CONFORTI
DIRITTO INTERNAZIONALE
PARTE PRIMA
CAPITOLO II
QUADRO SINTETICO DELLE FUNZIONI DI PRODUZIONE, ACCERTAMENTO ED
ATTUAZIONE COATTIVA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
I.
Funzione normativa
Occorre distinguere tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati e quelle che vincolano solo una
ristretta cerchia di soggetti
Consuetudine
Alle norme di diritto internazionale generale si riferisce l’art 10 Cost. Tali norme sono le norme
consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità internazionale attraverso l’uso.
Accordo
Sebbene esistano anche consuetudini particolari, le tipiche norme di diritto internazionale
particolare sono quelle poste da accordi (o patti, convenzioni, trattati) internazionali, che vincolano
solo gli Stati contraenti. Esse sono al contrario delle consuetudini, molto numerose e costituiscono
la parte più rilevante del diritto internazionale.
II.
Arbitrato
Per quanto riguarda la funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale, nell’ambito
della comunità internazionale, è in prevalenza una funzione arbitrale. L’arbitrato poggia
sull’accordo tra le parti, diretto a sottoporre una controversia ad un determinato giudice.
Anche la CIG ha funzione essenzialmente arbitrale. Esistono però anche tribunali internazionali.
Ad esempio, alcune corti internazionali, come le Corti per i crimini commessi in ex Iugoslavia e in
Ruanda, somigliano in tutto e per tutto alle Corti penali interne.
III.
Autotutela
Per quanto riguarda i mezzi per assicurare coattivamente l’osservanza delle norme, sono tutti
riferibili alla categoria dell’autotutela. Ciò che nel diritto interno è un’eccezione, diviene regola sul
piano internazionale.
CAPITOLO III
LO STATO COME SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE.
ALTRI SOGGETTI E PRESUNTI TALI.
I.
Attribuzione della soggettività internazionale allo Stato organizzazione
Per individuare lo Stato come soggetto internazionale occorre distinguere tra Stato-comunità e
Stato-organizzazione.
La qualifica di soggetto di diritto internazionale spetta allo Stato organizzazione. È infatti
all’insieme degli organi statali che si ha riguardi allorché si lega la soggettività internazionale dello
Stato al criterio di effettività, cioè dell’effettivo esercizio del potere di governo. E perché sono gli
organi dello Stato che partecipano alla formazione delle norme internazionali ecc.
II.
Effettività dello Stato organizzazione
Se il diritto internazionale si rivolge allo Stato organizzazione, va sottolineato che questa
organizzazione è in tanto presa in considerazione, in tanto è destinataria delle norme internazionali
in quanto eserciti effettivamente il proprio potere su una comunità territoriale.
Failed States
Soggettività dubbia è quella dei c.d. failed states, la cui caratteristica è proprio la mancanza di un
governo effettivo, che può avvenire quando sia in atto una guerra civile.
Un esempio poteva essere la Somalia, che per vent’anni è stata dominata da “signori della guerra”.
Oggi potrebbe essere la Libia.
III.
Indipendenza dello Stato-organizzazione
Un altro requisito da considerare è quello dell’indipendenza, o sovranità esterna. Occorre cioè che
l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato.
È indipendente e sovrano, lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da
una propria costituzione e non dall’ordinamento o dalla Costituzione di un altro Stato. Non influisce
sulla soggettività, la dimensione dello Stato.
Confederazione
Lo Stato federale non va confuso con la Confederazione, che è un’unione di Stati perfettamente
indipendenti e sovrani, creata per scopi di comune difesa e caratterizzata da un governo assembleare
(Dieta) rappresentativo di tutti i membri, con ampi poteri i n materia di politica estera.
Es: confederazione degli Stati Uniti d’America fino al 1787, o la Confederazione elvetica ecc.
IV.
Riconoscimento degli Stati
L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere su
una comunità territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico. Non è necessario che
essa sia riconosciuta dagli altri Stati.
Per il diritto internazionale, il riconoscimento è un atto meramente lecito, e meramente lecito è il
non riconoscimento: entrambi non producono conseguenze giuridiche.
Il riconoscimento appartiene alla sfera della politica. Esso rivela solo l’intenzione di stringere
rapporti amichevoli, di scambiare rappresentanze diplomatiche e di avviare forme di collaborazione.
Quando si nega al riconoscimento valore giuridico, si viene a respingere la resi che esso sia
costitutivo della personalità internazionale. Si viene a respingere la tesi secondo cui gli Stati
preesistenti possano esercitare nei confronti di un nuovo Stato, mediante il riconoscimento, una
sorta di potere di ammissione nella comunità internazionale.
Gli Stati preesistenti rendono infatti a giudicare se un nuovo Stato meriti o meno la soggettività.
V.
Insorti
Non si può negare che nel caso in cui si verifichi in uno Stato un movimento insurrezionale ed il
movimento riesca a creare un’organizzazione di Governo che controlli effettivamente una parte del
territorio statale, ad esso vada riconosciuta una soggettività internazionale.
Nella materia è rilevante il principio rebus sic stantibus, che comporta l’estinzione di quelle
situazioni giuridiche derivanti da accordi, allorché vengano meno le circostanze in vista delle quali
dette situazioni furono create.
Per il diritto internazionale classico, era diverso il caso di insorti senza base territoriale. Erano
considerati come dei sudditi ribelli nei confronti dei quali il Governo attaccato, legittimo, poteva
comportarsi come credeva.
VII.
Individui
Esistono altri soggetti di diritto internazionale? Gran parte della dottrina parla di una personalità se
pur limitata degli individui, persone fisiche o giuridiche.
L’opinione trae spunto dal moltiplicarsi di norme che obbligano gli Stati a tutelare i diritti
fondamentali dell’uomo. Alla tutela dell’interesse individuale si accompagna l’attribuzione
all’individuo di un potere di azione.
A parte i diritti umani, comportamenti e interessi individuali sono presi in considerazione da norme
internazionali o di origine internazionale in varie materie: si pensi ai c.d. crimina juris gentium, per
quei reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente
assegnatigli.
Per quanto riguarda i diritti e doveri che discendono dai trattati istitutivi e dagli atti delle
organizzazioni internazionali, anche UE, non si nega che di essi siano effettivamente titolari, gli
individui in molti casi, ma se ne contesta la natura di veri e propri diritti e doveri internazionali.
Per quanto riguarda invece, i diritti e doveri che non si ricollegano al fenomeno dell’organizzazione
internazionale, se ne contesta la stessa titolarità da parte degli individui. Destinatari di norma
consuetudinarie o pattizie sarebbero solo gli Stati.
In definitiva, molto dipende dall’importanza che si attribuisce al fatto che l’individuo non ha la
possibilità di avvalersi direttamente di mezzi coercitivi internazionali per costringere gli Stati a
rispettare i suoi diritti.
VIII.
Minoranze e popoli
Molte norme internazionali tutelano le minoranze etniche, le quali comunque non divengono
soggetti di diritto internazionale.
Si parla nella prassi di “diritto dei popoli” all’autodeterminazione, a disporre liberamente delle
proprie risorse naturali ecc. Ma si potrebbe tranquillamente sostituire il termine popoli con “Stati”:
è gli Stati che compete la sovranità sulle risorse naturai ad esempio.
Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli si parli in relazione a norme che si occupano di
un popolo come contrapposto allo Stato, quindi norma che tendono a tutelare il popolo rispetto
all’apparato che lo governa. L’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio
dell’autodeterminazione dei popoli.
Autodeterminazione esterna
Il principio dell’autodeterminazione dei popoli non ha ancora oggi un ampio campo di applicazione.
Esso so applica ai popoli sottoposti ad un Governo straniero, in primo ai popoli soggetti a
dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati e occupati con la
forza.
Autodeterminazione e decolonizzazione
Il principio dell’autodeterminazione dei territori coloniali deve coordinarsi con il principio
dell’integrità territoriale, e la necessità del coordinamento si impone anche all’Assemblea generale
dell’ONU. In base al principio dell’integrità territoriale occorre tener conto dei legami storico-
geografici del territorio da decolonizzare.
Autodeterminazione interna
È da escludere invece da pdv giuridico che l’autodeterminazione possa essere intesa nel significato
ad essa attribuito politicamente. Bisogna guardarsi dall’affermare che il diritto internazionale
richieda che tutti i governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e
siano da costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna).
IX.
Organizzazioni internazionali
Resta da chiedersi se siano soggetti certi enti i quali operano nell’ambito della comunità
internazionale accanto agli Stati, in posizione di indipendenza rispetto a questi ultimi.
Non si può più negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia alle associazioni di
Stati (ONU, istituti specializzati NU, UE ecc.) dotate di organi per il perseguimento degli interessi
comuni.
La personalità delle organizzazioni è data come personalità distinta da quella degli Stati membri.
Gli accordi sottoscritti da queste organizzazioni vengono considerati produttivi di diritti e doveri
propri delle organizzazioni, restando senza effetti sulla sfera giuridica degli Stati membri.
Però se si esami la prassi dei Tribunali internazionali, si ha la conferma della tesi secondo la quale
entrambi gli elementi sono rilevanti.
Gli Stati inoltre si sono pronunciati nel senso che l’opinio juris fosse indispensabile per l’esistenza
di una consuetudine. Di fatto molto spesso gli Stati, per evitare che la sola prassi crei diritto,
dichiarano che un determinato comportamento che essi intendono tenere è dettato da ragioni di
cortesia e non è capace di creare un precedente ai fini della formazione di una consuetudine o
desuetudine.
Si parla di opinio juris sive necessitatis. L’obbligatorietà va a confondersi con la necessità, con la
doverosità sociale. Di fatto all’inizio della formazione della consuetudine, il comportamento è
sentito come dovuto socialmente, non tanto giuridicamente.
Questo elemento serve inoltre a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il
diritto consuetudinario preesistente dal comportamento che costituisce un illecito internazionale.
II.
Tempo di formazione della consuetudine
Per quanto riguarda l’elemento della diuturnitas: se il trascorrere di un certo tempo per la
formazione della norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere
secolare, è anche vero che certe regole, si sono consolidate nel volgere di pochi anni.
In realtà il tempo può essere tanto più breve quanto più è diffuso un certo comportamento. Resta un
fattore ineliminabile e conferisce stabilità.
III.
Ruolo della giurisprudenza interna nella formazione della consuetudine
Si riconosce generalmente la possibilità di partecipazione da parte di tutti gli organi statali e non
solo degli organi detentori del potere estero. Quindi, a formare la consuetudine possono essere atti
esterni, sia atti interni degli Stati.
È chiaro che una funzione del genere è svolta con particolare attenzione da parte delle corti
supreme, le quali possono avere un’influenza decisiva nella creazione del diritto consuetudinario, ed
è loro compito promuoverne la revisione, sia pur con cautela.
Va notato che spesso non vi è sintonia, nello stesso Stato tra il comportamento delle corti e quello
che l’esecutivo tiene sul piano internazionale. Questa mancanza di sintonia cresce quando le corti si
liberano della dipendenza dai governi dei loro Paesi.
IV.
Applicabilità della consuetudine ai nuovi Stati
Le norme consuetudinarie si impongono anche agli Stati di nuova formazione. Ma questo principio
è stato a lungo posto in discussione dagli Stati sorti dal processo di decolonizzazione. Essi
sostenevano che il vecchio diritto internazionale consuetudinario si è formato in epoca coloniale,
rispondendo ad esigenze del tutto diverse da quelle del loro tempo, e non può pretendere di
vincolare uno Stato che nasca oggi con esigenze ed interessi opposti. Da qui la pretesa di rispettare
solo le norme consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettati.
Soft Law
Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali appartengono al soft law, ossia non sono
obbligatorie.
Il che però non esclude che il soft law e soprattutto le risoluzioni degli organi delle NU possano
costituire, come in concreto costituiscono, l’avvio alla formazione di norme consuetudinarie o la
premessa della conclusione di accordi internazionali.
Una prassi utilizzabile in tal senso è quella delle Dichiarazione di principi dell’Assemblea generale
delle NU.
V.
La consuetudine come diritto spontaneo
La consuetudine non può essere considerata come un accordo tacito.
Ma possiamo condividere che il diritto non scritto è un diritto di formazione spontanea. Anche se,
non dobbiamo eccedere con lo spontaneismo, dicendo che il diritto non scritto viene alla luce in
modo incosciente o inconsapevole.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il comportamento uniforme che è alla base della
consuetudine internazionale non è costituito da materiale informe, bensì da trattato, atti, leggi,
sentenze.
VI.
Consuetudini particolari
Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza anche di consuetudini particolari,
cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati. Ad es. le consuetudini regionali o locali (formatesi es.
tra gli Stati dell’America latina, norme di asilo)
Anche la consuetudine particolare è per definizione, un fenomeno di gruppo, e come tale non
scomponibile in relazione ai singoli Stati.
Quindi la consuetudine regionale, o quella che si forma a modifica di un trattato, risulta dai contegni
rilevabili in seno ad un gruppo di Stati, senza che sia necessario provare che tutti gli Stati
appartenenti al gruppo abbiano effettivamente contribuito a formarla.
Non rientra nelle consuetudini particolari il caso di una uniformità di contegni tra un certo numero
di Stati non legati da trattati, vincoli geografici o di altro tipo. In questi casi si parla di reciprocità.
VII.
Applicazione analogica del diritto consuetudinario
Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L’analogia consiste
nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali sono analoghi
a quelli del caso previsto.
Nell’ambito del diritto consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a
fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale
che non esistevano all’epoca della formazione della norma.
CAPITOLO V
I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI
I.
Art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia
L’Art 38 dello Statuto della CIG annovera tra le fonti i principi generali di diritto riconosciuti dalle
nazioni civili. All’articolo sono indicate dopo gli accordi e le consuetudini, quindi si tratterebbe di
una fonte utilizzabile laddove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso
concreto.
Il ricorso a questi principi costituirebbe una sorta di analogia iuris destinata a colmare le lacune del
diritto pattizio o consuetudinario, ed andrebbe effettuato prima di concludere che obblighi
internazionali non sussistano in ordine ad un caso concreto.
Il valore dei principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, ha suscitato e suscita anche
oggi una varietà di opinioni.
Si parte da chi addirittura nega che questi principi abbiano valore di norme giuridiche
internazionali, oppure ne sottolineano solo la funzione integratrice del diritto internazionale. Fino ad
arrivare a chi li pone al primo grado della gerarchia delle fonti.
Ogni ordinamento giuridico, senza dubbio, ammette il ricorso ai principi generali in mancanza di
norme specifiche e non si vede perché lo stesso non debba ammettersi nell’ambito dell’ordinamento
internazionale.
Qui il problema è complicato dalla circostanza che i principi sono prelevati dagli ordinamenti degli
Stati civili. Quali scegliere come principi generali? La stessa nozione “nazioni civili” è ambigua.
I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili come norme consuetudinarie
Ma vi sono due condizioni che debbono sussistere perché principi statali possano essere applicati
come principi generali di diritto:
1. I principi statali devono esistere e devono uniformemente essere applicati nella più gran
parte degli stati
2. Essi devono essere sentiti come obbligatori o necessari dal punto di vista internazionale,
cioè devono perseguire dei valori e imporre dei comportamenti, che gli Stati considerino
come perseguiti e imposti, o almeno necessari anche sul piano internazionale.
Così intesi non costituiscono altro che una categoria sui generis di consuetudini internazionali:
- La diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati nei
loro ordinamenti
- L’opinio juris sive necessitatis è presente nelle vecchie regole di giustizia e logica giuridica,
si tratta di regole intese da tutti gli organi dello Stato come aventi un valore universale.
Per ogni altra regola uniforme di diritto interno occorrerà di volta in volta accertare l’opinio iuris
dal punto di vista internazionale.
Si diceva un tempo che lo Stato, ha una serie di obblighi circa il trattamento degli stranieri, ma al
contempo è internazionalmente libero di trattare i propri sudditi come meglio crede (dominio
riservato).
Questa opinione è ancora in parte vera per il diritto consuetudinario. Es. si ritiene che il diritto
consuetudinario vieti solo le violazioni gravi dei diritti umani (gross violations), crimini di guerra,
apartheid, tortura ecc.
Quindi, il ricorso ai principi generali di diritto può essere utile per estendere la sfera dei rapporti tra
stato e sudditi regolato dal diritto consuetudinario. Il ricorso ai principi generali di diritto
riconosciuti dalle Nazioni civili è particolarmente attuato nella materia della punizione di crimini
internazionali ad opera di tribunali internazionali penali, in particolare i Tribunali per i crimini
commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda, i quali vi hanno fatto ricorso per colmare delle lacune
delle norme internazionali.
Nella prospettiva delineata i principi generali di diritto finiscono con il perdere la loro qualifica di
principi, andando solo a sanare le lacune del diritto internazionale. Quindi sono pariordinate alle
norme consuetudinarie.
II.
Principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili e giudici interni
Per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli Stati, è necessario che esso sia
uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati.
Ne deriva che la ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno stato di
farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista nell’ordinamento statale. Ciò
sempre che l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale.
CAPITOLO VI
ALTRE PRESUNTE NORME GENERALI NON SCRTTE.
L’EQUITA’
I.
Principi costituzionali
Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme consuetudinarie, i principi. Sostenendo così
l’esistenza di principi “costituzionali”.
Il sostenitore della teoria dei principi è il Quadri. Secondo Quadri, i principi costituirebbero le
norme primarie di diritto internazionale e sarebbero espressione immediata e diretta della volontà
del corpo sociale. Comprenderebbero le norme volute e imposte dalle forze prevalenti in un
momento storico nella comunità internazionale.
Tra i principi alcuni avrebbero carattere formale: si limitano ad istituire fonti ulteriori di norme
internazionali. Altri, carattere materiale: disciplinano direttamente i rapporti tra Stati.
I principi materiali potrebbero avere qualsiasi contenuto. La concezione di Quadri non risulta essere
accettabile:
non sono i principi, consuetudo est servanda e pacta sunt servanda, a suscitare riserve: se l’esame
della prassi internazionale porta a constatare la formazione, al di sopra dello Stato, di norme
consuetudinarie e pattizie, questo fenomeno può anche descriversi ponendo l’una e l’altra fonte
sullo stesso piano e riportando entrambe a super-principi.
Il fatto poi che certe norme consuetudinarie hanno carattere cogente (non derogabili) potrebbe
spiegarsi sostenendo che l’inderogabilità sia sancita da un principio superiore.
Ciò che non convince e fa respingere la teoria del Quadri è la possibilità di ricostruire principi
materiali indipendentemente dall’uso e di ricostruirli fino alle estreme conseguenze.
Un gruppo di Stati, o un solo Stato, potrebbe imporre la propria volontà a tutti gli altri membri della
comunità internazionale.
È vero che alla base di una norma non scritta vi è spesso una imposizione, ma la norma esiste in
quanto si traduce nei comportamenti degli Stati, accompagnati dal convincimento della doverosità
sociale.
Quindi se all’imposizione iniziale non segue questo elemento, di continuità, non si può ammettere
l’esistenza di un principio.
II.
Equità
L’equità è il comune sentimento del giusto e dell’ingiusto. Ci si chiede se vi possa ricorrere il
giudice internazionale o interno, chiamato a risolvere una questione di diritto internazionale.
La risposta è negativa. L’equità è importante nell’ordinamento inglese. Ma la prassi internazionale
non avalla una trasposizione dell’ordinamento inglese a quello internazionale.
Se il diritto internazionale è lacunoso, ciò significa che gli stati non hanno obblighi da osservare e
diritti da pretendere, e l’equità non ne può creare.
Equità e ruolo dei giudici internazionali e interni
L’equità va inquadrata nel procedimento di formazione del diritto consuetudinario. Di fatto:
quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto
consuetudinario, essa influisce direttamente sulla formazione della consuetudine. Infatti, le
decisioni dei Tribunali interni sono una delle più importanti fonti delle consuetudini.
Abbiamo così un’influenza diretta, ma relativa, trattandosi comunque di una decisione interna di un
singolo Stato.
Invece per le decisioni dei Tribunali internazionali, l’influenza è indiretta (non si tratta di prassi
degli Stati) ma incisiva. Quando poi parliamo di decisioni della CIG l’influenza è massima.
CAPITOLO VII
INESISTENZA DI NORME GENERALI SCRITTE.
LA CODIFICAZIONE DEL DIRITTO CONSUETUDINARIO
I.
Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale, data la fine del XIX secolo. Fino
alla IWW erano le norme di diritto internazionale bellico ad essere trascritte, con la convenzione
Aja del 1899 e del 1907. Norme che furono utilizzate durante la IIWW e nel dopoguerra per
risolvere problemi attinenti all’occupazione del suolo da parte della Germania e degli alleati.
Con la nascita dell’ONU nascono molti trattati multilaterali.
II.
Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite
Art. 13 Carta Nazioni Unite: prevede che l’Assemblea generale intraprenda studi e faccia
raccomandazioni per incoraggiar lo sviluppo e la codificazione del diritto internazionale.
Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì nel 1947 la Commissione di diritto
internazionale N.U. (CDI).
Composta da esperti, che vi siedono a titolo personale, ha il compito di provvedere alla
preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie, prevedendo studi, inviando
questionari agli stati, raccogliendo dati dalla prassi, e predisponendo progetti di convenzione
multilaterale, che vengono adottati e aperti alla ratifica e adesione da parte degli Stati.
Rispetto alle convenzioni progettate dalla CDI, la loro particolarità è che il progetto non è frutto del
lavoro di individui che esprimono opinioni personali, ma di individui che rappresentano Stati e
devono seguirne le istruzioni.
III.
Convenzioni di codificazione e Stati terzi
Gli accordi di codificazione vincolano gli Stati non contraenti? Occorre essere molto cauti nel
considerare gli accordi di codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario general. Per
vari motivi:
1. Spesso nell’opera di ricostruzione delle norme internazionali non scritte, influisce la
mentalità dell’interprete e quindi di coloro che fanno parte della Commissione
2. Gli Stati cercano comunque di far prevalere i propri interessi e le proprie convinzioni
3. L’art. 13 Carta NU, parla non solo di codificazione ma anche di sviluppo progressivo del
diritto internazionale. Spesso questa espressione è stata invocata per far introdurre norme
che erano incerte sul piano del diritto internazionale generale.
Quindi, possiamo affermare che gli accordi di codificazione sono considerati come normali accordi
internazionali, che quindi vincolano solo gli Stati che li ratificano.
IV.
Ricambio delle norme codificate
È possibile che in epoca successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto
della mutata pratica degli Stati.
Una simile eventualità non è molto presa in considerazione dagli accordi di codificazione: tutti gli
accordi delle NU sono stipulati per una durata illimitata e solo alcuni di essi prevedono dei
procedimenti per la revisione delle proprie norme.
Qual è il valore di una norma che non corrisponde più al diritto internazionale generale?
Ovviamente non è vincolante per gli Stati terzi.
Dobbiamo dire che la possibile evoluzione del diritto consuetudinario dopo la redazione
dell’accordo di codificazione costituisce un ulteriore motivo per respingere qualsiasi equiparazione
del diritto codificato al diritto generale.
Quello che possiamo sostenere è che l’interprete deve essere estremamente sicuro della prassi da cui
intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice. Egli deve tra l’altro dimostrare che la
consuetudine si sia formata con il concorso degli Stati contraenti e che questi la intendano come
applicabile anche nei rapporti inter se.
V.
Codificazioni private
Esistono anche delle codificazioni private di diritto internazionale. Menzioniamo l’IDI, un istituto
con sede a Ginevra. Composto da studiosi e giudici di Corti internazionali, che si riunisce ogni 2
anni. Ha come scopo quello di codificare il diritto internazionale.
Con la nascita delle NU il suo impatto è andato scemando e ha molto valore solo dal punto di vista
scientifico.
CAPITOLO VIII
LE DICHIARAZIONI DI PRINCIPI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU
I.
Principali Dichiarazioni
Fin dai primi anni di vita l’Assemblea ha emanato in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni
contenenti una serie di regole che talvola riguardano rapporti tra Stati, ma molto più spesso
riguardano rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri.
La più importante è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
II.
Dichiarazioni e diritto consuetudinario
È anche vero però che le Dichiarazioni svolgono un ruolo importantissimo ai fini dello sviluppo del
diritto internazionale e del suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e interdipendenza.
Le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in
quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non in quanto atti dell’ONU.
Questo è dimostrato dal fatto che esse tanto più valgono come prassi formativa della consuetudine
in quanto siano prese all’unanimità, o con consenso di una larghissima maggioranza.
Poiché l’Assemblea non ha caratteri interpretativi sovrani, non può interpretare le norme della Carta
in modo obbligatorio per gli Stati, anche le Dichiarazioni restano delle mere raccomandazioni.
Però equiparando l’inosservanza di un principio all’inosservanza della Carta, si usa un espediente
verbale per sancire l’obbligatorietà di quel principio. Quindi presumiamo, che gli Stati che
partecipano con il loro voto all’atto, intendono vincolarsi.
La situazione è uguale nel caso che la Dichiarazione consideri l’inosservanza di un principio come
violazione del diritto internazionale generale, anziché della Carta. Anche in questo caso
presumiamo che vi è volontà di obbligarsi da parte dello Stato.
Tra questo tipo di Dichiarazioni, vediamo quella sul genocidio, sull’indipendenza dei popoli
coloniali, sul divieto di armi nucleari ecc.
Questo tipo di Dichiarazioni, inquadrabili come accordi, vanno considerate come degli accordi in
forma semplificata.
CAPITOLO IX
I TRATTATI.
PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE E COMPETENZA A STIPULARE
I.
Trattati normativi e trattati-contratto
I trattati normativi (o trattati legge) sono considerati come gli unici accordi produttivi di vere e
proprie norme giuridiche, sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a
regolare la condotta di un rilevante numero di Stati. Comprenderebbero gli accordi di codificazione,
gli accordi istitutivi di organizzazioni internazionali ecc.
I trattati-contratto (o trattati negozio) sarebbero fonti di diritti e obblighi, ossia di rapporti giuridici,
non di norme. Le parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di
prestazioni più o meno corrispettive. Es: accordi di stabilimento, con cui gli Stati si fanno
reciproche concessioni, accordi commerciali ecc.
Questa distinzione però non ha alcun senso perché qualsiasi atto che sia obbligatorio, che vincoli
qualcuno, produce per questo una regola di condotta. Si tratta di una distinzione superata in quanto
non ve n’è alcuna menzione nella Convenzione di Vienna sui trattati del 1969.
II.
Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati
I trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il
procedimento di formazione nonché i requisiti di validità e di efficacia. Tale complesso di regole
costituisce il diritto dei trattati.
Ed esso è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, ratificata anche
dell’Italia.
Vanno anche menzionate altre due Convenzioni sempre di Vienna, una del 1978 e l’altra del 1986.
La prima riguarda la successione degli Stati nei trattati. La seconda, riguarda i trattati stipulati tra
Stati e Organizzazioni internazionali. Quest’ultima riproduce esattamente la Convenzione del 1969.
Negoziazione
Le fasi descritte sono ancora in uso nella prassi internazionale. Ancora oggi il procedimento
normale di formazione dell’accordo si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di
solito sono organi, o agiscono su mandato, dell’esecutivo.
L’art 7 della Conv. di Vienna stabilisce che una persona è considerata come rappresentante dello
Stato “se produce pieni poteri appropriati”. I pieni poteri sono appropriati allorchè promanano dagli
organi competenti in base al diritto e alla prassi propri di ciascun Paese. Nella maggior parte di
Stati, tra cui anche l’Italia, la competenza è del potere esecutivo.
Questo articolo prevede che possano rappresentare lo Stato senza produrre pieni poteri: i capi di
stato, di governo, ministri degli esteri ecc.
Firma e ratifica
I negoziati si chiudono con la firma da parte dei plenipotenziari. Nel procedimento solenne, la firma
non comporta ancora alcun vincolo per gli Stati. Ha solo fini di autenticazione del testo definitivo.
La manifestazione di volontà con cui lo Stato si impegna si ha con la fase successiva della ratifica.
La competenza a ratificare è disciplinata da ogni singolo Stato con proprie norme costituzionali. In
linea generale però rientra tra i poteri del Capo dello Stato.
La ratifica rientra quindi tra quegli atti che il Presidente della Repubblica non può rifiutare di
sottoscrivere una volta intervenuta la delibera governativa, ma di cui possa solo sollecitare il
riesame prima della sottoscrizione.
Questo dimostra che in Italia il potere di ratifica è nelle mani dell’Esecutivo.
L’adesione di cui si parla implica partecipazione diretta al trattato multilaterale aperto da parte dello
Stato che è rimasto estraneo ai negoziati.
Diverso è il caso dell’adesione che si esprime attraverso un nuovo accordo tra i contraenti di un
trattato e uno Stato terzo, accordo che formalmente è del tutto autonomo e necessita oltre la ratifica
dello Stato terzo, anche di quella dei contraenti il primo trattato. Un accordo del genere è ad es.
necessario per aderire all’UE.
IV.
Procedimenti particolari di formazione dei trattati
Può darsi però che gli Stati seguano un procedimento diverso da quello solenne. Le procedure
alternative possono distinguersi a seconda che sfocino comunque nella ratifica, tra queste quelle che
subiscono variazioni in merito alla fase dei negoziati o alla firma; oppure si caratterizzino per un
differente modo di manifestazione della volontà da parte degli Stati.
