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PROCEDURA CIVILE II – LUISO, Volume 5

LA RISOLUZIONE NON GIURISDIZIONALE DELLE CONTROVERSIE


CAP. 1 – La risoluzione delle controversie
Gli strumenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie sono tutti quegli istituti attraverso
i quali si può raggiungere un risultato analogo a quello del processo di cognizione, e quindi
produrre un effetto simile a quello della sentenza.
Per controversia giuridica si intende il caso in cui i destinatari di una regola di condotta sono in
disaccordo circa i comportamenti leciti e doverosi che ciascuno può o deve tenere, con riferimento
ad un certo bene della vita giuridicamente protetto. Per risolvere questo tipo di controversia, è
necessario un atto che individui, in modo vincolante per i suoi destinatari, quali siano le loro regole
di condotta in relazione al bene della vita  le regole di condotta indicate nell’atto vincolante sono
sostitutive delle norme di diritto sostanziale : le regole concrete si sostituiscono a quelle generali e
astratte. Solo se si verifica questo effetto la controversia è realmente risolta.
L’effetto sostitutivo è proprio di tutti i mezzi di risoluzione delle controversie, ma esso non può
prodursi in via autoritativa, cioè senza il consenso dei suoi destinatari, se non tramite la
giurisdizione.
Le regole concrete di condotta contenute nella sentanza sono insensibili allo ius superveniens.
Infine, il contenuto della sentenza è parametrato alla realtà sostanziale preesistente: necessario che il
giudice operi una ricognizione dell’esistente (accertamento storico-descrittivo che guarda al
passato) per dare un contenuto alla propria pronuncia (accertamento prescrittivo rivolto al futuro).
Il primo tipo di accertamento può essere omesso quando ci si avvale di taluni strumenti, mentre il
secondo tipo è proprio di tutti gli strumenti di risoluzione delle controversie, poiché esso realizza
l’effetto sostitutivo.

CAP. 2 – La risoluzione negoziale delle controversie


Analizziamo ora gli strumenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie. Tra quelli
consensuali abbiamo il contratto.
Art.1372 c.c.: il contratto ha forza di legge tra le parti  vincola le parti come se fosse legge, ma
non è fonte di diritto!!
Da questo articolo si ricava che l’efficacia del contratto non è inferiore a quella della sentenza;
dunque può dirsi presente il primo requisito necessario affinché un atto sia idoneo a risolvere una
controversia: vincolatività.
La risoluzione negoziale della controversia attraverso un contratto è possibile solo per i diritti
disponibili, cioè allorché le parti abbiano rispetto al diritto un potere negoziale: possono stipulare
accordi tramite cui costituire, modificare o estinguere il diritto in questione  l’indisponibilità del
diritto costituisce un limite naturale alla risoluzione negoziale delle controversie, e attiene all’an, al
“se” dell’accordo.
L’inderogabilità riguarda invece il quomodo, il “come” dell’accordo, e può quindi costituire un
limite al contenuto dell’accordo stesso.
Il criterio in base al quale le parti determinano il contenuto del contratto è la valutazione di
convenienza: le parti possono infatti valutare i bisogni e gli interessi sottostanti alla pretesa
giuridica e solo esse (non i terzi) possono stabilire come usare il bene della vita che gli è garantito
dall’ordinamento. La valutazione positiva della convenienza dell’assetto contenuto nel contratto,
consente alle parti di darsi regole di condotta per il futuro, a prescindere da una verifica della realtà
sostanziale preesistente.
È importante precisare che l’accertamento descrittivo è estraneo al contratto, perché di esso le parti
non hanno bisogno; cosa che invece non è possibile al terzo (giudice o arbitro), il quale non ha un
altro metro per dare un contenuto al proprio accertamento prescrittivo che una ricognizione della
realtà preesistente, e quindi un accertamento descrittivo.
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 In sostanza, l’atto delle parti è improntato alla ricerca della convenienza, mentre quello del terzo
è improntato necessariamente alla ricerca della giustizia.
È così possibile operare una divisione all’interno degli strumenti di risoluzione delle controversie,
tra:
- Strumenti autonomi: l’atto che individua le concrete regole di condotta è posto in essere
dagli stessi soggetti che ne sono i destinatari, e la determinazione delle regole avviene a
prescindere dalla ragione e dal torto, ma si fonda su una valutazione dell’idoneità
dell’accordo a soddisfare i bisogni e gli interessi delle parti;
- Strumenti eteronomi: le concrete regole di condotta sono determinate da un soggetto diverso
dai destinatari degli effetti dell’atto, in base ad una cognizione della realtà preesistente e
secondo giustizia.
Ecco perché la soluzione negoziale della controversia è un’alternativa alla giustizia, e non una
giustizia alternativa (come l’arbitrato).
Concludendo: la differenza più importante tra strumenti autonomi di risoluzione (negoziale) delle
controversie e strumenti eteronomi (tutti gli altri) sta nella modalità di determinazione del contenuto
dell’atto risolutivo, e non nell’efficacia, la quale è sempre necessariamente la stessa.
Regime giuridico:
- Strumenti eteronomi: vale la regola ex art.161 cpc, in virtù della quale l’invalidità dell’atto
decisorio deve essere fatta valere attraverso mezzi di impugnazione e quindi entro termini
ristretti;
- Strumenti autonomi: l’invalidità dell’atto negoziale è assoggettata al regime dei contratti,
quindi la nullità può essere fatta valere senza limiti di tempo, da parte di chiunque vi abbia
interesse, ed è rilevabile d’ufficio. Qui abbiamo termini più ampi, ma non bisogna pensare
che una disciplina che renda più facile far valere l’invalidità di un atto, comporti che questo
atto sia meno efficace.
Vantaggi e svantaggi della risoluzione autonoma rispetto a quella eteronoma.
- Il primo e costante vantaggio è l’atipicità del contenuto del contratto: l’art.1965 c.c.
stabilisce che con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche
rapporti diversi da quello della controversia. Invece la sentenza non può decidere di oggetti
diversi da quelli controversi. Dunque la risoluzione negoziale può adattarsi alle necessità
delle parti modificando o estinguendo il rapporto controverso.
- Un ulteriore vantaggio, non sempre necessariamente presente, è che l’accordo che risolve la
controversia può realizzare lo stesso risultato di un comune contratto di scambio.
es. Tizio entra dal giornalaio, compra il giornale e ne paga il prezzo. Egli è soddisfatto anche
se ha dovuto pagare una somma di denaro per ricevere la prestazione, e il giornalaio è
soddisfatto perché ha ottenuto una somma di denaro, anche se in cambio ha dovuto
compiere una controprestazione.
Questo esempio chiarisce che l’ordinamento, quando crea un diritto, riconosce e garantisce
un bene della vita, ma non può anche indicare come il bene deve essere utilizzato dal
titolare: la scelta di cosa fare è lasciata all’insindacabile valutazione del titolare del diritto.
La situazione sostanziale protetta è destinata a soddisfare bisogni e interessi, ma la
valutazione di questi ultimi può essere effettuata solo dal titolare del diritto.
 l’accordo che risolve la controversia può realizzare lo stesso risultato di un comune
contratto di scambio se ed in quanto gli interessi sottostanti delle parti siano tra loro
compatibili. Solo in questo caso, infatti, la controversia può essere risolta in maniera
satisfattiva per tutti.
- Lo svantaggio della risoluzione negoziale è che essa necessita del consenso di tutte le parti:
quindi se la negoziazione non ha esito positivo, l’attività svolta è sprecata.
Tuttavia, i vantaggi potenzialmente conseguibili con la risoluzione negoziale, fanno sì che il
tentativo di risolvere una controversia in via consensuale sia normalmente opportuno. Ovviamente
in caso di esito negativo, è sempre possibile accedere alla risoluzione eteronoma.
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CAP. 3 – La mediazione
È innanzitutto necessario effettuare una precisazione terminologica: per mediazione si intende
l’attività svolta, mentre la conciliazione è l’accordo raggiunto in seguito all’esito positivo della
mediazione.
La mediazione è una species del genus della negoziazione, e si caratterizza per la presenza di una
controversia giuridica. La differenza fondamentale tra negoziazione e mediazione sta nel fatto che
alla base della mediazione c’è la prospettiva di una soluzione eteronoma della controversia.
La funzione del mediatore è quella di aiutare le parti a raggiungere un accordo idoneo a risolvere la
controversia; l’intervento di un terzo tra le parti serve a stabilire tra loro una comunicazione , in
quanto tra le parti solitamente non intercorre una fiducia reciproca, e quindi esse non vogliono
rivelare all’altra parte dati e notizie che sono utili per raggiungere l’accordo, ma che pongono la
parte che li rivela in posizione di inferiorità. Il mediatore quindi funge da “catalizzatore”: favorisce
la reazione di altri elementi, ma senza entrare a comporre il risultato finale. Il mediatore, al
contrario dell’arbitro, non ha il potere di imporre la decisione della controversia: le parti
mantengono il dominio della situazione.
Analogamente, l’accordo concluso grazie all’attività del mediatore, ha le stesse caratteristiche
dell’accordo che le parti sono in grado di raggiungere da sole.
Nonostante non abbia potere decisionale, il mediatore deve essere percepito dalle parti come
imparziale ed equidistante.
Nella mediazione il rispetto delle regole che ne disciplinano il procedimento non costituisce
requisito di validità dell’accordo: non rileva il modo con cui l’accordo si forma, poiché esso diventa
vincolante per le parti solo quando esse ne approvano il contenuto, dopo averlo conosciuto e
valutato. Pertanto, le regole servono a favorire la conclusione dell’accordo, ma anche se esse non
sono rispettate, l’accordo rimane perfettamente valido perché le parti hanno comunque avuto la
possibilità di valutarne la convenienza, prima di vincolarsi ad esso.
Una delle caratteristiche della mediazione sta nell’alternarsi di sessioni congiunte del mediatore con
le parti e di sessioni separate del mediatore con ciascuna di esse.
Riepilogando: il procedimento di mediazione si svolge nel modo che il mediatore ritiene più
opportuno al fine di far trovare un accordo alle parti; a tal fine il mediatore segue le tecniche di
mediazione di cui egli è esperto, senza essere vincolato a prescrizioni normative particolari.
Si possono individuare due fondamentali tipologie di mediazione:
 Mediazione facilitativa (o basata sugli interessi): si ricollega al vantaggio della risoluzione
negoziale, che consente di soddisfare tutte le parti allorché gli interessi siano compatibili. In
questo caso il mediatore indaga sulle ragioni che hanno portato al conflitto, sui risultati che
le parti vogliono raggiungere, sulla possibilità di risolvere quindi un contrasto con un assetto
negoziale, che le soddisfi entrambe. Le parti e il mediatore cercano quindi un accordo che
sia idoneo a soddisfare bisogni e interessi, a prescindere dalla ragione o dal torto. Questo
tipo di mediazione è ideale tra parti che hanno una relazione di fatto che si estende al futuro,
perché in questo caso è più facile individuare bisogni ed interessi compatibili; più difficile è
invece quando le parti non si sono mai viste prima e non si vedranno in seguito.
 Mediazione aggiudicativa (o basata sui diritti): in questa forma, il mediatore valuta la
fondatezza delle rispettive pretese e sottopone alle parti un’ipotesi di accordo che coincide
con quella che, secondo lo stesso mediatore, sarebbe la soluzione eteronoma della
controversia. Questa forma di mediazione è utile nei casi in cui le parti non hanno tra loro
una relazione di fatto. Qui la valutazione di convenienza delle parti avviene tenendo conto
da un lato l’ipotesi di accordo suggerita dal mediatore, e dall’altro le loro aspettative in sede
contenziosa.
La mediazione facilitativa è sicuramente da preferire, e infatti è quella più utilizzata. Le due
tecniche comunque sono diverse e non possono essere usate congiuntamente: il mediatore o rivolge
la sua attenzione agli interessi, o alle pretese; non è possibile che si occupi di tutti e due, perché il
comportamento delle parti nelle due forme di mediazione è antitetico.
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Per potersi aprire al mediatore, le parti devono essere sicure che il piano della fondatezza delle
rispettive pretese rimarrà estraneo al procedimento di mediazione; ecco perché è escluso che possa
svolgere il ruolo di mediatore colui che ha potere di decidere la controversia. Dunque, deve essere
chiaro fin da subito quale delle due forme avrà la mediazione.
Una caratteristica essenziale per la buona riuscita della mediazione è la riservatezza.
- Riservatezza interna: riguarda gli incontri separati: ciò che viene detto in quella sede non
può essere rivelato all’altra parte, a meno che vi sia il consenso di chi ha partecipato
all’incontro. Ciò non significa però che il mediatore non possa fare uso di ciò che viene a
sapere negli incontri separati al fine di condurre le trattative, altrimenti essi non avrebbero
senso.
- Riservatezza esterna: riguarda tutto ciò che accade nel procedimento di mediazione, e non
può essere usato nella successiva, eventuale fase contenziosa.
Il fondamento della riservatezza sta nel principio che le parti devono essere libere di aprirsi sia al
mediatore sia all’altra parte senza il timore che ciò che dicono o fanno possa essere usato contro di
loro. Se non vi è questa immunità, la mediazione non riesce a raggiungere il suo scopo.
La riservatezza entra in gioco ove la mediazione fallisca: infatti una volta raggiunto l’accordo, non
ha senso che esso non possa essere speso “all’esterno”, altrimenti non servirebbe a nulla. Non ha
senso quindi che la riservatezza sia estesa anche all’ipotesi in cui l’accordo sia raggiunto.
Ove, in virtù della mediazione le parti esprimano il loro consenso su un’ipotesi di accordo, si ha la
conciliazione. Una volta raggiunto l’accordo, sarà necessario tradurre la volontà negoziale in
termini di diritti e obblighi: a ciò penseranno i professionisti che assistono le parti, in quanto non
rientra tra i compiti del mediatore.
Ove invece la mediazione fallisca e si apra quindi la possibilità di una soluzione eteronoma, in
questa sede la riservatezza osta a che abbia rilevanza ciò che è accaduto durante il procedimento di
mediazione: è fondamentale, al fine del buon funzionamento della mediazione, che il suo esito
negativo non abbia ripercussioni sulla fase contenziosa, altrimenti appunto le parti non si
comporteranno liberamente durante la mediazione.
Tenendo conto che in tutti i tipi di mediazione il mediatore formula proposte per indirizzare le parti
verso un’ipotesi di accordo, è necessario tuttavia distinguere tra due circostanze:
- casi in cui la mancata accettazione della proposta non lascia traccia esterna al procedimento
di mediazione;
- casi in cui, per espressa previsione del legislatore, la mancata accettazione della proposta del
mediatore ha un qualche effetto nel successivo processo giurisdizionale.
Per condurre la mediazione al successo, occorre essere esperti nelle tecniche di negoziazione in
generale e di mediazione in particolare. Il diritto si limita a designare i confini esterni della materia,
ma non fornisce gli elementi necessari a mettere d’accordo le parti: il mediatore quindi non applica
il diritto.

CAP. 4 – La mediazione secondo la legislazione speciale


Un intervento esplicito del legislatore in materia di tentativo obbligatorio di mediazione è
comprensibile, poiché si tratta di incidere sul diritto d’azione. È necessario fin da subito precisare
che l’intervento normativo in materia di mediazione non annulla quanto detto finora riguardo alla
mediazione in generale: chi preferirà rivolgersi alla mediazione di diritto comune non potrà
beneficiare dei vantaggi che la normativa speciale prevede, e che riserva alle mediazioni che si
svolgono secondo la normativa speciale.
Il legislatore comunitario e quello interno, tramite il D.Lgs.28/2010, hanno ritenuto necessario
occuparsi di mediazione a causa di alcuni inconvenienti della mediazione di diritto comune, che
potrebbero disincentivare gli interessati dall’esperire la mediazione stessa.
Inoltre, il legislatore interno ha ritenuto necessario intervenire in ambito di mediazione anche per
perseguire uno scopo di deflazione del carico giurisdizionale.

