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Parte generale

CONFORTI

DIRITTO INTERNAZIONALE
PARTE PRIMA
CAPITOLO II
QUADRO SINTETICO DELLE FUNZIONI DI PRODUZIONE, ACCERTAMENTO ED
ATTUAZIONE COATTIVA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
I.
Funzione normativa
Occorre distinguere tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati e quelle che vincolano solo una
ristretta cerchia di soggetti

Consuetudine
Alle norme di diritto internazionale generale si riferisce l’art 10 Cost. Tali norme sono le norme
consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità internazionale attraverso l’uso.

Accordo
Sebbene esistano anche consuetudini particolari, le tipiche norme di diritto internazionale
particolare sono quelle poste da accordi (o patti, convenzioni, trattati) internazionali, che vincolano
solo gli Stati contraenti. Esse sono al contrario delle consuetudini, molto numerose e costituiscono
la parte più rilevante del diritto internazionale.

Fonti previste da accordi


Al di sotto degli accordi si trovano i procedimenti previsti dagli accordi, detti anche fonti di terzo
grado. Tali procedimenti costituiscono fonti di diritto internazionale particolare. Traggono la loro
forza dagli accordi internazionali che li prevedono, e vincolano solo gli Stati aderenti agli accordi
medesimi.
In questa categoria si possono collocare molti degli atti delle organizzazioni internazionali, ossia
delle varie unioni tra Stati, come ONU, UE, Istituti specializzati NU ecc.

II.
Arbitrato
Per quanto riguarda la funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale, nell’ambito
della comunità internazionale, è in prevalenza una funzione arbitrale. L’arbitrato poggia
sull’accordo tra le parti, diretto a sottoporre una controversia ad un determinato giudice.
Anche la CIG ha funzione essenzialmente arbitrale. Esistono però anche tribunali internazionali.
Ad esempio, alcune corti internazionali, come le Corti per i crimini commessi in ex Iugoslavia e in
Ruanda, somigliano in tutto e per tutto alle Corti penali interne.

III.
Autotutela
Per quanto riguarda i mezzi per assicurare coattivamente l’osservanza delle norme, sono tutti
riferibili alla categoria dell’autotutela. Ciò che nel diritto interno è un’eccezione, diviene regola sul
piano internazionale.
CAPITOLO III
LO STATO COME SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE.
ALTRI SOGGETTI E PRESUNTI TALI.
I.
Attribuzione della soggettività internazionale allo Stato organizzazione
Per individuare lo Stato come soggetto internazionale occorre distinguere tra Stato-comunità e
Stato-organizzazione.
La qualifica di soggetto di diritto internazionale spetta allo Stato organizzazione. È infatti
all’insieme degli organi statali che si ha riguardi allorché si lega la soggettività internazionale dello
Stato al criterio di effettività, cioè dell’effettivo esercizio del potere di governo. E perché sono gli
organi dello Stato che partecipano alla formazione delle norme internazionali ecc.

Nozione di organo dello Stato ai fini del diritto internazionale


Quando si parla di organi statali si intende far riferimento a tutti gli organi, comprese le
amministrazioni locali o enti pubblici minori, che sono componenti dello Stato in quanto soggetto di
diritto internazionale.

II.
Effettività dello Stato organizzazione
Se il diritto internazionale si rivolge allo Stato organizzazione, va sottolineato che questa
organizzazione è in tanto presa in considerazione, in tanto è destinataria delle norme internazionali
in quanto eserciti effettivamente il proprio potere su una comunità territoriale.

Governi in esilio e Comitati di liberazione con sede all’estero (OLP)


Va quindi negata la soggettività dei Governi in esilio (Governi che si rifugiano in altra nazione) e ai
Comitati di liberazione nazionale che abbiano sede all’estero avendo quivi costituito una sorta di
organizzazione di governo.
Tipico esempio di Comitato di liberazione all’estero è stato per tanti anni l’OLP (organizzazione per
la liberazione della Palestina) con sede a Tunisi.

Accordi OLP-Israele e status della Palestina


La soggettività della Palestina è ancora dubbia oggi, dopo i vari accordi tra l’OLP e Israele per il
graduale passaggio di buona parte dei territori palestinesi occupati da Israele sotto il controllo
dell’Autorità palestinese.
È comunque dubbia la natura stessa di veri e propri accordi internazionali di queste intese, le quali
somigliano piuttosto agli accordi conclusi dalle Potenze coloniali con i rappresentanti delle
popolazioni locali, all’epoca della decolonizzazione.
Trattasi di accordi che non sono stati nemmeno registrati presso il Segretariato delle NU.
Inoltre, non è chiaro l’assetto territoriale delle zone interessate: anche se Israele si è ritirata dalla
zona di Gaza e da una parte della Cisgiordania, tutto il territorio è sotto la continua minaccia delle
sue forze armate e di conseguenza ai palestinesi è lasciata una forma di autonomia, più che di
governo.

Failed States
Soggettività dubbia è quella dei c.d. failed states, la cui caratteristica è proprio la mancanza di un
governo effettivo, che può avvenire quando sia in atto una guerra civile.
Un esempio poteva essere la Somalia, che per vent’anni è stata dominata da “signori della guerra”.
Oggi potrebbe essere la Libia.
III.
Indipendenza dello Stato-organizzazione
Un altro requisito da considerare è quello dell’indipendenza, o sovranità esterna. Occorre cioè che
l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato.
È indipendente e sovrano, lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da
una propria costituzione e non dall’ordinamento o dalla Costituzione di un altro Stato. Non influisce
sulla soggettività, la dimensione dello Stato.

Stati membri di Stati federali


In quanto difettano dell’indipendenza, non sono da considerare soggetti di diritto internazionale gli
Sati membri di Stati federali. Questi sono autorizzati dalla Costituzione a stipulare accordi con Stati
terzi, con il consenso del Potere centrale. Ma agiscono come organi dello Stato federale.
Anche le Regioni italiane possono stipulare accordi internazionali, agendo come organi dello Stato.

Confederazione
Lo Stato federale non va confuso con la Confederazione, che è un’unione di Stati perfettamente
indipendenti e sovrani, creata per scopi di comune difesa e caratterizzata da un governo assembleare
(Dieta) rappresentativo di tutti i membri, con ampi poteri i n materia di politica estera.
Es: confederazione degli Stati Uniti d’America fino al 1787, o la Confederazione elvetica ecc.

Stati fantoccio e Kosovo


Solo un’eccezione si può ammettere in cui il dato formale cede di fronte al dato reale: quando
l’ingerenza da parte di un altro Stato nell’esercizio del potere di governo è totale e quindi il
Governo indigeno è un Governo fantoccio. I governi fantoccio, come tali privi di soggettività
giuridica si ebbero nella IIWW nei territori occupati dai Nazisti. Oggi un es. potrebbe essere la
Repubblica turco-cipriota, insediata dalle forze militari turche a Cipro e controllata dalla Turchia.

Non indipendente è da considerare anche il Kosovo, nonostante la Dichiarazione di indipendenza


del 2008, contestata tra molti stati come la Serbia, che ritiene di avere ancora la sovranità sul
territorio.

IV.
Riconoscimento degli Stati
L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere su
una comunità territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico. Non è necessario che
essa sia riconosciuta dagli altri Stati.
Per il diritto internazionale, il riconoscimento è un atto meramente lecito, e meramente lecito è il
non riconoscimento: entrambi non producono conseguenze giuridiche.
Il riconoscimento appartiene alla sfera della politica. Esso rivela solo l’intenzione di stringere
rapporti amichevoli, di scambiare rappresentanze diplomatiche e di avviare forme di collaborazione.

Quando si nega al riconoscimento valore giuridico, si viene a respingere la resi che esso sia
costitutivo della personalità internazionale. Si viene a respingere la tesi secondo cui gli Stati
preesistenti possano esercitare nei confronti di un nuovo Stato, mediante il riconoscimento, una
sorta di potere di ammissione nella comunità internazionale.
Gli Stati preesistenti rendono infatti a giudicare se un nuovo Stato meriti o meno la soggettività.

Dichiarazione di Bruxelles sul riconoscimento di nuovi Stati nell’Europa orientale


La tendenza degli Stati di decidere circa l’ammissione si è anche burocratizzata. Basti pensare alla
Dichiarazione di Bruxelles del 1991 in cui i 12 Paesi comunitari si dichiararono disposti a
riconoscere gli Stati che via via si sarebbero formati attraverso un processo democratico o che
avessero avuto determinati requisiti.

Altri requisiti della personalità internazionale


I requisiti affinché lo Stato acquisti la personalità internazionale sono l’effettività e l’indipendenza.
Oggi ricorrono anche i requisiti che lo Stato non costituisca una minaccia per la pace e sicurezza
internazionale, goda del consenso del popolo, espresso mediante libere elezioni, e non violi i diritti
umani.
In realtà i requisiti se svincolati dal riconoscimento, se considerati come presupposti della
personalità non trovano alcun riscontro nella realtà.

V.
Insorti
Non si può negare che nel caso in cui si verifichi in uno Stato un movimento insurrezionale ed il
movimento riesca a creare un’organizzazione di Governo che controlli effettivamente una parte del
territorio statale, ad esso vada riconosciuta una soggettività internazionale.

Insorti e diritto di guerra


C’è però chi ritiene che tale soggettività vada limitata al diritto internazionale di guerra, cioè a
quelle norme che prescrivono limitazioni della violenza bellica a tutela delle popolazioni civili.
A parte il riconoscimento, non ci sembra che la limitazione sia avallata dalla prassi.
Vero è che la soggettività è legata alla provvisorietà e quindi alle norme che con essa sono
compatibili. Sarebbero invece privi di effetti, atti di disposizione di parti del territorio controllato.

Nella materia è rilevante il principio rebus sic stantibus, che comporta l’estinzione di quelle
situazioni giuridiche derivanti da accordi, allorché vengano meno le circostanze in vista delle quali
dette situazioni furono create.
Per il diritto internazionale classico, era diverso il caso di insorti senza base territoriale. Erano
considerati come dei sudditi ribelli nei confronti dei quali il Governo attaccato, legittimo, poteva
comportarsi come credeva.

VII.
Individui
Esistono altri soggetti di diritto internazionale? Gran parte della dottrina parla di una personalità se
pur limitata degli individui, persone fisiche o giuridiche.
L’opinione trae spunto dal moltiplicarsi di norme che obbligano gli Stati a tutelare i diritti
fondamentali dell’uomo. Alla tutela dell’interesse individuale si accompagna l’attribuzione
all’individuo di un potere di azione.
A parte i diritti umani, comportamenti e interessi individuali sono presi in considerazione da norme
internazionali o di origine internazionale in varie materie: si pensi ai c.d. crimina juris gentium, per
quei reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente
assegnatigli.

Per quanto riguarda i diritti e doveri che discendono dai trattati istitutivi e dagli atti delle
organizzazioni internazionali, anche UE, non si nega che di essi siano effettivamente titolari, gli
individui in molti casi, ma se ne contesta la natura di veri e propri diritti e doveri internazionali.
Per quanto riguarda invece, i diritti e doveri che non si ricollegano al fenomeno dell’organizzazione
internazionale, se ne contesta la stessa titolarità da parte degli individui. Destinatari di norma
consuetudinarie o pattizie sarebbero solo gli Stati.
In definitiva, molto dipende dall’importanza che si attribuisce al fatto che l’individuo non ha la
possibilità di avvalersi direttamente di mezzi coercitivi internazionali per costringere gli Stati a
rispettare i suoi diritti.

VIII.
Minoranze e popoli
Molte norme internazionali tutelano le minoranze etniche, le quali comunque non divengono
soggetti di diritto internazionale.
Si parla nella prassi di “diritto dei popoli” all’autodeterminazione, a disporre liberamente delle
proprie risorse naturali ecc. Ma si potrebbe tranquillamente sostituire il termine popoli con “Stati”:
è gli Stati che compete la sovranità sulle risorse naturai ad esempio.

Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli si parli in relazione a norme che si occupano di
un popolo come contrapposto allo Stato, quindi norma che tendono a tutelare il popolo rispetto
all’apparato che lo governa. L’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio
dell’autodeterminazione dei popoli.

Autodeterminazione dei popoli


Oggi è una regola di jus cogens. Non solo è contenuto in testi convenzionali, come tali vincolanti
per gli Stati contraenti, ma ha acquisito carattere consuetudinario attraverso una prassi che si è
sviluppata ad opera delle NU e che trova la sua base nella Carta dell’ONU, nella dichiarazione di
indipendenza dei popoli coloniali ecc. Anche la CIG ne ha riconosciuto l’esistenza come principio
in alcuni pareri (sulla Namibia, Sahara occidentale, Timor orientale, Kosovo)

Autodeterminazione esterna
Il principio dell’autodeterminazione dei popoli non ha ancora oggi un ampio campo di applicazione.
Esso so applica ai popoli sottoposti ad un Governo straniero, in primo ai popoli soggetti a
dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati e occupati con la
forza.

Irretroattività del principio di autodeterminazione


Affinchè il principio di autodeterminazione sia applicabile, occorre che la dominazione straniera
non risalga oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre
l’epoca successiva alla fine della IIWW.
Ad esempio, non si può parlare di autodeterminazione dei territori che furono oggetto di
occupazioni od annessioni in seguito alla IWW.

Autodeterminazione e presenza di forze armate straniere


L’applicazione del principio di autodeterminazione presenta difficoltà quando si tratta di territori
nei quali il Governo straniero, pur essendo presente con le proprie forze armate, si appoggia ad un
Governo locale dal quale ha ricevuto richiesta di aiuto.
In questo caso il principio si applica nel senso di imporre ad entrambi i Governi la cessazione
dell’occupazione straniera.
Un esempio è la situazione in Iraq dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003, e fino
alle elezioni del 2005 doveva applicarsi l’autodeterminazione in questo modo.

Autodeterminazione e decolonizzazione
Il principio dell’autodeterminazione dei territori coloniali deve coordinarsi con il principio
dell’integrità territoriale, e la necessità del coordinamento si impone anche all’Assemblea generale
dell’ONU. In base al principio dell’integrità territoriale occorre tener conto dei legami storico-
geografici del territorio da decolonizzare.
Autodeterminazione interna
È da escludere invece da pdv giuridico che l’autodeterminazione possa essere intesa nel significato
ad essa attribuito politicamente. Bisogna guardarsi dall’affermare che il diritto internazionale
richieda che tutti i governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e
siano da costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna).

Autodeterminazione e secessione di regioni etnicamente distinte


Occorre guardarsi dall’interpretare il principio di autodeterminazione come capace di avallare le
aspirazioni secessionistiche di regioni o province o circoscrizioni. Come è stato dimostrato, non ha
giuridicamente fondamento la c.d. secessione come rimedio da praticare quando una minoranza è
sottoposta a discriminazioni intollerabili o simili.

Autodeterminazione e movimenti di liberazione nazionale


Il diritto internazionale generale impone allo Stato che governa un territorio non suo di consentirne
l’autodeterminazione. Lecito è poi considerato l’appoggio fornito ai movimenti di liberazione
nazionale. Ma si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli,
sottoposti a dominazione straniera?
I rapporti di diritto internazionale intercorrono in modo esclusivo tra gli Stati. È nei confronti di
tutti gli Stati che l’obbligo per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione sussiste.

IX.
Organizzazioni internazionali
Resta da chiedersi se siano soggetti certi enti i quali operano nell’ambito della comunità
internazionale accanto agli Stati, in posizione di indipendenza rispetto a questi ultimi.
Non si può più negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia alle associazioni di
Stati (ONU, istituti specializzati NU, UE ecc.) dotate di organi per il perseguimento degli interessi
comuni.
La personalità delle organizzazioni è data come personalità distinta da quella degli Stati membri.
Gli accordi sottoscritti da queste organizzazioni vengono considerati produttivi di diritti e doveri
propri delle organizzazioni, restando senza effetti sulla sfera giuridica degli Stati membri.

Personalità interna delle organizzazioni internazionali


La personalità internazionale delle organizzazioni va tenuta separata dalla personalità di diritto
interno delle organizzazioni stesse.
Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l’obbligo degli Stati membri di
riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti.

ONG, Santa Sede e ordine di Malta


Non bisogna confondere le organizzazioni internazionali con le ONG, che non nascono da accordi
internazionali e di cui fanno parte non gli Stati ma i privati, e quindi sono prive di personalità
internazionale.
Sono considerati inoltre personalità internazionali anche la Santa Sede o l’Ordine di Malta.
CAPITOLO IV
IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE.
LA CONSUETUDINE E I SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI
I.
Elementi della consuetudine
Le norme di diritto internazionale generale, le norme cioè che vincolano tutti gli Stati, hanno natura
consuetudinaria. La nozione di consuetudine internazionale è pressoché la medesima della
consuetudine a livello nazionale.
È caratterizzata da due elementi:
- Diuturnitas
- Opinio iuris sive necessitatis
Una parte della dottrina sostiene che essa sia costituita solo dalla prassi, perché se nel momento in
cui la norma va formandosi, lo Stato crede che un dato comportamento sia obbligatorio, mentre in
effetti si sta formando il diritto, allora lo Stato sarebbe in errore. Quindi, l’opinio juris sarebbe solo
l’effetto psicologico dell’esistenza della norma.

Però se si esami la prassi dei Tribunali internazionali, si ha la conferma della tesi secondo la quale
entrambi gli elementi sono rilevanti.
Gli Stati inoltre si sono pronunciati nel senso che l’opinio juris fosse indispensabile per l’esistenza
di una consuetudine. Di fatto molto spesso gli Stati, per evitare che la sola prassi crei diritto,
dichiarano che un determinato comportamento che essi intendono tenere è dettato da ragioni di
cortesia e non è capace di creare un precedente ai fini della formazione di una consuetudine o
desuetudine.

Si parla di opinio juris sive necessitatis. L’obbligatorietà va a confondersi con la necessità, con la
doverosità sociale. Di fatto all’inizio della formazione della consuetudine, il comportamento è
sentito come dovuto socialmente, non tanto giuridicamente.

Consuetudine e norme di cortesia


Se non si facesse leva sull’opinio juris sive necessitatis, mancherebbe la possibilità di distinguere
tra mero uso, determinato ad es. da rapporti di cortesia, di cerimoniale ecc, e consuetudine,
produttiva di norme giuridiche.

Consuetudine e prassi internazionale


L’esistenza o meno dell’opinio juris sive necessitatis è il solo criterio utilizzabile per ricavare una
norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale.
Se si esamina la giurisprudenza interna, ci rendiamo conto che i trattati costituiscono uno dei punti
di riferimento principali per ricostruire una regola consuetudinaria internazionale.
Quindi solo un’indagine sull’opinio juris sive necessitatis può consentire, o escludere,
l’utilizzazione di tutta una serie di trattati come prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria.

Questo elemento serve inoltre a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il
diritto consuetudinario preesistente dal comportamento che costituisce un illecito internazionale.

II.
Tempo di formazione della consuetudine
Per quanto riguarda l’elemento della diuturnitas: se il trascorrere di un certo tempo per la
formazione della norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere
secolare, è anche vero che certe regole, si sono consolidate nel volgere di pochi anni.
In realtà il tempo può essere tanto più breve quanto più è diffuso un certo comportamento. Resta un
fattore ineliminabile e conferisce stabilità.
III.
Ruolo della giurisprudenza interna nella formazione della consuetudine
Si riconosce generalmente la possibilità di partecipazione da parte di tutti gli organi statali e non
solo degli organi detentori del potere estero. Quindi, a formare la consuetudine possono essere atti
esterni, sia atti interni degli Stati.

Nella formazione di alcune norme consuetudinarie, in particolare quelle destinate a ricevere


applicazione all’interno dello Stato, è la giurisprudenza interna a giocare un ruolo fondamentale. Si
pensi al campo delle immunità degli Stati stranieri della giurisdizione civile o delle immunità degli
agenti diplomatici.

È chiaro che una funzione del genere è svolta con particolare attenzione da parte delle corti
supreme, le quali possono avere un’influenza decisiva nella creazione del diritto consuetudinario, ed
è loro compito promuoverne la revisione, sia pur con cautela.
Va notato che spesso non vi è sintonia, nello stesso Stato tra il comportamento delle corti e quello
che l’esecutivo tiene sul piano internazionale. Questa mancanza di sintonia cresce quando le corti si
liberano della dipendenza dai governi dei loro Paesi.

IV.
Applicabilità della consuetudine ai nuovi Stati
Le norme consuetudinarie si impongono anche agli Stati di nuova formazione. Ma questo principio
è stato a lungo posto in discussione dagli Stati sorti dal processo di decolonizzazione. Essi
sostenevano che il vecchio diritto internazionale consuetudinario si è formato in epoca coloniale,
rispondendo ad esigenze del tutto diverse da quelle del loro tempo, e non può pretendere di
vincolare uno Stato che nasca oggi con esigenze ed interessi opposti. Da qui la pretesa di rispettare
solo le norme consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettati.

Applicabilità della consuetudine all’obiettore persistente


Il problema della contestazione del diritto consuetudinario va risolto in modo diverso a seconda che
la contestazione provenga da un singolo Stato o da un gruppo di Stati.
Nel primo caso, la contestazione, anche ripetuta (persistent objector) è irrilevante.
Del resto, il persistent objector non rivendica nei suoi confronti di una consuetudine già formata, ma
tenta solo di impedire la sua formazione o di negare che questa sia già avvenuta.
Diversamente, nel primo caso, non può essere ignorata. Quando una regola è contestata dalla
maggior parte degli Stati appartenenti a un gruppo, essa non solo non è opponibile a quelli che la
contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come consuetudine.

Consuetudine e risoluzioni delle Nazioni Unite


I Paesi in via di sviluppo tendono a sopravvalutare, ai fini della ricostruzione di un diritto generale
attuale, di tutta una serie di risoluzioni (raccomandazioni) delle organizzazioni internazionali a
carattere universale, in particolare dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Soft Law
Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali appartengono al soft law, ossia non sono
obbligatorie.
Il che però non esclude che il soft law e soprattutto le risoluzioni degli organi delle NU possano
costituire, come in concreto costituiscono, l’avvio alla formazione di norme consuetudinarie o la
premessa della conclusione di accordi internazionali.
Una prassi utilizzabile in tal senso è quella delle Dichiarazione di principi dell’Assemblea generale
delle NU.
V.
La consuetudine come diritto spontaneo
La consuetudine non può essere considerata come un accordo tacito.
Ma possiamo condividere che il diritto non scritto è un diritto di formazione spontanea. Anche se,
non dobbiamo eccedere con lo spontaneismo, dicendo che il diritto non scritto viene alla luce in
modo incosciente o inconsapevole.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il comportamento uniforme che è alla base della
consuetudine internazionale non è costituito da materiale informe, bensì da trattato, atti, leggi,
sentenze.

VI.
Consuetudini particolari
Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza anche di consuetudini particolari,
cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati. Ad es. le consuetudini regionali o locali (formatesi es.
tra gli Stati dell’America latina, norme di asilo)
Anche la consuetudine particolare è per definizione, un fenomeno di gruppo, e come tale non
scomponibile in relazione ai singoli Stati.
Quindi la consuetudine regionale, o quella che si forma a modifica di un trattato, risulta dai contegni
rilevabili in seno ad un gruppo di Stati, senza che sia necessario provare che tutti gli Stati
appartenenti al gruppo abbiano effettivamente contribuito a formarla.

Non rientra nelle consuetudini particolari il caso di una uniformità di contegni tra un certo numero
di Stati non legati da trattati, vincoli geografici o di altro tipo. In questi casi si parla di reciprocità.

VII.
Applicazione analogica del diritto consuetudinario
Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L’analogia consiste
nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali sono analoghi
a quelli del caso previsto.
Nell’ambito del diritto consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a
fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale
che non esistevano all’epoca della formazione della norma.
CAPITOLO V
I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI
I.
Art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia
L’Art 38 dello Statuto della CIG annovera tra le fonti i principi generali di diritto riconosciuti dalle
nazioni civili. All’articolo sono indicate dopo gli accordi e le consuetudini, quindi si tratterebbe di
una fonte utilizzabile laddove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso
concreto.
Il ricorso a questi principi costituirebbe una sorta di analogia iuris destinata a colmare le lacune del
diritto pattizio o consuetudinario, ed andrebbe effettuato prima di concludere che obblighi
internazionali non sussistano in ordine ad un caso concreto.

Il valore dei principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, ha suscitato e suscita anche
oggi una varietà di opinioni.
Si parte da chi addirittura nega che questi principi abbiano valore di norme giuridiche
internazionali, oppure ne sottolineano solo la funzione integratrice del diritto internazionale. Fino ad
arrivare a chi li pone al primo grado della gerarchia delle fonti.
Ogni ordinamento giuridico, senza dubbio, ammette il ricorso ai principi generali in mancanza di
norme specifiche e non si vede perché lo stesso non debba ammettersi nell’ambito dell’ordinamento
internazionale.

Qui il problema è complicato dalla circostanza che i principi sono prelevati dagli ordinamenti degli
Stati civili. Quali scegliere come principi generali? La stessa nozione “nazioni civili” è ambigua.

I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili come norme consuetudinarie
Ma vi sono due condizioni che debbono sussistere perché principi statali possano essere applicati
come principi generali di diritto:
1. I principi statali devono esistere e devono uniformemente essere applicati nella più gran
parte degli stati
2. Essi devono essere sentiti come obbligatori o necessari dal punto di vista internazionale,
cioè devono perseguire dei valori e imporre dei comportamenti, che gli Stati considerino
come perseguiti e imposti, o almeno necessari anche sul piano internazionale.

Così intesi non costituiscono altro che una categoria sui generis di consuetudini internazionali:
- La diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati nei
loro ordinamenti
- L’opinio juris sive necessitatis è presente nelle vecchie regole di giustizia e logica giuridica,
si tratta di regole intese da tutti gli organi dello Stato come aventi un valore universale.
Per ogni altra regola uniforme di diritto interno occorrerà di volta in volta accertare l’opinio iuris
dal punto di vista internazionale.

Si diceva un tempo che lo Stato, ha una serie di obblighi circa il trattamento degli stranieri, ma al
contempo è internazionalmente libero di trattare i propri sudditi come meglio crede (dominio
riservato).
Questa opinione è ancora in parte vera per il diritto consuetudinario. Es. si ritiene che il diritto
consuetudinario vieti solo le violazioni gravi dei diritti umani (gross violations), crimini di guerra,
apartheid, tortura ecc.

Quindi, il ricorso ai principi generali di diritto può essere utile per estendere la sfera dei rapporti tra
stato e sudditi regolato dal diritto consuetudinario. Il ricorso ai principi generali di diritto
riconosciuti dalle Nazioni civili è particolarmente attuato nella materia della punizione di crimini
internazionali ad opera di tribunali internazionali penali, in particolare i Tribunali per i crimini
commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda, i quali vi hanno fatto ricorso per colmare delle lacune
delle norme internazionali.

Nella prospettiva delineata i principi generali di diritto finiscono con il perdere la loro qualifica di
principi, andando solo a sanare le lacune del diritto internazionale. Quindi sono pariordinate alle
norme consuetudinarie.

II.
Principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili e giudici interni
Per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli Stati, è necessario che esso sia
uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati.
Ne deriva che la ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno stato di
farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista nell’ordinamento statale. Ciò
sempre che l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale.
CAPITOLO VI
ALTRE PRESUNTE NORME GENERALI NON SCRTTE.
L’EQUITA’
I.
Principi costituzionali
Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme consuetudinarie, i principi. Sostenendo così
l’esistenza di principi “costituzionali”.
Il sostenitore della teoria dei principi è il Quadri. Secondo Quadri, i principi costituirebbero le
norme primarie di diritto internazionale e sarebbero espressione immediata e diretta della volontà
del corpo sociale. Comprenderebbero le norme volute e imposte dalle forze prevalenti in un
momento storico nella comunità internazionale.
Tra i principi alcuni avrebbero carattere formale: si limitano ad istituire fonti ulteriori di norme
internazionali. Altri, carattere materiale: disciplinano direttamente i rapporti tra Stati.

I principi fondamentali sono due:


1. Consuetudo est servanda
2. Pacta sunt servanda
L’osservanza delle consuetudini e degli accordi si spiegherebbe in quanto voluta e imposta dalle
forze prevalenti nella comunità internazionale.
In questo senso la consuetudine e l’accordo sono entrambe fonti di secondo grado. Ma la
consuetudine è considerata fonte di primo grado, mentre si ritiene che l’accordo (fonte secondaria)
tragga la sua forza dalla consuetudine. (pacta sunt servanda sarebbe una norma consuetudinaria)

I principi materiali potrebbero avere qualsiasi contenuto. La concezione di Quadri non risulta essere
accettabile:
non sono i principi, consuetudo est servanda e pacta sunt servanda, a suscitare riserve: se l’esame
della prassi internazionale porta a constatare la formazione, al di sopra dello Stato, di norme
consuetudinarie e pattizie, questo fenomeno può anche descriversi ponendo l’una e l’altra fonte
sullo stesso piano e riportando entrambe a super-principi.
Il fatto poi che certe norme consuetudinarie hanno carattere cogente (non derogabili) potrebbe
spiegarsi sostenendo che l’inderogabilità sia sancita da un principio superiore.

Ciò che non convince e fa respingere la teoria del Quadri è la possibilità di ricostruire principi
materiali indipendentemente dall’uso e di ricostruirli fino alle estreme conseguenze.
Un gruppo di Stati, o un solo Stato, potrebbe imporre la propria volontà a tutti gli altri membri della
comunità internazionale.

È vero che alla base di una norma non scritta vi è spesso una imposizione, ma la norma esiste in
quanto si traduce nei comportamenti degli Stati, accompagnati dal convincimento della doverosità
sociale.
Quindi se all’imposizione iniziale non segue questo elemento, di continuità, non si può ammettere
l’esistenza di un principio.

II.
Equità
L’equità è il comune sentimento del giusto e dell’ingiusto. Ci si chiede se vi possa ricorrere il
giudice internazionale o interno, chiamato a risolvere una questione di diritto internazionale.
La risposta è negativa. L’equità è importante nell’ordinamento inglese. Ma la prassi internazionale
non avalla una trasposizione dell’ordinamento inglese a quello internazionale.
Se il diritto internazionale è lacunoso, ciò significa che gli stati non hanno obblighi da osservare e
diritti da pretendere, e l’equità non ne può creare.
Equità e ruolo dei giudici internazionali e interni
L’equità va inquadrata nel procedimento di formazione del diritto consuetudinario. Di fatto:
quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto
consuetudinario, essa influisce direttamente sulla formazione della consuetudine. Infatti, le
decisioni dei Tribunali interni sono una delle più importanti fonti delle consuetudini.
Abbiamo così un’influenza diretta, ma relativa, trattandosi comunque di una decisione interna di un
singolo Stato.

Invece per le decisioni dei Tribunali internazionali, l’influenza è indiretta (non si tratta di prassi
degli Stati) ma incisiva. Quando poi parliamo di decisioni della CIG l’influenza è massima.
CAPITOLO VII
INESISTENZA DI NORME GENERALI SCRITTE.
LA CODIFICAZIONE DEL DIRITTO CONSUETUDINARIO
I.
Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale, data la fine del XIX secolo. Fino
alla IWW erano le norme di diritto internazionale bellico ad essere trascritte, con la convenzione
Aja del 1899 e del 1907. Norme che furono utilizzate durante la IIWW e nel dopoguerra per
risolvere problemi attinenti all’occupazione del suolo da parte della Germania e degli alleati.
Con la nascita dell’ONU nascono molti trattati multilaterali.

II.
Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite
Art. 13 Carta Nazioni Unite: prevede che l’Assemblea generale intraprenda studi e faccia
raccomandazioni per incoraggiar lo sviluppo e la codificazione del diritto internazionale.
Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì nel 1947 la Commissione di diritto
internazionale N.U. (CDI).
Composta da esperti, che vi siedono a titolo personale, ha il compito di provvedere alla
preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie, prevedendo studi, inviando
questionari agli stati, raccogliendo dati dalla prassi, e predisponendo progetti di convenzione
multilaterale, che vengono adottati e aperti alla ratifica e adesione da parte degli Stati.

Convenzioni di codificazione promosse dall’ONU


L’epoca delle codificazioni è finita e attualmente la Commissione si occupa o di temi assai
specifici, o provvede a ricodificare singole parti delle grandi convenzioni di codificazione già
esistenti. Le principali convenzioni sono:
- Convenzione di Vienna 1961 sulle relazioni e immunità diplomatiche
- Le 4 convenzioni di Ginevra sul diritto del mare
- La convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati

La Commissione non è l’unico organismo in seno al quale si predispongono progetti di accordi di


codificazione. In alcuni casi l’Assemblea ha convocato conferenze di Stati, come nel caso della
Convenzione di Montego Bay. Altre volte, il progetto è stato affidato ad organi sussidiari
dell’Assemblea ecc.

Rispetto alle convenzioni progettate dalla CDI, la loro particolarità è che il progetto non è frutto del
lavoro di individui che esprimono opinioni personali, ma di individui che rappresentano Stati e
devono seguirne le istruzioni.

III.
Convenzioni di codificazione e Stati terzi
Gli accordi di codificazione vincolano gli Stati non contraenti? Occorre essere molto cauti nel
considerare gli accordi di codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario general. Per
vari motivi:
1. Spesso nell’opera di ricostruzione delle norme internazionali non scritte, influisce la
mentalità dell’interprete e quindi di coloro che fanno parte della Commissione
2. Gli Stati cercano comunque di far prevalere i propri interessi e le proprie convinzioni
3. L’art. 13 Carta NU, parla non solo di codificazione ma anche di sviluppo progressivo del
diritto internazionale. Spesso questa espressione è stata invocata per far introdurre norme
che erano incerte sul piano del diritto internazionale generale.
Quindi, possiamo affermare che gli accordi di codificazione sono considerati come normali accordi
internazionali, che quindi vincolano solo gli Stati che li ratificano.
IV.
Ricambio delle norme codificate
È possibile che in epoca successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto
della mutata pratica degli Stati.
Una simile eventualità non è molto presa in considerazione dagli accordi di codificazione: tutti gli
accordi delle NU sono stipulati per una durata illimitata e solo alcuni di essi prevedono dei
procedimenti per la revisione delle proprie norme.

Qual è il valore di una norma che non corrisponde più al diritto internazionale generale?
Ovviamente non è vincolante per gli Stati terzi.
Dobbiamo dire che la possibile evoluzione del diritto consuetudinario dopo la redazione
dell’accordo di codificazione costituisce un ulteriore motivo per respingere qualsiasi equiparazione
del diritto codificato al diritto generale.

Quello che possiamo sostenere è che l’interprete deve essere estremamente sicuro della prassi da cui
intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice. Egli deve tra l’altro dimostrare che la
consuetudine si sia formata con il concorso degli Stati contraenti e che questi la intendano come
applicabile anche nei rapporti inter se.

V.
Codificazioni private
Esistono anche delle codificazioni private di diritto internazionale. Menzioniamo l’IDI, un istituto
con sede a Ginevra. Composto da studiosi e giudici di Corti internazionali, che si riunisce ogni 2
anni. Ha come scopo quello di codificare il diritto internazionale.
Con la nascita delle NU il suo impatto è andato scemando e ha molto valore solo dal punto di vista
scientifico.
CAPITOLO VIII
LE DICHIARAZIONI DI PRINCIPI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU
I.
Principali Dichiarazioni
Fin dai primi anni di vita l’Assemblea ha emanato in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni
contenenti una serie di regole che talvola riguardano rapporti tra Stati, ma molto più spesso
riguardano rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri.
La più importante è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Carattere non vincolante delle Dichiarazioni


Le Dichiarazioni non sono un’autonoma fonte di norme internazionali generali.
L’Assemblea generale NU non ha poteri legislativi mondiali (essa emana raccomandazioni).
Se avesse poteri legislativi, i Paesi del Terzo Mondo (che detengono la maggioranza) disporrebbero
del diritto internazionale generale.

II.
Dichiarazioni e diritto consuetudinario
È anche vero però che le Dichiarazioni svolgono un ruolo importantissimo ai fini dello sviluppo del
diritto internazionale e del suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e interdipendenza.
Le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in
quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non in quanto atti dell’ONU.
Questo è dimostrato dal fatto che esse tanto più valgono come prassi formativa della consuetudine
in quanto siano prese all’unanimità, o con consenso di una larghissima maggioranza.

Le Dichiarazioni come accordi


Passando al diritto pattizio, possiamo ritenere che alcune Dichiarazioni o parti di esse, abbiano
valore di veri e propri accordi internazionali.
Parliamo di Dichiarazioni che non solo enunciano un principio, ma ne equiparano l’inosservanza
alla violazione della Carta.

Poiché l’Assemblea non ha caratteri interpretativi sovrani, non può interpretare le norme della Carta
in modo obbligatorio per gli Stati, anche le Dichiarazioni restano delle mere raccomandazioni.
Però equiparando l’inosservanza di un principio all’inosservanza della Carta, si usa un espediente
verbale per sancire l’obbligatorietà di quel principio. Quindi presumiamo, che gli Stati che
partecipano con il loro voto all’atto, intendono vincolarsi.

La situazione è uguale nel caso che la Dichiarazione consideri l’inosservanza di un principio come
violazione del diritto internazionale generale, anziché della Carta. Anche in questo caso
presumiamo che vi è volontà di obbligarsi da parte dello Stato.
Tra questo tipo di Dichiarazioni, vediamo quella sul genocidio, sull’indipendenza dei popoli
coloniali, sul divieto di armi nucleari ecc.

Questo tipo di Dichiarazioni, inquadrabili come accordi, vanno considerate come degli accordi in
forma semplificata.
CAPITOLO IX
I TRATTATI.
PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE E COMPETENZA A STIPULARE

I.
Trattati normativi e trattati-contratto
I trattati normativi (o trattati legge) sono considerati come gli unici accordi produttivi di vere e
proprie norme giuridiche, sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a
regolare la condotta di un rilevante numero di Stati. Comprenderebbero gli accordi di codificazione,
gli accordi istitutivi di organizzazioni internazionali ecc.
I trattati-contratto (o trattati negozio) sarebbero fonti di diritti e obblighi, ossia di rapporti giuridici,
non di norme. Le parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di
prestazioni più o meno corrispettive. Es: accordi di stabilimento, con cui gli Stati si fanno
reciproche concessioni, accordi commerciali ecc.

Questa distinzione però non ha alcun senso perché qualsiasi atto che sia obbligatorio, che vincoli
qualcuno, produce per questo una regola di condotta. Si tratta di una distinzione superata in quanto
non ve n’è alcuna menzione nella Convenzione di Vienna sui trattati del 1969.

Norme pattizie astratte e norme pattizie concrete


Un’ulteriore distinzione è tra norme astratte, regolanti una situazione o un rapporto “tipo”, e
vincolanti i destinatari che vengano a trovarsi in quella situazione o rapporto. E le norme concrete,
regolanti una situazione o un rapporto singolo e determinato.
Non è da questa distinzione che si fa dipendere la qualifica di trattato normativo o trattato contratto.

Norme pattizie materiali e norme pattizie strumentali


I trattati possono dar luogo a regole materiali, che direttamente disciplinano i rapporti tra i
destinatari, imponendo obblighi o attribuendo diritti. E a regole formali o strumentali, che si
limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme.
Tra gli accordi che istituiscono fonti acquistano oggi importanza i trattati costitutivi di
organizzazioni internazionali, i quali oltre a disciplinare direttamente certi rapporti tra gli Stati
membri, demandano agli organi sociali la produzione di norme ulteriori.

II.
Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati
I trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il
procedimento di formazione nonché i requisiti di validità e di efficacia. Tale complesso di regole
costituisce il diritto dei trattati.
Ed esso è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, ratificata anche
dell’Italia.
Vanno anche menzionate altre due Convenzioni sempre di Vienna, una del 1978 e l’altra del 1986.
La prima riguarda la successione degli Stati nei trattati. La seconda, riguarda i trattati stipulati tra
Stati e Organizzazioni internazionali. Quest’ultima riproduce esattamente la Convenzione del 1969.

Sfera di applicazione della Convenzione di Vienna


Art 4 Convenzione di Vienna: “Salva restando l’applicazione di qualsiasi norma enunciata nella
presente convenzione alla quale i trattati sarebbero soggetti in base al diritto internazionale
indipendentemente dalla predetta convenzione, questa si applica nei confronti di tali Stati soltanto ai
trattati conclusi dopo la sua entrata in vigore.” La seconda parte dell’articolo prevede
l’irretroattività della Convenzione. La prima parte contiene il principio che le regole riproduttive del
diritto consuetudinario, valgono per tutti gli Stati e per tutti i trattati.
III.
Libertà di scelta del procedimento di formazione del trattato
È opinione universalmente seguita che il diritto internazionale lasci la più ampia libertà in materia
di forma e procedura per la stipulazione e che quindi un accordo possa risultare da ogni genere di
manifestazione e volontà degli Stati purchè di identico contenuto e purchè dirette ad obbligarli.
Quando si descrive un procedimento di formazione dei trattati, non solo non ci si può riferire a
precise e vincolanti norme, ma neppure si può dare alla descrizione carattere tassativo. Carattere
tassativo non ha del resto neppure l’elencazione dei modi di stipulazione contenuta nella
Convenzione di Vienna.

Procedimento normale o solenne


Ancora oggi il procedimento normale o meglio, solenne, di formazione del trattato ricalca quello
seguito secoli fa. A tale epoca, la stipulazione del trattato era materia di competenza esclusiva del
Capo dello Stato. Esso era negoziato dai rappresentanti del Sovrano, definiti plenipotenziari in
quanto titolari di pieni poteri per la negoziazione.
I plenipotenziari predisponevano il testo dell’accordo (che doveva essere approvato all’unanimità) e
lo sottoscrivevano.
Seguivano poi la ratifica da parte del Sovrano, con la quale egli accertava se i plenipotenziari si
fossero effettivamente attenuti al mandato ricevuto.
Infine, occorreva che la volontà del Sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti, il che
avveniva con lo scambio delle ratifiche.

Negoziazione
Le fasi descritte sono ancora in uso nella prassi internazionale. Ancora oggi il procedimento
normale di formazione dell’accordo si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di
solito sono organi, o agiscono su mandato, dell’esecutivo.

L’art 7 della Conv. di Vienna stabilisce che una persona è considerata come rappresentante dello
Stato “se produce pieni poteri appropriati”. I pieni poteri sono appropriati allorchè promanano dagli
organi competenti in base al diritto e alla prassi propri di ciascun Paese. Nella maggior parte di
Stati, tra cui anche l’Italia, la competenza è del potere esecutivo.
Questo articolo prevede che possano rappresentare lo Stato senza produrre pieni poteri: i capi di
stato, di governo, ministri degli esteri ecc.

Negoziazione dei trattati multilaterali


La fase di negoziazione è tanto più complessa quanto più numerosi sono gli Stati che partecipano
alla negoziazione medesima e importante è la materia da regolare.
Inoltre, secondo una prassi sempre più seguita, la vecchia regola dell’unanimità va cedendo il passo
al principio di maggioranza. Talvolta le due regole si combinano.

Firma e ratifica
I negoziati si chiudono con la firma da parte dei plenipotenziari. Nel procedimento solenne, la firma
non comporta ancora alcun vincolo per gli Stati. Ha solo fini di autenticazione del testo definitivo.
La manifestazione di volontà con cui lo Stato si impegna si ha con la fase successiva della ratifica.
La competenza a ratificare è disciplinata da ogni singolo Stato con proprie norme costituzionali. In
linea generale però rientra tra i poteri del Capo dello Stato.

Disciplina della ratifica nell’ordinamento italiano e l’adesione


87 Cost: dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i trattati internazionali previa
autorizzazione delle Camere
80 Cost: l’autorizzazione delle Camere è necessaria e va data con legge, quando si tratti di trattati
che hanno natura politica, che prevedono regolamenti ecc.
89 Cost: nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri
proponenti che se ne assumono la responsabilità

La ratifica rientra quindi tra quegli atti che il Presidente della Repubblica non può rifiutare di
sottoscrivere una volta intervenuta la delibera governativa, ma di cui possa solo sollecitare il
riesame prima della sottoscrizione.
Questo dimostra che in Italia il potere di ratifica è nelle mani dell’Esecutivo.

Alla ratifica si equipara l’adesione, che si ha in caso di trattati multilaterali, quando la


manifestazione di volontà diretta a concludere l’accordo promana da uno Stato che non ha preso
parte ai negoziati. Perché questa volontà abbia efficacia, occorre che la partecipazione all’accordo
di Stati diversi da quelli che hanno concordato il testo sia prevista nel testo (c.d. clausola di
adesione). Occorre cioè che si tratti di un trattato aperto.

L’adesione di cui si parla implica partecipazione diretta al trattato multilaterale aperto da parte dello
Stato che è rimasto estraneo ai negoziati.
Diverso è il caso dell’adesione che si esprime attraverso un nuovo accordo tra i contraenti di un
trattato e uno Stato terzo, accordo che formalmente è del tutto autonomo e necessita oltre la ratifica
dello Stato terzo, anche di quella dei contraenti il primo trattato. Un accordo del genere è ad es.
necessario per aderire all’UE.

Scambio o deposito delle ratifiche


Il procedimento di formazione dell’accordo si conclude con lo scambio o con il deposito delle
ratifiche. Nel caso dello scambio, l’accordo si perfeziona istantaneamente.
Nel caso del deposito, via via che le ratifiche vengono depositate, l’accordo si forma tra gli Stati
depositari. Di solito nel testo del trattato si prevede che questo non entri in vigore finchè non si
raggiunga un certo numero di ratifiche.
Allo scambio e al deposito l’art 16 Conv di Vienna aggiunge anche la notifica agli Stati contraenti o
al depositario

Registrazione dei trattati


Secondo l’art 102 Carta delle Nazioni Unite, ogni trattato o accordo internazionale deve essere
registrato presso il Segretariato delle NU. Ma da questo articolo si ricava che l’unica conseguenza
derivante dall’omessa registrazione è costituita dall’impossibilità di invocare il trattato dinnanzi ad
un organo delle NU. La registrazione dunque non è un requisito di validità del trattato.

IV.
Procedimenti particolari di formazione dei trattati
Può darsi però che gli Stati seguano un procedimento diverso da quello solenne. Le procedure
alternative possono distinguersi a seconda che sfocino comunque nella ratifica, tra queste quelle che
subiscono variazioni in merito alla fase dei negoziati o alla firma; oppure si caratterizzino per un
differente modo di manifestazione della volontà da parte degli Stati.

Accordi in forma semplificata


Riguarda le procedure che sfociano comunque nella ratifica abbiamo i c.d. accordi in f.s.
Un accordo in f.s. è quello che è concluso con la sola sottoscrizione del testo da parte del
rappresentante dello Stato, e che si ha quando, dal testo o comunque dai comportamenti concludenti
delle parti, risulti che le medesime hanno inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva
manifestazione di volontà.
Art 12 Conv. di Vienna: “Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato viene espresso
con la firma del rappresentante di tale Stato: a) quando il trattato prevede che la firma abbia tale
effetto; b) quando sia stato accertato che gli Stati che hanno partecipato ai negoziati avevano
convenuto che la firma avrebbe avuto tale effetto; o c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale
effetto alla firma risulti dai pieni poteri del suo rappresentante o sia stata espressa nel corso dei
negoziati.“
Come si evince dall’articolo, l’accordo può anche essere misto, cioè essere concluso in f.s. da alcuni
stati e mediante ratifica da altri.

Possiamo dire che la categoria degli accordi in f.s comprende tutti gli accordi che, in un modo o
nell’altro, gli organi dell’Esecutivo di uno Stato, stipulano senza ricorrere alla ratifica, e quindi
impegnando direttamente e definitivamente la volontà dello Stato.

Accordi in forma semplificata e intese non giuridiche


Per aversi un accordo in f.s. non è sufficiente che la fase della ratifica sia saltata, ma è anche
necessario che dal testo dell’accordo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di obbligarsi.
Questo perché nella prassi internazionale sono diffuse anche le intese, come i memorandum
d’intesa, i gentlemen’s agreements, che non hanno natura di veri e propri accordi in senso giuridico.

Applicazione provvisoria dei trattati


In una zona di confine tra le intese non giuridiche e gli accordi in f.s. si collocano gli accordi
sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando, nel testo di un trattato o con
dichiarazioni espresse, le parti prevedono che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa della
sua entrata in vigore.
Questi accordi sono considerati da alcuni come intese non giuridiche e da altri come accordi in f.s.
quindi vincolanti. Secondo Picone questi accordi sarebbero giuridici soprattutto per la loro idoneità
a sospendere l’efficacia di precedenti convenzioni sul medesimo oggetto.

