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DIRITTO INTERNAZIONALE

RIASSUNTI COMPLETAMENTE SOSTITUTIVI DEI LIBRI:


CORSO DI DIRITTO INTERNAZIONALE I PARTE TERZA EDIZIONE;
CORSO DI DIRITTO INTERNAZIONALE II PARTE SECONDA EDIZIONE.

PRIMO LIBRO
Introduzione
Intendiamo per diritto internazionale l’insieme delle norme giuridiche che regolano i rapporti tra gli Stati.
Gli Stati sono enti politico-territoriali che sono sovrani in quanto non dipendono da alcuna autorità
superiore. Il diritto internazionale è perciò il diritto degli stati sovrani.

Nonostante i soggetti del diritto internazionale siano anche altri, gli Stati sono i soggetti necessari e
originari dello stesso. Il diritto internazionale infatti si forma storicamente per regolare i rapporti tra i vari
Stati e di conseguenza questi ne sono i soggetti originari. Gli Stati sono poi i soggetti necessari del diritto
internazionale: è destinatario di norme di diritto internazionale in quanto tale. Uno stato non può sottrarsi
alla qualità di destinatario di norme e ritenersi svincolato dagli obblighi che ne derivano. Per quanto voglia
mantenersi isolato, è comunque destinatario di una serie di norme generali che valgono per tutti gli Stati.
Tantomeno nessuno stato può essere estromesso dalla comunità internazionale.

Il diritto internazionale è poi diverso e separato dai sistemi di diritto interno, che riguardano i vari soggetti
che all’interno dei singoli Stati operano.
Il diritto internazionale è uno solo, essendo unica la comunità degli Stati, i diritti nazionali sono molteplici,
tanti quanti i singoli stati.

Il diritto internazionale è spesso detto pubblico, per distinguerlo dal diritto internazionale privato, che è
l’insieme delle regole e dei principi volti a disciplinare i rapporti giuridici tra privati che presentano elementi
di estraneità rispetto a un determinato ordinamento statale, mediante rinvio all’ordinamento di un altro
Stato.

Il diritto internazionale, come previsto dall’art 2 par. 1 della Carta delle Nazioni Unite (organizzazione delle
Nazioni Unite istituita con un trattato chiamato carta delle nazioni uniti adottato a san francisco nel 1945 è
un ente che intende realizzare la cooperazione tra gli stati sovrani al fine primario di mantenere la pace e la
sicurezza internazionali), il sistema di norme internazionali si fonda sulla sovrana uguaglianza tra gli Stati
membri.
Cosa si intende per Stato sovrano? Per “sovranità” prevale il significato di “indipendenza”. Un ente non
subordinato alle decisioni prese da altri enti che siano ad esso superiori che possano imporgli la loro
volontà (escludere ogni altro Stato, in un dato territorio, dalle funzioni di uno Stato). Gli stati si trovano in
una posizione di reciproca parità, ovvero si ha l’uguaglianza degli stati. Gli stati così possono esercitare le
tipiche funzioni statali su di una porzione del globo senza subire interferenze da altri stati. L’indipendenza e
l’uguaglianza giuridico-formale degli Stati è quindi diretta conseguenza della loro sovranità.

È però evidente che nella realtà dei fatti gli Stati non sono affatto uguali, ma si contraddistinguono per una
serie di marcate differenze d’ordine politico, militare, economico e geografico formando così stati deboli e
stati forti; stati ricchi e stati poveri; stati grandi e stati piccoli etc.
Molte norme di diritto internazionale si fondano sulle differenze esistenti di fato tra gli stati, a volte al fine
di consolidarle (es. norma sul diritto di veto degli stati membri permanenti del consiglio di sicurezza delle
nazioni unite), a volte al fine di attenuarle (es. le norme che attribuiscono un trattamento preferenziale ai
paesi in via di sviluppo).

Lo Stato

Stato come soggetto tipico del diritto internazionale. Si ha uno Stato, quando un’autorità indipendente
esercita il suo potere di governo in modo normale e stabile (elemento politico) in un determinato spazio
(elemento territoriale) e nei confronti di un insieme di individui (elemento sociale) che lì si trovano.
Gli elementi essenziali di uno Stato sono quindi 3: territorio (cui è legato l’elemento geografico dello Stato),
governo (cui è legato l’elemento politico) e individui (cui è legato l’elemento sociale); tutto ciò è anche
affermato nella Convenzione sui diritti e doveri degli Stati del 1933 che aggiunge anche la capacità di
intrattenere relazioni con gli altri Stati (quarto elemento), che in realtà sembrerebbe essere una
conseguenza dei primi tre.
L’espressione Stato è correntemente usata in un duplice senso: a volte nel senso più ampio di ente
geografico, sociale e politico (stato COMUNITA’), e a volte nel senso più ristretto di autorità che esercitano
il potere all’interno di tale ente e lo rappresentano all’esterno (stato APPARATO). Per il diritto
internazionale lo stato-comunità è formalmente titolare di diritti e obblighi, ma esso è rappresentato nelle
relazioni internazionali dallo Stato-apparato e agisce all’esterno per mezzo di quest’ultimo.

a) Elemento territoriale

L’elemento territoriale visto come l’ambito spaziale entro il quale si manifesta l’autorità dello stato
attraverso i suoi agenti, identifica lo stato e lo rende riconoscibile alla sua rappresentazione visiva. Non ha
importanza ai fini della soggettività internazionale la dimensione del territorio. I confini terrestri di uno
stato sono di solito definiti da trattati con gli stati vicini. Al territorio dello stato si aggiunge una fascia
costiera che non può eccedere le 12 miglia marine dalla linea di bassa marea (1 miglio marino = 1850 m),
denominata mare territoriale, sulla quale lo stato esercita la propria sovranità. Entro un’ulteriore fascia di
acque e di fondi marini che non può eccedere le 200 miglia marine, denominata zona economica esclusiva,
lo stato costiero può esercitare diritti in materia di sfruttamento delle risorse naturali ivi contenute, mentre
gli stati terzi mantengono il diritto alla libera navigazione, sorvolo e posa di cavi e condotte sottomarini. La
zona economica esclusiva richiede di essere proclamata dallo stato interessato. I confini marittimi di uno
stato sono di solito definiti da trattati con gli stati adiacenti o fronteggianti. Il territorio dello stato si
estende anche allo spazio atmosferico che le sovrasta e che sovrasta il mare territoriale, oltre che al
sottosuolo del territorio e del mare territoriale.

b) Elemento sociale

L’elemento sociale è dato dagli individui che abitano stabilmente il suo territorio e che sono legati allo stato
da un particolare insieme di diritti e obblighi (cittadinanza), derivante di solito dalla nascita nel territorio
dello stato (ius soli) o dalla nascita da uno o due genitori cittadini (ius sanguinis). Il popolo o la nazione, che
indicano una collettività di individui che presenti caratteri comuni di natura culturale, etnica, religiosa o
linguistica, non sono di per sé uno stato e non sono quindi enti dotati di una soggettività internazionale.

c) Elemento politico

L’elemento politico dello Stato è dato dal governo inteso come insieme delle autorità e degli agenti dello
Stato. Esso comprende tutti coloro che esercitano un potere di natura pubblica in nome dello stato, sia esso
un potere legislativo, esecutivo o giudiziario, e che, per questo motivo si distinguono gli individui in
generale, che rappresentano solo sé stessi. L’esercizio dei poteri pubblici deve svolgersi in modo normale e
stabile (non è possibile determinare l’intensità di tale esercizio).
Non sono considerati stati quei territori dove non si è affermato alcun potere pubblico in modo normale e
stabile (terrae nullius). Questa situazione ricorre soltanto per l’Antartide, dove esiste un settore del
continente che non è rivendicato da nessuno.

Non è uno stato il cosiddetto stato apparente (stato fantoccio), cioè un ente governato da autorità solo
formalmente indipendenti, ma di fatto dominate sul piano politico e militare dalle autorità di un altro stato
che esercitano sulle prime un potere di controllo.

Non possono considerarsi stati quegli enti costituiti a seguito di manifestazioni di uso della forza
condannate dagli organi delle Nazioni Unite, in particolare dal consiglio di sicurezza.

Il territorio sottoposto ad amministrazione fiduciaria non poteva essere considerato uno stato, ma lo
poteva divenire, una volta che tale regime fosse venuto a cessare (es. Somalia, amministrata
fiduciariamente dall’Italia).

Non sono stati gli enti (province, territori, cantoni etc) che sono membri di uno stato federale o che
comunque costituiscono entità territoriali all’interno di uno stato più ampio.

Non è uno stato federale L’unione Europea (trattato di Maastricht 1992), che ha origine, con il nome di
Comunità Economica Europea, da un Trattato concluso a Roma il 25 marzo 1957 da sei Stati (ora sono 28).

Il formarsi di una nuova entità statale è un qualcosa che avviene indipendentemente dal riconoscimento
degli altri Stati (che è un mero atto di natura politica come segno della volontà di instaurare normali
relazioni tra lo Stato preesistente e lo stato nuovo) non ha carattere costitutivo: la soggettività
internazionale è dunque la conseguenza di un dato di fatto che si verifica quando un’autorità indipendente
esercita il suo potere di governo in modo normale e stabile entro un determinato territorio e nei confronti
di individui che si trovano lì. Se così non fosse (ovvero se la soggettività dipendesse dal riconoscimento) si
arriverebbe ad un paradosso; infatti se valesse la tesi del riconoscimento costitutivo, lo Stato non
riconosciuto non potrebbe nemmeno rendersi responsabile di illeciti internazionali (non essendo soggetto
di diritto internazionale). Uno stato è pertanto tale a seguito della sua esistenza di fatto,
indipendentemente dal numero di riconoscimenti che abbia ottenuto, dal numero di organizzazioni
internazionali di cui sia membro e delle relazioni che intrattenga con altri stati. Può accadere che un
riconoscimento sia prematuro, cioè intervenga prima che le autorità del nuovo stato abbiano affermato il
loro potere in modo normale e stabile.

Lo stato è di solito conosciuto con un nome geografico o con un nome geografico-politico. Il nome è scelto
dallo stato stesso che può anche cambiarlo.

Lo stato è soggetto a cambiamenti nei suoi elementi fondamentali che a volte possono incidere sulla sua
stessa identità.

a) Cambiamenti della popolazione

Non ha nessuna rilevanza il cambiamento degli individui che abitano stabilmente lo stato e del loro
numero. La popolazione è un elemento per sua natura continuamente mutevole.

b) Cambiamenti del governo

Il cambiamento delle autorità che esercitano il potere di governo, come pure il cambiamento della forma di
governo non comportano un cambiamento dello stato come soggetto di diritto internazionale. Gli impegni
assunti in nome di uno stato rimangono tali, nonostante il mutamento dei governanti che li hanno
materialmente assunti (non subiscono alterazioni i diritti e gli obblighi internazionali dello stato). Va però
osservato che dopo un cambiamento rivoluzionario di governo all’interno di uno stato, alcuni trattati
conclusi dal governo precedente come quelli di natura politico-militare, potrebbero estinguersi per
mutamento fondamentale delle circostanze.

c) Cambiamenti del territorio

Nel caso di TRASFERIMENTO territoriale (CESSIONE), una porzione di territorio passa da uno stato ad un
altro, senza che cambi l’identità dei due stati coinvolti, che rimangono tali, pur con un territorio più ampio o
più ristretto.
Nel caso di UNIONE (FUSIONE), due o più stati preesistenti si estinguono, perché i loro territori divengono il
territorio di uno stato nuovo.
Nel caso di DISSOLUZIONE (DISGREGAZIONE), uno stato preesistente si estingue perché il suo territorio
diviene il territorio di due o più stati nuovi.
Nel caso di ANNESSIONE (INCORPORAZIONE) uno stato, che rimane tale, si accresce del territorio di uno
stato preesistente, che si estingue.
Nel caso di SEPARAZIONE (SECESSIONE), il territorio di uno stato, che rimane tale, si riduce di una porzione
di territorio che forma uno stato nuovo. Un caso particolare caratterizzato dalla situazione di
subordinazione politica in cui si trovava in precedenza lo stato nuovo è l’acquisto dell’indipendenza da
parte di un territorio sottoposto a dominio coloniale. (es. 1776 colonie americane britanniche).

La SUCCESSIONE tra stati: la formazione di uno stato nuovo può comportare, se si verificano determinate
condizioni, la sua successione in diritti e obblighi di cui era titolare lo stato predecessore. Le norme sulla
successione degli stati, sono state codificate nella convenzione sulla successione degli stati rispetto ai
trattati (vienna 1978) e nella convenzione sulla successione degli stati (vienna 1983). L’opera di
codificazione non ha avuto molto successo visto lo scarso numero degli stati che hanno espresso la loro
volontà di vincolarsi ai due trattati.

Il procedimento formativo di uno stato nuovo si può realizzare o pacificamente o attraverso un conflitto di
durata più o meno lunga che vede un movimento insurrezionale lottare contro le autorità di uno stato al
fine di realizzare la secessione di un determinato territorio da quest’ultimo. A volte l’obiettivo del
movimento insurrezionale è diverso dalla formazione di un nuovo stato e mira al trasferimento di un
territorio da uno stato a un altro stato o al cambiamento rivoluzionario del governo di uno stato. Un
movimento insurrezionale è un fenomeno per sua natura transitorio: o il movimento riesce a realizzare il
suo obiettivo e cessa di essere tale, spesso trasformandosi nel governo di uno stato, oppure non vi riesce e
la situazione ritorna ad essere quella che esisteva prima dell’inizio del conflitto. Delle norme pongono in
evidenza i requisiti che caratterizzano un movimento insurrezionale, vale a dire la sua sottoposizione a un
comando responsabile e l’effettivo controllo di un territorio, così da consentire lo svolgimento di operazioni
militari continue e concertate. Questi requisiti distinguono un’insurrezione da situazioni di tensione interna,
come i disordini, le sommosse e gli atti isolati di violenza. Essi sono riconosciuti come soggetti di diritto,
seppur differente dagli Stati (abbiamo detto infatti che i soggetti di diritto sono prevalentemente gli Stati
ma non solo). Al movimento è riconosciuta la capacità di concludere trattati, sia pure in relazione alla
specifica situazione in cui esso opera. Il movimento insurrezionale, è destinatario di numerose norme del
diritto internazionale di guerra che gli attribuiscono diritti e obblighi nei confronti dello stato contro cui
combatte.

La comunità internazionale

L’ordinamento internazionale presenta alcuni caratteri primitivi che si notano in ciascuna delle tre tipiche
funzioni di un ordinamento (normativa, giudiziaria e esecutiva).

A) Normativa
Il fatto che i soggetti diritti siano Stati SOVRANI implica che non vi possa essere un legislatore
superiore agli Stati sovrani: le norme di diritto internazionale siano esse scritte (trattati) o non
scritte (norme generali) sono poste in essere dagli stessi soggetti (stati) che ne sono i principali
destinatari. Le norme di diritto internazionale emanano dalla libera volontà degli Stati, per regolare
le loro relazioni e raggiungere obbiettivi comuni. Le norme di diritto internazionale possono essere
sia consuetudinarie (diritto internazionale generale, la consuetudine in un ordinamento ancora
primitivo come quello internazionale occupa un ruolo di primo piano) e sia trattati.

La legge, intesa come strumento scritto che pone in capo ai soggetti di un ordinamento norme obbligatorie
generali e astratte, non esiste nel diritto internazionale.

Inoltre come si possono sempre raggiungere obbiettivi comuni? Quando ciò non è possibile prevale il più
forte e di conseguenza in questi ambiti viene meno l’esistenza di un sistema di diritto internazionale?

B) Giudiziaria
Sul piano giudiziario, sono state istituite con vari trattati vari organi giudiziari, composti da giudici
indipendenti, che hanno il potere di risolvere una controversia (disaccordo su una questione di
fatto o di diritto) mediante sentenza avente carattere vincolante per le parti in lite.
Le corti possono avere carattere generale (possono pronunciarsi su tutte le controversie in
generale es. Corte Internazionale di Giustizia) o speciale (hanno giurisdizione su una speciale
categoria di controversie es. CEDU corte dei diritti umani, CdG…).
La Corte internazionale di giustizia oltre a giudicare le controversie tra stati ha anche una funzione
consultiva e può rendere pareri su richiesta dell’Assemblea Generale o del consiglio di sicurezza
delle nazioni unite. Il parere non ha valore vincolante. Accanto alle corti permanenti di cui si è detto
sopra, gli Stati possono istituire corti arbitrali per risolvere una specifica controversia o una
categoria di controversie.

Le corti internazionali possono però pronunciare una sentenza di merito solo se TUTTI gli Stati coinvolti
hanno accettato la sua giurisdizione. Questo implica che in mancanza del proprio consenso uno Stato
sovrano non può essere sottoposto alla giurisdizione di alcun organo giudiziario internazionale. Questo
ovviamente apporta una pesante restrizione all’esercizio della funzione giudiziaria nell’ambito del sistema
di diritto internazionale.

C) Esecutiva
Discende sempre dalla sovranità degli Stati il fatto che non esistano (o meglio che non possano
esistere) apparati precostituiti che assicurino il rispetto delle norme di diritto internazionale sul
piano esecutivo (vigilare che gli stati osservino le norme e che qualora questo non avvenga
assicurino un’esecuzione forzata degli obblighi non adempiuti). Il meccanismo di mantenimento
della pace e della sicurezza internazionali è affidato alla responsabilità primaria del consiglio di
sicurezza. Il Consiglio di Sicurezza presenta infatti evidenti limiti che ne condizionano l’efficacia;
nessuna decisione sostanziale del consiglio di sicurezza può essere presa se vi è il voto contrario di
uno qualsiasi dei suoi cinque membri permanenti (CINA, FRANCIA, REGNO UNITO, RUSSIA, STATI
UNITI). Allo stesso modo l’esecuzione delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia è
garantita da misure menzionate in termini assai generici ex art 94 par 2 CdNU. Nessun meccanismo
è previsto per ottenere l’esecuzione di decisioni di altri organi giudiziari internazionali che decidono
su controversie tra stati. Un caso eccezionale (grazie all’intenso livello di integrazione) si ha con il
trattato sul funzionamento dell’UE che prevede sanzioni pecuniarie a carico degli stati membri
inadempienti.

L’ordinamento internazionale ha natura giuridica?

Ci si può chiedere se in presenza di caratteri così primitivi sia il caso di attribuire una vera e propria natura
giuridica all’ordinamento internazionale. Spesso si critica il diritto internazionale affermando che questo
sistema si confonderebbe spesso con la legge del più forte (si afferma quindi, come già affermava Kant
all’inizio della propria opera “Per la pace perpetua”, che tra gli Stati viga una sorta di stato di natura
hobbesianamente inteso). Questo stato delle cose rappresenterebbe la negazione di qualsiasi sistema
giuridico, che dovrebbe tendere ad affermare che ragione e torto sono stabiliti da regole predeterminate e
imparziali, non da chi è più forte tra i contendenti. È proprio in funzione dell’obiettivo di porre dei limiti agli
abusi degli stati più forti che ha un senso il diritto internazionale.

In realtà non tutte le norme del diritto internazionale hanno lo stesso grado d’importanza. Un ruolo
decisivo assumono la norma che vieta l’uso della forza nelle relazioni tra stati e le norme, ad essa collegate,
che stabiliscono un meccanismo per assicurare la pace e la sicurezza internazionali (meccanismo creato con
la carta delle nazioni unite, basato sulla posizione di supremazia attribuita ai 5 stati membri permanenti del
consiglio di sicurezza).

Storia del diritto internazionale


Relazioni tra entità politiche indipendenti si sono avuti in tutte le epoche storiche a partire dall’antichità
(es. egitto con faraoni, città stato della grecia etc) e in tutte le aree geografiche. Il più antico trattato di cui
sia rimasto il testo è il trattato di pace di Qadesh, concluso intorno al 1258 a.c da Ramses II, faraone
d’egitto, e Hattusili III, re degli Ittiti. Il trattato scritto originariamente su tavolette d’argento, è stato inciso
in lingua egiziana su un muro del tempio e riprodotto in lingua accadica su tre tavolette d’argilla. Nel
trattato si trovano disposizioni in tema di non aggressione, di mutua assistenza, di consegna di individui
ricercati.
In epoca cristiana comincia a farsi strada l’idea del bellum iustum: ossia l’idea che la guerra possa essere
intraprese solo per determinate cause (in modo da non essere in contrasto con il messaggio evangelico).

Sant’Agostino (354-430) individua come giuste cause di guerra le guerre che vendicano torti e quelle
ordinate da Dio. San Tommaso d’Aquino (1225-1274) enuncia 3 condizioni per cui una guerra può essere
definita giusta: essere intrapresa da uno Stato (e non da privati), essere dettata da iusta causa (il nemico
doveva essere responsabile di un illecito) e perseguire il bene ed evitare il male.

Nel medioevo poi furono intrattenuti rapporti politici e giuridici tra centri di potere indipendenti e anche
appartenenti a fedi religiose diverse. Sono istituiti vari trattati (capitolari, nel senso che sono suddivisi in
capitoli non nel senso di resa), soprattutto dalle repubbliche marinare, in cui solitamente si richiede:

1. Diritto di navigare liberamente


2. Repressione pirateria
3. Diritto a poter approdare nei porti e svolgere attività commerciali
4. Clausola della nazione favorita (richiedere lo stesso livello di tassazione della nazione avente la più
bassa tassazione con la parte con cui è stipulato il trattato)
5. Rappresentanti fissi in loco (i cui rapporti siano regolati dalla legislazione cui gli stranieri
appartengono)

Non sembra tuttavia che le relazioni intercorse in epoche più o meno remote siano riferibili ad un
ordinamento giuridico a sé stante, che sia in diretta continuità con l’attuale ordinamento internazionale. A
seconda dei casi, i rapporti tra entità politiche indipendenti erano in tali epoche collocati entro una sfera di
principi religiosi o morali oppure inseriti nell’ambito di un determinato ordinamento nazionale o ancora
riferiti al sistema di diritto romano corpus iuris. Mancava la concezione che i rapporti tra enti politici
indipendenti rientrassero in un ordinamento a sé stante.

Tra il XVI e i XVII secolo si afferma sul piano teorico l’idea che le relazioni tra entità politiche indipendenti si
dovessero collocare in un ordinamento giuridico a parte, separato dal diritto comune giustinianeo e dagli
ordinamenti nazionali.
Alla base di questa esigenza (che praticamente si manifesta soprattutto nel bisogno di regolamentare il
regime di guerra e il regime di navigazione) sta l’idea che le entità politiche indipendenti formano, per il
solo fatto di esistere, una comunità a sé stante che si manifesta spontaneamente in un insieme di norme
giuridiche applicabili a tali entità. I principali esponenti della dottrina classica si collocano nell’ambito di
quella più vasta corrente politico giuridica che s’ispira alla nozione del diritto naturale (giusnaturalismo) e
che trae spunto da concezioni filosofiche dell’antichità. Secondo queste concezioni, esiste un diritto
naturale, vale a dire un insieme di norme non scritte e discendenti naturalmente e spontaneamente dalla
ragione umana, che valgono per i membri di una determinata comunità, indipendentemente dalle norme
poste da un superiore politico. Questo diritto è detto diritto ius gentium, non con il connotato che aveva
nel diritto romano (diritto che regola i rapporti tra i cittadini romani e non), bensì come diritto che regola i
rapporti tra entità politiche indipendenti.

Importanti contributi allo sviluppo dello ius gentium sono apportati da de Vitoria (l’unica causa di guerra è
l’aver subito un torto: giusto diritto di guerra e conquista ma soltanto se la predicazione del vangelo è
impedita con la forza, se i missionari sono attaccati, se la professione di fede tra i convertiti è impedita),
Gentili (distingue la società internazionale ovvero societas gentium dalla società nazionale ovvero civitas. Il
diritto civile non necessariamente si identifica con il diritto delle genti. Individua giuste cause di guerra: la
guerra oltre che intrapresa per giusta causa deve essere condotta secondo diritto. Esprime l’esigenza di
creare uno ius in bello, norme giuridiche da tenere durante la guerra in modo da far sì che fosse il meno
opprimente possibile per i civili), Grozio (a lui va attribuito il merito della prima elaborazione completa della
materia chiamata diritto internazionale. La sua prima esperienza in una questione di interesse
internazionale riguarda un problema concreto che coinvolgeva il diritto di guerra marittima e il diritto del
mare in generale. Grozio scrisse un’estesa trattazione intitolata De Jure praedae commentarius che non fu
pubblicato. Soltanto il capitolo 12° venne stampato nel 1609 con il titolo MARE LIBERUM, dove Grozio
deduceva la libertà del mare dal fatto che fosse impossibile occupare un elemento spazialmente confinato.
Nel 1625 pubblicò il De jure belli ac pacis. Secondo lui occorre nettamente separare il diritto naturale, facile
da accertare, perché immutabile, dal diritto stabilito dagli uomini, civile e dal diritto stabilito dagli stati delle
genti che cambiano continuamente e che non possono essere dedotti a priori da principi astratti, ma
soltanto venire descritti. Il diritto delle genti nasce dal comune consenso degli stati che determina la
formazione di un sistema di norme diretto a tutelare le esigenze di un’intera collettività, e non gli interessi
dei singoli suoi membri.), Kant, Wolff, Hobbes (gli stati sono come gladiatori e la pace è solo una pausa utile
a tirare il fiato tra una guerra e l’altra. In una comunità dove manca un’autorità superiore, manca anche il
diritto e valgono la forza e la frode. I trattati non hanno alcun valore. Contano invece la forza e la capacità
di assoggettare o indebolire gli stati vicini), Spinoza (la condizione naturale dello stato, come dell’uomo è la
guerra. Gli stati sono vincolati dai trattati soltanto finchè vi sia un’utilità nell’osservarli. Gli stati che non
s’impegnano mai per il futuro si possono però liberamente sottrarre a quanto previsto dal trattato se
cambiano le circostanze che esistevano al momento della sua conclusione).

Alle elaborazioni teoriche di questo periodo si accompagnano risultati pratici: a partire dal XVII secolo la
realtà di un insieme di enti politici sovrani venne ufficialmente ad affermarsi in europa. Tramontò la
concezione di un’unica autorità universale (Papato o Impero) che esercitasse il proprio potere su ogni altra
autorità politica. Conclusa la guerra dei Trent’anni con la pace di Westfalia il continente europeo si ripartì
una moltitudine di stati pienamente sovrani, che erano costituiti entro determinate frontiere, senza che le
diversità di religione potessero pregiudicare la loro condizione politica e i loro diritti e obblighi. L’approdo in
territori che non di rado erano abitati da genti dotate di una propria organizzazione politica e sociale
poneva il problema dei rapporti delle potenze europee con le popolazioni con cui esse venivano in
contatto. La tendenza di gran lunga dominante degli stati europei era quella di appropriarsi dei territori
d’oltremare. L’esigenza di fornire un appoggio teorico all’espansione coloniale si tradusse in una
concezione eurocentrica della comunità internazionale e del suo ordinamento giuridico e in facili
giustificazioni dell’uso della forza a tal fine impiegata. Le popolazioni dei territori d’oltremare erano spesso
considerate oltre che diverse, anche incivili e quindi prive di diritti sul piano giuridico. I singoli individui
erano ridotti in stato di schiavitù. Gli spazi dove le popolazioni d’oltremare erano stanziate venivano
qualificati come territori nullius e quindi disponibili all’occupazione da parte delle potenze considerate
civili.

Nel corso del XIX secolo, le concezioni di stampo positivista e natalista, dirette anche a escludere l’esistenza
stessa di un diritto internazionale che ponesse vincoli agli stati sovrani, trovarono la loro più significativa
manifestazione. Simili concezioni trovano il loro fondamento nel pensiero di Hegel (nessun organismo può
regolare i rapporti tra gli stati, che non sono sottoposti ad alcuna volontà generale a loro superiore, ma
agiscono in base alla loro volontà particolare. Il diritto internazionale si riduce a diritto statale esterno e le
controversie tra gli stati se non sono risolte con un accordo, sono decise dalla guerra, non essendo possibile
consentire il ricorso alla guerra solo in presenza di determinati illeciti), di Austin (il potere dello stato
sovrano, unica fonte di norme giuridiche, non è suscettibile di alcuna limitazione giuridica. Lo stato è libero
di non osservare le regole che esso stesso ha posto).

Un tentativo di riconciliare la sovranità degli stati con l’esistenza di un sistema di diritto internazionale
capace di vincolarli fu svolto dal giurista tedesco Triepel e dal giurista italiano Anzilotti (essi attribuiscono
alla volontà collettiva degli stati ovvero volontà che emana da un insieme di stati sovrani, la capacità di dar
vita a regole di condotta internazionali obbligatorie e configurano la consuetudine come un accordo tacito
che esprime tale volontà collettiva.

Hans Kelsen espose la dottrina pura del diritto, fondata sul presupposto di una norma base (grundnorm) da
cui discendono tutte le norme di un unico sistema, e sul primato del diritto internazionale su quello interno.
Alcuni giuristi configurarono il diritto internazionale come quell’insieme di norme che regola la coesistenza
pacifica tra due blocchi di stati, cioè quelli a economia socialista e quelli a economia capitalista, ponendo
l’accento sul fatto che gruppi di stati radicalmente diversi per il loro orientamento politico economico
possano ciononostante elaborare un sistema comune di norme.

Il periodo intercorrente tra XVIII e la prima metà del XIX vide la formazione di nuovi stati sul continente
americano, a seguito dell’acquisto dell’indipendenza da parte dei territori già sottoposti al dominio
coloniale di gran bretagna, spagna e portogallo. All’epoca della restaurazione, dopo la tempesta della
rivoluzione francese e il crollo del progetto egemonico della Francia napoleonica, gli stati europei posero in
essere una prima rudimentale forma di organizzazione della loro cooperazione sul piano politico. Dopo il
congresso di Vienna (1815) le potenze europee vincitrici (Austria, Gran bretagna, Prussia e Russia)
instaurarono la pratica di riunirsi periodicamente per discutere delle più importanti questioni internazionali
ed elaborare soluzioni al riguardo. Questo insieme di riunioni periodiche, che non si basavano su alcuna
struttura istituzionale, fu chiamato Concerto Europeo o Direttorio. Esso fu allargato a Francia e Sardegna.
Con il congresso europeo i temi delle riunioni si allargarono a questioni diverse dall’assetto politico-
territoriale conseguente alla fine di una guerra e si estesero ai temi della prevenzione dei conflitti e della
cooperazione internazionale in diversi ambiti. Nella seconda metà del XIX secolo si verificò qualche
apertura verso potenze di cultura extra europea. Ma l’espansione politica e territoriale delle potenze
europee si rafforzò di pari passo con il progredire delle esplorazioni in territori difficilmente accessibili,
come l’interno dell’Africa e le isole dell’oceania. Nel febbraio del 1885 con l’Atto generale della conferenza
di Berlino si stabilì l’obbligo di notificazione delle prese di possesso territoriale o delle istituzioni di
protettorati sulle cose del continente africano, al fine di prevenire i conflitti tra le potenze coloniali.

Il principio di nazionalità

Dopo l’insuccesso della Prima guerra d’indipendenza italiana, il giurista e uomo politico Mancini, esule dalle
due sicilie in sardegna, pronunciò nel 1851 all’università di torino una celebre prelezione intitolata “della
nazionalità come fondamento del diritto delle genti”. Qui Mancini espose come nella genesi dei diritti
internazionali, la nazione e non lo stato rappresenti l’unità elementare, intendendo per nazione una società
naturale di uomini data da unità di territorio, di origine, di costumi e di lingua conformati a comunanza di
vita e di coscienza sociale. Era chiara la sua distinzione tra stato come ente politico territoriale e quello di
nazione come un ente socio culturale. All’Italia come a qualsiasi nazione spettava il diritto di diventare uno
stato, dandosi un governo proprio, poiché la conservazione e lo sviluppo della nazionalità costituiscono non
solamente un diritto ma un dovere giuridico degli uomini. Ne conseguiva una netta condanna al
colonialismo. Lo stesso Mancini però divenuto Ministro degli affari esteri del nuovo stato Italiano unitario,
fu uno dei principali promotori della politica coloniale nazionale (es legge coloniale italiana relativa
all’eritrea).
Vista come naturale prosecuzione del processo di unificazione della penisola italiana. Mancini fornisce 4
motivazioni per giustificare la politica di espansione coloniale. La prima colonia italiana è l’Eritrea, poi si va
verso l’entroterra (non sarebbe stato possibile espandersi verso il mar rosso, in quanto territori influenzati
dall’Egitto, a sua volta influenzato dagli inglesi). Nell’entroterra c’è l’Etiopia, uno dei due soli stati
indipendenti esistenti in Africa (l’altro era la Liberia, di fatto creato dagli USA per accogliere gli schiavi
liberati che volessero rientrare in territorio americano).

L’Etiopia era stato prevalentemente cristiano, guidato da un imperatore di uno stato feudale (ras che
governavano i singoli territori, in guerra tra loro e con l’imperatore). Stato con forti motivi di debolezza
interna. In procinto di iniziare la guerra, l’Etiopia inizia una massiccia compravendita di armi e cerca di
aumentare il livello di coesione facendo appello sul principio di nazionalità.

Ad un certo punto Menelik, vassallo su cui l’Italia voleva appoggiarsi per stipulare un trattato con l’Etiopia,
diventa imperatore. L’Italia afferma a questo punto che il trattato precedentemente stipulato era un
trattato (trattato di Ucialli in cui non si faceva menzione di protettorato) di protettorato: stato protetto
perde capacità di avere una politica estera e ottiene protezione da parte dello stato protettore.

Nel dicembre 1885 l’Italia penetra l’Etiopia, sotto a guida di Baratieri (che già aveva partecipato alla
spedizione dei mille).

Menelik esprime il principio di nazionalità: si esprime in questo periodo, sarà uno dei principi cardine del
diritto internazionale. Norma residuale di grande importanza: clausola Martens (giurista russo).

Sanzioni revocate ma Italia esce dalla società delle nazioni nel 1937.

Dopo la morte di Mancini, l’Italia proseguì nella sua politica coloniale, tra l’altro pretendendo senza nessun
fondamento giuridico che il trattato di amicizia e commercio tra Etiopia e Italia (UCCIALLI 1889) avesse
costituito con protettorato dell’Italia sull’Etiopia.

La codificazione del diritto internazionale di guerra

Nella seconda metà del secolo XIX ci fu l’elaborazione di un insieme di norme di carattere umanitario che
potevano migliorare la sorte cui andavano incontro i combattenti. Trovandosi casualmente ad assistere alla
battaglia di Solferino (1859), l’uomo d’affari svizzero Dunant si unì ai volontari, in particolare alle donne del
luogo, che cercavano di porre sollievo all’atroce agonia di molti combattenti rimasti vittime
dell’insufficienza dei mezzi di soccorso. Dunant auspicò che gli stati si accordassero per formulare regole sul
soccorso ai militari feriti, a qualunque parte essi appartenessero, e promuovere l’istituzione di apposite
associazioni di soccorso. Nel 1863 si costituì il Comitato Ginevrino di soccorso dei militari feriti, precursore
del comitato internazionale della croce rossa, e si arrivò alla conclusione della convenzione sul
miglioramento della sorte dei militari feriti negli eserciti in campagna (Ginevra 1864), ovvero il primo
trattato di diritto internazionale di guerra avente fini umanitari. La convenzione prevede la neutralità delle
ambulanze, degli ospedali militari, del personale di soccorso e dei cappellani, la tutela delle popolazioni
locali che soccorrono i feriti, l’obbligo di raccogliere e curare tutti i feriti, l’uso da parte dei soccorritori della
bandiera e del bracciale con l’emblema della croce rossa su campo bianco (colori invertiti della bandiera
svizzera).
Nel 1868 fu adottata la Dichiarazione di San Pietroburgo, con la quale gli stati rinunciavano all’uso di
pallottole di peso inferiore a 400 grammi che fossero esplosive o cariche di sostanze infiammabili. Nel
preambolo si afferma il principio che l’unico fine dell’azione bellica è di mettere fuori combattimento il
maggior numero possibile di combattenti nemici e che pertanto, è contrario alle regole di umanità l’uso di
armi che inutilmente aggravano le sofferenze dei combattenti o rendono la loro morte inevitabile (es. pag
73 Maggiore Galliano e Maconnen).
Il diritto internazionale di guerra fu in seguito oggetto di un’opera di codificazione con le due conferenze
tenutesi all’Aja nel 1899 e nel 1907. Da allora il diritto internazionale di guerra ha progressivamente
assunto un marcato carattere umanitario. Esso tutela sia i combattenti, sia la popolazione civile e, sul piano
generale, si fonda sul presupposto che i belligeranti e, più in generale gli stati e gli altri enti che sono
impegnati in un conflitto armato, non hanno una scelta illimitata sui mezzi e metodi di combattimento. Ci
sono due divieti fondamentali: i belligeranti non devono usare armi che provochino nei combattenti nemici
sofferenze eccessive rispetto a quelle necessarie per raggiungere il tipico obiettivo militare di indebolire le
forze armate del nemico; i belligeranti non devono usare la forza contro la popolazione civile, né utilizzare
armi a effetto indiscriminato che non siano in grado di distinguere tra bersagli militari e bersagli civili.
Fondamentale è la clausola Martens formulata nel preambolo della convenzione dell’aja del 1899 sulle
norme e consuetudini della guerra terrestre. La clausola fa in modo che le lacune dei trattati di diritto
internazionale umanitario, ad esempio le incertezze che si pongono quando sono impiegate nuove armi o
nuovi mezzi di combattimento, possano essere immediatamente superate facendo riferimento ai principi
generali del diritto internazionale e alle norme di umanità e alle esigenze della coscienza pubblica. La
convenzione testimonia il regime di ampia libertà che in quel periodo caratterizzava la materia dell’uso
della forza da parte degli stati.

Alla fine del XVIII secolo fece la sua apparizione in alcuni trattati una clausola che impegnava le parti a
sottoporre determinate controversie ad arbitrato internazionale. La convenzione dell’aja prevede una corte
permanente d’arbitrato. Più che istituire un organo giudiziario, la convenzione si limitava a prevedere che
un Ufficio Internazionale, avente sede all’Aja, tenesse e aggiornasse una lista di arbitri, indicati dagli stati
parte. Gli stati in lite che desideravano ricorrere ad un arbitrato potevano scegliere dalla lista coloro che
avrebbero composto il tribunale arbitrale. Il meccanismo così stabilito è tutt’ora operante.

Società delle nazioni

Nel XX secolo si ha una consistente evoluzione della comunità internazionale: cominciano ad essere create,
da parte degli Stati le organizzazioni internazionali. Si dice organizzazione internazionale un ente
intergovernativo dotato di una propria soggettività giuridica e portatore di interessi collettivi attribuitigli
dagli Stati che li hanno istituiti con un apposito trattato. Internazionali sta per: comprensivo di stati diversi.

Alla seconda metà del secolo XIX risalgono alcuni esempi di organizzazioni internazionali investite di compiti
tecnici, in particolare di favorire la cooperazione in materia di comunicazioni tra stati (es. l’unione
telegrafica internazionale, l’unione postale universale).
Dopo il primo conflitto mondiale è istituita la Società delle Nazioni (SdN), un’organizzazione internazionale
dotata di vocazione universale e investita dei compiti politici di garantire la pace e sviluppare la
cooperazione degli Stati.

La società delle nazioni è istituita con un trattato detto Patto approvato dalla Conferenza della Pace nel
1919 e inserito poi nei vari trattati conclusi dalle potenze vincitrici con quelle sconfitte. Sede della società
era Ginevra. Organi della stessa erano l’assemblea, a composizione plenaria e il consiglio a composizione
ristretta (le principali potenze alleate e associate, come membri permanenti, e quattro altri stati selezionali
dall’assemblea). Nel preambolo del patto, gli stati membri della società delle nazioni si dichiaravano animati
dall’obiettivo di promuovere la pace e la sicurezza internazionali attraverso il divieto di ricorrere alla guerra,
il rispetto del diritto internazionale, l’adempimento degli obblighi dei trattati. La norma principale del Patto
non vietava agli stati membri il ricorso alla guerra tra loro ma affermava che qualora dovesse sorgere una
controversia suscettibile di una rottura della pace, essi esperissero una procedura d’arbitrato o di soluzione
giudiziaria o sottoponessero la controversia al consiglio. Il ricorso alla guerra era ammissibile decorsi tre
mesi dalla decisione arbitrale o giudiziaria o dall’adozione di un rapporto da parte del consiglio.
L’universalità della società delle nazioni era già all’inizio menomata dalla mancata ratifica del patto da parte
degli stati uniti che pure ne avevano promosso la costituzione. Per di più, la capacità della società delle
Nazioni di perseguire il suo obiettivo fondamentale di garantire la pace fu gravemente messa in dubbio da
casi di aggressione di uno stato membro contro un altro stato membro (il giappone dopo aver occupato un
territorio appartenente alla cina, notificò il suo recesso. Lo stesso fece l’italia dopo aver attaccato
militarmente l’etiopia e successivamente l’unione sovietica fu espulsa).

Nei confronti dell’Italia fu fatto inizialmente ricorso all’art. 16 par. 1 del patto che prevedeva l’obbligo degli
stati membri di adottare in modo automatico sanzioni economiche nei confronti dello stato membro che
aveva fatto illegalmente ricorso alla guerra. Il rapporto di un apposito comitato che constatava che l’italia
aveva fatto ricorso alla guerra in violazione dell’art. 12 del patto fu approvato dal consiglio con 14 voci
contro uno (contrario dell’italia che però non contava ai fini dell’unanimità in quanto stato direttamente
coinvolto). Dei 56 stati allora membri della sdn soltanto 4 dichiararono di non voler partecipare
all’applicazione di sanzioni nei confronti dell’italia. La revoca delle sanzioni contro l’Italia fu approvata
dall’assemblea della società delle nazioni con 44 voti a favore, 1 contrario e 4 astensioni. Nel 1936 Hailè
Selassiè (imperatore deposto di etiopia) fece un discorso di fronte all’assemblea che segnalava come al di là
del caso specifico dell’aggressione al suo paese e dell’uso illegale di gas tossici da parte italiana, condonare
un’aggressione equivalesse a rinnegare il fondamento stesso della società delle nazioni e tradire l’idea di
una comunità in cui potessero coesistere stati forti e stati deboli.

La SdN dimostra però evidenti limiti nel perseguire gli obbiettivi per cui era stata istituita, limiti sia di natura
strutturale (regola dell’unanimità cui erano sottoposti i suoi organi) sia dettati dal contesto politico (gli USA,
che pur ne avevano proposto l’istituzione, non ratificano il Patto).

La SdN si sfalda poi gradualmente negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Stati membri
attaccano altri Stati membri in totale violazione del Patto (tipo la Germania o l’Italia). Il secondo conflitto
mondiale sancisce poi in modo inequivocabile il fallimento degli obbiettivi della SdN, che cessa di esistere
formalmente nel 1946. Nel periodo tra le due guerre mondiali fu concluso il trattato generale di rinuncia
alla guerra come strumento di politica nazionale (Parigi 1928), che sanciva l’impegno solenne delle parti di
rinunciare alla guerra nelle relazioni reciproche e di cercare la soluzione delle loro controversie
esclusivamente attraverso mezzi pacifici.

Le nazioni unite

Dopo la seconda guerra mondiale, l’eredità ideale della sdn passò all’organizzazione delle nazioni unite
istituita nel 1945 con un trattato detto Carta delle Nazioni Unite (CdNU) a San Francisco. Sede delle nazioni
unite è New York. Inizialmente composta da 51 Stati, ad oggi ne fanno parte 193 (l’Italia dal 1955) vale a
dire tutti gli stati tranne per motivi diversi Città del Vaticano, Palestina e Taiwan.. Palestina e Città del
Vaticano sono Stati osservatori.
La procedura di ammissione di nuovi Stati prevede una decisione dell’Assemblea Generale sulla base di una
raccomandazione del Consiglio di Sicurezza (diritto di veto).

L’ONU è l’unica organizzazione internazionale ad avere natura politica (per quanto riguarda gli obbiettivi) e
dimensione mondiale (per quanto riguarda la partecipazione degli Stati). Alla base dell’ONU vi è la necessità
di preservare le future generazioni dal flagello della guerra. Il fine principale dell’ONU è dunque il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. All’obiettivo primario delle nazioni unite si
aggiungono altri fini di natura politica economica e umanitaria, quali l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli, la cooperazione per la soluzione dei problemi economici, la promozione dei
diritti umani.

È importante sottolineare che l’ONU è un’organizzazione internazionale e non super stato e non cancella la
sovranità degli stati membri. Le nazioni unite si fondano sulla sovrana uguaglianza degli stati membri, di
conseguenza vi sono ambiti in cui l’organizzazione non può intervenire in quanto essenzialmente di
competenza interna.

Va osservato che mentre l’assemblea generale è composta di tutti gli stati membri, 5 stati, e cioè le
principali potenze vincitrici della seconda guerra mondiale (CINA, FRANCIA, REGNO UNITO, FEDERAZIONE
RUSSA prima unione sovietica E STATI UNITI) hanno un peso ben diverso da quello di tutti gli altri. Essi sono
membri permanenti del Consiglio di sicurezza, l’organo composto di soli 15 stati, cui spetta la responsabilità
principale di mantenere la pace e la sicurezza internazionali e di prendere decisioni al riguardo. Ciascuno
dei membri permanenti può impedire con il suo voto negativo qualsiasi decisione sostanziale di tale organo
(diritto di veto). Il maggior peso attribuito ai membri permanenti del consiglio di sicurezza non è facilmente
modificabile. Ogni emendamento della carta, ivi comprese le disposizioni che segnano la posizione
privilegiata dei membri permanenti del consiglio di sicurezza, deve essere adottato dall’assemblea generale
alla maggioranza di due terzi e poi ratificato da due terzi degli stati membri delle nazioni unite ivi compresi
tutti i membri permanenti del consiglio di sicurezza.

Nel corso del XX si sviluppa poi la tendenza degli Stati a intensificare le proprie relazioni e a regolare
questioni di comune interesse in modo concordato su base multilaterale. Es. FAO organizzazione delle
nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura, UNESCO organizzazione delle nazioni unite per l’istruzione,
la scienza e la cultura, WHO organizzazione mondiale sanità (organizzazioni che sono legate alle nazioni
unite da uno specifico accordo). Se le organizzazioni internazionali costituiscono il tipico caso di centri per la
promozione della cooperazione multilaterale, nulla impedisce che un’organizzazione internazionale sia
composta di due soli stati.

Gli stati che creano un’organizzazione internazionale non si limitano a redigere norme per regolare la loro
reciproca cooperazione. Essi concludono un trattato che la lo specifico obiettivo di istituire un’entità a sé
stante e caratterizzata da una propria indipendenza. Questa entità è dotata di propria soggettività giuridica
nei confronti sia degli stati parte, sia degli stati terzi e svolge una propria azione nelle materie rientranti
nella sua sfera di competenza. Le organizzazioni internazionali sono soggetti del diritto internazionale. Ad
esempio le nazioni unite pur essendo un ente diverso da uno stato, erano un soggetto di diritto
internazionale: la carta aveva istituito organi delle nazioni unite, aveva attribuito loro specifiche
competenze e capacità di manifestare una loro propria volontà, aveva previsto la conclusione di trattati tra
l’organizzazione e gli stati, aveva stabilito privilegi ed immunità per l’organizzazione e i suoi funzionari.
Tutto questo presupponeva la volontà degli stati di creare un ente dotato di personalità giuridica.
In quanto soggetti a sé stanti, le organizzazioni internazionali sono dotate di propri organi, ognuno dei quali
esercita specifiche competenze.
La carta delle nazioni unite prevede 6 organi principali: Assemblea generale, consiglio di sicurezza, consiglio
economico e sociale, il consiglio di amministrazione fiduciaria e la corte internazionale di giustizia e altri
organi sussidiari.
Ogni organizzazione internazionale è dotata di un proprio diritto interno, ossia di un insieme di norme che
regola aspetti della vita interna dell’ente, come le modalità di funzionamento degli organi, il rapporto di
lavoro dei funzionari dell’organizzazione, la soluzione delle controversie tra funzionari e organizzazione.

Diritto internazionale umanitario


Il diritto internazionale umanitario si fonda su due principi cardine, già enunciati a suo tempo da Gentili:
A. Divieto di usare armi che provochino nel nemico sofferenze eccessive rispetto a quelle necessarie
per raggiungere l’obbiettivo militare
B. Divieto di attaccare, direttamente e indierettamente, i civili

Nel periodo tra le due guerre è stato redatto un Protocollo (a Ginevra nel 1925) che vietava l’impiego in
tempo di guerra di gas asfissianti tossici e mezzi batteriologici. Questo trattato fu pesantemente violato
dall’Italia nella seconda guerra Italo-Etiopica a seguito dei bombardamenti aerei con armi chimiche,
soprattutto con l’iprite (gas mostarda) che penetra attraverso gli indumenti e la pelle, producendo lesioni
interne e la morte. Per molto tempo l’italia tentò di nascondere l’uso illecito di armi chimiche in Etiopia.
Sempre in questo periodo non ha esito il tentativo di regolamentare la guerra aerea e in particolare il
bombardamento aereo. Nel 1923 una commissione nominata dalla conferenza per la limitazione degli
armamenti presentò un insieme di regole sulla guerra aerea che rimase lettera morta e non venne mai
adottato. In realtà la discussione del 1923 ebbe un influsso negativo sullo sviluppo del diritto internazionale
umanitario. Venne avanzata ma sostanzialmente respinta la proposta di limitare i bombardamenti aerei al
solo teatro delle operazioni militari, che avrebbe assicurato una certa protezione alla popolazione civile. Fu
invece evocato il diverso, e ben più sinistro, criterio della legittimità del bombardamento di un obiettivo
militare che, proprio per la sua ambiguità ed elasticità, si può prestare, se usato da menti criminali, a una
sequenza logica diretta la bombardamento terroristico: è lecito bombardare il carro armato nemico perché
costituisce un obiettivo militare; è quindi lecito bombardare la fabbrica dove si costruisce il carro armato; è
quindi lecito bombardare l’operaio che lavora nella fabbrica dove si costruisce il carro armano; è quindi
lecito bombardare lo stesso operaio anche quando non si trova più nella fabbrica; è quindi lecito
bombardare tutta la città perché è lì che si trovano le case dove vanno a dormire gli operai che
costruiscono nella fabbrica il carro armato. Il risultato della sequenza è che si possono bombardare le
donne, i vecchi e i bambini come se fossero loro a combattere nel carro armato.

L’uso dell’aereo ai fini di bombardare cambia le cose. Dohuet nel 1922 pubblica “Il dominio dell’aria”, in cui
afferma che in caso di guerra le norme di diritto internazionale valgono come foglie secche. Questa
negazione totale del diritto internazionale umanitario è poi in controtendenza con lo sviluppo storico di
questo ambito del diritto internazionale. Tuttavia nel corso della seconda guerra mondiale i
bombardamenti a tappeto testimoniano quanto affermato da Dohuet, che hanno come bersaglio
soprattutto la popolazione civile e si svolgono in modo indiscriminato.

Particolare rilievo presenta il problema dell’uso di armi nucleari, data l’enorme capacità distruttiva e
l’effetto indiscriminato di questo tipo di ordigni: all’esplosione e all’incendio fa seguito la persistente
contaminazione radioattiva di una vasta area.
Il problema si pose per la prima volta nel 1945 quando gli stati uniti su ordine del presidente Harry Truman
usarono per due volte bombe nucleari contro il giappone. La prima bomba fu lanciata su Hiroshima il 6
agosto 1945. Era una bomba all’uranio soprannominata Little Boy che causò circa 260000 morti. La seconda
bomba atomica fu lanciata su Nagasaki il 9 agosto 1945. Era una bomba al plutonio chiamata Fat Man che
causò circa 78000 morti.
La legalità dell’impiego dell’arma atomica fu subito posta in discussione. In una dichiarazione resa il 9
agosto 1945, Truman sostenne che Hiroshima costituiva una base militare e giustificò il bombardamento
con 3 ragioni: rappresaglia contro il giappone che aveva nel 1941 iniziato la guerra contro USA senza
dichiararla, rappresaglia contro il giappone che aveva ucciso, torturato e affamato i prigionieri di guerra
americani, necessità di risparmiare le vite di giovani militari americani che altrimenti avrebbero dovuto
invadere il territorio giapponese. La terza giustificazione evoca il tema del valore della vita umana
presupponendo che la vita dei militari, specialmente se si tratta di giovani americani, valga molto di più di
quella di donne vecchi e bambini giapponesi. Era consentito per Truman massacrare subito i secondi per
evitare un futuro possibile massacro dei primi.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il diritto internazionale umanitario fu per la seconda volta codificato con
4 Convenzioni adottate a Ginevra nel 1949 e relative rispettivamente al:

• Miglioramento sorte dei feriti e dei malati delle forze armate terresti
• Miglioramento sorte dei feriti e naufraghi marittimi
• Trattamento dei prigionieri di guerra
• Protezione dei civili in tempo di guerra

cui si aggiungono due Protocolli addizionali:

• Protezione vittime conflitti armati internazionali (primo Protocollo, Ginevra 1977): si prevede ad
esempio il principio di distinzione, ossia l’obbligo di distinguere tra popolazione civile e i
combattenti potendo le operazioni essere dirette soltanto contro obiettivi militari; si prevede di
poter dirigere operazioni solo contro obbiettivi militari che danno un contributo effettivo all’azione
militare, in virtù del principio di necessità. Sono vietati gli attacchi indiscriminati. La protezione
garantita ai civili si estende anche ai beni indispensabili per la loro sopravvivenza essendo vietato
affamare i civili o costringerli a sfollare. Il protocollo enuncia una serie di precauzioni che devono
essere prese al momento di decidere di effettuare un attacco. Coloro che preparano o decidono un
attacco devono fare tutto quanto sia possibile per accertare che esso abbia per oggetto un
obiettivo militare lecito e devono prendere tutte le precauzioni perché la popolazione civile non
subisca danni collaterali e perché tali danni siano comunque ridotti al minimo. Anche lo stato
attaccato ha obblighi e in particolare non può servirsi dei civili come scudi umani per impedire
azioni contro i propri obiettivi militari. Di questo primo protocollo nono sono parti paesi dotati di
un apparato militare importante (USA, Israele, Pakistan, Russia, india, iran). Altri stati. Pur facendo
parte del protocollo hanno formulato riserve.
• Protezione vittime conflitti armati non internazionali (secondo Protocollo, Ginevra 2005)

In materia di armi considerate disumane o indiscriminate è stata adottata la Convenzione sul divieto dello
sviluppo, produzione e stoccaggio di armi batteriologiche e tossiniche e la loro distruzione nel 1972.

La questione della bomba nucleare

Dal punto di vista internazionale fino a poco tempo fa nessuna norma specifica di un trattato vietava l’uso
della bomba atomica, nonostante questo divieto possa essere implicitamente dedotto dal carattere
indiscriminato di questo tipo di armi.
Dopo il doppio utilizzo della bomba atomica da parte degli USA contro il Giappone il presidente Truman
giustificò l’azione della propria nazione con tre ragioni:

I. Rappresaglia contro il Giappone che nel 1941 aveva iniziato la guerra contro gli USA senza
dichiararla
II. Rappresaglia contro il Giappone che aveva ucciso, torturato e affamato i prigionieri americani
III. Necessità di risparmiare le vite dei giovani americani che altrimenti avrebbero dovuto invadere il
Giappone

Tuttavia è evidente l’insussistenza del rapporto di proporzionalità tra difesa e offesa insito nelle prime due
argomentazioni. Per quanto riguarda la terza causa di giustificazione, appare in totale contraddizione con il
principio cardine del diritto internazionale per il quale è posto in primo piano la tutela dei non combattenti
(meglio risparmiare i soldati, seppur americani, che i civili, seppur giapponesi). Il tutto ricade nella clausola
Martens (fino a che non sarà adottato un più completo codice delle regole applicabili ai conflitti armati, le
popolazioni e i belligeranti restano sotto la salvaguardia e sotto l’imperio dei principi del diritto delle genti,
dalle leggi d’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica) (però “dimenticata”). In ogni caso c’era
possibilità politica di evitare (almeno) uno dei due lanci.
Circa il problema dell’arma nucleare è rilevante il parere consultivo reso dalla CIdG del 1996 sula legalità
della minaccia dell’uso di armi nucleari. La Corte analizza due problematiche dell’uso dell’arma nucleare:

A. Rischio ambientale derivante dal suo utilizzo: le norme sulla protezione dell’ambiente non privano
uno Stato del diritto alla legittima difesa. La Corte di Giustizia nel 1996 si chiede se l’impiego di armi
nucleari costituisse una violazione delle norme di diritto internazionale relative alla protezione
dell’ambiente. Pur dichiarandosi consapevole che l’impiego di armi nucleari potrebbe costituire una
catastrofe per l’ambiente naturale, la corte concluse che le norme sulla protezione dell’ambiente
non privano uno stato del diritto di legittima difesa.
B. Compatibilità dell’arma atomica con il diritto internazionale umanitario: La corte si chiese in seguito
se l’uso di armi nucleari potesse considerarsi illecito perché incompatibile con le norme del diritto
internazionale umanitario. Pur richiamandosi ai principi fondamentali del diritto internazionale
umanitario (da cui sembrerebbe esserne facilmente deducibile l’incompatibilità in quanto arma che
colpisce in modo indiscriminato la popolazione civile), la Corte dichiarò di non aver elementi
sufficienti per dare una risposta netta al quesito. Dichiarò pertanto di non poter stabilire in modo
definitivo se sia lecito l’impiego di armi nucleari da parte di uno stato quando si verifichi una
circostanza estrema di legittima difesa in cui sia in questione la stessa sopravvivenza dello Stato
(quindi NON nel caso in cui era stata utilizzata dagli USA).

