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2 marzo 2015
Il diritto processuale civile studia la disciplina del processo civile, contenuta in quel gruppo di
norme giuridiche che sono contenute quasi totalmente nel codice di procedura civile. Norme
giuridiche in quanto disciplinano determinati comportamenti umani, ossia li valutano in base
ai fondamentali criteri (c.d. valori) che sono la doverosità, la liceità, l’idoneità a produrre effetti
giuridici. Quindi li qualificano, dicendo che essi sono doverosi, o leciti, o idonei a produrre
effetti giuridici, e così configurando, in capo ai soggetti di tali comportamenti, le c.d.
“situazioni” di dovere, facoltà o potere.
FUNZIONE: l’attività giurisdizionale serve alla tutela dei diritti. (art. 24 Cost. art. 2907 c.c.
=norme collegate) reazione alla lesione o violazione del diritto, cioè impedire o eliminare
gli effetti nei limiti del possibile. Seguono due caratteristiche principali dell’attività
giurisdizionale:
-strumentalità rispetto ai diritti che vuol tutelare, cioè strumento per la loro attuazione,
nell’ipotesi che tale attuazione non si verifichi spontaneamente.
-sostitutività, cioè la caratteristica per cui, svolgendo l’attività giurisdizionale, quei soggetti
del processo (organi giurisdizionali) si sostituiscono a coloro che avrebbero dovuto tenere il
comportamento previsto dalle norme sostanziali in via primaria, per attuare in via secondaria
quella medesima protezione di interessi che stava alla base in via primaria della norma
sostanziale principio = divieto di autotutela o di autodifesa.
Tipi di diritti:
La caratteristica o meglio la disciplina processuale è che sia adeguata alla situazione che deve
tutelare.
1° situazione giuridica diritto soggettivo = è una posizione di supremazia che ha un
soggetto rispetto a un determinato bene.
All’interno dei diritti soggettivi e a seconda del rapporto che il titolare ha col bene si possono
avere diritti assoluti ( individuano la posizione di signoria che il soggetto può far valere verso
gli altri = erga omnes; patrimoniali 832 cc, personali) o relativi (sono caratterizzati dal fatto
che la posizione di signoria può essere fatta valere verso un soggetto particolare, non verso
tutti i consociati).
DOMANDA: Quand’è che sono violate queste situazioni ed è possibile ricorrere allo strumento
del processo civile? La violazione sarà diversa a seconda del diritto soggettivo assoluto o
relativo.
Diritti assoluti: 1) Prendiamo ad esempio il diritto di proprietà. Può essere violato perché
qualcuno dei consociati, che dovrebbe riconoscere la situazione, non la riconosce, ne contesta
l’esistenza ne consegue che:
a) l’ordinamento sostanziale entra in crisi perché c’è una norma sostanziale che riconosce
a Tizio un diritto e un altro non lo riconosce. Si chiede, quindi, il riconoscimento.
b) il diritto assoluto, in seguito alla violazione, va rivendicato verso il soggetto che ha
violato. E’ come se il diritto assoluto diventasse un diritto relativo.
2) L’altra forma di violazione del diritto assoluto è il danneggiamento del diritto danni
condanna al risarcimento danni (no riconoscimento, ma mero accertamento),
reintegrazione del bene che è stato danneggiato. L’utilità del processo è che si può
chiedere la condanna di chi ha violato. Si forniscono gli strumenti per la reintegrazione
della pienezza della titolarità (reintegrazione in forma specifica o se non possibile,
reintegrazione per equivalente).
Discorso simile è fatto per i diritti relativi, ma qui già sul piano sostanziale vi è solo un
soggetto nei confronti del quale il titolare può far valere il diritto soggettivo. La prima
violazione potrebbe essere che il debitore contesta di essere tale (di solito nascono da
rapporti di tipo negoziale, per esempio il contratto) per varie ragioni, per esempio si ritiene
che il contratto sia nullo (non vi è stato incontro di volontà) = in questo caso il processo civile
serve per accertare che il contratto esista o meno ed per accertare l’esistenza del diritto
soggettivo relativo.
La seconda violazione potrebbe essere l’inadempimento o non esatto adempimento (non
esatta prestazione o pagamento non alla scadenza in entrambi c’è violazione del diritto
soggettivo relativo (responsabilità contrattuale). Il processo qui serve per condannare il
debitore ad adempiere in maniera esatta la prestazione risultante dal contratto, o a pagare
con interessi= reazione sul piano processuale diversa a seconda delle due situazioni = o
accertamento o condanna al risarcimento.
2° situazione giuridica Diritti potestativi = potere che ha il titolare di modificare la
situazione giuridica altrui senza necessità della collaborazione (a prescindere dalla volontà
del soggetto passivo). E’ sufficiente che il soggetto attivo manifesti la volontà di modificare
esempi: (rapporti negoziali) risoluzione del contratto per inadempimento 1453 cc; (rapporti
matrimoniali) separazione o divorzio può essere chiesto da uno dei coniugi con determinati
presupposti (intollerabilità della vita in comune). Non vi è violazione del diritto potestativo da
parte del soggetto passivo, e quindi a cosa serve il processo? Se la strada extragiudiziale non
sia percorribile è necessario l’intervento del giudice (per esempio se la risoluzione non è
possibile con mutuo consenso perché vi è contestazione, decide il giudice che accerti
l’esistenza dei presupposti). Il titolare del diritto potestativo chiede al giudice l’accertamento
dei presupposti e poi la produzione dell’effetto che l’ordinamento sostanziale gli riconosce
(nell’esempio la risoluzione) (tutela del diritto potestativo, non è sufficiente l’accertamento. Al
giudice si chiede l’accertamento e la produzione degli effetti che possono essere costitutivi,
modificativi o estintivi (2932 cc obbligo di concludere il contratto = effetto costitutivo; se non
vi è disponibilità all’attività materiale da parte di una delle parti, il giudice serve per la
pronuncia della sentenza costitutiva che prende il posto del contratto definitivo).
3° situazione giuridica Status = situazioni in cui l’ordinamento riconosce al soggetto
determinati compiti giuridici (per esempio lo status di figlio. Nonostante ci siano determinati
presupposti riconosciuti il soggetto non ha lo status. Per ottenere il riconoscimento dello
status, l’ordinamento ha bisogno della tutela. Accertati presupposti, il giudice attribuisce lo
status tutela di status personale). Tizio per avere il riconoscimento, può agire davanti al
giudice con l’azione di riconoscimento di paternità, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Altro esempio: ipotesi di soggetto incapace di intendere e di volere ha diritto ad essere
interdetto, per effetto dell’interdizione è nominato un tutore che curerà i suoi rapporti
patrimoniali status di interdetto. (il semi-capace status di inabilitato). Altro esempio:
nell’ambito rapporti commerciali = imprenditore commerciale in stato di insolvenza, ha i
presupposti per essere dichiarato fallito, nomina curatore fallimentare che deve amministrare
il patrimonio del fallito a tutela sua e dei creditori = sentenza di riconoscimento dello status di
fallito).
STRUTTURA come queste situazione vengono tutelate all’interno del processo? (funzione
di eliminare una controversia che sia sorta, in sede di COGNIZIONE)
Quattro tipi di attività giurisdizionale civile:
-cognizione (II libro del codice);
-esecuzione forzata;
-attività cautelare;
-volontaria (tutela degli interessi privati di rilevanza generale).
Processo di tipo COGNITIVO (procedura civile 1) in tutte e 3 le situazioni il giudice
accerta, conosce elementi fattuali a cui l’ordinamento sostanziale riconosce
determinati effetti. Funzione di accertamento da parte del giudice, cioè di determinare
la certezza sull’esistenza o non esistenza di un diritto (certezza relativa, con certe
caratteristiche, che la rendono idonea ad assolvere alla sua funzione di consentire
l’attuazione del diritto; diventa certezza obiettiva, non esclusiva del singolo, fatta
propria dall’ordinamento e tale da permettere che la regola possa essere imposta
all’osservanza di tutti, non indistintamente ma di tutti coloro il cui comportamento è in
qualche modo investito dalla regola concreta di cui trattasi).
Che attività deve svolgersi perché il convincimento soggettivo del giudice, come risultato del
proprio giudizio, possa “obiettivarsi” e divenire certezza fatta propria dall’ordinamento ? sul
piano soggettivo, la trasformazione del convincimento in certezza si verifica con la cessazione
di ogni effettiva contestazione interna (il soggetto non deve avere più dubbi/allo stesso modo,
l’ordinamento potrà dirsi certo, quando sarà cessata ogni effettiva possibilità di contestazione,
cioè quando sulla pronuncia del giudice si sarà verificata una situazione di
incontrovertibilità).
