4. Quali sono i caratteri del diritto internazionale nelle sue funzioni essenziali?
L’assenza di un’autorità sovraordinata ai consociati fa sì che nell’ordinamento internazionale non esistano il
legislatore, il gendarme, il giudice e che le funzioni di tale ordinamento siano svolte dagli stessi consociati,
cioè essenzialmente dagli Stati. Ciò si verifica, anzitutto, per la funzione normativa, consistente nella
produzione, modificazione o estinzione delle norme del diritto internazionale. Nel diritto internazionale la
prima fonte è la consuetudine. La consuetudine, provenendo dall’opinione degli stessi consociati, mostra di
essere pienamente congeniale ad un ordinamento nel quale non è neppure ipotizzabile una fonte di diritto
che si imponga dall’alto ai soggetti, non esistendo, appunto, un’autorità a essi superiore.
Egualmente espressione dei consociati è l’accordo (seconda fonte tipica di d.i.). L’accordo non è altro che
l’incontro della volontà di due o più Stati che, consensualmente, si obbligano giuridicamente a rispettare ed
eseguire il contenuto dello stesso. Però, a differenza della consuetudine, l’accordo è la fonte di diritto
particolare poiché la sua efficacia giuridica è limitata agli Stati che lo abbiano concluso.
Per quanto concerne l’attuazione del diritto, il diritto internazionale fa affidamento all’autotutela. Quindi,
la forma di attuazione coercitiva del diritto è l’autotutela. Una delle caratteristiche fondamentali
dell’ordinamento internazionale è che gli enti agiscano in autotutela, cioè è previsto che gli Stati si facciano
giustizia da soli perché l’ordinamento non ha i giudici, non ha la polizia e quindi, quello che
nell’ordinamento interno è l’eccezione (es. legittima difesa) o divieto, nell’ordinamento internazionale è la
regola, non essendovi alcuna possibilità di chiedere l’intervento della forza pubblica, la quale non esiste:
comunità anarchica = tribù. Inoltre, l’autotutela si presta ad abusi poiché essa non è subordinata ad alcun
accertamento giuridico e giudiziario del diritto che si intende fare valere.
Infine, anche la soluzione delle controversie sconta l’assenza di una funzione giudiziaria istituzionalizzata.
La struttura della comunità impedisce che ci sia un organo sovraordinato e per cui la funzione di
accertamento è su base volontaria. La soluzione delle controversie nell’ordinamento internazionale è un
arbitrato: gli stati si mettono d’accordo per devolvere la soluzione di una loro controversia ad un soggetto.
Nel diritto internazionale, gli Stati hanno l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie internazionali
(art. 2, par. 3, della Carta delle Nazioni Unite), ma sono liberi di scegliere i mezzi di soluzione che ritengono
più appropriati. I procedimenti di soluzione si distinguono in: 1) procedimenti diplomatici, che possono
includere l’intervento di un terzo e sono tutti volti a facilitare il raggiungimento di un accordo tra le parti
(accordo risolutivo della controversia) e 2) mezzi giudiziali, ossia il deferimento della controversia a un
arbitro (arbitrato internazionale) o alla Corte internazionale di giustizia. Tali mezzi, a differenza dei mezzi
diplomatici, assicurano la soluzione della controversia, mediante un lodo arbitrale o una sentenza, che
hanno efficacia obbligatoria per le parti in lite. Se la sentenza appare come un atto autoritativo, bisogna
però sottolineare che la possibilità che sia pronunciata una sentenza è subordinata alla concorde volontà
degli Stati parti delle controversie.
Quindi, nel diritto internazionale i mezzi di regolamento delle controversie tra gli Stati sono: l’accordo e la
sentenza.
5. La contestazione del diritto internazionale e la riaffermazione della sua giuridicità
Se il diritto internazionale è veramente diritto lo possiamo dire alla luce di ciò che dice Hans Kelsen: “è
diritto qualunque fenomeno che ponga una condizione e che ricolleghi al mancato rispetto delle sanzioni”. Il
diritto internazionale, proprio perché pone delle condizioni attraverso i meccanismi di produzione
normativa e perché ricollega delle conseguenze al mancato rispetto (es. l’autotutela), è considerato diritto.