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L’art.2 del D.Lgs. riguarda l’ambito di applicazione del decreto stesso: le controversie relative a
diritti disponibili, disciplinate dal diritto privato.
Lo stesso articolo precisa che la normativa speciale non preclude le negoziazioni volontarie e
paritetiche relative alle procedure civili e commerciali, né le procedure di reclamo previste dalle
carte dei servizi. Questi due sono strumenti stragiudiziali di risoluzione delle controversie diverse
dalla mediazione, perché non prevedono l’intervento di un terzo.
 Negoziazione volontaria: nasce da accordi stipulati dalle associazioni di consumatori con
talune imprese. Questi accordi prevedono che, in caso di controversia tra cliente e impresa,
il cliente può rivolgersi ad un’associazione che ha stipulato l’accordo con quell’impresa; un
rappresentante dell’associazione dei consumatori e un rappresentante dell’impresa si
incontrano, esaminano la richiesta e negoziano una soluzione. L’accordo così raggiunto è
così sottoposto al cliente, che può accettarlo o rifiutarlo; solo in rare ipotesi l’accordo è
vincolante per il cliente. Non si tratta di mediazione perché manca appunto il mediatore.
 Procedure di reclamo: ci sono degli uffici interni alle imprese a cui il cliente può rivolgersi
se ha qualche contestazione da fare.
Oltre a questi due strumenti, la normativa speciale non preclude neanche tutti i procedimenti di
mediazione che si possono svolgere secondo le regole di diritto comune.
L’art.3 riguarda il procedimento di mediazione, e rinvia al regolamento dell’organismo scelto dalle
parti. Il legislatore comunitario prescrive agli Stati membri di garantire la qualità della mediazione
attraverso l’elaborazione di codici di condotta, il controllo della qualità dei servizi di mediazione e
la formazione dei mediatori. Allo scopo di perseguire queste finalità, il legislatore interno ha
previsto un articolato sistema che può essere descritto come segue:
- La mediazione deve essere fornita tramite organismi di mediazione che devono avere certi
requisiti e sono soggetti all’iscrizione in un albo presso il Ministero della giustizia. Ogni
organismo deve munirsi di un regolamento che sarà approvato dal Ministero.
- Gli organismi di mediazione devono munirsi di mediatori che abbiano seguito specifici corsi
di formazione, anch’essi muniti dei requisiti richiesti e iscritti in apposito albo presso il
Ministero della giustizia; unica eccezione sono gli avvocati iscritti all’albo, che sono di
diritto mediatori.
Il regolamento deve assicurare la riservatezza del procedimento e le modalità di nomina del
mediatore che ne garantiscano l’imparzialità e l’idoneità allo svolgimento dell’incarico.
(Queste regole valgono solo per i tipi di mediazione disciplinati dal D.Lgs.28/2010, mentre la
mediazione di diritto comune rimane libera ed accessibile a tutti).
Altre norme che disciplinano il procedimento sono:
Art.6: il procedimento di mediazione non può avere durata superiore a tre mesi. Vedremo che ciò ha
senso sono nell’abito della mediazione obbligatoria, perché in quella facoltativa ciascuna parte può
porre fine al procedimento in ogni momento.
Art.7: esclude che la durata del procedimento di mediazione sia computabile ai sensi della Legge
Pinto per ottenere il risarcimento del danno per l’eccessiva durata del processo.
La domanda di mediazione è depositata presso un organismo scelto dalla parte istante, a meno che
vi sia un accordo delle parti a riguardo. Se sono presentate ad organismi diversi più domande
relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge presso l’organismo adito per primo.
Competenza territoriale spetta all’organismo che si trova nel luogo del giudice territorialmente
competente per la controversia. Anche qui ricordiamo che la disposizione vale solo in caso di
mediazione obbligatoria: in quella volontaria chi prende l’iniziativa può proporre la domanda
quando vuole e a chi vuole.
Art.4: contenuto della domanda: l’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni
della pretesa.
N.B. è errato istituire un parallelo tra la funzione della domanda giudiziale e la funzione della
domanda di mediazione. Quest’ultima, al contrario della prima, non ha la funzione di individuare
l’oggetto del processo e quindi della decisione, né di garantire l’instaurazione del contraddittorio.
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In materia di mediazione non ha senso parlare di contraddittorio e diritto di difesa, perché l’atto
risolutivo presuppone il consenso di tutte le parti, e quindi quella parte che non dovesse essere
chiamata a partecipare al processo di mediazione non subisce alcun pregiudizio dalla sua mancata
convocazione: se essa è assente non si potrà avere alcun accordo.
Uno degli inconvenienti della mediazione svolta secondo le regole del diritto comune riguarda il
caso in cui il procedimento di mediazione si protragga più del previsto e si verifichi una
prescrizione o una decadenza: se la mediazione non dovesse riuscire, l’altra parte potrebbe far
valere la prescrizione o decadenza nel successivo giudizio  ciò potrebbe disincentivare gli
interessati ad accedere alla mediazione e li farebbe ricorrere immediatamente al giudice.
Per questo motivo, i legislatori comunitario e interno hanno previsto che la domanda di mediazione
interrompe le prescrizioni, le quali ricominciano a decorrere dal momento in cui è terminato (con
esito negativo) il procedimento di mediazione. La decadenza è invece impedita dall’istanza di
mediazione, ma solo una volta. Così, chi è interessato alla mediazione non ha niente da temere a
causa del tempo necessario allo svolgimento della stessa: la domanda di mediazione, dunque,
produce gli effetti di cui all’art.2945 c.c.
Gli effetti della domanda di mediazione sulla prescrizione e sulla decadenza si producono dal
momento in cui la comunicazione è inviata alle parti, a condizione che tale comunicazione pervenga
poi alle altre parti.
N.B. l’equiparazione degli effetti della domanda di mediazione agli effetti sostanziali della
domanda giudiziale è limitata alla prescrizione e alla decadenza. Così, ove si renda necessaria la
produzione di un altro effetto sostanziale della domanda giudiziale, occorrerà comunque proporre la
domanda e magari contestualmente avanzare istanza di mediazione.
Non è possibile la trascrizione della domanda di mediazione perché il negozio potrebbe arrivare ad
avere un contenuto diverso da quello della domanda, e quindi sarebbe equivalente a consentire una
trascrizione in bianco. La domanda di mediazione infatti, come abbiamo visto, non delimita
l’oggetto del futuro accordo.

Una volta depositata l’istanza, viene nominato il mediatore, fissata la data del primo incontro, e
convocata l’altra o le altre parti. Queste sono pienamente libere di aderire o meno alla richiesta.
Tuttavia, se la parte convocata non partecipa senza giustificato motivo, dalla mancata
partecipazione il giudice del successivo giudizio può desumere argomenti di prova  a carico della
parte chiamata in mediazione è previsto un onere di partecipazione alla stessa.
Per giustificato motivo si possono considerare non solo le condizioni di età o di salute della parte,
ma anche il caso in cui la mediazione sia stata instaurata in violazione delle norme relative alla
competenza territoriale, oppure che nonostante il rispetto di queste regole, il procedimento si svolga
in un luogo lontano rispetto al luogo di residenza della parte convocata e la sua partecipazione
comporti quindi oneri non esigibili in termini di spese e tempo.
Chi non partecipa al procedimento di mediazione senza giustificato motivo, è condannato dal
giudice al pagamento di una somma a favore dello Stato, pari al contributo unificato per quel
giudizio. Si noti che la condanna prescinde dalla soccombenza e viene inflitta solo alla parte che si
sia costituita in giudizio, ma non alla parte contumace.
Le parti devono partecipare alla mediazione con l’assistenza dell’avvocato.
N.B. l’assistenza non coincide con la rappresentanza!  non è necessario un formale mandato.
In realtà l’accordo può essere raggiunto anche senza l’assistenza dei legali, quindi le conseguenze
della mancata assistenza vanno ricercate in relazione all’ipotesi in cui l’accordo non sia raggiunto:
la parte non assistita viene condannata al pagamento delle somme allo Stato e il giudice può trarre
argomenti di prova dal suo comportamento.
All’incontro preliminare, il mediatore deve spiegare alle parti in cosa consiste la mediazione, qual è
il suo ruolo, e verificare se vi sia margine per iniziare fruttuosamente il procedimento.

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Per tutelare la riservatezza, che nella mediazione di diritto comune non è sempre garantita, il
legislatore comunitario ha previsto che né i mediatori, né i soggetti coinvolti nell’amministrazione
del procedimento di mediazione siano obbligati a testimoniare nel procedimento giudiziario o di
arbitrato riguardo alle informazioni risultanti da un procedimento di mediazione o connesse con lo
stesso. In attuazione di tale prescrizione, il legislatore italiano ha previsto all’art.9 l’obbligo della
riservatezza interna ed esterna di chiunque è coinvolto nell’ambito del procedimento di mediazione.
L’art.10 prevede che le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite durante la mediazione non
possono essere usate nel giudizio avente il medesimo oggetto, anche parziale, iniziato in seguito
all’esito negativo della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante.
Vi sono tuttavia delle eccezioni alla riservatezza: ove la mediazione abbia esito positivo, la
riservatezza non ha più motivo di esistere; un accordo che non potesse essere prodotto in giudizio o
in generale essere utilizzato, sarebbe inidoneo a risolvere la controversia.
Esito negativo.
Art.11: ove le parti non raggiungano un accordo, il mediatore, se lo ritiene opportuno, può
formulare una proposta di conciliazione, tenendo conto dei bisogni e degli interessi delle parti; egli
non ha le competenze per valutare chi ha ragione e chi ha torto. La formulazione della proposta
diviene obbligatoria se entrambe le parti lo richiedano. Il mediatore deve informare le parti delle
conseguenze della mancata accettazione della proposta: ex art.13, se il provvedimento che definisce
il giudizio instaurato in seguito al fallimento della mediazione corrisponde interamente alla proposta
del mediatore, è esclusa la restituzione delle spese alla parte vincitrice che abbia rifiutato la
proposta.
Esito positivo.
Il contenuto dell’accordo, come abbiamo visto, è liberamente determinato dagli interessati.
L’accordo delle parti ha la forma scritta, e non viene redatto dal mediatore in quanto egli non ha la
competenza specifica per svolgere tale compito; se le parti non si sentono di redigere il contratto da
sole, si possono far assistere da soggetti competenti.
L’accordo può essere contenuto nel processo verbale di chiusura del procedimento di mediazione o
essere allegato allo stesso. Il verbale è sottoscritto dal mediatore e dalle parti, e la sottoscrizione di
queste ultime è certificata autografa dal mediatore: ciò non è tuttavia sufficiente allorché l’atto sia
soggetto a forme di pubblicità legale. Dopodiché il verbale viene depositato nella segreteria
dell’organismo, che ne rilascia copia alle parti che lo richiedano.
È infine necessario che l’accordo sia autenticato anche da un pubblico ufficiale: ciò comporta che
l’accordo deve essere nuovamente sottoscritto dinnanzi al notaio. Un originale della scrittura privata
deve essere conservato dal notaio.
L’accordo negoziale può assumere efficacia esecutiva solo se esso assume la veste di atto pubblico
o scrittura privata autenticata:
- Se l’accordo è raggiunto tra parti tutte assistite da un legale, ed è sottoscritto anche da questi
ultimi, l’atto che consacra l’accordo è titolo esecutivo ex lege.
- Se non tutte le parti sono assistite da legali, oppure lo sono ma questi non certificano
l’accordo, il verbale dell’accordo è omologato – su istanza di parte e previo accertamento
della regolarità formale – con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede
l’organismo.
Il verbale costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione in forma specifica e
l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
La regolarità formale controllata in sede di omologazione riguarda la sussistenza dei requisiti
speciali previsti dal D.Lgs.28/2010: che si tratti di controversia in sede civile o commerciale, che il
procedimento si sia svolto presso un organismo iscritto all’albo del Ministero, ecc.
L’intervento di omologazione del tribunale rientra nell’ambito della giurisdizione volontaria.
Il provvedimento del tribunale è reclamabile al collegio ai sensi dell’art.739 cpc.

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Le conciliazioni ex D.Lgs.28/2010:
a) Se riguardano crediti pecuniari in materia civile o commerciale, (con esclusione delle
controversie su stato o capacità delle persone) e sono certificate esecutive nello Stato di
origine, esse hanno efficacia esecutiva anche negli altri Stati membri, senza necessità
dell’exequatur dello Stato membro di origine;
b) Se riguardano obblighi diversi dai crediti pecuniari, non circolano in alcun modo.
Quando invece si tratta di attribuire efficacia esecutiva in Italia ad una conciliazione formatasi in un
altro Stato membro, si applica l’art.12, in base al quale il verbale è omologato dal presidente del
tribunale nel cui circondario l’accordo deve avere esecuzione.
Mediazione delegata.
Ex art.5, II si attua allorché sia il giudice della causa in corso ad invitare le parti a svolgere un
procedimento di mediazione. Ciò è possibile solo in caso di giudici di merito: pertanto può farlo il
giudice di appello, ma non quello di Cassazione; ed è possibile in qualunque momento, finché la
causa è in trattazione, o se dalla fase di decisione la causa retrocede a quella di trattazione.
I criteri che il giudice deve usare sono elastici: es. natura della causa, stato dell’istruzione,
comportamento delle parti e tutto ciò che possa far sperare in un esito positivo della mediazione.
La mediazione delegata può essere attivata, per esempio, allorché il giudice constati che tra le parti
vi è un unico punto di contrasto, su cui magari è già stata effettuata un’istruttoria, sicché una
mediazione aggiudicativa potrebbe risolvere il conflitto.
L’invito del giudice ha forma di ordinanza e ha l’effetto di rendere obbligatorio il procedimento di
mediazione  fattispecie di mediazione obbligatoria ope iudicis. Le parti hanno 15gg per
presentare la domanda di mediazione e la causa è rinviata ad una successiva udienza che si terrà
almeno dopo tre mesi e 15gg. Qualora le parti raggiungano l’accordo in sede di mediazione, il
processo perde utilità e si estingue.
Clausola di mediazione.
La clausola di mediazione è l’accordo che le parti stipulano prima dell’insorgere della controversia
e con il quale si impegnano a ricorrere alla mediazione, se e quando una controversia dovesse
sorgere. Si tratta di un accordo simile alla clausola compromissoria.
La violazione dell’obbligo assunto con la clausola di mediazione non ha l’effetto di impedire la
proposizione della domanda giudiziale. In ogni caso, la parte opposta a quella che non ha rispettato
l’impegno assunto con la clausola di mediazione, durante la prima difesa nel processo potrà
sollevare la relativa eccezione e richiedere l’adempimento. In questo caso, il giudice deve valutare
la fondatezza dell’eccezione, ed eventualmente assegnare alle parti 15gg per presentare la domanda
di mediazione, rinviando la causa ad una successiva udienza fissata almeno tre mesi e 15gg dopo la
pronuncia dell’ordinanza con cui l’eccezione è accolta.
La domanda va presentata all’organismo di mediazione che le parti hanno consensualmente scelto o
ad un organismo scelto in base alle regole di competenza.
Dalla mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione, il giudice può trarre
argomenti di prova.
Se si raggiunge un accordo, il processo diviene inutile, altrimenti il processo riprende dal punto in
cui si trovava quando è stato disposto lo svolgimento della mediazione.
Questo tipo di clausola opera anche in sede arbitrale.
Se la clausola di mediazione riguarda una controversia per la quale è prevista anche la mediazione
obbligatoria, il mancato esperimento della mediazione diviene rilevabile anche d’ufficio.

CAP. 5 – La mediazione obbligatoria


Per particolari materie indicate dal D.Lgs.28/2010 la mediazione costituisce una condizione di
procedibilità per l’accesso alla tutela giurisdizionale; in tali materie pertanto, il procedimento di
mediazione assume carattere obbligatorio. Viene quindi introdotta una fattispecie di giurisdizione
condizionata. Essa è compatibile con l’art.24 Cost. a condizione che l’attività da compiere per avere
accesso alla tutela giurisdizionale non sia eccessivamente onerosa.
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Il legislatore non può condizionare l’accesso alla tutela giurisdizionale allo svolgimento di attività
che siano finalizzate a raggiungere risultati diversi dalla funzione giurisdizionale.
La Corte Costituzionale ha chiarito che la finalità del tentativo obbligatorio di conciliazione è
endogiurisdizionale, poiché favorendo la mediazione si riduce il carico di lavoro dei tribunali ed
inoltre l’attività da compiere non è eccessivamente onerosa  il tentativo obbligatorio di
conciliazione è conforme a legge.
Per rendere il tentativo obbligatorio conforme al diritto alla tutela giurisdizionale, la Corte di
giustizia ha introdotto ulteriori requisiti:
- si deve trattare di un vero e proprio procedimento di mediazione;
- deve avere un termine massimo di durata;
- deve produrre gli stessi effetti della domanda giudiziale (sospendere prescrizione dei diritti
in questione);
- non deve essere eccessivamente oneroso dal punto di vista economico;
- le modalità di svolgimento devono renderlo accessibile a tutti gli utenti;
- non deve essere impedita la funzione cautelare.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione non riguarda tutte le controversie civilistiche che hanno ad
oggetto diritti disponibili, ma solo quelle indicate nell’art.5, Ibis e individuate in base a diversi
criteri:
a) tipo di rapporto: locazione, comodato, affitto di aziende, contratti assicurativi, bancari,
finanziari;
b) tipo di diritto: condominio, diritti reali;
c) tipo di causa petendi: successioni ereditarie, risarcimento del danno;
d) risultato: divisione.
Per quanto riguarda a), il tentativo si rende obbligatorio quando la domanda abbia ad oggetto
l’accertamento dell’esistenza/inesistenza/qualificazione del rapporto fondamentale o del diritto,
ovvero quando la domanda abbia ad oggetto un effetto che trova la sua causa petendi nel rapporto
fondamentale previsto dalla norma.
Per quanto riguarda b), l’obbligo di mediazione non sussiste allorché la causa abbia ad oggetto
contratti che riguardino diritti reali. Per il resto, la mediazione obbligatoria riguarda controversie
con oggetto i diritti reali sui beni mobili e immobili e anche le controversie possessorie. Lo stesso
vale per il condominio.
Per alcune materie il tentativo di conciliazione può essere attuato anche con mediazione disciplinata
da testi normativi diversi dal D.Lgs.28/2010: si tratta delle controversie tra investitori e intermediari
per la violazione da parte di questi ultimi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza;
e delle controversie tra le banche e gli intermediari finanziari e la propria clientela.
In relazione ad altre controversie ancora, che rientrano comunque nell’art.5, Ibis, il tentativo
obbligatorio di conciliazione rimane escluso: si tratta dell’azione inibitoria proposta dai soggetti
legittimati, nei confronti di professionisti o loro associazioni in relazione all’utilizzo delle
condizioni generali del contratto abusive; dell’azione inibitoria e risarcitoria di classe.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione non riguarda tutte le richieste di intervento giurisdizionale
che abbiano ad oggetto una delle materie indicate dall’art.5, Ibis: si deve circoscrivere l’obbligo alla
sola giurisdizione dichiarativa; restano escluse quindi la tutela esecutiva e quella cautelare.
La mediazione non preclude comunque la trascrizione della domanda giudiziale, poiché non è
costituzionalmente lecito che da un lato venga impedito di proporre una domanda giudiziale e
dall’altro non vi sia la possibilità di avere gli stessi effetti di questa domanda attraverso la domanda
di mediazione; come abbiamo visto, infatti, il nostro legislatore ha equiparato la domande giudiziale
e quella di mediazione limitatamente alla prescrizione e alla decadenza, e quindi per poter avere gli
altri effetti sostanziali della domanda giudiziale (es. opponibilità ai terzi) è reso possibile
trascriverla contestualmente alla proposizione dell’istanza di mediazione, purché l’udienza sia
fisaata in un termine superiore a tre mesi dalla proposizione della domanda di mediazione.