Possiamo dire che la categoria degli accordi in f.s comprende tutti gli accordi che, in un modo o
nell’altro, gli organi dell’Esecutivo di uno Stato, stipulano senza ricorrere alla ratifica, e quindi
impegnando direttamente e definitivamente la volontà dello Stato.
Trattati segreti
Secondo Paolo Fois come intese giuridiche non vincolanti sarebbero da considerare anche i trattati
segreti. È più opportuno ritenere che il divieto di concludere trattati segreti sia un divieto previsto
dal diritto interno e che quindi, questi, vadano inquadrati nel tema dell’invalidità dei trattati conclusi
in violazioni di norme interne di fondamentale importanza.
VII.
Accordi conclusi da enti pubblici diversi dalle Regioni
Quanto detto a proposito delle intese tra Regioni di Stati diversi, vale anche per le intese tra altre
circoscrizioni territoriali o enti pubblici, come gemellaggi tra città, intese interuniversitarie ecc.
Anche qui si tratta di meri programmi destinati a fornire l’adozione di atti amministrativi interni.
Ciò a meno che non si tratti di veri e propri contratti di diritto privato.
Da non confondere sono gli accordi autonomamente promossi dalle Regioni con gli accordi tra
Regioni di Stati diversi, che per esplicita volontà degli Stati contraenti manifestata in un trattato
internazionale, costituiscono esecuzione o integrazione del trattato stesso.
VIII.
Accordi delle organizzazioni internazionali
Diffusi nella prassi sono gli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali sia tra loro sia con
stati membri, sia con stati terzi (da non confondere con la negoziazione o con la conclusione di
accordi tra Stati in seno alle organizzazioni internazionali).
Il potere di stipulare accordi è la principale manifestazione della personalità giuridica delle
organizzazioni. A questi accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 (copia 1969).
Quando manca la clausola di adesione si dovrà dimostrare che diritti e obblighi siano in qualche
modo accettati dallo Stato terzo e che l’eventuale accettazione sia prevista dal trattato. Dovrà quindi
dimostrarsi che il trattato contenga un’offerta e che dallo stato terzo provenga un’accettazione.
L’art 37 è da interpretare come una norma che aggiunge un ulteriore presupposto al 36 per la
nascita di veri e propri diritti a favore di terzi: perché questi nascano occorre ex art.36 che le parti
vogliano crearli e che il terzo li accetti, ma anche che l’offerta dei contraenti originari sia
considerata come irrevocabile unilateralmente.
II.
Incompatibilità tra norme convenzionali
Premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato, in modo espresso o
implicito, da un trattato concluso in epoca successiva tra gli stessi contraenti, che cosa succede se i
contraenti dell’uno o dell’altro trattato coincidono solo in parte?
Può darsi che lo stato si impegni con un accordo a tenere un comportamento e poi successivamente
con stati diversi, a tenere un comportamento opposto.
In questi e consimili casi, la soluzione discende dalla combinazione dei due principi: successione
dei trattati nel tempo e inefficacia dei trattati per i terzi.
Fra gli stati contraenti di entrambi i trattati quello successivo prevale. Nei confronti degli Stati che
siano parte solo di uno dei trattati restano integri nonostante le incompatibilità, gli obblighi che da
ciascuno di essi derivano.
Lo Stato contraente di entrambi dovrà scegliere se tenere fede agli impegni assunti con il primo
oppure a quelli assunti con il secondo. Operata la scelta sarà internazionalmente responsabile,
rispettivamente verso gli stati contraenti del primo o del secondo accordo.
Un esempio è quello relativo ai trattati sul canale di Panama prima della IWW: gli Stati Uniti nel
1901 avevano concluso con la GB un accordo che prevedeva un trattamento uniforme, riguardo al
pedaggio, per tutte le navi che avrebbero attraversato il canale. Nel 1903 gli SU avevano stabilito in
un accordo con Panama che le navi statunitensi potessero godere di esenzione. Nel 1912 veniva
adottato un atto che accordava appunto detta esenzione alle navi americane di piccolo cabotaggio.
La disposizione fu poi abrogata per le proteste inglesi.
Art. 41: stabilisce che due o più parti di un trattato del genere “non possono” concludere un accordo
che mira a modificarlo, “sia pure nei loro rapporti reciproci”, quando la modifica è vietata dal
trattato multilaterale, o pregiudica la posizione degli altri contraenti, o è incompatibile con la
realizzazione o lo scopo del trattato.
L’espressione “non possono” può far pensare che il 41 accolga la tesi dell’invalidità dell’accordo
successivo. Ma una tale interpretazione è smentita dalla circostanza che la contrarietà dell’accordo
parziale all’accordo multilaterale nei casi di cui al 41 non figura tra le cause di invalidità dei trattati
di cui 46ss.
Il 41 risolve il problema solo in termini di illiceità e responsabilità internazionale degli Stati
contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti del trattato multilaterale.
Trattato CE e GATT
Il problema della compatibilità del TCE con accordi preesistente ha riguardato i rapporti con il c.d.
GATT (accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio).
In merito a questo accordo (tendente alla globalizzazione), il trattato CE presentava molti punti di
frizione, che sono stati via via appianati da negoziati dei vali Paesi contraenti.
Per quanto riguarda il GATT (1947), l’obbligo di rispettarne le norme è stato più volte affermato
dalla CGCE in linea di principio in quanto la Corte ha finito con il togliere a simile affermazione
gran parte del suo valore, sostenendo che le norme del GATT sono flessibili e sprovviste di
carattere incondizionato.
Anche il Consiglio CE ha affermato che tale atto non è di natura tale da essere invocato
direttamente dinnanzi alle autorità giudiziarie della Comunità e degli Stati membri.
Problemi di compatibilità si pongono oggi tra gli accordi conclusi in seno all’OMC e le convenzioni
multilaterali sulla protezione dell’ambiente. Clausole di compatibilità e subordinazione sono
adoperate ad es nella Convenzione di Nairobi sulla biodiversità.
Art 22: le disposizioni della presente convenzione non influiscono sui diritti e obblighi derivanti da
accordi internazionali esistenti, ad eccezione del caso in cui l’esercizio di tali obblighi o diritti siano
in grado di causare seri danni o pericoli all’ambiente.
CAPITOLO XI
LE RISERVE NEI TRATTATI
I.
Nozione di riserva
La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle con
talune modifiche, cosicchè tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti, l’accordo si
forma solo per la parte non investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile
tra gli altri Stati.
Comunque, un altro Stato contraente può contestare la riserva e ritenere che il trattato non entri in
vigore nei sui rapporti con lo Stato autore della riserva.
La Convenzione di Vienna art 19 codifica innanzitutto il principio che una riserva può essere
sempre formulata purché non sia espressamente esclusa nel testo del trattato oppure sia
incompatibile con l’oggetto o scopo del trattato.
La Convenzione stabilisce inoltre che la riserva quando non prevista, può essere contestata da
un’altra parte contraente. Se tale contestazione o obiezione non viene manifestata entro 12gg, la
riserva si intende accettata.
Combinato disposto artt. 20 e 21: l’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i
suoi effetti, se lo stato obiettore non abbia espressamente e nettamente manifestato l’intenzione di
impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati. Quindi lo Stato che obietta deve
farlo espressamente.
Art. 22: sulla revoca delle riserve
Art. 23: forma in cui vanno redatte riserve e revoche
Manca nella Convenzione di Vienna una disciplina delle dichiarazioni interpretative incondizionate.
Secondo la prassi un’altra parte contraente può fare obiezione all’interpretazione, magari
contrapponendole un’alternativa. Comunque trattandosi di dichiarazioni interpretative non valgono
per esse particolari condizioni di forma e validità, né l’autore può pretendere che il trattato non entri
in vigore.
II.
Disciplina della competenza a formulare le riserve nell’ordinamento italiano
Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più
organi, può darsi che l’opposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri.
Che cosa succede se il Governo non tiene conto di una riserva decisa dal Parlamento o formula una
riserva che il Parlamento non ha voluto?
Questa seconda ipotesi si è spesso verificato nella prassi italiana, a proposito anche di trattati di
grande rilievo, come la CEDU e il patto sui diritti civili e politici delle NU.
Nel primo caso, la riserva aggiunta data dal governo riguardava il divieto di impedire ai cittadini di
rientrare nel proprio stato. Nel caso del Patto, la legge di autorizzazione alla ratifica conteneva 2
riserve di carattere interpretativo, alle quali il Governo ne aggiunse altre 4.
La reciproca delimitazione dei poteri tra l’Esecutivo e il Legislativo in ordine alla formulazione
delle riserve dipendono dal sistema costituzionale vigente in ciascuno Stato.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, questa prassi ha dato luogo a contrastanti giudizi
dottrinali, alcuni sostengono che il governo possa, altri che non possa, formulare riserve non
previste dalla legge di autorizzazione.
I sostenitori della prima tesi si ispirano al fatto che il Governo sia il gestore dei rapporti
internazionali. I sostenitori della seconda muovono da posizioni più garantiste e dalla necessità di
collaborazione tra Parlamento e Governo, voluta dall’art.80 sia effettiva.
È chiaro che per il diritto internazionale non presenta alcun interesse il profilo della responsabilità
del Governo, ma solo quello della formazione della volontà dello Stato.
Si dirà che la riserva aggiunta dal governo e dichiarata all’atto del deposito della ratifica, essendo
valida per il diritto costituzionale, lo sarà anche per il diritto internazionale. Nel caso, teorico, di
riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il governo non tenga conto e che quindi il
governo non dichiari all’atto del deposito della ratifica, troverà applicazione la regola relativa alla
competenza a stipulare: per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del
diritto interno e dovrà quindi ritenersi che lo stato non resti impegnato per detta parte se e finchè il
Parlamento non revochi la riserva.
CAPITOLO XII
L’INTERPRETAZIONE DEI TRATTATI
I.
Metodo obbiettivistico e metodo subiettivistico di interpretazione
Il metodo subbiettivistico è mutuato dal regime dei contratti nel diritto interno, in base ad esso si
renderebbe in tutti i casi e ad ogni costo necessaria una ricerca della volontà effettiva delle parti
come contrapposta alla volontà dichiarata. Si tende all’abbandono di tale metodo.
Si ritiene che debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo, che risulta dai
rapporti di connessione logica intercorrenti tra le parti del testo, che si armonizza con l’oggetto e la
funzione dell’atto come sono desumibili dal testo.
In questa concezione i lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria a cui si può ricorrere solo
in presenza di un testo ambiguo o lacunoso.
32: considera i lavori preparatori come mezzo supplementare di integrazione da usarsi quando
l’esame del testo lascia il senso ambiguo o oscuro oppure porta ad un significato manifestamente
assurdo o irragionevole.
33: si occupa del caso dei trattati redatti in più lingue tutti egualmente ufficiali. Se non è previsto
che un testo prevalga, va comunque adottato il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello
scopo del trattato, concilia meglio tutti i testi.
A parte il ricorso al metodo obbiettivistico, valgono per l’interpretazione dei trattati internazionali,
le regole generali di interpretazione. Es: tra più interpretazioni prevale quella più favorevole al
contraente debole, la regola sull’interpretazione estensiva o restrittiva ecc.
II.
Teoria dei poteri impliciti
Quanto detto circa il ricorso ai normali mezzi di interpretazione, compresa l’analogia, vale anche
per i trattati di istituzione di organizzazioni internazionali (carta delle NU, trattati UE)
Si tenta però di ricostruire regole particolari, applicabili sia alla Carta NU sia in generale ai trattati
istitutivi di organizzazioni internazionali.
La CIG si è posta per questa strada quando ha fatto riferimento alla c.d. teoria dei poteri impliciti,
sviluppata dalla Corte Suprema degli USA. In base ad essa ogni organo disporrebbe non solo dei
poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri non espressi
ma necessari per l’esercizio dei poteri espressi.
La teoria dei poteri impliciti appare però eccessiva. Occorre infatti essere cauti nel trasferire sul
piano del diritto internazionale dottrine particolari di diritto interno. La teoria dei poteri impliciti
può essere anche utilizzata qualora resti nei limiti di una interpretazione estensiva o analogica.
Dilatarla è una cosa non solo poco giustificabile dal punto di vista giuridico, ma anche suscettibile
di risultare controproducente dal punto di vista politico, potendo suscitare reazioni e opposizioni da
parte di stati membri delle organizzazioni i cui poteri si vuole rafforzare.
III.
Interpretazione unilateralistica
La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni unilateralistiche dei trattati, esclude che una
norma contenta in un accordo internazionale, possa assumere significati differenti a seconda dello
Stato contraente al quale o all’interno del quale, debba applicarsi.
Art. 33: nel caso di testi non concordanti redatti in più lingue ufficiali, impone un’interpretazione
che comunque concili tutti i testi.
Art. 31: nell’interpretare un trattato, occorre tener conto di altre norme internazionali in vigore tra le
parti. Tra le “altre norme” non sono incluse le norme di diritto interno proprie di ciascun Paese.
L’omissione è assai significativa ove si consideri la tendenza, un tempo marcata, ad interpretare in
chiave unilateralistica (in modo conforme solo al proprio diritto) trattati che adoperano termini
tecnico-giuridici interni.
Queste tendenze interpretative unilateralistiche mal si conciliano con l’idea stessa di trattato, in
quanto punto di incontro e di fusione delle volontà degli Stati contraenti, e muovono dalla
presunzione che la volontà di ciascuno stato sia nel senso di obbligarsi in modo conforme al proprio
diritto, ossia da un’interpretazione di tipo subbiettivistico spinta all’eccesso.
Una soluzione diversa è fornita dalla Convenzione di Vienna del 1980 relativa ai contratti di vendita
internazionale di merci. Si afferma che le questioni concernenti le materie regolate dalla
Convenzione saranno regolate secondo i principi generali a cui si ispira. Il giudice interno, dovrà
comunque evitare di rifarsi esclusivamente al proprio diritto, dovrà sforzarsi di stabilire quale sia il
significato univoco ed obiettivo della disposizione.
Si discute se il diritto internazionale imponga una successione in diritti e obblighi di natura interna
se ad es. vi sia una successione nel debito pubblico.
II.
Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione nei trattati
Alla successione degli Stati rispetto ai trattati è dedicata la Convenzione di Vienna del 1978.
Convenzione che non ha avuto molto seguito, è stata ratificata da soli 22 paesi, tra cui non figura
l’Italia. Detta Convenzione utilizza il termine “successione” in senso atecnico, ossia per successione
si intende la sostituzione. Si parla di Stato successore come Stato che subentra ad un altro nel
governo di un territorio. (art 2)
Quindi la terminologia prescinde dalla questione se e quando lo Stato successore, succeda anche in
senso giuridico.
Uno stato successore può addirittura dichiarare di voler applicare la Convenzione ad una
successione intervenuta prima dell’entrata in vigore della Convenzione.
III.
Successione nei trattati localizzabili
Un principio affermato dalla dottrina e dall’art 12 Convenzione Vienna del 1978 è il principio res
transit cum suo onere, per cui lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel governo di
una comunità territoriale, è vincolato dai trattati, o dalle clausole di un trattato, di natura reale o
territoriale, o possiamo dire “localizzabili”, cioè dai trattati che riguardano l’uso di determinate parti
di territorio conclusi dal predecessore.
Tra questi: trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di territori di Stati vicini, gli
accordi per la concessione in affitto di parti di territorio, trattati che prevedono la libertà di
navigazione di fiumi, canali e vie d’acqua ecc.
Vi si fanno rientrare anche i trattati che fissano le frontiere tra Stati vicini, ma questo è dubbio,
perché l’accordo di delimitazione esaurisce i suoi effetti nel momento in cui la frontiera è
determinata, dopo di che ad essere rispettato non è l’accordo ma il diritto di sovranità territoriale
che ciascun Paese esercita da un lato e dall’altro della frontiera.
Uti possidetis
L’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dal predecessore è generalmente sentito nell’ambito
della comunità internazionale. Anche i Paesi sorti dalla decolonizzazione non lo hanno negato.
L’Assemblea generale dei capi di stato e governo dell’OUA, nel 1964 al Cairo, affermò che gli Stati
membri si impegnavano a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di ciascuno Stato nonché i
confini esistenti al momento dell’acquisto dell’indipendenza.
La prassi africana, si riallaccia alla prassi dell’America latina nell’ambito della quale si è fatto
ricorso fin dal XIX secolo al principio dell’uti possidetis juris: in base a tale principio gli Stati
americani avrebbero ereditato dalla Spagna le frontiere delle circoscrizioni amministrative
dell’impero coloniale spagnolo esistenti al momento dell’indipendenza.
L’applicazione del principio ha dato luogo a difficoltà, data l’incertezza delle medesime frontiere in
epoca coloniale.
Singolare è la controversia tra Libia e Ciad, sorta nella pretesa della Libia di disconoscere la
frontiera da esso stesso fissata con un trattato con la Francia, allora esercitante la sovranità sul Ciad.
Nel risolvere la controversia in senso sfavorevole alle Libia, la CIG ha affermato il principio che la
frontiera stabilita da un trattato deve ritenersi definitiva.
Una variante a questa tesi è costituita dall’opinione secondo cui i trattati del predecessore
resterebbero sospesi finché lo Stato nuovo e gli altri stati contraenti non abbiano regolato la materia.
L’adozione del principio di continuità dei trattati con riguardo a casi diversi da quelli della
decolonizzazione, ha lo scopo di contribuire allo sviluppo progressivo del diritto internazionale più
che di codificare una regola corrispondente al diritto consuetudinario.
Ora esamineremo le ipotesi di mutamento della sovranità, assumendo come punto di partenza la
regola della tabula rasa.
V.
Distacco di parti del territorio
Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una parte del territorio di
uno Stato.
Può darsi che la parte di territorio distaccatasi si aggiunga, per effetto di cessione o conquista, al
territorio di un altro Stato preesistente. In tal caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il
distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio distaccatosi.
Si estendono invece a questo, in modo automatico, gli accordi vigenti nello stato che acquista il
territorio.
La dottrina a tal proposito parla di mobilità delle frontiere dei trattati. La regola della mobilità è
enunciata anche dalla Convenzione del 1978.
Secessione
Può darsi che invece, sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi (secessione). Anche in
questo caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di avere vigore nel
territorio che acquista l’indipendenza.
Gli Stati nuovi hanno in ogni tempo preteso ed il più spesso ottenuto l’applicazione del principio
della tabula rasa.
Un caso che non si inquadra nella tendenza generale è quello della Siria che avendo costituito nel
1958 con l’Egitto, la Repubblica Araba Unita, se ne stacco nel 61. Dopo il distacco la Siria continuò
ad applicare sia i trattati conclusi dalla RAU sia i trattati che la Siria aveva stipulato prima del 58.
Dobbiamo ritenere che la Convenzione del 1978 accoglie il principio della tabula rasa per i territori
di tipo coloniale staccatisi dalle Potenze detentrici, mentre enuncia il principio della continuità dei
trattati per tutte le altre ipotesi di secessione. Anche se questo ultimo caso non corrisponde al diritto
consuetudinario.
Accordi di devoluzione
Sul problema della successione non influiscono i c.d. accordi di devoluzione, di cui si sono avuti
vari esempi durante la decolonizzazione. Con l’accordo di devoluzione, che intercorre tra la ex
madrepatria e lo Stato di nuova indipendenza, quest’ultimo consente a subentrare nei trattati già
conclusi dalla prima con Stati terzi.
L’accordo pone solo l’obbligo per la ex colonia di compiere i passi necessari affinchè i trattati
vengano rinnovati, anche tacitamente.
La prassi e la Convenzione del 1978 negano che gli accordi di devoluzione possano avere l’effetto
di trasmettere diritti e obblighi pattizi del predecessore.
L’applicazione del principio della tabula rasa agli Stati formatisi per distacco è integrale per quanto
riguarda i trattati bilaterali conclusi dal predecessore e vigenti nel territorio distaccatosi. Questi
potranno continuare ad avere valore solo se rinnovati con apposito accordo con la controparte,
anche tacito.
Egualmente per i trattati multilaterali chiusi, cioè che non prevedono la partecipazione mediante
adesione, di Stati diversi dagli originari. Anche in questo caso occorre un nuovo accordo con tutte le
controparti.
Così stabilisce anche la Convenzione del 78.
Notificazione di successione
Per quanto riguarda i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati diversi da quelli originari, il
principio della tabula rasa subisce un temperamento.
Lo stato di nuova formazione può procedere alla c.d. notificazione di successione, con cui la sua
partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza.
Mentre l’adesione ha effetto ex nunc, la notificazione ha effetto retroattivo.
Più che un principio in materia di successione, si tratta di una particolare regola sulla stipulazione
dei trattati. La Convenzione del 78 distingue tra trattati già in vigore e non ancora in vigore alla data
della successione. Essa si limita sempre agli stati ex coloniali.
VI.
Smembramento di uno Stato
Affine all’ipotesi della formazione di uno o più stati nuovi per secessione è quella dello
smembramento. La secessione non implica l’estinzione dello Stato che la subisce, mentre lo
smembramento consiste proprio nel fatto che uno Stato si estingue e sul suo territorio si formano
due o più stati nuovi.
L’unico criterio per distinguere queste due ipotesi è quello della continuità o meno
dell’organizzazione di governo preesistente.
Un esempio di smembramento e non di distacco è quello dell’Impero austro-ungarico dopo la IWW,
dato che nessuno degli Stati su di esso formatisi, conservò la medesima organizzazione di governo
dell’Impero. Un altro esempio è anche quello della formazione della Repubblica federale tedesca e
della Repubblica democratica tedesca dopo il Reich.
Altri esempi sono la dissoluzione dell’Unione sovietica, della Iugoslavia, della Cecoslovacchia
negli anni 90.
Lo smembramento dell’Unione sovietica avvenuto con gli accordi di Minsk e di Alma Ata del 91, e
quello della Cecoslovacchia sono avvenuti concordemente.
Quello della Iugoslavia ha invece avuto luogo mediante dichiarazioni unilaterali ed è stato
accompagnato da eventi bellici. Si è discusso se si trattasse di smembramento o di secessione della
Croazia, Slovenia, Bosnia, Macedonia, Serbia, Montenegro.
La tesi della secessione è da escludere non essendovi stata continuità né di regime né di costituzione
con il vecchio stato socialista.
Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al distacco. Agli Stati nuovi
formatisi sul territorio dello Stato smembrato è applicabile il principio della tabula rasa, temperato
dalla regola che per i trattati multilaterali aperti, prevede la facoltà di procedere ad una notificazione
di successione.
Anche la Convenzione del 1978 unifica le due ipotesi. Si ritiene che la soluzione qui accolta non
trovi riscontro pieno nella prassi recente, la quale rileva la tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le
obbligazioni pattizie dello Stato smembrato.
Al contrario però detta prassi non è idonea a porre nel nulla la regola della tabula rasa. Innanzitutto
l’accollo risulta di solito da accordi tra gli stati nuovi tra loro, come nel caso della Repubblica ceca
e la Slovacchia, o nel caso delle Repubbliche della ex Iugoslavia.
Allorchè si tratta di debiti pecuniari, l’accollo non sembra ispirarsi a principi di diritto
internazionale, quanto piuttosto vuole perseguire il fine pratico di evitare che il flusso dei crediti
dell’estero si interrompa.
Sulla necessità dell’accettazione dell’accordo da parte degli Stati terzi è interessante la posizione
presa dal Dipartimento federale svizzero per gli affari esteri relativamente alle relazioni
convenzionali con Croazia e Slovenia nonché con le ex Repubbliche sovietiche.
Il Dipartimento dopo aver sostenuto che in materia di successione nei trattati non c’è passaggio
automatico allo stato successore dei diritti e obblighi dello Stato predecessore, riserva alla Svizzera
ed agli stati nuovi la libertà di mantenere in vigore le convenzioni concluse dalla ex Iugoslavia e
dall’Unione sovietica.
Per quanto riguarda la prassi più antica, essa presenta sia elementi a favore della tabula rasa, sia
accordi o dichiarazioni unilaterali di accollo. Ad es quando si disgregò l’Impero austro-ungarico,
mentre l’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia dichiararono di non sentirsi legati dagli accordi
stipulati dall’Impero, l’Ungheria dichiarò il contrario.
VII.
Incorporazione e fusione fra Stati
Opposte al distacco e allo smembramento sono l’incorporazione e la fusione. La prima si ha quando
uno Stato, estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato. La fusione si ha invece quando due o
più stati si estinguono tutti e danno vita ad uno stato nuovo. Anche qui il criterio di distinzione non
può che riferirsi all’organizzazione di governo.
L’ipotesi dell’incorporazione va preferita a quella della fusone ogni volta che vi sia continuità tra
l’organizzazione di governo di uno degli Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta
dall’unificazione. Ad es. un’incorporazione è stata quella che ha riguardato la formazione del
Regno d’Italia.
All’incorporazione si applica la stessa regola che si applica ai trasferimenti di territori da uno Stato
ad un altro, ossia la regola della mobilità delle frontiere.
I trattati dello Stato che si estingue cessano di avere vigore, mentre al territorio incorporato si
estendono i trattati dello Stato incorporante. Così i trattati del regno di Sardegna si estesero dopo
l’unità, al resto d’Italia, mentre si estinsero quelli degli altri Stati italiani.
Per i trattati dello Stato incorporato vale quindi la regola della tabula rasa.
Lo stesso principio vale in caso di fusione: lo Stato sorto dalla fusione, sempre che non presenti
alcuna continuità in merito all’organizzazione di governo, con uno degli Stati preesistenti, nasce
libero da impegni pattizi.
Passando alla Convenzione del 1978, questa adotta il principio della continuità dei trattati,
andandosi a discostare dal diritto consuetudinario.
La soluzione adottata dalla Convenzione si fonda sulla prassi relativa alla instaurazione di vincoli di
tipo federale, ma si tratta di una prassi settoriale che non è utilizzabile per ricostruire un principio di
diritto generale.
VIII.
Mutamento radicale di governo
Un problema di successione nei trattati si pone nel caso si verifichi un mutamento di governo, senza
che il territorio dello Stato subisca ampliamenti o diminuzioni. Quando il mutamento avviene per
vie extralegali ed un regime diverso si instaura (colpo di stato che ci fu in Cecoslovacchia, Cile
ecc.) si deve ritenere che muti la persona di diritto internazionale.
Dobbiamo quindi chiederci cosa avviene dei trattati stipulati da vecchio Governo.
La prassi è orientata verso la successione del nuovo governo nei diritti e obblighi contratti dal
predecessore, fatta eccezione per i trattati incompatibili con il nuovo regime.
Questa eccezione, corrisponde all’applicazione del principio rebus sic stantibus, per cui i trattati
comunque si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al momento della loro
conclusione.
IX.
Successione nei debiti contratti mediante accordo internazionale
Si discute se vi sia una successione, imposta internazionalmente, in situazione giuridiche di diritto
interno.
Può darsi che il debito non sia stato contratto dal predecessore nell’ambito del proprio diritto
interno, ma abbia formato oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro Stato o con
un’organizzazione internazionale (es. FMI). In questo caso a proposito della successione nei trattati,
il principio generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti localizzabili, ossia i debiti contratti con
esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di sovranità (es. per finanziare opere
pubbliche).
Anche per i debiti non localizzabili la prassi relativa allo smembramento dell’URSS e della
Cecoslovacchia, è nel senso si un’equa ripartizione concordata tra gli Stati sorti dallo
smembramento e tra questi Stati e i creditori.
Nel caso delle Repubbliche ex sovietiche un memorandum di intesa del 91, prevedeva la
responsabilità solidale delle repubbliche per i debiti esteri, compresi i debiti privati, dando incarico
alla Banca del commercio con l’estero dell’ex URSS di raccogliere i fondi necessari al pagamento
dei debiti.
Nel caso della Cecoslovacchia, la Repubblica ceca e la Slovacchia si accordarono per dividersi i
debiti in ragione del numero di abitanti, e quindi con rapporto di uno a due.
Per quanto riguarda le altre ipotesi di mutamento della sovranità, la convenzione, non solo segue il
principio della successione nei debiti localizzabili, ma prevede che via sia una successione secondo
una proporzione equa. In tal modo trova conferma nella prassi recente in tema di smembramento.
In caso di incorporazione e fusione, la Convenzione prevede il passaggio di tutti i debiti dello stato
incorporato o degli Stati fusi allo Stato incorporante o sorto dalla fusione, senza distinguere se lo
Stato incorporato o fuso mantenga o meno una sua autonomia.
CAPITOLO XIV
CAUSE DI INVALIDITA’ E ESTINZIONE DEI TRATTATI
I.
Varie cause di invalidità e estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle proprie dei
contatti e dei negozi giuridici.
Cause di invalidità
Come cause di invalidità ricordiamo i classici vizi della volontà:
- Errore essenziale (art 48 Conv. Vienna): l’errore circa un fatto o una situazione che lo Stato
supponeva esistente al momento in cui il trattato è stato concluso e che costituiva una base
essenziale del consenso di questo Stato
- Dolo (art. 49), cui può ricondursi, la corruzione dell’organo stipulante (50)
- Violenza, fisica o moral, esercitata dall’organo stipulante (51).
Cause di estinzione
Come cause di estinzione ricordiamo l’avverarsi della condizione risolutiva, l’inadempimento della
controparte, l’abrogazione totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo
successivo tra le stesse parti.