Un altro modo per affermare questo è quello di utilizzare l’effettività, cioè vedere se il d.i. è rispettato. E,
normalmente, le norme statisticamente più rispettate sono quelle del d.i. ed è così soprattutto perché il
fatto che esse non siano imposte da un’autorità superiore ai consociati, ma nascano dal convincimento di
questi ultimi, fa ragionevolmente presumere che detti Stati abbiano l’interesse a rispettarle.
Non è mai esistito un solo caso di comportamento di uno Stato che abbia violato un obbligo di diritto
internazionale o che abbia negato il fatto di essere tenuto al rispetto del d.i. Gli Stati quando violano un
diritto, mostrano di avvertire l’esigenza di scusarsi in base a una norma giuridica, o a una sua particolare
interpretazione; quindi, c’è sempre una giustificazione in termini giuridici e mai nessuno Stato quando gli è
stato contestato la violazione di un obbligo di d.i. ha risposto “quello non lo dovevo rispettare”. Quindi,
anche sotto questo profilo possiamo dire che il d.i. funziona.
4. Lo stato per nascere deve rispettare, sotto il profilo procedimentale, delle norme di d.i.?
Il diritto internazionale non dice se uno Stato deve o non deve nascere ma dice che i procedimenti di
nascita degli Stati devono rispettare delle norme e quindi non possono essere violati alcuni principi che
sono quelli consacrati nelle norme di d.i. inderogabile: principi di ius cogens. L’illiceità della nascita
dell’autorità, consistente nella violazione di norme di ius cogens, può impedire che tale autorità sia
riconoscibile come soggetto di diritto internazionale. Gli Stati che nascono in violazione di questi principi di
ius cogens non sono considerati legittimante costituti e, inoltre, esiste una prassi consolidata
dell’ordinamento internazionale che, non solo non li riconosce ma, impone agli Stati di non riconoscere
alcun effetto alle attività e agli atti prodotti da questi Stati (c’è l’obbligo di disconoscimento). A tal proposito
va citato l’art.41 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti,
il quale prescrive, tra l’altro, che nessuno Stato debba considerare legittima una situazione, quindi anche
uno Stato, creata/o mediante una grave violazione di una norma imperativa del diritto internazionale
generale. Il termine jus cogens, o diritto cogente, sta ad indicare l’insieme di norme internazionali che,
poste a tutela dei valori considerati fondamentali dalla comunità Internazionale considerata nel suo
insieme, non possono essere in alcun modo derogate dagli Stati. Per tale motivo, quest’insieme di norme
vengono considerate dagli studiosi della materia come il nocciolo duro del diritto internazionale.
5. Che cos’è il riconoscimento? Qual è il suo valore?
Il riconoscimento è un atto unilaterale volontario con il quale uno Stato dichiara la propria volontà di
intrattenere rapporti con un altro Stato. Nell’ordinamento internazionale contemporaneo, il
riconoscimento non ha alcun valore costitutivo; non è altro che la dichiarazione di uno Stato riconoscente
che intende avere relazioni diplomatiche con lo Stato riconosciuto. Quindi, non essendo un obbligo ma una
mera facoltà non presuppone la soggettività. Se la personalità giuridica di uno Stato dipendesse dal
riconoscimento degli altri, uno Stato non riconosciuto dovrebbe essere considerato giuridicamente
inesistente; tuttavia, generalmente quando uno Stato non riconosce un altro Stato, questo si astiene
esclusivamente dall’avere rapporti con lo stesso, specie quelli diplomatici, ma mostra di non considerarlo
giuridicamente inesistente. Quindi, il riconoscimento rivela null’altro che l’intenzione di stringere rapporti
amichevoli, di scambiare rappresentanze diplomatiche e di avviare forme di collaborazione mediante la
conclusione di accordi.
Il riconoscimento può essere:
- de jure, quando lo Stato preesistente, esaminati i diversi titoli che consentono l’acquisto della
soggettività internazionale, ritiene legittima la creazione sul suo territorio del nuovo Stato;
- de facto, nel caso in cui lo Stato preesistente si limiti solo a prendere atto della nascita del nuovo
soggetto, senza tuttavia pronunciarsi sulla legittimità o meno della sua costituzione;
- espresso, quando avviene mediante un atto formale;
- tacito, se derivante da un comportamento tale da risultare incompatibile con una volontà di non
riconoscere la nuova entità statuale.