Quale tecnica realizza tale incontrovertibilità (designata come “COSA GIUDICATA”)?
possibilità di riesame attraverso più giudizi (c.d. gradi di giurisdizione, attraverso l’esercizio
del potere “di impugnazione” che deve essere convenzionalmente LIMITATO. Nel nostro
ordinamento i gradi di giurisdizione sono due (giudizio di primo grado e giudizio di appello
o di secondo grado) oltre ad un ulteriore riesame di solo diritto (giudizio di cassazione). La
cosa giudicata è la situazione in forza della quale nessun giudice può pronunciarsi su quel
diritto sul quale è già intervenuta una pronuncia che abbia esaurito la serie dei possibili
riesami (sia che svolti sia che non richiesti) = art. 324 c.p.c. regola del passaggio in giudicato
della pronuncia sulla quale si è esaurita la serie dei mezzi di impugnazione. L’accertamento
passato in giudicato “fa stato a ogni effetto” fra le parti, loro eredi ed aventi causa (art. 2909
c.c.). QUINDI dal diritto sostanziale nasce l’esigenza di tutela giurisdizionale mediante
cognizione, il diritto processuale (processo di cognizione) viene incontro a quell’esigenza
pervenendo all’accertamento incontrovertibile (cosa giudicata formale) ossia alla definitiva
formulazione della regola concreta che già appartiene al diritto sostanziale.
Può accadere il grado di tutela fino a quel punto conseguito, possa essere ritenuto dal soggetto
provvisoriamente sufficiente e, fermo restando che la tutela alternativa possa ulteriormente
procedere fino all’incontrovertibilità con un provvedimento che supera e priva di efficacia
quello precedente provvedimenti giurisdizionali c.d. anticipatori, dotati di efficacia
provvisoria indefinitivamente protratta.
Si parla di funzione di cognizione perché il processo civile serve non solo per il
riconoscimento di determinate situazioni giuridiche, ma anche per l’adempimento
coattivo di determinati obbligazioni che siano state accertate sul piano sostanziale. In
questa seconda ipotesi si parla di processo di tipo ESECUTIVO (procedura civile 2). Il
diritto è già certo, non si discute dell’esistenza ma non è adempiuto quindi bisogna
portarlo ad adempimento coattivo. Per adempiere alla funzione di esecuzione del
processo serve l’organo giurisdizionale che mette a disposizione gli strumenti. Si ha ad
oggetto la violazione di una situazione per inadempimento. Diversa ampiezza tra le
due parti del processo. L’esecuzione forzata vuol conseguire l’attuazione pratica,
materiale della regola, in via coattiva o forzata, ossia attraverso l’impiego effettivo o
potenziale della forza da parte dell’ordinamento. L’organo che viene in rilievo non è il
giudice, ma l’organo esecutivo, cioè tendenzialmente l’ufficiale giudiziario (possibile
impiego della forza per superare eventuali resistenze del soggetto che subisce
l’esecuzione).
Il terzo tipo di attività giurisdizionale è l’attività cautelare che, pur avendo una
funzione proprio nell’ambito della funzione generale della giurisdizione, tuttavia tale
funzione non è autonoma, ma strumentale rispetto a quella della cognizione o
dell’esecuzione o di entrambe. La sua funzione propria è di ovviare ai pericoli che,
durante il tempo occorrente per ottenere la tutela giurisdizionale, possono
compromettere il risultato o la fruttuosità.
La quarta funzione del processo è quella che a volte l’ordinamento assegna al giudice
civile per la tutela di meri interessi privati di rilevanza generale . Si tratta della
funzione di giurisdizione volontaria del processo che è un processo di tipo
VOLONTARIO. Al giudice non è chiesto di tutelare situazione giuridiche perfette ma
meri interessi privati. Per questa ragione, la caratteristica di tale funzione è che
potrebbe essere accostata alla funzione amministrativa. Il fine è quello di adottare le
misure più adeguate per la tutela, non tende ad attuare diritti, ma semplicemente ad
integrare o realizzare la (o rimuovere un ostacolo alla) fattispecie costitutiva di uno
stato personale o familiare (es. separazione consensuale dei coniugi che deve essere
omologata dal tribunale) o di un determinato potere (es. autorizzazione da parte del
giudice tutelare che consente l’alienazione di beni appartenenti al minore) o della
vicenda costitutiva, modificativa o estintiva di una persona giuridica (verifiche o ordini
che possono condizionare l’iscrizione nel registro delle imprese delle modifiche dello
statuto delle SPA) o di altre situazioni simili. A differenza dell’attività amministrativa,
la giurisdizione volontaria non tutela interessi immediati dello Stato, ma interessi
privati che solo mediatamente investono lo Stato. La giurisdizione volontaria si svolge
con forme procedimentali che presentano l’elemento tipico del concludersi con
provvedimenti caratterizzati dalla revocabilità e dalla modificabilità con la
conseguente inidoneità alla cosa giudicata (infatti si occupa non di diritti, ma di
interessi).
ESEMPIO 48 c.c. = un soggetto che è scomparso ed ha un patrimonio da gestire. Tutti
gli interessati a salvaguardia del patrimonio possono rivolgersi al giudice in attesa che
lo scomparso si faccia vivo (situazione transitoria). La posizione dello scomparso non è
status personale ma emerge l’esigenza di tutelare un interesse privato perché lo
scomparso non può gestire il patrimonio. Si nomina, quindi, un curatore e si adottano
le misure adeguate per la salvaguardia del patrimonio.
Altro ESEMPIO: 2409 c.c. = nel caso in cui gli amministratori di una società siano
incorsi in gravi irregolarità gestionali, il p.m. può chiedere al giudice civile di
sostituirli; questo è un intervento in via d’urgenza per salvaguardare l’interesse della
società.
Terzo ESEMPIO = in caso di soggetto interdetto, gli atti di straordinaria
amministrazione possono essere compiuti dal tutore dell’interdetto previa richiesta di
autorizzazione del giudice tutelare (gli atti di ordinaria amministrazione può compierli
da sé) controllo amministrativo di correttezza dell’operato del tutore. Effetti
provvisori, suscettibili di modifica.
Rapporti tra i diversi tipi di attività giurisdizionale: riguardo la funzione di cognizione e quella
di esecuzione forzata, l’una accerta un diritto, formulandolo in un regola concreta idonea a
diventare incontrovertibile, l’altra attua materialmente questa regola così formulata e
accertata, l’una viene incontro all’esigenza di certezza, l’altra all’esigenza di attuazione pratica.
Queste due esigenze sono il duplice aspetto dell’unica esigenza di tutela giurisdizionale
(prima si accerta un diritto, poi lo si attua) quando la cognizione si svolge in funzione della
successiva esecuzione (anche se poi questa non sarà effettuata perché per esempio il debitore
adempie spontaneamente o perché il creditore ha preferito non procedere oltre), il
provvedimento che la conclude prende il nome di CONDANNA, nome che si riflette su questo
tipo di attività di cognizione e sulla stessa domanda introduttiva di essa. In questa linea
unitaria trova posto l’attività cautelare (eventuale).
Ma non sempre l’esigenza di tutela si manifesta nel duplice aspetto, con entrambe le attività
casi in cui l’esigenza di tutela o di attività giurisdizionale è per di per sé di sola cognizione
o di sola esecuzione. La prima si verifica in tutti i casi in cui l’esigenza stessa non tocca il
mondo materiale, o perché non si è verificata alcuna violazione (cognizione costitutiva
necessaria = tutela con la modifica giuridica attuabile solo dal giudice/cognizione di
accertamento mero = tutela con la determinazione della certezza obiettiva) o perché si tratta
di violazione le cui conseguenze possono essere eliminate senza operare sul mondo materiale
(cognizione costitutiva non necessaria = la violazione consiste nella mancata attuazione di
modifica giuridica che può essere attuata senz’altro dal giudice, in via coattiva, ma senza
operare nel mondo materiale, c.d. esecuzione coattiva non forzata). La seconda si verifica nei
casi in cui l’ordinamento ritiene di poter consentire all’esecuzione forzata senza quel massimo
grado di certezza obiettiva, ma con un minor grado considerato sufficiente ai fini
dell’esecuzione casi in cui l’esecuzione che presuppone sempre un “titolo esecutivo”
(documento che attesta l’esistenza del diritto in modo certo per poter essere eseguito e che è
di origine giudiziale e precisamente una condanna) si fonda su titoli esecutivi c.d.
stragiudiziali, ossia di formazione non giudiziale (cambiali, assegni, atti notarili ecc.).
