita di nuove norme o l'abrogazione di quelle esistenti; in quest'ultimo
caso, si parla di desuetudine. Le norme consuetudinarie non sono scritte, e proprio per questo motivo la
loro individuazione risulta, da un lato, di grande importanza e, dall'altro, molto complesso. Essa è formata
da due elementi: uno materiale, detto “diurnitas”, che consiste nella ripetizione di un determinato
comportamento nel tempo; l'altro psicologico, detto “opinio iutis sive necessitatis”, rappresentato dalla
convinzione di dover tenere quel determinato comportamento in adempimento di un obbligo giuridico o
nell'esercizio di un diritto. La sussistenza di entrambi i requisiti è necessaria per parlare di consuetudine.
Tuttavia, secondo parte della dottrina, la consuetudine sarebbe caratterizzata dal sono elemento materiale;
questo perchè dato che gli Stati si comportano in un certo modo nella convinzione che tale comportamento
sia giuridicamente obbligatorio, ma in realtà non lo è ancora (non è ancora nata la consuetudine), si
potrebbe pensare che la consuetudine poggi su un errore. Ad oggi, la giurisprudenza e la prassi sono nel
senso di riconoscere la necessarietà di entrambi gli elementi costitutivi, poiché è proprio tale
convincimento che ci permette di distinguere le norme giuridiche consuetudinarie da quelle prassi seguite
nelle relazioni internazionali, ma per ragioni politiche o di cortesia o di tradizione, quindi non producono
norme giuridiche vincolanti. Bisogna dire, però, che la norma consuetudinaria non è subordinata al suo
riconoscimento unanime della comunità internazionale. Al contrario, c'è chi sostiene che se uno Stato si
oppone costantemente ad una norma consuetudinaria, può impedirne l'applicazione nei suoi confronti;
questa teoria prende il nome di “teoria del persisten objector”. In realtà, dobbiamo considerare che la
consuetudine non è un atto volontaristico, al contrario dell'accordo, quindi si potrebbe al massimo
ostacolare o tardare la formazione della stessa, ma non evitarla.

6. Come si accerta l'esistenza di una norma consuetudinaria internazionale?


Per poter accertare l'esistenza di una consuetudine internazionale è necessario esaminare la prassi
uniforme degli Stati che esprima la loro opinio iuris. Occorre esaminare che gli Stati conformino la loro
condotta in modo generale e che considerino i comportamenti contrari alla regola come una violazione
della stessa. Inoltre, bisogna dire che anche la violazione di una norma consuetudinaria può confermare la
sua esistenza, in quanto lo Stato che ha commesso la violazione molto spesso difende la propria condotta
utilizzando delle giustificazioni dedotte dalla stessa norma. In questo modo, egli stesso conferma
l'obbligatorietà di quella norma, altrimenti non cercherebbe di giustificare la sua violazione alla stessa.

7. Quanto tempo occorre affinchè una norma consuetudinaria entri in vigore?


Affinchè si possa parlare di consuetudine, ovviamente è necessario che una determinata condotta sia
protratta nel tempo, anche se non si può precisare di quanto tempo occorra. I tempi di formazione di una
norma consuetudinaria possono variare a seconda di diversi fattori, quali: gli interessi in gioco o la
convergenza degli interessi tra gli Stati; l'eventuale sostegno alla formazione della consuetudine da parte di
grandi Potenze; la pressione di nuovi sviluppi scientifici e tecnologici che necessitano di una
regolamentazione giuridica immediata. Tanti più sono gli Stati che rispettano la consuetudine nella
convinzione di rispettare un obbligo giuridico, quanto più il fattore-tempo si riduce; pertanto, la
consuetudine può formarsi più rapidamente se tutti gli Stati ritengono che quel comportamento sia
giuridicamente obbligatorio.

8. In cosa consiste la codificazione del diritto internazionale consuetudinario?


Il diritto internazionale consuetudinario è caratterizzato da un inevitabile coefficiente di incertezza,
trattandosi di un diritto non scritto che deve essere ricavato dall'esame della condotta uniforme degli Stati
e degli altri soggetti di diritto internazionale. Proprio per questo motivo, a partire dagli anni '50 dello scorso
secolo è sorta un'esigenza di certezza del diritto che si esplicherà nella nascita di un fenomeno, denominato
“codificazione del diritto internazionale consuetudinario”. Esistenza di tale tendenza degli Stati porta gli
stessi a scrivere degli accordi che trasformano le consuetudini in diritto scritto, in modo da garantire la
certezza del diritto, e ciò avviene mediante i c.d. accordi di codificazione. Questi ultimi sono dei trattati
internazionali che trasformano il diritto consuetudinario in diritto pattizio, là dove però siano accettati dagli
Stati; in caso contrario, questi rimangono dei testi meramente cognitivi. Tuttavia, bisogna precisare che le
norme di codificazione che scrivono una consuetudine esattamente com'è in quanto consuetudine non
fanno altro che scrivere una cosa che è già in vigore, quindi quelle norme codificate si applicano a tutti gli
Stati, anche se non facenti parte dell'accordo, in quanto si applicano a titolo consuetudinario. Al contrario,
le norme contenute in un accordo di codificazione che non corrispondono al diritto internazionale generale
sono norme di diritto pattizio che si applicano solo agli Stati che fanno parte dell'accordo. Tra gli accordi di
codificazione, uno dei più importanti è la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. Tali accordi
hanno la funzione di semplificare l'accertamento della consuetudine.

9. Cosa sono i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili e come si distinguono dalla
consuetudine?
L'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, che ci fornisce un quadro delle fonti di diritto
internazionale, menziona tra le varie fonti anche i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili,
che rappresentano delle regole di logica giuridica, di buonsenso e di giustizia sostanziale, e talvolta hanno
una portata piuttosto universale. Tali principi nascono negli ordinamenti giuridici interni degli Stati e poi
vengono assunti a livello internazionale; affinchè ciò avvenga, è necessario che questi principi siano
accettati dalla maggior parte degli Stati, nella convinzione che siano giuridicamente vincolanti. Proprio
perchè nascono all'interno degli ordinamenti giuridici statali, alcuni autori ritengono che essi siano delle
particolari norme consuetudinarie. La differenza tra la consuetudine ordinaria e il principio generale è il
fatto che la prima nasce immediatamente nel diritto internazionale, mentre i secondi nascono negli
ordinamenti interni e poi diventano vincolanti nel diritto internazionale nel momento in cui gli Stati iniziano
a farne applicazione costante. Un esempio di principio generale è espresso nel brocardo “nemo iudex in re
sua”, inteso come principio di terzietà del giudice, o nel brocardo “nullum crimen nulla poena sine lege”,
inteso come principio di legalità dei reati e delle pene. I principi generali delle Nazioni civili svolgono un
ruolo sussidiario e integrativo rispetto agli accordi e alla consuetudine, in quanto là dove vi sia un'assenza di
norme convenzionali e di norme consuetudinarie, bisogna tener conto dei principi generali. Pertanto, questi
ultimi hanno la funzione di colmare le lacune del diritto pattizio e del diritto consuetudinario, ed ecco
perchè sono collocati in una posizione subordinata rispetto agli stessi.