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La trascrizione della domanda giudiziale produce effetti protettivi nel caso in cui la mediazione
dovesse avere esito negativo. Non serve a nulla invece nel caso in cui venga raggiunto un accordo.
Per quanto riguarda l’opponibilità ai terzi, se durante la mediazione avviene una successione nel
diritto controverso e l’accordo incide sul diritto del successore, è necessario che:
- anche il successore partecipi all’accordo, oppure
- si prosegua con il processo.
Ipotesi in cui non c’è obbligo di tentativo di conciliazione (fondamento e conseguenze diverse per
ogni gruppo):
 Processi dichiarativi speciali: procedimento per ingiunzione, per convalida di licenza o
sfratto e procedimenti possessori. Qui l’obbligatorietà è esclusa con riferimento alla fase
speciale; torna però ad essere valida qualora il processo si trasformi in processo a cognizione
piena.
 Procedimenti di cognizione incidentali al processo esecutivo: sempre esclusa
l’obbligatorietà.
 Costituzione di parte civile in un processo penale: sempre escluso che la costituzione di
parte civile debba essere preceduta da un tentativo obbligatorio di conciliazione.
 Procedimenti in camera di consiglio: sempre esclusa perché essi riguardano o diritti
indisponibili o attengono ad una tutela non dichiarativa.
 Consulenza tecnica preventiva: non ha funzione dichiarativa.
Abbiamo già visto che la durata massima è di tre mesi, ma non si deve intendere che trascorsi i tre
mesi, il procedimento di mediazione debba essere interrotto: esso può benissimo continuare.
Semplicemente, decorsi tre mesi diviene possibile presentare domanda giudiziale o richiedere la
prosecuzione del processo.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione può essere imposto solo a colui che propone la domanda
principale e che quindi ha iniziativa processuale; non può essere invece imposto a coloro che
propongano domande ulteriori nel corso del processo (riconvenzionali, interventi principali,
chiamata in causa innovativa).
Quando l’art.5, Ibis definisce l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione “condizione
di procedibilità” della domanda giudiziale, intende dire che esso è un presupposto processuale, il
cui difetto è sanabile retroattivamente. La rilevazione della carenza del tentativo obbligatorio deve
avvenire entro la prima udienza.
Se il processo è già in corso e la domanda di mediazione non è stata proposta, il giudice assegna
alle parti 15gg di tempo per presentare la domanda di mediazione e fissa la successiva udienza
almeno tre mesi e 15gg dopo. Dopodiché le alternative sono due:
- La mediazione ha esito positivo  nessuno si presenterà all’udienza fissata e il processo si
estingue;
- La domanda di mediazione è proposta entro i 15gg ma la mediazione non ha esito positivo
il processo prosegue all’udienza fissata.
Se invece, nonostante l’invito del giudice, la domanda di mediazione non viene proposta, il
legislatore nulla prevede. Secondo i principi generali, ex art.187 cpc, il giudice rimetterà la causa in
decisione sulla questione pregiudiziale di rito (tentativo obbligatorio non esperito), che verrà decisa
con sentenza impugnabile nei modi ordinari. Se poi il giudice d’appello dovesse ritenere
insussistente l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, deciderà nel merito.
Se il convenuto dovesse sollevare la questione tramite eccezione, e il giudice dovesse ritenerla
infondata (quindi non ordina il tentativo di conciliazione), essa deve comunque essere riaffrontata in
sede decisoria.
Se invece la domanda di mediazione dovesse essere, sì proposta, ma dopo i 15gg, non ci sono
problemi perché il termine non è ritenuto perentorio. Si applica l’art.5,Ibis, terz’ultima frase.
Infine, se nel processo sono proposte più domande, e solo una di esse è soggetta all’obbligo del
tentativo di conciliazione, questo è comunque esperito su tutte le domande, a meno che il giudice
non ne disponga preventivamente la separazione.
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CAP. 6 – La negoziazione assistita
La negoziazione assistita è disciplinata dal D.L. 132/2014, convertito con L.162/2014, rubricato
come “Misure di degiurisdizionalizzazione..”.
Il termine degiurisdizionalizzazione può indicare due fenomeni:
1) Un fenomeno neutro. In questo caso si intende come sottrazione all’apparato giudiziario di
alcune attribuzioni; è necessario quindi individuare cosa è giurisdizionalmente necessario, e
quindi non sottraibile alla giurisdizione, e cosa non lo è. L’unico ambito necessariamente
giurisdizionale è la tutela dichiarativa, mentre la tutela esecutiva e quella cautelare – pur
rimanendo costituzionalmente garantite – non devono essere necessariamente fornite in via
giurisdizionale.
2) Fenomeno positivo. Qui degiurisdizionalizzazione significa incentivare l’uso di strumenti
non autoritativi in grado di produrre lo stesso risultato della giurisdizione, come:
- Arbitrato: il lodo ha gli stessi effetti della sentenza pronunciata dall’autorità
giudiziaria, ex art.824bis cpc;
- Transazione: sentenza e transazione sono equiparate quanto agli effetti.
La negoziazione assistita va proprio in questa seconda direzione. Essa è disciplinata dagli artt.2-11
del D.L.132/2014, ed è definita come “l’accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare
in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di
avvocati iscritti all’albo”.
Gli effetti ed il regime giuridico della negoziazione assistita non sono disciplinati dal D.L., quindi
sarà necessario fare riferimento alle norme di diritto comune e da questo si ricava che il mancato
rispetto delle regole proprie della negoziazione non costituisce mai ragione di invalidità
dell’accordo.
La convenzione di negoziazione assistita è l’accordo-mezzo per il contenuto ed i risultati della
negoziazione stessa e si tratta di un contratto con comunione di scopo, in quanto ambedue le parti
cooperano per raggiungere uno stesso risultato. Gli elementi essenziali di questo atto sono:
a) La determinazione dell’oggetto della controversia. Innanzitutto l’oggetto non può essere un
diritto indisponibile o una delle controversie di lavoro indicate dall’art.409 cpc. Inoltre, la
determinazione dell’oggetto deve avvenire con le stesse modalità usate nel processo civile,
altrimenti non sarà possibile ottenere con la negoziazione un risultato analogo a quello di un
processo civile; infatti, se la domanda di negoziazione non individua l’oggetto, poi non sarà
possibile verificare se l’obiettivo è stato raggiunto, perché questa verifica avviene
confrontando il contenuto della domanda con il contenuto del provvedimento finale, ma se
la domanda non indica l’oggetto, questo confronto è impossibile.
b) Forma. Deve essere scritta a pena di nullità (nullità ad substantiam).
c) Assistenza di almeno un avvocato per ciascuna parte. Essi devono certificare l’autografia
delle sottoscrizioni delle parti.
d) Termine per l’espletamento della procedura. Deve essere non inferiore ad un mese e non
superiore a tre mesi per la negoziazione obbligatoria, mentre per quella volontaria il termine
massimo non ha senso.
La convenzione di negoziazione può essere preceduta da un invito alla stipulazione della stessa. Ai
sensi dell’art.4, esso deve provenire dalla parte, indicare l’oggetto della controversia, e contenere
l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro 30gg o il suo rifiuto possono comportare le
seguenti conseguenze:
- Tali comportamenti possono essere considerati dal giudice ai fini delle spese: per esse infatti
si applica il principio di causalità, e quindi colui che ha negato la possibilità di negoziazione
è anche colui che ha dato causa al processo e quindi deve pagarne le spese;
- Silenzio o rifiuto possono incidere sulla responsabilità aggravata ex art.96 cpc;
- Essi possono incidere nache sull’art.642 cpc: in presenza di certi presupposti (es. credito
fondato su cambiale, assegno bancario, o atto ricevuto da un pubblico ufficiale) il giudice,
su istanza di parte, deve concederne l’esecuzione provvisoria.
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Il ricorrente, in questi casi, dovrà provare il rifiuto della controparte depositando il documento che
lo contiene; per il silenzio dovrà depositare la certificazione dell’avvocato con l’assistenza del quale
è stato redatto l’invito rimasto senza esito.
Effetti dell’invito (art.8):
- in caso di prescrizione si producono gli stessi effetti della sentenza: essa si interrompe e
riprende a decorrere dal rifiuto, dalla scadenza del termine per l’accettazione dell’invito o
dalla dichiarazione di mancato accordo;
- la decadenza è impedita per una volta sola e un nuovo termine di decadenza decorrerà dal
rifiuto, dalla scadenza del termine per accettare l’invito o dalla dichiarazione di mancato
accordo.
Art.9: riservatezza:
- le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite non possono essere utilizzate nel giudizio
avente in tutto o in parte il medesimo oggetto della negoziazione e non è ammessa prova
testimoniale o deferimento del giuramento sulle dichiarazioni e informazioni;
- i difensori delle parti e coloro che partecipano alla negoziazione non possono essere tenuti a
deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese o delle informazioni acquisite;
- i difensori non possono essere nominati arbitri nelle controversie aventi il medesimo oggetto
o connesse;
- la violazione delle prescrizioni costituiscono per l’avvocato un illecito disciplinare.
Se la negoziazione ha esito positivo, si formerà un contratto che trova la sua disciplina nelle norme
di diritto comune (il D.L. non disciplina gli effetti dell’accordo). Si avrà dunque la transazione o un
altro contratto atipico avente la stessa causa. Questo contratto avrà gli stessi effetti e lo stesso
regime di un contratto stipulato fra le sole parti.
Ove una trattativa venga condotta liberamente, senza la previa stipulazione di una convenzione di
negoziazione assistita, e giunga ad un esito positivo, l’accordo avrà la stessa efficacia di un accordo
raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione.
Tuttavia, il vantaggi che sorgono dalla previa stipulazione della convenzione di negoziazione sono:
- effetti su prescrizione e decadenza;
- esecutività ex lege del contratto;
- in caso di non accettazione dell’invito, effetti ex art.4.
la finalità della convenzione sta nel facilitare la trattativa tra le parti.
Esecutività. L’accordo costituisce titolo esecutivo e titolo perl’ iscrizione dell’ipoteca giudiziale, a
condizione che sia sottoscritto anche dagli avvocati delle parti, e che questi ne certifichino la
conformità alle regole imperative e all’ordine pubblico. Si tratta di un titolo documentale di cui
circola l’originale, perciò non è necessaria la spedizione in forma specifica ex art.745 cpc.
Negoziazione obbligatoria.
L’art.3 prevede le ipotesi in cui la negoziazione assistita è obbligatoria, e quindi è considerata come
condizione di procedibilità per il giudizio; essa è un presupposto processuale. Le ipotesi sono:
 Controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti;
 Domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50mila euro.
- domanda di pagamento: la richiesta deve essere di condanna, non è sufficiente una
mera richiesta di accertamento o costitutiva;
- somme non eccedenti i 50mila euro: l’oggetto della domanda può essere solo una
somma di denaro;
- a qualunque titolo: tutte le controversie di diritto privato.
L’obbligo di stipulare una convenzione di negoziazione assistita è escluso nei seguenti casi:
 diritti indisponibili;
 controversie in materia di lavoro;
 controversie assoggettate alla mediazione obbligatoria: se è prevista la mediazione
obbligatoria, non si può applicare la negoziazione obbligatoria, ma nelle altre ipotesi di
mediazione, è possibile applicare cumulativamente anche la negoziazione assistita;
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 obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori;
 quando la parte può stare in giudizio personalmente;
 nei procedimenti per ingiunzione;
 nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva;
 nel procedimenti incidentali al processo esecutivo;
 nei procedimenti in camera di consiglio;
 nell’azione civile esercitata in un processo penale.
La condizione di procedibilità è soddisfatta con l’invio all’altra parte di un invito a stipulare la
convenzione di negoziazione assistita; questo invito non diverge da quello visto precedentemente
per la negoziazione assistita volontaria.
Una volta ricevuto l’invito, l’altra parte può:
- accettarlo  l’accordo si perfeziona quando il proponente viene a conoscenza
dell’accettazione dell’invito;
- rifiutarlo  il proponente può proporre domanda giudiziale appena viene a conoscenza del
rifiuto;
- non rispondere  il proponente può proporre domanda giudiziale dopo che sia decorso un
mese dalla ricezione dell’invito.
Abbiamo visto che il previo esperimento della negoziazione è presupposto processuale in questi
casi: la sua mancata attuazione può essere sollevata dal convenuto oppure d’ufficio, non oltre la
prima udienza; dopodiché la questione rimane preclusa.
- Se il giudice ritiene che la controversia rientri in quelle per le quali la previa negoziazione è
obbligatoria, ma questa non è stata esperita, egli assegna un termine di 15gg per invitare
l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione, e fissa la successiva udienza 4
mesi e 15gg dopo (15gg per comunicare l’invito; 1 mese per comunicare se l’altra parte
aderisce o no; 3 mesi per svolgere la negoziazione).
Se l’invito è stato fatto ma non è ancora decorso un mese dalla sua ricezione, la successiva
udienza è fissata dopo 3 mesi + il tempo residuo che la parte ha per accettare;
se la convenzione di negoziazione è stata stipulata ma è ancora in corso la negoziazione, la
successiva udienza è fissata dopo lo scadere dei 3 mesi dalla stipulazione.
- Se il giudice ritiene infondata l’eccezione sollevata dal convenuto e la rigetta, questi potrà
riproporre la questione in sede di precisazione delle conclusioni oppure appellando
(immediatamente o facendo riserva) la sentenza non definitiva che decide dell’infondatezza
dell’eccezione.
- Se il giudice abbia erroneamente chiuso in rito il processo, qualificando come necessaria la
negoziazione in un caso in cui invece non lo era, la parte potrà reclamare l’ordinanza di
estinzione o appellare la sentenza di chiusura in rito.
Nel caso in cui durante il processo vengano proposte ulteriori domande rispetto alla principale,
rispetto ad esse non sussiste la condizione di procedibilità, quindi non deve essere effettuata la
previa negoziazione: questo comporterebbe infatti una dilazione di 4 mesi e 15gg per ogni domanda
proposta.

CAP. 7 – La negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio


Essa è disciplinata dall’art.6 del D.L.132/2014; prima di esso, separazione e divorzio e la modifica
delle loro condizioni dovevano necessariamente essere stabilite in via giurisdizionale. Ora gli stessi
effetti possono essere prodotti senza l’intervento del giudice.
Condizione necessaria ed ineliminabile è che vi sia un accordo tra le parti; se esso manca, è
necessario ricorrere al giudice.
Ambiti in cui si può ricorrere alla negoziazione assistita quindi sono:
a) Separazione consensuale dei coniugi  sufficiente il consenso delle parti;

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b) Divorzio: scioglimento del matrimonio o annullamento degli effetti civili dello stesso 
necessaria la sussistenza effetiva di uno dei requisiti dell’art.3, L.898/70, quindi la concorde
volontà delle parti non è rilevante. Si tratta comunque di un diritto indisponibile. Inoltre la
negoziazione assistita in questo caso è consentita limitatamente alla fattispecie prevista
dall’art.3, I n.2, lett. b), L898, ossia quando la separazione sia avvenuta da 6 mesi
(consensuale) o da 12 mesi (contenziosa). Per le altre ipotesi dell’art.3 non è possibile
ricorrere alla negoziazione;
c) Rapporti economici fra coniugi  si tratta di diritti disponibili, transigibili e rinunciabili. Il
giudice non può in alcun modo sindacare la volontà negoziale delle parti;
d) Disciplina personale ed economica relativa ai figli minori ovvero maggiorenni portatori di
handicap grave o incapaci  il giudice interviene nell’interesse di questi soggetti, rispetto ai
quali i coniugi sono meri obbligati. L’unico limite è che se il giudice ritiene opportuno –
nell’interesse dei figli – derogare alle disposizioni concordate tra i coniugi, egli deve
esporne i motivi;
e) Disciplina economica relativa a figli maggiorenni economicamente non autosufficienti  i
loro diritti sono nella loro piena titolarità, e sono anch’essi disponibili, transigibili e
rinunciabili.
L’accordo raggiunto in seguito alla convenzione di negoziazione produce gli stessi effetti dei
provvedimenti giudiziali e si sostituisce ad essi. Tuttavia è necessario che l’accordo sia sottoposto a
valutazione del PM (procuratore della repubblica presso il tribunale competente per la proposizione
della domanda giudiziale). Questa valutazione avviene con modalità diverse, a seconda che vi siano
o meno figli (minori, maggiori con handicap o incapaci, maggiori non autosufficienti).
A. Non vi sono figli delle categorie indicate.
Il PM concede un nulla osta per la trasmissione dell’accordo all’ufficiale di stato civile, se
non ravvisa alcuna irregolarità.
a) In caso di separazione, o c) sia per separazione che per divorzio, oppure di
modificazione delle condizioni di separazione o divorzio, il controllo del PM è
limitato ai profili di regolarità formale;
b) In caso di divorzio il discorso è più complesso perché l’unica ipotesi in cui la
negoziazione è concessa, rimane comunque un diritto indisponibile. Il PM. Oltre a
verificare la regolarità formale dell’accordo, deve verificare che sussistano tutti i
presupposti di fatto che legittimano il divorzio (separazione consensuale omologata o
sentenza di separazione contenziosa che sia passata in giudicato; decorso
rispettivamente di 6 o 12 mesi dalla comparizione delle parti dinnanzi al presidente
del tribunale). Quindi gli avvocati dovranno trasmettere al PM la prova documentale
dei fatti rilevanti sopra indicati.
La disposizione non prevede due termini:
1. Termine entro il quale l’accordo deve essere trasmesso al PM  siccome è
nell’interesse delle parti, ciò avverrà in un termine breve;
2. Termine entro il quale il PM deve provvedere  il passare del tempo non comporta
conseguenze rispetto alla validità dell’accordo.
Se il nulla osta viene negato, le parti possono alternativamente modificare l’accordo
eliminando i difetti evidenziati dal PM e ripresentarlo alla procura, o proporre direttamente
domanda giudiziale di separazione consensuale o divorzio congiunto.