Bisogna però ricordare che il riconoscimento non è del tutto privo di efficacia giuridica; ha una conseguenza
giuridica che fa applicazione di un istituto di d.i. che è l’estoppel (equivalente della preclusione): nel
momento in cui uno Stato pone in essere un comportamento ne deve sopportare tutte le conseguenze e
quindi uno Stato che ne riconosce un altro non potrà poi contestare l’esistenza dello Stato riconosciuto.
Secondo la prassi recente, il riconoscimento viene negato agli Stati che si siano formati ricorrendo all’uso
della forza, non rispettino i diritti umani o violino il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Inoltre,
come affermato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella Dichiarazione sui principi di diritto
internazionale relativi alle relazioni amichevoli tra gli Stati, nessuna acquisizione territoriale ottenuta con la
minaccia o con l’uso della forza può essere riconosciuta come legale dalla Comunità Internazionale.
10. Cosa sono i movimenti di liberazione nazionale e cosa li differenzia dai movimenti insurrezionali?
Il movimento di liberazione nazionale è una struttura organizzata che rappresenta un popolo in lotta
nell'esercizio del diritto di autodeterminazione, con lo scopo di raggiungere l'indipendenza liberandosi da
una dominazione coloniale, straniera o razzista e di costituirsi in Stato. Esso presenta delle analogie con il
movimento insurrezionale, in quanto entrambi sono dei gruppi organizzati di persone che cercano di
contrapporsi ad una potenza dalla quale si vogliono liberare. Tuttavia, mentre nel caso dei movimenti
insurrezionali per il diritto internazionale è irrilevante lo scopo dell'insurrezione, nel caso dei movimenti di
liberazione nazionale il motivo è rilevante e deve essere l'esercizio del diritto all'autodeterminazione, intesa
come indipendenza. Inoltre, il diritto internazionale non pretende che il movimento di liberazione nazionale
controlli una base territoriale, in quanto avrebbe comunque una personalità internazionale là dove
rappresenta l'ente esponenziale organizzato di un popolo che esercita il diritto all'autodeterminazione. I
movimenti di liberazione nazionale, pertanto, sono titolari del diritto all'autodeterminazione del popolo da
essi rappresentato. Essi hanno una soggettività funzionale, limitata alle necessità richieste dalla loro attività
per perseguire l'obiettivo prefissato, e hanno la capacità di concludere accordi internazionali che si
occupano di questioni riguardanti un conflitto armato come, per esempio, un accordo di tregua. Possiamo
ricordare l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che era una struttura organizzata del popolo
palestinese che poteva concludere accordi internazionali necessari al perseguimento dell'obiettivo, come
accordi di tregua sull'uso della forza. Là dove i movimenti di liberazione nazionale controllino un territorio,
sono destinatari delle norme internazionali consuetudinarie sul trattamento degli stranieri, e se
commettono degli illeciti internazionali con la propria organizzazione sono soggetti alle conseguenze
previste per il fatto illecito, come l'obbligo di riparazione.
2. Come sono ordinate le fonti del diritto internazionale da un punto di vista gerarchico?
Da un punto di vista gerarchico, la fonte di primo grado dell'ordinamento internazionale è la consuetudine,
dotata di efficacia generale in quanto è rivolta a tutti gli Stati e agli altri soggetti di diritto internazionale. Tra
le norme consuetudinarie, ve n'è una di carattere strumentale che è definita nel brocardo “pacta sunt
servanda”, la quale rappresenta il fondamento giuridico della obbligatorietà dell'accordo, per gli Stati parte.
In altri termini, gli accordi, i trattati o le convenzioni internazionali (vari terminologie per indicare lo stesso
oggetto) sono previsti come atti giuridicamente vincolanti da una norma consuetudinaria, quindi trovano il
fondamento della loro vincolatività per gli stati da una norma generale di diritto internazionale. Ed è per
questo motivo che questi sono da considerarsi fonti di secondo grado, essendo applicabili solo agli Stati che
fanno parte di quel determinato accordo. Vi sono poi i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni
civili, che esprimono delle regole di logica giuridica, di buon senso e di giustizia sostanziale, e il più delle
volte assumono una portata universale. Tali principi hanno un ruolo sussidiario e integrativo rispetto alla
consuetudine e agli accordi. Infine, vi sono le decisioni prese dagli organi giurisdizionali internazionali, la
dottrina giuridica e gli atti unilaterali, che sono dei singoli tipi di atti che esprimono la volontà di un singolo
Stato.