10. Cosa si intende con l'espressione “ex aequo et bono”?


L'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia consente agli Stati parti del processo di stabilire,
mediante comune accordo, che la Corte decida la controversia “ex aequo et bono”, cioè secondo equità e
non applicando il diritto internazionale. Questo comporta la valutazione delle pretese delle parti in base a
dei criteri di opportunità, di giustizia, sociali, economici, intesi come criteri extragiuridici. Tuttavia, è
necessario chiarire che l'equità non rientra le fonti di diritto internazionale, ma è solo un'alternativa alle
stesse. La sentenza secondo equità prende il nome di “sentenza dispositiva”, in quanto crea la norma che
risolve la controversia tra le parti, mentre la sentenza fondata sul diritto preesistente è denominata
“sentenza dichiarativa”, perchè si limita ad accertare e dichiarare tale diritto. La sentenza dispositiva
diventa fonte di diritto internazionale, in quanto è una fonte prevista dall'accordo tra le parti della
controversia. Inoltre, in certi settori l'equità può divenire il contenuto di norme giuridiche che ne
prescrivano l'applicazione.

10. Come sono considerate nel diritto internazionale le dichiarazioni di principi dell'Assemblea
generale dell'Onu?
L'Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) è un'organizzazione intergovernativa a carattere mondiale, che
la finalità di garantire il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, lo sviluppo di relazioni
amichevoli tra le nazioni e il perseguimento di una cooperazione internazionale. Tale organizzazione ha tra i
suoi membri tendenzialmente tutti gli Stati. L'Assemblea generale dell'Onu è un organo delle Nazioni Unite
in composizione plenaria, in grado di adottare degli atti. Sin dai primi anni di vita dell'organizzazione,
l'Assemblea generale ha preso l'iniziativa di emanare degli atti denominati “dichiarazioni”, contenenti dei
principi relativi ad una determinata materia rivolti a tutti gli Stati, i quali devono conformarvisi. Un esempio
di tali dichiarazioni è la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, avente ad oggetto il
riconoscimento dei diritti umani. Le dichiarazioni dell'Assemblea generale sono degli atti mediante i quali si
codifica il diritto internazionale non scritto, pertanto, hanno una rilevanza giuridica. Dal momento che in
Assemblea generale siedono tutti gli Stati, quanto più è grande la maggioranza con la quale la dichiarazione
di principi viene adottata, tanto più è probabile che il contenuto di quelle norme abbia natura
consuetudinaria, in quanto sarebbero rappresentative della volontà dell'intera comunità internazionale e
sarebbero produttive di norme obbligatorie di portata generale. Tuttavia, pur contenendo principi di
portata generale, le dichiarazioni di principi dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite non possono
essere inserite tra le fonti di diritto internazionale. Infine, sebbene nel momento in cui la dichiarazione di
principi viene adottata, essa faccia riferimento a situazioni che non sono regolate dal diritto
consuetudinario, può accadere che la dichiarazione di principi spinga la prassi in un certo senso, al punto da
far nascere un obbligo consuetudinario corrispondente.

11. Cosa sono gli atti delle organizzazioni internazionali (fonti previste da accordi)?
Le fonti previste da accordi, o fonti di terzo grado, sono degli atti obbligatori delle organizzazioni
internazionali che rientrano tra le fonti di diritto internazionale in quanto, sebbene non siano menzionati
dall'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, lo statuto dell'organizzazione che li prevede
è un accordo internazionale. Le organizzazioni internazionali sono soggetti di diritto internazionale dotati
solo di quelle competenze che sono state loro attribuite dagli Stati mediante accordi, quindi sono enti
derivati. Questo concetto prende il nome di “principio delle competenze di attribuzione”, e tra queste
competenze vi può essere quella di prevedere degli atti che si chiamano “atti di diritto derivato” o “fonti
previste da accordi”. Bisogna precisare che non sempre le organizzazioni internazionali dispongono del
potere di emanare atti giuridicamente vincolanti, ma solo atti esortativi che prendono il nome di
“raccomandazioni”. Di norma, tutto si risolve nella dicotomia: vincolante = rilievo giuridico, non vincolante
= nessun rilievo giuridico; in realtà non è così. Ad esempio, le dichiarazioni di principi dell'Assemblea
generale delle Nazioni Unite non sono vincolanti, ma hanno avuto un rilievo giuridico nel tempo come
elementi di prassi, ma possono anche essere lette come accordi in forma semplificata. In certi casi, gli atti
delle organizzazioni internazionali sono obbligatori, ma solo nei confronti degli Stati membri che gli
accettano, anche in maniera tacita non respingendoli entro il termine previsto. In tal senso, bisogna
menzionare il c.d. effetto di liceità, che è quell'effetto giuridico per il quale, adottata una risoluzione, che è
un atto non vincolante dell'organizzazione internazionale, uno Stato che per conformarsi alla
raccomandazione non rispetti un altro obbligo di diritto internazionale non può essere considerato
responsabile della violazione di quest'ultimo; può valere solo nei confronti degli Stati che hanno preso parte
all'adozione della risoluzione, e solo all'interno dell'organizzazione stessa. Una vera novità, sotto questo
punto di vista, è rappresentata dall'Unione europea, la quale ha il potere di emanare atti obbligatori non
solo nei confronti degli Stati membri, ma anche delle persone fisiche e giuridiche di tali Stati, come avviene
nel caso del regolamento europeo, il quale ha una portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.

12. Cosa sono gli atti unilaterali?


Gli atti unilaterali rientrano tra le fonti di diritto internazionale e sono singoli tipi di atti che esprimono la
volontà di un singolo Stato. Gli atti unilaterali sono collocati in una posizione subordinata rispetto a tutte le
altre fonti di diritto internazionale e non possono violare le norme consuetudinario o le norme di diritto
pattizio; anzi, talvolta sono proprio queste ultime ad attribuire a tali atti effetti giuridici corrispondenti alla
volontà del loro autore. Gli atti unilaterali previsti dal diritto pattizio sono: la denuncia, il recesso e il
requete. La denuncia consente a uno Stato parte di un accordo di estinguere la sua efficacia, là dove tale
possibilità sia prevista dall'accordo e alle condizioni stabilite. Essa produce l'estinzione di accordi bilaterali, i
quali non possono più rimanere in vita nei confronti di uno solo Stato, essendo appunto degli atti bilaterali.
Il recesso è simile alla denuncia, ma riguarda gli atti multilaterali, quindi comporta l'estinzione
dell'obbligatorietà nei soli rapporti con lo Stato recedente, lasciando in vita l'accordo per gli altri Stati parti;
inoltre, il recesso produce anche la perdita dello status di membro dell'organizzazione, come è avvenuto
nel caso del Regno Unito nei confronti dell'Unione europea. La requete è l'atto unilaterale che, qualora sia
previsto da un accordo per il regolamento giudiziario delle controversie internazionali, determina l'inizio del
processo dinanzi al tribunale internazionale, la cui competenza è attribuita allo stesso accordo. Gli altri atti
unilaterali sono previsti come in grado di produrre effetti giuridici da norme internazionali consuetudinarie,
e tra questi rientra il riconoscimento, con il quale uno Stato dichiara di confermare l'esistenza di una
determinata situazione di diritto o di fatto. Inoltre, possiamo citare anche la rinuncia, che consiste nella
manifestazione di volontà di uno Stato di rinunciare ad un proprio diritto, determinandone così l'estinzione;
la protesta, che è una dichiarazione con la quale uno Stato contesta la liceità del comportamento tenuto da
un altro Stato o soggetto di diritto internazionale oppure di una determinata situazione; e la promessa
unilaterale, con la quale uno Stato dichiara di volersi impegnare a tenere un certo comportamento.