La corte non fa alcuna scelta tra le due principali alternative possibili, e cioè sancire il divieto assoluto della
minaccia e dell’uso delle armi nucleari o, invece, ammetterne la liceità nel solo caso di legittima difesa nei
confronti di un attacco armato condotto mediante armi nucleari. Resta il fatto che la corte ipotizza che l’uso
sarebbe consentito, ammesso che sia mai consentito, nella solo circostanza estrema di legittima difesa, in
cui la stessa sopravvivenza di uno stato sia in questione.
Solo recentemente per iniziativa dell’assemblea generale delle nazioni unite è stato adottato con 122 voti
favorevoli, un’astensione e un voto contrario, il trattato sul divieto di armi nucleari (New York 2017).
Tuttavia non è ancora entrato in vigore. Gli stati oggi dotati di armi nucleari e molti altri membri della nato
si sono rifiutati di partecipare al negoziato sul trattato.

Il disarmo

L’esistenza di un diritto internazionale di un divieto di usare la forza o di minacciare l’uso e la presenza di


norme che vietano l’uso e la detenzione di determinati tipi di armi non esclude che gli stati possano
lecitamente detenere armi non vietate e che siano funzionali all’esercizio del loro diritto naturale di
legittima difesa o all’attuazione di misure implicanti l’uso della forza deliberate dal consiglio di sicurezza. Il
possesso di armamenti può anche essere usato in chiave preventiva. La riduzione degli armamenti e il
disarmo rappresentano uno degli obiettivi da tempo perseguiti dalla comunità internazionale, in quanto
strumentali al mantenimento di relazioni pacifiche tra gli stati. Nel patto della società delle nazioni si
riconosceva che per mantenere la pace era necessario ridurre gli armamenti al limite minimo compatibile
con la sicurezza dello stato e con l’azione comune intesa ad assicurare l’adempimento degli obblighi
internazionali. Anche nella carta delle nazioni unite sono previste competenze degli organi principali in
materia di disarmo, che si limitano però all’esercizio di azioni prive di effetti vincolanti. La corte
internazionale di giustizia afferma un principio generale valido per tutti gli stati che in diritto internazionale
non esistono regole volte a limitare il livello di armamenti di uno stato sovrano, tranne quelle
volontariamente accettate dallo stato interessato mediante trattati. Ambito di applicazione universale ha il
trattato della non proliferazione delle armi nucleari esteso nel 1996. Il trattato si fonda sulla distinzione tra
stati non dotati di armi nucleari e stati dotati di armi nucleari. Mentre gli stati dotati di armi nucleari si
impegnano a non trasferire armi nucleari o il controllo di tali armi e a non assistere gli stati non dotati di
armi nucleari nella fabbricazione di tali armi, questi ultimi si impegnano a non ricevere armi nucleari o il
controllo di tali armi e a non chiedere né ricevere assistenza per la loro fabbricazione. Gli stati non dotati di
armi nucleari si impegnano anche a concludere accordi con L’agenzia internazionale dell’energia atomica
IAEA per la verifica sull’adempimento degli obblighi assunti. Il consiglio di sicurezza nel 2009 ha sottolineato
in termini generali che qualsiasi situazione di non conformità con gli obblighi in materia di non
proliferazione nucleare debba essere portata alla sua attenzione, perché esso determini se tale situazione
costituisce una minaccia alla pace.

Autodeterminazione dei popoli

La CdNU enuncia tra i fini dell’organizzazione anche il principio di autodeterminazione dei popoli,
affermando che gli stessi hanno diritto a determinare liberamente la propria condizione politica (risoluzione
1514/1960). Il principio di autodeterminazione self determination è fondamento delle condizioni di stabilità
e di benessere che sono necessarie per lo stabilimento di relazioni pacifiche e amichevoli tra le nazioni.

Tuttavia, il concetto di autodeterminazione che sembrerebbe presupporre il diritto di un popolo di decidere


liberamente sul proprio assetto politico, è degradato nel diverso concetto di autogoverno self government
che comporta soltanto il diritto degli individui del territorio a partecipare agli organi di governo locale.
L’assemblea generale si orientò verso un’interpretazione estensiva del principio di autodeterminazione dei
popoli. Nel 1960 con la risoluzione sulla concessione dell’indipendenza ai popoli e paesi colonizzati, essa
dichiarò che l’assoggettamento dei popoli ad un dominio straniero è contrario a fondamentali diritti umani
e alla carta, che i popoli hanno diritto di determinare liberamente la loro condizione politica, che situazioni
di inadeguatezza politica, economica, sociale o educativa non devono servire come pretesto per ritardare
l’indipendenza e che ogni azione armata o misura repressiva contro i popoli sottoposti a dipendenza
doveva cessare. Un territorio raggiunge una piena condizione di autogoverno tramite la sua costituzione in
stato sovrano indipendente o la libera associazione con uno stato indipendente o l’integrazione con uno
stato indipendente. Nel 1974 l’assemblea dichiarò che non costituisce aggressione la lotta che conducono i
popoli sottoposti a dominio coloniale e razzista o ad altre forme di dominio straniero per l’esercizio del loro
diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli è
ribadito da diversi trattati multilaterali, a partire dal patto sui diritti civili e politici (NY 1966) e dal patto sui
diritti economici, sociali e culturali (NY 1966) che contengono una disposizione comune secondo la quale
tutti i popoli sono titolari di tale diritto e gli stati parte devono promuovere la sua attuazione. Va osservato
però che il concetto di popolo che richiama in generale una comunanza di cultura, lingua, religione,
tradizioni e altri fattori in una collettività di individui risulta di difficile e controverso accertamento in molti
casi concreti. Di conseguenza con una sentenza del 2011 la CIG ha affermato che soltanto i popoli che si
trovino in una situazione di dominio coloniali, siano sottoposti ad assoggettamento, dominio o
sfruttamento straniero possano essere titolari al diritto all’autodeterminazione che essi possono far valere
nei confronti dello stato responsabile di tale dominio. Negli altri casi si applica il principio del rispetto
dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica dello Stato.
(In pratica era necessario stabilire un confine a quando vi è o meno diritto all’autodeterminazione.)

I diritti umani

A partire dalla seconda metà del secolo XX, norme sulla tutela dei diritti umani sono entrate a far parte del
diritto internazionale. La nozione di diritti umani si fonda sul presupposto che l’individuo non deve essere
considerato un mezzo per la realizzazione di superiori finalità dello stato. La tutela dell’individuo costituisce
in sé un obiettivo cui l’azione dello stato si deve ispirare. Ne consegue che esistono alcuni diritti
fondamentali dell’individuo che lo stato non può sopprimere o calpestare, ma che è tenuto a riconoscere e
a rispettare. L’esigenza di proteggere i diritti umani fondamentali si è anzitutto manifestata a livello
nazionale (XIX). Più tardiva è risultata l’affermazione dei diritti umani nell’ambito dell’ordinamento
internazionale. Si riteneva inizialmente che uno stato potesse reclamare presso un altro stato soltanto se
quest’ultimo avesse maltrattato i cittadini del primo stato, se, cioè, fossero state violate le norme di diritto
internazionale relative al trattamento che ogni stato deve accordare agli stranieri (cdd protezione
diplomatica). Ma non si riteneva che norme di diritto internazionale potessero vincolare uno stato circa il
trattamento che esso riservava ai propri cittadini.
Entro certi limiti anche i singoli individui sono soggetti di diritto internazionale. Sono attribuiti loro
(mediante trattati) diritti internazionali che vanno a porre limiti alla condotta dei vari Stati nel trattamento
delle persone (e proprio in quanto pongono limiti all’attività dello Stato possono essere mal visti dagli
stessi): si parla di diritti umani internazionali.

I diritti umani tuttavia si affermano prima di tutto all’interno dei diritti interni e non nell’ambito
internazionale: gli Stati autolimitano il proprio potere al fine di tutelare i propri cittadini (tutto questo
avviene nell’ambito della nascita dello Stato liberale e del costituzionalismo liberal-ottocentesco). La
nozione di diritti umani si basa sul presupposto che l’individuo e la tutela dei propri diritti non siano mezzo
ma fine dello Stato. L’esigenza di diritti umani si manifesta innanzitutto nell’ambito degli ordinamenti
nazionali: fioriscono, a partire dall’800, norme che tutelano gli individui dai poteri pubblici.
I trattati di pace conclusi dopo la prima guerra mondiale stabilirono norme di diritto internazionale relative
al modo in cui uno stato trattava i propri cittadini, seppur limitatamente al caso in cui questi ultimi
costituissero una minoranza, distinta per determinate peculiarità dalla maggioranza degli altri cittadini.

A partire dal secondo dopoguerra, si afferma l’esigenza di prevedere norme che tutelino i diritti umani
anche nell’ambito dell’ordinamento internazionale: l’individuo richiede di essere tutelato in quanto tale,
indipendentemente dalla sua cittadinanza. Queste norme sono poste in essere proprio dagli enti (gli Stati)
contro cui sono dirette. L’art 55 della Carta stabilisce che il rispetto dei diritti umani e delle libertà di tutti gli
individui è strumento necessario per il conseguimento di rapporti pacifici e amichevoli tra nazioni (si
afferma che in caso di violazione di diritti umani si creano situazioni che mettono in discussione pace e
sicurezza internazionale). Nella società delle nazioni erano già state previste forme di tutela per le
minoranze (ad esempio per le minoranze tedesche in Polonia). Oggi sussiste per molti dei diritti umani una
doppia tutela, che si esplica sia sul piano dei vari diritti interni, sia sul piano del diritto internazionale e che
si traduce in una più ampia possibilità di protezione degli individui.

La Carta delle Nazioni è il primo vero e proprio strumento per l’espansione e la formalizzazione dei diritti
umani in ambito internazionale. La dichiarazione universale dei diritti umani, formulata nel 1948, è un
significativo passo avanti in cui si trova un significativo elenco di diritti umani (pur non essendo un atto
giuridico) anche se mancano gli strumenti per fare valere tali diritti, appunto perché questo documento non
ha valore prettamente giuridico. Anche l’elenco se vogliamo non è del tutto esauriente.
L’esistenza di molti trattati in materia di diritti umani non basta ad assicurare che i diritti umani siano
pienamente rispettati. Esistono vari modi in cui gli stati possono indirettamente ostacolare l’applicazione
dei diritti umani: non ratificare i trattati relativi, oppure ratificarli ma con l’apposizione di riserve che ne
svuotano il contenuto etc. in materia di trattati sui diritti umani, un’importanza decisiva assumono non
soltanto i cataloghi dei diritti da essi tutelati, ma soprattutto gli strumenti procedurali che i trattati
forniscono all’individuo per ricorrere contro uno stato presunto responsabile di violazioni. Tale strumenti,
che comportano l’istituzione di organi giudiziari, non possono derivare da norme di diritto consuetudinario,
ma richiedono di essere previsti da appositi trattati, che valgono soltanto per gli stati parti. Tali strumenti
risultano efficaci se essi possono venire attivati non solo dagli stati parti, ma anche dallo stesso individuo
che si ritiene leso. Gli Stati, nella stipula di un trattato, possono diventare parte ad un trattato ma con
alcune restrizioni, che appunto restringono la sua partecipazione al trattato (ad esempio non accettando gli
obblighi di un determinato articolo, sia interpretato in una determinata materia o se che un trattato o una
sua parte in una parte del territorio dello Stato parte). Le riserve sono ammissibili se è esclusa disposizione
essenziale di un trattato (senza di cui non ha senso che lo Stato non sia parte di quel trattato), secondo
quanto affermato dal trattato di Vienna sul diritto dei trattati. Bisogna andare a vedere se e quali riserve
sono poste, non basta che si sia parte di un determinato Trattato (Italia ha fatto riserva).
La maggior parte dei diritti umani segue il seguente schema: diritto riconosciuto seguito da eccezioni (casi
eccezionali in cui lo Stato può limitare tali diritti). Nella CEDU ad esempio sono riconosciuti 3 diritti che non
sono suscettibili di alcuna limitazione:

1. Diritto a non essere sottoposto a tortura e a trattamenti disumani degradanti. Se così non fosse si
rischierebbe di cadere in un abisso di inumanità (si andrebbero a torturare persone magari solo
potenzialmente coinvolte e sempre più ad ampio raggio)
2. Divieto di schiavitù
3. Irretroattività della legge penale

Vi sono altre numerose convenzioni, quali strumenti di diritto in cui sono esplicati e regolamentati diritti
umani: Convenzione interamericana, Convenzione contro le discriminazioni della donna, Convenzione sui
diritti del bambino, Convenzione sui diritti del disabile (alcune hanno ad oggetto categorie che sono
naturalmente più esposte ad essere soggetti a soprusi sono tutelati con apposte convenzioni). Sul piano
mondiale ci sono due patti conclusi dall’ONU, uno sui diritti economici e sociali (obblighi di fare) e uno sui
diritti politici e civili (obblighi di non fare). Inoltre gli obblighi in capo agli Stati in materia di diritti umani
sono di natura sia formale/liberale (astenersi dal porre in essere determinati comportamenti) sia di natura
sostanziale/sociale (mettere in atto determinate misure: es. garantire adeguata istruzione).

Ovviamente i meccanismi sono efficaci solo se possono essere attivati non solo dagli Stati ma anche (e
soprattutto) dai singoli individui, dato che spesso la violazione è spesso commessa proprio dai primi. Nella
tutela internazionale dei diritti umani a livello mondiale manca tuttavia un organo giurisdizionale;
nell’ambito del patto sui diritti civili e politici esiste il Comitato dei Diritti Umani composto di membri
operanti a titolo individuale. Il comitato ha potere a condizione che vi sia una previa dichiarazione di
accettazione, di esaminare le comunicazioni con le quali uno stato sostenga che un altro stato non adempia
gli obblighi derivanti dal patto. A conclusione dell’esame, il comitato redige delle constatazioni. Non si può
attribuire a queste constatazioni carattere vincolante: c’è comunque un doppio livello di protezione (sul
piano interno e su quello internazionale) pur non essendoci un doppio livello di giurisdizione.
A differenza del sistema dei patti delle nazioni unite, il sistema regionale creato nell’ambito del consiglio
d’Europa con la convenzione europea dei diritti umani prevede il funzionamento di un organo giudiziario:
La corte europea dei diritti umani. Un individuo può così mettere in moto un procedimento che si conclude
con una sentenza motivata da parte di un organo giudiziario internazionale. La sentenza accerta se uno
stato parte si è comportato in modo contrario agli obblighi che derivano dalla convenzione e, in caso
affermativo, accorda un’equa soddisfazione all’individuo leso, qualora il diritto interno dello stato
responsabile non permetta di eliminare le conseguenze della violazione. Nel procedimento di fronte alla
corte, l’individuo ricorrente e lo stato cui è addebitata una violazione sono posti su di un piano di totale
parità.

Il concetto del doppio livello di protezione dei diritti umani, ossia di una tutela che si esplichi sia sul piano
dei vari diritti interni che sul piano del diritto internazionale, assume un pieno significato soltanto in
presenza di adeguati strumenti procedurali. Non si tratta soltanto della possibilità che un trattato preveda
diritti umani non ancora tutelati dal diritto interno. È utile nei casi in cui lo stesso diritto umano sia tutelato
sia da un trattato che dal diritto interno, che sia data a un giudice internazionale la possibilità di
interpretare le norme in un modo più effettivo di quello, troppo formalistico o comunque inadeguato che le
autorità nazionali potrebbero prediligere.
Il caso ARTICO contro Italia, il primo che ha visto l’italia coinvolta di fronte alla corte europea dei diritti
umani, deciso con sentenza del 1980 è molto significativo. La convenzione europea dei diritti umani
prevede che ogni accusato abbia il diritto di essere assistito gratuitamente da un avvocato, se non ha i
mezzi per remunerare un difensore. Il diritto al gratuito patrocinio è anche previsto da norme del diritto
interno italiano, ivi compresa una disposizione della costituzione. Ciononostante, l’imputato Artico, dopo
essere stato ammesso al beneficio del gratuito patrocinio, fu definitivamente condannato dalla corte di
cassazione italiana, senza aver potuto avvalersi di alcuna difesa tecnica effettiva: l’avvocato designato
aveva espresso per iscritto ad Artico la sua volontà di essere lasciato in pace e i magistrati italiani non
avevano dato corso alle reiterate richieste di artico di designare un altro difensore poiché la legge italiana
allora vigente non autorizzava l’avvocato a rifiutare l’incarico senza giustificato motivo. La corte Europea
superando alcune difese del governo italiano (es. una difesa non avrebbe cambiato il risultato finale),
accertò che l’italia aveva violato la convenzione e la condannò a versare al ricorrente un indennizzo per
pregiudizio morale. Gli organi giudiziari italiani erano infatti convinti che la difesa dei non abbienti si
esaurisse in un formalismo, ossia nella mera designazione di un difensore e non richiedesse di essere svolta
in modo effettivo.

Accertamento violenza: previsto doppio livello di meccanismo giudiziario. Gli Stati che non vogliono
rispettare i diritti umani fanno in modo di indebolire suddetti organi giudiziari, cercando in sede di
negoziato di far sì che i meccanismi siano deboli: non un organo giudiziario (che emette sentenze con
effetti obbligatori) ma un organo quasi giudiziario (ad esempio il Comitato per i diritti umani, organo
imparziale ma che non può emettere sentenze ma solo “Considerazioni”, esprime opinioni sul fatto se un
diritto umano è stato violato o meno). Doppio livello, sia sul piano interno che su quello internazionale.

Si può ricorrere al secondo livello qualora si siano esperiti tutti i ricorsi esperibili nel diritto interno (evitare
che il meccanismo internazionale sia invaso da migliaia di ricorsi).

Un caso molto particolare e rilevante è quello della Corte EDU, che emana sentenze VINCOLANTI per gli
Stati parte della CEDU. Dopo aver esaurito tutti i processi esperibili in ambito interno, si può ricorrere (dopo
6 mesi dall’emanazione della sentenza interna) alla Corte EDU, che valuterà non sulla base del diritto
interno ma della CEDU. Se non ci sono vie di ricorso interne ovviamente si può ricorrere direttamente sul
piano internazionale.

Crimini internazionali

La responsabilità penale internazionale dell’individuo. Alcune norme di diritto internazionale, stabiliscono,


oltre a diritti a vantaggio dell’individuo, obblighi gravanti sul piano personale. Di conseguenza esistono
condotte di particolare gravità (i crimini internazionali) che fanno in modo che chi le ha commesse sia
assoggettato ad un processo di fronte ad un organo internazionale e, se riconosciuto colpevole, sottoposto
a sanzione. Il concetto di crimine internazionale consente di superare gli eventuali ostacoli di diritto o di
fatto posti dai sistemi di diritto interno e di processare e colpire con sanzioni i responsabili di gravi crimini.
Così si fa in modo che coloro che si sono resi colpevoli di crimini internazionali siano puniti
indipendentemente dal fatto che uno Stato non è in grado di reprimere tali crimini, abbia tollerato o
addirittura incoraggiato questi comportamenti. È così stabilito un doppio livello di repressione degli illeciti,
poiché all’eventuale responsabilità penale secondo un diritto interno, che ci può essere o non essere, si
aggiunge la responsabilità derivante dal diritto internazionale.
Nel caso dei crimini internazionali dell’individuo, la responsabilità personale di colui che li ha compiuti si
affianca alla responsabilità dello stato per conto del quale egli abbia agito. Una stessa condotta può
determinare sia un crimine internazionale dell’individuo, sia un illecito internazionale di uno stato nei
confronti di un altro (es. Serbia aveva violato l’obbligo di impedire genocidio + condanna generale serbo
bosniaco).
Un antecedente della nozione di crimine internazionale dell’individuo è l’art 227 del trattato di pace con la
germania (Versailles 1919). Nel corso del processo, mai celebrato, contro l’allora imperatore di Germania
Guglielmo II emergono, seppur in termini confusi, le nozioni di crimine di guerra e crimine contro la pace (si
afferma che l’imperatore debba essere processato per “suprema offesa della moralità internazionale e
della santità dei trattati”. Il processo non potè essere celebrato poiché i paesi bassi dove l’ex imperatore si
era rifugiato si rifiutarono di concedere la sua estradizione (il trattato di Versailles non poteva creare
obblighi per uno stato terzo al trattato e rimasto neutrale durante la guerra).
Processo di Norimberga

Con l’Accordo di Londra del 1945 concluso dalle potenze vincitrici (francia, uk, us e unione sovietica) è
costituito il Tribunale di Norimberga per il giudizio e la punizione dei principali agenti di Stato tedeschi e
membri del partito nazista, nei casi in cui i reati erano di così ampia scala da non poter avere una
collocazione geografica determinata.

Con questo trattato (l’Accordo) si stabilisce il principio fondamentale secondo cui la violazione di
determinati obblighi internazionali non comporti una violazione solo per uno Stato ma anche e soprattutto
per i singoli individui che avevano violato le norme di diritto internazionale. Il tribunale di norimberga
dichiarò di operare sulla base del diritto internazionale.
In realtà, l’affermazione del tribunale appare esatta solo parzialmente: il processo di norimberga non è un
contributo al diritto internazionale, ma segna un cambiamento radicale nella concezione del diritto
internazionale, sollevando il velo che tradizionalmente nascondeva gli individui che agivano in nome dello
stato. Il tribunale pose in evidenza che i crimini contro il diritto internazionale sono commessi da uomini e
non da entità astratte (come lo stato), e che le norme di diritto internazionale possono venire applicate
soltanto sanzionando gli individui che commettono tali crimini, dato che gli individui hanno obblighi
internazionali che trascendono gli obblighi di obbedienza loro imposti da un singolo stato.

Con la Carta del Tribunale di Norimberga è conferito allo stesso tribunale il potere di giudicare e punire
individui che avessero compiuti atti rientranti in 3 categorie:

1. Crimini contro di guerra: violazioni delle leggi o delle consuetudini di guerra (nella Carta seguono
poi esempli concreti di carattere solamente esemplificativo e non esaustivo), già regolamentati dai
diritti interni dei vari Stati e da alcuni trattati. I crimini di guerra sono solitamente commessi dai
militari
2. Crimini contro la pace: pianificazione, preparazione, l’inizio o l’attuazione di un’aggressione/guerra
in violazione di trattati o obblighi internazionali. I crimini contro la pace sono solitamente commessi
da uomini politici. Crimine contro la pace per eccellenza è la guerra di aggressione che contiene in
sé tutti gli altri crimini di guerra.
3. Crimini contro l’umanità: la fattispecie del crimine contro l’umanità costituisce la principale
innovazione introdotta dalla Carta. Più che enunciare la fattispecie astratta di crimine contro
l’umanità, la Carta del Tribunale di Norimberga si limita a fornirne alcuni esempi: in particolare
sono ritenuti tali uccisione, sterminio e altri atti disumani commessi contro la popolazione civile sia
prima che durante la guerra, la persecuzione etc. è implicito che la condotta criminosa lede un
individuo non in ragione di quanto egli abbia fatto, ma per la sola circostanza che egli appartenga
ad un determinato gruppo politico, razziale religioso…Dalla definizione non emerge però il
carattere essenziale del crimine contro l’umanità: si è in presenza di crimini contro l’umanità non
perché un dato comportamento leda TUTTI gli uomini, ma perché radicalmente incompatibile con
la condotta che OGNI essere umano deve tenere nei confronti dei propri simili. In quest’ottica la
nozione di crimine contro l’umanità è suscettibile di continui ampliamenti, a seconda dei progressi
nella depravazione umana. La carta del tribunale non menziona espressamente il genocidio tra i
crimini contro l’umanità, pur rientrando implicitamente nelle nozioni di sterminio, deportazione e
persecuzione. La spiegazione potrebbe essere dovuta al fatto che la parola genocidio era stata
creata soltanto nel 1944. Pochi anni dopo la sentenza del tribunale, fu aperta alla firma la
convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948) con la quale le
parti confermano che il genocidio che sia commesso in tempo di pace o di guerra è un crimine di
diritto internazionale e che esse si impegnano a prevenire e punire. Il genocidio è così definito con
riferimento a quegli atti che sono diretti a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso e che si sostanziano non solo nell’uccisione di membri del gruppo e in
comportamenti equivalenti, ma anche nell’imposizione di misure di prevenzione delle nascite o nel
trasferimento forzato di bambini da un gruppo all’altro.

Agli imputati la carta del tribunale di norimberga riconosceva il diritto di essere giudicati con equo
processo. La condizione ufficiale degli imputati, fossero essi capi di stato o altri funzionari non costituiva né
una causa di assoluzione, né un’attenuante della pena. Il fatto che gli imputati avessero agito sulla base di
un ordine del loro governo o di un loro superiore non li esonerava dalla responsabilità, ma poteva essere
considerato come un’attenuante della pena. Il tribunale con sentenza motivata e definitiva poteva
infliggere ai responsabili la morte o ogni altra pena che esso stabilisse giusta.

Nel corso del processo furono ampiamente discussi due temi particolarmente rilevanti: irretroattività del
diritto penale e giustizia dei vincitori.

• Irretroattività del diritto penale: la difesa sostenne che non vi erano norme di diritto internazionale
al momento dei fatti che prevedessero specificatamente né i crimini né le sanzioni previste nel
corso del processo (specialmente con riferimento ai crimini contro la pace): nullum crimen sine
lege, nulla poena sine lege. Con riguardo ai crimini contro la pace (gli altri erano in qualche misura
previsti da convenzioni e trattati o codici nazionali) si afferma che gli imputati dovevano
necessariamente conoscere il carattere illecito dei propri comportamenti con riferimento ai principi
generali di giustizia. Secondo il tribunale, il principio d’irretroattività del diritto penale non poteva
costituire un limite alla sovranità degli stati ed era evidentemente errato asserire che fosse ingiusto
punire colore che in violazione di trattati e impegni aveva deciso di attaccare gli stati vicini senza
avvertimento, perché in tali circostanze essi non potevano ignorare che stavano compiendo un atto
illecito.
• Giustizia dei vincitori (che vale soprattutto per i crimini di guerra): non vi è alcun motivo per
ricercare i criminali di guerra soltanto tra colore che hanno combattuto per gli stati vinti, né per
ritenere che la vittoria costituisca un’automatica assoluzione per ogni crimine commesso. Si può
affermare in modo insoddisfacente che è meglio sottoporre a giudizio alcuni criminali di guerra,
piuttosto che non giudicarne nessuno (non soddisfa senso giustizia).

Il processo di Tokyo

Il tribunale militare internazionale per l’estremo oriente, fu istituito nel 1946 con un proclama del
comandante supremo delle potenze alleate in giappone al fine di processare gli imputati giapponesi di
crimini contro la pace, di guerra e contro l’umanità. Il tribunale era composto di 11 giudici designati da
alcuni paesi. Interessante è l’opinione dissenziente del giudice Pal (INDIA) che conclude per l’assoluzione di
tutti gli imputati. Secondo la critica radicale mossa da pal, la condanna degli imputati dimostrava che il
tribunale di tokyo era stato istituito non tanto per fini giudiziari, ma per realizzare obiettivi di vendetta
politica.

Il processo mancato

Non ricevette attuazione una disposizione sui crimini dell’individuo contenuta nel trattato di pace del 1947
tra l’italia e le potenze alleate ed associate, che prevedeva l’obbligo dell’italia di arrestare e consegnare
perché fossero processati coloro che erano accusati di aver compiuto crimini di guerra, crimini contro la
pace e l’umanità.

I tribunali per l’ex-Iugoslavia e per il Ruanda

Vari anni dopo i processi di norimberga e tokyo, il consiglio di sicurezza delle nazioni unite, posto di fronte
alla necessità di ristabilire la pace e la sicurezza internazionali in situazioni caratterizzate da gravissimi
crimini, prese in due occasioni l’iniziativa di istituire tribunali internazionali speciali tramite apposite
risoluzioni. Nel 1993 istituì il tribunale internazionale per il giudizio delle persone responsabili di gravi
violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio dell’ex-Iugoslavia a partire dal 1991.
Alle categorie dei crimini di guerra del genocidio e quelli contro l’umanità, lo statuto non affianca la
categoria dei crimini contro la pace (difficile stabilire chi avesse provocato la guerra). Lo statuto presenta
grandi innovazioni come l’inclusione dello stupro e la tutela dei diritti dell’imputato e del condannato.

Poco dopo, in presenza di un’emergenza umanitaria altrettanto grave, il consiglio di sicurezza istituì il
tribunale penale internazionale per il giudizio delle persone responsabili di genocidio e altre gravi violazioni
commessi nel territorio del Ruanda.

I due tribunali hanno oggi concluso la loro funzione. In base alla risoluzione del 2003, il consiglio di sicurezza
ha elaborato una strategia di completamento, che prevede che i due tribunali portino a termine alcuni casi
e trasferiscano i rimanenti alle competenti giurisdizioni nazionali.

Corte Penale Internazionale

Si rende necessaria la creazione di un organo giurisdizionale precostituito e operante in modo permanente


(non solo di tribunali speciali e occasionali): viene creata la Corte Penale Internazionale (con l’apertura alla
firma a Roma nel 1998 del Trattato recante lo Statuto della Corte Penale Internazionale). Statuto realizzato
nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002, dando seguito ad una volontà di lungo corso di creare una corte
penale permanente (processo non ancora arrivato alla sua destinazione finale). La corte ha sede all’Aja e si
compone di 18 giudici eletti a scrutinio segreto dall’assemblea degli stati parte. Organo indipendente dalla
corte è il Procuratore eletto a scrutinio segreto dall’assemblea degli stati parte a maggioranza assoluta.

Le categorie di crimini internazionale disciplinate dallo SdCPI si pone in continuità con quanto previsto nella
Carta del Tribunale di Norimberga, presentando (ovviamente) l’evoluzione dei crimini internazionali. Sono
enunciate 4 categorie di crimini:

✓ Crimine di genocidio: rispetto alla Carta…, lo SdCPI dà una propria individualità al crimine di
genocidio (che nella Carta rientrava nei crimini contro l’umanità). La definizione di questo crimine
internazionale riprende quella contenuta nella Convenzione sul genocidio del 1948: atti commessi
con l’intento di distruggere, del tutto o in parte, una nazionalità, un’etnia, un gruppo religioso o
razziale
✓ Crimini contro l’umanità: l’elenco di crimini contro l’umanità risulta notevolmente ampliata
rispetto alla Carta del Tribunale di Norimberga. Questa categoria comprende 11 tipi di crimine:
l’uccisione, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e il trasferimento forzato di
popolazioni, l’imprigionamento, la persecuzione, la tortura, lo stupro o altri reati di natura
sessuale, la sparizione forzata di persone, la segregazione razziale e altri atti disumani di carattere
simile che causano intenzionalmente gravi sofferenze. È rafforzata l’idea che siano crimini contro
l’umanità comportamenti tali da offendere la dignità stessa del genere umano e il sentimento di
umanità. Per costituire un crimine contro l’umanità, la condotta specificata deve essere tenuta
nell’ambito di un attacco generalizzato e sistematico diretto contro una popolazione civile e con la
consapevolezza dell’atto.
✓ Crimini di guerra: questa categoria di crimini internazionali è data da gravi violazioni alle 4
Convenzioni di Ginevra del 1949 e alle consuetudini applicabili nei conflitti armati. La corte ha
giurisdizione sui crimini di guerra in particolare quando essi siano stati commessi come parte di un
piano o di una politica o come parte di una commissione su larga scala di tali crimini. Non è chiaro
se un isolato crimine di guerra che non faccia parte di un apposito piano o politica rientri nella
giurisdizione della corte.
✓ Crimini di aggressione (corrisponde al crimine contro la pace previsto dalla Carta). Nella sua
redazione iniziale lo statuto rinviava al momento in cui le parti avessero adottato le norme relative
alla definizione di tale crimine e avessero determinato le condizioni per l’esercizio di giurisdizione
in proposito. Il crimine di aggressione è compiuto da chi pianifica, prepara, inizia o esegue un atto
di aggressione che, per carattere, gravità e scala, costituisca una manifesta violazione della carta
delle nazioni unite, purchè si tratti di una persona che occupi una posizione tale da poter
controllare o dirigere l’azione politica o militare.

Per costituire un crimine internazionale la condotta di un individuo deve essere tenuta nel corso di un
attacco generalizzato e sistematico contro la popolazione civile.

Principi generali del diritto penale applicato dalla corte

Lo statuto della corte enuncia vari principi generali del diritto penale: nullum crimen sine lege; nulla poena
sine lege; responsabilità penale individuale, incompetenza rispetto a imputati aventi meno di 18 anni al
momento della presunta commissione di un crimine.
Lo statuto esclude anche che la qualità ufficiale dell’imputato, fosse anche un capo di stato, governo o un
membro del parlamento, possa esonerarlo dalla responsabilità per crimini compiuti o possa garantirgli
l’immunità dal procedimento. I crimini contro l’umanità sono commessi da individui e non da entità
astratte, e colpiscono purtroppo altri individui.
Specifiche disposizioni dello statuto riguardano due situazioni che spesso si verificano in presenza di crimini
internazionali dell’individuo, ossia la responsabilità dell’inferiore per aver eseguito gli ordini di un superiore
e inversamente la responsabilità del superiore per condotte tenute da un inferiore. Il fatto di aver eseguito
un ordine non solleva l’inferiore da responsabilità, a meno che non concorrano tre specifiche situazioni:
esistenza di un obbligo di eseguire l’ordine; ignoranza del carattere illecito dell’ordine; carattere non
manifestatamente illecito dell’ordine). D’altro canto, il superiore è responsabile per la condotta
dell’inferiore, se ne era o avrebbe dovuto esserne a conoscenza e se non ha preso tutte le misure a sua
disposizione per prevenire o reprimere la condotta criminale.
La corte accerta se l’accusato è innocente o colpevole dei crimini che gli sono attribuiti. Gli individui
colpevoli sono condannati a una pensa detentiva che può arrivare fino a 30 anni di reclusione o
all’ergastolo qualora questo sia giustificato dall’estrema gravità del crimine. La corte può anche comminare
una multa, ordinare la confisca dei proventi del reato e disporre forme di riparazione a favore delle vittime
come la restituzione, il risarcimento e la riabilitazione.
La sentenza è impugnabile di fronte alla camera d’appello della corte su domanda del procuratore o del
condannato per errore di procedura, errore di fatto, errore di diritto o nel caso di appello proposto dal
condannato ogni altro motivo che pregiudichi la giustizia o l’affidabilità della procedura o della decisione. La
sentenza è eseguita in uno stato designato dalla corte in base alla lista degli stati che hanno espresso la loro
disponibilità ad accettare i condannati nelle loro carceri. Solo la corte può decidere sulla riduzione di una
pena.

Un caso può essere sottoposto alla corte penale internazionale in tre diversi modi: da uno stato parte dello
statuto; dal consiglio di sicurezza delle nazioni unite; dal procuratore se autorizzato da una camera
pregiudiziale della corte stessa in merito a casi oggetto di un’indagine avviata di sua iniziativa. Tuttavia
un’indagine non può essere avviata o un’azione non può essere esercitata se il consiglio di sicurezza chiede
alla corte di ritardare di 12 mesi la sua funzione. Questa richiesta può essere rinnovata.

La Corte si compone di 18 giudici eletti dall’Assemblea degli Stati parte. Il procuratore, organo indipendente
e separato dalla Corte, è eletto dall’Assemblea a maggioranza assoluta. La Corte decide sui casi:

I. Riferiti al Procuratore dal Consiglio di sicurezza delle nazioni unite


II. Riferiti al procuratore dagli Stati parte
III. Indagini avviata dal procuratore di propria iniziativa

La Corte può poi esercitare funzione giurisdizionale su crimini verificatisi dopo l’entrata in vigore del proprio
Statuto (irretroattività della giurisdizione della Corte, ratione temporis), su crimini verificatisi in uno Stato
parte (ratione loci) o su crimini commessi da un individuo cittadino di uno Stato parte (ratione personae).
I due presupposti non valgono quando l’iniziativa è del Consiglio di Sicurezza.

La giurisdizione della Corte Penale Internazionale ha carattere complementare rispetto alle giurisdizioni
penali nazionali. La Corte quindi esercita le proprie funzioni nei casi che non siano (stati) già sottoposti agli
organi di uno Stato che abbia volontà (segue le regole del giusto processo) e capacità (idoneità del sistema
giudiziario) ad esercitare la funzione giurisdizionale (es. lo stato non segue le regole del giusto processo, o ci
sia una mancanza o una sostanziale inidoneità del sistema giudiziario di uno stato).
Es. nel 2013 la prima Camera preliminare della corte ha respinto la richiesta della libia di dichiarare
inammissibile il procedimento nei confronti di Gheddafi, in quanto non la si è ritenuta capace ad esercitare
la funzione giurisdizionale.

Lo statuto della corte penale internazionale è stato adottato con 120 voti favorevoli, 7 contrari e 21
astensioni. È entrato in vigore nel 2002 e vincola oggi 123 stati. Finora 26 casi sono stati portati di fronte
alla corte. Molti stati non appaiono tuttora preparati ad accettare il fatto che un organo giudiziario
internazionale possa valutare crimini internazionali dell’individuo.

Gli US che hanno dichiarato di aver votato contro l’adozione dello statuto della corte penale internazionale
criticano il fatto che il procuratore possa di sua iniziativa dare corso all’azione penale anche in assenza di
una richiesta proveniente da uno stato parte o dal consiglio di sicurezza. Gli usa hanno però siglato un
centinaio di accordi bilaterali con cui si stabilisce di non processare d’innanzi alla corte penale
internazionale i propri cittadini (ciò è possibile in forza di una clausola che fa salvi gli accordi bilaterali presi
per non processare davanti alla corte cittadini di un dato Stato non parte al trattato. Accordi in forza dei
quali uno stato parte s’impegna a non consegnare alla corte i cittadini dell’altro stato parte senza il
consenso di quest’ultimo. Nel 2002 hanno adottato una legge American Servicemembers Protection Act
che vieta varie forme di cooperazione tra le autorità americane e la corte penale internazionale.
Caso Al-Bashir, capo di Stato di un certo paese, non si dà esecuzione ad un mandato di cattura
internazionale, in questi casi la Corte può attivare il CdS per dare seguito a questo obbligo (anche se lo
stesso non sempre collabora, anche perché tre membri permanenti non hanno ratificato il trattato).

Lo Statuto della Corte esclude la qualità dell’imputato: è processabile anche se per la sua carica ufficiale
non è processabile nel suo paese (ad esempio perché parlamentare e coperto da immunità). Questo perché
altrimenti verrebbe vanificata l’idea stessa di responsabilità internazionale dell’individuo (vedi crimini
internazionali). È stata tuttavia rilevata da parte del tribunale penale federale svizzero: l’impossibilità di far
valere l’immunità dovrebbe essere prevista anche a livello di tribunali nazionali (altrimenti sarebbe assolto
dal tribunale nazionale e non processabile da quello internazionale per il principio di complementarità
sopra enunciato).

Hanno atteggiamento negativo verso la Corte Penale Internazionale 3 membri permanenti del Consiglio
(Usa, Cina e Russia) e altri importanti paesi (tipo Israele, Pakistan…) che non sono parte dello Statuto. Gli
USA si sono dichiarati contrari all’iniziativa d’ufficio del Procuratore e alla ratione loci (in quanto, anche se
non parte, potrebbero essere processati dalla Corte invece che dalle corti militari americane).

Negli ultimi tempi critiche alla corte sono venute anche dagli stati dell’africa per il fatto che la maggior
parte degli imputati o indagati sono cittadini di stati africani. Il Burundi ha cessato di essere parto dello
statuto a partire dal 2017. La notifica di recesso richiede un preavviso di un anno per essere efficace. Anche
le filippine hanno notificato il loro recesso.

Lo statuto della corte prevede che qualora uno stato parte non cooperi con la corte in violazione dello
statuto e così le impedisca di esercitare le sue funzioni, la corte possa prenderne atto e sottoporre il caso
all’assemblea degli stati parte o al consiglio di sicurezza.
I tribunali misti

Ci sono poi tribunali misti (incaricati dello svolgimento di processi per gravi crimini verificatisi in situazioni di
crisi interna), perché in parte composti da giudici nazionali in parte da giudici stranieri (basati sul
presupposto che non ci sia piena fiducia nelle corti nazionali), creati per singoli casi speciali.
Esempio il caso del Sierra Leone per giudicare su gravi violazioni del diritto umanitario internazionale a
partire dal 1996 commessi in sierra leone.
Tribunale internazionale per il Libano avente sede nei Paesi Bassi per giudicare i presunti responsabili di un
attentato avvenuto nel 2005 che ha causato la morte di alcune importanti cariche politiche.
Da ultimo con una modifica della Costituzione del Kosovo è stata istituito un tribunale con sede all’Aja per
giudicare i crimini di guerra e contro l'umanità verificatisi dal 1998 al 2000.

Crimini internazionali dell’individuo e diritti interni

Si pongono alcuni problemi nell’idea della doppia giurisdizione:


a) immunità: uno ad esempio è l’immunità di cui possano godere certi soggetti; per la CPI è prevista
un’assenza di immunità per le cariche ricoperte a livello interno, tuttavia la questione è differente in un
tribunale misto in cui parte dei giudici sono interni: in questo caso l’imputato può godere di immunità? Ad
esempio se il processo si svolge di fronte a giudici di uno stato terzo si presume di sì.

Comunque, pur nel particolarismo, si tende a riconoscere soprattutto in alcune sentenze che l’immunità
non vale a causa della gravità del crimine.
Nella controversia tra Congo e Belgio la corte dà interpretazione ampia sull’ immunità dei tribunali misti,
andando contro la prassi che si era creata: il Belgio non può procedere penalmente. Tullio dice che c’è
concordanza tra piano sostanziale e processuale andando contro quanto espresso dalla Corte.

b) la giurisdizione nazionale universale: in attesa della piena attuazione dell’obiettivo di una giurisdizione
penale internazionale, affidata alla corte penale internazionale, in alcuni ordinamenti nazionali ha trovato
spazio l’idea di una giurisdizione nazionale universale nei confronti di coloro che sono accusati di crimini
internazionali dell’individuo. Questa giurisdizione è universale perché riguarda crimini di diritto
internazionali ovunque siano essi stati commessi. Ma essa è nello stesso tempo nazionale perché i processi
sono svolti di fronte ai giudici di uno stato. Si intende in questo modo evitare che crimini molto gravi
rimangano impuniti per il solo fatto che lo stato che avrebbe giurisdizione manchi della volontà o della
capacità di svolgere i relativi processi e non possa essere svolto un processo di fronte alla corte penale
internazionale per la presenza di una situazione che esclude la sua giurisdizione. Non sarebbe pertanto
necessario al fine di stabilire la giurisdizione del giudice di uno stato, che sussista tra il crimine e lo stato
dove si svolge il processo uno specifico collegamento, quale il luogo di commissione del crimine, la
nazionalità dell’imputato o quello della vittima. Qualsiasi giudice nazionale potrebbe farsi carico di
celebrare il relativo processo.
Atti di depredazione compiuti da una nave privata: pirateria. Il pirata che opera in alto mare può essere
catturato e processato da qualsiasi stato. Se fosse compiute da nave pubblica sarebbe illecito
internazionale o addirittura atto di guerra. L’illecito per essere qualificato come internazionale deve sorgere
in acque internazionali (oltre 12 miglia dalla costa), devono esservi due navi (il pirata non può essere sulla
stessa nave) e il pirata deve agire per fini personali (non politici). In questi casi qualunque Stato interessato
può agire in senso processuale.
Per quanto riguarda i crimini contro l’umanità, già nella sentenza del 1961 sul caso Eichmann la corte
distrettuale di israele mise in evidenza il carattere universale della giurisdizione riguardo a condotte che
colpiscono l’umanità nel suo insieme e urtano la coscienza di tutte le nazioni.
Per quanto apprezzabili nei loro obiettivi siano le manifestazioni della giurisdizione nazionale universale,
sembra che la prevalente pratica degli stati, anche per evidenti ragioni concrete che renderebbero difficile
la celebrazione di processi, sia tuttora ancorata all’esigenza che debba sussistere uno specifico
collegamento tra il crimine e lo stato dove il processo è svolto. Tale collegamento è normalmente dato da
uno dei tre abituali collegamenti penalistici del luogo di compimento del crimine (TERRITORIALITA’) o della
nazionalità della persona cui esso è attribuito (PERSONALITA’ ATTIVA) o della nazionalità della vittima
(PERSONALITA’ PASSIVA).

Alcuni trattati prevedono anche l’obbligo di estradare o giudicare aut dedere aut iudicare (o dare o
giudicare). Se si trova sul mio territorio un individuo imputato di vari crimini nei confronti di un altro Stato
parte, o lo estrado o lo giudico per i crimini di genocidio, detenzione forzata o tortura.

Per quanto riguarda i crimini di guerra nelle convenzioni di Ginevra è contenuta una disposizione che
prevede l’obbligo delle parti di ricercare coloro che siano imputati di una grave violazione alle convenzioni
stesse, al fine di sottoporli a processo o di estradarli in uno stato avente giurisdizione, ovunque la violazione
sia stata compiuta.

Lo sviluppo economico e sociale

Tra i fini delle nazioni unite la carta enuncia anche la cooperazione internazionale diretta alla soluzione dei
problemi di carattere economico, sociale, culturale o umanitario.
La necessità di sviluppo economico e sociale degli stati, specialmente di quelli in via di sviluppo, si pone
nella seconda metà del XX secolo. I paesi in via di sviluppo rivendicavano l’esistenza di un diritto allo
sviluppo e richiedevano un sistema di diritto (internazionale) che si muovesse nella direzione di garantire
tale diritto (partendo dal presupposto che un sistema di diritto non sia neutrale ma tende al perseguimento
di obbiettivi specifici): richiedevano che fossero promosse norme palesemente diseguali (dirette a
compensare mediante opportune misure la situazione dei paesi meno progrediti, diseguaglianza
compensatrice) che permettessero lo sviluppo di tutti gli stati.

In quest’ottica il concetto di sovranità statale acquisisce un connotato non solo politico ma anche
economico vista non soltanto come il diritto a esercitare in modo esclusivo l’autorità su un determinato
territorio ma soprattutto come una sovranità permanente sulle risorse naturali ivi contenute: al diritto di
uno Stato a che gli agenti di un altro non penetrino nel proprio territorio cui si aggiunge il diritto di uno
Stato a decidere come vadano gestite le proprie risorse. Esempio: critica alla norma che subordina il diritto
dello Stato di nazionalizzare i beni e le attività di imprese straniere al pagamento di un indennizzo pronto e
adeguato. Una simile norma sembra corrispondere a esigenze di giustizia, in quanto essa condiziona
l’appropriazione di diritti patrimoniali spettanti a soggetti stranieri al pieno indennizzo del valore di tali
diritti. Tuttavia, la norma rischia di tradursi in un circolo vizioso, se applicata nei rapporti fra gli stati
sviluppati e gli stati in via di sviluppo, che mirano ad acquisire il controllo della gestione delle loro risorse
naturali, a che non hanno le disponibilità finanziarie per versare l’indennizzo richiesto: da un lato questi
stati sono poveri perché non possono nazionalizzare; dall’altro, essi non possono porre nuovi criteri, in base
ai quali l’indennizzo derivante da nazionalizzazioni sarebbe stato misurato secondo parametri diversi da
quelli che portano a un indennizzo pronto, adeguato ed effettivo.

Queste concezioni trovano accoglimento in specifici atti di diritto internazionale (es. Carta dei diritti e dei
doveri economici degli Stati) senza che però si proceda sistematicamente nella direzione auspicata dagli
Stati in via di sviluppo. Si rende difficile procedere nella direzione di norme palesemente diseguali per
favorire lo sviluppo degli Stati che lo sono meno, anche perché in contrasto con le politiche economiche
liberiste che si vanno sviluppando (nel cui senso va invece l’istituzione del WTO organizzazione mondiale
del commercio). In più, resta il fatto che il gruppo dei paesi sviluppati si è costantemente dichiarato
contrario ad attribuire un carattere vincolante ai principi in esse enunciati.
Società multinazionali

Si definiscono società multinazionali gruppi economici operanti in più Stati e caratterizzati da più società
costituite secondo i singoli diritti nazionali, ma con un unico centro decisionale costituito dalla società
capogruppo che controlla tutte le altre attraverso il possesso delle relative azioni. Dove investono le società
multinazionali? Dove il costo del lavoro è più basso e dove le norme su tutela di ambiente e lavoratori sono
più limitate. Le merci così prodotte sono oi esportate in altri stati per la vendita su di un mercato che
spesso è di livello mondiale.

Si creano corse concorrenziali al ribasso (riguardo ai requisiti appena enunciati) tra gli Stati per attrarre gli
investimenti delle multinazionali. Ad oggi a nulla di concreto hanno portato il tentativo di regolamentare le
attività delle multinazionali ponendo a loro carico determinati obblighi, in particolare l’obbligo di non
esportare un rischio quando esse operano in paesi in via di sviluppo. Le linee guida adottare nel 2000
dall’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici e aggiornate nel 2011 costituiscono una
serie di raccomandazioni che gli stati membri di questa organizzazione rivolgono alle imprese multinazionali
e che dovrebbero essere applicate anche quando queste imprese operano in altri stati.

La protezione dell’ambiente

Norme di diritto internazionale sulla protezione dell’ambiente. Sviluppo più recente del diritto
internazionale. Tale obiettivo oggi può ritenersi compreso nell’obiettivo generale della cooperazione
internazionale al fine della soluzione dei problemi di carattere economico, sociale, culturale o umanitario.

A) Inquinamento transfrontaliero: fonte inquinante parte da uno stato e finisce per inquinare il territorio di
un altro Stato. Secondo una norma di diritto internazionale generale uno stato è obbligato a non causare o
consentire che siano da privati causati fenomeni di inquinamento che attraversano una frontiera perché
derivanti da attività condotte nel territorio di un altro stato. Il tribunale intende questo divieto come un
principio comune sia al diritto internazionale, sia ai diritti interni. Secondo il tribunale uno stato è obbligato
a non usare il proprio territorio e a non permettere che altri ne usi in modo tale da causare un danno grave
sul territorio di un altro stato. L’ambiente non è un’astrazione ma rappresenta lo spazio vitale, la qualità
della vita e la stessa salute degli esseri umani, incluse le generazioni future. Alle attività che si svolgono sul
territorio di uno stato sono equiparate le attività che hanno luogo a partire da mezzi mobili sottoposti alla
sua giurisdizione o controllo. La norma opera anche a tutela degli spazi che non sono sottoposti alla
sovranità di alcuno stato come l’alto mare, lo spazio extra atmosferico e l’Antartide.

B) La prevenzione e mitigazione di rischi globali: negli ultimi tempi si è manifestato un altro, e più ampio
modo di intendere la protezione dell’ambiente inteso come l’insieme di quegli elementi naturali che
consentono il mantenimento della vita sulla terra. Si comincia ad avere coscienza di questi problemi poco
prima della conferenza su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992. I rischi globali derivano da fonti
situate indistintamente nel territorio di tutti gli stati e minacciano di ledere tutti gli stati. Non è possibile in
questi casi determinare quale stato sia il responsabile e quale la vittima, perché tutti gli stati concorrono a
provocare l’evento e tutti ne sono lesi.

C) L’obbligo di cooperazione: l’obbligo degli stati di cooperare in materia di protezione dell’ambiente si


esplica sul piano mondiale, regionale, bilaterale, direttamente o tramite le organizzazioni competenti. Tale
obbligo si configura come un tipico dovere di comportarsi in buona fede, non essendo possibile
predeterminare i comportamenti richiesti nei singoli casi. È anzitutto richiesto allo stato di informare gli
altri stati sulle attività sotto il suo controllo suscettibili di creare un inquinamento e il relativo rischio. È poi
doveroso che lo stato stesso sia disponibile a consultarsi con altri paesi interessati e a partecipare a
negoziati per pervenire a una soluzione reciprocamente accettabile.

A Rio è sviluppato un accordo quadro contente una serie di accordi generali circa i mutamenti del clima
1992 che stabilisce alcuni principi e impegni generali, ivi compresa la previsione di un meccanismo
finanziario.
A questo accordo quadro è seguito il protocollo di Kyoto del 1997 dove si prevedono misure di riduzione di
gas serra. In particolare essi dovevano assicurare che nel complesso le emissioni di 6 tipi di gas fossero
ridotte del 5% rispetto ai livelli del 1990.Si prevedono livelli di riduzione diversi in relazione ai diversi Stati.
Meccanismo del protocollo di Kyoto si rivela inefficace per due motivi:

1. Obbligo di ridurre grava su poco meno di 30 Stati sviluppati (applicazione delle responsabilità
comuni ma differenziate). Stati come cina india e brasile non figuravano nella lista degli stati
sviluppati e quindi non erano gravati da obblighi.

2. Protocollo di Kyoto non è ratificato dagli USA (paese con maggiori emissioni di gas serra); aiuto
iniquo alla concorrenza americana a danno dei paesi europei ad esempio

Nel 2015 è stato introdotto un nuovo accordo di Parigi. Questo accordo non differenzia tra Stati sviluppati e
in via di sviluppo, prevedendo un obbiettivo ambizioso: mira a contenere l’aumento della temperatura
media del pianeta non oltre 1,5 (2°) gradi rispetto ai livelli pre-industriali da raggiungersi nel più breve
tempo possibile. Non c’è un obbligo preciso, ma un impegno volontario degli stati per raggiungere impegno
comune: si sostituisce il concetto di obbligo a quello di sforzo ambizioso (contributi ambiziosi da presentare
ogni anno, ma comunque senza sanzioni). Gli USA hanno poi receduto.

Di altro rischio globale tratta la convenzione sulla diversità biologia di Rio de Janeiro del 1992 che intende
conservare la diversità entro le specie, tra le specie e degli ecosistemi. Il mantenimento della diversità
biologica costituisce una preoccupazione comune del genere umano, non solo per il suo valore ecologico e
scientifico, ma anche per la sua rilevanza economica. Si presentano divergenti posizioni tra i paesi in via di
sviluppo situati in buona misura nelle aree tropicali dove si concentra la maggiore diversità biologica, e i
paesi dove sono ottenuti la maggior parte dei brevetti derivanti dall’uso di tecnologie di ingegneria
genetica. Qui appaiono difficili le applicazioni concrete dei principi enunciati in quanto si tratta di principi
che potrebbero portare alla limitazione di attività di sfruttamento delle risorse naturali, o che potrebbero
gravare in misura preponderante sui paesi sviluppati.