B. Vi sono figli delle categorie indicate.


c) Se il PM ritiene l’accordo conforme agli interessi dei figli, lo autorizza.
d) In caso contrario, lo trasmette entro 5gg al presidente del tribunale, il quale fissa la
comparizione delle parti entro i successivi 30gg, e “provvede senza indugio”.
L’opinione negativa del PM non è reclamabile, ma è automaticamente trasmessa al
presidente del tribunale.
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Il presidente del tribunale non è condizionato dal parere del PM. Se anch’egli ha opinione negativa
sull’accordo, i coniugi possono predisporre un diverso accordo oppure proporre domanda
giudiziale. Se invece il presidente del tribunale ritiene l’accordo conforme all’interesse dei figli,
questo può acquisire efficacia.
In entrambi i casi, l’accordo viene depositato entro 10gg presso l’ufficio di stato civile del comune
in cui il matrimonio è stato iscritto o trascritto; se il termine non è rispettato, viene inflitta una
sanzione amministrativa (da 2mila a 10mila euro). Il termine di 10gg decorre da quando la
segreteria della procura rilascia copia del nullaosta o dell’autorizzazione del PM.
Infine, l’art.12 prevede la possibilità di stipulare l’accordo dinnanzi all’ufficiale di stato civile del
comune in cui è stato iscritto o trascritto il matrimonio, ovvero del comune di residenza di uno dei
coniugi. In questo caso l’assistenza dell’avvocato è facoltativa e la procedura è possibile solo ove
non vi siano figli delle categorie viste.
I coniugi devono presentarsi insieme presso l’ufficiale e ciascuno di essi deve dichiarare di volere la
separazione, il divorzio, o modificarne le condizioni; dopodiché viene immediatamente compilato e
sottoscritto l’accordo. L’accordo non può prevedere trasferimenti di diritti reali per i quali è prevista
la trascrizione.
e) In caso di separazione (l’ufficiale deve solo prendere atto del consenso dei coniugi) o
divorzio (l’ufficiale deve verificare la sussistenza dei presupposti ex art.3 L.898/70),
dopo aver reso le dichiarazioni e aver compilato l’atto, le parti devono nuovamente
recarsi presso l’ufficiale dopo almeno 30gg e confermare quanto dichiarato in
precedenza. Le parti possono presentarsi anche separatamente; se una di esse non si
presenta, l’accordo non ha effetto.
f) Se si tratta di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, l’atto è
immediatamente efficace.

CAP. 8 – L’arbitrato: profili generali


L’arbitrato (artt.806-832 cpc) è un mezzo alternativo di risoluzione delle controversie, una forma di
giustizia privata; si tratta dello stesso tipo di attività che si svolge di fronte ad un giudice dello
Stato, e produce gli stessi risultati, con la differenza che in questo caso l’arbitro è investito dal
consenso di entrambe le parti e non solo da quella istante.
L’arbitrato costituisce una fattispecie eteronoma di risoluzione non giurisdizionale delle
controversie: dunque è un terzo ad individuare le regole di condotta concrete che si sostituiscono a
quelle sostanziali generali e astratte. La decisione è necessariamente presa sulla base di una
valutazione di fondatezza delle rispettive pretese; l’atto dell’arbitro è vincolante senza che i suoi
destinatari debbano approvarne il contenuto e quindi è necessario che vengano rispettate le regole
che ne disciplinano la formazione (rispetto del contraddittorio e difesa).
L’attività dell’arbitro (che è un soggetto privato) coincide sostanzialmente con quella del giudice e
gli effetti del lodo sono uguali a quelli della sentenza. Tuttavia, il processo e la decisione arbitrali
non possono ritenersi esercizio di attività giurisdizionale (intesa come attività autoritativa ex art.102
Cost.), per il fatto che il giudice decide a prescindere dal consenso delle parti, mentre l’arbitro è un
privato a cui il potere di decidere è fornito dalla volontà di tutti i soggetti destinatari degli effetti
della decisione arbitrale.
Nell’analizzare i rapporti tra arbitrato e giurisdizione bisogna quindi tenere distinti due profili:
 Regime degli atti del processo e della decisione arbitrale: completamente diverso da quello
giurisdizionale perché quest’ultimo si fonda sull’autorità del giudice, mentre l’arbitrato si
fonda sul consenso;
 Identità degli effetti che vengono prodotti: essa non postula affatto un’identica natura
dell’atto.
in ordine al tipo di effetto gli atti sono fungibili.
È quindi inutile porsi il problema della compatibilità dell’arbitrato con l’art.102 Cost., poiché
l’arbitrato non è giurisdizione; lo stesso vale per la compatibilità con l’art.25 Cost. (nessuno può
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essere distolto del giudice naturale precostituito per legge), perché anche questo articolo si applica
all’attività giurisdizionale.
Il problema più importante sorge rispetto alla compatibilità con l’art.24 Cost. poiché l’arbitrato
comporta l’impossibilità per le parti di potersi poi rivolgere anche ad un giudice. Per risolvere il
problema, è necessario che le garanzie del processo arbitrale siano analoghe a quelle del processo
giurisdizionale: le parti avranno quindi diritto di difesa, devono essere poste in grado di proporre
domande (pena la nullità del lodo), di effettuare difese, di richiedere mezzi istruttori, di esporre le
proprie ragioni dinnanzi all’arbitro  nonostante le parti abbiano voluto sostituire l’attività
giurisdizionale con la giustizia privata, esse devono comunque godere in tale sede di un diritto di
difesa che non può differire da quello garantito davanti ad un giudice.
La Corte Cost. ha costantemente dichiarato illegittime le norme che prevedono ipotesi di arbitrato
obbligatorio: ciò non significa che l’arbitrato debba necessariamente fondarsi su una fonte
autonoma (convenzione di arbitrato), ma è sufficiente che ciascuna delle parti possa scegliere tra
arbitrato e giurisdizione.
L’art.806 cpc prevede che l’unico limite alle controversie arbitrali, oltre a quelli previsti
espressamente dalla legge, è l’indisponibilità del diritto. Ricordiamo che un diritto si ritiene
indisponibile quando, rispetto ad esso, le parti non abbiano potere negoziale. Ove non c’è potere
negoziale, non c’è neanche arbitrabilità  l’eventuale patto compromissorio relativo ad un diritto
indisponibile non ha effetti, e l’eventuale decisione arbitrale sarebbe nulla: non sarebbe neanche
necessario impugnarla immediatamente, poiché l’inefficacia del lodo è rilevabile in qualunque sede
ed in ogni momento visto che esso in ogni caso non può produrre effetti anche se non viene
impugnato.

CAP. 9 – La convenzione di arbitrato


Gli strumenti che si possono usare per stipulare una convenzione di arbitrato sono due; producono
gli stessi effetti, ma hanno caratteristiche diverse.
Compromesso, art.807 cpc.
Ha ad oggetto le controversie già insorte tra le parti: il diritto è quindi già individuato ed è certo che
la sua stipulazione sarà seguita da un processo arbitrale. Il compromesso ha effetti esclusivamente
per quella controversia e quindi con la pronuncia del lodo, il compromesso perde i suoi effetti
(art.808quinquies cpc).
Clausola compromissoria, art.808 cpc.
Ha ad oggetto le controversie future, non ancora sorte; le parti pattuiscono la via arbitrale per
l’eventualità che tra loro nasca una controversia.
Le differenze con il compromesso sono:
g) non è detto che la controversia sorga  è possibile che alla stipulazione della
clausola non segua alcun processo arbitrale;
h) la stessa clausola può sorreggere una pluralità di arbitrati;
i) poiché la controversia è futura, e quindi non individuata nello specifico, allorché esse
sorga, si rende necessario un atto che individui la concreta e specifica controversia
da sottoporre a decisione.
Tipologie di controversie che possono essere sottoposte a clausola compromissoria:
 Controversie contrattuali: il contratto a cui la clausola si riferisce deve essere
determinato. Il requisito è soddisfatto anche quando è determinato il suo contenuto
tipico, ma non la controparte contrattuale.
 Controversie non contrattuali: è necessario che la controversia sia relativa ad un rapporto
determinato (es. diritti reali, controversie di diritto pubblico che riguardano diritti
soggettivi, controversie successorie).
 Clausole compromissorie contenute negli atti costitutivi o statuti delle società:
disciplinate dagli artt.34-35-36, d.lgs.5/2003  non si applicano le regole di diritto
comune che siano contrastanti con questi articoli.
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Requisiti: società commerciali (quindi escluse società semplici) che non fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio (quindi escluse le società con azioni quotate in mercati
regolamentati o diffuse tra il pubblico in maniera rilevante).
La ratio della norma trova il suo fondamento della tipologia dei soci delle società
escluse: essi sono prevalentemente soggetti investitori, che non sono interessati
all’amministrazione della società, e molto probabilmente non ne conoscono lo statuto o
l’atto costitutivo.
Se la società dovesse introdurre una clausola compromissoria nel proprio statuto, ma poi
perdere i requisiti (quindi iniziare ad avere azioni quotate in mercati regolamentati o
diffuse tra il pubblico), per verificare la validità della clausola, si deve considerare la
situazione esistente allorché sorge la controversia.
L’art.34 prevede maggioranze qualificate per l’introduzione della clausola
compromissoria nello statuto; i soci assenti o dissenzienti possono recedere dalla
società. Questa norma non si applica alle società di persone, le quali esigono
l’unanimità.
La clausola compromissoria statutaria può riguardare “alcune o tutte le controversie
insorgenti tra i soci, ovvero tra i soci e la società, che abbiano ad oggetto diritti relativi al
rapporto sociale”  esistenza/inesistenza, qualificazione o disciplina del rapporto
sociale; diritti che trovano la loro fattispecie costitutiva nel rapporto sociale.
L’ultimo comma dell’art.808 cpc prevede l’autonomia della clausola compromissoria: sia la sua
validità che la sua efficacia devono essere valutate autonomamente rispetto al contratto a cui essa si
riferisce; la cessazione del contratto o del rapporto non fa cessare gli effetti della clausola, sicchè
spetterà agli arbitri pronunciarsi sulle controversie relative alle conseguenze derivanti dalla fine del
rapporto.
Compromesso e clausola compromissoria devono avere la forma scritta a pena di nullità: si tratta di
forma scritta ad substantiam.
Efficacia soggettiva della convenzione di arbitrato.
Come abbiamo già visto, la convenzione di arbitrato è vincolante solo se il consenso per la via
arbitrale viene da tutti i soggetti che possono disporre del diritto oggetto del processo arbitrale.
È necessario chiedersi se potranno essere vincolati alla via arbitrale anche soggetti che non hanno
espresso la loro volontà in tal senso.
 Compromesso: affinchè il compromesso sia vincolante anche per i successori nel diritto, è
necessario che siano rispettate le regole che rendono opponibili gli atti ai terzi.
 Clausola compromissoria: può vincolare i successori delle parti, ma non i terzi titolari di un
diritto preesistente. Ciò vale sia per i diritti (controversie contrattuali), che per i rapporti
(controversie extracontrattuali), che per le clausole contenute negli statuti societari (infatti,
chi entra in un’organizzazione preesistente deve necessariamente accettare le regole ivi
vigenti). Tuttavia, in quest’ultimo caso vi sono dubbi sulla legittimità costituzionale della
disposizione che consente di estendere la clausola statutaria alle controversie promosse da
amministratori, liquidatori o sindaci, ovvero nei loro confronti. Questa disposizione sembra
integrare un ipotesi di arbitrato obbligatorio (che abbiamo visto essere illegittimo), poiché i
tre soggetti, nell’accettare la carica, non manifestano alcuna volontà specifica nella
direzione della via arbitrale.

L’art.808quinquies stabilisce che la conclusione del procedimento arbitrale senza una pronuncia di
merito non toglie efficacia alla convenzione di arbitrato  non si applica la regola del ne bis in
idem. Se l’arbitrato non si chiude con una pronuncia di merito, è necessario verificare se la ragione
della sua chiusura è ostativa ad un nuovo processo arbitrale ( la controversia andrà di nuovo
sottoposta agli arbitri), oppure no ( la controversia andrà sottoposta al giudice).

17
CAP. 10 – L’arbitrato irrituale
L’arbitrato irrituale (detto anche libero o contrattuale), trova le sue radici nell’autonomia privata.
Infatti, gli artt.806 ss non creano l’arbitrato, ma lo regolano; l’arbitrato può esistere anche a
prescindere da un riconoscimento legislativo espresso.
L’art.808ter prevede che “le norme in materia di arbitrato trovino sempre applicazione in presenza
di un patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa volontà espressa dalle parti di
derogare alla disciplina legale. Rimangono fermi in ogni caso il principio del contraddittorio, la
tutela cautelare e la sindacabilità dei vizi del procedimento.”
Anche per l’arbitrato irrituale vale il limite dell’indisponibilità del diritto, e la struttura del
procedimento non può essere diversa da quella dell’arbitrato rituale: dovrà consentire alle parti di
esprimere le proprie ragioni, provarle e discuterle.
La vera differenza tra i due istituti è l’efficacia del lodo come titolo esecutivo. La parte vincente
nell’arbitrato irrituale non può ottenere un titolo esecutivo attraverso il deposito del lodo in
cancelleria, ma deve procurarselo in via giurisdizionale.
Un’ulteriore differenza riguarda il regime dell’atto. Ciò non significa che i due lodi abbiano effetti
diversi: è ben possibile che due atti producano gli stessi effetti, pur avendo regimi diversi.
Le contestazioni contro il lodo rituale devono avvenire necessariamente con i mezzi di
impugnazione previsti dall’art.827 cpc; invece le contestazioni contro il lodo irrituale si fanno
valere in un normale processo di cognizione.
Ci si deve chiedere come mai il legislatore abbia regolato un fenomeno che attiene all’autonomia
privata. Lo scopo è quello di (1) individuare un criterio per stabilire se la convenzione di arbitrato
fonda un arbitrato rituale o irrituale e (2) di stabilire volta per volta quali norme dell’arbitrato rituale
siano applicabili a quello irrituale.
1.La scelta fra arbitrato rituale e irrituale è totalmente affidata alle parti, e deve emergere con
chiarezza. Nei casi dubbi, l’arbitrato è qualificato come rituale.
2.Una volta stabilito che le parti vogliono un arbitrato irrituale, si applicheranno tutte le norme
previste dal codice per l’arbitrato rituale, salvo che le parti dichiarino di volere diversamente, e con
esclusione delle norme che fondano la differenza tra le due forme di arbitrato.
Per quanto riguarda i motivi di invalidità del lodo, essi derivano dal mancato rispetto della volontà
delle parti con riferimento al procedimento. Solo in due punti la volontà del legislatore prevale su
quella delle parti: per la scelta dell’arbitro e per la disciplina della decisione extra compromissum.
Il principio del contraddittorio è espressamente previsto come motivo di invalidità del lodo.
Tuttavia, ciò che conta è che nel processo arbitrale il contraddittorio sia stato in concreto rispettato;
è indifferente che ciò sia avvenuto violando le norme processuali. Quindi, anche se le norme
processuali previste dalle parti non consentivano il rispetto del contraddittorio, ma poi in concreto
esso è stato attuato, il lodo non potrà essere invalido per la violazione del principio del
contraddittorio.
Per quanto riguarda l’ordine pubblico, esso costituisce motivo di invalidità del lodo, anche se non è
espressamente previsto come tale. Anche qui, è il contenuto concreto del lodo a determinare la sua
contrarietà all’ordine pubblico.
Quali sono dunque i motivi che possono indurre le parti a scegliere un arbitrato irrituale al posto di
uno rituale?
j) La parte soccombente di un lodo rituale ritenuto invalido deve attivarsi per
contestare lo stesso nei termini di decadenza previsti, ed è tenuta nel frattempo
all’adempimento.
k) La parte soccombente di un lodo irrituale invece può sempre far valere i vizi del lodo
quando questo sarà usato contro di lei, e potrà ottenere che tali vizi siano esaminati
prima di essere chiamata all’adempimento coattivo.
Se il lodo è effettivamente invalido, è preferibile l’arbitrato irrituale; se il lodo è valido è
preferibile invece l’arbitrato rituale.

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CAP. 11 – Arbitrato ad hoc, arbitrato amministrato, arbitrato dei gruppi
1)Arbitrato ad hoc o singolo
Si riferisce ad una singola controversia o ad un singolo rapporto, contrattuale o non contrattuale. Le
parti si limitano a pattuire la via arbitrale: sarà necessario quindi individuare gli arbitri, le regole del
procedimenti, le regole della decisione, ecc.
Le regole del procedimento possono essere individuate dagli arbitri oppure dalle parti.
In quest’ultimo caso esse possono fare riferimento ad un regolamento arbitrale preesistente
 art.832, commi 2, 3 e 5.
Comma 2: in caso di contrasto tra il regolamento richiamato e quanto le parti hanno stabilito
autonomamente nella convenzione di arbitrato, prevale la volontà delle parti.
Comma 3: salva diversa espressione delle parti, si applica il regolamento vigente quando l’arbitrato
ha inizio.
Comma 5: il regolamento richiamato dalle parti può introdurre fattispecie di sostituzione e
ricusazione ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge, ma non ridurre quelle previste dal codice.

2)Arbitrato amministrato
Esistono organizzazioni (es. Camere di commercio) che offrono un “pacchetto” di servizi ai clienti
e mettono a disposizione un elenco di soggetti disponibili a svolgere funzioni di arbitro, con un
compenso prefissato e un regolamento arbitrale.
Anche in questo caso, come nell’1), abbiamo l’adesione volontaria delle parti, la scelta degli arbitri
e delle regole sostanziali per la decisione.
Viene così ad instaurarsi un rapporto tra l’istituzione arbitrale e le parti, che viene sancito nel
contratto di amministrazione dell’arbitrato. In caso di contrasto tra il regolamento dell’istituzione e
la volontà delle parti, l’istituzione può rifiutare di condurre l’arbitrato, se non ritiene di accettare le
modifiche proposte dalle parti. Inoltre, se le parti hanno previsto l’applicazione di un regolamento
non più vigente nel momento in cui l’arbitrato ha inizio, l’istituzione può rifiutare di condurre
l’arbitrato.
Sostanzialmente quindi, l’istituzione fa un’offerta al pubblico, e se le parti la accettano ma decidono
di modificarla, ciò equivale ad una nuova proposta; il relativo contratto si perfezione quando la
notizia dell’accettazione perviene al proponente. Se le parti non hanno comunicato all’istituzione di
aver accettato la sua proposta, il contratto si conclude quando una di esse – sorta la controversia – si
rivolge all’istituzione perché gestisca l’arbitrato.
Ex art.832, comma 4: le istituzioni di carattere associativo e quelle costituite per la rappresentanza
degli interessi delle categorie professionali, non possono nominare arbitri nelle controversie che
contrappongono i propri associati o appartenenti alla categoria professionale, a terzi.
Viceversa, nulla impedisce che queste istituzioni nominino arbitri nelle controversie interne fra i
propri associati o i propri appartenenti alla categoria professionale: in questo caso l’istituzione è
ugualmente vicina agli interessi in conflitto.
Comma 6: ipotesi di conversione dell’arbitrato amministrato in arbitrato ad hoc. Se l’istituzione si
rifiuta di amministrare l’arbitrato, la convenzione di arbitrato non perde effetti e l’arbitrato si svolge
secondo le disposizioni del cpc.