13. Che funzione ha la prassi da un punto di vista internazionale?


La prassi degli Stati è rilevante per l'accertamento di una norma consuetudinaria e comprende una serie di
fattori, tra cui i meri comportamenti di fatto, anche di carattere omissivo. Assume un ruolo importante la
prassi diplomatica, che è costituita da dichiarazioni ufficiali, proteste o istruzioni rese dal Ministero degli
esteri alle proprie sedi diplomatiche. Tale prassi diplomatica può essere bilaterale, nel caso in cui si
manifesti nei rapporti tra singoli Stati, o multilaterale, là dove si manifesti in capo a organizzazioni o
conferenze internazionali. Quest'ultima è molto rilevante, in quanto in tali sedi il dibattito coinvolge tutti gli
Stati partecipanti, i quali devono esprimere le proprie opinioni sul tema della discussione. Questo consente
di far emergere delle posizioni da parte dei vari Stati che altrimenti non sarebbero mai state espresse, e
permette di rilevare una convergenza delle opinioni e dei comportamenti degli Stati. In questo modo, è
possibile velocizzare la formazione o l'accertamento di una consuetudine. Sotto questo punto di vista,
emerge l'importanza della legislazione statale, che ha dato dei preziosi contributi alla formazione di norme
consuetudinarie. Inoltre, per individuare la prassi degli Stati è importante tener conto della giurisprudenza
dei loro giudici che, tra l'altro, è menzionata anche dall'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di
giustizia, il quale ricomprende tra le fonti di diritto internazionale anche le decisioni giudiziarie e la dottrina
più autorevole, intesi come mezzi sussidiari di determinazione delle norme giuridiche.

CAPITOLO 7 – IL DIRITTO DEI TRATTATI


1. Cos’è un trattato?
Un atto che si fonda sulla norma consuetudinaria “pacta sunt servanda” e che si identifica nella volontà
delle parti a rispettare il contenuto di un certo accordo, nonché la sottoposizione dello stesso al diritto
internazionale. La materia dei trattati tra Stati è stata codificata dalla Convenzione di Vienna del 1969,
entrata in vigore solo nel 1980.

2. La stipulazione dei trattati.


Il trattato internazionale è la volontà di due o più Stati aventi l’identico contenuto che essi si obbligano a
rispettare, e a seconda che vi siano due o più stati, si producono trattati bilaterali piuttosto che
multilaterali. Il procedimento attraverso cui si giunge all’incontro di volontà delle parti contraenti è quello
di stipulazione o conclusione del contratto stesso. In materia vige una piena libertà di forma, ed addirittura
è possibile concludere un contratto anche in forma tacita mediante una condotta degli stati che manifesti,
in maniera sicura ed univoca, la loro volontà di obbligarsi reciprocamente. Nella prassi le forme più
comunemente adottate sono: la forma solenne e la forma semplificata.

3. Forma solenne.
La forma solenne è una tipologia di conclusione del trattato, che si articola in quattro fasi. Anzitutto vi è la
negoziazione che consiste nella trattativa tra gli Stati interessati, rappresentati dai propri organi, i c.d.
plenipotenziari. Se la fase di negoziazione si conclude positivamente, si apre la seconda fase di tale
procedimento: la firma del medesimo testo da parte di tutti gli Stati partecipanti. Va sottolineato che la
firma dell’accordo non è idonea ad esprimere la volontà di uno Stato ad obbligarsi ad osservare il testo
sottoscritto, la firma ha un mero valore giuridico di autenticazione del testo stesso, rendendolo definitivo.
La fase che invece esprime la volontà degli stati ad obbligarsi reciprocamente e dunque a vincolarsi con
l’accordo, è la ratifica dell’accordo stesso. La quarta ed ultima fase della conclusione in forma solenne è
rappresentata dallo scambio o dal deposito delle ratifiche. Va sottolineato che nei Trattati bilaterali, lo
scambio di ratifiche produce immediatamente l’incontro della volontà degli Stati e per tale ragione,
l’accordo può entrare in vigore da quel momento. Al contrario, nel caso di Trattati multilaterali, l’entrata in
vigore è subordinata al numero minimo di ratifiche.

4. Cos’è l’adesione?
È una manifestazione della volontà di obbligarsi, che riguarda la partecipazione ai trattati multilaterali
aperti. Questi, contengono una disposizione, la c.d. clausola di adesione, che stabilisce che qualsiasi Stato
terzo rispetto agli originari contraenti, possa entrare a far parte dell’accordo mediante una sua
dichiarazione di volontà unilaterale.

5. Cos’è l’ammissione?
È una manifestazione della volontà di uno stato ad obbligarsi mediante un accordo, ma va tenuta distinta
dall’adesione. Anche in questo caso l’accordo multilaterale prevede che uno Stato estraneo all’accordo
stesso, possa parteciparvi, ma a tal fine non è sufficiente la manifestazione della sua volontà; la domanda
infatti viene sottoposta alla valutazione degli altri stati e solo nel caso di accettazione è ammesso
nell’accordo.

6. Forma semplificata.
La conclusione di un trattato avviene in forma semplificata quando la firma stessa esprime la volontà dello
Stato ad essere vincolato dal trattato, e pertanto non ha luogo la ratifica, tipica invece della forma solenne.
Con la forma semplificata, l’entrata in vigore si determina quando il trattato viene sottoscritto da entrambi
o da tutti gli Stati, a seconda che si tratti di un trattato bilaterale piuttosto che multilaterale, che lo hanno
negoziato.