Trattati segreti
Secondo Paolo Fois come intese giuridiche non vincolanti sarebbero da considerare anche i trattati
segreti. È più opportuno ritenere che il divieto di concludere trattati segreti sia un divieto previsto
dal diritto interno e che quindi, questi, vadano inquadrati nel tema dell’invalidità dei trattati conclusi
in violazioni di norme interne di fondamentale importanza.

Competenza a concludere accordi semplificati secondo l’ordinamento italiano


La competenza a concludere accordi i f.s. è regolata da ciascuno Stato con norme costituzionali
proprie, anche se le Costituzioni raramente contengono norme espresse a riguardo.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, appare convincente la tesi di Cassese secondo cui la
stipulazione in f.s. sarebbe da escludere solo quando l’accordo riguarda una delle categorie di cui
all’art. 80 Cost (natura politica, prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, che importino
variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazioni di leggi).
In tutti gli altri casi il Governo sarebbe libero di decidere se dare all’accordo forma solenne o
semplificata.

Diffusioni degli accordi in forma semplificata nella prassi


La prassi degli accordi in f.s. tra giustificazione in motivi di speditezza e praticità. Negli Stati Uniti
ci sono gli executive agreements stipulati dal Presidente che non sono sottoposti alla ratifica, e che
si sono estesi in moltissimi ambiti.
Allo stesso modo in Italia, gli accordi in f.s. sono sconfinati anche nelle materie di cui all’art.80
Cost.
V.
Trattati conclusi in violazione di norme interne sulla competenza a stipulare
Sia nel caso che si segua il procedimento solenne, sia per gli accordi in f.s., se l’organo che stipula
l’accordo non ne ha la competenza o comunque non segue forme o procedimenti previsti dal diritto
interno, quali conseguenze ne derivano sul piano internazionale?
La discussione si concentra sui rapporti tra Potere esecutivo e organi legislativi e sugli accordi
conclusi dall’esecutivo senza il concorso del legislativo. Quindi la discussione riguarda gli accordi
in f.s. Se l’esecutivo si impegna in autonomia e definitivamente sul piano internazionale
relativamente a materie per le quali la Costituzione prevede il concorso del Parlamento, che valore
ha questo accordo?

Casi di violazione di norme italiane sulla competenza a stipulare


In Italia, come in altri Paesi, non mancano i casi in cui il Governo ha usato la f.s. per gli accordi che
rientravano nell’art.80 Cost, per i quali occorreva l’intervento del Parlamento, sotto la forma della
legge di autorizzazione alla ratifica e l’intervento del PDR.
Alcuni esempi: la domanda di ammissione dell’Italia alle NU è avvenuta con un atto del Ministro
degli esteri, oppure una serie di accordi di cooperazione, assistenza militare o di concessione di basi
militari, talvolta stipulati in forma segreta ecc.

Soluzione accolta dall’art. 46 della Convenzione di Vienna


Una soluzione è contenuta dall’art.46: “1. Il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da
un trattato sia stato espresso violando una disposizione del suo diritto interno concernente la
competenza a concludere trattati, non può essere invocato da tale Stato per infirmare il proprio
consenso, a meno che tale violazione non sia stata manifesta e non concerna una norma di
importanza fondamentale del proprio diritto interno. 2. Una violazione è manifesta quando essa
appaia obiettivamente evidente ad ogni Stato che si comporti, in materia, in base alla normale prassi
ed in buona fede.”
Dalla prassi però emergono alcuni elementi:
1. Quando i Governi si impegnano sul piano internazionale per materie che rientrano nella
sfera di competenza di altri organi, i Governi stessi sono soliti procurarsi prima o poi una
qualche forma di assenso o approvazione da parte dell’organo interessato
2. Di fronte ai casi in cui vengono avanzate sul piano diplomatico richieste di esecuzione o
denunce di violazioni di accordi conclusi dall’esecutivo, è difficile stabilire se ciò avviene
per sollecitare il rispetto di impegni giuridici o con meri fini politici.
3. La giurisprudenza interna e la massa di sentenze, provenienti da Stati diversi che si rifiutano
di applicare trattati conclusi dai rispettivi governi in violazione di norme interne
fondamentali, senza preoccuparsi della riconoscibilità della violazione da parte degli altri
contraenti.
Si ritiene quindi che l’art 46 corrisponda al diritto internazionale generale quando codifica il
principio che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a
stipulare sia causa di invalidità del trattato. Una violazione del genere si ha solo quando
sull’accordo non si sia pronunciato uno degli organi cui la Costituzione assegna potere decisionale
nel procedimento di stipulazione. Si ritiene inoltre che una simile intesa acquisti valore di vero e
proprio accordo internazionale in senso giuridico nel momento in cui l’organo messo da parte
manifesti esplicitamente o implicitamente il suo consenso.
Va notato che spesso si hanno accordi che subordinano la propria entrata in vigore alla
comunicazione da parte di ciascun Governo firmatario, che sono state adempiute le procedure
previste dal diritto interno per rendere applicabile nel territorio dello Stato, l’accordo medesimo.
Simili accordi non possono propriamente considerarsi accordi in f.s. dato che non dichiarano di
voler entrare in vigore per effetto della sola firma. Trattasi di figure intermedie tra gli accordi f.s. e
in forma solenne.
VI.
Accordi conclusi dalle Regioni
La questione ha avuto origine da certe iniziative prese da alcune Regioni e dirette a concordare con
Stati, Regioni o altri enti territoriali stranieri forme di collaborazione in settori di rispettiva
competenza.
La Corte Costituzionale prese in un primo tempo una posizione antiregionalistica, affermando in
principio l’incompetenza degli organi regionali in tema di formulazione di accordi con soggetti
propri di altri ordinamenti, compito spettante nel nostro sistema costituzionale esclusivamente agli
organi dello Stato sovrano.
La materia fu poi regolata nel 77: vennero riservate alle Stato le funzioni relative ai rapporti
internazionali nelle materie trasferite e delegate alle Regioni. Inoltre, faceva divieto alle Regioni di
svolgere attività promozionali all’estero senza il preventivo assenso governativo.
Nell’87 si capovolge il primitivo orientamento, la Corte sostiene che le Regioni, procuratosi il
previo assenso del Governo, possono stipulare non solo intese di rilievo internazionale, ma
addirittura accordi in senso proprio, tali da impegnare la responsabilità dello Stato e purchè si
trattasse di accordi riguardanti materie di competenza regionale e non rientranti in art. 80 Cost.
Oggi in seguito alla riforma del 117 Cost del 2001, è prevista la competenza della Regione nelle
materie di sua competenza, a concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad
altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.

VII.
Accordi conclusi da enti pubblici diversi dalle Regioni
Quanto detto a proposito delle intese tra Regioni di Stati diversi, vale anche per le intese tra altre
circoscrizioni territoriali o enti pubblici, come gemellaggi tra città, intese interuniversitarie ecc.
Anche qui si tratta di meri programmi destinati a fornire l’adozione di atti amministrativi interni.
Ciò a meno che non si tratti di veri e propri contratti di diritto privato.
Da non confondere sono gli accordi autonomamente promossi dalle Regioni con gli accordi tra
Regioni di Stati diversi, che per esplicita volontà degli Stati contraenti manifestata in un trattato
internazionale, costituiscono esecuzione o integrazione del trattato stesso.

VIII.
Accordi delle organizzazioni internazionali
Diffusi nella prassi sono gli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali sia tra loro sia con
stati membri, sia con stati terzi (da non confondere con la negoziazione o con la conclusione di
accordi tra Stati in seno alle organizzazioni internazionali).
Il potere di stipulare accordi è la principale manifestazione della personalità giuridica delle
organizzazioni. A questi accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 (copia 1969).

Competenza a stipulare degli organi delle organizzazioni internazionali


Allo statuto, ossia al trattato istitutivo, delle organizzazioni occorre far capo per stabilire quali sono
gli organi competenti a stipulare e per quali materie.
Possiamo dire che una violazione grave delle norme statutarie sulla competenza a stipulare porti
l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme contenute nel trattato istitutivo sono consuetudinarie,
possono essere modificate per consuetudine, purchè essa sia certa. Ciò sempre che non vi sia un
organo giudiziario destinato a vigilare sul rispetto del trattato istitutivo (UE).
Questo grosso modo trova conferma nell’art. 46 della Convenzione di Vienna del 1986 (=1969).

Categorie di accordi delle organizzazioni internazionali


Non sono importanti per i giuristi gli accordi di collegamento stipulati dalle organizzazioni tra loro
per coordinare le loro attività. Vi sono però i trattati conclusi con gli Stati membri o terzi che non
differiscono da degli accordi giuridici internazionali.
CAPITOLO X
INEFFICACIA DEI TRATTATI NEI CONFRONTI DEGLI STATI TERZI
L’INCOMPATIBILITA’ TRA NORME CONVENZIONALI
I.
Pacta tertiis nec nocent nec prosunt (i trattati valgono solo per le parti che li pongono in essere)
Le norme pattizie si distinguono dal diritto internazionale generale perché valgono solo per gli Stati
che le pongono in essere. Il trattato internazionale fa legge tra le parti e solo tra esse. Diritti e
obblighi per Stati terzi non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma di
partecipazione dello Stato terzo.
Può darsi che il trattato sia aperto, con clausola di adesione che prevede la possibilità che Stati
diversi dai contraenti partecipino a pieno titolo all’accordo mediante una dichiarazione di volontà.
L’unica differenza tra Stati aderenti e contraenti originari sta nel fatto che i primi non hanno
partecipato all’elaborazione dell’accordo.

Quando manca la clausola di adesione si dovrà dimostrare che diritti e obblighi siano in qualche
modo accettati dallo Stato terzo e che l’eventuale accettazione sia prevista dal trattato. Dovrà quindi
dimostrarsi che il trattato contenga un’offerta e che dallo stato terzo provenga un’accettazione.

Trattati a favore degli Stati terzi


Le parti di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere comportamenti che risultino vantaggiosi
per i terzi. Esempi sono i trattati che sanciscono la libertà di navigazione per le navi di tutti gli Stati,
o almeno degli Stati rivieraschi, sul Canale di Panama, sullo Stretto dei Dardanelli, sul Danubio ecc.
Ma tali vantaggi possono sempre essere revocati dalle parti contraenti, e ciò testimonia il loro
carattere meramente di riflesso per quanto riguarda il terzo.

Disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati


Anche la Convezione di Vienna sul diritto dei trattati si conforma in linea di massima al principio
dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi e alla regola per cui una forma di accordo è
necessaria affinchè il terzo benefici di diritti o sia colpito da obblighi.
Art. 34: “Un trattato non crea né obblighi né diritti per uno Stato terzo senza il consenso di
quest’ultimo”
Art. 35: un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di uno stato terzo
“quando le parti del trattato stesso intendano con quelle disposizioni creare tale obbligo e quando lo
Stato terzo accetti esplicitamente per iscritto tale obbligo”.
Art. 36: un diritto può nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge
che il consenso si presume fino a “indicazioni contrarie”. Questo art. viene controbilanciato dal
Art. 37: autorizza i contraenti originari a revocare quando vogliono il “diritto” accettato dal terzo, a
meno che non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo l’irrevocabilità.

L’art 37 è da interpretare come una norma che aggiunge un ulteriore presupposto al 36 per la
nascita di veri e propri diritti a favore di terzi: perché questi nascano occorre ex art.36 che le parti
vogliano crearli e che il terzo li accetti, ma anche che l’offerta dei contraenti originari sia
considerata come irrevocabile unilateralmente.

II.
Incompatibilità tra norme convenzionali
Premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato, in modo espresso o
implicito, da un trattato concluso in epoca successiva tra gli stessi contraenti, che cosa succede se i
contraenti dell’uno o dell’altro trattato coincidono solo in parte?
Può darsi che lo stato si impegni con un accordo a tenere un comportamento e poi successivamente
con stati diversi, a tenere un comportamento opposto.
In questi e consimili casi, la soluzione discende dalla combinazione dei due principi: successione
dei trattati nel tempo e inefficacia dei trattati per i terzi.
Fra gli stati contraenti di entrambi i trattati quello successivo prevale. Nei confronti degli Stati che
siano parte solo di uno dei trattati restano integri nonostante le incompatibilità, gli obblighi che da
ciascuno di essi derivano.
Lo Stato contraente di entrambi dovrà scegliere se tenere fede agli impegni assunti con il primo
oppure a quelli assunti con il secondo. Operata la scelta sarà internazionalmente responsabile,
rispettivamente verso gli stati contraenti del primo o del secondo accordo.

Incompatibilità tra norme convenzionali nel diritto interno


La scelta può avvenire una volta per tutte quando entrambi gli accordi trovino esecuzione
all’interno dello Stato mediante atti legislativi o normativi di pari grado. In tal caso varrà all’interno
dello Stato il principio della successione degli atti normativi nel tempo, con la conseguente
prevalenza del secondo trattato.
Se invece uno solo dei trattati è eseguito nello stato interno con legge, sarà esso a prevalere in
seguito ad una scelta del potere legislativo.

Un esempio è quello relativo ai trattati sul canale di Panama prima della IWW: gli Stati Uniti nel
1901 avevano concluso con la GB un accordo che prevedeva un trattamento uniforme, riguardo al
pedaggio, per tutte le navi che avrebbero attraversato il canale. Nel 1903 gli SU avevano stabilito in
un accordo con Panama che le navi statunitensi potessero godere di esenzione. Nel 1912 veniva
adottato un atto che accordava appunto detta esenzione alle navi americane di piccolo cabotaggio.
La disposizione fu poi abrogata per le proteste inglesi.

Art. 103 della Carta delle Nazioni Unite


In tema di diritti umani va registrata una tendenza della CEDU a considerare la CEDU come
inderogabile anche da accordi internazionali successivi.
Un discorso a parte va fatto per l’art 103, che sancisce la prevalenza degli obblighi derivanti dalla
Carta, sugli obblighi derivanti da qualsiasi alto trattato internazionale. Anche l’art 30 Convenzione
di Vienna fa salva la disposizione di cui al 103.
Questo articolo è considerato al di sopra degli accordi e può ritenersi che ad esso corrisponda ormai
una norma consuetudinaria.

Disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati


Art. 30: dopo aver sancito che la regola che fra due trattati conclusi dalle medesime parti “il trattato
anteriore si applica solo nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del
trattato posteriore” stabilisce che “Quando le parti di un trattato anteriore non sono tutte parti del
trattato posteriore: a) nelle relazioni fra gli Stati parti di entrambi i trattati, la norma da applicarsi è
quella enunciata al paragrafo 3; b) nelle relazioni tra uno Stato parte di entrambi i trattati e uno
Stato parte di uno solo dei due, il trattato del quale entrambi gli Stati sono parti regola i reciproci
diritti ed obblighi.”
“Il paragrafo 4 si applica, senza pregiudizio delle disposizioni dell’articolo 41, di ogni problema
relativo alla estinzione o alla sospensione dell’applicazione di un trattato ai sensi dell’articolo 60 e
di ogni questione di responsabilità che può sorgere per uno Stato dalla conclusione o
dall’applicazione di un trattato le cui disposizioni siano incompatibili con gli obblighi che ad esso
incombono nei confronti di un altro Stato in base ad un altro trattato.”
Riproduce ciò che comunemente si ritiene in materia di incompatibilità tra norme convenzionali.

Art. 41: stabilisce che due o più parti di un trattato del genere “non possono” concludere un accordo
che mira a modificarlo, “sia pure nei loro rapporti reciproci”, quando la modifica è vietata dal
trattato multilaterale, o pregiudica la posizione degli altri contraenti, o è incompatibile con la
realizzazione o lo scopo del trattato.
L’espressione “non possono” può far pensare che il 41 accolga la tesi dell’invalidità dell’accordo
successivo. Ma una tale interpretazione è smentita dalla circostanza che la contrarietà dell’accordo
parziale all’accordo multilaterale nei casi di cui al 41 non figura tra le cause di invalidità dei trattati
di cui 46ss.
Il 41 risolve il problema solo in termini di illiceità e responsabilità internazionale degli Stati
contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti del trattato multilaterale.

Clausole di “compatibilità” o “subordinazione”


Frequenti sono le dichiarazioni di compatibilità o subordinazione, contenute in un trattato nei
confronti di un altro o di una serie di altri trattati, ad es. di tutti i trattati preesistenti che vincolino
una delle parti. Queste clausole risolvono il problema alla radice.
Art. 30 Conv Vienna: “Quando un trattato precisa di essere subordinato ad un trattato anteriore o
posteriore o non debba essere considerato come incompatibile con quest’altro trattato, prevalgono le
disposizioni contenute in quest’ultimo.”
Alla dichiarazione di subordinazione, può però accompagnarsi l’impegno delle parti ad
intraprendere tutte le azioni idonee a sciogliersi dagli impegni incompatibili.
Dobbiamo sottolineare che il negoziato costituisce oggi lo strumento cui più di ogni altro si fa
ricorso ai fini di armonizzare le norme convenzionali tra loro incompatibili.

Clausola di “compatibilità” del Trattato CE


Un esempio è l’art. 351 TFUE: “Le disposizioni dei trattati non pregiudicano i diritti e gli obblighi
derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1° gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti,
anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati
terzi dall’altra.
Nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili coi trattati, lo Stato o gli Stati membri
interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate. Ove occorra, gli
Stati membri si forniranno reciproca assistenza per raggiungere tale scopo, assumendo
eventualmente una comune linea di condotta.”
Oggi la CGUE ha precisato nel caso Burgoa che la subordinazione alle convenzioni concluse prima
dell’entrata in vigore del TCE (oggi TFUE) riguarda non solo le disposizioni di quest’ultimo ma
anche gli atti della legislazione comunitaria.

Trattato CE e GATT
Il problema della compatibilità del TCE con accordi preesistente ha riguardato i rapporti con il c.d.
GATT (accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio).
In merito a questo accordo (tendente alla globalizzazione), il trattato CE presentava molti punti di
frizione, che sono stati via via appianati da negoziati dei vali Paesi contraenti.
Per quanto riguarda il GATT (1947), l’obbligo di rispettarne le norme è stato più volte affermato
dalla CGCE in linea di principio in quanto la Corte ha finito con il togliere a simile affermazione
gran parte del suo valore, sostenendo che le norme del GATT sono flessibili e sprovviste di
carattere incondizionato.
Anche il Consiglio CE ha affermato che tale atto non è di natura tale da essere invocato
direttamente dinnanzi alle autorità giudiziarie della Comunità e degli Stati membri.
Problemi di compatibilità si pongono oggi tra gli accordi conclusi in seno all’OMC e le convenzioni
multilaterali sulla protezione dell’ambiente. Clausole di compatibilità e subordinazione sono
adoperate ad es nella Convenzione di Nairobi sulla biodiversità.
Art 22: le disposizioni della presente convenzione non influiscono sui diritti e obblighi derivanti da
accordi internazionali esistenti, ad eccezione del caso in cui l’esercizio di tali obblighi o diritti siano
in grado di causare seri danni o pericoli all’ambiente.
CAPITOLO XI
LE RISERVE NEI TRATTATI
I.
Nozione di riserva
La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle con
talune modifiche, cosicchè tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti, l’accordo si
forma solo per la parte non investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile
tra gli altri Stati.

Nozione di dichiarazione interpretativa


Al genere delle riserve appartiene anche la dichiarazione interpretativa. Essa mira a specificare o
chiarire il senso o lo scopo attribuito dal dichiarante al trattato o alcune sue disposizioni.
La dichiarazione può essere
- Condizionata, quando lo Stato dichiara che intende vincolarsi al trattato solo se questo o
alcune sue clausole, sono interpretate in un certo modo. Questa equivale ad una riserva.
- Incondizionata, quando tale intento non risulta dalla dichiarazione. Questa è solo una
proposta che mira a salvaguardare una posizione giuridica.
Alle dichiarazioni interpretative incondizionate sembra riferirsi il 310 della Convenzione di
Montego Bay, che ammette dichiarazioni anche rispetto ad articoli per cui non sono ammesse
riserve, ma a condizione che esse non mirino ad escludere o modificare gli effetti giuridici della
disposizione.

La riserva secondo il diritto internazionale classico


Sia le riserve sia le dichiarazioni interpretative hanno senso nei trattati multilaterali.
Secondo il diritto internazionale classico la possibilità di apporre riserve doveva essere concordata
nella fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai
plenipotenziari. In mancanza, si riteneva che uno Stato non avesse altra alternativa che ratificare o
meno il trattato. Erano due i modi attraverso cui si potevano apporre riserve:
- I singoli Stati dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accettare alcune
clausole e quindi nel testo del trattato si menzionava tale riserva
- Il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve al momento della ratifica.
Bisognava però indicare quali clausole, quali articoli potessero formare oggetto di ratifica.
Dunque, non era ammissibile la ratifica di un trattato multilaterale accompagnata da riserve non
previste dal testo del trattato.

Evoluzione della disciplina delle riserve


Si è verificata una notevole evoluzione dell’istituto, anche se i due modi classici permangono.
Una tappa fondamentale è segnata dal parere 28.5.1951 della CIG reso su richiesta dell’Assemblea
Generale NU e avente ad oggetto la Convenzione sulla repressione del Genocidio.
L’assemblea chiese alla Corte se, non prevedendo la Convenzione sul genocidio la facoltà di
apporre riserve, gli Stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento
della ratifica.
La corte risposte affermando un principio rivoluzionario che oggi è consolidato come principio
consuetudinario: una riserva può essere formulata anche se la relativa facoltà non è prevista dal
trattato, qualora essa sia compatibile con l’oggetto o lo scopo del trattato.

Comunque, un altro Stato contraente può contestare la riserva e ritenere che il trattato non entri in
vigore nei sui rapporti con lo Stato autore della riserva.
La Convenzione di Vienna art 19 codifica innanzitutto il principio che una riserva può essere
sempre formulata purché non sia espressamente esclusa nel testo del trattato oppure sia
incompatibile con l’oggetto o scopo del trattato.
La Convenzione stabilisce inoltre che la riserva quando non prevista, può essere contestata da
un’altra parte contraente. Se tale contestazione o obiezione non viene manifestata entro 12gg, la
riserva si intende accettata.
Combinato disposto artt. 20 e 21: l’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i
suoi effetti, se lo stato obiettore non abbia espressamente e nettamente manifestato l’intenzione di
impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati. Quindi lo Stato che obietta deve
farlo espressamente.
Art. 22: sulla revoca delle riserve
Art. 23: forma in cui vanno redatte riserve e revoche

La prassi internazionalistica successiva ha innanzitutto confermato la norma ricavabile dai 20 e 21,


ammettendo che le obiezioni possono avere gli effetti più vari, dall’impedimento della formazione
dell’accordo, fino ad un effetto meramente precauzionale o morale.
Un’altra innovazione riguarda che uno Stato formuli riserve dopo la ratifica del trattato. Questo
purché nessuna delle altre parti contraenti non sollevi obiezioni in un termine che prima era di 90gg
e ora è di 12 mesi.

Manca nella Convenzione di Vienna una disciplina delle dichiarazioni interpretative incondizionate.
Secondo la prassi un’altra parte contraente può fare obiezione all’interpretazione, magari
contrapponendole un’alternativa. Comunque trattandosi di dichiarazioni interpretative non valgono
per esse particolari condizioni di forma e validità, né l’autore può pretendere che il trattato non entri
in vigore.

Riserve e giudice internazionale o interno


La Convenzione di Vienna non si occupa dei rapporti tra il criterio oggettivo della invalidità
formale o sostanziale della riserva, e quello soggettivo dell’obiezione di un’altra parte contraente.
Se la riserva è stata accettata, deve ritenersi ammissibile anche se non è valida? E viceversa, se ha
riscontrato obiezioni, deve ritenersi inammissibile anche se è valida?
Occorre stabilire se in merito debba decidere un giudice.
Il giudice, internazionale o interno, ha il potere di decidere autonomamente sulla validità o meno
della riserva, ovviamente con effetti limitati al caso di specie.
Con l’una eccezione che dovrà tener conto delle riserve e obiezioni formulate dagli organi
costituzionalmente competenti del proprio Stato. Quindi, per quanto riguarda il giudice interno, la
sua posizione è identica a quella in tema di invalidità e estinzione dei trattati.
Se invece un giudice non è chiamato a pronunciarsi, non resta che tener conto delle eventuali
obiezioni.

Inammissibilità della riserva e principio utile per inutile non vitiatur


La tendenza innovatrice principale è quella che riguarda le conseguenze della accertata invalidità
della riserva, particolarmente quando questa è esclusa dal testo del trattato o è contraria all’oggetto
o allo scopo del trattato medesimo.
Secondo questa tendenza se lo Stato formula una riserva invalida, l’invalidità non comporta
l’estraneità dello Stato rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva, che dovrà pertanto
considerarsi come non apposta (utile per inutile non vitiatur).
Dobbiamo ritenere che detto principio trova applicazione se lo Stato autore della riserva non faccia
dell’accoglimento di quest’ultima una condicio sine qua non per la partecipazione al trattato.

II.
Disciplina della competenza a formulare le riserve nell’ordinamento italiano
Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più
organi, può darsi che l’opposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri.
Che cosa succede se il Governo non tiene conto di una riserva decisa dal Parlamento o formula una
riserva che il Parlamento non ha voluto?
Questa seconda ipotesi si è spesso verificato nella prassi italiana, a proposito anche di trattati di
grande rilievo, come la CEDU e il patto sui diritti civili e politici delle NU.
Nel primo caso, la riserva aggiunta data dal governo riguardava il divieto di impedire ai cittadini di
rientrare nel proprio stato. Nel caso del Patto, la legge di autorizzazione alla ratifica conteneva 2
riserve di carattere interpretativo, alle quali il Governo ne aggiunse altre 4.

La reciproca delimitazione dei poteri tra l’Esecutivo e il Legislativo in ordine alla formulazione
delle riserve dipendono dal sistema costituzionale vigente in ciascuno Stato.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, questa prassi ha dato luogo a contrastanti giudizi
dottrinali, alcuni sostengono che il governo possa, altri che non possa, formulare riserve non
previste dalla legge di autorizzazione.
I sostenitori della prima tesi si ispirano al fatto che il Governo sia il gestore dei rapporti
internazionali. I sostenitori della seconda muovono da posizioni più garantiste e dalla necessità di
collaborazione tra Parlamento e Governo, voluta dall’art.80 sia effettiva.

Il problema si risolve se si tiene presente la distinzione tra formazione e manifestazione della


volontà dello Stato, da un lato, e responsabilità del Governo di fronte al Parlamento, dall’altro.
Sotto il primo profilo, non c’è dubbio che una riserva sia valida sia che essa venga stipulata
autonomamente dal Parlamento, sia che venga stipulata dal Governo.
Il discorso è diverso per quanto riguarda la responsabilità politica del Governo e dei suoi membri, di
fronte al Parlamento: se il governo decide di discostarsi in tema di riserve da quanto deliberato dal
Parlamento, se la decisione, non è presa dopo che il Parlamento sia stato informato, e se infine non
si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris generis, vi è materia perché scattino i
meccanismi di controllo del Parlamento sul Governo.

È chiaro che per il diritto internazionale non presenta alcun interesse il profilo della responsabilità
del Governo, ma solo quello della formazione della volontà dello Stato.
Si dirà che la riserva aggiunta dal governo e dichiarata all’atto del deposito della ratifica, essendo
valida per il diritto costituzionale, lo sarà anche per il diritto internazionale. Nel caso, teorico, di
riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il governo non tenga conto e che quindi il
governo non dichiari all’atto del deposito della ratifica, troverà applicazione la regola relativa alla
competenza a stipulare: per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del
diritto interno e dovrà quindi ritenersi che lo stato non resti impegnato per detta parte se e finchè il
Parlamento non revochi la riserva.
CAPITOLO XII
L’INTERPRETAZIONE DEI TRATTATI
I.
Metodo obbiettivistico e metodo subiettivistico di interpretazione
Il metodo subbiettivistico è mutuato dal regime dei contratti nel diritto interno, in base ad esso si
renderebbe in tutti i casi e ad ogni costo necessaria una ricerca della volontà effettiva delle parti
come contrapposta alla volontà dichiarata. Si tende all’abbandono di tale metodo.
Si ritiene che debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo, che risulta dai
rapporti di connessione logica intercorrenti tra le parti del testo, che si armonizza con l’oggetto e la
funzione dell’atto come sono desumibili dal testo.
In questa concezione i lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria a cui si può ricorrere solo
in presenza di un testo ambiguo o lacunoso.

A favore del metodo obbiettivistico vi è la Convenzione di Vienna artt. 31-33.


31: 1. Un trattato deve essere interpretato in buona fede in base al senso comune da attribuire ai
termini del trattato nel loro contesto ed alla luce dell’oggetto e del suo scopo
2. Occorre tener conto del contesto in cui il trattato si situa, ossia degli altri accordi o strumenti
posti in essere dalle parti in occasione della conclusione del trattato
3. Occorre poi tener conto di accordi successivi o prassi seguite dalle parti nell’interpretazione
o applicazione del trattato
4. Unica eccezione: a un termine del trattato può attribuirsi un significato particolare se è certo
che tale era l’intenzione delle parti

32: considera i lavori preparatori come mezzo supplementare di integrazione da usarsi quando
l’esame del testo lascia il senso ambiguo o oscuro oppure porta ad un significato manifestamente
assurdo o irragionevole.

33: si occupa del caso dei trattati redatti in più lingue tutti egualmente ufficiali. Se non è previsto
che un testo prevalga, va comunque adottato il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello
scopo del trattato, concilia meglio tutti i testi.

A parte il ricorso al metodo obbiettivistico, valgono per l’interpretazione dei trattati internazionali,
le regole generali di interpretazione. Es: tra più interpretazioni prevale quella più favorevole al
contraente debole, la regola sull’interpretazione estensiva o restrittiva ecc.

Interpretazione estensiva e analogia


Oggi è considerata arcaica la concezione per la quale i trattati devono sempre essere interpretati
restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione della sovranità e libertà degli Stati. Di
fatto l’interpretazione restrittiva trova ormai scarso credito presso i giudici internazionali, i quali
nell’interpretazione di alcuni trattati, in particolare dei trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, cadono nell’eccesso opposto.

II.
Teoria dei poteri impliciti
Quanto detto circa il ricorso ai normali mezzi di interpretazione, compresa l’analogia, vale anche
per i trattati di istituzione di organizzazioni internazionali (carta delle NU, trattati UE)
Si tenta però di ricostruire regole particolari, applicabili sia alla Carta NU sia in generale ai trattati
istitutivi di organizzazioni internazionali.
La CIG si è posta per questa strada quando ha fatto riferimento alla c.d. teoria dei poteri impliciti,
sviluppata dalla Corte Suprema degli USA. In base ad essa ogni organo disporrebbe non solo dei
poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri non espressi
ma necessari per l’esercizio dei poteri espressi.

Applicazione della teoria dei poteri impliciti alla Carta dell’ONU


La CIG ne ha addirittura ampliato la portata, nell’applicarla agli organi ONU, finendo con il
dedurre certi poteri degli organi direttamente ed esclusivamente dalle norme sui fini
dell’Organizzazione.

Applicazione della teoria dei poteri impliciti al Trattato CE


Il problema dei poter impliciti ha grande rilevanza anche nell’ambito della CE. Nel trattato istitutivo
CE, vi è una norma espressa che prevedeva che quando un’azione della Comunità risulti necessaria
per raggiungere uno degli scopi della Comunità, senza che il Trattato abbia previsto poteri d’azione
a tal scopo richiesti, deliberando all’unanimità e dopo aver consultato il Parlamento europeo, la
Comunità prende le disposizioni del caso.

La teoria dei poteri impliciti appare però eccessiva. Occorre infatti essere cauti nel trasferire sul
piano del diritto internazionale dottrine particolari di diritto interno. La teoria dei poteri impliciti
può essere anche utilizzata qualora resti nei limiti di una interpretazione estensiva o analogica.
Dilatarla è una cosa non solo poco giustificabile dal punto di vista giuridico, ma anche suscettibile
di risultare controproducente dal punto di vista politico, potendo suscitare reazioni e opposizioni da
parte di stati membri delle organizzazioni i cui poteri si vuole rafforzare.

III.
Interpretazione unilateralistica
La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni unilateralistiche dei trattati, esclude che una
norma contenta in un accordo internazionale, possa assumere significati differenti a seconda dello
Stato contraente al quale o all’interno del quale, debba applicarsi.
Art. 33: nel caso di testi non concordanti redatti in più lingue ufficiali, impone un’interpretazione
che comunque concili tutti i testi.
Art. 31: nell’interpretare un trattato, occorre tener conto di altre norme internazionali in vigore tra le
parti. Tra le “altre norme” non sono incluse le norme di diritto interno proprie di ciascun Paese.
L’omissione è assai significativa ove si consideri la tendenza, un tempo marcata, ad interpretare in
chiave unilateralistica (in modo conforme solo al proprio diritto) trattati che adoperano termini
tecnico-giuridici interni.

Queste tendenze interpretative unilateralistiche mal si conciliano con l’idea stessa di trattato, in
quanto punto di incontro e di fusione delle volontà degli Stati contraenti, e muovono dalla
presunzione che la volontà di ciascuno stato sia nel senso di obbligarsi in modo conforme al proprio
diritto, ossia da un’interpretazione di tipo subbiettivistico spinta all’eccesso.

Una chiara affermazione della necessità di evitare interpretazioni unilateralistiche, e di ricercare il


significato autonomo delle clausole di un trattato, è contenuta in una sentenza dell’House of Lords
del 2000. L’autonomia dell’interpretazione del trattato è sempre stata rivendicata dalla CEDU in
relazione a termini di diritto interno (es. “proprietà”)
Il problema dell’interpretazione di termini giuridici interni, suscettibili di avere significati diversi
nei vari ordinamenti, può porsi per i trattati di moltissime materie: nei trattati diritto privato
uniforme (accordi con cui gli stati si impegnano a regolare allo stesso modo certi settori del diritto
privato e internazionale privato), trattati di diritto processuale, sul riconoscimento reciproco delle
sentenze ecc.
Interpretazione degli accordi di diritto uniforme
Un esempio interessante è dato dalla Convenzione di Bruxelles nel 1968, sulla competenza
giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale completata dal
Protocollo di Lussemburgo nel 1971: il protocollo attribuisce alla CGCE la competenza a
pronunciarsi in via pregiudiziale sulle questioni relative all’interpretazione della Convenzione
sollevate dinnanzi ai giudici nazionali.
Affidando ad un unico giudice i dubbi interpretativi, l’uniformità è assicurata.

Una soluzione diversa è fornita dalla Convenzione di Vienna del 1980 relativa ai contratti di vendita
internazionale di merci. Si afferma che le questioni concernenti le materie regolate dalla
Convenzione saranno regolate secondo i principi generali a cui si ispira. Il giudice interno, dovrà
comunque evitare di rifarsi esclusivamente al proprio diritto, dovrà sforzarsi di stabilire quale sia il
significato univoco ed obiettivo della disposizione.

Libertà dei giudici interni in materia di interpretazione del diritto internazionale


A parte questi casi, deve rivendicarsi ai giudici interni la massima libertà nell’interpretazione del
diritto internazionale. La subordinazione dei giudici all’esecutivo in questa materia va scomparendo
e va combattuta.
CAPITOLO XIII
LA SUCCESSIONE DEGLI STATI NEI TRATTATI
I.
Successione fra Stati e mutamenti di sovranità
Quando uno Stato si sostituisce ad un altro nel governo di un territorio, di una comunità territoriale,
è vincolato dai trattati stipulati dal suo predecessore e in vigore in quel territorio?
Può darsi che una parte del territorio di uno Stato passi sotto la sovranità di un altro Stato già
esistente, o che si costituisca in Stato indipendente, oppure che il cambiamento di sovranità riguardi
l’intero territorio, oppure si smembra e dà luogo a più Stati nuovi o infine può accadere che in
seguito ad eventi rivoluzionari, venga a trovarsi sotto un apparato di governo del tutto diverso.
Tutte queste vicende sono costituite da circostanze di fatto, cioè dall’effettivo esercizio del potere di
governo nell’ambito di un territorio. Ciò è vero anche quando la vicenda è conseguenza di un
trattato.

Successione nei rapporti internazionali e nei rapporti interni


Sul piano giuridico il problema che si pone è appunto se una volta verificatosi un cambiamento di
sovranità, i diritti e obblighi che facevano capo al predecessore passino allo Stato subentrante. È
chiaro che diritti e obblighi internazionali oggetto di successione sono solo quelli pattizi, dato che il
diritto consuetudinario vincola comunque tutti gli Stati.

Si discute se il diritto internazionale imponga una successione in diritti e obblighi di natura interna
se ad es. vi sia una successione nel debito pubblico.

II.
Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione nei trattati
Alla successione degli Stati rispetto ai trattati è dedicata la Convenzione di Vienna del 1978.
Convenzione che non ha avuto molto seguito, è stata ratificata da soli 22 paesi, tra cui non figura
l’Italia. Detta Convenzione utilizza il termine “successione” in senso atecnico, ossia per successione
si intende la sostituzione. Si parla di Stato successore come Stato che subentra ad un altro nel
governo di un territorio. (art 2)
Quindi la terminologia prescinde dalla questione se e quando lo Stato successore, succeda anche in
senso giuridico.

Sfera di applicazione della Convenzione di Vienna del 1978


Art 7: la Convenzione di applica alle successioni fra stati che siano intervenute dopo l’entrata in
vigore della convenzione.
Non è richiesto che lo Stato successore sia già parte contraente al momento della successione,
quindi, se uno stato successore aderisce alla convenzione, la sua adesione retroagisce fino al
momento in cui la successione è avvenuta, sempre che in quel momento la Convenzione fosse in
vigore.
La ratio sta nel fatto che in molti casi lo stato successore è uno Stato nuovo, e che pertanto la
Convenzione non potrebbe applicarsi in molti casi qualora si pretendesse che lo Stato successore
fosse già parte contraente al momento della successione.

Uno stato successore può addirittura dichiarare di voler applicare la Convenzione ad una
successione intervenuta prima dell’entrata in vigore della Convenzione.
III.
Successione nei trattati localizzabili
Un principio affermato dalla dottrina e dall’art 12 Convenzione Vienna del 1978 è il principio res
transit cum suo onere, per cui lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel governo di
una comunità territoriale, è vincolato dai trattati, o dalle clausole di un trattato, di natura reale o
territoriale, o possiamo dire “localizzabili”, cioè dai trattati che riguardano l’uso di determinate parti
di territorio conclusi dal predecessore.
Tra questi: trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di territori di Stati vicini, gli
accordi per la concessione in affitto di parti di territorio, trattati che prevedono la libertà di
navigazione di fiumi, canali e vie d’acqua ecc.

Vi si fanno rientrare anche i trattati che fissano le frontiere tra Stati vicini, ma questo è dubbio,
perché l’accordo di delimitazione esaurisce i suoi effetti nel momento in cui la frontiera è
determinata, dopo di che ad essere rispettato non è l’accordo ma il diritto di sovranità territoriale
che ciascun Paese esercita da un lato e dall’altro della frontiera.

Uti possidetis
L’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dal predecessore è generalmente sentito nell’ambito
della comunità internazionale. Anche i Paesi sorti dalla decolonizzazione non lo hanno negato.
L’Assemblea generale dei capi di stato e governo dell’OUA, nel 1964 al Cairo, affermò che gli Stati
membri si impegnavano a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di ciascuno Stato nonché i
confini esistenti al momento dell’acquisto dell’indipendenza.
La prassi africana, si riallaccia alla prassi dell’America latina nell’ambito della quale si è fatto
ricorso fin dal XIX secolo al principio dell’uti possidetis juris: in base a tale principio gli Stati
americani avrebbero ereditato dalla Spagna le frontiere delle circoscrizioni amministrative
dell’impero coloniale spagnolo esistenti al momento dell’indipendenza.
L’applicazione del principio ha dato luogo a difficoltà, data l’incertezza delle medesime frontiere in
epoca coloniale.

Singolare è la controversia tra Libia e Ciad, sorta nella pretesa della Libia di disconoscere la
frontiera da esso stesso fissata con un trattato con la Francia, allora esercitante la sovranità sul Ciad.
Nel risolvere la controversia in senso sfavorevole alle Libia, la CIG ha affermato il principio che la
frontiera stabilita da un trattato deve ritenersi definitiva.

Intrasmissibilità dei trattati di natura politica


La successione nei trattati localizzabili incontra un limite che è comune a tutte le ipotesi in cui il
diritto internazionale ammette la trasmissione di diritti e obblighi pattizi.
Il limite riguarda accordi che siano legati al regime vigente prima del cambiamento di sovranità. Ad
es. non si verifica successione negli accordi che concedono parti di territorio per l’installazione di
basi militari straniere.
Si tratta in realtà dell’applicazione del principio rebus sic stantibus, in forza del quale un trattato o
determinate clausole di esso si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al
momento della conclusione.

I trattati sui diritti umani come trattati “localizzabili”


Secondo il Comitato dei diritti umani delle NU, ai trattati localizzabili apparterrebbero anche i
trattati in materia di diritti umani, dato che i diritti in essi riconosciuti appartengono alle persone che
vivono sul territorio degli Stati parte.
Si tratta però di uno sviluppo di notevole interesse, ma occorre attendere ulteriori conferme dalla
prassi
IV.
Trattati non localizzabili
Per quanto riguarda i trattati non localizzabili, la prassi è stata e rimane confusa perché sempre più
spesso la successione nei trattati del predecessore è regolata da accordi tra lo Stato subentrante e le
altre parti contraenti nei precedenti trattati.
La maggioranza della dottrina ha sempre ritenuto che la regola fondamentale da assumere come
punto di partenza per i trattati non localizzabili, sia la regola della c.d. tabula rasa.
Lo Stato che subentra nel governo di un territorio non è in linea di principio, e salve eccezioni,
vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore.

Una variante a questa tesi è costituita dall’opinione secondo cui i trattati del predecessore
resterebbero sospesi finché lo Stato nuovo e gli altri stati contraenti non abbiano regolato la materia.

Regola della tabula rasa


La Convenzione del 1978 distingue la situazione degli Stato sorti dalla decolonizzazione (stati di
nuova indipendenza), dalla situazione di ogni altro stato che subenti nel governo di un territorio. Per
i primi assume come regola fondamentale quella della tabula rasa (in materia di contratti non
localizzabili), per la seconda assume come regola quella opposta, della continuità dei trattati. Ma
detta differenziazione non trova corrispondenza nel diritto consuetudinario.

L’adozione del principio di continuità dei trattati con riguardo a casi diversi da quelli della
decolonizzazione, ha lo scopo di contribuire allo sviluppo progressivo del diritto internazionale più
che di codificare una regola corrispondente al diritto consuetudinario.

Ora esamineremo le ipotesi di mutamento della sovranità, assumendo come punto di partenza la
regola della tabula rasa.

V.
Distacco di parti del territorio
Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una parte del territorio di
uno Stato.
Può darsi che la parte di territorio distaccatasi si aggiunga, per effetto di cessione o conquista, al
territorio di un altro Stato preesistente. In tal caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il
distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio distaccatosi.
Si estendono invece a questo, in modo automatico, gli accordi vigenti nello stato che acquista il
territorio.

La dottrina a tal proposito parla di mobilità delle frontiere dei trattati. La regola della mobilità è
enunciata anche dalla Convenzione del 1978.

Secessione
Può darsi che invece, sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi (secessione). Anche in
questo caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di avere vigore nel
territorio che acquista l’indipendenza.
Gli Stati nuovi hanno in ogni tempo preteso ed il più spesso ottenuto l’applicazione del principio
della tabula rasa.

Un caso che non si inquadra nella tendenza generale è quello della Siria che avendo costituito nel
1958 con l’Egitto, la Repubblica Araba Unita, se ne stacco nel 61. Dopo il distacco la Siria continuò
ad applicare sia i trattati conclusi dalla RAU sia i trattati che la Siria aveva stipulato prima del 58.
Dobbiamo ritenere che la Convenzione del 1978 accoglie il principio della tabula rasa per i territori
di tipo coloniale staccatisi dalle Potenze detentrici, mentre enuncia il principio della continuità dei
trattati per tutte le altre ipotesi di secessione. Anche se questo ultimo caso non corrisponde al diritto
consuetudinario.

Accordi di devoluzione
Sul problema della successione non influiscono i c.d. accordi di devoluzione, di cui si sono avuti
vari esempi durante la decolonizzazione. Con l’accordo di devoluzione, che intercorre tra la ex
madrepatria e lo Stato di nuova indipendenza, quest’ultimo consente a subentrare nei trattati già
conclusi dalla prima con Stati terzi.
L’accordo pone solo l’obbligo per la ex colonia di compiere i passi necessari affinchè i trattati
vengano rinnovati, anche tacitamente.
La prassi e la Convenzione del 1978 negano che gli accordi di devoluzione possano avere l’effetto
di trasmettere diritti e obblighi pattizi del predecessore.

L’applicazione del principio della tabula rasa agli Stati formatisi per distacco è integrale per quanto
riguarda i trattati bilaterali conclusi dal predecessore e vigenti nel territorio distaccatosi. Questi
potranno continuare ad avere valore solo se rinnovati con apposito accordo con la controparte,
anche tacito.
Egualmente per i trattati multilaterali chiusi, cioè che non prevedono la partecipazione mediante
adesione, di Stati diversi dagli originari. Anche in questo caso occorre un nuovo accordo con tutte le
controparti.
Così stabilisce anche la Convenzione del 78.

Notificazione di successione
Per quanto riguarda i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati diversi da quelli originari, il
principio della tabula rasa subisce un temperamento.
Lo stato di nuova formazione può procedere alla c.d. notificazione di successione, con cui la sua
partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza.
Mentre l’adesione ha effetto ex nunc, la notificazione ha effetto retroattivo.

Più che un principio in materia di successione, si tratta di una particolare regola sulla stipulazione
dei trattati. La Convenzione del 78 distingue tra trattati già in vigore e non ancora in vigore alla data
della successione. Essa si limita sempre agli stati ex coloniali.

VI.
Smembramento di uno Stato
Affine all’ipotesi della formazione di uno o più stati nuovi per secessione è quella dello
smembramento. La secessione non implica l’estinzione dello Stato che la subisce, mentre lo
smembramento consiste proprio nel fatto che uno Stato si estingue e sul suo territorio si formano
due o più stati nuovi.
L’unico criterio per distinguere queste due ipotesi è quello della continuità o meno
dell’organizzazione di governo preesistente.
Un esempio di smembramento e non di distacco è quello dell’Impero austro-ungarico dopo la IWW,
dato che nessuno degli Stati su di esso formatisi, conservò la medesima organizzazione di governo
dell’Impero. Un altro esempio è anche quello della formazione della Repubblica federale tedesca e
della Repubblica democratica tedesca dopo il Reich.
Altri esempi sono la dissoluzione dell’Unione sovietica, della Iugoslavia, della Cecoslovacchia
negli anni 90.
Lo smembramento dell’Unione sovietica avvenuto con gli accordi di Minsk e di Alma Ata del 91, e
quello della Cecoslovacchia sono avvenuti concordemente.
Quello della Iugoslavia ha invece avuto luogo mediante dichiarazioni unilaterali ed è stato
accompagnato da eventi bellici. Si è discusso se si trattasse di smembramento o di secessione della
Croazia, Slovenia, Bosnia, Macedonia, Serbia, Montenegro.
La tesi della secessione è da escludere non essendovi stata continuità né di regime né di costituzione
con il vecchio stato socialista.

Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al distacco. Agli Stati nuovi
formatisi sul territorio dello Stato smembrato è applicabile il principio della tabula rasa, temperato
dalla regola che per i trattati multilaterali aperti, prevede la facoltà di procedere ad una notificazione
di successione.
Anche la Convenzione del 1978 unifica le due ipotesi. Si ritiene che la soluzione qui accolta non
trovi riscontro pieno nella prassi recente, la quale rileva la tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le
obbligazioni pattizie dello Stato smembrato.
Al contrario però detta prassi non è idonea a porre nel nulla la regola della tabula rasa. Innanzitutto
l’accollo risulta di solito da accordi tra gli stati nuovi tra loro, come nel caso della Repubblica ceca
e la Slovacchia, o nel caso delle Repubbliche della ex Iugoslavia.
Allorchè si tratta di debiti pecuniari, l’accollo non sembra ispirarsi a principi di diritto
internazionale, quanto piuttosto vuole perseguire il fine pratico di evitare che il flusso dei crediti
dell’estero si interrompa.