9. Cosa sono i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili e come si distinguono dalla
consuetudine?
L'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, che ci fornisce un quadro delle fonti di diritto
internazionale, menziona tra le varie fonti anche i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili,
che rappresentano delle regole di logica giuridica, di buonsenso e di giustizia sostanziale, e talvolta hanno
una portata piuttosto universale. Tali principi nascono negli ordinamenti giuridici interni degli Stati e poi
vengono assunti a livello internazionale; affinchè ciò avvenga, è necessario che questi principi siano
accettati dalla maggior parte degli Stati, nella convinzione che siano giuridicamente vincolanti. Proprio
perchè nascono all'interno degli ordinamenti giuridici statali, alcuni autori ritengono che essi siano delle
particolari norme consuetudinarie. La differenza tra la consuetudine ordinaria e il principio generale è il
fatto che la prima nasce immediatamente nel diritto internazionale, mentre i secondi nascono negli
ordinamenti interni e poi diventano vincolanti nel diritto internazionale nel momento in cui gli Stati iniziano
a farne applicazione costante. Un esempio di principio generale è espresso nel brocardo “nemo iudex in re
sua”, inteso come principio di terzietà del giudice, o nel brocardo “nullum crimen nulla poena sine lege”,
inteso come principio di legalità dei reati e delle pene. I principi generali delle Nazioni civili svolgono un
ruolo sussidiario e integrativo rispetto agli accordi e alla consuetudine, in quanto là dove vi sia un'assenza di
norme convenzionali e di norme consuetudinarie, bisogna tener conto dei principi generali. Pertanto, questi
ultimi hanno la funzione di colmare le lacune del diritto pattizio e del diritto consuetudinario, ed ecco
perchè sono collocati in una posizione subordinata rispetto agli stessi.
10. Come sono considerate nel diritto internazionale le dichiarazioni di principi dell'Assemblea
generale dell'Onu?
L'Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) è un'organizzazione intergovernativa a carattere mondiale, che
la finalità di garantire il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, lo sviluppo di relazioni
amichevoli tra le nazioni e il perseguimento di una cooperazione internazionale. Tale organizzazione ha tra i
suoi membri tendenzialmente tutti gli Stati. L'Assemblea generale dell'Onu è un organo delle Nazioni Unite
in composizione plenaria, in grado di adottare degli atti. Sin dai primi anni di vita dell'organizzazione,
l'Assemblea generale ha preso l'iniziativa di emanare degli atti denominati “dichiarazioni”, contenenti dei
principi relativi ad una determinata materia rivolti a tutti gli Stati, i quali devono conformarvisi. Un esempio
di tali dichiarazioni è la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, avente ad oggetto il
riconoscimento dei diritti umani. Le dichiarazioni dell'Assemblea generale sono degli atti mediante i quali si
codifica il diritto internazionale non scritto, pertanto, hanno una rilevanza giuridica. Dal momento che in
Assemblea generale siedono tutti gli Stati, quanto più è grande la maggioranza con la quale la dichiarazione
di principi viene adottata, tanto più è probabile che il contenuto di quelle norme abbia natura
consuetudinaria, in quanto sarebbero rappresentative della volontà dell'intera comunità internazionale e
sarebbero produttive di norme obbligatorie di portata generale. Tuttavia, pur contenendo principi di
portata generale, le dichiarazioni di principi dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite non possono
essere inserite tra le fonti di diritto internazionale. Infine, sebbene nel momento in cui la dichiarazione di
principi viene adottata, essa faccia riferimento a situazioni che non sono regolate dal diritto
consuetudinario, può accadere che la dichiarazione di principi spinga la prassi in un certo senso, al punto da
far nascere un obbligo consuetudinario corrispondente.