7. Cosa si intende per competenza a stipulare?


Il diritto internazionale regola direttamente tale competenza e solo per alcuni limitati profili. Per
competenza a stipulare si intende l’individuazione degli organi dello Stato abilitati a rappresentarlo nel
procedimento di conclusione del trattato stesso, nonché l’ampiezza dei loro poteri. Si tratta dei c.d.
plenipotenziari forniti di un documento in cui sono designati come rappresentanti, rilasciato dagli organi
competenti dello Stato. Hanno la stessa competenza, senza necessità di esibire un documento, i Capi di
Stato, i Capi di governo, i ministri degli affari esteri, ecc. Il diritto internazionale, per l’individuazione di altri
eventuali organi, e principalmente per definire i limiti della loro competenza a stipulare e i rapporti che
possono porsi con altri organi dello stato, opera un rinvio al diritto costituzionale interno del singolo stato
interessato. Questa disciplina internazionale mediante rinvio al diritto interno dello Stato in questione trova
conferma nella Convenzione di Vienna del 1969, infatti è previsto come causa di invalidità dei trattati, il
fatto che il consenso di uno stato a vincolarsi in un trattato sia stato espresso in violazione di una
disposizione del diritto interno sulla competenza a stipulare, purché la violazione sia manifesta e la norma
violata sia di fondamentale importanza.

8. La competenza a stipulare nella Costituzione Italiana.


L’art. 87 Cost. attribuisce al Presidente della Repubblica la competenza a ratificare i trattati, disposizione
collegata all’art. 80 Cost. che indica i casi in cui tale ratifica è subordinata all’accettazione da parte del
Parlamento. Va precisato che la ratifica è un atto sostanzialmente governativo, seppur l’art. 87 ne
attribuisca la competenza da un punto di vista formale al Presidente della Repubblica. Egli esercita in
questo senso, un mero ruolo di garante del rispetto della Costituzione e dell’unità nazionale, infatti in
mancanza di tali violazioni è tenuto a ratificare l’accordo proposto dal Governo. L’art. 80 per una pluralità di
materie, evidentemente più importanti, attribuisce una competenza determinante al parlamento. Tra
queste pluralità di materie vi sono trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, trattati che
importano variazioni di territorio, trattati che importano modificazioni di leggi, trattati di natura politica e
trattati che comportano oneri alle finanze.
La forma semplificata è compatibile con la prescrizione costituzionale solo nel caso di Trattati che, pur
rientrando in categorie contemplate dall’art. 80, siano meramente esecutivi di trattati precedenti,
regolarmente ratificati previa autorizzazione delle camere. Infine, la legge di autorizzazione alla ratifica è
coperta da alcune specifiche garanzie: in primo luogo deve essere approvata in ciascuna camera in seduta
plenaria, e non in commissione; in secondo luogo non può essere sottoposta a referendum abrogativo. Un
altro problema che si pone nell’ordinamento italiano è legato agli accordi segreti. Questi sono consentiti, in
genere sono conclusi con la forma semplificata e non possono riguardare le discipline coperte dall’art. 80
poiché sottrarrebbero al Parlamento non solo il potere di autorizzarli ma anche la possibilità di esserne
meramente informato.

9. Cos’è una riserva al Trattato?


Normalmente il testo di un trattato è accettato dagli Stati contraenti nella sua integralità, obbligando così
negli stessi termini e in maniera reciproca gli Stati. Nei trattati multilaterali, è tuttavia consentita, a certe
condizioni, una partecipazione limitata; uno Stato può infatti escludere o modificare l’applicazione di alcune
clausole nei suoi confronti, che restano pienamente valide ed applicabili nei rapporti degli altri Stati parti.
La riserva può essere eccettuativa, quando lo Stato esclude dalla sua accettazione determinate clausole,
modificativa, quando le accetta ma ne muta gli effetti, ed infine interpretativa, se lo Stato accetta tutte le
clausole ma a condizione, e nei limiti, di una particolare interpretazione espressa nella riserva stessa.
Peraltro questa ha senso solo nei trattati multilaterali, poiché in quelli bilaterali non avrebbe alcuna utilità
pratica. La Convenzione, infine, ha normato la riserva stabilendo come unico limite la compatibilità della
riserva stessa con la finalità del Trattato: per tale ragione è possibile inserire all’interno dell’accordo delle
riserve proibite.

10. L’inefficacia dei trattati verso i terzi.


Una volta entrato in vigore, l’accordo diventa obbligatorio per le parti interessate. La Convenzione
recepisce la norma consuetudinaria “pacta sunt servanda” e la lega al principio di buona fede, che
comporta che le parti debbano operare in uno spirito lealtà, di correttezza e di collaborazione. La
Convenzione di Vienna, inoltre, accoglie la norma consuetudinaria che stabilisce che l’obbligo per gli Stati
contraenti è valido solo pro futuro. La stessa Convenzione, infine, contempla espressamente le ipotesi di
trattati che prevedono obblighi o doveri per Stati terzi, stabilendo che gli effetti si producono solo se lo
Stato terzo li accetta; e mentre per i diritti il consenso dello Stato terzo è presunto, salvo un’indicazione
contraria, per gli obblighi, è necessaria un’accettazione espressa per iscritto. Ad esclusione di queste
eccezioni, l’accordo rimane inefficace per gli stati terzi che non abbiano espresso la loro volontà ad aderirvi.

CAPITOLO 8 – L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO AL DIRITTO INTERNAZIONALE


1. Quali sono i rapporti tra ordinamento interno e ordinamento internazionale?
I rapporti tra diritto interno e diritto internazionale possono essere letti in almeno due maniere diverse;
secondo Kelsen non ci sarebbero una pluralità di ordinamenti giuridici ma ci sarebbe uno e un solo
ordinamento giuridico e cioè egli ricostruisce i rapporti tra d.i. e diritto interno in un modo c.d. monista e
per chi come lui ha questa posizione, diritto interno e diritto internazionale appartengono al medesimo
ordinamento giuridico, non sono separati anzi, il fondamento del diritto interno sarebbe il d.i.
Dal momento che per Kelsen, ma non solo, gli ordinamenti giuridici sono costruiti in maniera gerarchica, ci
sarebbe l’ordinamento internazionale con le sue regole che sarebbe il fondamento del diritto e degli
ordinamenti nazionali. Quindi, diritto interno e diritto internazionale sarebbero la stessa cosa, si
rivolgerebbero a soggetti diversi ma apparterrebbero al medesimo ordinamenti giuridico. Una ricostruzione
di questo tipo ha una conseguenza evidente: se il diritto interno e il diritto internazionale sono la stessa
cosa, una norma internazionale nel momento in cui esiste si applica pure agli ordinamenti interni. Se
l’ordinamento è uno, non ha nemmeno senso parlare di ordinamenti interni. Se l’ordinamento è quello, la
norma quando esiste fa parte di tutto l’ordinamento ivi compresi gli ordinamenti interni.
La concezione dei loro rapporti che viene invece accolta nella Costituzione e nella prassi, è la c.d.
concezione dualista, prendendo in considerazione il diritto internazionale, da una parte, e l’ordinamento
del singolo Stato, dall’altra. Anziché parlare di teoria dualista sarebbe più corretto parlare di teoria del
pluralismo degli ordinamenti giuridici perché se io dico che diritto interno e diritto internazionale sono cose
diverse, non c’è un solo diritto interno e allora ci sarà l’ordinamento internazionale, l’ordinamento
francese, l’ordinamento italiano, l’ordinamento dell’UE ecc…
Per il monismo l’ordinamento internazionale e gli ordinamenti statali sono un ordinamento solo e quindi le
norme di d.i. entrano in vigore in tutti i contesti contemporaneamente. Se invece diciamo che
l’ordinamento internazionale e una cosa e gli ordinamenti interni sono un’altra cosa, nel momento in cui
una norma entra in vigore nell’o.i. non è detto che sia in vigore negli ordinamenti interni (dualismo); non c’è
nessun automatismo. Es. una norma in vigore nell’ordinamento francese mica è in vigore nell’ordinamento
italiano perché sono due ordinamenti diversi.
Potrebbe succedere che l’ordinamento italiano, per i motivi più disparati, renda applicabile al suo interno
norme di diritto francese. Se pensiamo in questi termini i rapporti tra ordinamenti interni e ordinamento
internazionale inizia a diventare tutto più chiaro. Cioè, una norma di d.i. nel momento in cui entra in vigore
nell’ordinamento internazionale vincola gli Stati a rispettarla nell’ordinamento internazionale. Una norma
consuetudinaria, qualunque essa, sia deve essere rispettata nell’o.i. E negli ordinamenti interni? Dipende da
se ogni ordinamento interno si adatta a quel dato obbligo di diritto internazionale ovvero sia se recepisce al
suo interno quel dato obbligo di diritto internazionale. Quindi, in assenza di un procedimento che trasformi
il diritto internazionale in diritto interno, il diritto internazionale non è in vigore nell’ordinamento interno. E
gli Stati sono obbligati ad adattarsi agli obblighi di diritto internazionale oppure no? Dipende dal tipo di
obbligo; ci sono degli obblighi internazionali per i quali gli Stati non solo non si devono adattare ma è
impossibile farlo.
Ci sono degli accordi internazionali che tra le sue norme prevedono l’obbligo che gli Stati modifichino il
proprio ordinamento in modo da inserirli. E come si fa a fare questo adattamento? (sono sempre gli
ordinamenti interni che si adattano all’ordinamento internazionale) Come fa un ordinamento interno a
recepire ordini internazionali e quindi a renderli applicabili al suo interno? Attraverso il c.d. procedimento di
adattamento.