Le ipotesi di esecuzione forzata senza la previa determinazione dell’incontrovertibilità
propria del giudicato, lascia aperta la possibilità di un giudizio di cognizione per accertamento
del diritto, giudizio che può svolgersi ad iniziativa di chi subisce l’esecuzione, con la funzione
di venire incontro all’esigenza di paralizzare l’esecuzione stessa; la quale esigenza può aversi
anche se ci sono nuovi fatti sopraggiunti al giudicato (avvenuto pagamento dopo la
formazione del giudicato). Il giudizio di cognizione prende il nome di “opposizione
all’esecuzione” ed è una parentesi di cognizione nel processo di esecuzione. Tale ipotesi può
verificarsi anche nei casi in cui il giudizio di cognizione ha già condotto ad una condanna, sulla
quale però non è ancora sceso il giudicato, perché è in corso, o può ancora essere proposto, il
secondo grado di giudizio o il giudizio di cassazione.
L’art. 282 c.p.c. enuncia che “la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le
parti”; l’art. 283 c.p.c. prevede la possibilità di sospensione dell’esecuzione della sentenza (o
della sua esecuzione) da parte del giudice dell’appello.
Completa estraneità dell’attività di volontaria giurisdizione. Essa è estranea alla funzione di
attuazione dei diritti (solo interessi o aspettative).
3 marzo 2015
Il processo civile di cognizione è a tutela dei diritti soggettivi, potestativi e degli status.
Il procedere giuridico in cui consiste il processo si realizza attraverso una successione
alternata di poteri e di atti; i poteri introducono gli atti che danno luogo a nuove situazioni di
dovere, di liceità, di potere quelle di potere consentono altri atti: e così via fino all’atto
conclusivo che, nel processo di cognizione, è l’atto di accertamento definitivo (sentenza), e nel
processo esecutivo è l’atto realizzativo del diritto del creditore serie di situazioni giuridiche
(processuali) che introducono atti (processuali), e di atti che danno luogo a situazioni, si
realizza quella dinamica giuridica che è l’essenza propria del processo come procedere
giuridico. Situazioni:
-le facoltà = sono piuttosto rare nel processo e non contribuiscono alla dinamica perché si
esauriscono in sé stesse senza dar luogo a modificazioni giuridiche.
-i doveri = contribuiscono, per sé stessi, alla dinamica del processo che è affidata interamente
ai poteri. Tuttavia molti atti che adempiono doveri contribuiscono in quanto sono valutati
come poteri. Doppia valutazione tipica degli organi del processo (ufficiale giudiziario che,
notificando l’atto di citazione, esercita un potere poiché l’atto compiuto dà luogo a altre
situazioni giuridiche, ma al tempo stesso assolve un dovere/l’atto conclusivo del processo,
ossia l’atto col quale il giudice rende il proprio giudizio, così assolvendo al suo dovere
decisorio). Principalmente i doveri riguardano gli organi del processo. Per quanto riguarda le
parti, i doveri sono riguardano limitate e generiche figure quando si dice la parte “deve” in
realtà si sta parlando di poteri, e la legge parla in questi termini perché il relativo
comportamento è strumento necessario per conseguire il risultato dovuto = questi poteri
sono chiamati ONERI, come particolari aspetti di taluni poteri.
-i poteri = assolvono alla funzione essenziale nel progredire del processo.
Tutte queste situazioni giuridiche soggettive processuali sono dette semplici, perché
corrispondono ciascuna ad un singolo comportamento, che si realizza con un singolo atto,
preso in considerazione da una singola norma. Accanto a queste, si possono individuare altre
situazioni che, anziché riferirsi a singoli atti del processo, riguardano l’intera serie di quegli
atti e si riferiscono al risultato unitario del processo (esecuzione o cognizione) dette
globali o composite (es. globale e generico dovere decisorio del giudice, che si realizza
attraverso l’intera serie degli atti processuali del giudice in funzione del dovere, e non
soltanto con l’ultimo atto della serie).
Dobbiamo individuare l’obiettivo del processo e in che modo raggiunge gli obiettivi che si
sono prefissati.
Innanzitutto perché è definito processo di cognizione? Perché la funzione che svolge il giudice
è quella di conoscere.
L’attività del giudice, all’interno del processo, consta di due parti (due sotto-attività
cognitive):
- individuazione di una norma generale ed astratta (sostanziale) che ritiene si applichi
nel caso di specie (attività di interpretazione);
- ricerca dei fatti costitutivi della situazione giuridica che si intende tutelare (attività
correlata alla prima). Deve vedere se nel caso di specie si siano verificati i fatti che in
termini generali la norma individua come fatti costitutivi del diritto o del rapporto.
Accerta se quanto è riferito dal soggetto che chiede tutela si sia effettivamente
verificato nella realtà (attività di accertamento di tipo fattuale).
All’esito di queste attività di accertamento, il giudice accerterà i fatti attraverso l’assunzione
delle cosiddette prove o mezzi di prova (cuore del processo di cognizione) e attraverso il
racconto dei fatti da colui che chiede tutela.
Il giudice cataloga il fatto all’interno di una norma generale ed astratta e accerta che questi
fatti raccontati da chi pretende tutela si siano effettivamente verificati. Alla fine di queste
attività, se risulta che quei fatti si sono verificati, il giudice arriva alla decisione, al giudizio,
cioè riterrà che il caso di specie debba trovare applicazione quella norma.
Quindi, se i fatti sono considerati come fatti costitutivi della situazione giuridica e quindi
effettivamente esistenti, l’esito sarà l’accoglimento della domanda di tutela.
Nel caso di esito negativo, si avrà rigetto della domanda di tutela.
In entrambi i casi si avrà, comunque, una decisione.
L’esigenza di attivare il giudice nasce o dal fatto che un diritto è contestato o dal fatto che un
diritto è violato o dall’esigenza di dare attuazione ad un diritto potestativo o ad uno status
personale.
La finalità del processo è di ottenere la decisione del giudice e, quindi, di accertare
definitivamente l’esistenza o meno di un diritto soggettivo che è contestato, della violazione di
un diritto soggettivo, dell’esistenza di un diritto potestativo, dell’esistenza dei presupposti per
l’attuazione di uno status. Accertamento definitivo dei presupposti della tutela richiesta dalla
parte.
Come si ottiene questo obiettivo? Una volta che c’è stato lo svolgimento del processo di
cognizione e, quindi, il risultato della decisione del giudice, questa decisione (nella forma della
sentenza) per l’ordinamento non è ancora definitiva.
Perché l’ordinamento non riconosce subito la definitività della decisione? La spiegazione si
trova in una norma costituzionale 2*comma art. 24 Cost. che dice che va assicurato il diritto
di difesa in qualsiasi stato e grado del giudizio; per questa ragione l’accertamento contenuto
nella sentenza di 1*grado non può essere considerato un accertamento definitivo, ma tale lo
diventerà quando saranno esauriti le possibilità di esperire i cosiddetti mezzi di
impugnazione ordinari (riesami successivi) art.324 c.p.c. la sentenza pronunciata dal
giudice di 1*grado è considerata passata in giudicato una volta che sono decorsi i termini per
esperire i mezzi ordinari di impugnazione (i principali sono il regolamento di competenza,
l’appello, il ricorso per Cassazione). L’ordinamento quindi ritiene questa prima sentenza
provvisoria, diventerà definitiva dopo che le parti avranno avuto la possibilità di esercitare il
proprio diritto di difesa (mezzi di impugnazione) si consente alle parti, che ritengano
l’operato del giudice non corretto, di far valere le proprie ragioni.
L’OBIETTIVO, quindi, del processo di cognizione è l’accertamento definitivo della fattispecie
(c.d. accertamento con forza di giudicato)(art. 324 c.p.c. coordinato con l’art. 2909 c.c.). L’art.