Nella dichiarazione di Rio (atto finale della conferenza) si trovano enunciati principi che da lì in poi sono
costantemente richiamati in tutti i documenti elaborati successivamente in materia:

1) Principio dello sviluppo sostenibile: la produzione e il consumo devono essere svolte in modo
compatibile con la protezione ambientale e con il pianeta terra (si parla anche di diritti delle generazioni
future, che devono ereditare un equilibrio ambientale quantomeno equivalente da quello da noi ereditato:
personificazione delle generazioni future come titolari di diritti che noi siamo tenuti ad adempiere. Prevede
di armonizzare le esigenze dello sviluppo con quelle della protezione dell’ambiente.
es. caso sul disboscamento nelle Filippine, se si continuano a dare autorizzazioni al disboscamento le
generazioni future non avranno diritto al godimento delle foreste. Idea che i modelli di sviluppo devono
preservare i diritti delle generazioni future. Si afferma che le generazioni future non sono soggetti di diritto
in quanto non esistono (la citazione in giudizio avviene per mezzo di genitori di bambini). Decidere quanta
foresta si taglia è atto di potere politico e non può essere sindacabile dall’organo giudiziario. La corte
suprema delle Filippine, basandosi su generiche norme della Costituzione filippina (lo Stato rispetta
l’armonia della natura), dà ragione all’attore ritenendo che la questione è sindacabile dà ragione alle
generazioni future annullando le licenze per il disboscamento.
2) Tipico in materia di protezione dell’ambiente è il principio precauzionale (o approccio precauzionale) in
base al quale, in presenza di minacce di un danno grave o irreversibile, la mancanza di piena certezza
scientifica non deve essere usata come motivo per ritardare l’adozione di misure efficaci rispetto al loro
costo per prevenire il degrado ambientale. Si tratta di una sorta di inversione dell’onere della prova: nel
dubbio dato dall’assenza di certezza scientifica si devono adottare misure per la protezione ambientale. Il
rischio di aver fatto qualcosa di inutile è senz’altro più tollerabile del rischio di causare un degrado grave e
irreversibile dell’ambiente.
es. caso sul disboscamento nelle Filippine, se si continuano a dare autorizzazioni al disboscamento le
generazioni future non avranno diritto al godimento delle foreste. Idea che i modelli di sviluppo devono
preservare i diritti delle generazioni future. Si afferma che le generazioni future non sono soggetti di diritto
in quanto non esistono (la citazione in giudizio avviene per mezzo di genitori di bambini). Decidere quanta
foresta si taglia è atto di potere politico e non può essere sindacabile dall’organo giudiziario. La corte
suprema delle Filippine, basandosi su generiche norme della Costituzione filippina (lo Stato rispetta
l’armonia della natura), dà ragione all’attore ritenendo che la questione è sindacabile dà ragione alle
generazioni future annullando le licenze per il disboscamento.

3) Un’evidente portata politica ha il Principio di responsabilità comuni ma diseguali in base al quale i paesi
sviluppati che hanno in passato maggiormente approfittato del capitale ecologico del pianeta,
consumandone ampiamente le riserve naturali, dovrebbero oggi farsi carico degli oneri maggiori per la
preservazione degli equilibri ambientali globali. I paesi in via di sviluppo fanno valere il fatto che i paesi
sviluppati si sono sviluppati consumando largamente carbone. Chi ha esaurito, più degli altri, le riserve di
combustibili fossili dovrebbe assumersi più degli altri gli oneri di una riduzione dell’uso di combustibili
fossili: riducendo più degli altri, impegnarsi più degli altri paesi nello sviluppare nuove forme di energia
(ovviamente poi da esportare agli altri paesi). Queste richieste non portano a risultati concreti.

MANTENIMENTO DELLA PACE E USO DELLA FORZA


Norme sul mantenimento della pace e sul divieto di uso della forza

Il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale rappresenta il principale obbiettivo della
moderna comunità internazionale (l’art 1 della Carta lo pone al primo posto tra gli obbiettivi della Società
delle Nazioni Unite, da cui dipendono tutti gli altri obbiettivi secondo quanto affermato da un parere
consultivo della CIG del 1962).

Il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è ovviamente legato all’idea che gli Stati
debbano astenersi dal ricorrere unilateralmente all’uso della forza nella risoluzione di controversie
internazionali. Quest’idea è espressa come principio nel Preambolo alla Carta e in maniera concreta dall’art
2 della medesima. L’art 2 della carta che enuncia i principi secondo i quali l’organizzazione e i suoi stati
membri debbono agire pone un divieto di uso della forza molto stringente: si vieta l’uso della forza in senso
ampio (tutte le forme di coercizione militare, anche di minore entità rispetto alla guerra) e addirittura
anche la minaccia di utilizzo della forza. Ovviamente l’uso della forza non è più considerato strumento
lecito per la risoluzione di controversie internazionali.

Sono previste due sole eccezioni all’uso della forza nella Carta:

1. Misure coercitive autorizzate dal CdS (per mantenere o ristabilire la pace e sicurezza
internazionali), organo incaricato della responsabilità principale del mantenimento della pace e
dotato del potere di adottare decisioni nell’interesse comune nel caso la pace sia minacciata o
violata.
2. Legittima difesa da parte di uno Stato vittima di attacco armato fino a che il CdS non abbia
adottato misure efficaci per il ristabilimento della pace (il diritto alla legittima è quindi limitato e
regolamentato).

Se dal punto di vista astratto è previsto un disegno logico e articolato per limitare l’uso della forza, questa
formulazione si scontra con la pratica e con il pesante condizionamento politico del Consiglio di Sicurezza
(cui è affidato il compito del mantenimento della pace). Di conseguenza, l’obbiettivo del controllo dell’uso
della forza risulta nei fatti spesso impraticabile.

Oltre alla previsione di cui all’art 2 par. 4 della Carta, il divieto di uso della forza ha acquisito, a partire dal
secondo dopoguerra, carattere consuetudinario dotata di portata generale e valevole come tale per tutti gli
stati. In particolare questa norma consuetudinaria è diventata il principio cardine dell’intero ordinamento
penale, acquisendo carattere imperativo (o cogente).

Il fatto che la norma consuetudinaria sia diventata principio cardine dell’ordinamento comporta la nullità di
qualunque trattato mediante cui 2 o più stati si accordino per utilizzare la forza a danno di un altro stato ex
art 53 Convenzione di Vienna (diritto dei Trattati). Sul piano della responsabilità internazionale, essa
determina da un lato l’impossibilità di invocare le tradizionali cause di esclusione dell’illecito (consenso,
estremo pericolo, necessità), dall’altro lato il fatto che il divieto dell’uso della forza sia principio cardine
dell’ordinamento fa sì che in caso di grave violazione del divieto tutti gli altri Stati sono tenuti a osservare
gli obblighi di non riconoscimento e non assistenza nei confronti dello Stato autore di tale violazione.

Il divieto di uso della forza è quindi disciplinato contemporaneamente da 2 diverse norme, differenti per
categoria e portata: una norma convenzionale contenuta nell’art 2 par. 4 della Carta e una norma
consuetudinaria. La Corte di Giustizia Internazionale ha affermato che, pur sovrapponendosi parzialmente,
le due fonti (pattizia e consuetudinaria) sono differenti e mantengono applicabilità separate e non hanno
necessariamente lo stesso identico contenuto. Di conseguenza, non si può escludere che la norma
consuetudinaria possa acquisire portata più permissiva di quella dell’art 2 par. 4 (proprio per la sua natura
consuetudinaria, che la espone ad un continuo mutamento sulla base della prassi e di prese di posizione di
Stati successivi all’entrata in vigore della Carta).

Consiglio di sicurezza: struttura e ruolo nel mantenimento della pace

A quest’organo gli stati membri delle nazioni unite hanno conferito la responsabilità principale per il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionali e lo stesso detiene, sempre su mandato degli stati
membri, lo specifico potere di decidere le azioni da intraprendere al riguardo.
Tuttavia in quest’organo, di cui sono membri soltanto 15 stati, una posizione di supremazia è riservata ai 5
stati che sostennero il maggiore sforzo bellico contro le potenze dell’asse durante il secondo conflitto
mondiale e assunsero il ruolo di potenze invitati alla conferenza di san Francisco del 1945. Cina, Francia,
Regno Unito, Russia (dal 1991 succeduta nel seggio permanente assegnato all’Unione sovietica) e Stati Uniti
hanno la condizione di membri permanenti del consiglio di sicurezza. Gli altri 10 stati membri del consiglio
di sicurezza sono eletti dall’assemblea generale per un periodo di due anni, tenendo in speciale
considerazione il contributo dato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali e agli altri fini
dell’organizzazione e in modo da assicurare un’equa distribuzione geografica dei seggi disponibili.

Un’ulteriore condizione di privilegio per gli stati membri permanenti è assicurata dal sistema di voto in
consiglio di sicurezza. Il consiglio adotta le delibere su questioni procedurali con una maggioranza di nove
voti su 15. Su tutte le altre questioni cioè quelle di carattere sostanziale nella maggioranza dei 9 voti
affermativi debbono necessariamente essere compresi i voti di tutti e 5 i membri permanenti. Si tratta del
diritto di veto spettante ai membri permanenti dell’organo, ciascuno dei quali potrà bloccare con il solo
proprio voto negativo l’adozione di delibere del consiglio di sicurezza su questioni importanti.

Sebbene l’art 27.3 preveda il voto favorevole dei membri permanenti, nella pratica la norma è applicata
anche se si raggiunge la quota dei 9 voti favorevoli senza che nessun membro permanente si dichiari
contrario (l’astensione, la non partecipazione al voto o l’assenza di uno o più membri con diritto di veto non
impediscono l’adozione di una decisione sempre che la maggioranza di 9 voti sia altrimenti raggiunta.

L’Assemblea generale

A differenza del consiglio, che è un organo a composizione ristretta e competenza specifica, l’assemblea
generale è un organo a composizione plenaria e competenza generale. Essa è composta di tutti gli stati
membri delle nazioni unite e può discutere qualsiasi questione o materia che rientri nell’ambito della carta
delle nazioni unite.
Mentre il cds può decidere misure da adottare o azioni da intraprendere, l’assemblea generale può solo
fare raccomandazioni prese, a seconda dei casi, con la maggioranza dei 2/3 quando le delibere vertono su
questioni importanti, o con la maggioranza semplice quando le delibere riguardano altre questioni degli
stati presenti e votanti. . Le raccomandazioni possono avere ad oggetto anche il mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale ma la competenza principale in questo ambito è affidata prevalentemente al
CdS (art 11 carta sancisce esclusività competenza) (non si possono adottare misure coercitive mediante
raccomandazioni): le raccomandazioni possono essere adottate solo se il CdS non sta esercitando le
funzioni che gli sono attribuite. L’assemblea può discutere e fare raccomandazioni non vincolanti, senza
stabilire misure da adottare o azioni da intraprendere.

Nei primi anni di vita dell’organizzazione, l’assemblea generale tentò di ovviare tale limite, adottando la
risoluzione nel 1950 nota come Uniting for peace, nella quale essa rivendicava, per l’ipotesi in cui il
consiglio di sicurezza fosse paralizzato di fronte a una situazione di minaccia alla pace, violazione della pace
o atto di aggressione a causa della mancanza di unanimità tra i membri permanenti, la possibilità di
raccomandare agli stati membri l’adozione di misure collettive, incluso quando necessario il ricorso alla
forza armata (limitatamente ai solo casi di violazione della pace e atto di aggressione).

Un secondo limite alla possibilità per l’assemblea generale di intervenire in questioni riguardanti il
mantenimento della pace è previsto dall’art 12 della carta che regola un’ipotesi assimilabile alla
litispendenza, stabilendo che quando il consiglio stia esercitando rispetto a qualsiasi controversia o
situazione le funzioni ad esso assegnate dalla carta, l’assemblea non deve fare raccomandazioni su detta
controversia o situazione a meno che venga espressamente richiesta dal consiglio di sicurezza.
Il limite posto dall’art 12 si è attenuato nella pratica dell’organizzazione. Succede frequentemente che
l’assemblea adotti risoluzioni riguardanti gli aspetti umanitari, sociali o economici di una data situazione
che contemporaneamente si trova sottoposta all’attenzione del consiglio di sicurezza in quanto rilevante
per il mantenimento della pace.

Riforma del sistema

Al momento della redazione della carta, i vincoli di natura politica insiti nel meccanismo di funzionamento
del consiglio di sicurezza costituivano la condizione necessaria perché le principali potenze vincitrici della
seconda guerra mondiale (ovvero gli attuali 5 membri permanenti) potessero accettare un sistema di
sicurezza collettiva basato sulla rinuncia all’uso unilaterale della forza. Ma la conseguenza implicita in un
tale compromesso è l’estrema difficoltà, per non dire impossibilità, che il consiglio condanni l’operato di
uno dei 5 membri permanenti o decida un’azione diretta contro uno di essi. Altrettanto improbabile è che il
consiglio di sicurezza decida un’azione diretta contro uno stato che conti sul forte appoggio politico di uno
qualsiasi dei 5 membri permanenti. Soltanto negli ultimi anni, il consiglio di sicurezza ha svolto un ruolo più
attivo. Anche oggi però ci sono situazioni in cui si trova bloccato.
La questione della composizione e del sistema di voto del consiglio si è presentata carica di implicazioni
politiche complesse. Una simile riforma richiederebbe un emendamento del testo degli art 23 e 27 della
carta che deve necessariamente passare attraverso la procedura prevista all’art 108 della carta.
Quest’ultima disposizione prevede che qualsiasi emendamento della carta deve essere adottato da due
terzi dei membri dell’assemblea generale e deve essere ratificato da due terzi degli stati membri delle
nazioni unite ivi compresi i 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza.
Questa procedura di emendamento rende difficile cambiamenti delle disposizioni della carta che
riguardano la composizione o il sistema di voto in consiglio.

Prerogative del consiglio

Al Consiglio di Sicurezza è attribuita la responsabilità principale per il mantenimento della pace e il divieto
dell’uso della forza. Al CdS spetta il potere di decidere le azioni da intraprendere per perseguire il fine della
pace e della sicurezza internazionale, conformemente ai fini e ai principi delle nazioni unite (raro esempio
di limite giuridico al potere d’azione del CdS) ex art 24 Carta. Le problematiche nel perseguimento di tale
fine sono dettate dai pesanti condizionamenti politici cui è sottoposto il CdS proprio a causa della propria
composizione.

Le competenze e i poteri del consiglio sono previsti in via generale in alcune disposizioni del capitolo V della
carta delle nazioni unite (es. per assicurare un’azione rapida ed efficace delle nazioni unite, gli stati membri
conferiscono al consiglio di sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e
riconoscono che nell’adempimento di tale responsabilità il consiglio agisce in loro nome).
Nell’adempimento dei suoi doveri, il consiglio di sicurezza dovrà agire conformemente ai fini e ai principi
delle nazioni unite e attraverso poteri specifici previsti. Il ruolo del CdS nel mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale è esplicato nei libri VI e VII della Carta (rispettivamente “soluzione pacifica delle
controversie” e “azione rispetto alle minacce alla pace, violazione di pace e atti di aggressione”). I due
capitoli si riferiscono a due diversi momenti di intervento del CdS circa questi temi: il sesto capitolo regola
l’intervento dell’organo (prendere misure efficaci) con fini preventivi nella fase iniziale di una controversia
(logica estensione dell’obbligo generale di soluzione pacifica alle controversie di cui all’art 2 par.3), il
settimo disciplina le misure da adottarsi in caso di minacce alla pace, violazione alla pace e atti di
aggressione (intervento del CdS in caso di concrete situazioni di minaccia alla pace e alla sicurezza
internazionale, ragion per cui le misure di cui al capitolo VII sono vincolanti per gli Stati membri).

Per far sì che si verifichi una soluzione pacifica alle controversie, l’art 33 della Carta (il primo del VI capitolo)
pone a carico delle parti di una controversia di cercare una soluzione alla stessa mediante diverse figure che
ne comportano una soluzione pacifica (elencandone alcune: negoziato, inchiesta, conciliazione, arbitrato…).

I mezzi di soluzione pacifica si dividono in 2 grandi categorie previsti nel diritto internazionale:

1. Mezzi diplomatici: poteri decisionali sulla risoluzione della controversia sono in capo alle parti.
Mezzi basati su contatti diretti tra parti in lite o eventuale intervento di un terzo conciliatore
incaricato di promuovere l’accordo tra le parti ma privo di poteri decisionali.
2. Mezzi arbitrali o giudiziali di soluzione: poteri decisionali sulla risoluzione della controversia sono in
capo ad un terzo indipendente, designato dalle parti. Prevedono l’intervento di una terza istanza,
arbitro o giudice incaricato dalle parti di decidere con effetto vincolante la loro controversia.

La Carta pone sì l’obbligo di risoluzione pacifica alle controversie ma impone al CdS di lasciare libera scelta
alle parti circa il metodo pacifico utilizzato per risolvere la controversia (principio della libera scelta delle
parti circa il mezzo più idoneo da utilizzare). Il Consiglio può al massimo consigliare o raccomandare (non
derogare) l’utilizzo di un mezzo piuttosto che di un altro senza effetto vincolante.
Questo perché il CdS è composto da delegati di Stato (quindi portatori degli interessi politici dei rispettivi
governi) e non da individui indipendenti, sarebbe ingiusto (e contro il principio di uguaglianza tra Stati) che
Stati possano imporre ad altri Stati il metodo di risoluzione di una controversia senza che vi sia una
minaccia seria ed attuale per la pace e la sicurezza internazionale.

L’azione per il mantenimento della pace del cds

Quando si passa da una situazione di potenziale pericolo di per pesi (pace e sicurezza internazionale) si
passa ad una concreta minaccia per le stesse, le prerogative del CdS mutano (i presupposti per l’intervento
del consiglio di sicurezza e di conseguenza i poteri attribuiti all’organo cambiano radicalmente quando, da
una controversia la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace si
passi a una situazione di emergenza concreta caratterizzata da una minaccia attuale per la pace e la
sicurezza internazionale, da una violazione della pace o da un atto di aggressione): l’intervento del consiglio
è destinato a trasformarsi in una vera e propria azione coercitiva, che viene svolta attraverso l’adozione
delle misure, implicanti o meno il ricorso della forza armata previsti nel capitolo 7 della carta.
Vengono adottate misure coercitive aventi forza vincolante in capo a tutti gli Stati (importante il
cambiamento lessicale dell’art 39, il primo del VII capitolo, si passa da raccomandare a decidere).

L’effetto vincolante delle decisioni del CdS è sancito in generale dall’art 25 della carta, tuttavia per gli art
41 e 42 l’effetto vincolante sembra intensificarsi fino a diventare effetto obbligatorio.
In realtà, data la pratica frequente del consiglio di non indicare espressamente nel testo delle risoluzioni le
disposizioni della carta in base ai quali si svolge la propria azione, può risultare complesso determinare se in
un caso di specie ci si trovi di fronte a una sua decisione o a una semplice raccomandazione.
Da ultimo occorre menzionare un importante effetto associato alle decisioni del consiglio in virtù dell’art
103 della carta delle nazioni unite. Tale disposizione stabilisce che in caso di conflitto tra obblighi degli stati
membri derivanti dalla carta delle nazioni unite e obblighi derivanti da altri trattati da costoro conclusi, è
data prevalenza agli obblighi della carta. L’effetto di priorità garantito dall’art 103 della carta alle decisioni
del consiglio di sicurezza, si rivela molto efficace nei casi in cui il consiglio decida l’imposizione di misure
basate sull’art 41 della carta nei confronti di certi stati o altri soggetti: in tali frangenti tutti gli stati membri
delle nazioni unite saranno tenuti a interrompere i loro rapporti commerciali o le loro comunicazioni con i
destinatari delle misure, nonostante l’esistenza di impegni opposti derivanti da trattati o contratti
precedentemente conclusi.

Accertamento di una minaccia alla pace, di una violazione o di un atto di aggressione

Il capitolo VII della carta, espressamente dedicato all’azione in caso di minaccia alla pace, violazione della
pace o atto di aggressione, si apre con una disposizione, l’art 39, che impone al consiglio di sicurezza di
determinare l’esistenza di una delle tre menzionate situazioni, prima di fare raccomandazioni o decidere
quali misure debbano essere prese conformemente agli art 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionali. La differenza tra le nozioni di minaccia alla pace, violazione della pace e atto di
aggressione non è chiara. I redattori della carta scelsero consapevolmente di non fornire alcuna definizione
compiuta, proprio per non vincolare il consiglio di sicurezza e permettere all’organo di apprezzare
liberamente il tipo di situazione che avrebbe potuto giustificare l’attivazione dei meccanismi
(provvedimenti vincolanti) del capitolo 7.
E’ lecito immaginare che tra esse possa esistere un differente grado di intensità e gravità (tutte accumunate
dal loro impatto negativo sul mantenimento della pace e sicurezza).
La violazione della pace e l’aggressione presupporranno un conflitto armato già in atto, la minaccia alla
pace una condizione di pericolo reale e impellente, ma non necessariamente delle ostilità in atto.
Tuttavia, data l’ampia discrezionalità del consiglio, queste distinzioni mantengono un valore puramente
presuntivo.

• Aggressione: intuitivamente evoca l’attacco armato di uno Stato contro un altro, tuttavia la lista
degli atti rientranti in questa definizione è molto ampia contenuti nella risoluzione 3314
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ne fa un’elencazione comunque non esaustiva
(oltre ad atti di diretta natura aggressiva, si arriva ad esempio a far rientrare in questa categoria la
complicità negli atti di aggressione compiuti da un terzo Stati, l’invio di bande armate di
mercenari…). La definizione non ha un effetto vincolante, ma è solo raccomandata dall’assemblea
del consiglio di sicurezza. Il consiglio resta libero di qualificare come atto di aggressione un atto non
incluso nell’elenco. I casi rilevanti restano limitati (es attacco armato dalla corea del nord ai danni
della corea del sud).
• Violazione della pace: molto più utilizzata rispetto all’aggressione (che non è mai stata utilizzata se
non per condannare COMPORTAMENTI aggressivi di Israele in territorio tunisino), in quanto si
presenta come molto più neutra rispetto alla prima (e quindi risulta molto più facile trovare
consenso all’interno dell’organo), sia dal punto di vista dell’attribuzione delle responsabilità sia
circa il ricorso illecito all’uso della forza armata
• Minaccia alla pace: categoria più utilizzata nella prassi del CdS, in quanto molto ampia e flessibile. I
casi di ricorso a tale nozione restano limitati nel periodo della guerra fredda relativa alla situazione
in Palestina, durante l’apartheid in sud africa e aumentati a partire dal 1990. Non è
necessariamente legata a controversie tra Stati (può riguardare anche conflitti tra Stato e
movimenti insurrezionali, conflitti in cui la popolazione versa in una situazione particolarmente
grave…), e può essere legata a fenomeni in senso ampio come il terrorismo (ISIL stato islamico
nell’Iraq e nel Levante) e la proliferazione di armi di distruzione di massa (proliferazione delle armi
nucleari, chimiche e biologiche e il loro traffico illecito). Viene superata distinzione tra conflitti
armati internazionali (tra stati) e conflitti armati interni.
Non va necessariamente identificata con una situazione di uso della forza, imminente o in atto, ma
può essere integrata da crisi che, pur essendo sovente connesse a conflitti armati, interessano il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionali soprattutto in ragione delle loro
implicazioni sul piano umanitario, sociale, economico o addirittura ecologico. (es nel 2014
classificata come minaccia alla pace la diffusione senza precedenti del virus ebola in africa).

Un requisito minimo per la legittimità del ricorso al capitolo 7 della carta risiede nella circostanza che l’art
39 domandi l’esistenza e dunque l’attualità di una minaccia alla pace, violazione della pace o atto di
aggressione: tali situazioni non possono essere accertate dal consiglio di sicurezza in via presuntiva,
generale o ipotetica.

Misure per il mantenimento o il ristabilimento della pace/sicurezza internazionale

A seguito dell’accertamento di una delle situazioni di cui all’art 39 appena descritte, il CdS può fare
raccomandazioni oppure adottare le misure coercitive (conformemente agli art 41 e 42) che ritiene più
necessarie per mantenere o ripristinare la pace o la sicurezza internazionale. Queste ultime misure, oltre ad
essere oggetto di una decisione del consiglio di sicurezza e dunque essere dotate di portata obbligatoria, si
distinguono per il loro carattere coercitivo, ovvero per il fatto di presentarsi come strumenti di pressione
volti a costringere lo stato o gli altri soggetti destinatari dell’azione del consiglio di sicurezza ad
abbandonare il comportamento minaccioso per il mantenimento della pace.

Il consiglio di sicurezza può anche scegliere di seguire azioni meno impegnative, limitandosi a formulare
delle mere raccomandazioni rispetto a una situazione pur qualificata come minacciosa per la pace, oppure
indicando misure di carattere cautelare e provvisorio.
Secondo l’art 40 della carta, prima di fare raccomandazioni o decidere le misure previste nell’art 39, il
consiglio d sicurezza può invitare le parti interessate a conformarsi a quelle misure provvisorio che ritenga
necessarie o desiderabili. La natura cautelare di queste misure il cui scopo è prevenire l’ulteriore
deterioramento di una certa situazione che si presume però essere già stata qualificata dal consiglio di
sicurezza perlomeno come minacciosa per la pace.

0 Misure provvisorie: Una volta accertate le situazioni di cui all’art 39, il CdS non è necessariamente
obbligato a prendere immediatamente le misure di cui agli artt. 41 e 42. Può anche prendere, ex art 40,
misure provvisorie. Le misure provvisorie hanno scopo cautelare, sono mirate a prevenire un ulteriore
deterioramento di una certa situazione rientrante nelle fattispecie di cui all’art 39. Sono adottate nella fase
inziale di una controversia che mina la pace o la sicurezza internazionale, prima di eventuali misure
coercitive di cui agli artt 41 e 42.

Rispetto alle misure dei sopracitati artt 41 e 42, quelle provvisorie sono prive di carattere coercitivo (non
pongono obblighi in carico a tutti gli Stati membri) ed sono tendenzialmente neutrali, ovvero senza
pregiudizio dei diritti, delle pretese e della posizione delle parti interessate (permettono all’organo di
evitare di prendere apertamente posizione contro l’uno o l’altro dei soggetti coinvolti in una certa
situazione), mentre è dubbia la loro portata obbligatoria (obblighi in capo agli Stati coinvolti nella
controversia). Da un lato l’art 40 prevede che il CdS inviti le parti interessate a porre in essere le misure,
dall’altro spesso il CdS utilizza forme verbali che non sembrano lasciar presupporre un effetto vincolante
(anche se vi è). Il CdS ha chiarito questi dubbi con la risoluzione 16969 (2006), attribuendo alle misure
provvisorie carattere vincolante (occorre prestare una particolare attenzione al tenore dei termini utilizzati
dal consiglio nelle risoluzioni che le prevedono, nonché ai relativi lavori preparatori).

Queste misure si concretano solitamente in:

• Richieste di cessate il fuoco


• Richieste di ritiro alle posizioni precedenti l’inizio di uno scontro armato
• Esortazioni all’avvio di negoziati e trattative per la soluzione pacifica del conflitto

Esempio di misure provvisorie è la risoluzione 598 (1987) relativa al conflitto tra Iran e Iraq (si chiede un
immediato cessate il fuoco, dopo aver rilevato una violazione della pace).

Misure coercitive:

1. Misure non implicanti l’uso della forza


2. Misure implicanti l’uso della forza
3. Raccomandazioni: il CdS in questo ambito ha anche (non solo) poteri decisionali, ma ciò non
significa che non possa formulare raccomandazioni
1 Misure non implicanti l’uso della forza: Le misure adottate dal CdS, in quanto vincolanti, non devono
necessariamente presupporre l’uso della forza. Sono previste ex art 41 misure coercitive non implicanti
l’uso della forza (comportamenti che devono essere adottati e eseguiti dagli Stati membri). Resta ferma la
portata obbligatoria.

L’art 41 detta un elenco non esaustivo di misure (l’interruzione completa o parziale delle relazioni
economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radioelettriche e degli
altri mezzi di comunicazione, nonché la rottura delle relazioni diplomatiche), di conseguenza le misure non
implicanti l’uso della forza possono essere tipiche o atipiche.
Le misure tipiche sono finalizzate ad isolare sul piano internazionale i soggetti a cui sono indirizzate (Stati o
altri soggetti di diritto internazionale, come ad esempio gruppi insurrezionali) in modo da indurli a cessare il
comportamento che ha minacciato la pace o sicurezza internazionale.

Le misure tipiche possono essere ricondotte a 2 filoni:

A. Interruzione (completa o parziale) dei rapporti commerciali. Esempio è l’embargo disposto a carico
dell’Iraq a seguito dell’invasione del Kuwait (ris. 691 (1990) ove si imponeva a tutti gli stati di
interrompere le loro importazioni di prodotti petroliferi iracheni e la vendita verso l’Iraq di
materiale militare. Misure poi estese all’interruzione delle comunicazioni aeree)
B. Interruzione di comunicazioni con un determinato Stato (sia sotto il profilo diplomatico che sotto
quello di comunicazioni ferroviarie, marittima…). Esempio è l’interruzione delle comunicazioni aree
con la Libia disposta con ris. 748 (1992) a seguito del suo coinvolgimento nell’attentato Lockerbie

Le misure tipiche hanno tuttavia subito un’importante evoluzione nel corso del tempo e sono ad oggi ben
diverse da come erano state originariamente concepite nell’art 41. Proprio per evitare le pesanti
conseguenze umanitarie derivanti dalle forme di embargo generalizzate, che possono produrre effetti
disastrosi sul tessuto economico e sociale dello stato colpito, si è imposto nella prassi del consiglio di
sicurezza il ricorso alle sanzioni intelligenti o mirate (smart). Infatti le misure tipiche non implicanti l’uso
della forza, così come erano concepite nell’art 41, potevano avere pesanti conseguenze umanitarie.

Proprio per evitare emergenze umanitarie, distruzione del tessuto economico e sociale dello Stato, il CdS ha
cominciato a fare ricorso alle cd. smart sanctions che intendono colpire individui o gruppi di individui
(invece dell’intero Stato) direttamente responsabili del comportamento minaccioso della pace o della
sicurezza internazionale. Sul piano concreto, tali misure si traducono nell’obbligo posto a tutti gli stati di
congelare il patrimonio, i beni o le attività economiche e finanziarie riconducibili a certe persone
nominativamente individuate dal consiglio di sicurezza, oppure nell’obbligo per tutti gli stati di impedire
alle medesime persone l’acceso e il transito attraverso i rispettivi territori. Inizialmente queste sanzioni
sono state utilizzate soprattutto nei confronti dei dirigenti governativi di Stati, mentre ora sono utilizzate
efficacemente anche contro appartenenti a gruppi insurrezionali o terroristici (trovando in questo ambito la
loro migliore applicazione).

L’individuazione delle persone cui sono dirette le smart sanctions avviene mediante liste nominative
blacklists redatte e aggiornate da appositi comitati delle sanzioni formati all’interno del consiglio di
sicurezza, sulla base di informazioni riservate, mediante procedure in cui nessun diritto di intervento è
riservato agli interessati. Tale circostanza solleva gravi difficoltà dal punto di vista delle garanzie dell’equo
processo. con una risoluzione del 2009 è stata creata la figura di un mediatore indipendente incaricato di
ricevere e istruire i reclami delle persone che si ritengano ingiustamente inserite nelle liste dei soggetti
sottoposti alle sanzioni intelligenti e, se del caso, di proporre al consiglio di sicurezza la rimozione di un
certo nominativo dalle liste stesse.
Le smart sanctions, pur discostandosi parzialmente dalla previsione dell’art 41, restano comunque vicine
alle misure di cui all’art 41 (per ciò che concerne il contenuto) e sono quindi considerabili tipiche.

Esistono poi misure atipiche di cui seguono alcuni esempi:

I. Risoluzioni con cui si dichiara l’illiceità di una data situazione (rientrante in una delle fattispecie di
cui all’art 39) disconoscendone gli effetti giuridici. Es. risoluzione 541 (1983) relativa al
disconoscimento di Cipro del Nord
II. Risoluzioni in cui si obbliga un determinato Stato a distruggere il proprio arsenale militare
III. Risoluzioni con cui si obbliga uno Stato a risarcire integralmente un altro Stato per i danni cagionati
allo stesso (esempi di entrambe queste categorie si trovano nel conflitto tra Iraq e Kuwait)
IV. Creazione di appositi tribunali internazionali penali incaricati del giudizio dei crimini commessi in un
dato conflitto. Es. tribunali creati nell’ambito dei conflitti nella ex Iugoslavia e in Ruanda
V. Risoluzioni con cui si creano amministrazioni transitorie delle Nazioni Unite dotate di poteri
normativi, amministrativi e giudiziari al fine di avviare il processo d ristabilimento di autonome
strutture di governo locali. Es. UNMIK (missione delle Nazioni Unite in Kosovo)
VI. Risoluzioni con cui il CdS esercita una funzione quasi-normativa: si stabiliscono obblighi generali e
astratti per gli Stati di adottare determinate misure (ad esempio per combattere il finanziamento
illecito del terrorismo, risoluzione 1373 (2001))

2 Misure implicanti l’uso della forza: L’art 42 prevede che il CdS possa adottare, qualora siano ritenute
inadeguate le misure di cui all’art 41, misure implicanti l’uso della forza (attraverso l’azione di forze armate)
al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale (Necessarie).
In primo luogo, l’azione in essa prevista presuppone il ricorso a misure armate di carattere coercitivo
(azione attraverso forze armate aeree, navali o terrestri) miranti a mantenere o ristabilire la pace e in
principio dirette contro uno stato (o più stati) o altri soggetti (ed. gruppi insurrezionali) la cui condotta
ponga in pericolo il mantenimento della pace stessa.
In secondo luogo, è il consiglio di sicurezza ad essere il diretto gestore dell’azione armata, sia nella fase
decisionale e di scelta delle misure armate, sia nella fase operativa di esecuzione delle stesse.
In terzo luogo, sul piano concreto, l’azione del consiglio deve necessariamente svilupparsi attraverso forze
armate proveniente dagli stati membri essendo le nazioni unite e il consiglio di sicurezza privi di forse
militari proprie.
La gestione delle operazioni, secondo quanto affermato dall’art 42, è affidata al CdS. Per consentire ciò gli
art da 43 a 47 prevedevano:
i. Conclusione di accordi tra CdS e Stati membri finalizzati alla messa a disposizione del Consiglio dei
contingenti, dell’assistenza e delle facilitazioni indispensabili all’azione per il mantenimento della
pace per poter porre in essere le misure di cui all’art 42
ii. Creazione di un Comitato di stato maggiore formato dai Capi di stato maggiore dei 5 membri
permanenti del CdS, incaricato di assistere l’organo nella predisposizione di piani per l’impiego
della forza armata e di assumere la direzione strategica delle forze messe a disposizione dagli stati
membri.

Questi accordi non furono mai realizzati sostanzialmente, a causa della contrapposizione tra blocchi politici,
e il comitato di stato maggiore, pur formalmente costituito, non ebbe mai modo di operare concretamente.

Si sono sviluppate perciò due modalità di gestione della forza armata, alternative rispetto a quanto previsto
ex art 42:
❖ Peacekeeping: (consolidata nel periodo della guerra fredda). Si svolge attraverso operazioni di
mantenimento della pace che sono di volta in volta consistenti in truppe schierate con funzione di
interposizione tra le parti coinvolte.
Manca nelle operazioni di mantenimento della pace la finalità coercitiva che è propria delle misure
dell’art. 42, cosicchè risulta difficile ravvisare in tale disposizione il loro fondamento giuridico.
Finalità chiaramente coercitive, e perciò in principio rispondenti alla logica dell’art 42 hanno invece
le operazioni militari composte di contingenti di stati membri disponibili a parteciparvi che sono di
volta in volta autorizzate dal consiglio di sicurezza a usare la forza per imporre il mantenimento o
ristabilimento della pace in una particolare situazione: si parla a riguardo non più di peace keeping
ma di peace enforcement (imposizione della pace) nelle nazioni unite. Tuttavia anche questa
seconda modalità, che si è consolidata soprattutto dopo il 1990, rappresenta una deviazione
rispetto al modello predisposto negli art 42 e seguenti, poiché l’operazione coercitiva armata non è
svolta e diretta dal consiglio di sicurezza, ma dagli stati membri che vengono delegati a tal fine.

Le operazioni di mantenimento della pace delle nazioni unite non trovano una base giuridica espressa nelle
disposizioni della carta delle nazioni unite. Si tratta in effetti di operazioni usualmente create a iniziativa del
consiglio di sicurezza, il quale ne definisce il mandato e ne controlla la direzione operativa grazie a una
catena di comando che passa attraverso il segretario generale.
Le operazioni di mantenimento della pace si configurano come un modello alternativo rispetto all’uso
coercitivo della forza previsto all’art 42. Non a caso tale modello ha preso corpo durante la guerra fredda,
in cui i condizionamenti politici rendevano particolarmente difficile il ricorso ai meccanismi del capitolo VII.
Il problema della ricerca di una precisa base giuridica risulta oggi superato da una prassi ampiamente
consolidata, che ha visto dalla fondazione delle nazioni unite ad oggi la creazione di 71 missioni di
mantenimento della pace, di cui 15 tuttora attive, schierate con tempi, modalità e caratteristiche differenti
nel contesto dei conflitti, sia internazionali, sia interni, localizzati in varie aree geografiche del mondo.
Le operazioni di mantenimento della pace delle nazioni unite sono caratterizzate da taluni principi di fondo
comuni. Essi si trovano delineati a partire da quella che viene considerata la prima vera e propria
operazione di mantenimento della pace, l’UNEF I (United Nations Protection Force) eccezionalmente creata
dall’assemblea generale nel 1956 nel contesto della crisi relativa al canale di Suez. Secondo il piano
presentato all’assemblea dall’allora segretario generali delle nazioni unite, la costituenda forza
internazionale di emergenza, concepita con funzioni di interposizione per sorvegliare la cessazione delle
ostilità tra Egitto e Israele, avrebbe dovuto mantenere una stressa neutralità rispetto alle posizioni delle
parti coinvolte nel conflitto; sarebbe stata dispiegata con il previo consenso degli stati interessati; infine
essa non avrebbe utilizzato la forza armata in via coercitiva, essendo priva di obiettivi militari in senso
stretto.

Infatti, il consenso delle parti interessate dal dispiegamento dell’operazione, l’imparzialità dell’operazione
rispetto alle parti coinvolte e l’uso circoscritto della forza armata (limitato al solo caso della legittima difesa
del personale esposto ad attacco, o della difesa del mandato dell’operazione) rappresentano le tre
caratteristiche fondamentali del peace keeping delle nazioni unite. Il rispetto di questi principi è essenziale
per il successo delle operazioni.

La complessità delle funzioni che si devono svolgere, che spesso coesistono nell’ambito di una medesima
missione, richiede, accanto alla tradizionale componente militare, una presenza consistente di personale
civile specializzato nei più diversi settori (polizia, amministrazione della giustizia, processi elettorali, etc).
Un secondo profilo che in tempi recenti ha conosciuto importanti evoluzioni concerne uno dei caratteri
fondamentali del tradizionale modello di operazioni di mantenimento della pace, ovvero l’uso limitato della
forza armata da parte delle operazioni stesse. Secondo l’approccio classico, il ricorso alla forza doveva
ritenersi circoscritto alla sola ipotesi eccezionale della legittima difesa del personale militare esposto ad un
attacco.
Tuttavia, a partire dal 1990, si è assistito ad alcune esperienze di forze di mantenimento della pace che,
inizialmente investite di funzioni di assistenza umanitaria alla popolazione civile nel contesto di un conflitto
armato, si sono viste attribuire dal consiglio di sicurezza compiti di natura coercitiva, strumentali alla difesa
del mandato principale dell’operazione (scoraggiare attacchi contro zone adibite alla protezione della
popolazione civile, evacuare le forze paramilitari presenti in tali zone, disarmare coattivamente e tradurre
in giustizia i gruppi armati responsabili di attacchi contro la sicurezza dell’operazione): l’uso della forza loro
attribuito è stato ampliato rispetto alla precedente e circoscritta ipotesi della legittima difesa.
Esempi di operazioni di peacekeeping sono: UNPROFOR (united nations protection force) in Bosnia dotata
anche di poteri coercitivi, UNFCYP (united nations force in Cyprus).
La rimozione del confine tra uso della forza in via difensiva e uso della forza in chiave coercitiva rischia non
solo di cambiare la natura dell’operazione, ma anche di compromettere l’efficacia e di metterne il pericolo
il personale.
Ciò non ha impedito il consolidarsi nella prassi successiva delle nazioni unite, della figura del peace keeping
robusto, espressione con la quale si indicano le operazioni di mantenimento della pace eccezionalmente
legittimate a ricorrere alla forza armata per il conseguimento di obiettivi strumentali alla protezione e alla
realizzazione del mandato principale dell’operazione stessa.
Nella prassi più recente il consiglio si è curato di definire con chiarezza i presupposti e gli obiettivi dei
compiti coercitivi affidati alle operazioni di mantenimento della pace robuste. (es. MONUSCO, costituzione
di una brigata di intervento incaricata di condurre delle offensive militari mirate e robuste in vista di
neutralizzare e disarmare i gruppi armati irregolari operanti nella parte orientale della repubblica
democratica del congo).
In questo caso si assiste a una commistione tra il classico modello consensuale di peace keeping delle
nazioni unite e il modello coercitivo di ricorso alla forza armata che si è sviluppato nella prassi della
sicurezza collettiva attraverso il meccanismo delle autorizzazioni all’uso della forza.
❖ Autorizzazioni all’uso della forza: il CdS “autorizza” uno Stato o un gruppo di essi ad utilizzare la
forza contro uno Stato che ha violato gli obblighi internazionali (nella misura in cui ha attuato
comportamenti tali da rientrare in una delle situazioni di cui all’art 39). Questa modalità alternativa
si discosta dalla previsione dell’art 42 in quanto solo la decisione iniziale all’uso della forza è
riservata al CdS, mentre la costituzione dell’operazione militare, comando e gestione sono delegate
agli Stati autorizzati (fatte salve alcune forme di controllo più o meno formale da parte del
consiglio).
Sul piano giuridico si pone la questione della compatibilità della delega all’uso della forza con il modello
centralizzato di gestione della forza armata delineato nel capitolo 7 della carta. Al riguardo si può ipotizzare
che le autorizzazioni all’uso della forza rappresentino un legittimo adattamento delle disposizioni della
carta relative alla sicurezza collettiva, volto a garantire il massimo effetto utile di tali disposizioni.
La logica di fondo è che, non potendo il consiglio disporre direttamente dei mezzi necessari per lo
svolgimento delle operazioni armate necessarie, a esso non resterebbe altra alternativa che delegarne lo
svolgimento agli stati membri. La prassi del consiglio di sicurezza in materia, presenta una molteplicità di
varianti, rispondenti a modalità, esigenze, finalità e a tipologie assai diverse tra loro.
Il meccanismo dell’autorizzazione all’uso della forza si è consolidato nella prassi. Prima dell’autorizzazione
occorre verificare quali siano le condizioni minime per garantire la compatibilità di tale meccanismo con il
sistema centralizzato di sicurezza collettiva previsto nella carta delle nazioni unite.
È essenziale che il consiglio di sicurezza conservi una qualche forma di controllo sulle azioni armate
autorizzate. A tal fine, è in primo luogo indispensabile che il consiglio di sicurezza indichi nella risoluzione
autorizzativa le precise finalità dell’intervento autorizzato e i suoi limiti temporali, rispetto ai quali sarà
valutata l’opportunità e l’adeguatezza delle misure adottate dagli stati beneficiari della delega.
In secondo luogo, occorre che il consiglio di sicurezza predisponga un sistema di controllo sullo svolgimento
delle azioni autorizzate.
Proprio l’ambiguità o la vaghezza delle risoluzioni possono essere all’origine del fenomeno delle presunte
autorizzazioni all’uso della forza “implicite”, casi in cui Stati cercano di dedurre l’autorizzazione all’uso della
forza da risoluzioni del CdS contenenti il solo accertamento di una minaccia alla pace (o di altre
ammonizioni). Esempio è l’intervento armato in Iraq nel 2003: secondo il UK e gli US, la loro azione armata
si sarebbe giustificata alla luce delle gravi e ripetute violazioni irachene degli obblighi di disarmo posti da
varie risoluzioni.
Una variante delle autorizzazioni implicite è rappresentato dalle autorizzazioni “a posteriori”, che si
riscontrano nei casi in cui alcuni stati cercano di dedurre un avallo a loro interventi armati unilaterali dal
fatto che questi non siano stati apertamente condannati dal consiglio, oppure siano seguiti da risoluzioni
con le quali l’organo prende atto della situazione creata dall’azione militare e cerca di gestirne gli effetti.
Nel loro insieme, tutte queste argomentazioni paiono ben poco plausibili. Proprio perché il meccanismo
dell’autorizzazione si risolve in un’alterazione del modello centralizzato di uso della forza previsto dagli art
42 e seguenti della carta, è necessario che, oltre all’apprezzamento dei presupposti che giustificano il
ricorso alla forza armata, anche la decisione autorizzativa che ne legittima lo svolgimento sia oggetto di una
espressa delibera del consiglio di sicurezza.

Dalla lettura degli art 39 e 42 della Carta delle nazioni unite, risulta che le misure implicanti l’uso della forza
dovrebbero essere l’oggetto di decisioni vincolanti del consiglio, con la conseguenza che il loro contenuto e
la loro attuazione dovrebbero imporsi agli stati membri. Tale effetto giuridico non è così scontato per il
meccanismo dell’autorizzazione, la cui funzione è più quella di rimuovere un ostacolo giuridico ostativo al
compimento di una certa azione (il ricorso alla forza armata nei rapporti internazionali), che non di
obbligare al compimento dell’azione stessa.
E’ vero che l’autorizzazione all’uso della forza lascia gli stati membri liberi di scegliere se dar seguito o meno
alla delega del consiglio di sicurezza e che la prassi registra alcuni casi di autorizzazioni non seguite da
operazioni militari. Alla luce di ciò, l’effetto dell’autorizzazione all’uso della forza è stato assimilato a quello
tipico non vincolante delle raccomandazioni rivolte dagli organi delle nazioni unite agli stati membri.
In conclusione l’effetto giuridico dell’autorizzazione all’uso della forza non è l’imposizione da parte del CdS
dell’uso della forza quanto piuttosto la rimozione di un vincolo giuridico per consentire agli Stati membri di
coalizioni di volenterosi di poter utilizzare la stessa.
È pacifico che le formule all necessary means and all necessary measures, ricorrenti nelle risoluzioni
autorizzative, coprono il ricorso all’uso della forza armata. È però altrettanto ovvio, data l’ampiezza delle
formule, che anche misure meno invasive rispetto a operazioni militari di combattimento attivo possano
essere adottate dagli stati, quando tali misure risultano strumentali al raggiungimento degli obiettivi
indicati dal consiglio. Un esempio sono le misure di internamento e detenzione straordinaria di persone
pericolose per la sicurezza.
In assenza di indicazioni precise nel testo della risoluzione pertinente, resta il problema dell’ampia
discrezionalità che la formula dell’autorizzazione crea in capo agli stati nella scelta delle misure più
appropriate a ciascun caso di specie. Sembra in ogni caso che l’adeguatezza e la liceità delle misure
adottate dagli stati agenti in virtù della delega del consiglio debbano valutarsi secondo i principi di necessità
e proporzionalità, a loro volta da misurarsi, oltre che in relazione agli obiettivi indicati nella risoluzione
autorizzativa, alla luce delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario e di tutela dei diritti
umani.

Queste misure, pur discostandosi pesantemente dalla previsione dell’art 42, sono tollerate in quanto non vi
sono alternative che consentano di mantenere la pace e la sicurezza internazionale con l’uso della forza.
Seguendo una seconda linea di interpretazione l’autorizzazione all’uso della forza sarebbe contiguo al
diritto di difesa di cui all’art 53 (in cui è già prevista una sorta di autorizzazione all’uso della forza),
osservando che nei fatti la richiesta d’assistenza da parte dello Stato aggredito a Stati terzi è equiparabile
all’autorizzazione alla risoluzione con cui il CdS autorizza la costituzione di una coalizione di Stati
volenterosi.
Condizioni minime della risoluzione per garantire la compatibilità di questo strumento sono: precise finalità
dell’intervento e predisposizione di uno strumento di controllo sulle operazioni svolte.

Organizzazioni regionali per il mantenimento della pace e sicurezza internazionale e loro rapporti col CdS

Nella Carta è certamente previsto un sistema centralizzato di sicurezza collettiva, il quale tuttavia non
esclude possano operare anche altri accordi od organizzazioni su scala regionale sulla materia del
mantenimento della pace (ovviamente a condizione che tali accordi e organizzazioni siano compatibili coi
principi e i fini delle Nazioni Unite).
Il libro VIII della Carta ha ad oggetto appunto il rapporto tra Nazioni Unite e gli Accordi regionali (il suo
titolo è “Accordi regionali”), ed è volto a coordinare l’azione a livello universale con quella a livello
regionale. Esempi di organizzazioni regionali sono: l’Organizzazione degli Stati Americani, l’Unione Africana,
l’Unione Europea (in cui dopo il Trattato di Lisbona del 2007 la politica estera e di sicurezza comune ha
assunto il rango di settore d’azione prioritario dell’Unione), la NATO (trattato dell’atlantico del nord),
l’OSCE (organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa)…

Il Capitolo VIII affronta il problema del coordinamento tra azione universale e azione regionale
riproducendo l’approccio binario già utilizzato nei capitoli VI e VII, ossia distinguendo tra intervento delle
organizzazioni regionali nell’ambito della pacifica soluzione ad una controversia internazionale e la loro
azione in materia di mantenimento di pace e sicurezza internazionale (come già aveva fatto a livello
esclusivamente universale nei capitoli VI e VII)e proponendo per ciascuno dei due momenti un diverso
ordine di priorità nei rapporti tra consiglio di sicurezza e organismi regionali. In particolare:

✓ In materia di risoluzione pacifica di controversie a carattere locale art 52: vige il principio di priorità
dell’azione regionale, il CdS interviene solo qualora non sia possibile risolvere pacificamente una
controversia a livello locale (il suo intervento nella risoluzione pacifica di una controversia è una
sorta di extrema ratio). La norma dell’art 52 non deve essere però interpretata in senso rigido fino a
configurare una competenza esclusiva delle organizzazioni regionali ostativa a qualsiasi forma di
intervento da parte delle nazioni unite. Non si deve in ogni caso andare a pregiudicare
l’applicazione degli art 34 e 35 che riguardano il potere di inchiesta del consiglio e la facoltà di ogni
stato di portare una controversia all’attenzione del consiglio o dell’assemblea generale.
✓ In materia di azione coercitiva per il mantenimento della pace art 53: la priorità dell’azione in questi
casi appartiene al CdS (prospettiva ribaltata rispetto a sopra), che potrà in ogni caso decidere di
utilizzare gli organi e gli accordi regionali per azioni coercitive (comunque sotto la propria
direzione). Nella prassi non sono soggette ad autorizzazione del CdS le misure coercitive implicanti
misure economiche e quelle analoghe ad operazioni di peacekeeping (l’autorizzazione vale solo per
azioni coercitive implicanti l’uso della forza su base non consensuale).
Se l’autorizzazione del CdS è postuma all’inizio o allo svolgimento dell’operazione armata anziché
anteriormente o contestualmente ad essa si pone un problema; nella prassi l’autorizzazione a
misure coercitive per il mantenimento della pace può essere anche postuma, andando ad
affievolire la condizione posta dall’art 53 (lettura estensiva); si ritiene che questa condizione possa
essere affievolita in quanto, trattandosi di operazioni decise e svolte in ambito istituzionale, le
operazioni stesse sarebbero meno soggette al rischio di abusi rispetto ad analoghe iniziative
unilaterali. Quest’ultima argomentazione è ininfluente, se si tiene conto della logica complessiva
del sistema di sicurezza collettivo CENTRALIZZATO dell’ONU.
In ogni caso la decisione del consiglio di ricorrere a un’organizzazione regionale o di autorizzarne
l’azione coercitiva non pare di per sé idonea a risolvere il problema della competenza
dell’organizzazione regionale a svolgere l’azione stessa.

Piccolo excursus sulla NATO


La NATO nasce come patto di mutua difesa istituito nel 1949 (mediante cui gli Stati membri si impegnano a
considerare un attacco contro uno di essi alla stregua di un attacco diretto contro tutti e ad assistere con le
azioni necessarie ivi compreso l’uso della forza le parti attaccate nell’esercizio del diritto di legittima difesa
collettiva), più che come organizzazione regionale: risulta quindi, almeno inizialmente, inquadrabile più
nell’ambito dell’art 51 sulla legittima difesa che dell’art 52 e ss. (libro VIII sugli “Accordi regionali). Con la
conseguenza che il ricorso alla forza degli Stati membri, se operato nell’esercizio del diritto di legittima, non
avrebbe richiesto la preventiva autorizzazione del CdS né la sottoposizione al suo controllo (salvo obbligo di
cessazione in caso di adozione da parte del consiglio di misure necessarie al mantenimento o al
ristabilimento della pace).
Per attacco armato contro uno degli stati parti si intende l’attacco rivolto contro il territorio europeo o
nordamericano degli stessi stati, territorio che delimita anche l’ambito di applicazione del trattato istitutivo
e l’originaria sfera di operatività dell’alleanza atlantica.

Dopo la fine della guerra fredda si assiste ad una trasformazione del ruolo della NATO e delle sue
competenze operata anziché mediante emendamenti formali al testo del trattato istitutivo, tramite
documenti programmatici non vincolanti di indirizzo politico-strategico, approvati dalle riunioni dei capi di
stato e di governo degli stati membri che di fatto trasformano l’organizzazione. Si prevede ad esempio la
possibilità di operazioni armate dell’alleanza realizzate in risposta a crisi motivate da ragioni diverse della
legittima difesa contro un attacco armato esterno, quali terrorismo, alterazione del flusso di risorse vitali,
sabotaggio e crimine organizzato, movimenti incontrollati di moltitudini di persone; sia la possibilità di
interventi militari fuori aerea, ovvero effettuati fuori dall’ambito di applicazione territoriale del trattato
istitutivo, laddove gli interessi dei membri dell’alleanza siano in gioco. Il documento rappresenta una
forzatura della lettera del trattato istitutivo della nato e segna un netto allontanamento dalle funzioni
originarie dell’alleanza.

Nel 2010 poi si assiste (dopo le generiche indicazioni del concetto strategico del 1999) alla definitiva
autoproclamazione della NATO quale organizzazione militare impegnata a tutto campo nella funzione del
mantenimento della pace a livello globale, prospettando apertamente un ruolo attivo nella prevenzione e
gestione delle crisi e nella ricostruzione post-conflittuale (Afghanistan).

Legittima difesa
La legittima difesa rappresenta la seconda eccezione al divieto di uso della forza ammessa dalla Carta, dopo
le misure armate autorizzate dal CdS.
Ex art 51 la legittima difesa è definita come il diritto naturale di reagire ad un attacco armato, fin tanto che
il CdS non abbia adottato le misure necessarie (difficile capire cosa sono, più facile ragionare in negativo:
non sono generiche condanne dell’attacco e richiesta di porvi fine se non seguite dall’effetto voluto, né
l’adozione di misure non implicanti l’uso della forza può rivelarsi sufficiente) a mantenere la pace e la
sicurezza internazionale (è comunque un’eccezione non incontrollata, ma limitata e circoscritta dalla Carta).
In definitiva possiamo vedere la legittima difesa come una sorta clausola di chiusura del sistema di sicurezza
collettiva delle Nazioni Unite, una valvola di sicurezza per il malfunzionamento dello stesso posta a garanzia
dello stato che, essendo vittima di un attacco armato, non possa fruire del tempestivo intervento del
consiglio di sicurezza.

Proprio per mettere il consiglio di sicurezza nelle condizioni di intervenire tempestivamente, l’art 51 della
carta prevede che gli interventi di legittima difesa (le misure adottate da uno stato nell’esercizio della
difesa) devono essere tempestivamente comunicati al CdS e non possono in alcun modo pregiudicare le
prerogative dell’organo di adottare l’azione ritenuta necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionali. La notifica al consiglio non rappresenta in sé e per sé una condizione determinante
per stabilire la liceità dell’uso della forza (e quindi la legittimità della difesa).
La legittima difesa può poi essere individuale (realizzata direttamente dallo Stato oggetto di attacco
armato) o collettiva (Stati terzi intervengono a supporto dello Stato oggetto di attacco armato, su precisa
richiesta di aiuto loro rivolta dallo Stato attaccato. Affinchè sia ammissibile la difesa collettiva necessita una
precisa richiesta d’aiuto).

Il meccanismo della legittima difesa collettiva può trovarsi istituzionalizzato in accordi e patti di mutua
difesa collettiva, conclusi da gruppi di stati appartenenti ad aree geografiche o geo- politiche determinate.
Normalmente, tali patti o accordi prevedono che l’attacco rivolto contro uno degli stati parti sia considerato
un attacco rivolto contro tutte le parti, le quali si impegnano ad assistere militarmente lo stato attaccato.
Simili patti difensivi, proprio per il fatto di inquadrarsi nella figura della legittima difesa collettiva prevista
all’art 51 della carta, sono in principio sottratti alle disposizioni del capitolo VIII della carta delle nazioni
unite che riguardano il controllo del consiglio di sicurezza sulle azioni coercitive intraprese da organizzazioni
regionali. (Nel 1986 la CIDG nel caso “attività paramilitari e militari in e contro Nicaragua” ha precisato che
affinchè l’intervento armato di tre stati a titolo di legittima difesa collettiva sia ammissibile, occorre una
precisa richiesta d’aiuto. In questo caso la corta ha ritenuto che le attività militari degli Stati uniti contro il
Nicaragua non potevano giustificarsi quali atti di legittima difesa a supporto della Costa rica, di El salvador e
Honduras, a loro volta presunte vittime di un attacco da parte del Nicaragua, poiché non risultava provata
alcuna richiesta di assistenza da parte dei paesi menzionati).