2. Quali sono i procedimenti di adattamento?


I procedimenti per l’adattamento del diritto italiano sono di due tipi: il procedimento ordinario e quello
speciale. Il primo è chiamato ordinario perché è lo stesso che viene usato per l’adozione di qualsiasi atto
normativo, solitamente una legge. Vede il legislatore fare una legge che trasfonde un dato obbligo
internazionale nell’ordinamento interno. Il legislatore va a leggere l’obbligo internazionale e lo trascrive in
una legge. L’altro procedimento è detto speciale. In questo caso c’è sempre l’intervento del legislatore
statale però non fa la trascrizione di un obbligo ma un rinvio. Adotta una legge in cui c’è scritto “piena ed
integrale esecuzione è data nell’ordinamento italiano al trattato concluso a …”; in questo caso il legislatore
non scrive il contenuto materiale degli obblighi da inserire nell’ordinamento interno ma fa un rinvio. Il
giudice interno o l’operatore interno che dovesse decidere una causa alla quale deve applicare quelle
norme potrà applicare il diritto internazionale perché ha la norma di rinvio che funge da interfaccia.
3. Dei due procedimenti, nella prospettiva del diritto internazionale, quale dei due è
preferibile?
Quello speciale perché nel momento in cui trascrivo un obbligo internazionale, se lo interpreto male e lo
scrivo male quello che resta in vigore è l’errore fino a quando la legge non viene modificata; invece il
procedimento speciale consente all’interprete di ogni singolo caso di andarsi a leggere la norma
internazionale e di applicarla. Quindi, l’errore di applicazione resta circoscritto al caso specifico. Questo è il
primo motivo.
Nel momento in cui il legislatore italiano trascrive un obbligo internazionale sgancia completamente la vita
delle norme di adattamento da quelle dell’obbligo internazionale al quale si riferiscono. Invece, se c’è un
procedimento speciale e c’è solo il rinvio, sparite le norme nell’o.i., il rinvio cade nel vuoto. Questo è il
secondo motivo.
Nella prospettiva del diritto internazionale il procedimento speciale è preferibile perché: riduce il rischio di
errore e tiene la norma di adattamento agganciata alla vigenza di quella internazionale.
In Italia, nel 99% dei casi, si utilizza il procedimento di adattamento speciale, in particolare per i trattati.
Quindi l’ordinamento italiano è un ordinamento ad approccio dualista e cioè recepisce il diritto
internazionale e gli consente di esser produttivo di effetti solo se c’è un procedimento di recepimento.

4. Che rango assumono nell’ordinamento interno le norme di adattamento al diritto


internazionale?
Dipende dalla fonte che dispone l’adattamento. Assumono il medesimo rango della fonte che ha disposto
l’adattamento. Se l’adattamento viene fatto con un atto amministrativo, il rango delle norme di
adattamento a quel trattato sarà di un atto amministrativo. Se l’ordine di esecuzione è dato con legge
ordinaria, le norme di adattamento avranno il rango di legge ordinaria. Se l’ordine di esecuzione è dato con
legge costituzionale, le norme di adattamento avranno rango costituzionale.

5. Il diritto non scritto come viene inserito nell’ordinamento italiano?


L’adattamento al diritto internazionale generale mediante il procedimento speciale è previsto nell’art.10
c.1 Cost. il quale dichiara: << L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciuto>>. Norme di diritto internazionale generalmente riconosciute
vuol dire diritto consuetudinario e quindi diritto internazionale generale. L’art.10 Cost. è la fonte che
dispone l’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto consuetudinario. Quindi che rango assumono in
Italia le norme di adattamento al diritto consuetudinario? Costituzionale. Che vuol dire? Che una legge
ordinaria non può violare obblighi di diritto internazionale generale perché, violando obblighi di diritto
internazionale, viola indirettamente l’art.10 Cost. e quindi potrà essere impugnata davanti alla Corte
Costituzionale per violazione dell’art.10. Questo meccanismo, che si chiama delle norme interposte, è uno
dei classici meccanismi di controllo della legittimità costituzionale in Italia.