324 c.p.c. ci dice quand’è che una sentenza è da considerare definitiva, non più impugnabile
(quando sono decorsi i termini per l’impugnazione = fenomeno processuale); l’art. 2909 c.c. ci
dice che l’accertamento che non è più impugnabile fa stato tra le parti (diventa lex specialis
tra di esse). In sostanza, tra le parti non può non valere quella regola che il giudice ha
accertato e si applica la norma concreta che il giudice ha individuato in sede di pronuncia
giurisdizionale, non quella astratta. Per assicurare questa incontrovertibilità tra le parti,
l’ordinamento trae due conseguenze:
A)impedisce a qualsiasi altro giudice di ri-accertare quanto sia stato già accertato in una
sentenza definitiva (passata in giudicato), stessa fattispecie non può essere nuovamente
dedotta;
B)impone a qualsiasi altro giudice che, per decidere un’altra controversia dovesse tener
presente quanto è stato accertato nella sentenza già passata in giudicato, deve farlo nel modo
in cui il primo giudice ha accertato la situazione (effetto conformativo) ipotesi = tutte le
volte in cui la seconda controversia riguarda la decisione su una fattispecie giuridica tra i cui
elementi costitutivi rientra anche la fattispecie giuridica decisa dalla prima. Esempio
fenomeno fattispecie complesse contratto di sublocazione (quando il locatario di un
immobile loca l’immobile ad un altro soggetto) tra i suoi elementi costitutivi ha un contratto
di locazione, nonostante siano due specie distinte; nel caso in cui, in un precedente processo il
contratto di locazione era stato dichiarato nullo, il secondo giudice, che deve risolvere
controversia sul contratto di sublocazione, deve conformarsi.
Una volta che si è avuto un accertamento con forza di giudicato innanzitutto non può essere
modificato neanche dal legislatore (eventuali leggi successive che dovessero disciplinare la
fattispecie sostanziale in maniera diversa, non influiscono sul giudicato, ovviamente civile), in
secondo luogo se vengono scoperti dei fatti che si sono verificati prima che si formasse il
giudicato, questi non sono più utilizzabili (non più nuovo giudizio) nel civile esiste il
principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile = il giudicato si forma non
solo alla luce di quanto le parti hanno effettivamente dedotto, allegato in giudizio, ma anche
con tutti gli elementi fattuali che avrebbero potuto essere dedotti e le parti non hanno
dedotto.
Tuttavia per alcuni elementi fattuali se le parti li dovessero scoprire dopo il giudicato, per
l’ordinamento sono comunque utilizzabili attraverso alcuni mezzi di impugnazione, detti
STRAORDINARI, che consentono alle parti di ottenere una nuova valutazione del giudice
(quelli ordinari sono quelli esperibili solo prima che la sentenza sia passata in giudicato).
Questa disciplina è contenuta al libro II del codice (processo di cognizione).
QUINDI alla fine di ogni processo vi sarà sempre il processo; l’ordinamento ha previsto che
talvolta anche l’accertamento ancora non definitivo produca alcuni effetti, detti effetti
esecutivi o ad efficacia esecutiva della sentenza (collegamento processo di cognizione e di
esecuzione). Art. 282 c.p.c. = la sentenza di 1*grado (non passata in giudicato) è già dotata di
efficacia esecutiva, cioè è titolo idoneo per intraprendere il processo di esecuzione forzata.
Ancora non si sa con certezza che quel diritto esiste, ma per l’ordinamento è un accertamento
adeguato per intraprendere il processo di esecuzione forzata (l’attore può vedere
adempimento coattivo verso la parte debitrice) occorre sapere però quali sentenze di 1*
grado sono dotate di efficacia esecutiva (art. 282 le dà per presupposte) = quelle di condanna.
Se teniamo presente le diverse tutele che vengono offerte mero accertamento, condanna,
effetto modificativo/costitutivo/estintivo, in quale di queste ipotesi emerge l’esigenza di
avere il processo esecutivo? Solo nella CONDANNA.
nell’accertamento non serve altro, perché il bisogno di tutela è soddisfatto con
l’accertamento del giudice (risultato del processo di cognizione)
il bisogno di tutela non è pienamente soddisfatto, quando si tratta di reintegrare il
diritto violato, perché lì all’accertamento si affianca la condanna dell’autore del danno
a reintegrare il danno che ha causato. Il giudice della cognizione quindi accerta
l’esistenza del diritto e poi condanna; però condannando non ha adeguato la realtà
fattuale a quanto è stato accertato (a meno che l’autore del danno non soddisfa il
diritto spontaneamente) per cui nasce l’esigenza di avere a disposizione strumenti
di adempimento coattivo ESECUZIONE FORZATA.
L’art. 282 c.p.c. guarda anche alle sentenze modificative/estintive/costitutive, che
riguardano la tutela del diritto potestativo o dello status? NO, perché la sentenza
costitutiva (del giudice della cognizione) è lei direttamente che produce gli effetti. Se
queste situazioni non sono suscettibili di essere violati, spazio per la condanna non c’è,
perché la sua utilità emerge solo dove c’è una violazione che comporti l’esigenza di
reintegrazione del diritto. Altra questione appurato che questi effetti scaturiscono
direttamente dalla sentenza, da quale momento scaturiranno? L’orientamento
prevalente è che, tranne alcuni casi – per es. art.16 legge fallimentare in cui il
legislatore prevede che fin dal momento della pronuncia la sentenza costitutiva
produce effetti) – gli effetti si producono solo con il passaggio in giudicato.
Anche se l’accertamento non è ancora definitivo è idoneo a consentire di portare ad
esecuzione forzata quanto è stato accertato. In queste ipotesi, se colui che è riconosciuto
titolare del diritto all’esito della sentenza di 1* grado, dovesse intraprendere un processo
di esecuzione forzata e avverso la sentenza dovesse proporsi l’impugnazione, si può avere
parallelamente sullo stesso diritto tanto il processo di esecuzione forzata, quanto il
processo di cognizione (prosegue in sede di impugnazione). Se non è definitivo
l’accertamento, questo potrebbe anche cambiare ma intanto il titolare del diritto ha
avviato il processo di esecuzione forzata sulla base della sentenza di primo grado.
L’ordinamento non può consentire che gli effetti che sono stati ottenuti con il processo di
esecuzione forzata ignorino la modifica dell’accertamento avvenuta in sede di
impugnazione quanto accertato dal giudice dell’impugnazione si rifletterà anche sugli
esiti del processo di esecuzione = prevale quello che accerta il giudice di cognizione.
Può accadere che ci siano nello stesso processo domande di tutela ad oggetto tutela di tipo
costitutivo affiancata con una domanda di tutela di condanna.
4 marzo 2015
Tre sono i principali protagonisti del processo: il soggetto che chiede tutela, il soggetto a cui si
chiede tutela ed il soggetto nei cui confronti è richiesta tutela.
1. La situazione giuridica composita che fa capo al soggetto che agisce per chiedere la
tutela giurisdizionale (ATTORE) è l’azione. Con la domanda l’attore esercita un ben definito
potere, ossia una situazione processuale semplice: il potere di proporre la domanda.
Contenuto della domanda innanzitutto l’atto con cui si propone la domanda può assumere
le forme dell’atto di citazione oppure quelle del ricorso; in secondo luogo si deve trattare,
ovviamente, di una domanda di tutela.
Perché si abbia il processo ci devono essere due presupposti di esistenza del processo (non
sufficienti per avere la decisione nel merito),che sono requisiti che devono esistere prima
dell’atto che pone in essere quel rapporto, l’atto con il quale si chiede tutela giurisdizionale,
cioè la domanda.:
-che un soggetto attivi un giudice (DOMANDA);
-che ci sia un giudice chiamato a esercitare la sua funzione giurisdizionale (ESISTENZA DEL
GIUDICE).
Colui che ha proposto la domanda (a garanzia della posizione di terzietà e imparzialità del
giudice) vuole una decisione nel merito che tuteli il suo diritto (afferma che il suo diritto è
stato violato). Per avere la pronuncia nel merito ci devono essere altri requisiti necessari,
dette condizioni dell’azione, la cui mancanza fa sì che il processo non possa proseguire fino
alla pronuncia sul merito, ma debba arrestarsi subito per dare atto, con pronuncia sul
processo, di quella mancanza. Questi requisiti sono aspetti di un unico requisito della
domanda che si chiama ipotetica accoglibilità (la domanda deve contenere l’affermazione di
un diritto esistente, deve contenere l’affermazione che appartiene a colui che chiede tutela, il
diritto deve essere stato violato; in caso contrario il giudice non avrebbe nessun motivo di
accogliere la domanda). Quando la domanda possiede tutti quei requisiti che la rendono
ipoteticamente accoglibile, questa costituisce il primo atto di esercizio dell’azione, intesa
come quella situazione giuridica composita o sequenza di situazioni che ricomprende in sé
l’intera posizione giuridica del soggetto che chiede tutela giurisdizionale, con riferimento
all’intero processo.
Situazione giuridica processuale azione (di cognizione). Il diritto di azione è una posizione
giuridica in capo a qualunque soggetto (cittadino o no) che ritenga di essere titolare di un
diritto violato [art.24 Cost., 1comma tutti hanno diritto di agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti (soggettivi, potestativi e status) e interessi legittimi]. Se un soggetto è titolare di
un diritto sostanziale, può sempre farlo valere in giudizio, qualora venga violato. La sola
limitazione riguarda la capacità, quindi, si sottrae agli incapaci i poteri relativi all’esercizio dei
loro diritti, per attribuire tali poteri ai loro rappresentanti legali.