Nel qualificare come naturale il diritto di legittima difesa spettante agli stati, l’art 51 rinvia a fonti esterne
alla carta, ovvero alle norme generali del diritto internazionale consuetudinario.
E’ dunque prima di tutto una norma consuetudinaria del diritto internazionale che stabilisce i requisiti
essenziali della legittima difesa.

I requisiti essenziali della legittima difesa sono: immediatezza, necessità e proporzionalità (INP):

1. Immediatezza: atto di difesa deve avere una continuità cronologica con l’attacco armato. Il
requisito va interpretato con una certa elasticità, tenendo conto del carattere di continuità della
situazione creata da un attacco armato e del lasso di tempo necessario allo stato attaccato per
organizzare la reazione difensiva.
2. Necessità: atto di difesa deve essere l’unica via per poter respingere l’attacco armato.
3. Proporzionalità: l’intensità della reazione difensiva deve essere proporzionale alle dimensioni
dell’attacco armato subito.
L’apprezzamento delle due condizioni (necessità e proporzionalità) dipenderà dalle circostanze di ciascun
caso di specie.

Altre difficoltà interpretative legale all’istituto della legittima difesa nascono dall’ambiguità o dalle
omissioni del testo dell’art 51 della carta. Ciò è vero anzitutto per la nozione di attacco armato che non è
definita dalla carta e riguardo alla quale l’impiego di formule diverse nelle versioni linguistiche inglese e
francese della stessa rivela diverse sfumature di significato.
Pare da escludere una perfetta coincidenza tra la nozione di uso della forza oggetto della proibizione
stabilita all’art 2 par. 4, la nozione di attacco armato prevista all’art. 51 e quella di aggressione prevista
all’art 39 come presupposto dell’azione del consiglio.
Se è lecito supporre che le tre nozioni si distinguano per un differente grado di intensità e gravità, può poi
essere difficile, in una situazione concreta, stabilire se (e a quali fini) un certo uso della forza (da
considerarsi comunque illecito alla luce del divieto art 2 par.4) vada qualificato come aggressione o come
attacco armato. Con riferimento a queste due ultime nozioni in particolare si può ipotizzare che le maggiori
differenze tra l’una e l’altra si producano a livello delle conseguenze giuridiche ad esse associate.
Il diffondersi di attacchi violenti di stampo terroristico contro obiettivi non solo militari ma anche civili, ha
fornito un ulteriore motivo per ampliare la nozione di attacco armato e il ricorso alla correlativa
giustificazione della legittima difesa da parte dello stato colpito. La risoluzione adottata dal consiglio il
giorno successivo all’11 settembre del 2001 afferma che attentati terroristici di simili dimensioni possono
essere equiparati a veri e propri attacchi armati.
La nozione di attacco armato si presta ad una grande varietà di interpretazioni, pur mantenendo fissa la
convinzione che non vi sia perfetta coincidenza con “uso della forza” e “aggressione”.
Il fenomeno del terrorismo transnazionale ha posto altresì il diverso problema se la legittima difesa possa
essere esercitata contro i c.d. enti non statali, ovvero contro soggetti diversi dagli stati, quali individui o
gruppi di individui privati (reti terroristiche, gruppi insurrezionali o paramilitari), nel caso questi siano autori
di atti di gravità tale da ammontare ad attacchi armati rivolti contro uno stato. La legittima difesa non vale
solo contro uno Stato ma anche contro gruppi terroristici ed enti non statali.

Altra problematica legata al diritto alla difesa sta nello stabilire quando sorga il diritto di uno Stato
sottoposto ad attacco armato a reagire. L’art 51 sembra proporre un’interpretazione restrittiva (sembra
legare il diritto alla legittima difesa all’attualità dell’attacco armato), mentre la prassi suggerisce un
approccio differente, più elastico ammettendo la figura della legittima difesa preventiva.
È ammessa la difesa preventiva, ossia è considerata legittima la difesa di uno Stato esposto al pericolo di un
attacco armato certo e imminente ma non ancora verificatosi (Israele nella guerra dei 6 giorni non attese di
essere attaccato ma iniziò una propria azione militare). Lo stato può intraprendere un’azione difensiva volta
a evitarne l’accadimento.
La prassi annovera altresì tentativi di ampliare ulteriormente la figura della legittima difesa prevenitiva, che
viene talora spinta fino al punto di giustificare la risposta armata dello stato volta a sventare o scongiurare
la semplice minaccia, congettura o prospettiva di attacchi armati futuri e potenziali. Si parla di legittima
difesa preclusiva.
È discussa l’ammissibilità della difesa preclusiva, ossia la difesa di uno Stato non per prevenire il pericolo
concreto di un attacco armato ma per precludere la possibilità che questo si verifichi (Israele che distrugge
un impianto nucleare dell’Iraq destinato alla produzione di energia per scopi pacifici).
La figura della legittima difesa preclusiva è stata ripresa e applicata nel più ampio contesto della lotta
contro il terrorismo internazionale e contro gli stati ritenuti essere complici o sostenitori di gruppi
terroristici.

Gli USA hanno fatto vasto uso della legittima difesa preclusiva contro contro l’Iraq (accusato di possedere
armi di distruzione di massa). Si giustifica la legittimità di tale figura non con l’art 51 (in quanto
oggettivamente incompatibili) ma affermando l’esistenza di una norma di diritto consuetudinario
sviluppatasi sotto l’impulso della prassi in materia di lotta contro il terrorismo e proliferazioni delle armi di
distruzione di massa. Questa posizione non appare conforme al diritto internazionale (come affermano
diversi documenti) in quanto i requisiti dei presupposti della legittima difesa preclusiva sono totalmente
rimessi alla discrezionalità dei singoli Stati e in quanto è difficile provare la corrispondenza con i requisiti
della necessità e della proporzionalità.

Ipotesi di ricorso alla forza armata in forza di norme consuetudinarie


Intervento armato per fini umanitari
Abbiamo detto che vi sono eccezioni al divieto di uso della forza previste dalla Carta (misure coercitive
implicanti l’uso della forza autorizzate dal CdS e legittima difesa). Si discute se poi vi possano essere
eccezioni al principio generale di diversa fonte, ossia provenienti da consuetudini internazionali. In
particolare si ipotizza il diritto di intervento armato a fini umanitari, secondo cui sarebbe lecito l’impiego
della forza armata per far terminare gravi e massicce violazioni dei diritti umani quali genocidio, crimini di
guerra o crimini contro l’umanità, commesse all’interno di uno stato.

L’India, sulla base del diritto di intervento armato a fini umanitari, è intervenuta in Bangladesh nel 1971 in
modo da far cessare le pesanti violazioni dei diritti umani perpetrate dalle autorità pakistane che avevano
causato un flusso di rifugiati verso il territorio indiano. Nel 1999 la NATO ha motivato l’intervento di 10
propri Stati membri contro la Iugoslavia dicendo di aver agito per far cessare l’imminente catastrofe
umanitaria, sebbene il CdS si fosse limitato ad adottare misure coercitive non implicanti l’uso della forza (un
embargo), senza autorizzare un intervento armato. Circa l’intervento armato della NATO in Iugoslavia la
Corte Internazionale di Giustizia ha affermato, pur senza entrare nel merito della questione, che la stessa
solleva serie questioni di diritto internazionale: falliti i tentativi di un accordo tra il governo di Belgrado (che
poneva in essere violente repressioni verso la minoranza albanese del Kosovo) e i secessionisti del Kosovo,
senza l’avvallo del consiglio di sicurezza, alcuni membri della nato decisero unilateralmente l’avvio di una
massiccia campagna di bombardamenti aerei contro il territorio della Iugoslavia e del Kosovo. I membri
invocavano apertamente l’argomento umanitario per giustificare il ricorso alla forza armata. Diversi altri
membri del consiglio censuravano l’intervento militare degli stati della nate come flagrante violazione del
divieto di uso della forza e della carta delle nazioni unite. L’India in particolare sottolineava come un torto
(violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione albanese del Kosovo) sommato ad un altro torto
(aggressione armata contro territorio della Iugoslavia) non avrebbero potuto dare come esito una cosa
giusta. L’azione militare in Kosovo, poi conclusa nel giugno 1999 con il ritiro dalla provincia della Iugoslavia
e l’insediamento di un’amministrazione provvisoria delle nazioni unite, ha innescato negli anni seguenti un
articolato dibattito circa l’ammissibilità in diritto internazionale dell’intervento umanitario armato.

Inoltre, dal rapporto “A more secure world: our shared responsability” del 2004 elaborato dalle 16
personalità di alto livello su minacce, sfide e cambiamenti, la responsabilità di proteggere sembra emergere
quale norma del diritto internazionale che postula quale corollario della sovranità il dovere di ciascuno
Stato di proteggere i propri cittadini da gravi violazioni dei diritti dell’uomo e da fenomeni quali il genocidio,
uccisioni di massa, pulizia etnica; in caso di incapacità o mancanza dello Stato responsabile dell’esercizio di
tale dovere, la norma ammetterebbe un intervento sostitutivo, anche armato da parte della comunità
internazionale, da svolgersi collettivamente attraverso il Cds e i meccanismi del capitolo 7 della carta.
Emerge quindi il diritto ad un intervento armato per fini umanitari ma non su iniziativa unilaterale degli
Stati (come avviene invece in Iugoslavia).

Le tre condizioni basilari per giustifica l’intervento armato umanitario sono:


1) la prova convincente, generalmente accettata dalla comunità internazionale, di una situazione di
estremo pericolo umanitario su larga scala;
2) l’oggettiva inesistenza di alternative credibili all’uso della forza per salvare vite umane;
3) la necessità e la proporzionalità dell’azione armata rispetto al fine di alleviare la sofferenza umanitaria.

Altre ipotesi di ricorso legittimo alla forza armata


Sono previsti altre ipotesi in cui il ricorso alla forza armata è legittimo in forza di norme consuetudinarie di
diritto internazionale:
• Consenso: esercizio di forza armata da parte di uno Stato entro i confini di un altro Stato consentite
dal primo. Tale consenso può essere motivato da diverse ragioni. Il consenso dello stato territoriale
corrisponde alla generale causa di esclusione dell’illecito prevista dall’art 20 del progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale degli stati per fatti internazionalmente illeciti adottato dalla
commissione del diritto internazionale delle nazioni unite nel 2001 e deve osservare le condizioni
basilari stabilite: il consenso deve essere valido cioè espresso dall’autorità abilitata a formularlo sul
piano internazionale e non viziato da coercizione, mentre l’intervento armato altrui deve
mantenersi entro i limiti di quanto consentito.
Di persistente attualità è la questione della idoneità del consenso a fungere da giustificazione per
interventi militari esterni in guerre civili, moti insurrezionali o altri disordini interni, effettuati su
richiesta del governo al potere in uno stato e a supporto di quest’ultimo (intervento armato su
invito o sollecitato). La legittimità in questi casi va valutata con cautela. Occorre tener conto
dell’ulteriore considerazione che anche il consenso, come le altre cause di esclusione dell’illecito
codificate nel progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli stati del 2001, non può
essere invocato per legittimare la violazione di una norma di ius cogens, categoria cui si ritiene
appartenere il divieto dell’uso della forza.
• Intervento a tutela di cittadini all’estero: la prassi offre diversi esempi di operazioni militari
effettuate da uno stato in territorio altrui e motivate dall’esigenza di portare in salvo propri
cittadini che versino in una situazione di pericolo per la vita. E’ molto dibattuta la configurabilità
dell’intervento a tutela di cittadini all’estero quale autonoma eccezione al divieto dell’uso della
forza in quanto i vari episodi rilevanti hanno ricevuto reazioni contrastanti nella comunità
internazionale. Resterebbe aperta la possibilità di ricorrere per analogia all’esimente generale
dell’estremo pericolo (distress), codificata nel progetto quale causa di giustificazione del
comportamento illecito dello stato che intenda salvare vite umane affidate alle proprie cure.
Tuttavia in questo caso bisognerebbe tener conto dei limiti propri di tale figura e in particolare del
fatto che il comportamento illecito non deve creare un pericolo comparabile o maggiore di quello
che si intende evitare.
• Rappresaglie armate: non sono certamente giustificabili attraverso la categoria generale delle
contromisure previste all’art 22 del progetto, le rappresaglie armate assunte da uno stato in
reazione ad un illecito (reale o presunto) subito. Nel diritto internazionale bellico, s'intende per
rappresaglia un'azione di autotutela effettuata da uno Stato contro un altro Stato, in risposta a un
precedente atto illecito commesso dal secondo contro il primo.
Viene inoltre definita rappresaglia un'azione punitiva caratterizzata da inumanità e da violenza
indiscriminata, posta in essere da una forza occupante ai danni della popolazione civile della
regione occupata. In quest'ultima accezione, la rappresaglia è vietata dal diritto internazionale.
La vigenza di un divieto di rappresaglie armate (corollario del divieto dell’uso della forza sancito art
2 par.4 carta) è pacifica e confermata dalla prassi e da prese di posizioni conformi degli stati. Nella
dichiarazione sulle relazioni amichevoli tra stati, adottata dall’assemblea generale nel 1970,
afferma in termini inequivocabili che gli stati hanno il dovere di astenersi da atti di rappresaglia
implicanti l’uso della forza. Lo stesso consiglio di sicurezza ha condannato in diverse occasioni quali
rappresaglie incompatibili con i fini e i principi delle nazioni unite episodi di ricorso unilaterale alla
forza da parte di uno stato. Le contromisure non possono pregiudicare l’obbligo di astenersi dalla
minaccia o dall’uso della forza.
In diverse occasioni gli stati hanno invocato l’esimente della legittima difesa per tentare di
giustificare loro azioni che, mancando i presupposti di tale figura, altro non sono che rappresaglie
armate vietate dal diritto internazionale.
• Necessità: nella prassi si registrano casi nei quali gli stati hanno giustificato loro interventi armati
con riferimento all’esimente della necessità (stato di necessità), integrata dall’esigenza dello stato
interveniente di salvaguardare propri o altrui interessi essenziali. Un precedente in materia è dato
dal caso Caroline: nel 1837, delle truppe inglesi erano penetrate in territorio statunitense e vi
avevano affondato la nave Caroline, sospettata di fornire armi e munizioni ai ribelli canadesi. Ne era
seguita una controversia tra i governi chiusa da uno scambio di lettere nelle quali i due governi
riconoscevano che infrazioni (in particolare se realizzate mediante il ricorso alla forza) al principio
della integrità territoriale di uno stato potevano ammettersi solo in casi di irresistibile necessità e
dovevano mantenersi entro gli stretti limiti imposti dalla situazione di necessità. Giustificazioni di
questo genere vanno valutate con molta prudenza. In particolare occorre tener conto dei limiti
previsti dall’art 25 del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli stati, dati dal
fatto che la necessità non può giustificare un’azione illecita, pur tesa a salvaguardare un interesse
essenziale dell’agente, se l’azione stessa arreca pregiudizio ad un altro interesse essenziale in gioco.
Anche in questo caso va tenuto presente il generale limite previsto nel progetto sulla responsabilità
per le cause di esclusione dell’illecito, che non possono mai giustificare violazioni di norme di ius
cogens, quale sarebbe la violazione del divieto di uso della forza, almeno nella forma estrema
dell’aggressione.

SECONDO LIBRO

I TRATTATI
Fonti del diritto internazionale

Le categorie di norme del diritto internazionale sono diverse da quelle che valgono per i sistemi di diritto
interno. Non esiste nel diritto internazionale la legge, intesa come un atto scritto che pone norme di natura
generale e astratta, che è adottato secondo procedure predeterminate da appositi organi investiti della
funzione legislativa e che è pubblicato in una raccolta ufficiale. Non c’è alcun organo internazionale che
svolga funzioni simili a quelle dei parlamenti nazionali.
Un ruolo fondamentale hanno invece, nel sistema di diritto internazionale, due categorie di norme che
traggono origine dalla volontà degli stessi soggetti che ne sono i destinatari:
1) i trattati o diritto internazionale particolare
2) norme generali (o consuetudini o diritto internazionale generale).

La corte permanente di giustizia internazionale rilevò che le norme di diritto internazionale emanano dalla
libera volontà degli stati e si esprimono in trattati e consuetudini.

L’art 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (allegato alla Carta delle Nazioni Unite) fa
riferimento ad alcune categorie di norme che la Corte stessa è tenuta ad applicare nella decisione delle
controversie che le sono sottoposte. Queste norme costituiscono una buona enunciazione delle fonti di
diritto internazionale:

• Trattati internazionali sia generali che particolari (diritto internazionale particolare): stabiliscono
norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite
• Consuetudini internazionali: come prova di una pratica generale accettata come diritto
• Principi generali di diritto internazionali riconosciuti dalle nazioni civili

Queste ultime due categorie costituiscono il diritto internazionale generale

• Decisioni giudiziarie e dottrina degli autori più qualificati delle varie nazioni (mezzo solo sussidiario
per la determinazione delle norme giuridiche)
• Ius cogens: categoria di norme elaborate successivamente all’art 38 (e quindi non contenute nel
suo enunciato), avente carattere imperativo, vertice del sistema normativo e non derogabili da
alcuna altra fonte

Non è invece attribuita natura normativa all’equità: una decisione secondo equità e cioè secondo precetti
etici e un bilanciamento di esigenze che può portare a risultati diversi da quanto risulterebbe
dall’applicazione di norme giuridiche, può essere reda dalla corte soltanto qualora le parti le abbiano
concordemente conferito un tale potere.
Obblighi possono anche sorgere, per i soggetti di diritto internazionale, da atti non aventi natura normativa,
come una sentenza, che ha valore obbligatorio soltanto tra le parti in lite e riguardo al caso deciso, o un
atto giuridico unilaterale (promessa, rinuncia, riconoscimento), che crea obblighi soltanto per chi ne è
autore.

Le due principali categorie di fonti, tra quelle espresse dall’art 38 sono date dai trattati e dalle norme
generali. Questa distinzione evoca numerose ulteriori distinzioni: quella tra diritto scritto (i primi) e tra
diritto non scritto (i secondi), quella tra diritto formale e informale, quella tra norme di applicazione
particolare e generale.

Nozione di Trattato
Il diritto dei trattati rappresenta uno dei più importanti aspetti dell’opera di codificazione del diritto
internazionale promossa dalle nazioni unite. Ne è risultata la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati
aperta alla fine nel 1969 ed entrata in vigore sul piano internazionale nel 1980. La convenzione di Vienna
che è attualmente in vigore per 114 stati, Italia compresa, non si limita a codificare varie regole che erano
già operanti sul piano del diritto internazionale generale, ma contiene alcune disposizioni che costituiscono
uno sviluppo progressivo del diritto internazionale.
La convenzione di Vienna si applica soltanto ai trattati che sono stati conclusi dopo la sua entrata in vigore.
Ma le numerose norme di diritto internazionale generale che corrispondono a quelle contenute nella
convenzione stessa sono vincolanti per tutti gli stati, indipendentemente dal fatto che essi ne siano o meno
parti.
Esclusi (esclusione non significa che tali strumenti non siano dei trattati o che essi non siano regolati dal
diritto internazionale) dall’ambito di applicazione della convenzione di Vienna sono i trattati internazionali
conclusi da stati con altri soggetto di diritto internazionale o da altri soggetti di diritto internazionale tra di
loro.
Sono comunque sottoposti alla convenzione di Vienna i rapporti tra stati parte di trattati multilaterali dei
quali siano anche parte altri soggetti di diritto internazionale.

Sono utilizzati vari termini per definire un trattato; quale che sia il suo nome la sua definizione è contenuta
nell’art 2 lett. a della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: treaty’ means an international
agreement concluded between States in written form and governed by international law, wheter
embodied in a single intrument or in two more related instruments or more related instruments and
whatever its particular designation.

In primo luogo, vi è la redazione di un testo scritto, sia ecco incorporato in un unico strumento o in due o
più strumenti tra di loro collegati, come nel caso del trattato concluso nella forma di scambio di note o
lettere, dove alla proposta di uno stato fa seguito l’accettazione dello stato destinatario. La convenzione di
vienna sembra ammettere l’esistenza di accordi internazionali conclusi in forma non scritta, pur escludendo
di applicarsi a tali accordi. La corte internazionale di giustizia, in alcune sentenze, ha ammesso l’esistenza di
accordi taciti anche se si ritiene che un trattato non possa essere validamente concluso in forma orale o
tacita.
In secondo luogo, occorre che due o più stati o altri soggetti di diritto internazionale abbiano manifestato il
loro consenso a essere giuridicamente vincolanti dalle norme contenute nel testo che hanno redatto. Non
sono pertanto dei trattati gli strumenti di natura politica, variamente denominati (atti, programmi,
dichiarazioni), che gli stati redigono e poi adottano o sottoscrivono senza l’intenzione di attribuire loro
l’effetto di creare diritti e obblighi sul piano giuridico.
Il fatto che il trattato costituisca, per sua natura, uno strumento giuridicamente vincolante nel suo insieme
non esclude che esso possa contenere alcune clausole che, a causa del loro contenuto generico o della loro
redazione (es. uso del modo condizionale invece dell’indicativo) non sono idonee a produrre direttamente
obblighi giuridici.
In terzo luogo deve sussister la volontà di sottoporre lo strumento alle regole del diritto internazionale. Può
talora accadere che gli stati concludano tra loro dei contratti, che sono regolati non dal diritto
internazionale ma da un determinato diritto nazionale.

Da questa definizione possiamo desumere 3 elementi essenziali di un trattato:

1. Consenso (agreement) manifestato da due o più Stati (o altri soggetti di diritto internazionale)
parte
2. Forma scritta (in written form), possono esistere accordi non scritti o addirittura taciti, ma non
sono trattati e non vi si applicano le norme sul diritto dei trattati
3. Volontà di sottoporre lo strumento alle regole del diritto internazionale (governed by international
law)

La pubblicità del trattato non costituisce quindi elemento essenziale dello stesso, anche se poi i vari
ordinamenti costituzionali interni spesso vietano di concludere accordi segreti o ne limitano la segretezza.
Ma nessuna norma di diritto internazionale generale sancisce la nullità di un trattato rimasto segreto. L’art
102 della Carta poi obbliga gli Stati membri a registrare i trattati conclusi presso il Segretariato delle nazioni
unite, e obbliga il segretariato a procedere alla loro pubblicazione, ma se ciò non è posto in essere
semplicemente non si potrà invocare il trattato davanti ad un organo delle Nazioni Unite (può essere sanata
da una registrazione tardiva).

Il procedimento che pone in essere un trattato produttivo di effetti giuridici si sviluppa dal punto di vista
logico e cronologico secondo tre fasi distinte:
1) la redazione del testo
2) la manifestazione del consenso a vincolarsi
3) l’entrata in vigore del trattato

Struttura del trattato


Testo:
Prima fase della produzione del testo è la redazione del testo stesso. Solitamente la redazione del trattato
si svolge mediante negoziati tra Stati interessati, gli Stati assenti o stati che non esistevano al momento del
negoziato possono divenire parte del trattato mediante atto di adesione, se questa possibilità è
espressamente prevista dal testo del trattato o risulta altrimenti convenuta. A volte, soprattutto nel caso di
trattati di minore importanza o meramente esecutivi di altri trattati, il negoziato è sostituito dall’invio da
parte di uno stato di una nota scritta di proposta, in vista della sua accettazione da parte di un altro stato o
di eventuali proposte di modifica. La scelta della procedura di negoziato è libera.

Nel caso di negoziati con ampio numero di partecipanti (conferenze diplomatiche), l’esigenza di un
andamento ordinato delle trattative induce gli stati coinvolti ad accordarsi sulle modalità di svolgimento
delle riunioni tramite l’elaborazione e l’adozione di un regolamento di procedura o regolamento interno.

La seconda fase è l’adozione. Se le trattative hanno esito positivo, il testo del trattato è adottato da parte
degli stati che hanno partecipato alla sua elaborazione. La fine della procedura di negoziato e di redazione
del testo è segnata dall’adozione del testo.
Ex art 9 Convenzione l’adozione del testo si effettua di regola con il consenso di tutti gli Stati futura parte;
tuttavia l’adozione di un testo nell’ambito di una conferenza internazionale (riunione multilaterale
coinvolgente un numero considerevole di Stati) avviene a maggioranza di 2/3 degli stati presenti e votanti
(a meno che gli Stati non decidano, sempre a maggioranza dei 2/3, di applicare regola diversa). Questo
evita che un ristretto numero di stati dissenzienti possano, avvalendosi di un’eventuale regola
dell’unanimità impedire l’adozione di un testo accettabile per tutti gli altri.
Nella pratica, spesso gli stati che partecipano a una conferenza multilaterale fanno tutti gli sforzi possibili
perché un testo venga adottato per consensus, cioè sulla base di una proposta di adozione di un testo
determinato, presentata al momento opportuno dal presidente della conferenza e approvata dagli stati
partecipanti, senza che nessuno di questi richieda formalmente una votazione.

La terza fase è l’autenticazione. Fa seguito all’adozione del testo la sua autenticazione, attestazione da
parte dei rappresentanti degli Stati partecipanti al negoziato dell’autenticità del testo adottato e del suo
carattere definitivo. L’autenticazione avviene di solito con la firma da parte dei plenipotenziari. Vienna
lascia agli stati ampia libertà sulla forma di autenticazione: il testo di un trattato è stabilito come autentico
e definitivo: a) secondo la procedura prevista in questo testo o concordata dagli stati che hanno partecipato
all’elaborazione di un trattato; o b) in mancanza di tale procedura, per mezzo della firma, della firma ad
referendum o della parafatura (firma con una sigla e non con il nome per esteso) da parte dei
rappresentanti di questi stati del testo o dell’atto finale di una conferenza nel quale il testo è incluso.

Plenipotenziari: autorità competenti designate da un dato Stato, mediante un documento che appunto gli
attribuisce pieni poteri, ad adottare o autenticare il testo di un trattato o per compiere ogni altro atto
relativo ad un trattato.
Di solito uno stato partecipa al negoziato con una delegazione, composta da un capo e da vari esperti,
designati a seconda delle materie sulle quali verte il negoziato.
Secondo l’art 7 par.1 della convenzione, una persona è considerata come rappresentante di uno stato se
produce gli appropriati pieni poteri o se risulta dalla pratica degli stati interessati o da altre circostanze che
essi avevano l’intenzione di considerare questa persona come rappresentante dello stato e di non
richiedere la presentazione di pieni poteri.
L’art 7.2 Convenzione individua tre categorie di persone che in ragione delle loro funzioni sono considerate
plenipotenziari senza essere tenuti a presentare un documento di pieni poteri: a) capi di stato, i capi di
governo e i ministri degli affari esteri per tutti gli atti relativi alla conclusione di un trattato; b) i capi di
missione diplomatica per l’adozione del testo di un trattato tra lo stato accreditante e lo stato
accreditatario; 3) e i rappresentanti accreditati degli Stati a una conferenza internazionale o presso
un’organizzazione internazionale o uno dei suoi organi, per l’adozione del testo di un trattato nell’ambito di
questa conferenza, questa organizzazione o questo organo.

In base al diritto internazionale di guerra, la rappresentanza dello stato senza necessità di esibizione di pieni
poteri si estende ai comandanti in capo, per quanto riguarda il negoziato e la conclusione di trattati relativi
alle operazioni militari.

L’atto compiuto da persona che non può essere considerata come abilitata a rappresentare uno stato è
privo di effetti giuridici, a meno che esso sia in seguito confermato da questo stato.

Il testo si compone solitamente di elementi ricorrenti:

A. Titolo e data di apertura alla firma: il titolo identifica il trattato e indica molto sommariamente la
materia oggetto delle sue disposizioni (es. trattato di pace). In passato il titolo era spesso seguito da
un’invocazione alla divinità.
B. Preambolo, parte introduttiva al testo: si enunciano in forma sintetica antecedenti, motivi e
obbiettivi di negoziato e trattato. Solitamente nel preambolo è contenuto anche l’elenco degli Stati
che hanno preso parte al negoziato se un trattato è multilaterale e richiede per la sua entrata in
vigore la partecipazione di tutti questi stati. Altrimenti il riferimento alle parti è operato in modo
generico (le parti contraenti).
C. Parte dispositiva: o precettiva nella quale è specificata la regolamentazione materiale posta in
essere con il trattato. Questa regolamentazione è spesso sistemata secondo varie suddivisioni
redazionali (parti, titoli, capitoli, articoli, paragrafi…).
D. Parte finale: nella quale è raccolta tutta una serie di disposizioni, dette clausole finali in tema di
entrata in vigore del trattato e questioni relative alla sua efficacia (es. modalità di espressione del
consenso di uno Stato a vincolarsi, sfera di applicazione, durata del trattato).

La lingua

Nei secoli passati, il testo dei trattati era prevalentemente redatto in lingua latina. A partire dalla seconda
metà del XVIII secolo, il francese ha sostituito il latino come lingua diplomatica e come lingua di stesura dei
trattati.
La pratica di redigere il trattato in un’unica lingua ha subito un declino. Mentre nei trattati bilaterali è
diffuso l’uso di predisporre il testo in entrambe le lingue delle parti, nel caso di trattati multilaterali il testo
è redatto in una pluralità di lingue, che sono di solito considerate tutte parimenti autentiche, dotate cioè di
pari valore ai fini dell’interpretazione del trattato. In questi casi, il testo del trattato, che rimane
concettualmente uno solo, è costituito dalla somma dei singoli testi nelle diverse lingue autentiche. Gli
inconvenienti del pluralismo linguistico e del fatto che molti stati ritengano disonorevole rinunciare a
redigere un trattato nella propria lingua, sono particolarmente pesanti quando, emergono divergenze di
significato tra norme redatte in due o più lingue ugualmente autentiche.
Manifestazione del consenso a vincolarsi: La firma del testo scritto di un trattato non esprime il consenso a
vincolarsi, la fase della formazione del testo è ben distinta da quella della manifestazione del consenso a
vincolarsi, ossia la stipulazione (a differenza di quanto avviene in ambito di diritto privato con il contratto).

Ad esempio in Italia, secondo quanto espresso da norme di rango costituzionale, il governo (o suoi
rappresentanti) partecipano alla fase del negoziato e dell’adozione del testo, mentre è privo di vincolare lo
Stato all’osservanza del trattato stesso, potere che è condiviso con il parlamento (che approva legge di
ratifica) e con il capo di stato (che firma la legge di ratifica).

Di regola la manifestazione del consenso a vincolarsi non è soggetta a prescrizioni d’ordine formale. Questo
consenso può essere espresso con la firma, lo scambio degli strumenti costituenti un trattato, la ratifica,
l’accettazione, l’approvazione o l’adesione, o con ogni altro mezzo convenuto. Gli stati restano liberi di
accordarsi nelle apposite disposizioni finali di un trattato, per esprimere il loro consenso a obbligarsi in
qualsiasi forma ritengano opportuno.

Il consenso può essere manifestato con qualsiasi forma gli Stati vogliano, secondo quanto contenuto nelle
disposizioni finali del trattato. Nella prassi sono adottate due forme di espressione del consenso:

• Forma semplificata: consenso a vincolarsi è manifestato mediante la sola firma da parte del
rappresentante dello Stato (quando il trattato prevede che la firma abbia questo effetto; quando è
altrimenti stabilito che gli stati che hanno partecipato al negoziato avevano convenuto che la firma
avesse questo effetto; o quando l’intenzione dello stato di dare questo effetto alla firma risulta dai
pieni poteri del suo rappresentante o è stata espressa nel corso del negoziato.
Un’altra forma semplificata di stipulazione è data dallo scambio di strumenti (note/lettere) che
costituiscono il trattato. A una nota di proposta inviata da parte di uno stato, fa seguito una nota
con la quale lo stato destinatario dichiara di accettare il testo proposto, che viene integralmente
ripetuto nella nota di risposta. Il consenso degli stati a essere vincolati da un trattato costituito
dagli strumenti scambiati tra di loro si esprime per mezzo di questo scambio quando gli strumenti
prevedono che il loro scambio abbia questo effetto; o quando è altrimenti stabilito che questi stati
avevano convenuto che lo scambio degli strumenti avesse questo effetto.
• Forma solenne: consenso a vincolarsi si manifesta mediante scambio o deposito di apposita a sé
stante dichiarazione scritta di accettazione o approvazione detta ratifica. (ci sono casi in cui art 14.1
prevede espressamente forma solenne: quando il trattato prevede che questo consenso si esprime
per mezzo della ratifica; quando è altrimenti stabilito che gli stati hanno partecipato al negoziato
avevano convenuto che la ratifica fosse richiesta; quando il rappresentante dello stato ha firmato il
trattato con riserva di ratifica o quando l’intenzione dello stato di firmare il trattato con riserva di
ratifica appare dai pieni poteri del suo rappresentante o è stata espressa nel corso del negoziato.
Alla ratifica sono equiparate l’accettazione e l’approvazione. La corte internazionale di Giustizia ha
escluso che uno stato che non ha adempiuto alle prescritte formalità di ratifica possa
implicitamente presumersi vincolato a un trattato in forza della sua condotta o di sue dichiarazioni.

Tra le forme solenni di espressione del consenso a vincolarsi va inclusa, benchè essa non sia esplicitamente
indicata nella convenzione di vienna, la previsione che la firma del trattato sia seguita da una notifica da
parte dello stato del completamento delle procedure prescritte dal suo diritto interno per vincolarsi a un
trattato.

L’adesione è una particolare forma solenne di manifestazione del consenso di uno stato a essere vincolato
da un trattato che si verifica quando un trattato presenta carattere aperto, cioè quando gli Stati che hanno
redatto e adottato il testo convengono che la partecipazione al trattato sia consentita a determinati altri
Stati (o addirittura tutti), tramite un apposto atto scritto (appunto l’adesione). L’adesione quindi è il modo
attraverso cui Stati rimasti estranei ai negoziati possono divenire parte di un dato trattato quando il
trattato prevede che questo consenso può essere espresso da questo stato per via d’adesione; quando è
altrimenti stabilito che gli stanti che hanno partecipato al negoziato avevano convenuto che questo
consenso poteva essere espresso da questo stato per via d’adesione; o quando tutte le parti hanno in
seguito convenuto che questo consenso poteva essere espresso da questo stato per via d’adesione.
Una simile possibilità è strettamente legata all’accordo, preventivo o successivo, degli stati che hanno
partecipato al negoziato, non esistendo in diritto internazionale alcuna norma generale che attribuisca un
diritto di aderire a trattati conclusi da altri.

Entrata in vigore: Con entrata in vigore si intende il momento in cui il trattato comincia ad avere efficacia.
Si ha entrata in vigore di un trattato secondo quanto stabilito dalle sue disposizioni circa l’entrata in vigore
o sulla base di un accordo tra stati che hanno partecipato al negoziato. In mancanza di tali disposizioni, un
trattato entra in vigore quando tutti gli Stati che hanno preso parte al negoziato esprimono il consenso a
vincolarsi (art 24).
La maggior parte dei trattati, fatta eccezione per i trattati conclusi in forma semplificata che spesso entrano
in vigore al momento della loro firma, dedica un’apposita clausola finale alle modalità di entrata in vigore.
Nel caso di trattati bilaterali, l’entrata in vigore è prevista nel giorno dello scambio degli strumenti di ratifica
(o accettazione o approvazione) o una volta decorso un certo periodo di tempo da tale giorno,
Nel caso di trattato multilaterali, soprattutto qualora essi siano aperti alla partecipazione di tutti gli stati, la
data di entrata in vigore è di solito prevista una volta decorso un determinato tempo dal giorno in cui si è
raggiunto il deposito di un determinato numero di strumenti di ratifica o adesione.
Talora condizioni particolari sono richieste per l’entrata in vigore di un trattato, in considerazione del suo
oggetto (es. vari trattati conclusi nell’ambito dell’organizzazione marittima internazionale prevedono, per la
loro entrata in vigore, anche condizioni relative al tonnellaggio delle flotte mercantili degli stati).

Alla data di entrata in vigore, il trattato produce effetti solo nei confronti degli Stati che hanno depositato i
propri strumenti di manifestazione del consenso a vincolarsi. Per gli stati che depositano i loro strumenti
successivamente, il trattato entra in vigore una volta decorso un tempo determinato dalla data dei rispettivi
depositi. Può anche darsi che un trattato, sia esso bilaterale o multilaterale, non entri mai in vigore, non
essendosi realizzate le condizioni a questo necessarie.

Lo Stato che ha acconsentito a vincolarsi al trattato si dice “parte contraente”, mentre lo Stato che ha
acconsentito a essere vincolato dal trattato e per il quale il trattato è entrato in vigore si dice
semplicemente “parte”.

Le parti possono convenire o nel testo stesso del trattato o in altro strumento (anche successivo), che il
trattato si applichi a titolo provvisorio, in attesa della sua effettiva entrata in vigore. L’applicazione
provvisoria viene poi a cessare in caso uno Stato decidesse di non divenire parte al trattato, salvo che sia
diversamente stabilito.

Valore obbligatorio delle disposizioni finali relative alla forme di stipulazione

Indipendentemente dalla futura entrata in vigore di un trattato concluso in forma solenne, è da ritenere
che molte tra le disposizioni finali in esso inserite siano immediatamente produttive di effetti giuridici per
gli stati che hanno adottato il testo del trattato, in particolare, le disposizioni relative ai modi e ai tempi per
la stipulazione del trattato e alle altre questioni che si pongono prima della sua entrata in vigore.

L’effetto obbligatorio di tali disposizioni, nel periodo intercorrente tra l’adozione del testo del trattato e la
sua entrata in vigore, può intendersi come derivante da un consenso implicitamente manifestato dagli stati
che hanno partecipato al negoziato. Gli stati non sono tenuti a manifestare il loro consenso a vincolarsi; ma,
se decideranno di manifestarlo, potranno farlo soltanto nei medi previsti dalle disposizioni finali del
trattato. La convenzione di Vienna prevede che le disposizioni di un trattato che regolano l’autenticazione
del testo, la determinazione del consenso dello stato a essere vincolato dal trattato, le modalità o la data di
entrata in vigore, le riserve, le funzioni del depositario, così come le altre questioni che si pongono
necessariamente prima della data di entrata in vigore del trattato, sono applicabili dal momento
dell’adozione del testo.

Prima del momento della sua entrata in vigore, il trattato non è produttivo di effetti giuridici. In caso di
stipulazione in forma solenne, gli stati che hanno firmato il trattato non sono affatto obbligati a prestare il
loro consenso a vincolarsi.
L’art 18, in applicazione del principio generale di buonafede, prevede uno specifico obbligo di non
comportarsi in modo tale da privare il trattato del suo oggetto e scopo; questo obbligo sussiste nei
confronti di Stati che non hanno preso parte al negoziato ma che potrebbero divenire parte al trattato.

Riserve: La riserva è una dichiarazione attraverso cui uno Stato esprime la sua volontà di limitare gli effetti
giuridici del trattato nei propri confronti ex art 2 lett. b. La riserva può essere:

• Esclusiva: esclude l’applicazione di determinate clausole.


• Modificativa: modifica gli effetti giuridici di determinate disposizioni.
• Territoriale: esclude l’applicazione del trattato (o di una sua parte) in una porzione del territorio di
uno Stato.
• Interpretativa: subordina l’applicazione di determinate disposizioni al fatto che siano interpretate
in un certo modo.

Spesso le riserve vanno a confondersi con dichiarazioni, prese di posizione che formalmente non vogliono
escludere o modificare gli effetti giuridici del trattato ma nei fatti comportano ciò. Questo tipo di
dichiarazioni sono vietate, perché formalmente dichiarazioni ma sostanzialmente riserve (soprattutto
riserve interpretative).
Es. la convenzione delle nazioni unite sul diritto del mare vieta le riserve, ma ammette le dichiarazioni,
purchè non tendenti a produrre gli stessi effetti di una riserva.

Il tema delle riserve sembra riferibile ai soli trattati multilaterali: se fosse apposta a un trattato bilaterale, la
riserva assumerebbe il significato di una proposta di emendamento del testo.
Ma il regime delle riserve previsto dalla convenzione di vienna non fa distinzioni circa la natura bilaterale o
multilaterale del trattato.

Il regime delle riserve ai trattati presenta varie complessità, dovute alle difficoltà di conciliare in modo
soddisfacente l’esigenza di salvaguardare l’integrità dei trattati con l’esigenza di assicurare la
partecipazione più ampia possibile agli stessi. Le norme contenute in proposito nella convenzione di vienna
non sono sempre sufficientemente chiare. Esse vanno oggi integrate con le linee guida contenute nella
guida alla pratica sulle riserve ai trattati elaborata nel 2011.

Lo stato che formula la riserva diviene parte al trattato con le modificazioni previste dalle riserve.
La riserva deve essere ammissibile. L’ammissibilità è certamente esclusa quando lo stesso trattato escluda
la possibilità di operare riserve. Nei casi in cui non siano previste disposizioni sull’ammissibilità di riserve si
pone un problema: ci si chiede se uno stato possa presentare una riserva e divenire parte al trattato con le
modificazioni che la riserva comporta. Sono state individuate 3 risposte:

1. Stati hanno diritto innato a formulare riserve a loro discrezione, poggia sul presupposto della
sovranità dello Stato. Tesi oggi superata
2. Integrità dei trattati: gli obblighi non possono essere alterati, una volta che il trattato è entrato in
vigore, se non con il consenso di tutti gli Stati.
3. Flessibilità dei trattati: la riserva entra in vigore tra lo Stato che la presenta e gli Stati parte che la
accettano. Ovviamente la riserva deve essere compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato (non
deve pregiudicare un elemento essenziale che è necessario per la sua economia generale, in modo
tale che la riserva alteri la ragion d’essere del trattato).
Questa tesi è stata assecondata dalla CIdG.

E’ chiaro che le riserve generali, che cioè riguardano tutte le disposizioni del trattato o che sono formulate
in termini così vaghi che non consentono di determinarne il loro preciso campo di applicazione, come pure
le riserve che subordinano l’applicazione dell’intero trattato al fatto che esso sia compatibile con le norme
del diritto interno di uno stato, sono radicalmente in contrasto con l’oggetto e lo scopo del trattato nel suo
complesso.

Inammissibili sono anche le riserve tardive, cioè le riserve formulate da uno stato dopo che esso ha
manifestato il suo consenso a vincolarsi a un trattato. Tuttavia, la guida alla pratica ammette anche tali
riserve, se esse sono previste dal trattato o se nessuno tra gli altri stati contraenti si sia opposto alla
formulazione tardiva della riserva, entro 12 mesi da quando la riserva gli sia stata notificata.

La riserva inammissibile va considerata invalida, nel senso che essa è dall’inizio inidonea a produrre gli
effetti, indipendentemente da qualsiasi accettazione o obiezione.

Accettazione o obiezione

Una riserva espressamente autorizzata da un trattato non richiede una successiva accettazione da parte
degli altri stati contraenti, a meno che il trattato preveda diversamente.
L’accettazione della riserva ad opera di tutte le parti è richiesta quando risulta dal numero limitato degli
stati che hanno partecipato al negoziato, come pure dall’oggetto e dallo scopo di un trattato, che
l’applicazione del trattato nella sua integrità tra tutte le parti è una condizione essenziale del consenso di
ciascuna di esse ad essere vincolata al trattato.
In tutti gli altri casi, quando una riserva valida è depositata da uno stato contraente, agli altri stati
contraenti si presenta una scelta tra due possibilità:

A. Accettazione della riserva: L’accettazione di una riserva da parte di un altro stato contraente fa
dello stato autore della riserva una parte al trattato, così come modificato dalla riserva, nei
confronti di quest’altro stato, a partire dal momento in cui il trattato entra tra di loro in vigore.
Trattato si applica come previsto dalla riserva. Vale una presunzione di accettazione per la quale a
meno che un trattato disponga diversamente, una riserva si ha per accettata da uno stato, se
quest’ultimo non ha formulato un’obiezione alla riserva sia allo scadere dei 12 mesi che seguono la
data in cui ne ha ricevuto notificazione, sia alla data in cui ha espresso in suo consenso a essere
vincolato dal trattato, se questa è successiva. Gli effetti dell’accettazione della riserva sono di
norma reciproci, a meno che ciò non sia possibile per la natura della riserva (ad esempio riserva
territoriale).
E’ ovvio che la riserva non modifica le disposizioni del trattato nei rapporti che intercorrono tra le
parti diverse dallo stato autore della riserva.
B. Obiezione: se uno o più Stati presentano un’obiezione ad una riserva ma non si era opposto
all’entrata in vigore del trattato tra sé e l’autore della riserva (obiezione semplice), le disposizioni
sulle quali verte la riserva non si applicano tra i due stati “nella misura prevista dalla riserva ex art
21.3”. Cosa vuol dire (ambigua virgola che compare nel testo in francese e in inglese)?
Secondo una prima analisi il trattato si applica tra i due Stati come se la riserva non fosse stata
posta. In altre parole, lo stato che presenta la riserva corre il rischio che, a seguito di un’obiezione,
il trattato si applichi integralmente nei suoi rapporti con lo stato obiettore.
Tuttavia la Guida alla pratica propone una diversa e più complessa interpretazione (a seconda del
tipo di riserva) dell’art 21.3:
➢ Riserva modificativa: l’obiezione produce l’effetto di non consentire nei rapporti tra lo stato
autore e lo stato obiettore l’applicazione della disposizione del trattato toccata dalla riserva
come essa è modificata dalla riserva (la riserva si ha per non apposta).
➢ Riserva esclusiva: l’obiezione avrebbe l’effetto di escludere nei rapporti tra lo stato autore
e lo stato obiettore l’applicazione della disposizione toccata dalla riserva.

La conclusione è contraddittoria in quanto obiezione e accettazione della riserva producono lo stesso


risultato.

Resta a disposizione dello stato obiettore la seconda alternativa, cioè quella di opporsi all’entrata in vigore
del trattato nei confronti dello stato autore della riserva. In questo caso è l’intero trattato che non produce
effetto tra i due stati in questione.

La riserva, l’accettazione espressa di una riserva e l’obiezione a una riserva devono essere formulate per
iscritto e comunicate agli stati contraenti e agli stati che hanno qualità per divenire parti al trattato.
Quando è stata formulata al momento della firma del trattato sotto riserva di ratifica, di accettazione o di
approvazione, una riserva deve essere confermata formalmente dallo stato che ne è l’autore, al momento
in cui esso esprime il suo consenso a essere vincolato dal trattato. In questo caso la riserva si ha per
apposta alla data in cui essa è stata confermata.

A meno che il trattato disponga diversamente, la riserva può essere ritirata in qualsiasi momento, senza che
occorra il consenso degli stati che l’hanno accettata.
A meno che il trattato disponga diversamente, il ritiro della riserva deve essere fatto per iscritto e ha
effetto quando la sua notifica è stata ricevuta dagli altri stati contraenti.

Adempimento

Ex art 26 i trattati in vigore hanno natura obbligatoria per tutte le parti e devono essere eseguiti in
buonafede (nonostante qualsiasi norma di diritto interno). Questa rappresenta la cd. regola dei pacta sunt
servanda (i patti devono essere osservati), cui è attribuita la natura di norma generale del diritto
internazionale.

Se in vigore, il trattato vincola le parti, nonostante qualsiasi disposizione del loro diritto interno.

La violazione del trattato o il ritardo nell’adempimento costituiscono un illecito internazionale e fanno


sorgere responsabilità internazionale.

Il fatto che, secondo il diritto internazionale, la più insignificante norma di un trattato prevalga sulla più
solenne norma del diritto interno di un trattato parte non è sempre tenuto nel debito conto all’interno
degli stati.

Un trattato internazionale regolarmente ratificato e pubblicato, fa legge nello stato al pari di ogni altra
norma legislativa dell’interno e vincola quindi tutti i suoi organi ed in particolare i giudici, i quali, come sono
in obbligo di interpretare e di applicare le varie leggi in modo che non ne risultino contraddizioni od
incongruenze, sono in obbligo di fare altrettanto anche riguardo ai trattati stipulati dallo stato dal quale
dipendono.

Le disposizioni del trattato si applicano solo tra Stati parte, che non può creare obblighi in capo a Stati terzi
(come affermato ex art 34) e cioè per soggetti che sono estranei alla regolamentazione concordata dalle
parti.

Può accadere che le parti, con intento declaratorio del diritto esistente, includano in un trattato norme
corrispondenti a norme internazionali generali. In questi casi anche gli stati terzi sono tenuti a osservare tali
norme in conseguenza della loro natura generale.
Può accadere che da un trattato derivino singoli diritti o obblighi per gli stati che non ne sono parte, se sono
soddisfatte due condizioni:

I. Parti intendano creare obblighi o diritti in capo a Stati non parte


II. Stati terzi accettino tali diritti od obblighi. Per i diritti l’accettazione può essere presunta, mentre
per gli obblighi è richiesta accettazione espressa.

Lo stato che esercita un diritto derivante da un trattato di cui non è parte è tenuto a rispettare le condizioni
previste nel trattato per l’esercizio di tale diritto.

La convenzione distingue due ipotesi circa la revoca o la modificazione degli obblighi o dei diritti dello stato
terzo. L’obbligo può venire revocato o modificato soltanto con il consenso delle parti del trattato e dello
stato terzo, a meno che sia stabilito che essi avevano diversamente convenuto. Il diritto non può essere
revocato o modificato dalle parti, se risulta che esso non poteva essere revocato o modificato senza il
consenso dello stato terzo.

Applicazione nel tempo e nello spazio

Gli Stati parti sono liberi di determinare (di solito nelle clausole finali del trattato) l’applicazione del trattato
nel tempo e nello spazio. In caso di mancanza di tali previsioni valgono norme generali riprese dalla
Convenzione di Vienna. In mancanza di specifiche previsioni valgono le seguenti norme:

✓ Applicazione territoriale/spaziale: il trattato si applica in tutto il territorio degli Stati parte (a meno
che l’applicazione extra-territoriale sia desumibile dall’oggetto o dallo scopo del trattato, vedi
trattati in materia di diritti umani)
✓ Applicazione temporale: il trattato si applica ex nunc (non retroattivamente).
A meno che una diversa intenzione risulti dal trattato o sia altrimenti stabilito, le disposizioni di un
trattato non si applicano a una parte per quanto concerne un atto o un fatto che ha avuto luogo o
una situazione che ha cessato di esistere prima della data di entrata in vigore del trattato per
questa parte.
In caso di più trattati riguardanti la stessa materia si applica il principio cronologico, eccezion fatta
per la Carta delle Nazioni Unite che prevale sugli altri trattati (in questo caso si applica il principio
gerarchico).
Quando un trattato precisa che esso è subordinato a un trattato anteriore o posteriore o che non
deve essere considerato come incompatibile con esso (clausola di non pregiudizio), le disposizioni
di quest’ultimo trattato prevalgono. Le clausole di non pregiudizio possono anche includere
condizioni.
In mancanza di una clausola di non pregiudizio, se tutte le parti al trattato anteriore sono
ugualmente parti al trattato posteriore, senza che il trattato anteriore possa considerarsi estinto o
sospeso, il trattato anteriore si applica soltanto nella misura in cui le sue disposizioni siano
compatibili con quelle del trattato posteriore.
Se le parti al trattato anteriore non sono tutte parti al trattato posteriore, nelle relazioni tra uno
stato parte ai due trattati e uno stato parte a uno soltanto di questi trattati si applica il trattato al
quale i due stati sono parti.
La convenzione di vienna non precisa tuttavia quale sia il criterio per determinare l’ordine
cronologico di due o più trattati.
A qualsiasi conclusione si pervenga riguardo alla prevalenza di un trattato su di un altro, rimangono
impregiudicate le questioni di responsabilità internazionale che sorgono in capo a uno stato che ha
applicato un trattato le cui disposizioni siano incompatibili con gli altri obblighi a lui incombenti in
base a un altro trattato.
Interpretazione di un trattato

Per le norme speciali di diritto internazionale non si pone, a differenza di quelle generali, il problema
dell’accertamento (dato che il loro testo è redatto per iscritto su di un documento ufficiale depositato
presso un depositario) delle stesse ma solo quello dell’interpretazione delle eventuali disposizioni ambigue.
Un problema di interpretazione di una norma di un trattato si pone quando occorre scegliere un solo
significato tra i due o più significati che quella norma potrebbe avere.
Problemi interpretativi possono sorgere ad esempio a seguito della formazione di nuove norme generali
che rendono ambigua una determinata disposizione, per “volontà” delle parti, in quanto l’intesa a divenire
parti di un dato trattato può essere raggiunta solo mediante una disposizione lasciata volutamente
ambigua o addirittura per il cambiamento di significato dei termini della disposizione:

1) Il problema d’interpretazione sorge inaspettato, senza che le parti al momento del negoziato avessero
minimamente immaginato che più significati fossero ipotizzabili. Questo può anche succedere se, con il
passare del tempo, la formazione di nuove norme generali ha l’effetto di rendere ambigua una
disposizione che era in origine chiara.
Es. interpretazione parole “fino a”. Si include o non si include?
2) In altri casi, il problema d’interpretazione è, in un certo senso, tacitamente voluto dalle parti, che
nell’impossibilità di raggiungere un’intesa su di una specifica norma del trattato, preferiscono rifugiarsi
nella redazione di un testo ambiguo che consenta a ciascuna di esse di sostenere il significato che
preferisce.

L’interpretazione di un trattato è un’operazione logica che mira ad estrapolare dalle disposizioni dello
stesso, norme di diritto internazionale, alla luce del testo del trattato e dei principi generali di diritto
internazionale.

Fonti di norme internazionali sull’interpretazione dei trattati sono la Convenzione di Vienna (artt 31,32 e 33
quantomeno sono i più importanti) e norme generali di diritto internazionale (alcune citate a titolo
esemplificativo anche nella Convenzione).
Le norme del diritto internazionale sull’interpretazione dei trattati devono essere seguite anche dai giudici
nazionali che siano chiamati a interpretare un trattato. Sarebbe un grave errore applicare a un trattato i
criteri di interpretazione che gli ordinamenti interni prevedono.
Qualche trattato che mira a rendere uniformi determinati settori del diritto privato degli stati parte
contiene una clausola in base alla quale nell’interpretazione si deve tener conto del carattere
internazionale del trattato stesso e della necessità di promuovere l’uniformità della sua applicazione. Una
simile clausola obbliga il giudice interno chiamato a interpretare questi trattati a tener conto del modo in
cui essi sono interpretati dai giudici degli altri stati parte.
Un meccanismo ancora più efficace per ottenere l’uniformità di interpretazione di un trattato da parte dei
giudici interni degli stati parte è previsto dal trattato sul funzionamento dell’UE. È previsto che i giudici
interni cui si presenti una questione di interpretazione delle norme del trattato stesso e del diritto da esso
derivato (regolamenti, direttive) sospendano il procedimento, per sottoporre, a titolo pregiudiziale, la
questione al giudice istituito dal trattato stesso (CDGUE corte di giustizia UE). La decisione della corte
vincola il giudice interno per il caso di specie.

Nota: quando si va ad interpretare un trattato si deve tener conto del suo carattere internazionale e della
sua necessità di promuovere l’uniformità interpretativa: il giudice interno, interpretando un trattato, deve
quindi tener conto anche di come altri giudici di altri ordinamenti interni potrebbero interpretare lo stesso. Il
TFUE risolve il problema istituendo la CdGUE.
La regola generale

La Convenzione prevede una regola generale di interpretazione ex art 31 e mezzi complementari di


interpretazione ex art 32 che possono essere utilizzati soltanto a titolo suppletivo. L’art 33 disciplina
l’interpretazione di trattati redatti in più lingue.