6. Il diritto internazionale pattizio come viene inserito nell’ordinamento italiano?


Nella Costituzione italiana delle origini, fino al 2001, l’espressione “trattati internazionali” non esisteva
proprio. La Costituzione italiana è grandemente internazionalista. L’art.11 Cost. dichiara che: << L'Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo>>. Sostanzialmente l’art.11 nasce con l’intenzione di
consentire l’ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite; non venne mai utilizzato per le Nazioni Unite. L’art.11 è,
invece, l’articolo che viene utilizzato per consentire l’appartenenza dell’Italia prima alle comunità europee e
poi all’Unione Europea. L’Unione Europea produce strumenti normativi che hanno l’effetto di legge, anzi di
più (es. i regolamenti, le direttive prevalgono sulle leggi). Il problema è che l’UE produce strumenti che
hanno forza di legge in violazione frontale della Costituzione italiana: la Costituzione italiana dice che le
leggi le fa il Parlamento. Com’è possibile che si consente la produzione di effetti di legge a strumenti
incostituzionali? Perché c’è l’art.11. La Corte costituzionale, dalla metà degli anni ’60 in poi, dice che è vero
che il meccanismo di produzione giuridica dell’UE non è regolato dalla Costituzione Italiana ma in realtà, la
compatibilità di questo con l’ordinamento italiano è garantita dal fatto che ci sia l’art.11.
Questo fino al 2000, nel 2001 con la l.3, con una legge di riforma costituzionale approvata da una
maggioranza politica che da lì a poco cade, viene modificata la Costituzione perché si doveva attribuire
maggiori poteri alle Regioni. Per fare questo si riscrive il riparto di competenze Stato-Regioni, tra cui
l’art.117 Cost. Tale articolo prevede quali materie sono riservate al legislatore statale e quali al legislatore
regionale. Il legislatore del 2001 quando riscrive l’art.117, ci mette una clausola di apertura: <<La potestà
legislativa è esercitata, a seconda delle sfere rispettive di competenza, dallo Stato o dalle Regioni nel
rispetto degli obblighi derivanti all’Italia da trattati internazionali e dall’appartenenza all’UE>>. Per la prima
volta nel 2001 entra in Costituzionale italiana l’espressione “trattati internazionali”.
L’art.117 è una norma che fa dei trattati internazionali quello che l’art.10 Cost. fa per le consuetudini? No.
L’art.117 non dispone l’adattamento a tutti i trattati internazionali a rango costituzionale, sarebbe una follia
avremmo una Costituzione lunghissima; ma, dice che, il legislatore quando fa le leggi deve tener conto degli
obblighi internazionali e, qualora una norma interna dovesse violare un obbligo internazionale è possibile
contestarne la legittimità, sempre attraverso i meccanismi delle norme interposte, davanti alla Corte
Costituzionale.

7. Quali sono i criteri di risoluzione dei conflitti tra norme nell’ordinamento italiano?
Quando due norme dicono due cose diverse e incompatibili tra loro, come ci si comporta? Bisogna risolvere
quest’antinomia. I criteri sono: gerarchico – cronologico – di specialità.
Facciamo un esempio: abbiamo fatto un adattamento con legge ordinaria di un obbligo internazionale;
quest’obbligo è eseguito in Italia mediante norme di legge ordinaria e il che vuol dire che, qualora il
Parlamento dovesse adottare una legge successiva a quella che contiene l’ordine di esecuzione e
incompatibile con l’obbligo internazionale, dal momento che il criterio gerarchico non serve perché sono
fonti pari ordinate, in linea di principio dovrebbe applicare la successiva e abrogare la precedente con
conseguente responsabilità internazionale dell’Italia.
La Corte costituzionale, in diverse occasioni, dice che il rapporto tra norme pari ordinate, se implica il
rapporto tra norme di leggi ordinarie e norme di leggi ordinarie che sono state adottate per eseguire
obblighi internazionali, deve essere risolto in applicazione del criterio di specialità. Le norme di
adattamento sono norme speciali e quindi prevalgono anche sulle successive in forza del criterio di
specialità; la specialità starebbe nella doppia volontà che supporterebbe l’adozione della legge.

CAPITOLO 9 – L’ILLECITO INTERNAZIONALE. IL SISTEMA DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE.


1. Cos’è un illecito internazionale?
Data l’esistenza di un obbligo internazionale, la sua violazione da parte di uno Stato - o di un altro soggetto
del diritto internazionale -, pone in essere un suo fatto illecito e comporta la sua responsabilità,
comportando diverse conseguenze a suo carico dal punto di vista giuridico. L’illecito internazionale dello
Stato e la sua responsabilità sono disciplinati dalle norme di diritto consuetudinario. Tuttavia, sono stati
numerosi i tentativi di codificazione dell’illecito internazionale; il Progetto di articoli del 2001 ha cercato, in
ultima istanza, di creare un modello unico discostandosi dal c.d. caso classico utilizzato in passato, ossia il
trattamento dello straniero nel proprio territorio. Gli elementi costitutivi di un illecito internazionale sono
sostanzialmente due, uno dal carattere soggettivo ed uno dal carattere oggettivo: si tratta della riferibilità
del comportamento illecito allo stato e dell’antigiuridicità di tale condotta.

2. Qual è l’elemento soggettivo del fatto illecito?


L’elemento costitutivo del fatto illecito sotto il profilo soggettivo è la riferibilità del fatto allo Stato. In alcuni
casi non risulta particolarmente difficile stabilire la sussistenza di tale riferibilità, in altri casi - invece - ,
diventa più problematico riuscire a comprendere se effettivamente sussista tale attribuzione: si pensi agli
illeciti consumati in rete. In via generale, il fatto illecito è attribuita allo Stato, se la condotta è tenuta da un
organo dello Stato e dunque da un ente o da una persona fisica che rivesta questo status in conformità con
il diritto interno dello Stato, in particolare si tratta di soggetti che eserciti funzioni legislative, esecutive o
giudiziarie, piuttosto che funzioni di qualsiasi altra natura imputabili allo Stato (si pensi all’amministrazione
locale, ad una Regione, ecc.)
Dunque la regola stabilisce che non è possibile addurre allo Stato la condotta di individui privati.
Chiaramente, ogni regola implica delle eccezioni e a tal proposto si è interrogata anche la Corte
Internazionale di Giustizia. In primo luogo è attribuibile allo Stato la condotta di un soggetto che svolga
specifiche funzioni pubbliche (si pensi ai c.d. private contractors); oppure si pensi ad un organo di uno Stato
posto a disposizione di uno stato terzo se tale organo agisca in ossequio delle direttive impartite dallo
stesso terzo: quel tipo di condotta sarà comunque attribuita allo Stato terzo, nonostante l’organo
appartenga ad uno Stato.
Di particolare interesse è il caso in cui una condotta illecita sia compiuta da una o più persone che agiscono
in conformità con il controllo effettivo dello Stato oppure si pensi al caso della condotta compiuta da un
movimento insurrezionale. A tal proposito si è pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia con la nota
sentenza relativa le attività militari e paramilitari in Nicaragua, con cui stabilì che non è sufficiente che
esista un rapporto generale tra il Governo ed il gruppo o l’individuo che pone in essere il comportamento
illegittimo; è necessario che sussista un rapporto specifico tra i due. Il progetto, peraltro, recepì questo
orientamento. Infine, va sottolineato che non è sufficiente che la violazione di un obbligo internazionale sia
trasfusa in una norma interna e dunque in una legge Statale, poiché è il comportamento posto in essere - e
non la mera normativa - a costituire l’illecito.