Smembramento dell’Unione Sovietica


Nel caso dello smembramento dell’Unione sovietica la Dichiarazione di Alma Ata prevede che gli
Stati membri della Comunità di Stati indipendenti garantiscono il rispetto degli obblighi
internazionali derivanti dai trattati e accordi conclusi dalla ex-URSS.
Il Consiglio dei Capi di Stato della CSI si dichiarava a favore della successione della Russia nei
diritti di membro dell’ONU già spettanti all’Unione Sovietica. È chiaro che accordi e dichiarazioni
del genere devono incontrare l’accettazione degli Stati terzi.
Per quanto riguarda la successione della Russia all’Unione sovietica nel seggio alle NU, essa ha
incontrato l’acquiescenza degli altri Stati membri dell’ONU.

Smembramento della Iugoslavia


Nel caso dell’ex Iugoslavia, una dichiarazione di accollo di tutti gli obblighi che già gravavano su di
essa si era già avuta ad opera della Repubblica iugoslava, all’atto di proclamazione di tale
Repubblica.
Questa dichiarazione ed altre sono state sufficienti secondo la CIG nel caso di applicazione della
convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine del genocidi, riguardanti le attuali
Serbia e Montenegro, per considerare i due paesi come parti di detta convenzione.

Sulla necessità dell’accettazione dell’accordo da parte degli Stati terzi è interessante la posizione
presa dal Dipartimento federale svizzero per gli affari esteri relativamente alle relazioni
convenzionali con Croazia e Slovenia nonché con le ex Repubbliche sovietiche.
Il Dipartimento dopo aver sostenuto che in materia di successione nei trattati non c’è passaggio
automatico allo stato successore dei diritti e obblighi dello Stato predecessore, riserva alla Svizzera
ed agli stati nuovi la libertà di mantenere in vigore le convenzioni concluse dalla ex Iugoslavia e
dall’Unione sovietica.
Per quanto riguarda la prassi più antica, essa presenta sia elementi a favore della tabula rasa, sia
accordi o dichiarazioni unilaterali di accollo. Ad es quando si disgregò l’Impero austro-ungarico,
mentre l’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia dichiararono di non sentirsi legati dagli accordi
stipulati dall’Impero, l’Ungheria dichiarò il contrario.
VII.
Incorporazione e fusione fra Stati
Opposte al distacco e allo smembramento sono l’incorporazione e la fusione. La prima si ha quando
uno Stato, estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato. La fusione si ha invece quando due o
più stati si estinguono tutti e danno vita ad uno stato nuovo. Anche qui il criterio di distinzione non
può che riferirsi all’organizzazione di governo.
L’ipotesi dell’incorporazione va preferita a quella della fusone ogni volta che vi sia continuità tra
l’organizzazione di governo di uno degli Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta
dall’unificazione. Ad es. un’incorporazione è stata quella che ha riguardato la formazione del
Regno d’Italia.

All’incorporazione si applica la stessa regola che si applica ai trasferimenti di territori da uno Stato
ad un altro, ossia la regola della mobilità delle frontiere.
I trattati dello Stato che si estingue cessano di avere vigore, mentre al territorio incorporato si
estendono i trattati dello Stato incorporante. Così i trattati del regno di Sardegna si estesero dopo
l’unità, al resto d’Italia, mentre si estinsero quelli degli altri Stati italiani.
Per i trattati dello Stato incorporato vale quindi la regola della tabula rasa.
Lo stesso principio vale in caso di fusione: lo Stato sorto dalla fusione, sempre che non presenti
alcuna continuità in merito all’organizzazione di governo, con uno degli Stati preesistenti, nasce
libero da impegni pattizi.

Incorporazione e fusione di territori che permangono autonomi


Un’eccezione al principio della tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali incorporate
o fuse, conservino un notevole grado di autonomia nell’ambito dello Stato incorporato o nuovo,
quando in particolare, si instauri un vincolo di tipo federale.
In questo caso la prassi si è orientata nel senso della continuità degli accordi, con efficacia limitata
alla regione incorporata o fusa. Ad es. gli accordi conclusi dai Cantoni svizzeri continuano ad avere
vigore anche dopo la costituzione della Confederazione elvetica.
Per quanto riguarda la riunificazione tedesca, il Trattato del 1990 prevede che le Parti partono dal
principio che i trattati della Repubblica federale si estendono al territorio dell’ex Repubblica
democratica. Per i trattati già conclusi da quest’ultima il nuovo Stato li esaminerà con gli altri
contraenti e successivamente fisserà la sua posizione.

Passando alla Convenzione del 1978, questa adotta il principio della continuità dei trattati,
andandosi a discostare dal diritto consuetudinario.
La soluzione adottata dalla Convenzione si fonda sulla prassi relativa alla instaurazione di vincoli di
tipo federale, ma si tratta di una prassi settoriale che non è utilizzabile per ricostruire un principio di
diritto generale.

VIII.
Mutamento radicale di governo
Un problema di successione nei trattati si pone nel caso si verifichi un mutamento di governo, senza
che il territorio dello Stato subisca ampliamenti o diminuzioni. Quando il mutamento avviene per
vie extralegali ed un regime diverso si instaura (colpo di stato che ci fu in Cecoslovacchia, Cile
ecc.) si deve ritenere che muti la persona di diritto internazionale.
Dobbiamo quindi chiederci cosa avviene dei trattati stipulati da vecchio Governo.
La prassi è orientata verso la successione del nuovo governo nei diritti e obblighi contratti dal
predecessore, fatta eccezione per i trattati incompatibili con il nuovo regime.
Questa eccezione, corrisponde all’applicazione del principio rebus sic stantibus, per cui i trattati
comunque si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al momento della loro
conclusione.
IX.
Successione nei debiti contratti mediante accordo internazionale
Si discute se vi sia una successione, imposta internazionalmente, in situazione giuridiche di diritto
interno.
Può darsi che il debito non sia stato contratto dal predecessore nell’ambito del proprio diritto
interno, ma abbia formato oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro Stato o con
un’organizzazione internazionale (es. FMI). In questo caso a proposito della successione nei trattati,
il principio generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti localizzabili, ossia i debiti contratti con
esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di sovranità (es. per finanziare opere
pubbliche).
Anche per i debiti non localizzabili la prassi relativa allo smembramento dell’URSS e della
Cecoslovacchia, è nel senso si un’equa ripartizione concordata tra gli Stati sorti dallo
smembramento e tra questi Stati e i creditori.

Nel caso delle Repubbliche ex sovietiche un memorandum di intesa del 91, prevedeva la
responsabilità solidale delle repubbliche per i debiti esteri, compresi i debiti privati, dando incarico
alla Banca del commercio con l’estero dell’ex URSS di raccogliere i fondi necessari al pagamento
dei debiti.
Nel caso della Cecoslovacchia, la Repubblica ceca e la Slovacchia si accordarono per dividersi i
debiti in ragione del numero di abitanti, e quindi con rapporto di uno a due.

Convenzione di Vienna del 1983


A proposito dei debiti contratto dallo Stato con altri soggetti di diritto internazionale, occorre
ricordare la Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di stati in materia di beni, archivi e
debiti di Stato. Predisposta dalla CDI ma mai entrata in vigore. Essa sembrerebbe doversi occupare
della successione nelle situazioni giuridiche di diritto interno.
Per quanto riguarda i debiti di Stato, un primo progetto si occupava in modo unitario di tutto il
debito pubblico. Venne in seguito deciso di tener conto solo della categoria di debiti contatti con
Stati o organizzazioni internazionali. Solo a questi si riferisce la Convenzione dell’83.
La Convenzione adotta il principio della tabula rasa solo con riguardo agli stati di nuova
indipendenza, sorti dalla decolonizzazione. Essa spinge il principio della tabula rasa al punto da
escludere la successione per i debiti localizzabili, salvo accordo tra lo Stato nuovo e il predecessore.

Per quanto riguarda le altre ipotesi di mutamento della sovranità, la convenzione, non solo segue il
principio della successione nei debiti localizzabili, ma prevede che via sia una successione secondo
una proporzione equa. In tal modo trova conferma nella prassi recente in tema di smembramento.
In caso di incorporazione e fusione, la Convenzione prevede il passaggio di tutti i debiti dello stato
incorporato o degli Stati fusi allo Stato incorporante o sorto dalla fusione, senza distinguere se lo
Stato incorporato o fuso mantenga o meno una sua autonomia.
CAPITOLO XIV
CAUSE DI INVALIDITA’ E ESTINZIONE DEI TRATTATI
I.
Varie cause di invalidità e estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle proprie dei
contatti e dei negozi giuridici.

Cause di invalidità
Come cause di invalidità ricordiamo i classici vizi della volontà:
- Errore essenziale (art 48 Conv. Vienna): l’errore circa un fatto o una situazione che lo Stato
supponeva esistente al momento in cui il trattato è stato concluso e che costituiva una base
essenziale del consenso di questo Stato
- Dolo (art. 49), cui può ricondursi, la corruzione dell’organo stipulante (50)
- Violenza, fisica o moral, esercitata dall’organo stipulante (51).

Cause di estinzione
Come cause di estinzione ricordiamo l’avverarsi della condizione risolutiva, l’inadempimento della
controparte, l’abrogazione totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo
successivo tra le stesse parti.
Quest’ultima trova fondamento nel principio generale sulla successione nel tempo degli atti
giuridici di pari grado, secondo cui l’atto posteriore abroga l’anteriore. Nella convenzione di Vienna
si applica questo principio in varie regole.

II.
Violenza sullo Stato come causa di invalidità
Tra le cause di invalidità abbiamo indicato la violenza esercitata sull’organo stipulante il trattato.
Secondo la Convenzione di Vienna (52) si può considerare come causa di invalidità anche la
violenza esercitata sullo Stato nel suo complesso, che si concreta nella minaccia o uso della forza.
Il 52 stabilisce che è nullo qualsiasi trattato la cui conclusione sia ottenuta con la minaccia o l’uso
della forza in violazione dei principi del diritto internazionale incorporati nella Carta delle NU.
Questo articolo corrisponde al diritto internazionale consuetudinario formatisi dopo la IIWW come
riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere messo al bando della comunità internazionale.

Violenza sullo Stato con mezzi diversi dalla minaccia o dall’uso della forza
Quando si parla di violenza sullo Stato come causa di invalidità dell’accordo, si parla della minaccia
o dell’uso della forza armata. Non vi sono elementi per ricomprendere anche le pressioni politiche o
economiche, ancorché illecite.
La dottrina concorda che a simili pressioni si potrebbe estendere per analogia la norma sulla
violenza armata, cosa che però si deve escludere in quanto tra la pressione delle armi e la pressione
politica o economica, non vi è somiglianza.

Uso della forza “internazionale” ed uso della forza “interna”


Per l’uso della forza come causa di invalidità dei trattati deve intendersi l’uso della forza nei
rapporti internazionali, ossia la violenza di tipo bellico. Solo questo tipo di violenza genera un male
per o Stato nel suo complesso.
Altro è l’uso della forza interna, ossia l’esercizio del potere di governo, con tutte le misure
coercitive sugli individui.
Se uno stato sottopone a misure detentive i cittadini di un altro stato ad es, illegalmente, ciò può
giustificare l’adozione di misure di autotutela da parte dello Stato offeso. Però non si potrà dire che
l’eventuale trattato concluso per porre fine all’illecito esercizio del potere o per regolare i rapporti
tra i due stati, sia viziato da violenza.
Trattati ineguali
I trattati ineguali sono i trattati rispetto ai quali una parte non abbia disposto di un ampio margine di
potere contrattuale. Il problema in merito a detti trattati non si risolve sul piano della validità.
L’ineguaglianza può trovare una correzione mediante una interpretazione restrittiva relativamente
agli obblighi gravanti sulla parte debole.

III.
Principio rebus sic stantibus
Come causa di estinzione degli accordi internazionali viene considerata la clausola rebus sic
stantibus. Si ritiene che il trattato si estingua in tutto o in parte per il mutamento delle circostanze di
fatto esistenti al momento della stipulazione, purchè si tratti di circostanze essenziali, senza le quali
i contraenti non avrebbero stipulato il trattato o parti di esso.

La dottrina classica riteneva che il trattato si estinguesse per effetto del mutamento delle circostanze
di fatto in quanto si presumeva che i contraenti subordinassero gli effetti del trattato al permanere di
quelle circostanze. Quindi la clausola rebus sic stantibus veniva ridotta ad una condizione risolutiva
tacita.
Il problema sorge quando i contraenti non hanno previsto il mutamento delle circostanze come
causa di estinzione del trattato. Si ritiene che anche in tal caso, il trattato si estingua.

La Convenzione di Vienna (62) conferma questa norma, esprimendola però in termini restrittivi,
stabilendo che essa può trovare applicazione solo se le circostanze mutate costituivano la base
essenziale del consenso delle parti, se il mutamento sia tale quindi da avere radicalmente
trasformato la portata degli obblighi ancora da eseguire e se il mutamento non risulti da atto illecito
dello Stato che lo invoca

Specificazioni del principio rebus sic stantibus


Il principio rebus sic stantibus ha una sfera di applicazione abbastanza ampia in quanto varie regole
del diritto dei trattati ne costituiscono una specificazione. Ad es. la regola secondo cui in tutti i casi
di successione di uno Stato ad un altro negli obblighi e nei diritti pattizi, cadono gli accordi
incompatibili con il nuovo regime o quella relativa agli effetti della guerra.

Principio rebus sic stantibus e trattati tra loro incompatibili


Molto importante è il ruolo che questo principio gioca in tema di incompatibilità tra norme
convenzionali.
Di fronte ad un accordo con cui le parti modificano impegni contratti nei confronti di altri Stati, è
opportuno chiedersi prima di concludere nel senso della responsabilità internazionale delle parti
stesse, se quegli impegni non siano venuti meno per il radicale mutamento delle circostanze.
Ad es. nel caso degli accordi con cui l’Italia e la Iugoslavia hanno regolato la questione triestina,
procedendo tra l’altro alla spartizione del territorio di Trieste.

IV.
Effetti della guerra sui trattati
Si discute se sia causa di estinzione dei trattati la guerra, tema del quale la Convenzione di Vienna
non si occupa.
È ovvio che gli accordi conclusi dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino applicazione
fin che durano le ostilità. Ma quale è la loro sorte una volta ripristinato lo stato di pace?
Il problema si pose in Italia alla fine della IIWW. Si stabilì che le potenze vincitrici avrebbero
notificato all’Italia quali accordi bilaterali intendessero mantenere in vigore e che gli accordi non
notificati sarebbero stati considerati come abrogati.
Possiamo dire che la regola classica, che era nel senso dell’estinzione, si sia andata affievolendo nel
corso del 900 e negli ultimi tempi. La prassi si è sempre più orientata a favore di eccezioni: si è
negato l’effetto estintivo della guerra in merito ai trattati multilaterali. Più in generale si è
manifestata la tendenza della giurisprudenza interna, a considerare estinte solo le convenzioni
per loro natura, materia o interessi che tutelano, siano incompatibili con lo stato di guerra.

V.
Automatica operatività delle cause di invalidità e di estinzione
Per la maggior parte di cause di invalidità o estinzione, la discussione è aperta, da un lato c’è chi
propende per l’automaticità, altri sostengono che sia sempre necessario un atto di denuncia
notificato agli altri Stati contraenti, altri addirittura che in caso di obiezioni da parte di questi ultimi,
il trattato continui a restare in vigore finchè la causa di invalidità o estinzione non dia accertata in
modo imparziale.

A complicare la situazione vi è anche la Convenzione di Vienna, la quale da un lato introduce


modalità e termini per far valere l’invalidità o l’estinzione ignoti al diritto consuetudinario,
dall’altro non prevede un sistema di soluzione delle controversie capace di evitare gli abusi.
L’automaticità va in linea di massima riconosciuta, ma in un senso ben circoscritto. Chiunque debba
applicare un trattato non può non decidere se il trattato sia ancora in vigore o se viceversa esso sia
affetto da una causa di invalidità o di estinzione.

La prassi giurisprudenziale interna rivela la tendenza dei giudici nazionali a risolvere nelle loro
sentenze le questioni di invalidità e di estinzione dei trattati, sia autonomamente sia in conformità
all’opinione degli organi preposti agli affari esteri, ma comunque prescindendo da formali atti di
denuncia sul piano internazionale. Trattasi però comunque di decisioni che valgono per il caso
concreto.

Denuncia del trattato


L’atto formale di denuncia, notificato alle altre Parti contraenti o al depositario del trattato, implica
la volontà dello Stato di sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale.
Se lo stato vi ricorre è per far risaltare in modo certo e definitivo che, a suo parere, il trattato non è
applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto.
Se si ha riguardo agli organi dello Stato denunciante e a tutti coloro che dovrebbero osservare e far
osservare il trattato, non vi è dubbio che la denuncia vincoli alla disapplicazione. Unica condizione
a tal fine è che essa promani dagli organi competenti a manifestare la volontà dello Stato in ordine
ai rapporti internazionali.

Se si ha riguardo agli altri stati contraenti, è indubbio che questi non siano vincolati dalla unilaterale
manifestazione di volontà dello Stato denunciante. Cosicché in stato di disaccordo, il trattato entrerà
in una fase di incertezza sul piano internazionale, che potrà essere caratterizzata da ritorsioni,
rappresaglie ecc.

Competenza a denunciare
Circa la determinazione degli organi dello Stato competenti a denunciare il trattato occorre rifarsi ai
principi costituzionali di ciascuno Stato. In Italia si discute se per la denuncia dei trattati che
rientrano nell’art. 80 Cost, occorra o meno una legge di autorizzazione come per la ratifica.
La prassi depone a favore della tesi negativa: competente a formare e manifestare la volontà dello
Stato in materia, è il potere esecutivo.
Procedura prevista dalla Convenzione di Vienna per far valere l’invalidità o l’estinzione dei
trattati
La Convenzione di Vienna (artt. 65-68) stabilisce che lo Stato il quale invoca un vizio del consenso,
o altro motivo previsto dalla Convenzione come causa di estinzione o invalidità, deve notificare per
iscritto la sua pretesa alle altre Parti contraenti del trattato in questione.
Se entro un termine (non inferiore a 3 mesi) non vengono manifestate obiezioni, lo Stato può
dichiarare, con un atto comunicato alle altre parti, sottoscritto dal CDS, CDGoverno o ministro
degli esteri, che il trattato è da ritenersi invalido o estinto.

Se vengono sollevate delle obiezioni, lo Stato che intende sciogliersi e a Parte o le Parti obbiettanti
devono ricercare una soluzione con mezzi pacifici quali negoziati, conciliazione, arbitrati ecc.
La soluzione deve intervenire entro 12 mesi. Trascorso inutilmente detto termine, ogni parte può
azionare una procedura conciliativa nell’ambito delle NU e che non sfocia però in una decisione
obbligatoria ma solo in un rapporto avente mero valore di esortazione.
Una decisione obbligatoria da parte della CGI è prevista solo per l’eccezionale caso che la pretesa
invalidità o estinzione si fondi su una norma di jus cogens.

La procedura di cui artt.65ss. si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia ad un atto posto in
essere senza l’osservanza di particolari forme, termini e modalità. Ciò a meno che la sostituzione
non sia esclusa dal trattato stesso. Da un punto di vista pratico la sostituzione comporta che
chiunque sia chiamato ad applicare il trattato non potrà mai considerare come avvenuto un simile
scioglimento finchè le condizioni poste da artt.65ss. non siano soddisfatte.

Dobbiamo ritenere che gli artt.65ss. disciplinano anche la possibilità che la causa di invalidità o
estinzione sia rilevata, con efficacia circoscritta al singolo caso concreto, da chi debba applicare il
trattato e in particolare dal giudice interno?
La risposta deve essere negativa. Una soluzione del genere dovrebbe discendere da una
dichiarazione espressa. Non sarebbe corretto ricavarla da un sistema, quale quello degli artt65ss.,
che chiaramente si preoccupa solo delle controversie tra Stati e degli aspetti diplomatici della
materia.
CAPITOLO XV
LE FONTI PREVISTE DA ACCORDI
IL FENOMENO DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
LE NAZIONI UNITE
I.
I trattati possono anche contenere regole che istituiscono ulteriori procedimenti o fonti di
produzione di norme. In tutti i casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata dal trattato
che le dà vita ad emanare decisioni vincolanti per gli Stati membri, si è in presenza di una fonte
prevista da accordo (fonte di terzo grado).

Il compito delle organizzazioni internazionali generalmente non è quello di emanare norme ma


quello di facilitare la collaborazione tra gli Stati membri. Ne deriva che l’attività delle
organizzazioni, anche dell’ONU, si svolge il più spesso in una fase che ha scarso valore giuridico,
consistendo nella mera predisposizione di progetti di convenzioni che gli Stati poi sono liberi di
tradurre o meno in norme giuridiche con la ratifica.
Altra attività svolta dalle organizzazioni internazionali è costituita dall’emanazione di
raccomandazioni, cioè atti che hanno valore di esortazione e che non vincolano gli Stati cui si
indirizzano.

Non bisogna però sottovalutare l’importanza delle attività delle organizzazioni internazionali. La
negoziazione di accordi in seno alle organizzazioni è ad es. un fenomeno di grande rilievo. Grazie
all’opera delle organizzazioni, l’accordo tende sempre più a porsi come strumento di cooperazione e
di solidarietà tra i Governi.
Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono normalmente essere prese a maggioranza,
magari qualificata.

Pratica del consensus


Pratica che consiste nell’approvare una risoluzione senza una votazione formale, di solito con una
dichiarazione del presidente dell’organo la quale attesta l’accordo tra i membri.
La pratica del consensu non merita un giudizio del tutto positivo ove si consideri che essa finisce
col dare alle risoluzioni degli organi internazionali contenuti vaghi e di compromesso.

II.
Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
L’ONU fu fondata dopo la IIWW dagli Stati che avevano combattuto contro le potenze dell’Asse e
prese il posto della Società delle Nazioni.
La Conferenza di San Francisco ne elaborò nel 1945 la Carta, che venne ratificata dagli Stati
fondatori. Successivamente secondo il procedimento previsto dall’art 4 della Carta, ne sono via via
divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo.

Organi dell’ONU
Art.7: organi principali: Assemblea generale, Consiglio di Sicurezza, il Consiglio economico e
sociale, il Consiglio dell’Amministrazione fiduciaria, la CIG e il Segretariato.
Tra questi hanno importanza fondamentale il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale.

Consiglio di Sicurezza
Il Consiglio di Sicurezza è composto da 15 membri:
- 5 siedono a titolo permanente (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia). Godono
del diritto di veto, cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di qualsiasi
delibera che non abbia mero carattere procedurale.
- 10 eletti per un biennio dall’Assemblea.
Questo organo anche se ha una competenza limitata ratione materiae, occupandosi solo di questioni
attinenti al mantenimento della pace e sicurezza internazionale, è l’organo di maggior rilievo
nell’ambito dell’ONU.

Assemblea generale
Ha una competenza vastissima ratione materiae, ma non ha quasi nessun potere vincolante. In essa
sono rappresentati tutti gli Stati e tutti hanno pari diritto di voto.

Consiglio economico e sociale: composto dai membri eletti dell’Assemblea per 3 anni
Consiglio di Amministrazione fiduciaria: insieme al consiglio economico e sociale sono in
posizione subordinata rispetto all’Assemblea generale in quanto sono tenuti a seguirne le direttive.

Segretario generale
È a capo del segretariato generale. Viene nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di
Sicurezza, ed è l’organo esecutivo dell’ONU.

Corte Internazionale di Giustizia


È composta da 15 giudici e ha sia la funzione di dirimere le controversie tra stati sia una funzione
consultiva in quanto può dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’Assemblea generale o al
Consiglio di Sicurezza oppure altri organi.
I pareri non sono né obbligatori né vincolanti

Consiglio di Sicurezza, Assemblea generale, Consiglio economico e sociale e Consiglio di


Amministrazione fiduciaria sono organi composti da Stati, che con il loro voto concorrono a
formare le decisioni collegiali.

Il Segretario generale e la CIG sono organi composti da individui, ossia assumono l’ufficio a titolo
individuale, senza manifestare la volontà dello Stato e senza ricevere istruzioni da alcun Governo.

Competenza ratione materiae delle NU


Gli scopi, quindi la competenza ratione materiae dell’ONU sono molto ampi se non indeterminati. È
facile indicare le materie di cui l’ONU non può occuparsi.
Art.2 Carta: le NU non devono intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla
competenza interna di uno Stato.

L’indeterminatezza dei fini deriva dall’elencazione di cui all’art 1 della Carta. Sulla base di questa
elencazione possono individuarsi tre grandi settori di competenza dell’ONU:
- Mantenimento della pace
- Sviluppo delle relazioni amichevoli tra Stati
- Collaborazione in campo economico, sociale, culturale e umanitario
All’ampiezza dei poteri dell’ONU non corrispondono però poteri vincolanti nei confronti degli Stati
membri. L’attività principale dell’ONU è costituita dall’emanazione di raccomandazioni e dalla
predisposizione di progetti di convenzioni.

III.
Decisioni vincolanti dell’Assemblea generale
Art. 17 Carta: attribuisce all’Assemblea il potere di ripartire tra gli Stati membri le spese
dell’Organizzazione, ripartizione che, approvata a maggioranza dei due terzi, vincola tutti gli Stati,
vincola tutti gli Stati.
A tale caso deve aggiungersi quello della competenza dell’Assemblea a decidere circa modalità e
tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale.
Decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza
Le decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza sono quelle previste da talune disposizioni del
cap VII della Carta intitolato “azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed
agli atti di aggressione”
Art. 41 e 42: misure non implicanti e non implicanti l’uso della forza contro uno Stato che abbia
minacciato la pace. A parte l’art.42, in base al quale il Consiglio può intraprendere azioni belliche
contro uno Stato, merita attenzione l’art 41.

Art 41: prevede le c.d sanzioni. Attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di decidere quali
misure non implicanti l’uso della forza armata debbano essere adottate dagli Stati membri contro
uno Stato che minacci o abbia violato la pace, ed indica tra queste misure l’interruzione totale o
parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, aeree ecc.
Attualmente è soprattutto nei conflitti interni, e allo scopo di tutelare la popolazione civile, che il
Consiglio è solito intervenire.
Talvolta le sanzioni sono imposte contro parti politiche armate all’interno di un Paese oppure contro
gruppi terroristici.

Durante la guerra fredda il Consiglio, paralizzato dal diritto di veto, emise raramente decisioni
vincolanti per gli Stati ai sensi dell’art. 41, limitandosi piuttosto a raccomandare misure riportabili
all’art. 41.
CAPITOLO XVI
GLI ISTITUTI SPECIALIZZATI DELLE NAZIONI UNITE
I.
In campo economico e sociale opera tutta una serie di organizzazioni internazionali sia a carattere
universale che regionale.
Un gran numero di organizzazioni universali assumono il nome di Istituti specializzati delle NU.
Trattasi peraltro di organizzazioni autonome sorte da trattati del tutto distinti dalla Carta delle NU.
Accordi di collegamento tra ONU e istituti specializzati
Il collegamento tra ciascun istituto specializzato e le NU nasce da un accordo che le due
organizzazioni stipulano (art.57 Carta NU) e che dal lato dell’ONU è negoziato dal Consiglio
economico e sociale e approvato dall’Assemblea generale.
L’importanza dell’accordo di collegamento sta nella conseguente applicabilità delle norme della
Carta che si occupano degli Istituti e che per l’appunto li sottopongono al potere di coordinamento e
controllo dell’ONU.

Funzioni normative degli Istituti specializzati


Anche gli Istituti specializzati, come le NU, emanano raccomandazioni oppure predispongono
progetti di convenzione e quindi esauriscono la loro attività in una fase che ha scarso rilievo
giuridico.
In alcuni casi, però emanano decisioni vincolanti per gli Stati membri, o meglio, come nel caso
dell’ICAO o dell’OMS, emanano decisioni che divengono vincolanti se gli stati non manifestano
entro un certo periodo di tempo la volontà di ripudiarle (silenzio assenso)

Funzioni operative degli Istituti specializzati


Oltre alle funzioni di tipo normativo, gli Istituti specializzati svolgono anche funzioni di tipo
operativo.
Questi sono i collegamenti con gli organi dell’ONU. Trattasi di collegamenti che avvengono su
base paritaria, attraverso convenzioni, che non si traducono in rapporti di dipendenza.

Gli Istituti più importanti sono:


UNESCO: organizzazione delle NU per l’educazione, la scienza e la cultura
FMI: fondo monetario internazionale
ILO: organizzazione internazionale del lavoro
IMO: organizzazione internazionale marittima
ICAO: organizzazione per l’aviazione civile internazionale
Emana tutta una serie di disposizioni relative al traffico aereo, che vanno dai sistemi di
comunicazione ai segnali a terra, alle caratteristiche delle zone di atterraggio.
Quindi siamo di fronte a una vera e propria fonte di norme internazionale. Le misure che esprimono
la capacità vincolante sono fonti di III grado. Hanno capacità vincolante, sempre in forza del
silenzio assenso: se gli Stati non sono contrari alle misure, queste divengono vincolanti. Svolge
funzioni a tutela della sicurezza pubblica.

OMS: organizzazione mondiale della sanità. Adotta misure vincolanti. Può adottare regolamenti in
tema di procedure per prevenire la diffusione delle epidemie, di nomenclatura delle malattie
epidemiche, nomenclatura dei medicinali ecc. Anche le misure adottate da questa organizzazione
sono fonti di III grado. Adotta misure a tutela della salute pubblica.

OMC: organizzazione mondiale del commercio


Indipendente dalle NU. L’OMC si basa sui Trattati GATT (accordo generale sulle tariffe e il
commercio) e sul Trattato GATS (accordo generale sugli scambi dei servizi). E si basa sugli
Accordi di Marrakesh.
CAPITOLO XVIII
L’OCSE E IL CONSIGLIO D’EUROPA
I.
OCSE
Subito dopo la IIWW furono costituite in Europa occidentale due organizzazioni che hanno dato un
notevole contributo al rafforzamento dei vincoli tra i Paesi appartenenti a tale area: l’OECE
(organizzazione europea per la cooperazione economica), poi trasformata in OCSE (organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico), e il Consiglio d’Europa.

Consiglio d’Europa
Attualmente comprende 47 Stati membri. Si tratta dell’organizzazione da cui è derivato il primo
esperimento di tutela internazionale organica, anche di carattere giurisdizionale, dei diritti
dell’uomo.
Scopo del Consiglio d’Europa è di conseguire una più stretta unione tra i suoi membri per
salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di
favorire il loro progresso economico e sociale. Ogni membro del consiglio deve accettare la
preminenza del diritto e quello in virtù del quale ogni persona deve godere dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (articoli 1 e 3)

Circa le funzioni va sottolineata la predisposizione di convenzioni, soprattutto in materie giuridiche,


come quelle relative al diritto o alla procedura penale, ai diritti umani sia economici che sociali,
civili e politici. A questi ultimi è dedicata la CEDU.

CAPITOLO XIX
LE RACCOMANDAZIONI DEGLI ORGANI INTERNAZIONALI
I.
Si è già detto che la raccomandazione è l’atto tipico che gli organi delle NU hanno il potere di
emanare. Queste non sono vincolanti. Hanno solo valore esortativo.

Effetto di liceità delle raccomandazioni


La raccomandazione produrrebbe un effetto di liceità: non commette illecito, lo Stato il quale, in
osservanza di una raccomandazione, venga meno ad obblighi precedentemente assunti nei confronti
di altri Stati membri dell’organizzazione raccomandante.
Ciò purché la raccomandazione sia legittima, ossia non fuoriesca dalle competenze proprie degli
organi e da ogni altro limite che il trattato istitutivo ponga all’azione degli organi medesimi.
Dunque, le raccomandazioni appartengono al soft law.

II.
Inosservanza reiterata della raccomandazione
Taluni ritengono che sia illecito il comportamento dello Stato il quale rifiuti di osservare tutta una
serie di raccomandazioni.
Ciò significa che le raccomandazioni, se reiterate nel tempo, diverrebbero obbligatorie. Ma la tesi è
inaccettabile in quanto il principio della cooperazione tra gli Stati membri non può essere spinto
fino al punto di sovvertire la caratteristica fondamentale dell’atto, che è quella di non vincolare il
suo destinatario.

CAPITOLO XX
LA GERARCHIA DELLE FONTI INTERNAZIONALI
IL DIRITTO INTERNAZIONALE COGENTE
L’UNITARIETA’ DELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE
I.
1. Al vertice della gerarchia si situano le norme consuetudinarie, tra esse compresa quella
categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto comuni agli
ordinamenti interni. La consuetudine è dunque fonte di primo grado, ed è l’unica fonte di
norme generali, vincolanti per tutti gli Stati.
2. Il secondo posto spetta al trattato, che trova in una norma consuetudinaria, la norma pacta
sunt servanda, il fondamento della sua obbligatorietà
3. Il terzo posto è occupato dalle fonti previste da accordi, particolarmente dagli atti delle
organizzazioni internazionali.

Rapporti tra consuetudini e accordo


Il fatto che le norme pattizie siano subordinate alle norme consuetudinarie non significa
inderogabilità di per sé di queste ultime da parte delle prime.
Una norma di grado inferiore può derogare alla norma di grado superiore se questa lo consente
Ad es. nel diritto interno un regolamento governativo può derogare alla legge se ciò è dalla legge
previsto.
Il problema sta nel chiederci se le norme consuetudinarie internazionali siano così vincolanti da non
poter essere derogate mediante trattati.

Flessibilità delle norme consuetudinarie


In genere la soluzione che si dà al problema è negativa. Le norme consuetudinarie secondo
l’opinione comune sono caratterizzate dalla flessibilità, e quindi dalla loro derogabilità mediante
accordo.
Data la flessibilità della consuetudine e dato che le norme pattizie hanno carattere particolare,
mentre la maggior parte di norme consuetudinarie ha carattere generale, il diritto pattizio finisce con
l’avere la prevalenza su quello generale anche se anteriore.
Le cose stanno in modo diverso solo nel caso delle consuetudini che si formano proprio in deroga
alle norme di un determinato trattato.

Flessibilità dei principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili


Anche per la categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto
riconosciuti dalle n.c. vale la regola della derogabilità mediante accordo.
Un esempio di deroga: Art 27 Carta NU: lo Stato membro del consiglio di sicurezza deve astenersi
dal votare se una questione lo riguarda, ma limita l’obbligo di astensione a determinati casi di
minore importanza.
Trattasi di una norma che protegge le grandi Potenze, le quali, disponendo del diritto di veto,
possono così bloccare una procedura di espulsione o di adozione di misure coercitive nei loro
confronti. La deroga al principio nemo judex in re sua è evidente.

Se tutti concordano sul carattere flessibile delle norme consuetudinarie, è opinione comune che
esista un gruppo di norme di diritto internazionale generale le quali eccezionalmente sarebbero
cogenti (jus cogens).
Anche la Convenzione di Vienna lo afferma all’art 53: è nullo qualsiasi trattato che è in contrasto
con una norma imperativa del diritto internazionale generale, per norma imperativa deve intendersi
una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale deli Stati nel suo insieme come
norma alla quale non può essere apportata nessuna deroga e che può essere modificata solo da una
norma di pari grado.
Art 64 Convenzione: se una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale si forma,
qualsiasi trattato esistente che sia in contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue.

La convenzione di Vienna prevede inoltre che quando tra gli Stati contraenti la Convenzione,
insorga una controversia circa l’invalidità o l’estinzione di un accordo per contrarietà allo jus
cogens, la controversia medesima può essere decisa dalla CIG su ricorso di una delle parti.

La convenzione di Vienna non indica quali norme internazionali siano imperative, affermando solo
che la norma cogente è quella che non può essere derogata. La ricostruzione dello jus cogens è
quindi lasciata all’interprete, il quale dovrà anzitutto stabilire se una norma trova riscontro negli
elementi della diuturnitas e dell’opinio juris sive necessitatis. Ma dovrà anche stabilire se la più
gran parte degli Stati considerano detta norma superiore alle comuni fonti internazionali in quanto
ispirata a valori universali e fondamentali.
La nozione ha quindi carattere storico. Da un esame della dottrina e giurisprudenza possiamo
ricavare che allo jus cogens appartengono il nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di
autodeterminazione dei popoli, il divieto dell’uso della forza fuori dal caso della legittima difesa, e
forse anche il diritto allo sviluppo.

Jus cogens e art. 103 della Carta NU


Fa parte dello jus cogens anche detto articolo in quanto sancisce l’inderogabilità degli obblighi
scaturenti dalla Carta e dalle decisioni vincolanti degli organi dell’ONU. Detti obblighi sono
considerati infatti, da tutta la comunità internazionale, come inderogabili.

La conseguenza principale dovrebbe essere, come prevede il 53 Conv. Vienna, la nullità del trattato
contrario allo jus cogens. Dovrebbe, perché è comunque difficile trovare nella prassi casi di trattati
che per questo motivo siano stati impugnati con successo da uno Stato o dichiarati nulli.

Norme di jus cogens


I settori in cui troviamo la presenza di norme di jus cogens sono:
1. Decolonizzazione: con il principio di autodeterminazione dei popoli
2. Diritti umani: sono jus cogens le norme che impongono il rispetto dei diritti umani e libertà
fondamentali
3. Mantenimento della pace e sicurezza internazionale: sono di jus cogens le norme che
vietano l’uso della forza (art.1 Carta NU). Con l’unica deroga costituita dall’art 54 ONU,
secondo cui gli Stati possono rispondere ad un attacco diretto è già sferrato (legittima difesa)

Si potrebbero far rientrare in questo elenco anche in tema di relazioni internazionali, le norme che
prevedono di non tenere comportamenti per arrecare pregiudizio all’economia di un Paese, però gli
Stati vediamo che nella pratica lo fanno.

Un’applicazione meno radicale della nullità è quella che può esprimersi in termini di mera
superiorità o prevalenza della norma di jus cogens rispetto alle norme consuetudinarie normali, ai
trattati e alle fonti derivanti dai trattati.
Da questo pdv la norma imperativa resta valida pienamente, ma è inapplicabile, quindi il rapporto
tra le due è da esprimersi in termini di inderogabilità e non di nullità.

Obblighi erga omnes


Le norme di jus cogens non hanno solo la funzione di prevalere sui trattati. Esse vengono in rilievo
come norme dalle quali derivano obblighi erga omnes, norme alla cui applicazione hanno interesse
tutti.

Inderogabilità delle norme sulle cause di invalidità ed estinzione dei trattati


Sempre riguardo il rapporto tra consuetudini e accordi, riguardo la derogabilità o meno delle prime
ad opera di secondi, le norme che regolano cause di invalidità e di estinzione dei trattati sono o non
sono derogabili?
È chiaro che sono norme inderogabili. Il fatto che regolino la struttura dell’accordo e non il
contenuto, le pone su un piano superiore al trattato.

Rapporti tra atti delle organizzazioni internazionali e Statuti delle medesime


Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali, il problema dei limiti entro i quali
essi possono derogare alle norme dei trattati che ne prevedono l’emanazione, va risolto caso per
caso.
In ogni trattato istitutivo possono trovarsi norme sia derogabili sia cogenti. Tra queste ultime
rientrano anche quelle che prescrivono le maggioranze necessarie per adottare gli atti.
PARTE SECONDA
CAPITOLO XXI
IL CONTENUTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE COME INSIEME DI LIMITI ALL’USO
DELLA FORZA INTERNAZIONALE ED INTERNA DEGLI STATI
I.
Il diritto internazionale materiale, sia consuetudinario che pattizio, si snoda intorno ad un filo
conduttore: l’idea che il contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti
all’uso della forza da parte degli Stati.
Limiti che riguardano l’uso della forza diretta verso l’esterno sottoforma di violenza di tipo bellico,
nei confronti degli altri Stati. (forza internazionale)
Limiti che concernono l’uso della forza verso l’interno, nei confronti degli individui, persone
fisiche o giuridiche, e dei loro beni (forza interna).

Forza internazionale
Per forza internazionale intendiamo la violenza di tipo bellico, o comunque qualsiasi atto il quale
implichi operazioni militari.
La nozione di forza internazionale può farsi più o meno coincidere con quella di aggressione data
dalla Dichiarazione dell’Assemblea Generale dell’ONU.

Forza interna
Più complesso è dare una definizione di forza interna, intesa come potere di governo (sovranità o
jurisdictio) esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro beni.
Trattasi di una nozione che è stata studiata con riguardo al potere esercitato dallo Stato nell’ambito
del suo territorio.

Iniziamo con il dire che non si può identificare detto potere con l’esercizio della coercizione in
quanto forza materiale, e sostenere quindi che rilevanti per il diritto internazionale sono solo le
azioni di polizia, esecuzione di condanne penali ecc.
Non sembra che si possa sostenere che una violazione di diritto internazionale derivi sempre e
soltanto dall’effettivo esercizio della coercizione: anche la sentenza di un giudice, o una legge,
possono costituire un illecito.
Bisogna anche guardarsi dal riportare in questa nozione ogni manifestazione della sovranità dello
Stato, e quindi anche la mera attività normativa astratta. Finchè al comando astratto non segue la
sua applicazione ad un caso concreto, non può parlarsi propriamente di una violazione di diritto
internazionale.

In merito lascia perplessi un passo di una sentenza del tribunale per la ex Iugoslavia, nel quale si
riconosce che normalmente lo Stato che non provvede ad adottare le misure legislative e
amministrative necessarie per eseguire i propri obblighi internazionali non incorre in responsabilità
internazionale finchè non si verifichino i fatti concreti contrari a detti obblighi.
Poi ritiene che le cose stiano diversamente nel caso del divieto della tortura: già la sola mancanza di
misure legislative atte a prevenirla o l’esistenza di norme contrarie a detto divieto, costituirebbero
violazione del divieto.

Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa a metà strada tra l’astratta attività
normativa e l’esercizio della coercizione materiale.
Non basta nemmeno la semplice emanazione di comandi concreti, legislativi, giudiziari ecc.
Possiamo ritenere che l’attività di mero comando non ha di per sé rilievo per il diritto
internazionale, se non è accompagnata dalla concreta possibilità di agire coercitivamente per farla
rispettare.

Un esempio: la chiusura della missione dell’OLP presso l’ONU. Con una legge del 1987 il
Congresso americano vietò di stabilire e mantenere gli uffici dell’OLP negli SU. La legge provocò
un conflitto con le NU, in quanto considerata contraria alla convenzione che regola i rapporti tra
ONU e SU relativamente alla sede dell’organizzazione.
1. Il conflitto sorse in quanto la legge colpiva una missione dell’OLP che già esisteva presso le
NU
2. Il conflitto durò finchè fu reale la possibilità che la legge fosse coercitivamente attuata con
un atto dell’autorità giudiziaria
3. Il conflitto ebbe termine quando per vicende di tipo procedurale e per l’intervento di una
sentenza della Corte di New York che dichiarò inapplicabile la legge, venne meno ogni
prospettiva che quest’ultima fosse effettivamente attuata.

Pertanto possiamo dire che il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale, sia
costituito da qualsiasi misura concreta di organi statati, e solo in quanto suscettibile di essere
coercitivamente attuata. Quindi in questo senso possiamo dire che il diritto internazionale pone
limiti alla forza interna degli Stati.

II.
Poteri di Governo e attività incoercibili
Ciò che è delimitato dal diritto internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o
cose. Si dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non
possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello Stato: comunicazioni via
radio, attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni in rete.

Comunicazioni in rete
Anche in questi casi, punto di riferimento della disciplina restano le persone e le cose. I diritti e
doveri internazionali di cui lo Stato è titolare presuppongono sempre la sua possibilità di governare
le attività umane.

Tali principi trovano conferma nel c.d. Manuale di Tallin, un importante strumento di codificazione
del diritto internazionale, applicabile alle operazioni cibernetiche pubblicato nel 2013 e aggiornato
nel 2017.
Della giurisdizione dello Stato in tema di crimini commessi mediate computers si occupa la
Convenzione di Budapest del 2001. Essa dopo aver definito le varie figure criminose che gli Stati
devono reprimere, non fa altro che applicare ai cibercrimini le regole normalmente applicate in
materia penale.

III.
È bene chiarire che quando si dice il diritto internazionale limita il potere di governo non sia ha
riguardo agli scopi che le norme internazionali perseguono, ma al modo in cui esse operano.
Se si attribuisce alle norme di diritto internazionale consuetudinario lo scopo di delimitare le sfere
di potere statale, si finisce con il restare legati ad una visione classica del diritto consuetudinario,
ossia una visione secondo cui tale diritto assicurerebbe la mera coesistenza tra gli Stati.
Invece, è certo che oggi sono conseguiti anche valori come la cooperazione e la solidarietà tra gli
Stati.
CAPITOLO XXII
LA SOVRANITA’ TERRITORIALE
I.
Origini della norma sulla sovranità territoriale
La prima norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella
sulla sovranità territoriale. Si consolida all’epoca in cui venne meno il sacro romano impero.
La sovranità allora era concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato (del sovrano)
avente ad oggetto il territorio.
Era connaturata all’idea di governo, quella di territorio, che per giustificare l’esercizio del potere di
governo oltre il territorio si diceva che si trattava pur sempre di territorio (navi).

Contenuto della sovranità territoriale


Si discute circa la natura giuridica internazionale del territorio: c’è chi afferma ancora che si tratta
dell’oggetto di un diritto reale dello Stato, o chi ritiene che non venga in rilievo come un bene in
senso patrimoniale ma che segni solo l’ambito entro cui lo Stato esplica la sua potestà di governo
ecc. quindi, come può definirsi tale contenuto?
Può dirsi che la norma attribuisce ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di
governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui e sui loro beni, che si trovano nel
territorio.
Inoltre, ogni Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo, cioè
di non svolgervi con i propri organi, azioni di natura coercitiva.

Cattura di criminali in territorio straniero


Fu ad es. illecita, la cattura da parte di agenti del Governo israeliano del criminale nazista
Eichmann, avvenuta in territorio argentino. La illiceità fu affermata anche dal CDS delle NU. Il
Consiglio pur sottolineando la necessità di perseguire i nazisti macchiatisi di crimini, chiese al
Governo israeliano di assicurare al Governo argentino una riparazione adeguata conformemente alla
Carta NU e alle norme consuetudinarie.
L’illiceità della cattura di criminali all’estero si esaurisce peraltro nei rapporti tra Stati. Non
comporta invece, dal pdv del diritto internazionale, l’assenza della potestà di punire.

Regime delle capitolazioni


La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di organi stranieri è autorizzata in una serie
di ipotesi tipiche, prime tra tutte quelle relative all’attività di agenti diplomatici e di consoli
stranieri.
Una forma particolarmente intensa svolta all’estero era quella esercitata nel regime delle
capitolazioni, in base al quale alcuni Stati che venivano ritenuti poco affidabili sotto l’aspetto
dell’amministrazione della giustizia, consentivano agli europei di essere giudicati dai consoli dei
loro Paesi. Questo regime cessò definitivamente dopo la IIWW.

In linea di principio lo Stato è libero nel suo territorio di fare ciò che vuole, di disporre delle proprie
risorse ecc. in effetti però la libertà dello Stato in senso assoluto, è andata restringendosi via via che
il diritto internazionale si evolveva. Quasi tutte le norme internazionali comportano una serie di
limiti al potere di governo nell’ambito del territorio.
È da rilevare però che, con le dovute eccezioni derivanti dal diritto consuetudinario, i limiti alla
libertà dello Stato sono l’effetto di norme convenzionali e quindi che gli Stati hanno liberamente
accettato.
Le eccezioni che si sono affermate sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento
per gli stranieri, per gli agenti diplomatici, e degli stessi Stati stranieri. Ma i limiti importanti ad
oggi sono i limiti prodotti alle norme che perseguono valori di giustizia, cooperazione e solidarietà
tra i popoli.
Sovranità territoriale, Paesi in via di sviluppo e sovranità sulle risorse naturali
La libertà dello Stato nel suo territorio è ribadita da alcuni principi del nuovo ordine economico
internazionale, molto cari ai Paesi in via di sviluppo. In particolare, parliamo del principio della
sovranità permanente sulle risorse naturali, secondo cui ogni Stato possiede ed esercita liberamente
una sovranità completa e permanente su tutte le sue ricchezze.
Oppure il principio per cui ogni Stato ha il diritto di scegliere il proprio sistema economico, oltre
che ai sistemi politici, sociali e culturali ecc.