Quest’ultima trova fondamento nel principio generale sulla successione nel tempo degli atti
giuridici di pari grado, secondo cui l’atto posteriore abroga l’anteriore. Nella convenzione di Vienna
si applica questo principio in varie regole.
II.
Violenza sullo Stato come causa di invalidità
Tra le cause di invalidità abbiamo indicato la violenza esercitata sull’organo stipulante il trattato.
Secondo la Convenzione di Vienna (52) si può considerare come causa di invalidità anche la
violenza esercitata sullo Stato nel suo complesso, che si concreta nella minaccia o uso della forza.
Il 52 stabilisce che è nullo qualsiasi trattato la cui conclusione sia ottenuta con la minaccia o l’uso
della forza in violazione dei principi del diritto internazionale incorporati nella Carta delle NU.
Questo articolo corrisponde al diritto internazionale consuetudinario formatisi dopo la IIWW come
riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere messo al bando della comunità internazionale.
Violenza sullo Stato con mezzi diversi dalla minaccia o dall’uso della forza
Quando si parla di violenza sullo Stato come causa di invalidità dell’accordo, si parla della minaccia
o dell’uso della forza armata. Non vi sono elementi per ricomprendere anche le pressioni politiche o
economiche, ancorché illecite.
La dottrina concorda che a simili pressioni si potrebbe estendere per analogia la norma sulla
violenza armata, cosa che però si deve escludere in quanto tra la pressione delle armi e la pressione
politica o economica, non vi è somiglianza.
III.
Principio rebus sic stantibus
Come causa di estinzione degli accordi internazionali viene considerata la clausola rebus sic
stantibus. Si ritiene che il trattato si estingua in tutto o in parte per il mutamento delle circostanze di
fatto esistenti al momento della stipulazione, purchè si tratti di circostanze essenziali, senza le quali
i contraenti non avrebbero stipulato il trattato o parti di esso.
La dottrina classica riteneva che il trattato si estinguesse per effetto del mutamento delle circostanze
di fatto in quanto si presumeva che i contraenti subordinassero gli effetti del trattato al permanere di
quelle circostanze. Quindi la clausola rebus sic stantibus veniva ridotta ad una condizione risolutiva
tacita.
Il problema sorge quando i contraenti non hanno previsto il mutamento delle circostanze come
causa di estinzione del trattato. Si ritiene che anche in tal caso, il trattato si estingua.
La Convenzione di Vienna (62) conferma questa norma, esprimendola però in termini restrittivi,
stabilendo che essa può trovare applicazione solo se le circostanze mutate costituivano la base
essenziale del consenso delle parti, se il mutamento sia tale quindi da avere radicalmente
trasformato la portata degli obblighi ancora da eseguire e se il mutamento non risulti da atto illecito
dello Stato che lo invoca
IV.
Effetti della guerra sui trattati
Si discute se sia causa di estinzione dei trattati la guerra, tema del quale la Convenzione di Vienna
non si occupa.
È ovvio che gli accordi conclusi dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino applicazione
fin che durano le ostilità. Ma quale è la loro sorte una volta ripristinato lo stato di pace?
Il problema si pose in Italia alla fine della IIWW. Si stabilì che le potenze vincitrici avrebbero
notificato all’Italia quali accordi bilaterali intendessero mantenere in vigore e che gli accordi non
notificati sarebbero stati considerati come abrogati.
Possiamo dire che la regola classica, che era nel senso dell’estinzione, si sia andata affievolendo nel
corso del 900 e negli ultimi tempi. La prassi si è sempre più orientata a favore di eccezioni: si è
negato l’effetto estintivo della guerra in merito ai trattati multilaterali. Più in generale si è
manifestata la tendenza della giurisprudenza interna, a considerare estinte solo le convenzioni
per loro natura, materia o interessi che tutelano, siano incompatibili con lo stato di guerra.
V.
Automatica operatività delle cause di invalidità e di estinzione
Per la maggior parte di cause di invalidità o estinzione, la discussione è aperta, da un lato c’è chi
propende per l’automaticità, altri sostengono che sia sempre necessario un atto di denuncia
notificato agli altri Stati contraenti, altri addirittura che in caso di obiezioni da parte di questi ultimi,
il trattato continui a restare in vigore finchè la causa di invalidità o estinzione non dia accertata in
modo imparziale.
La prassi giurisprudenziale interna rivela la tendenza dei giudici nazionali a risolvere nelle loro
sentenze le questioni di invalidità e di estinzione dei trattati, sia autonomamente sia in conformità
all’opinione degli organi preposti agli affari esteri, ma comunque prescindendo da formali atti di
denuncia sul piano internazionale. Trattasi però comunque di decisioni che valgono per il caso
concreto.
Se si ha riguardo agli altri stati contraenti, è indubbio che questi non siano vincolati dalla unilaterale
manifestazione di volontà dello Stato denunciante. Cosicché in stato di disaccordo, il trattato entrerà
in una fase di incertezza sul piano internazionale, che potrà essere caratterizzata da ritorsioni,
rappresaglie ecc.
Competenza a denunciare
Circa la determinazione degli organi dello Stato competenti a denunciare il trattato occorre rifarsi ai
principi costituzionali di ciascuno Stato. In Italia si discute se per la denuncia dei trattati che
rientrano nell’art. 80 Cost, occorra o meno una legge di autorizzazione come per la ratifica.
La prassi depone a favore della tesi negativa: competente a formare e manifestare la volontà dello
Stato in materia, è il potere esecutivo.
Procedura prevista dalla Convenzione di Vienna per far valere l’invalidità o l’estinzione dei
trattati
La Convenzione di Vienna (artt. 65-68) stabilisce che lo Stato il quale invoca un vizio del consenso,
o altro motivo previsto dalla Convenzione come causa di estinzione o invalidità, deve notificare per
iscritto la sua pretesa alle altre Parti contraenti del trattato in questione.
Se entro un termine (non inferiore a 3 mesi) non vengono manifestate obiezioni, lo Stato può
dichiarare, con un atto comunicato alle altre parti, sottoscritto dal CDS, CDGoverno o ministro
degli esteri, che il trattato è da ritenersi invalido o estinto.
Se vengono sollevate delle obiezioni, lo Stato che intende sciogliersi e a Parte o le Parti obbiettanti
devono ricercare una soluzione con mezzi pacifici quali negoziati, conciliazione, arbitrati ecc.
La soluzione deve intervenire entro 12 mesi. Trascorso inutilmente detto termine, ogni parte può
azionare una procedura conciliativa nell’ambito delle NU e che non sfocia però in una decisione
obbligatoria ma solo in un rapporto avente mero valore di esortazione.
Una decisione obbligatoria da parte della CGI è prevista solo per l’eccezionale caso che la pretesa
invalidità o estinzione si fondi su una norma di jus cogens.
La procedura di cui artt.65ss. si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia ad un atto posto in
essere senza l’osservanza di particolari forme, termini e modalità. Ciò a meno che la sostituzione
non sia esclusa dal trattato stesso. Da un punto di vista pratico la sostituzione comporta che
chiunque sia chiamato ad applicare il trattato non potrà mai considerare come avvenuto un simile
scioglimento finchè le condizioni poste da artt.65ss. non siano soddisfatte.
Dobbiamo ritenere che gli artt.65ss. disciplinano anche la possibilità che la causa di invalidità o
estinzione sia rilevata, con efficacia circoscritta al singolo caso concreto, da chi debba applicare il
trattato e in particolare dal giudice interno?
La risposta deve essere negativa. Una soluzione del genere dovrebbe discendere da una
dichiarazione espressa. Non sarebbe corretto ricavarla da un sistema, quale quello degli artt65ss.,
che chiaramente si preoccupa solo delle controversie tra Stati e degli aspetti diplomatici della
materia.
CAPITOLO XV
LE FONTI PREVISTE DA ACCORDI
IL FENOMENO DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
LE NAZIONI UNITE
I.
I trattati possono anche contenere regole che istituiscono ulteriori procedimenti o fonti di
produzione di norme. In tutti i casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata dal trattato
che le dà vita ad emanare decisioni vincolanti per gli Stati membri, si è in presenza di una fonte
prevista da accordo (fonte di terzo grado).
Non bisogna però sottovalutare l’importanza delle attività delle organizzazioni internazionali. La
negoziazione di accordi in seno alle organizzazioni è ad es. un fenomeno di grande rilievo. Grazie
all’opera delle organizzazioni, l’accordo tende sempre più a porsi come strumento di cooperazione e
di solidarietà tra i Governi.
Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono normalmente essere prese a maggioranza,
magari qualificata.
II.
Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
L’ONU fu fondata dopo la IIWW dagli Stati che avevano combattuto contro le potenze dell’Asse e
prese il posto della Società delle Nazioni.
La Conferenza di San Francisco ne elaborò nel 1945 la Carta, che venne ratificata dagli Stati
fondatori. Successivamente secondo il procedimento previsto dall’art 4 della Carta, ne sono via via
divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo.
Organi dell’ONU
Art.7: organi principali: Assemblea generale, Consiglio di Sicurezza, il Consiglio economico e
sociale, il Consiglio dell’Amministrazione fiduciaria, la CIG e il Segretariato.
Tra questi hanno importanza fondamentale il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale.
Consiglio di Sicurezza
Il Consiglio di Sicurezza è composto da 15 membri:
- 5 siedono a titolo permanente (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia). Godono
del diritto di veto, cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di qualsiasi
delibera che non abbia mero carattere procedurale.
- 10 eletti per un biennio dall’Assemblea.
Questo organo anche se ha una competenza limitata ratione materiae, occupandosi solo di questioni
attinenti al mantenimento della pace e sicurezza internazionale, è l’organo di maggior rilievo
nell’ambito dell’ONU.
Assemblea generale
Ha una competenza vastissima ratione materiae, ma non ha quasi nessun potere vincolante. In essa
sono rappresentati tutti gli Stati e tutti hanno pari diritto di voto.
Consiglio economico e sociale: composto dai membri eletti dell’Assemblea per 3 anni
Consiglio di Amministrazione fiduciaria: insieme al consiglio economico e sociale sono in
posizione subordinata rispetto all’Assemblea generale in quanto sono tenuti a seguirne le direttive.
Segretario generale
È a capo del segretariato generale. Viene nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di
Sicurezza, ed è l’organo esecutivo dell’ONU.
Il Segretario generale e la CIG sono organi composti da individui, ossia assumono l’ufficio a titolo
individuale, senza manifestare la volontà dello Stato e senza ricevere istruzioni da alcun Governo.
L’indeterminatezza dei fini deriva dall’elencazione di cui all’art 1 della Carta. Sulla base di questa
elencazione possono individuarsi tre grandi settori di competenza dell’ONU:
- Mantenimento della pace
- Sviluppo delle relazioni amichevoli tra Stati
- Collaborazione in campo economico, sociale, culturale e umanitario
All’ampiezza dei poteri dell’ONU non corrispondono però poteri vincolanti nei confronti degli Stati
membri. L’attività principale dell’ONU è costituita dall’emanazione di raccomandazioni e dalla
predisposizione di progetti di convenzioni.
III.
Decisioni vincolanti dell’Assemblea generale
Art. 17 Carta: attribuisce all’Assemblea il potere di ripartire tra gli Stati membri le spese
dell’Organizzazione, ripartizione che, approvata a maggioranza dei due terzi, vincola tutti gli Stati,
vincola tutti gli Stati.
A tale caso deve aggiungersi quello della competenza dell’Assemblea a decidere circa modalità e
tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale.
Decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza
Le decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza sono quelle previste da talune disposizioni del
cap VII della Carta intitolato “azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed
agli atti di aggressione”
Art. 41 e 42: misure non implicanti e non implicanti l’uso della forza contro uno Stato che abbia
minacciato la pace. A parte l’art.42, in base al quale il Consiglio può intraprendere azioni belliche
contro uno Stato, merita attenzione l’art 41.
Art 41: prevede le c.d sanzioni. Attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di decidere quali
misure non implicanti l’uso della forza armata debbano essere adottate dagli Stati membri contro
uno Stato che minacci o abbia violato la pace, ed indica tra queste misure l’interruzione totale o
parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, aeree ecc.
Attualmente è soprattutto nei conflitti interni, e allo scopo di tutelare la popolazione civile, che il
Consiglio è solito intervenire.
Talvolta le sanzioni sono imposte contro parti politiche armate all’interno di un Paese oppure contro
gruppi terroristici.
Durante la guerra fredda il Consiglio, paralizzato dal diritto di veto, emise raramente decisioni
vincolanti per gli Stati ai sensi dell’art. 41, limitandosi piuttosto a raccomandare misure riportabili
all’art. 41.
CAPITOLO XVI
GLI ISTITUTI SPECIALIZZATI DELLE NAZIONI UNITE
I.
In campo economico e sociale opera tutta una serie di organizzazioni internazionali sia a carattere
universale che regionale.
Un gran numero di organizzazioni universali assumono il nome di Istituti specializzati delle NU.
Trattasi peraltro di organizzazioni autonome sorte da trattati del tutto distinti dalla Carta delle NU.
Accordi di collegamento tra ONU e istituti specializzati
Il collegamento tra ciascun istituto specializzato e le NU nasce da un accordo che le due
organizzazioni stipulano (art.57 Carta NU) e che dal lato dell’ONU è negoziato dal Consiglio
economico e sociale e approvato dall’Assemblea generale.
L’importanza dell’accordo di collegamento sta nella conseguente applicabilità delle norme della
Carta che si occupano degli Istituti e che per l’appunto li sottopongono al potere di coordinamento e
controllo dell’ONU.
OMS: organizzazione mondiale della sanità. Adotta misure vincolanti. Può adottare regolamenti in
tema di procedure per prevenire la diffusione delle epidemie, di nomenclatura delle malattie
epidemiche, nomenclatura dei medicinali ecc. Anche le misure adottate da questa organizzazione
sono fonti di III grado. Adotta misure a tutela della salute pubblica.
Consiglio d’Europa
Attualmente comprende 47 Stati membri. Si tratta dell’organizzazione da cui è derivato il primo
esperimento di tutela internazionale organica, anche di carattere giurisdizionale, dei diritti
dell’uomo.
Scopo del Consiglio d’Europa è di conseguire una più stretta unione tra i suoi membri per
salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di
favorire il loro progresso economico e sociale. Ogni membro del consiglio deve accettare la
preminenza del diritto e quello in virtù del quale ogni persona deve godere dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (articoli 1 e 3)
CAPITOLO XIX
LE RACCOMANDAZIONI DEGLI ORGANI INTERNAZIONALI
I.
Si è già detto che la raccomandazione è l’atto tipico che gli organi delle NU hanno il potere di
emanare. Queste non sono vincolanti. Hanno solo valore esortativo.
II.
Inosservanza reiterata della raccomandazione
Taluni ritengono che sia illecito il comportamento dello Stato il quale rifiuti di osservare tutta una
serie di raccomandazioni.
Ciò significa che le raccomandazioni, se reiterate nel tempo, diverrebbero obbligatorie. Ma la tesi è
inaccettabile in quanto il principio della cooperazione tra gli Stati membri non può essere spinto
fino al punto di sovvertire la caratteristica fondamentale dell’atto, che è quella di non vincolare il
suo destinatario.
CAPITOLO XX
LA GERARCHIA DELLE FONTI INTERNAZIONALI
IL DIRITTO INTERNAZIONALE COGENTE
L’UNITARIETA’ DELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE
I.
1. Al vertice della gerarchia si situano le norme consuetudinarie, tra esse compresa quella
categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto comuni agli
ordinamenti interni. La consuetudine è dunque fonte di primo grado, ed è l’unica fonte di
norme generali, vincolanti per tutti gli Stati.
2. Il secondo posto spetta al trattato, che trova in una norma consuetudinaria, la norma pacta
sunt servanda, il fondamento della sua obbligatorietà
3. Il terzo posto è occupato dalle fonti previste da accordi, particolarmente dagli atti delle
organizzazioni internazionali.
Se tutti concordano sul carattere flessibile delle norme consuetudinarie, è opinione comune che
esista un gruppo di norme di diritto internazionale generale le quali eccezionalmente sarebbero
cogenti (jus cogens).
Anche la Convenzione di Vienna lo afferma all’art 53: è nullo qualsiasi trattato che è in contrasto
con una norma imperativa del diritto internazionale generale, per norma imperativa deve intendersi
una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale deli Stati nel suo insieme come
norma alla quale non può essere apportata nessuna deroga e che può essere modificata solo da una
norma di pari grado.
Art 64 Convenzione: se una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale si forma,
qualsiasi trattato esistente che sia in contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue.
La convenzione di Vienna prevede inoltre che quando tra gli Stati contraenti la Convenzione,
insorga una controversia circa l’invalidità o l’estinzione di un accordo per contrarietà allo jus
cogens, la controversia medesima può essere decisa dalla CIG su ricorso di una delle parti.
La convenzione di Vienna non indica quali norme internazionali siano imperative, affermando solo
che la norma cogente è quella che non può essere derogata. La ricostruzione dello jus cogens è
quindi lasciata all’interprete, il quale dovrà anzitutto stabilire se una norma trova riscontro negli
elementi della diuturnitas e dell’opinio juris sive necessitatis. Ma dovrà anche stabilire se la più
gran parte degli Stati considerano detta norma superiore alle comuni fonti internazionali in quanto
ispirata a valori universali e fondamentali.
La nozione ha quindi carattere storico. Da un esame della dottrina e giurisprudenza possiamo
ricavare che allo jus cogens appartengono il nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di
autodeterminazione dei popoli, il divieto dell’uso della forza fuori dal caso della legittima difesa, e
forse anche il diritto allo sviluppo.
La conseguenza principale dovrebbe essere, come prevede il 53 Conv. Vienna, la nullità del trattato
contrario allo jus cogens. Dovrebbe, perché è comunque difficile trovare nella prassi casi di trattati
che per questo motivo siano stati impugnati con successo da uno Stato o dichiarati nulli.
Si potrebbero far rientrare in questo elenco anche in tema di relazioni internazionali, le norme che
prevedono di non tenere comportamenti per arrecare pregiudizio all’economia di un Paese, però gli
Stati vediamo che nella pratica lo fanno.
Un’applicazione meno radicale della nullità è quella che può esprimersi in termini di mera
superiorità o prevalenza della norma di jus cogens rispetto alle norme consuetudinarie normali, ai
trattati e alle fonti derivanti dai trattati.
Da questo pdv la norma imperativa resta valida pienamente, ma è inapplicabile, quindi il rapporto
tra le due è da esprimersi in termini di inderogabilità e non di nullità.
Forza internazionale
Per forza internazionale intendiamo la violenza di tipo bellico, o comunque qualsiasi atto il quale
implichi operazioni militari.
La nozione di forza internazionale può farsi più o meno coincidere con quella di aggressione data
dalla Dichiarazione dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Forza interna
Più complesso è dare una definizione di forza interna, intesa come potere di governo (sovranità o
jurisdictio) esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro beni.
Trattasi di una nozione che è stata studiata con riguardo al potere esercitato dallo Stato nell’ambito
del suo territorio.
Iniziamo con il dire che non si può identificare detto potere con l’esercizio della coercizione in
quanto forza materiale, e sostenere quindi che rilevanti per il diritto internazionale sono solo le
azioni di polizia, esecuzione di condanne penali ecc.
Non sembra che si possa sostenere che una violazione di diritto internazionale derivi sempre e
soltanto dall’effettivo esercizio della coercizione: anche la sentenza di un giudice, o una legge,
possono costituire un illecito.
Bisogna anche guardarsi dal riportare in questa nozione ogni manifestazione della sovranità dello
Stato, e quindi anche la mera attività normativa astratta. Finchè al comando astratto non segue la
sua applicazione ad un caso concreto, non può parlarsi propriamente di una violazione di diritto
internazionale.
In merito lascia perplessi un passo di una sentenza del tribunale per la ex Iugoslavia, nel quale si
riconosce che normalmente lo Stato che non provvede ad adottare le misure legislative e
amministrative necessarie per eseguire i propri obblighi internazionali non incorre in responsabilità
internazionale finchè non si verifichino i fatti concreti contrari a detti obblighi.
Poi ritiene che le cose stiano diversamente nel caso del divieto della tortura: già la sola mancanza di
misure legislative atte a prevenirla o l’esistenza di norme contrarie a detto divieto, costituirebbero
violazione del divieto.
Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa a metà strada tra l’astratta attività
normativa e l’esercizio della coercizione materiale.
Non basta nemmeno la semplice emanazione di comandi concreti, legislativi, giudiziari ecc.
Possiamo ritenere che l’attività di mero comando non ha di per sé rilievo per il diritto
internazionale, se non è accompagnata dalla concreta possibilità di agire coercitivamente per farla
rispettare.
Un esempio: la chiusura della missione dell’OLP presso l’ONU. Con una legge del 1987 il
Congresso americano vietò di stabilire e mantenere gli uffici dell’OLP negli SU. La legge provocò
un conflitto con le NU, in quanto considerata contraria alla convenzione che regola i rapporti tra
ONU e SU relativamente alla sede dell’organizzazione.
1. Il conflitto sorse in quanto la legge colpiva una missione dell’OLP che già esisteva presso le
NU
2. Il conflitto durò finchè fu reale la possibilità che la legge fosse coercitivamente attuata con
un atto dell’autorità giudiziaria
3. Il conflitto ebbe termine quando per vicende di tipo procedurale e per l’intervento di una
sentenza della Corte di New York che dichiarò inapplicabile la legge, venne meno ogni
prospettiva che quest’ultima fosse effettivamente attuata.
Pertanto possiamo dire che il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale, sia
costituito da qualsiasi misura concreta di organi statati, e solo in quanto suscettibile di essere
coercitivamente attuata. Quindi in questo senso possiamo dire che il diritto internazionale pone
limiti alla forza interna degli Stati.
II.
Poteri di Governo e attività incoercibili
Ciò che è delimitato dal diritto internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o
cose. Si dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non
possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello Stato: comunicazioni via
radio, attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni in rete.
Comunicazioni in rete
Anche in questi casi, punto di riferimento della disciplina restano le persone e le cose. I diritti e
doveri internazionali di cui lo Stato è titolare presuppongono sempre la sua possibilità di governare
le attività umane.
Tali principi trovano conferma nel c.d. Manuale di Tallin, un importante strumento di codificazione
del diritto internazionale, applicabile alle operazioni cibernetiche pubblicato nel 2013 e aggiornato
nel 2017.
Della giurisdizione dello Stato in tema di crimini commessi mediate computers si occupa la
Convenzione di Budapest del 2001. Essa dopo aver definito le varie figure criminose che gli Stati
devono reprimere, non fa altro che applicare ai cibercrimini le regole normalmente applicate in
materia penale.
III.
È bene chiarire che quando si dice il diritto internazionale limita il potere di governo non sia ha
riguardo agli scopi che le norme internazionali perseguono, ma al modo in cui esse operano.
Se si attribuisce alle norme di diritto internazionale consuetudinario lo scopo di delimitare le sfere
di potere statale, si finisce con il restare legati ad una visione classica del diritto consuetudinario,
ossia una visione secondo cui tale diritto assicurerebbe la mera coesistenza tra gli Stati.
Invece, è certo che oggi sono conseguiti anche valori come la cooperazione e la solidarietà tra gli
Stati.
CAPITOLO XXII
LA SOVRANITA’ TERRITORIALE
I.
Origini della norma sulla sovranità territoriale
La prima norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella
sulla sovranità territoriale. Si consolida all’epoca in cui venne meno il sacro romano impero.
La sovranità allora era concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato (del sovrano)
avente ad oggetto il territorio.
Era connaturata all’idea di governo, quella di territorio, che per giustificare l’esercizio del potere di
governo oltre il territorio si diceva che si trattava pur sempre di territorio (navi).
In linea di principio lo Stato è libero nel suo territorio di fare ciò che vuole, di disporre delle proprie
risorse ecc. in effetti però la libertà dello Stato in senso assoluto, è andata restringendosi via via che
il diritto internazionale si evolveva. Quasi tutte le norme internazionali comportano una serie di
limiti al potere di governo nell’ambito del territorio.
È da rilevare però che, con le dovute eccezioni derivanti dal diritto consuetudinario, i limiti alla
libertà dello Stato sono l’effetto di norme convenzionali e quindi che gli Stati hanno liberamente
accettato.
Le eccezioni che si sono affermate sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento
per gli stranieri, per gli agenti diplomatici, e degli stessi Stati stranieri. Ma i limiti importanti ad
oggi sono i limiti prodotti alle norme che perseguono valori di giustizia, cooperazione e solidarietà
tra i popoli.
Sovranità territoriale, Paesi in via di sviluppo e sovranità sulle risorse naturali
La libertà dello Stato nel suo territorio è ribadita da alcuni principi del nuovo ordine economico
internazionale, molto cari ai Paesi in via di sviluppo. In particolare, parliamo del principio della
sovranità permanente sulle risorse naturali, secondo cui ogni Stato possiede ed esercita liberamente
una sovranità completa e permanente su tutte le sue ricchezze.
Oppure il principio per cui ogni Stato ha il diritto di scegliere il proprio sistema economico, oltre
che ai sistemi politici, sociali e culturali ecc.
II.
Sovranità territoriale e divieto della minaccia o dell’uso della forza
La sovranità territoriale oggi è indirettamente tutelata anche dal principio che vieta la minaccia o
l’uso della forza nei rapporti internazionali. È chiaro che questo riguarda le azioni belliche rivolte
contro il territorio dello Stato. La carta delle NU pone appunto in primo piano la necessità di
proteggere l’integrità territoriale degli Stati.
III.
Acquisto della sovranità territoriale
Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriali, cioè del diritto ad esercitare in modo
esclusivo ed indisturbato il potere di governo, vale il criterio dell’effettività: l’esercizio effettivo del
potere fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo stesso.
Nonostante i tentativi fatti tra le due guerre mondiali, la prassi sembra ancor orientata nel senso che
l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su un territorio comunque conquistato
comporti l’acquisto della sovranità territoriale.
Non si può negare ad es. che il territorio della Repubblica turco-cipriota sia coperto dalla norma
sulla sovranità territoriale.
Tutto ciò che può sostenersi è che oltre all’obbligo di restituzione gravante sullo Stato che abbia
commesso l’aggressione o detenga il territorio violando il principio dell’autodeterminazione, su tutti
gli Stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel
territorio.
Occorre peraltro riconoscere ce nel caso di sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia
oggetto di controversia tra gli Stati confinanti, la CIG ha sostenuto che l’effettività deve cedere il
passo ad un titolo giuridico certo, come un precedente accordo tra gli Stati o tra gli Stati che li
hanno preceduti. Così questa materia si intreccia con quella del rispetto delle frontiere.
CAPITOLO XXIII
I LIMITI DELLA SOVRANITA’ TERRITORIALE
L’EROSIONE DEL C.D. DOMINIO RISERVATO E IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI
I.
Dominio riservato
I limiti più importanti alla libertà dello Stato di comportarsi come crede nel suo territorio sono oggi
costituiti dalle norme internazionali, soprattutto convenzionali, che perseguono valori di giustizia,
cooperazione, solidarietà tra i popoli.
Con l’affermarsi di questi limiti, si è andato progressivamente erodendo il dominio riservato dello
Stato, espressione con cui si intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia
consuetudinario che pattizio, si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è libero da obblighi.
Venivano fatti rientrare tra questi l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica
ecc.
La nozione di domestic jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto
consuetidinario, ma ha perso il suo valore per quanto riguarda il diritto convenzionale.
Molto importante è la Convenzione del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti disumani
e degradanti.
Definisce la tortura come qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitte ad una
persona dolore o sofferenze forti, mentali o fisiche, al fine di ottenere informazioni o confessioni, di
punirla di un atto che ha compiuto, di intimorirla o far pressione su di lei.
Prevede poi l’obbligo degli Stati contraenti di adottare tutte le misure atte a prevenire e punire tali
crimini, commessi nei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
I due Patti NU e le altre Convenzioni sono stati ratificati da quasi tutti i Paesi della comunità
internazionale.
III.
Rispetto dei diritti umani secondo il diritto consuetudinario
La materia dei diritti umani è una materia in cui si sono formate delle norme consuetudinarie, dei
principi generali riconosciuti dalle Nazioni civili.
A differenza delle convenzioni, che contengono cataloghi dettagliati, il diritto consuetudinario si
limita alla protezione di un nucleo fondamentale di diritti umani. Trattasi del divieto delle c.d. gross
violations, ossia violazioni gravi di tali diritti, come ad es. la tortura, i trattamenti disumani e
degradanti, il lavoro forzato ecc.
Rientrano nelle gross violations i crimini internazionali (genocidio, crimini di guerra).
Tutti gli Stati concordano sull’appartenenza di questi divieti allo jus cogens internazionale.
Non è invece prevista dal diritto consuetudinario l’abolizione della pena di morte. A questo
proposito ricordiamo l’adozione da parte dell’Assemblea Generale, di risoluzioni con le quali si
chiede una moratoria universale delle esecuzioni capitali in vista della loro abolizione.
Ma trattasi comunque di risoluzioni, non vincolanti, che fungono da strumento di pressione.
III bis.