Il diritto di azione è un diritto distinto, ossia autonomo, dal diritto sostanziale che con esso si
fa valere, anche se strumentale rispetto a quest’ultimo. A differenza dal diritto sostanziale, il
diritto di azione non ha come contenuto una prestazione del titolare passivo dello stesso
diritto sostanziale, bensì la prestazione di un altro ed autonomo soggetto: il giudice (organo
giurisdizionale), che opera come organo dello Stato l’azione è un diritto verso il giudice ad
un provvedimento sul merito.
Le condizioni dell’azione (cioè gli elementi necessari della domanda) sono:
-possibilità giuridica nel proporre la domanda l’attore individui una situazione giuridica
che per l’ordinamento costituisce un diritto soggettivo, potestativo o status, che è tutelabile;
-interesse ad agire situazione giuridica bisognosa o bisognevole di tutela (violazione);
-legittimazione ad agire il soggetto che propone la domanda deve essere legittimato, cioè
titolare del diritto rispetto al quale chiede tutela (capacità o rappresentanza processuale
unica nozione di LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE).
Le condizioni dell’azione devono esistere nel momento in cui questa viene esercitata.
Riflessioni degli ordinamenti riguardo tali elementi nel corso dei secoli le cose sono
cambiate. Dai romani fino ai primi anni del ‘900 = quando l’attore esercitava il diritto di
azione doveva dimostrare che quelle condizioni esistevano in concreto, altrimenti non poteva
accedere al processo (azione in senso concreto = funzione giurisdizionale particolarmente
preziosa, no mera affermazione di esistenza delle condizioni ma loro dimostrazione).
Dall’inizio del ‘900 in poi = conclusione che per poter configurare l’esistenza delle condizioni
dell’azione è sufficiente affermarne l’esistenza (azione in senso astratto = l’azione sussiste
solo perché colui che la esercita afferma l’esistenza degli elementi). Ragione storica
dell’evoluzione gli ordinamenti moderni hanno sentito più forte l’esigenza che l’intervento
del giudice arrivasse nel momento in cui veniva prospettata una controversia all’interno
dell’ordinamento e per evitare che la crisi sorta nell’ordinamento degenerasse, l’intervento
dell’organo giurisdizionale chiedesse la mera affermazione non concreta affermazione.
Funzione giurisdizionale di eliminazione di contrasti nell’ordinamento.
Condizioni dell’azione che consentono al giudice dopo la domanda di arrivare al giudizio sul
merito (valide sia nel processo di cognizione che negli altri processi, ma con differente
contenuto):
Possibilità giuridica nel momento in cui si esercita la domanda, l’attore deve
individuare una situazione giuridica che per l’ordinamento è tutelabile. Ciò si ha
quando la situazione è tutelabile sul piano sostanziale (non si può affermare un diritto
se non c’è almeno una norma che preveda in astratto quel diritto e se non si afferma
l’accadimento concreto di uno o più fatti costitutivi previsti in astratto da quella
norma). Ci sono dei casi nei quali l’ordinamento sostanziale non tutela una
determinata situazione giuridica o la situazione non è configurabile come diritto
soggettivo: in entrambi i casi manca la possibilità giuridica (es. aspettativa non è un
diritto soggettivo/tutela interesse legittimo davanti al giudice civile non è possibile
perché non ha potere giurisdizionale/art.1933c.c. mancanza di azione = debiti di gioco
non gestiti dallo Stato eventuali crediti maturati sul tavolo da gioco, astrattamente
sarebbero diritti soggettivi, ma l’ordinamento non dà diritto di azione perché non li
ritiene crediti meritevoli di tutela).
Interesse ad agire art.100 c.p.c. “per proporre domanda o per contraddire alla
stessa, è necessario avervi interesse”. Interesse alla tutela giurisdizionale che consegue
alla violazione, contestazione o vanto, o alla circostanza che si tratti di un diritto ad una
modifica giuridica realizzabile solo ad opera del giudice (giurisdizione costitutiva
necessaria). La situazione che viene configurata come situazione giuridica tutelata
dall’ordinamento quale diritto soggettivo, ha bisogno di tutela di tipo cognitivo
(accertamento o condanna o funzione costitutiva, modificativa, estintiva). E’ dato dalla
violazione, perché solo con essa nasce il bisogno di tutela; tuttavia le modalità con cui
la violazione deve configurarsi saranno diverse a seconda del provvedimento che
l’attore va a chiedere al giudice (tipo di tutela), cioè di accertamento, condanna o
funzione cost., est., mod. E’ da tenere presente quando si va a proporre domanda
giudiziale, è necessario che emergano da un lato gli elementi costitutivi del diritto
(situazione giuridica tutelata dall’ordinamento), dall’altro che emergano gli elementi
che configurano la violazione del diritto stesso, altrimenti la domanda è priva della
condizione di interesse ad agire. La lesione è solo affermata, in quanto l’interesse ad
agire è solo un contenuto della domanda, perché se il giudice potesse già riscontrare la
verità di quando è affermato nella domanda stessa, il processo di cognizione sarebbe
già concluso (esiste il diritto e la sua violazione). Riguardo l’accertamento mero, questo
si ha tutte le volte in cui si ha una contestazione del diritto soggettivo di cui è titolare
un soggetto. La violazione si limita al non riconoscimento e l’interesse ad agire sarà
dato da tale contestazione. Va specificato che tale contestazione può limitarsi al non
riconoscimento di un diritto in capo ad un soggetto (contestazione vera e propria),
oppure non si riconosce pienamente tale diritto (lo si riconosce ma in maniera limitata,
perché uno ritiene di essere titolare di un diritto parziale sul bene, es. servitù di
passaggio su una proprietà/contestazione come vanto dove si accerta la non esistenza
di tale diritto parziale). La condanna invece si configura quando c’è violazione del
diritto, e quindi un danno causato da terzi sul bene sul quale il soggetto ha il diritto
facilmente configurabile se si tratta di beni materiali, ma, quando si ha a che fare con
obbligazioni ad adempiere, il danno si configura nel mancato adempimento o
nell’inesatto adempimento. Qui non si pone un problema di contestazione del diritto,
quindi non basta l’accertamento del diritto; potrebbe anche accadere che non si
contesta il diritto, ma si procura solo un danno o non si adempie esattamente
l’obbligazione alla quale si era tenuti è sufficiente la tutela di condanna.. Solo con la
condanna, il diritto violato trova piena tutela. Ne deriva che se nel formulare la
domanda iniziale, l’attore chiede una tutela di condanna al giudice, ma configura un
interesse ad agire che è dato dalla mera contestazione, c’è un non allineamento e non
corretto esercizio del diritto di azione. Nella pratica può accadere che insieme alla
tutela di mero accertamento, l’attore configuri anche una tutela di condanna, purché vi
sia interesse ad agire. La tutela costitutiva si ha quando si tratta di tutelare un diritto
potestativo (non suscettibile di violazione) o status. In entrambi i casi, la forma di
tutela cognitiva adeguata è quella della giurisdizione costitutiva necessaria. Il diritto
potestativo è tutelabile tutte le volte in cui si erano dimostrati esistenti i presupposti
fattuali indicati dal legislatore sostanziale (che fanno sorgere quel determinato diritto
potestativo) il soggetto passivo contesta l’esistenza dei presupposti del diritto
potestativo. Nel caso di diritto potestativo nascente dall’inadempimento del contratto
(art. 1453c.c.), l’articolo dice che nasce tale diritto di chiedere e ottenere la risoluzione
del contratto quando ricorrono 3elementi: a)si tratta di contratto sinallagmatico; b)il
soggetto che chiede la risoluzione abbia adempiuto alle sue prestazioni; c)l’altro
contraente non abbia adempiuto alle prestazioni dovute (es. contratto di
compravendita obbligazioni in capo ad entrambi. Inadempienza del venditore che
non ha trasferito il possesso. Il compratore è titolare del diritto potestativo di chiedere
in via giudiziale la risoluzione del contratto, se il venditore contesta tale diritto. Si
chiede al giudice se quei presupposti fattuali sussistano oppure no.). Stesso discorso
riguardo i rapporti coniugali (impossibilità a proseguire il rapporto coniugale). Il
coniuge che chiede la separazione o il divorzio (dopo 3anni di separazione) deve
dimostrare i presupposti fattuali che impediscono la prosecuzione del rapporto
coniugale. Se i coniugi contestano l’esistenza dei presupposti, sarà il giudice ad
accertarlo. Per quanto riguarda lo status la situazione è praticamente identica. Il
problema fondamentale è dato dal fatto che per tutti gli status personali è necessario
l’intervento del giudice per accertarne i presupposti fattuali. L’interesse ad agire c’è
sempre e si dice che è in re ipsa, ossia nell’affermazione del semplice fatto costitutivo
del diritto alla modificazione giuridica o diritto potestativo necessario. Mancando
l’interesse ad agire, il giudice non avrà motivo di portare il suo esame nel merito, ma
dovrà arrestarsi al rilievo di tale difetto (difetto di interesse e quindi d’azione) per
configurare l’interesse ad agire, colui che chiede il riconoscimento di questo status,
dovrà prospettare l’esistenza dei presupposti fattuali che l’ordinamento configura
come necessari.