II.
Sovranità territoriale e divieto della minaccia o dell’uso della forza
La sovranità territoriale oggi è indirettamente tutelata anche dal principio che vieta la minaccia o
l’uso della forza nei rapporti internazionali. È chiaro che questo riguarda le azioni belliche rivolte
contro il territorio dello Stato. La carta delle NU pone appunto in primo piano la necessità di
proteggere l’integrità territoriale degli Stati.

III.
Acquisto della sovranità territoriale
Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriali, cioè del diritto ad esercitare in modo
esclusivo ed indisturbato il potere di governo, vale il criterio dell’effettività: l’esercizio effettivo del
potere fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo stesso.

Acquisto della sovranità in violazione di norme fondamentali internazionali


Molti aspetti della problematica dell’acquisto della sovranità territoriale hanno perso quasi del tutto
attualità: erano legati all’esistenza di territori di nessuno, o ancora non scoperti.
Attuale invece è il problema dell’acquisto di territori in violazione di norme internazionali di
fondamentale importanza: si pensi ai territori acquistati in violazione dell’art 2 Carta ONU, che
vieta la minaccia e l’uso della forza, o in violazione del principio di autodeterminazione dei popoli.

Nonostante i tentativi fatti tra le due guerre mondiali, la prassi sembra ancor orientata nel senso che
l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su un territorio comunque conquistato
comporti l’acquisto della sovranità territoriale.
Non si può negare ad es. che il territorio della Repubblica turco-cipriota sia coperto dalla norma
sulla sovranità territoriale.
Tutto ciò che può sostenersi è che oltre all’obbligo di restituzione gravante sullo Stato che abbia
commesso l’aggressione o detenga il territorio violando il principio dell’autodeterminazione, su tutti
gli Stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel
territorio.
Occorre peraltro riconoscere ce nel caso di sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia
oggetto di controversia tra gli Stati confinanti, la CIG ha sostenuto che l’effettività deve cedere il
passo ad un titolo giuridico certo, come un precedente accordo tra gli Stati o tra gli Stati che li
hanno preceduti. Così questa materia si intreccia con quella del rispetto delle frontiere.

Acquisto della sovranità territoriale e vicende dello Stato


Acquisto e perdita della sovranità territoriale si hanno anche in relazione alle vicende relative alla
vita dello Stato: quando si verifica un distacco di una parte con conseguente formazione di un
nuovo Stato, o una cessione di territori, o un’incorporazione, vi è sempre la perdita della sovranità
da parte di uno Stato e l’acquisto della stessa da parte di un altro Stato.
L’espandersi della sovranità sul territorio di un altro Stato comporta, il passaggio allo Stato
subentrante delle proprietà pubbliche e private del predecessore.
La Convezione di Vienna 1983 conferma il principio che la proprietà di diritto interno segue la sorte
della sovranità territoriale.

CAPITOLO XXIII
I LIMITI DELLA SOVRANITA’ TERRITORIALE
L’EROSIONE DEL C.D. DOMINIO RISERVATO E IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI
I.
Dominio riservato
I limiti più importanti alla libertà dello Stato di comportarsi come crede nel suo territorio sono oggi
costituiti dalle norme internazionali, soprattutto convenzionali, che perseguono valori di giustizia,
cooperazione, solidarietà tra i popoli.
Con l’affermarsi di questi limiti, si è andato progressivamente erodendo il dominio riservato dello
Stato, espressione con cui si intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia
consuetudinario che pattizio, si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è libero da obblighi.
Venivano fatti rientrare tra questi l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica
ecc.
La nozione di domestic jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto
consuetidinario, ma ha perso il suo valore per quanto riguarda il diritto convenzionale.

Dominio riservato e cittadinanza


La libertà dello Stato di imporre o concedere la propria cittadinanza ad un individuo non è più senza
limiti. Deve ritenersi consolidato il principio che la CIG ha enunciato nel caso Nottebohm, cioè che
una cittadinanza attribuita in mancanza di un effettivo legame tra l’individuo e lo Stato he la
concede non può essere opposta ad un altro Stato, particolarmente ai fini dell’esercizio della
protezione diplomatica.
Il problema dell’esistenza di detto legame si è posto nella giurisprudenza dei tribunali arbitrali
dell’ICSID in materia di investimenti all’estero, con riguardo alla norma secondo cui un’impresa
non può agire innanzi a detti Tribunali contro lo Stato in cui ha investito, se non ha la nazionalità di
tale Stato.
II.
Movimento convenzionale a favore dei diritti umani
Le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana ovunque l’individuo
si trovi e dunque anche nei confronti del proprio Stato sono note.
L’azione dei Governi in questo settore si è tradotta nella conclusione di numerose convenzioni,
come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e libertà fondamentali, la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ecc. e a livello universale, i due Patti delle NU
sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali.
Tutte queste convenzioni oltre ad istituire organi che vadano a vegliare sulla loro osservanza,
contengono un catalogo di diritti umani che gli Stati contraenti sono tenuto a rispettare.

Molto importante è la Convenzione del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti disumani
e degradanti.
Definisce la tortura come qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitte ad una
persona dolore o sofferenze forti, mentali o fisiche, al fine di ottenere informazioni o confessioni, di
punirla di un atto che ha compiuto, di intimorirla o far pressione su di lei.
Prevede poi l’obbligo degli Stati contraenti di adottare tutte le misure atte a prevenire e punire tali
crimini, commessi nei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
I due Patti NU e le altre Convenzioni sono stati ratificati da quasi tutti i Paesi della comunità
internazionale.

III.
Rispetto dei diritti umani secondo il diritto consuetudinario
La materia dei diritti umani è una materia in cui si sono formate delle norme consuetudinarie, dei
principi generali riconosciuti dalle Nazioni civili.
A differenza delle convenzioni, che contengono cataloghi dettagliati, il diritto consuetudinario si
limita alla protezione di un nucleo fondamentale di diritti umani. Trattasi del divieto delle c.d. gross
violations, ossia violazioni gravi di tali diritti, come ad es. la tortura, i trattamenti disumani e
degradanti, il lavoro forzato ecc.
Rientrano nelle gross violations i crimini internazionali (genocidio, crimini di guerra).
Tutti gli Stati concordano sull’appartenenza di questi divieti allo jus cogens internazionale.

Non è invece prevista dal diritto consuetudinario l’abolizione della pena di morte. A questo
proposito ricordiamo l’adozione da parte dell’Assemblea Generale, di risoluzioni con le quali si
chiede una moratoria universale delle esecuzioni capitali in vista della loro abolizione.
Ma trattasi comunque di risoluzioni, non vincolanti, che fungono da strumento di pressione.

Tortura e trattamenti disumani e degradanti


Nonostante le dichiarazioni e norme che le condannano, le gross violations sono ancora praticate.
Le più ricorrenti sono la tortura e i trattamenti disumani e degradanti.
La CEDU sostiene che la tortura debba distinguersi dai trattamenti disumani e degrandanti per la
maggiore intensità delle sofferenze.
In una recente sentenza però la Corte sembra non fare distinzione tra le due pratiche, parlando in
ogni caso di violazione dell’art. 3.

Obblighi negativi e positivi nella tutela dei diritti umani


L’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani è un obbligo essenzialmente negativo, di
astensione. Gli organi statali sono tenuti ad astenersi dal ledere detti diritti e dal compiere c.d. gross
violations.
Ma il rispetto dei diritti umani comporta anche un obbligo positivo o di protezione. Lo stato deve
vegliare affinchè violazioni dei diritti umani non siano commesse da individui che si trovino sul suo
territorio. È pertanto tenuto a prendere tutte le misure giudiziarie, di polizia ecc. idonee, secondo
standards di diligenza, a prevenire e reprimere queste violazioni.

III bis.
Le norme sui diritti umani vengono in rilievo con riguardo alla protezione delle minoranze e delle
popolazioni indigene
Per quanto riguarda le minoranze, definibili come un gruppo numericamente più esiguo del resto
della popolazione dello Stato al quale esso appartiene ed avente caratteristiche culturali, fisiche o
storiche, una religione o una lingua diversi da quelli del resto del Paese, la necessità della loro
protezione si è posta alla fine della IWW, a causa della frammentazione dell’Impero austro-
ungarico, ottomano e poi dopo la caduta del muro di Berlino, dissoluzione dell’URSS e della
Iugoslavia.
Spesso le norme su una determinata minoranza si trovano in accordi bilaterali tra lo Stato al quale la
minoranza appartiene etnicamente e lo Stato al quale essa è sottoposta.
Per l’Italia i diritti della minoranza di lingua tedesca de Sud Tirolo sono previsti da un accordo
firmato tra Italia e Austria.
Il tema della tutela delle popolazioni indigene è un tema di grande attualità in vari Stati dell’Africa
e delle Americhe, dove si moltiplicano le rivendicazioni.
Vero è che la materia attiene al diritto costituzionale dei Paesi dove il problema esiste più che al
diritto internazionale. O meglio, il diritto internazionale, può fornire argomenti a sostegno di una
protezione che si ricava dal diritto costituzionale.

IV.
Regola del previo esaurimento dei ricorsi interni
Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. La
violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani, non può dirsi consumata o comunque non
può farsi valere sul piano internazionale, finchè esistono nell’ordinamento dello Stato offensore
rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo offeso una
congrua riparazione.
CAPITOLO XXIV
LA PUNIZIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI COMMESSI DA INDIVIDUI
I.
Responsabilità internazionale degli individui autori di crimini
Caratteristica delle norme generali e convenzionali, che disciplinano i crimini internazionali è che
esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono. Trattasi
quindi di regole che si indirizzano agli individui, concorrendo alla formazione della loro
soggettività internazionale.
Questo non esclude la contemporanea responsabilità degli Stati, qualora, gli individui siano che loro
organi.
La comunità internazionale si sta organizzando per attuare la punizione dei crimini internazionali
individuali attraverso l’istituzione di tribunali internazionali. Come avvenne ad es. per i due
Tribunali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda. Ancora limitata è invece
l’attività della Corte Penale Internazionale.

I crimini internazionali possono essere distinti in: crimini contro la pace, crimini contro l’umanità e
crimini di guerra. Tale ripartizione è contenuta negli artt.5-8 Statuto della Corte penale
internazionale. Lo statuto prevede 4 tipi di crimini: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di
guerra e il crimine di aggressione.

Genocidio
Art 6. Viene definito dall’art 2 della Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio
promossa dall’Assemblea ONU nel 48. Tale è la distruzione totale o parziale di un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso.

Crimini contro l’umanità


Art 7. Sono crimini contro l’umanità i seguenti atti purchè perpetrati come parte di un esteso o
sistematico attacco diretto contro una popolazione civile: omicidio, riduzione in schiavitù,
deportazione, privazione di libertà in violazione di norme fondamentali, tortura, violenza carnale
ecc.

Crimini di guerra
Art.8. I crimini sono considerati di guerra se commessi durante un conflitto armato sia
internazionale che interno, sia da appartenenti ad un esercito sia da civili, sia contro dei militari che
degli appartenenti alla popolazione civile.
L’art 8 si riferisce a tutta una serie di atti specifici del tempo di guerra, come la violazione grave
della Convenzione di Ginevra del 49 sul diritto umanitario di guerra, l’arruolamento forzato dei
prigionieri, la presa di ostaggi ecc.
La competenza della Corte si estende a tutti questi atti, quando in particolare, essi facciano parte di
un piano o disegno politico, o di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala.

Crimini contro la pace (aggressione)


L’aggressione è stata definita in una decisione dell’Assemblea degli Stati parti dello Statuto.
L’elenco dei crimini sopradetti corrisponde largamente alla communis opinio della comunità
internazionale e trova riscontro nella prassi delle Corti interne di vari Stati oltre che nelle Corti
internazionali (Tribunale di Norimberga, Corti per ex Iugoslavia e Ruanda).
Con riguardo all’aggressione, non esiste una prassi significativa, ad eccetto la punizione dei
criminali di guerra nazisti, condannati dal Tribunale di Norimberga anche per questo crimine.
A voler dedurre da questo precedente, si può concordare con l’opinione secondo cui l’aggressione è
qualificabile come crimine internazionale individuale solo quando è scatenata su larga scala o
produce conseguenze assai gravi.
Responsabilità dello Stato e responsabilità dell’individuo-organo
Normalmente l’individuo che commette un crimine internazionale è un organo del proprio Stato o
di un’entità di tipo statale. Solo gli Stati infatti, sono normalmente in grado di produrre attacchi
estesi o sistematici contro una popolazione civile.
Ciò comporta che, quando si è commesso un genocidio o altro crimine contro l’umanità, ne
consegue una duplice responsabilità internazionale, dello Stato e dell’individuo organo.

II.
Giurisdizione universale
Ci si chiede se il diritto internazionale consuetudinario contenga un principio di giurisdizione
universale, nel senso che ogni Stato abbia la facoltà di procedere alla punizione ovunque e da
chiunque il crimine sia stato commesso.
Per il diritto internazionale generale lo Stato è sempre libero di esercitare la giurisdizione sui suoi
cittadini, e può sottoporre lo straniero a giudizio penale solo se sussiste un collegamento con lo
Stato del giudice. Tale collegamento è dato in genere dal principio di territorialità, temperato dalla
possibilità di punire certi reati più gravi quando essi sono commessi dal cittadino, ed
eccezionalmente anche dallo straniero, all’estero.

In base alla prassi, si può ritenere che la giurisdizione universale sia da ammettere, per il diritto
internazionale consuetudinaria, ma a condizione che il presunto criminale straniero si trovi nel
territorio dello Stato al momento in cui deve essere sottoposto a giudizio e sempre che non sia
richiesto dallo Stato nazionale oppure da uno Stato che abbia con il crimine un più stretto
collegamento e sia seriamente intenzionato a punirlo.
La norma sulla giurisdizione universale va coordinata con le norme che prevedono l’immunità dei
Capi di Stato e di Governo e di vari altri organi stranieri finchè sono nell’esercizio delle loro
funzioni.
La giurisdizione universale può esercitarsi, anche quando il colpevole sia stato catturato all’estero
illegittimamente, violandosi la sovranità territoriale dello Stato in cui si trovava.

La punizione come oggetto di una facoltà dello Stato


Si badi che lo Stato può ma non deve punire, può ma non deve considerare il crimine come
imprescrittibile. Tra semplice facoltà e obbligo di punire la differenza non è importante dal pdv
pratico, perché in materia penale gli obblighi internazionali restano inattuati se mancano le norme
interne che indichino in maniera precisa la fattispecie delittuosa e le pene da comminare.

Universalità della giurisdizione civile


La Corte suprema degli Stati Uniti ha recentemente negato la giurisdizione delle corti statunitensi
sulle azioni risarcitorie riguardanti crimini internazionali commessi al di fuori del territorio
nazionale. Anche le sezioni unite della nostra Corte di Cassazione hanno escluso la vigenza di un
principio di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da crimini internazionali.
Alla luce di ciò si deve constatare che in materia civile il principio di giurisdizione universale non
trova riscontro nella prassi.

Imprescrittibilità dei crimini individuali


Per quanto riguarda l’imprescrittibilità essa è prevista da molte leggi statali. Non mancano le
sentenze interne che l’hanno applicata sostenendo che essa sia imposta dal diritto internazionale
generale.
Si può sostenere che un principio di diritto internazionale consuetudinario, in particolare un
principio di diritto riconosciuto dalle nazioni civili, che imponga l’obbligo di non considerare come
prescritti i crimini contro l’umanità, sia in via di formazione.

Leggi di amnistia e Commissioni di verità e conciliazione


Sempre più spesso nei Paesi dove viene eliminato un governo che ha commesso violazioni gravi dei
diritti umani, come il Cile dopo Pinochet, il Sud Africa dopo l’apartheid, si tende a stendere un velo
sul passato, adottando leggi di amnistia o creando Commissioni di verità e riconciliazione.
Diversa è la situazione quando nel Paese di origine il presunto criminale sia sottoposto a regolare
processo, nel qual caso la giurisdizione di un altro Paese non è esercitabile.
Nello stesso Paese di origine le leggi di amnistia lasciano perplessi quando si tratta di cancellare
crimini internazionali efferati.
Bene ha fatto la corte Suprema argentina ad annullare per contrarietà alla Costituzione, le leggi di
amnistia adottate per i crimini (tortura, sparizioni) commessi durante il regime militare.

II bis.
Terrorismo
Si discute se sia crimine internazionale il terrorismo, che consiste nella commissione di un atto
criminale, con l’intento di spargere terrore nella popolazione di uno Stato o in una parte di essa e
sempre che l’atto trascenda i confini di un singolo Stato.
Non rientrano quindi in questa definizione gli atti terroristici commessi da cittadini nel territorio del
loro Stato. E sono esclusi anche gli atti commessi da movimenti di liberazione di territori sottoposti
a dominazione straniera, come tali rientranti nel principio di autodeterminazione (es. Cisgiordania,
che è ancora occupata da Israele in parte).

Il terrorismo non rientrando nella categoria dei crimini contro l’umanità sfugge al principio della
giurisdizione universale. Dalla norma consuetudinaria che lo prevede discende solo l’obbligo per gli
Stati di introdurlo nella loro legislazione come figura autonoma di reato. In Italia il codice penale
definisce il terrorismo come il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine
democratico.
Un caso di terrorismo che può essere eccezionalmente fatto rientrare tra i crimini contro l’umanità è
quello degli atti commessi negli ultimi anni, prima e dopo l’attacco alle torri gemelle del 2001, dal
gruppo Al Qaeda.

La definizione data di terrorismo è tratta dalla sentenza della Camera di appello del Tribunale
speciale per il Libano del 2011 (presid: Cassese).
Della repressione del terrorismo si occupano varie convenzioni internazionali. Tra queste, la
Convenzione dell’Aja del 71, la Convenzione di Strasburgo del 77, la Convenzione di Roma dell’88
ecc.
A parte queste convenzioni relative a specifiche attività terroristiche, o a fini specifici, non è mai
stata conclusa una Convenzione generale sul terrorismo.
Si ritiene convincente la tesi secondo cui, più che una definizione generale di terrorismo, il diritto
internazionale conterebbe definizioni diverse a seconda dei contesti giuridici entro i quali la
definizione è applicata. Solo nel caso di Al Qaeda tutti gli Stati concorderebbero nel considerarla
una organizzazione terroristica.

Anche ai terroristi e sospettati di terrorismo, vanno riconosciuti i diritti umani. Ciò è stato più volte
ribadito dalla CEDU:
- Sentenza Saadi contro Italia, che condanna l’Italia per aver espulso uno straniero
condannato per terrorismo nel suo Paese, dove rischiava di essere sottoposto a tortura e
trattamenti disumani
- Sentenza El-Masri contro Macedonia, relativa alla segreta consegna di un sospettato di
terrorismo ad agenti degli Stati Uniti nella prassi della c.d extraordinary rendition praticata
dal Governo americano.
Sono poi note le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti sul riconoscimento dei diritti
connessi all’habeas corpus a presunti terroristi detenuti a Guantanamo.

III.
Aut dedere aut judicare
Nelle convenzioni che si occupano di crimini internazionali, o di gross violations dei diritti umani,
as ed. la Convenzione NU contro la tortura, è di solito contenuto il principio aut dedere aut iudicare:
lo Stato che non vuole o non può procedere alla punizione del presunto criminale ha l’obbligo di
consegnarlo ad un altro Stato che ne faccia richiesta e che sia competente a giudicarlo.

Secondo una sentenza della CIG del 2012 nel caso Belgio contro Senegal sulle questioni relative
all’obbligo di perseguire in giudizio o estradare, lo Stato che non intende procedere alla consegna
ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per iniziare il giudizio contro il presunto
criminale e ciò appena possibile.
Nel caso, il Senegal aveva dilazionato in modo eccessivo detta instaurazione, rifiutandosi di
consegnare l’ex Capo di Stato del Ciad rifugiatosi in Senegal e incriminabile per tortura e crimini
contro l’umanità.
CAPITOLO XXV
I LIMITI RELATIVI AI RAPPORTI ECONOMICI E SOCIALI
LA PROTEZIONE DELL’AMBIENTE
I.
Diritto internazionale economico
Vari sono i limiti che la sovranità dello Stato incontra nelle norme di diritto internazionale
economico. Questo è il diritto in cui più che in ogni altro, la formazione di norme consuetudinarie è
da escludersi. Trattasi di un settore dominato da norme convenzionale e soft law, ossia moltissime
raccomandazioni di organizzazioni internazionali, soprattutto dell’Assemblea generale NU.

G7, G8, G20


Non sono norme di diritto internazionale economico le transazioni finanziarie lasciate al libero
mercato, che avrebbero invece bisogno di una regolamentazione.
Non sono rilevanti giuridicamente i vari G7, G8 e G20, ai quali partecipano i rappresentanti degli
Stati più industrializzati del mondo per discutere dei problemi di politica internazionale e di
problemi economici.
Sono riunioni che si concludono con intese di carattere politico, la cui messa in atto dipende dalla
volontà degli Stati o da Organizzazioni internazionali economiche, come il FMI o la BIRD.

Accordi sulla liberalizzazione del commercio internazionale


La libertà degli Stati in materia economica è limitata da molti accordi, in gran parte negoziati presso
l’OMC tendenti alla liberalizzazione del commercio internazionale, in particolare all’abbattimento
degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, servizi e capitali.
I più importanti sono quelli conclusi a partire dal 47 e poi confluiti nel GATT94, nonché quelli
come il GATS, il TRIPs e altri che figurano quali annessi allo Statuto dell’OMC.

Clausole di uso comune negli accordi commerciali


Varie clausole, contenute negli accordi commerciali concorrono ad assicurare la liberalizzazione o a
disciplinare talune eccezioni. Tra queste:
- La clausola della nazione più favorita. È una clausola classica, utilizzata dal medioevo, con
la quale si prevede che l’eventuale trattamento più favorevole concesso da uno Stato
contraente ad uno Stato terzo, o altra parte, si estenda all’altra o alle altre parti contraenti.
La clausola può essere condizionata (se le parti che ne beneficiano fanno la stessa concessione) o
incondizionata (estensione automatica)
- La clausola del trattamento nazionale, in base alla quale gli Stati contraenti si impegnano ad
accordare ai prodotti importati dagli altri Stati contraenti un regime giuridico e fiscale, non
inferiore a quello previsto per i prodotti nazionali.
- Le clausole che prevedono l’abolizione progressiva dei dazi doganali e delle restrizioni
quantitative, intendendosi per queste ultime tutte le misure miranti a contingentare le
importazioni.
- Le clausole di salvaguardia, secondo cui la liberalizzazione del commercio incontra alcuni
limiti attinenti alla vita della comunità statale, tra cui quelli relativi alla sicurezza nazionale,
alla difesa della moralità, della salute ecc.

Cooperazione allo sviluppo


Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi in via di
sviluppo.
Il quadro di riferimento della materia è fornito da una serie di principi enunciati dall’Assemblea
generale delle NU, dall’UNCTAD e da altri organi ONU

Accordi di cooperazione di vecchia generazione


Possiamo distinguere tra regimi convenzionali di vecchia generazione e di nuova generazione.
Quadro di riferimento di quelli di vecchia generazione sono i principi enunciati da varie
dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale.
Le convenzioni concluse nel nuovo ordine economico si ispirano al principio del trattamento
preferenziale, secondo cui le concessioni fatte dai Paesi sviluppati sono a senso unico e senza effetti
per i terzi.

Sistema delle preferenze


Un sistema generalizzato delle preferenze è quello previsto dal GATT, sistema che può anche
essere adottato unilateralmente dai Paesi industrializzati. Importante esempio è quello degli Stati
Uniti nei confronti dei c.d. Stati canaglia.

Accordi sui prodotti di base


Dobbiamo anche citare l’esperienza degli accordi sui prodotti di base che per diversi periodi di
tempo tendono a stabilizzare il prezzo del prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori,
normalmente Paesi in via di sviluppo.

Accordi di cooperazione di nuova generazione


Con i regimi convenzionali di nuova generazione le regole applicate sono in parte diverse.
Caratteristica dei nuovi regimi è un certo numero di condizioni che i Paesi sviluppati pongono alle
concessioni che fanno, e che consistono nell’assunzione, da parte dello Stato beneficiario, di una
serie di impegni aventi ad oggetto lo sviluppo al loro interno di istituzioni democratiche, la
protezione dei diritti umani, il buon governo ecc.

Partenariato
Il tutto conferisce negli accordi di partenariato, i quali danno vita a forme di collaborazione fondate
sulla convergenza d’interessi e il raggiungimento di obiettivi comuni. L’istituto del partenariato è
descritto in una Dichiarazione dei principi dell’Assemblea generale del 2002. In essa viene
incoraggiata la cooperazione economica non solo tra Nord e Africa, ma anche tra i Paesi africani tra
loro.

Accordo di Cotonou
Un esempio di regime convenzionale di nuova generazione è fornito dall’Accordo di Cotonou del
2000 tra l’UE e 79 Paesi in sviluppo (ACP: africa, caraibi e pacifico). È una convenzione quadro
che fissa i principi della cooperazione da sviluppare tra l’UE e i Paesi ACP, demandando regole
specifiche ad accordi di partenariato economico riguardanti singole aree regionali.
I principi sono quelli degli accordi di partenariato con la conseguente eliminazione del regime delle
preferenze.

Debito estero dei Paesi poveri


Per quanto riguarda il debito estero dei Paesi poveri, una sede in cui si svolgono i negoziati è il Club
di Parigi del quale fanno parte i Paesi maggiormente creditori.
Anche in questo caso le intese raggiunte non sono vincolanti ma devono essere attuate dai Paesi
creditori.

I-bis
Legislazione antitrust e legislazione sul commercio internazionale
Il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario nella materia
economica. Comunque, limiti del genere esistono solo nella specifica materia del trattamento degli
interessi economici degli stranieri.
I tentativi più interessanti di porre dei limiti sono quelli che si riferiscono alla irrogazione di
sanzioni in base alla legislazione antitrust, o alla legislazione riguardante il commercio
internazionale, o a condizionare l’amministrazione di società estere ecc.
Si è così affermato che lo Stato non debba comunque interferire negli interessi economici essenziali
di Stati stranieri, oppure che tali interessi debbano essere oggetto di una ponderazione ed avere il
sopravvento se meritevoli di maggior tutela rispetto agli interessi nazionali, o infine, che ciascuno
Stato debba esercitare il proprio potere nella materia entro limiti ragionevoli ecc.

Tutto ciò per reagire alla c.d. dottrina degli effetti, ossia il principio secondo cui la giurisdizione
dello Stato si radicherebbe ogni volta che un atto produca effetti all’interno del territorio nazionale,
indipendentemente da dove e da chi l’atto sia compiuto.
È grazie a questa dottrina che gli Stati Uniti hanno giustificato l’applicazione della propria
legislazione antitrust ad imprese operanti all’estero.
Resta naturalmente la questione di stabilire con esattezza quando un’attività industriale produca sul
piano interno effetti sostanziali. Da questo punto di vista la prassi non è chiara, e di fatto il ricorso
alla dottrina in esame diviene solo un pretesto per realizzare obiettivi protezionistici.

Questo è in linea con la tesi secondo cui il diritto internazionale generale in materia di misure dello
Stato in materia economica avrebbe soltanto carattere strumentale, limitandosi ad imporre agli Stati
obblighi di informazione e consultazione in merito alle misure medesime.

II.
Convenzioni sul lavoro e la sicurezza e la sicurezza sociale
Abbiamo già parlato dei diritti economici, sociali e culturali in quanto diritti dell’uomo.
Aggiungiamo che vi sono varie convenzioni internazionali che disciplinano nei dettagli le materie
comprendenti tali diritti, in particolare le materie del lavoro e della sicurezza sociale.
Un forte movimento convenzionale è promosso da molti anni dall’ILO.

III.
Libertà di sfruttamento delle risorse del territorio e suoi limiti
In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle
risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di
produrre irrimediabili distruzioni di risorse.
Si sostiene che lo Stato abbia l’obbligo di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale
da recare danno al territorio di altri Stati.
Ci si chiede se una responsabilità per danni oltre frontiera esista, se vada considerata come
responsabilità da atto illecito o sorga anche qualora si ritenga che l’attività nociva sia lecita, ed
infine se la responsabilità sia assoluta o presupponga la colpa dello Stato territoriale.

Rapporti di vicinato
Il problema che stiamo considerato si è posto nel quadro di rapporti di vicinato, soprattutto per
quanto riguarda l’utilizzazione dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al
territorio di uno Stato contiguo e alle immissioni di fiumi e sostanze tossiche dovute ad attività
poste in prossimità dei confini.

Inquinamento oltre frontiera


Oggi il problema si pone in relazione all’inquinamento atmosferico derivante da attività
ultrapericolose e capaci di produrre danni anche a notevole distanza, come le centrali atomiche, gli
esperimenti nucleare, le industrie chimiche ecc.
A simili attività si rifanno: la Dichiarazione di Stoccolma del 72, la Dichiarazione di Rio del 92,
secondo la quale gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente
alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti
della propria sovranità non causino danni all’ambiente in altri Stati.

Queste due dichiarazioni non hanno di per sé forza vincolante. Può dirsi che l’obbligo che esse
sanciscono corrisponda al diritto internazionale consuetudinario?
In questo senso si esprimono la dottrina e la giurisprudenza.
La decisione più antica è una sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti e Canada sul caso di una
fonderia canadese che operava sul confine e che aveva danneggiato con immissioni di fumo, le
coltivazioni dei contadini americani.
Fino ad una sentenza recente della CIG secondo cui l’obbligo di non inquinare discenderebbe da un
corpo di regole del diritto internazionale dell’ambiente.
Ma non si capisce se ci si riferisca al diritto consuetudinario o pattizio.

La formula da essa utilizzata è interpretata nella sentenza arbitrale del 2005 tra Belgio e Paesi Bassi
nel caso del Reno di ferro, che ritiene che comunque si sia di fronte ad un principio emergente
A parte le sentenze, manca una significativa prassi che deponga per questo obbligo. L’opinione
della dottrina e della giurisprudenza rappresentano piuttosto, l’ideale collettivo della comunità
internazionale.
Dobbiamo poi tener conto dell’atteggiamento dei Paesi in via di sviluppo, i quali sono attaccati al
principio della sovranità permanente sulle risorse naturali, principio che mal tollera intralci al pieno
sfruttamento delle risorse.

Diversa è la situazione per quanto riguarda il caso delle acque comuni (fiumi, laghi), di cui può
considerarsi vietato un qualsiasi utilizzo capace di nuocere ad altri utilizzatori: esiste una prassi
diffusa come ad es. la Dichiarazione del procuratore Harmon sul pieno diritto degli SU di deviare le
acque del Rio grande a danno del Messico.

Inoltre sono previsti obblighi di cooperazione per gli usi nocivi del territorio in generale, come
l’obbligo dello Stato di informare gli altri Stati dell’imminente pericolo di incidenti e l’obbligo per
tutti gli Stati interessati di prendere di comune accordo misure preventive o successive al verificarsi
del danno all’ambiente.

Convenzione ONU sui corsi d’acqua internazionali


La materia dell’inquinamento dei fiumi è stata oggetto di codificazione ad opera della CDI, sfociata
nella convenzione del 1997 non ancora entrata in vigore.
La Convenzione vuole essere un accordo quadro al quale dovrebbero ispirarsi accordi particolari tra
Stati rivieraschi. Sue norme principali sono:
art 5: prevede un’utilizzazione equa e ragionevole del corso d’acqua da parte degli stati rivieraschi
art 7: uno Stato rivierasco deve prendere le misure necessarie per evitare di causare danni
significativi agli altri Stati rivieraschi.

Principio del “chi inquina, paga”


Non bisogna confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con quelli degli individui,
persone fisiche o giuridiche, sul piano interno: se un’industria provoca danni nel territorio di un
altro Stato, può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici di questo Stato nel quadro del
normale esercizio della sovranità territoriale. Oppure esse può essere chiamata a rispondere innanzi
ai giudici dello stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento.
Precisamente alla responsabilità di diritto interno si guarda quando si parla del principio chi inquina
paga, come di un principio di diritto internazionale previsto anche dalla Dichiarazione di Rio del 92.
Esso si limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare gli strumenti affinchè la responsabilità
dell’inquinatore possa esser fatta valere al suo interno.
Sviluppo sostenibile, responsabilità intergenerazionale e approccio precauzionale
A parte gli usi nocivi, ci si chiede se lo Stato non sia addirittura obbligato dal diritto internazionale
generale a gestire razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo
sostenibile, della responsabilità intergenerazionale, dell’approccio precauzionale ecc.
La risposta è positiva ovviamente.

A questa linea fa riferimento la CIG nella sentenza Ungheria/Slovacchia 1997. Nell’indicare alla
Slovacchia e all’Ungheria come attuare un accordo per la costruzione di dighe sul Danubio, la Corte
le invita a tener conto del principio dello sviluppo sostenibile.
Interessante è poi la sentenza della Corte suprema delle Filippine del 1993 che riconosce il diritto di
un gruppo di minori e di un’associazione di ecologisti a rivendicare il diritto ad un razionale uso
delle risorse ed in particolare nella gestione e conservazione delle foreste.
Va aggiunto però che quando si parla di sviluppo sostenibile, ci si riferisce anche a tutta una serie di
azioni che dovrebbero intraprendersi allo scopo di assicurare il benessere dell’umanità,
l’eliminazione della povertà, la democrazia, buon governo, la pace ecc.

Cooperazione contro l’inquinamento


Passando al piano del diritto pattizio, moltissime sono le convenzioni internazionali che si occupano
della lotta all’inquinamento. Per quanto riguarda gli usi del territorio che possono nuocere al
territorio o alle comunità sottoposte alla giurisdizione di altri Stati, ricordiamo, la Convenzione di
Stoccolma del 2001 sugli inquinanti organici persistenti, la Convenzione del 1979
sull’inquinamento atmosferico a lunga distanza, Convenzione di Basilea sul controllo dei
movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e tantissime altre.
Una menzione a parte meritano quelle convenzioni in tema di responsabilità da inquinamento, le
quali non si occupano della responsabilità internazionale, ma ispirandosi al principio chi inquina
paga, si preoccupano di imporre agli Stati contraenti la predisposizione al loro interno di un
adeguato sistema di responsabilità civile o penale.

Cooperazione per la gestione delle risorse


Anche nella materia della gestione delle risorse le convenzioni sono numerose. Trattasi di norme di
importanza fondamentale, capaci di contribuire alla preservazione di un ambiente decente per le
future generazioni. Tra queste: la Convenzione di Vienna del 1985 completata dal <protocollo di
Montreal del 1987, ratificati da più di 150 Stati tra cui l’Italia, sulla protezione della fascia di ozono.
Ma anche la Convenzione NU sui cambiamenti climatici del 92 seguita dal Protocollo di Kyoto
sulle quote di riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti.
Il protocollo non è riuscito ad impegnare seriamente gli Stati, anche perché i paesi inquinatori
hanno poco rispettato gli obblighi in esso previsti, o come nel caso degli SU, non lo hanno
ratificato. Ratificato dagli SU è invece l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015.
Anche se nel 2017 il neo-presidente degli SU ha manifestato l’intenzione di denunciare l’Accordo.

Cooperazione per la tutela della diversità biologica


Interamente di carattere pattizio è la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la
varietà degli organismi viventi di qualsiasi origine.
Il testo basi è la Convenzione di Nairobi del 92 ratificata da un grande numero di stati tra cui
l’Italia. Ha per oggetto la conservazione della diversità biologica, l’utilizzazione durevole dei suoi
elementi e la ripartizione equa dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche.
Si preoccupa dell’impatto ecologico negativo, specie sulla diversità biologica, delle biotecnologie
ad es. nel settore degli alimenti geneticamente modificati. Degna di nota è la Convenzione di
Aahrus sull’accesso alle informazioni. A differenza degli altri strumenti, essa non impone obblighi
di natura sostanziale agli Stati, ma si preoccupa di garantire la partecipazione del pubblico ai
processi decisionale che hanno impatto ambientale.

CAPITOLO XXVI
IL TRATTAMENTO DEGLI STRANIERI
I.
Attacco dello straniero con la comunità territoriale
Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono formati in materia di trattamento
degli stranieri.
1. Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni, né comportamenti, che
non si giustifichino con un sufficiente attacco dello straniero stesso con la comunità
territoriale.
Questa regola può esprimersi anche affermando che l’intensità di potere di governo sulo straniero e
sui suoi beni deve essre proporzionata all’intensità del predetto attacco sociale.
Quindi allo straniero non potranno essere richieste prestazioni e comportamenti di natura politica,
come l’obbligo del servizio militare, che si giustificano solo in presenza di quel massimo attacco
sociale costituito dal vincolo di cittadinanza. Non potranno essere imposti vincoli relativamente ad
attività commerciali, industriali ecc., non potranno applicarsi sanzioni penali se non di fronte a reati
che, dovunque siano stati connessi, presentino un collegamento con lo Stato territoriale e i suoi
sudditi.

Protezione dello straniero


2. Il secondo principio sancisce il c.d. obbligo di protezione da parte dello Stato territoriale.
Lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e reprimere le offese contro la persona dello
straniero. Per quanto concerne le misure preventive è ovvio che debbano essere adeguate ad ogni
caso singolo concreto. Per quanto concerne le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di
un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa far valere le proprie pretese
ed ottenere giustizia.

Diniego di giustizia
Chiamasi diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato in questa specifica materia. Tale illecito
si ha quando la giustizia è negata appunto per difetto di organizzazione giudiziaria, tenuto conto,
come modello, dell’amministrazione della giustizia predisposta da uno Stato medio.
Per quanto riguarda i beni dello straniero possono come quelli del cittadino, legittimamente essere
sacrificati dal punto di vista del diritto internazionale. (?)

II.
Protezione degli investimenti stranieri
Sul tradizionale obbligo di protezione dei beni degli stranieri, si sono innestate per quanto riguarda
la materia degli investimenti stranieri, le rivendicazioni dei Paesi in sviluppo.
Simili rivendicazioni tendevano a sostenere, durante la decolonizzazione, l’assoluta libertà dello
Stato territoriale, con il conseguente venir meno dell’obbligo di protezione dei beni stranieri.
La situazione oggi è abbastanza mutata, perché gli Stati stessi che ricevono investimenti hanno
interesse a creare le condizioni necessarie affinchè i capitali stranieri non cessino dall’affluire. In
secondo luogo, la materia è ormai disciplinata sul piano convenzionale.
Il diritto consuetudinario ha piuttosto la funzione di colmare le lacune del regolamento
convenzionale o di intervenire quando il regolamento lo prevede. Da questo pdv va menzionata la
giurisprudenza dell’ICSID (centro internaz. Per il regolamento delle controversie tra stati e
investitori stranieri), la cui competenza è prevista da trattati internazionali e contratti tra imprese
investitrici e Stati dove ha luogo l’investimento. È una giurisprudenza molto ricca dalla quale
possono trarsi molti principi, tra cui che quello degli investimenti stranieri deve essere giusto ed
equo.
III.
Espropriazione e nazionalizzazione di beni stranieri
Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della disciplina
internazionalistica delle espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti ed interessi
degli stranieri. Il problema si è posto per il secolo scorso riguardo alle nazionalizzazioni.

Attualmente la prassi delle nazionalizzazioni non è più molto significativa ed anche il problema di
quali siano le regole internazionali consuetudinarie in materia di trattamento degli investimenti non
è più così grave.
Nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di espropriare e nazionalizzare beni stranieri.

Obbligo di indennizzo
In definitiva, l’unica importante questione è quella che riguarda l’indennizzo conseguente alle
espropriazioni e nazionalizzazioni, questione che ha dato luogo a scontri tra Stati, scontri dottrinali
che vertevano sul quantum non sull’an.
Una regola che può considerarsi diritto consuetudinario è quella indicata dal Tribunale Iran-Stati
Uniti, secondo la quale occorre distinguere tra
- le espropriazioni, per le quali l’indennizzo va commisurato al valore del bene
- le nazionalizzazioni, operate su vasta scala, per le quali circostanze speciali possono
giustificare temperamenti e aggiustamenti.

Accordi di compensazione globale


Va anche tenuto conto degli accordi di compensazione globale, mediante i quali lo Stato
nazionalizzante corrisponde una somma forfettaria allo Stato di appartenenza degli stranieri
espropriati e questo resta l’unico competente a decidere circa la distribuzione della somma tra i
soggetti colpiti.

Facciamo riferimento anche alla risoluzione adottata dall’IDI a Tokyo nel 2013, la quale prevede
che l’indennizzo, sia in caso di espropriazione che di nazionalizzazione, e sempre che non sia
diversamente previsto, debba essere pronto, adeguato ed effettivo. Il termine adeguato deve essere
inteso come implicante un equilibrio tra gli interessi dell’investitore e i fini pubblici dello Stato.

IV.
Rispetto dei debiti pubblici
Al tema della protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri si collega il problema del
rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore nell’ambito del proprio
diritto interno, nei casi di mutamento di sovranità su un territorio.
La dottrina tradizionale era in linea di massima favorevole alla successione nel debito pubblico.
Tale opinione ha incontrato l’opposizione dei Paesi in sviluppo.
Nella prassi più recente, relativa allo smembramento dell’URSS e della Cecoslovacchia, può notarsi
la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti.
Debiti localizzabili
Pertanto la disciplina della materia tende a seguire i principi valevoli per la successione nei trattati:
si ammette la successione nei debiti localizzabili (contratti nell’esclusivo interesse del territorio
oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti generali dello Stato predecessore.

V.
Ammissione ed espulsione degli stranieri
Il diritto internazionale consuetudinario non prevede limiti per quanto riguarda l’ammissione degli
stranieri. In questa materia rivive la norma sulla sovranità territoriale, che comporta la libertà dello
Stato di stabilire la propria politica.
Il problema è diverso quando lo Stato commette una violazione dei diritti umani.
Per il diritto consuetudinario lo Stato è libero di espellere gli stranieri. Però l’espulsione deve
avvenire con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dell’espellendo e che a
quest’ultimo deve concedersi un lasso di tempo ragionevole qualora egli debba regolare i propri
interessi.

Espulsione verso Paesi a rischio


Limiti particolari in tema di espulsione di stranieri derivano da varie convenzioni internazionali. Ad
es. la Convenzione ONU contro la tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti. Essa obbliga
gli Stati a non estradare o espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta
a tortura.

Espulsione contraria al rispetto della vita privata e familiare


Importante è anche la giurisprudenza della CEDU (Saadi VS Italia e El-Masri VS Macedonia). La
Corte ha ricavato l’obbligo di non espellere ai sensi dell’art 8 Convenzione: prevede il rispetto della
vita privata e familiare, quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata
rottura della vita familiare.
In tutti questi casi, l’obbligo di non espellere deriva da norme che riguardano ogni persona, ma
l’obbligo trova la sua principale attuazione nei confronti degli apolidi.

Rifugiati
La Convenzione di Ginevra del 51 e il Protocollo del 67 sui rifugiati, affermano che lo status di
rifugiato spetta a chi teme a ragione che nel proprio Paese possa essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità ecc.
Il rifugiato ha vari diritti: non essere discriminato con riguardo alla razza, praticare la propria
religione, accedere ai tribunali, assistenza e ottenere il documento di viaggio.

Non-refoulement
La norma più importante è quella dell’art 33, che prevede il principio del non-refoulement, secondo
cui il rifugiato non può essere espulso verso territori dove la sua vita o libertà sarebbe minacciata
per i motivi sopraindicati, e ciò sempre che non lo richiedano motivi di pubblica sicurezza.
Questo principio si applica in ogni caso in cui il rifugiato può essere sottoposto nel suo Paese a
trattamenti che violino i principi fondamentali della persona umana.

Diritto di asilo
La prassi evolutiva della Convenzione sui rifugiati ha prodotto l’assorbimento nella figura del
rifugiato di quella del richiedente asilo.
Il diritto di asilo territoriale non è previsto da alcuna convenzione universale ma da atti
internazionali privi di forza vincolanti, come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del
48, la Dichiarazione sull’asilo territoriale.
Sul piano regionale va ricordata la Convenzione di Caracas del 54, che disciplina l’asilo territoriale
nei dettagli, ma non ne sancisce l’obbligatorietà.

È da condannare la prassi seguita dall’Italia in passato, consistente nel respingere in alto mare
stranieri che fuggivano dal loro Stato e di respingerli addirittura verso la Libia di Gheddafi.
Questo è stato condannato anche dalla CEDU. La Corte ha ritenuto di avere giurisdizione anche per
violazioni perpetrate dallo Stato fuori dal proprio territorio, e precisamente fuori dal mare
territoriale.
L’assorbimento della figura del richiedente asilo in quella del rifugiato è stato operato anche dalla
giurisprudenza italiana.

VI.
Convenzioni di stabilimento
Numerosi accordi internazionale, c.d. accordi di stabilimento, prevedono l’obbligo di ciascuna parte
contraente di riservare alle persone fisiche e giuridiche, appartenenti all’altra o altre Parti,
condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di
attività imprenditoriali, professionali ecc.
Particolarmente importanti sono le norme degli artt.46ss del TFUE che mirano ad una parificazione
tra cittadini e stranieri nel territorio dell’UE.

Cittadinanza europea
Allo stesso fine tende la cittadinanza europea, che comporta il diritto di circolare liberamente
nell’ambito dell’UE, di partecipare alle elezioni locali nello Stato membro in cui risiede e di votare
nello stesso Stato per i rappresentanti al Parlamento europeo.

VII.
Protezione diplomatica
Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei
confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene.
Della protezione diplomatica si è occupata la CDI a partire dal 2000.

Lo Stato dello straniero maltrattato potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la
difesa del proprio suddito sul piano internazionale: potrà agire contro lo Stato territoriale, proposte
di arbitrato o ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la cessazione della
violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito.
Prima però che lo Stato agisca in protezione diplomatica, occorre che lo straniero abbia esaurito
tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale purchè adeguati ed effettivi, secondo
la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.

L’istituto della protezione diplomatica ha oggi carattere residuale anche nel senso che, una volta
esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi
internazionali efficaci, azionabili dagli stranieri lesi.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui esso e non il suo suddito, è
titolare. Quindi è da escludere che la materia sia inquadrabile come manifestazione della personalità
internazionale dell’individuo.
Clausola Calvo
L’istituto della protezione diplomatica è oggetto di contestazione, in merito ai rapporti economici
facenti capo a stranieri, da parte dei Paesi in sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, secondo
la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza dei
Tribunali dello Stato locale.
Ad una simile dottrina si sono ispirati gli Stati latino-americani, inserendo nei contratti con imprese
straniere una clausola di rinuncia da parte di queste ultime alla protezione del proprio Stato
(clausola Calvo).
A questa dottrina si ispira la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, quando stabilisce a
proposito della nazionalizzazione, che ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere
regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dai Tribunali di questo
Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi
pacifici sulla base dell’eguaglianza degli Stati medesimi.

Però, nessuno può costringere uno Stato accusato di violazione di norme sugli stranieri, a trattare la
questione sul piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se non ha assunto
preventivamente obblighi in merito. D’altro canto, però, nessuno può vietare allo Stato dello
straniero di protestare, proporre arbitrati ecc.
Certo è che l’istituto è in declino. Si diffondono nella prassi strumenti diretti a garantire i privati
contro i rischi relativi agli investimenti all’estero, soprattutto contro l’eventualità di espropriazione
e nazionalizzazione.

ICSID
Da segnalare è l’attività dell’ICSID. Al Centro fa capo un sistema di conciliazione ed arbitrato per
le controversie tra privati investitori e Stati che ricevono l’investimento. Questo si affianca agli
strumenti classici di conciliazione e di arbitrato.

Dobbiamo soffermarci sul fatto che lo Stato che esercita la protezione diplomatica agisce
nell’interesse suo proprio, quindi può transigere come crede, può sacrificare l’interesse del cittadino
leso ecc.
Quindi il ruolo dei giudici interni acquisisce grande importanza. In altre parole, lo straniero può
essere maggiormente garantito contro le violazioni di diritto internazionale perpetrate nei suoi
confronti attraverso l’opera dei giudici dello Stato territoriale piuttosto che attraverso l’azione in
protezione diplomatica da parte dello Stato nazionale.