Le norme sui diritti umani vengono in rilievo con riguardo alla protezione delle minoranze e delle
popolazioni indigene
Per quanto riguarda le minoranze, definibili come un gruppo numericamente più esiguo del resto
della popolazione dello Stato al quale esso appartiene ed avente caratteristiche culturali, fisiche o
storiche, una religione o una lingua diversi da quelli del resto del Paese, la necessità della loro
protezione si è posta alla fine della IWW, a causa della frammentazione dell’Impero austro-
ungarico, ottomano e poi dopo la caduta del muro di Berlino, dissoluzione dell’URSS e della
Iugoslavia.
Spesso le norme su una determinata minoranza si trovano in accordi bilaterali tra lo Stato al quale la
minoranza appartiene etnicamente e lo Stato al quale essa è sottoposta.
Per l’Italia i diritti della minoranza di lingua tedesca de Sud Tirolo sono previsti da un accordo
firmato tra Italia e Austria.
Il tema della tutela delle popolazioni indigene è un tema di grande attualità in vari Stati dell’Africa
e delle Americhe, dove si moltiplicano le rivendicazioni.
Vero è che la materia attiene al diritto costituzionale dei Paesi dove il problema esiste più che al
diritto internazionale. O meglio, il diritto internazionale, può fornire argomenti a sostegno di una
protezione che si ricava dal diritto costituzionale.
IV.
Regola del previo esaurimento dei ricorsi interni
Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. La
violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani, non può dirsi consumata o comunque non
può farsi valere sul piano internazionale, finchè esistono nell’ordinamento dello Stato offensore
rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo offeso una
congrua riparazione.
CAPITOLO XXIV
LA PUNIZIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI COMMESSI DA INDIVIDUI
I.
Responsabilità internazionale degli individui autori di crimini
Caratteristica delle norme generali e convenzionali, che disciplinano i crimini internazionali è che
esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono. Trattasi
quindi di regole che si indirizzano agli individui, concorrendo alla formazione della loro
soggettività internazionale.
Questo non esclude la contemporanea responsabilità degli Stati, qualora, gli individui siano che loro
organi.
La comunità internazionale si sta organizzando per attuare la punizione dei crimini internazionali
individuali attraverso l’istituzione di tribunali internazionali. Come avvenne ad es. per i due
Tribunali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda. Ancora limitata è invece
l’attività della Corte Penale Internazionale.
I crimini internazionali possono essere distinti in: crimini contro la pace, crimini contro l’umanità e
crimini di guerra. Tale ripartizione è contenuta negli artt.5-8 Statuto della Corte penale
internazionale. Lo statuto prevede 4 tipi di crimini: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di
guerra e il crimine di aggressione.
Genocidio
Art 6. Viene definito dall’art 2 della Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio
promossa dall’Assemblea ONU nel 48. Tale è la distruzione totale o parziale di un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso.
Crimini di guerra
Art.8. I crimini sono considerati di guerra se commessi durante un conflitto armato sia
internazionale che interno, sia da appartenenti ad un esercito sia da civili, sia contro dei militari che
degli appartenenti alla popolazione civile.
L’art 8 si riferisce a tutta una serie di atti specifici del tempo di guerra, come la violazione grave
della Convenzione di Ginevra del 49 sul diritto umanitario di guerra, l’arruolamento forzato dei
prigionieri, la presa di ostaggi ecc.
La competenza della Corte si estende a tutti questi atti, quando in particolare, essi facciano parte di
un piano o disegno politico, o di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala.
II.
Giurisdizione universale
Ci si chiede se il diritto internazionale consuetudinario contenga un principio di giurisdizione
universale, nel senso che ogni Stato abbia la facoltà di procedere alla punizione ovunque e da
chiunque il crimine sia stato commesso.
Per il diritto internazionale generale lo Stato è sempre libero di esercitare la giurisdizione sui suoi
cittadini, e può sottoporre lo straniero a giudizio penale solo se sussiste un collegamento con lo
Stato del giudice. Tale collegamento è dato in genere dal principio di territorialità, temperato dalla
possibilità di punire certi reati più gravi quando essi sono commessi dal cittadino, ed
eccezionalmente anche dallo straniero, all’estero.
In base alla prassi, si può ritenere che la giurisdizione universale sia da ammettere, per il diritto
internazionale consuetudinaria, ma a condizione che il presunto criminale straniero si trovi nel
territorio dello Stato al momento in cui deve essere sottoposto a giudizio e sempre che non sia
richiesto dallo Stato nazionale oppure da uno Stato che abbia con il crimine un più stretto
collegamento e sia seriamente intenzionato a punirlo.
La norma sulla giurisdizione universale va coordinata con le norme che prevedono l’immunità dei
Capi di Stato e di Governo e di vari altri organi stranieri finchè sono nell’esercizio delle loro
funzioni.
La giurisdizione universale può esercitarsi, anche quando il colpevole sia stato catturato all’estero
illegittimamente, violandosi la sovranità territoriale dello Stato in cui si trovava.
II bis.
Terrorismo
Si discute se sia crimine internazionale il terrorismo, che consiste nella commissione di un atto
criminale, con l’intento di spargere terrore nella popolazione di uno Stato o in una parte di essa e
sempre che l’atto trascenda i confini di un singolo Stato.
Non rientrano quindi in questa definizione gli atti terroristici commessi da cittadini nel territorio del
loro Stato. E sono esclusi anche gli atti commessi da movimenti di liberazione di territori sottoposti
a dominazione straniera, come tali rientranti nel principio di autodeterminazione (es. Cisgiordania,
che è ancora occupata da Israele in parte).
Il terrorismo non rientrando nella categoria dei crimini contro l’umanità sfugge al principio della
giurisdizione universale. Dalla norma consuetudinaria che lo prevede discende solo l’obbligo per gli
Stati di introdurlo nella loro legislazione come figura autonoma di reato. In Italia il codice penale
definisce il terrorismo come il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine
democratico.
Un caso di terrorismo che può essere eccezionalmente fatto rientrare tra i crimini contro l’umanità è
quello degli atti commessi negli ultimi anni, prima e dopo l’attacco alle torri gemelle del 2001, dal
gruppo Al Qaeda.
La definizione data di terrorismo è tratta dalla sentenza della Camera di appello del Tribunale
speciale per il Libano del 2011 (presid: Cassese).
Della repressione del terrorismo si occupano varie convenzioni internazionali. Tra queste, la
Convenzione dell’Aja del 71, la Convenzione di Strasburgo del 77, la Convenzione di Roma dell’88
ecc.
A parte queste convenzioni relative a specifiche attività terroristiche, o a fini specifici, non è mai
stata conclusa una Convenzione generale sul terrorismo.
Si ritiene convincente la tesi secondo cui, più che una definizione generale di terrorismo, il diritto
internazionale conterebbe definizioni diverse a seconda dei contesti giuridici entro i quali la
definizione è applicata. Solo nel caso di Al Qaeda tutti gli Stati concorderebbero nel considerarla
una organizzazione terroristica.
Anche ai terroristi e sospettati di terrorismo, vanno riconosciuti i diritti umani. Ciò è stato più volte
ribadito dalla CEDU:
- Sentenza Saadi contro Italia, che condanna l’Italia per aver espulso uno straniero
condannato per terrorismo nel suo Paese, dove rischiava di essere sottoposto a tortura e
trattamenti disumani
- Sentenza El-Masri contro Macedonia, relativa alla segreta consegna di un sospettato di
terrorismo ad agenti degli Stati Uniti nella prassi della c.d extraordinary rendition praticata
dal Governo americano.
Sono poi note le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti sul riconoscimento dei diritti
connessi all’habeas corpus a presunti terroristi detenuti a Guantanamo.
III.
Aut dedere aut judicare
Nelle convenzioni che si occupano di crimini internazionali, o di gross violations dei diritti umani,
as ed. la Convenzione NU contro la tortura, è di solito contenuto il principio aut dedere aut iudicare:
lo Stato che non vuole o non può procedere alla punizione del presunto criminale ha l’obbligo di
consegnarlo ad un altro Stato che ne faccia richiesta e che sia competente a giudicarlo.
Secondo una sentenza della CIG del 2012 nel caso Belgio contro Senegal sulle questioni relative
all’obbligo di perseguire in giudizio o estradare, lo Stato che non intende procedere alla consegna
ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per iniziare il giudizio contro il presunto
criminale e ciò appena possibile.
Nel caso, il Senegal aveva dilazionato in modo eccessivo detta instaurazione, rifiutandosi di
consegnare l’ex Capo di Stato del Ciad rifugiatosi in Senegal e incriminabile per tortura e crimini
contro l’umanità.
CAPITOLO XXV
I LIMITI RELATIVI AI RAPPORTI ECONOMICI E SOCIALI
LA PROTEZIONE DELL’AMBIENTE
I.
Diritto internazionale economico
Vari sono i limiti che la sovranità dello Stato incontra nelle norme di diritto internazionale
economico. Questo è il diritto in cui più che in ogni altro, la formazione di norme consuetudinarie è
da escludersi. Trattasi di un settore dominato da norme convenzionale e soft law, ossia moltissime
raccomandazioni di organizzazioni internazionali, soprattutto dell’Assemblea generale NU.
Partenariato
Il tutto conferisce negli accordi di partenariato, i quali danno vita a forme di collaborazione fondate
sulla convergenza d’interessi e il raggiungimento di obiettivi comuni. L’istituto del partenariato è
descritto in una Dichiarazione dei principi dell’Assemblea generale del 2002. In essa viene
incoraggiata la cooperazione economica non solo tra Nord e Africa, ma anche tra i Paesi africani tra
loro.
Accordo di Cotonou
Un esempio di regime convenzionale di nuova generazione è fornito dall’Accordo di Cotonou del
2000 tra l’UE e 79 Paesi in sviluppo (ACP: africa, caraibi e pacifico). È una convenzione quadro
che fissa i principi della cooperazione da sviluppare tra l’UE e i Paesi ACP, demandando regole
specifiche ad accordi di partenariato economico riguardanti singole aree regionali.
I principi sono quelli degli accordi di partenariato con la conseguente eliminazione del regime delle
preferenze.
I-bis
Legislazione antitrust e legislazione sul commercio internazionale
Il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario nella materia
economica. Comunque, limiti del genere esistono solo nella specifica materia del trattamento degli
interessi economici degli stranieri.
I tentativi più interessanti di porre dei limiti sono quelli che si riferiscono alla irrogazione di
sanzioni in base alla legislazione antitrust, o alla legislazione riguardante il commercio
internazionale, o a condizionare l’amministrazione di società estere ecc.
Si è così affermato che lo Stato non debba comunque interferire negli interessi economici essenziali
di Stati stranieri, oppure che tali interessi debbano essere oggetto di una ponderazione ed avere il
sopravvento se meritevoli di maggior tutela rispetto agli interessi nazionali, o infine, che ciascuno
Stato debba esercitare il proprio potere nella materia entro limiti ragionevoli ecc.
Tutto ciò per reagire alla c.d. dottrina degli effetti, ossia il principio secondo cui la giurisdizione
dello Stato si radicherebbe ogni volta che un atto produca effetti all’interno del territorio nazionale,
indipendentemente da dove e da chi l’atto sia compiuto.
È grazie a questa dottrina che gli Stati Uniti hanno giustificato l’applicazione della propria
legislazione antitrust ad imprese operanti all’estero.
Resta naturalmente la questione di stabilire con esattezza quando un’attività industriale produca sul
piano interno effetti sostanziali. Da questo punto di vista la prassi non è chiara, e di fatto il ricorso
alla dottrina in esame diviene solo un pretesto per realizzare obiettivi protezionistici.
Questo è in linea con la tesi secondo cui il diritto internazionale generale in materia di misure dello
Stato in materia economica avrebbe soltanto carattere strumentale, limitandosi ad imporre agli Stati
obblighi di informazione e consultazione in merito alle misure medesime.
II.
Convenzioni sul lavoro e la sicurezza e la sicurezza sociale
Abbiamo già parlato dei diritti economici, sociali e culturali in quanto diritti dell’uomo.
Aggiungiamo che vi sono varie convenzioni internazionali che disciplinano nei dettagli le materie
comprendenti tali diritti, in particolare le materie del lavoro e della sicurezza sociale.
Un forte movimento convenzionale è promosso da molti anni dall’ILO.
III.
Libertà di sfruttamento delle risorse del territorio e suoi limiti
In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle
risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di
produrre irrimediabili distruzioni di risorse.
Si sostiene che lo Stato abbia l’obbligo di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale
da recare danno al territorio di altri Stati.
Ci si chiede se una responsabilità per danni oltre frontiera esista, se vada considerata come
responsabilità da atto illecito o sorga anche qualora si ritenga che l’attività nociva sia lecita, ed
infine se la responsabilità sia assoluta o presupponga la colpa dello Stato territoriale.
Rapporti di vicinato
Il problema che stiamo considerato si è posto nel quadro di rapporti di vicinato, soprattutto per
quanto riguarda l’utilizzazione dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al
territorio di uno Stato contiguo e alle immissioni di fiumi e sostanze tossiche dovute ad attività
poste in prossimità dei confini.
Queste due dichiarazioni non hanno di per sé forza vincolante. Può dirsi che l’obbligo che esse
sanciscono corrisponda al diritto internazionale consuetudinario?
In questo senso si esprimono la dottrina e la giurisprudenza.
La decisione più antica è una sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti e Canada sul caso di una
fonderia canadese che operava sul confine e che aveva danneggiato con immissioni di fumo, le
coltivazioni dei contadini americani.
Fino ad una sentenza recente della CIG secondo cui l’obbligo di non inquinare discenderebbe da un
corpo di regole del diritto internazionale dell’ambiente.
Ma non si capisce se ci si riferisca al diritto consuetudinario o pattizio.
La formula da essa utilizzata è interpretata nella sentenza arbitrale del 2005 tra Belgio e Paesi Bassi
nel caso del Reno di ferro, che ritiene che comunque si sia di fronte ad un principio emergente
A parte le sentenze, manca una significativa prassi che deponga per questo obbligo. L’opinione
della dottrina e della giurisprudenza rappresentano piuttosto, l’ideale collettivo della comunità
internazionale.
Dobbiamo poi tener conto dell’atteggiamento dei Paesi in via di sviluppo, i quali sono attaccati al
principio della sovranità permanente sulle risorse naturali, principio che mal tollera intralci al pieno
sfruttamento delle risorse.
Diversa è la situazione per quanto riguarda il caso delle acque comuni (fiumi, laghi), di cui può
considerarsi vietato un qualsiasi utilizzo capace di nuocere ad altri utilizzatori: esiste una prassi
diffusa come ad es. la Dichiarazione del procuratore Harmon sul pieno diritto degli SU di deviare le
acque del Rio grande a danno del Messico.
Inoltre sono previsti obblighi di cooperazione per gli usi nocivi del territorio in generale, come
l’obbligo dello Stato di informare gli altri Stati dell’imminente pericolo di incidenti e l’obbligo per
tutti gli Stati interessati di prendere di comune accordo misure preventive o successive al verificarsi
del danno all’ambiente.
A questa linea fa riferimento la CIG nella sentenza Ungheria/Slovacchia 1997. Nell’indicare alla
Slovacchia e all’Ungheria come attuare un accordo per la costruzione di dighe sul Danubio, la Corte
le invita a tener conto del principio dello sviluppo sostenibile.
Interessante è poi la sentenza della Corte suprema delle Filippine del 1993 che riconosce il diritto di
un gruppo di minori e di un’associazione di ecologisti a rivendicare il diritto ad un razionale uso
delle risorse ed in particolare nella gestione e conservazione delle foreste.
Va aggiunto però che quando si parla di sviluppo sostenibile, ci si riferisce anche a tutta una serie di
azioni che dovrebbero intraprendersi allo scopo di assicurare il benessere dell’umanità,
l’eliminazione della povertà, la democrazia, buon governo, la pace ecc.
CAPITOLO XXVI
IL TRATTAMENTO DEGLI STRANIERI
I.
Attacco dello straniero con la comunità territoriale
Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono formati in materia di trattamento
degli stranieri.
1. Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni, né comportamenti, che
non si giustifichino con un sufficiente attacco dello straniero stesso con la comunità
territoriale.
Questa regola può esprimersi anche affermando che l’intensità di potere di governo sulo straniero e
sui suoi beni deve essre proporzionata all’intensità del predetto attacco sociale.
Quindi allo straniero non potranno essere richieste prestazioni e comportamenti di natura politica,
come l’obbligo del servizio militare, che si giustificano solo in presenza di quel massimo attacco
sociale costituito dal vincolo di cittadinanza. Non potranno essere imposti vincoli relativamente ad
attività commerciali, industriali ecc., non potranno applicarsi sanzioni penali se non di fronte a reati
che, dovunque siano stati connessi, presentino un collegamento con lo Stato territoriale e i suoi
sudditi.
Diniego di giustizia
Chiamasi diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato in questa specifica materia. Tale illecito
si ha quando la giustizia è negata appunto per difetto di organizzazione giudiziaria, tenuto conto,
come modello, dell’amministrazione della giustizia predisposta da uno Stato medio.
Per quanto riguarda i beni dello straniero possono come quelli del cittadino, legittimamente essere
sacrificati dal punto di vista del diritto internazionale. (?)
II.
Protezione degli investimenti stranieri
Sul tradizionale obbligo di protezione dei beni degli stranieri, si sono innestate per quanto riguarda
la materia degli investimenti stranieri, le rivendicazioni dei Paesi in sviluppo.
Simili rivendicazioni tendevano a sostenere, durante la decolonizzazione, l’assoluta libertà dello
Stato territoriale, con il conseguente venir meno dell’obbligo di protezione dei beni stranieri.
La situazione oggi è abbastanza mutata, perché gli Stati stessi che ricevono investimenti hanno
interesse a creare le condizioni necessarie affinchè i capitali stranieri non cessino dall’affluire. In
secondo luogo, la materia è ormai disciplinata sul piano convenzionale.
Il diritto consuetudinario ha piuttosto la funzione di colmare le lacune del regolamento
convenzionale o di intervenire quando il regolamento lo prevede. Da questo pdv va menzionata la
giurisprudenza dell’ICSID (centro internaz. Per il regolamento delle controversie tra stati e
investitori stranieri), la cui competenza è prevista da trattati internazionali e contratti tra imprese
investitrici e Stati dove ha luogo l’investimento. È una giurisprudenza molto ricca dalla quale
possono trarsi molti principi, tra cui che quello degli investimenti stranieri deve essere giusto ed
equo.
III.
Espropriazione e nazionalizzazione di beni stranieri
Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della disciplina
internazionalistica delle espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti ed interessi
degli stranieri. Il problema si è posto per il secolo scorso riguardo alle nazionalizzazioni.
Attualmente la prassi delle nazionalizzazioni non è più molto significativa ed anche il problema di
quali siano le regole internazionali consuetudinarie in materia di trattamento degli investimenti non
è più così grave.
Nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di espropriare e nazionalizzare beni stranieri.
Obbligo di indennizzo
In definitiva, l’unica importante questione è quella che riguarda l’indennizzo conseguente alle
espropriazioni e nazionalizzazioni, questione che ha dato luogo a scontri tra Stati, scontri dottrinali
che vertevano sul quantum non sull’an.
Una regola che può considerarsi diritto consuetudinario è quella indicata dal Tribunale Iran-Stati
Uniti, secondo la quale occorre distinguere tra
- le espropriazioni, per le quali l’indennizzo va commisurato al valore del bene
- le nazionalizzazioni, operate su vasta scala, per le quali circostanze speciali possono
giustificare temperamenti e aggiustamenti.
Facciamo riferimento anche alla risoluzione adottata dall’IDI a Tokyo nel 2013, la quale prevede
che l’indennizzo, sia in caso di espropriazione che di nazionalizzazione, e sempre che non sia
diversamente previsto, debba essere pronto, adeguato ed effettivo. Il termine adeguato deve essere
inteso come implicante un equilibrio tra gli interessi dell’investitore e i fini pubblici dello Stato.
IV.
Rispetto dei debiti pubblici
Al tema della protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri si collega il problema del
rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore nell’ambito del proprio
diritto interno, nei casi di mutamento di sovranità su un territorio.
La dottrina tradizionale era in linea di massima favorevole alla successione nel debito pubblico.
Tale opinione ha incontrato l’opposizione dei Paesi in sviluppo.
Nella prassi più recente, relativa allo smembramento dell’URSS e della Cecoslovacchia, può notarsi
la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti.
Debiti localizzabili
Pertanto la disciplina della materia tende a seguire i principi valevoli per la successione nei trattati:
si ammette la successione nei debiti localizzabili (contratti nell’esclusivo interesse del territorio
oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti generali dello Stato predecessore.
V.
Ammissione ed espulsione degli stranieri
Il diritto internazionale consuetudinario non prevede limiti per quanto riguarda l’ammissione degli
stranieri. In questa materia rivive la norma sulla sovranità territoriale, che comporta la libertà dello
Stato di stabilire la propria politica.
Il problema è diverso quando lo Stato commette una violazione dei diritti umani.
Per il diritto consuetudinario lo Stato è libero di espellere gli stranieri. Però l’espulsione deve
avvenire con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dell’espellendo e che a
quest’ultimo deve concedersi un lasso di tempo ragionevole qualora egli debba regolare i propri
interessi.
Rifugiati
La Convenzione di Ginevra del 51 e il Protocollo del 67 sui rifugiati, affermano che lo status di
rifugiato spetta a chi teme a ragione che nel proprio Paese possa essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità ecc.
Il rifugiato ha vari diritti: non essere discriminato con riguardo alla razza, praticare la propria
religione, accedere ai tribunali, assistenza e ottenere il documento di viaggio.
Non-refoulement
La norma più importante è quella dell’art 33, che prevede il principio del non-refoulement, secondo
cui il rifugiato non può essere espulso verso territori dove la sua vita o libertà sarebbe minacciata
per i motivi sopraindicati, e ciò sempre che non lo richiedano motivi di pubblica sicurezza.
Questo principio si applica in ogni caso in cui il rifugiato può essere sottoposto nel suo Paese a
trattamenti che violino i principi fondamentali della persona umana.
Diritto di asilo
La prassi evolutiva della Convenzione sui rifugiati ha prodotto l’assorbimento nella figura del
rifugiato di quella del richiedente asilo.
Il diritto di asilo territoriale non è previsto da alcuna convenzione universale ma da atti
internazionali privi di forza vincolanti, come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del
48, la Dichiarazione sull’asilo territoriale.
Sul piano regionale va ricordata la Convenzione di Caracas del 54, che disciplina l’asilo territoriale
nei dettagli, ma non ne sancisce l’obbligatorietà.
È da condannare la prassi seguita dall’Italia in passato, consistente nel respingere in alto mare
stranieri che fuggivano dal loro Stato e di respingerli addirittura verso la Libia di Gheddafi.
Questo è stato condannato anche dalla CEDU. La Corte ha ritenuto di avere giurisdizione anche per
violazioni perpetrate dallo Stato fuori dal proprio territorio, e precisamente fuori dal mare
territoriale.
L’assorbimento della figura del richiedente asilo in quella del rifugiato è stato operato anche dalla
giurisprudenza italiana.
VI.
Convenzioni di stabilimento
Numerosi accordi internazionale, c.d. accordi di stabilimento, prevedono l’obbligo di ciascuna parte
contraente di riservare alle persone fisiche e giuridiche, appartenenti all’altra o altre Parti,
condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di
attività imprenditoriali, professionali ecc.
Particolarmente importanti sono le norme degli artt.46ss del TFUE che mirano ad una parificazione
tra cittadini e stranieri nel territorio dell’UE.
Cittadinanza europea
Allo stesso fine tende la cittadinanza europea, che comporta il diritto di circolare liberamente
nell’ambito dell’UE, di partecipare alle elezioni locali nello Stato membro in cui risiede e di votare
nello stesso Stato per i rappresentanti al Parlamento europeo.
VII.
Protezione diplomatica
Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei
confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene.
Della protezione diplomatica si è occupata la CDI a partire dal 2000.
Lo Stato dello straniero maltrattato potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la
difesa del proprio suddito sul piano internazionale: potrà agire contro lo Stato territoriale, proposte
di arbitrato o ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la cessazione della
violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito.
Prima però che lo Stato agisca in protezione diplomatica, occorre che lo straniero abbia esaurito
tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale purchè adeguati ed effettivi, secondo
la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.
L’istituto della protezione diplomatica ha oggi carattere residuale anche nel senso che, una volta
esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi
internazionali efficaci, azionabili dagli stranieri lesi.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui esso e non il suo suddito, è
titolare. Quindi è da escludere che la materia sia inquadrabile come manifestazione della personalità
internazionale dell’individuo.
Clausola Calvo
L’istituto della protezione diplomatica è oggetto di contestazione, in merito ai rapporti economici
facenti capo a stranieri, da parte dei Paesi in sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, secondo
la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza dei
Tribunali dello Stato locale.
Ad una simile dottrina si sono ispirati gli Stati latino-americani, inserendo nei contratti con imprese
straniere una clausola di rinuncia da parte di queste ultime alla protezione del proprio Stato
(clausola Calvo).
A questa dottrina si ispira la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, quando stabilisce a
proposito della nazionalizzazione, che ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere
regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dai Tribunali di questo
Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi
pacifici sulla base dell’eguaglianza degli Stati medesimi.
Però, nessuno può costringere uno Stato accusato di violazione di norme sugli stranieri, a trattare la
questione sul piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se non ha assunto
preventivamente obblighi in merito. D’altro canto, però, nessuno può vietare allo Stato dello
straniero di protestare, proporre arbitrati ecc.
Certo è che l’istituto è in declino. Si diffondono nella prassi strumenti diretti a garantire i privati
contro i rischi relativi agli investimenti all’estero, soprattutto contro l’eventualità di espropriazione
e nazionalizzazione.
ICSID
Da segnalare è l’attività dell’ICSID. Al Centro fa capo un sistema di conciliazione ed arbitrato per
le controversie tra privati investitori e Stati che ricevono l’investimento. Questo si affianca agli
strumenti classici di conciliazione e di arbitrato.
Dobbiamo soffermarci sul fatto che lo Stato che esercita la protezione diplomatica agisce
nell’interesse suo proprio, quindi può transigere come crede, può sacrificare l’interesse del cittadino
leso ecc.
Quindi il ruolo dei giudici interni acquisisce grande importanza. In altre parole, lo straniero può
essere maggiormente garantito contro le violazioni di diritto internazionale perpetrate nei suoi
confronti attraverso l’opera dei giudici dello Stato territoriale piuttosto che attraverso l’azione in
protezione diplomatica da parte dello Stato nazionale.
La protezione diplomatica spetta agli organi del c.d. potere estero, di solito organi del Potere
esecutivo, e può essere fortemente condizionata da motivi politici.
VIII.
Protezione diplomatica delle società commerciali
La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale sia a difesa di una persona
fisica sia giuridica, in particolare di una società commerciale.
Per quanto concerne le società commerciali, ci si chiede poi se ai fini dell’esercizio della protezione
diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali, come il luogo di costruzione e quello
della sede principale e quindi ritenere ad es. che la protezione sia esercitata dallo Stato cui
appartengono la maggioranza dei soci o comunque coloro che controllano la società.
Il tema ha poi formato oggetto di decisione nella sentenza Diallo. Si trattava si stabilire se fosse
configurabile la lesione di un diritto del socio che, espulso dal paese dove aveva sede la società,
lamentava di non essere stato in grado di partecipare alle riunioni della società e votare, né di
controllare il management della stessa ecc.
La Corte finisce per escludere che nella specie sussista alcuna lesione, ciò per ragioni di mero fatto,
tra l’altro a causa della possibilità del socio di farsi rappresentare da qualcun altro.
Ammette pertanto da un pdv generale, implicitamente, che la protezione diplomatica del socio fosse
esercitabile.
A parte il tema del diritto del socio una più importante e discussa questione riguarda la c.d.
protezione in sostituzione, o sussidiaria. Ci si chiede se lo Stato possa intervenire quando la società
abbia legalmente cessato di esistere, oppure essa abbia la nazionalità dello Stato presunto violatore,
o se lo Stato non possa o voglia intervenire.
Non c’è dubbio che qualora la società abbia cessato di esistere, i soci possano essere protetti dai
loro Stati nazionali per quanto riguarda i beni residui societari loro attribuibili.
Si discute invece se la protezione sussidiaria sussista nell’ipotesi in cui la società abbia la
nazionalità dello Stato presunto violatore. La CIG si è rifiutata di ritenere che detta forma di
intervento in sostituzione sia prevista dal diritto consuetudinario.
IX.
Protezione della comunità navale
Alla regola secondo cui sono le società e non i singoli azionisti a godere della protezione
diplomatica può accostarsi il caso della protezione della comunità navale da parte dello Stato
nazionale o Stato della bandiera, protezione che assorbirebbe quella dei singoli membri
dell’equipaggio.
In questo senso si è pronunciato il Tribunale internazionale del diritto del mare, nel caso Saiga.
Nella specie si trattava della cattura e del sequestro di una nave in alto mare e conseguente arresto
dell’equipaggio.
CAPITOLO XXVII
IL TRATTAMENTO DEGLI AGENTI DIPLOMATICI
E DI ALTRI ORGANI DI STATI STRANIERI
I.
Particolari limiti alla potestà di governo sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto
riguarda gli agenti diplomatici. Si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche.
La materia è regolata dalla Convenzione di Vienna del 1961 entrata in vigore nel 1965 e ratificata
da un elevato numero di Stati, tra cui l‘Italia.
Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo Stato territoriale e
accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le
sue funzioni, fino al momento in cui ne esce.
La presenza dell’agente è in tutto e per tutto subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà
che si esplica attraverso il gradimento, che precede l’accreditamento, e per quanto riguarda
l’espulsione, attraverso la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare il Paese.
Le immunità diplomatiche sono:
Immunità funzionale
c) immunità dalla giurisdizione penale e civile
bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato, e atti da
lui compiuti come privato.
I primi sono coperti dalla immunità funzionale: l’agente non può essere citato in giudizio per
rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Non si può
negare che questa immunità derivi anche dalla circostanza che simili atti non sono imputabili
all’agente, ma allo Stato straniero.
Ad es: se un agente diplomatico presenta una nota verbale con insulti verso lo Stato territoriale, il
giudice di detto Stato non potrà mai sottoporre l’agente a procedimento penale, perché la nota resta
un atto proprio dello Stato. Così come non potrà essere citato in giudizio personalmente, un agente
che abbia acquistato suppellettili per l’Ambasciata e non le abbia pagate.
Dell’immunità funzionale degli agenti diplomatici si è occupata la Corte costituzionale tedesca con
riguardo al caso dell’incriminazione di un ex ambasciatore siriano presso la ex Repubblica
democratica tedesca. L’ambasciatore era accusato di aver fornito assistenza a dei terroristi nella
preparazione di un attacco a Berlino ovest.
La Corte afferma giustamente che l’immunità dell’agente diplomatico siriano abbia continuato ad
esistere anche dopo cessata la sua funzione. Ma poi ritiene che gli Stati diversi dallo Stato di
accreditamento non siano vincolati al rispetto dell’immunità funzionale.
Art.39 Convenzione di Vienna 1961: prevede che quando la missione è finita, i privilegi e le
immunità continuino a sussistere finchè il diplomatico non lasci il Paese o comunque dopo un
ragionevole lasso di tempo necessario a tal fine.
d) esenzione fiscale
sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali, ma per motivi di cortesia, lo Stato di
accreditamento può estenderla ad altri tributi, ad es. ad alcune imposte indirette.
II.
Persone cui spettano le immunità diplomatiche
Gli agenti diplomatici sono di solito i capi-missione (ambasciatori, ministri plenipotenziari,
incaricati d’affari). Ma le immunità si estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni
(ministri, consiglieri, segretari ecc). Si estendono anche alle famiglie degli agenti e di coloro che
fanno parte di questo personale.
Convenzione di Vienna art. 37: estende alcune forme di immunità anche al personale tecnico e
amministrativo della missione.
IV.
Consoli e altri organi statali
È controversa la questione se per qualsiasi organo statale il diritto internazionale preveda
l’immunità funzionale.
La tesi affermativa afferma che, se l’organo agisce nell’esercizio delle sue funzioni, la sua attività
va imputata allo Stato ed è quest’ultimo che deve risponderne. Però la prassi non depone in questo
senso.
Senza dubbio vi sono delle categorie alle quali l’immunità è riconosciuta: ed es. i consoli, per i
quali nessun’altra immunità è prevista, salva l’inviolabilità dell’archivio consolare.
L’immunità funzionale secondo una vecchia norma consuetudinaria va riconosciuta ai Corpi di
truppa all’estero
Per quanto riguarda gli altri organi, invece, la prassi depone nel senso che esistono casi come ad es.
quelli delle intrusioni non autorizzate di agenti di polizia in territorio straniero, di sconfinamenti di
aerei, nei quali l’immunità è di solito esclusa.
Anzitutto, l’immunità funzionale sussiste per quanto riguarda la giurisdizione civile, in questi casi è
lo Stato in nome del quale l’organo ha agito che può essere sottoposto alla giurisdizione straniera.
L’immunità è invece da escludere per l’esercizio della giurisdizione penale: questo trova la sua ratio
nel fatto che lo Stato, in quanto persona giuridica, difficilmente può essere considerato come
penalmente responsabile.
Per gli organi statali che non godono dell’immunità funzionale, valgono comunque le comuni
norme sul trattamento degli stranieri. Anche qui il dovere di protezione dovrà essere commisurato al
rango dell’organo e alle circostanze in cui esso opera.
Resta infine da chiedersi se dal principio di non ingerenza derivi l’obbligo di impedire che nel
proprio territorio si tengano comportamenti che possano indirettamente turbare l’ordine pubblico.
Nessuno dubita che siano perfettamente lecite manifestazioni di condanna o critica al sistema
politico, economico, sociale ecc. di uno Stato straniero. Ma i pareri sono discordi quando si tratta di
comportamenti come la propaganda sovversiva, preparazione di atti di terrorismo ecc.
Immunità assoluta e immunità relativa degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile
Verso la fine dell’800 e inizi 900, la teoria accolta in merito al trattamento degli Stati stranieri era
quella favorevole all’immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile.
La giurisprudenza italiana e belga hanno dato inizio ad un’inversione di tendenza che ha portato alla
revisione della regola dell’immunità assoluta, con l’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta
o relativa.
La distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis, non è sempre facile da applicare ai singoli casi
concreti.
Anche qui il diritto consuetudinario lascia un ampio margine all’interprete, al giudice interno. Può
forse sostenersi che nel dubbio debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della
sottoposizione dello Stato straniero alla giurisdizione, essendo quest’ultima una sorta di eccezione
all’immunità.
Questo trova conferma nella giurisprudenza interna, incline ad ampliare e non restringere la sfera
degli atti jure imperii e quindi dell’immunità.
Questa tendenza è anche alla base della Convenzione delle NU, la quale non formula espressamente
la distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis, ma affermando il principio dell’immunità, elenca
i casi in cui lo Stato straniero può essere convenuto in giudizio: controversie relative alle transazioni
commerciali, contratti di lavori, proprietà.
Nel senso contrario all’immunità si esprime anche la Convenzione di Londra relativa allo status
delle Forse degli Stati membri della NATO: le condizioni di impiego e lavoro del personale civile
addetto alle Forze armate di uno Stato membro dislocate in un altro Stato membro, sono regolate
dalla legislazione di quest’ultimo, senza distinzione tra mansioni.
Secondo la Corte di Cassazione, la sottoposizione dello Stato ricevente implica la possibilità per i
giudici locali di esercitare la giurisdizione.
È quindi criticabile l’art.11 della Convenzione delle Nazioni Unite, il quale da un lato prevede che
l’immunità non sia invocabile a meno che si tratti di lavoratori che abbiano la cittadinanza dello
Stato estero e non risiedano nello Stato de foro, ma dall’altro fa rivivere la distinzione tra rapporti
jure imperii e jure gestionis stabilendo che la giurisdizione non può comunque esercitarsi quando il
lavoratore sia stato assunto per svolgere particolari funzioni nell’esercizio del potere di governo.
Purtroppo, ancora alcune sentenze internazionali, in particolare della Corte EDU applichino ancora
detta distinzione ai rapporti di lavoro.
Sulle sentenze dalla CEDI secondo cui la Corte, avendo affermato che l’immunità deve essere
provata dallo Stato che la invoca, avrebbe indicato un passo in avanti per la prassi in materia. Ma il
passo in avanti è insignificante, non essendo state eliminate le incertezze relative alla distinzione.
Nella sentenza Cudak si nota che vi è un trend nella prassi nel senso della limitazione dell’immunità
degli Stati con riguardo alle controversie di lavoro, ad accezione del reclutamento dello Staff delle
Ambasciate.
Sulla sentenza della Corte comunitaria, avendo le sentenze della Corte prevalenza sul diritto interno
degli Stati membri dell’Unione, la giurisprudenza italiana, dovrebbe adeguarsi all’orientamento
della Corte comunitaria, ma la giurisprudenza della Corte vale solo quando è in gioco l’applicazione
del diritto dell’Unione (nino).
Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana, una sentenza della Cassazione del 1989 si era
rifiutata di concedere l’immunità con riguardo al lavoro prestato in Italia da cittadini italiani, ciò
limitatamente agli aspetti patrimoniali del rapporto.
Successivamente la Cassazione ha emesso decisioni non sempre univoche. Le Sezioni Unite hanno
poi affermato la natura consuetudinaria della disciplina fissata dall’art 11.
Tort exception
La Corte ha respinto l’argomento fondato sugli art.11 della Convenzione europea e 12 della
Convenzione NU, che escludono l’immunità dello Stato straniero per le azioni di risarcimento del
danno prodotto alle persone e cose purchè si tratti di azoni che abbiano avuto luogo nel territorio
dello Stato del foro (c.d. tort exception).
Secondo la Corte la tort exception non corrisponderebbe al diritto consuetudinario e comunque non
si estenderebbe alle azioni per danni derivanti da operazioni di guerra.
Lo stesso va detto a proposito del last resort argument. Va denunciata al riguardo l’omissione della
Corte di alcuni elementi della prassi che, anche non volendoli considerare decisivi, meritavano
considerazione. Ossia alcune sentenze di corti interne che nel pronunciarsi a favore dell’immunità
di giurisdizione dello Stato straniero in tema di risarcimento per violazioni gravi dei diritti umani,
sostengono che una tale pronuncia sia praticabile in quanto le vittime della violazione possono
rivolgersi ai giudici dello Stato che invoca l’immunità.
Occorre comunque riconoscere che il dato su cui la CIG si è basata, cioè il numero di pronunce
delle corti interne, che sul tema specifico delle conseguenze civilistiche delle violazioni di diritti
umani, si sono schierate a favore dell’immunità, è incontrovertibile.
Altro è il problema se, nella specie decisa dalla CIG, il risarcimento del danno causato dai tedeschi
potesse essere rivendicato per fatti avvenuti quando può dubitarsi che norme sui crimini
internazionali, di jus cogens, esistessero.
È chiaro che il problema non poteva essere affrontato se non dopo aver stabilito se la Germania
fosse immune o no.
È il caso a questo punto di osservare che in tutta la materia dell’immunità le Corti internazionali
sono più propense a tener conto delle esigenze delle relazioni internazionali di quanto lo siano le
Corti interne. Queste però costituiscono la vera e propria prassi degli Stati e quindi vanno tenute in
maggior conto.
III.
Immunità delle persone giuridiche pubbliche diverse dallo Stato
L’immunità della giurisdizione civile viene anche riconosciuta agli enti territoriali e alle altre
persone giuridiche pubbliche.
È questa un’ulteriore prova del fatto che a formare la persona dello Stato dal pdv internazionale,
concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo.
IV.
Immunità degli Stati stranieri dall’esecuzione forzata
La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione che ai procedimenti
di esecuzione e cautelari su beni detenuti da uno Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto
ritenersi ammissibile solo se è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione.
Non è sempre facile stabilire se un bene sia destinato o meno ad una pubblica funzione. Una
questione che si è posta più volte innanzi alle Corti interne è se possano essere chieste misure di
esecuzione sul denaro depositato in conti correnti bancari: in mancanza di una destinazione
specifica del conto, la giurisprudenza è orientata a ritenere che esso sia inattaccabile.
In Italia è previsto addirittura che sono esenti tutti i conti bancari e postali che i Capi delle missioni
diplomatiche e consolari abbiano dichiarato trattarsi di denaro destinato a fini pubblicistici.
L’immunità può essere sempre oggetto di rinuncia da parte dello Stato straniero. Né essa può essere
eccepita, qualora lo Stato straniero si faccia attore in giudizio, in ordine alle domande
riconvenzionali.
V.
Dottrina dell’Act of State
A parte i limiti considerati finora, la giurisdizione dello Stato territoriale non incontra nessun altro
limite in tema di trattamento di Stati stranieri.
Senza fondamento è la dottrina dell’Act of State, secondo cui una Corta interna non potrebbe
rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero, ad es. una legge richiamata
dalle norme di diritto internazionale privato, in quanto contraria al diritto internazionale e neppure
in quanto illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo ordinamento di origine.
Quindi le corti di uno Stato non potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna di
leggi, sentenze e atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro vengano in rilievo nei
giudizi medesimi.
II.
Protezione dei funzionari internazionali
Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua
nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme
consuetudinarie sul trattamento degli stranieri.
La violazione di questo obbligo dà luogo all’esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte
dello Stato nazionale.
Caso Bernadotte
La CIG si occupò di questo problema in un famoso parere a proposito del caso Bernadotte: il conte
Bernadotte, mediatore tra arabi e israeliani era stato ucciso a Gerusalemme da estremisti ebraici. Il
Segretario generale aveva apertamente accusato il Governo israeliano di non aver adottato le misure
atte a prevenire l’attentato.
L’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il
risarcimento dei danni e la corte rispose affermativamente, sostenendo che l’ONU avesse titolo per
chiedere oltre al risarcimento dei danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in
quanto tale. Ma questa tesi è stata molto criticata.
III.
Immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione civile
Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo
sono anche le organizzazioni internazionali.
Può considerarsi, questa immunità, come prevista da una norma consuetudinaria autonoma. Di
norma questa si trova prevista anche nell’attribuzione della personalità internazionale all’ente, nelle
norme degli statuti istitutivi degli enti.
Anche per le organizzazioni internazionali un problema importante è quello dell’immunità in tema
di controversie di lavoro. Anche in questo caso c’è stata un’evoluzione, nel senso che l’immunità è
esclusa se l’Organizzazione non ha nel suo ordinamento, un organo giudiziario, che offra tutte le
garanzie di indipendenza e imparzialità, cui il lavoratore può rivolgersi.
Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana sia assiste a prese di posizione non sempre univoche,
ma addirittura a qualche radicale e repentino cambiamento di opinione.
Al riguardo, la vicenda dell’immunità dell’Istituto Universitario Europeo per i rapporti con i suoi
dipendenti, immunità negata sul presupposto che un organo dei ricorsi interni non presentasse i
presupposti di imparzialità e indipendenza, e successivamente ammessa con argomenti poco
convincenti, per il motivo opposto.
CAPITOLO XXX
IL DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO
LIBERTA’ DEI MARI E CONTROLLO DEGLI STATI COSTIERI SUI MARI ADIACENTI
I.
Codificazione del diritto internazionale marittimo
La materia del diritto internazionale marittimo è stata oggetto di Conferenze di codificazioni: la
Conferenza di Ginevra del 1958 e la Terza Conferenza NU sul diritto del mare tra il 1974 e 1982.
La Conf. Di Ginevra produsse 4 convenzioni: sul mare territoriale e zona continua, sull’alto mare,
sulla pesa e conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare e sulla piattaforma continentale.
Una successiva convenzione fu firmata a Montego Bay nel 1982 e entra in vigore nel 1994, questa
sostituisce le 4 convenzioni di Ginevra.
II.
Libertà dei mari e suo significato
Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio della libertà dei
mari.
Questo significa che il singolo Stato non può impedire e nemmeno intralciare l’utilizzazione degli
spazi marini da parte degli altri Stati, ossia da navi che battono bandiera di altri Stati.
È quindi inammissibile che uno Stato sottragga permanentemente agli altri le risorse del mare.
Mare territoriale
Alla fine del XIX secolo si diffuse nella prassi la figura del mare territoriale come sottoposta in
tutto e per tutto al regime del territorio dello Stato.
Piattaforma continentale
Dopo la IIWW vi è stata un’estensione dei poteri dello Stato costiero, con l’accettazione della
dottrina enunciata dal Presidente Truman, con la quale rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la
giurisdizione sulle risorse della piattaforma, ossia quella parte di fondo e sottosuolo marino che
costituisce il prolungamento della terra emersa e che si mantiene a profondità costante prima di
scendere negli abissi.
Mare presenziale
Per mare presenziale si intende la necessità della presenza dello Stato costiero ai fini della lotto
contro la depredazione della fauna marina
CAPITOLO XXXI
IL MARE TERRITORIALE E LA ZONA CONTIGUA
I.
Sovranità dello Stato costiero sul mare territoriale
il mare territoriale è sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di
terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico.
Montego Bay art2: la sovranità dello Stato si estende al di là del suo territorio e delle sue acque
interne, a una zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale.
Esso può estendersi al massimo fino a 12 miglia dalla costa
II.
Zona contigua
Secondo la Convenzione MB in una zona contigua al suo mare territoriale lo Stato costiero può
esercitare il controllo necessario per prevenire la violazione delle proprie leggi, e reprimere le
violazioni alle medesime-
Stabilisce ancora che nella zona contigua lo Stato costiero può controllare l’attività di rimozione di
reperti archeologici.
La larghezza della zona contigua si estende ad altre 12 miglia oltre il mare territoriale.
Vigilanza doganale
Limitatamente alla vigilanza doganale, il potere dello Stato costiero incontra un limite funzionale e
non spaziale: lo Stato deve fare tutto ciò che è necessario per prevenire e reprimere il contrabbando
nelle acque adiacenti alle sue coste.
La distanza dalla costa può anche essere superiore alle 24 miglia, purchè non si tratti di una distanza
tale da far perdere ogni idea di adiacenza. È necessario quindi che sussista un qualche contatto tra la
nave e la costa.
In realtà la prassi mostra una tendenza a non tener conto delle distanze ma dell’interesse alla
repressione del contrabbando.
Presenza costruttiva
È sintomatico che si è soliti ricorrere alla teoria della c.d. presenza costruttiva, secondo cui la nave
che sia in acque internazionali ma che abbia contatti con la costa, particolarmente nel caso di
trasbordo di merci su imbarcazioni dirette verso la costa, è come se si trovasse negli spazi sottoposti
al potere di governo dello Stato costiero. Ma questa teoria è una pura finzione.
III.
Limite esterno del mare territoriale italiano
Una legge del 1974 ha modificato l’art 2 del codice della navigazione estendendo il mare territoriale
a 12 miglia.
IV.
Limite interno del mare territoriale
Da quali punti si misurano le 12 miglia?
Questo è il problema del limite interno o linea di base del mare territoriale. Il tema è oggetto di
molte norme della Convenzione MB
Art 5: fissa il principio generale secondo cui la linea di base per la misurazione del mare territoriale
è data dalla linea di bassa marea
Art 7: riconosce la possibilità di derogare a questo principio ricorrendo al sistema delle linee rette
Baie
Art 10: se la distanza tra i punti naturali di entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare
territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia
sono considerate come acque interne. Se la distanza eccede le 24 miglia, può tracciarsi all’interno
della baia una linea retta in modo tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare
possibile.
L’art 10 considera come baie le insenature che penetrino in profondità nella costa e precisamente le
insenature la cui superficie sia eguale o superiore a quella di un semicerchio avente per diametro la
linea di entrata.
L’art 10 fa poi salvo anche il regime delle baie storiche, ossia le baie sulle quali lo Stato costiero
può vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri stati
V.
Poteri dello Stato costiero nel mare territoriale
Per quanto riguarda i poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale questi sono in linea
di principio gli stessi poteri esercitati nell’ambito del territorio.
In linea di principio perché esistono due limiti alla potestà di governo dello Stato costiero, che
servono a distinguere il mare territoriale dalle acque interne.
Passaggio inoffensivo
Il primo limite è il c.d. passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere.
Art 17ss Convenzione MB: ogni nave straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare
territoriale, sia per attraversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo da
queste ecc.
Art 19: il passaggio è inoffensivo finchè non reca pregiudizio alla pace, buon ordine o sicurezza
dello Stato costiero.
Se il passaggio non è inoffensivo, lo Stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo.
Può eccezionalmente anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza.
Le norme sul passaggio inoffensivo vanno anche applicate alle navi da guerra, salvo l’obbligo per i
sottomarini di navigare in superficie.
II.
Piattaforma continentale
MB: lo Stato costiero ha, al di là del mare territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse
della piattaforma (77), intesta come quella parte del suolo e sottosuolo marino contiguo alle coste
che costituisce il prolungamento naturale della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una
profondità costante (200m) per poi precipitare o degradare negli abissi.
Il diritto esclusivo di sfruttamento viene acquistato dallo Stato costiero in modo automatico, a
prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma.
III.
Delimitazione della piattaforma continentale tra Stati frontisti e contigui
Un problema molto importante è quello della delimitazione frontale che nel caso di delimitazione
della piattaforma tra Stati che si fronteggiano o stati contigui.
IV.
Zona economica esclusiva
Ai poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale si sono sovrapposti quelli esercitabili
nell’ambito della ZEE. Convenzione MB artt 55ss.
Limite esterno della zona
La ZEE può estendersi fino a 200 miglia marine, limite che essendo calcolato a partire dalla linea di
base del mare territoriale corre parecchio a largo
Quindi anche per la ZEE è importante la delimitazione tra Stati frontisti o contigui.
V.
Poteri dello Stato costiero nella zona
Quali sono i poteri dello Stato costiero nella ZEE? L’orientamento che è prevalso è nel senso
dell’attribuzione allo Stato costiero del controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona,
sia biologiche che minerali, sia del suolo che del sottosuolo e delle acque sovrastanti.
C’è da un lato chi sostiene che il vecchio principio della libertà dei mari debba continuare ad essere
la regola prima e fondamentale, come tale applicabile nei casi di dubbi, ai rapporti tra Stato costiero
e altri Stati.
C’è poi chi all’opposto ritiene che i poteri dello Stato costiero siano la regola e le libertà degli altri
Stati, l’eccezione.
VI.
Rapporti tra ZEE e piattaforma esclusiva e stati geograficamente svantaggiati
I poteri dello Stato costiero nell’ambito della ZEE, si confondono con quelli esercitabili in base alla
dottrina della piattaforma continentale. Solo oltre le 200 miglia, e sempre che la piattaforma si
estenda geologicamente oltre tale limite, si pone il problema se lo Stato costiero possa mantenervi la
propria giurisdizione.
La Convenzione di MB stabilisce che una parte di quanto lo Stato ricavi dallo sfruttamento delle
zone situate oltre le 200 miglia e il limite estremo della piattaforma (c.d. margine continentale)
debba essere versata all’Autorità internazionale dei fondi marini.
L’istituzione della ZEE poco si concilia però con gli interessi di quei Paesi che non hanno accesso
al mare o che sono geograficamente svantaggiati.
CAPITOLO XXXIII
IL MARE INTERNAZIONALE E L’AREA INTERNAZIONALE DEI FONDI MARINI
I.
Negli spazi marini situati oltre la ZEE la Convenzione di MB parla di “alto mare”. Ma questa
terminologia rende equivoco l’uso del termine “mare libero” dato che molti aspetti della libertà dei
mari, permangono anche nella ZEE. Quindi è il caso di parlare di “mare internazionale” trattandosi
di spazi marini sottratti al controllo parziale o totale, di un singolo Stato.
II.
Risorse minerarie del mare internazionale
Per quanto riguarda le risorse minerarie del fondo e sottosuolo del mare internazionale, una famosa
risoluzione dell’Assemblea generale ONU le ha dichiarate patrimonio comun e dell’umanità.
Il principio del patrimonio comune fa parte del diritto internazionale consuetudinario, e comporta
che lo sfruttamento debba avvenire nell’interesse della comunità.
È stata creata l’Autorità internazionale dei fondi marini, di cui si occupa la Convenzione MB e
l’Accordo applicativo adottato dall’Assemblea generale ONU e aperto alla ratifica degli Stati.
L’accordo applicativo in realtà modifica la Convenzione MB e espressamente dichiara di prevalere
su di essa in caso di incompatibilità.
Organi dell’Autorità
Gli organi principali dell’Autorità sono: Assemblea, Consiglio, Segretariato e l’Impresa,
quest’ultima è un organo operativo con cui l’Autorità partecipa allo sfruttamento.
Tutte le attività di sfruttamento devono essere fatte secondo un sistema parallelo previsto nelle linee
generali da MB secondo cu ogni sito da sfruttare è diviso in due parti: una attribuita allo Stato che
individua l’area, e l’altra all’Impresa che provvederà allo sfruttamento.
Secondo MB art 92: le navi navigano sotto la bandiera di un solo Stato e sono sottoposte alla sua
giurisdizione in alto mare.
La norma va interpretata nel senso di riservare allo Stato della bandiera solo l’attività di imperio
esercitata a bordo della nave. Solo nel caso di collisioni, o altri incidenti della navigazione, MB
prevede (art 97) che Stati diversi da quello di bandiera o Stato nazionale dell’autore dell’incidente,
non possano esercitare nemmeno nel loro territorio la giurisdizione penale sugli autori medesimi.
Art 97: sentenza della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, nel caso Lotus, mercantile
francese che era entrato in collisione con un vapore turco, provocandone l’affondamento e causando
la morte di 8 persone. La Corte sostenne che la Turchia, pur non essendo lo Stato di bandiera aveva
il diritto di giudicare l’ufficiale francese colpevole dell’incidente.
La corte si riferì alla prassi di vari Stati le cui legislazione permettevano, in alcune circostanze,
l’esercizio della giurisdizione penale sugli stranieri per fatti avvenuti all’estero.
La corte ritenne poi che essendo l’evento dannoso provocato dalla collisione, avvenuto sul vapore
turco, esistesse un collegamento con la Turchia di per sé idoneo a giustificare l’esercizio della
giurisdizione penale.
La Francia si difendeva sostenendo di essere esclusivamente competente ad esercitare la
giurisdizione in quanto Stato di bandiera. Lo ha sostenuto anche in sede di codificazione, in seno
alla CDI delle NU nel 1956. La sua tesi ha poi trovato accoglimento nel progetto di codificazione
della CDI sul diritto del mare, ma con solo riguardo all’ipotesi della collisione.
Il problema della giurisdizione penale per fatti avvenuti in alto mare si è di recente posto nel caso
dei due sottufficiali della Marina Militare italiana, accusati di aver provocato la morte di due indiani
che erano a bordo di un peschereccio indiano.
Secondo le indagini indiane i due militari avrebbero sparato ai pescatori dalla nave mercantile
italiana, l’Enrica Lexie, alla quale fornivano assistenza nel quadro della lotta contro la pirateria.
Sembra anche accertato che il fatto sia avvenuto oltre i limiti del mare territoriale.
Non essendo stato possibile risolvere la questione tramite negoziato, l’Italia ha attivato la procedura
arbitrale prevista da MB.
Sono state ad oggi pronunciate due ordinanze sulle misure cautelari in virtù delle quali è stata
garantita la permanenza in Italia dei due militari per tutta la durata dell’arbitrato.
Sulla questione si è anche pronunciata la Corte Suprema Indiana, che ha rivendicato il diritto del
proprio Stato ad esercitare la giurisdizione penale. Questo con una motivazione fondata in sostanza
sull’esistenza di collegamenti del reato con la comunità indiana.
Peccato che la nave anziché prendere il largo, si sia fatta convincere dalle autorità indiane a
raggiungere un luogo dove i due ufficiali sono stati arrestati. L’eventuale arresto o qualsiasi atto
coercitivo delle autorità indiane in alto mare avrebbe costituito una flagrante violazione della regola
che riserva allo Stato di bandiera l’esercizio dell’attività di imperio.
I-bis
Eccezioni al potere esclusivo dello Stato nazionale
il principio della sottoposizione della nave al potere di imperio esclusivo dello Stato di bandiera
subisce delle eccezioni a seconda di dove si trovi la nave.
Acque internazionali: un’eccezione concerne la pirateria. La nave pirata, cioè la nave che commette
atti di violenza contro altre navi ai fini di preda o altri fini non politici, può essere catturata da
qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive.
Il potere esercitato sulla nave pirata è oggetto di una facoltà dello Stato.
Diritto di visita
Alto mare: 110 MB: ammette un limitato diritto di visita delle navi in alto mare da parte di navi da
guerra. Salvo i casi previsti dai trattati, una nave da guerra che incontri una nave mercantile non può
fermarla tranne se abbia seri motivi per sospettare
- Che pratichi pirateria
- Che pratichi tratta degli schiavi
- Che dalla nave partano trasmissioni rivolte al grande pubblico non autorizzate
- Che la nave non abbia la nazionalità di alcuno Stato
- Che la nave pur battendo bandiera straniera o non issando la bandiera, abbia la stessa
nazionalità della nave da guerra.
II.
Diritto di inseguimento
Costituisce un’eccezione al principio della sottoposizione della nave all’esclusivo potere dello Stato
di bandiera anche la regola relativa al c.d. diritto di inseguimento.
Le navi da guerra o adibite a servizi pubblici, possono inseguire una nave straniera che abbia
violato le leggi di tale Stato purchè l’inseguimento abbia avuto inizio nelle acque interne o mare
territoriale o zona continua.
Presenza costruttiva
Al diritto di inseguimento viene riportata anche la teoria della presenza costruttiva, secondo cui la
nave straniera, che pur mantenendosi in acque internazionali, partecipi a traffici illeciti che altri navi
o imbarcazioni svolgano in spazi marini sottoposti al potere di governo dello Stato costiero, può
essere catturata da quest’ultimo.
Questa è applicata in materia di repressione del contrabbando ad es.
III.
Bandiere ombra
MB art 91: stabilisce che ogni Stato fissa le condizioni per l’immatricolazione delle navi nei propri
registri navali, ma aggiunge che deve esserci un legame sostanziale tra lo Stato e la nave.
Art. 94: lo Stato esercita effettivamente la sua potestà di governo e il suo controllo amministrativo,
tecnico e sociale sulla nave. Tale norma corrisponde al diritto internazionale generale.