3)Arbitrato dei gruppi o istituzionale


È tipico degli ordinamenti organizzati; si ha nelle ipotesi in cui un gruppo di persone intenda
disciplinare i loro rapporti istituendo delle autorità con la funzione di applicare le regole vigenti nel
gruppo. Qui la volontà sussiste solo al momento dell’adesione all’organizzazione, mentre il resto è
rimesso alle regole interne di nomina degli organi di giustizia.
L’attività di giustizia interna ai gruppi equivale all’attività giurisdizionale dell’ordinamento
giuridico formato dal gruppo. Gli organi interni incaricati della risoluzione delle controversie sono
costituiti una volta per tutte secondo le regole interne: essi sono strutture stabili.

19
L’adesione al gruppo determina la competenza degli organi interni di giustizia anche per le
controversie relative a diritti sorti prima; viceversa, la convenzione di arbitrato perde effetti con
l’uscita dal gruppo, anche se la controversia riguarda diritti sorti quando il soggetto faceva ancora
parte del gruppo.

CAP. 12 – Gli arbitri


La posizione degli arbitri ed il loro ruolo dipendono dalla volontà delle parti: solo se le parti gli
conferiscono potere, la pronuncia dell’arbitro può essere per loro vincolante. Abbiamo visto che
l’arbitrato è uno strumento alternativo alla giurisdizione, e quindi è necessario che l’arbitro sia
equidistante dalle parti: deve porsi come terzo non interessato  equidistanza fra gli interessi in
conflitto ed indifferenza rispetto alla soluzione della controversia. L’imparzialità dell’arbitro deve
essere valutata globalmente: se l’arbitro è unico, la persona fisica deve essere equidistante; se
l’arbitro è un organo collegiali, l’equidistanza va ricercata nel bilanciamento delle posizioni dei
singoli arbitri membri.
L’imparzialità è pregiudicata quando:
l) Vi sono rapporti personali o professionali con le parti ed i loro legali 
personalmente vicino ad uno dei soggetti del processo;
m) Non indifferenza rispetto agli interessi in conflitto in sé  ideologicamente vicino
agli interessi.
La nomina degli arbitri può avvenire ad opera:
a) delle parti: si tratta della c.d. clausola binaria. La parte che prende l’iniziativa di
promuovere l’arbitrato nomina un arbitro; notifica l’atto di nomina alla controparte; la invita
a provvedere alla nomina del secondo arbitro entro 20gg. Il terzo arbitro sarà il presidente
del collegio e viene scelto di comune accordo dalle parti, oppure dai due arbitri già
nominati. Se le parti o gli arbitri non riescono a trovare un accordo, provvede il presidente
del tribunale a nominare il terzo arbitro.
Se la controparte non provvede a nominare il proprio arbitro, la parte istante può chiedere al
presidente del tribunale di agire in sostituzione della parte inerte (art.810cpc).
Quando la nomina degli arbitri è rimessa alle parti, vige il principio di ordine pubblico
processuale – inderogabile anche dalla volontà delle parti – in virtù del quale nessuna delle
parti deve avere più potere dell’altra nella scelta degli arbitri. Con “parte” si intende il
nucleo di interessi contrapposti. Se i nuclei di interessi sono di numero dispari, poiché
l’art.809 cpc prevede che i collegi debbano essere costituiti da un numero di arbitri dispari,
l’ulteriore arbitro è nominato secondo quanto disposto dalle parti o, in mancanza, da un
organo imparziale ed equidistante come il presidente del tribunale; anche se il numero degli
arbitri indicati dalle parti è pari, l’ulteriore arbitro è nominato dal presidente del tribunale,
salvo che le parti non abbiano disposto diversamente.
b) di un terzo: ciò accade più frequentemente quando si deve nominare un arbitro unico. Qui
vige il principiò dell’imparzialità del terzo designante, anch’esso inderogabile.
Per gli arbitrati previsti da clausole compromissorie statutarie, l’arbitro o il collegio arbitrale
devono essere nominati da un soggetto terzo esterno alla società, lontano anche
ideologicamente dagli interessi in conflitto – a pena di nullità; la scelta del terzo è ad opera
della società, e questo diviene molto rilevante quando la società sia parte in causa. In questi
casi viene nominato un soggetto che garantisce la sua terzietà istituzionalmente (es.
presidente tribunale), oppure si fa ricorso all’arbitrato amministrato. Alle parti è quindi
sottratto per intero il potere di nominare gli arbitri. Ci sono dei casi in cui la plurisoggettività
impedisce che siano le parti a nominare gli arbitri, e uno di questi casi si realizza spesso in
materia societaria. Tuttavia si ritiene lecito sacrificare il potere di nomina al fine di
consentire la realizzabilità dell’arbitrato. Come detto sopra, è imposta a pena di nullità la
nomina degli arbitri da parte di un terzo, nei casi di arbitrato societario.

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La clausola sarà quindi nulla se conferisce il potere di nomina alle parti, mentre non lo sarà
se non indica il terzo che vi deve provvedere.

Ex art.811 cpc, se l’arbitro viene a mancare, esso verrà sostituito da un arbitro scelto stesso soggetto
che ha nominato l’arbitro originario, e con le stesse modalità.
In caso di arbitro inerte, che non partecipi alle udienze o alla deliberazione del lodo, l’art.813bis
prevede che l’arbitro potrà essere sostituito se le parti sono tutte d’accordo; se non vi è l’accordo
delle parti, l’arbitro inerte può essere diffidato e – decorsi 15gg dalla ricezione della diffida senza
che egli si sia attivato – ciascuna delle parti può fare ricorso al tribunale chiedendo che venga
dichiarato decaduto e che venga nominato un suo sostituto. In caso di inerzia dell’arbitro, infatti, la
decisione diviene impossibile.
In caso di non imparzialità dell’arbitro (personale o ideologica), si può rimediare tramite la
ricusazione, ex art.815 cpc. La ricusazione si fonda su sei fattispecie:
a) laddove le parti abbiano pattuito che l’arbitro dovesse rivestire determinate qualifiche, che
nel caso concreto mancano;
b) se l’arbitro ha interesse nella causa o è tutore/curatore/amministratore di
sostegno/procuratore/agente/datore di lavoro di una delle parti, oppure amministratore di un
ente /associazione/comitato/società/stabilimento che ha interessi in causa;
c) se l’arbitro o il/la coniuge è parente fino al quarto grado/convivente/commensale abituale di
una delle parti o dei difensori;
d) se l’arbitro o il/la coniuge hanno rapporti di grave inimicizia con una delle parti o dei
difensori;
e) se l’arbitro ha un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato con la parte o una società
da essa controllata, ovvero se l’arbitro ha qualsiasi altro rapporto di natura patrimoniale o
associativa con la parte, che ne comprometta l’indipendenza;
f) se l’arbitro ha dato consiglio o patrocinio nella causa, o deposto in essa come testimone, o
ha conosciuto la causa in ragione della sua funzione di arbitro, o vi ha prestato consulenza
come consulente tecnico.
La parte può ricusare l’arbitro che essa stessa ha designato qualora al momento della nomina non
fosse a conoscenza dei motivi di ricusazione.
Per il procedimento di ricusazione è competente il presidente del tribunale ; l’istanza deve essere
proposta entro 10gg dalla scoperta della nomina o della causa di ricusazione. Il presidente del
tribunale deve sentire l’arbitro ricusato e le parti (ma non gli altri arbitri), se necessario assume le
sommarie informazioni e decide con ordinanza non impugnabile, provvedendo anche alle spese del
procedimento di ricusazione.
L’istanza di ricusazione non sospende automaticamente il processo arbitrale, salvo che gli arbitri
non dispongano diversamente. Se la ricusazione è accolta, diviene inefficacie tutta l’attività svolta
dall’arbitro. Tuttavia, il procedimento di ricusazione è abbastanza rudimentale, e per questo non è
idoneo a statuire definitivamente su una questione così importante; la sua funzione è solo quella di
prevenire la pronuncia di un lodo potenzialmente annullabile. Se la ricusazione è tempestivamente
proposta, la questione potrà poi essere risollevata in sede di impugnazione del lodo; ma se la
ricusazione non viene proposta, in sede di impugnazione la questione riguardante l’arbitro rimarrà
preclusa.

Abbiamo visto che in diversi casi il presidente del tribunale è chiamato a fornire assistenza per
superare un ostacolo relativo agli arbitri: in caso di nomina (artt. 809 e 810), in caso di sostituzione
(art.813bis) , in caso di ricusazione (art.815) e per determinare il compenso degli arbitri (art.814).
Nel caso in cui le parti scelgano un arbitrato amministrato, tutte queste attività del presidente del
tribunale potranno benissimo essere svolte dall’istituzione arbitrale.

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Il contratto di arbitrato sancisce il rapporto tra ciascun arbitro e tutte le parti. L’unica condizione
che si pone per la sua realizzazione, è l’accettazione della nomina da parte degli arbitri. Si tratta di
un rapporto atipico.
L’art.813ter delinea tre fattispecie di responsabilità degli arbitri:
a) l’arbitro con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti, ed è stato perciò dichiarato
decaduto;
b) l’arbitro ha rinunciato all’incarico senza giustificato motivo;
c) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato
ex artt.820 o 826. Quindi, se è fatta valere fondatamente (in quanto si è verificato che il
termine è effettivamente decorso) la responsabilità degli arbitri, questi dichiarano estinto il
procedimento  l’arbitro è responsabile se non ha emanato il lodo in quanto il termine era
scaduto. Ove invece il lodo sia pronunciato oltre il termine, dovrà essere annullato per tale
motivo.
Inoltre, per le fattispecie generali di responsabilità, il legislatore ha equiparato la responsabilità
degli arbitri a quella dei magistrati.
Ex art.813ter, commi 3 e 4, la pendenza del processo arbitrale impedisce di proporre azioni di
responsabilità strumentali alla ricusazione degli arbitri. L’azione di responsabilità è esperibile solo
ove il lodo sia stato definitivamente annullato, e sempre che il motivo di annullamento del lodo
coincida con una fattispecie di responsabilità.
Quantificazione del danno: art.813ter, comma 5. Il limite massimo di risarcimento per
responsabilità coincide con il triplo del compenso pattuito, o del compenso previsto dalla tariffa
applicabile (se la tariffa ha max e min, si considera il massimo). In caso di dolo o di rinuncia
all’incarico senza giustificato motivo, invece, questi limiti non si applicano.
Comma 6: il diritto al compenso dell’arbitro si estingue ove sia accertata la responsabilità
dell’arbitro, si riduce ove il lodo sia dichiarato nullo solo in parte.
Comma 7: ogni arbitro risponde solo del fatto proprio.

Art.814: gli arbitri hanno diritto al compenso che consiste nel rimborso delle spese e nell’onorario
dell’opera prestata. Al pagamento sono tenute tutte le parti solidalmente tra loro: gli arbitri, per
ottenere il compenso, possono rivolgersi ad una qualunque delle parti; se poi si tratterà di quella
vittoriosa, questa avrà diritto di regresso nei confronti del soccombente indicato nel lodo. La
liquidazione del proprio compenso, fatta dagli arbitri, non è parte integrante del lodo e non ne
costituisce un elemento decisorio. Infatti, il collegio non può decidere sul proprio compenso, ma
solo fare una proposta alle parti, che per avere efficacia deve essere accettata; altrimenti, la
liquidazione è fatta dal presidente del tribunale (o dall’istituzione arbitrale in caso di arbitrato
amministrato).
Gli arbitri, con ricorso, chiedono al presidente del tribunale di determinare il compenso; questi
convoca le parti, quantifica il compenso con ordinanza (che è titolo esecutivo contro le parti)
reclamabile alla corte di appello.
Anche il reclamo è proposto con ricorso e si può chiedere alla corte di appello di sospendere
l’esecutività dell’ordinanza reclamata. Questa ordinanza non ha natura decisoria, e quindi non è
ricorribile in Cassazione ex art.111 Cost.

CAP. 13 – La domanda e l’oggetto dell’arbitrato


La domanda di arbitrato è l’atto con cui viene individuato l’oggetto del processo arbitrale. La
differenza con la domanda giudiziale sta in ciò: quest’ultima doveva avere un contenuto minimo,
mentre la domanda arbitrale non ha alcun tipo di limitazione nel suo contenuto, e può quindi
limitarsi a chiedere la decisione su uno solo degli elementi di un diritto. La domanda arbitrale può
avere un oggetto limitato solo se lo stabiliscono le parti. Esempi:
n) arbitrato dei consulenti tecnici: la parti chiedono al c.t. l’accertamento di un
elemento rilevante del rapporto (es. entità del danno) senza devolverlo agli arbitri.
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o) arbitrato sulla qualità: le parti chiedono agli arbitri di determinare solo se il bene o
l’opera hanno la qualità contrattualmente pattuita, senza devolvere loro tutte le
conseguenze.
L’oggetto del processo arbitrale:
p) compromesso: è determinato in esso stesso;
q) clausola compromissoria: poiché riguarda controversie future, è necessario un atto
successivo che individui le questioni devolute agli arbitri, una volta che la
controversia sia sorta.
L’atto che contiene la domanda, è quello con cui la parte procedente notifica all’altra la sua
intenzione di intraprendere l’arbitrato, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla
nomina degli arbitri. La forma di questo atto è libera e determinata dalle parti, tranne nel caso in cui
si intenda trascrivere la domanda di arbitrato: qui è richiesta la forma dell’atto pubblico o della
scrittura privata autenticata o verificata.
Gli effetti della domanda arbitrale sono gli stessi della domanda giudiziale: la prescrizione si
interrompe allorché una parte dichiara di voler intraprendere il processo arbitrale, e rimane sospesa
per tutta la durata dell’arbitrato.
È possibile trascrivere la domanda di arbitrato, al pari di quella giudiziale, e la litispendenza
arbitrale è quindi opponibile ai terzi. Inoltre è prevista la possibilità di tutela cautelare
(art.669octies) attraverso un provvedimento cautelare conservativo, che può essere emanato solo se
la parte propone la causa di merito entro un certo termine.
La domanda si considera proposta quando la parte istante ha fatto quanto doveva e poteva fare per
promuovere il processo arbitrale.

Cumulo oggettivo. È consentito proporre una pluralità di domande, purchè rientrino tutte nel patto
compromissorio, anche se non è necessario che rientrino tutte nella stessa convenzione di arbitrato.
Ovviamente le domande devono essere fra loro compatibili.
Litisconsorzio necessario. È possibile istituirlo solo allorché tutti i litisconsorti siano vincolati alla
via arbitrale, altrimenti è escluso anche per i litisconsorti che sono ad essa vincolati.
Cumulo processuale soggettivo. Si verifica allorché vi siano terzi titolari di situazioni sostanziali
diverse rispetto a quella per cui si è avuta la convenzione di arbitrato. Occorre che sussista anche in
relazione ai diritti connessi l’obbligo di ricorrere all’arbitrato. In alcuni di questi casi può risultare
problematico garantire un collegio equidistante dai centri di interessi in conflitto, quindi
l’art.816quater ha introdotto diversi meccanismi:
a) nomina effettuata ad opera di tutti gli interessati;
b) nomina rimessa ad un terzo individuato di comune accordo tra le parti;
c) i più convenuti nominano d’accordo un ugual numero di arbitri o ne affidano ad un terzo la
nomina.
Nei primi due casi tutti si trovano sullo stesso piano, quindi non sorgono problemi; invece, il
meccanismo c) non è sempre idoneo allo scopo: ciò accade quando vi sono più centri di interesse
posti tra loro in posizione subordinata o in posizione alternativa. In questi casi non è possibile avere
un collegio equilibrato con il meccanismo della clausola binaria, e sarà quindi necessario ricorrere
ai meccanismi di nomina di cui ai punti a) e b).
Partecipazione adesiva del terzo. Il terzo prende parte al processo altrui al solo scopo di essere
vincolato agli effetti del lodo, ma non introduce un nuovo oggetto al processo.
Tuttavia, la vincolatività del lodo si fonda sulla con sensualità di tutte le parti, e quindi sarà
necessario anche il consenso del terzo, ancorché intervenuto in via adesiva. Pertanto, se il terzo
intervenuto tramite chiamata in causa non innovativa non ha dato il suo consenso alla via
arbitrale, egli non può essere vincolato ad una decisione che provenga da una sede diversa da quella
giurisdizionale. Se invece il terzo acconsente alla via arbitrale, egli potrà essere vincolato al lodo,
ma solo se avrà uguale potere rispetto alle altre parti nella scelta degli arbitri.

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In caso di intervento volontario, invece, egli di per sé aderisce alla via arbitrale ed accetta gli
arbitri nominati; se però intende dedurre in giudizio anche il rapporto di cui è titolare (intervento
innovativo), le parti originarie del processo possono rifiutarsi di discutere della situazione
sostanziale del terzo, allorché essa non sia oggetto di patto compromissorio.
Riassumendo: la partecipazione del terzo in via non innovativa è possibile solo se essa deriva dalla
volontà del terzo stesso; se invece deriva dalla volontà delle parti (chiamata in causa), la
partecipazione del terzo è possibile solo se egli vi acconsente.
Affinchè si possano realizzare l’intervento innovativo o la chiamata in arbitrato del terzo, è
necessario anche il consenso degli arbitri; viceversa, in caso di intervento adesivo dipendente non è
richiesto il consenso delle parti originarie, né degli arbitri (art.816quinquies,commi 1 e 2).
Infine, il litisconsorte necessario che decida di intervenire volontariamente, non deve proporre
domande perché la domanda è unica ed è già stata proposta, e non deve ottenere il consenso delle
parti, perché non sussiste alcun loro interesse che possa essere pregiudicato dall’intervento del
litisconsorte pretermesso.
L’art.35, d.lgs. 5/2003 prevede che nel processo arbitrale nato da clausola compromissoria statutaria
si possa avere l’intervento volontario (1), su istanza di parte (2) o per ordine del giudice (3), di altri
soci.
1.Se l’intervento volontario è di tipo non innovativo, esso è possibile anche se la situazione
sostanziale che lega il terzo (socio) alle parti originarie non è compresa nel patto compromissorio;
se l’intervento è innovativo, invece, il nuovo oggetto deve essere compreso in un patto
compromissorio, e se non lo è, si rende necessaria l’accettazione delle parti e degli arbitri affinché
l’intervento possa avvenire.
2.Nell’arbitrato societario, soci e società sono vincolati alla clausola, e nessuna delle parti ha il
potere di nominare l’arbitro; pertanto, non si pone il problema di mettere il terzo in parità con le
parti per la nomina dell’arbitro. È necessario però che la domanda proposta contro il terzo rientri
nella clausola compromissoria.
3.La chiamata in causa ope iudicis è necessariamente non innovativa e la situazione sostanziale che
fa capo al terzo deve essere relativa al rapporto sociale. È necessario che tale situazione rientri nel
patto compromissorio e che il terzo chiamato venga messo in posizione di parità con le parti
originarie nella scelta degli arbitri. Se nessuna delle parti provvede a chiamare in causa il terzo,
l’arbitro potrà pronunciare un lodo con cui dichiara di non poter decidere.