La protezione diplomatica spetta agli organi del c.d. potere estero, di solito organi del Potere
esecutivo, e può essere fortemente condizionata da motivi politici.

VIII.
Protezione diplomatica delle società commerciali
La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale sia a difesa di una persona
fisica sia giuridica, in particolare di una società commerciale.
Per quanto concerne le società commerciali, ci si chiede poi se ai fini dell’esercizio della protezione
diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali, come il luogo di costruzione e quello
della sede principale e quindi ritenere ad es. che la protezione sia esercitata dallo Stato cui
appartengono la maggioranza dei soci o comunque coloro che controllano la società.

Caso della Barcellona Traction


A favore della prima tesi si è espressa la CIG nel caso Barcellona Traction. La CIG ha affermato la
necessità che oltre al luogo di costruzione e della sede sociale debba concorrere a determinare la
nazionalità della società qualche altra permanente e stretta connessione con lo Stato individuato da
detti criteri. Non è chiaro però cosa succeda se i criteri conducano a Stati diversi.
Successivamente si è cercato di chiarire cosa debba intendersi per permanente e stretta connessione
di una società con uno Stato.
Soprattutto si discute sulla rilevanza della nazionalità di coloro che hanno il controllo della società,
se il criterio del controllo sia alternativo o meno a quelli di luogo di incorporazione e della sede
sociale.
Il criterio non è considerato alternativo. Nel caso Diallo, la corte dichiara che anche se una società
si mantenga in vita con un solo socio, la nazionalità di quest’ultimo non è rilevante.

Protezione dei singoli soci


Con questo la protezione dei singoli soci non è scomparsa. Si afferma innanzitutto che lo Stato
nazionale del socio possa agire quando questi sia stato leso direttamente in un suo diritto, ma non è
facile individuare i casi in cui ciò avviene.
In linea generale si può dire che debba trattarsi della lesione di un diritto del socio nei confronti
della società.
Nella Barcellona Traction la CIG ha indicato alcuni esempi, tra cui il diritto ai dividendi, il diritto a
partecipare alle assemblee con diritto di voto ecc.

Il tema ha poi formato oggetto di decisione nella sentenza Diallo. Si trattava si stabilire se fosse
configurabile la lesione di un diritto del socio che, espulso dal paese dove aveva sede la società,
lamentava di non essere stato in grado di partecipare alle riunioni della società e votare, né di
controllare il management della stessa ecc.
La Corte finisce per escludere che nella specie sussista alcuna lesione, ciò per ragioni di mero fatto,
tra l’altro a causa della possibilità del socio di farsi rappresentare da qualcun altro.
Ammette pertanto da un pdv generale, implicitamente, che la protezione diplomatica del socio fosse
esercitabile.

A parte il tema del diritto del socio una più importante e discussa questione riguarda la c.d.
protezione in sostituzione, o sussidiaria. Ci si chiede se lo Stato possa intervenire quando la società
abbia legalmente cessato di esistere, oppure essa abbia la nazionalità dello Stato presunto violatore,
o se lo Stato non possa o voglia intervenire.
Non c’è dubbio che qualora la società abbia cessato di esistere, i soci possano essere protetti dai
loro Stati nazionali per quanto riguarda i beni residui societari loro attribuibili.
Si discute invece se la protezione sussidiaria sussista nell’ipotesi in cui la società abbia la
nazionalità dello Stato presunto violatore. La CIG si è rifiutata di ritenere che detta forma di
intervento in sostituzione sia prevista dal diritto consuetudinario.

IX.
Protezione della comunità navale
Alla regola secondo cui sono le società e non i singoli azionisti a godere della protezione
diplomatica può accostarsi il caso della protezione della comunità navale da parte dello Stato
nazionale o Stato della bandiera, protezione che assorbirebbe quella dei singoli membri
dell’equipaggio.
In questo senso si è pronunciato il Tribunale internazionale del diritto del mare, nel caso Saiga.
Nella specie si trattava della cattura e del sequestro di una nave in alto mare e conseguente arresto
dell’equipaggio.
CAPITOLO XXVII
IL TRATTAMENTO DEGLI AGENTI DIPLOMATICI
E DI ALTRI ORGANI DI STATI STRANIERI
I.
Particolari limiti alla potestà di governo sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto
riguarda gli agenti diplomatici. Si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche.
La materia è regolata dalla Convenzione di Vienna del 1961 entrata in vigore nel 1965 e ratificata
da un elevato numero di Stati, tra cui l‘Italia.
Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo Stato territoriale e
accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le
sue funzioni, fino al momento in cui ne esce.
La presenza dell’agente è in tutto e per tutto subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà
che si esplica attraverso il gradimento, che precede l’accreditamento, e per quanto riguarda
l’espulsione, attraverso la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare il Paese.
Le immunità diplomatiche sono:

Protezione della persona dell’agente diplomatico


a) inviolabilità personale
l’agente diplomatico deve essere protetto contro le offese alla sua persona mediante
particolari misure preventive e repressive. L’obbligo dello Stato territoriale di garantire
l’inviolabilità personale si confonde con il generico dovere di protezione degli stranieri.
L’inviolabilità personale consiste anche e soprattutto nella sottrazione del diplomatico straniero a
qualsiasi misura di polizia diretta contro la sua persona.

C.d. extraterritorialità della sede diplomatica


b) inviolabilità domiciliare
si intende per domicilio sia la sede della missione diplomatica sia l’abitazione dell’agente
diplomatico. In realtà non si tratta di extraterritorialità, come si diceva un tempo. La sede
della missione diplomatica resta territorio dello Stato che riceve l’agente, ma questo Stato
non può esercitarvi senza il consenso dell’agente, atti di coercizione
E’ per questo che talvolta un perseguitato politico del Governo locale, si rifugia in una sede
diplomatica straniera.
Oltre a non esercitare atti di coercizione, lo Stato locale è tenuto a proteggere sia la missione che
l’abitazione privata dell’agente da attacchi da parte di privati cittadini.

Immunità funzionale
c) immunità dalla giurisdizione penale e civile
bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato, e atti da
lui compiuti come privato.
I primi sono coperti dalla immunità funzionale: l’agente non può essere citato in giudizio per
rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Non si può
negare che questa immunità derivi anche dalla circostanza che simili atti non sono imputabili
all’agente, ma allo Stato straniero.
Ad es: se un agente diplomatico presenta una nota verbale con insulti verso lo Stato territoriale, il
giudice di detto Stato non potrà mai sottoporre l’agente a procedimento penale, perché la nota resta
un atto proprio dello Stato. Così come non potrà essere citato in giudizio personalmente, un agente
che abbia acquistato suppellettili per l’Ambasciata e non le abbia pagate.

Dell’immunità funzionale degli agenti diplomatici si è occupata la Corte costituzionale tedesca con
riguardo al caso dell’incriminazione di un ex ambasciatore siriano presso la ex Repubblica
democratica tedesca. L’ambasciatore era accusato di aver fornito assistenza a dei terroristi nella
preparazione di un attacco a Berlino ovest.
La Corte afferma giustamente che l’immunità dell’agente diplomatico siriano abbia continuato ad
esistere anche dopo cessata la sua funzione. Ma poi ritiene che gli Stati diversi dallo Stato di
accreditamento non siano vincolati al rispetto dell’immunità funzionale.

Immunità per gli atti privati


Anche per gli atti che l’agente compie come privato, sono immuni dalla giurisdizione civile, penale
e amministrativa (immunità personale), salvo le azioni reali concernenti immobili situati nel
territorio dello Stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti attività commerciali e
professionali dell’agente.
La ratio dell’immunità sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare all’agente il libero ed
indisturbato esercizio delle sue funzioni.
Ne consegue il carattere strettamente processuale dell’immunità: l’agente non è dispensato
dall’osservare la legge, ma è solo immune dalla giurisdizione, finchè si trova nel territorio dello
Stato che lo riceve e finchè esplica le sue funzioni.
Dalla ratio dell’immunità consegue anche che all’esenzione dalla giurisdizione è tenuto solo lo
Stato presso cui l’agente diplomatico esercita le sue funzioni.

Art.39 Convenzione di Vienna 1961: prevede che quando la missione è finita, i privilegi e le
immunità continuino a sussistere finchè il diplomatico non lasci il Paese o comunque dopo un
ragionevole lasso di tempo necessario a tal fine.

d) esenzione fiscale
sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali, ma per motivi di cortesia, lo Stato di
accreditamento può estenderla ad altri tributi, ad es. ad alcune imposte indirette.

II.
Persone cui spettano le immunità diplomatiche
Gli agenti diplomatici sono di solito i capi-missione (ambasciatori, ministri plenipotenziari,
incaricati d’affari). Ma le immunità si estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni
(ministri, consiglieri, segretari ecc). Si estendono anche alle famiglie degli agenti e di coloro che
fanno parte di questo personale.
Convenzione di Vienna art. 37: estende alcune forme di immunità anche al personale tecnico e
amministrativo della missione.

Immunità di organi diversi dagli agenti diplomatici


Si ritiene che le descritte immunità, sia funzionali che personali, spettino per il diritto internazionale
consuetudinario anche a quelle supreme autorità degli Stati che si occupano di norma delle relazioni
internazionali, cioè i Capi di Stato, di Governo e ai Ministri degli Esteri.
III.
Immunità e crimini internazionali
L’immunità personale dalla giurisdizione copre qualsiasi atto e dunque anche eventuali crimini
internazionali commessi dall’individuo al quale spettano le immunità diplomatiche. Ciò finchè dura
la funzione.
Anche nel caso dell’immunità funzionale si ritiene ormai che questa debba soccombere rispetto
all’esigenza della punizione di siffatti crimini. Poiché i crimini internazionali sono normalmente
commessi proprio dagli organi supremi dello Stato sarebbe assurdo negare che l’agente o altro
individuo possa essere punito.

IV.
Consoli e altri organi statali
È controversa la questione se per qualsiasi organo statale il diritto internazionale preveda
l’immunità funzionale.
La tesi affermativa afferma che, se l’organo agisce nell’esercizio delle sue funzioni, la sua attività
va imputata allo Stato ed è quest’ultimo che deve risponderne. Però la prassi non depone in questo
senso.
Senza dubbio vi sono delle categorie alle quali l’immunità è riconosciuta: ed es. i consoli, per i
quali nessun’altra immunità è prevista, salva l’inviolabilità dell’archivio consolare.
L’immunità funzionale secondo una vecchia norma consuetudinaria va riconosciuta ai Corpi di
truppa all’estero

Per quanto riguarda gli altri organi, invece, la prassi depone nel senso che esistono casi come ad es.
quelli delle intrusioni non autorizzate di agenti di polizia in territorio straniero, di sconfinamenti di
aerei, nei quali l’immunità è di solito esclusa.
Anzitutto, l’immunità funzionale sussiste per quanto riguarda la giurisdizione civile, in questi casi è
lo Stato in nome del quale l’organo ha agito che può essere sottoposto alla giurisdizione straniera.
L’immunità è invece da escludere per l’esercizio della giurisdizione penale: questo trova la sua ratio
nel fatto che lo Stato, in quanto persona giuridica, difficilmente può essere considerato come
penalmente responsabile.

Per gli organi statali che non godono dell’immunità funzionale, valgono comunque le comuni
norme sul trattamento degli stranieri. Anche qui il dovere di protezione dovrà essere commisurato al
rango dell’organo e alle circostanze in cui esso opera.

Membri di missioni speciali


Agli organi e agli individui inseriti in missioni speciali inviate da uno Stato presso un altro Stato per
la trattazione di questioni determinate, la Convenzione del 1969 delle NU, estende le immunità
diplomatiche d’uso.
Non sembra però che la Convenzione corrisponda al diritto internazionale generale per questa parte.
CAPITOLO XXVIII
IL TRATTAMENTO DEGLI STATI STRANIERI
I.
Non ingerenza negli affari di altri Stati
Ci si può chiedere se e quali limiti al potere dello Stato territoriale derivino da un principio di cui si
parla spesso: il principio di non ingerenza negli affari interni ed internazionali di un altro Stato.
Trattasi di un principio spesso enunciato dagli Stati solo a fini di propaganda politica.
In realtà il principio della non ingerenza è venuto perdendo la sua autonoma sfera di applicazione
con l’affermarsi di altre regole generali, che hanno assorbito le fattispecie.

Non ingerenza e divieto della minaccia o dell’uso della forza


La più importante di queste regole è quella del divieto della minaccia o dell’uso della forza. Gli
interventi negli affari interni ed internazionali di un altro Paese, attuati attraverso la minaccia o
l’impiego della forza di tipo bellico, erano considerati un tempo come le principali fattispecie
regolate da questo principio.
La CIG afferma nella sentenza nel caso delle attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua.
La corte non ritiene che detta fattispecie sia assorbita dal principio che vieta la minaccia o l’uso
della forza, essa però considera l’assistenza alle forze ribelli come contraria sia all’uno che all’altro
principio.

Non ingerenza e misure di pressione economica


Per quanto riguarda le applicazioni che si risolvono in limiti al potere di governo che lo Stato
esercita nell’ambito del proprio territorio, vengono in rilievo gli interventi dello Stato diretti a
condizionare le scelte di politica interna ed internazionale di un altro Stato.
Si pensi alle misure di carattere economico. Secondo la CIG nella controversia Stati Uniti contro
Nicaragua, non è sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento negli affari altrui,
l’interruzione di un programma di aiuto allo sviluppo o la riduzione o divieto delle importazioni.
Qualora queste misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese ed abbiano come unico
scopo quello di influire sulle scelte dello Stato straniero, esse devono considerarsi come vietate.

Resta infine da chiedersi se dal principio di non ingerenza derivi l’obbligo di impedire che nel
proprio territorio si tengano comportamenti che possano indirettamente turbare l’ordine pubblico.
Nessuno dubita che siano perfettamente lecite manifestazioni di condanna o critica al sistema
politico, economico, sociale ecc. di uno Stato straniero. Ma i pareri sono discordi quando si tratta di
comportamenti come la propaganda sovversiva, preparazione di atti di terrorismo ecc.

Preparazione di atti terroristici diretti contro Stati stranieri


Forse l’unica regola consuetudinaria di cui possa affermarsi l’esistenza è quella che impone di
vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri Stati. Tutto il resto appartiene al
diritto convenzionale.
II.
Giurisdizione sugli Stati stranieri
Il problema più interessante è se gli Stati stranieri siano assoggettabili o meno alla giurisdizione
civile dello Stato territoriale. Può essere uno Stato convenuto in giudizio davanti alle Corti di altri
Stati per inadempimento contrattuale ad es?
Sul tema ha lavorato la CIG, emanando alla fine una convenzione di codificazione nel 2004 e aperta
alla firma degli Stati.

Immunità assoluta e immunità relativa degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile
Verso la fine dell’800 e inizi 900, la teoria accolta in merito al trattamento degli Stati stranieri era
quella favorevole all’immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile.
La giurisprudenza italiana e belga hanno dato inizio ad un’inversione di tendenza che ha portato alla
revisione della regola dell’immunità assoluta, con l’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta
o relativa.

Atti dello Stato jure imperii ed atti jure gestionis


Ad essa si ispira la Convenzione delle NU. Secondo questa teoria dell’immunità ristretta,
l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii, ossia atti
attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali. Non si estende invece agli
atti jure gestionis o jure privatorum, ossia atti aventi carattere privatistico, come l’acquisto di un
immobile, l’emissione di prestiti obbligazionari.

La distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis, non è sempre facile da applicare ai singoli casi
concreti.
Anche qui il diritto consuetudinario lascia un ampio margine all’interprete, al giudice interno. Può
forse sostenersi che nel dubbio debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della
sottoposizione dello Stato straniero alla giurisdizione, essendo quest’ultima una sorta di eccezione
all’immunità.
Questo trova conferma nella giurisprudenza interna, incline ad ampliare e non restringere la sfera
degli atti jure imperii e quindi dell’immunità.
Questa tendenza è anche alla base della Convenzione delle NU, la quale non formula espressamente
la distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis, ma affermando il principio dell’immunità, elenca
i casi in cui lo Stato straniero può essere convenuto in giudizio: controversie relative alle transazioni
commerciali, contratti di lavori, proprietà.

Immunità degli Stati stranieri in materia di rapporti di lavoro


Uno dei campi in cui viene più in rilievo il problema della distinzione è quello relativo alle
controversie di lavoro.
È difficile stabilire in questi casi quali aspetti del rapporto di lavoro debbano essere qualificati come
pubblicistici o privatistici ai fini dell’immunità.
In realtà la distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis non fu pensata in relazione a detti rapporti
e la sua applicazione a questi ultimi va criticata.
Il problema si pone per i lavoratori che vengono reclutati nello Stato del giudice ed abbiano la
nazionalità di uno Stato terzo, ma abbiano la residenza nello Stato del giudice. Impedire a costoro di
rivolgersi al loro giudice naturale è del tutto ingiusto.

Va apprezzata una tendenza a tutelare il lavoratore, mediante soprattutto la Convenzione europea


sull’immunità degli Stato promossa dal Consiglio d’Europa.
Questa adotta per i rapporti di lavoro il criterio della nazionalità del lavoratore cumulato con quello
del luogo delle prestazioni: se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta,
l’immunità sussiste in ogni caso. Se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale o vi risieda
essendo cittadino di uno Stato terzo, e il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è
esclusa.

Nel senso contrario all’immunità si esprime anche la Convenzione di Londra relativa allo status
delle Forse degli Stati membri della NATO: le condizioni di impiego e lavoro del personale civile
addetto alle Forze armate di uno Stato membro dislocate in un altro Stato membro, sono regolate
dalla legislazione di quest’ultimo, senza distinzione tra mansioni.
Secondo la Corte di Cassazione, la sottoposizione dello Stato ricevente implica la possibilità per i
giudici locali di esercitare la giurisdizione.
È quindi criticabile l’art.11 della Convenzione delle Nazioni Unite, il quale da un lato prevede che
l’immunità non sia invocabile a meno che si tratti di lavoratori che abbiano la cittadinanza dello
Stato estero e non risiedano nello Stato de foro, ma dall’altro fa rivivere la distinzione tra rapporti
jure imperii e jure gestionis stabilendo che la giurisdizione non può comunque esercitarsi quando il
lavoratore sia stato assunto per svolgere particolari funzioni nell’esercizio del potere di governo.
Purtroppo, ancora alcune sentenze internazionali, in particolare della Corte EDU applichino ancora
detta distinzione ai rapporti di lavoro.

Sulle sentenze dalla CEDI secondo cui la Corte, avendo affermato che l’immunità deve essere
provata dallo Stato che la invoca, avrebbe indicato un passo in avanti per la prassi in materia. Ma il
passo in avanti è insignificante, non essendo state eliminate le incertezze relative alla distinzione.
Nella sentenza Cudak si nota che vi è un trend nella prassi nel senso della limitazione dell’immunità
degli Stati con riguardo alle controversie di lavoro, ad accezione del reclutamento dello Staff delle
Ambasciate.
Sulla sentenza della Corte comunitaria, avendo le sentenze della Corte prevalenza sul diritto interno
degli Stati membri dell’Unione, la giurisprudenza italiana, dovrebbe adeguarsi all’orientamento
della Corte comunitaria, ma la giurisprudenza della Corte vale solo quando è in gioco l’applicazione
del diritto dell’Unione (nino).

Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana, una sentenza della Cassazione del 1989 si era
rifiutata di concedere l’immunità con riguardo al lavoro prestato in Italia da cittadini italiani, ciò
limitatamente agli aspetti patrimoniali del rapporto.
Successivamente la Cassazione ha emesso decisioni non sempre univoche. Le Sezioni Unite hanno
poi affermato la natura consuetudinaria della disciplina fissata dall’art 11.

Immunità e violazioni gravi dei diritti umani


Può ritenersi che l’immunità non sia invocabile dallo Stato citato in giudizio per le conseguenze
civilistiche di violazioni gravi dei diritti umani?
La giurisprudenza interna ed internazionale non è orientata in tal senso, tranne per una serie di
sentenze emesse dalla nostra Cassazione contro la Germania, relative ai crimini di guerra commessi
dalle truppe tedesche durante la IIWW.
Anche in Grecia la Corte suprema si è pronunciata contro l’immunità della Germania, e per gli
stessi crimini.

Per quanto riguarda la giurisprudenza internazionale la CEDU ha iniziato a pronunciarsi a favore


dell’immunità in caso di tortura.
È intervenuta anche la CIG a favore dell’immunità. La CIG si è fondata sulla giurisprudenza
interna, che riconosce in maggioranza l’immunità ed ha respinto tutti gli argomenti proposti dalla
difesa italiana. Essa ha ritenuto improponibile l’argomento secondo cui le norme consuetudinarie
internazionali che vietano le violazioni gravi dei diritti umani, appartenendo allo jus cogens,
dovrebbero prevalere sulle norme che prevedono l’immunità degli Stati per gli atti jure imperii.
L’applicazione delle norme sui diritti umani, a suo giudizio, costituirebbe l’oggetto esclusivo del
merito della controversia rispetto alla quale l’immunità è invocata, laddove invece la questione
dell’immunità avrebbe carattere procedurale e autonomo.

Last resort argument


Un altro argomento respinto dalla Corte è il c.d. last resort argument: secondo la difesa italiana, e
vittime della barbarie tedesca, non avendo potuto ottenere alcun risarcimento in Germania,
sarebbero state privato di un loro diritto fondamentale ossia il diritto a far valere dinnanzi un
giudice le proprie pretese.

Tort exception
La Corte ha respinto l’argomento fondato sugli art.11 della Convenzione europea e 12 della
Convenzione NU, che escludono l’immunità dello Stato straniero per le azioni di risarcimento del
danno prodotto alle persone e cose purchè si tratti di azoni che abbiano avuto luogo nel territorio
dello Stato del foro (c.d. tort exception).
Secondo la Corte la tort exception non corrisponderebbe al diritto consuetudinario e comunque non
si estenderebbe alle azioni per danni derivanti da operazioni di guerra.

Lo stesso va detto a proposito del last resort argument. Va denunciata al riguardo l’omissione della
Corte di alcuni elementi della prassi che, anche non volendoli considerare decisivi, meritavano
considerazione. Ossia alcune sentenze di corti interne che nel pronunciarsi a favore dell’immunità
di giurisdizione dello Stato straniero in tema di risarcimento per violazioni gravi dei diritti umani,
sostengono che una tale pronuncia sia praticabile in quanto le vittime della violazione possono
rivolgersi ai giudici dello Stato che invoca l’immunità.
Occorre comunque riconoscere che il dato su cui la CIG si è basata, cioè il numero di pronunce
delle corti interne, che sul tema specifico delle conseguenze civilistiche delle violazioni di diritti
umani, si sono schierate a favore dell’immunità, è incontrovertibile.

Altro è il problema se, nella specie decisa dalla CIG, il risarcimento del danno causato dai tedeschi
potesse essere rivendicato per fatti avvenuti quando può dubitarsi che norme sui crimini
internazionali, di jus cogens, esistessero.
È chiaro che il problema non poteva essere affrontato se non dopo aver stabilito se la Germania
fosse immune o no.

È il caso a questo punto di osservare che in tutta la materia dell’immunità le Corti internazionali
sono più propense a tener conto delle esigenze delle relazioni internazionali di quanto lo siano le
Corti interne. Queste però costituiscono la vera e propria prassi degli Stati e quindi vanno tenute in
maggior conto.

III.
Immunità delle persone giuridiche pubbliche diverse dallo Stato
L’immunità della giurisdizione civile viene anche riconosciuta agli enti territoriali e alle altre
persone giuridiche pubbliche.
È questa un’ulteriore prova del fatto che a formare la persona dello Stato dal pdv internazionale,
concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo.

IV.
Immunità degli Stati stranieri dall’esecuzione forzata
La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione che ai procedimenti
di esecuzione e cautelari su beni detenuti da uno Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto
ritenersi ammissibile solo se è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione.

Non è sempre facile stabilire se un bene sia destinato o meno ad una pubblica funzione. Una
questione che si è posta più volte innanzi alle Corti interne è se possano essere chieste misure di
esecuzione sul denaro depositato in conti correnti bancari: in mancanza di una destinazione
specifica del conto, la giurisprudenza è orientata a ritenere che esso sia inattaccabile.
In Italia è previsto addirittura che sono esenti tutti i conti bancari e postali che i Capi delle missioni
diplomatiche e consolari abbiano dichiarato trattarsi di denaro destinato a fini pubblicistici.
L’immunità può essere sempre oggetto di rinuncia da parte dello Stato straniero. Né essa può essere
eccepita, qualora lo Stato straniero si faccia attore in giudizio, in ordine alle domande
riconvenzionali.

V.
Dottrina dell’Act of State
A parte i limiti considerati finora, la giurisdizione dello Stato territoriale non incontra nessun altro
limite in tema di trattamento di Stati stranieri.
Senza fondamento è la dottrina dell’Act of State, secondo cui una Corta interna non potrebbe
rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero, ad es. una legge richiamata
dalle norme di diritto internazionale privato, in quanto contraria al diritto internazionale e neppure
in quanto illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo ordinamento di origine.
Quindi le corti di uno Stato non potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna di
leggi, sentenze e atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro vengano in rilievo nei
giudizi medesimi.

Dottrina dell’Atto politico


La dottrina dell’Act of State è sorta ed è seguita soprattutto nei Paesi di common law. In realtà più
che una dottrina imposta dal diritto internazionale, essa è considerata una sorta di principio di diritto
interno, di autolimitazione.
CAPITOLO XXIX
IL TRATTAMENTO DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
I.
Un altro limite alla sovranità territoriale deriva dalle norme sul trattamento delle organizzazioni
internazionali.
Immunità dei funzionari internazionali
Per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono
norme consuetudinarie che impongono agli Stati di concedere loro particolari immunità, e tanto
meno le immunità diplomatiche: solo mediante convenzione lo Stato può essere obbligato in tal
senso.

Immunità dei funzionari ONU


Per i funzionari ONU la Carta all’art 105 afferma un principio generale in tema di immunità: i
funzionari dell’ONU godono dei privilegi e delle immunità necessari per l’esercizio indipendente
delle loro funzioni. Demandando poi all’Assemblea generale il compito di proporre agli Stati
membri la conclusione di accordi per disciplinare la materia.

Immunità dei funzionari UE


Per i funzionari UE norme sull’immunità, simili a quella dell’ONU sono contenute nel Protocollo
sulle immunità e i privilegi dell’Unione del 1965.

Immunità dei rappresentanti degli Stati in seno alle organizzazioni


Circa le immunità dei rappresentanti degli Stati, la materia è sia regolata negli accordi relativi a
ciascuna organizzazione, ma ha anche formato oggetto di una Convenzione di codificazione
promossa dalle NU, la Convenzione del 1975 sulla rappresentanza degli Stati nelle loro relazioni
con le organizzazioni internazionali, di carattere generale.
Questa, riconosce le immunità diplomatiche ai membri delle missioni permanenti presso le
organizzazioni.
Le organizzazioni possono sempre rinunciare alle immunità.

II.
Protezione dei funzionari internazionali
Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua
nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme
consuetudinarie sul trattamento degli stranieri.
La violazione di questo obbligo dà luogo all’esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte
dello Stato nazionale.

Risarcimento dei danni arrecati alla funzione


Oggi, un obbligo di protezione del funzionario sussiste nei confronti dell’organizzazione, ma questa
può agire sul piano internazionale nei confronti dello Stato territoriale solo per il risarcimento dei
danni ad essa arrecati (c.d. protezione funzionale) e non di quelli arrecati all’individuo in quanto
tale e ai suoi beni.

Risarcimento dei danni arrecati alla persona del funzionario


Questo perché per i danni arrecati all’individuo in quanto tale, è normalmente lo Stato nazionale che
agisce in protezione diplomatica.
In realtà non esiste una norma consuetudinaria consolidata.

Caso Bernadotte
La CIG si occupò di questo problema in un famoso parere a proposito del caso Bernadotte: il conte
Bernadotte, mediatore tra arabi e israeliani era stato ucciso a Gerusalemme da estremisti ebraici. Il
Segretario generale aveva apertamente accusato il Governo israeliano di non aver adottato le misure
atte a prevenire l’attentato.
L’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il
risarcimento dei danni e la corte rispose affermativamente, sostenendo che l’ONU avesse titolo per
chiedere oltre al risarcimento dei danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in
quanto tale. Ma questa tesi è stata molto criticata.

III.
Immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione civile
Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo
sono anche le organizzazioni internazionali.
Può considerarsi, questa immunità, come prevista da una norma consuetudinaria autonoma. Di
norma questa si trova prevista anche nell’attribuzione della personalità internazionale all’ente, nelle
norme degli statuti istitutivi degli enti.
Anche per le organizzazioni internazionali un problema importante è quello dell’immunità in tema
di controversie di lavoro. Anche in questo caso c’è stata un’evoluzione, nel senso che l’immunità è
esclusa se l’Organizzazione non ha nel suo ordinamento, un organo giudiziario, che offra tutte le
garanzie di indipendenza e imparzialità, cui il lavoratore può rivolgersi.

Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana sia assiste a prese di posizione non sempre univoche,
ma addirittura a qualche radicale e repentino cambiamento di opinione.
Al riguardo, la vicenda dell’immunità dell’Istituto Universitario Europeo per i rapporti con i suoi
dipendenti, immunità negata sul presupposto che un organo dei ricorsi interni non presentasse i
presupposti di imparzialità e indipendenza, e successivamente ammessa con argomenti poco
convincenti, per il motivo opposto.
CAPITOLO XXX
IL DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO
LIBERTA’ DEI MARI E CONTROLLO DEGLI STATI COSTIERI SUI MARI ADIACENTI
I.
Codificazione del diritto internazionale marittimo
La materia del diritto internazionale marittimo è stata oggetto di Conferenze di codificazioni: la
Conferenza di Ginevra del 1958 e la Terza Conferenza NU sul diritto del mare tra il 1974 e 1982.
La Conf. Di Ginevra produsse 4 convenzioni: sul mare territoriale e zona continua, sull’alto mare,
sulla pesa e conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare e sulla piattaforma continentale.
Una successiva convenzione fu firmata a Montego Bay nel 1982 e entra in vigore nel 1994, questa
sostituisce le 4 convenzioni di Ginevra.

II.
Libertà dei mari e suo significato
Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio della libertà dei
mari.
Questo significa che il singolo Stato non può impedire e nemmeno intralciare l’utilizzazione degli
spazi marini da parte degli altri Stati, ossia da navi che battono bandiera di altri Stati.
È quindi inammissibile che uno Stato sottragga permanentemente agli altri le risorse del mare.

Controllo dei mari adiacenti


In contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli Stati ad assicurarsi
un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste.
Nella seconda metà del XIX secolo era estranea alla prassi la figura del mare territoriale, inteso
come una fascia di mare costiero addirittura equiparato al territorio dello Stato e quindi sottoposta
in linea di principio, all’esclusivo potere di governo dello Stato rivierasco.
Il vecchio principio della libertà dei mari non appare più oggi come la prima e generale regola, ma
piuttosto come una delle regole che compongono il diritto internazionale marittimo

Mare territoriale
Alla fine del XIX secolo si diffuse nella prassi la figura del mare territoriale come sottoposta in
tutto e per tutto al regime del territorio dello Stato.

Piattaforma continentale
Dopo la IIWW vi è stata un’estensione dei poteri dello Stato costiero, con l’accettazione della
dottrina enunciata dal Presidente Truman, con la quale rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la
giurisdizione sulle risorse della piattaforma, ossia quella parte di fondo e sottosuolo marino che
costituisce il prolungamento della terra emersa e che si mantiene a profondità costante prima di
scendere negli abissi.

Zona economica esclusiva


Infine la prassi si è orientata a favore di un nuovo istituto, la c.d. ZEE, estesa fino a 200 miglia
marine dalla costa: tutte o quasi le risorse della zona sono considerate di pertinenza dello Stato
costiero.

Mare presenziale
Per mare presenziale si intende la necessità della presenza dello Stato costiero ai fini della lotto
contro la depredazione della fauna marina

CAPITOLO XXXI
IL MARE TERRITORIALE E LA ZONA CONTIGUA
I.
Sovranità dello Stato costiero sul mare territoriale
il mare territoriale è sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di
terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico.
Montego Bay art2: la sovranità dello Stato si estende al di là del suo territorio e delle sue acque
interne, a una zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale.
Esso può estendersi al massimo fino a 12 miglia dalla costa

II.
Zona contigua
Secondo la Convenzione MB in una zona contigua al suo mare territoriale lo Stato costiero può
esercitare il controllo necessario per prevenire la violazione delle proprie leggi, e reprimere le
violazioni alle medesime-
Stabilisce ancora che nella zona contigua lo Stato costiero può controllare l’attività di rimozione di
reperti archeologici.
La larghezza della zona contigua si estende ad altre 12 miglia oltre il mare territoriale.

Vigilanza doganale
Limitatamente alla vigilanza doganale, il potere dello Stato costiero incontra un limite funzionale e
non spaziale: lo Stato deve fare tutto ciò che è necessario per prevenire e reprimere il contrabbando
nelle acque adiacenti alle sue coste.
La distanza dalla costa può anche essere superiore alle 24 miglia, purchè non si tratti di una distanza
tale da far perdere ogni idea di adiacenza. È necessario quindi che sussista un qualche contatto tra la
nave e la costa.
In realtà la prassi mostra una tendenza a non tener conto delle distanze ma dell’interesse alla
repressione del contrabbando.

Presenza costruttiva
È sintomatico che si è soliti ricorrere alla teoria della c.d. presenza costruttiva, secondo cui la nave
che sia in acque internazionali ma che abbia contatti con la costa, particolarmente nel caso di
trasbordo di merci su imbarcazioni dirette verso la costa, è come se si trovasse negli spazi sottoposti
al potere di governo dello Stato costiero. Ma questa teoria è una pura finzione.

III.
Limite esterno del mare territoriale italiano
Una legge del 1974 ha modificato l’art 2 del codice della navigazione estendendo il mare territoriale
a 12 miglia.
IV.
Limite interno del mare territoriale
Da quali punti si misurano le 12 miglia?
Questo è il problema del limite interno o linea di base del mare territoriale. Il tema è oggetto di
molte norme della Convenzione MB
Art 5: fissa il principio generale secondo cui la linea di base per la misurazione del mare territoriale
è data dalla linea di bassa marea
Art 7: riconosce la possibilità di derogare a questo principio ricorrendo al sistema delle linee rette

Sistema delle linee rette


Con il sistema delle linee rette la linea di base del mare territoriale non è segnata seguendo, come
nel caso della bassa mare, le sinuosità della costa, ma congiungendo i punti sporgenti di questa, e
nel caso vi siano isole e scogli, congiungendo le estremità delle isole e degli scogli ecc.

Baie
Art 10: se la distanza tra i punti naturali di entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare
territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia
sono considerate come acque interne. Se la distanza eccede le 24 miglia, può tracciarsi all’interno
della baia una linea retta in modo tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare
possibile.
L’art 10 considera come baie le insenature che penetrino in profondità nella costa e precisamente le
insenature la cui superficie sia eguale o superiore a quella di un semicerchio avente per diametro la
linea di entrata.
L’art 10 fa poi salvo anche il regime delle baie storiche, ossia le baie sulle quali lo Stato costiero
può vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri stati

Limite interno del mare territoriale italiano


L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e delle isole maggiori.
Può darsi che tra due Stati contigui o le cui coste si fronteggiano i rispettivi mari territoriali non
possano raggiungere il limite delle 12 miglia, soprattutto a causa del tracciato delle linee di base.
In tal caso occorre operare una delimitazione e i principi che vengono applicati sono quelli usati per
delimitare la piattaforma continentale e la ZEE

V.
Poteri dello Stato costiero nel mare territoriale
Per quanto riguarda i poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale questi sono in linea
di principio gli stessi poteri esercitati nell’ambito del territorio.
In linea di principio perché esistono due limiti alla potestà di governo dello Stato costiero, che
servono a distinguere il mare territoriale dalle acque interne.

Passaggio inoffensivo
Il primo limite è il c.d. passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere.
Art 17ss Convenzione MB: ogni nave straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare
territoriale, sia per attraversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo da
queste ecc.
Art 19: il passaggio è inoffensivo finchè non reca pregiudizio alla pace, buon ordine o sicurezza
dello Stato costiero.
Se il passaggio non è inoffensivo, lo Stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo.
Può eccezionalmente anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza.
Le norme sul passaggio inoffensivo vanno anche applicate alle navi da guerra, salvo l’obbligo per i
sottomarini di navigare in superficie.

Regime degli stretti


Il diritto di passaggio è maggiormente tutelato negli stretti che, non superando le 24 miglia, sono
costituiti interamente dai mari territoriali degli Stati costieri.
La Convenzione MB prevede 37ss che quando stretti del genere uniscono una parte di mare
territoriale, o di ZEE con un'altra parte di mare internazionale o di ZEE, ossia quando uniscono
zone di mare in cui la libertà di navigazione è assicurata, le navi hanno diritto di passaggio in
transito, ossia un passaggio che non può essere intralciato o sospeso
Un semplice diritto di passaggio inoffensivo caratterizza invece gli stretti che servendo alla
navigazione internazionale, uniscono il mare territoriale di uno Stato a una parte di mare
internazionale o ZEE di un altro Stato.

Giurisdizione penale sulle navi costiere


Un altro limite riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere. La giurisdizione
penale non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che non
abbiano alcuna ripercussione nell’ambiente esterno.
La Convenzione di MB si discosta dal diritto consuetudinario: art 27: prescrive che lo Stato costiero
non dovrebbe esercitare la giurisdizione sui fatti interni, e sembra lasciare arbitro lo Stato di
decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva.

Giurisdizione sulle navi straniere nei porti


La distinzione tra fatti interni e fatti esterni viene applicata anche alle navi nei porti. La
giurisprudenza italiana ad es. nega la propria giurisdizione in ordine al reato di mera detenzione di
stupefacenti su nave straniera in porto italiano.
CAPITOLO XXXII
LA PIATTAFORMA CONTINENTALE
LA ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA (ZEE)
I.
Possibilità di sfruttamento delle risorse marine
Gli anni successivi alla IIWW segnano l’inizio della corsa all’accaparramento delle risorse marine.
La corsa all’accaparramento delle risorse ha determinato la tendenza degli Stati costieri ad
estendere il proprio controllo oltre il mare territoriale e comunque oltre le acque strettamente
adiacenti alle coste.
Tale tendenza si è risolta nell’accettazione della dottrina della piattaforma continentale, e
dell’istituto della ZEE. La piattaforma fu enunciata per la prima volta dal presidente Truman nel
1945 e fu recepita nella Convenzione di Ginevra del 58. La ZEE si è affermata nella prassi fin dalla
Terza Conferenza sul diritto del mare, 1973, prima dell’adozione di MB.
L’Italia non ha introdotto la ZEE, con il risultato che zone di altri Stati (Tunisia) arrivino a lambire
il nostro mare territoriale.

II.
Piattaforma continentale
MB: lo Stato costiero ha, al di là del mare territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse
della piattaforma (77), intesta come quella parte del suolo e sottosuolo marino contiguo alle coste
che costituisce il prolungamento naturale della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una
profondità costante (200m) per poi precipitare o degradare negli abissi.
Il diritto esclusivo di sfruttamento viene acquistato dallo Stato costiero in modo automatico, a
prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma.

Natura funzionale del diritto sulla piattaforma continentale


Il diritto sulla piattaforma continentale, ha natura funzionale. Lo Stato costiero può esercitare il
proprio potere di governo non genericamente, come nel caso del territorio o mare territoriale, per
disciplinare qualsiasi aspetto, ma solo nella misura strettamente necessaria per controllare e fruttare
le risorse della piattaforma.

Limite esterno della piattaforma continentale


La dottrina della piattaforma continentale, finchè fa leva sulla conformazione geografica delle coste,
risulta abbastanza iniqua.
L’iniquità è stata in larga misura superata dall’introduzione della ZEE che comporta l’attribuzione
allo Stato, a prescindere dalla conformazione geografica, delle risorse del fondo marino fino a 200
miglia dalla costa.

III.
Delimitazione della piattaforma continentale tra Stati frontisti e contigui
Un problema molto importante è quello della delimitazione frontale che nel caso di delimitazione
della piattaforma tra Stati che si fronteggiano o stati contigui.

Criterio della equidistanza


L’art 6 Convenzione Ginevra, stabiliva che sia in caso di delimitazione frontale che laterale, e salva
diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi al criterio dell’equidistanza.
Tale criterio consiste nell’attribuire a ciascuno Stato tutte le zone di piattaforma che siano vicine a
un qualsiasi punto della linea di base del suo mare territoriale più di quanto siano vicine a un
qualsiasi punto delle linee di base del mare territoriale di ogni altro Stato.

Criterio della delimitazione equa


Secondo una sentenza della CIG del 1969 nel caso della delimitazione della piattaforma
continentale del Mare del Nord, il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto internazionale
consuetudinario. Con la conseguenza che la delimitazione può essere effettuata solo mediante
accordo tra gli Stati.

Inconvenienti del criterio dell’equidistanza nella delimitazione tra Stati contigui


La sentenza del 1969 venne pronunciata in ordine ad una controversia tra la Repubblica federale
tedesca da un lato e Olanda e Danimarca dall’altro, sorta dal rifiuto della prima di delimitare la
propria piattaforma rispetto ai due Stati contigui secondo il criterio dell’equidistanza.
L’equidistanza può generare effetti paradossali:
- Se lo stato ha coste a forma convessa, vedrà accresciuta la sua porzione di piattaforma
- Se ha coste a forma concava, vedrà ridotta la porzione di piattaforma

E nella delimitazione tra Stati frontisti


Anche nell’ipotesi della delimitazione frontale, l’equidistanza può dar luogo a effetti distorti, ad es.
se uno degli Stati frontisti ha la sovranità su un’isola o su un piccolo gruppo di isole situate in
prossimità delle coste dell’altro

Rilevanza dell’accordo degli Stati interessati alla delimitazione


Sia la CIG che altri tribunali internazionale hanno confermato la tesi che la delimitazione debba
avvenire mediante accordo, e che questo debba ispirarsi a principi di equità.
Funzione dell’equità
Sulla tesi secondo cui la delimitazione debba farsi mediante accordo non si può non convenire, ma
quando detto accordo è concluso esso resta valido, equi o iniqui che siano i criteri applicabili.

IV.
Zona economica esclusiva
Ai poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale si sono sovrapposti quelli esercitabili
nell’ambito della ZEE. Convenzione MB artt 55ss.
Limite esterno della zona
La ZEE può estendersi fino a 200 miglia marine, limite che essendo calcolato a partire dalla linea di
base del mare territoriale corre parecchio a largo
Quindi anche per la ZEE è importante la delimitazione tra Stati frontisti o contigui.

V.
Poteri dello Stato costiero nella zona
Quali sono i poteri dello Stato costiero nella ZEE? L’orientamento che è prevalso è nel senso
dell’attribuzione allo Stato costiero del controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona,
sia biologiche che minerali, sia del suolo che del sottosuolo e delle acque sovrastanti.
C’è da un lato chi sostiene che il vecchio principio della libertà dei mari debba continuare ad essere
la regola prima e fondamentale, come tale applicabile nei casi di dubbi, ai rapporti tra Stato costiero
e altri Stati.
C’è poi chi all’opposto ritiene che i poteri dello Stato costiero siano la regola e le libertà degli altri
Stati, l’eccezione.

Zone economica esclusiva e libertà dei mari


È difficile inquadrare la situazione degli altri Stati nella ZEE in termini di libertà dei mari.
Oggi si può dire che nella ZEE non vi è una prevalenza di una regola sulle altre.
Da un lato vi è il diritto dello Stato costiero di sfruttare totalmente le risorse marine
Dall’altro vi è la possibilità per gli altri stati di usare la ZEE per esigenze connesse con
comunicazioni e traffici marittimi e aerei.
MB si limita a stabilire che nel caso in cui la Convenzione non attribuisca dei diritti o delle
competenze allo Stato costiero o agli altri Stati all’interno della ZEE, e un conflitto sorga tra
l’interesse dello Stato costiero e gli altri, tale conflitto deve essere risolto sulla base dell’equità e
tenendo conto di tutte le circostanze nonché dell’importanza che gli interessi in gioco rivestono per
le parti.

VI.
Rapporti tra ZEE e piattaforma esclusiva e stati geograficamente svantaggiati
I poteri dello Stato costiero nell’ambito della ZEE, si confondono con quelli esercitabili in base alla
dottrina della piattaforma continentale. Solo oltre le 200 miglia, e sempre che la piattaforma si
estenda geologicamente oltre tale limite, si pone il problema se lo Stato costiero possa mantenervi la
propria giurisdizione.
La Convenzione di MB stabilisce che una parte di quanto lo Stato ricavi dallo sfruttamento delle
zone situate oltre le 200 miglia e il limite estremo della piattaforma (c.d. margine continentale)
debba essere versata all’Autorità internazionale dei fondi marini.

L’istituzione della ZEE poco si concilia però con gli interessi di quei Paesi che non hanno accesso
al mare o che sono geograficamente svantaggiati.
CAPITOLO XXXIII
IL MARE INTERNAZIONALE E L’AREA INTERNAZIONALE DEI FONDI MARINI
I.
Negli spazi marini situati oltre la ZEE la Convenzione di MB parla di “alto mare”. Ma questa
terminologia rende equivoco l’uso del termine “mare libero” dato che molti aspetti della libertà dei
mari, permangono anche nella ZEE. Quindi è il caso di parlare di “mare internazionale” trattandosi
di spazi marini sottratti al controllo parziale o totale, di un singolo Stato.

Libertà del mare internazionale


Il mare internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio della
libertà dei mari. Tutti gli Stati hanno eguale diritto a trarre dal mare internazionale tutte le utilità che
questo può offrire (navigazione, pesca, sfruttamento ecc).
Il principio di libertà ha anche il suo risvolto negativo. Comporta che uno Stato possa utilizzare gli
spazi marini fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi.

II.
Risorse minerarie del mare internazionale
Per quanto riguarda le risorse minerarie del fondo e sottosuolo del mare internazionale, una famosa
risoluzione dell’Assemblea generale ONU le ha dichiarate patrimonio comun e dell’umanità.
Il principio del patrimonio comune fa parte del diritto internazionale consuetudinario, e comporta
che lo sfruttamento debba avvenire nell’interesse della comunità.
È stata creata l’Autorità internazionale dei fondi marini, di cui si occupa la Convenzione MB e
l’Accordo applicativo adottato dall’Assemblea generale ONU e aperto alla ratifica degli Stati.
L’accordo applicativo in realtà modifica la Convenzione MB e espressamente dichiara di prevalere
su di essa in caso di incompatibilità.

Organi dell’Autorità
Gli organi principali dell’Autorità sono: Assemblea, Consiglio, Segretariato e l’Impresa,
quest’ultima è un organo operativo con cui l’Autorità partecipa allo sfruttamento.
Tutte le attività di sfruttamento devono essere fatte secondo un sistema parallelo previsto nelle linee
generali da MB secondo cu ogni sito da sfruttare è diviso in due parti: una attribuita allo Stato che
individua l’area, e l’altra all’Impresa che provvederà allo sfruttamento.

Sfruttamento unilaterale del fondo marino internazionale


Tra l’affermazione del principio del patrimonio comune e la conclusione dell’Accordo applicativo,
si era posto il problema, se in mancanza di un’organizzazione internazionale che presiedesse allo
sfruttamento, potesse avvenire ad opera dei singoli Stati.
I Paesi industrializzati erano per la soluzione positiva ed emanarono anche una serie di leggi in
merito, ma i Paesi in sviluppo erano di parere contrario.
In realtà le leggi non furono mai applicate e oggi sono state abrogate.
CAPITOLO XXXIV
LA NAVIGAZIONE MARITTIMA
I.
Nazionalità della nave e poteri dello Stato della bandiera
Principio generale in materia è che ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di
cui ha la nazionalità (Stato della bandiera). Tale principio si esprimeva un tempo dicendosi che la
nave è territorio dello Stato. Questa concezione è stata oggetto di critiche dal pdv teorico.
Importante è l’esatta individuazione del contenuto del principio consuetudinario. È sufficiente dire
che lo Stato della bandiera o Stato nazionale, ha diritto in linea di principio, all’esercizio esclusivo
del potere di governo sulla comunità navale. Esercita detto potere attraverso il comandante, le
proprie navi da guerra.
Il comandante di una nave, anche privata, è da considerare come organo dello Stato e ha pertanto
poteri coercitivi limitatamente agli eventi che si verificano nel corso della navigazione.