9marzo2015
Legittimazione ad agire ORDINARIA titolarità del diritto che si intende tutelare e si
estrinseca nella regola dell’art. 81 c.p.c.: “Fuori dei casi espressamente previsti dalla
legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”. E’
espressamente detto che nessuno può agire per un diritto altrui, salvo i casi previsti
dalla legge. Bisogna affermarsi titolari di quel diritto che si intende tutelare lato
attivo della domanda (ottica dell’articolo). Questa condizione ovviamente vale anche
dal lato passivo = affermata violazione da parte del soggetto che chiamiamo in causa.
L’azione si propone nei confronti di chi diciamo essere l’autore della violazione. Quindi
diritto proprio di colui che agisce. Se non c’è questa coincidenza ovviamente c’è un
vizio della legittimazione. L’ordinamento impone questo perché qui c’è il risultato del
riconoscimento di una particolarità del diritto soggettivo che è la disponibilità dei
diritti vi sarebbe una limitazione della disponibilità dei diritto. Vi deve essere piena
corrispondenza tra diritto di azione e titolarità del diritto sostanziale.
Legittimazione ad agire STRAORDINARIA (o SOSTITUZIONE PROCESSUALE): aspetto
rilevante della legittimazione ad agire è il riferimento che troviamo nell’inciso iniziale
dell’art 81 c.p.c salvo i casi previsti dalla legge = ci dice che nell’ordinamento ci sono
alcune ipotesi nelle quali non vale questa regola, vi è quindi una DEROGA il diritto di
azione, oltre che in capo al titolare del diritto, è anche in capo ad altri soggetti (e per
quali ragioni si prevedono tali eccezioni di non corrispondenza).
Prima considerazione: tali ipotesi, dato che sono eccezionali, sono TIPICHE.
Seconda considerazione: le troviamo nel c.c. e in qualche legge speciale che utilizza tale
eccezione.
Terza considerazione: il legislatore allarga la legittimazione ad agire, non la toglie al
titolare, perché vi è l’esigenza di consentire la tutelabilità in maniera più diffusa, a
prescindere dalla volontà del suo titolare. Perché? Perché vi sono esigenze particolari
meritevoli di attenzione da parte dell’ordinamento. Tali esigenze sono:
- prima ipotesi: prevista dal c.c. art 2900 c.c. azione surrogatoria: il presupposto è che
c’è un soggetto debitore di un altro soggetto trascura la tutela dei propri diritti
soggettivi (patrimoniali). Ciò comporta che il suo creditore potrebbe subire danni in
quanto il creditore farebbe valere i suoi diritti di credito sul patrimonio del debitore.
Se il debitore si disinteressa, indirettamente danneggia il creditore e il suo diritto.
L’art. 2900 consente che la tutela dei diritti patrimoniali del debitore possa avvenire in
via eccezionale dal creditore. Cosi il creditore, per salvaguardare la garanzia che ha sul
patrimonio del debitore, si sostituisce al debitore solo per l’azione (no nel diritto
sostanziale) in nome proprio per la tutela di un diritto altrui nei confronti di terzi. Il
titolare del diritto non è privato del diritto di azione ma vi è un concorso di
legittimazione ad agire. L’azione può avvenire da parte di entrambi ma il fatto di
essere creditore lo legittima ad agire.
- seconda ipotesi: prevista da legge speciale azione diretta che ha il danneggiato nei
confronti dell’assicuratore in sede di responsabilità civile (codice assicurazioni). Il
danneggiato, in sede di responsabilità civile, derivante da circolazione dei veicoli,
invece di aspettare ad agire nei confronti del danneggiante, può direttamente agire nei
confronti dell’assicuratore. L’assicurato vanta un diritto nei confronti della sua
compagnia, ma la posizione del danneggiato è meritevole di tutela e quindi può agire
direttamente nei confronti della compagnia assicurativa del danneggiante.
Legittimazione straordinaria poiché è diversa dalla regola. Qui c’è un’esigenza privata
ancora una volta e una SOSTITUZIONE PROCESSUALE.
- terza ipotesi: esistono molte ipotesi in cui ci sono diritti soggettivi che sono
caratterizzati da un carattere di INDISPONIBILITA’ i diritti soggettivi sono
pienamente disponibili, ma talvolta (coinvolgono posizioni di interesse pubblico) in
alcuni casi per salvaguardare tale carattere di indisponibilità, si riconosce la
legittimazione ad agire, oltre al titolare, anche in capo a organo pubblico, cioè azione
ad opera del p.m. Vi sono ipotesi in cui il p.m. ha il potere di azione in sede civile in
concorso con il potere di azione del titolare della situazione giuridica stessa ipotesi
che attengono o al riconoscimento dello status personale oppure che riguardano la
sfera dei rapporti matrimoniali (privato ma di carattere indisponibile).
ESEMPIO l’imprenditore commerciale in stato di insolvenza può chiedere di essere
dichiarato fallito, ma può farlo anche il p.m., oltre che i creditori dell’imprenditore.
Altro ESEMPIO nullità del matrimonio. Si riconosce che la nullità per bigamia può
avvenire direttamente da uno dei due coniugi, ma anche su iniziativa del p.m. perché
c’è un interesse pubblicistico di non avere nell’ordinamento la bigamia.
Le ipotesi di legittimazione straordinaria (normalmente dal lato attivo) esistono
perché emerge un interesse di qualche soggetto privato meritevole di tutela, oppure
per salvaguardare interessi pubblicistici sottesi rispetto alla situazione giuridica che si
intende tutelare (carattere di indisponibilità sul piano sostanziale e processuale).
Sempre riguardo la legittimazione ad agire è emerso un problema della sua
individuazione rispetto a particolari situazioni soggettive che vengono individuate
negli interessi collettivi o diffusi.
Effetto dell’evoluzione dell’ordinamento di solito i diritti soggettivi sono individuali,
ma ora ci sono situazioni delle quali non sono titolari singoli individui, ma fanno capo a
gruppi definiti all’interno dell’ordinamento.
Prima ipotesi in un determinato luogo di villeggiatura è aperta una fabbrica che
emana fumi inquinanti; rispetto a tale comportamento illegittimo del proprietario della
fabbrica, chi si trova in prossimità ha il diritto di chiedere il risarcimento danni e, in
prospettiva futura, la cessazione di tali comportamenti illeciti = inibizione di tali
comportamenti. Si tratta di situazioni soggettive individuali dove si può individuare un
interesse collettivo di tutti i villeggianti che sono stati lesi. Vi è, quindi, un gruppo
meritevole di tutela il diritto dell’ambiente è un diritto collettivo per la
conservazione dell’ambiente, in cui i consociati vivono. Tali situazioni sono tutelabili in
sede processuale. INTERESSI COLLETTIVI O DIFFUSI. Per quanto riguarda la tutela
dell’ambiente si riconosce la legittimazione ad agire in maniera diffusa. Possibilità per
la tutela di tali situazioni: può agire chiunque degli appartenenti al gruppo meritevole
di tutela, con azione popolare perché agisce nell’interesse di tutti. Viene detta
LEGITTIMAZIONE DIFFUSA.
Seconda ipotesi: situazione in cui una determinata banca, che opera sul mercato in
condizioni di supremazia (multinazionale), predispone contratti di massa (condizioni
contratti definite dalla parte più forte, da una sola parte. Carattere generalizzato
adesione del soggetto più debole = il cliente della banca o il consumatore che aderisce
alle clausole contrattuali). Può accadere che ci sia una clausola che prevede
l’anatocismo = clausola nulla per il nostro ordinamento, vessatoria. Rispetto alla nullità
di tale clausola ci sono 2 posizioni distinte ma cumulate:
1) singoli consumatori, che hanno aderito a tale contratto e che si ritrovano tale
clausola, possono chiedere al giudice la nullità di tale clausola, perché vessatoria;
2) altra situazione più diffusa = intera categoria consumatori che non hanno stipulato il
contratto, ma hanno l’interesse che la banca operi in maniera corretta sul mercato.