Secondo la regola generale un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il senso ordinario
da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Importanza
è quindi data a un criterio testuale od oggettivo d’interpretazione, fondato sul significato ordinario delle
parole. Questo criterio privilegia la natura normativa del trattato. Alla base di questo criterio sta il fatto che
proprio sul testo, al di là delle intenzioni soggettive che animavano chi ha partecipato al negoziato, si
produce la convergenza del consenso a obbligarsi di più stati.
Se le parole da interpretare hanno già un significato, che risulta dal loro senso ordinario e naturale, non si
devono ricercare significati poco evidenti o plausibili.
L’opera di interpretazione non deve però essere limitata a una singola clausola, ma deve estendersi
all’insieme del contesto del trattato cogliendo le relazioni che esistono tra una disposizione e le altre. Il
contesto del trattato va inteso in senso ampio. Esso comprende, oltre al testo, al preambolo e ali allegati,
anche ogni accordo avente rapporto con il trattato che è intervenuto tra tutte le parti in occasione della
conclusione del trattato (es. un protocollo), come pure ogni strumento stabilito da una o più parti in
occasione della conclusione del trattato e accettato dalle altre parti come strumento avente rapporto con il
trattato (es l’atto finale della conferenza).
Le carte geografiche hanno valore, ai fini dell’interpretazione di un trattato, solo se e formano parte
integrante.

i. Di buonafede (in conformità con i principi generali di diritto internazionale e con la regola di
esecuzione del trattato in buonafede, in cui ricade anche l’interpretazione)
ii. Criterio testuale: bisogna attribuire alle disposizioni il loro significato ordinario, interpretando però
il trattato nel suo insieme (cogliendo i nessi tra le varie disposizioni, comprendendo nell’opera
interpretativa del trattato il preambolo e ogni accordo avente rapporto col tratta avvenuto in
occasione della conclusione del trattato, come protocolli aggiuntivi: criterio di interpretazione
autentica; una via di mezzo tra un sotto-criterio di interpretazione testuale ed un autonomo
criterio)

Oltre che dei dati testuali, l’interpretazione deve tener conto dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo
insieme, scartando i significati che appaiono in contrasto con gli obiettivi che il trattato intende realizzare:

iii. Criterio teleologico: il trattato deve essere interpretato alla luce del suo oggetto e scopo. Esempio i
trattati in materia di diritti umani devono essere interpretati conformemente al proprio scopo,
quindi tutelando la parte più debole: l’individuo e non lo Stato parte che è in grado di tutelarsi da
solo. Questo criterio si applica anche quando i termini delle disposizioni cambiano di significato col
tempo (CdGI in controversia tra Costa Rica e Nicaragua).

Criteri interpretativi di tipo soggettivo, che si fondano soltanto sull’intenzione delle parti, trovano uno
spazio piuttosto limitato. Secondo la convenzione di vienna, un termine può essere inteso in un senso
particolare, se è stabilito che tale era l’intenzione delle parti (tutte le parti).

Un peso decisivo ha l’interpretazione autentica, che le stesse parti dell’atto da interpretare fanno con un
atto successivo, avente la stessa natura formale dell’atto precedente. Si deve pertanto tener conto, oltre
che del contesto del trattato, anche di ogni accordo ulteriore intervenuto tra le parti circa l’interpretazione
del trattato o l’applicazione delle sue disposizioni:
Una sorta di interpretazione autentica in via implicita, tramite una serie concludente e univoca di
comportamenti, si ha quando si sviluppa una pratica nell’applicazione del trattato dalla quale risulti
l’accordo delle parti circa la sua interpretazione.

La convenzione consente anche di tener conto, ai fini dell’interpretazione, di ogni regola pertinente di
diritto internazionale applicabile nelle relazioni tra le parti:

iv. Criterio sistematico: interpretazione del trattato deve avvenire in conformità con il sistema di
diritto internazionale e delle sue norme in vigore al momento in cui si svolge l’interpretazione e
quindi anche alla luce dell’evoluzione normativa intervenuta successivamente all’epoca della sua
adozione. È un principio generalmente accettato che, quando più norme riguardano la stessa
materia, esse dovrebbero, nei limiti del possibile, venire interpretate in modo da dare luogo a un
solo insieme di obblighi compatibili.

Circa il complesso problema dell’eventuale cambiamento nel tempo del significato dei termini usati da un
trattato, la CIDG è partita dalla regola che i termini del trattato devono essere interpretati alla luce del
significato corrispondente all’intenzione delle parti, che ovviamente risale all’epoca della conclusione del
trattato stesso. Tuttavia, non è escluso che si tenga conto di un nuovo e successivo significato, qualora si
possa accertare che le parti abbiano inteso attribuire ai termini un significato suscettibile di evolvere nel
tempo. Una simile situazione può verificarsi quando le parti abbiamo usato termini generici, che vanno
interpretati alla luce del significato che assumono al momento in cui è fatta l’interpretazione.

I mezzi complementare d’interpretazione

L’art 32 disciplina lo spazio lasciato ai mezzi complementari interpretativi (in particolare ai lavori
preparatori e alle circostanze nelle quali il trattato è stato concluso). In particolare afferma che mezzi
complementari di interpretazione possono essere utilizzati per confermare il significato dell’interpretazione
con le regole generali di interpretazione di cui all’art 31 (fattispecie non particolarmente rilevante), oppure
quando l’interpretazione conforme ad art 31 è oscura o ambigua o conduce a significato manifestatamente
irragionevole o assurdo.
ES. La CIDG ha fatto ricorso a lavori preparatori per confermare un’interpretazione alla quale era già
pervenuta mediante la regola generale d’interpretazione.
Più significativa è l’ipotesi in cui il ricorso alla regola generale d’interpretazione porti a un significato
ambiguo o oscuro o conduca ad un risultato manifestatamente assurdo o irragionevole. È soprattutto
questo il caso in cui è utile il ricorso a mezzi complementari d’interpretazione.

L’art 32 enuncia due mezzi di interpretazione complementari (a titolo esemplificativo e non esaustivo):
lavori preparatori e circostanze in cui il trattato è stato concluso.
I lavori preparatori (rapporti, verbali…) sono l’insieme dei documenti relativi ai negoziati che hanno portato
all’adozione del testo di un trattato. Tuttavia non sempre i lavori sono recepiti in documenti scritti e, anche
quando lo siano, non sempre essi sono facilmente accessibili, soprattutto dagli stati che non hanno
partecipato al negoziato. In questi casi, non è ammissibile il ricorso ai lavori preparatori ai fini
dell’interpretazione del trattato.
Le circostanze nelle quali il trattato è stato concluso sono il secondo dei mezzi complementari di
interpretazione. Tra le circostanze si può includere il fatto che il negoziato sia stato condotto
esclusivamente in una lingua, benchè il trattato sia stato alla fine autenticato in più versioni linguistiche.

Altri mezzi di interpretazione complementari (non enunciati) sono spesso da ricercare in quei principi
generali di diritto in tema di logica ermeneutica che, oltre che nei vari sistemi di diritto interno sono
utilizzabili anche sul piano del diritto internazionale.
Alcuni di essi sono riassunti in massime latine (principi di antica origine): il criterio dell’effetto utile (in base
al quale nel dubbio si sceglie il spinificato secondo il quale una disposizione del trattato ha una ragion
d’essere, piuttosto che il significato che la renderebbe inutile), il criterio expressio unius est exclusio
alterius (in base al quale le cose non espressamente menzionate in una lista si devono intendere da essa
escluse).
Altri mezzi complementari tipici del diritto internazionale come il criterio ”in dubio mitius” (le limitazioni a
sovranità nazionale non si presumono).

L’interpretazione dei trattati autenticati in due o più lingue

La redazione dei trattati in due o più versioni linguistiche tutte ugualmente autentiche e facenti fede,
solleva complessi problemi in tema di interpretazione. Viene a moltiplicarsi il rischio della divergenza dei
significati di una stessa disposizione a seconda della versione linguistica in cui essa è redatta.

Un trattato redatto in più versioni linguistiche non si compone di più testi separati, ma di un unico testo,
che è costituito dalla somma delle singole versioni. Il carattere autentico delle varie versioni fa sì che esse
abbiano tutte lo stesso peso ai fini dell’interpretazione. L’esame del testo del trattato e l’interpretazione
delle sue disposizioni vanno pertanto fatti alla luce di tutte le versioni linguistiche autenticare (difficile a
farsi in quando colui che deve applicare un trattato non può essere in grado di leggere e capire ugualmente
bene il testo in tutte le lingue delle versioni autentiche. Es Nazioni unite: araba, cinese, francese, inglese,
russa e spagnola).

L’art 33 della convenzione prevede che quando un trattato è stato autenticato in due o più lingue, il suo
testo fa fede in ciascuna di queste lingue, a meno che il trattato disponga o che le parti convengano che in
caso di divergenza un testo determinato prevalga.
Una versione del trattato in una lingua diversa da una di quelle nelle quali il testo è stato autenticato è
considerata come autentica soltanto se il trattato lo prevede o le parti lo hanno convenuto.
Si presume che i termini di un trattato abbiano il medesimo significato nei diversi testi autentici.
All’infuori del caso in cui un testo determinato prevalga in conformità al par.1, quando il confronto dei testi
autentici fa apparire una differenza di significato che l’applicazione degli art 31 e 32 non permette di
eliminare, si adotta il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, concilia meglio
questi testi.
L’art 33 pone anzitutto una presunzione di concordanza di significati, al di là delle sfumature marginali che
potrebbero caratterizzare una versione rispetto all’altra.
es. il trattato di Uccialli del 1889 tra Etiopia e Italia non nascondeva in realtà alcuna sostanziale differenza di
significato tra le due versioni autentiche. Nessuna delle due poteva venire intesa nel senso che l’Italia
avesse istituito un protettorato sull’Etiopia.
L’art 33 par.4 prevede che nei casi in cui la presunzione di concordanza non risolva il problema
interpretativo, si scelga il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, concilia
meglio i vari testi, ossia il significato che sia plausibile secondo tutti questi testi (es. se in inglese significa A
e B, ma in francese significa solo A, va scelto A che è comune ad entrambi i testi).
La regola posta dall’art 33 par.4 suscita qualche perplessità, in quanto essa presuppone che sempre esista
un significato che sia plausibile secondo tutte le varie versioni linguistiche. Non è però chiaro quale
significato della esser scelto nell’ipotesi in cui due versioni linguistiche postino a significati radicalmente
antitetici l’uno all’altro.

Emendamento e modificazione di un trattato multilaterale tra le sue parti

Il trattato, ex art 39, può essere emendato (modificato, riveduto). Le parti possono prevedere una specifica
procedura di emendamento nelle disposizioni finali di un trattato (ad esempio procedure emendative
semplificate per trattati che, dato il carattere altamente tecnico di alcune loro disposizioni, necessitano di
frequente emendamenti); in caso ciò non avvenga valgono le norme suppletive dei trattati multilaterali di
cui all’art 40.
Ex art 40 la proposta di emendamento deve essere notificata a tutti gli Stati parte. Ciascuno di essi ha
diritto di prendere parte a una decisione sul seguito da dare a questa proposta, a negoziati al fine di
emendare il trattato. L’accordo sull’emendamento del trattato non è vincolante nei confronti degli Stati che
sono già parti al trattato originario e che non intendono divenire parti di tale accordo: se uno non accetta
l’emendamento, nei suoi confronti si applica il trattato non emendato.
Lo Stato che diviene parte al trattato dopo che è stato emendato è considerato parte al trattato emendato
(a meno che abbia espresso una diversa intenzione) nei confronti degli Stati che hanno accettato
l’emendamento e parte al trattato originario nei confronti degli Stati che non lo hanno fatto.

È ovvio che le disposizioni di cui all’art 40 male si applicano a determinate categorie di trattati, ad esempio
quelli istitutivi di organizzazioni internazionali: in questi casi è opportuno che il trattato preveda specifiche
disposizioni circa l’emendamento dello stesso. (es. nel caso di organizzazioni internazionali spesso si
prevede che l’emendamento entri in vigore per tutti gli stati membri, una volta che esso sia stato ratificato
da una maggioranza di essi. La quota di parti necessaria per l’entrata in vigore dell’emendamento va riferita
al numero delle parti al momento dell’adozione dell’emendamento, senza tener conto di eventuali
successive variazioni).

Modificazioni di un trattato multilaterale tra alcune delle sue parti

Una situazione diversa dall’emendamento si ha quando soltanto alcune tra le parti di un trattato
multilaterale concludono tra di loro un accordo che modifica le disposizioni del trattato stesso.
Mentre l’emendamento ha una portata soggettivamente generale mirando a modificare il trattato nei
rapporti tra tutte le parti, l’accordo modificativo è invece già all’origine inteso come destinato ad applicarsi
esclusivamente nei rapporti che intercorrono tra alcune parti ed è soltanto da queste negoziato.
La modificazione di un trattato multilaterale è la modifica di un trattato operata solo ed esclusivamente tra
ALCUNI Stati parte, escludendone altri da tutti i negoziati e gli accordi volti alla modificazione. La
modificazione si distingue dall’emendamento per i soggetti cui si rivolge: mentre quest’ultimo si rivolge
potenzialmente a tutti (indipendentemente dal fatto che tutti accettino l’emendamento al trattato), la
modificazione è inteso già dall’origine come inteso ad applicarsi ai rapporti tra alcuni Stati.

Può essere che la conclusione di accordi modificativi aventi una cerchia di destinatari più ristretta di quella
del trattato di base sia prevista e consentita dal trattato di base stesso. Può anche essere che la conclusione
di tali accordi sia invece, espressamente vietata dal trattato di base. È però frequente che il trattato di base
nulla preveda a riguardo: in tal caso si guarda all’art 41.
L’art 41 ammette la possibilità di accordi modificativi, subordinandoli alla sussistenza di due condizioni:
accordi che non pregiudichino agli Stati esclusi il godimento dei diritti e l’esecuzione degli obblighi
discendenti dal trattato; accordi non risultino incompatibili con lo scopo o l’oggetto del trattato.

Invalidità
Un trattato si dice invalido o nullo se, nel momento in cui è stato negoziato o nel momento in cui il
consenso a vincolarsi è stato manifestato, si sono verificati determinati vizi (anomalie) che rendono
l’apparente trattato inidoneo a produrre qualsiasi tipo di effetto giuridico.
I vizi, cause di invalidità, ex art 42 sono tipiche e sono solo quelle previste dalla Convenzione: uno stato può
sciogliersi dagli obblighi derivanti da un trattato soltanto qualora ricorrano le condizioni previste dal diritto
internazionale consuetudinario e dalla convenzione di vienna.
Alcune delle cause di invalidità dei trattati (vizi del consenso: errore, dolo e minaccia) risalgono a principi
generali.

Conseguenze: Ex art 69 le disposizioni di un trattato invalido non hanno alcun effetto dall’origine (ex tunc).
Se sono stati compiuti atti di esecuzione di un trattato invalido, una parte può richiedere all’altra di
ristabilire la situazione precedente al trattato dichiarato invalido nei limiti del possibile. Sono comunque
salvi gli atti di esecuzione del trattato compiuti in buonafede prima della dichiarazione di invalidità.
In caso di contrasto con norme imperative le parti devono eliminare le conseguenze di ogni atto difforme
da norme imperative cogenti del diritto internazionale e devono rendere le loro relazioni reciproche
conformi alla norma stessa.

Di regola l’invalidità colpisce l’intero trattato. Però, una causa di invalidità che riguardi solo alcune
disposizioni del trattato può essere invocata soltanto rispetto a tali disposizioni, lasciando impregiudicato il
resto del trattato (separabilità delle disposizioni di un trattato), quando ricorrono le seguenti tre condizioni:
1) se tali disposizioni possono essere separate dal resto del trattato ai fini della loro applicazione;
2) se risulta dal trattato o è altrimenti stabilito che l’accettazione di tali disposizioni non era una base
essenziale del consenso dell’altra parte a essere vincolata dal trattato nel suo insieme;
3) se la continuata esecuzione del resto del trattato non appare ingiusta.

La separabilità non opera e quindi il vizio colpisce sempre l’intero trattato, in caso di invalidità per minaccia
o per contrasto con norme imperative del diritto internazionale generale.
Nell’ipotesi di invalidità per dolo o corruzione, lo stato che ha diritto di invocare il vizio può scegliere se
farlo rispetto all’intero trattato o rispetto alle singole clausole viziate.
Uno stato non può più invocare l’invalidità di un trattato se, dopo aver avuto conoscenza dei fatti rilevanti,
ha espressamente concordato che il trattato sia da considerarsi valido o abbia con la sua condotta prestato
acquiescenza alla validità del trattato (convalida espressa o tacita).
Tuttavia, la possibilità di convalida non sussiste nel caso d’invalidità per minaccia o per contrasto con
norme imperative del diritto internazionale generale.

a) Errore

L’errore è una falsa rappresentazione della realtà. L’errore determina una divergenza tra la volontà
dichiarata e quella che sarebbe stata la volontà reale del soggetto, se essa si fosse formata senza l’effetto
anomalo del vizio. Ai fini dell’invalidità l’errore deve essere di fatto (falsa rappresentazione della realtà
fattuale, non di diritto. Un fatto o una situazione che questo stato supponeva esistere al momento in cui il
trattato è stato concluso), essenziale (determinante per l’adesione ad un determinato trattato a date
condizioni) e scusabile (lo Stato non deve contribuire ad averlo causato o se le circostanze erano tali che
esso doveva avvedersi della possibilità di un errore).

È esclusa ogni rilevanza, come causa di invalidità, sia dell’errore di diritto (errore sull’esistenza, contenuto o
interpretazione di norme di diritto internazionale) e dell’errore ostativo (errore sulla comunicazione
esteriore della volontà, correttamente formata).

L’errore come causa di invalidità è stato raramente invocato (di solito gli Stati dispongono di mezzi idonei
ad evitarli), ad esempio in caso di errore dovuto ad un’erronea rappresentazione della realtà geografica in
occasione di accordi di confine.
L’errore relativo alla redazione materiale del testo del trattato, che va tenuto ben distinto dall’errore sulla
formazione del consenso, dà luogo ad una procedura di correzione del trattato, senza intaccarne la validità.

b) Minaccia (o violenza)

La minaccia è un vizio nella formazione del consenso che consiste appunto in una minaccia di un male
ingiusto e difficilmente resistibile che si verificherebbe se il trattato non fosse concluso o se non fosse
concluso a determinate condizioni. (minaccia intesa sia come violenza fisica ma soprattutto morale che è
più plausibile all’interno del diritto internazionale).
La minaccia è vizio del consenso indipendentemente dal suo verificarsi.

La minaccia per essere rilevante ai fini dell’invalidità, può essere realizzata sia a danno del rappresentante
di uno Stato (art 51), sia a danno di uno Stato nel suo insieme (art 52).
L’art 51 della convenzione di vienna codifica pertanto una norma generale già consolidata, ribadendo che
l’espressione del consenso di uno stato a essere vincolato da un trattato che è stata ottenuta attraverso la
costrizione sul suo rappresentante per mezzo di atti o di minacce diretti contro di lui è priva di ogni effetto
giuridico.

Per contro, fino alla seconda guerra mondiale, la minaccia dell’impiego della forza nei rapporti
internazionali non era considerata, secondo le concezioni prevalenti, quale causa di invalidità di un trattato.
La situazione è oggi cambiata. La previsione di cui all’art 52 è entrata recentemente nel sistema di diritto
internazionale, come logica conseguenza dell’art 2.4 della Carta: obbligo di astenersi dall’uso o minaccia
della forza nelle relazioni internazionali. Un trattato è invalido se la sua conclusione è stata ottenuta
attraverso la minaccia o l’impiego della forza in violazione dei principi di diritto internazionale incorporati
nella carta delle nazioni unite.
I trattati di pace sono invalidi in base all’art 52? La questione è spinosa. Da un lato, è molto probabile che il
consenso dello stato vinto sia condizionato alla minaccia dello stato vincitore di continuare ad usare la
forza. Dall’altro, il fatto stesso di fare la pace è conforme ai principi di diritto internazionale incorporati
nella carta delle nazioni unite.

L’art 52 riguarda solo la minaccia di uso della forza e non la cd. violenza economica (pressioni che uno Stato
ricco potrebbe esercitare nei confronti di uno Stato povero). I paesi in via di sviluppo spingevano per
inserire anche questo tipo di violenza, mentre gli stati già sviluppati ritenevano che avrebbe avuto un
effetto negativo sulla sicurezza e stabilità dei rapporti giuridici internazionali. Si è trovato un compromesso:
la violenza economica è stata inserita e condannata in una dichiarazione allegata alla Convenzione (priva di
valore vincolante).

c) Dolo e corruzione

Nel caso di dolo, la falsa rappresentazione della realtà è volontariamente determinata da uno stato
partecipante al negoziato che fraudolentemente con artifici e raggiri imbroglia un altro stato. Il dolo è un
raggiro, che se non fosse stato volontariamente posto in essere, avrebbe fatto sì che il trattato non si
sarebbe concluso o non si sarebbe concluso alle condizioni stabilite.
Il dopo può essere invocato soltanto dallo stato che è imbrogliato e non dallo stato che imbroglia.
Rientra nella disciplina del dolo anche la corruzione del rappresentante di Stato, che causa quindi
l’invalidità del trattato ex art 50.
Nella pratica i casi di dolo solo pressochè inesistenti. (es. trattato di Uccialli).

d) Violazione delle norme di diritto interno sulla formazione dei trattati

Ex art 27 sappiamo uno Stato non può invocare le disposizioni del suo diritto interno come giustificazione
per la mancata esecuzione degli obblighi derivanti da un dato trattato. È posta un’unica eccezione a questa
regola: quando sono state violate alcune particolari disposizioni del diritto interno e cioè le disposizioni
relative alla conclusione dei trattati, come quelle in tema di conferimento dei pieni poteri per il negoziato o
di manifestazione del consenso a vincolarsi (l’art 46: il trattato può essere dichiarato invalido se sono state
violate alcune particolari norme relative alla conclusione dei trattati).

Questa causa di invalidità deve essere necessariamente circoscritta, bisogna infatti tutelare differenti
esigenze: sia quella del rispetto delle procedure interne nella conclusione di un trattato, sia quella di
tutelare l’affidamento degli altri Stati (che non possono conoscere nel dettaglio le norme di diritto interno
sulla formazione dei trattati di ogni singolo Stato contraente). Da questo bilanciamento di interessi ne
deriva che questa causa di invalidità può essere invocata solo quando la violazione sia manifesta e riguardi
una norma di importanza fondamentale. Una violazione è manifesta se essa è oggettivamente evidente per
ogni stato che si comporta in materia conformemente alla pratica abituale e in buona fede.
e) Contrasto con norme imperative di diritto internazionale generale

Con l’inserimento di questa causa di invalidità (contrasto con norme imperative) la Convenzione ha svolto
un ruolo fondamentale nella formazione di una gerarchia di norme di diritto internazionale: si è affermato
che esistono alcune (poche) norme di diritto internazionale aventi carattere imperativo (ius cogens)
connaturate alle esigenze fondamentali della comunità internazionale da non poter mai essere oggetto di
deroga. Prima della convenzione di Vienna, non si riteneva, che esistessero norme generali di diritto
internazionale aventi natura imperativa o inderogabile.

Non si dicono quali siano le norme imperative (sarebbe potuto risultare restrittivo), ma si dà una
definizione di norma imperativa di diritto internazionale ex art 53: norma accettata e riconosciuta dalla
comunità internazionale nel suo insieme (in questo modo si evita che questa causa di invalidità sia evocata
con eccessiva larghezza), alla quale non è permessa nessuna deroga e che può essere modificata solo da
una nuova norma di diritto internazionale generale di pari grado avente lo stesso carattere.
Degli esempi di norme generali cogenti sono: norme generali sul divieto di uso della forza, sul divieto di atti
che costituiscano crimini secondo il diritto internazionale, sul divieto della schiavitù, della pirateria e del
genocidio.
L’art 66 prevede che la controversia relativa all’applicazione e all’interpretazione di articoli in materia di
norme imperative può venire sottoposta alla giurisdizione della CIdG su iniziativa di una qualsiasi delle parti
alla controversia (unico caso di giurisdizione obbligatoria previsto dalla Convenzione).

Estinzione
Un trattato si estingue, dopo essere regolarmente entrato in vigore quando cessa di produrre i propri
effetti. Le cause di estinzione di un trattato sono tipiche.

a) Termine e denuncia (cause di estinzione previste dal trattato)

Alcune cause di estinzione di un trattato possono essere espressamente previste dalle clausole finali di un
trattato stesso. Nel trattato le parti possono stabilire il termine dello stesso o le condizioni di denuncia (o
recesso unilaterale) liberamente ex art 54 (che riprende una norma generale di diritto internazionale).
Differenza tra denuncia o recesso non è sostanziale ma terminologica, in quando recesso si utilizza per i
trattati istitutivi di organizzazioni internazionali.

L’estinzione di un trattato o il recesso di una parte possono avere luogo conformemente alle disposizioni
del trattato stesso. Nella libertà delle parti rientra anche la previsione di un termine di durata senza
possibilità di un tacito rinnovo (es. trattato istitutivo della comunità europea del carbone e dell’acciaio
CECA che è durato 50 anni ed è scaduto nel 2002).
Più frequente è il caso di un termine di durata tacitamente rinnovabile.

Per i trattati conclusi senza prevedere disposizioni sul termine di durata è di solito esplicitamente previsto il
diritto delle parti di denunciare il trattato mediante un’apposita manifestazione di volontà.

A volte un trattato, oltre a non contenere alcuna disposizione circa la sua durata, neppur contiene alcuna
disposizione sul diritto di denuncia ad opera di una parte.
Per questi casi, la convenzione di vienna ha previsto la regola generale del divieto di denuncia, pur
ammettendo due eccezioni in cui vi è diritto di denuncia mediante apposita dichiarazione di volontà:

I. Si prova che era nell’intenzione delle parti ammettere la possibilità di denuncia o di un recesso
II. Il diritto di denuncia o recesso sia deducibile dalla natura del trattato.

Nella pratica l’esempio più noto al riguardo è la carta delle nazioni unite che non contiene norme riguardo il
recesso (ma è ammesso in quanto previsto nell’intenzione degli stati).
Per quanto riguarda le denunce in trattati multilaterali, questi rimangono in vigore anche se, a seguito di
numerose denunce, il trattato vincola un numero di parti inferiore a quello che era stato necessario per la
sua entrata in vigore (art 55).

b) Abrogazione

Come le parti possono fare un trattato, così esse possono anche disfarlo. Ex art 54 un trattato si può
estinguere per abrogazione in qualsiasi momento a seguito del consenso di tutte le parti e dopo aver
consultato tutti gli Stati contraenti.

L’abrogazione può essere:

a. Espressa: una clausola di un trattato successivo regolante la stessa materia abroghi il trattato
precedente che cessa così di produrre effetti.
b. Tacita: le parti regolino la materia (disciplinata dal precedente trattato) con un trattato nuovo
senza nulla disporre circa la sorte del trattato precedente.
c. Implicita: le parti regolino la materia con un nuovo trattato che risulti palesemente incompatibile
con quello vecchio.

Un trattato è considerato estinto quando tutte le parti di esso concludono un trattato successivo relativo
alla stessa materia e risulta dal trattato successivo o è altrimenti stabilito che le parti intendevano che la
materia sarebbe stata regolata da questo trattato o le disposizioni del trattato successivo solo a tal punto
incompatibili con quelle del trattato precedente che i due trattati non sono suscettibili di essere applicati
nello stesso tempo.
E’ ovvio che l’abrogazione espressa o tacita di un trattato precedente richiede sempre il consenso di tutti gli
stati che ne erano parti. La convenzione di vienna esclude la possibilità di attribuire effetti abrogativi di un
trattato multilaterale precedente a accordi conclusi tra alcune soltanto delle parti di tale trattato.

c) Violazione sostanziale del trattato

Una parte di un rapporto di natura contrattuale non è tenuta ad adempiere alla sua prestazione se l’altra
parte non ha adempiuto alla propria. Un trattato può estinguersi in presenza di violazione ad opera di una
delle parti (ripreso il principio generale di diritto “inadimplenti non est adimplendum”, da cui poi deriva
l’exeptio inadempleti contractu).

La violazione, per dare luogo ad estinzione, deve essere sostanziale e cioè:

• Consiste o in un rifiuto del trattato non autorizzato dalla Convenzione o la violazione di una
disposizione essenziale per la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato.
• È escluso che violazioni di importanza minore possano portare all’estinzione di un trattato.

La norma si configura diversamente a seconda che il trattato violato sia bilaterale oppure multilaterale.

In caso di violazione di trattato bilaterale, la parte che l’ha subita invoca la violazione come causa di
estinzione del trattato (o di sospensione, totale o parziale, dello stesso). Se la parte lesa non richiede
l’estinzione il trattato rimane in vigore.

In caso di violazione di trattato multilaterale la situazione è più complessa. La Convenzione distingue tra:

Misure adottabili per accordo unanime da tutte le parti: le parti possono estinguere il trattato (o
sospenderlo, del tutto o in parte) sia nelle relazioni tra esse e lo stato autore della violazione, sia
nelle relazioni tra tutte le parti.
Misure adottabili dalla parte specialmente lesa dalla violazione: la parte specialmente lesa può
invocare la violazione come motivo di sospensione (totale o parziale) del trattato tra lei e la parte
che ha compiuto violazione sostanziale. È inoltre previsto che ogni parte di un trattato multilaterale
diversa dallo stato inadempiente possa invocare la violazione come motivo per sospendere
l’applicazione del trattato in tutto o in parte per quanto la concerne, se il trattato è di natura tale
che una violazione sostanziale delle sue disposizioni ad opera di una parte modifica radicalmente la
situazione di ciascuna delle parti rispetto all’esecuzione ulteriore degli obblighi discendenti dal
trattato.

La regola dell’estinzione (o sospensione) dei trattati per violazione sostanziale (inadempimento sostanziale)
incontra un’eccezione (non si applica) laddove le disposizioni del trattato hanno ad oggetto la protezione
della persona umana, coerentemente con l’art 60 (costituisce un’applicazione del criterio interpretativo
teleologico). Uno stato parte a un trattato di diritto internazionale umanitario non può pertanto venir
meno all’osservanza delle disposizioni richiamate all’art 60 per il solo fatto che un’altra parte si sia resa
responsabile di violazioni sostanziali delle stesse disposizioni.

Un inadempimento sostanziale può comportare, oltre che l’estinzione del trattato, anche l’obbligo dello
stato inadempiente di risarcire il danno allo stato leso (questo anche nel caso di un inadempimento non
sostanziale).

d) Impossibilità sopravvenuta

Uno Stato può invocare l’estinzione o il recesso di un trattato se si trova nell’impossibilità di eseguirlo (se
questa impossibilità deriva dalla scomparsa o distruzione permanente di un oggetto indispensabile per
l’esecuzione del trattato).
Se l’impossibilità è temporanea, essa può essere invocata soltanto come motivo per sospendere l’efficacia
del trattato.
L’impossibilità, coerentemente con i principi generali del diritto, deve essere: sopravvenuta (se preesistente
alla conclusione del trattato avremmo invalidità dello stesso per errore), definitiva (non deve consentire
mai di adempiere al trattato, se temporanea può essere invocata solo come causa di sospensione del
trattato) e incolpevole (impossibilità non deve essere risultato della violazione di una norma del trattato o
comunque di diritto internazionale).

L’impossibilità di esecuzione non può essere invocata da una parte come motivo per porre fine ad un
trattato, per recedervi o per sospenderne l’efficacia se l’impossibilità è il risultato di una violazione ad
opera di quella parte o di un obbligo del trattato o di ogni altro obbligo internazionale nei confronti di ogni
altra parte al trattato.

e) Mutamento fondamentale delle circostanze

Ogni trattato è adottato in funzione delle circostanze esistenti al momento della sua conclusione,
circostanze che possono anche variare dopo che il trattato è entrato in vigore.
Non si può tuttavia pensare che un trattato corra il rischio di estinguersi a seguito di qualsiasi mutamento
delle circostanze.

Il mutamento fondamentale delle circostanze (o cosiddetta clausola res sic stantibus) che si è verificato
rispetto a quelle esistenti al momento della conclusione del trattato e che non era stato previsto dalle parte
può essere causa di estinzione di un trattato. Siccome potrebbe essere utilizzata molto largamente, la
Convenzione traccia limiti ben stringenti a questa causa estintiva di trattato.

In particolare, il mutamento di circostanze per considerarsi fondamentale deve essere (richiesti caratteri
dell’oggettività e radicalità: il mutamento non deve essere stato previsto dalle parti e deve risultare
fondamnetale) ex art 62.1:

1. Mutamento di una circostanza essenziale per la formazione del consenso tra le parti
2. Effetto del mutamento sia la trasformazione radicale degli obblighi che devono ancora essere
eseguiti in virtù del trattato

Il mutamento fondamentale previsto non necessariamente riguarda circostanze di fatto, ma può anche
vertere su circostanze di diritto, ossia su cambiamenti nelle norme di diritto internazionale applicabili nelle
relazioni tra le parti.

L’art 62.2 traccia ulteriori limiti al requisito del mutamento fondamentale di circostanze escludendo che
questo requisito possa venire invocato come motivo di estinzione o di denuncia se il trattato stabilisce una
frontiera o se il mutamento fondamentale è il risultato di una violazione, ad opera della parte che lo invoca,
o di un obbligo del trattato o di ogni altro obbligo internazionale nei confronti di ogni altra parte al trattato.

Il mutamento fondamentale di circostanze può essere anche causa di sospensione (anziché di estinzione
qualora ne ricorrano i presupposti) e in certi casi è utile per avviare la procedura di emenda o modifica di
un trattato.

f) Contrasto con norme imperative di diritto internazionale

Un trattato che viene, dopo la propria entrata in vigore, a contrastare con norme imperative di diritto
internazionale si estingue ex art 64.

Effetti dell’estinzione

A differenza di quanto succede nel caso di invalidità, le cause di estinzione del trattato fanno cessare gli
effetti dello stesso ex nunc, cioè a partire dal momento in cui l’estinzione è dichiarata e lasciano
impregiudicati gli effetti che si sono prodotti in precedenza.

Un’eccezione rispetto agli effetti generali dell’estinzione è posta dall’art 71, coerentemente con le
previsioni circa le norme di ius cogens. Una disposizione a sé stante regola le conseguenze dell’estinzione di
un trattato che contrasta con una norma imperativa del diritto internazionale generale sopravvenuta. In
questo caso l’estinzione non colpisce il periodo antecedente alla dichiarazione di estinzione purché tali
situazioni possano essere mantenute senza risultare, nel momento attuale, in contrasto con norme
imperative di diritto internazionale.

Di regola le cause di estinzione colpiscono l’intero trattato. Parimenti, il diritto di una parte di denunciare
un trattato può essere esercitato soltanto relativamente all’intero trattato, a meno che il trattato non
preveda diversamente o le parti si accordino diversamente.
L’estinzione può essere parziale, può cioè colpire solo determinate disposizioni se ricorrono 3 condizioni:

1. Le disposizioni possono essere separate dal resto del trattato ai fini della loro applicazione
2. Se risulta dal trattato o è altrimenti stabilito che l’accettazione di tali disposizioni non era base
essenziale del consenso dell’altra parte a essere vincolata dal trattato nel suo insieme
3. La continuata esecuzione del trattato non appare ingiusta

L’estinzione non può essere invocata se gli Stati che ne avevano diritto hanno espresso convalida espressa o
tacita. Tuttavia la possibilità di convalida non sussiste nel caso di estinzione per contrasto con norme
imperative del diritto internazionale generale.

Sospensione

Molte tra le cause di estinzione dei trattati possono, sia pure a volte in presenza di presupposti diversi,
operare anche soltanto quali cause di sospensione dell’applicazione del trattato (a questo fa eccezione il
contrasto con una norma imperativa sopravvenuta).
La sospensione dell’applicazione di un trattato può verificarsi, riguardo a tutte le parti o a una specifica
parte, conformemente alle disposizioni del trattato o in qualsiasi momento a seguito del consenso di tutte
le parti e dopo consultazione con gli altri stati contraenti.

La conclusione di un trattato successivo sulla stessa materia ad opera di tutte le parti di un trattato può
comportare soltanto la sospensione del trattato anteriore, se questo risulta dal trattato successivo o se è
altrimenti stabilito che questa era l’intenzione delle parti.

Nell’ipotesi di violazione del trattato ad opera di una delle parti, la sospensione dell’applicazione del
trattato può essere invocata in certi casi quale unica conseguenza dell’inadempimento e in altri casi quale
alternativa all’estinzione.

La sospensione dell’applicazione del trattato può anche venire invocata in presenza di un’impossibilità
sopravvenuta, ma temporanea, dell’esecuzione del trattato e in presenza di un mutamento fondamentale
delle circostanze.

La sospensione dell’applicazione di un trattato, a meno che il trattato disponga o che le parti convengano
diversamente, libera le parti tra le quali l’applicazione del trattato è sospesa dall’obbligo di eseguire il
trattato nelle loro reciproche relazioni durante il periodo di sospensione, ma non pregiudica altrimenti le
relazioni giuridiche tra le parti stabilite dal trattato. Durante il periodo di sospensione, le parti devono
astenersi da ogni atto tendente ad ostacolare la ripresa dell’applicazione del trattato.

Effetti della guerra sui trattati

La convenzione di Vienna non pregiudica la questione degli effetti che l’insorgere di un conflitto armato
può esercitare sui trattati in vigore tra i belligeranti o tra questi e gli stati terzi.
La materia resta regolata dal diritto internazionale generale e risulta oggi presa in considerazione dal
progetto di articoli sugli effetti dei conflitti armati sui trattati adottato nel 2011.

Sono rari i casi in cui le stesse parti a un trattato hanno predeterminato, per mezzo di una specifica clausola
inserita nel trattato, quali saranno gli effetti estintivi o sospensivi di una guerra sul trattato stesso.

In mancanza di una simile determinazione, gli effetti della guerra sui trattati variano a seconda dei casi.
Talora l’insorgere di uno stato di guerra costituisce la condizione cui è subordinata l’applicazione di molte
delle norme di un trattato. Questo si verifica per tutti quei trattati che hanno proprio l’oggetto e lo scopo di
regolare le relazioni tra stati belligeranti o tra stati belligeranti e stati neutrali.

Il progetto di articoli pone il principio generale che l’esistenza di un conflitto armato non determina ipso
facto l’estinzione o la sospensione di un trattato tra gli stati belligeranti. Per stabilire se in tal caso un
trattato possa essere oggetto di estinzione, recesso o sospensione occorre tenere conto di una serie di
fattori rilevanti quali:
1) la natura del trattato, in particolare il suo oggetto, il suo scopo, il suo contenuto, il numero delle parti;
2) e le caratteristiche del conflitto armato, quali l’estensione territoriale, la scala e l’intensità, la durata e
nel caso di conflitti armati non internazionali, il livello di coinvolgimento esterno.

In un allegato, il progetto di articoli fornisce un ampio elenco indicativo di trattati che per il loro oggetto si
presumono mantenere la loro efficacia durante un conflitto armato: i trattati sul diritto dei conflitti armati, i
trattati di diritto internazionale umanitario, i trattati multilaterali a carattere normativo, i trattati relativi
alle relazioni diplomatiche e consolari etc…

Il progetto di articoli prevede che gli stati coinvolti in un conflitto armato possano concludere degli accordi
in tema di estinzione o sospensione dei trattati che siano tra di loro operativi durante un conflitto armato o
in tema di modifiche agli stessi.
In assenza di accordi di questo genere, il progetto prevede che uno stato possa notificare agli altri stati parti
la sua intenzione di ritenere estinto o sospeso un trattato, in conseguenza di un conflitto armato, senza
pregiudizio del diritto degli altri stati parte di presentare un’obiezione entro un termine ragionevole. In tal
caso gli stati interessati devono trovare una soluzione tramite i mezzi pacifici di soluzione delle controversi
previsti dall’art 33 della carta delle nazioni unite.

Il progetto prevede anche che lo stato che esercita il suo diritto di legittima difesa, come regolato dalla
carta delle nazioni unite, può sospendere in tutto o in parte l’applicazione di un trattato che risulti
incompatibile con l’applicazione di tale diritto e che lo stato responsabile di un’aggressione non può
pretendere che sia estinto o sospeso un trattato, se da questo ne può trarre un beneficio.

Spesso i trattati di pace contengono specifiche disposizioni sulla sorte dei trattati precedentemente
conclusi dagli stati coinvolti nel conflitto armato. Successivamente al conflitto armato, le parti possono
prevedere, mediante accordo, la reviviscenza o la ripresa dei trattati estinti o sospesi.

Trattati conclusi da organizzazioni internazionali

Sempre più numerosi sono oggi i trattati conclusi dalle organizzazioni internazionali, sia con gli stati sia con
altre organizzazioni internazionali. Tali trattati possono, ad esempio, riguardare la presenza e il
funzionamento delle organizzazioni internazionali in un determinato stato (accordi di sede), le immunità
godute dall’organizzazione e dai suoi funzionari, le forme di cooperazione tra i due etc…

La convenzione di Vienna del 1986 si applica ai trattati fra uno o più stati e una o più organizzazioni
internazionali e ai trattati fra organizzazioni internazionali. Restano esclusi dal suo ambito di applicazione i
trattati di cui siano parti soggetti di diritto internazionale diversi dagli stati e dalle organizzazioni
internazionali.

L’atto, corrispondente a quello della ratifica di uno stato, con il quale un’organizzazione internazionale
manifesta sul piano internazionale il suo consenso ad essere vincolata da un trattato è chiamato atto di
conferma formale.
I pieni poteri sono definiti come un documento rilasciato dall’organo competente di un’organizzazione
internazionale.
Un’organizzazione internazionale parte a un trattato non può invocare le regole dell’organizzazione per
giustificare la mancata esecuzione di un trattato a meno che non sussista una causa di nullità per violazione
delle regole dell’organizzazione sulla competenza a concludere i trattati.
La convenzione del 1986 lascia aperto il delicato problema degli eventuali effetti che il trattato concluso da
un’organizzazione internazionale può avere per gli stati membri di essa.

Una disposizione particolare riguarda la soluzione obbligatoria delle controversie sulle cause di invalidità
per contrasto con norme imperative del diritto internazionale generale.
L’art 66 prevede, per le controversie che a questo riguardo possano sorgere tra uno o più stati e una o più
organizzazioni internazionali, una procedura di arbitrato e una procedura di richiesta di parere consultivo
alla corte internazionale di giustizia. Il parere reso dalla corte è accettato come decisivo da tutte le parti alla
controversia.

LE NORME GENERALI E LE ALTRE CATEGORIE DI NORME


La concezione prevalente circa la natura delle norme generali

Le norme generali del diritto internazionale sono tali perché a differenza dei trattati che creano diritti ed
obblighi soltanto tra le parti, esse riguardano indistintamente tutti i membri della comunità internazionale.
L’aggettivo generale è riferito non tanto al contenuto di queste norme, quanto al numero di soggetti che ne
sono destinatari.

Le norme generali sono anche chiamate norme consuetudinarie o consuetudini. Essa rievoca la distinzione
tra il diritto scritto e il diritto non scritto e rende l’idea che le norme generali, lungi dall’essere adottate da
organi precostituiti e secondo procedure formali, sorgono sulla base di fenomeni spontanei e informali.
Vari problemi sorgono al momento di determinare i caratteri costitutivi delle norme generali o
consuetudinarie. La materia oggi è oggetto del lavoro della commissione del diritto internazionale che ha
incaricato un relatore speciale di trattare il tema della formazione e accertamento del diritto internazionale
consuetudinario.
Secondo la concezione più diffusa, che vede la consuetudine internazionale come una pratica generale
accettata come diritto, perché si abbia una norma generale occorrono due elementi concomitanti:
1) un elemento oggettivo (o materiale o fisico), dato dalla ripetizione costante nel tempo di una serie di
comportamenti e
2) un elemento soggettivo (o immateriale o psicologico), dato dal convincimento che i comportamenti in
questione siano giuridicamente obbligatori, perché prescritti da una norma giuridica. La presenza di questo
secondo elemento è giustificata con l’esigenza di distinguere quali comportamenti siano tenuti in forza di
vere e proprie norme giuridiche internazionali e quali siano invece dettati da considerazioni di tradizione,
cortesia o cerimoniale, anziché dalla consapevolezza di un vero e proprio obbligo giuridico.

La concezione prevalente sulla natura delle norme generali o consuetudinarie non risulta però pienamente
convincente, né nell’uno, né nell’altro degli elementi sui quali essa si fonda. Questa concezione si risolve in
una formula teorica, che può forse adattarsi a un sistema di norme astratto e immune da cambiamenti, ma
che appare lontana da quanto si verifica in concreto nei rapporti tra gli stati, regolati da un sistema di
norme che si modificano e si evolvono nel tempo.

Il secondo dei due elementi appare difficile da accettare perché il convincimento che un certo
comportamento sia giuridicamente obbligatorio altro non è che un’ovvia conseguenza dell’esistenza di una
norma. Ma, se consegue all’esistenza della norma, tale convincimento non può essere nello stesso tempo
un elemento costitutivo della norma stessa.

Può succedere che nei rapporti tra gli stati, norme giuridiche vengano a crearsi e a rinnovarsi in assenza di
una procedura formalizzata e di organi precostituiti.
E’ evidente che gli stati che intendono provocare la formazione di una nuova norma generale non possono
avere il convincimento di doversi conformare a un obbligo giuridico già esistente. Anzi, gli stati in questione
sono proprio animati dall’intenzione di favorire il cambiamento di norme che essi sentono inadeguate a
regolare situazioni diverse da quelle esistenti in precedenza.

Esempi:

a) Outer space is freely available for exploration and use by all

Se sussiste tra gli stati il convincimento circa l’opportunità di un’evoluzione normative, la nuova regola
generale si forma spontaneamente senza che si manifestino particolari problemi.

A volte quando sussiste un diffuso convincimento degli stati circa l’opportunità di un’evoluzione normativa,
la formazione di una nuova regola generale avviene spontaneamente e senza che si manifestino particolari
problemi.
Verso la metà del secolo XX alcuni stati iniziarono programmi congiunti per l’esplorazione dello spazio extra
atmosferico o cosmico tramite satelliti artificiali. Questi satelliti ruotavano intorno alla terra, sorvolando, al
di là del limite dell’atmosfera, il territorio di numerosi stati che non sollevarono obiezione al riguardo,
nonostante non fosse stata loro richiesta alcuna autorizzazione.
Un simile comportamento presupponeva un’intenzione di natura normativa (fare una norma), poiché esso
significava l’abbandono della tradizionale regola secondo la quale la sovranità di uno stato si estendeva al di
sopra del suo territorio senza alcun limite. Al contrario, secondo la nuova norma generale che si voleva
introdurre, il regime dello spazio extra atmosferico era caratterizzato dal principio della libertà di
esplorazione e utilizzazione, mentre l’applicazione della regola tradizionale della sovranità dello stato
sottostante era limitata allo spazio atmosferico o aereo. Nel giro di poco tempo e senza sostanziali
obiezioni, la regola della libertà dello spazio extra atmosferico venne espressamente enunciata nella
risoluzione adottata all’unanimità nel dicembre del 1963 dall’assemblea generale delle nazioni unite.
Una norma generale nuova si era così formata e una regola preesistente si era così modificata, a seguito di
un comportamento di alcuni stati che presupponeva un’intenzione di natura normativa, dell’enunciato di
tale intenzione e della generale accettazione della nuova norma da parte degli stati.

b) Los gobiernos proclaman la soberania y la jurisdiccion exclusivas sobre el mar hasta una distancia
de 200 millas

In altri casi, a un’intenzione di natura normativa manifestata da uno o più stati fa riscontro l’opposizione di
altri stati, che non ritengono opportuna la formazione di una nuova norma generale. Si apre così un periodo
più o meno lungo, di incertezza sul quale sia la norma applicabile, nell’alternativa tra la vecchia norma e la
nuova norma.
Con una dichiarazione fatta a Santiago nel 1952, Cile, Ecuador e Perù rivendicarono la sovranità e
giurisdizione esclusive sul mare adiacente alle loro coste fino a una distanza di 200 miglia nautiche
denominata zona economica marittima. Con tale atto veniva enunciato il contenuto di una nuova regola di
diritto generale, che i tre paesi auspicavano si sarebbe applicata non soltanto nel loro caso specifico, ma in
modo generale a tutti gli stati costieri. Venne proposta questa nuova norma per rispondere a esigenze di
natura generale (per permettere uno sviluppo economico).
La proclamazione di una zona costiera di tale ampiezza in un’epoca in cui una norma generale limitava i
diritti dello stato rivierasco entro uno spazio prevalentemente misurato in 3 miglia e comunque non
eccedente le 12 miglia, determinava un evidente conflitto con il diritto internazionale allora in vigore. I tre
paesi diedero prova di una notevole immaginazione adducendo multiformi argomenti di natura biologica,
geografica, economica e politica, che avrebbero dovuto persuadere gli altri stati della legittimità di una
misura così innovativa.
Inizialmente le grandi potenze marittime si opposero in modo categorico alle rivendicazioni dei tre stati
latino americani che, anche per la difficoltà della pratica di controllare le attività che si svolgevano in un
così ampio spazio (1 miglio = 1852 m) furono raramente in grado di dare esecuzione concreta delle loro
pretese nei confronti delle navi battenti la bandiera di altri stati. Per le grandi potenze marittime valeva
ancora la tradizionale regola generale che vietava rivendicazioni di sovranità su di uno spazio eccedente le
12 miglia dalla costa.

Tuttavia con il passare del tempo, alcuni degli argomenti avanzati dai tre stato, soprattutto quelli fondati
sull’esigenza di favorire lo sviluppo economico di molti paesi costieri, trovarono sostegno nell’ampio
numero di stati appartenenti al gruppo dei paesi in via di sviluppo, che, a seguito del fenomeno della
decolonizzazione nel decennio a partire dal 1960, acquisivano la loro indipendenza politica. La zona
marittima proposta inizialmente da Cile, Ecuador e Perù veniva così assumendo i contorni di quella che si
sarebbe poi chiamata zona economica esclusiva di 200 miglia di estensione entro la quale lo stato costiero
poteva esercitare diritti relativamente a materie di rilievo economico, come lo sfruttamento delle risorse
biologiche e minerali, la protezione dell’ambiente, la ricerca scientifica, fermo restando un mare territoriale
a 12 miglia dove la sovranità dello stato costiero manteneva un pieno contenuto.
Infine nel 1975 nel corso dei negoziati per la convenzione delle nazioni unite sul diritto del mare (adottata
nel 1982), anche le tradizionali potenze marine cambiarono completamente il loro atteggiamento e
cominciarono a istituire zone economiche esclusive di 200 miglia di ampiezza. Veniva così a formarsi una
nuova norma di diritto internazionale generale.

Quale valutazione può farsi a posteriori delle pretese dei tre paesi? Se ci si attiene alla concezione
prevalente del diritto internazionale generale si dovrebbe concludere che tali pretese costituivano
altrettante violazioni delle norme vigenti: mancavano sia la precedente ripetizione costante di una serie di
comportamenti (erano comportamenti nuovi), sia il convincimento che i comportamenti in questione
fossero giuridicamente obbligatori (i tre stati innovatori erano consapevoli che la loro condotta era in
conflitto con le regole vigenti).

Se però si parte dalla constatazione che anche le norme di diritto generale evolvono nel tempo, e questo
per mezzo di procedimenti necessariamente spontanei e informali, le pretese in questione possono essere
valutate in una prospettiva diversa. Si tratta della manifestazione di un’intenzione di natura normativa che
ha la potenzialità di determinare un cambiamento nelle norme di diritto generale vigenti. Le proposte dei
tre paesi pur partendo dalle esigenze dei casi specifici, erano presentate nella forma di enunciati normativi
di carattere generale. Se fossero stati generalmente accettati, questi enunciati avrebbero potuto
determinare un’evoluzione del sistema, in modo da renderlo più adeguato a una nuova situazione. Questo
si verificò 28 anni dopo.

In realtà lo stato che enuncia la proposta di norme nuove sa di comportarsi in modo diverso da quanto i
precedenti richiederebbe. Ciononostante esso spera di interpretare nuove esigenze sentite dall’insieme dei
membri della comunità internazionale e di raccogliere un adeguato numero di consensi.

c) But, in the meantime, we had to act now

Una manifestazione molto esplicita dell’intenzione di natura normative di uno stato che tiene un
comportamento diverso da quello che le regole generali avrebbero prescritto si può trovare nella posizione
presa dal Canada nel 1970, al momento dell’adozione della legge che regolamentava la navigazione entro
una zona di 100 miglia nautiche dalle terre e dalle isole che costituiscono il vasto arcipelago artico situato
nella parte settentrionale del paese.

Il Canada era preoccupato dal rischio di inquinamento marino che sarebbe derivato dal progetto formulato
da società private americane di trasportare gli idrocarburi estratti dai giacimenti dell’Alaska per mezzo di un
super petroliere rompighiaccio che transitassero lungo il passaggio di nord ovest e tra le numerose isole
dell’arcipelago.

Le regole consolidate del diritto internazionale generale (diritto di passaggio inoffensivo nel mare
territoriale e libertà di navigazione in alto mare) avrebbero consentito la messa in atto del progetto,
contrariamente alla posizione che il Canada intendeva assumere circa questa nuova iniziativa.

Il Canada è consapevole di tenere un comportamento che non ha l’appoggio di precedenti, in presenza di


una situazione nuova (non esistevano super petroliere rompighiaccio quando si erano formate le regole del
diritto del mare) e agisce nell’intento di favorire, proprio con il comportamento in questione, la formazione
di regole più adeguate alle nuove esigenze.
La pretesa canadese benchè inizialmente avversata dagli US, trovò un sostanziale accoglimento nella
convenzione delle nazioni unite sul diritto del mare che attribuisce allo stato costiero, all’interno delle 200
miglia della sua zona economica esclusiva anche una giurisdizione in materia di protezione e preservazione
dell’ambiente marino e contiene una norma speciale relativa alle aree di tale zona ricoperte da ghiacci.

d) Those people do not enjoy international diplomatic respect


Tali situazioni vanno però tenute distinte dai casi in cui la manifestazione di un’intenzione che pure
potrebbe avere una natura normative, non si accompagna a una corrispondente serie di consensi, espliciti o
impliciti, da parte degli altri stati. In questi casi, il comportamento che fa eventualmente seguito alla
manifestazione dell’intenzione è e rimane una violazione di obblighi discendenti da norme generali.

Nel 1979 un gruppo di studenti mussulmani invase i locali dell’ambasciata degli stati uniti a teheran e con
l’appoggio prima tacito e poi espresso delle autorità dell’Iran, tenne prigionieri per oltre un anno i membri
del personale diplomatico e consolare americano. La corte internazionale di giustizia prese anche in
considerazione una non comprovata tesi dell’Iran, secondo la quale la regola di diritto internazionale
generale, che obbliga uno stato a non privare della libertà i diplomatici stranieri, non si sarebbe applicata
nel caso di diplomatici sospettati di spionaggio e di complotti.

Benchè l’Iran avesse deciso di non partecipare al giudizio di fronte dalla corte e non avesse fornito alcuna
prova degli atti di spionaggio e di complotto attribuiti ai diplomatici americani, è possibile notare nel caso
specifico una divergenza di opinioni sul contenuto di una norma generale. Per gli stati uniti la libertà dei
diplomatici è sempre inviolabile; per l’Iran, la libertà dei diplomatici è inviolabile tranne nel caso in cui essi
s’ingeriscano indebitamente negli affari interni del paesi accreditatario con anni di spionaggio e di
cospirazione.

La corte non ebbe difficoltà ad accertare che l’Iran era ripetutamente venuto meno, oltre che ai trattati in
vigore tra le parti, anche a regole di diritto internazionale consacrate da una lunga pratica. La grandissima
maggioranza degli stati aveva ripetutamente preso posizione nel senso che i diplomatici erano sempre
inviolabili e che i rimedi disponibili nel caso in cui un diplomatico avesse abusato dei suoi privilegi,
consistevano soltanto nella revoca del gradimento al responsabile (persona non grata) o nella rottura delle
relazioni diplomatiche.
In quel periodo si rafforzava anche la protezione speciale dovuta agli agenti di stati esteri.

In definitiva, mentre la zona marittima di 200 miglia o la zona di prevenzione dell’inquinamento canadese
sono rappresentazioni di violazioni di norme generali suscettibili di determinare un’evoluzione fisiologica
delle norme stesse, la cattura e la detenzione dei diplomatici appare una violazione di norme destinata a
rimanere nella patologia del diritto internazionale.

La manifestazione di un’intenzione di natura normativa

Le norme generali evolvono nel tempo e gli stati cercano di indirizzare la formazione di nuove norme.
Questo può portare a un diverso modo di intendere la natura del diritto consuetudinario rispetto a quanto
risulta dalla concezione prevalente. È il caso di valorizzare le caratteristiche dinamiche di un sistema che
invece, secondo le conseguenze desumibili dalla concezione prevalente, sarebbe condannato a rimanere
immutabile (tutti hanno sempre fatto così, tutti sanno che si deve fare così e proprio per questo tutti
dovranno fare sempre così).

L’elemento soggettivo cioè il convincimento degli stati che un certo comportamento sia giuridicamente
obbligatorio perché prescritto da una norma giuridica, si rivela troppo intimista per poter essere inserito in
un sistema caratterizzato dall’esigenza della pubblicità, qual è il sistema di diritto. A questo si aggiunge il
fatto che il convincimento di un ente immateriale e complesso, come uno stato, appare un dato così
sfuggente da non poter venire accertato in concreto.