3. Qual è l’elemento oggettivo del fatto illecito?


Si tratta dell’antigiuridicità della condotta imputabile allo Stato, e dunque è necessario che si ponga in
essere un comportamento che violi un obbligo internazionale, indipendentemente dalla forma o
dall'origine di tale obbligo. Pertanto si può trattare di un obbligo previsto da norme di diritto
consuetudinario, piuttosto che da fonti di secondo grado (trattati, accordi, statements, convenzioni, ecc.) o
ancora da una sentenza internazionale di cui lo Stato è destinatario. E’ fondamentale comprendere quando
si è consumato l’illecito poiché bisogna verificare che lo Stato fosse effettivamente vincolato giuridicamente
in quel momento. Dunque si deve comprendere quando si perfeziona la violazione. Il Progetto ha risposto a
tale quesito accogliendo l’orientamento processualistico piuttosto che quello sostanziale. Si pensi ad un
procedimento penale protratto per 30 anni: si tratta di una chiara violazione dell’art. 6 Cedu e secondo il
modello processualistico, la violazione si perfeziona immediatamente, fermo restando la necessità di
esperire prima i gradi di giudizio interno. Infine, è possibile operare una distinzione tra l’illecito istantaneo -
per esempio una violazione della sovranità territoriale di un altro Stato - e l’illecito continuato - ad esempio
l’inadempimento di un accordo internazionale. Il primo si perfeziona nel momento in cui l’atto si realizza, il
secondo si determina per tutto il periodo per cui si protrae la violazione.

4. Quali sono le cause di esclusione dell’illiceità?


Il Progetto stesso, dichiara innanzitutto, che nessuna circostanza può giustificare la violazione di un obbligo
derivante da una norma di ius cogens - quali il genocidio o il l’uso della tortura -, ed escludere dunque la
conseguente responsabilità internazionale dello Stato che ha compiuto l’illecito. Tuttavia sono contemplate
diverse cause di esclusione, prima tra tutte è il consenso del sovrano territoriale e dunque dello Stato
titolare del diritto violato, fermo restando che l’atto dell’altro Stato rimanga entro i limiti delineati da tale
consenso. Un’altra causa di esclusione dell’illiceità è la legittima difesa, che in conformità con la Carta delle
Nazioni Unite, rappresenta peraltro una eccezione al divieto dell’uso della forza. Il Progetto di articoli
inoltre aggiunge come cause di esclusione dell’illiceità anche la forza maggiore, e dunque la sopravvenienza
di una forza irresistibile e il caso fortuito, ossia il verificarsi di un evento imprevedibile. Per essere
validamente considerati come causa di esclusione è necessario che entrambi siano fuori dalle capacità di
controllo dello Stato e che rendano materialmente impossibile l’adempimento dell’obbligo. Altra ipotesi di
esclusione è lo stato di necessità, che seppur vagamente menzionata all’interno del Progetto, non è mai
stata pienamente accolta dalla Giurisprudenza internazionale. Invece, la specificazione dello stato di
necessità che si concretizza nel pericolo estremo, il c.d. distress, è considerata valida ai fini di esclusione
della violazione di un obbligo internazionale. Il distress si realizza quando il soggetto che compie l’illecito
non aveva altro strumento in una situazione di pericolo estremo, per salvare la vita altrui piuttosto che la
propria, se non quello di violare l’obbligo in questione (si pensi al salvataggio di vite umane in acque
territoriali straniere).

5. Il danno e la colpa
Non è necessario che si produca un danno affinchè si realizzi un illecito internazionale, poiché gli unici
elementi costitutivi di detto illecito sono la riferibilità del fatto allo Stato e l’antigiuridicità di tale condotta.
L’esistenza e la natura di un danno causato dal fatto illecito sono rilevanti per individuare il tipo di
riparazione prescritta dal regime giuridico di responsabilità e le possibili conseguenze di tale condotta.
Peraltro va sottolineato che nel concetto di colpa rientrano sia il dolo, e dunque la condotta intenzionale del
soggetto che compie una certa violazione, sia la colpa intesa in senso stretto e dunque la condotta
negligente del soggetto che produce la violazione di un obbligo internazionale.

6. Quali sono le conseguenze del fatto illecito?


Nel diritto internazionale nell’ottica di responsabilità di illecito, la violazione di un obbligo internazionale
generato da una norma primaria, produce una norma secondaria che determina le conseguenze giuridiche
di tale violazione, dando vita ad un nuovo rapporto obbligatorio, rapporto di responsabilità tra lo Stato leso
e lo Stato autore dell’illecito internazionale. In particolare, lo Stato leso è legittimato a invocare la
responsabilità dello Stato autore dell’illecito. Il Progetto di articoli ha codificato le conseguenze dell’illecito,
ispirandosi al diritto internazionale consuetudinario. In primo luogo vi è la cessazione dell’illecito,
applicabile nel caso di violazione continuata. In secondo luogo vi è la non ripetizione, obbligo che in genere
si genera solo per dei casi particolari, quali ad esempio la presunzione di recidiva da parte dello Stato
autore dell’illecito. Vi è poi la riparazione, conseguenza che può assumere forme diverse a seconda del
danno prodotto ed in conformità della scelta dello Stato leso. La riparazione può consistere nella
restituzione, volta a ristabilire la situazione precedente alla violazione (si tratta della c.d. restitutio in
integrum tipica del diritto romano). Qualora non sia possibile porre in essere una restituzione, si può
procedere con il risarcimento in denaro. Queste due forme di riparazione sono relative ad un danno di tipo
di materiale, e per questa ragione differiscono dal terzo tipo di riparazione: la soddisfazione, relativa al solo
danno morale. Infine, va sottolineato che il risarcimento del danno è mutato molto nel tempo: a fine ‘800
esisteva la c.d. “guerra giusta” che consentiva l’uso della forza nei casi di mancata riparazione del danno.
Nei primi anni del 1900 a Parigi viene firmato un Trattato internazionale che per la prima volta dichiarava,
invece, l’uso della forza ed il ricorso alla guerra come strumenti non fruibili per la risoluzione di una
controversia internazionale, segnando definitivamente un cambio di rotta sotto questo profilo.
Infine, lo Stato leso può adottare delle contromisure che si materializzano in un comportamento che
sarebbe illecito, eppure perde il suo carattere antigiuridico perché posto in essere come conseguenza della
lesione subito dallo Stato autore dell’illecito.

7. La violazione dello Ius Cogens e degli obblighi erga omnes


La violazione di alcune norme determina un coinvolgimento della generalità degli Stati, derogando alla
regola per cui dalla violazione di un obbligo giuridico internazionale, si genera un rapporto bilaterale. Si
tratta di quelle particolari norme che tutelano interessi fondamentali di tutta la comunità internazionale, e
cioè le norme di diritto cogente - quali ad esempio il divieto di aggressione, il divieto di genocidio, ecc - che
in qualche modo giustificano l’autotutela collettiva. Questo genere di violazione produce un illecito non
solo nei confronti dello Stato leso ma anche nei confronti di tutti gli altri Stati; peraltro vi sono alcune
violazioni che generalmente vengono compiuti da uno Stato sulla popolazione del proprio territorio, si
pensi al genocidio, ragione per cui è necessario l’intervento di Stati terzi. Infine, il Progetto di articoli si
compone anche di una parte dedicata alla disciplina della violazione delle norme imperative, prevedendo
conseguenze particolari per quelle violazioni delle norme di ius cogens particolarmente gravi e massicce, o
comunque sistematiche. Gli Stati devono cooperare per porre fine a tali violazioni e non devono
riconoscere come lecita una simile violazione, né possono prestare aiuto o assistere lo Stato autore della
lesione.