L’art.111 cpc, successione nel diritto controverso, è applicabile anche all’arbitrato. Il successore
nel diritto controverso può impugnare il lodo anche se non ha partecipato al processo arbitrale.
Qualora vi siano cause connesse, l’art.819ter stabilisce che “la competenza degli arbitri non è
esclusa dalla connessione della controversia ad essi deferita con una causa pendente dinanzi al
giudice”.
Questioni pregiudiziali, art.819 cpc. Ipotesi in cui per decidere del diritto dedotto in arbitrato,
l’arbitro debba conoscere di una situazione giuridica diversa e pregiudiziale a quella dedotta in
giudizio. Rispetto a tali questioni, rilevanti per la decisione della controversia, l’arbitro ha una
illimitata cognizione anche se si tratta di situazioni indisponibili. Se poi la questione deve essere
decisa con efficacia di giudicato, ciò non potrà avvenire in sede arbitrale; si avrà quindi una
sospensione del processo arbitrale in attesa che la controversia pregiudiziale sia decisa in sede
giurisdizionale.
Il comma 2 dell’art.819 disciplina le questioni pregiudiziali arbitrabili: se esse rientrano nella
convenzione di arbitrato, è sufficiente la domanda di una parte per avere, oltre alla cognizione,
anche la decisione della questione; se invece la questione non rientra nella convenzione di arbitrato,
si rende necessaria la richiesta di tutte le parti.

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CAP. 14 – I rapporti fra arbitro e giudice
La convezione di arbitrato fonda il potere decisorio degli arbitri ed ostacola il potere decisorio del
giudice. L’art.819ter, III stabilisce che in pendenza del procedimento arbitrale non possono essere
proposte domande giudiziali aventi ad oggetto l’invalidità o inefficacia della convenzione di
arbitrato. Dunque, è possibili chiedere al giudice di valutare validità o efficacia della convenzione di
arbitrato prima che cominci l’arbitrato stesso; la sentenza che decide su validità/efficacia deve avere
effetti vincolanti per il giudice o l’arbitro, allochè in una delle due sedi sorga una controversia che
riguardi appunto la validità o efficacia della convenzione di arbitrato.
L’art.817 disciplina l’eccezione di incompetenza, e sancisce il principio secondo cui la parte deve
eccepire tempestivamente, durante il processo arbitrale, gli ostacoli che impediscono la decisione
nel merito della domanda ivi proposta; altrimenti la questione è preclusa e non potrà essere posta a
fondamento dell’impugnazione per nullità.
Comma 1: “Se la validità, il contenuto o l’ampiezza della convenzione di arbitrato o la regolare
costituzione degli arbitri sono contestata nel corso dell’arbitrato, i giudici decidono sulla propria
competenza” . La prima parte di questo comma riguarda la sussistenza del potere degli arbitri di
decidere nel merito la controversia, in ragione della convenzione di arbitrato. Ciò accade quando si
contesta appunto la validità/contenuto/ampiezza della convenzione di arbitrato, ad esempio
sostenendo che la domanda proposta non rientra nell’oggetto della convenzione. La seconda parte
del comma riguarda la regolare costituzione degli arbitri, e attiene a tutti i profili relativi al numero,
alla nomina e alla capacità degli arbitri (non rientrano invece i motivi di ricusazione ex art.815
poiché essi non sono sottoposti alla cognizione degli arbitri).
Comma 2: “Questa disposizione si applica anche se i poteri degli arbitri sono contestati in
qualsiasi sede per qualsiasi ragione sopravvenuta nel corso del procedimento”. Ad esempio, casi di
estinzione per mancata tempestiva riassunzione, casi di processo improcedibile per l’impossibilità
di pronunciare nei confronti di tutti i litisconsorti necessari. Non rientrano invece i casi di rinuncia
degli arbitri.
Comma 3: “La parte che non eccepisce nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri,
l’incompetenza di questi per inesistenza, invalidità, o inefficacia della convenzione di arbitrato, non
può per questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrale”.
Questo comma indica le modalità ed i termini per sollevare, nel processo arbitrale, la relativa
questione. Vi è una preclusione: la questione di validità/efficacia della convenzione arbitrale non
può essere fatta valere per la prima volta in sede di impugnazione del lodo, ad eccezione che si tratti
di controversia non arbitrabile. In tal caso il lodo è radicalmente inesistente e quindi non è neanche
soggetto all’onere di impugnazione.
Comma 4: “La parte, che non eccepisce nel corso dell’arbitrato che le conclusioni delle altre parti
esorbitano dei limiti della convenzione arbitrale, non può, per questo motivo, impugnare il lodo”.
Nel caso di domande il cui oggetto fuoriesce dal compromesso o dalla clausola compromissoria, la
controparte deve tempestivamente sollevare la questione. In caso contrario, il lodo che decide di tale
domanda non può essere impugnato per tale motivo: il lodo è valido anche se ha pronunciato su una
domanda non assoggettata all’arbitrato, se la relativa eccezione non è stata tempestivamente
proposta durante il processo arbitrale. In questi casi non è stabilito un termine per proporre la
relativa questione , ma secondo la logica il termine è anche qui nella prima difesa successiva al
momento in cui la domanda eccedente è stata proposta. La mancata, tempestiva proposizione
dell’eccezione produce una sorta di convenzione di arbitrato tacita, che tuttavia non ha rilevanza
all’esterno di quel processo.
L’art.817 è una norma che si applica solo quando chi ha partecipato al processo arbitrale non ha in
quella sede contestato la decidibilità nel merito della domanda; non si applica invece se la parte è
rimasta assente in sede arbitrale.
La questione relativa alla sussistenza del potere decisorio degli arbitri viene affrontata e decisa dagli
arbitri stessi con un lodo  gli arbitri decidono della propria competenza.

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Il lodo è sempre definitivo se il potere viene negato; potrà invece essere definitivo o non definitivo
se il potere è affermato, a seconda che insieme alla questione venga deciso anche il merito o meno.
Tuttavia, non è sufficiente che gli arbitri, attraverso questo lodo, dichiarino di avere il potere,
affinchè questo sussista effettivamente: serve quindi uno strumento di controllo su questo lodo. È
previsto un onere di impugnazione e quindi l’invalidità del lodo che decide sul potere decisorio
degli arbitri, dovrà essere fatta valere entro certi termini. Il motivo di impugnazione non è l’errata
decisione degli arbitri circa la sussistenza del loro potere decisorio, ma è l’effettiva mancanza di tale
potere. In caso di impugnazione, la questione viene devoluta alla corte d’appello che la affronterà e
deciderà ex novo, come giudice di primo grado, senza essere in alcun modo condizionata dal lodo.
 La sussistenza del potere di decidere è considerata questione di rito; dunque, aver deciso il
merito in mancanza di potere è un vizio di attività, un error in procedendo, non un errore di
giudizio.
Conclusioni: l’arbitro può decidere del proprio potere decisorio; tale decisione è sottoposta all’onere
di impugnazione; se essa non è impugnata diviene definitiva; se è impugnata, la corte di appello
esamina la questione ex novo, come se l’arbitro non avesse deciso.
L’accertamento della qualità di socio nell’arbitrato societario.
Ex art.34, d.lgs.5/2003, la clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la cui
qualità di socio è oggetto della controversia.
Principio: quando uno stesso strumento è rilevante sia ai fini del rito che ai fini del merito, esso è
valutato nel primo caso in base all’affermazione di chi propone la domanda, nel secondo caso
invece rileva l’accertamento della sua effettiva esistenza.
Questo principio pone dei problemi in caso di arbitrato, poiché il lodo è sostanzialmente
insindacabile nel merito, mentre il lodo che decide del potere decisorio degli arbitri (che abbiamo
visto essere una questione di rito), è sindacabile in sede di impugnazione.
La qualità di socio rileva ai fini sia del rito, che del merito; il convenuto in arbitrato, a fronte di un
attore che afferma la qualità di socio (propria o del convenuto), può contestare l’esistenza di tale
qualità alternativamente ai fini del rito o ai fini del merito. Egli dovrà fare una scelta strategica:
- Rito: se il convenuto vince, l’attore può riproporre la questione in via giurisdizionale, in
quanto il lodo è di incompetenza, e non di merito. Se il convenuto perde, può ottenere dalla
corte di appello un controllo pieno sulla questione della qualità di socio.
- Merito: se il convenuto vince, vince per sempre; se perde, perde per sempre, poiché la
decisione dell’arbitro nel merito è insindacabile.
Eccezione di incompetenza nel processo giurisdizionale.
Ex art.819ter l’eccezione di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve
essere proposta a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (non rilevabile d’ufficio). La
sentenza con cui il giudice afferma o nega la propria competenza è impugnabile ex artt.42 e 43 cpc
(Regolamento di competenza necessario e facoltativo).
In presenza di convenzione di arbitrato, il giudice non è incompetente, ma sussiste un difetto
assoluto di giurisdizione.
La mancata, tempestiva proposizione dell’eccezione rende irrilevante in sede giurisdizionale la
convenzione di arbitrato ed esclude la competenza dell’arbitro. Tale effetto tuttavia è subordinato al
fatto che la controversia sia decisa nel merito; in caso contrario non vi sono conseguenze alla
mancata o tardiva rilevazione della questione di incompetenza del giudice.
Se invece la questione è tempestivamente proposta, niente impedisce alla parte convenuta in sede
giurisdizionale di proporre la stessa domanda anche in sede arbitrale: i due processi proseguono
contemporaneamente. Questo è il sistema delle vie parallele.
L’onere della prova spetta a colui che eccepisce l’ostacolo alla pronuncia di merito. Su questa
eccezione il giudice decide con sentenza, impugnabile appunto con regolamento di competenza
necessario (se il giudice pronuncia solo sull’eccezione di convenzione di arbitrato) o facoltativo (se
il giudice pronuncia anche su altre questioni).

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Ad un certo punto, però , le “vie parallele” del processo arbitrale e del processo giudiziale sono
destinate ad incrociarsi.
- Se pronunciano entrambe nello stesso senso, non sorgono problemi;
- Se l’arbitro ritiene sussistente la propria competenza e quindi pronuncia nel merito, e
dall’altro lato il giudice ritiene inefficacie la convenzione di arbitrato e quindi anch’egli
pronunci nel merito, si crea un conflitto positivo.
In questi casi, la sentenza o lodo che sia pronunciato per primo, è quello che decide; l’atto
andrà depositato nel processo ancora in corso, il quale si chiuderà in rito in quanto la
controversia è già stata risolta.
- Se infine sia giudice che arbitro negano la propria competenza, si crea un conflitto negativo.
Anche in questo caso, è efficace nell’altra sede la pronuncia definitiva che nega la
competenza: il giudice o l’arbitro non potranno contraddire quanto detto nella prima sede.
In caso di vizio consistente nella carenza di potere decisorio in ragione della convenzione di
arbitrato, sarà necessario proporre l’atto introduttivo nella corretta sede, entro tre mesi; l’atto deve
contenere l’editio ationis già contenuta nella prima domanda.

CAP. 15 – Il processo arbitrale


L’art.816bis prevede il principio generale per cui le regole processuali sono determinate dalle parti
nella convenzione di arbitrato ovvero in un atto separato, purchè anteriore all’inizio del
procedimento arbitrale. In mancanza, gli arbitri hanno facoltà di regolare lo svolgimento del
processo come meglio credono. Inoltre, se le parti non hanno pattuito regole procedimentali, ma nel
corso dell’arbitrato si trovano d’accordo su alcune modalità del suo svolgimento, tale accordo è
vincolante per il collegio; in questi casi però gli arbitri possono legittimamente rifiutarsi di portare
avanti l’arbitrato. Infatti, se le parti stabiliscono le regole con un atto anteriore, gli arbitri accettando
la nomina, si impegnano anche a rispettare tali regole e non vi si potranno discostare; ma se le
regole sono stabilite successivamente alla nomina, gli arbitri possono legittimamente non accettarle.
Al comma 2 è previsto che le parti possono stare in giudizio tramite un difensore. Poteri del
difensore: salvo espresse limitazioni in senso contrario, il difensore può compiere qualunque atto
del processo, rinunciare agli atti, determinare o prorogare il termine per la pronuncia del lodo.
Anche se le parti hanno previsto diversamente, il lodo può essere inviato al difensore e a lui può
essere notificata l’impugnazione del lodo; questo perché spesso le parti sono difficili da reperire.
L’art.816 disciplina la sede dell’arbitrato: è determinata dalle parti o, in mancanza, dagli arbitri; se
nessuno di questi soggetti la individua, la legge prevede come criterio sussidiario il luogo di
stipulazione della convenzione di arbitrato, e se questa è avvenuta all’estero, la sede è Roma.
Dopodiché, il processo si può svolgere anche in luoghi diversi dalla sede.
L’unico limite alla volontà delle parti, è costituito dal rispetto del principio del contraddittorio: gli
arbitri devono comunque attuare questo principio (art.816bis) ed il lodo è invalido se nell’arbitrato
non viene rispettato tale principio (art.819, n.9).
L’istruzione probatoria può essere una fase eventuale (es. controversia solo di diritto), ma quando è
necessaria, costituisce una debolezza dell’arbitrato. Infatti l’arbitro non ha poteri nei confronti dei
terzi, e questo diviene un problema quando si rende necessaria la loro collaborazione ai fini
dell’assunzione della prova. Così, il legislatore del 1994 ha introdotto la possibilità di assumere la
prova testimoniale anche nell’abitazione o nell’ufficio del terzo, o di ottenere una sua testimonianza
scritta; ancora, il legislatore del 2006 all’art.816ter, III ha previsto che, ove il testimone rifiuti di
comparire dinanzi agli arbitri, questi possono chiedere al presidente del tribunale di ordinare al
terzo la comparizione in udienza. Questa richiesta degli arbitri non è però un dovere, ma solo una
possibilità che segue alla loro valutazione di opportunità nel caso concreto.
La richiesta degli arbitri avviene tramite ordinanza depositata in cancelleria del tribunale da una
delle parti, con allegata la precedente intimazione del teste, rimasta senza seguito.

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Il testimone potrà poi essere intimato a presentarsi sia dall’ufficiale giudiziario, che dal difensore.
Dal momento in cui gli arbitri chiedono l’intervento del presidente, il processo rimane sospeso fino
all’udienza.
Vicende relative alla parte.
In caso di morte, estinzione o perdita di capacità della parte, l’art.816sexies rimette agli arbitri
l’individuazione delle misure più opportune per (questa è la ratio) evitare che il lodo possa essere
inefficace per i suoi destinatari, a causa del mancato rispetto del principio del contraddittorio. La
norma quindi in realtà protegge gli interessi delle altre parti, e non dei terzi o di colui che è colpito
dall’evento.
Gli arbitri devono verificare che l’evento descritto incida effettivamente sull’attuazione del
principio del contraddittorio, perché potrebbe anche essere che tali eventi non incidano affatto su
questo principio. Dopodiché ,gli arbitri determineranno di volta in volta le misure opportune; essi
possono anche sospendere il processo in attesa che le parti attuino le misure da essi indicate e
possono rifiutarsi di procedere con l’arbitrato in caso di inadempimento delle parti stesse.
Sospensione.
L’art.819bis disciplina la sospensione in generale nel processo arbitrale. Le fattispecie che possono
causare la sospensione sono:
a) Negli stessi casi in cui il processo giurisdizionale deve essere sospeso ai sensi dell’art.75
cpp, cioè quando la domanda risarcitoria e restitutoria è proposta in sede civile dopo la
pronuncia della sentenza penale di primo grado, oppure dopo che l’avente diritto ha
revocato la sua costituzione di parte civile in sede penale;
b) Nei casi previsti dall’art.819 cpc, cioè quando vi è una questione pregiudiziale non
arbitrabile, che deve essere decisa con efficacia di giudicato;
c) Quando sorge una questione di legittimità costituzionale di una legge o atto avente forza di
legge, e l’arbitro la rimette alla Corte Costituzionale;
d) Nelle ipotesi viste prima ex art.816sexies.
La sospensione del processo viene disposta con ordinanza modificabile e revocabile dal collegio
arbitrale. Per riprendere il processo arbitrale, è necessario depositare un’istanza di prosecuzione
entro il termine indicato dagli arbitri; se essi omettono di indicarlo, il termine è di un anno dal venir
meno della causa di sospensione. In seguito al deposito dell’istanza, gli arbitri fissano una nuova
udienza.
Il mancato tempestivo deposito dell’istanza provoca l’estinzione del processo arbitrale; se l’istanza
è depositata tardivamente, l’estinzione non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita
dalla controparte. Un’ulteriore ipotesi di estinzione si verifica allorché sia necessario decidere con
efficacia di giudicato della questione pregiudiziale non arbitrabile: se entro 90gg dall’ordinanza di
sospensione nessuna delle parti deposita presso gli arbitri una copia autentica dell’atto con cui la
domanda è proposta, il processo arbitrale si estingue.