Giurisdizione penale per crimini commessi su nave straniera


Sia chiaro che la sottoposizione della nave al potere dello Stato della bandiera riguarda solo
l’attività di imperio esercitata a bordo della nave.
Nulla esclude che uno Stato diverso da quello della bandiera, così come esercita nel suo territorio la
giurisdizione su reati commessi in territorio straniero, così pure possa farlo per reati commessi su
una nave straniera.
Ciò purchè esiste un collegamento tra il reato e lo Stato (es: la vittima è suo cittadino)

Secondo MB art 92: le navi navigano sotto la bandiera di un solo Stato e sono sottoposte alla sua
giurisdizione in alto mare.
La norma va interpretata nel senso di riservare allo Stato della bandiera solo l’attività di imperio
esercitata a bordo della nave. Solo nel caso di collisioni, o altri incidenti della navigazione, MB
prevede (art 97) che Stati diversi da quello di bandiera o Stato nazionale dell’autore dell’incidente,
non possano esercitare nemmeno nel loro territorio la giurisdizione penale sugli autori medesimi.

Art 97: sentenza della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, nel caso Lotus, mercantile
francese che era entrato in collisione con un vapore turco, provocandone l’affondamento e causando
la morte di 8 persone. La Corte sostenne che la Turchia, pur non essendo lo Stato di bandiera aveva
il diritto di giudicare l’ufficiale francese colpevole dell’incidente.
La corte si riferì alla prassi di vari Stati le cui legislazione permettevano, in alcune circostanze,
l’esercizio della giurisdizione penale sugli stranieri per fatti avvenuti all’estero.
La corte ritenne poi che essendo l’evento dannoso provocato dalla collisione, avvenuto sul vapore
turco, esistesse un collegamento con la Turchia di per sé idoneo a giustificare l’esercizio della
giurisdizione penale.
La Francia si difendeva sostenendo di essere esclusivamente competente ad esercitare la
giurisdizione in quanto Stato di bandiera. Lo ha sostenuto anche in sede di codificazione, in seno
alla CDI delle NU nel 1956. La sua tesi ha poi trovato accoglimento nel progetto di codificazione
della CDI sul diritto del mare, ma con solo riguardo all’ipotesi della collisione.

Il problema della giurisdizione penale per fatti avvenuti in alto mare si è di recente posto nel caso
dei due sottufficiali della Marina Militare italiana, accusati di aver provocato la morte di due indiani
che erano a bordo di un peschereccio indiano.
Secondo le indagini indiane i due militari avrebbero sparato ai pescatori dalla nave mercantile
italiana, l’Enrica Lexie, alla quale fornivano assistenza nel quadro della lotta contro la pirateria.
Sembra anche accertato che il fatto sia avvenuto oltre i limiti del mare territoriale.
Non essendo stato possibile risolvere la questione tramite negoziato, l’Italia ha attivato la procedura
arbitrale prevista da MB.
Sono state ad oggi pronunciate due ordinanze sulle misure cautelari in virtù delle quali è stata
garantita la permanenza in Italia dei due militari per tutta la durata dell’arbitrato.
Sulla questione si è anche pronunciata la Corte Suprema Indiana, che ha rivendicato il diritto del
proprio Stato ad esercitare la giurisdizione penale. Questo con una motivazione fondata in sostanza
sull’esistenza di collegamenti del reato con la comunità indiana.
Peccato che la nave anziché prendere il largo, si sia fatta convincere dalle autorità indiane a
raggiungere un luogo dove i due ufficiali sono stati arrestati. L’eventuale arresto o qualsiasi atto
coercitivo delle autorità indiane in alto mare avrebbe costituito una flagrante violazione della regola
che riserva allo Stato di bandiera l’esercizio dell’attività di imperio.

I-bis
Eccezioni al potere esclusivo dello Stato nazionale
il principio della sottoposizione della nave al potere di imperio esclusivo dello Stato di bandiera
subisce delle eccezioni a seconda di dove si trovi la nave.

Acque internazionali: un’eccezione concerne la pirateria. La nave pirata, cioè la nave che commette
atti di violenza contro altre navi ai fini di preda o altri fini non politici, può essere catturata da
qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive.
Il potere esercitato sulla nave pirata è oggetto di una facoltà dello Stato.

Diritto di visita
Alto mare: 110 MB: ammette un limitato diritto di visita delle navi in alto mare da parte di navi da
guerra. Salvo i casi previsti dai trattati, una nave da guerra che incontri una nave mercantile non può
fermarla tranne se abbia seri motivi per sospettare
- Che pratichi pirateria
- Che pratichi tratta degli schiavi
- Che dalla nave partano trasmissioni rivolte al grande pubblico non autorizzate
- Che la nave non abbia la nazionalità di alcuno Stato
- Che la nave pur battendo bandiera straniera o non issando la bandiera, abbia la stessa
nazionalità della nave da guerra.

Situazione della nave straniera nella ZEE


Nella ZEE: quando la nave entra nella ZEE di un altro Stato, solo quest’ultimo in detta zona può
esercitare sulle navi tutti i poteri connessi alla regolamentazione dello sfruttamento delle risorse:
può catturare navi e relativo carico, comminare sanzioni penali ecc.
Tutto ciò nell’osservanza del principio funzionale in base a cui non sono giustificabili misure
coercitive sproporzionate alle infrazioni commesse.

Situazione della nave straniera in mare territoriale


Mare territoriale: sappiamo già i limiti entro cui lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di
governo nei confronti delle navi straniere, limiti costituiti dal diritto di passaggio inoffensivo e dalla
sottrazione alla giurisdizione penale dello Stato costiero dei c.d. fatti puramente interni alla
comunità navale.

II.
Diritto di inseguimento
Costituisce un’eccezione al principio della sottoposizione della nave all’esclusivo potere dello Stato
di bandiera anche la regola relativa al c.d. diritto di inseguimento.
Le navi da guerra o adibite a servizi pubblici, possono inseguire una nave straniera che abbia
violato le leggi di tale Stato purchè l’inseguimento abbia avuto inizio nelle acque interne o mare
territoriale o zona continua.
Presenza costruttiva
Al diritto di inseguimento viene riportata anche la teoria della presenza costruttiva, secondo cui la
nave straniera, che pur mantenendosi in acque internazionali, partecipi a traffici illeciti che altri navi
o imbarcazioni svolgano in spazi marini sottoposti al potere di governo dello Stato costiero, può
essere catturata da quest’ultimo.
Questa è applicata in materia di repressione del contrabbando ad es.

III.
Bandiere ombra
MB art 91: stabilisce che ogni Stato fissa le condizioni per l’immatricolazione delle navi nei propri
registri navali, ma aggiunge che deve esserci un legame sostanziale tra lo Stato e la nave.
Art. 94: lo Stato esercita effettivamente la sua potestà di governo e il suo controllo amministrativo,
tecnico e sociale sulla nave. Tale norma corrisponde al diritto internazionale generale.

Questa norma è stata poi specificata dalla Convenzione delle NU sulle condizioni di
immatricolazione delle navi del 86: richiede che alla proprietà della nave partecipi un numero di
cittadini dello Stato di immatricolazione sufficiente per assicurare a questo Stato il controllo
effettivo sulla nave, o che l’equipaggio, sia formato per una quota sufficiente da cittadini o residenti
abituali nello Stato di immatricolazione.
Se lo Stato di immatricolazione non rispetta le norme sul genuine link, gli altri Stati dovrebbero
essere autorizzati a disconoscere il carattere internazionale della nave ed esercitare su di essa il loro
potere di governo. Trattasi però di una cosa che non ha fondamento nella prassi.

Da questo problema (interventi in mare internazionale) va distinto il problema dell’esercizio del


potere di governo dello Stato territoriale sulle navi straniere battenti bandiere ombra che si trovino
nei suoi porti. Questo problema va risolto alla luce dei principi sul trattamento degli stranieri e sulla
giurisdizione civile e penale sulle navi straniere.
È da escludere che il potere di governo possa esercitarsi per il solo fatto che si tratti di bandiera
ombra.
Bandiera ombra: si indica l'insegna di una nazione che viene issata da una nave di proprietà di
cittadini o società di un'altra nazione.
CAPITOLO XXXV
LA PROTEZIONE DELL’AMBIENTE MARINO E DEL PATRIMONIO CULTURALE
SOTTOMARINO
I.
La lotta all’inquinamento marino non può non fondarsi anche su una stretta collaborazione a livello
internazionale. MB dedica all’inquinamento più di 40 articoli, tra cui spiccano proprio quelli che
impegnano gli Stati a collaborare tra loro e con le organizzazioni internazionali.

A parte gli obblighi di cooperazione il primo problema che si pone a proposito della tutela
dell’ambiente marino è se ed in quali termini, il diritto internazionale imponga obblighi di non
inquinare le acque dei mari e degli oceani.
Per quanto riguarda il diritto consuetudinario la soluzione è negativa, circa l’obbligo di non
produrre danni da inquinamento al territorio di altri stati (cap.25)
Art. 192 MB: gli stati hanno il dovere di proteggere e preservare l’ambiente marino. Questo
sancisce un principio tendente allo sviluppo progressivo del diritto internazionale.

II.
Poteri dello Stato della bandiera e dello Stato costiero in tema di inquinamento
Il secondo problema che si pone è l’unico rilevante e consiste nello stabilire quale Stato possa
esercitare il proprio potere di governo sulle navi onde impedire fenomeni di inquinamento.
Ad imporre divieti e comminare sanzioni saranno lo Stato di bandiera e, nelle zone sottoposte a
giurisdizione nazionale, lo Stato costiero.
Nella ZEE tale potere sarà circoscritto in linea di principio alle attività inquinanti suscettibili di
danneggiare le risorse naturali.

Ai principi di diritto consuetudinario corrispondono grosso modo le norme degli accordi


internazionali sulla tutela dell’ambiente marino, quando stabiliscono quali delle Parti contraenti
abbiano il diritto di controllare che i divieti anti-inquinamento, siano osservati

III.
Eccezionali misure anti-inquinamento su navi altrui nel mare internazionale
Un ultimo argomento è la possibilità per uno Stato di intervenire eccezionalmente su una nave altrui
nel mare internazionale per prendere le misure strettamente idonee ad impedire o attenuare danni al
proprio litorale, derivanti da un incidente già avvenuto.

CAPITOLO XXXVI
GLI SPAZI AEREI E COSMICI
I.
Navigazione aerea
Le norme sulla navigazione aerea si sono andate modellando su quelle relative alla navigazione
marittima. Due principi generali si sono affermati:
1. Convenzione di Chicago 1944: la sovranità dello Stato si estende allo spazio atmosferico
sovrastante il territorio e il mare territoriale.
2. Lo spazio che non sovrasta il territorio e il mare territoriale dello Stato, deve restare libero
all’utilizzazione di tutti gli Stati.

Quando si parla di sovranità estesa allo spazio atmosferico sovrastante il territorio si intende
soprattutto far riferimento alla possibilità per lo Stato territoriale di regolare il sorvolo, di indicare le
rotte che devono seguire gli aerei, o anche di impedire il sorvolo del proprio territorio da parte di
aerei aventi nazionalità straniera.

Zona di identificazione aerea


La contrapposizione tra territorialità dello spazio atmosferico sovrastante il territorio e libertà dello
spazio atmosferico sovrastante l’alto mare, non è rigida.
Infatti oggi è diffusa la prassi delle c.d. zone di identificazione, zone che si estendono anche per
centinaia di miglia nello spazio sovrastante l’alto mare intorno alle coste.
Gli Stati costieri impongono agli aerei stranieri che entrano in queste zone e che sono diretti verso
le coste, l’obbligo di sottoporsi alla identificazione, localizzazione e altre misure di controllo
esercitate da terra.

II.
Libertà di navigazione negli spazi cosmici
Alla navigazione cosmica è innanzitutto applicabile per analogia, il principio sulla libertà di sorvolo
degli spazi nullius.
Lo Stato che lancia il satellite o la nave spaziale ha diritto al governo esclusivo degli spazi cosmici e
nessun altro Stato vi può interferire

Il regime degli spazi cosmici è anche stato oggetto di alcune convenzioni multilaterali promosse
dall’ONU.

III.
Risorse dello spazio
Anche per gli spazi atmosferici e cosmici si può parlare di risorse naturali: ci si riferisce
all’utilizzabilità degli spazi a fini di radio e telecomunicazione, alle frequenze d’onda e alle orbite
utilizzate dai satelliti a questi fini.
La libertà di utilizzazione a fini di radio e telecomunicazioni costituisce un aspetto della più
generale libertà relativa a simili spazi e valevole anche per la navigazione.
Questa libertà trova un limite nel rispetto delle pari libertà altrui.

Vige inoltre il principio che l’utilizzazione dell’orbita geostazionaria e dello spettro delle onde radio
debba aver luogo in modo da tener conto degli interessi di tutti.

CAPITOLO XXXVII
LE REGIONI POLARI
I.
Come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato vanno anche considerate le regioni polari.
Possiamo per quanto riguarda il territorio antartico parlare di territorio internazionalizzato, ossia che
in esso vige un principio di libertà e anche un complesso di norme che ne disciplinano l’utilizzo.

Teoria dei settori


in base ad essa gli Stati i cui territori si estendono al di là del circolo polare dovrebbero considerarsi
come sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi. Nella sua applicazione però questa teoria
ha subito delle modifiche.

Le pretese alla sovranità sui territori polari sono state sempre respinte dalla maggioranza degli Stati.
E vanno considerate come infondate in quanto non sorrette dall’effettività dell’occupazione.

La mancanza di sovranità territoriale comporta che ciascuno Stato eserciti il proprio potere sulle
comunità che ad esso fanno capo.
Nel caso di spedizioni scientifiche o basi su terraferma, si ritiene che lo Stato che le organizza
eserciti il proprio potere, in analogia con quanto avviene per le comunità navali, su tutte le persone,
cittadini o stranieri che le compongono.
II.
L’Antartide è stato internazionalizzato con il Trattato di Washington del 1959 di cui sono contraenti
una quarantina di paesi.

Le caratteristiche dell’internazionalizzazione sono:


- Interdizione di ogni attività di carattere militare
- Libertà della ricerca scientifica
- Cooperazione nell’attività di ricerca scientifica.

Il Trattato antartico distingue due categorie di Stati contraenti: le Parti consultive, aventi uno status
di privilegio rispetto alle altre e le Parti non consultive.
Le prime (Paesi originari firmatari del trattato) hanno diritto di decidere su tutte le questioni
rientranti nell’oggetto del trattato. Hanno anche il diritto esclusivo di condurre ispezioni su navi,
basi, personale ecc.
Il regime internazionale dell’Antartide (essendo regolato da un Trattato) vincola solo gli Stati
contraenti.
PARTE TERZA
CAPITOLO XXXVIII
L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO STATALE AL DIRITTO INTERNAZIONALE
III.
Una distinzione generale di carattere tecnico va operata e tenuta presente in ordine a tutti i problemi
di adattamento. Essa attiene al mezzo attraverso il quale il diritto internazionale viene
nazionalizzato, introdotto nell’ordinamento statale.
Si tratta della distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali di adattamento.

Procedimento ordinario di adattamento


Nel procedimento ordinario, l’adattamento avviene mediante norme che formalmente in nulla si
distinguono dalle norme statali se non per il motivo per cui vengono emanate e che è appunto quello
di creare delle regole corrispondenti a determinate norme internazionali.

Procedimento speciale di adattamento


Nel procedimento speciale o mediante rinvio, la norma internazionale non viene riformulata
all’interno dello Stato: di fronte ad una norma o gruppo di norme, gli organi preposti alle funzioni
normative, si limitano ad ordinare l’osservanza della o delle norme internazionali.
Viene operato semplicemente un rinvio alle norme internazionali, dando ad esse piano vigore
all’interno dello Stato.
Art10 Cost: l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute.

Vantaggi del procedimento speciale


Dal pdv del diritto internazionale e della sua esatta applicazione nello Stato, il procedimento
speciale è di gran lunga preferibile. Nel caso del procedimento ordinario, infatti, l’interprete si trova
di fronte ad una norma uguale alle norme statali tranne che per il motivo che l’ha ispirata. Esso non
può che applicare la norma interna e tener conto della norma internazionale che ha fornito
l’occasione per l’emanazione della norma interna solo se vi siano dubbi circa l’esatta
interpretazione della medesima.
Ad es: se chi ha emanato la norma non ha esattamente interpretato la norma internazionale da
introdurre nell’ordinamento statale.

La situazione è diversa nel caso del procedimento speciale. Qui la norma intera opera un mero
rinvio alla norma o norme internazionali. Non vengono formulate norme complete ma ci si limita ad
ordinare l’osservanza di certe norme internazionali.
Il centro di applicazione delle norme internazionali si sposta dal legislatore all’interprete.
L’interprete potrà sbagliare nella sua ricostruzione, ma l’errore avrà valore solo per il singolo caso
concreto. L’esatta applicazione del diritto internazionale sarà in ogni caso, meglio assicurata.
È anche vero che il procedimento ordinario può rivelarsi preferibile o indispensabile in alcuni casi.
Ad es. è indispensabile allorquando la norma internazionale non è direttamente applicabile (non è
self-executing). Con questa espressione ci si riferisce alle norme che richiedono necessariamente,
per essere applicate, un’attività normativa integratrice da parte degli organi statali.

Il procedimento speciale e quello ordinario possono coesistere, integrandosi a vicenda. Ad es.


quando si dà l’ordine di esecuzione di un trattato e successivamente si provvede agli atti di
integrazione delle norme non self-executing o non interamente self-executing contenute nel
medesimo trattato.
Può darsi che il legislatore nazionale regoli la materia oggetto di un trattato con norme che ne
estendono la portata.
Ove non sussistano le circostanze ora indicate il procedimento speciale è da preferire. È del resto
ampiamente praticato non solo in Italia, ma anche negli altri Stati.

IV.
Idoneità delle norme internazionali a produrre diritti e obblighi interni in seguito all’adattamento
Una volta introdotte nell’ordinamento interno, le norme internazionali sono fonti di diritti e obblighi
per gli organi statali e per tutti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello Stato, al
pari di una qualsiasi norma di origine nazionale.
Ma lo stesso va sostenuto con riguardo alle norme introdotte all’interno dello Stato mediante
procedimento speciale o di rinvio.
Le norme internazionali così nazionalizzate non sono di per sé applicabili solo quando lasciano
ampi margini di libertà allo Stato circa la loro esecuzione (non self-executing)

Uso distorto della nozione di norme non self-executing


Occorre reagire contro le tendenze che tendono ad utilizzare la distinzione tra non self e self
executing a scopi “politici”, ossia per non applicare norme indesiderate perché contrarie a
sopravvenuti interessi nazionali, magari perché progressiste ecc.
Quanto diciamo vale anzitutto per quella parte della giurisprudenza di vari Paesi che esclude la
diretta applicabilità di una convenzione a causa del suo contenuto vago o indeterminato.

Comunque sembra non esista un principio dal quale l’interprete non possa comunque ricavare delle
interpretazioni concrete, dal pdv del valore interpretativo o in alcuni casi addirittura della forza
abrogativa del principio medesimo.
È vero che il ricorso al carattere indeterminato è frequente da parte delle Corti interne. Ma si tratta
comunque di una pratica da condannare.

La Corte comunitario si è occupata anche del Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di
sostanze inquinanti. In particolare il Protocollo prevede che gli Stati cercheranno di ridurre le
emissioni di gas provocate dal trasporto aereo, non sarebbe però a suo avviso, dotata di un carattere
incondizionato e preciso tale da ingenerare per il singolo il diritto di farla valere in giudizio.

È da respingere l’opinione secondo cui un trattato non è self-executing se prevede che, in caso di
sospensione o mancata applicazione, o di difficoltà nell’applicazione, delle sue norme, debba farsi
ricorso a procedure di conciliazione o altri mezzi di soluzione delle controversie internazionali.
Da ciò dovrebbe dedursi la flessibilità delle sue disposizioni.
Identica flessibilità è stata sostenuta in ordine a trattati che espressamente subordino la propria
applicazione alla reciprocità.
Tutto ciò che può dirsi in casi del genere è che lo Stato contraente ha la facoltà di adottare delle
misure non conformi al trattato: può adottarle di fronte a certe difficoltà di ordine economico, o nel
caso della reciprocità, quando l’altra parte abbia violato il trattato.

Valore delle clausole di esecuzione


Neppure può ritenersi che costituisca un impedimento alla diretta applicabilità di un trattato il fatto
che questo contenga una clausola di esecuzione, ossia preveda che gli Stati contraenti adotteranno
tutte le misure di ordine legislativo o altro per dare effetto alle sue disposizioni.
Esse poi si giustificano se e quando il trattato medesimo contenga delle norme effettivamente non
self-executing ed impegnano lo Stato a prendere, in ordina a norme siffatte, i provvedimenti
legislativi e amministrativi appropriati.

Dobbiamo poi constatare che con il passare degli anni è sempre più raro trovare nella
giurisprudenza dei vari Paesi prese di posizione favorevoli alla non diretta applicabilità.
Una voce discordante è contenuta in una sentenza del TAR Emilia Romagna del 2007, che riprende
la tesi secondo cui i trattati, anche se debitamente immessi nell’ordinamento interno, non
produrrebbero diritti e obblighi per gli individui.

V.
Sfera di applicazione della norma internazionale introdotta nell’ordinamento interno
Le norme internazionali sono utilizzabili all’interno dello Stato entro i limiti in cui si verifica la
concreta fattispecie astratta da esse previste.
Nel caso di procedimento di adattamento mediante rinvio, la determinazione della fattispecie
astratta ad opera dell’interprete e la applicazione della norma ai rapporti interni possono rivelarsi
complicate a causa della formulazione della norma, che è e resta una formulazione
internazionalistica.
Si dice che l’adattamento mediante rinvio comporta una trasformazione del contenuto della norma
internazionale per renderla applicabile a rapporti interni. In realtà non si tratta tanto di
trasformazione ma quanto di esatta determinazione dei limiti entro cui la norma vuole essere
applicata, e quindi di interpretazione della medesima.
Es:
consideriamo la norma consuetudinaria che vieta allo Stato di esercitare poteri di vigilanza doganale
al di là dei mari adiacenti alle proprie coste. Tale norma può essere invocata innanzi ai nostri
giudici, da equipaggi di navi straniere che siano state catturate dalle nostre autorità di polizia
doganale a notevole distanza dalla costa.
Non può essere invocata dagli equipaggi di navi italiane, e ciò perché la norma sulla vigilanza
doganale va interpretata in combinazione con la regola per cui lo Stato non incontra limiti
all’esercizio del potere di governo sulle proprie navi in acque internazionali.
Es:
facciamo il caso di un accordo commerciale con cui lo Stato italiano si impegni al c.d. trattamento
nazionale delle merci importate da altri Stati, si impegni cioè a parificare il trattamento fiscale di
tali merci a quello accordato alle merci italiane della stessa natura. Non vi è dubbio che un simile
accordo sarà invocabile dinnanzi i nostri giudici da parte di ditte importatrici italiane contro la
nostra amministrazione fiscale.

Accordi internazionali introdotti nell’ordinamento interno e Stati terzi


Può darsi che un accordo internazionale contenga disposizioni vantaggiose per uno Stato estraneo
all’accordo o per i suoi cittadini.
Disposizioni del genere possono essere invocate in Italia o dello Stato interessato e dai suoi
cittadini, nonostante l’impegno sia stato assunto nei confronti di altri Paesi. Non si tratta di
attribuire all’accordo internazionale un’efficacia nei confronti di Stati terzi.
Si tratta di applicare la norma internazionale, una volta divenuta norma interna ed in quanto
invocabile innanzi agli organi italiani e tra soggetti che operano nell’ambito dell’ordinamento
italiano, alle fattispecie a cui essa vuole essere applicata.

Rango delle norme internazionali introdotte nell’ordinamento interno


La distinzione tra procedimenti ordinari e speciale di adattamento attiene al mezzo attraverso cui
l’ordinamento interno si adatta al diritto internazionale, attiene insomma al come il diritto
internazionale è introdotto.
Occorre poi stabilire quale rango assumono le norme internazionali una volta introdotte e come di
conseguenza si coordinano con le altre norme statali.
Tale rango tende a corrispondere alla forza che nella gerarchia delle fonti, ha il procedimento,
ordinario o speciale, di adattamento.

CAPITOLO XXXIX
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO INTERNAZIONALE CONSUETUDINARIO
I.
Natura speciale del procedimento di adattamento al diritto consuetudinario
L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello costituzionale.
Art.10 Cost prevede un procedimento di adattamento speciale, limitandosi ad affermare la propria
volontà che l’adattamento sia automatico, cioè completo e continuo: le norme internazionali
generali valgono all’interno dello Stato se e finché vigono nell’ambito della comunità
internazionale.
È dunque l’interprete che deve risolvere tutti i problemi relativi all’esistenza e al contenuto delle
norme generali internazionali.
Ad esso spetta in primo luogo stabilire quali siano le norme internazionali generali.

II.
Rapporti del diritto consuetudinario con la legislazione ordinaria
Si può ritenere che essendo l’adattamento alle norme internazionali previsto dalla Costituzione, tali
norme si situino comunque ad un livello superiore alla legge ordinaria.
Una legge ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinaria sarà pertanto
costituzionalmente illegittima, in quanto violerà indirettamente l’art. 10

Rapporti con le norme consuetudinarie


Posto che le norme internazionali generali si situano ad un livello superiore alla legge, hanno pieno
rango costituzionale o sono sottoposte alla Costituzione?
Art.10: prescrive l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano e quindi del diritto italiano nella
sua totalità, al diritto internazionale generale. Esso intende escludere in linea di massima, che il
diritto consuetudinario sia subordinato al diritto costituzionale, con la conseguenza che il primo
prevarrà sul secondo a titolo di diritto speciale.

Lo stesso art.10 contiene una clausola implicita di salvaguardia dei principi fondamentali. Ci
sembra che l’art 10 non possa, né voglia un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello
Stato spinta fino al limite di rottura dei principi.

L’impossibilità per le norme consuetudinarie di violare i principi fondamentali della Costituzione,


impossibilità qualificata come teoria dei controlimiti, era già stata riconosciuta dalla Corte
Costituzionale nel 2001, in un obiter dictum.
Va chiarito che la teoria dei controlimiti è applicabile in quanto i ricorrenti rivendicanti il
risarcimento dei danni subiti non trovino soddisfazione come non l’avevano trovata nel caso dei
crimini tedeschi deciso dalla Corte Costituzionale, presso i giudici dello Stato che ha commesso
violazioni gravi di diritti umani.

II-bis
Una norma di adattamento al diritto internazionale consuetudinario può essere considerata quella
prevista dall’art.11 Cost: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
La formulazione di questa prima parte risente dell’orrore della IIWW e quindi prende in
considerazione espressamente l’aggressione. Ovviamente essa fa salva la guerra di difesa.
Seconda parte art.11: l’Italia consente le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo.
Questa norma è utilizzata dalla Corte per assicurare un primato al diritto dell’UE sul diritto italiano,
ma non anche alle altre organizzazioni internazionali e neppure al diritto dell’ONU.
CAPITOLO XL
L’ADATTAMENTO AI TRATTATI E ALLE FONTI DERIVATE DAI TRATTATI
I.
Ordine di esecuzione del trattato
L’adattamento alle norme pattizie internazionali avviene normalmente in Italia con un atto ad hoc
relativo ad ogni singolo trattato.
Tale atto è l’ordine di esecuzione, il quale è un procedimento di rinvio o speciale. Si limita quindi
ad esprimere la volontà che il trattato sia eseguito ed applicato all’interno dello Stato, senza
riformularne le norme ma rimettendo all’interprete interno la ricostruzione e l’interpretazione delle
norme medesime. L’ordine di esecuzione è formulato:” piena ed intera esecuzione è data al trattato
x” ed è accompagnato dalla riproduzione del testo.

L’ordine di esecuzione è di solito dato con legge ordinaria. Normalmente la stessa legge che
autorizza la ratifica del trattato da parte del Capo dello Stato, contiene la formula della “piena ed
intera esecuzione”. In questo modo l’ordine di esecuzione può precedere l’entrata in vigore
dell’accordo, che a seconda della natura dell’accordo, si verifica al momento dello scambio delle
ratifiche o al deposito di un certo numero di ratifiche. Ciò non ha importanza, essendo l’ordine di
esecuzione un procedimento che subordina l’applicazione della norma internazionale alla effettiva
esistenza di questa in quanto norma internazionale, esistenza che dovrà essere accertata
dall’interprete.

Fonti ufficiali di informazione sui trattati


Il problema della necessità di appropriate fonti ufficiali di informazione all’interno dello Stato, in
Italia è regolato da una legge che prevede la pubblicazione nella GU di tutte le convenzioni,
compresi gli accordi in f.s. e prevede anche che annualmente sia allegato alla GU un volume
riguardante la situazione delle convenzioni internazionali vigenti per l’Italia.

II.
Valore del trattato in mancanza dell’ordine di esecuzione
Il problema può sorgere nel caso dei trattati stipulati in forma semplificata e in tutti i casi in cui un
accordo vincoli sul piano internazionale l’Italia, ma non si sia provveduto ad eseguirlo all’interno.
La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non
abbia valore per l’ordinamento interno. A questo accordo, valido comunque sul piano
internazionale, può essere assegnata una funzione ausiliaria sul piano interpretativo. A fini
interpretativi può anche essere utilizzato un trattato internazionale la cui ratifica sia stata autorizzata
dal Parlamento, ma che non sia entrato in vigore o non sia entrato in vigore per l’Italia.
III.
Trattati e legislazione ordinaria
Fino all’entrata in vigore di una legge del 2003 che ha modificato il tit.V parte II Costituzione, si
doveva ritenere che per quanto riguarda i rapporti tra norme convenzionali e norme di altre leggi
ordinarie, essi fossero in tutto e per tutto rapporti tra norme di pari rango, regolati quindi dal
principio per cui la legge posteriore abroga l’anteriore e la speciale prevale sulla generale.
Detta legge, ha innovato la materia, stabilendo che la legislazione statale deve esercitarsi nel
rispetto dei vincoli internazionali, sancendo così una prevalenza degli obblighi internazionali sulla
legislazione ordinaria.

Incostituzionalità delle leggi contrarie ad obblighi internazionali


Data la prevalenza degli obblighi internazionali sancita dall’art.117 Cost, si deve ritenere che sia
viziata da illegittimità costituzionale la legge ordinaria che non rispetti tali vincoli derivanti da un
trattato.
Prevalenza del trattato sul piano interpretativo
Resta da risolvere il problema che riguarda la precisa distinzione tra i casi in cui la Corte
costituzionale ha competenza esclusiva ad intervenire, per annullare la legge in contrasto con le
norme di un trattato internazionale, e i casi in cui la prevalenza della norma internazionale può
essere assicurata dal giudice comune nell’esercizio della sua normale attività interpretativa.
Il tema è affrontato dalla Corte costituzionale nelle sentenze 348 e 349 del 2007
In entrambe tale attività è fatta salva in linea di principio. La Corte riconosce al giudice comune la
competenza ad interpretare le norme interne in modo conforme alle disposizioni internazionali.
Ma se ciò non è consentito dal testo delle norme, allora il giudizio di costituzionalità deve essere
instaurato.

L’intervento della Corte dovrebbe quindi essere eccezionale. Anzitutto, se la legge di esecuzione
della convenzione è posteriore, non si vede perché l’interprete non debba applicarla in luogo di una
legge interna, in virtù del principio che la norma posteriore abroga l’anteriore.
Criticabile è la sentenza 39 del 2008 che sostiene la necessità di ricorrere alla Corte anche nel caso
di una legge di esecuzione posteriore.

La giurisprudenza sia italiana che straniera ha poi fatto spesso ricorso alla presunzione di
conformità delle norme interne al diritto internazionale, in base alla quale si ritiene che, se la legge
posteriore è ambigua o se comunque lascia adito a più interpretazioni, tra cui una conforme alla
norma internazionale, essa va interpretata in modo da consentire allo Stato il rispetto degli obblighi
internazionali assunti in precedenza.
La prevalenza del trattato è stata anche assicurata considerando il trattato come diritto speciale
ratione materiae o prersonarum. Questo criterio non sempre è applicabile, ben potendo una legge
interna regolare una materia più specifica rispetto al trattato internazionale.

Importante è anche la prassi seguita dalle Corti italiane, americane e svizzere secondo cui il trattato
prevale se manca una chiara indicazione della volontà del legislatore di contravvenire al trattato,
ossia se il legislatore contravviene con piena conoscenza di causa.
Occorre convincersi del fatto che il trattato finisce con l’essere sorretto nell’ambito
dell’ordinamento interno da una duplice volontà normativa:
- da un lato la volontà che certi rapporti siano disciplinati così come li disciplina la norma
internazionale
- dall’altro la volontà che gli impegni assunti verso altri stati siano rispettati.
Occorre dunque per far prevalere sul piano meramente interpretativo, una legge posteriore ad un
trattato, che entrambe le volontà siano annullate: occorre che la norma posteriore riveli
- non solo e non tanto la volontà di disciplinare in modo diverso gli stessi rapporti
- ma anche la volontà di ripudiare gli impegni internazionali già contratti.
Ne consegue che una abrogazione o modifica delle norme di adattamento al trattato per semplice
incompatibilità con una legge posteriore non è ammissibile. Non è ammissibile che l’interprete
ricavi l’abrogazione o la modifica da una legge successiva che adotti una disciplina diversa.

Si ritiene che la volontà del legislatore di ripudiare un’obbligazione internazionale preesistente


possa ricavarsi in modo implicito solo quando l’oggetto dell’obbligazione e quello della norma
interna, coincidano perfettamente sia per quanto riguarda la materia regolata sia per quanto riguarda
i soggetti ai quali il regolamento si riferisce.

Specialità sui generis dei trattati


Il principio di carattere interpretativo secondo cui il trattato internazionale prevale finchè non si
dimostri la volontà del legislatore di venir meno agli impegni internazionali, è un principio di
specialità sui generis, di una specialità che non va confusa con quella ratione materiae o ratione
personarum: la specialità consiste appunto nel fatto che la norma internazionale è sorretta non solo e
non tanto dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un certo modo quanto alla volontà che gli
obblighi internazionali siano rispettati.

IV.
Trattati e norme costituzionali
Circa i rapporti tra le norme che nell’ordinamento interno si formulano in virtù di leggi di
esecuzione (trattati) e la Costituzione, non vi è alcun motivo per discostarsi dai principi relativi all
gerarchia delle nostre fonti.
Le norme pattizie immesse potranno essere sottoposte a controllo di costituzionalità ed
eventualmente anche annullate.
Le sentenze 348 e 349/2007 la Corte ha affermato che in virtù del novellato art.117 Cost, le norme
pattizie introdotte nell’ordinamento interno sono superiori alla legge. Ciò non significa che a loro
volta siano non siano soggette al controllo di costituzionalità ed espunte dall’ordinamento italiano
se in contrasto con norme costituzionali.
In altri termini le norme pattizie assumono così la forza propria delle norme interposte (tra legge
ordinaria e Costituzione) essendo parametro di costituzionalità delle leggi e avendo rango inferiore
alla Costituzione.

Sentenza 264/2012 la Corte si è rifiutata di considerare incostituzionale una legge italiana in materia
di cumulo di trattamenti pensionistici per il lavoro prestato in Italia e in Svizzera, legge considerata
dalla Corte EDU contraria alle CEDU.
È bene evidenziare come nel caso in esame la Corte costituzionale non si sia spinta al punto di
chiarare la illegittimità della disposizione convenzionale, limitandosi piuttosto ad escluderne
l’idoneità a fungere da parametro di costituzionalità della legge italiana.

Contro-limiti
La rivendicazione della Corte costituzionale del suo controllo di costituzionalità sui trattati non
ostante art. 117 Cost è qualificata come teoria dei controlimiti.
Se da un pdv formale le leggi di esecuzione dei trattati sono sempre subordinate alla Costituzione,
la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti la
materia costituzionale ed in particolare alle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, come
ausilio interpretativo di singoli articoli della Costituzione.

V.
Adattamento agli atti delle organizzazioni internazionali
L’adattamento ad un trattato implica anche l’adattamento alle eventuali fonti da esso previste?
Può darsi anzitutto, che il trattato preveda espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli
organi all’interno degli Stati membri.
In tal caso, l’immissione automatica delle norme prodotte dagli organi non può neppure essere
messa in dubbio.
Quando poi il trattato istitutivo dell’organizzazione nulla dispone in merito, il problema va risolto
interamente alla luce dell’ordinamento interno.
In realtà ciò che può ricavarsi dal trattato è la volontà, e l’aspettativa, che le decisioni vincolanti
degli organi siano rispettate ed eseguite. Come poi il singolo Stato provveda ad attuare l’esecuzione
è problema che attiene all’ordinamento interno.

Ciò premesso occorre riconoscere che la prassi italiana, è orientata nel senso dell’adozione di
singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione di organo internazionale vincolante l’Italia. Questi
atti sono talvolta leggi, decreti legislativi o regolamenti amministrativi.
Una simile prassi non appare decisiva per concludere che, prima dell’emanazione degli specifici atti
di adattamento, le decisioni degli organi internazionali non abbiano valore per l’ordinamento
italiano. Sembra invece, che l’ordine di esecuzione del trattato istitutivo di una organizzazione, in
quanto copre anche la parte del trattato che prevede la competenza di quella organizzazione ad
emanare decisioni vincolanti, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica.
D’altro canto, non mancano esempi di norme internazionali che hanno sicuramente vigore da noi in
virtù di procedimenti speciali di adattamento e che pur tuttavia formano oggetto di successivi
procedimenti ordinari. Ad es: norme consuetudinarie in tema di mare territoriale.

La tesi qui sostenuta non è criticabile dal pdv costituzionale. Non sono infatti accettabili certe
posizioni rigide di una parte della dottrina, secondo cui una legge ordinaria non potrebbe
legittimamente ordinare pro futuro l‘osservanza in Italia degli atti emessi dall’organizzazione.
Questa dottrina non tiene conto che in tal modo finisce per condannare tutte le norme di legge
ordinaria che rinviano ad ordinamenti stranieri o estranei (es: diritto internazionale privato).
Attribuire alla Costituzione la volontà di una simile chiusura verso l’esterno è un controsenso.
Possiamo di fatti ricorrere all’art.11 secondo cui l’Italia consente alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e giustizia tra le Nazioni.

Ovviamente le norme prodotte dalle organizzazioni internazionali non si sottraggono al controllo di


costituzionalità come avviene invece per le norme dei trattati.
CAPITOLO XLI
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
I.
Diretta applicabilità dei regolamenti comunitari
Ai trattati che si sono succeduti all’epoca delle Comunità e poi dell’UE fino al Trattato di Lisbona,
l’ordinamento italiano si è conformato con un normale ordine di esecuzione dato con legge
ordinaria.
L’adattamento degli ordinamenti degli Stati membri al diritto comunitario, oggi diritto dell’Unione,
ha finito con il seguire strade alquanto diverse da quelle dell’adattamento ai comuni trattati. Si è
arrivati ad assicurare al diritto comunitario, una prevalenza sulle norme nazionali, comprese le
costituzionali, che sono tipici di vincoli di carattere federalistico.

Nel nostro Paese si è fatto leva a tal fine sull’art.11 Cost, che stabilisce che l’Italia consente in
condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo.

II.
Come ha luogo l’adattamento ai trattati dell’Unione ed ai vari atti della legislazione comunitaria?
A tutti i Trattati succedutisi nel tempo si è dato sempre esecuzione con legge ordinaria. Per effetto
dell’ordine di esecuzione automaticamente acquistano la stessa forza le norme dei regolamenti.
Art. 288 TFUE espressamente prevede che i regolamenti siano direttamente applicabili in ciascuno
degli Stati membri, e dato che l’ordine di esecuzione copre l’art.288.

L’automatica applicabilità dei regolamenti ex 288 sebbene si traduca nell’introduzione, in Italia, di


una fonte di tipo legislativo non prevista dalla Costituzione, non comporta alcuna violazione di
quest’ultima. Basti notare in proposito che fenomeni di rinvio permanente da parte di nostre leggi, a
norme di altri ordinamenti devono intendersi come implicitamente ammessi dalla nostra
Costituzione.
In ogni caso, non si può mettere in discussione la tesi sostenuta dalla Corte costituzionale che
nell’agganciare tutto il diritto comunitario all’art 11 Cost, ritiene che così si legittimi la parziale
sostituzione degli organi dell’Unione al Parlamento nazionale, senza che si renda necessaria una
revisione o integrazione della Costituzione.

Regolamenti incompleti
La diretta ed automatica applicabilità dei regolamenti riguarda la forza formale dei regolamenti
medesimi. Significa che tutti i regolamenti acquistano tale forza, e possono creare diritti ed obblighi
all’interno del nostro Stato, indipendentemente da provvedimenti di adattamento ad hoc.
Ciò non significa che tutti i regolamenti siano self-executing, anche per quanto riguarda il loro
contenuto.
Al contrario, vi sono regolamenti che nascono incompleti ed abbisognano comunque per poter
produrre i loro effetti, di atti statali di esecuzione.

III.
Adattamento alle direttive e alle decisioni comunitarie
Sempre con riguardo al come l’ordinamento italiano si conforma al diritto dell’Unione, resta da
stabilire quali principi regolano l’esecuzione degli altri due tipi di atti comunitari vincolanti,
direttive e decisioni.
Per molto tempo l’opinione più diffusa è stata che la diretta applicabilità dei soli regolamenti. Le
direttive e decisioni non siano automaticamente applicabili in virtù della legge di esecuzione dei
Trattati, ma necessitino in ogni caso di atti di adattamento ad hoc.
Nella prassi, simili atti assumono veste di legge, decreto legislativo, decreto legge o atto
amministrativo. La tecnica che essi seguono è quella propria del procedimento ordinario di
adattamento. La norma della direttiva o della decisione quindi, non è oggetto di mero rinvio, ma
viene integralmente riformulata.

Limitata applicabilità diretta delle direttive e decisioni


È da escludere che le direttive e le decisioni siano del tutto inapplicabili prima e indipendentemente
da provvedimenti interni che le eseguono. Tale tesi dimenticava che l’art. 288 TFUE sanciva
l’obbligatorietà e con ciò poteva solo volere l’osservanza delle direttive e delle decisioni.
Si tratta allora di stabilire quali effetti costituiscono un corollario dell’obbligo di risultato e si
producono quindi immediatamente e quali, invece sono condizionati alla determinazione delle
forme e dei mezzi da parte degli organi nazionali, e si producono solo in seguito alla emanazione
degli atti interni di esecuzione.

Regolamenti, direttive e decisioni, sono tutti sullo stesso piano per quanto concerne la loro diretta
applicabilità. L’emanazione di atti interni di esecuzione è necessaria solo quando il regolamento, la
direttiva o la decisione sono incompleti. La direttiva, essendo incompleta per definizione, può
produrre immediatamente solo gli effetti conciliabili con l’obbligo di risultato.

Categorie di effetti diretti delle direttive


L’applicabilità diretta delle direttive è ammessa anche dalla Corte di Giustizia UE entro certi limiti,
i quali risultano via via sempre più ampi. Secondo la Corte gli effetti delle direttive sono i seguenti:

a) Quando i giudici interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie
oggetto di una direttiva, tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello
scopo della direttiva stessa.

Effetti verticali e orizzontali delle direttive


b) Quando la direttiva chiarisce la portata di un obbligo già previsto dai Trattati, la sua
interpretazione può considerarsi come vincolante.

c) Quando la direttiva impone allo Stato un obbligo, sia pure di risultato, ma non implicante
l’emanazione di atti di esecuzione ad hoc e comunque incondizionate e sufficientemente
preciso dal pdv sostanziale, gli individui possono invocarla innanzi ai giudici nazionali per
far valere gli effetti che essa si propone.
Secondo la Corte imponendo la direttiva, obblighi allo Stato, essa può essere invocata solo contro lo
Stato o altri organismi incaricati di pubbliche funzioni (effetti verticali) e non nelle controversie
degli individui tra loro (effetti orizzontali).
d) Nel caso di direttive che fissano un termine per la loro esecuzione nel diritto interno, lo
Stato, che non ha vincoli fino alla scadenza del termine, ha però l’obbligo di non adottare
disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto.

e) La diretta applicabilità caratterizza anche le direttive che impongono allo Stato obblighi
procedurali. La Corte ha così stabilito che il mancato rispetto dell’obbligo di informare la
Commissione UE sull’adozione di determinate norme nazionali, previsto da una direttiva,
per dar modo alla stessa Commissione di pronunciarsi e eventualmente chiederne la
modifica, comporta la disapplicazione delle norme nazionali in questione.

La Corte di giustizia finisce con il prendere una serie di posizioni che rendono incerto il confine tra
diretta applicabilità e no. Ci sia auspica che la Corte pervenga a conclusioni di maggiore certezza,
cosa che può accadere se essa decida puramente di abbandonare la limitazione dell’applicabilità agli
effetti verticali.
Tale limitazione è frutto di un’interpretazione letterale del 288 TFUE e confonde lo Stato come
soggetto di diritto internazionale, che è il destinatario della direttiva, e lo Stato come soggetto del
proprio orientamento interno.
Quindi, o si esclude che la direttiva penetri nell’ordinamento statale e allora non sarà invocabile in
nessun caso, o la penetrazione viene ammessa e allora diviene invocabile da tutti e contro tutti.

Ipotesi di diretta applicabilità si possono ricavare dalla giurisprudenza interna, tenendo presente le
caratteristiche della direttiva. Si può ad es. ritenere che qualora la direttiva tocchi una materia
lasciata dal diritto interno alla discrezionalità della PA, la sua inosservanza da parte di quest’ultima
possa essere invocata come causa di eccesso di potere.

Risarcimento del danno provocato ai singoli dalla non attuazione delle direttive
f) Dobbiamo accennare ad un effetto che la Corte di giustizia riconosce alle direttive non
direttamente applicabili che restino inattuate e quindi comportino una violazione de diritto
comunitario. Tale effetto consiste nel diritto dei singoli colpiti dalla violazione di chiedere il
risarcimento del danno subito, purchè si tratti di violazione di norme che attribuiscano loro
dei diritti e vi sia un nesso di causalità tra l’inattuazione e il danno.

Efficacia diretta delle decisioni


L’efficacia diretta è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia anche per le decisioni indirizzate agli
Stati.

IV.
Adattamento agli accordi conclusi dall’UE
Efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi anche agli accordi conclusi
dall’Unione con Stati terzi, nei limiti in cui tali accordi contengano norme complete, ossia norme
che non siano destinate ad essere completate da atti degli organi dell’Unione.
Anche in questo caso vale il principio secondo cui l’adattamento ad un trattato implica l’automatico
adattamento agli atti che il trattato medesimo considera come vincolanti.

V.
Rango delle norme comunitarie nel diritto interno: Rapporti con le leggi ordinarie
In merito la nostra Corte costituzionale ha cambiato più volte opinione. Oggi la Corte non solo
ritiene che il diritto comunitario direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, ma sostiene
anche che qualsiasi giudice o organo amministrativo debba disapplicare le leggi dello Stato nel caso
di conflitto con una norma comunitaria direttamente applicabile.
Tutto ciò discenderebbe dall’art 11Cost. il quale riconoscerebbe che il diritto interno e il diritto
comunitario devono coordinarsi secondo il principio della prevalenza del secondo sul primo.
In precedenza, la tesi affermata dalla Corte era che le leggi contrarie a norme comunitarie
direttamente applicabili concretassero una violazione dell’art.11 e fossero pertanto
costituzionalmente illegittime.

Da un pdv teorico ci si trova di fronte ad una costruzione estremamente fragile, come dimostra il
fatto che la nostra Corte ha letto nell’art 11, cose diverse in tempi diversi.
In realtà né i lavori preparatori, né la lettera dell’art.11 avallano la tesi della Corte: tutto ciò che si
può ricavare da questa norma è che le decisioni vincolanti delle organizzazioni internazionali
possono aver efficacia da noi anche senza atti di esecuzione ad hoc. Il volerne dedurre un criterio di
coordinamento tra norme internazionali e norme interne nel senso di una prevalenza formale e
assoluta delle prime sulle seconde, è cosa assai dubbia e poco convincente.
Dal pdv pratico, il discorso è diverso. La presa di posizione della Corte costituzionale va valutata
infatti con soddisfazione. La soddisfazione nasce dal fatto che abbiamo sempre sostenuto che la
prevalenza dovesse essere opera dell’interprete.
Questo in base al principio di specialità dei trattati, di tutti i trattati introdotti nell’ordinamento
italiano.