Questa posizione appartiene a tutti gli appartenenti al gruppo dei consumatori, che
può pretendere che la banca, nel predisporre le condizioni contrattuali, non utilizzi
clausole vessatorie. L’ordinamento risolve tale problema (carattere sussidiario del
processo come convertire sul piano processuale situazioni che sul piano sostanziale
sono riconosciute dall’ordinamento) riconoscendo la legittimazione ad agire ordinaria
in capo a associazioni a tutela dei consumatori o degli utenti soggetti che sono
esponenziali rispetto alle situazioni che si devono tutelare = essi stessi portatori di tali
interessi e agiscono per ottenere la tutela di una situazione che continua a rimanere
collettiva, non si trasforma in individuale (altrimenti saremmo in ipotesi di
legittimazione straordinaria).
Ciò è esplicitato nell’art. 37 del codice del consumo (diritto di azione delle
associazioni) e sul piano processuale vi è l’azione collettiva inibitoria nell’art 140
codice consumo.
Entrambe sono ipotesi di LEGITTIMAZIONE ORDINARIA.
Per completezza del discorso bisogna richiamare l’attenzione sull’art 140 del codice
del consumo (azione inibitoria). L’azione inibitoria è un particolare tipo dell’azione di
condanna. L’azione di condanna, in via generale, mira all’integrazione nel diritto
violato (reintegrazione in forma specifica o per equivalente). L’azione inibitoria ha
l’obiettivo, per l’attore, di ottenere la tutela mediante cessazione dei comportamenti
lesivi. La tutela del diritto violato si ottiene non mediante reintegrazione, ma mediante
cessazione per il futuro dei comportamenti lesivi. E’ tipica degli interessi diffusi, perché
si vuole che il soggetto che opera sul mercato non tenga più quei comportamenti.
Per quanto riguarda il risarcimento ovviamente ci sarà un’azione individuale non
collettiva piani distinti. Se si tratta di reintegrazione si ritorna al diritto individuale.
Il comportamento del soggetto che opera nel mercato lesivo dei diritti individuale
dovrà risarcire individualmente tutte le posizioni, fatte valere dai singoli.
Diverso piano in cui opera la tutela con individuazione di soggetti legittimati ad agire
diversi (individuali o le associazioni/o chi abiti in quel luogo).
Tra le azioni previste dal codice consumo vi è un’azione particolare, introdotta nel
2010: azione di classe risarcitoria (140bis codice consumo) quest’azione non ha ad
oggetto la tutela di interessi collettivi o diffusi, ma si utilizza per ottenere dal giudice la
tutela cumulata di diritti individuali omogenei derivati dal comportamento
scorretto di un professionista o imprenditore. L’oggetto della tutela sono diritti
individuali omogenei a carattere risarcitorio. Può verificarsi che l’imprenditore per la
sua attività può aver provocato in capo a una moltitudine di soggetti un danno.
ESEMPIO la compagnia telefonica che illegittimamente ha fatto pagare ai suoi utenti
più di quanto avrebbe potuto far pagare, o calcolando la durata della telefonata in
maniera non corretta danni omogenei ad una moltitudine di soggetti.
Ne deriva che nascono in capo agli utenti, per effetto del comportamento, diritti
individuali ad ottenere il risarcimento. L’opportunità dell’articolo è di poter avere in
uno stesso processo la tutela di tutti questi diritti a carattere risarcitorio. L’azione è
avviata da uno dei soggetti che abbia subito tale danno e nel processo si possono
aggregare altri utenti che abbiano subito il danno stesso, aderendo all’azione avviata
dal primo utente. Qui non emergono le associazioni, ma c’è il singolo che agisce e,
conseguentemente, si dà la possibilità agli altri utenti, che si trovino nelle stesse
condizioni, ad aderire. L’azione di classe risarcitoria è esercitata nel processo e si può
utilizzare affinché ne benefici una classe, un gruppo di individui che non diventano essi
stessi attori. Se il giudice accerta la condotta illecita e la sussistenza dei danni da
risarcire e della decisione ne beneficeranno tutti.
L’azione è esistente dal 1963 ed è prevista nell’ordinamento americano con le famose
“class action”.
Utilità di tale azione ovviamente tutti potrebbero agire individualmente, ma
l’ordinamento ha previsto tale strumento quando l’entità dei danni provocati dalla
condotta illecita dell’imprenditore sia abbastanza esigua. Se l’entità è ridotta, infatti,
nessuno avrebbe l’interesse ad agire individualmente, perché le spese del processo
sarebbero maggiori rispetto al risarcimento.
Riepilogo Art. 81 legittimazione ad agire = titolarità del diritto in ossequio alla
disponibilità del diritto. ECCEZIONI tipiche perché emerge la volontà dell’ordinamento
di dare rilevanza a situazioni particolari = LEGITTIMAZIONE STRAORDINARIA O
SOSTITUZIONE PROCESSUALE, in cui vi è la sostituzione del legittimo titolare per
ottenere la tutela del diritto (azione surrogatoria, azione diretta, ipotesi del pm).
Problema degli interessi diffusi o collettivi e conseguente legittimazione ad agire
non vi sono titolari ma portatori (associazioni, singoli appartenenti al gruppo da cui
nasce la situazione giuridica).
Differenza tra azione collettiva e azione di classe (in quest’ultima si tutelano diritti
individuali a carattere omogeneo).
10 marzo 2015
Le condizioni dell’azione ci dicono di quale forma di tutela l’attore ha bisogno. L’ordinamento
processuale accanto alla cognizione, prevede anche l’esecuzione forzata anche in questo
caso ci sono condizioni dell’azione che avranno connotati diversi rispetti a quelle del processo
cognitivo.
Una volta stabilito in cosa consistono tali condizioni, bisogna riprendere il discorso sulle
diverse forme di tutela di cui può beneficiare l’attore nell’esercizio dell’azione di cognizione.
Ricapitolando: l’interesse ad agire (è dato dalla violazione del diritto)condiziona le forme di
tutela, perché in base a questo si comprende qual è la tutela richiesta.
Ripartizione dell’azione di cognizione in 3 parti:
-tutela di accertamento la violazione è una contestazione del diritto. E’ sufficiente che il
giudice accerti che il diritto esiste (alla fine sentenza di mero accertamento);
-tutela di condanna il mero accertamento non basta. C’è un inadempimento e va
reintegrato tale inadempimento di un diritto che si è realizzato (tutela reintegrazione per
equivalente o in forma specifica, o condanna di tipo inibitorio) (alla fine sentenza di
condanna);
-tutela costitutiva quando il bisogno dell’attore è di avere la costituzione, modificazione,
estinzione di un rapporto giuridico o status. In questi casi non si tratta di superare una
contestazione o inadempimento, ma di avere la costituzione, modificazione, estinzione di un
rapporto giuridico o status. Nel caso di rapporto giuridico, c’è un diritto potestativo che la
parte pretende di esercitare; nel caso dello status, la parte ritiene che ci sono i presupposti
fattuali per potere avere il riconoscimento dello status (alla fine sentenza costitutiva).
2. La situazione giuridica composita che fa capo al soggetto che presta la tutela, ossia
l’organo giurisdizionale (il giudice o l’organo esecutivo). A quel generico diritto alla tutela
giurisdizionale che è l’azione, corrisponde un generico dovere dello Stato, di prestare quella
tutela, con modalità e comportamenti diversi a seconda del tipo di tutela che è tenuto a
prestare: nella cognizione, formulando la regola concreta di legge, ossia decidendo
sull’esistenza o meno del diritto ed eventualmente attuando una modificazione giuridica;
nell’esecuzione forzata, svolgendo tutte le attività che sono preordinate dalla legge
all’attuazione effettiva del diritto; nella cautela, compiendo l’una e l’altra cosa.
Il giudice risponde ad una domanda di tutela, secondo controlli e bilanciamenti. Per avere
questi controlli, ci sono “paletti” per l’operato del giudice, valutati dalle parti. Questi “paletti”
li troviamo nel codice come “poteri del giudice” artt 112 e ss. c.p.c. (doveri più che poteri,
per improntare il dovere decisorio).
Nel processo di cognizione, di fronte all’azione, vi è il dovere (di decisione) dell’organo
giurisdizionale (qui il giudice) di compiere tutti quegli atti (entro i limiti fissati dal legislatore a
garanzia delle parti) che, coordinandosi a vicenda ed in correlazione con tutti gli atti degli altri
soggetti del processo, conducono alla pronuncia del provvedimento sul merito (decisione,
sentenza). Nel complesso ragionamento del giudice opera il c.d. senso comune
interpretazione della norma, accertamento dei fatti, valutazione dell’attendibilità delle prove,
scelta di congruenza.