Questa norma è stata poi specificata dalla Convenzione delle NU sulle condizioni di
immatricolazione delle navi del 86: richiede che alla proprietà della nave partecipi un numero di
cittadini dello Stato di immatricolazione sufficiente per assicurare a questo Stato il controllo
effettivo sulla nave, o che l’equipaggio, sia formato per una quota sufficiente da cittadini o residenti
abituali nello Stato di immatricolazione.
Se lo Stato di immatricolazione non rispetta le norme sul genuine link, gli altri Stati dovrebbero
essere autorizzati a disconoscere il carattere internazionale della nave ed esercitare su di essa il loro
potere di governo. Trattasi però di una cosa che non ha fondamento nella prassi.
A parte gli obblighi di cooperazione il primo problema che si pone a proposito della tutela
dell’ambiente marino è se ed in quali termini, il diritto internazionale imponga obblighi di non
inquinare le acque dei mari e degli oceani.
Per quanto riguarda il diritto consuetudinario la soluzione è negativa, circa l’obbligo di non
produrre danni da inquinamento al territorio di altri stati (cap.25)
Art. 192 MB: gli stati hanno il dovere di proteggere e preservare l’ambiente marino. Questo
sancisce un principio tendente allo sviluppo progressivo del diritto internazionale.
II.
Poteri dello Stato della bandiera e dello Stato costiero in tema di inquinamento
Il secondo problema che si pone è l’unico rilevante e consiste nello stabilire quale Stato possa
esercitare il proprio potere di governo sulle navi onde impedire fenomeni di inquinamento.
Ad imporre divieti e comminare sanzioni saranno lo Stato di bandiera e, nelle zone sottoposte a
giurisdizione nazionale, lo Stato costiero.
Nella ZEE tale potere sarà circoscritto in linea di principio alle attività inquinanti suscettibili di
danneggiare le risorse naturali.
III.
Eccezionali misure anti-inquinamento su navi altrui nel mare internazionale
Un ultimo argomento è la possibilità per uno Stato di intervenire eccezionalmente su una nave altrui
nel mare internazionale per prendere le misure strettamente idonee ad impedire o attenuare danni al
proprio litorale, derivanti da un incidente già avvenuto.
CAPITOLO XXXVI
GLI SPAZI AEREI E COSMICI
I.
Navigazione aerea
Le norme sulla navigazione aerea si sono andate modellando su quelle relative alla navigazione
marittima. Due principi generali si sono affermati:
1. Convenzione di Chicago 1944: la sovranità dello Stato si estende allo spazio atmosferico
sovrastante il territorio e il mare territoriale.
2. Lo spazio che non sovrasta il territorio e il mare territoriale dello Stato, deve restare libero
all’utilizzazione di tutti gli Stati.
Quando si parla di sovranità estesa allo spazio atmosferico sovrastante il territorio si intende
soprattutto far riferimento alla possibilità per lo Stato territoriale di regolare il sorvolo, di indicare le
rotte che devono seguire gli aerei, o anche di impedire il sorvolo del proprio territorio da parte di
aerei aventi nazionalità straniera.
II.
Libertà di navigazione negli spazi cosmici
Alla navigazione cosmica è innanzitutto applicabile per analogia, il principio sulla libertà di sorvolo
degli spazi nullius.
Lo Stato che lancia il satellite o la nave spaziale ha diritto al governo esclusivo degli spazi cosmici e
nessun altro Stato vi può interferire
Il regime degli spazi cosmici è anche stato oggetto di alcune convenzioni multilaterali promosse
dall’ONU.
III.
Risorse dello spazio
Anche per gli spazi atmosferici e cosmici si può parlare di risorse naturali: ci si riferisce
all’utilizzabilità degli spazi a fini di radio e telecomunicazione, alle frequenze d’onda e alle orbite
utilizzate dai satelliti a questi fini.
La libertà di utilizzazione a fini di radio e telecomunicazioni costituisce un aspetto della più
generale libertà relativa a simili spazi e valevole anche per la navigazione.
Questa libertà trova un limite nel rispetto delle pari libertà altrui.
Vige inoltre il principio che l’utilizzazione dell’orbita geostazionaria e dello spettro delle onde radio
debba aver luogo in modo da tener conto degli interessi di tutti.
CAPITOLO XXXVII
LE REGIONI POLARI
I.
Come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato vanno anche considerate le regioni polari.
Possiamo per quanto riguarda il territorio antartico parlare di territorio internazionalizzato, ossia che
in esso vige un principio di libertà e anche un complesso di norme che ne disciplinano l’utilizzo.
Le pretese alla sovranità sui territori polari sono state sempre respinte dalla maggioranza degli Stati.
E vanno considerate come infondate in quanto non sorrette dall’effettività dell’occupazione.
La mancanza di sovranità territoriale comporta che ciascuno Stato eserciti il proprio potere sulle
comunità che ad esso fanno capo.
Nel caso di spedizioni scientifiche o basi su terraferma, si ritiene che lo Stato che le organizza
eserciti il proprio potere, in analogia con quanto avviene per le comunità navali, su tutte le persone,
cittadini o stranieri che le compongono.
II.
L’Antartide è stato internazionalizzato con il Trattato di Washington del 1959 di cui sono contraenti
una quarantina di paesi.
Il Trattato antartico distingue due categorie di Stati contraenti: le Parti consultive, aventi uno status
di privilegio rispetto alle altre e le Parti non consultive.
Le prime (Paesi originari firmatari del trattato) hanno diritto di decidere su tutte le questioni
rientranti nell’oggetto del trattato. Hanno anche il diritto esclusivo di condurre ispezioni su navi,
basi, personale ecc.
Il regime internazionale dell’Antartide (essendo regolato da un Trattato) vincola solo gli Stati
contraenti.
PARTE TERZA
CAPITOLO XXXVIII
L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO STATALE AL DIRITTO INTERNAZIONALE
III.
Una distinzione generale di carattere tecnico va operata e tenuta presente in ordine a tutti i problemi
di adattamento. Essa attiene al mezzo attraverso il quale il diritto internazionale viene
nazionalizzato, introdotto nell’ordinamento statale.
Si tratta della distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali di adattamento.
La situazione è diversa nel caso del procedimento speciale. Qui la norma intera opera un mero
rinvio alla norma o norme internazionali. Non vengono formulate norme complete ma ci si limita ad
ordinare l’osservanza di certe norme internazionali.
Il centro di applicazione delle norme internazionali si sposta dal legislatore all’interprete.
L’interprete potrà sbagliare nella sua ricostruzione, ma l’errore avrà valore solo per il singolo caso
concreto. L’esatta applicazione del diritto internazionale sarà in ogni caso, meglio assicurata.
È anche vero che il procedimento ordinario può rivelarsi preferibile o indispensabile in alcuni casi.
Ad es. è indispensabile allorquando la norma internazionale non è direttamente applicabile (non è
self-executing). Con questa espressione ci si riferisce alle norme che richiedono necessariamente,
per essere applicate, un’attività normativa integratrice da parte degli organi statali.
IV.
Idoneità delle norme internazionali a produrre diritti e obblighi interni in seguito all’adattamento
Una volta introdotte nell’ordinamento interno, le norme internazionali sono fonti di diritti e obblighi
per gli organi statali e per tutti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello Stato, al
pari di una qualsiasi norma di origine nazionale.
Ma lo stesso va sostenuto con riguardo alle norme introdotte all’interno dello Stato mediante
procedimento speciale o di rinvio.
Le norme internazionali così nazionalizzate non sono di per sé applicabili solo quando lasciano
ampi margini di libertà allo Stato circa la loro esecuzione (non self-executing)
Comunque sembra non esista un principio dal quale l’interprete non possa comunque ricavare delle
interpretazioni concrete, dal pdv del valore interpretativo o in alcuni casi addirittura della forza
abrogativa del principio medesimo.
È vero che il ricorso al carattere indeterminato è frequente da parte delle Corti interne. Ma si tratta
comunque di una pratica da condannare.
La Corte comunitario si è occupata anche del Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di
sostanze inquinanti. In particolare il Protocollo prevede che gli Stati cercheranno di ridurre le
emissioni di gas provocate dal trasporto aereo, non sarebbe però a suo avviso, dotata di un carattere
incondizionato e preciso tale da ingenerare per il singolo il diritto di farla valere in giudizio.
È da respingere l’opinione secondo cui un trattato non è self-executing se prevede che, in caso di
sospensione o mancata applicazione, o di difficoltà nell’applicazione, delle sue norme, debba farsi
ricorso a procedure di conciliazione o altri mezzi di soluzione delle controversie internazionali.
Da ciò dovrebbe dedursi la flessibilità delle sue disposizioni.
Identica flessibilità è stata sostenuta in ordine a trattati che espressamente subordino la propria
applicazione alla reciprocità.
Tutto ciò che può dirsi in casi del genere è che lo Stato contraente ha la facoltà di adottare delle
misure non conformi al trattato: può adottarle di fronte a certe difficoltà di ordine economico, o nel
caso della reciprocità, quando l’altra parte abbia violato il trattato.
Dobbiamo poi constatare che con il passare degli anni è sempre più raro trovare nella
giurisprudenza dei vari Paesi prese di posizione favorevoli alla non diretta applicabilità.
Una voce discordante è contenuta in una sentenza del TAR Emilia Romagna del 2007, che riprende
la tesi secondo cui i trattati, anche se debitamente immessi nell’ordinamento interno, non
produrrebbero diritti e obblighi per gli individui.
V.
Sfera di applicazione della norma internazionale introdotta nell’ordinamento interno
Le norme internazionali sono utilizzabili all’interno dello Stato entro i limiti in cui si verifica la
concreta fattispecie astratta da esse previste.
Nel caso di procedimento di adattamento mediante rinvio, la determinazione della fattispecie
astratta ad opera dell’interprete e la applicazione della norma ai rapporti interni possono rivelarsi
complicate a causa della formulazione della norma, che è e resta una formulazione
internazionalistica.
Si dice che l’adattamento mediante rinvio comporta una trasformazione del contenuto della norma
internazionale per renderla applicabile a rapporti interni. In realtà non si tratta tanto di
trasformazione ma quanto di esatta determinazione dei limiti entro cui la norma vuole essere
applicata, e quindi di interpretazione della medesima.
Es:
consideriamo la norma consuetudinaria che vieta allo Stato di esercitare poteri di vigilanza doganale
al di là dei mari adiacenti alle proprie coste. Tale norma può essere invocata innanzi ai nostri
giudici, da equipaggi di navi straniere che siano state catturate dalle nostre autorità di polizia
doganale a notevole distanza dalla costa.
Non può essere invocata dagli equipaggi di navi italiane, e ciò perché la norma sulla vigilanza
doganale va interpretata in combinazione con la regola per cui lo Stato non incontra limiti
all’esercizio del potere di governo sulle proprie navi in acque internazionali.
Es:
facciamo il caso di un accordo commerciale con cui lo Stato italiano si impegni al c.d. trattamento
nazionale delle merci importate da altri Stati, si impegni cioè a parificare il trattamento fiscale di
tali merci a quello accordato alle merci italiane della stessa natura. Non vi è dubbio che un simile
accordo sarà invocabile dinnanzi i nostri giudici da parte di ditte importatrici italiane contro la
nostra amministrazione fiscale.
CAPITOLO XXXIX
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO INTERNAZIONALE CONSUETUDINARIO
I.
Natura speciale del procedimento di adattamento al diritto consuetudinario
L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello costituzionale.
Art.10 Cost prevede un procedimento di adattamento speciale, limitandosi ad affermare la propria
volontà che l’adattamento sia automatico, cioè completo e continuo: le norme internazionali
generali valgono all’interno dello Stato se e finché vigono nell’ambito della comunità
internazionale.
È dunque l’interprete che deve risolvere tutti i problemi relativi all’esistenza e al contenuto delle
norme generali internazionali.
Ad esso spetta in primo luogo stabilire quali siano le norme internazionali generali.
II.
Rapporti del diritto consuetudinario con la legislazione ordinaria
Si può ritenere che essendo l’adattamento alle norme internazionali previsto dalla Costituzione, tali
norme si situino comunque ad un livello superiore alla legge ordinaria.
Una legge ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinaria sarà pertanto
costituzionalmente illegittima, in quanto violerà indirettamente l’art. 10
Lo stesso art.10 contiene una clausola implicita di salvaguardia dei principi fondamentali. Ci
sembra che l’art 10 non possa, né voglia un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello
Stato spinta fino al limite di rottura dei principi.
II-bis
Una norma di adattamento al diritto internazionale consuetudinario può essere considerata quella
prevista dall’art.11 Cost: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
La formulazione di questa prima parte risente dell’orrore della IIWW e quindi prende in
considerazione espressamente l’aggressione. Ovviamente essa fa salva la guerra di difesa.
Seconda parte art.11: l’Italia consente le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo.
Questa norma è utilizzata dalla Corte per assicurare un primato al diritto dell’UE sul diritto italiano,
ma non anche alle altre organizzazioni internazionali e neppure al diritto dell’ONU.
CAPITOLO XL
L’ADATTAMENTO AI TRATTATI E ALLE FONTI DERIVATE DAI TRATTATI
I.
Ordine di esecuzione del trattato
L’adattamento alle norme pattizie internazionali avviene normalmente in Italia con un atto ad hoc
relativo ad ogni singolo trattato.
Tale atto è l’ordine di esecuzione, il quale è un procedimento di rinvio o speciale. Si limita quindi
ad esprimere la volontà che il trattato sia eseguito ed applicato all’interno dello Stato, senza
riformularne le norme ma rimettendo all’interprete interno la ricostruzione e l’interpretazione delle
norme medesime. L’ordine di esecuzione è formulato:” piena ed intera esecuzione è data al trattato
x” ed è accompagnato dalla riproduzione del testo.
L’ordine di esecuzione è di solito dato con legge ordinaria. Normalmente la stessa legge che
autorizza la ratifica del trattato da parte del Capo dello Stato, contiene la formula della “piena ed
intera esecuzione”. In questo modo l’ordine di esecuzione può precedere l’entrata in vigore
dell’accordo, che a seconda della natura dell’accordo, si verifica al momento dello scambio delle
ratifiche o al deposito di un certo numero di ratifiche. Ciò non ha importanza, essendo l’ordine di
esecuzione un procedimento che subordina l’applicazione della norma internazionale alla effettiva
esistenza di questa in quanto norma internazionale, esistenza che dovrà essere accertata
dall’interprete.
II.
Valore del trattato in mancanza dell’ordine di esecuzione
Il problema può sorgere nel caso dei trattati stipulati in forma semplificata e in tutti i casi in cui un
accordo vincoli sul piano internazionale l’Italia, ma non si sia provveduto ad eseguirlo all’interno.
La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non
abbia valore per l’ordinamento interno. A questo accordo, valido comunque sul piano
internazionale, può essere assegnata una funzione ausiliaria sul piano interpretativo. A fini
interpretativi può anche essere utilizzato un trattato internazionale la cui ratifica sia stata autorizzata
dal Parlamento, ma che non sia entrato in vigore o non sia entrato in vigore per l’Italia.
III.
Trattati e legislazione ordinaria
Fino all’entrata in vigore di una legge del 2003 che ha modificato il tit.V parte II Costituzione, si
doveva ritenere che per quanto riguarda i rapporti tra norme convenzionali e norme di altre leggi
ordinarie, essi fossero in tutto e per tutto rapporti tra norme di pari rango, regolati quindi dal
principio per cui la legge posteriore abroga l’anteriore e la speciale prevale sulla generale.
Detta legge, ha innovato la materia, stabilendo che la legislazione statale deve esercitarsi nel
rispetto dei vincoli internazionali, sancendo così una prevalenza degli obblighi internazionali sulla
legislazione ordinaria.
L’intervento della Corte dovrebbe quindi essere eccezionale. Anzitutto, se la legge di esecuzione
della convenzione è posteriore, non si vede perché l’interprete non debba applicarla in luogo di una
legge interna, in virtù del principio che la norma posteriore abroga l’anteriore.
Criticabile è la sentenza 39 del 2008 che sostiene la necessità di ricorrere alla Corte anche nel caso
di una legge di esecuzione posteriore.
La giurisprudenza sia italiana che straniera ha poi fatto spesso ricorso alla presunzione di
conformità delle norme interne al diritto internazionale, in base alla quale si ritiene che, se la legge
posteriore è ambigua o se comunque lascia adito a più interpretazioni, tra cui una conforme alla
norma internazionale, essa va interpretata in modo da consentire allo Stato il rispetto degli obblighi
internazionali assunti in precedenza.
La prevalenza del trattato è stata anche assicurata considerando il trattato come diritto speciale
ratione materiae o prersonarum. Questo criterio non sempre è applicabile, ben potendo una legge
interna regolare una materia più specifica rispetto al trattato internazionale.
Importante è anche la prassi seguita dalle Corti italiane, americane e svizzere secondo cui il trattato
prevale se manca una chiara indicazione della volontà del legislatore di contravvenire al trattato,
ossia se il legislatore contravviene con piena conoscenza di causa.
Occorre convincersi del fatto che il trattato finisce con l’essere sorretto nell’ambito
dell’ordinamento interno da una duplice volontà normativa:
- da un lato la volontà che certi rapporti siano disciplinati così come li disciplina la norma
internazionale
- dall’altro la volontà che gli impegni assunti verso altri stati siano rispettati.
Occorre dunque per far prevalere sul piano meramente interpretativo, una legge posteriore ad un
trattato, che entrambe le volontà siano annullate: occorre che la norma posteriore riveli
- non solo e non tanto la volontà di disciplinare in modo diverso gli stessi rapporti
- ma anche la volontà di ripudiare gli impegni internazionali già contratti.
Ne consegue che una abrogazione o modifica delle norme di adattamento al trattato per semplice
incompatibilità con una legge posteriore non è ammissibile. Non è ammissibile che l’interprete
ricavi l’abrogazione o la modifica da una legge successiva che adotti una disciplina diversa.
IV.
Trattati e norme costituzionali
Circa i rapporti tra le norme che nell’ordinamento interno si formulano in virtù di leggi di
esecuzione (trattati) e la Costituzione, non vi è alcun motivo per discostarsi dai principi relativi all
gerarchia delle nostre fonti.
Le norme pattizie immesse potranno essere sottoposte a controllo di costituzionalità ed
eventualmente anche annullate.
Le sentenze 348 e 349/2007 la Corte ha affermato che in virtù del novellato art.117 Cost, le norme
pattizie introdotte nell’ordinamento interno sono superiori alla legge. Ciò non significa che a loro
volta siano non siano soggette al controllo di costituzionalità ed espunte dall’ordinamento italiano
se in contrasto con norme costituzionali.
In altri termini le norme pattizie assumono così la forza propria delle norme interposte (tra legge
ordinaria e Costituzione) essendo parametro di costituzionalità delle leggi e avendo rango inferiore
alla Costituzione.
Sentenza 264/2012 la Corte si è rifiutata di considerare incostituzionale una legge italiana in materia
di cumulo di trattamenti pensionistici per il lavoro prestato in Italia e in Svizzera, legge considerata
dalla Corte EDU contraria alle CEDU.
È bene evidenziare come nel caso in esame la Corte costituzionale non si sia spinta al punto di
chiarare la illegittimità della disposizione convenzionale, limitandosi piuttosto ad escluderne
l’idoneità a fungere da parametro di costituzionalità della legge italiana.
Contro-limiti
La rivendicazione della Corte costituzionale del suo controllo di costituzionalità sui trattati non
ostante art. 117 Cost è qualificata come teoria dei controlimiti.
Se da un pdv formale le leggi di esecuzione dei trattati sono sempre subordinate alla Costituzione,
la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti la
materia costituzionale ed in particolare alle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, come
ausilio interpretativo di singoli articoli della Costituzione.
V.
Adattamento agli atti delle organizzazioni internazionali
L’adattamento ad un trattato implica anche l’adattamento alle eventuali fonti da esso previste?
Può darsi anzitutto, che il trattato preveda espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli
organi all’interno degli Stati membri.
In tal caso, l’immissione automatica delle norme prodotte dagli organi non può neppure essere
messa in dubbio.
Quando poi il trattato istitutivo dell’organizzazione nulla dispone in merito, il problema va risolto
interamente alla luce dell’ordinamento interno.
In realtà ciò che può ricavarsi dal trattato è la volontà, e l’aspettativa, che le decisioni vincolanti
degli organi siano rispettate ed eseguite. Come poi il singolo Stato provveda ad attuare l’esecuzione
è problema che attiene all’ordinamento interno.
Ciò premesso occorre riconoscere che la prassi italiana, è orientata nel senso dell’adozione di
singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione di organo internazionale vincolante l’Italia. Questi
atti sono talvolta leggi, decreti legislativi o regolamenti amministrativi.
Una simile prassi non appare decisiva per concludere che, prima dell’emanazione degli specifici atti
di adattamento, le decisioni degli organi internazionali non abbiano valore per l’ordinamento
italiano. Sembra invece, che l’ordine di esecuzione del trattato istitutivo di una organizzazione, in
quanto copre anche la parte del trattato che prevede la competenza di quella organizzazione ad
emanare decisioni vincolanti, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica.
D’altro canto, non mancano esempi di norme internazionali che hanno sicuramente vigore da noi in
virtù di procedimenti speciali di adattamento e che pur tuttavia formano oggetto di successivi
procedimenti ordinari. Ad es: norme consuetudinarie in tema di mare territoriale.
La tesi qui sostenuta non è criticabile dal pdv costituzionale. Non sono infatti accettabili certe
posizioni rigide di una parte della dottrina, secondo cui una legge ordinaria non potrebbe
legittimamente ordinare pro futuro l‘osservanza in Italia degli atti emessi dall’organizzazione.
Questa dottrina non tiene conto che in tal modo finisce per condannare tutte le norme di legge
ordinaria che rinviano ad ordinamenti stranieri o estranei (es: diritto internazionale privato).
Attribuire alla Costituzione la volontà di una simile chiusura verso l’esterno è un controsenso.
Possiamo di fatti ricorrere all’art.11 secondo cui l’Italia consente alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e giustizia tra le Nazioni.
Nel nostro Paese si è fatto leva a tal fine sull’art.11 Cost, che stabilisce che l’Italia consente in
condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo.
II.
Come ha luogo l’adattamento ai trattati dell’Unione ed ai vari atti della legislazione comunitaria?
A tutti i Trattati succedutisi nel tempo si è dato sempre esecuzione con legge ordinaria. Per effetto
dell’ordine di esecuzione automaticamente acquistano la stessa forza le norme dei regolamenti.
Art. 288 TFUE espressamente prevede che i regolamenti siano direttamente applicabili in ciascuno
degli Stati membri, e dato che l’ordine di esecuzione copre l’art.288.
Regolamenti incompleti
La diretta ed automatica applicabilità dei regolamenti riguarda la forza formale dei regolamenti
medesimi. Significa che tutti i regolamenti acquistano tale forza, e possono creare diritti ed obblighi
all’interno del nostro Stato, indipendentemente da provvedimenti di adattamento ad hoc.
Ciò non significa che tutti i regolamenti siano self-executing, anche per quanto riguarda il loro
contenuto.
Al contrario, vi sono regolamenti che nascono incompleti ed abbisognano comunque per poter
produrre i loro effetti, di atti statali di esecuzione.
III.
Adattamento alle direttive e alle decisioni comunitarie
Sempre con riguardo al come l’ordinamento italiano si conforma al diritto dell’Unione, resta da
stabilire quali principi regolano l’esecuzione degli altri due tipi di atti comunitari vincolanti,
direttive e decisioni.
Per molto tempo l’opinione più diffusa è stata che la diretta applicabilità dei soli regolamenti. Le
direttive e decisioni non siano automaticamente applicabili in virtù della legge di esecuzione dei
Trattati, ma necessitino in ogni caso di atti di adattamento ad hoc.
Nella prassi, simili atti assumono veste di legge, decreto legislativo, decreto legge o atto
amministrativo. La tecnica che essi seguono è quella propria del procedimento ordinario di
adattamento. La norma della direttiva o della decisione quindi, non è oggetto di mero rinvio, ma
viene integralmente riformulata.
Regolamenti, direttive e decisioni, sono tutti sullo stesso piano per quanto concerne la loro diretta
applicabilità. L’emanazione di atti interni di esecuzione è necessaria solo quando il regolamento, la
direttiva o la decisione sono incompleti. La direttiva, essendo incompleta per definizione, può
produrre immediatamente solo gli effetti conciliabili con l’obbligo di risultato.
a) Quando i giudici interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie
oggetto di una direttiva, tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello
scopo della direttiva stessa.
c) Quando la direttiva impone allo Stato un obbligo, sia pure di risultato, ma non implicante
l’emanazione di atti di esecuzione ad hoc e comunque incondizionate e sufficientemente
preciso dal pdv sostanziale, gli individui possono invocarla innanzi ai giudici nazionali per
far valere gli effetti che essa si propone.
Secondo la Corte imponendo la direttiva, obblighi allo Stato, essa può essere invocata solo contro lo
Stato o altri organismi incaricati di pubbliche funzioni (effetti verticali) e non nelle controversie
degli individui tra loro (effetti orizzontali).
d) Nel caso di direttive che fissano un termine per la loro esecuzione nel diritto interno, lo
Stato, che non ha vincoli fino alla scadenza del termine, ha però l’obbligo di non adottare
disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto.
e) La diretta applicabilità caratterizza anche le direttive che impongono allo Stato obblighi
procedurali. La Corte ha così stabilito che il mancato rispetto dell’obbligo di informare la
Commissione UE sull’adozione di determinate norme nazionali, previsto da una direttiva,
per dar modo alla stessa Commissione di pronunciarsi e eventualmente chiederne la
modifica, comporta la disapplicazione delle norme nazionali in questione.
La Corte di giustizia finisce con il prendere una serie di posizioni che rendono incerto il confine tra
diretta applicabilità e no. Ci sia auspica che la Corte pervenga a conclusioni di maggiore certezza,
cosa che può accadere se essa decida puramente di abbandonare la limitazione dell’applicabilità agli
effetti verticali.
Tale limitazione è frutto di un’interpretazione letterale del 288 TFUE e confonde lo Stato come
soggetto di diritto internazionale, che è il destinatario della direttiva, e lo Stato come soggetto del
proprio orientamento interno.
Quindi, o si esclude che la direttiva penetri nell’ordinamento statale e allora non sarà invocabile in
nessun caso, o la penetrazione viene ammessa e allora diviene invocabile da tutti e contro tutti.
Ipotesi di diretta applicabilità si possono ricavare dalla giurisprudenza interna, tenendo presente le
caratteristiche della direttiva. Si può ad es. ritenere che qualora la direttiva tocchi una materia
lasciata dal diritto interno alla discrezionalità della PA, la sua inosservanza da parte di quest’ultima
possa essere invocata come causa di eccesso di potere.
Risarcimento del danno provocato ai singoli dalla non attuazione delle direttive
f) Dobbiamo accennare ad un effetto che la Corte di giustizia riconosce alle direttive non
direttamente applicabili che restino inattuate e quindi comportino una violazione de diritto
comunitario. Tale effetto consiste nel diritto dei singoli colpiti dalla violazione di chiedere il
risarcimento del danno subito, purchè si tratti di violazione di norme che attribuiscano loro
dei diritti e vi sia un nesso di causalità tra l’inattuazione e il danno.
IV.
Adattamento agli accordi conclusi dall’UE
Efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi anche agli accordi conclusi
dall’Unione con Stati terzi, nei limiti in cui tali accordi contengano norme complete, ossia norme
che non siano destinate ad essere completate da atti degli organi dell’Unione.
Anche in questo caso vale il principio secondo cui l’adattamento ad un trattato implica l’automatico
adattamento agli atti che il trattato medesimo considera come vincolanti.
V.
Rango delle norme comunitarie nel diritto interno: Rapporti con le leggi ordinarie
In merito la nostra Corte costituzionale ha cambiato più volte opinione. Oggi la Corte non solo
ritiene che il diritto comunitario direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, ma sostiene
anche che qualsiasi giudice o organo amministrativo debba disapplicare le leggi dello Stato nel caso
di conflitto con una norma comunitaria direttamente applicabile.
Tutto ciò discenderebbe dall’art 11Cost. il quale riconoscerebbe che il diritto interno e il diritto
comunitario devono coordinarsi secondo il principio della prevalenza del secondo sul primo.
In precedenza, la tesi affermata dalla Corte era che le leggi contrarie a norme comunitarie
direttamente applicabili concretassero una violazione dell’art.11 e fossero pertanto
costituzionalmente illegittime.
Da un pdv teorico ci si trova di fronte ad una costruzione estremamente fragile, come dimostra il
fatto che la nostra Corte ha letto nell’art 11, cose diverse in tempi diversi.
In realtà né i lavori preparatori, né la lettera dell’art.11 avallano la tesi della Corte: tutto ciò che si
può ricavare da questa norma è che le decisioni vincolanti delle organizzazioni internazionali
possono aver efficacia da noi anche senza atti di esecuzione ad hoc. Il volerne dedurre un criterio di
coordinamento tra norme internazionali e norme interne nel senso di una prevalenza formale e
assoluta delle prime sulle seconde, è cosa assai dubbia e poco convincente.
Dal pdv pratico, il discorso è diverso. La presa di posizione della Corte costituzionale va valutata
infatti con soddisfazione. La soddisfazione nasce dal fatto che abbiamo sempre sostenuto che la
prevalenza dovesse essere opera dell’interprete.
Questo in base al principio di specialità dei trattati, di tutti i trattati introdotti nell’ordinamento
italiano.