In realtà più che i convincimenti di per sé considerati, assumono rilievo le manifestazioni esteriori di
intenzioni aventi natura normativa, e cioè le dichiarazioni provenienti da autorità ufficiali di uno o più stati
o i comportamenti che presuppongono una simile intenzione. Da tali dichiarazioni o comportamenti si può
desumere una presa di posizione di uno stato circa la perdurante esistenza di una certa norma o
l’opportunità che una norma nuova si formi in un prossimo futuro.
Nei sistemi di diritto interno, le norme di legge non sono il riflesso di intimi convincimenti di individui, ma
derivano da un insieme di regole proposte dai membri di assemblee parlamentari e poi approvate dalla
maggioranza dei loro componenti, secondo determinate formalità.
Analogamente, nel sistema di diritto internazionale, le norme generali, più che costituire l’espressione di
uno sfuggente convincimento degli stati, trovano origine in un’intenzione di natura normativa, enunciata, in
modo esplicito o implicito, da uno o più stati e presto o tardi condivisa dalla maggioranza degli altri stati.

In nessun sistema di diritto una norma può essere tale senza che essa oltre che voluta sia esteriormente
manifestata e in questo modo sia resa conoscibile a colore che ne saranno destinatari.
Ma, a differenza di quanto avviene nel diritto interno, le norme generali del diritto internazionale, benchè
voluto ed esteriormente manifestate, non sono poste in essere secondo procedure rigidamente formali.
Manca, nel sistema di diritto internazionale un parlamento; manca un giornale ufficiale e quindi una
pubblicazione periodica dove le parole e le frasi che compongono le norme sono formulate in un’unica
redazione il più precisa e sintetica possibile, facente fede rispetto a tutte le altre formule in cui le norme
potrebbero venire redatte.
Le modalità di formazione delle norme del diritto internazionale generale sono caratterizzare da una serie
plurima di enunciati o comportamenti aventi natura normativa, a volte contradditori e a volte dispersi in un
lungo arco di tempo, che non consentono di determinare con precisione il giorno esatto (a volte neanche
l’anno) in cui una certa norma generale è venuta a formazione o è venuta meno.

L’accettazione generale di un’intenzione di natura normativa

Dato che uno o pochi stati non possono fare da soli il diritto, occorre verificare se le prime manifestazioni di
intenzioni di natura normativa siano seguite da una serie concordante di consensi da parte degli altri stati o
da una serie di comportamenti che presuppongono consensi impliciti. Ai fini di una simile constatazione
non è richiesto il decorso di un più o meno lungo periodo di tempo: l’accettazione generale di un’intenzione
di natura normativa può manifestarsi anche in modo pressochè immediato.

Un procedimento di consenso generale deve concretarsi in una serie di manifestazioni adeguatamente


uniformi, estese e rappresentative. Ma non si deve pretendere che si verifichi un fenomeno universale o
totalitario che comporti l’adesione di tutti gli stati, nessuno escluso. È sufficiente constatare che la norma
sia voluta o accettata come tale da una maggioranza significativa di stati. L’accettazione può anche essere
implicita, in quanto desumibile dal silenzio e dal comportamento passivo di quegli stati che avrebbero
potuto opporsi alla formazione della nuova norma, ma che hanno preferito non farlo.

Erroneo però sarebbe soffermarsi ad un calcolo numerico degli stati sulla base di un criterio esclusivamente
quantitativo e tralasciare le considerazioni di natura qualitativa derivanti dalle contrapposizioni di interessi
di carattere politico, economico o geografico che oggi caratterizzano gli stati.

La maggioranza di stati rilevante ai fini dell’accertamento di una norma generale deve essere composta da
un numero di stati adeguatamente rappresentativo dei paesi portatori di interessi opposti nella materia
oggetto della norma e deve venire ponderata di conseguenza.
(es. una norma in materia economica non può essere accettata dai soli stati in via di sviluppo ma occorre
verificare se la stessa posizione sia condivisa dai paesi sviluppati anche se in numero inferiore di quelli in via
di sviluppo) (es. una norma generale in materia di diritto di mare deve essere approvata sia dalle potenze
marittime e sia dagli stati costieri) (es. norme relative alla legittimità dell’uso di certe armi devono essere
intese come tali sia dagli stati dotati degli armamenti sia dagli stati che ne sono privi).

Nel complesso compito dell’accertamento di norme generali, all’interprete è sempre richiesta molta
attenzione. Ad esempio le potenze dotate di armi nucleari e altri che non lo sono, affermano che l’arma
nucleare è consentita perché non espressamente vietata da alcun trattato. Ma le stesse potenze si
dichiarano vincolare dalla regola generale che vieta le armi che provocano conseguenze indiscriminate. Si
cade così in una contraddizione. Il quesito è molto arduo e la corte internazionale di giustizia in un parere
consultivo del 1996 rispose “non lo so”.

Il modo di intendere le origini e la natura obbligatoria delle norme generali che meglio corrisponde a
quanto si verifica in concreto sembra essere il seguente: queste norme si formano a seguito dell’iniziativa
volontaria di uno o più stati e della successiva generale accettazione, esplicita o implicita da parte degli
altri; e rimangono tali per tutto il tempo in cui perdura un simile atteggiamento di accettazione generale.
Si manifesta così nell’ordinamento internazionale un procedimento normativo che presenta qualche
somiglianza con i meccanismi di tipo legislativo dei sistemi di diritto interno. Ma, a differenza di quanto
avviene con i diritti interni, il procedimento formativo delle norme del diritto internazionale generale è
dominato dalla mancanza di qualsiasi elemento di ufficialità e formalità, come è del resto inevitabile in una
comunità rudimentale e primitiva quale la comunità internazionale.

L’irrilevanza dei comportamenti in quanto tali

Anche il primo dei due elementi che, in base alla concezione prevalente, formano la consuetudine, cioè la
ripetizione costante nel tempo di una serie di comportamenti, richiede qualche considerazione critica.

Le norme giuridiche hanno lo scopo di indurre i soggetti che ne sono destinatari a tenere alcuni
comportamenti: sono le norme che tendono a influire sui comportamenti e non i comportamenti che
influiscono sulle norme. Di solito i comportamenti si collocano in una realtà materiale che è estranea dalla
realtà virtuale delle norme. Soltanto alcuni comportamenti cadono sotto la valutazione di norme giuridiche.
Tutti gli altri restano indifferenti rispetto alle norme giuridiche e possono quindi essere lecitamente tenuti.

Dalla premessa che i comportamenti e le norme si pongono su due piani diversi che s’intersecano soltanto
occasionalmente, discendono alcune conseguenze circa la natura delle norme generali del diritto
internazionale.
Non occorre che le norme siano necessariamente conformi a precedenti comportamenti, potendo darsi il
caso che le norme siano state enunciate e si siano formate proprio al fine di portare al cambiamento di
comportamenti sentiti come inadeguati dalla maggioranza degli stati. Neppure occorre che i
comportamenti tenuti dopo che le norme si sono formate corrispondano a quanto prescritto dalle norme
stesse (anche se sarebbe meglio se corrispondessero).

In realtà importa ai fini dell’esistenza di norme generali di diritto interazionale, non quello che gli stati
fanno, a ma quello che gli stati sostengono che si deve fare. La constatazione che anche le norme generali o
consuetudinarie sono costituite da parole scritte sulla carta e non già da comportamenti materiali è meno
sorprendente di quanto potrebbe a prima vista sembrare.

È sufficiente che la maggioranza degli stati dichiari ufficialmente che una norma di diritto generale vieta agli
stati di tortura individui perché si possa concludere che la norma esiste. Non occorre fare alcuna indagine
per accertare i comportamenti degli stati e verificare se in precedenza gli stati abbiano torturato individui o
se purtroppo alcuni stati continuino anche oggi a farlo. Una simile indagine sarebbe estremamente difficile
da svolgere.

Di solito i comportamenti difformi da una norma costituiscono una violazione della norma stessa. Tutte le
violazioni che gli stati cercano di occultare o tutte le presunte violazioni che sono giustificate sulla base di
eccezioni che la norma consente non fanno altro che confermare la norma, indipendentemente da quale
sia la verità dei fatti. Questi tipi di comportamenti non presuppongono un’intenzione di natura normativa,
cioè un’intenzione di fare o disfare una norma, ma, tutt’al più rivelano il desiderio di sfuggire di fatto
all’applicazione di una norma di cui non si vuole o non si può mettere in discussione l’esistenza.

La corte internazionale di giustizia ha chiarito che le norme sul divieto dell’uso della forza rimangono tali
anche se alcuni stati usano la forza, purchè questi comportamenti siano giustificati, non importa se a
ragione o torto, sulla base di eccezioni previste dal sistema (legittima difesa, consenso dell’avente diritto).
Quello che conta sono le giustificazioni fornite dagli stati che usano la forza (quello che dicono piuttosto
che quello che fanno).

Diversi dagli altri, perché dotati di un significato potenzialmente normativo, sono soltanto i comportamenti
tenuti nell’intenzione implicita o esplicita, di portare alla formazione di una nuova norma. In questi casi, i
comportamenti sono rilevanti non in quanto tali ma come manifestazione di un’intenzione di natura
normativa. Questo tipo di comportamenti si accompagna spesso a dichiarazioni con le quali gli stati
rendono noto che le loro azioni non sono conformi a una norma in quanto la norma stessa non ha più
ragione di esistere o richiede di venire modificata. A questo punto si pone una questione di natura
normativa, quella cioè di accertare se i comportamenti innovativi hanno effettivamente realizzato
l’intenzione voluta.

L’accertamento delle norme generali

Dalla mancanza, nell’ordinamento internazionale, di organi precostituiti e di procedure predeterminate che


realizzino la funzione normativa discende la conseguenza che l’obiettivo della certezza del diritto risulta ben
più difficile da conseguire di quanto accada nei sistemi di diritto interno. Proprio perché si tratta di norme
prive di una redazione ufficiale per iscritto, la ricerca del contenuto delle norme generali deve venire svolta
tramite un faticoso lavoro di raccolta, analisi, confronti e semplificazione di una serie di dati della pratica
internazionale dai quali siano desumibili enunciati di natura normativa.

L’accertamento o la rilevazione dell’esistenza e del contenuto di norme generali implica un esame accurato
degli elementi significativi e richiede all’interprete una sensibilità critica per la storia e la dinamica delle
relazioni internazionali. In una ricerca di questo tipo è necessario basarsi su dati empirici e non già su idee e
principi dedotti in astratto.

Es. in una sentenza del 2012 si chiede se effettivamente esista nel diritto internazionale una norma
consuetudinaria che garantisca l’immunità anche penale all’individuo organo di uno stato sovrano, anche
quando non si tratti di agenti diplomatici o consolari o di alte cariche dello stato. La conclusione è che
ritenere l’esistenza di una norma consuetudinaria appare non corretto perché non sussiste una
giurisprudenza consolidata, non sono ravvisabili continue e concordanti dichiarazioni ufficiali degli stati e
non vi è univoca interpretazione dottrinale.

Non esiste alcuna gerarchia tra i vari dati della pratica utilizzabili: tutti quelli disponibili devono essere
ponderati nel loro complesso e criticamente confrontati al fine di poter trarre conclusioni circa l’esistenza e
il contenuto di norme di diritto internazionale generale.
Ma in concreto cosa si deve cercare per procedere all’accertamento di norme generali? I dati dai quali è
possibile desumere l’esistenza e il contenuto delle norme di diritto internazionale generale si manifestano
in forme eterogenee e si possono approssimativamente suddividere in due categorie:

1) In primo luogo vi sono i dati della pratica interna in materia internazionale, cioè gli atti e i
documenti che pur provenendo esclusivamente da organi nazionali riguardano materie oggetto di
norme di diritto internazionale: si tratta di dichiarazioni ufficiali e prese di posizione di autorità
statali, di corrispondenza diplomatica, di istruzioni dei governi ai loro agenti, di leggi nazionali, di
decisioni di autorità giudiziarie nazionali.
Nella valutazione di questo tipo di dati occorre procedere con una certa cautela. A volte, nella
corrispondenza diplomatica o nelle istruzioni date dai governi ai propri agenti, le considerazioni di
carattere giuridico si presentano così subordinate a valutazioni di natura politica o così collegate a
interessi specifici, da rendere opinabile la loro utilità ai fini della determinazione di norme generali.
2) In secondo luogo vi sono tra gli elementi rilevanti i dati della pratica internazionale in senso stretto,
cioè gli atti e i documenti che si formano sul piano internazionale: decisioni di giudici internazionali,
trattati internazionali, dichiarazioni e risoluzioni di conferenze e di organizzazioni internazionali.
Le decisioni di organi giudiziari o arbitrali internazionali, che pure sono richiamate soltanto in via
sussidiaria dall’art 38 dello statuto della corte internazionale di giustizia, accertano e quindi
applicano il diritto internazionale vigente, ivi comprese le norme generali. La particolare
competenza tecnica dei giudici che compongono gli organi giudiziari internazionali rende
particolarmente autorevoli le conclusioni cui una sentenza perviene circa l’esistenza e il contenuto
di norme generali. In alcuni casi si può addirittura attribuire ai giudici un ruolo creativo di nuove
norme di diritto internazionale generale.
I trattati internazionali possono presentare, ai fini dell’accertamento dell’esistenza e del contenuto
di norme generali, un margine più o meno ampio di ambivalenza del quale l’interprete deve tenere
debito conto. Così le ripetizioni di una certa clausola in un ampio numero di trattati bilaterali
possono, in certi casi, essere considerate come segno dell’esistenza di una norma generale di
contenuto conforme, che gli stati intendono ribadire al momento della conclusione di un trattato.
Ma può anche succedere che le ripetizioni in questione siano la manifestazione dell’intenzione
delle parti di derogare a una norma generale e, pertanto di stabilire nei loro specifici rapporti una
regolamentazione diversa da quella che risulterebbe a seguito dell’applicazione di tale regola.
Es. nei trattati con i quali due stati istituiscono relazioni diplomatiche sono molto frequenti le
clausole che sanciscono i privilegi e le immunità degli agenti diplomatici. Tali clausole non fanno per
lo più che ribadire norme generali di identico contenuto.
es. intento derogatorio rispetto a norme generali hanno invece le clausole di trattati con cui una
parte accorda all’altra il diritto di istituire una base militare sul proprio territorio (deroga alla regola
generale sulla sovranità territoriale) o di esercitare attività di sfruttamento delle risorse minerali o
biologiche nelle proprie acque etc.

Tutti i dati della pratica hanno in comune il fatto di provenire in modo diretto o indiretto non da privati
individui o enti privati, ma da organi di uno stato o di un altro soggetto di diritto internazionale.

Questione diversa dall’accertamento dell’esistenza delle norme generali è quella, avente natura
processuale, dell’onere della prova delle norme stesse nel corso di un procedimento giudiziario arbitrale. Si
ritiene che un simile onere non incomba su alcuna delle parti, dato che, in forza del principio generale che il
giudice conosce il diritto, l’organo investito di una controversia deve accertare e applicare d’ufficio tutte le
norme aventi una natura generale.
Succede però in concreto che uno stato per rafforzare la propria posizione cerchi di solito di presentare il
maggior numero di elementi che possano indurre il giudice a decidere sulla base della norma invocata dallo
stesso stato.

Gli strumenti di reperimento della pratica internazionale

Poiché non esiste una gazzetta ufficiale internazionale o una raccolta facente fede ove le norme siano
pubblicate in forma autoritativa, l’accertamento delle norme generali del diritto internazionale deve,
all’atto pratico, avvenire mediante il reperimento e la consultazione di un ampio insieme di raccolte di dati
della pratica internazionale che consenta all’interprete di trarre conclusioni sensate circa l’esistenza e il
contenuto di una certa norma.

A partire dal XIX secolo sono stati pubblicati a stampa a opera di governi o di singoli studiosi e sono oggi a
volte anche accessibili per via elettronica numerosi repertori e raccolte, relativi a vari aspetti della pratica
internazionale, quali le sentenze internazionali, i trattati, gli atti e documenti di organizzazioni
internazionali, e a vari aspetti della pratica nazionale su questioni attinenti alle relazioni internazionali, quali
le sentenze di giudici interni, le leggi, la corrispondenza diplomatica. La raccolta TREATY SERIES pubblicata
dalle nazioni unite ha raggiunto nel 2010 il numero di 2700 volumi e cresce al ritmo di circa 62 volumi
all’anno.
È vero che la pratica nazionale in materia internazionale accessibile alla consultazione è ancora
prevalentemente quella di un limitato gruppo di stati che si curano di rendere noti i loro documenti e
hanno i mezzi per farlo. La restante pratica resta depositata in archivi non sempre di pubblica consultazione
e viene occasionalmente alla luce quando in caso di controversie internazionali gli stati hanno cura di
esibire in giudizio i materiali che appoggiano le loro domande. Ma è anche vero che sarebbe assurdo
pretendere di esaminare la totalità di dati della pratica di rilievo internazionale, prima di poter trarre
conclusione circa l’esistenza e il contenuto di una data norma generale. In questo compito il giurista di
diritto internazionale deve necessariamente procedere più che alla stregua di criteri meccanici, sulla base
dalla sua sensibilità di interprete dei dati che gli siano ragionevolmente accessibili.

L’efficacia soggettiva delle norme generali

Per la loro natura, le norme consuetudinarie del diritto internazionale si applicano a tutti gli stati e a tutti i
soggetti di diritto internazionale (erga omnes), in questo distinguendosi dai trattati che vincolano solo le
parti.
L’ambito di applicazione di una norma generale si estende agli stati che non hanno attivamente contribuito
alla sua formazione o che si sono dimostrati indifferenti al riguardo.
La mancata presa di posizione durante la fase formativa di una norma può essere intesa come una tacita
accettazione della norma in questione.
Questione diversa è quella della presenza o della mancanza dei presupposti di fatto che rendono una
norma generale applicabile a uno o più stati. Ad esempio, la norma che attribuisce a uno stato il diritto di
avere un mare territoriale non può, per evidenti motivi, essere applicata nel caso di stati privi di litorale
marittimo. Ma la norma mantiene la sua efficacia generale, in quanto anche questi soggetti sono tenuti ad
osservare gli obblighi derivanti dall’esistenza di un mare territoriale adiacente al territorio degli stati dotati
di un litorale marittimo.
Le norme generali si applicano anche agli stati che non poteva contribuire alla loro creazione, come gli stati
che non esistevano al momento in cui una certa norma si trovava nella sua fase formativa, avendo tali stati
solo successivamente conseguito la loro indipendenza. Il carattere necessario dell’ordinamento
internazionale comporta la conseguenza che uno stato nuovo sia, per il solo fatto della sua esistenza,
tenuto ad osservare le norme generali che costituiscono tale ordinamento, senza che debba intervenire
alcun atto o dichiarazione di accettazione da parte sua.

Le consuetudini locali

Un’efficacia non generale, in riferimento al numero dei soggetti che ne sono destinatari, hanno quelle
norme non scritte che vengono a formarsi nei rapporti intercorrenti tra un gruppo limitato e determinato di
stati. Si parla di consuetudini locali o particolari o regionali.
Questo tipo di regole si avvicinano alle norme generali, sotto il profilo della mancanza di una redazione
ufficiale di un testo scritto, e si avvicinano ai trattati, sotto il profilo della loro sfera di efficacia soggettiva.
Nulla impedisce che una consuetudine locale si formi nei rapporti tra un numero esiguo di stati fossero
anche due soltanto.
Diversamente da quanto avviene per le regole generali, l’onere processuale di fornire la prova di una
consuetudine locale incombe sulla parte che la invoca.
Questo si spiega con la natura particolare delle consuetudini locali che, come tali, sfuggono alla
presunzione di conoscenza del diritto da parte del giudice.

Lo stato obiettore persistente

Più complesso è il caso dello stato cosiddetto obiettore persistente o stato oppositore, cioè lo stato che già
nella fasi formativa di una norma generale, e non dopo che la norma si sia formata, manifesta in modo
persistente e inequivoco la sua opposizione a essere vincolato dalla norma stessa. La norma generale, una
volta affermata, non potrebbe essere fatta valere nei confronti di uno stato obiettore persistente.
L’eccezione dell’obiettore persistente costituisce una vera a propria anomalia del sistema e appare molto
discutibile.
Le norme generali del diritto internazionale non richiedono di essere accettate e condivide dalla totalità
degli stati, ma da una maggioranza sufficientemente rappresentativa. Il tentativo dello stato che si oppone
alla formazione di una nuova norma, allo stesso modo del tentativo dello stato che invece ne propone
l’introduzione, potrà avere o non avere esito positivo a seconda del prevalente orientamento degli altri
stati verso l’una o l’altra soluzione. Ma una volta che essa si sia formata, la norma generale dovrebbe valere
per tutti gli stati ivi compresi gli stati che si siano opposti. La dottrina dell’obiettore persistente finisce con il
creare un’inspiegabile disparità tra la situazione di quegli stati che erano in condizione di opporsi alla
formazione di una nuova norma generale e quella degli stati che avendo solo successivamente conseguito
l’indipendenza, si trovano vincolati da una norma già formata, senza aver mai avuto la possibilità di potervi
obiettare.
È pertanto preferibile ritenere che in certi casi, uno stato obiettore persistente riesce a sottrarsi a un
obbligo derivante da una regola generale del diritto internazionale non in forza della sua obiezione ma
perché si è formata una regola consuetudinaria locale nel senso voluto dallo stato in questione.
Può succedere che uno o meglio alcuni o molti stati abbiano accettato, esplicitamente o tacitamente la
posizione assunta dallo stato obiettore: ma una simile eccezione alla regola generale potrà valere soltanto
nei rapporti tra questi stati e lo stato obiettore.

La codificazione del diritto internazionale

a) La codificazione dottrinale

La complessità del procedimento che porta ad accertare le norme di diritto internazionale generale e
l’incertezza dei relativi esiti hanno determinato varie iniziative di studiosi, istituzioni scientifiche private e
pubbliche, governi e organizzazioni internazionali di redigere per iscritto e di classificare in modo
sistematico le norme del diritto internazionale o nella loro totalità o limitatamente a certi settori. Si è così
cercato di riproporre nell’ordinamento internazionale il fenomeno della codificazione.
L’esigenza della codificazione sia pure a un livello meramente dottrinale si era già manifestata nelle opere
di alcuni studiosi di tempi passati che avevano attribuito alle loro trattazioni l’aspetto esteriore di un codice
del diritto internazionale.
Fanno pure parte della codificazione dottrinale del diritto internazionale gli studi e i progetti predisposti da
istituzioni scientifiche, quali L’Institut de droit international e l’International Law Association e L’American
Law Institute che pubblica una riesposizione del diritto delle relazioni internazionali degli stati uniti.
I tentativi di singoli studiosi e di associazioni scientifiche, per quanto significativi essi siano, non
costituiscono però un’opera di codificazione in senso proprio, mancando in essi il carattere dell’ufficialità
che rende le norme codificate obbligatorie per i soggetti di un dato ordinamento. Il compito della
codificazione, che nei sistemi di diritto interno è svolto dal legislatore, nel sistema di diritto internazionale
può essere intrapreso soltanto dagli stati mediante uno o più trattati multilaterali e con i limiti di efficacia
soggettiva che tali strumenti comportano.

b) La codificazione del diritto internazionale di guerra

Il primo esempio di codificazione ad opera degli stati si verificò nella seconda metà del secolo XIX nel
settore del diritto internazionale di guerra, con il tentativo di rendere più umano il fenomeno delle ostilità
belliche nei confronti dei combattenti e delle popolazioni civili coinvolte nel conflitto. Dopo la dichiarazione
su diverse questioni attinenti al regolamento giuridico internazionale della guerra marittima (Parigi 1856) e
dopo la Convenzione relativa al miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra (Ginevra 1864), la
codificazione della materia ebbe ampi sviluppi con una serie di convenzioni adottate nelle due conferenze
internazionali della pace tenutesi all’Aja nel 1899 e nel 1907 e nei trattati conclusi successivamente.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’insieme del diritto internazionale di guerra fu ulteriormente codificato
con le quattro convenzioni adottate a Ginevra nel 1949 e relative rispettivamente al trattamento dei feriti e
malati nelle forze terrestri, al trattamenti dei feriti malati e naufraghi nelle forze navali, al trattamento dei
prigionieri di guerra e alla protezione dei civili in tempo di guerra. A loro volta le convenzioni del 1949
furono integrate da 3 protocolli relativi alla protezione delle vittime dei conflitti internazionali, alla
protezione delle vittime dei conflitti non internazionali, all’adozione di un emblema distintivo aggiuntivo.

c) La commissione del diritto internazionale

Nello scorso secolo, i lavori per la codificazione del diritto internazionale sono stati soprattutto promossi
dalle due organizzazioni politiche mondiali che gli stati hanno costituito dopo i conflitti mondiali.
Il tentativo della società delle nazioni d’intraprendere un’opera di codificazione del diritto internazionale
non diede luogo a risultati particolarmente significativi. La conferenza per la codificazione tenuta all’Aja nel
1930 non riuscì ad adottare alcun testo finale per due dei tre temi all’ordine del giorno. Soltanto sul terzo
tema, la cittadinanza, la conferenza adottò 4 testi convenzionali.
Gli sforzi della società delle nazioni consentirono però di costituire un insieme di esperienze utili nel
momento in cui, dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile riprendere nel contesto delle nazioni unite il
proposito della codificazione del diritto internazionale.
La carta delle nazioni unite attribuisce all’assemblea generale anche il compito d’intraprendere studi e fare
raccomandazioni allo scopo di incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua
codificazione.

Per adempiere a tale compito, l’assemblea generale ha creato un suo organo sussidiario nel 1947 a
carattere permanente, la commissione del diritto internazionale. Nello statuto della commissione è chiarita
la differenza tra le due diverse funzioni che costituiscono la codificazione in senso lato del diritto
internazionale: l’espressione sviluppo progressivo del diritto internazionale si riferisce all’elaborazione di
convenzioni su materie che non siano ancora regolate dal diritto internazionale o sulle quali il diritto non
appaia ancora sufficientemente sviluppato nella pratica degli stati; mentre l’espressione codificazione del
diritto internazionale si riferisce ai casi in cui siano formulate con maggiore precisione e in modo
sistematico regole in settori nei quali già esiste una considerevole pratica degli stati, precedenti e dottrina.

La commissione è oggi composta da 34 membri eletti dall’assemblea generale su liste di candidati


presentate dagli stati membri delle nazioni unite. I membri della commissione devono essere individui di
riconosciuta competenza in materia di diritto internazionale. Essi operano a titolo personale e non
rappresentano alcuno stato.

Particolarmente accurato è il metodo di lavoro della CDI. Una volta scelto uno specifico settore del diritto
internazionale generale, anche sulla base delle indicazioni dell’assemblea generale, viene designato un
relatore tra i suoi membri. Questi sulla base di successivi rapporti, predispone una serie di articoli
preliminari con relativi commenti, che vengono analizzati nel corso delle sessioni della commissione. Il
lavoro della commissione è oggetti di un rapporto annuale, presentato all’assemblea generale. In questa
sede gli stati non mancano di fornire utili indicazioni a volte anche critiche su come essi valutano le scelte
operate dalla commissione. Al termine di questo lungo processo di elaborazione, la commissione è in grado
di approvare un progetto di trattato e di fare raccomandazioni circa il suo seguito.
Una volta completata la fase tecnica, affidata alla CDI, si apre la fase politica del processo di codificazione.
L’assemblea generale qualora ritenga di dare un seguito al progetto della commissione, può decidere di
convocare una conferenza di stati che discuta il progetto, vi apporti le modifiche opportune e adotti un
trattato di codificazione. Così nel quadro delle nazioni unite è stato adottato un insieme imponente di testi,
che copre ampi settori del diritto internazionale.
L’assemblea generale può anche ritenere opportuno adottare senza la previa convocazione di una
conferenza il testo di un trattato di codificazione che corrisponda al progetto della CDI e allegarlo alla
propria risoluzione.

Altre scelte sono pure ammissibili, dato l’ampio margine di discrezionalità di cui l’assemblea generale
dispone in materia. Nel caso dell’importante tema della responsabilità internazionale l’assemblea si è per
ora limitata con una risoluzione del 2001 e altre successive a prendere nota del progetto di articoli adottato
dalla commissione nel 2001 segnalando l’attenzione degli stati senza pregiudizio per una sua futura
adozione sotto forma di trattato o altra azione.

Negli ultimi tempi la CDI ha predisposto anche strumenti che non sono intesi a trasformarsi in trattati di
codificazione e che assumono denominazioni e forme diverse quali le conclusioni sulla frammentazione del
diritto internazionale, i principi direttivi applicabili alle dichiarazioni unilaterali degli stati suscettibili di
creare obblighi giuridici etc..
Diversi temi fanno parte del programma attuale dei lavori.

Nella pratica delle nazioni unite sono anche emerse procedure di codificazione e di sviluppo progressivo del
diritto internazionale che non comportano l’intervento di un organo tecnico come la CDI. Tali procedure si
svolgono esclusivamente a livello politico. Esse si compongono di solito di una prima fase che si tiene nel
quadro di una commissione dell’Assemblea Generale, a composizione più o meno ristretta, ma sempre
riservata a rappresentanti governativi, e di una seconda fase che giunge all’adozione definitiva di una
convenzione ad opera della stessa assemblea o di un’apposita conferenza diplomatica.

Codificazione e diritto internazionale generale

Lo strumento giuridico utilizzato per procedere alla codificazione e allo sviluppo progressivo dei vari settori
del diritto internazionale è necessariamente costituito da un trattato. Come tutti gli atti questa natura,
anche un trattato di codifiche richiede, dopo la sua adozione un numero minimo di ratifiche per la sua
entrata in vigore. Una volta entrato in vigore produce effetti soltanto per gli stati che ne sono divenuti
parte.

Il successo o l’insuccesso di un’opera di codificazione è pertanto strettamente legato alle sorti dello
strumento convenzionale in cui tale opera si è tradotta, e cioè oltre che alla sua entrata in vigore, al
numero degli stati che abbiano espresso il loro consenso a divenire parti al trattato di codificazione a al
fatto che gli stati parte costituiscano un gruppo sufficientemente rappresentativo dell’insieme della
comunità internazionale. Proprio i limiti di efficacia tipici del trattato determinano una differenza di tipi
qualificativo tra la codificazione del diritto internazionale e la codificazione di diritto interno che avviene
tramite lo strumento della legge.

È talora necessaria una delicata indagine per determinare quali aspetti di un trattato di codificazione
rappresentino codificazioni in senso stretto e quali sviluppo progressivo così da poter stabilire quali norme
corrispondano al diritto internazionale generali e quali invece producano effetti soltanto tra le parti del
trattato.

È utile una distinzione concettuale elaborata dalla corte internazionale di giustizia in varie sentenze circa i
rapporti tra trattati di codificazione, indipendentemente dalla loro efficacia quali trattati internazionali, e il
diritto internazionale generale. In una prima ipotesi il trattato può avere l’effetto di una incorporazione di
norme generali, nel senso che esso dà forma scritta a norme generali già esistenti al momento della sua
adozione. Queste norme, proprio in quanto norme generali, obbligano anche gli stati che non sono parti del
trattato di codificazione.
In una seconda ipotesi, il trattato può avere l’effetto di una cristallizzazione (consolidamento) di norme
generali che stavano emergendo, nel senso che il trattato costituisce l’elemento che conclude la fase
formativa di tali norme.

In una terza ipotesi, il trattato può essere un fattore generatore di nuove norme generali, nel senso che
esso determina modelli di comportamento degli stati che, con il passare del tempo, portano alla
formazione di norme generali che non esistevano al momento dell’adozione del trattato stesso.

Può però, sia pure più raramente, verificarsi anche il fenomeno contrario: norme che al momento della loro
inclusione in un trattato di codificazione riproducevano regole generali universalmente riconosciute
possono, con il passare del tempo e a seguito della spontanea evoluzione del diritto internazionale, essere
sostituite da norme generali di diverso contenuto.

I rapporti tra norme generali e trattati

Soltanto in tempi recenti, con la convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, si è affermata l’idea
di una gerarchia tra norme generali e trattati, nel senso che alcune norme generali caratterizzate dalla loro
natura imperativa prevalgono sui trattati, così da rendere nullo un trattato che sia in conflitto con tali
norme.
In assenza di norme generali imperative, le norme dei trattati hanno, nei rapporti tra le parti, un’efficacia
normativa equivalente e autonoma rispetto alle norme generali, anche quando vi sia identità di contenuto.

Nei casi di conflitto tra norme generali e norme convenzionali, occorre tenere anzitutto presente il criterio
per cui la norma speciale deroga, nei rapporti tra le parti, alla norma generale. Il carattere speciale dei
trattati si deduce anche dal loro obiettivo tipico che consiste nel creare diritti e obblighi negli ampi spazi di
libertà lasciati dal diritto generale. Ma le norme generali devono essere utilizzate per colmare le eventuali
lacune lasciate nella regolamentazione convenzionale o per interpretare se necessario le disposizioni del
trattato.
Se il criterio di specialità consente in molti casi di ritenere prevalente la norma contenuta in un trattato, in
altri, ma più rari, casi è preferibile seguire il diverso criterio cronologico secondo il quale la norma
successiva deroga a quella preesistente. Questo può verificarsi quando si assista alla formazione,
successivamente al trattato, di una nuova norma consuetudinaria che è in conflitto con il trattato stesso.
Es. si sono rapidamente formate durante il negoziato per la convenzione delle nazioni unite sul diritto del
mare nuove regole consuetudinarie che consentono allo stato costiero di esercitare diritti sovrani in
materia di pesca entro 200 miglia marine della costa. Tali norme consuetudinarie hanno avuto l’effetto di
abrogare quei trattati in materia di pesca precedenti.

Il fenomeno dell’abrogazione di norme convenzionali da parte di successive norme consuetudinarie può


però anche venire spiegato come conseguenza di un mutamento fondamentale delle circostanze che
porterebbe all’estinzione del trattato o di sue singole disposizioni.

I principi generali di diritto

Sono una fonte sussidiaria. Hanno la funzione di regolare una materia quando non esistono norme generali
che la regolano. Affichè un principio generale di diritto interno sia applicabile nell’ordinamento
internazionale, occorre che esso sia presente nella maggioranza degli ordinamenti degli stati e che inoltre
sia considerato dagli stessi come principio applicabile anche sul piano internazionale.

In molti ordinamenti, compreso quello internazionale, si possono trovare ripetuti alcuni principi generali di
diritto che svolgono una loro funzione, spesso sul piano della logica giuridica, qualora non esistano norme
che regolano specificamente una certa materia. Spesso questi principi risalgono per la loro elaborazione
originaria al sistema di diritto romano e sono stati poi ripresi nel sistema di diritto comune.
Con una formulazione ambigua l’art 38 dello statuto della corte internazionale di giustizia prevede che la
corte applichi nel decidere in base al diritto internazionale le controversie che le si sono sottoposte, anche i
principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. È plausibile che si tratti di principi generali degli
ordinamenti giuridici nazionali piuttosto che di principi generali del diritto internazionale (risulta dai lavori
preparatori).

I principi generali di diritto non vanno confusi con criteri di equità o altre analoghe nozioni. In base allo
statuto della corte una decisione secondo equità può essere resa dalla corte soltanto se le parti si sono
accordate in tal senso. Questo conferma che i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili
qualunque cosa essi siano, sono comunque una categoria di norme diversa dall’equità.
E’ da ritenere che con il richiamo dei principi generali di diritto lo statuto abbia inteso attribuire alla corte
un maggior potere di ricerca delle regole applicabili per la decisione delle singole controversie, aggiungendo
un’ulteriore categoria di norme alle due categorie principali (trattati e norme generali).

Tra i principi di tradizionale logica giuridica, che operano anche nel diritto internazionale e che risalgono al
diritto romano si possono citare le massime: lex specialis derogat generali, lex posterior derogat propri, etc.
Molto importante in ogni ordinamento è il principio generale in base al quale tutto ciò che non è
espressamente vietato, è permesso.
Altri principi come nemo iudex in re sua (nessuno deve essere giudice della propria causa) hanno natura
processuale.

Dato il contenuto molto generale dei principi in questione e la loro natura di massime di logica giuridica, è
preferibile ritenere che il ricorso a tale categoria di norme possa essere fatto anche in assenza di una
disposizione convenzionale che espressamente lo autorizzi.
Il ricorso a un principio generale è sottoposto tuttavia ad alcune condizioni e restrizioni:
- non vi devono essere trattati o regole generali di diritto internazionale applicabili nel caso concreto;
- il principio utilizzato deve essere presente nella maggior parte dei sistemi giuridici nazionali;
- il principio non deve risultare incompatibile con i caratteri e la struttura della comunità internazionale.

Es. Il concetto di danni punitivi, presente soltanto in alcuni sistemi di common law, non può considerarsi un
principio generale di diritto, né venire esteso al diritto internazionale.

È ovvio che occorre guardarsi da confusioni tra i principi generali di diritto e le norme generali di diritto
internazionale, che non si fondano affatto sui sistemi di diritto interno, ma si formano sul piano delle
relazioni giuridiche tra gli stati. Può anche darsi che un principio generale di diritto venga fatto proprio nella
pratica delle relazioni tra gli stati e acquisisca in tal modo anche la natura di norma generale di diritto
internazionale (es. principio secondo cui chi causa un danno lo deve risarcire). Può anche darsi che un
principio generale di diritto sia richiamato in alcuni trattati e venga, anche in tal modo, ad acquisire l’effetto
di norma particolare applicabile tra le parti (es. principio dell’abuso di diritto per il quale non si può
esercitare un diritto al solo fine di creare un pregiudizio ad un altro soggetto).

I precedenti giudiziari

Le decisioni di organi giudiziari o arbitrali internazionali sono richiamate quali categorie di norme sussidiarie
dall’art 38 dello statuto della corte internazionale di giustizia.
Il tipico ruolo del giudice è quello di applicare, non di creare, il diritto, compreso il diritto internazionale.
Questo non esclude che la competenza tecnica dei giudici che compongono gli organi giudiziari
internazionali renda particolarmente autorevole le conclusioni cui una sentenza perviene circa l’esistenza e
il contenuto di norme generali.

Resta il fatto che in alcuni casi sembra possibile attribuire ai giudici un ruolo creativo di nuove norme di
diritto internazionale generale. È vero che una decisione internazionale ha valore di cosa giudicata soltanto
fra le parti e non costituisce un precedente dotato di effetto vincolante rispetto ad altri casi, ma è anche
vero che le decisioni giudiziarie, nella misura in cui i giudici o gli arbitri internazionali accertino l’esistenza o
meno di norme internazionali generali, rappresentano quasi sempre un modello rispetto ai casi simili che si
possono verificare in seguito e forniscono un importante punto d’appoggio per lo sviluppo di una pratica
internazionale in senso corrispondente.
Non mancano i casi in cui in assenza di norme generali adeguate a far fronte ad esigenze nuove, il giudice
internazionale pur senza poterlo dire apertamente, ha in concreto fatto il diritto, creando dal poco o dal
nulla una nuova norma applicabile.

La dottrina

Oggi non si può affermare che le opinioni degli studiosi (dottrina) costituiscano di per sé una categoria di
norme del diritto internazionale (in passato sì). Le argomentazioni degli studiosi possono soltanto rafforzare
l’applicazione di norme che già siano state accertate come esistenti a livello di trattati, di norme generali o
di principi generali di diritto.
A seguito della progressiva accumulazione di un consistente insieme di dati della pratica internazionale, dai
quali era possibile desumere le norme quali esse si manifestavano nella realtà delle relazioni degli stati, e a
seguito della pubblicazione a stampa dei relativi repertori e raccolte, l’opera degli studiosi è venuta con il
passare del tempo prevalentemente ad assumere il più modesto ma forse più utile ruolo della descrizione e
della classificazione delle norme desumibili dall’esame della pratica internazionale.

Le risoluzioni dell’assemblea generale delle nazioni unite

Si è posto il problema dell’incidenza della prassi delle nazioni unite sulla formazione di regole del diritto
internazionale generale, soprattutto per quanto riguarda la natura e gli effetti di quegli atti dell’assemblea
generale che contengono un insieme di regole relative a una determinata materia. Tali atti, chiamati di
solito risoluzioni, sono a volte formulati in modo generale e astratto e sono talora designati con espressioni
quali dichiarazione di principi o carta.

Ci si chiede se queste e altre dichiarazioni di principi, in considerazione del carattere universale delle
nazioni unite, debbano configurarsi come un’autonoma categoria di norme del diritto internazionale,
diversa dai trattati e dalle norme generali. Non sembra però possibile dare una risposta positiva al quesito.
È vero che le dichiarazioni di principi dell’assemblea hanno un peso considerevole tra i vari elementi della
pratica che caratterizzano i processi di formazione spontanea di regole generali di diritto internazionale. Ma
è altrettanto vero che nella carta delle nazioni unite non si trova alcun riferimento specifico al potere
dell’assemblea generale di emanare dichiarazioni di principi e al valore giuridico che a esse debba venire
attribuito. Queste dichiarazioni rientrano nella competenza generale di un organo che può discutere
qualsiasi questione o materia che rientri nell’ambito della carta delle nazioni unite. Ma esse hanno valore
non vincolante di una raccomandazione alla pari degli altri atti che l’assemblea generale può adottare.

Come ogni altro dato della pratica internazionale, le dichiarazioni di principi dell’assemblea generale
possono incorporare regole generali già esistenti (es. divieto uso forza) o possono consolidare norme che
stanno emergendo o possono, infine, denotare possibili sviluppi evolutivi nell’ambito dell’ordinamento
internazionale. In quest’ultimo caso, anche gli stessi stati che hanno votato a favore di una dichiarazione
non sembrano però obbligati a osservare i precetti in essa contenuti. L’intento di chi ha adottato la
dichiarazione è infatti quello di raccomandare un comportamento che sarebbe auspicabile tenere, pur non
essendo esso prescritto da alcuna regola generale del diritto internazionale.

Nel 1996 in un parere consultivo circa la liceità della minaccia o dell’impiego di armi nucleari, la corte
internazionale di giustizia ritenne che in certi casi le risoluzioni dell’assemblea generale potessero avere un
valore normativo.
Il diritto soffice

Considerazioni simili a quelle dell’Assemblea Generale possono ripetersi per tutti quegli atti aventi natura
politica o tecnica, ma giuridicamente non vincolante, che sono frequentemente adottati da organi delle
varie organizzazioni internazionali o da conferenze cui prendono parte delegati degli Stati. Questi atti che
assumono le denominazioni più varie (dichiarazioni, risoluzioni, carte, codici di condotta, programmi
d’azione, linee guida) e indicati con nome di diritto soffice sono utili a rendere l’idea che l’intenzione degli
Stati che li adottano è proprio quella di evitare di assumere impegni giuridici precisi, pur non essendo
escluso che il diritto possa in futuro evolvere nella direzione auspicata dagli stessi.
Gli strumenti di diritto soffice possono trasformarsi in trattati o possono contribuire insieme ad altri dati
della pratica al processo formativo di norme generali internazionali. Finché questo non si verifica
rimangono atti non vincolanti aventi il carattere di raccomandazioni.
(es. tra gli strumenti di diritto soffice che hanno contribuito all’evoluzione del diritto internazionale
generale si segnalano varie dichiarazioni di principi in materia di diritto internazionale dell’ambiente).

Atti unilaterali

Nel caso degli atti unilaterali, la manifestazione di volontà di un soggetto è di per sé idonea a creare effetti
giuridici sul piano del diritto internazionale indipendentemente da una sua convergenza con una
manifestazione di volontà di contenuto corrispondente da parte di un altro soggetto (si distinguono per
questo motivo dagli atti bilaterali o multilaterali per i quali è richiesta la convergenza di più manifestazioni
di volontà).

Gli effetti derivanti dagli atti unilaterali possono riguardare la nascita, la modificazione, l’estinzione o la
salvaguardia di situazioni giuridiche soggettive (diritti e obblighi) facenti capo allo Stato da cui promana la
manifestazione unilaterale di volontà e operanti nei riguardi dello stato cui la manifestazione è diretta o di
tutti gli stati in genere.
Atti giuridici unilaterali possono anche riferirsi alla sfera di efficacia di un trattato o alla messa in moto di
procedimenti per la soluzione di controversie tra stati.

I principi guida applicabili alle dichiarazioni unilaterali degli stati suscettibili di creare obblighi giuridici
adottati dalla commissione del diritto internazionale del 2006 segnalano che i comportamenti idonei a
vincolare giuridicamente gli stati possono assumere varie forme, quali dichiarazione formale o una
condotta meramente informale.

Per determinare gli effetti giuridici di una dichiarazione unilaterale è necessario tener conto del suo
contenuto, delle circostanze in cui essa è stata fatta e delle reazioni che essa ha determinate.
Una dichiarazione unilaterale comporta obblighi per lo stato che ne è autore soltanto se essa è formulata in
termini chiari e specifici e, in caso di dubbio sulla portata degli obblighi assunti, questi ultimi vanno
interpretati in modo restrittivo. Una dichiarazione unilaterale che ha creato obblighi per lo stato autore non
può essere da questi arbitrariamente revocata. Per determinare il carattere arbitrario della revoca si tiene
conto del fatto che vi fossero riferimenti nella dichiarazione alla possibilità di revoca, dell’affidamento che i
destinatari avevano fatto sulla dichiarazione e del fatto che sia intervenuto un cambiamento fondamentale
delle circostanze.

Il rilievo assunto dalla volontà dello stato negli atti giuridici unilaterali ha portato a estendere a essi quelle
cause di invalidità e in particolare i vizi della volontà (errore, minaccia e dolo) che operano a proposito dei
trattai. È anche necessario che la dichiarazione sia fatta da un’autorità avente il potere di vincolare lo stato.
E’ nulla una dichiarazione unilaterale che sia in contrasto con una norma imperativa del diritto
internazionale generale.
I più frequenti atti unilaterali sono: il riconoscimento, la rinuncia, l’acquiescenza, la protesta, la promessa, e
altri fatti unilaterali.
1. Il riconoscimento: atto attraverso il quale uno Stato, sulla base di una sua preventiva valutazione di una
determinata situazione di fatto o di diritto, manifesta unilateralmente la sua volontà di considerare
esistente e di non contestare tale situazione. Il riconoscimento svolge un ruolo importante nel mondo delle
relazioni internazionali.
La manifestazione di volontà può avere ad oggetto le più varie situazioni, come la formazione di uno stato
nuovo, un mutamento rivoluzionario di un governo, un cambiamento nella titolarità del diritto di sovranità
su di un certo territorio etc. talora gli stati distinguono tra un riconoscimento de iure e un riconoscimento
de facto, ma le basi e le conseguenze di una simile distinzione rimangono oscure.
L’effetto che il diritto internazionale generale collega al riconoscimento consiste nell’obbligo, per lo stato
che lo ha effettuato di non contestare la situazione di fatto o di diritto riconosciuta e in un corrispondente
diritto soggettivo a favore degli stati verso i quali il riconoscimento è diretto.
Si ritiene che tale effetto possa essere sottoposto a condizioni e che possa cessare in caso di revoca del
riconoscimento, dovendo la revoca essere rivolta agli stessi destinatari del riconoscimento revocato.

2. La rinuncia: atto mediante il quale uno Stato manifesta la volontà di non avvalersi di un diritto soggettivo
che gli spetta sulla base di una norma, generale o convenzionale, del diritto internazionale. Essa estingue
l’obbligo che uno o più Stati dovevano adempiere nei confronti dello Stato autore della rinuncia. La rinuncia
non può presumersi. La desistenza da un’azione non deve essere intesa di per sé come rinuncia al diritto
relativo e alla riproposizione della stessa azione.

3. Acquiescenza: il riconoscimento e la rinuncia posso risultare sia da una manifestazione espressa di


volontà di uno Stato sia da suoi comportamenti concludenti che denotano un consenso tacito. In questi casi
di verifica una situazione di acquiescenza. Non si può desumere il consenso di uno Stato a un certo
comportamento dal solo fatto che esso non abbia dato risposta entro un certo termine a una proposta fatta
da un altro Stato. La corte internazionale di giustizia rilevò che il concetto di acquiescenza è equivalente a
un riconoscimento tacito manifestato da una condotta unilaterale che un’altra parte può interpretare come
consenso. Anche il silenzio può parlare, ma solo se la condotta di un altro stato esige una risposta.

4. La protesta: la possibilità di desumere dal comportamento di uno Stato il riconoscimento di una


determinata situazione o la rinuncia ad avvalersi di un proprio diritto, è esclusa, qualora esso abbia
formulato tempestivamente una protesta contro il verificarsi di quella situazione o contro la violazione di
quel suo diritto. Ha per effetto di impedire che il comportamento passivo di uno Stato possa essere inteso
come acquiescenza.

5. La promessa: è una manifestazione unilaterale di volontà con la quale lo Stato si impegna a tenere un
certo comportamento. Se risulta una chiara intenzione di volersi vincolare sul piano giuridico e se tale
intenzione è pubblicamente manifestata, lo stato è obbligato ad attenersi al comportamento promesso,
senza che gli altri stati siano tenuti a esprimere una successiva accettazione.

6. Altri atti unilaterali: tra gli atti giuridici unilaterali relativi alla sfera di efficacia di un trattato si segnalano
la ratifica o l’adesione, che manifestano la volontà di vincolarsi, la denuncia o il recesso che esprimono la
volontà di far venire meno i diritti e gli obblighi di uno stato rispetto ad un trattato, la riserva che limita
l’efficacia del trattato nei riguardi di uno stato.
Con la richiesta uno stato dà inizio a un procedimento per il regolamento giudiziario di una controversia,
esercitando un diritto previsto da un trattato di cui siano parti sia lo stato che avanza la richiesta sia lo stato
nei confronti del quale la medesima è avanzata.
Come atto unilaterale può essere intesa anche la dichiarazione di annessione di un territorio altrui o nullius:
ma essa è soltanto un elemento di una situazione più complessa, che richiede, per poter determinare la
conseguenza di un’estensione di sovranità, anche un effettivo e stabile esercizio dell’autorità dello stato nel
territorio in questione.
RESPONSABILITÀ INTERNAZIONALE
Nozioni generali e presupposti della responsabilità internazionale
Si dice responsabilità internazionale il complesso di relazioni giuridiche che derivano dalla violazione da
parte di uno stato di un obbligo posto a suo carico dal diritto internazionale, ovvero dal fatto illecito
internazionale.

La commissione di un fatto illecito internazionale fa nascere una nuova relazione giuridica (la responsabilità
internazionale) tra lo stato autore della violazione e lo stato titolare del diritto corrispondente all’obbligo
violato, in forza della quale lo Stato responsabile (autore della violazione) ha il dovere di rimuovere le
conseguenze negative prodotte dall’illecito internazionale prestando le opportune riparazioni e lo Stato
leso (che ha subito la violazione) ha il diritto di pretendere l’adempimento di tale dovere.

Affinché un fatto si qualifichi come fatto illecito internazionale devono sussistere 3 condizioni:

1. Contrario ad obblighi internazionali (requisito oggettivo)


2. Comportamento (commissivo od omissivo) imputabile allo Stato nei confronti di cui andrà a sorgere
responsabilità (requisito soggettivo)

Questi due requisiti sono enunciati dal Progetto come caratterizzanti dell’illecito internazionale. Ad essi si va
ad aggiungere poi il terzo requisito dell’assenza di cause esimenti, da accertare in concreto

3. Assenza di cause esimenti di responsabilità nel caso concreto

Accertata l’esistenza di un fatto internazionalmente illecito imputabile a un dato stato, si dovrà in secondo
luogo definire quale sia il contenuto della responsabilità che ne deriva: si dovrà determinare quale
comportamento lo stato dovrà tenere per garantire l’attuazione dell’obbligo violato. Inoltre, posto che
l’obbligo internazionale violato potrà, a seconda dei casi, operare nei confronti di un solo stato, nei riguardi
di più stati o verso l’intera comunità internazionale, si dovrà chiarire quali stati siano legittimati, in quanto
direttamente lesi o altrimenti interessati dalla violazione dell’obbligo, a invocare la responsabilità
dell’autore della violazione e a farne valere le relative conseguenze, con quali diritti ed entro quali limiti.

L’insieme di norme riguardanti la responsabilità internazionale sono dette regole secondarie, in


contrapposizione alle regole primarie che pongono diritti ed obblighi sostanziali in capo agli Stati. Le regole
secondarie trovano applicazione a seguito della violazione di un obbligo internazionale senza aver riguardo
alla natura delle norme primarie che sono la fonte dell’obbligo, il quale potrà tanto derivare tanto da una
norma del diritto internazionale generale, tanto da una norma contenuta in un trattato internazionale
(attenzione al termine obbligo invece che norma: così si fa in modo che si qualifichi un illecito
internazionale a seguito anche di atti non normativi, quale la mancata esecuzione di una sentenza di un
organo giurisdizionale internazionale di cui si è accettata la giurisdizione).

Le regole secondarie sono principalmente norme generali consuetudinarie (non scritte): manca una
convenzione di portata universale che enunci le regole generali da applicare in tema di responsabilità
internazionale.
In realtà, al compito di predisporre una convenzione generale in questa materia si è dedicato per più di 40
anni la commissione del diritto internazionale delle nazioni unite. La Commissione del Diritto Internazionale
delle Nazioni Unite (CDI), ha redatto un Progetto sulla Responsabilità internazionale (di lunga gestazione,
dal 1956 al 2001) che l’Assemblea Generale si è limitata a segnalare all’attenzione dei governi (si è limitata
a prendere nota degli articoli). Il Progetto quindi non ha ad oggi carattere vincolante ma ben formalizza i
principi e le regole generali in materia di responsabilità internazionale.
Il progetto della CDI provvede ad indicare due condizioni necessarie e sufficienti per stabilire l’esistenza di
un fatto illecito internazionale. Occorre in primo luogo che una certa condotta, consistente in un’azione o in
un’omissione, possa essere attribuita allo stato in base al diritto internazionale (elemento SOGGETTIVO). In
secondo luogo, è necessario che la condotta in questione rappresenti la violazione di un obbligo
internazionale incombente in capo allo stato (elemento OGGETTIVO).

La sussistenza delle due anzidette condizioni va verificata alla luce dei criteri previsti dal diritto
internazionale, non potendo attribuirsi alcun rilievo al diritto interno dello stato nella qualificazione di un
certo comportamento come internazionalmente illecito.
Ovviamente ai fini del sorgere di responsabilità internazionale non ha rilievo il diritto interno dei vari paesi
interessati, ciò è da intendersi in un duplice senso:

• Non è sufficiente il contrasto con il diritto interno dello Stato presunto leso per far sorgere
responsabilità internazionale
• Lo Stato che ha commesso un fatto illecito internazionale non può sottrarsi all’osservanza degli
impegni della responsabilità internazionale invocando le prescrizioni del proprio diritto interno.

Elemento soggettivo dell’illecito internazionale: l’imputabilità del fatto illecito (N.B. IMPUTABILITÀ
INTESA COME NESSO CAUSALE TRA FATTO ILLECITO E CONDOTTA DELLO STATO)

Elemento soggettivo dell’illecito internazionale è l’imputabilità del fatto illecito internazionale che deve
quindi poter essere attribuito, nel caso concreto, ad una condotta dello Stato (omissiva o commissiva).

Ovviamente lo Stato può agire sul piano concreto solo attraverso individui che devono pertanto operare in
suo nome, per suo conto, dietro suo incarico o sotto il suo controllo. È necessario perciò determinare
circostanze e condizioni in cui possa essere qualificato un collegamento tra persone fisiche e Stato (dove è
possibile attribuire allo stato una condotta individuale): questi criteri sono delineati dal Progetto della CDI.

Secondo un primo criterio fondamentale applicabile in materia, sono considerati fatti dello Stato ai fini
della responsabilità internazionale le azioni od omissioni di individui (o gruppi di essi) che, appartenendo
alla sua struttura e organizzazione, rivestono la qualità di organi dello Stato.
Con organi di Stato intendiamo in senso ampio qualunque persona o ente avente tale qualità in base al
diritto interno dello Stato: essa prescinde dal tipo di funzione concretamente esercitata dall’organo (che
abbia agito in veste ufficiale, nell’esercizio di funzioni e poteri statali, non come privato cittadino).
Il ruolo del diritto interno in questo ambito è dunque fondamentale, ma non esaustivo, ma complementare
poiché la nozione di organo dello stato ai fini della responsabilità internazionale può essere più ampia di
quella risultante dal diritto interno: secondo la corte internazionale di giustizia, un legame organico
potrebbe configurarsi anche nel caso di persone gruppi di persone che, pur senza avere tale qualifica
formale secondo il diritto interno dello Stato, agiscono nel caso concreto in modo totalmente dipendente
dallo stesso, risultano essere totalmente dipendenti o integrati nella organizzazione di esso, sì da esserne
veri e propri strumenti o organi di fatto.