Nel quadro dei rapporti tra leggi interne e diritto dell’UE va inserito anche l’art 117 Cost. novellato
nel 2001. Esso impone al legislatore anche il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario.

VI.
Rapporti con le norme costituzionali
Il problema in particolare consiste nello stabilire se le norme dei Trattati e la legislazione
dell’Unione possano essere sottoposte a controllo di costituzionalità, come gli altri trattati
internazionali.
In uno scritto del Conforti del 1966 si affermava che la partecipazione dello Stato alle Comunità
europee non potesse di per sé comportare la rinuncia a priori ad ogni difesa dei principi
costituzionali che presiedono alla vita della comunità nazionale. Si diceva anche che il diritto
comunitario non dovesse pertanto sfuggire al controllo della nostra Corte costituzionale così come
non vi sfugge il comune diritto dei trattati.

Tutela dei diritti fondamentali nel diritto comunitario


Dal 1966 in poi, con una serie di sentenze, la Corte di Giustizia dell’Unione cominciò ad affermare
che la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, non fosse estranea al diritto comunitario, che
essa fosse rilevabile per sintesi tenendo presente le tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, nonché le Convenzioni sui diritti umani vincolanti tali Stati.

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea


La prassi della Corte ha trovato riconoscimento nell’art 6 del Trattato di Maastricht, e attualmente la
Corte dispone anche della Carta dei diritti fondamentali UE proclamata a Nizza nel 2000 e resa
vincolante con il TUE.

Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana ha finito per assestarsi su posizioni
europeistiche. Ha stabilito:
- Che l’ordine comunitario, legittimamente instaurato dal pdv della Costituzione italiana dato
il consenso alle limitazioni di sovranità ex art 11, e l’ordine interno, costituiscono due
sistemi distinti anche se coordinati
- Che le norme comunitarie debbono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione
in tutti gli Stati membri
- Che l’ordinamento comunitario risulta caratterizzato da un proprio complesso di garanzie
statutarie e da un proprio sistema di tutela giuridica
- Che, appartenendo i regolamenti all’ordinamento comunitario, si sottraggono a controllo di
legittimità costituzionale, limitato dall’art 134 alle leggi e atti aventi forza di legge dello
Stato e delle Regioni.

Un’evoluzione simile ha subito la giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca, la quale dopo
aver più volte dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei diritti
fondamentali ha cambiato opinione, promettendo di non controllare più la legislazione comunitaria
finchè la Corte di giustizia UE assicurerà in linea generale una protezione effettiva dei diritti
fondamentali.

CAPITOLO XLII
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO INTERNAZIONALE E LE COMPETENZE DELLE
REGIONI
I.
Quando il diritto internazionale o dell’UE interferiscono in materie che in Italia sono oggetto di
legislazione regionale, si pone il problema del coordinamento tra norme internazionali e norme
statali di adattamento, da un lato, e norme regionali dall’altro.
All’inizio le competenze regionali furono compresse in misura assai larga. Nella dottrina e nella
prassi, si riteneva che la competenza ad immettere il diritto internazionale e comunitario nel nostro
ordinamento, a dargli in altre parole forza formale, dovesse essere da noi solo il Potere centrale.
Tale opinione era sostenuta anche dalla Corte costituzionale, secondo cui era incontrovertibile il
principio che affida allo Stato l’esecuzione all’interno degli obblighi assunti in rapporti
internazionali con altri Stati.
Oggi la situazione però è diversa.

II.
Il rispetto degli obblighi internazionali come limite alle competenze regionali
Un principio applicato e valido è quello del rispetto, da parte delle Regioni, degli obblighi
internazionali. Questo è espressamente sancito in alcuni Statuti regionali ed è stato considerato
come implicito, anche negli statuti che non ne fanno menzione.
È espresso dall’art.117 Cost, che obbliga il legislatore regionale al rispetto dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

La prevalenza del diritto internazionale e comunitario è normalmente assicurata dall’operatore


giuridico interno sul piano interpretativo, salvo l’eccezionale intervento della Corte costituzionale.
Tale intervento deve aver comunque luogo nel caso di giudizio di costituzionalità instaurato in via
principale attraverso una legge regionale.

III.
Competenza delle Regioni ad eseguire le norme internazionali nelle materie di loro spettanza
All’inizio, negli anni ’70, la Corte costituzionale aveva addirittura ritenuto che, rientrando i rapporti
internazionali e comunitari nella materia degli affari esteri, solo lo Stato potesse procedere alla loro
attuazione in Italia, l’unica possibilità lasciata alle Regioni restando quella di agire per delega degli
organi statali.
Via via poi, fino alla modifica del 117 Cost, si è avuta sempre una maggiore apertura verso le
competenze delle Regioni da parte della Corte costituzionale.
La Corte ha finito con il riconoscere alle Regioni la competenza autonoma ed originaria a
partecipare all’attuazione del diritto internazionale nonché comunitario direttamente applicabile,
riservando anche l’attuazione diretta delle direttive alle Regioni a statuto speciale.

Legislazione e giurisprudenza recenti


La materia è regolata dal 117 Cost, secondo il quale le Regioni e le Province autonome di Trento e
Bolzano, nelle materie di loro competenza provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi
internazionali e degli atti dell’UE, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello
Stato.
Il 120 Cost non limita il potere sostitutivo al caso di inadempienza, ma lo estende al caso di pericolo
grave per l’incolumità e sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità
giuridica o economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali di prestazioni concernenti diritti
civili e sociali.
Nella formulazione è evidente l’influenza della prassi detta sopra ed è evidente che tutte le
incertezze che derivano da tale prassi, permangono.
PARTE QUARTA
CAPITOLO XLIII
IL FATTO ILLECITO E I SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI:
L’ELEMENTO SOGGETTIVO
I.
Lavori di codificazione sulla responsabilità internazionale degli Stati
Può darsi che il diritto interno non riesca ad evitare che lo Stato incorra in un fatto illecito
internazionale, una violazione del diritto internazionale. Si pone quindi il problema della
responsabilità internazionale degli Stati, che consiste nel chiedersi quando si ha un illecito
internazionale, quali sono i suoi elementi costitutivi, quali conseguenze scaturiscono da esso, di
quali mezzi si dispone per reagire contro di esso.
Si tratta della fase patologica dei rapporti tra Stati.

Già all’epoca della Società delle Nazioni vari tentativi di codificazione furono fatti sia ad opera di
istituzioni scientifiche sia in seno alla società stessa.
Dal 1953 la CDI ha poi intrapreso lo studio dell’argomento, ma un progetto definitivo di
codificazione ha visto la luce solo nel 2001. Solo nel 1996 la Commissione approvò un progetto
provvisorio di articoli.
Il progetto del 2001 si occupa in 59 articoli, sia degli elementi dell’illecito sia delle sue
conseguenze.

Una caratteristica fondamentale del Progetto della CDI è quella di considerare i principi sulla
responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi norma internazionale.
Tutti i precedenti tentativi di codificazione si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel
quadro delle norme sul trattamento degli stranieri.
Solo in tema di responsabilità dello Stato per danni arrecati agli stranieri nel suo territorio, esisteva
infatti una prassi abbondante ed omogenea, basata sul principio di responsabilità aquiliana, secondo
cui chi cagiona ad altri un danno è tenuto a risarcire.
Al contrario, quando si cerca di ricostruire un regime di responsabilità che abbracci tutte le possibili
violazioni del diritto internazionale, si va incontro a serie difficoltà.

I-bis.
Responsabilità delle organizzazioni internazionali
Sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali, la CDI ha approvato definitivamente nel
2011 un Progetto di articoli redatto per larga parte dal Relatore Gaia, progetto che per l’appunto si
conforma per la maggior parte alle regole codificate in tema di responsabilità degli Stati.
Gli articoli 58-63 del Progetto di occupano del tema dei rapporti tra responsabilità
dell’organizzazione e responsabilità dei suoi membri.
Sono regole ispirate in linea generale al principio dell’autonomia della responsabilità delle
organizzazioni.

Art. 17: prevede la responsabilità dell’organizzazione qualora questa, per sfuggire ad un suo
obbligo internazionale, induca, con decisione vincolane, uno o più membri a compiere un atto
illecito, e ciò anche se il comportamento così imposto non sia illecito per il membro
Art. 40: secondo cui i membri qualora lo statuto dell’organizzazione lo preveda, devono prendere
tutte le misure necessarie per dotare l’organizzazione dei mezzi per far fronte alle conseguenze
dell’illecito da essa commesso
Art. 62: il membro è responsabile per un atto illecito dell’organizzazione, presumibilmente a titolo
sussidiario, quando abbia accettato tale responsabilità o abbia indotto la vittima dell’illecito a farvi
affidamento.

La responsabilità internazionale dell’organizzazione non va confusa con la responsabilità di diritto


interno, qualora l’organizzazione sia ammessa a compiere atti giuridici (contratti) in uno Stato
membro o non membro.
Il problema che si pone consiste nel chiedersi se e quando i membri dell’organizzazione rispondano
solidarmente delle obbligazioni contratte dall’organizzazione.
Il problema è risolto alla luce delle norme, internazionali o interne, che regolano la capacità di
diritto interno dell’organizzazione.
La materia può essere regolata da norme dell’accordo istitutivo dell’organizzazione. Se poi lo
statuto non dice nulla, sarà il diritto interno nel cui ambito la questione si pone a dover essere
applicato.

II.
Elemento soggettivo dell’illecito: comportamento di uno o più organi statali
Data la coincidenza tra lo Stato come soggetto di diritto internazionale e lo Stato-organizzazione, è
ovvio che il fatto illecito consiste anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali,
comprendendo tutti coloro che partecipano dell’esercizio del potere di governo.
Sono solo gli organi statali, con i quali si identifica lo Stato, i possibili autori delle violazioni
internazionali.
Anche il Progetto:
Art.2: indica come elementi del fatto illecito un comportamento (azione o omissione) attribuibile
allo Stato e consistente in una violazione di un obbligo internazionale dello Stato.

Nozione di organo statale


Art.4: il primo elemento (soggettivo) consiste nel comportamento di un qualsiasi organo dello Stato,
legislativo, esecutivo, giudiziario, del governo centrale o di un ente territoriale, e che comunque sia
tale in base al diritto interno.
Artt.5ss prevedono varie ipotesi di comportamenti tenuti da persone che non sono organi ma
agiscono in fatto come tali, oppure agiscano sotto il controllo o dietro istruzioni dello Stato.

Nel commento al Progetto si sottolinea la difficoltà che può incontrarsi nello stabilire se persone
che non sono organi dello Stato sono sottoposti ad un controllo da parte di quest’ultimo tale da
comportarne la responsabilità per le loro azioni.
Particolari difficoltà si incontrano nella materia di cui art.8, secondo il quale sono attribuibili allo
Stato comportamenti di persone o gruppi di persone che agiscono di fatto in base ad istruzioni
oppure sotto la direzione o controllo dello Stato.
Il caso più importante è quello di gruppi armati irregolari che agiscono con il sostegno di uno Stato
contro un altro Stato.

Vi sono due sentenze importanti della CIG nel 1986 e 2007. In entrambe la Corte ha dato
un’interpretazione restrittiva della nozione di controllo.
Prima: ha ritenuto che non esistessero gli estremi per considerare come responsabili gli Stati Uniti
per le operazioni dei contras contro il governo del Nicaragua.
Seconda: anzitutto ha specificato che non sono imputabili ad uno Stato singole azioni armate che
non è dimostrato si siano svolte sotto il suo controllo effettivo o in base a sue istruzioni. Per questo
motivo ha escluso la responsabilità della Serbia per il genocidio perpetrato a Sebrenica nel 95.
Un’estesa casistica nella materia dell’attribuzione allo Stato di illeciti da parte di persone che in
qualche modo partecipano dell’esercizio del potere di governo anche senza essere organi dello Stato
è contenuto anche nel vecchio Progetto.
La Commissione attribuì all’Iran l’illecita detenzione dei diplomatici statunitensi nell’ambasciata
americana a Teheran da parte degli studenti islamici, nel 1979, a partire dal momento in cui il
Governo iraniano approvò ufficialmente l’azione degli studenti.
Illeciti derivanti da atti legislativi
Sebbene in linea astratta sia vero che qualsiasi organo possa impegnare la responsabilità dello Stato,
tale possibilità in concreto si trova limitata a causa del contenuto che di solito le norme
internazionali hanno.
Il diritto internazionale non prende in considerazione l’astratta possibilità degli Stati di indirizzare
comandi agli individui se essa non si accompagna alla concreta possibilità che tali comandi siano
attuati.
Se così è, la violazione di norme internazionali attraverso la semplice emanazione di leggi o altre
norme a portata astratta è scarsamente ipotizzabile. Se si ha riguardo alla prassi in tema di
responsabilità, ci si rende conto che infatti il contenzioso internazionale, ha per oggetto questioni
concrete.
Può darsi che una legge contenga un provvedimento concreto e concretamente attuabile, di
conseguenza la sua emanazione potrebbe costituire fatto illecito internazionale.

Illeciti commessi dall’organo fuori dai limiti della sua competenza


Si discute se la responsabilità dell’organo dello Stato sorga quando l’organo abbia commesso
un’azione internazionalmente illecita avvalendosi di tale sua qualità, e quindi agendo nell’esercizio
delle sue funzioni, ma al di fuori dei limiti della sua competenza.
La questione attiene ai soli illeciti commissivi e riguarda azioni illecite condotte da organi di polizia
in violazione del proprio diritto interno e contravvenendo agli ordini ricevuti.
Secondo una parte della dottrina, art.7 Progetto, afferma che azioni del genere sarebbero comunque
attribuibili allo Stato. Secondo altri invece, l’azione in quanto tale resterebbe propria dell’individuo
o individui che l’hanno compiuta, e l’illecito dello Stato consisterebbe nel non aver preso misure
idonee a prevenirla.
Si ritiene che la soluzione accolta dall’art.7 sia la più aderente alla prassi.

Un tema non affrontato dal progetto è quella della successione fra Stati nella responsabilità: se lo
Stato commette un illecito e poi sul suo territorio si forma o installa, un altro Stato, chi risponde
degli illeciti del predecessore?

III.
C.d. responsabilità dello Stato per atti privati
Se l’illecito internazionale è opera degli organi statali, è esclusa la possibilità che allo Stato sia
addossata una responsabilità per atti di privati che arrechino danni a individui, organi o Stati
stranieri.
A configurare una responsabilità dello Stato in questi termini preveniva la vecchia teoria germanica
della solidarietà di gruppo, in base alla quale il gruppo doveva ritenersi come responsabile per le
azioni dannose dei suoi membri.

La teoria fu abbandonata da Grozio, in favore della dottrina della patientia o del receptus, limitante
la responsabilità dello Stato ai soli casi di tolleranza delle azioni compiute da privati nel proprio
territorio.
Oggi si ritiene che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure atte a prevenire
l’azione o a punirne l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi organi.
Il discorso è diverso per i casi in cui lo Stato sembra rispondere anche quando non ha commesso
alcun illecito.

C.d. complicità tra Stati e privati


Il comportamento di cui è responsabile lo Stato, quindi, consiste in un’omissione. Si va facendo
strada l’opinione secondo cui di fronte alla violazione di norme internazionali da parte di privati, lo
Stato risponderebbe direttamente, per una sorta di complicità col violatore, e quindi per un illecito
commissivo e non omissivo.
Lo Stato dovrebbe rispondere quando tollerasse ripetutamente la violazione, o incoraggiasse o
addirittura cooperasse col violatore. Gli esempi che si fanno, riguardano anzitutto il terrorismo.
La non attribuzione allo Stato del comportamento d’individui in quanto tali era espressamente
prevista nel vecchio progetto.

Caso Tellini
Riguardo al ricorso al principio della solidarietà di gruppo, si cita l’atteggiamento dell’Italia nel
caso dell’assassinio del generale Tellini, avvenuto nel 1923 in Grecia. Tellini era membro di una
commissione incaricata di delimitare la frontiera tra Grecia e Albania, e l’Italia fascista, sostenendo
l’automatica responsabilità dello Stato greco, reagì contro l’assassinio con una rappresaglia armata
contro Corfù.
Dopo qualche tempo, il Consiglio della Società delle Nazioni, approvò la tesi che la responsabilità
dello Stato per crimini politici sul suo territorio sorga solo quando lo Stato ha mancato di prendere
tutte le misure appropriate in vista della ricerca, arresto e giudizio del criminale.

Caso degli studenti islamici


Come esempio di azione dannosa di privati nei confronti di stranieri può ricordarsi il caso
dell’illecita detenzione dei diplomatici stranieri dell’ambasciata americana a Teheran nel 1979 ad
opera di studenti islamici.
In un primo momento, prima che il Governo iraniano facesse propria l’azione degli studenti,
l’illecito commesso da tale governo, consistè nel non aver adottato misure atte a prevenire l’azione
dannosa.
CAPITOLO XLIV
L’ELEMENTO OGGETTIVO
I.
Antigiuridicità del comportamento dell’organo statale
Il Progetto si occupa agli artt. 12 ss dell’illiceità del comportamento dell’organo statale. Si tratta
dell’elemento oggettivo, la violazione della norma internazionale, contrapposto all’elemento
soggettivo. Art.12: elemento oggettivo: si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno
Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo.
Gli articoli successivi contengono alcune regole dirette a stabilire quando e a quali condizioni una
violazione del diritto internazionale possa considerarsi come consumata.
Tempus regit actum
Art.13: prevede che l’obbligazione debba esistere al momento in cui il comportamento dello Stato
ha luogo
Tempus commissi delicti
Artt.14 e 15 stabiliscono quando deve ritenersi che si verifichi l’illecito (tempus commissi delicti)
negli illeciti istantanei, in quelli aventi carattere continuo e negli illeciti composti.
La determinazione del tempus commissi delicti è importante a vari fini, ma soprattutto in elazione
all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di regolamento giudiziario, trattati che di solito
dichiarano di non volersi applicare alle controversie relative a fatti avvenuti prima della loro entrata
in vigore o prima di una certa data (data critica).

Regola del previo esaurimento dei ricorsi interni


Il Progetto non si occupa del previo esaurimento dei ricorsi interni. Esso lo considera nella parte
relativa alle conseguenze del fatto illecito, come condizione per l’azione dello Stato diretta a far
valere l’illecito sul piano internazionale.
La questione influisce proprio sul tempus commissi delicti.

II.
Cause escludenti l’illiceità
1. Consenso Stato leso
Una prima causa è costituita dal consenso dello Stato leso. Art.20: il consenso validamente dato da
uno Stato alla commissione di un altro Stato di un fatto determinato, esclude l’illiceità di tale fatto
nei confronti del primo Stato sempre che il fatto rientri nei limiti del consenso.
Questa norma trova ampio riscontro nella prassi internazionalistica ed ha quindi natura
consuetudinaria.
Il consenso dello Stato leso viene configurato da parte della dottrina come vero e propri accordo tra
lo Stato autorizzante e Stato autorizzato a sospendere un obbligo preesistente.
Vero è che, anche se apparentemente si presenta come accordo, la causa di esclusione dell’illiceità è
sempre sostanzialmente un atto unilaterale.
L’art.20 va letto in combinazione con il 26, che fa salvo il rispetto delle norme di jus cogens. Il
consenso dello Stato leso, anche come atto unilaterale, non può violare una norma imperativa,
essendo l’inderogabilità dello jus cogens assoluta.

2. Autotutela
Una delle più importanti cause di esclusione dell’illiceità è costituita dall’autotutela ossia dalle
azioni che sono dirette a reprimere l’illecito altrui e che, per tale loro funzione, non possono essere
considerate come antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme internazionali.
Di questo si occupano gli artt. 21 (legittima difesa) e 22 (contromisure, rappresaglie).
3. Forza maggiore
Art.23: consiste nel verificarsi di una forza irresistibile o un evento imprevisto, al di là del controllo
dello Stato, che rende materialmente impossibile adempiere l’obbligo.
4. Stato di necessità
È controverso se per il diritto internazionale, lo stato di necessità, ossia l’aver commesso il fatto per
evitare un pericolo grave, possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità.
Nessuno dubita che la necessità possa essere invocata quando il pericolo riguardi la vita
dell’individuo-organo che abbia commesso l’illecito o degli individui a lui affidati. (distress), come
nell’esempio classico della nave che si rifugia in porto straniero per sfuggire alla tempesta.

Stato di necessità ed interessi vitali dello Stato


La dottrina è unanime nel ripudiare la tesi giusnaturalista, in voga fino al secolo scorso, che legava
la necessità ad un preteso diritto di conservazione dello Stato, e che finiva con il giustificare non
solo ogni sorta di abuso, ma soprattutto fenomeni come la conquista e l’ingrandimento territoriale a
danno di altri Stati.
In definitiva, la disputa riguarda il punto se, a parte il distress, a parte il ripudio della tesi del diritto
di conservazione, escluso in generale che la necessità sia invocabile per violare norme di jus
cogens, una sia pur limitata sfera di operatività dello stato di necessità sia da ammettere.

Art.25: lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un
atto non conforme ad un obbligo internazionale se non quando l’atto:
- Costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed
imminente
- Non leda gravemente un interesse essenziale dello Stato o Stati nei confronti dei uali
l’obbligo sussiste
In ogni caso la necessità non può essere invocata:
- Se l’obbligo internazionale esclude la possibilità di invocare la necessità
- Se lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione di necessità.

Inesistenza di un principio generale relativo allo stato di necessità


Sembra che dubbi possano essere avanzati sulla configurabilità della necessità come mezzo di
protezione di interessi vitali o essenziali dello Stato. La prassi internazionale è estremamente incerta
la riguardo. Spesso poi sullo stesso caso, come quello della crisi finanziaria argentina, le decisioni
arbitrali si schierano su fronti opposti.

In realtà una volta bandito dal diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le sue
manifestazioni, inclusi i c.d. interventi umanitari o a protezione dei propri cittadini all’estero, gli
spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a poco.
Né bisogna confondere il ricorso alla necessità con l’applicazione di singole e specifiche norme, che
all’idea di necessità di ricollegano: in particolare le norme di diritto internazionale marino, che
autorizzano un eccezionale esercizio funzionale della potestà di governo, come es. la norma sugli
interventi su navi altrui in caso di pericolo di catastrofi o danni gravi di natura ecologica.

5. Rispetto di principi costituzionali dello Stato


Non è azzardata la tesi secondo cui l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma
internazionale urti contro principi fondamentali della Costituzione dello Stato. La Corte
costituzionale italiana ha annullato talvolta le norme intere di esecuzione di norme internazionali
pattizie contrarie a principi costituzionali, mettendo quindi gli altri organi dello Stato
nell’impossibilità di osservare le norme medesime.

Occorre riconoscere che questa tesi non trova riscontro nel Progetto, ma urta contro l’art 32,
secondo cui il diritto internazionale non può avere alcuna influenza sulle conseguenze dell’illecito
internazionale. Urta anche con il 27 Conv. Vienna 1969, che esclude che il diritto interno possa
essere invocato a giustificazione dell’inosservanza delle norme pattizie.
XLV
GLI ELEMENTI CONTROVERSI: LA COLPA E IL DANNO
I.
Responsabilità per colpa
Si ha quando si richiede che l’autore dell’illecito abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente
(dolo) o almeno con negligenza, ossia trascurando di adottare le misure necessarie per impedire
l’evento dannoso.
Questi sono i connotati tipici della responsabilità extracontrattuale o aquiliana

Responsabilità oggettiva relativa


Detta anche strict liability: si ha quando la responsabilità sorge per effetto del solo compimento
dell’illecito, ma l’autore di quest’ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità, una causa di
giustificazione consistente in un evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma.
Nella responsabilità oggettiva relativa, non solo la responsabilità è aggravata, ma vi è anche lo
spostamento dell’onere della prova dalla vittima all’autore dell’illecito.

Responsabilità oggettiva assoluta


Oltre a sorgere automaticamente dal comportamento contrario ad una norma giuridica, non ammette
alcuna causa di giustificazione. Per questa responsabilità la dottrina si è chiesta se sia ancora
opportuno parlare di responsabilità e non piuttosto di garanzia.
Certo è comunque che l’idea che si risponde perché si è agito in modo ingiusto, cede il posto
all’idea della necessità sociale della tutela della vittima.

Venendo al diritto internazionale, la responsabilità dello Stato fu configurata come responsabilità


per colpa, ritenendosi indispensabile ai fini del sorgere della responsabilità che il comportamento
dello Stato, rectius dell’organo statale, fosse intenzionale o frutto di negligenza.
All’inizio del secolo scorso l’Anzilotti diede un colpo alla tradizione groziana, sostenendo la natura
obiettiva della responsabilità internazionale.
Dopo di allora la dottrina di è divisa.

Casi di responsabilità internazionale per colpa


Il regime di responsabilità può anzitutto risultare specificamente previsto in relazione alla
violazione di una determinata norma o gruppo di norme. Ad es. la violazione del dovere di
protezione degli stranieri o organi stranieri, dà chiaramente luogo ad una responsabilità per colpa,
consistendo tale violazione proprio nella circostanza che lo Stato, rectius gli organi statali, non
abbiano utilizzato la diligenza dovuta nella protezione.

Sosteneva Anzilotti, che la diligenza costituisce il contenuto stesso della norma violata, proprio
perché la colpa non è in questo caso un elemento che si aggiunga alla violazione, la responsabilità è
sempre oggettiva.
Sembra invece che la colpa, in tutti i casi in cui è richiesta, altro non sia che un elemento della
fattispecie prevista dalla norma materiale. Tale sua natura non verrebbe meno neppure quando essa
sia richiesta da una norma generale ad hoc.
Dunque, quando la colpa è richiesta e non c’è, non è neppure configurabile una violazione della
norma. Quindi, la mancanza di colpa, qualora richiesta, non esclude solo la responsabilità dello
Stato, ma fa venir meno la stessa illiceità della condotta.
Quindi la colpa è un elemento, una condizione dell’illecito

Casi di responsabilità internazionale assoluta


Per fare un altro esempio di regime specifico di responsabilità assoluta, può ricordarsi la
Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati dagli oggetti spaziali.
Art 2: lo Stato di lancio ha la responsabilità assoluta per la riparazione dei danni causati dal suo
oggetto spaziale alla superficie della Terra o agli aeromobili in volo.
Art.3: per i danni causati ad altri oggetti spaziali, il regime di responsabilità è quello per colpa.

La responsabilità art.2 non solo è assoluta, ma sembra anche una forma eccezionale di
responsabilità da atti illeciti, dato che lo Stato è chiamato a rispondere anche per fatti a lui non
imputabili.

Regola residuale: responsabilità oggettiva relativa


A parte i regimi specifici, si ritiene che la regola generale sia favorevole alla responsabilità
oggettiva relativa, e pertanto lo Stato risponda di qualsiasi violazione di diritto internazionale da
parte dei suoi organi, a meno che non dimostri l’impossibilità assoluta, ossia non da lui provocata,
dell’osservanza dell’obbligo.
Di solito gli Stati che protestano contro la violazione di norme internazionali, soprattutto pattizie, e
ricorrono a contromisure per farle cessare, non dimostrano alcuna propensione a condizionare le
loro proteste o contromisure alla prova dell’esistenza di negligenza o intenzionalità.
Quanto infine, al carattere relativo della responsabilità oggettiva, nel senso che l’illiceità non
sussista se l’osservanza della norma risulti impossibile, è suffragato da un’abbondante prassi
internazionale.

Va notato che la forza maggiore e l’impossibilità di esecuzione sono state talvolta eccepite dagli
Stati membri dell’UE dinnanzi alla Corte di Giustizia UE per giustificare l’inosservanza di norme
comunitarie. La Corte ha sempre respinto l’eccezione.
Ha ad es escluso che si potesse considerare forza maggiore il fatto che il Potere esecutivo non fosse
riuscito ad ottenere dal Parlamento l’approvazione di una legge conforme al diritto comunitario, o il
fatto che il Parlamento fosse in vacanza nel periodo estivo o fosse stato sciolto anticipatamente.

II.
Danno
Altra questione controversa è se elemento dell’illecito sia il danno materiale o morale. La CDI ha
preso una posizione negativa al riguardo già in passato, in vista del fatto che ci sono oggi norme d
diritto internazionale la cui inosservanza da parte di uno dei loro destinatari è sentita come un
illecito nei confronti di tutti gli altri anche quando un interesse diretto e concreto di questi ultimi
non sia stato leso.

CAPITOLO XLVI
LE CONSEGUENZE DEL FATTO ILLECITO INTERNAZIONALE
L’AUTOTUTELA INDIVIDUALE E COLLETTIVA
LE ECCEZIONE ALL’USO DELLA FORZA IN AUTOTUTELA
I.
Inquadramento delle conseguenze dell’illecito
L’opinione oggi più diffusa è che le conseguenze dell’illecito consistano in una nuova relazione
giuridica tra Stato offeso e Stato offensore, discendente da una norma apposita, la c,d, norma
secondaria contrapposta alla norma primaria, ossia alla norma violata.
Secondo l’Anzilotti le conseguenze del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello
Stato offeso di pretendere, e nell’obbligo dello Stato offensore di fornire un’adeguata riparazione.
Diritto e obbligo costituirebbero appunto la norma secondaria.
La riparazione comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo ante sia il risarcimento del
danno o della soddisfazione.

Importante è invece, la tendenza a riportare sotto la norma secondaria, e quindi tra le conseguenze
giuridiche autonome dell’illecito anche i mezzi di autotutela e in particolare le rappresaglie.
Dal fatto illecito discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il
diritto, la facoltà, di ricorrere a contromisure coercitive aventi lo scopo di infliggere una vera e
propria punizione allo Stato offensore. Questa tendenza si è sviluppata con l’Ago.

Da questo quadro si discosta una corrente di pensiero che fa capo a Kelsen. Egli muove da una
critica dell’impostazione anzilottiana, rilevando l’inutilità di una costruzione delle conseguenze
dell’illecito in termini di diritti e obblighi: una costruzione del genere condurrebbe oltre tutto ad un
regresso all’infinito, dato che la violazione dell’obbligo di riparare, produrrebbe un altro obbigo di
riparare e così via.
Secondo Kelsen l’illecito avrebbe come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle miksure di
autotutela, mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe in ultima analisi dalla
volontà dello Stato offeso e dello Stato offensore di evitare l’uso della coercizione.

Sembra però che se si bada a quanto normalmente avviene nella prassi, in occasioni di violazioni
del diritto internazionale, la posizione di Kelsen, che pure non è da condividere fino alle sue
conseguenze estreme, contiene molti elementi di verità.
La fase patologica del diritto internazionale, è una fase poco normativa, ed a caratterizzarla sono le
reazioni, imperfette, affidate allo stesso soggetto leso, contro l’illecito.
Nella realtà le reazioni, le misure di autotutela, non hanno come scopo quello di punire. Esse sono
fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato ossia a far cessare l’illecito e a
cancellarne ove possibile, gli effetti.

Quanto all’obbligo della riparazione, è eccessivo riportarne in tutto e per tutto il fondamento, come
fa Kelsen, ad un accordo tra gli Stati interessati.
Per quanto riguarda l’unica altra forma di riparazione che abbia rilevanza pratica, il risarcimento del
danno, non si può negare che sia prevista da un’autonoma norma di diritto internazionale generale e
tutto ciò che si può concedere alla tesi di Kelsen è che effettivamente, nella determinazione concreta
dell’entità del risarcimento, l’accordo delle parti e la discrezionalità del giudice giocano un ruolo
fondamentale.

II.
Autotutela
La normale reazione quindi, contro l’illecito è l’autotutela, ossia il farsi giustizia da sé. Ciò che nel
diritto interno è eccezionale, è la regola nel diritto internazionale
Divieto della minaccia o dell’uso della forza
A partire dalla IIWW si è fatta strada l’opinione espressa anche dalla CIG secondo cui l’autotutela
non possa consistere nella minaccia o nell’uso della forza, minaccia ed uso essendo vietati dall’art.2
Carta NU e dal diritto consuetudinario.

Liceità della legittima difesa come risposta all’aggressione armata


Il principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente, ma trova un grande limite nella
legittima difesa, intesa coma risposta ad un attacco armato già sferrato.
Art. 51 Carta riconosce il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che
abbia luogo un attacco armato contro un membro delle NU.

Nozione di aggressione armata


L’attacco o aggressione si ha non solo quando ad attaccare sono forze regolari, ma anche quando lo
Stato agisce attraverso bande irregolari o di mercenari da esso assoldati. Questo afferma art.3
Dichiarazione Assemblea generale NU. Tale articolo corrisponde al diritto internazionale generale.
La Corte ha affermato che non costituisce invece aggressione armata la sola assistenza data a forze
ribelli che agiscono sul territorio di uno Stato, sottoforma di fornitura di armi, assistenza logistica e
simili.
In due sentenze (1986 e 2003) la Corte ha ribadito che la legittima difesa è circoscritta al caso di
risposta ad un attacco armato e non a forme meno gravi di uso della forza.

Legittima difesa e armi nucleari


La legittima difesa ai sensi art.51 può essere al limite esercitata anche con armi nucleari, purchè
vengano rispettati il principio di proporzionalità della risposta rispetto all’attacco e le norme del
diritto umanitario di guerra.
Stranamente sia il diritto internazionale consuetudinario, sia pattizio, non comportano
un’interdizione completa e universale della minaccia o dell’uso delle armi nucleari in quanto tali.
Al parere della Corte fa riferimento ance una sentenza dell’High Court inglese del 2000, per
sostenere la liceità della detenzione di armi nucleari a fini di deterrenza, da parte di uno Stato.

Uso della forza per scopi umanitari


Ci si chiede se il divieto dell’uso della forza abbia altre eccezioni oltre l’art 51. Vari tentativi sono
stati fatti per dare una risposta affermativa, tentativi che possono ricondursi a due filoni.
Il primo è quello umanitario: vi è chi sostiene infatti che interventi armati siano ammissibili per
proteggere la vita dei propri cittadini all’estero o anche per ridurre alla ragione Stati che compiano
violazioni gravi di diritti umani nei confronti dei loro stessi cittadini.
È questo il caso dell’intervento degli stati NATO contro la Rupubblica iugoslava per i massacri del
Kosovo.
Si parla a riguardo di una responsabilità di proteggere, nel senso che qualora lo Stato venga meno a
tale responsabilità, gli altri Stati possono intervenire.

Legittima difesa non prevista dalla Carta delle NU


L’altro filone è quello dell’estensione della categoria della legittima diesa individuale e collettiva ad
ipotesi non previste dall’art.51: l’estensione è stata praticata per legittimare l’uso della forza in via
preventiva o per giustificare le reazioni contro Stati sul cui territorio gruppi terroristici stabiliscono
le loro basi e preparano attacchi contro altri Stati. Per giustificare ad es. i bombardamenti della
Libia e Iraq ad opera degli Stati Uniti nel 1986 e 1993.

Per quanto riguarda la dottrina della legittima difesa preventiva, essa è contenuta nella c.d. Dottrina
Bush. Secondo tale documento, la legittima difesa preventiva potrebbe essere esercitata dagli SU
ogni qualvolta si renda necessario per prevenire una minaccia o attacco con armi di distruzione di
massa o atti di terrorismo.
La legalità dell’uso della forza nei casi ora citati ha sempre suscitato l’opposizione di molti Stati e
della dottrina.

In effetti la tesi della legittima difesa, anche nel caso di attacchi terroristici su vasta scala, lascia
assai perplessi, perché si tratta comunque di crimini internazionali individuali, che come tali
andrebbero puniti, senza produrre vittime innocenti.
Proprio in due risoluzioni del Consiglio di sicurezza adottate dopo l’attacco e prima dell’intervento
delle forze NATO, è proprio la lotta al crimine internazionale che viene in rilievo. Non c’è invece in
queste alcuna autorizzazione all’uso della forza. È bensì vero che in entrambe si riconosce il diritto
naturale di legittima difesa individuale e collettiva, in conformità alla Carta delle NU, ma nessuno
potrebbe fondare la legittimità della guerra su delle considerazioni contenute in due risoluzioni.

È stato sostenuto che, se la nozione di legittima difesa è limitata alla risposta ad un attacco armato
da parte di uno Stato contro un altro Stato, determinati casi di uso della forza potrebbero rientrare
comunque in una diversa accezione di autotutela.
Questa tesi trae spunto da quanto si sosteneva fino alla IIWW circa la possibilità che l’autotutela
comprendesse una azione, anche coercitiva, in sostituzione dello Stato colpevole del mancato
controllo del suo territorio. Del resto, la tesi è presentata come un’ipotesi la cui fondatezza attende
ulteriori conferme nella prassi e per tanto essa ha un indubbio valore scientifico.
Egualmente come tendenza è presentata la tesi secondo cui lo Stato che tollera nel suo territorio
l’azione di gruppi terroristici sarebbe direttamente responsabile per tale azione. Questa tesi è molto
vicina a quella della c.d. complicità dello Stato nell’illecito commesso da privati.

Non c’è dubbio che il divieto della minaccia o dell’uso della forza abbia come pendant il sopra
accennato sistema di sicurezza collettiva delle NU. Da ciò consegue che, quando la forza è usata su
larga scala, quando si è in presenza di una vera e propria guerra internazionale, e non di un episodio
isolato di uso della forza, c’è da prendere atto che il diritto internazionale, ha esaurito la sua
funzione.

Jus in bello e jus ad bellum


Le considerazioni fatte finora riguardano il diritto di fare la guerra (jus ad bellum). Altro è il c.d. jus
in bello, ossia l’esteso corpo di regole, consuetudinarie e pattizie, che entrano in vigore tra i
belligeranti una volta che la guerra sia scatenata.
Lo jus in bello è costituito da norme che tendono a mitigare le asprezze della lotta tra i belligeranti,
a proteggere le popolazioni civili, a tutelare i Paesi estranei ecc.
Ricordiamo le norme della Convenzione dell’Aja del 1899 e 1907 sulla guerra terrestre. Il diritto
internazionale in tema di guerra mostra vediamo, un volto più umano del diritto interno. È lo stesso
diritto internazionale che si sforza di umanizzare la guerra civile, come testimoniano i due
Protocolli di Ginevra del 77.

Natura internazionale della forza vietata


Bisogna intendersi su cosa significhi esattamente il divieto dell’uso della forza, quale sia quindi la
forza normalmente vietata.
Al riguardo dobbiamo tenere presente la distinzione tra forza internazionale e forza interna. Vietata
è la forza internazionale, ossia le operazioni militari di uno Stato contro un altro. Ciò che invece
non è vietato è l’uso della forza interna, ossia quella che rientra nel normale esercizio della potestà
di governo dello Stato.
Poiché un’azione dello Stato rientrante nella forza interna (azione di polizia) può avere anche
carattere violento, la distinzione tra forza internazionale e interna diviene difficile in alcuni casi.
III.
Contromisure
La specie più importante di autotutela è la rappresaglia, o meglio la contromisura.
Art.49 Progetto: la contromisura consiste in un comportamento dello Stato leso, che in sé sarebbe
illecito, ma che diviene lecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui. Lo Stato leso può
per reagire contro lo Stato offensore, violare a sua volta, gli obblighi che gli derivano da norme
consuetudinarie.
Anche la regola inadimplenti non est adimplendum (all'inadempiente non è dovuto l'adempimento)
per la parte in cui autorizza la sospensione temporanea dell’applicazione di un accordo nei confronti
dello Stato che abbia violato il medesimo accordo, è da considerare come una specificazione dei
principi sulle contromisure. Non è così invece per la parte che ricollega all’inadempimento la
possibilità che si ponga fine all’accordo, in cui la regola medesima va inquadrata tra i principi
relativi alle cause di estinzione dei trattati.

Anche la CIG sembra condividere l’opinione che la sospensione e anche l’estinzione del trattato,
per inadempimento condividano certe condizioni minime, in particolare la connessione tra
inadempimento e reazione al medesimo.
Parte della dottrina ritiene che anche la sospensione non possa configurarsi come contromisura.

Limite della proporzionalità


Le contromisure incontrano vari limiti, previsti dal diritto internazionale. Un limite di carattere
generale è costituito dalla proporzionalità tra violazione subita e violazione commessa per
contromisura. Non si tratta però di perfetta corrispondenza tra le due violazioni.
Si dice che più che la proporzionalità il diritto internazionale richieda che non vi sia una eccessiva
sproporzione tra le due violazioni. Se c’è sproporzione, la contromisura diviene illecita per la parte
eccedente.

Limite del rispetto del diritto cogente


Un altro limite che oggi si assegna alle contromisure è costituito dall’impossibilità di ricorrere a
violazioni del diritto internazionale cogente, anche nel caso in cui si tratti di reagire contro
violazioni dello stesso tipo. Questa regola trova un’eccezione nella possibilità di usare la forza per
respingere un attacco armato.
Limite del rispetto dei principi umanitari
Resta assorbito dal rispetto del diritto cogente il limite del rispetto dei principi umanitari. Il diritto
cogente segna il limite oltre il quale la contromisura diviene illegittima.
A parte quindi il rispetto della dignità umana, il divieto delle gross violations dei diritti umani, non
convince la tesi di chi estende il divieto di contromisure a tutte le norme internazionali sui diritti
umani o a quelle relative alle immunità degli agenti diplomatici.

Contro la possibilità che un’eventuale inosservanza delle norme sulle immunità diplomatiche possa
essere attuata a titolo di contromisura non è invocabile la sentenza della CIG 1980 nel caso del
personale diplomatico e consolare degli SU a Teheran. La Corte respinge l’argomento adombrato
dall’Iran secondo cui la lunga detenzione dei diplomatici statunitensi in ambasciata americana a
Teheran e la conseguente violazione delle norme sulle immunità sarebbero giustificate a causa dei
crimini perpetrati dagli SU contro il popolo iraniano.
La Corte in realtà si limita ad osservare che l’unico rimedio contro un’ingerenza del genere è
l’espulsione dell’agente diplomatico o al limite, la rottura delle relazioni diplomatiche.

Limite del previo esaurimento dei mezzi di soluzione delle controversie


Si ritiene infine ex art. 52 Progetto, che alla contromisura non si può fare ricorso se non vi sia prima
tentato di giungere ad una soluzione concordata dalla controversia. La prassi non è univoca ed
inoltre nulla può impedire ad uno Stato che si trovi a dover fronteggiare una situazione di
emergenza di prendere le necessarie contromisure.

IV.
La legittima difesa come forma di contromisura
Lo scopo afflittivo può anche essere presente nelle reazioni contro l’illecito, ma esso è del tutto
secondario rispetto alla funzione reintegratrice diretta alla cessazione dell’illecito medesimo e alla
cancellazione dei suoi effetti.
Tra le contromisure così intese va annoverata anche l’osservanza del divieto dell’uso della forza nel
caso, (art 51 Carta ONU) e al quale nella dottrina e nella prassi e negli stessi testi ufficiali si dà il
nome di legittima difesa, in cui occorra respingere un attacco armato.
Tutti gli elementi essenziali sono presenti in questa reazione contro il più grave illecito che uno Stat
possa subire. In particolare, come affermato dalla CIG nei casi tra Nicaragua e SU, Iran e SU è
presente il limite della proporzionalità tra attacco subito e contrattacco.

Sproporzionata è stata la reazione nel 2014 di Israele al lancio di missili sul suo territorio da parte di
militanti di Hamas, missili partiti dalla striscia di Gaza. La reazione è consistita in bombardamenti
indiscriminati, con oltre duemila morti. Oltre che sproporzionata questa potrebbe essere anche
definita come un crimine di guerra.

La più gran parte della dottrina tende a distinguere la legittima difesa dalla rappresaglia, ma la
distinzione si fonda su argomenti che sono superati dalle considerazioni svolte sopra. In realtà
proprio il termine legittima difesa è adoperato in modo improprio.
La legittima difesa ha carattere essenzialmente preventivo, e quindi qualificare come tali le azioni
armate aveva senso quando si voleva sottolineare che fosse legittimo prevenire l’aggressione altrui.

Contromisure non violente


Il tema delle contromisure oggi è interamente assorbito nelle misure non violente di autotutela,
ossia dalle misure che lo Stato adotti nell’ambito della propria comunità e che si risolvano nella
violazione di norme internazionali come reazione alle violazioni altrui.

V.
Ritorsione
Come specie del genere autotutela va considerata la ritorsione, che si distingue dalla rappresaglia o
contromisura in quanto non consiste in una violazione di norme internazionali, ma in un
comportamento inamichevole, come l’attenuazione o rottura dei rapporti diplomatici.
Si ritiene che la ritorsione non sia una forma di autotutela dato che lo Stato può sempre tenere un
comportamento inamichevole verso un altro Stato anche senza aver subito un illecito.

Vero è che i comportamenti inamichevoli vengono indifferentemente attuati per reagire ad azione di
rilievo politico oltre che a violazioni di diritto internazionale.
Quindi nella ritorsione è difficile separare le motivazioni politiche da quelle giuridiche.

Un altro argomento per ricondurre la ritorsione alla categoria dell’autotutela è fornito dalla prassi in
materia di sanzioni economiche, sanzioni alle quali si ricorre sempre di più per far cessare
violazioni di norme internazionali e norme che non riguardano rapporti economici.

Ritorsione e misure decise dalle NU


La ritorsione va tenuta distinta dalle misure che il Consiglio di Sicurezza NU può deliberare ex art.
41 Carta in caso di minaccia o violazione della pace o atto di aggressione.
Queste misure comprendono l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e
comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, ecc.
Alcune di queste misure corrispondono con quelle adottabili a titolo di ritorsione, ma si tratta
comunque di un fenomeno diverso in quanto le misure deliberate dal Consiglio si inquadrano nel
sistema di sicurezza collettiva NU, che gli Stati possono essere obbligati ad attuare, anche quando
comportino violazioni di obblighi internazionali preesistenti.

VI.
Autotutela collettiva
Dobbiamo ora chiederci se reazioni di questo tipo possano provenire da Stati che non abbiano
subito alcuna lesione.

Obblighi erga omnes partes


Il problema si pone per certe convenzioni multilaterali che tutelano interessi che fanno capo alla
collettività degli Stati contraenti (obblighi erga omnes partes) o a valori particolarmente sentiti nella
comunità internazionale.

Obblighi erga omnes


Si pone poi per le norme che prevedono obblighi erga omnes, ossia verso la comunità internazionale
nel suo complesso. Trattasi di norme consuetudinarie di jus cogens.
Nell’ambito del diritto dei trattati queste norme prevalgono o rendono nulli i trattati che ad esse
contravvengono.
Di obblighi erga omnes come obblighi interessanti giuridicamente tutti gli Stati, parlò per prima la
CIG in un passo della sentenza sul caso Barcelona Traction, portando come esempi il divieto di
aggressione, l’obbligo di rispettare l’autodeterminazione dei popoli, il divieto di schiavitù,
genocidio, apartheid, di inquinare in modo massiccio l’atmosfera.
La corte ha poi fatto riferimento alla categoria in successive sentenze, nel caso del Timor orientale,
sull’autodeterminazione dei popol, nel caso delle attività amate in Congo, sulla discriminazione
razziale.

Ma qual è la disciplina di tali obblighi?


Nulla esclude che si tratti di obblighi sprovvisti di sanzioni. Nulla esclude quindi, che pur
sussistendo l’illecito internazionale, non ne consegua una responsabilità o una forma attenuata di
responsabilità.

Regimi speciali di autotutela collettiva


È innegabile che la possibilità per Stati terzi di intervenire sia prevista, con specifiche modalità e in
ordine a specifici obblighi internazionali, da singole norme consuetudinarie internazionali.

Legittima difesa collettiva contro attacchi armati


il caso più importante è quello della legittima difesa collettiva in caso di attacchi armati,
riconosciuta dall’art. 51 Carta NU e ammessa dalla CIG nella sentenza 1986 tra SU e Nicaragua.
Come la Corte ha stabilito, le misure, anche militari, che lo Stato terzo po' prendere devono
rispondere ai criteri della necessità e proporzionalità e comunque presuppongono una precisa
richiesta dello Stato aggredito.
Un’altra norma consuetudinaria che si può ricordare è quella che vincola tutti gli Stati a negare
effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto
in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli.
È poi possibile che una convenzione multilaterale preveda essa stessa, in caso di violazione di una
delle sue norme, il diritto di ciascuno Stato contraente di intervenire con sanzioni, anche se non
direttamente leso.
Ciò che invece caratterizza alcune convenzioni multilaterali è la creazione di meccanismi
istituzionali di controllo di natura giurisdizionale o quasi, talvolta blandi, talvolta efficaci.
L’esempio è dato dalla CEDU che prevede all’art 33 che ciascuno Stato contraente possa adire la
Corte EDU contro un altro Stato che ritiene abbia violato la Convenzione.