Nel quadro dei rapporti tra leggi interne e diritto dell’UE va inserito anche l’art 117 Cost. novellato
nel 2001. Esso impone al legislatore anche il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario.
VI.
Rapporti con le norme costituzionali
Il problema in particolare consiste nello stabilire se le norme dei Trattati e la legislazione
dell’Unione possano essere sottoposte a controllo di costituzionalità, come gli altri trattati
internazionali.
In uno scritto del Conforti del 1966 si affermava che la partecipazione dello Stato alle Comunità
europee non potesse di per sé comportare la rinuncia a priori ad ogni difesa dei principi
costituzionali che presiedono alla vita della comunità nazionale. Si diceva anche che il diritto
comunitario non dovesse pertanto sfuggire al controllo della nostra Corte costituzionale così come
non vi sfugge il comune diritto dei trattati.
Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana ha finito per assestarsi su posizioni
europeistiche. Ha stabilito:
- Che l’ordine comunitario, legittimamente instaurato dal pdv della Costituzione italiana dato
il consenso alle limitazioni di sovranità ex art 11, e l’ordine interno, costituiscono due
sistemi distinti anche se coordinati
- Che le norme comunitarie debbono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione
in tutti gli Stati membri
- Che l’ordinamento comunitario risulta caratterizzato da un proprio complesso di garanzie
statutarie e da un proprio sistema di tutela giuridica
- Che, appartenendo i regolamenti all’ordinamento comunitario, si sottraggono a controllo di
legittimità costituzionale, limitato dall’art 134 alle leggi e atti aventi forza di legge dello
Stato e delle Regioni.
Un’evoluzione simile ha subito la giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca, la quale dopo
aver più volte dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei diritti
fondamentali ha cambiato opinione, promettendo di non controllare più la legislazione comunitaria
finchè la Corte di giustizia UE assicurerà in linea generale una protezione effettiva dei diritti
fondamentali.
CAPITOLO XLII
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO INTERNAZIONALE E LE COMPETENZE DELLE
REGIONI
I.
Quando il diritto internazionale o dell’UE interferiscono in materie che in Italia sono oggetto di
legislazione regionale, si pone il problema del coordinamento tra norme internazionali e norme
statali di adattamento, da un lato, e norme regionali dall’altro.
All’inizio le competenze regionali furono compresse in misura assai larga. Nella dottrina e nella
prassi, si riteneva che la competenza ad immettere il diritto internazionale e comunitario nel nostro
ordinamento, a dargli in altre parole forza formale, dovesse essere da noi solo il Potere centrale.
Tale opinione era sostenuta anche dalla Corte costituzionale, secondo cui era incontrovertibile il
principio che affida allo Stato l’esecuzione all’interno degli obblighi assunti in rapporti
internazionali con altri Stati.
Oggi la situazione però è diversa.
II.
Il rispetto degli obblighi internazionali come limite alle competenze regionali
Un principio applicato e valido è quello del rispetto, da parte delle Regioni, degli obblighi
internazionali. Questo è espressamente sancito in alcuni Statuti regionali ed è stato considerato
come implicito, anche negli statuti che non ne fanno menzione.
È espresso dall’art.117 Cost, che obbliga il legislatore regionale al rispetto dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
III.
Competenza delle Regioni ad eseguire le norme internazionali nelle materie di loro spettanza
All’inizio, negli anni ’70, la Corte costituzionale aveva addirittura ritenuto che, rientrando i rapporti
internazionali e comunitari nella materia degli affari esteri, solo lo Stato potesse procedere alla loro
attuazione in Italia, l’unica possibilità lasciata alle Regioni restando quella di agire per delega degli
organi statali.
Via via poi, fino alla modifica del 117 Cost, si è avuta sempre una maggiore apertura verso le
competenze delle Regioni da parte della Corte costituzionale.
La Corte ha finito con il riconoscere alle Regioni la competenza autonoma ed originaria a
partecipare all’attuazione del diritto internazionale nonché comunitario direttamente applicabile,
riservando anche l’attuazione diretta delle direttive alle Regioni a statuto speciale.
Già all’epoca della Società delle Nazioni vari tentativi di codificazione furono fatti sia ad opera di
istituzioni scientifiche sia in seno alla società stessa.
Dal 1953 la CDI ha poi intrapreso lo studio dell’argomento, ma un progetto definitivo di
codificazione ha visto la luce solo nel 2001. Solo nel 1996 la Commissione approvò un progetto
provvisorio di articoli.
Il progetto del 2001 si occupa in 59 articoli, sia degli elementi dell’illecito sia delle sue
conseguenze.
Una caratteristica fondamentale del Progetto della CDI è quella di considerare i principi sulla
responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi norma internazionale.
Tutti i precedenti tentativi di codificazione si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel
quadro delle norme sul trattamento degli stranieri.
Solo in tema di responsabilità dello Stato per danni arrecati agli stranieri nel suo territorio, esisteva
infatti una prassi abbondante ed omogenea, basata sul principio di responsabilità aquiliana, secondo
cui chi cagiona ad altri un danno è tenuto a risarcire.
Al contrario, quando si cerca di ricostruire un regime di responsabilità che abbracci tutte le possibili
violazioni del diritto internazionale, si va incontro a serie difficoltà.
I-bis.
Responsabilità delle organizzazioni internazionali
Sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali, la CDI ha approvato definitivamente nel
2011 un Progetto di articoli redatto per larga parte dal Relatore Gaia, progetto che per l’appunto si
conforma per la maggior parte alle regole codificate in tema di responsabilità degli Stati.
Gli articoli 58-63 del Progetto di occupano del tema dei rapporti tra responsabilità
dell’organizzazione e responsabilità dei suoi membri.
Sono regole ispirate in linea generale al principio dell’autonomia della responsabilità delle
organizzazioni.
Art. 17: prevede la responsabilità dell’organizzazione qualora questa, per sfuggire ad un suo
obbligo internazionale, induca, con decisione vincolane, uno o più membri a compiere un atto
illecito, e ciò anche se il comportamento così imposto non sia illecito per il membro
Art. 40: secondo cui i membri qualora lo statuto dell’organizzazione lo preveda, devono prendere
tutte le misure necessarie per dotare l’organizzazione dei mezzi per far fronte alle conseguenze
dell’illecito da essa commesso
Art. 62: il membro è responsabile per un atto illecito dell’organizzazione, presumibilmente a titolo
sussidiario, quando abbia accettato tale responsabilità o abbia indotto la vittima dell’illecito a farvi
affidamento.
II.
Elemento soggettivo dell’illecito: comportamento di uno o più organi statali
Data la coincidenza tra lo Stato come soggetto di diritto internazionale e lo Stato-organizzazione, è
ovvio che il fatto illecito consiste anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali,
comprendendo tutti coloro che partecipano dell’esercizio del potere di governo.
Sono solo gli organi statali, con i quali si identifica lo Stato, i possibili autori delle violazioni
internazionali.
Anche il Progetto:
Art.2: indica come elementi del fatto illecito un comportamento (azione o omissione) attribuibile
allo Stato e consistente in una violazione di un obbligo internazionale dello Stato.
Nel commento al Progetto si sottolinea la difficoltà che può incontrarsi nello stabilire se persone
che non sono organi dello Stato sono sottoposti ad un controllo da parte di quest’ultimo tale da
comportarne la responsabilità per le loro azioni.
Particolari difficoltà si incontrano nella materia di cui art.8, secondo il quale sono attribuibili allo
Stato comportamenti di persone o gruppi di persone che agiscono di fatto in base ad istruzioni
oppure sotto la direzione o controllo dello Stato.
Il caso più importante è quello di gruppi armati irregolari che agiscono con il sostegno di uno Stato
contro un altro Stato.
Vi sono due sentenze importanti della CIG nel 1986 e 2007. In entrambe la Corte ha dato
un’interpretazione restrittiva della nozione di controllo.
Prima: ha ritenuto che non esistessero gli estremi per considerare come responsabili gli Stati Uniti
per le operazioni dei contras contro il governo del Nicaragua.
Seconda: anzitutto ha specificato che non sono imputabili ad uno Stato singole azioni armate che
non è dimostrato si siano svolte sotto il suo controllo effettivo o in base a sue istruzioni. Per questo
motivo ha escluso la responsabilità della Serbia per il genocidio perpetrato a Sebrenica nel 95.
Un’estesa casistica nella materia dell’attribuzione allo Stato di illeciti da parte di persone che in
qualche modo partecipano dell’esercizio del potere di governo anche senza essere organi dello Stato
è contenuto anche nel vecchio Progetto.
La Commissione attribuì all’Iran l’illecita detenzione dei diplomatici statunitensi nell’ambasciata
americana a Teheran da parte degli studenti islamici, nel 1979, a partire dal momento in cui il
Governo iraniano approvò ufficialmente l’azione degli studenti.
Illeciti derivanti da atti legislativi
Sebbene in linea astratta sia vero che qualsiasi organo possa impegnare la responsabilità dello Stato,
tale possibilità in concreto si trova limitata a causa del contenuto che di solito le norme
internazionali hanno.
Il diritto internazionale non prende in considerazione l’astratta possibilità degli Stati di indirizzare
comandi agli individui se essa non si accompagna alla concreta possibilità che tali comandi siano
attuati.
Se così è, la violazione di norme internazionali attraverso la semplice emanazione di leggi o altre
norme a portata astratta è scarsamente ipotizzabile. Se si ha riguardo alla prassi in tema di
responsabilità, ci si rende conto che infatti il contenzioso internazionale, ha per oggetto questioni
concrete.
Può darsi che una legge contenga un provvedimento concreto e concretamente attuabile, di
conseguenza la sua emanazione potrebbe costituire fatto illecito internazionale.
Un tema non affrontato dal progetto è quella della successione fra Stati nella responsabilità: se lo
Stato commette un illecito e poi sul suo territorio si forma o installa, un altro Stato, chi risponde
degli illeciti del predecessore?
III.
C.d. responsabilità dello Stato per atti privati
Se l’illecito internazionale è opera degli organi statali, è esclusa la possibilità che allo Stato sia
addossata una responsabilità per atti di privati che arrechino danni a individui, organi o Stati
stranieri.
A configurare una responsabilità dello Stato in questi termini preveniva la vecchia teoria germanica
della solidarietà di gruppo, in base alla quale il gruppo doveva ritenersi come responsabile per le
azioni dannose dei suoi membri.
La teoria fu abbandonata da Grozio, in favore della dottrina della patientia o del receptus, limitante
la responsabilità dello Stato ai soli casi di tolleranza delle azioni compiute da privati nel proprio
territorio.
Oggi si ritiene che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure atte a prevenire
l’azione o a punirne l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi organi.
Il discorso è diverso per i casi in cui lo Stato sembra rispondere anche quando non ha commesso
alcun illecito.
Caso Tellini
Riguardo al ricorso al principio della solidarietà di gruppo, si cita l’atteggiamento dell’Italia nel
caso dell’assassinio del generale Tellini, avvenuto nel 1923 in Grecia. Tellini era membro di una
commissione incaricata di delimitare la frontiera tra Grecia e Albania, e l’Italia fascista, sostenendo
l’automatica responsabilità dello Stato greco, reagì contro l’assassinio con una rappresaglia armata
contro Corfù.
Dopo qualche tempo, il Consiglio della Società delle Nazioni, approvò la tesi che la responsabilità
dello Stato per crimini politici sul suo territorio sorga solo quando lo Stato ha mancato di prendere
tutte le misure appropriate in vista della ricerca, arresto e giudizio del criminale.
II.
Cause escludenti l’illiceità
1. Consenso Stato leso
Una prima causa è costituita dal consenso dello Stato leso. Art.20: il consenso validamente dato da
uno Stato alla commissione di un altro Stato di un fatto determinato, esclude l’illiceità di tale fatto
nei confronti del primo Stato sempre che il fatto rientri nei limiti del consenso.
Questa norma trova ampio riscontro nella prassi internazionalistica ed ha quindi natura
consuetudinaria.
Il consenso dello Stato leso viene configurato da parte della dottrina come vero e propri accordo tra
lo Stato autorizzante e Stato autorizzato a sospendere un obbligo preesistente.
Vero è che, anche se apparentemente si presenta come accordo, la causa di esclusione dell’illiceità è
sempre sostanzialmente un atto unilaterale.
L’art.20 va letto in combinazione con il 26, che fa salvo il rispetto delle norme di jus cogens. Il
consenso dello Stato leso, anche come atto unilaterale, non può violare una norma imperativa,
essendo l’inderogabilità dello jus cogens assoluta.
2. Autotutela
Una delle più importanti cause di esclusione dell’illiceità è costituita dall’autotutela ossia dalle
azioni che sono dirette a reprimere l’illecito altrui e che, per tale loro funzione, non possono essere
considerate come antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme internazionali.
Di questo si occupano gli artt. 21 (legittima difesa) e 22 (contromisure, rappresaglie).
3. Forza maggiore
Art.23: consiste nel verificarsi di una forza irresistibile o un evento imprevisto, al di là del controllo
dello Stato, che rende materialmente impossibile adempiere l’obbligo.
4. Stato di necessità
È controverso se per il diritto internazionale, lo stato di necessità, ossia l’aver commesso il fatto per
evitare un pericolo grave, possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità.
Nessuno dubita che la necessità possa essere invocata quando il pericolo riguardi la vita
dell’individuo-organo che abbia commesso l’illecito o degli individui a lui affidati. (distress), come
nell’esempio classico della nave che si rifugia in porto straniero per sfuggire alla tempesta.
Art.25: lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un
atto non conforme ad un obbligo internazionale se non quando l’atto:
- Costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed
imminente
- Non leda gravemente un interesse essenziale dello Stato o Stati nei confronti dei uali
l’obbligo sussiste
In ogni caso la necessità non può essere invocata:
- Se l’obbligo internazionale esclude la possibilità di invocare la necessità
- Se lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione di necessità.
In realtà una volta bandito dal diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le sue
manifestazioni, inclusi i c.d. interventi umanitari o a protezione dei propri cittadini all’estero, gli
spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a poco.
Né bisogna confondere il ricorso alla necessità con l’applicazione di singole e specifiche norme, che
all’idea di necessità di ricollegano: in particolare le norme di diritto internazionale marino, che
autorizzano un eccezionale esercizio funzionale della potestà di governo, come es. la norma sugli
interventi su navi altrui in caso di pericolo di catastrofi o danni gravi di natura ecologica.
Occorre riconoscere che questa tesi non trova riscontro nel Progetto, ma urta contro l’art 32,
secondo cui il diritto internazionale non può avere alcuna influenza sulle conseguenze dell’illecito
internazionale. Urta anche con il 27 Conv. Vienna 1969, che esclude che il diritto interno possa
essere invocato a giustificazione dell’inosservanza delle norme pattizie.
XLV
GLI ELEMENTI CONTROVERSI: LA COLPA E IL DANNO
I.
Responsabilità per colpa
Si ha quando si richiede che l’autore dell’illecito abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente
(dolo) o almeno con negligenza, ossia trascurando di adottare le misure necessarie per impedire
l’evento dannoso.
Questi sono i connotati tipici della responsabilità extracontrattuale o aquiliana
Sosteneva Anzilotti, che la diligenza costituisce il contenuto stesso della norma violata, proprio
perché la colpa non è in questo caso un elemento che si aggiunga alla violazione, la responsabilità è
sempre oggettiva.
Sembra invece che la colpa, in tutti i casi in cui è richiesta, altro non sia che un elemento della
fattispecie prevista dalla norma materiale. Tale sua natura non verrebbe meno neppure quando essa
sia richiesta da una norma generale ad hoc.
Dunque, quando la colpa è richiesta e non c’è, non è neppure configurabile una violazione della
norma. Quindi, la mancanza di colpa, qualora richiesta, non esclude solo la responsabilità dello
Stato, ma fa venir meno la stessa illiceità della condotta.
Quindi la colpa è un elemento, una condizione dell’illecito
La responsabilità art.2 non solo è assoluta, ma sembra anche una forma eccezionale di
responsabilità da atti illeciti, dato che lo Stato è chiamato a rispondere anche per fatti a lui non
imputabili.
Va notato che la forza maggiore e l’impossibilità di esecuzione sono state talvolta eccepite dagli
Stati membri dell’UE dinnanzi alla Corte di Giustizia UE per giustificare l’inosservanza di norme
comunitarie. La Corte ha sempre respinto l’eccezione.
Ha ad es escluso che si potesse considerare forza maggiore il fatto che il Potere esecutivo non fosse
riuscito ad ottenere dal Parlamento l’approvazione di una legge conforme al diritto comunitario, o il
fatto che il Parlamento fosse in vacanza nel periodo estivo o fosse stato sciolto anticipatamente.
II.
Danno
Altra questione controversa è se elemento dell’illecito sia il danno materiale o morale. La CDI ha
preso una posizione negativa al riguardo già in passato, in vista del fatto che ci sono oggi norme d
diritto internazionale la cui inosservanza da parte di uno dei loro destinatari è sentita come un
illecito nei confronti di tutti gli altri anche quando un interesse diretto e concreto di questi ultimi
non sia stato leso.
CAPITOLO XLVI
LE CONSEGUENZE DEL FATTO ILLECITO INTERNAZIONALE
L’AUTOTUTELA INDIVIDUALE E COLLETTIVA
LE ECCEZIONE ALL’USO DELLA FORZA IN AUTOTUTELA
I.
Inquadramento delle conseguenze dell’illecito
L’opinione oggi più diffusa è che le conseguenze dell’illecito consistano in una nuova relazione
giuridica tra Stato offeso e Stato offensore, discendente da una norma apposita, la c,d, norma
secondaria contrapposta alla norma primaria, ossia alla norma violata.
Secondo l’Anzilotti le conseguenze del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello
Stato offeso di pretendere, e nell’obbligo dello Stato offensore di fornire un’adeguata riparazione.
Diritto e obbligo costituirebbero appunto la norma secondaria.
La riparazione comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo ante sia il risarcimento del
danno o della soddisfazione.
Importante è invece, la tendenza a riportare sotto la norma secondaria, e quindi tra le conseguenze
giuridiche autonome dell’illecito anche i mezzi di autotutela e in particolare le rappresaglie.
Dal fatto illecito discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il
diritto, la facoltà, di ricorrere a contromisure coercitive aventi lo scopo di infliggere una vera e
propria punizione allo Stato offensore. Questa tendenza si è sviluppata con l’Ago.
Da questo quadro si discosta una corrente di pensiero che fa capo a Kelsen. Egli muove da una
critica dell’impostazione anzilottiana, rilevando l’inutilità di una costruzione delle conseguenze
dell’illecito in termini di diritti e obblighi: una costruzione del genere condurrebbe oltre tutto ad un
regresso all’infinito, dato che la violazione dell’obbligo di riparare, produrrebbe un altro obbigo di
riparare e così via.
Secondo Kelsen l’illecito avrebbe come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle miksure di
autotutela, mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe in ultima analisi dalla
volontà dello Stato offeso e dello Stato offensore di evitare l’uso della coercizione.
Sembra però che se si bada a quanto normalmente avviene nella prassi, in occasioni di violazioni
del diritto internazionale, la posizione di Kelsen, che pure non è da condividere fino alle sue
conseguenze estreme, contiene molti elementi di verità.
La fase patologica del diritto internazionale, è una fase poco normativa, ed a caratterizzarla sono le
reazioni, imperfette, affidate allo stesso soggetto leso, contro l’illecito.
Nella realtà le reazioni, le misure di autotutela, non hanno come scopo quello di punire. Esse sono
fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato ossia a far cessare l’illecito e a
cancellarne ove possibile, gli effetti.
Quanto all’obbligo della riparazione, è eccessivo riportarne in tutto e per tutto il fondamento, come
fa Kelsen, ad un accordo tra gli Stati interessati.
Per quanto riguarda l’unica altra forma di riparazione che abbia rilevanza pratica, il risarcimento del
danno, non si può negare che sia prevista da un’autonoma norma di diritto internazionale generale e
tutto ciò che si può concedere alla tesi di Kelsen è che effettivamente, nella determinazione concreta
dell’entità del risarcimento, l’accordo delle parti e la discrezionalità del giudice giocano un ruolo
fondamentale.
II.
Autotutela
La normale reazione quindi, contro l’illecito è l’autotutela, ossia il farsi giustizia da sé. Ciò che nel
diritto interno è eccezionale, è la regola nel diritto internazionale
Divieto della minaccia o dell’uso della forza
A partire dalla IIWW si è fatta strada l’opinione espressa anche dalla CIG secondo cui l’autotutela
non possa consistere nella minaccia o nell’uso della forza, minaccia ed uso essendo vietati dall’art.2
Carta NU e dal diritto consuetudinario.
Per quanto riguarda la dottrina della legittima difesa preventiva, essa è contenuta nella c.d. Dottrina
Bush. Secondo tale documento, la legittima difesa preventiva potrebbe essere esercitata dagli SU
ogni qualvolta si renda necessario per prevenire una minaccia o attacco con armi di distruzione di
massa o atti di terrorismo.
La legalità dell’uso della forza nei casi ora citati ha sempre suscitato l’opposizione di molti Stati e
della dottrina.
In effetti la tesi della legittima difesa, anche nel caso di attacchi terroristici su vasta scala, lascia
assai perplessi, perché si tratta comunque di crimini internazionali individuali, che come tali
andrebbero puniti, senza produrre vittime innocenti.
Proprio in due risoluzioni del Consiglio di sicurezza adottate dopo l’attacco e prima dell’intervento
delle forze NATO, è proprio la lotta al crimine internazionale che viene in rilievo. Non c’è invece in
queste alcuna autorizzazione all’uso della forza. È bensì vero che in entrambe si riconosce il diritto
naturale di legittima difesa individuale e collettiva, in conformità alla Carta delle NU, ma nessuno
potrebbe fondare la legittimità della guerra su delle considerazioni contenute in due risoluzioni.
È stato sostenuto che, se la nozione di legittima difesa è limitata alla risposta ad un attacco armato
da parte di uno Stato contro un altro Stato, determinati casi di uso della forza potrebbero rientrare
comunque in una diversa accezione di autotutela.
Questa tesi trae spunto da quanto si sosteneva fino alla IIWW circa la possibilità che l’autotutela
comprendesse una azione, anche coercitiva, in sostituzione dello Stato colpevole del mancato
controllo del suo territorio. Del resto, la tesi è presentata come un’ipotesi la cui fondatezza attende
ulteriori conferme nella prassi e per tanto essa ha un indubbio valore scientifico.
Egualmente come tendenza è presentata la tesi secondo cui lo Stato che tollera nel suo territorio
l’azione di gruppi terroristici sarebbe direttamente responsabile per tale azione. Questa tesi è molto
vicina a quella della c.d. complicità dello Stato nell’illecito commesso da privati.
Non c’è dubbio che il divieto della minaccia o dell’uso della forza abbia come pendant il sopra
accennato sistema di sicurezza collettiva delle NU. Da ciò consegue che, quando la forza è usata su
larga scala, quando si è in presenza di una vera e propria guerra internazionale, e non di un episodio
isolato di uso della forza, c’è da prendere atto che il diritto internazionale, ha esaurito la sua
funzione.
Anche la CIG sembra condividere l’opinione che la sospensione e anche l’estinzione del trattato,
per inadempimento condividano certe condizioni minime, in particolare la connessione tra
inadempimento e reazione al medesimo.
Parte della dottrina ritiene che anche la sospensione non possa configurarsi come contromisura.
Contro la possibilità che un’eventuale inosservanza delle norme sulle immunità diplomatiche possa
essere attuata a titolo di contromisura non è invocabile la sentenza della CIG 1980 nel caso del
personale diplomatico e consolare degli SU a Teheran. La Corte respinge l’argomento adombrato
dall’Iran secondo cui la lunga detenzione dei diplomatici statunitensi in ambasciata americana a
Teheran e la conseguente violazione delle norme sulle immunità sarebbero giustificate a causa dei
crimini perpetrati dagli SU contro il popolo iraniano.
La Corte in realtà si limita ad osservare che l’unico rimedio contro un’ingerenza del genere è
l’espulsione dell’agente diplomatico o al limite, la rottura delle relazioni diplomatiche.
IV.
La legittima difesa come forma di contromisura
Lo scopo afflittivo può anche essere presente nelle reazioni contro l’illecito, ma esso è del tutto
secondario rispetto alla funzione reintegratrice diretta alla cessazione dell’illecito medesimo e alla
cancellazione dei suoi effetti.
Tra le contromisure così intese va annoverata anche l’osservanza del divieto dell’uso della forza nel
caso, (art 51 Carta ONU) e al quale nella dottrina e nella prassi e negli stessi testi ufficiali si dà il
nome di legittima difesa, in cui occorra respingere un attacco armato.
Tutti gli elementi essenziali sono presenti in questa reazione contro il più grave illecito che uno Stat
possa subire. In particolare, come affermato dalla CIG nei casi tra Nicaragua e SU, Iran e SU è
presente il limite della proporzionalità tra attacco subito e contrattacco.
Sproporzionata è stata la reazione nel 2014 di Israele al lancio di missili sul suo territorio da parte di
militanti di Hamas, missili partiti dalla striscia di Gaza. La reazione è consistita in bombardamenti
indiscriminati, con oltre duemila morti. Oltre che sproporzionata questa potrebbe essere anche
definita come un crimine di guerra.
La più gran parte della dottrina tende a distinguere la legittima difesa dalla rappresaglia, ma la
distinzione si fonda su argomenti che sono superati dalle considerazioni svolte sopra. In realtà
proprio il termine legittima difesa è adoperato in modo improprio.
La legittima difesa ha carattere essenzialmente preventivo, e quindi qualificare come tali le azioni
armate aveva senso quando si voleva sottolineare che fosse legittimo prevenire l’aggressione altrui.
V.
Ritorsione
Come specie del genere autotutela va considerata la ritorsione, che si distingue dalla rappresaglia o
contromisura in quanto non consiste in una violazione di norme internazionali, ma in un
comportamento inamichevole, come l’attenuazione o rottura dei rapporti diplomatici.
Si ritiene che la ritorsione non sia una forma di autotutela dato che lo Stato può sempre tenere un
comportamento inamichevole verso un altro Stato anche senza aver subito un illecito.
Vero è che i comportamenti inamichevoli vengono indifferentemente attuati per reagire ad azione di
rilievo politico oltre che a violazioni di diritto internazionale.
Quindi nella ritorsione è difficile separare le motivazioni politiche da quelle giuridiche.
Un altro argomento per ricondurre la ritorsione alla categoria dell’autotutela è fornito dalla prassi in
materia di sanzioni economiche, sanzioni alle quali si ricorre sempre di più per far cessare
violazioni di norme internazionali e norme che non riguardano rapporti economici.
VI.
Autotutela collettiva
Dobbiamo ora chiederci se reazioni di questo tipo possano provenire da Stati che non abbiano
subito alcuna lesione.
Una menzione a parte va fatta al sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di
Sicurezza delle NU. Tale sistema costituisce un sistema sanzionatorio che può funzionare anche per
reagire contro violazioni di norme internazionali.
A senso unico è da considerare la pretesa degli SU di agire contro il Cile al fine di ottenere il
risarcimento del danno per l’assassinio del cittadino cileno Letelier, assassinio di cui il Governo
cileno era ritenuto l’autore in violazione delle norme internazionali sui diritti dell’uomo.
Detta pretesa trovò l’opposizione del governo cileno, il quale alla fine accordò una somma agli
eredi di Letelier, in una convenzione con gli SU.
Una norma consuetudinaria forse si è consolidata solo nel senso di vietare agli Stati la fornitura di
armi e assistenza militare allo Stato autore del crimine.
Art.48: nel caso di obblighi erga omnes, gli Stati non direttamente lesi possono invocare la
responsabilità dello Stato autore dell’illecito, nel senso di pretendere la cessazione dell’illecito e la
sua riparazione nell’interesse dello Stato o beneficiari dell’obbligo violato.
VII.
Disciplina dell’autotutela negli statuti delle organizzazioni internazionali
L’autotutela è istituto del diritto internazionale consuetudinario. Naturalmente lo Stato può
obbligarsi a non ricorrere a misure di autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. Questo tipo di
obblighi sono ricavabili dai trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali.
È da ritenere implicito nel vincolo di solidarietà e collaborazione tra gli Stati membri di qualsiasi
organizzazione l’obbligo di non ricorrere all’autotutela se non come extrema ratio.
Può darsi inoltre che norme limitative dell’autotutela siano espressamente previste.
Es: art. 260 TFUE: demanda esclusivamente alla Corte di giustizia europea il compito di imporre il
pagamento di una somma forfettaria o penalità allo Stato membro il quale abbia compiuto una
violazione del Trattato.
art. 51 Carta: la legittima difesa contro un attacco armato può essere esercitata fintantochè il
Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale.
VIII.
Autotutela e diritto interno
Il tema dell’autotutela ha i suoi riflessi nel diritto statale: l’operatore giuridico interno, prima di
concludere con una determinata legge, atto amministrativo ecc, dovrà chiedersi che questi non si
giustifichino in base allo stesso diritto internazionale in quanto a contromisure.
Un esempio riguarda il tema delle linee di base del mare territoriale, in particolare la chiusura di
baie e golfi. In difformità dal diritto internazionale, molti Stati hanno chiuso golfi e baie di apertura
superiore alle 24 miglia. Di fronte a queste misure uno Stato potrebbe procedere alla chiusura dei
propri golfi e baie facendo salva la reciprocità, ossia escludendo dalla chiusura le navi di quegli
Stati che si attengono alla regola delle 24 miglia.