Per far sorgere responsabilità internazionale, può rilevare altresì la condotta di organi del potere legislativo
(ad esempio ilo fatto del parlamento che adotti una legge contrastante con il contenuto di un obbligo
internazionale dello stato) o del potere giudiziario (esempio il giudice che emani una sentenza avente lo
stesso effetto).
Allo stesso modo, anche le azioni od omissioni di organi di amministrazioni locali o territoriali, come
comuni, province, regioni, sono riferibili allo stato quale persona internazionale e possono far sorgere la sua
responsabilità internazionale. Analoghe considerazioni valgono, nel caso di stati a struttura federale, per
quanto concerne la condotta degli organi appartenenti all’amministrazione dei singoli stati membri della
federazione, che va riferita allo stato federale.
Perché il comportamento sia attribuibile allo stato, è però necessario che le persone o gli enti che rivestono
la qualità di organi dello stato abbiano agito in veste ufficiale, nell’esercizio delle funzioni e dei poteri a tale
qualità inerenti.
E’ infatti possibile che l’individuo organo dello stato agisca in veste e per finalità esclusivamente private. In
tal caso, la condotta viene riferita all’individuo e l’eventuale sua contrarietà a un obbligo internazionale non
coinvolge la responsabilità internazionale dello stato.

Sorge responsabilità internazionale anche quando l’organo di Stato (sia esso di fatto o meno) abbia agito
eccedendo i limiti delle proprie competenze o contravvenuto alle istruzioni ricevute; questo per tutelare le
esigenze di trasparenza e certezza delle relazioni internazionali.

A tali condizioni, è equiparato al fatto dell’organo dello stato il comportamento di persone o enti che, pur
non rivestendo formalmente la qualità di organi dello stato, siano comunque abilitati in base al diritto
interno dello stato ad esercitare prerogative del potere pubblico.

Il progetto regola tale fattispecie avendo riguardo ai casi, frequenti nella prassi, di enti parastatali, imprese
pubbliche o a partecipazione mista pubblica e privata o altre entità analoghe che, pur non facendo
formalmente parte dell’organizzazione dello stato, sono delegate dallo stesso allo svolgimento di funzioni di
natura pubblica.

Il progetto prevede poi l’ipotesi particolare dell’attribuzione a uno stato del comportamento di un organo
di un altro stato. Ciò si verifica nella situazione, assai circoscritta in cui l’organo di uno stato venga
effettivamente messo a disposizione di un altro stato e agisca esclusivamente sotto l’autorità e
nell’interesse di quest’ultimo. Il comportamento contrario a un obbligo internazionale verrà in tal caso
riferito allo stato nella cui effettiva disponibilità l’organo si trovi (membri dei servizi sanitari di uno stato
che, in occasione di epidemie o catastrofi naturali nel territorio di un altro stato vengono posti agli ordini
delle autorità dello stato di accoglienza).

Condotta dei privati e agenti di fatto

In linea generale, in mancanza di un legame organico, lo Stato non risponde del comportamento di individui
privati che abbiano gito come tali. Tuttavia alle volte la condotta di privati fa sorgere responsabilità
internazionale per fatto omissivo dello Stato: l’entità statale è responsabile non per il fatto commesso, ma
per non aver realizzato propri obblighi di vigilanza, prevenzione, protezione o repressione (es. in materia di
protezione degli stranieri, quando lo stato, in occasione delle azioni di individui privati lesive di beni e
interessi di cittadini stranieri, non abbia adottato le adeguate misure preventive e protettive).

Diversa è l’ipotesi nella quale particolari circostanze permettano di stabilire l’esistenza di una determinata
relazione di fatto tra la persona privata che ha tenuto un certo comportamento e lo stato. Ciò potrà
avvenire perché i privati hanno materialmente assunto le funzioni di organi dello stato in una data
situazione concreta, o perché i privati hanno agito dietro istigazione o sotto il controllo dello stato, o perché
lo stato ne ha altrimenti approvato le azioni. Sorge così responsabilità poiché la condotta di individui privati
è direttamente attribuibile allo Stato: è il caso dei cd. agenti di fatto (e se contrario ad un obbligo
internazionale ne implica la responsabilità internazionale).

Entrambi questi aspetti della condotta di privati sono evidenziati nella sentenza della CIdG nella
controversia tra USA e Iran, in cui militanti islamici avevano fatto irruzione nell’ambasciata statunitense,
tenendone in ostaggio i dipendenti. Nella sentenza la Corte sancisce il sorgere di responsabilità
internazionale a carico dell’Iran dividendola in 2 fasi:

A. Nella fase dell’attacco armato l’Iran è ritenuto responsabile indirettamente (manifestanti privi di
qualifica ufficiale) per non aver garantito la sicurezza dei locali dell’ambasciata e non aver posto
fine alle conseguenze dell’attacco
B. Nella seconda fase, successiva all’attacco, l’Iran è ritenuto responsabile per aver approvato quanto
commesso dai militanti islamici e il perpetrarsi della detenzione del personale diplomatico
statunitense. Tale politica di esplicita approvazione muta la natura giuridica dell’occupazione,
rendendo i militanti agenti di fatto dello Stato.

Il Progetto della CDI esplica 2 criteri per individuare i soggetti di fatto, privi della qualità di organi ma
comunque agenti dello Stato:

I. Individuo che agisce dietro istruzioni o sotto la direzione o controllo dello Stato (art 8): questa
disposizione mira a coprire le situazioni, frequenti nella prassi, in cui uno Stato ricorre ad ausiliari o
volontari per svolgere incarichi o missioni speciali in paesi stranieri al fine di evitare un proprio
coinvolgimento in azioni vietate dal diritto internazionale.
Mentre risulta piuttosto immediato riferire allo stato i comportamenti di individui che abbiano
agito sulla base di specifiche istruzioni da questo impartire, maggiori problemi pone la situazione di
carattere più generale, in cui dei privati operano sotto la direzione o il controllo dello stato.
Sorgono problemi nel stabilire quando si agisce sotto la direzione dello Stato (mentre è semplice
qualificare le dirette violazioni). Bisogna stabilire il grado di controllo minimo esercitato dallo Stato
ai fini del sorgere di responsabilità internazionale e si contrappongono due teorie che hanno
portato a soluzioni giurisprudenziali divergenti:
• Criterio rigoroso: richiesto controllo effettivo dello Stato sulla specifica operazione
realizzata da privati
• Criterio flessibile: richiesto generico controllo globale esercitato dallo Stato sull’insieme
delle attività svolte da privati.

La CdGI ha applicato il criterio rigoroso (non si chiama così tecnicamente) nella sentenza del 1986 sulle
attività militari e paramiltari in Nicaragua: pur riconoscendo specifiche violazioni del diritto internazionale
umanitario commesse da forze irregolari (i Contras) addestrate, finanziate e sostenute dagli Usa, non gli
attribuisce responsabilità internazionale poiché manca la dimostrazione del controllo effettivo esercitato
dagli Stati Uniti sulle operazioni militari e paramilitari dei Contras. La CdGI afferma che il criterio flessibile si
rischia di espandere eccessivamente, fino a spezzare, il legame tra comportamento dell’agente e
responsabilità dello Stato. Applicando la propria giurisprudenza consolidata, la CdGI ha utilizzato il
medesimo criterio escludendo il sorgere di responsabilità internazionale in capo al governo di Belgrado per
gli atti commessi dalle milizie serbo-bosniache in Bosnia.

Sul caso del conflitto internazionale in Bosnia-Erzegovina la Camera d’appello del Tribunale Penale
Internazionale ha decretato il sorgere di responsabilità internazionale a carico della repubblica federale di
Iugoslavia per i comportamenti dei serbi di Bosnia applicando il criterio flessibile, argomentando che quello
rigoroso si rivelava inadeguato e troppo stringente, mentre un controllo a carattere globale consistente nel
fatto di organizzare, coordinare o pianificare le azioni armate del gruppo irregolare, potesse bastare ai fini
dell’attribuzione del comportamento dello stato.

II. Individuo che in situazioni di emergenza si sostituisce agli organi dello Stato (agente di necessità): si
dice agente di necessità l’individuo, che in situazioni di emergenza e assenza di autorità statali,
esercita di propria iniziativa le prerogative del potere pubblico. L’ipotesi concorre in circostanze
eccezionali (moti rivoluzionari, conflitti armati… nelle quali le autorità ufficiali dello stato si
dissolvono, sono assenti o temporaneamente inoperanti e nelle quali è giustificata l’assunzione da
parte di privati individui di funzioni essenziali di pubblica utilità). In questo caso, mancando il dato
formale della qualità di organo in caso all’individuo agente, è il dato materiale della partecipazione
all’esercizio del potere di governo che spiega l’attribuzione del suo comportamento allo stato. La
condotta di privati individui che non abbiano alcun legame organico con lo stato e neppure abbiano
agito dietro sue istruzioni, direzione o controllo, può nondimeno essere attribuita allo stato se
questi riconosce come propria o adotta la condotta in questione. Questo criterio di attribuzione è
destinato ad operare a posteriori, quando non esista al momento dell’azione od omissione alcun
collegamento tra i privati che ne sono autori e lo stato. Naturalmente, l’attribuzione del
comportamento del privato allo stato si verifica nella misura in cui l’intenzione dello stato di
riconoscere detto comportamento come proprio sia chiara ed inequivocabile e solo nei limiti di
quanto espressamente riconosciuto o adottato dallo stato.
Il progetto regola anche l’ipotesi particolare nella quale la responsabilità dello stato può essere
chiamata in causa dalla condotta di movimenti insurrezionali. Si tratta del caso di eventuali fatti
illeciti di enti organizzati che combattono contro il governo al potere in uno stato ai fini di
rovesciarlo o sostituirvisi, commessi durante il periodo della lotta. Coerentemente con il disegno
generale, movimenti insurrezionali rispondono delle proprie azioni sul piano internazionale nella
misura in cui la loro lotta ha successo (del tutto o in parte), portandoli a prendere il controllo dello
Stato, di una sua porzione o a formare un nuovo Stato (divengono fatti del nuovo governo dello
stato o del nuovo stato).

Il Tribunale dei reclami Iran-Usa attribuisce nel 1987 responsabilità all’Iran per il fatto che le Guardie
rivoluzionarie (al momento della commissione dei fatti prive di qualità di organo di governo) avessero
espulso ingiustamente un cittadino americano. Le Guardie rivoluzionarie esercitano prerogative pubbliche di
sicurezza locale, pur non essendo organo di Stato, in sostituzione dell’autorità statale.

Elemento oggettivo dell’illecito e la violazione di un obbligo internazionale

La seconda condizione, indispensabile per stabilire l’esistenza di un illecito internazionale, è che la condotta
dello stato rappresenti la violazione di un obbligo internazionale gravante sullo stesso.
Secondo il Progetto si dice violazione di un obbligo internazionale un comportamento non conforme ad un
obbligo internazionale, qualunque sia la sua origine o la sua natura d’obbligo (trattato, consuetudine,
sentenza di un giudice internazionale…).
La nozione di violazione di obbligo internazionale è ampia.

Il comportamento deve essere non conforme ad un obbligo internazionale vigente nel momento in cui tale
obbligo è stato violato: vale il principio di irretroattività delle norme di diritto internazionale: vale
l’impossibilità di considerare uno stato responsabile per la condotta contraria alle prescrizioni di un trattato
internazionale, finchè il trattato non sia entrato in vigore in quello stato.
Per contro, il comportamento non conforme ad un obbligo internazionale fa sorgere responsabilità
internazionale anche se, in un momento successivo alla commissione del fatto illecito, tale obbligo violato
viene meno (la responsabilità dello stato resta ferma) (art 13).

Un problema è quello di stabilire quando una violazione ha avuto luogo e per quanto tempo essa si è
protratta. Il problema è affrontato dal progetto con riferimento alle diverse tipologie di fatti
internazionalmente illeciti, attraverso distinzioni che dipendono talora dalla durata del comportamento
dello stato, talora dal contenuto dell’obbligo violato.
Si distingue quindi tra fatti illeciti omissivi e commissivi, istantanei (la violazione dell’obbligo ha luogo e si
esaurisce nel momento in cui l’illecito si verifica anche se i suoi effetti materiali eventualmente perdurano)
o continuati (si estende per tutto il periodo in cui il fatto illecito continua e resta non conforme all’obbligo).
Viene poi individuato il caso di obblighi che richiedono allo stato di prevenire un dato evento, rispetto ai
quali la violazione si perfeziona nel momento in cui l’evento si realizza e si estende per tutto il periodo in
cui l’evento continua.
ES. illeciti continuati: 1980 occupazione dell’ambasciata e della detenzione del personale diplomatico
americano.

Altra distinzione poi è quella tra violazione di obblighi di condotta (che si perfezionava quando la condotta
dello stato non era conforme a quella specificatamente richiesta dall’obbligo: quelli in cui ad esempio è
necessaria una diligenza dovuta dove gli stati sono chiamati a tenere un comportamento diligente
adottando tutte le misure adeguate per prevenire o minimizzare il verificarsi di danni derivati: vedi diritto
internazionale dell’ambiente) o la violazione di obblighi di risultato (quando lo stato non assicurava con il
proprio comportamento il risultato indicato dall’obbligo). Distinzione eliminata dal Progetto del 2001 ma
utilizzata nella prassi giurisprudenziale.

Una particolare categoria di fatti illeciti a carattere continuativa sono gli illeciti compositi (costituiti cioè da
una serie di azioni o omissioni definire nel loro insieme come illecite. La violazione si produce nel momento
in cui ha luogo l’ultima azione od omissione e si estende per tutto il tempo in cui la serie di azioni od
omissioni è stata realizzata).
Es. proibizione del genocidio, la cui violazione implica che l’entità responsabile abbia adottato una politica e
un comportamento di carattere sistematico, composto da una serie di atti miranti a distruggere in tutto o in
parte un gruppo razziale, etnico, religioso…

Occorre osservare la determinazione del momento in cui la violazione si perfeziona per distinguere l’illecito
vero e proprio (fonte di responsabilità) dagli atti preparatori (che invece non danno luogo a responsabilità).

Danno e colpa come elementi dell’illecito internazionale?

Il Progetto prevede, quali elementi dell’illecito internazionale, solo i requisiti soggettivi e oggettivi sopra
enunciati. Ci si chiede se rientrino tra gli elementi costitutivi dell’illecito internazionale fattori quali il danno
e la colpa. Ci si domanda se ai fini di stabilire l’esistenza di un illecito internazionale, sia necessario che dal
comportamento dello stato contrario ad un obbligo internazionale derivi un danno a carico di un altro
stato, inteso come danno materiale (pregiudizio economico o patrimoniale agli interessi di uno stato) o
morale (oltraggio alla dignità o all’onore di uno stato); e se sia necessario accertare la presenza in capo allo
stato autore del comportamento di un particolare atteggiamento psicologico di colpa, intesa in senso lato
come dolo (consistente nell’aver intenzionalmente commesso l’illecito), oppure come colpa grave
(consistente nell’omissione negligente della condotta idonea a prevenire l’illecito).
Non costituiscono elementi necessari dell’illecito internazionale il danno e la colpa.

Con riguardo al danno (sia esso morale o materiale) è da escludere che questo rappresenti condizione
autonoma della responsabilità internazionale in quanto vi sono illeciti che non danno luogo ad alcun tipo di
danno (violazione di obbligo di adottare una legge di diritto uniforme assunto da uno Stato mediante un
trattato: tale obbligo risulta violato per il solo fatto della mancata adozione della legge, senza che alcun
altro stato subisca a causa di tale fatto un danno materiale o morale).
Va osservato che l’illecito internazionale (la violazione di un obbligo internazionale), per essere qualificato
come tale, comporta la lesione di un diritto soggettivo di un altro Stato (questa circostanza da sola
determina un pregiudizio di natura giuridica), senza necessariamente cagionare un danno.
La funzione specifica della responsabilità è quella di garantire l’osservanza del diritto a prescindere dal
danno (materiale o morale) concretamente prodotto dalla violazione.
È poi ovvio che la presenza di un danno possa incidere sul contenuto della responsabilità derivante dalla
violazione e, in particolare sulle forme e modalità della riparazione dovuta dallo stato responsabile (es. se
l’illecito ha prodotto danni patrimoniali valutabili economicamente, lo stato responsabile può essere tenuto
a corrispondere un congruo risarcimento. Se i danni sono di carattere esclusivamente morale, lo stato
responsabile può essere tenuto a prestare un’adeguata forma di soddisfazione).

La colpevolezza (intesa come dolo o colpa grave) non costituisce elemento essenziale dell’illecito
internazionale in quanto è difficile andare a configurare l’atteggiamento psicologico dello stato in quanto
ente, e perciò si può parlare di colpa con riferimento all’individuo organo che ha agito in nome e per conto
dello stato.
La prassi internazionale sembra orientata verso una concezione oggettiva della responsabilità
internazionale dello stato, che sorgerebbe a seguito della semplice contrarietà del comportamento dello
stato al diritto internazionale, a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento psicologico di dolo o colpa.

Tale orientamento generale non esclude però che la colpa possa rilevare in tutta una serie di casi
particolari: sono frequenti le ipotesi in cui le stesse norme primarie che si presumono violate prevedono la
colpa o il dolo dello stato quali condizioni per il sorgere della responsabilità: norme internazionali in
materia di protezione dell’ambiente o di sfruttamento delle risorse marine che impongono ad uno stato di
adottare un comportamento diligente al fine di prevenire eventi dannosi, la cui violazione sarà determinata
dall’omissione colposa da parte dello stato obbligato; oppure delle norme internazionali che mirano a
prevenire o reprimere le violazioni gravi o massicce dei diritti umani fondamentali, che in generale
presuppongono l’esistenza di una serie di azioni di carattere sistematico e intenzionale da parte
dell’agente.

Lo stesso progetto, che da un lato non menziona la colpa tra gli elementi costitutivi dell’illecito e sembra
aderire a una concezione oggettiva di responsabilità internazionale, dall’altro riconosce indirettamente una
potenziale rilevanza della colpa ai fini del sorgere della responsabilità.
Ciò avviene innanzitutto con riferimento alla fattispecie del caso fortuito, prevista dal progetto tra le
possibili cause di esclusione dell’illecito. In base a tale figura, l’antigiuridicità del comportamento di uno
stato è esclusa quando l’agente che ha agito in suo nome, a causa di un evento esterno imprevedibile e
fuori controllo, ha inconsapevolmente violato un obbligo internazionale: è esclusa la responsabilità poiché
non è configurabile nessun atteggiamento colposo consapevole.

Analoga rilevanza viene attribuita alla colpa delle disposizioni del progetto che si occupano del problema
della responsabilità indiretta: si ha responsabilità internazionale di uno stato per aver assistito, controllato
o diretto o costretto un altro stato nella commissione di un illecito internazionale se vi è la consapevolezza
nel primo del carattere illecito del fatto.

Infine, l’intenzionalità del comportamento illecito è presupposta nelle disposizioni del progetto che si
occupano della responsabilità dello stato per le violazioni gravi, cioè massicce e sistematiche di obblighi
derivanti da norme imperative del diritto internazionale.

Alla luce di tali indicazioni, sembra che il rilievo della colpa ai fini dell’esistenza dell’illecito internazionale,
non possa essere escluso a priori e che il relativo problema vada affrontato e risolto a livello di
interpretazione e applicazione delle norme primarie del diritto internazionale la cui violazione viene in
considerazione in ciascun caso concreto.

Responsabilità indiretta

Uno stato è di norma responsabile per il fatto illecito proprio, vale a dire per la condotta ad esso imputabile
e contraria ad un obbligo internazionale di cui sia destinatario.
Si configurano ipotesi di “responsabilità derivata”, in cui uno Stato risponde del fatto illecito commesso da
un altro Stato. Ricorre responsabilità derivata (meglio che indiretta e vedremo perché) in 3 ipotesi:

i. Stato aiuta o assiste un altro Stato nella commissione di un illecito internazionale: lo Stato è
ritenuto responsabile per le attività di aiuto/assistenza prestati all’altrui commissione dell’illecito
(complicità) quando era a conoscenza dell’illiceità internazionale del fatto e se il fatto sarebbe stato
illecito se da lui commesso direttamente.
ii. Stato esercita direzione o controllo sulla commissione di un illecito internazionale da parte di un
altro Stato: sorge responsabilità derivata nelle medesime condizioni di conoscenza delle circostanze
dell’illecito e carattere illecito del fatto qualora direttamente commesso dallo stato controllante.
iii. Stato costringe un altro Stato a commettere un illecito internazionale: sorge responsabilità derivata
se tale fatto, in assenza di coercizione, costituirebbe illecito internazionale per lo Stato costretto e
se lo Stato costringente era a conoscenza dell’illiceità del fatto.

Le fattispecie si differenziano per il diverso grado di coinvolgimento dello Stato (aiuta, controlla o
costringe).
Nel caso di aiuto o assistenza, lo stato principalmente responsabile del fatto illecito resta quello che ha
agito materialmente. Invece nell’ipotesi della direzione o del controllo o nel caso della coercizione, lo stato
che dirige o che costringe svolge il ruolo di protagonista nella commissione del fatto illecito, mentre lo stato
controllato o costretto è un mero strumento. Pertanto, se nel primo caso si può parlare di responsabilità
indiretta, nelle ultime due ipotesi sarebbe più corretto parlare di responsabilità diretta dello stato autore
del controllo (derivata).

Circostanze che escludono l’illecito


Vi sono circostanze eccezionali che escludono l’illiceità del comportamento di uno Stato contrario ad un
obbligo internazionale. Queste circostanze sono eccezionali e tipiche (consenso, legittima difesa,
contromisure, la forza maggiore comprensiva del caso fortuito, l’estremo pericolo e lo stato di necessità).
L’effetto tipico di ciascuna di queste figure è di fungere da giustificazione o scusante per la mancata
esecuzione di un obbligo internazionale.
Oltre a determinare i requisiti tipici di ciascuna figura, il progetto si preoccupa di individuare alcuni limiti di
carattere generale applicabili a tutte le circostanze di esclusione dell’illecito:

• Cause di esclusione dell’illecito non possono mai essere invocate per giustificare la violazione di una
norma imperativa di ius cogens
• La causa di esclusione dell’illecito non estingue l’obbligo, ma ne sospende temporaneamente
l’efficacia (una volta venuta meno la causa di esclusione l’obbligo deve essere pienamente
rispettato)
• L’operare in circostanze di esclusione dell’illecito non pregiudica le eventuali questioni di
risarcimento del danno causato dal mancato rispetto temporaneo dell’obbligo.

Esempio: uno stato vittima di un illecito non potrebbe mai giustificare a titolo di contromisura la
commissione di atti di genocidio contro i cittadini dello stato responsabile.

Consenso

Il consenso espresso da uno Stato affinché un altro Stato agisca in modo contrario ad un obbligo
internazionale esclude il sorgere l’illiceità del comportamento nei confronti dello stato consenziente. (es.
attraversamento dello spazio aereo, acque interne di uno stato..)

Sono previste, oltre alle limitazioni di carattere generale, limitazioni specifiche.


Il consenso deve essere validamente espresso (proveniente da un organo di Stato competente a
manifestarne la volontà nel caso specifico).
Occorre che il consenso sia liberamente dato (cioè non essere viziato da costrizione) e che sia manifestato
in forma chiara e inequivocabile.
Anche se può essere dedotto da comportamenti concludenti, il consenso alla commissione di un fatto
illecito non può mai essere presunto.

Il comportamento che viola un obbligo internazionale autorizzato dallo Stato consenziente deve poi
mantenersi strettamente nei limiti di quanto consentito e solo limitatamente ai rapporti tra lo stato
consenziente e lo stato autore.
Il consenso per operare come causa di esclusione dell’illecito deve essere manifestato anteriormente o
contemporaneamente alla commissione del fatto.
Se prestato posteriormente esso varrà piuttosto come rinuncia a far valere il diritto alla riparazione
conseguente l’illecito.

Legittima difesa

È esclusa l’illiceità del fatto, che violando un obbligo internazionale, costituisca una misura di legittima
difesa adottata conformemente alla carta delle nazioni unite. Si fa riferimento ai principi generali del diritto
internazionale, che qualificano la legittima difesa come eccezione al non uso della forza nelle relazioni tra
Stati (art 2.4 Carta).
Il ricorso alla legittima difesa non vale a giustificare l’illiceità della condotta dello stato in ogni caso e
rispetto alla violazione di qualsiasi obbligo. Il Progetto sottolinea poi che la legittima difesa non agisce come
circostanza che esclude qualsiasi tipo di illecito in violazione di qualsiasi obbligo: l’azione di legittima difesa
non potrà essere contraria alle disposizioni di trattati internazionali in materia di protezione dei diritti
umani (che peraltro sono ius cogens). Non si può quindi, ad esempio, violare obblighi contenuti nelle
convenzioni di Ginevra aventi ad oggetto la protezione delle vittime di conflitti armati.

Si rimanda alle norme generali di diritto internazionale e ai limiti posti alla legittima difesa che solo espressi
in tali norme: immediatezza, proporzionalità e necessità della legittima difesa. La legittima difesa può
essere poi posta in essere da uno Stato al verificarsi di un attacco armato nei suoi confronti (art 51 Carta).

Contromisure

Il carattere illecito del comportamento di uno Stato che agisce in violazione di un obbligo internazionale
vigente nei confronti di un altro stato è escluso se tale comportamento rappresenta una contromisura
adottata in risposta ad una precedente violazione commessa a suo danno da questo Stato.
La contromisura (o rappresaglia) rappresenta una forma di autotutela dello stato vittima di un illecito
internazionale.
Sono una modalità di risposta eccezionale e pertanto devono cessare non appena l’atto internazionalmente
illecito è sospeso o la questione è pendente di fronte ad un tribunale internazionale in grado di pronunciare
sentenze vincolanti per le parti.

La contromisura si distingue dalla legittima difesa per la tipologia di illecito a cui si risponde. Mentre la
legittima difesa è una risposta ad un attacco armato o ad un’aggressione (specifico illecito internazionale),
che giustifica una deroga al divieto di uso della forza, la contromisura non può mai concretizzarsi in una
reazione di carattere armato.
La contromisura va tenuta distinta dalla semplice ritorsione (lesione dell’interesse giuridicamente non
tutelato di uno stato, comportamento non amichevole, e non vietato dal diritto internazionale e pertanto
sempre lecito).

Il Progetto pone poi dei limiti specifici (sostanziali) alla causa di esclusione dell’illiceità della violazione della
contromisura (aggiuntive rispetto al divieto di uso della forza, corollario della proibizione di uso della forza
nelle relazioni internazionali).
Le contromisure non possono mai contravvenire ad obblighi posti per la protezione dei diritti umani (non si
possono realizzare contromisure contro persone protette in tempo di conflitto armato) e si dovranno
mantenere aperti i canali di comunicazione con lo Stato destinatario di contromisure, per poter regolare
(pacificamente) la controversia (strumentale al sorgere di obblighi secondari) e in più devono rispettare gli
obblighi relativi all’inviolabilità degli agenti, locali, archivi e documenti diplomatici e consolari.
Deve sussistere poi requisito di proporzionalità tra la violazione realizzata e quella subita (valutata alla
stregua di parametri tanto quantitativi come l’entità del pregiudizio, che qualitativi come l’importanza del
bene protetto dalla regola violata). Il rispetto della proporzionalità non implica necessariamente una
perfetta equivalenza e simmetria tra l’illecito iniziale e la contromisura adottata in risposta a tale illecito).
Le contromisure non possono essere utilizzate con una finalità punitivo-afflittiva.

Sono posti ulteriori limiti di natura procedurale cui è subordinata l’adozione di contromisure da parte di
uno stato leso (sempre per scoraggiare l’utilizzo di contromisure, favorendo lo svilupparsi di relazioni
pacifiche tra Stati): la sommation (invitare lo Stato responsabile a porre fine ai propri comportamenti
contrari ad obblighi internazionali prima di adottare contromisure), la notifica della contromisura e l’offerta
di negoziazione.

Forza maggiore e caso fortuito

La circostanza di esclusione dell’illecito internazionale si articola in due distinte situazioni:

1. Forza maggiore in senso stretto: violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale
perché costretto da una forza esterna irresistibile (nave da guerra che ridotta in avaria dalla
violenza di un uragano, è costretta a rifugiarsi nel mare territoriale di uno stato e a sostarvi non
autorizzata), consapevolezza di comportarsi in modo contrario ad un obbligo internazionale ma non
può fare diversamente.
2. Caso fortuito: violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale perché costretto da un
avvenimento esterno imprevedibile (aereo di uno stato che sospinto da correnti ignote devia
inavvertitamente la rotta e sconfina non autorizzato nello spazio aereo di un altro stato),
impossibilità di comportarsi conformemente ad un obbligo internazionale, non si rende conto che
lo sta violando a causa dell’interferenza di un evento imprevisto.

In ambedue le situazioni la condotta illecita dell’agente dello stato non è intenzionale, non è cioè il risultato
di una scelta deliberata, ma è conseguenza di un evento esterno che sfugge al controllo dello stato e che
rende, materialmente impossibile, nelle circostanze concrete, l’adempimento dell’obbligo.

Per poter valere quale circostanza di esclusione dell’illecito, la forza maggiore deve aver determinato
un’assoluta impossibilità materiale di adempiere l’obbligo violato e non aver reso semplicemente più
difficoltoso l’adempimento.

Il Progetto prevede che l’esimente non possa essere invocata dallo Stato che abbia contribuito a
determinare la causa di forza maggiore o che ne abbia preventivamente accettato il rischio.

Il caso fortuito può essere inteso come una situazione di errore scusabile, in quanto l’autore della condotta
non si rende conto, senza sua colpa, che viene leso un diritto di uno stato.

Estremo pericolo

L’illiceità di un comportamento che viola un obbligo internazionale è esclusa se l’autore di tale


comportamento, trovandosi in una situazione di estremo pericolo, non poteva altrimenti salvare la vita
propria o di terzi affidati alle proprie cure, se non violare l’obbligo internazionale.

Così come nell’esimente di forza maggiore, il comportamento dell’autore del fatto illecito è determinato da
un evento esterno. Tuttavia, a differenza della forza maggiore, la violazione dell’obbligo è frutto di una
scelta consapevole e deliberata dell’agente, anche se, data l’alternativa possibile (salvare la vita o rispettare
l’obbligo), tale scelta è in realtà virtuale. Si tratta più di una scelta obbligata.

Il Progetto definisce limiti specifici per questa esimente (così come per le altre).
La minaccia (situazione oggettiva) ovviamente deve essere reale ed effettiva che tocca direttamente la vita
delle persone.
Si richiede una relazione speciale e diretta tra agente dello Stato che commette la violazione e le persone la
cui vita è in pericolo (i casi di emergenza umanitaria rientrano nello stato di necessità).
L’illiceità è esclusa solo se il comportamento in questione non crea un pericolo comparabile o maggiore di
quello che si vuole evitare (sussiste anche per questa esimente una sorta di requisito di proporzionalità).

L’esimente non può valere se la situazione di pericolo è dovuta, sia univocamente, sia in combinazione con
altri fattori al fatto dello stato che lo invoca.

Stato di necessità

Si dice stato di necessità una situazione nella quale il comportamento antigiuridico dello Stato è giustificato
dall’esigenza di proteggere un interesse essenziale (non il salvare vite con cui intercorre legame…) dalla
minaccia di un pericolo.

Anche in questo caso è una situazione esterna e contingente di pericolo che determina la possibilità per lo
stato di venir temporaneamente meno al rispetto dei propri obblighi internazionali.

Dalla definizione appena enunciata risulta difficile definire oggettivamente sia l’entità e la natura del
pericolo e l’interesse essenziale.
Poiché la valutazione dei presupposti dello stato di necessità è molto spesso rimessa all’apprezzamento
soggettivo dello stato che lo invoca, per evitare che, in ragione dell’ambiguità dei termini di cui risulta
difficile la definizione, l’esimente dello stato di necessità venisse usata eccessivamente, l’art 25 del Progetto
pone condizioni rigorose, da riunirsi cumulativamente, affinché si possa configurare lo stato di necessità
quale motivo di esclusione dell’illeceità del fatto.

Con riguardo al pericolo, si afferma che debba essere grave e imminente;


la violazione di un dato obbligo internazionale deve l’unico mezzo per salvaguardare l’interesse essenziale
minacciato;
la violazione commessa a titolo di necessità non deve a sua volta pregiudicare un interesse essenziale dello
stato o degli stati verso cui l’obbligo violato esiste o della comunità internazionale nel suo insieme.
Non può essere invocato lo stato di necessità se lo Stato con il proprio comportamento ha contribuito a
determinare la situazione di necessità.

L’interesse essenziale non è definito, e il progetto non richiede che tale interesse sia dello stato che agisce.
La prassi ha mostrato che si può parlare di interesse essenziale a riguardo di necessità di salvaguardare la
stabilità economico-politica dello Stato o il funzionamento dei suoi servizi essenziali, l’ambiente o la
sicurezza della popolazione civile esposta ad un’emergenza umanitaria.
Il commento della CDI precisa che l’interesse in questione può essere sia proprio dello stato agente o dei
suoi cittadini, sia della comunità internazionale nel suo insieme.

I requisiti sono comunque molto stringenti e la giurisprudenza internazionale ha raramente riconosciuto la


sussistenza della causa di esclusione dell’illecito per responsabilità internazionale.

Contenuto della responsabilità internazionale e conseguenze dell’illecito


Una volta accertata l’esistenza di una violazione del diritto internazionale e individuato lo stato che ne
risponde, si pone il problema di stabilire il contenuto della responsabilità internazionale, o in altre parole, di
definire quali conseguenze giuridiche il diritto internazionale collega alla commissione del fatto
internazionalmente illecito. Il contenuto della responsabilità internazionale è definito come la serie di
conseguenze giuridiche che il diritto internazionale ricollega alla commissione del fatto illecito
internazionale. Nascono obblighi secondari in capo allo stato responsabile consistenti in:

A. Cessazione del fatto illecito: rappresenta una sorta di adempimento tardivo e parziale all’obbligo
primario violato. L’obbligo di cessazione sussiste nella misura in cui il comportamento contrario al
diritto internazionale presenti una natura continuata e si protragga nel tempo. Talora una stessa
azione dello stato responsabile della violazione può rappresentare simultaneamente una
cessazione dell’illecito e un ripristino della situazione precedente alla violazione.
Quale obbligo di carattere accessorio si pone l’ulteriore obbligo di offrire garanzie e assicurazioni di
non ripetizione, in modo da evitare la reiterazione rafforzando pro futuro il rispetto dell’obbligo
violato.
B. Fornire riparazione integrale del pregiudizio derivante dall’illecito internazionale: mira a ripristinare
la situazione antecedente alla commissione dell’illecito internazionale, come se questo non fosse
mai avvenuto

Gli obblighi secondari possono sussistere nei confronti di un altro stato, di altri stati o della comunità
internazionale nel suo insieme, a seconda della natura e del contenuto dell’obbligo primario violato e delle
circostanze delle violazioni. Queste conseguenze giuridiche non liberano, in ogni caso, lo Stato responsabile
internazionalmente dall’obbligo violato e dal suo dovere di adempiere ad esso.
Lo stato responsabile non potrà valersi delle disposizioni del proprio diritto interno per sottrarsi
all’adempimento degli obblighi derivanti dalla commissione del fatto illecito.

Forme di riparazione

Come già detto il secondo obbligo oggetto di responsabilità internazionale è il risarcimento integrale del
pregiudizio causato. La riparazione deve essere integrale e cioè tendere a rimuovere tutte le conseguenze
negative dell’illecito. Il termine pregiudizio va inteso in senso ampio, comprendendo il danno materiale
suscettibile di valutazione economica e il danno morale (offesa all’onore o alla dignità di un altro Stato).
Ovviamente deve esserci un legame di causalità tra pregiudizio e fatto illecito nel senso che il danno morale
o materiale deve essere una conseguenza diretta della violazione del diritto internazionale (differente da
dire che vi sia nesso di causalità tra comportamento di uno Stato e fatto illecito).
Nel determinare la riparazione, si tiene conto della circostanza che lo stato leso abbia contribuito con la
propria azione o omissione intenzionale o negligente, a realizzare o incrementare il pregiudizio derivante
dall’illecito.
L’obbligo di riparazione è una categoria generale che può assumere varie forme e modalità (forma specifica
o restituzione equivalente). La rimozione delle conseguenze dell’illecito può essere realizzata a seconda dei
casi, attraverso una sola delle modalità indicate o attraverso la loro combinazione e lo stato leso può avere
un ruolo nella scelta tra le forme di riparazione.

Restituzione in forma specifica: La restituzione in forma specifica consiste nel ristabilire la situazione
antecedente all’illecito come se questo non si fosse mai verificato. La restituzione in forma specifica può
consistere in differenti prestazioni o modalità (abrogazione di un atto legislativo, evacuazione di un
territorio illegittimamente occupato..).
Questa forma di riparazione può essere confusa alle volte con la cessazione dell’illecito. Anche se
sostanzialmente i due obblighi possono avere contenuto simile, sono dettati da ragioni differenti: mentre la
cessazione rappresenta una sorta di adempimento tardivo e parziale dell’obbligo, la restituzione in forma
specifica mira a ripristinare le condizioni antecedenti al fatto illecito.

L’obbligo dello stato responsabile di procedere alla restituzione in forma specifica non è però assoluto.
L’obbligo di restituzione specifica può venir meno quando ripristinare la situazione precedente alla
commissione dell’illecito internazionale sia materialmente impossibile (beni trafugati ed andati distrutti) o
eccessivamente oneroso (e sproporzionato rispetto al carattere dell’illecito internazionale perpetrato).
Circa la scusante dell’impossibilità materiale, si deve trattare di un impedimento radicale di reintegrare la
situazione anteriore e non di una semplice difficoltà pratica di esecuzione. In questi casi devono essere
attuate forme di riparazione differenti.
Non è ammissibile la non restituzione in forma specifica per la cd. Impossibilità giuridica (norma di diritto
interno che vieti la restituzione, vale il principio generale di cui all’art 32 → non può valere nel proprio
diritto interno).

Riparazione per equivalente (il risarcimento monetario): (nel caso in cui la restituzione in forma specifica
non sia possibile o non permetta di riparare del tutto il pregiudizio). La restituzione per equivalente
consiste in un obbligo posto in capo allo Stato nei cui confronti sorge responsabilità internazionale di
risarcire il pregiudizio causato mediante il versamento di una somma di denaro corrispondente al danno
causato.

Il risarcimento deve coprire ogni danno suscettibile di valutazione finanziaria: il risarcimento per
equivalente deve comprendere sia il danno emergente (perdite patrimoniali effettivamente subite in
conseguenza del fatto) che il lucro cessante (eventuale mancato guadagno da esso derivante), oltre
ovviamente ai danni morali (se suscettibili di valutazione economica).
L’entità del risarcimento va valutata con riferimento al caso concreto. Il Progetto prevede poi la possibilità
di versare ulteriori interessi sulla somma principale, per assicurare un risarcimento integrale del danno
causato.

Soddisfazione: è una forma di riparazione applicabile nella misura in cui non sia possibile rimuovere le
conseguenze pregiudizievoli dell’illecito né attraverso la restituzione in forma specifica, né attraverso il
risarcimento monetario. La soddisfazione è una forma di riparazione ai danni morali non suscettibili di
valutazione economica, derivanti da illeciti commessi contro l’onore, la dignità, il prestigio dello stato (e per
questo spesso usata in combinazione con le altre forme di riparazione). Essendo in tal caso il pregiudizio di
natura formale, indipendente da conseguenze materiali prodotte dalla violazione, anche la relativa
modalità di riparazione assumerà spesso forma e portata simbolica.
Il Progetto indica, in via esemplificativa e non esaustiva, alcune forme di soddisfazione (riconoscimento
della violazione, scuse formali, versamento di una somma simbolica di denaro, gli onori alla bandiera o alle
autorità dello stato leso, la punizione degli autori materiali dell’illecito, la dichiarazione da parte di
un’istanza internazionale dell’avvenuta commissione dell’illecito) ponendo dei limiti a questa forma di
riparazione: le forme di soddisfazione devono essere proporzionate all’illecito e non devono assumere
forme umilianti per lo Stato responsabile.

Una questione controversa è se possano rientrare nella nozione di soddisfazione o se addirittura possano
configurarsi come autonoma conseguenza dell’illecito, i danni punitivi (punitive damages). I danni punitivi
(prestazioni in denaro aggiuntive rispetto alla riparazione dei danni derivanti dall’illecito che lo stato leso
potrebbe pretendere dallo stato responsabile a titolo di punizione per la violazione commessa) potrebbero
rientrare nella forma di riparazione della soddisfazione. La prassi sembra orientata nel senso di escludere
l’ammissibilità di esborsi monetari inflitti allo stato responsabile a tutolo di punizione. La proposta di
inserirli nel Progetto per danni derivanti da gravi violazioni di obblighi internazionali è stata respinta dai
governi.

Le contromisure come conseguenze strumentali dell’illecito

Si è già parlato delle contromisure come circostanze escludenti l’illiceità del comportamento di uno stato
non conforme al diritto internazionale. Le contromisure, in quanto reazioni adottate da uno stato per
rispondere a una violazione subita, rappresentano però, oltre che cause di esclusione dell’illiceità di un
comportamento, anche possibili conseguenze del fatto internazionalmente illecito e delle modalità di
attuazione coercitiva del diritto violato.
Il progetto segna un importante cambiamento di prospettiva rispetto al tradizionale concetto di
rappresaglia, poiché esclude che le contromisure possano essere utilizzate con una finalità afflittiva, quali
mezzo per punire lo stato autore dell’illecito, e intende esaltarne la funzione strumentale rispetto
all’esecuzione degli obblighi secondari nascenti dalla commissione di un illecito internazionale.
Infatti, nell’indicare oggetto e limiti delle contromisure, il progetto stabilisce che lo stato leso può adottare
contromisure nei confronti dello stato responsabile al solo fine di spingere tale stato ad adempiere ai propri
obblighi di cessazione dell’illecito e di riparazione del pregiudizio derivante.
Le contromisure debbono aver fine di non appena lo stato responsabile ha adempiuto ai propri obblighi di
cessazione e riparazione.
Le contromisure rappresentano un rimedio di carattere temporaneo e reversibile, nel senso che debbono
essere limitate alla mancata esecuzione temporanea degli obblighi dello stato leso nei confronti dello stato
responsabile e debbono essere adottate in maniera da permettere, nella misura del possibile, il ripristino
dell’esecuzione degli obblighi in questione.

Nell’obiettivo di limitare il più possibile il ricorso incontrollato a contromisure, il progetto enuncia poi una
serie di condizioni procedurali alle quali la loro adozione deve essere subordinata.
Lo stato leso, prima di adottare le contromisure, deve invitare lo stato responsabile ad adempiere ai propri
obblighi di cessazione e riparazione dell’illecito (sommation);
deve inoltre notificare ogni decisione di ricorrere a contromisure, offrendo allo stato leso di negoziare.
Tali obblighi preliminari non escludono peraltro per lo stato leso la possibilità di ricorrere a quelle
contromisure urgenti che si rivelino necessarie per preservare i propri diritti (es. congelamento provvisorio
di beni dello stato responsabile che si trovino nella disponibilità dello stato leso al fine di prevenire il
trasferimento).
In secondo luogo le contromisure non possono essere adottate e se già adottate devono essere sospese
senza ritardo, se l’atto illecito ha avuto fine e se la controversia sorta in relazione all’illecito è pendente di
fronte ad un tribunale dotato dell’autorità di pronunciare decisioni vincolanti per le parti.
Queste ultime limitazioni non si applicano se lo stato responsabile non collabora in buona fede
nell’attivazione delle procedure d soluzione delle controversie.

Conseguenze della violazione di norme imperative

Si pone l’esigenza di collegare conseguenze differenziate, supplementari e più gravi rispetto a quelle
ordinarie già viste, alla violazione di obblighi particolarmente importanti in virtù del loro contenuto e della
natura degli interessi tutelati.

Un primo passo nel senso di distinguere il regime delle conseguenze dell’illecito in ragione dell’importanza
degli obblighi violati era stato compiuto dalla CDI (commissione diritto internazionale) nel 1976, attraverso
l’introduzione nel progetto della nozione di crimine internazionale dello stato. Tale nozione intendeva
indicare le forme più gravi di illecito internazionale (distinte dalle forme ordinarie di illecito denominate
delitti), che nascono dalla violazione da parte di uno stato di obblighi essenziali per la salvaguardia di
interessi fondamentali della comunità internazionale. Quali possibili crimini internazionali: violazione del
divieto di aggressione, la violazione del divieto di instaurare forme di dominio coloniale o straniero
contrarie al diritto di autodeterminazione dei popoli, le violazioni gravi e massicce dei diritti umani quali la
schiavitù, il genocidio, l’apartheid, nonché la violazione di un obbligo di importanza essenziale per la
preservazione dell’ambiente umano, come quelle che proibiscono l’inquinamento massiccio dei mari o
dell’atmosfera.

La figura del crimine internazionale dello stato è stata in seguito abbandonata dalla CDI (fortemente
criticata in ragione delle sue implicazioni di carattere penalistico).
Il problema tuttavia è ancora considerato in due disposizioni dell’attuale progetto, dedicate alle violazioni
gravi di obblighi derivanti da norme imperative del diritto internazionale generale.

La categoria di obblighi particolarmente gravi è stata individuata con riferimento alle norme imperative:
violazioni di obblighi oggetto di norme imperative, in quanto particolarmente gravi e in ragione del loro
carattere inderogabile, danno origine a conseguenze ulteriori e più gravi rispetto alla violazione di un
qualsiasi altro obbligo internazionale.
Una violazione delle norme imperative si qualifica come grave quando denota, da parte dello stato
responsabile, l’inosservanza flagrante e sistematica (intenzionale) dell’obbligo sottostante.

Il progetto ribadisce che quali conseguenze, trovano applicazione in primo luogo le usuali conseguenze
derivanti dalla commissione dell’illecito (obblighi di cessazione e riparazione, l’eventuale ricorso a
contromisure finalizzate a garantire l’attuazione di tali obblighi) e restano salve altre possibili conseguenze
eventualmente previste dal diritto internazionale generale o convenzionale.

Oltre a ciò, si stabilisce che dalla violazione dei suddetti obblighi derivano anche “conseguenze particolari”,
rappresentate da obblighi di solidarietà che nascono in capo a tutti gli Stati diversi dallo Stato responsabile.
Questi Stati, oltre ovviamente a riconoscere illegittima la situazione causata dalla violazione di tale obbligo
(non devono prestare aiuto o assistenza al mantenimento di tale situazione), dovranno cooperare tra loro
per porre fine, attraverso mezzi leciti, alla grave violazione. In questo modo si mira ad isolare sul piano
internazionale lo Stato che viola obblighi contenuti in norme di ius cogens (mira ad aggravare la situazione
dello stato responsabile).

Attuazione di responsabilità internazionale

Ha diritto a invocare la responsabilità internazionale dell’autore della violazione lo Stato leso. Si definisce
Stato leso lo Stato il cui diritto è stato direttamente pregiudicato dalla violazione dell’obbligo e che, in virtù
di tale qualità, può pretendere l’attuazione di tutte le conseguenze derivanti dall’illecito.

La nozione e l’identificazione dello Stato leso non è così semplice come può sembrare. È difficile ad
esempio applicare la nozione di Stato leso in considerazione di obblighi dovuti ad un gruppo di Stati
(violazione di un obbligo contenuto in un trattato multilaterale) o addirittura dovuti a tutti gli Stati (obblighi
erga omnes), posti a protezione di un interesse collettivo dell’intera comunità internazionale (norma che
proibisce l’aggressione). La violazione di obblighi erga omnes interessa potenzialmente tutti gli stati, e
accanto alla posizione dello stato direttamente leso dal fatto illecito, vi sarà anche l’interesse di tutti gli altri
stati membri della comunità internazionale a ottenere il rispetto dell’obbligo violato e, eventualmente la
rimozione delle conseguenze della violazione.

Il problema di individuare quali stati abbiano un diritto a far valere la responsabilità, non è pertanto
suscettibile di soluzione univoca, ma merita risposte differenziate a seconda della natura e del contenuto
dell’obbligo primario violato.

Il Progetto risponde a queste problematiche in un duplice modo:

A. Da un lato: viene allargata la cerchia di Stati di volta in volta abilitati ad invocare la responsabilità
internazionale dello Stato autore della lesione (nei casi degli obblighi erga omnes, come abbiamo
appena visto);
B. Dall’altro lato vengono differenziate le pretese degli Stati che possono invocare la responsabilità: lo
Stato direttamente leso può far valere l’intera gamma di conseguenze derivanti dalla violazione
(cessazione, garanzie di non reiterazione pro futuro, riparazione, eventuali contromisure…) mentre
gli altri Stati aventi titolo di invocare la responsabilità (ma non direttamente lesi, pregiudicati)
possono presentare richieste più limitate.

L’art 42 stabilisce che può invocare la responsabilità internazionale innanzitutto lo Stato leso. Questi è
identificato nel caso di obblighi che operano in una prospettiva bilaterale, con lo stato nei cui confronti
l’obbligo violato era individualmente dovuto;
in caso di obbligo dovuto nei confronti di più Stati lo Stato leso sarà quello specificamente e concretamente
toccato dalla violazione (Stato aggredito ad esempio oppure caso in cui uno stato provochi l’inquinamento
di una zona di mare, lo stato leso sarà quello le cui coste e acque vengano raggiunte e danneggiate).
Sono considerati lesi tutti gli Stati invece, in caso di violazione di obbligo dovuto ad un gruppo o a tutti loro,
se la violazione modifica radicalmente la posizione di tutti gli Stati riguardo l’esecuzione ulteriore
dell’obbligo in questione (es. violazione obblighi integrali): in questo caso sono considerati tutti
specificatamente lesi ex art 48.
La responsabilità dello stato autore della violazione può essere invocata da ogni stato diverso da quello leso
se l’obbligo violato è dovuto nei confronti di un gruppo di stati cui quest’ultimo appartiene ed è stabilito
per la tutela di un interesse collettivo del gruppo.
Lo stato legittimato su questa base a invocare la responsabilità può esigere in nome proprio dallo stato
autore della violazione la cessazione dell’illecito e, se del caso, la prestazione di adeguate garanzie di non
ripetizione dell’illecito. E può anche domandare l’esecuzione degli obblighi di riparazione previsti nel
progetto, ma in questo caso nel solo interesse dello stato direttamente leso o se questo non esiste
nell’interesse dei beneficiari dell’obbligo violato.

Il Progetto è evasivo a proposito del diritto degli Stati diversi da quelli specificamente lesi di adottare
contromisure (cd. contromisure collettive) contro lo stato autore della violazione di un obbligo posto a
tutela di un interesse collettivo. L’art 48 afferma che si possano adottare da parte degli Stati non
specificamente lesi ma aventi titolo di invocare la responsabilità internazionale “misure lecite” per ottenere
la cessazione della violazione o la riparazione nell’interesse dello stato leso o dei beneficiari dell’obbligo
violato. Contromisure collettive, uno degli aspetti più delicati dell’illecito internazionale, sono
sostanzialmente lasciate prive di efficace regolamentazione.

Occorre ricordare che il progetto specifica alcune condizioni di carattere procedurale concernenti le
modalità di esercizio del diritto di invocare la responsabilità. Lo stato leso che invoca la responsabilità deve
inviare allo stato autore dell’illecito una richiesta nella quale può precisare in particolare se il
comportamento che lo stato responsabile dovrebbe tenere per porre termine all’illecito (se l’illecito ha
carattere continuato), sia la forma che dovrebbe assumere l’eventuale riparazione.
La responsabilità non può essere invocata se la relativa richiesta non è stata presentata conformemente
alle regole applicabili in materia di nazionalità dei reclami e se non sono state esaurite le vie di ricorso
disponibili e efficaci, nel caso in cui la richiesta è sottoposto alla regola del previo esaurimento dei ricorsi
interni.
Il diritto di invocare la responsabilità viene meno se lo stato leso ha validamente rinunciato alla richiesta o
se si può considerare che tale stato, in ragione del comportamento tenuto, ha prestato acquiescenza
all’abbandono della richiesta.
Tali regole valgono, oltre che per la richiesta presentata dallo stato leso, anche per le richieste presentate
dagli stati legittimati a invocare la responsabilità in virtù dell’art 48 del progetto.

Regimi speciali di responsabilità

Il progetto intende codificare il regime generale della responsabilità internazionale derivante dalla
violazione di qualsiasi norma internazionale. Accanto a tale regime generale, sono però configurabili in
diritto internazionale dei regimi speciali di responsabilità.
Regimi speciali di responsabilità (sistemi autosufficienti dal punto di vista delle regole della responsabilità),
sono regimi in cui accanto alle norme primarie che fissano diritti e obblighi in un dato campo/settore delle
relazioni tra stati, sono previste anche specifiche norme secondare che si occupano di stabilire sia le
particolari condizioni necessarie per stabilire l’avvenuta violazione delle norme primarie del sistema, sia le
specifiche conseguenze che da tale violazione derivano.
Es. la corte internazionale di giustizia nella sentenza del 1980 relativa al caso del personale diplomatico e
consolare degli stati unire a Teheran, ha riconosciuto l’esistenza di un regime speciale di responsabilità con
riferimento al diritto delle relazioni diplomatiche.
Es. alcune convenzioni in materia di tutela dei diritti umani stabiliscono dei sistemi di controllo facenti capo
ad appositi organi giurisdizionali, cui è demandata anche la competenza a determinare le conseguenze
derivanti dalla violazione dei diritti individuali commesse dagli stati contraenti.
Es. regimi speciali di responsabilità sono frequentemente collegati agli atti istitutivi di organizzazioni
internazionali.

È del tutto logico che, in omaggio al principio della lex specialis, il progetto ammetta l’esistenza di tali
regimi speciali di responsabilità e ne faccia salva l’applicabilità in deroga ai principi generali in esso
codificati.

Tuttavia, la possibilità di prevedere regimi speciali di responsabilità (e quindi di derogare alle regole
generali) va circoscritta alla luce di due considerazioni e di un aspetto che si verifica nella prassi:

• I principi generali del Progetto e della responsabilità internazionale mantengono un carattere


residuale e suppletivo: essi devono trovare applicazione per integrare quegli aspetti della disciplina
della responsabilità non regolati dalle norme secondarie appartenenti al regime autonomo.
• Le regole particolari del regime specifico di responsabilità non possono mai essere contrarie a
norme di ius cogens: non possono mai autorizzare comportamenti degli stati che risultino contrari a
norme inderogabili del diritto internazionale.
• Ove presenti, gli organi giurisdizionali chiamati ad applicare le disposizioni di accordi caratterizzati
dalla presenza di regole di responsabilità non mancano di far ricorso alle disposizioni generali del
progetto ai fini di interpretare o integrare le regole speciali.

Regimi speciali di responsabilità sono frequenti in caso di tutela dei diritti umani (per cui si prevedono
anche appositi organi giurisdizionali) e negli atti istitutivi di organizzazioni internazionali

Responsabilità derivante da attività lecite

Si pone la questione se sia possibile prevedere il sorgere di responsabilità internazionale (liability) in


relazione alle conseguenze dannose di attività lecite (non proibite dal diritto internazionale).
Il problema si pone con particolare attenzione in relazione ad attività ultra pericolose: attività non vietate
ma che possono provocare danni ingenti al territorio di un altro Stato (es. produzione di energia nucleare,
trasporto merci pericolose in mare come rifiuti tossici, lancio di oggetti nello spazio).

Bisogna stabilire se lo Stato è responsabile per le conseguenze di atti leciti (e quindi sorge responsabilità
per atti leciti) o se lo Stato è responsabile per la violazione di norme che proibiscono di causare danni al
territorio e all’ambiente di altri Stati (in questo caso non si configurerebbe responsabilità da attività lecite,
ma per fatto illecito. Non è illecito di per sé trasportare idrocarburi via mare, ma è illecito provocare danni
all’ambiente marino attraverso l’attività di trasporto).

Le difficoltà non solo teoriche ma anche pratiche di concepire un regime generale di responsabilità
internazionale dello stato per atti non vietati risultano evidenti se si pone mente sia alle indicazioni della
prassi internazionale in questo settore, sia ai risultati contradditori raggiunti dalla CDI nel tentativo di
codificazione della materia.