Una menzione a parte va fatta al sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di
Sicurezza delle NU. Tale sistema costituisce un sistema sanzionatorio che può funzionare anche per
reagire contro violazioni di norme internazionali.

Inesistenza di un regime generale di autotutela collettiva


È chiaro che, quando ci si chiede se stati non direttamente lesi possano reagire in caso di illeciti
internazionali, la questione ha valore residuale. Trattasi di stabilire se esistano principi generali che
consentano ad uno Stato di intervenire a tutela di un interesse fondamentale della comunità
internazionale o di un interesse collettivo.
Abbiamo sempre dato risposta negativa per quanto riguarda la possibilità di adottare vere e proprie
contromisure, ossia la possibilità di sospendere l’esecuzione di obblighi che gravino sullo Stato non
direttamente leso nei confronti dello Stato offensore.
È sintomatico che coloro che si pronunciano a favore di una generalizzata autotutela collettiva si
riferiscono per la maggior parte a casi di violazione del divieto dell’uso della forza. Trattasi di
reazioni collettive che, sono state caratterizzate da interventi militari e da contromisure non
implicanti l’uso della forza, in particolare economiche.

A senso unico è da considerare la pretesa degli SU di agire contro il Cile al fine di ottenere il
risarcimento del danno per l’assassinio del cittadino cileno Letelier, assassinio di cui il Governo
cileno era ritenuto l’autore in violazione delle norme internazionali sui diritti dell’uomo.
Detta pretesa trovò l’opposizione del governo cileno, il quale alla fine accordò una somma agli
eredi di Letelier, in una convenzione con gli SU.
Una norma consuetudinaria forse si è consolidata solo nel senso di vietare agli Stati la fornitura di
armi e assistenza militare allo Stato autore del crimine.

Autotutela collettiva e ritorsione


Il discorso è diverso per quanto riguarda il ricorso a comportamenti solo inamichevoli, ossia a
ritorsioni, trattandosi di comportamenti leciti, quindi sempre adottabili e di mezzi di pressione che
possono rivelarsi efficaci.
Le norme del Progetto della CDI dopo aver delimitato la materia con riferimento alle violazioni
gravi o sistematiche, all’art. 41 si individua come particolari derivanti da simili violazioni, l’obblig
di tutti gli Stati di non cooperare con lo Stato autore dell’illecito e di non riconoscere come valida
una situazione che dall’illecito deriva, ossia di tenere comportamenti qualificabili come ritorsioni.

Art.48: nel caso di obblighi erga omnes, gli Stati non direttamente lesi possono invocare la
responsabilità dello Stato autore dell’illecito, nel senso di pretendere la cessazione dell’illecito e la
sua riparazione nell’interesse dello Stato o beneficiari dell’obbligo violato.

VII.
Disciplina dell’autotutela negli statuti delle organizzazioni internazionali
L’autotutela è istituto del diritto internazionale consuetudinario. Naturalmente lo Stato può
obbligarsi a non ricorrere a misure di autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. Questo tipo di
obblighi sono ricavabili dai trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali.
È da ritenere implicito nel vincolo di solidarietà e collaborazione tra gli Stati membri di qualsiasi
organizzazione l’obbligo di non ricorrere all’autotutela se non come extrema ratio.
Può darsi inoltre che norme limitative dell’autotutela siano espressamente previste.
Es: art. 260 TFUE: demanda esclusivamente alla Corte di giustizia europea il compito di imporre il
pagamento di una somma forfettaria o penalità allo Stato membro il quale abbia compiuto una
violazione del Trattato.
art. 51 Carta: la legittima difesa contro un attacco armato può essere esercitata fintantochè il
Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale.

VIII.
Autotutela e diritto interno
Il tema dell’autotutela ha i suoi riflessi nel diritto statale: l’operatore giuridico interno, prima di
concludere con una determinata legge, atto amministrativo ecc, dovrà chiedersi che questi non si
giustifichino in base allo stesso diritto internazionale in quanto a contromisure.

Condizione di reciprocità nell’osservanza delle norme internazionali


L’ordinamento interno può anche predisporre dei meccanismi di carattere generale che rendano
automaticamente praticabile la violazione di norme internazionali, a titolo di contromisura, da parte
degli organi statali.
Un meccanismo del genere può essere considerata in alcuni casi, la condizione di reciprocità,
secondo la quale un determinato trattamento viene accordato agli Stati, organi, cittadini stranieri, a
condizione che il medesimo trattamento sia accordato allo Stato nazionale, organi, cittadini.
La reciprocità costituisce la base giuridica interna per l’adozione di contromisure.
Art.55 Cost francese: i trattati o accordi regolarmente ratificati o approvati hanno un’autorità
superiore a quella delle leggi, con riserva, per ogni accordo o trattato, della sua applicazione ad
opera dell’altra Parte.
La reciprocità dovrebbe essere sempre accertata dal giudice e non dagli organi del potere esecutivo.
Reciprocità e diritto consuetudinario in evoluzione
La condizione di reciprocità può rivelarsi utile soprattutto in rapporto a norme internazionali
consuetudinarie di cui il contenuto sia incerto o in evoluzione.
Essa costituisce allora la base giuridica interna per l’eventuale difesa nei confronti degli Stati che
anticipano la conclusione del processo evolutivo del diritto consuetudinario adottando norme, le
quali appaiono ardite o eccessive allo stato attuale delle cose.

Un esempio riguarda il tema delle linee di base del mare territoriale, in particolare la chiusura di
baie e golfi. In difformità dal diritto internazionale, molti Stati hanno chiuso golfi e baie di apertura
superiore alle 24 miglia. Di fronte a queste misure uno Stato potrebbe procedere alla chiusura dei
propri golfi e baie facendo salva la reciprocità, ossia escludendo dalla chiusura le navi di quegli
Stati che si attengono alla regola delle 24 miglia.

Reciprocità e ritorsione
La reciprocità spesso costituisce solo il presupposto di concessioni dettate da puri motivi di cortesia:
ad es. se uno Stato accorda l’esenzione fiscale agli agenti diplomatici stranieri per imposte diverse
da quelle dirette personali, a condizione di reciprocità.
Quando la reciprocità costituisce il presupposto di atti di cortesia e quindi può portare a
comportamenti inamichevoli come reazione a comportamenti inamichevoli dello Stato estero, essa
attiene piuttosto alla materia della ritorsione.

CAPITOLO XLVII
LA RIPARAZIONE
I.
Restitutio in integrum
Resta da considerare l’obbligo che incombe sullo Stato autore dell’illecito di riparare il torto
causato. Nella riparazione si fa rientrare l’obbligo della restituzione in forma specifica (restitutio in
integrum) ossia del ristabilimento della situazione di fatto e diritto esistente prima dell’illecito,
sempre che sia possibile.
Come restitutio in integrum vengono considerate la restituzione di persone, cose, navi, documenti,
detenuti illegittimamente, nonché l’esecuzione in forma specifica di obblighi internazionali.
Il dovere di far cessare l’illecito e di cancellarne ove possibile gli effetti appare come un aspetto
dello stesso obbligo violato. Non si considera quindi la restitutio in integrum come oggetto di un
obbligo nuovo prodotto dalla violazione.

Nel senso che i due obblighi siano diversi si pronuncia la sentenza arbitrale nel 1990 tra Francia e
Nuova Zelanda nel caso Rainbow Warrior, nave dell’Organizzazione Greenpeace, danneggiata da
due agenti francesi mentre stazionava nel porto neozelandese di Auckland. Francia e NZ avevano
concluso in precedenza un accordo, in base al quale la Francia avendo riconosciuto il suo
coinvolgimento nell’accaduto, si era impegnata a confinare per 3 anni in Polinesia i due agenti.
Questi erano stati poi fatti rientrare prima per motivi di salute. La sentenza arbitrale doveva
giudicare anche della richiesta della NZ diretta ad ottenere che venisse ordinato alla Francia di
rispettare l’accordo, rinviando i due agenti in Polinesia per il completamento del periodo di confino.
Nella sentenza si ha il coraggio di sostenere per respingere la richiesta che l’obbligo francese di
mantenere al confino i due agenti fosse cessato alla scadenza del triennio dalla data di invio dei due
in Polinesia.
La richiesta NZ poteva configurarsi solo come richiesta di cessazione del fatto illecito e non come
restitutio in integrum.
II.
Soddisfazione
Anche la soddisfazione è considerata una forma di riparazione, precisamente una forma di
riparazione di danni morali, e cioè una forma di riparazione dovuta per il solo fatto che l’illecito sia
stato compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento degli eventuali danni di carattere
patrimoniale.
Si sostiene che, a titolo di riparazione morale, lo Stato offensore sia tenuto a dare soddisfazione allo
Stato leso mediante comportamenti come la presentazione di scuse, omaggio alla bandiera o altri
simboli ecc.
Secondo una tesi, la soddisfazione può anche essere costituita dalla semplice constatazione
dell’avvenuta violazione ad opera di un tribunale internazionale: con ciò non si capisce come si
possa parlare di obbligo di fornire soddisfazione, ove si consideri che nessuno sostiene che l’autore
dell’illecito sia tenuto a sottoporsi al giudizio di un tribunale.

Se si ha riguardo alla prassi contemporanea, si può dire dal pdv giuridico che la presentazione
ufficiale di scuse o di carattere simbolico, se accettati dallo Stato leso, facciano normalmente venire
meno le ulteriori conseguenze del fatto illecito ed in particolare il ricorso ed in particolare il ricorso
a misure di autotutela, soprattutto negli illeciti non gravi.
La soddisfazione va a formare allora il contenuto di una sorta di accordo, espresso o tacito, che
elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato offensore.
Un esempio di presentazione ufficiale di scuse vediamo l’accordo tra Francia e NZ, nel quale si
prevedeva tra l’altro “le scuse formali e senza riserve” da presentarsi dal Primo Ministro francese a
quello neozelandese.
III.
Risarcimento del danno
L’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno prodotto dall’illecito
internazionale. C’è però da chiedersi se l’obbligo di risarcire scaturisca da ogni e qualsiasi
violazione di norme internazionali.

Danni agli stranieri


Senza dubbio, la prassi depone in questo senso. Lo Stato al quale lo straniero maltrattato appartiene
fa valere, in protezione diplomatica per il risarcimento del danno, un diritto suo proprio che nasce
dalla lesione prodotta alla persona o ai beni del suddito.

Danni agli Stati


A parte ciò la prassi non può considerarsi certa. Si può ritenere che il risarcimento sia dovuto
quando la violazione del diritto internazionale consista o si accompagni ad un’azione violenta cntro
beni, mezzi, organi dello Stato, come il danneggiamento di sedi diplomatiche, consolari,
danneggiamento, distruzione di navi, aerei ecc.
Fuori da questi casi è difficile ritenere che il diritto consuetudinario internazionale imponga che il
danno venga risarcito.

Ancor meno ci sembra che un obbligo di risarcimento scaturisca, dalle guerre di aggressione. Né
bisogna confondere la materia del risarcimento globalmente richiesto agli Stati vinti per il solo fatto
dell’aggressione con la riparazione dei danni prodotti dalla guerra, o in occasione della guerra, ai
cittadini degli Stati vincitori, per quanto riguarda confische ed espropriazioni dei loro beni.

Danni allo straniero-organo


Per quanto riguarda i danni prodotti dalle lesioni arrecate agli stranieri che ricoprono la qualifica di
organo, occorre distinguere tra i danni subiti dall’individuo (rientrano nell’esercizio della protezione
diplomatica) e quelli subiti dall’organizzazione statale (c.d. danni alla funzione).
In ogni caso sono risarcibili solo quelli materiali.

Risarcimento del danno agli Stati e risarcimento del danno agli individui
Va infine avvertito che l’obbligo del risarcimento del danno di cui si è discusso è quello che
riguarda i rapporti tra Stati.
Diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo Stato contraente abbia l’obbligo di risarcire
direttamente gli individui danneggiati dalla violazione del trattato medesimo.
Art.41 CEDU: stabilisce che in caso di una violazione della Convenzione, il diritto interno non
permetta di eliminare le conseguenze della violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla
parte lesa.

CAPITOLO XLVIII
LA C.D. RESPONSABILITA’ DA FATTI LECITI
I.
Responsabilità da attività pericolose ed inquinanti
Si discute se in alcuni casi la responsabilità internazionale, ed in particolare l’obbligo del
risarcimento del danno, possa derivare da atti leciti.
Il settore che soprattutto è preso in considerazione a tal fine è il settore delle attività altamente
pericolose ed inquinanti, come attività delle centrali nucleari, industrie chimiche ecc.

È difficile riuscire a distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza colpa e
quindi dalla responsabilità oggettiva, sia relativa o assoluta.
Ad es. è difficile stabilire, ammesso che lo Stato debba rispondere in base al diritto consuetudinario
delle attività pericolose che si svolgono sul loro territorio, se tale dovere nasca da un fatto lecito
oppure da una norma che impone di non causare danni al territorio altrui con attività pericolose.
Tutto ciò che si può dire è che una responsabilità obbiettiva possa essere qualificata come
responsabilità senza illecito quando lo Stato sia chiamato a rispondere non solo delle attività svolte
dai suoi organi, ma anche delle attività di individui non posti sotto il suo controllo, cioè quando
l’attività che dà luogo alla responsabilità non è ad esso imputabile.

Es. art 2 Convenzione 1972 sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti
spaziali, secondo cui lo Stato di lancio risponde dei danni causati dai suoi oggetti spaziali alla
superficie terrestre o aeromobili in volo.
Si può ora aggiungere che la stessa norma afferma la responsabilità dello Stato anche per lanci non
effettuati direttamente da suoi organi ma dagli individui sul suo territorio o altro spazio soggetto
alla sua sovranità.

Responsabilità internazionale e responsabilità interna


Va infine notato che numerose convenzioni si occupano del risarcimento dei danni prodotte da
attività pericolose. Trattasi di convenzioni che si limitano ad imporre agli Stati contraenti l’obbligo
di predisporre al loro interno sistemi appropriati di responsabilità civile o penale.

Sull’argomento della responsabilità da atto lecito, la Commissione NU ha adottato due progetti di


articoli, uno sulla prevenzione dei danni oltre frontiera derivanti da attività pericolose, e l’altro,
sulla ripartizione di tali danni.

CAPITOLO XLIX
IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA PREVISTO DALLA CARTA DELLE NU
I.
Azioni del Consiglio di Sicurezza a tutela della pace
La Carta NU da un lato sancisce il divieto dell’uso della forza nei rapporti internazionali, dall’altro
accentra nel Consiglio di sicurezza la competenza a compiere le azioni necessarie per il
mantenimento dell’ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare ad usare la forza ai fini di
polizia internazionale.
Per quanto riguarda il sistema di sicurezza accentrato esso ha poco e male funzionato fino alla
caduta del muro di Berlino a causa del diritto di veto riconosciuto alle grandi Potenze, della
divisione del mondo in blocchi, della guerra fredda.
A partire dalla guerra del Golfo nel 1991 ha avuto una seconda vita, divenendo l’attività principale
delle NU.

Nel quadro del sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione di una Commissione per
a costruzione della pace, avvenuta nel 2005. Questa è destinata ad occuparsi delle situazioni post-
conflittuali, del ristabilimento di condizioni normali e di sviluppo nei Paesi dove dette situazioni si
verificano ecc.

Ai sensi del cap. VII il Consiglio di sicurezza, accerta anzitutto l’esistenza di una minaccia alla
pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione, e stabilisce poi, quali misure
sanzionatoria non implicanti l’uso della forza, sia implicanti l’uso della forza, debbano essere prese
nei confronti di uno Stato.
Prima di ricorrere a queste misure, può anche invitare le parti a prendere quelle misure provvisorie
che consideri come necessarie al fine di non aggravare la situazione (art.40). Sempre più sesso il
Consiglio, dichiarando di agire in base al cap. VII, ricorre a misure che non trovano fondamento
nelle norme di quest’ultimo.
Discrezionalità del Consiglio di sicurezza
Nell’accertare se sussista una minaccia o violazione della pace o atto di aggressione, il Consiglio
gode di un larghissimo potere discrezionale. La discrezionalità può avere modo di esercitarsi
soprattutto con riguardo all’ipotesi della minaccia alla pace.
In sede di redazione della Carta, a San Francisco, fu da varie parti richiesto che la Carta contenesse
maggiori ragguagli in ordine ai presupposti di applicabilità del cap. VII e che in particolare essa
definisse l’aggressione.
Palese era la preoccupazione che un’ampia discrezionalità dell’organo potesse risolversi a danno
degli Stati eventualmente presi di mira dal Consiglio.

La discrezionalità del Consiglio, art 39, è rimasta integra anche dopo l’adozione di una
Dichiarazione sulla definizione dell’aggressione. Nella Dichiarazione vengono elencate una serie id
ipotesi di aggressione, che vanno dall’invasione o occupazione militare, al bombardamento da parte
di forze aeree, terrestri, navali ecc.
Trattasi di un’elencazione che comunque non incide sull’art 39 e sulle competenze del Consiglio di
Sicurezza.
La grande discrezionalità di cui gode il Consiglio di sicurezza nel decidere se agire a tutela della
pace fa sì che il sistema di sicurezza collettiva, abbia caratteri abbastanza sui generis. Trattasi di un
sistema il cui funzionamento non assicura in ogni caso una sanzione contro violazioni gravi del
diritto internazionale da parte degli Stati contro ad es l’aggressione, genocidio ecc.
Il Consiglio di sicurezza può infatti considerare come minaccia alla pace anche un comportamento
che non leda in alcun modo un interesse fondamentale della comunità internazionale nel suo
complesso.
II.
Esaminiamo le tre fasi attraverso le quali può passare l’azione del Consiglio

a) Le misure provvisorie
Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione (art.40) il Consiglio di sicurezza può invitare le
parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o
desiderabili.
Tali non devono pregiudicare i diritti, le pretese o le posizioni delle parti.
La provvisorietà si ricollega sia allo scopo che dette misure possono perseguire e che è quello solo
di prevenire un aggravarsi della situazione.
Una misura provvisoria tipica in caso di guerra è il cessate il fuoco.
Va anche notato che il più spesso il perdurare della crisi rispetto alla quale le misure erano state
indicate, il Consiglio non è riuscito a passare alle misure sanzionatorie art 41 o azioni armate art42

Natura non vincolante delle misure provvisorie


Secondo l’art 40, le misure provvisorie formano solo l’oggetto di un invito e quindi una
raccomandazione del Consiglio. Nella prassi si è cercato di attribuire natura vincolante all’invito,
ma non è una tesi condivisibile.

b) Le misure non implicanti l’uso della forza


art.41: il Consiglio può vincolare gli Stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure
contro uno Stato che, minacci o abbia violato la pace oppure nelle crisi interne, contro gruppi armati
o contro gruppi terroristici.

c) Le misure implicanti l’uso della forza


Artt.42ss si occupano dell’ipotesi che il Consiglio decida di impiegare la forza: contro uno Stato,
colpevole di aggressione, o all’interno di uno Stato, in una guerra civile.
Il ricorso a misure violente è chiaramente concepito dall’art 42 come un’azione di polizia
internazionale.
La risoluzione con cui l’organo decide di agire appartiene pertanto al genere delle risoluzioni
operative attraverso cui l’Organizzazione direttamente agisce.
L’azione diretta consiste nella utilizzazione di contingenti armati pur sempre nazionali, ma sotto
controllo internazionale facente capo allo stesso Consiglio di sicurezza.

Si comprende lo scopo che art 42ss perseguono è da un lato quello di garantire l’obiettività e
imparzialità dell’azione, nonché di controllare che questa sia contenuta entro i limiti indispensabili
al mantenimento della pace, dall’altro di togliere qualsiasi iniziativa di carattere militare al singolo
Stato, che non si giustifichi ex art 51, per motivi di legittima difesa individuale o collettiva.

Passando alle modalità con cui il Consiglio di Sicurezza può agire, gli art 43, 44 e 45 prevedono
l’obbligo per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi intesi a stabilire il numero,
grado di preparazione ecc delle forze armate utilizzabili dall’organo.
46 e 47: l’utilizzazione in concreto d vari contingenti nazionali deve far capo ad un Comitato di
Stato maggiore. Quindi presupposto e cardine del sistema sono considerati dalla Carta, gli accordi
speciali da stipularsi tra Stati membri dell’ONU e il Consiglio.

Gli artt 43 ss non hanno ad oggi ricevuto applicazione. Gli accordi per la messa a disposizione del
Consiglio dei contingenti militari nazionali, che secondo il 43, dovevano essere conclusi al più
presto, non hanno mai visto la luce.
Fino ad oggi il Consiglio è intervenuto in crisi internazionali o interne con misure di carattere
militare in due modi diversi, anche cumulandoli.
O ha creato delle forze delle NU (caschi blu) incaricare di operare per il mantenimento della pace o
ha autorizzato l’uso della forza da parte degli Stati membri.
Le prime forze aventi compito di mantenere la pace sono state organizzate all’epoca della guerra
fredda.
La caratteristica principale delle operazioni per mantenere la pace è costituita dalla delega del
Consiglio al Segretario generale in ordine sia al reperimento, attraverso accordi con gli Stati
membri, sia al comando delle forze internazionali.
Normalmente dette operazione sono autorizzate dal Governo locale, e hanno funzione di forze
cuscinetto per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine nel territorio in cui operano e possono
usare le armi solo per legittima difesa.

II-bis
L’impiego delle forze dell’ONU ha finito con il rivelarsi abbastanza impraticabile per una serie di
ragioni politiche, militari ecc. Il Consiglio di Sicurezza è andato sempre più orientandosi, verso
l’impiego diretto di contingenti militari da parte degli Stati membri, sia individualmente sia per il
tramite di organizzazioni regionali.

In due casi vi è stata l’autorizzazione a condurre vere e proprie guerre internazionali. Il primo caso
riguarda la guerra di Corea, nel 1950 quando gli Stati membri furono invitati ad aiutare la Corea del
Sud a difendersi dall’attacco sferrato dalla Corea del Nord.
Il secondo caso riguarda la guerra del Golfo, condotta nel 1991 da una coalizione di Stati membri
autorizzati dal Consiglio ad aiutare il governo kuwaitiano a riconquistare il Kuwait occupato
dall’Iran.

È legittima l’autorizzazione dell’uso della forza agli Stati da parte del Consiglio?
Non sembra che una simile autorizzazione sia inquadrabile negli artt. 42ss.
È accaduto poi che con il passare del tempo, con la constatata inefficienza del sistema di sicurezza
collettiva, si è fatta strada la prassi dell’autorizzazione agli Stati. Ormai il Consiglio tende sempre di
più a seguire tale prassi, sia pur mantenendo un certo controllo sulle operazioni.
Ne consegue che l’autorizzazione agli Stati può considerarsi prevista da una norma consuetudinaria
ad hoc.

II-ter
Talvolta il Consiglio di Sicurezza, dichiarando di agire in base al cap.VII ha organizzato il governo
di territori.
Già nei primi anni di vita delle NU il Consiglio fu chiamato a partecipare al governo di un territorio
oggetto di controversia territoriale. È il territorio libero di Trieste.
Recentemente abbiamo due esempi di governi di territori instaurati dal Consiglio di Sicurezza con
espresso riferimento al cap.VII.
Trattasi dell’UNMIK (Kosovo) e di UNTAET (Timor Est).

Il Consiglio di Sicurezza ha anche svolto un ruolo nella creazione di Tribunali penali c.d. misti,
composti sia da giudici nazionali dello Stato in cui sono insediati, sia da giudici stranieri, di regola
in maggioranza.

Le misure consistenti nel governo, o atti di governo, di territori non trovano un fondamento
espresso nella Carta.
Vari tentativi sono stati fatti per riportarle alla categoria delle misure coercitive previste art. 41 e 42.
La tesi più diffusa a questo riguardo fa leva sull’art 41 ritenendosi che all’applicazione di questo
articolo non faccia ostacolo la circostanza che esso si occupi di comportamenti che il Consiglio di
Sicurezza può richiedere agli Stati.
La tesi non convince in quanto la giurisdizione dei tribunali penali si esercita su individui, laddove
le misure coercitive previste dall’art 41 sono chiaramente misure dirette contro uno Stato o al
massimo contro gruppi armati all’interno di uno Stato. Inoltre queste misure ex 41 sono destinate a
cessare quando la pace e la sicurezza non sono più in pericolo.

Un altro pdv che non convince è quello secondo cui le misure possono trovare fondamento nell’art
24, il quale, attribuendo al Consiglio la responsabilità del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionali, avallerebbe qualsiasi misura purchè necessaria alla messa in atto di detta
responsabilità. La tesi è contraddetta però dallo stesso art 24 che al secondo paragrafo elenca
tassativamente gli specifici poteri attribuiti al Consiglio.

Dobbiamo riconoscere che la prassi del Consiglio ha largamente deviato dalla lettera e dallo spirito
delle norme contenute nel cap. VII. Quindi, non resta che chiedersi se detta prassi abbia dato vita ad
una norma consuetudinaria ad hoc. La risposta pare debba essere positiva.
La mancanza di una qualsiasi opposizione alla partecipazione del Consiglio ad atti di governo di
territori in situazioni post-conflittuali, testimoniano a favore di una simile consuetudine.

III.
Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di Sicurezza fanno parte anche le
organizzazioni regionali create sia per sviluppare la cooperazione tra gli Stati membri, sia per
promuovere la difesa comune verso l’esterno.
L’appartenenza di queste organizzazioni al sistema di sicurezza collettiva si fonda in particolare
sull’art. 53, il quale stabilisce che il Consiglio utilizza gli accordi e le organizzazioni regionali per
azioni coercitive sotto la sua direzione.
Il 53 va coordinato con il 51 il quale ammette la legittima difesa sia individuale che collettiva,
intendendo per quest’ultima la possibilità che la reazione ad un attacco armato provenga non solo
dallo Stato attaccato ma anche da terzi.

Ne consegue che le organizzazioni regionali possono agire coercitivamente contro uno Stato con
l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ogni caso e senza l’autorizzazione in caso di risposta
ad un attacco armato già sferrato.
Tra le organizzazioni regionali: la Lega degli Stati arabi, Organizzazione del Trattato del Nord
Atlantico (NATO), Comunità di Stati indipendenti (CIS), l’Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa (OCSE)

Ci si è chiesto se lo statuto della NATO, costituita in vista dell’autodifesa collettiva tra i membri,
impedisca di inquadrare l’Organizzazione sotto l’art.53 o sotto il cap. VII.
La risposta non deve essere negativa. Sarebbe comunque invocabile un’applicazione analogica dello
Statuto. In effetti, nella crisi nella ex Iugoslavia, la NATO ha operato in attuazione di risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza.

PARTE QUINTA
L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA
COMUNITA’ INTERNAZIONALE
CAP. L
I.
Natura arbitrale della funzione giurisdizionale internazionale
La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi sostanzialmente natura arbitrale, essendo
ancorata al principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non
è stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una controversia.

II.
Nozione di controversia internazionale
Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi
i loro rapporti, ciò che importa è che essi siano d’accordo nel sottoporre la controversia ad un
giudice internazionale e ad accettare come vincolante la sua decisione.
La definizione di controversia internazionale è data dalla Corte Permanente di Giustizia
Internazionale nel 1924: la controversia, è un disaccordo su un punto di diritto o di fatto, un
contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti.

Controversie giuridiche e controversie politiche


Non esistono controversie giustiziabili e controversie non giustiziabili, dato che su qualsiasi
rapporto tra Stati il diritto internazionale è capace di pronunciarsi se non altro a favore della libertà
dello Stato da cui la controparte pretende qualcosa.
La distinzione tra controversie politiche e giuridiche, tanto cara alla dottrina tra le due guerre
mondiali, consisteva nel fatto che nelle controversie politiche a differenza di quelle giuridiche,
entrambe le parti, o almeno una, non invocassero il diritto internazionale ma pretendessero di
mutuarlo a loro favore. Oggi questa distinzione non ha più molto significato.

Art 36 Statuto CIG: gli Stati che accettino come obbligatoria la giurisdizione della Corte, possono
essere citati davanti alla medesima da qualsiasi altro Stato che abbia emesso la stessa dichiarazione.
La dichiarazione di accettazione può riguardare ogni controversia avente ad oggetto:
a. Interpretazione di un trattato
b. Qualsiasi questione di diritto internazionale
c. L’esistenza di un qualsiasi fatto, che se accertato, costituirebbe la violazione di un obbligo
internazionale
d. La natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale.

III.
Il processo internazionale ha dunque carattere sostanzialmente arbitrale riposando sulla volontà,
sull’accordo, di tutti gli Stati di una controversia.

Arbitrato isolato e compromesso arbitrale


Punto di partenza dell’evoluzione dell’istituto è l’arbitrato isolato. Nel XIX secolo, l’arbitrato si
svolgeva così: sorta una controversia tra due o più Stato, si stipulava un accordo, il c.d.
compromesso arbitrale, con cui si nominava un arbitro o collegio arbitrale, si stabiliva qualche
regola procedurale e ci si obbligava a rispettare la sentenza.
Si trattava della forma più rudimentale e approssimativa possibile di accertamento giudiziale del
diritto.
Rispetto all’arbitrato isolato l’istituto si è andato da allora sviluppando, grosso modo in due fasi:

1. Già dalla fine del XIX secolo sono comparsi la clausola compromissoria e il trattato
generale di arbitrato (non completi)

Clausola compromissoria e trattato generale di arbitrato non completi


La clausola compromissoria accede ad una qualsiasi convenzione e crea l’obbligo per gli Stati di
ricorrere all’arbitrato per tutte le controversie che sorgano in futuro in ordine all’applicazione o
interpretazione della convenzione medesima.
Analoga è la funzione del trattato generale di arbitrato, che egualmente crea un obbligo generico di
ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le controversie che possano sorgere in fituro tra le Parti
contraenti eccetto alcune.

Clausola eccettuativa dei trattati di arbitrati


Clausola compromissoria e trattato di arbitrato non completi creano solo l’obbligo de contrahendo,
cioè l’obbligo di stipulare il compromesso arbitrale.
Nello stesso periodo si assiste poi all’avvio della tendenza ad istituzionalizzare i tribunali
internazionale, cioè a creare organi arbitrali permanenti e a predisporre regole di procedura
applicabili in ogni procedimento così instaurato.

Corte permanente di arbitrato e tribunale arbitrale dell’OCSE


L’avvio all’istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato tuttora esistente, creata
dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907.
Una forma analoga di organo giurisdizionale è quella prevista dalla Convenzione sulla conciliazione
e l’arbitrato del 1992 promossa dalla CSCE oggi OCSE. Il Tribunale viene costituito per ogni
singola controversia, con membri indicati una volta per tutte dalle Parti e con membri nominati di
volta in volta da un organo permanente, il Bureau.

2. Ha inizio con la fine della IWW, si è avuta maggiore istituzionalizzazione con la creazione
della Corte Permanente di Giustizia Internazionale all’epoca della Società delle Nazioni e
poi nel 1945 con la CIG

Corte Internazionale di Giustizia


Ha sede all’Aja e funziona in base allo Statuto annesso alla Carta dell’ONU. La CIG presenta un
forte grado di istituzionalizzazione: trattasi di corpo permanente di giudici, eletti dall’Assemblea
generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di procedura
inderogabili.
La CIG può giudicare anche secondo equità, se le Parti lo chiedono.

Funzione consultiva dalla CIG


Oltre alla funzione giurisdizionale, la Corte svolge anche una funzione consultiva.
Art. 96 Carta NU e 65ss Statuto, essa dà pareri su qualsiasi questione giuridica su richiesta
dell’Assemblea o del Consiglio.

Sebbene i pareri non siano vincolanti, l’apporto che l’attività consultiva ha dato alla ricostruzione di
norme internazionali generali e all’interpretazione della Carta ONU è significativo.
I pareri non sono vincolanti secondo la Carta, ma possono divenire tali se, con una convenzione o
altro atto vincolante, ci si impegna a rispettarli.

Clausola compromissoria e trattato generale di arbitrato completi


La seconda fase è marcata da una decisa evoluzione anche per quanto riguarda l’accordo necessario
per l’instaurazione del processo internazionale. Compare infatti la figura della clausola
compromissoria e del trattato generale di arbitrato completi.
Ci si riferisce ai casi in cui la clausola compromissoria o il trattato di arbitrato non si limitano a
creare l’obbligo di stipulare il compromesso, ma prevedono direttamente l’obbligo di sottoporti al
giudizio di un tribunale internazionale (CIG) già predisposto e in grado di funzionare.
Questi, essendo completi, permettono ad uno Stato contraente di citare unilateralmente un altro
Stato contraente di fronte al tribunale internazionale così investito della controversia.

Dichiarazione di accettazione della giurisdizione della CIG


Analogo al trattato di arbitrato completo è il procedimento previsto dall’art. 36 dello Statuto della
CIG, secondo cui gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di
riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi
altro Stato che accetti la medesima obbligazione, la giurisdizione della Corte.

IV.
Declino dell’arbitrato negli anni ’60-‘70
È innegabile che l’arbitrato abbia attraversato, a partire dagli anni 60 e fino agli inizi degli anni 80
una fase di declino, sia nel senso dello scarso numero di ricorsi, sia per il rifiuto di eseguire le
sentenze emesse.
Dal primo pdv si distinsero gli Stati sorti dalla decolonizzazione, assai diffidenti verso la Corte
anche a causa di alcune sentenze da questa emesse, contrarie ai loro interessi.
Per quanto riguarda il rifiuto di eseguire si distinsero vari Stati tra cui anche grandi Potenze, come
USA.
Le sentenze contestate dai nuovi Stati furono alcune decisioni relative alla situazione del sud-ovest
africano, affidato al Sud Africa dalla Società delle Nazioni e ancora considerato da questo Stato
come sottoposto alla sua sovranità.
Per quanto riguarda la pratica consistente nel rinnegare l’impegno arbitrale, in relazione a giudizi
già conclusi, o anche a giudizi in corso ma volgentisi a sfavore dello stato rinnegante, è ad es. il
contegno tenuto dall’Iran in relazione alla sentenza della CIG nel caso del Personale diplomatico e
consolare degli SU a Teheran.

Ripresa dell’arbitrato e diffusione delle istanze giurisdizionali dopo gli anni 80


La situazione si è andata modificando a partire dagli anni 80 ed è poi esplosa negli ultimi tempi,
fino a far parlare dei tribunali settoriali e regionali, di una giurisdizionalizzazione del diritto
internazionale.
Anche il ruolo della CIG è aumentato enormemente rispetto al passato.

Esecuzione delle sentenze internazionali


L’osservanza di una sentenza internazionale deve ritenersi assicurata nel diritto interno dalle stesse
norme che provvedono all’adattamento alle regole internazionali di cui la sentenza abbia accertato il
contenuto:
ad es. la legge italiana di esecuzione di un trattato comporta l’obbligo di osservare non solo il
trattato ma anche l’eventuale sentenza internazionale emessa, in ordine al trattato, nei confronti
dell’Italia o persone che operano nello Stato italiano.

Anche alle sentenze internazionali si applica la teoria dei controlimiti, nel senso che la loro
esecuzione deve ritenersi esclusa qualora esse contrastino con principi fondamentali della nostra
Costituzione.

CAPITOLO LI
I TRIBUNALI INTERNAZIONALI SETTORIALI E REGIONALI
I.
Moltiplicazione dei Tribunali internazionali
Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno competenze settoriali e
che il più delle volte presentano caratteristiche diverse dall’arbitrato.
Alcuni tra i tribunali internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri, carattere universale. I
tribunali regionali riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione economica.

Moltiplicazione dei tribunali e frammentazione del diritto internazionale


La moltiplicazione dei giudici internazionali sarebbe una delle cause della frammentazione del
diritto internazionale.
Sembra comunque che divergenze siano salutari all’evoluzione della prassi internazionale, e ciò a
parte il fatto che una sentenza fa legge solo tra le parti.

II.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Competenze per buona parte sui generis presenta la CGUE, con sede a Lussemburgo.
Competenze tanto sui generis da rendere legittimo il dubbio che alla Corte possa attribuirsi la
qualifica di tribunale internazionale.
Si può dire che con gli altri tribunali internazionale, la corte ha in comune solo l’origine pattizia,
essendo sorta e disciplinata dai Trattati che via via hanno dato vita alle Comunità europee e poi
all’Unione.
La maggior parte delle sue competenze sono accostabili a quelle dei tribunali interni e il loro
esercizio non dipende dalla volontà degli stessi soggetti destinati a subirle (come l’arbitrato).

In sintesi, le competenze della Corte sono:


a) Competenza in tema di ricorsi per violazione dei Trattati da parte di uno Stato membro.
I ricorsi sono proponibili alla Commissione o da ciascun altro stato membro previa consultazione
della Commissione.
Lo Stato accusato non può sottrarsi al giudizio della Corte ed è tenuto a prendere tutti i
provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta.

b) Competenza relativa al controllo di legittimità sugli atti dell’Unione.


Il controllo è limitato agli atti legislativi e non legislativi vincolanti del Consiglio, Commissione,
Banca centrale, Parlamento e Consiglio europeo.
I vizi degli atti che comportano l’annullamento ex tunc dei medesimi sono dati dall’incompetenza
dell’organo, violazione di forme sostanziali, violazione del Trattato ecc.
Sono denunciabili da ciascuno stato membro, Consiglio, Commissione, Parlamento, singoli,
persone fisiche o giuridiche, nel caso di atti adottati nei loro confronti o che li riguardano.

c) Competenza concernente le c.d. questioni pregiudiziali


È disciplinata dall’art 267 TFUE: quando dinnanzi ad un giudice di uno Stato membro, è sollevata
una questione relativa all’interpretazione dei Trattati o alla validità o all’interpretazione degli atti
degli organi dell’Unione, tale giudice ha il potere o il dovere di sospendere il processo e chiedere
una pronuncia della Corte al riguardo.
La pronuncia della Corte ha effetto immediato nel giudizio nazionale a quo, ma l’interpretazione
sarà utilizzata in tutti gli Stati membri. Lo scopo è quello di assicurare l’interpretazione uniforme
del diritto dell’Unione.
Alla Corte è affiancato dal 1988, il Tribunale, già Tribunale di primo grado dell’UE, la cui
principale competenza ha per oggetto i ricorsi promossi dalle persone fisiche o giuridiche in tema di
controllo sulla legittimità degli atti.

III.
Tribunale internazionale del diritto del mare
Nel diritto internazionale marittimo opera il Tribunale Internazionale del Diritto del mare, il cui
Statuto è contenuto nella Convenzione di Montego Bay. Ha sede ad Amburgo.
È composto da 21 giudici indipendenti eletti tra persone che abbiano competenza nel campo del
diritto del mare.
Questo non ha prodotto un cospicuo numero di sentenze, ma rappresenta solo una delle istanze
giurisdizionali che sono a disposizione delle parti.
Per le controversie tra Stati esso non si discosta molto dai tribunali arbitrali istituzionalizzati.

IV.
Organo della WTO per la soluzione delle controversie
Un sistema complesso di soluzione delle controversie tra Stati nel settore del commercio
internazionale è quello predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle
controversie contenuta nell’Accordo istitutivo dell’OMC.
Tale sistema fa capo ad un organo, l’organo per la soluzione delle controversie, e si articola in 2
gradi di giudizio:
1. Costituito da panels di esperti nominati di volta in volta dall’Organo
2. Consistente in un corpo permanente di appello in cui siedono 7 giudici.
Questo sistema può considerarsi di carattere tendenzialmente giurisdizionale in quanto
caratterizzato anche da una limitata possibilità di interventi dell’Organo, che è un organo politico.
Questo può anche decidere di non costituire un panel, oppure di non approvare le decisioni emesse
in prima o seconda istanza.

V.
Corte europea dei diritti dell’uomo
La Corte EDU ha sede a Strasburgo, è l’organo che controlla il rispetto della Convenzione europea
sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e libertà fondamentali.
Nasce dalla fusione con la Commissione Europea dei diritti dell’uomo, ed è formata da un numero
do giudici pari a quello degli Stati contraenti.
Giudica attraverso giudici unici, Comitati composti fa 3 giudici e Camere composte da 7 giudici.
Una Grande Camera di 17 giudici può essere poi chiamata a pronunciarsi su richiesta di una
Camera, oppure come una sorta di appello.

Il ricorso alla corte può essere proposto da un altro Stato contraente nell’interesse obbiettivo (c.d.
ricorso interstatale), sia da qualsiasi persona fisica, giuridica o organizzazione, gruppo di individui
ecc.
Il ricorso individuale ha marcato il grande successo di questa Corte, provocando una giurisprudenza
estremamente ricca. Tale successo ha anche un risvolto negativo, ossia la Corte, oberata da ricorsi
individuale, non riesce a smaltire il suo ruolo.

VI.
Commissione e Corte interamericana dei diritti dell’uomo
Il sistema regionale più importante dopo quello europeo è stato posto in essere dalla Convenzione
americana dei diritti dell’uomo. Il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è
affidato ad una Commissione e una Corte: le competenze dei due organi sono analoghe a quelle che
aveva la disciolta Commissione europea e la Corte EDU.
Corti africane dei diritti dell’uomo
Anche nell’ambito dell’OUA è stata istituita una Corte dei diritti dell’uomo. Essa applica la Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata dall’Organizzazione.
Operante nel continente africano è anche la corte creata in seno all’ECOWAS.

Comitato per i diritti dell’uomo del patto delle NU sui diritti civili e politici
Passando dal piano regionale a quello universale vengono in rilievo i due Patti internazionali,
promossi dalle NU, uno sui diritti economici, sociali e culturali, l’altro sui diritti civili e politici.
Il patto sui diritti civili politici prevede il funzionamento di un organo, il Comitato delle NU
composto da 18 membri. Sono eletti, a titolo individuale, dagli Stati contraenti, per 4 anni.
Il Comitato può prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stati o da
individui.
È anche competente a ricevere rapporti dagli Stati circa l’applicazione del Patto nei rispettivi
territori, e a trasmettere agli Stati contraenti e al Consiglio economico e sociale, le osservazioni che
ritenga opportune.

Comitato per i diritti previsti dal patto delle NU sui diritti economici, sociali e culturali
Per quanto riguarda il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, esso prevede che gli Stati
contraenti sottopongano rapporti periodici al Consiglio economico e sociale perché formuli
raccomandazioni di ordine generale.

VII.
Corti penali internazionali
Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità, si accompagna
la tendenza ad attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali internazionali.
La prima esperienza in materia fu quella del Tribunale di Norimberga, sebbene esprimesse
un’esigenza sentita da tutta la comunità internazionale, trovò la sua giustificazione dal pdv giuridico
dall’occupazione della Germania.
Lo stesso può dirsi per il Tribunale di Tokyo, che dopo la IIWW giudicò i criminali di guerra
giapponesi.

Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e nel Ruanda


Il Tribunale per la ex Iugoslavia funziona in base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del CDS e
un Regolamento.
Lo Statuto elenca i crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità che rientrano nella
competenza del Tribunale e prevede la priorità di quest’ultimo rispetto alle Corti nazionali.
Una disciplina analoga era prevista per il Tribunale per il Ruanda, che aveva in comune con quello
per la ex Iugoslavia i membri della Camera d’appello, e in parte quelli dell’ufficio del PM.

Il contributo che i due tribunali hanno fato alla ricostruzione e interpretazione delle norme sui
crimini di guerra e contro l’umanità è notevole.
A differenza dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, questi non hanno la disponibilità degli imputati,
ma devono contare sulla collaborazione degli Stati in cui i presunti criminali si trovano.

Corte penale internazionale


Creata nel 1998, ha carattere permanente. Il suo Statuto venne approvato a Roma da un’apposita
Conferenza di Stati. Finora ha deluso le aspettative.
Lo Statuto prevede che la giurisdizione della Corte sia complementare rispetto a quella degli Stati,
nel senso di poter essere esercitata solo quando lo Stato che ha giurisdizione sul crimine non possa
o non voglia perseguirlo.

CAPITOLO LII
I MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI
I.
Negoziati
Tali mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto
tendono esclusivamente a facilitare l’accordo delle parti: essi non hanno quindi carattere vincolante
per le parti e non determinano chi ha torto o ragione.

L’accordo tra le parti può essere facilitato mediante negoziati diretti tra le parti stesse. I negoziati
sono considerati il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie.

Buoni uffici e mediazione


Si parla di buoni uffici e mediazione quando si verifica l’intervento di uno Stato terzo e di un
organo supremo di uno Stato del Segretario di un’organizzazione internazionale.
La differenza tra i due mezzi è più teorica che pratica. Di solito con i buoni uffici ci si limita ad
indurre le parti della controversia a negoziare.
Nella mediazione c’è invece una partecipazione più attiva del terzo alle trattative.

Conciliazione
Molto importante è la conciliazione che è la forma più evoluta di soluzione delle controversie che
più si avvicina all’arbitrato.
Le Commissioni di conciliazione sono di solito composte da individui e non da Stati e hanno il
compito di esaminare i fatti che hanno dato luogo alla controversia, e di formulare una proposta di
soluzione, che le parti sono libere di accettare o meno.
A queste si accostano le Commissioni d’inchiesta il cui compito è limitato all’accertamento dei
fatti.
In alcuni casi, spesso, il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio.

Funzione conciliativa delle organizzazioni internazionali


Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle controversie a
carattere non vincolante che si svolgono in seno alle organizzazioni internazionali. Si tratta della
c.d. funzione conciliativa delle organizzazioni internazionali.
Questa comprende le stesse procedure esaminate fino ad ora, ma con la differenza che esse sono
svolte in un quadro istituzionale.

II.
Funzione conciliativa delle NU
I mezzi diplomatici esauriscono, con i mezzi giurisdizionali, i mezzi pacifici di soluzione delle
controversie. La Carta NU stabilisce che gli Stati membri hanno l’obbligo di risolvere le loro
controversie con mezzi pacifici, con negoziati, inchieste, mediazione, conciliazioni ecc.

III.
Potere di inchiesta del Consiglio di Sicurezza
Alla soluzione pacifica delle controversie è dedicato il cap. VI della Carta NU. Vi si disciplina con
regole assai precise, la funzione conciliativa del CDS.
In base al cap.VI il Consiglio dispone di un potere d’inchiesta che può esercitare sia direttamente
che creando un organo ad hoc.

Indicazione da parte del Consiglio di mezzi di regolamento


Art. 33 e 36, danno facoltà al Consiglio di sollecitare le parti di una controversia a far ricorso ai
mezzi, procedimenti o metodi, elencati nel 33.
La differenza tra 33 e 36 sta nel fatto che il 33 si riferisce ad un invito generico da parte del
Consiglio, mentre il 36 prevede che l’organo indichi quale specifico procedimento, tra quelli del 33
sia appropriato.

Indicazione da parte del Consiglio di termini di regolamento


Nella funzione conciliativa del Consiglio rientra il potere di raccomandare termini di regolamento,
ossia di suggerire alle parti come risolvere, nel merito, la loro controversia.
Il Consiglio ha così finito con l’entrare nel merito delle questioni, senza andare incontro a
significative opposizioni di natura procedurale da parte degli Stati interessati: lo ha fatto sia con
riguardo a casi che non erano stati portati al suo esame da una delle parti in causa senza
preoccuparsi di indagare se effettivamente fosse impossibile il ricorso ai mezzi di cui al 33.

IV.
Funzione conciliativa dell’Assemblea generale dell’ONU
Nell’ambito delle NU una funzione conciliativa è svolta dall’Assemblea. La Carta prevede che
l’Assemblea può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che ssa
ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra nazioni.
Una formula così generica permette di far rientrare nella funzione conciliativa dell’Assemblea tutte
le misure adottabili ex cap.VI.

Attività di mediazione del Segretario generale dell’ONU


Anche il Segretario generale dell’ONU ha prestato la sua opera per la soluzione di controversie,
offrendo la sua attività mediatrice agli Stati coinvolti in crisi internazionali.

Funzione conciliativa delle organizzazioni regionali


Alla funzione conciliativa degli organi ONU, si affianca anche quella delle organizzazioni regionali.
Cap.49.

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