CAP. 16 – Il lodo
Ex art.820, gli arbitri per pronunciarsi hanno 240gg, che decorrono dalla loro accettazione, salvo
che le parti prevedano un termine diverso. L’unico limite imposto alle parti è che esse non possono
non stabilire un termine oppure lasciare che siano gli arbitri a determinarlo. Il termine di legge è
prorogabile con dichiarazioni scritte delle parti, provenienti da tutte le parti; in mancanza di
espressa limitazione, le proroga può essere disposta anche dal difensore. Inoltre, sempre salvo una
diversa disposizione delle parti, il termine è prorogabile di 180gg da parte degli arbitri quando:
a) Sia emesso un lodo non definitivo;
b) Sia disposta l’assunzione di mezzi di prova;
c) Sia disposta consulenza tecnica di ufficio;
d) Sia modificata la composizione del collegio o sia sostituito l’arbitro unico.

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Queste ipotesi possono concorrere, ma ciascuna di esse non consente più di una proroga. La proroga
deve essere chiesta prima che decorra il termine di 180gg e sarà concessa dal presidente del
tribunale, se egli ritiene sussistente il motivo che la giustifica.
In tutti i casi di sospensione del processo arbitrale, il termine per la pronuncia del lodo rimane
sospeso; se dopo la ripresa del processo residua un termine inferiore, esso è prorogato ex lege di
90gg. In ogni caso, comunque, l’esaurirsi del termine per pronunciare il lodo, non determina
automaticamente la perdita del potere di decidere. Lo scadere del termine concede a ciascuna parte
il diritto potestativo di far valere tale fatto; l’atto con cui la parte manifesta la volontà di far valere
la scadenza del termine, deve essere notificato prima della deliberazione del lodo  la decorrenza
del termine, da sola, non esonera gli arbitri dalla pronuncia, la quale rimane valida.
Una volta fatta valere la decorrenza del termine, gli arbitri devono verificarne la fondatezza, ed in
caso positivo devono dichiarare estinto il processo.
Deliberazione.
Le modalità di deliberazione del lodo sono indicate nell’art.823 cpc: il lodo deve essere deliberato
con la partecipazione di tutti gli arbitri, ma non è necessaria la loro compresenza fisica in uno stesso
luogo (a meno che le parti non l’abbiano previsto). La deliberazione si concretizza nel momento in
cui gli arbitri prendono la decisione, e deve avvenire da parte di tutti; la sottoscrizione avviene dopo
la stesura del lodo. Ovviamente il collegio può deliberare e sottoscrivere il lodo
contemporaneamente. Le modalità di deliberazione e motivazione del lodo sono liberamente scelte
dagli arbitri, salvo diversa prescrizione delle parti.
Lodo di diritto. Ex art.822 cpc, gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti
abbiano disposto che gli arbitri debbano decidere secondo equità. Il metro di giudizio quindi
coincide con quello usato in sede giurisdizionale.
Lodo di equità. Se le parti lo richiedono, gli arbitri devono decidere secondo equità, che in questo
caso è sostitutiva: costituisce il metro di giudizio al posto delle norme di diritto. Ciò non impedisce
agli arbitri di ritenere che, nel caso concreto, equità e diritto coincidano; in tal caso essi devono
esplicitamente darne atto. In sostanza le parti rimettono agli arbitri l’individuazione delle regole con
cui risolvere la controversia; ciò accade soprattutto nell’arbitrato ad hoc. Nel caso invece degli
arbitrati dei gruppi organizzati, l’equità coincide con le regole interne di quel gruppo.
L’equità riguarda solo le regole di decisione, e non anche quelle processuali.
Lodo parziale. Decide di una o più di alcune delle domande proposte, e quindi ha autonomia di
contenuto; corrisponde alla sentenza parzialmente definitiva.
Lodo non definitivo. Decide invece di una sola questione relativa ad una domanda, e non
sull’intera domanda: non esaurisce quindi l’oggetto della domanda proposta agli arbitri. Un esempio
tipico è il lodo non definitivo con cui gli arbitri dichiarano possibile la decisione arbitrale,
rimettendo in istruttoria per la prosecuzione del processo. È il collegio a stabilire, di volta in volta,
se affrontare la questione pregiudiziale o preliminare con un lodo non definitivo o con
un’ordinanza. Nel caso scelga il lodo, gli arbitri perdono il potere di decidere di nuovo la questione,
e non possono revocare il lodo emesso. Se invece viene scelta l’ordinanza, essa è modificabile e
revocabile, quindi la questione potrà essere rivista in fase di emanazione del lodo definitivo.
Efficacia del lodo. Il lodo ha gli stessi effetti della sentenza, ad esclusione dell’efficacia esecutiva:
si esaurisce il potere decisorio che l’arbitro ha sull’oggetto della decisione, e il lodo produce la cosa
giudicata sostanziale (cioè individua le regole concrete di condotta che si sostituiscono alla
normativa generale ed astratta); infine, anche gli effetti del lodo sono insensibili allo ius
superveniens. Questa equiparazione degli effetti, non deve essere estesa però alla tipologia di atto:
la sentenza è un atto di diritto pubblico, mentre il lodo è un atto di diritto privato. La differenza sta
nel fatto che la sentenza è efficace anche nei confronti di soggetti che non hanno dato il loro
consenso, cosa che invece non può avvenire in caso di lodo: sappiamo infatti che esso si fonda
proprio sul consenso delle parti.
L’efficacia del lodo si produce pienamente dalla data dell’ultima sottoscrizione (art.824bis).

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Anche rispetto ai terzi, gli effetti del lodo coincidono con quelli della sentenza: i terzi sono immuni
dagli effetti di un atto (lodo) che si fonda sul consenso di altri soggetti.
Ricordiamo, in quanto già visto anche in precedenza, che nell’arbitrato trova applicazione l’art.111
cpc: il successore nel diritto controverso può quindi intervenire nel processo arbitrale in corso e può
proporre avverso la sentenza le impugnazioni proprie delle parti.
Exequatur. Si intende il provvedimento giurisdizionale attraverso il quale un giudice da esecuzione
ad un lodo arbitrale. Ex art.824 cpc, una volta deliberato il lodo, gli arbitri devono redigere tanti
originali del lodo, quante sono le parti e consegnano un originale a ciascuna di esse.
L’exequatur può essere finalizzato anche alla annotazione o trascrizione del lodo, ovvero
all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.
Ex art.825, per concedere l’exequatur, il giudice deve accertare la regolarità formale del lodo; egli
può rifiutare di concedere l’exequatur solo se il lodo è inesistente; mentre non può rifiutarlo per tutti
quei motivi che sono causa di impugnazione del lodo ex art.829 cpc.
L’exequatur è privo di natura decisoria, in quanto non sancisce la validità o invalidità del lodo.
Contro il decreto che conferisce o nega l’esecutività del lodo, si può fare reclamo alla corte di
appello.
Correzione. Ex art.826 cpc è prevista la possibilità di correggere il lodo in caso di:
a) omissioni;
b) errori materiali;
c) errori di calcolo;
d) necessità di integrare il lodo (es. mancanza del nome degli arbitri o delle parti,
dell’indicazione della sede, della convenzione di arbitrato, e delle conclusioni delle parti).
La correzione è prevista anche se questi tre elementi hanno causato divergenze tra i vari originali
del lodo. In tutti i casi in cui si può fare ricorso alla correzione, è esclusa la nullità del lodo per la
carenza dell’elemento che può essere integrato appunto attraverso la correzione stessa (art.829, n.5).
La competenza spetta agli arbitri, se essi agiscono entro un anno dalla comunicazione del lodo;
successivamente diviene competente il tribunale della sede dell’arbitrato. Vi è poi una competenza
concorrente con la corte di appello, nel caso in cui sia stato impugnato il lodo. La concorrenza tra
più soggetti con potere di correzione può determinare dei contrasti: nessuno dei soggetti muniti del
potere di correzione può risolvere tali contrasti.
- Se la correzione è chiesta agli arbitri, essi devono sentire le parti e provvedere entro 60gg
dall’istanza; la correzione viene poi comunicata alle parti.
- Se la correzione è chiesta ai giudici, si applica l’art.288 cpc: il giudice provvede con decreto
se tutte le parti sono concordi alla correzione; se invece la correzione è chiesta con istanza di
una sola delle parti, il giudice fissa la data dell’udienza nella quale le parti devono comparire
dinanzi a lui, e sull’istanza il giudice decide con ordinanza. Le sentenze possono essere
impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario, che decorre dal giorno in
cui è stata notificata l’ordinanza di correzione.

CAP. 17 – I mezzi di impugnazione del lodo


I mezzi di impugnazione del lodo indicati dall’art.827 cpc sono:
1) Impugnazione per nullità;
2) Revocazione;
3) Opposizione di terzo.
Il lodo parziale è immediatamente impugnabile, in quanto si tratta di lodo completo: causa una
soccombenza concreta e attuale di una delle parti, che ha quindi interesse all’impugnazione
immediata. Se invece la parte ritiene opportuno attendere la pronunzia del lodo definitivo, può
riservarsi l’impugnazione all’esito globale dell’arbitrato.
Il lodo non definitivo invece è impugnabile solo insieme al lodo definitivo poiché non produce una
soccombenza immediata, bensì virtuale: la parte soccombente nel lodo non definitivo, potrebbe
benissimo risultare vittoriosa secondo l’esito globale della controversia.
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In caso di lodo inesistente esso è viziato in modo tale da rendere non necessaria l’utilizzazione dei
mezzi di impugnazione, perché potrà essere accertata l’inefficacia di tale lodo in qualsiasi sede e in
qualsiasi momento. Motivi di inesistenza del lodo potrebbero essere: il lodo si pronuncia su materia
indisponibile; ha ad oggetto un diritto non identificato; il lodo è pronunciato nei confronti di un
soggetto inesistente; il lodo non è sottoscritto. In questi casi neanche l’exequatur vale a modificarne
la portata. L’impugnazione per nullità è utilizzabile anche quando il lodo è inesistente, però in
questi casi la fase rescissoria non è possibile  l’impugnazione per nullità si chiude con la fase
rescindente in cui si dichiara l’inesistenza del lodo.

1)Impugnazione per nullità


Costituisce uno strumento appositamente previsto per il lodo, e non corrisponde a un mezzo di
impugnazione della sentenza. Tramite questo strumento, il legislatore ha esteso al lodo l’onere di
impugnazione, stabilendo che l’invalidità del lodo deve essere fatta valere attraverso tale mezzo,
nonostante si tratti di atto privato. Ex art.828 cpc, una volta decorso il termine previsto, l’efficacia
del lodo non può essere messa in discussione allegando l’invalidità del lodo stesso.
Prima di analizzare i singoli casi di nullità, è necessario precisare che l’impugnazione per nullità in
alcuni casi è proponibile nonostante la parte non abbia mai sollevato l’eccezione durante il processo
arbitrale; e in altri casi invece l’impugnazione è possibile solo se la parte abbia tempestivamente
sollevato la questione durante il processo arbitrale.
L’art.829 individua i casi di nullità:
1) Se la convenzione di arbitrato è invalida, ferma la disposizione dell’art.817, III (la parte
deve aver eccepito l’inesistenza/invalidità/inefficacia della convenzione di arbitrato nella
prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri).
2) Se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi prescritti, purchè la nullità sia
stata dedotta nel giudizio arbitrale. Rientra in questo caso anche l’ipotesi in cui le parti
abbiano previsto che l’arbitro debba avere determinate qualifiche, ma nel caso concreto non
le ha.
3) Se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro ex art.812. (Cioè
chi è privo della capacità legale di agire).
4) Se il lodo ha pronunciato al di fuori dei limiti della convenzione di arbitrato, fermo quanto
previsto dall’art.817, IV (la parte deve aver già sollevato la questione durante l’arbitrato), o
ha deciso il merito della controversia in ogni altro caso in cui il merito non poteva essere
deciso. Con riferimento al primo periodo, si tratta dei casi in cui una delle parti propone una
domanda per la quale non era stata prevista la via arbitrale; la nullità deve essere già stata
fatta valere durante il processo. Il secondo periodo riguarda il caso in cui l’arbitro pronunci
su domande che le parti non hanno proposto: violazione del principio di corrispondenza fra
la domanda e la pronuncia. In questo caso però le parti non possono contestare nel corso del
giudizio questo vizio, perché non possono prevedere che l’arbitro pronuncerà extra
compromissum. Rientrano poi in questa fattispecie di nullità tutte le residue fattispecie
ostative ad una pronuncia di merito (incapacità della parte, carenza di legittimazione, …)
5) Se il lodo non ha i requisiti minimi indicati nei numeri 5, 6 e 7 dell’art.823. Questi elementi
minimi per individuare la decisione e il suo contenuto sono: esposizione sommaria dei
motivi; dispositivo; sottoscrizione degli arbitri.
6) Il lodo è stato pronunciato dopo la scadenza del termine, salvo il disposto dell’art.821.
Anche qui è necessario che, decorsi i termini per pronunciare, una delle parti notifichi alle
altre parti e al collegio un atto con cui manifesta la volontà di far valere la decadenza del
collegio. Se ciò non accade, il lodo non è impugnabile per questo motivo.
7) Nel procedimento non sono state osservate le forme prescritte dalle parti sotto espressa
sanzione di nullità, e la nullità non è stata sanata. Le parti possono sottoporre la validità del
lodo a qualsiasi condizione, purché sia da loro espressamente dichiarato che si tratta di
condizione prevista a pena di nullità.
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8) Se il lodo è contrario ad altro precedente lodo non più impugnabile o a precedente sentenza
passata in giudicato tra le parti, purché tale lodo o tale sentenza sia stata prodotta nel
procedimento. Qui non è necessario che la parte sollevi l’eccezione nel corso del processo,
ma è sufficiente che il provvedimento sia stato prodotto: ciò significa che gli arbitri hanno il
dovere di rilevare d’ufficio il precedente giudicato; se non lo fanno, il lodo è impugnabile
per questo motivo. Nel caso in cui nell’arbitrato non sia stato prodotto il precedente
lodo/sentenza, prevale il secondo lodo sulla decisione anteriore con cui si trova in contrasto.
9) Se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Questo
principio deve essere osservato anche in mancanza di espressa previsione delle parti, ovvero
anche qualora le parti abbiano stabilito regole che lo contrastano. In quest’ultimo caso,
infatti, se gli arbitri non rispettano tali regole, il lodo non è annullabile.
10) Se il lodo conclude il procedimento senza decidere il merito della controversia e il merito
della controversia doveva essere deciso dagli arbitri. Si tratta di previsione inversa al
numero 4). Qui non è stato pronunciato un lodo di merito, che invece andava pronunciato.
11) Se il lodo contiene disposizioni contraddittorie. La contraddittorietà delle disposizioni incide
sul dispositivo, e si verifica quando esso è talmente contraddittorio da non rendere
comprensibile quanto gli arbitri abbiano deciso. È importante non confondere le
“disposizioni contraddittorie” con le “motivazioni contraddittorie” (queste ultime sono
previste dall’art.360, n.5 per il ricorso in Cassazione).
12) Se il lodo non ha pronunciato su alcuna delle domande ed eccezioni proposte dalle parti in
conformità alla convenzione di arbitrato. Si tratta del vizio di infrapetizione.
L’art.829, II prevede che: la parte che ha dato causa al motivo di nullità, o vi ha rinunciato, ovvero
non ha eccepito nella prima istanza/difesa successiva la violazione di una regola che disciplina lo
svolgimento dell’arbitrato, non può per questo motivo impugnare il lodo.
Tutti i 12 casi di nullità ex art.829, I sono errores in procedendo, e quindi nessuno di essi riguarda
l’ingiustizia del lodo, ossia la non conformità delle regole di condotta in esso contenute rispetto alla
realtà sostanziale preesistente. L’impugnazione per nullità non è rinunciabile preventivamente, cioè
prima che il lodo sia emesso: la parte potrà efficacemente rinunciare all’impugnazione solo dopo
che ha conosciuto il lodo.
Quindi abbiamo visto che per quanto riguarda il merito, cioè gli errores in iudicando, l’ingiustizia
del lodo non è motivo di impugnazione. Tuttavia bisogna distinguere:
- Quaestio facti: non è mai impugnabile il lodo adducendo che l’arbitro ha errato
nell’accertamento dei fatti storici. Infatti non esiste alcun mezzo con cui si può controllare
l’operato del collegio relativo alla cognizione dei fatti storici; non è sindacabile neanche
l’applicazione delle norme elastiche (buona fede, inadempimento sufficientemente grave..);
- Quaestio iuris: è possibile sindacare il lodo per errores in iudicando de iure solo se le parti
l’hanno espressamente prevista. Solo in questo caso sarà possibile un controllo del giudice
sul merito. Questo controllo coincide esattamente con il controllo dell’art.360, n.3.
Inoltre l’art.829 IV prevede dei casi in cui l’impugnazione per errores in iudicando è sempre
possibile, anche se le parti non l’hanno espressamente previsto: si tratta delle controversie ex
art.409 cpc e delle controversie in cui vi sia stata cognizione incidentale di una questione
pregiudiziale non arbitrabile.
L’art.829, III prevede la nullità del lodo interno per contrasto con l’ordine pubblico, inteso come
contrasto con i principi dell’ordinamento giuridico. Si fa riferimento all’ordine pubblico
sostanziale, cioè attinente al contenuto del lodo, e non alla sua formazione.
Il lodo di equità è sempre impugnabile ai sensi dell’art.829, I per errores in procedendo e
anch’esso incontra il limite dell’ordine pubblico sostanziale. Inoltre, se gli arbitri si rifiutano di
utilizzare come metro di giudizio l’equità, e dichiarano di decidere secondo diritto, questo può
essere motivo di nullità del lodo, e non è un vizio di merito, in quanto qui gli arbitri non rispettano
la volontà delle parti. Lo stesso vale nel caso in cui gli arbitri utilizzano come metro di giudizio
delle norme diverse da quelle previste dalle parti.
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Inversamente, se gli arbitri – sbagliando – dichiarano di decidere secondo equità, il lodo è
impugnabile per invalidità anche se le parti non hanno previsto la sindacabilità dello stesso per
ingiustizia.
Termini. L’impugnazione deve essere proposta entro 90gg dalla notificazione del lodo. Decorso un
anno dall’ultima sottoscrizione, il lodo non è più impugnabile (termine di decadenza); qui si deve
intendere, in realtà, decorso un anno dalla data in cui la parte ha ricevuto il lodo ex art.824 cpc,
perché finchè la parte non riceve il lodo, non ne sa niente e quindi il termine non può decorrere.
Invece, la tardiva consegna del lodo non è motivo di inefficacia dello stesso.
Se la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità dell’atto
introduttivo del processo arbitrale o per nullità della sua notificazione, l’impugnazione è
proponibile anche dopo il termine lungo di un anno.
Competenza. L’unico giudice competente è la corte di appello, e si applicano le regole processuali
previste per il processo di appello: l’impugnazione è totalmente affidata al collegio.
L’impugnazione per nullità è un’impugnazione ordinaria, in quanto gli effetti della litispendenza
arbitrale durano fino al passaggio in giudicato della sentenza resa in sede di impugnazione. Si tratta
di un’impugnazione in unico grado: la sentenza non è quindi appellabile, ma solo ricorribile in
Cassazione. Infine, l’impugnazione per nullità è un mezzo di impugnazione in senso stretto,
perché la cognizione del giudice è limitata esclusivamente ai motivi di nullità che la parte ha fatto
valere con l’atto di impugnazione. Infine, legittimati ad impugnare sono le parti ed i loro successori
universali o nel diritto controverso.
Sospensione esecutività. L’art.830, IV prevede che su istanza di parte la corte di appello può
sospendere l’efficacia del lodo con ordinanza, qualora ricorrano gravi motivi. L’istanza può essere
proposta anche successivamente alla proposizione dell’impugnazione. L’unico effetto del lodo che
può essere sospeso è quello esecutivo: gli effetti dichiarativi infatti non si producono finché il lodo
non è definitivo. Per quanto riguarda i presupposti per la sospensione, ossia i gravi motivi, essi
possono essere: l’infondatezza dell’impugnazione per nullità e il pregiudizio che le parti possono
subire ove l’esecutività sia sospesa ovvero non sospesa.
Cognizione ed istruttoria. Il processo di impugnazione è un processo a cognizione piena e quindi
l’esame della sussistenza del motivo di nullità viene effettuato dalla corte di appello, senza che essa
sia condizionata dall’opinione che gli arbitri abbiano eventualmente espresso. Può darsi dunque che
sia necessario svolgere attività istruttoria sui vizi lamentati.
Nullità parziale del lodo. Il collegio arbitrale può essere investito di più domande; se la nullità del
lodo riguarda la decisione di una sola o solo di alcune delle domande proposte, non è ovviamente
necessario che le altre domande siano anch’esse annullate. Dopodiché può anche accadere che vi
siano motivi di nullità del lodo che colpiscono tutte le altre domande: allora in questi casi verrà
caducato l’intero lodo.
Rescissorio. In seguito alla dichiarazione di nullità (fase rescindente), non segue la fase rescissoria
in questi casi:
a) convenzione di arbitrato invalida (n.1);
b) arbitri sono stati mal nominati (nn.2 e 3);
c) il lodo ha deciso il merito, e non poteva farlo (n.4);
d) il lodo non ha deciso nel merito, e doveva farlo (n.10);
e) il lodo è inesistente.
In questi casi le parti non possono derogare alla disciplina processuale prevista dalla legge,
prevedendo la possibilità di pronunciare nel merito. Questa possibilità è sempre esclusa.
In tutti i casi in cui la corte di appello non decide nel merito, si applica la convenzione di arbitrato:
se essa è idonea a portare ad un lodo di merito, le parti dovranno nuovamente rivolgersi
all’arbitrato; altrimenti dovranno rivolgersi al giudice ordinariamente competente in primo grado.
Le ipotesi in cui non è possibile la decisone arbitrale sono: invalidità/inefficacia della convenzione
arbitrale e altri casi in cui la decisione deve essere richiesta al giudice (es. n.4, art.829).