11. Cosa sono gli atti delle organizzazioni internazionali (fonti previste da accordi)?
Le fonti previste da accordi, o fonti di terzo grado, sono degli atti obbligatori delle organizzazioni
internazionali che rientrano tra le fonti di diritto internazionale in quanto, sebbene non siano menzionati
dall'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, lo statuto dell'organizzazione che li prevede
è un accordo internazionale. Le organizzazioni internazionali sono soggetti di diritto internazionale dotati
solo di quelle competenze che sono state loro attribuite dagli Stati mediante accordi, quindi sono enti
derivati. Questo concetto prende il nome di “principio delle competenze di attribuzione”, e tra queste
competenze vi può essere quella di prevedere degli atti che si chiamano “atti di diritto derivato” o “fonti
previste da accordi”. Bisogna precisare che non sempre le organizzazioni internazionali dispongono del
potere di emanare atti giuridicamente vincolanti, ma solo atti esortativi che prendono il nome di
“raccomandazioni”. Di norma, tutto si risolve nella dicotomia: vincolante = rilievo giuridico, non vincolante
= nessun rilievo giuridico; in realtà non è così. Ad esempio, le dichiarazioni di principi dell'Assemblea
generale delle Nazioni Unite non sono vincolanti, ma hanno avuto un rilievo giuridico nel tempo come
elementi di prassi, ma possono anche essere lette come accordi in forma semplificata. In certi casi, gli atti
delle organizzazioni internazionali sono obbligatori, ma solo nei confronti degli Stati membri che gli
accettano, anche in maniera tacita non respingendoli entro il termine previsto. In tal senso, bisogna
menzionare il c.d. effetto di liceità, che è quell'effetto giuridico per il quale, adottata una risoluzione, che è
un atto non vincolante dell'organizzazione internazionale, uno Stato che per conformarsi alla
raccomandazione non rispetti un altro obbligo di diritto internazionale non può essere considerato
responsabile della violazione di quest'ultimo; può valere solo nei confronti degli Stati che hanno preso parte
all'adozione della risoluzione, e solo all'interno dell'organizzazione stessa. Una vera novità, sotto questo
punto di vista, è rappresentata dall'Unione europea, la quale ha il potere di emanare atti obbligatori non
solo nei confronti degli Stati membri, ma anche delle persone fisiche e giuridiche di tali Stati, come avviene
nel caso del regolamento europeo, il quale ha una portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.
3. Forma solenne.
La forma solenne è una tipologia di conclusione del trattato, che si articola in quattro fasi. Anzitutto vi è la
negoziazione che consiste nella trattativa tra gli Stati interessati, rappresentati dai propri organi, i c.d.
plenipotenziari. Se la fase di negoziazione si conclude positivamente, si apre la seconda fase di tale
procedimento: la firma del medesimo testo da parte di tutti gli Stati partecipanti. Va sottolineato che la
firma dell’accordo non è idonea ad esprimere la volontà di uno Stato ad obbligarsi ad osservare il testo
sottoscritto, la firma ha un mero valore giuridico di autenticazione del testo stesso, rendendolo definitivo.
La fase che invece esprime la volontà degli stati ad obbligarsi reciprocamente e dunque a vincolarsi con
l’accordo, è la ratifica dell’accordo stesso. La quarta ed ultima fase della conclusione in forma solenne è
rappresentata dallo scambio o dal deposito delle ratifiche. Va sottolineato che nei Trattati bilaterali, lo
scambio di ratifiche produce immediatamente l’incontro della volontà degli Stati e per tale ragione,
l’accordo può entrare in vigore da quel momento. Al contrario, nel caso di Trattati multilaterali, l’entrata in
vigore è subordinata al numero minimo di ratifiche.
4. Cos’è l’adesione?
È una manifestazione della volontà di obbligarsi, che riguarda la partecipazione ai trattati multilaterali
aperti. Questi, contengono una disposizione, la c.d. clausola di adesione, che stabilisce che qualsiasi Stato
terzo rispetto agli originari contraenti, possa entrare a far parte dell’accordo mediante una sua
dichiarazione di volontà unilaterale.