8. Il sistema di sicurezza delle Nazioni Unite


Mentre la disciplina dell’illecito internazionale è legata ad una visione più privatistica del rapporto tra Stato
leso e Stato autore della violazione, insieme ad un eventuale ricorso all’autotutela, il tipo di tutela posto in
essere dall’ONU si colloca in una visione differente. Le Nazioni Unite, infatti, ha istituito un sistema di
sicurezza collettiva volto ad intervenire ogni qual volta venga intaccata la pace o la sicurezza nazionale. In
particolare, questo ruolo di tutela è affidato al Consiglio di sicurezza (composto da quindici membri, di cui
cinque - i membri permanenti - dotati di diritto di veto), che può rispondere, anche in modo coercitivo, ad
eventuali violazioni o minacce alla pace piuttosto che ad eventuali atti di aggressione.

9. Il divieto dell’uso della forza e l’eccezione della legittima difesa


Sebbene la Carta delle Nazioni Unite ponga un divieto di guerra, di uso o minaccia della forza ai suoi Stati
membri nei rapporti internazionali, esiste una eccezione a tale regola: la legittima difesa. Si pone in rilievo il
ruolo fondamentale dell’ONU quale garante della tutela della pace internazionale, che ha trasfuso nella
propria Carta non solo la regola che vieta il ricorso all’uso della forza, ma anche la deroga legata alla
legittima difesa, ormai divenute norme di diritto internazionale consuetudinario e pertanto, valide per la
collettività degli Stati, e non più valida solo per gli Stati appartenenti alle Nazioni Unite. La legittima difesa è
ammessa ogni qual volta uno Stato è legittimato ad usare la forza per respingere un attacco armato che
abbia luogo contro di lui, generando la c.d. legittima difesa individuale, piuttosto che contro uno Stato
terzo, generando la c.d. legittima difesa collettiva. Attualmente, l’eccezione della legittima difesa è divenuto
un principio generale del diritto internazionale, ragione per cui è stato pienamente accolto e normato negli
ordinamenti interni degli Stati. Va sottolineato, infine, che il ricorso alla forza in nome della legittima difesa
è giustificato solo fino a quando il Consiglio di sicurezza non prenda le misure idonee a svolgere la sua
funzione di tutela, garantendo dunque la pace e la sicurezza nazionale; peraltro tale ricorso alla forza non è
consentito nei casi in cui si voglia rispondere ad un attacco compiuto ma ormai cessato.

10. Altre possibili eccezioni al divieto della forza


Oltre alla legittima difesa, è possibile ricorrere in via eccezionale all’uso della forza, il consenso dell’avente
diritto, fermo restando la necessità che tale consenso derivi da chi ne è legittimato e non leda un vincolo
valido erga omnes. È considerato lecito l’uso della forza posto in essere dai movimenti di liberazione
nazionale nell’esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli e dunque nella lecita reazione di quei
popoli sottoposti a regime razzista, piuttosto che ad una dominazione coloniale o comunque straniera;
mentre invece non è considerato ugualmente lecito il c.d. intervento umanitario.

11. Quali sono i presupposti per l’azione del Consiglio di sicurezza?


Al fine di garantire il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, le Nazioni Unite non si sono
limitate a prescrivere il divieto dell’uso o della minaccia della forza, ma hanno predisposto nella Carta (al
capo 7) un sistema di sicurezza collettivo, gestito dal Consiglio di sicurezza. La sua azione è subordinata
all’accertamento di una violazione della pace, o di una minaccia della pace o di un atto di aggressione. La
violazione della pace consiste nell’uso della forza armata e per tale ragione è agevolmente verificabile,
anche se può essere più problematico stabilire a quale stato sia imputabile l’inizio del conflitto.
L’aggressione implica anch’essa l’uso della forza armata ma si distingue dalla violazione per la sua
particolare gravità, consistendo nell’impiego della forza da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità
territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato. Più incerta è la nozione di minaccia alla pace poiché
essa implica una valutazione prognostica in merito alle probabilità che una data situazione degeneri in un
impiego delle armi. Di conseguenza essa si presta ad un giudizio ampiamente discrezionale del Consiglio di
sicurezza, ma discrezionalità non significa arbitrio in quanto lo stesso Consiglio è sottoposto al principio di
legalità dei suoi atti.

12. Che misure può adottare il Consiglio di sicurezza?


In presenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione, il Consiglio di
sicurezza innanzitutto può invitare le parti interessate a conformarsi a quelle misure provvisorie che esso
considera necessarie o desiderabili. Essendo oggetto di un invito, la risoluzione del Consiglio di sicurezza
costituisce una raccomandazione obbligatoria. Il Consiglio entrando nel merito della situazione ha il potere
di fare raccomandazioni o decidere, con effetti obbligatori per gli Stati membri, le misure che ritenga più
idonee per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Queste si distinguono in misure non
implicanti l’uso della forza armata e le misure di carattere militare. Le prime possono comprendere la
rottura delle relazioni diplomatiche, le interruzioni delle relazioni economica, delle comunicazioni, la
sospensione dei rapporti commerciali, le misure finanziarie, ecc. Nella prassi è usato di frequente l’embargo
commerciale, a cui ormai sono state sostituite le c.d. smart sanctions.

13. Quali sono le azioni implicanti l’uso della forza nella prassi?
Una prima alternativa è rappresentata dalle c.d. peace-keeping operations, condotte in prima persona dalle
Nazioni Unite, che ne hanno la direzione tramite il Segretario generale, ma per la loro costituzione il
Consiglio di sicurezza deve fare affidamento sulla disponibilità degli Stati che forniscono le forze armate.
Per il loro dispiegamento è necessario il consenso degli Stati tra i quali tali forze, i c.d. caschi blu, devono
interporsi. Questo fondamento consensuale esclude che le peace-keeping operations possano svolgere
un’azione coercitiva contro uno Stato che, in un’ipotesi del genere, ovviamente non darebbe mai il suo
consenso. Le funzioni proprie di queste operazioni hanno carattere conservativo: si pensi al controllo di una
tregua, di un accordo di pace, del mantenimento della sicurezza in uno Stato all’indomani di un conflitto o
di una guerra civile, ecc. Va precisato che i caschi blu possono usare le armi solo per legittima difesa, cioè se
sono fatti oggetto di un attacco armato. La seconda alternativa si concretizza in casi di particolare gravità,
laddove è richiesto un intervento militare coercitivo. In questo caso il Consiglio può ricorrere a forme di
autorizzazione, di raccomandazione o di delega.

Potrebbero piacerti anche