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In tutte le altre ipotesi dell’art.829 e nelle ipotesi di errores in iudicando viste prima, invece, la
corte di appello decide nel merito. Qui le parti possono benissimo escludere la decisione di merito
con un accordo anche successivo alla convenzione di arbitrato. Se invece una delle parti aveva la
propria residenza all’estero al momento della sottoscrizione della convenzione di arbitrato, la
decisione di merito si ha solo se le parti l’hanno espressamente prevista.
La pronuncia rescindente può essere cumulata a quella rescissoria se per la decisone del rescissorio
non è necessario svolgere attività istruttoria; altrimenti le due pronunce (rescindente e rescissoria)
saranno separate. In quest’ultimo caso la sentenza sul rescindente è una sentenza non definitiva.

2)Revocazione
L’art.831 cpc stabilisce che il lodo è soggetto a revocazione nei casi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 6
dell’art.395 cpc: si tratta dei casi di revocazione straordinaria, che nasce da vizi occulti (non
possono essere percepiti dalla lettura del lodo, ma si conoscono solo se e quando si verifica un
evento successivo alla pronuncia).
1.Il lodo è effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra;
2.Se il lodo è giudicato in base a prove riconosciute o dichiarate false, oppure che la parte
soccombente ignorava essere state riconosciute tali prima del lodo;
3.Se dopo il lodo sono stati trovati documenti decisivi che la parte non aveva potuto dedurre in
giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
6.Se il lodo è effetto del dolo dell’arbitro, accertato con sentenza passata in giudicato.
La revocazione è possibile anche qualora le parti avessero preventivamente stabilito di non
ricorrervi. È invece ammissibile una rinuncia successiva alla nascita del diritto ad impugnare. I
modi, i termini e le forme sono gli stessi previsti per le sentenze.
La revocazione si propone alla corte di appello competente per l’impugnazione di nullità.
Rescissorio. Occorre stabilire se il vizio che ha portato alla revocazione del lodo comporta la
pronuncia nel merito ad opera della corte di appello, oppure no: per i numeri 1 e 6 non è possibile la
pronuncia di merito; per i numeri 2 e 3 invece è possibile.

3)Opposizione di terzo
L’art.831, III consente di impugnare il lodo con l’opposizione di terzo ordinaria e revocatoria. Il
lodo ha gli stessi effetti della sentenza verso i terzi, ed entrambi questi atti sono dai terzi
contrastabili con lo stesso mezzo. L’opposizione di terzo si propone alla corte di appello
competente per l’impugnazione per nullità; può essere proposta contestualmente alla revocazione:
in questo caso la corte può riunirle in un unico processo.
L’opposizione di terzo ordinaria è un mezzo di gravame, quindi la sentenza di opposizione si
sostituisce al lodo; in caso invece di opposizione di terzo revocatoria l’ambito della pronuncia si
esaurisce con la dichiarazione di inopponiblità al terzo del lodo, per essere esso frutto di dolo e
collusione.

CAP. 18 – Premessa alla risoluzione delle controversie in via amministrativa


L’attività amministrativa si colloca sul piano del diritto pubblico, come la giurisdizione: essa è
dunque astrattamente in grado di produrre atti che sono vincolanti per i loro destinatari. Affinchè la
PA possa risolvere una controversia è necessario che essa rimanga terza indifferente agli interessi in
conflitto: rimangono fuori da questo ambito tutti gli interventi giudiziali classici della PA.
Il compito della PA di intervenire in controversie fra terzi soggetti deve essere coordinato con due
importanti principi costituzionali:
- art.102 Cost.: riserva alla giurisdizione il compito di provvedere alla risoluzione delle
controversie in via autoritativa e vieta la costituzione di giudici speciali. L’attività che la PA
svolge per risolvere controversie non è quindi qualificabile come giurisdizionale.

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- art.24 Cost.: garantisce a tutti la possibilità di adire un giudice per la tutela dei propri diritti,
perciò, siccome la PA non può essere giudice, ciascuna delle parti ha diritto di chiedere
tutela ad un soggetto che fa parte dell’ordine giudiziario.

CAP. 19 – La tutela alternativa del garante dei dati personali


La fattispecie più rilevante e meglio disciplinata di attività della PA per risolvere controversie fra
terzi, è prevista dal Codice in materia di protezione dei dati personali, agli artt.141-152.
Premessa terminologica:
- interessato: soggetto di diritto a cui si riferiscono i dati personali;
- titolare: soggetto a cui spetta il potere di decidere sul trattamento dei dati personali;
- responsabile: soggetto preposto dal titolare al trattamento dei dati personali;
- incaricati: persone fisiche autorizzate dal titolare o dal responsabile a compiere le
operazioni relative al trattamento dei dati degli interessati.
L’art.7 del c.p.d.p. conferisce all’interessato i seguenti diritti:
- avere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, presso il
titolare;
- ottenere alcune indicazioni relative ai dati (origine, finalità, modalità di trattamento…);
- chiedere l’aggiornamento, correzione o integrazione dei dati;
- ottenere il blocco del trattamento;
- può opporsi al trattamento anche se è conforme a diritto, se sussiste una legittima ragione.
Parte terza del codice, “tutela dell’interessato”, titolo primo “tutela amministrativa e
giurisdizionale” suddiviso in due capi “tutela dinanzi al garante” e “tutela giurisdizionale”.
Il capo relativo alla tutela dinanzi al garante, contiene a sua volta tre sezioni; la terza è “tutela
alternativa a quella giurisdizionale”: già dalla sua denominazione si capisce che il risultato sarà
equivalente a quello ottenibile in sede giurisdizionale, nonostante la diversità di struttura dei due
procedimenti. I diritti dell’art.7 possono essere fatti valere sia dinanzi al giudice che dinanzi al
garante, con esclusione dei casi previsti dall’art.8 (dati trattati da organi giudiziari, Banca d’Italia e
altre istituzioni in materia economica e finanziaria) per i quali è prevista solo tutela dinanzi al
giudice.
Il ricorso al garante è alternativo a quello presso il giudice nel senso che uno esclude l’altro; la
prevenzione di intervento si valuta in base all’anteriorità del deposito del ricorso dinanzi al garante
o al giudice. La domanda è proponibile sia dall’interessato che dal titolare e ciascuna delle parti può
essere vincolata alla via alternativa, in base alla volontà insindacabile della controparte. Non c’è
quindi la possibilità di evitare la via amministrativa.
Procedimento. Il ricorso al garante è preceduto dall’interpello preventivo al titolare o responsabile,
salvo che vi siano ragioni di urgenza. Il ricorso ha il contenuto della domanda giudiziale ed è
depositato presso l’ufficio del garante. In mancanza dei presupposti per la pronuncia di merito, se il
vizio è sanabile il garante ne dispone la sanatoria; se il vizio è insanabile il garante dichiara
l’inammissibilità del ricorso, senza che sia necessario instaurare il contraddittorio con la parte
convenuta. Lo stesso avviene allorchè il ricorso sia manifestamente infondato.
Se invece il ricorso è fondato, il garante instaura il contraddittorio con il titolare, svolge l’istruttoria
e concede la possibilità di depositare documenti e memorie e di svolgere la c.t.u. in presenza dei c.t.
di parte. L’oggetto del processo può essere modificato tramite precisazioni di quanto già detto
ovvero integrando in seguito alle eccezioni proposte dalla controparte.
Decisione. Se il ricorso è accolto, il garante deve motivare la decisione e ordinare al titolare di
cessare il comportamento illegittimo, indicando le misure necessarie a tal fine e assegnando un
termine per adempiere. Il rigetto invece può essere: di rito in caso di inammissibilità; di merito, e in
questo caso il garante individua una norma concreta che il titolare dovrà rispettare e che coincide
con quella astratta che il titolare aveva di fatto rispettato; tacito in caso di mancata pronuncia entro
60gg dalla presentazione dell’istanza, ovvero dopo un termine non superiore a 100gg che il garante
può stabilire in caso di istruttoria complessa.
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È prevista anche la possbilità di ottenere una tutela cautelare e una tutela esecutiva (la condanna alle
spese è titolo esecutivo per il pagamento della sanzione amministrativa).
Rapporti con la tutela giurisdizionale. Il procedimento amministrativo appena illustrato è
conforme a Costituzione solo se, terminata la fase dinanzi al garante, sia possibile aprire un
processo dichiarativo dinanzi al giudice che sarebbe stato competente se la domanda fosse stata
proposta direttamente in via giurisdizionale. Quindi il provvedimento del garante è opponibile
presso il giudice che poteva essere adito sin dall’inizio, purchè l’opposizione sia proposta entro
30gg dalla comunicazione del provvedimento ovvero del suo rigetto.
Garante europeo. La direttiva 45/2001 ha introdotto anche a livello europeo un sistema molto
simile a quello interno, che fa riferimento al garante europeo della protezione dei dati: un’autorità
di controllo indipendente.

CAP. 20 – La risoluzione delle controversie ad opera di altre autorità amministrative


AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni)
L’autorità disciplina con propri provvedimenti le modalità di risoluzione non giurisdizionale delle
controversie; si distinguono due categorie di controversie:
- Controversie tra utenti ed operatori
Sono disciplinate dal “Regolamento utenti”. In caso di fallimento del tentativo obbligatorio
di conciliazione, ed entro sei mesi, le parti congiuntamente o anche il solo utente possono
chiedere all’AGCOM di definire la controversia. Anche qui la scelta della via
amministrativa è vincolante per la controparte. Viene nominato un responsabile del
procedimento, che verifica l’ammissibilità dell’istanza, comunica alle parti l’avvio del
procedimento, fissa l’eventuale udienza e dà i termini per depositare memorie e documenti.
L’istruttoria è piena, e una volta terminata la trattazione, il responsabile trasmette all’organo
collegiale la documentazione relativa alla controversia e la relazione del procedimento, con
allegata una proposta di decisione. Il collegio definisce la controversia. Contenuto decisione:
l’operatore sarà condannato a rimborsare le somme risultate non dovute o a pagare gli
indennizzi; per danni maggiori si deve andare dal giudice.
Tutela esecutiva: il mancato rispetto della decisione costituisce un illecito e quindi comporta
l’irrogazione dei una sanzione amministrativa.
- Controversie tra operatori
Sono disciplinate dal “Regolamento concernente la risoluzione delle controversie fra
operatori”. Al contrario del primo tipo di controversie, la parte chiamata dinanzi all’autorità
può rifiutare la decisione di quest’ultima rinviando la controversia al giudice. Dopodiché, il
regolamento disciplina nel dettaglio il procedimento. Sono previste anche tutela cautelare e
tutela esecutiva. È possibile impugnare la decisione dinanzi al TAR del Lazio, che ha
giurisdizione esclusiva.
AEEG (Autorità per l’energia elettrica ed il gas naturale)
Trova le sue premesse nella normativa comunitaria. L’AEEG, secondo quanto stabilito dal
regolamento per la risoluzione dei reclami che essa stessa ha adottato, ha il potere di decidere le
controversie tra consumatori ed il gestore del sistema di trasmissione, trasporto o distribuzione,
relative agli obblighi di tali gestori imposti in attuazione delle direttive comunitarie.
Il produttore può presentare all’autorità un’istanza per la risoluzione della controversia; l’istanza ha
tutti gli elementi di una domanda e, se viene ritenuta ammissibile, viene nominato un responsabile
della procedura. Egli svolge l’istruttoria e presenta al collegio dell’AEEG una relazione contenente
l’analisi della controversia e una proposta di risoluzione. Il collegio adotta la decisione
motivandola. È prevista la possibilità di tutela cautelare.

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CAP. 21 – Profili sistematici della risoluzione delle controversie in via amministrativa
Questo tipo di controversie trovano due ostacoli:
- Comunitari: gli Stati membri hanno l’obbligo di prevedere strumenti amministrativi di
risoluzione delle controversie.
- Costituzionali: quando una delle parti, chiamata in causa, è obbligata alla via
amministrativa, si realizza una fattispecie di giurisdizione condizionata. Questa, è legittima
solo se prevista per favorire lo svolgimento di attività giurisdizionale. Si ritiene che le
controversie risolte in via amministrativa rientrino nell’ambito della giurisdizione
condizionata legittima – infatti diminuiscono il carico giurisdizionale – e sono quindi
conformi a Costituzione.
Ovviamente anche nelle controversie affrontate in via amministrativa, il procedimento deve
rispettare il principio del contraddittorio.
La decisione ha gli stessi effetti della sentenza, del lodo e del contratto: produce la cosa giudicata
sostanziale, e ciò rende idoneo il provvedimento amministrativo a risolvere la controversia. Questa
identità di effetti del provvedimento amministrativo con quelli degli altri atti citati, comporta che: si
esaurisce il potere decisorio; la PA non può modificare né revocare il provvedimento e non può
ridecidere su ciò che ha già deciso; se il processo prosegue dinanzi a lei, rimane vincolata al suo
precedente provvedimento; le sopravveniente potranno essere poste a fondamento di una nuova
domanda; le regole di condotta concrete sono insensibili allo ius superveniens; il provvedimento
amministrativo è impugnabile tramite revocazione straordinaria, ex art.395, n.1, 2, 3 e 6.
Controlli: via amministrativa obbligatoria. Deve essere data la possibilità di opporre in sede
giurisdizionale il provvedimento amministrativo, e il controllo deve essere pieno. A seguito
dell’opposizione, il giudice provvede come se si trattasse di un ordinario processo di primo grado,
ma l’ambito di cognizione del giudice è limitato ai punti individuati dalle parti con i rispettivi atti
introduttivi. La sentenza andrà a sostituire il provvedimento amministrativo. La giurisdizione in
questo caso è affidata al giudice ordinario, lo stesso che sarebbe stato competente se la domanda
fosse stata subito proposta in ambito giurisdizionale.
Via amministrativa facoltativa. In questo caso colui che è chiamato dinanzi alla PA può impedire
la decisione in via amministrativa. Se invece accetta la via amministrativa, la relativa decisione sarà
insindacabile per motivi attinenti alla sua ingiustizia (merito); rimarrà invece sindacabile per i
motivi di invalidità. Nel caso di ricorso per invalidità, il processo si svolge anche qui dinanzi al
giudice che sarebbe stato competente se la domanda fosse stata proposta fin dall’inizio in sede
giurisdizionale.
Considerazioni finali. Il vantaggio della risoluzione delle controversie in via amministrativa è che
in taluni settori la PA è specializzata (es. tutela dei dati personali, telecomunicazioni,…). Il pericolo
è che la PA non riesca ad essere terza ed imparziale rispetto agli interessi coinvolti nella
controversia fra privati, e faccia prevalere la cura dell’interesse pubblico, affidatole dalla legge.

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