5. Cos’è l’ammissione?
È una manifestazione della volontà di uno stato ad obbligarsi mediante un accordo, ma va tenuta distinta
dall’adesione. Anche in questo caso l’accordo multilaterale prevede che uno Stato estraneo all’accordo
stesso, possa parteciparvi, ma a tal fine non è sufficiente la manifestazione della sua volontà; la domanda
infatti viene sottoposta alla valutazione degli altri stati e solo nel caso di accettazione è ammesso
nell’accordo.
6. Forma semplificata.
La conclusione di un trattato avviene in forma semplificata quando la firma stessa esprime la volontà dello
Stato ad essere vincolato dal trattato, e pertanto non ha luogo la ratifica, tipica invece della forma solenne.
Con la forma semplificata, l’entrata in vigore si determina quando il trattato viene sottoscritto da entrambi
o da tutti gli Stati, a seconda che si tratti di un trattato bilaterale piuttosto che multilaterale, che lo hanno
negoziato.
7. Quali sono i criteri di risoluzione dei conflitti tra norme nell’ordinamento italiano?
Quando due norme dicono due cose diverse e incompatibili tra loro, come ci si comporta? Bisogna risolvere
quest’antinomia. I criteri sono: gerarchico – cronologico – di specialità.
Facciamo un esempio: abbiamo fatto un adattamento con legge ordinaria di un obbligo internazionale;
quest’obbligo è eseguito in Italia mediante norme di legge ordinaria e il che vuol dire che, qualora il
Parlamento dovesse adottare una legge successiva a quella che contiene l’ordine di esecuzione e
incompatibile con l’obbligo internazionale, dal momento che il criterio gerarchico non serve perché sono
fonti pari ordinate, in linea di principio dovrebbe applicare la successiva e abrogare la precedente con
conseguente responsabilità internazionale dell’Italia.
La Corte costituzionale, in diverse occasioni, dice che il rapporto tra norme pari ordinate, se implica il
rapporto tra norme di leggi ordinarie e norme di leggi ordinarie che sono state adottate per eseguire
obblighi internazionali, deve essere risolto in applicazione del criterio di specialità. Le norme di
adattamento sono norme speciali e quindi prevalgono anche sulle successive in forza del criterio di
specialità; la specialità starebbe nella doppia volontà che supporterebbe l’adozione della legge.
5. Il danno e la colpa
Non è necessario che si produca un danno affinchè si realizzi un illecito internazionale, poiché gli unici
elementi costitutivi di detto illecito sono la riferibilità del fatto allo Stato e l’antigiuridicità di tale condotta.
L’esistenza e la natura di un danno causato dal fatto illecito sono rilevanti per individuare il tipo di
riparazione prescritta dal regime giuridico di responsabilità e le possibili conseguenze di tale condotta.
Peraltro va sottolineato che nel concetto di colpa rientrano sia il dolo, e dunque la condotta intenzionale del
soggetto che compie una certa violazione, sia la colpa intesa in senso stretto e dunque la condotta
negligente del soggetto che produce la violazione di un obbligo internazionale.
13. Quali sono le azioni implicanti l’uso della forza nella prassi?
Una prima alternativa è rappresentata dalle c.d. peace-keeping operations, condotte in prima persona dalle
Nazioni Unite, che ne hanno la direzione tramite il Segretario generale, ma per la loro costituzione il
Consiglio di sicurezza deve fare affidamento sulla disponibilità degli Stati che forniscono le forze armate.
Per il loro dispiegamento è necessario il consenso degli Stati tra i quali tali forze, i c.d. caschi blu, devono
interporsi. Questo fondamento consensuale esclude che le peace-keeping operations possano svolgere
un’azione coercitiva contro uno Stato che, in un’ipotesi del genere, ovviamente non darebbe mai il suo
consenso. Le funzioni proprie di queste operazioni hanno carattere conservativo: si pensi al controllo di una
tregua, di un accordo di pace, del mantenimento della sicurezza in uno Stato all’indomani di un conflitto o
di una guerra civile, ecc. Va precisato che i caschi blu possono usare le armi solo per legittima difesa, cioè se
sono fatti oggetto di un attacco armato. La seconda alternativa si concretizza in casi di particolare gravità,
laddove è richiesto un intervento militare coercitivo. In questo caso il Consiglio può ricorrere a forme di
autorizzazione, di raccomandazione o di delega.