Reciprocità e ritorsione
La reciprocità spesso costituisce solo il presupposto di concessioni dettate da puri motivi di cortesia:
ad es. se uno Stato accorda l’esenzione fiscale agli agenti diplomatici stranieri per imposte diverse
da quelle dirette personali, a condizione di reciprocità.
Quando la reciprocità costituisce il presupposto di atti di cortesia e quindi può portare a
comportamenti inamichevoli come reazione a comportamenti inamichevoli dello Stato estero, essa
attiene piuttosto alla materia della ritorsione.
CAPITOLO XLVII
LA RIPARAZIONE
I.
Restitutio in integrum
Resta da considerare l’obbligo che incombe sullo Stato autore dell’illecito di riparare il torto
causato. Nella riparazione si fa rientrare l’obbligo della restituzione in forma specifica (restitutio in
integrum) ossia del ristabilimento della situazione di fatto e diritto esistente prima dell’illecito,
sempre che sia possibile.
Come restitutio in integrum vengono considerate la restituzione di persone, cose, navi, documenti,
detenuti illegittimamente, nonché l’esecuzione in forma specifica di obblighi internazionali.
Il dovere di far cessare l’illecito e di cancellarne ove possibile gli effetti appare come un aspetto
dello stesso obbligo violato. Non si considera quindi la restitutio in integrum come oggetto di un
obbligo nuovo prodotto dalla violazione.
Nel senso che i due obblighi siano diversi si pronuncia la sentenza arbitrale nel 1990 tra Francia e
Nuova Zelanda nel caso Rainbow Warrior, nave dell’Organizzazione Greenpeace, danneggiata da
due agenti francesi mentre stazionava nel porto neozelandese di Auckland. Francia e NZ avevano
concluso in precedenza un accordo, in base al quale la Francia avendo riconosciuto il suo
coinvolgimento nell’accaduto, si era impegnata a confinare per 3 anni in Polinesia i due agenti.
Questi erano stati poi fatti rientrare prima per motivi di salute. La sentenza arbitrale doveva
giudicare anche della richiesta della NZ diretta ad ottenere che venisse ordinato alla Francia di
rispettare l’accordo, rinviando i due agenti in Polinesia per il completamento del periodo di confino.
Nella sentenza si ha il coraggio di sostenere per respingere la richiesta che l’obbligo francese di
mantenere al confino i due agenti fosse cessato alla scadenza del triennio dalla data di invio dei due
in Polinesia.
La richiesta NZ poteva configurarsi solo come richiesta di cessazione del fatto illecito e non come
restitutio in integrum.
II.
Soddisfazione
Anche la soddisfazione è considerata una forma di riparazione, precisamente una forma di
riparazione di danni morali, e cioè una forma di riparazione dovuta per il solo fatto che l’illecito sia
stato compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento degli eventuali danni di carattere
patrimoniale.
Si sostiene che, a titolo di riparazione morale, lo Stato offensore sia tenuto a dare soddisfazione allo
Stato leso mediante comportamenti come la presentazione di scuse, omaggio alla bandiera o altri
simboli ecc.
Secondo una tesi, la soddisfazione può anche essere costituita dalla semplice constatazione
dell’avvenuta violazione ad opera di un tribunale internazionale: con ciò non si capisce come si
possa parlare di obbligo di fornire soddisfazione, ove si consideri che nessuno sostiene che l’autore
dell’illecito sia tenuto a sottoporsi al giudizio di un tribunale.
Se si ha riguardo alla prassi contemporanea, si può dire dal pdv giuridico che la presentazione
ufficiale di scuse o di carattere simbolico, se accettati dallo Stato leso, facciano normalmente venire
meno le ulteriori conseguenze del fatto illecito ed in particolare il ricorso ed in particolare il ricorso
a misure di autotutela, soprattutto negli illeciti non gravi.
La soddisfazione va a formare allora il contenuto di una sorta di accordo, espresso o tacito, che
elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato offensore.
Un esempio di presentazione ufficiale di scuse vediamo l’accordo tra Francia e NZ, nel quale si
prevedeva tra l’altro “le scuse formali e senza riserve” da presentarsi dal Primo Ministro francese a
quello neozelandese.
III.
Risarcimento del danno
L’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno prodotto dall’illecito
internazionale. C’è però da chiedersi se l’obbligo di risarcire scaturisca da ogni e qualsiasi
violazione di norme internazionali.
Ancor meno ci sembra che un obbligo di risarcimento scaturisca, dalle guerre di aggressione. Né
bisogna confondere la materia del risarcimento globalmente richiesto agli Stati vinti per il solo fatto
dell’aggressione con la riparazione dei danni prodotti dalla guerra, o in occasione della guerra, ai
cittadini degli Stati vincitori, per quanto riguarda confische ed espropriazioni dei loro beni.
Risarcimento del danno agli Stati e risarcimento del danno agli individui
Va infine avvertito che l’obbligo del risarcimento del danno di cui si è discusso è quello che
riguarda i rapporti tra Stati.
Diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo Stato contraente abbia l’obbligo di risarcire
direttamente gli individui danneggiati dalla violazione del trattato medesimo.
Art.41 CEDU: stabilisce che in caso di una violazione della Convenzione, il diritto interno non
permetta di eliminare le conseguenze della violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla
parte lesa.
CAPITOLO XLVIII
LA C.D. RESPONSABILITA’ DA FATTI LECITI
I.
Responsabilità da attività pericolose ed inquinanti
Si discute se in alcuni casi la responsabilità internazionale, ed in particolare l’obbligo del
risarcimento del danno, possa derivare da atti leciti.
Il settore che soprattutto è preso in considerazione a tal fine è il settore delle attività altamente
pericolose ed inquinanti, come attività delle centrali nucleari, industrie chimiche ecc.
È difficile riuscire a distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza colpa e
quindi dalla responsabilità oggettiva, sia relativa o assoluta.
Ad es. è difficile stabilire, ammesso che lo Stato debba rispondere in base al diritto consuetudinario
delle attività pericolose che si svolgono sul loro territorio, se tale dovere nasca da un fatto lecito
oppure da una norma che impone di non causare danni al territorio altrui con attività pericolose.
Tutto ciò che si può dire è che una responsabilità obbiettiva possa essere qualificata come
responsabilità senza illecito quando lo Stato sia chiamato a rispondere non solo delle attività svolte
dai suoi organi, ma anche delle attività di individui non posti sotto il suo controllo, cioè quando
l’attività che dà luogo alla responsabilità non è ad esso imputabile.
Es. art 2 Convenzione 1972 sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti
spaziali, secondo cui lo Stato di lancio risponde dei danni causati dai suoi oggetti spaziali alla
superficie terrestre o aeromobili in volo.
Si può ora aggiungere che la stessa norma afferma la responsabilità dello Stato anche per lanci non
effettuati direttamente da suoi organi ma dagli individui sul suo territorio o altro spazio soggetto
alla sua sovranità.
CAPITOLO XLIX
IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA PREVISTO DALLA CARTA DELLE NU
I.
Azioni del Consiglio di Sicurezza a tutela della pace
La Carta NU da un lato sancisce il divieto dell’uso della forza nei rapporti internazionali, dall’altro
accentra nel Consiglio di sicurezza la competenza a compiere le azioni necessarie per il
mantenimento dell’ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare ad usare la forza ai fini di
polizia internazionale.
Per quanto riguarda il sistema di sicurezza accentrato esso ha poco e male funzionato fino alla
caduta del muro di Berlino a causa del diritto di veto riconosciuto alle grandi Potenze, della
divisione del mondo in blocchi, della guerra fredda.
A partire dalla guerra del Golfo nel 1991 ha avuto una seconda vita, divenendo l’attività principale
delle NU.
Nel quadro del sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione di una Commissione per
a costruzione della pace, avvenuta nel 2005. Questa è destinata ad occuparsi delle situazioni post-
conflittuali, del ristabilimento di condizioni normali e di sviluppo nei Paesi dove dette situazioni si
verificano ecc.
Ai sensi del cap. VII il Consiglio di sicurezza, accerta anzitutto l’esistenza di una minaccia alla
pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione, e stabilisce poi, quali misure
sanzionatoria non implicanti l’uso della forza, sia implicanti l’uso della forza, debbano essere prese
nei confronti di uno Stato.
Prima di ricorrere a queste misure, può anche invitare le parti a prendere quelle misure provvisorie
che consideri come necessarie al fine di non aggravare la situazione (art.40). Sempre più sesso il
Consiglio, dichiarando di agire in base al cap. VII, ricorre a misure che non trovano fondamento
nelle norme di quest’ultimo.
Discrezionalità del Consiglio di sicurezza
Nell’accertare se sussista una minaccia o violazione della pace o atto di aggressione, il Consiglio
gode di un larghissimo potere discrezionale. La discrezionalità può avere modo di esercitarsi
soprattutto con riguardo all’ipotesi della minaccia alla pace.
In sede di redazione della Carta, a San Francisco, fu da varie parti richiesto che la Carta contenesse
maggiori ragguagli in ordine ai presupposti di applicabilità del cap. VII e che in particolare essa
definisse l’aggressione.
Palese era la preoccupazione che un’ampia discrezionalità dell’organo potesse risolversi a danno
degli Stati eventualmente presi di mira dal Consiglio.
La discrezionalità del Consiglio, art 39, è rimasta integra anche dopo l’adozione di una
Dichiarazione sulla definizione dell’aggressione. Nella Dichiarazione vengono elencate una serie id
ipotesi di aggressione, che vanno dall’invasione o occupazione militare, al bombardamento da parte
di forze aeree, terrestri, navali ecc.
Trattasi di un’elencazione che comunque non incide sull’art 39 e sulle competenze del Consiglio di
Sicurezza.
La grande discrezionalità di cui gode il Consiglio di sicurezza nel decidere se agire a tutela della
pace fa sì che il sistema di sicurezza collettiva, abbia caratteri abbastanza sui generis. Trattasi di un
sistema il cui funzionamento non assicura in ogni caso una sanzione contro violazioni gravi del
diritto internazionale da parte degli Stati contro ad es l’aggressione, genocidio ecc.
Il Consiglio di sicurezza può infatti considerare come minaccia alla pace anche un comportamento
che non leda in alcun modo un interesse fondamentale della comunità internazionale nel suo
complesso.
II.
Esaminiamo le tre fasi attraverso le quali può passare l’azione del Consiglio
a) Le misure provvisorie
Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione (art.40) il Consiglio di sicurezza può invitare le
parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o
desiderabili.
Tali non devono pregiudicare i diritti, le pretese o le posizioni delle parti.
La provvisorietà si ricollega sia allo scopo che dette misure possono perseguire e che è quello solo
di prevenire un aggravarsi della situazione.
Una misura provvisoria tipica in caso di guerra è il cessate il fuoco.
Va anche notato che il più spesso il perdurare della crisi rispetto alla quale le misure erano state
indicate, il Consiglio non è riuscito a passare alle misure sanzionatorie art 41 o azioni armate art42
Si comprende lo scopo che art 42ss perseguono è da un lato quello di garantire l’obiettività e
imparzialità dell’azione, nonché di controllare che questa sia contenuta entro i limiti indispensabili
al mantenimento della pace, dall’altro di togliere qualsiasi iniziativa di carattere militare al singolo
Stato, che non si giustifichi ex art 51, per motivi di legittima difesa individuale o collettiva.
Passando alle modalità con cui il Consiglio di Sicurezza può agire, gli art 43, 44 e 45 prevedono
l’obbligo per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi intesi a stabilire il numero,
grado di preparazione ecc delle forze armate utilizzabili dall’organo.
46 e 47: l’utilizzazione in concreto d vari contingenti nazionali deve far capo ad un Comitato di
Stato maggiore. Quindi presupposto e cardine del sistema sono considerati dalla Carta, gli accordi
speciali da stipularsi tra Stati membri dell’ONU e il Consiglio.
Gli artt 43 ss non hanno ad oggi ricevuto applicazione. Gli accordi per la messa a disposizione del
Consiglio dei contingenti militari nazionali, che secondo il 43, dovevano essere conclusi al più
presto, non hanno mai visto la luce.
Fino ad oggi il Consiglio è intervenuto in crisi internazionali o interne con misure di carattere
militare in due modi diversi, anche cumulandoli.
O ha creato delle forze delle NU (caschi blu) incaricare di operare per il mantenimento della pace o
ha autorizzato l’uso della forza da parte degli Stati membri.
Le prime forze aventi compito di mantenere la pace sono state organizzate all’epoca della guerra
fredda.
La caratteristica principale delle operazioni per mantenere la pace è costituita dalla delega del
Consiglio al Segretario generale in ordine sia al reperimento, attraverso accordi con gli Stati
membri, sia al comando delle forze internazionali.
Normalmente dette operazione sono autorizzate dal Governo locale, e hanno funzione di forze
cuscinetto per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine nel territorio in cui operano e possono
usare le armi solo per legittima difesa.
II-bis
L’impiego delle forze dell’ONU ha finito con il rivelarsi abbastanza impraticabile per una serie di
ragioni politiche, militari ecc. Il Consiglio di Sicurezza è andato sempre più orientandosi, verso
l’impiego diretto di contingenti militari da parte degli Stati membri, sia individualmente sia per il
tramite di organizzazioni regionali.
In due casi vi è stata l’autorizzazione a condurre vere e proprie guerre internazionali. Il primo caso
riguarda la guerra di Corea, nel 1950 quando gli Stati membri furono invitati ad aiutare la Corea del
Sud a difendersi dall’attacco sferrato dalla Corea del Nord.
Il secondo caso riguarda la guerra del Golfo, condotta nel 1991 da una coalizione di Stati membri
autorizzati dal Consiglio ad aiutare il governo kuwaitiano a riconquistare il Kuwait occupato
dall’Iran.
È legittima l’autorizzazione dell’uso della forza agli Stati da parte del Consiglio?
Non sembra che una simile autorizzazione sia inquadrabile negli artt. 42ss.
È accaduto poi che con il passare del tempo, con la constatata inefficienza del sistema di sicurezza
collettiva, si è fatta strada la prassi dell’autorizzazione agli Stati. Ormai il Consiglio tende sempre di
più a seguire tale prassi, sia pur mantenendo un certo controllo sulle operazioni.
Ne consegue che l’autorizzazione agli Stati può considerarsi prevista da una norma consuetudinaria
ad hoc.
II-ter
Talvolta il Consiglio di Sicurezza, dichiarando di agire in base al cap.VII ha organizzato il governo
di territori.
Già nei primi anni di vita delle NU il Consiglio fu chiamato a partecipare al governo di un territorio
oggetto di controversia territoriale. È il territorio libero di Trieste.
Recentemente abbiamo due esempi di governi di territori instaurati dal Consiglio di Sicurezza con
espresso riferimento al cap.VII.
Trattasi dell’UNMIK (Kosovo) e di UNTAET (Timor Est).
Il Consiglio di Sicurezza ha anche svolto un ruolo nella creazione di Tribunali penali c.d. misti,
composti sia da giudici nazionali dello Stato in cui sono insediati, sia da giudici stranieri, di regola
in maggioranza.
Le misure consistenti nel governo, o atti di governo, di territori non trovano un fondamento
espresso nella Carta.
Vari tentativi sono stati fatti per riportarle alla categoria delle misure coercitive previste art. 41 e 42.
La tesi più diffusa a questo riguardo fa leva sull’art 41 ritenendosi che all’applicazione di questo
articolo non faccia ostacolo la circostanza che esso si occupi di comportamenti che il Consiglio di
Sicurezza può richiedere agli Stati.
La tesi non convince in quanto la giurisdizione dei tribunali penali si esercita su individui, laddove
le misure coercitive previste dall’art 41 sono chiaramente misure dirette contro uno Stato o al
massimo contro gruppi armati all’interno di uno Stato. Inoltre queste misure ex 41 sono destinate a
cessare quando la pace e la sicurezza non sono più in pericolo.
Un altro pdv che non convince è quello secondo cui le misure possono trovare fondamento nell’art
24, il quale, attribuendo al Consiglio la responsabilità del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionali, avallerebbe qualsiasi misura purchè necessaria alla messa in atto di detta
responsabilità. La tesi è contraddetta però dallo stesso art 24 che al secondo paragrafo elenca
tassativamente gli specifici poteri attribuiti al Consiglio.
Dobbiamo riconoscere che la prassi del Consiglio ha largamente deviato dalla lettera e dallo spirito
delle norme contenute nel cap. VII. Quindi, non resta che chiedersi se detta prassi abbia dato vita ad
una norma consuetudinaria ad hoc. La risposta pare debba essere positiva.
La mancanza di una qualsiasi opposizione alla partecipazione del Consiglio ad atti di governo di
territori in situazioni post-conflittuali, testimoniano a favore di una simile consuetudine.
III.
Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di Sicurezza fanno parte anche le
organizzazioni regionali create sia per sviluppare la cooperazione tra gli Stati membri, sia per
promuovere la difesa comune verso l’esterno.
L’appartenenza di queste organizzazioni al sistema di sicurezza collettiva si fonda in particolare
sull’art. 53, il quale stabilisce che il Consiglio utilizza gli accordi e le organizzazioni regionali per
azioni coercitive sotto la sua direzione.
Il 53 va coordinato con il 51 il quale ammette la legittima difesa sia individuale che collettiva,
intendendo per quest’ultima la possibilità che la reazione ad un attacco armato provenga non solo
dallo Stato attaccato ma anche da terzi.
Ne consegue che le organizzazioni regionali possono agire coercitivamente contro uno Stato con
l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ogni caso e senza l’autorizzazione in caso di risposta
ad un attacco armato già sferrato.
Tra le organizzazioni regionali: la Lega degli Stati arabi, Organizzazione del Trattato del Nord
Atlantico (NATO), Comunità di Stati indipendenti (CIS), l’Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa (OCSE)
Ci si è chiesto se lo statuto della NATO, costituita in vista dell’autodifesa collettiva tra i membri,
impedisca di inquadrare l’Organizzazione sotto l’art.53 o sotto il cap. VII.
La risposta non deve essere negativa. Sarebbe comunque invocabile un’applicazione analogica dello
Statuto. In effetti, nella crisi nella ex Iugoslavia, la NATO ha operato in attuazione di risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza.
PARTE QUINTA
L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA
COMUNITA’ INTERNAZIONALE
CAP. L
I.
Natura arbitrale della funzione giurisdizionale internazionale
La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi sostanzialmente natura arbitrale, essendo
ancorata al principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non
è stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una controversia.
II.
Nozione di controversia internazionale
Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi
i loro rapporti, ciò che importa è che essi siano d’accordo nel sottoporre la controversia ad un
giudice internazionale e ad accettare come vincolante la sua decisione.
La definizione di controversia internazionale è data dalla Corte Permanente di Giustizia
Internazionale nel 1924: la controversia, è un disaccordo su un punto di diritto o di fatto, un
contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti.
Art 36 Statuto CIG: gli Stati che accettino come obbligatoria la giurisdizione della Corte, possono
essere citati davanti alla medesima da qualsiasi altro Stato che abbia emesso la stessa dichiarazione.
La dichiarazione di accettazione può riguardare ogni controversia avente ad oggetto:
a. Interpretazione di un trattato
b. Qualsiasi questione di diritto internazionale
c. L’esistenza di un qualsiasi fatto, che se accertato, costituirebbe la violazione di un obbligo
internazionale
d. La natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale.
III.
Il processo internazionale ha dunque carattere sostanzialmente arbitrale riposando sulla volontà,
sull’accordo, di tutti gli Stati di una controversia.
1. Già dalla fine del XIX secolo sono comparsi la clausola compromissoria e il trattato
generale di arbitrato (non completi)
2. Ha inizio con la fine della IWW, si è avuta maggiore istituzionalizzazione con la creazione
della Corte Permanente di Giustizia Internazionale all’epoca della Società delle Nazioni e
poi nel 1945 con la CIG
Sebbene i pareri non siano vincolanti, l’apporto che l’attività consultiva ha dato alla ricostruzione di
norme internazionali generali e all’interpretazione della Carta ONU è significativo.
I pareri non sono vincolanti secondo la Carta, ma possono divenire tali se, con una convenzione o
altro atto vincolante, ci si impegna a rispettarli.
IV.
Declino dell’arbitrato negli anni ’60-‘70
È innegabile che l’arbitrato abbia attraversato, a partire dagli anni 60 e fino agli inizi degli anni 80
una fase di declino, sia nel senso dello scarso numero di ricorsi, sia per il rifiuto di eseguire le
sentenze emesse.
Dal primo pdv si distinsero gli Stati sorti dalla decolonizzazione, assai diffidenti verso la Corte
anche a causa di alcune sentenze da questa emesse, contrarie ai loro interessi.
Per quanto riguarda il rifiuto di eseguire si distinsero vari Stati tra cui anche grandi Potenze, come
USA.
Le sentenze contestate dai nuovi Stati furono alcune decisioni relative alla situazione del sud-ovest
africano, affidato al Sud Africa dalla Società delle Nazioni e ancora considerato da questo Stato
come sottoposto alla sua sovranità.
Per quanto riguarda la pratica consistente nel rinnegare l’impegno arbitrale, in relazione a giudizi
già conclusi, o anche a giudizi in corso ma volgentisi a sfavore dello stato rinnegante, è ad es. il
contegno tenuto dall’Iran in relazione alla sentenza della CIG nel caso del Personale diplomatico e
consolare degli SU a Teheran.
Anche alle sentenze internazionali si applica la teoria dei controlimiti, nel senso che la loro
esecuzione deve ritenersi esclusa qualora esse contrastino con principi fondamentali della nostra
Costituzione.
CAPITOLO LI
I TRIBUNALI INTERNAZIONALI SETTORIALI E REGIONALI
I.
Moltiplicazione dei Tribunali internazionali
Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno competenze settoriali e
che il più delle volte presentano caratteristiche diverse dall’arbitrato.
Alcuni tra i tribunali internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri, carattere universale. I
tribunali regionali riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione economica.
II.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Competenze per buona parte sui generis presenta la CGUE, con sede a Lussemburgo.
Competenze tanto sui generis da rendere legittimo il dubbio che alla Corte possa attribuirsi la
qualifica di tribunale internazionale.
Si può dire che con gli altri tribunali internazionale, la corte ha in comune solo l’origine pattizia,
essendo sorta e disciplinata dai Trattati che via via hanno dato vita alle Comunità europee e poi
all’Unione.
La maggior parte delle sue competenze sono accostabili a quelle dei tribunali interni e il loro
esercizio non dipende dalla volontà degli stessi soggetti destinati a subirle (come l’arbitrato).
III.
Tribunale internazionale del diritto del mare
Nel diritto internazionale marittimo opera il Tribunale Internazionale del Diritto del mare, il cui
Statuto è contenuto nella Convenzione di Montego Bay. Ha sede ad Amburgo.
È composto da 21 giudici indipendenti eletti tra persone che abbiano competenza nel campo del
diritto del mare.
Questo non ha prodotto un cospicuo numero di sentenze, ma rappresenta solo una delle istanze
giurisdizionali che sono a disposizione delle parti.
Per le controversie tra Stati esso non si discosta molto dai tribunali arbitrali istituzionalizzati.
IV.
Organo della WTO per la soluzione delle controversie
Un sistema complesso di soluzione delle controversie tra Stati nel settore del commercio
internazionale è quello predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle
controversie contenuta nell’Accordo istitutivo dell’OMC.
Tale sistema fa capo ad un organo, l’organo per la soluzione delle controversie, e si articola in 2
gradi di giudizio:
1. Costituito da panels di esperti nominati di volta in volta dall’Organo
2. Consistente in un corpo permanente di appello in cui siedono 7 giudici.
Questo sistema può considerarsi di carattere tendenzialmente giurisdizionale in quanto
caratterizzato anche da una limitata possibilità di interventi dell’Organo, che è un organo politico.
Questo può anche decidere di non costituire un panel, oppure di non approvare le decisioni emesse
in prima o seconda istanza.
V.
Corte europea dei diritti dell’uomo
La Corte EDU ha sede a Strasburgo, è l’organo che controlla il rispetto della Convenzione europea
sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e libertà fondamentali.
Nasce dalla fusione con la Commissione Europea dei diritti dell’uomo, ed è formata da un numero
do giudici pari a quello degli Stati contraenti.
Giudica attraverso giudici unici, Comitati composti fa 3 giudici e Camere composte da 7 giudici.
Una Grande Camera di 17 giudici può essere poi chiamata a pronunciarsi su richiesta di una
Camera, oppure come una sorta di appello.
Il ricorso alla corte può essere proposto da un altro Stato contraente nell’interesse obbiettivo (c.d.
ricorso interstatale), sia da qualsiasi persona fisica, giuridica o organizzazione, gruppo di individui
ecc.
Il ricorso individuale ha marcato il grande successo di questa Corte, provocando una giurisprudenza
estremamente ricca. Tale successo ha anche un risvolto negativo, ossia la Corte, oberata da ricorsi
individuale, non riesce a smaltire il suo ruolo.
VI.
Commissione e Corte interamericana dei diritti dell’uomo
Il sistema regionale più importante dopo quello europeo è stato posto in essere dalla Convenzione
americana dei diritti dell’uomo. Il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è
affidato ad una Commissione e una Corte: le competenze dei due organi sono analoghe a quelle che
aveva la disciolta Commissione europea e la Corte EDU.
Corti africane dei diritti dell’uomo
Anche nell’ambito dell’OUA è stata istituita una Corte dei diritti dell’uomo. Essa applica la Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata dall’Organizzazione.
Operante nel continente africano è anche la corte creata in seno all’ECOWAS.
Comitato per i diritti dell’uomo del patto delle NU sui diritti civili e politici
Passando dal piano regionale a quello universale vengono in rilievo i due Patti internazionali,
promossi dalle NU, uno sui diritti economici, sociali e culturali, l’altro sui diritti civili e politici.
Il patto sui diritti civili politici prevede il funzionamento di un organo, il Comitato delle NU
composto da 18 membri. Sono eletti, a titolo individuale, dagli Stati contraenti, per 4 anni.
Il Comitato può prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stati o da
individui.
È anche competente a ricevere rapporti dagli Stati circa l’applicazione del Patto nei rispettivi
territori, e a trasmettere agli Stati contraenti e al Consiglio economico e sociale, le osservazioni che
ritenga opportune.
Comitato per i diritti previsti dal patto delle NU sui diritti economici, sociali e culturali
Per quanto riguarda il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, esso prevede che gli Stati
contraenti sottopongano rapporti periodici al Consiglio economico e sociale perché formuli
raccomandazioni di ordine generale.
VII.
Corti penali internazionali
Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità, si accompagna
la tendenza ad attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali internazionali.
La prima esperienza in materia fu quella del Tribunale di Norimberga, sebbene esprimesse
un’esigenza sentita da tutta la comunità internazionale, trovò la sua giustificazione dal pdv giuridico
dall’occupazione della Germania.
Lo stesso può dirsi per il Tribunale di Tokyo, che dopo la IIWW giudicò i criminali di guerra
giapponesi.
Il contributo che i due tribunali hanno fato alla ricostruzione e interpretazione delle norme sui
crimini di guerra e contro l’umanità è notevole.
A differenza dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, questi non hanno la disponibilità degli imputati,
ma devono contare sulla collaborazione degli Stati in cui i presunti criminali si trovano.
CAPITOLO LII
I MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI
I.
Negoziati
Tali mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto
tendono esclusivamente a facilitare l’accordo delle parti: essi non hanno quindi carattere vincolante
per le parti e non determinano chi ha torto o ragione.
L’accordo tra le parti può essere facilitato mediante negoziati diretti tra le parti stesse. I negoziati
sono considerati il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie.
Conciliazione
Molto importante è la conciliazione che è la forma più evoluta di soluzione delle controversie che
più si avvicina all’arbitrato.
Le Commissioni di conciliazione sono di solito composte da individui e non da Stati e hanno il
compito di esaminare i fatti che hanno dato luogo alla controversia, e di formulare una proposta di
soluzione, che le parti sono libere di accettare o meno.
A queste si accostano le Commissioni d’inchiesta il cui compito è limitato all’accertamento dei
fatti.
In alcuni casi, spesso, il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio.
II.
Funzione conciliativa delle NU
I mezzi diplomatici esauriscono, con i mezzi giurisdizionali, i mezzi pacifici di soluzione delle
controversie. La Carta NU stabilisce che gli Stati membri hanno l’obbligo di risolvere le loro
controversie con mezzi pacifici, con negoziati, inchieste, mediazione, conciliazioni ecc.
III.
Potere di inchiesta del Consiglio di Sicurezza
Alla soluzione pacifica delle controversie è dedicato il cap. VI della Carta NU. Vi si disciplina con
regole assai precise, la funzione conciliativa del CDS.
In base al cap.VI il Consiglio dispone di un potere d’inchiesta che può esercitare sia direttamente
che creando un organo ad hoc.
IV.
Funzione conciliativa dell’Assemblea generale dell’ONU
Nell’ambito delle NU una funzione conciliativa è svolta dall’Assemblea. La Carta prevede che
l’Assemblea può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che ssa
ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra nazioni.
Una formula così generica permette di far rientrare nella funzione conciliativa dell’Assemblea tutte
le misure adottabili ex cap.VI.