Nella prassi, sono innanzitutto eccezionali le ipotesi di trattati internazionali che prevedono un regime di
responsabilità assoluta dello stato per i danni prodotti da una determinata attività pericolosa.
Esistono invece numerosi trattati con i quali gli stati affrontano il problema del risarcimento dei danni
derivanti da attività ultrapericolose ponendo la relativa responsabilità direttamente a carico degli operatori
privati che gestiscono le attività in questione. Le tecniche utilizzate variano e vanno dall’imposizione ai
gestori dell’attività dell’obbligo di dotarsi di copertura assicurativa o di predisporre altre garanzie,
all’istituzione di appositi fondi, alimentati dagli operatori di un certo settore, destinati a far fronte al
risarcimento dei danni; in ogni caso, siamo di fronte a sistemi di responsabilità di diritto interno, di stampo
civilistico, rispetto ai quali ha poco senso parlare di responsabilità internazionale che interviene
direttamente nel risarcimento solo in via suppletiva ed eventuale, quando i fondi privati non bastino a
garantire l’intera copertura dei danni dalle attività ultrapericolose.
Un esempio eccezionale di regime di responsabilità assoluta dello stato connessa all’esercizio di attività
ultrapericolose è dato dalla convenzione sulla responsabilità internazionale per danni causati da oggetti
spaziali (Londa, Mosca, Washington 1972). La convenzione stabilisce la responsabilità assoluta dello stato di
lancio per il risarcimento dei danni causati dai suoi oggetti spaziali sulla superficie terrestre o ad aeromobili
in volo.

La convenzione sulla responsabilità civile nel campo dell’energia nucleare (Parigi 1960), più volte emendata,
è basata sui principi della responsabilità oggettiva del gestore di un impianto nucleare, dell’obbligo di
copertura assicurativa da parte del soggetto responsabile, della limitazione del risarcimento dovuto per il
sinistro e dell’intervento dello stato di localizzazione dell’impianto per il risarcimento del danno oltre al
limite sostenuto dal gestore dell’impianto.

Quanto ai lavori di codificazione della materia, la CDI aveva intrapreso già dal 1978 lo studio del tema della
responsabilità internazionale per le conseguenze dannose derivanti da atti non proibiti dal diritto
internazionale. Solo nel 2001 la CDI è stata in grado di adottare in via definitiva un gruppo di 19 articoli
concernenti la prevenzione del danno transfrontaliero derivante da attività pericolose, dunque dedicati a
un aspetto preliminare e solo parziale del problema. Tali articoli prevedono una serie di obblighi in capo
allo stato sotto la cui giurisdizione si svolgono attività non vietate dal diritto internazionale che comportano
il rischio di causare danni transfrontalieri significativi; tra questi, spiccano l’obbligo generale di adottare
appropriate misure per prevenire il danno e minimizzare i rischi connessi all’attività pericolosa, l’obbligo di
subordinare a un’autorizzazione preliminare lo svolgimento di attività rischiose, basando la relativa
decisione su un’adeguata valutazione d’impatto dell’attività, l’obbligo di informare e consultare gli stati
esposti al rischio di conseguenze dannose circa i risultati di tali valutazioni.
Gli articoli adottati dalla CDI nel 2001 rappresentano una codificazione di alcuni degli obblighi generali di
carattere primario degli stati in materia di prevenzione dei danni transfrontalieri che già possono dedursi,
dai numerosi trattati e dichiarazioni concernenti la protezione internazionale dell’ambiente, ma nulla
aggiungono dal punto di vista della responsabilità dello stato derivante da danni connessi ad attività
pericolose.

Nel 2006 la CDI ha adottato in via definitiva un ulteriore progetto di principi relativi alla ripartizione delle
perdite in caso di danno transfrontaliero derivante da attività pericolose. Gli otto articoli che compongono
il progetto si pongono nella duplice ottica di assicurare un pronto e adeguato risarcimento alle vittime del
danno transfrontaliero e di preservare e proteggere l’ambiente nel caso di danno transfrontaliero con
speciale riguardo alla mitigazione del danno ambientale e al ripristino dell’ambiente.
Gli stati sono chiamati ad adottare le misure necessarie per assicurare un pronto e adeguato risarcimento
alle vittime dei danni transfrontalieri prodotti da simili attività. Tra le misure che gli stati dovrebbero
predisporre a tal fine vengono indicate l’imposizione della responsabilità sul gestore dell’attività, l’obbligo
da parte di questi di dotarsi di assicurazioni o altre garanzie finanziarie a copertura dei danni, l’istituzione di
appositi fondi di indennizzo alimentati dagli operatori di settore a livello nazionale.

L’assemblea generale finora si è limitata a segnalare i due testi all’attenzione degli stati, senza pregiudizio
per ogni eventuale futura decisione circa il loro destino.

La responsabilità delle organizzazioni internazionali

Il progetto adottato dalla CDI nel 2001 considera esclusivamente i principi generali applicabili alla
responsabilità degli stati per fatti illeciti. Ciò non esclude che principi analoghi possano applicarsi al caso di
violazioni di obblighi internazionali commesse da soggetti diversi dagli stati. Nel 2002 la CDI ha intrapreso lo
studio delle regole concernenti la responsabilità delle organizzazioni internazionali, designando quale
relatore speciale il giurista italiano Giorgio Gaja. La CDI ha adottato in via definitiva nel 2011 un progetto di
67 articoli sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali, trasmettendone il testo all’assemblea
generale. Quest’ultima in successive risoluzioni ha preso nota degli articoli e li ha raccomandati
all’attenzione dei governi e delle organizzazioni internazionali, senza però pregiudicare la decisione circa la
loro adozione o qualsiasi altra soluzione che potrà essere adottata.

Anche il progetto del 2011 segue da vicino la struttura e le soluzioni del precedente progetto del 2001
relativo alla responsabilità degli stati. Il testo fu oggetto di tante critiche da parte sia di stati che dalle stesse
organizzazioni. Secondo tali critiche, da un lato sarebbe impossibile o inutile tentare di elaborare dei
principi applicabili in via generale alla responsabilità di soggetti, le organizzazioni internazionali, che sono
caratterizzati nel loro funzionamento dal principio di specialità e che si presentano pertanto come
diversissime le une dalle altre. D’altro canto, molte delle soluzioni elaborate per la responsabilità degli stati
non troverebbero una giustificazione plausibile nel caso delle organizzazioni internazionali, oppure non
avrebbero un adeguato riscontro nella prassi internazionale.

La CDI ha tentato di fornire nel commento generale introduttivo al progetto una spiegazione della propria
scelta di metodo, affermando che quando una soluzione identica o simile a quella fornita negli articoli sulla
responsabilità degli stati è prevista per le organizzazioni internazionali, ciò è fondato su ragioni appropriate
e non su una presunzione generale secondo la quale si applicano i medesimi principi.
Occorre segnalare che il progetto del 2011 si discosta dal precedente modello di riferimento su taluni
aspetti specifici, quando soluzioni particolari sono imposte in ragione della natura e struttura delle
organizzazioni internazionali.

Criteri particolari ad esempio valgono per ciò che riguarda l’elemento soggettivo dell’illecito, ovvero i criteri
in base ai quali attribuire a un’organizzazione internazionale un’azione o omissione contraria ad un obbligo
internazionale. Secondo il progetto del 2011 un’organizzazione internazionale risponde di illeciti commessi
da propri organi o agenti, cioè da persone appartenenti alla struttura dell’organizzazione o a essa legate da
un legame istituzionale e purché operanti nell’esercizio delle funzioni istituzionali; oppure al di fuori di
questo legame organico, l’organizzazione può rispondere del fatto di persone esterne alla sua struttura e a
essa prestate ma a condizione che su tali persone l’organizzazione eserciti un controllo effettivo.

Poiché le operazioni di mantenimento o imposizione della pace istituite o autorizzate dal consiglio di
sicurezza delle nazioni unite sono formalmente create con decisione del consiglio ma operativamente
svolte attraverso personale militale messo a disposizione dagli stati membri dell’organizzazione si pone il
problema di sapere chi tra nazioni unite e stato o stati membri fornitori assume la responsabilità per
eventuali illeciti commessi dal personale delle forze di mantenimento della pace.
Il criterio di attribuzione del controllo effettivo utilizzato nel progetto del 2011 può far sorgere difficoltà
applicative in considerazione del diverso grado di controllo e comando che le nazioni unite mantengono
sull’operazione, suscettibile di variare da caso a caso, a seconda che si tratti di operazioni sulle quali il
consiglio di sicurezza svolge un controllo operativo attraverso un’apposita catena di comando, di operazioni
dal carattere misto, in cui le responsabilità di comando sono condivise tra nazioni unite e stati membri,
oppure di operazioni semplicemente autorizzate dal consiglio e quindi delegate in tutto e per tutto agli stati
membri.

Problemi particolari sono poi legati al ruolo che il diritto interno o le regole dell’organizzazione possono
svolgere nel campo della responsabilità delle organizzazioni internazionali. Premesso che per regole
dell’organizzazione si intendono gli strumenti costitutivi, le decisioni, le risoluzioni e gli altri atti
dell’organizzazione internazionale adottati in conformità con tali strumenti, il progetto ammette che anche
dalla violazione di una di tali regole possa nascere la responsabilità dell’organizzazione internazionale,
laddove la regola stessa ponga un obbligo internazionale dell’organizzazione nei confronti degli stati
membri.
Il diritto interno dell’organizzazione può svolgere anche un ruolo in chiave derogatoria rispetto ai principi
generali di responsabilità delle organizzazioni internazionali sanciti nel progetto del 2011, posto che le
regole dell’organizzazione possono prevedere soluzioni specifiche relativamente ad esempio alle condizioni
di esistenza dell’illecito o alle conseguenze dell’illecito commesso da una certa organizzazione
internazionale. Ove presenti, tali regole speciali di responsabilità si applicheranno in via prioritaria in
omaggio al principio della lex specialis che pure viene accolto in questo progetto.
Ad esempio nel contesto delle nazioni unite una regola speciale di responsabilità suscettibile di deroga ai
principi contenuti nel progetto che fissa limiti temporali e finanziari ai risarcimenti dovuti
dall’organizzazione a terzi per danni risultanti da operazioni di mantenimento della pace.

Infine, complessi problemi sono posti dal rapporto tra responsabilità dell’organizzazione e responsabilità
dei suoi stati membri per violazione di un obbligo internazionale. In questo ambito le regole
dell’organizzazione e in particolare le disposizioni dell’atto costitutivo che stabiliscono le competenze di
ogni singola organizzazione internazionale e disciplinano la ripartizione di competenze tra questa gli stati
membri, potranno essere chiamate a svolgere un ruolo importante.

Il progetto del 2011, pur essendo destinato a disciplinare la responsabilità propria delle organizzazioni
internazionali per la violazione di obblighi a esse incombenti, intende però applicarsi anche alla
responsabilità internazionale di uno stato per un illecito connesso alla condotta di un’organizzazione
internazionale, avendo di mira particolarmente ma non esclusivamente la situazione dello stato membro di
un’organizzazione internazionale. Al riguardo, il progetto pone il principio della responsabilità sussidiaria di
uno stato membro di un’organizzazione internazionale il quale sarà chiamato a rispondere del fatto illecito
di questa solo quando abbia espressamente accettato la responsabilità nei confronti del soggetto leso o
abbia indotto col proprio comportamento tale soggetto a far affidamento sulla propria responsabilità. Al di
là di tale ipotesi, apposite regole sono dettate per affermare la responsabilità dello stato per il fatto di aver
volontariamente aiutato o assistito, diretto o controllato, oppure costretto un’organizzazione
internazionale a commettere un atto illecito, con l’importante limite che la responsabilità dello stato non
sarà chiamata in causa allorquando esso abbia agito in conformità con le regole dell’organizzazione
(applicabile solo alle prime due situazioni).

Una disposizione del progetto dalla portata innovativa è quella che riguarda l’ipotesi di elusione
dell’obbligo internazionale che si verifica allorquando lo stato membro di un’organizzazione, traendo
vantaggio dal fatto che la stessa ha competenza relativamente a materie in cui lo stato è vincolato da
obblighi, elude gli stessi inducendo l’organizzazione a commettere un atto che, se proprio dello stato, ne
avrebbe fatto sorgere la responsabilità internazionale.

La corte europea dei diritti umani ha fatto ricorso al principio della protezione equivalente secondo cui uno
stato parte della convenzione europea dei diritti umani che agisca in adempimento a un obbligo derivante
dalla partecipazione ad una organizzazione internazionale può presumersi in regola rispetto ai propri doveri
di tutela dei diritti umani qualora l’organizzazione in questione offra ai diritti fondamentali una protezione
almeno equivalente a quella predisposta dalla convenzione.

DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO


L’ordinamento internazionale costituisce un insieme di norme separato dai vari ordinamenti interni dei
singoli Stati. Sono diversi i soggetti cui le norme sono destinate, diversi i meccanismi di formazione e di
garanzia di applicazione delle stesse.
Ne consegue che le regole e le conseguenti qualificazioni giuridiche, le sentenze e gli atti pubblici
appartenenti a un sistema di diritto interno sono soltanto dei semplici dati di fatto dal punto di vista del
sistema di diritto internazionale, che presenta sue proprie regole, qualificazioni, sentenze e atti (principio
della relatività del diritto interno).
È però un dato di fatto che le norme di diritto internazionale, per raggiungere pienamente il loro scopo,
richiedono di essere operanti non soltanto sul piano delle relazioni tra uno stato e gli altri, ma anche sul
piano del diritto interno dei singoli stati.

I due sistemi, pur distinti, devono essere comunicanti, affinché le norme di diritto internazionale possano
essere pienamente applicate anche sul piano del diritto interno dei singoli Stati. Le norme di diritto
internazionale devono quindi poter essere recepite dai vari ordinamenti interni. Negli ordinamenti
costituzionali dei vari Stati sono previste norme che regolano i procedimenti con cui le norme di diritto
internazionale sono recepite a livello interno; il diritto internazionale non pone alcuna norma sul
recepimento sul piano interno dei propri atti normativi (non prescrive un meccanismo). Ciascuno stato è
libero di provvedere allo scopo come ritiene più opportuno, sulla base delle esigenze del proprio sistema
costituzionale.

La separazione dei sistemi nazionali da quello internazionale fa sì che l’adempimento degli obblighi imposti
da norme internazionali spesso avvenga mediante l’adozione di un atto legislativo con il quale uno stato
modifica in senso corrispondente il proprio diritto interno.

Sono i diritti interni dei vari stati che si adattano al diritto internazionale, e non già il diritto internazionale
che si adatta ai diritti interni. Nelle carte costituzionali di molti stati sono frequenti le norme che
riconoscono la prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno.
La costituzione italiana, promulgata il 27 dicembre 1947 all’art 117 comma 1 sostituito dalla legge
costituzionale numero 3 del 2001 prevede che la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni
nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali. Il diritto internazionale prevale sui diritti interni, negare ciò significa negare l’essenza stessa
del diritto internazionale e la possibilità che un tale ordinamento (con tutti gli obbiettivi che si prefigge)
possa esistere. I diritti interni si adattano alle norme di diritto internazionale, come previsto nelle carte
costituzionali di molti Stati.

Dalla prevalenza del diritto internazionale sui diritti interni consegue che uno stato non può invocare il
proprio diritto interno per giustificare l’inadempimento di un obbligo internazionale (principio ribadito
nell’art 27 della convenzione di vienna).

Preoccupazioni destano alcune, per il momento piuttosto rare, manifestazioni ultra nazionaliste che
arrivano a subordinare totalmente il diritto internazionale al diritto interno. Es. la costituzione degli stati
unite conferisce poteri tali al presidente in caso di guerra che gli consentono di ordinare di torturare i
combattenti nemici per ottenere da loro informazioni, in violazione della convenzione contro la tortura ed
altre pene o trattamenti crudeli inumani e degradanti (NY 1984) di cui gli stati uniti sono parte.

La totale prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno è stata recentemente messa in discussione
da alcune sentenze della corte costituzionale italiana che hanno privilegiato i principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale, come il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti nei
confronti di norme di diritto internazionale, in particolare quelle che prevedono l’immunità degli stati esteri
dalla giurisdizione di uno stato.

Diritto interno italiano e diritto internazionale


Per quanto riguarda l’adattamento alle norme generali del diritto internazionale (non i trattati per i quali
valgono altri meccanismi), opera l’art 10 comma 1 della costituzione, secondo la quale l’ordinamento
giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Il
meccanismo di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale predisposto dall’art 10 è
automatico. Le norme del diritto internazionale generale sono recepite nel diritto italiano, ove essere
acquisiscono una natura obbligatoria che si aggiunge a quella loro originaria, senza che occorra alcun
intervento del legislatore. Tale meccanismo ha anche carattere immediato. Le modificazioni previste
dall’art 10 si verificano a partire dal momento stesso in cui è divenuta operante una norma di diritto
internazionale generale, seguendo poi di pari passo le vicende che riguardano la norma medesima, come le
sue eventuali modificazioni o la sua estinzione.

Il compito di procedere quando si presenta un caso concreto, occasionalmente all’adattamento del diritto
interno alle norme di diritto internazionale generale spetta a tutti coloro che sono tenuti ad applicare il
diritto italiano. Essi devono accertare il contenuto delle norme internazionali generali (operazione che può
risultare complessa, dato la difficoltà di determinare il contenuto di norme non scritte), confrontare gli
obblighi che ne discendono con l’insieme delle norme del diritto italiano e applicare la norma
internazionale generale al caso concreto. Il meccanismo di adattamento del diritto italiano a quello
internazionale generale è automatico, le norme internazionali generali acquisiscono carattere obbligatorio
senza bisogno di alcun intervento del legislatore: si ha una sorta di abrogazione implicita delle eventuali
norme interne in contrasto con quelle internazionali generali.

Circa il rango assunto nel sistema di diritto italiano, la corte costituzionale ha attribuito alle norme generali
una garanzia costituzionale nel senso che quelle interne sono da ritenere costituzionalmente illegittime per
indiretta violazione dell’art 10 se in contrasto con norme internazionali generali.
Può verificarsi lo spinoso problema del contrasto tra una norma italiana di rango costituzionale e una
norma di diritto internazionale consuetudinario immessa nel nostro ordinamento tramite l’art 10 cost.
Nella sentenza del 1979 la corte costituzionale aveva in proposito seguito un insoddisfacente criterio
cronologico: il recepimento di norme generali era stato ritenuto pieno e senza limiti per quanto riguardava
le norme internazionali generali anteriori alla data di entrata in vigore della costituzione, cioè il primo
gennaio 1948. Mentre, per quanto riguardava le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute
venute ad esistenza dopo tale data, il meccanismo di adeguamento automatico previsto non avrebbe mai
potuto operare in modo da portare alla violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale italiano. La sentenza è molto discutibile. Il concetto di adattamento automatico implica che
un eventuale contrasto del diritto internazionale generale con il diritto interno vada sempre valutato nel
momento in cui la norme internazionale deve venire applicata, essendo irrilevante la situazione che
esisteva quando la norma internazionale è sorta.
Lo Stato italiano che in ossequio alla norma internazionale, sceglie di non rendere giustizia al soggetto che
agisce in giudizio, come invece richiederebbe l’art 24 della costituzione, si rende responsabile di un danno
ingiusto che lo obbliga ad un indennizzo nei confronti dell’attore.

Il caso era sorto perché in un processo di fronte al tribunale di Roma era convenuto un agente diplomatico
canadese che non pagava il canone di locazione della sua abitazione privata. Il problema riguardava la
norma internazionale generale in materia di immunità di giurisdizione degli agenti diplomatici stranieri, di
cui si sosteneva il contrasto con varie disposizione della costituzione a partire dall’art 24 (tutti possono agire
in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi). La corte costituzionale diede prevalenza alla
regola sull’immunità della giurisdizione ritendendo che il denunciato contrasto sia soltanto apparente e
risolubile applicando il principio di specialità.

Soltanto recentemente nel 2014 la corte costituzionale ha cambiato orientamento giungendo alla
conclusione che il controllo di legittimità costituzionale che riguarda le leggi sia anteriori che posteriori alla
costituzione, ha la stessa portata anche in materia di norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute recepite tramite art 10 cost., indipendentemente dal fatto che esse si siano formate prima o
dopo la costituzione. Questa sentenza merita un’ampia considerazione, anche perché essa pone in luce
come non possano venire recepite nel diritto italiano norme generali di diritto internazionale contrastanti
con i principi fondamentali della costituzione italiana, anche qualora tale recepimento fosse dovuto per
adempiere a una sentenza della corte internazionale di giustizia.
In ogni caso il meccanismo di adeguamento automatico non consente la violazione dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale, in quando operano in un sistema costituzionale che ha i
propri cardini nella sovranità popolare e nella rigidità della Costituzione.

Secondo la corte internazionale di giustizia non esisterebbe un conflitto tra le norme imperative del diritto
internazionale generale che vietano determinati crimini di guerra e le norme sull’immunità della
giurisdizione in quanto le prime hanno carattere sostanziale e le seconde carattere procedurale. Non
esistono due diversi pianeti e al divieto imperativo di compiere crimini contro l’umanità e gravi crimini di
guerra si deve necessariamente accompagnare l’attribuzione alla vittima del diritto di far valere le sue
ragioni di fronte a un giudice degno di questo nome.

La sentenza della corte costituzionale 22 ottobre 2014 n.238 appare molto significativa in quanto essa
sancisce la prevalenza dei diritti umani fondamentali su altre norme che possano essere applicato
nell’ordinamento interno italiano, ivi comprese le norme generali del diritto internazionale chiamate
dall’art 10 cost.
E’ sperabile che questa resti la portata della sentenza e che essa sia vista come una tappa importante per
affermare la prevalenza dei diritti umani fondamentali, essendo il fine essenziale dello stato quello di
assicurare la tutela dei diritti umani fondamentali.

Ne conseguirebbe in senso reciproco che prevarrebbe il diritto interno se più protettivo dei diritti umani
fondamentali nel caso concreto; ma prevarrebbe il diritto internazionale (compresi i trattati) se più
protettivo dei diritti umani nel caso concreto.

Il procedimento per la partecipazione a trattati

Nel diritto internazionale non esistono regole che provvedano a determinare quale organo di uno stato sia
investito della competenza a negoziare e stipulare i trattati, né quali procedure di diritto interno uno stato
debba seguire per divenire parte a un trattato e introdurre nel proprio diritto gli obblighi che da esso
discendono.

Il sistema italiano prevede, per il recepimento di norme speciali e la partecipazione ai trattati, una
distribuzione di competenze tra i vari organi costituzionali. Si distinguono varie fasi, in ognuna di esse sono
attribuite competenze a vari organi (governo, parlamento, presidente della repubblica).
Occorre distinguere le tre diverse fasi del negoziato con conseguente adozione del testo del trattato, della
formazione sul piano interno del consenso a vincolarsi con conseguente autorizzazione alla ratifica e della
manifestazione di tale consenso sul piano internazionale con conseguente deposito della ratifica.

a) Negoziato e l’adozione del testo

Al Governo sono attribuite importanti competenze in fase di negoziato (salvo i casi in cui di questo siano
investite le regioni): in primis al Presidente del consiglio dei ministri, che dirige la politica generale del
Governo e ne è responsabile ha il compito di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo del
governo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri. Sono pertanto sottoposti alla deliberazione del
consiglio dei ministri le linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria e i progetti dei
trattati e degli accordi internazionali, comunque denominati, di natura politica o militare.
Nell’ambito dell’organizzazione dello stato, articolata in ministeri, tra le varie attribuzioni del ministero
degli affari esteri sono incluse anche quelle relative alla stipulazione e revisione dei trattati e quindi alla
rappresentanza dello Stato in fase di negoziato e perciò all’adozione del testo di trattati.

Il negoziato con gli altri stati è condotto da coloro cui è attribuito tale potere con apposita lettera firmata
dal ministro degli affari esteri italiano. In molti casi è designata una delegazione comporta da un capo, dai
membri e dagli esperti tecnici. La delegazione, può anche includere persone estranee al ministero degli
affari esteri, quali esponenti di altri organi dell’apparato pubblico e, in certi casi, della società civile.
Durante il negoziato e nei rapporti con gli altri stati, la delegazione deve attenersi ad una posizione unitaria
e coerente secondo le istruzioni che le sono state impartite e che sono di solito definite in riunioni di
coordinamento interno tenute prima dell’inizio del negoziato.
Le istruzioni possono a volte essere modificate a seguito di evenienze sopravvenute e di quanto viene
concordato in altre riunioni di coordinamento interno tenute durante il negoziato o nelle pause tra una
sessione e l’altra.
La definizione di una posizione nazionale è oggi resa più complessa dall’obbligo di seguire, per molte
materie oggetto di trattati, una posizione comune tra gli stati membri dell’unione europea e dal
conseguente svolgimento di frequenti riunioni di coordinamento intra-comunitario.

Se il negoziato si conclude positivamente, il capo della delegazione è di solito investito anche del potere di
partecipare all’adozione del testo in nome e per conto dell’Italia. Il testo del trattato adottato è quindi
trasmesso al ministero degli affari esteri.

b) L’autorizzazione alla ratifica

La procedura di formazione sul piano interno del consenso dell’Italia a vincolarsi ad un trattato, sia esso
uno strumento risultante da un negoziato cui l’Italia ha partecipato oppure uno strumento aperto
all’adesione di stati rimasti estranei al negoziato, comporta la partecipazione di Governo, Parlamento e
Presidente della repubblica.
Il Governo compie una prima valutazione di natura politica sull’opportunità che l’Italia divenga parte ad un
dato trattato, predisponendo (qualora lo ritenga opportuno e una volta chiuso il negoziato) un apposito
disegno di legge nel quale è previsto che il parlamento autorizzi la ratifica del trattato e traduca
nell’ordinamento italiano le norme necessarie a darvi esecuzione.

Il coinvolgimento del parlamento nella procedura di formazione del consenso a vincolarsi è reso
obbligatorio, per quanto riguarda la maggior parte dei trattati, da una specifica norma del sistema
costituzionale italiano e cioè dall’art 80 cost.

Il Parlamento (le camere), ex art 80, autorizza la ratifica il trattato di natura politica, o che prevede arbitrati
o regolamenti giudiziari o importa variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi.
Vanno intese in senso ampio la parola ratifica che è riferibile a qualsiasi atto che esprima il consenso dello
stato a essere vincolato da un trattato (ratifica, adesione, approvazione, accettazione e via dicendo) e
l’espressione di trattati internazionali che è riferibile a qualsiasi accordo internazionale, quale che sia la sua
denominazione (trattato, convenzione, atto, patto, accordo, protocollo, statuto, carta e via dicendo).

Viene pertanto coinvolto nella procedura anche il potere legislativo che è chiamato a prendere, nella forma
del suo atto tipico (la legge), una decisione, di natura politica, sull’opportunità o meno di autorizzare la
ratifica di un determinato trattato. È così assicurato un controllo democratico sulla gestione della politica
estera da parte del governo e in particolare sull’assunzione di impegni internazionali.

Il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di un trattato deve essere sottoposto alla procedura
normale di esame e di approvazione diretta da parte delle camere. È esclusa la possibilità del suo
deferimento a una commissione parlamentare.

La partecipazione del parlamento alla stipulazione dei più importanti trattati internazionali si realizza
attraverso una legge di autorizzazione, vale a dire un atto con il quale un organo, esprimendo una sua
valutazione positiva su di un atto da compiersi da parte di un altro organo, soddisfa una condizione
necessaria perché l’atto possa essere compiuto. Il governo non può ratificare un trattato rientrante tra
quelli previsti dall’art 80 cost, senza che sia intervenuta la preventiva autorizzazione del parlamento. Ma,
una volta ricevuta l’autorizzazione, il governo non è tenuto a porre in essere la ratifica del trattato. Anche in
questa fase, il governo mantiene un potere discrezionale, di natura politica, sull’opportunità che l’Italia
depositi il suo strumento di ratifica, e, in caso affermativo, sul momento in cui questo debba avvenire.

In casi straordinari di necessità e urgenza nulla sembra ostacolare il ricorso allo strumento del decreto-
legge, con autorizzazione alla ratifica data con la conseguente legge di conversione.

La legge che autorizza la ratifica di un trattato è una legge non in senso sostanziale, ma in senso formale.
Rispetto a tale legge non è ammesso referendum abrogativo.

Visto che l’autorizzazione del parlamento è necessaria perché sia espresso il consenso dello stato a essere
vincolato da un trattato rientrante nelle categorie previste dall’art 80 cost, potrebbe sembrare altrettanto
doveroso, benchè la costituzione italiana non si esprima in proposito, che l’autorizzazione del parlamento
intervenga anche per gli atti successivi che possono incidere in senso contrario sull’efficacia del trattato
stesso, come un atto di denuncia o di sospensione. Tuttavia, secondo una pratica da tempo instauratasi, il
governo italiano ha depositato strumenti di denuncia e di sospensione, senza mai chiedere alcuna
preventiva autorizzazione al parlamento e senza che il parlamento stesso abbia mai sollevato alcuna
obiezione in proposito.

Ancora più sorprendente è la pratica non costante ma occasionale di non comunicare al parlamento il testo
delle riserve che in seguito al momento del deposito dello strumento di ratifica il governo andrà ad
apporre. In questo caso la violazione dell’art 80 appare evidente, in quanto il parlamento viene ad
autorizzare la ratifica di un trattato che, a causa di riserve a esso ignote, è diverso da quello che sarà poi un
effetti vincolante per l’Italia. Neppure in questo caso risulta però che il parlamento abbia mai sollevato
obiezioni.

c) Il deposito della ratifica

Se il Governo, ottenuta l’autorizzazione alla ratifica da parte del parlamento, ritiene opportuno porre in
essere il trattato, sottopone la futura norma internazionale speciale al Presidente della Repubblica che con
la propria firma predispone che la ratifica del trattato venga depositata a nome dell’Italia. La ratifica è atto
del PdR formale, in quanto l’iniziativa sostanziale spetta al Governo.

Nessun atto del presidente della repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne
assumono la responsabilità. Il capo dello stato si limita a ratificare il trattato per adempiere alle funzioni
che la costituzione gli conferisce.

Adattamento del diritto italiano ai trattati mediante l’ordine di esecuzione

Il recepimento in Italia di trattati non si realizza soltanto mediante l’atto che esprime, nei confronti degli
altri stati, la volontà di assumere gli obblighi ed esercitare i diritti da essi derivanti. Occorre spesso che
vengano inserite nel sistema del diritto interno norme che consentano l’applicazione del trattato in modo
che esso possa essere eseguito da chiunque debba osservarlo e farlo osservare.
All’autorizzazione alla ratifica che esprime il controllo politico del parlamento si accompagna quasi sempre
un ordine di esecuzione, atto legislativo che consente l’adattamento del diritto interno a quello del trattato
(che in questo caso non avviene automaticamente ma richiede caso per caso l’intervento del potere
legislativo); è l’intervento tecnico del parlamento, ovvero la formulazione delle norme di legge o in certi
casi di legge costituzionale, che consentono l’adattamento del diritto interno al trattato.

Nella pratica viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della repubblica italiana un’unica legge che autorizza
sia alla ratifica sia all’esecuzione del trattato. Con la prima il parlamento autorizza il presidente della
repubblica a ratificare un determinato trattato, il cui testo è allegato alla legge stessa. Con la seconda
(cosiddetto ordine di esecuzione), il parlamento dispone la piena ed intera esecuzione del trattato in
questione a decorrere dalla data della sua entrata in vigore. Con un’eventuale terza disposizione, il
parlamento provvede circa gli oneri finanziari derivanti dal trattato.

La legge che autorizza la ratifica e dà esecuzione a un trattato entra in vigore il 15 esimo giorno successivo
alla sua pubblicazione (vacatio legis), salvo che la legge stessa stabilisca un termine diverso. A partire da
tale data, potrà essere depositato lo strumento di ratifica. Tuttavia, per quanto riguarda l’adattamento del
sistema di diritto interno alle norme del trattato, occorre tenere presente che la legge di ratifica ed
esecuzione è strettamente legata alla vita del trattato cui si riferisce: le norme del trattato sono quindi
introdotte nell’ordinamento italiano soltanto nel momento in cui il trattato stesso entra in vigore per l’Italia
sul piano internazionale e si estinguono nello stesso momento in cui il trattato si estingue per l’Italia, senza
che per questo occorra una legge di abrogazione della legge di ratifica ed esecuzione.

Sotto il profilo formale, l’atto legislativo che dà esecuzione ad un trattato è, nella maggior parte dei casi una
legge. Il parlamento deve però fare ricorso a una legge costituzionale nei casi in cui le norme del trattato
immesse tramite l’ordine di esecuzione vengono a incidere su norme interne di rango costituzionale.

Rango dei trattati

Prima della modifica dell’art 117.1, era opinione comune che il rango dei trattati recepiti nell’ordinamento
italiano mediante ordine di esecuzione fosse quello dello strumento di recepimento, cioè una legge o una
legge costituzionale. La legge che dava esecuzione ad un trattato poteva pertanto essere sottoposta a
sindacato di legittimità costituzionale ad opera della corte costituzione. Un’eventuale dichiarazione di
illegittimità colpiva la legge nella parte in cui essa aveva introdotto nell’ordinamento italiano norme
internazionali in contrasto con norme italiane aventi rango costituzionale.

Il nuovo art 117.1 afferma che la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regione nel rispetto della
costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Con la modifica del 2001 quindi viene attribuita alle norme di diritto internazionale speciale un nuovo
rango, detto sub costituzionale o di norma interposta (ossia norma posta tra la legge e l’art 117.1). Di
conseguenza la norma del trattato, recepita dall’ordinamento interno, prevale sulla legge e sulle fonti
inferiori, andando ad applicare il criterio gerarchico (violazione indiretta dell’art 117.1), ma non sui principi
costituzionali (perché appunto sono poste tra la legge, al di sopra, e la Costituzione, al di sotto).

Il giudice di merito è tenuto per quanto possibile a interpretare le norme di legge in senso conforme a
quello delle norme del trattato. Qualora questo non fosse possibile, egli deve sollevare la questione di
costituzionalità di tali norme per eventuale violazione dell’art 117 comma 1 costituzione.

In definitiva, nei casi in cui vi sia un dubbio circa il contrasto tra una norma di legge e una norma di un
trattato reso esecutivo con legge, la corte costituzionale verifica, in primo luogo se il contrasto sussiste e in
secondo luogo se la norma interposta del trattato sia compatibile con l’ordinamento costituzionale italiano.
Affinché vi sia inapplicabilità della norma di un trattato, recepita dall’ordinamento interno la Cc deve
verificare il sussistere di due condizioni (doppio giudizio di costituzionalità):

1. Il contrasto tra norma internazionale e principio costituzionale non sia risolvibile in via
interpretativa
2. Le norme di diritto internazionale siano effettivamente in contrasto con l’ordinamento
costituzionale italiano

Qualora sussistano queste due condizioni la norma di esecuzione al trattato è dichiarata illegittima, del
tutto o in parte, in quanto si violano i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
Una norma di legge non può essere in conflitto con una norma interposta di un trattato, ma a sua volta,
quest’ultima non può essere in conflitto con l’ordinamento costituzionale italiano.
Resta il fatto che la legge che dà esecuzione a un trattato può essere dichiarata costituzionalmente
illegittima in tutto o in parte, qualora la norme del trattato siano in conflitto con principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale.

Norme di adattamento in via ordinaria

In certi casi è sufficiente una legge che dia in generale piena ed intera esecuzione a un trattato, affinché il
sistema di diritto interno si adatti agli obblighi che dallo stesso discendono e il trattato possa venire
applicato in Italia.
In altri casi, accade però che le norme del trattato non abbiano carattere cauto esecutivo (non self-
executing), cioè non possono essere immediatamente applicate nel diritto interno. Occorre allora che il
legislatore sulla base di una corretta interpretazione del trattato adotti norme di diritto interno che
disciplinano direttamente la materia oggetto del trattato e che contengono tutti gli elementi necessari
perché il trattato venga correttamente applicato in Italia (procedimento ordinario di adattamento).

Il carattere self-executing di un trattato non costituisce tanto una sua intrinseca caratteristica, ma emerge
dal confronto tra norma internazionale e sistema interno (che può essere “auto-recettivo o meno di un
trattato, a seconda che sia o no idoneo a porre direttamente in atto quanto previsto dal trattato).

Le norme interne che danno esecuzione (provvedono all’applicazione in via ordinaria di un trattato) agli
obblighi del trattato possono essere contenute sia nell’ordine di esecuzione sia in altre leggi, che di solito
fanno esplicito riferimento al trattato in questione.

Il mancato adattamento delle norme non self-executing potrebbe causare responsabilità internazionale per
mancato adempimento degli obblighi di un trattato.

Qual è l’effetto di un ordine di esecuzione che avrebbe richiesto l’adozione di norme di applicazione in via
ordinaria che non sono state poste in essere? Nonostante la diversa posizione assunta da gran parte della
giurisprudenza italiana, sembra preferibile ritenere che l’ordine, proveniente dal parlamento e comunque
contenuto nella legge di esecuzione, di dare a un trattato un’esecuzione piena ed intera, dovrebbe, se le
parole hanno un senso portare alla presunzione che al momento dell’approvazione della legge contenente
l’ordine di esecuzione, il legislatore fosse convinto che le norme del trattato in questione potessero essere
senz’altro applicate in Italia. Ne consegue che tutti coloro che hanno successivamente il compito di
assicurare l’esecuzione delle leggi, e cioè gli organi sia esecutivi che giudiziari, sono tenuti a fare tutto
quanto in loro potere per dare loro applicazione. Dato che scopo dell’ordine di esecuzione è dare piena ed
intera esecuzione al trattato in questione, si parte dal presupposto che il legislatore, al momento
dell’ordine di esecuzione, reputava le norme self-executing (anche in ragione del contesto normativo del
tempo). Perciò gli organi giurisdizionali devono fare tutto ciò che è in loro potere per dare piena ed intera
esecuzione al trattato (la giurisprudenza italiana ha assunto diversa posizione), ad esempio mediante
applicazione analogica.

Per l’esecuzione di norme non self-executing in materia penale la questione è più complessa, in quanto non
è possibile applicare suddette norme in via analogica. È il caso di quei trattati che fanno obbligo alle parti di
punire i responsabili di determinati comportamenti con sanzioni penali, senza che il trattato ne stabilisca
l’entità. In tali casi, fino che non intervengano norme di applicazione in via ordinaria che specifichino le
sanzioni, il giudice italiano che condannasse i responsabili alla pena, che in mancanza di meglio ritenesse
più opportuna applicherebbe correttamente la legge che dà esecuzione al trattato ma nello stesso tempo
applicando le norme non self-executing si violerebbe l’art 25.2 (nessuno può essere punito se non in forza
di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso) e il principio di legalità: l’ordine di
esecuzione è illegittimo (coerentemente con la natura sub-costituzionale e interposta delle norme di diritto
internazionale speciale). Ne dovrebbe derivare l’illegittimità costituzionale della legge che aveva dato
esecuzione al trattato.
Di regola anche le norme interne relative all’applicazione in via ordinaria di un trattato risultano
logicamente legate al trattato cui si riferiscono per quanto riguarda il momento iniziale e quello finale della
loro efficacia. Ma può anche capitare che l’intento del legislatore sia quello di emanare norme che, per
quanto occasionalmente motivate dall’esistenza di un trattato, non siano influenzate da quanto attiene alla
sua efficacia. Se dall’atto interno di adattamento risulta una simile volontà del legislatore, l’efficacia delle
norme interne di adattamento segue le prescrizione sulla vacatio legis, senza dipendere dall’entrata in
vigore della norma internazionale e l’estinzione o la modificazione della norma internazionale non provoca
né l’estinzione né la modificazione delle norme di adattamento interne, le cui vicende restano interamente
disciplinate dalle relative regole di diritto interno.

Il referendum abrogativo non è ammissibile in base all’art 75 comma 2 cost, rispetto alle norme di legge
che danno adattamento in via ordinaria ad un trattato, se nell’emanazione di esse non vi sia margine di
discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto.

Stipulazione di Trattati in forma semplificata

Spetta al parlamento l’autorizzazione con legge della ratifica dei trattati che rientrino in almeno una delle 5
categorie indicate nell’art 80 cost:

A. Prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari: risulta evidente dalle disposizioni dei trattati;
B. Importano variazioni del territorio: sia confini terrestri che confini marittimi;
C. Importano oneri alle finanze: solo trattati che richiedono una spesa nuova, non quelli per cui è
necessaria una spesa in generale.
D. Importano modificazioni di leggi
E. Di natura politica: criterio generico, che sfugge ad una definizione specifica (teoricamente qualsiasi
trattato è di natura politica) anche se si può ritenere che tali siano i trattati relativi agli aspetti più
importanti relazioni internazionali come un trattato che preveda un’alleanza militare.

I trattati di categorie differenti da quelli di cui all’art 80 possono essere stipulati in forma semplificata
(trattati di minore importante), in quanto ritenuti meno rilevanti. La forma semplificata è una forma di
manifestazione del consenso a vincolarsi in cui suddetto consenso può essere manifestato direttamente dal
governo senza che occorra previa autorizzazione parlamentare. Ma non è sempre agevole determinare se
un trattato rientra in una delle 5 categorie. Il caso più semplice è quello dei trattati che prevedono arbitrati
o regolamenti giudiziari tra l’Italia e stati stranieri cosa che risulta evidente dalla lettura delle rilevanti
disposizioni dei trattati stessi. Altrettanto semplice dovrebbe essere il caso dei trattati che importano
variazioni del territorio, pur dovendosi precisare che tale categoria comprende oltre ai trattati relativi ai
confini terrestri anche quelli relativi ai confini marittimi. Abbastanza agevole dovrebbe essere la
determinazione dei trattati che importano oneri alle finanze dovendosi intendere come tali solo quelli che
richiedono una spesa nuova non prevista dalla legislazione (molti trattati conclusi in forma semplificata
perché la spesa che essi comportano è già prevista in appositi capitoli del bilancio dello stato). La portata
delle altre due categorie di trattati previste dall’art 80 appare elastica. Stabilire se un trattato importa
modificazioni di leggi può sollevare problemi tecnico giuridici data la difficoltà di orientarsi in tutte le
disposizioni legislative italiane e le varie deroghe e abrogazioni. La categoria dei trattati di natura politica
sfugge per il suo carattere generico ai tentativi di dare una definizione precisa. L’art 80 lascia al governo un
certo margine di discrezionalità nel valutare se un trattato non rientrante in alcune delle altre 4 categorie
debba o meno considerarsi di natura politica e conseguentemente debba o meno venire sottoposto alle
camere per la previa autorizzazione alla ratifica; comunque in caso di dubbio è corretto che il governo
sottoponga il trattato al sindacato del parlamento.
Trattato segreto

Le caratteristiche del vigente sistema costituzionale italiano lasciano ben poco spazio ai trattati segreti. Si
dice trattato segreto, il trattato concluso dal governo senza che sia data comunicazione del loro testo al
parlamento o un trattato contenente clausole diverse o aggiuntive rispetto a quelle rese note al
parlamento. In realtà c’è sempre qualcuno che conosce il trattato segreto anche se non lo vuole rivelare
agli altri.

È lasciato ben poco spazio al trattato segreto: innanzitutto non possono essere assunti impegni vincolanti
mediante trattato segreto per le categorie di cui all’art 80 (sarebbe illegittimo). Appare poi difficile negare
la natura politica di un trattato così importante da indurre il governo a nasconderne l’esistenza. Se per
qualsiasi motivo il mistero che circonda un trattato segreto rientrante in una delle categorie dell’art 80
venisse svelato, il governo che lo ha stipulato e i governi che hanno in seguito continuato a tenerlo segreto
si renderebbero responsabili di un’usurpazione dei poteri del parlamento.

Il ricorso ad un trattato segreto è ammissibile soltanto in presenza di strumenti che possono venire stipulati
in forma semplificata senza violare l’art 80 e anche in questo caso con molti limiti e riserve.

Ulteriori limitazioni sono poste dalla l.839/1984 in cui si prevede che vegano pubblicati nella raccolta
ufficiale delle leggi e dei decreti dello Stato gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni
internazionali ivi compresi quelli in forma semplificata e che non necessitano di pubblicazione. Tutti gli atti
internazionali ai quali la repubblica si obbliga nelle relazioni estere, trattati, convenzioni, scambi di note,
accordi ed altri atti comunque denominati sono così pubblicati trimestralmente in apposito supplemento
della Gazzetta Ufficiale. Queste esigenze di trasparenza generale possono essere derogate (applicando il
criterio della specialità) secondo quanto previsto dalla legge 124/2007 che disciplina il segreto di Stato: in
particolare atti idonei a recare danno all’integrità della Repubblica.

Il trattato segreto potrebbe pertanto ammettersi soltanto qualora esso, oltre a non riguardare alcuna
categoria dell’art 80, non potesse essere divulgato senza rischiare di recare danno a una delle esigenze
elencate dalla norma (es potrebbe rimanere segreto perché la sua pubblicità recherebbe danno alla difesa
militare dello stato un accordo attuativo di un precedente trattato di alleanza militare pubblico visto la sua
evidente natura politica che provveda alla collocazione di armamenti sul territorio nazionale).

L’erosione delle competenze dello stato a concludere trattati

Negli ultimi tempi il modello dello stato unitario e sovrano sta subendo in Italia un evidente declino. In
particolare la competenza a gestire le relazioni internazionali e a concludere trattati, che costituisce una
tradizionale prerogativa dello stato è oggetto di un processo di erosione a favore di enti diversi dallo stato e
situati a un livello sia sottostatale (regioni) che sovrastatale (unione europea).
Il fenomeno della gestione multipla delle relazioni internazionali dà attualmente luogo a diverse situazioni
di confusione sul piano giuridico, che sono il riflesso dell’incertezza esistente sul piano politico. Il ricorso al
cosiddetto principio di sussidiarietà, così generico da prestarsi a molteplici soluzioni, non fa che aggiungere
confusione alla confusione.

a) La competenza delle regioni

Fino all’adozione della legge 3/2001 che ha modificato varie disposizioni della costituzione italiana, era
previsto che lo stato esercitasse le funzioni attinenti ai rapporti internazionali e con la comunità economica
europea, e che le regioni non potessero svolgere all’estero attività promozionali relative alle materie di loro
competenza se non previa intesa con il governo e nell’ambito degli indirizzi e degli atti di coordinamento
esercitati dallo stato.
Impregiudicato rimaneva il diritto delle regioni o di altri enti territoriali di svolgere attività di rilievo
internazionale quando queste fossero autorizzate da apposite leggi.
Con le modifiche alla costituzione introdotte nel 2001, allo stato è attribuita la legislazione esclusiva in
diciassette materie esplicitamente elencate, tra le quali vi sono politica estera e rapporti internazionali
dello stato; rapporti dello stato con l’unione europea; diritto d’asilo e condizione giuridica dei cittadini di
stati non appartenenti all’unione europea. Sono poi elencate 16 materie per le quali la legislazione è
concorrente tra stato e regioni e che, tra l’altro includono i rapporti internazionali e con l’unione europea
delle regioni.
In tali materie, spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello stato. È infine prevista una potestà legislativa generale delle
regioni in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello stato.
Una volta così definita la ripartizione di competenze, l’art 117 prevede che nelle materie di sua competenza
la regione può concludere accordi con stati e intese con enti territoriali interni ad altro stato, nei casi e con
le forme disciplinati da legge dello stato. Alla competenza a stipulare si aggiunge una competenza
esecutiva, nel senso che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono
all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso
di inadempienza.
Delle tre diverse ipotesi di attività previste in tale disposizione, la prima riguarda l’esecuzione da parte delle
regioni di trattati già in vigore per l’Italia, la seconda riguarda le intese delle regioni con enti territoriali
interni a stati esteri, la terza ipotesi riguarda la conclusione di trattati con stati esteri che segue una
procedura dettagliatamente specificata.
Nella terza ipotesi il ruolo delle regioni sul piano internazionale è in buona parte attenuato dal fatto che lo
stato è abilitato a svolgere un certo controllo sull’operato delle regioni nel corso del negoziato e dal fatto
che la firma del trattato da esse negoziato è subordinata al conferimento di pieni poteri da parte dello
stato. Con il che la regione si colloca al rango di un qualsiasi plenipotenziario cui il governo abbia attribuito
la funzione di manifestare il consenso a vincolarsi al trattato (consenso che nel caso di accordo concluso da
una regione si manifesta con la firma non essendo configurabile alcuna procedura di ratifica).
La nuova versione dell’art 117 non sembra derogare al disposto dell’art 80 rimasto immutato e che
pertanto gli accordi esecutivi, applicativi, tecnico amministrativi o programmatici conclusi dalle regioni non
potrebbero mai cadere in una delle 5 categorie di trattati previste dall’art 80 cost.
Il ridotto peso che la legge 131/2003 attribuisce alle regioni, per quanto riguarda la competenza a
concludere trattati è confermato dall’art 6 che riserva allo stato la decisione finale sulle questioni che si
pongano in proposito. In tema di esecuzione dei trattati la legge 3/2001 attribuisce allo stato un potere
sostitutivo che può venire esercitato, anche al fine di evitare una responsabilità sul piano internazionale,
quando le regioni non adempiano a obblighi di diritto internazionale. La legge 131/2003 provvede a definire
le procedure da attuarsi nel caso in cui le regioni non adempiano correttamente all’esecuzione di trattati
già in vigore per l’Italia o si rendano responsabili di violazioni dei trattati da esse conclusi.
La corte costituzionale ha provveduto a chiarire la portata delle regole che, sulla base del testo modificato
della costituzione italiana, disciplinano oggi i rapporti tra stato e regioni in materia di attività internazionali.

b) La competenza dell’Unione europea

L’unione europea (prima denominata comunità economica europea e poi comunità europea, è
un’organizzazione internazionale creata con un trattato concluso a Roma il 25 marzo del 1957 e in seguito
più volte modificato, di cui oggi sono membri 28 stati (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi
Bassi, Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Austria, Finlandia, Svezia, Repubblica Ceca,
Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Bulgheria, Romania e
Croazia) tra i quali l’Italia. A seguito del trattato di Lisbona del 2007, i trattati sui quali si fonda l’unione sono
il trattato sull’UE e il trattato sul funzionamento dell’UE.
L’UE è il risultato di un disegno politico su ambia scala diretto alla creazione per tappe progressive di uno
stato federale europeo. Ne sono conferma le competenze dell’UE in materia di relazioni internazionali, che
in parte, ma non ancora del tutto, soppiantano quelle degli stati membri.
L’UE ha una competenza esclusiva a concludere trattati internazionali (competenza esterna) in tutte le
materie in cui essa è titolare di una competenza esclusiva ad adottare atti normativi valevoli per gli stati
membri (competenza interna), vale a dire unione doganale; definizione delle regole di concorrenza
necessarie al funzionamento del mercato interno; politica monetaria per gli stati membri; conservazione
delle risorse biologiche del mare; politica commerciale comune.
Inoltre l’UE ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorchè tale conclusione è
prevista in un atto legislativo dell’UE o è necessaria per consentire di esercitare le sue competenze a livello
interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata.
In tutti questi casi la competenza dell’UE si sostituisce a quella dei singoli stati membri che perdono la
capacità di negoziare, adottare e ratificare trattati con terzi.
Nel caso di trattati che riguardino sia materie di esclusiva competenza dell’UE sia altre materie (trattati
misti destinati a essere conclusi sia dall’UE che da stati membri), rimane ferma la competenza esterna
dell’UE per le materie ad essa riservate. Inoltre, anche nelle materie di loro spettanza, gli stati membri sono
obbligati a cooperare strettamente con l’UE sia nel processo di negoziato e di conclusione dei trattati in
questione sia nell’adempimento degli obblighi che ne discendono. Vale in proposito il principio dell’unità di
rappresentazione internazionale dell’Unione in base al quale gli stati membri devono fare ogni sforzo per
coordinare le loro posizioni, tra di loro e con l’unione al fine di raggiungere una posizione comune e di
evitare di pregiudicare l’immagine politica dell’unione.
Sul piano politico, una simile pratica rischia di impedire a uno stato membro, perfino nelle materie che
rimangono di sua competenza, di esprimere liberamente all’esterno la sua propria posizione, che potrebbe
risultare alterata in base alle posizioni prese degli altri 27 stati membri e della commissione, se non
addirittura paralizzata da uno stato o pochi stati membri che siano particolarmente riluttanti a impegnarsi
in una certa direzione.
Sta di fatto che la distribuzione di competenze tra le istituzioni dell’unione e i singoli stati membri nel
settore delle relazioni internazionali risulta talora così confusa che neppure gli stessi soggetti coinvolti sono
in grado di capire chi sia qualificato a svolgere un certo negoziato o competente a concludere un certo
trattato ed entro quali limiti le rispettive competenze possano venire esercitate.

L’adattamento del diritto italiano al diritto dell’UE

Una particolare situazione si verifica in tema di adattamento del diritto italiano al diritto dell’UE. Questa
situazione riflette il carattere sovranazionale di un ordinamento che rappresenta un processo di progressiva
integrazione di vari stati europei verso una struttura federale unitaria.
L’Italia ha a suo tempo provveduto al recepimento del trattato istitutivo dell’unione Europea e del trattato
istitutivo della comunità europea dell’energia atomica tramite ordine d’esecuzione dato con una legge
ordinaria. Tuttavia da vari anni la corte costituzione italiana, sia pure dopo alterne pronunce, ha ritenuto
che il diritto dell’unione europea avente efficacia diretta abbia un rango costituzionale, in quanto rientrante
nell’ambito dell’art 11 cost: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri
stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
E’ ovvio che questo articolo fu redatto pensando a una futura partecipazione italiana alle nazioni unite,
un’organizzazione che ha come fine diretto e primario quello di assicurare la pace e la giustizia tra le
nazioni.
Per quanto riguarda l’UE, il richiamo all’art 11, che viene a svolgere quasi un ruolo di deus ex machina
(evento che risolve gli intrecci) al fine di coronare il primato del diritto dell’UE sul diritto italiano, appare
molto meno immediato. Esso, secondo la corte costituzionale, andrebbe collegato alla circostanza che tale
norma avrebbe inteso, in un senso più generale definire l’apertura dell’Italia alle più impegnative forme di
collaborazione e organizzazione internazionale.
Da tali premesse consegue il primato del diritto dell’UE sul diritto italiano, nel senso che il giudice italiano è
tenuto direttamente a disapplicare le disposizioni del diritto interno contrastanti con le norme del diritto
dell’unione aventi efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi rapporto cronologico tra i due tipi di
norme. Non vi è l’obbligo di sollevare una questione di legittimità costituzionale (come avviene con norme
contrastanti con quelle dei trattati), ma la disapplicazione avviene in modo immediato da parte del giudice
di merito.
La corte costituzionale ha escluso che sia possibile sottoporre norme di tale diritto aventi efficacia diretta a
un giudizio di costituzionalità, argomentando sulla base della distinzione tra ordinamento interno e
ordinamento comunitario e sulla base dell’esistenza di garanzie di tutela giuridica in quest’ultimo
ordinamento.
La corte costituzionale ha però osservato che le limitazioni alla sovranità consentite dall’art 11 non possono
comportare per gli organi della CEE (comunità economica europea) un inammissibile potere di violare i
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana. La
corte costituzionale si è riservata la competenza a verificare attraverso il controllo di costituzionalità della
legge di esecuzione se una qualsiasi norma del trattato così come essa è interpretata ed applicata dalle
istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana, definendo un tale
contrasto come pur sempre possibile benchè sommamente improbabile.
Oltre al trattato sull’UE e al trattato sul funzionamento dell’UE, hanno efficacia diretta le norme dei
regolamenti. Il regolamento ha una portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è
direttamente applicabile in ciascuno degli stati membri, decorsi 20 giorni dalla data della sua pubblicazione
sulla gazzetta ufficiale dell’UE. L’ordinamento italiano si modifica automaticamente per adeguarsi ai
regolamenti senza che occorra alcuna attività legislativa di recepimento.
La direttiva vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La direttiva che è pure
pubblicata sulla gazzetta ufficiale dell’UE, indica di solito un termine, entro il quale gli stati membri devono
mettere in vigore le misure necessario per conformarsi a essa. La direttiva si presenta normalmente come
uno strumento legislativo di natura non autoesecutiva che richiede apposite norme di adattamento di
diritto interno. Non è però esclusa un’efficacia diretta delle direttive a partire dal termine in esse previsto
(caso delle cosiddette direttive dettagliate, di atti cioè che pur avendo la forma delle direttive contengono
tutti gli elementi per poter venire direttamente applicati negli ordinamenti degli stati membri).
La legge 234/2012 disciplina il processo di partecipazione dell’Italia alla formazione delle decisioni e alla
predisposizione degli atti dell’UE e garantisce l’adempimento degli obblighi e l’esercizio dei poteri derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’UE, sulla base dei principi di attribuzione, di sussidiarietà, di proporzionalità,
di leale collaborazione, di efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica. È prevista inoltre
l’emanazione annuale di una legge di delegazione europea e di una legge europea intese a facilitare e a
rendere spedito anche mediante deleghe il procedimento di attuazione in Italia degli obblighi derivanti dal
diritto dell’UE. È anche previsto il potere sostitutivo dello stato che può adottare i provvedimento di
attuazione degli atti dell’UE nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province autonome
al fine di porre rimedio all’eventuale inerzia degli enti suddetti.

a cura di:
Beatrice Lancini

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