Art. 112 c.p.c. (corrispondenza tra chiesto e pronunciato) “il giudice deve decidere su tutta la
domanda e non oltre i limiti di essa” ciò vuol dire che:
- a) il giudice deve decidere, cioè enuncia il suo dovere decisorio in sé stesso, il cui
esercizio esclude ogni responsabilità. Il giudice deve pronunciarsi!
Art. 113 c.p.c.: “Nel giudicare il giudice deve applicare le norme di diritto (sostanziale),
salvo che il legislatore non lo autorizzi a giudicare secondo equità” ha il potere di
individuare quale norma deve essere applicata, ma è vincolato nell’usare norme di
diritto dell’ordinamento nel quale opera.
Correlazione tra domanda e pronuncia la prestazione del giudice è la pronuncia sul
diritto che è affermato nella domanda e si dovrà effettuare precisamente su quel
diritto; quindi su tutto l’ambito del diritto (se restasse un margine di diritto su cui non
si compie la pronuncia si avrebbe una omissione di pronuncia) ma non oltre (se ci
fosse un margine di pronuncia al di fuori dell’ambito del diritto si avrebbe un vizio di
ultrapetizione). La decisione emessa dal giudice è viziata e potrà essere oggetto di
impugnazione (i mezzi di impugnazione sono strumenti per le parti che consentono ad
altro giudice di prendere in considerazione i vizi denunciati). Stesso discorso se il
giudice si pronuncia su un contenuto diverso rispetto a quello della domanda (es.
domanda di condanna e pronuncia di accertamento mero, oppure domanda di
rivendicazione di un bene x e pronuncia su un bene y).
L’attitudine della domanda è di fondare il diritto ad una pronuncia sul merito piuttosto
che sul processo.
E’ da chiarire che la domanda qualificata dalle condizioni dell’azione (che costituisce
esercizio del diritto d’azione) può fondare il dovere del giudice a pronunciarsi sul
merito; mentre una domanda priva di condizioni o invalida, fonda il dovere del giudice
a pronunciarsi sul processo (si arresta agli effetti formali della domanda, non c’è
correlazione tra domanda e pronuncia). Decidere = giudicare = giudicare sul merito =
investire il diritto sostanziale l’attività decisoria è un giudizio destinato ad accertare
l’esistenza o la non esistenza di quel diritto che è affermato nella domanda.
Operazione logica che si sostanzia nel riscontro che i fatti previsti in astratto dalla
norma come fatti costitutivi del diritto si sono verificati nel caso concreto. Tale
operazione del giudizio è la sintesi di due distinti momenti logici:
1) enunciazione in astratto della portata della norma (interpretazione o giudizio di
diritto) individuazione della norma generale ed astratta da applicarsi nel caso di
specie il giudice è sovrano = iura novit curia (è la cura del giudice che conosce il
diritto), perché se fosse vincolato dalle parti o da altri poteri esterni, il giudice non
sarebbe libero nell’interpretazione delle norme e ci sarebbe un contrasto con l’art. 101
Cost. il giudice è subordinato solo alla legge. La valutazione giuridica del giudice si
configura sulla base dell’intero ordinamento (tiene conto di tutte le norme di diritto
sostanziale e individuerà quelle che sono applicabili nel caso di specie è un giudizio
di legittimità, cioè una valutazione fatta sulla base delle norme generali ed astratte);
2) il riscontro che quei fatti previsti in astratto dalla norma e affermati in concreto
nella domanda si siano verificati nel caso concreto, oltre agli eventuali fatti lesivi
(giudizio di fatto) qui abbiamo il potere monopolistico delle parti (monopolio delle
parti nell’allegazione dei fatti, che risultino veri, cioè provati). L’individuazione dei fatti
è di pertinenza esclusiva delle parti (in particolare dell’attore, anche se il convenuto
può integrare la fattispecie storica). Non si potrebbe mai avere una introduzione dei
fatti ad opera del giudice.
La sintesi di tali momenti è il c.d. sillogismo del giudice o giudizio, che termine con la
decisione. Il giudizio di diritto e di fatto sono le premesse del sillogismo del giudice che
egli elabora, non indipendentemente l’uno dall’altro, in quanto si fondono e coordinano
insieme con gli elementi intuitivi.
16marzo2015
- b) effettua un preciso riferimento del dovere decisorio del giudice alla domanda
(dovere condizionato dalla domanda). Il giudice ha il dovere di pronunciarsi su tutta la
domanda. L’art.2907c.c. enuncia che la tutela giurisdizionale dei diritti è prestata “su
domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del p.m. o d’ufficio”
principio della disponibilità della tutela giurisdizionale, per il quale il titolare del
diritto sostanziale è libero di chiedere o meno la tutela o di rinunciarvi una volta
chiesta. Tale principio è correlata alla disponibilità del diritto sostanziale, poiché
chiedere o no la tutela di quel diritto è un modo di disporre di esso; ciò è confermato
dal fatto che i casi in cui la tutela può essere eccezionalmente chiesta dal p.m., sono
quelli in cui si opera su diritti sostanziali indisponibili. E ancora il principio della
disponibilità della tutela giurisdizionale si trova correlato con altro principio,
enunciato dall’art.99c.p.c. principio della domanda: “chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve proporre la domanda al giudice competente” = dipendenza del dovere
decisorio del giudice dall’iniziativa di chi propone la domanda, cioè chi propone la
domanda e che acquista un “diritto al processo”, ha una sorta di esclusiva su questo
“diritto al processo” e sul conseguente dovere decisorio del giudice;
- c) i limiti della decisione coincidono con i limiti della domanda; l’attore, con la sua
domanda, vincola e limita il giudice nell’oggetto del suo giudizio (il giudice non deve
oltrepassare i limiti della domanda stessa) vincoli al giudice:
1) Vincolo con riguardo al tipo di azione esercitata (mero accertamento, condanna,
costitutiva) necessaria correlazione tra il tipo di azione esercitato e il tipo di
sentenza che il giudice pronuncia (in caso contrario, vizio parziale di omissione di
pronuncia, rispetto al margine in più che distingue la condanna dall’accertamento);
2) Vincolo con riguardo al contenuto del giudizio sapendo che il giudizio si articola
nei momenti di giudizio di diritto e giudizio di fatto, bisogna domandarsi se la
domanda vincola il giudice con riguardo entrambi o con riguardo uno solo (e
quale). E’ necessario, innanzitutto, distinguere tra la generalità della volontà
astratta di legge (che non può costituire oggetto di esclusiva proprio per la sua
astrattezza) e la specificità dei fatti costitutivi (che vanno allegati nella loro
individualità); ed è proprio nei riguardi di questi ultimi che si manifesta l’esclusiva
dell’attore nella determinazione del contenuto del dovere decisorio del giudice e
quindi dell’oggetto del processo.
Quindi l’art. 112c.p.c. si sostanzia in ciò che il potere di determinare l’ambito
dell’oggetto del processo, in modo vincolante per il giudice, spetta alle parti che
propongono le domande con l’allegazione dei fatti, le quali parti lo esercitano con la
proposizione delle domande stesse, ma più precisamente soltanto col l’allegazione
e/o contestazione dei fatti costitutivi e/o lesivi, escluso invece ogni rilievo a quella
parte degli atti in cui quei fatti sono riferiti a norme giuridiche il giudice, quindi,
deve giudicare su tutti e solo sui fatti che sono allegati o affermati nelle domande
ed è libero di interpretare le norme giuridiche (che si riferiscono alla domanda), nel
modo che ritiene più corretto (vincolato rispetto ai fatti e libero rispetto alle
norme), per poi accogliere o meno la domanda o accoglierla in parte.
La pronuncia secondo equità (limite nella valutazione di diritto)
Art.113c.p.c. il giudice deve, nel giudicare, “seguire le norme del diritto”. Eccezioni a questa
regola, che risultano dallo stesso articolo e dal 114c.p.c., cioè i casi in cui il giudice può
decidere, anziché secondo diritto, “secondo equità” (“attività di equità sostitutiva”, perché
utilizza una norma concreta e non una norma generale ed astratta).
Può accadere che in alcuni particolari casi, il giudice lasci da parte la regola generale ed
astratta quale risulti dalle norme, per cercare, formulare ed applicare una regola particolare e
propria per quel determinato caso (e solo per quel caso)(norma che non c’è nell’ordinamento
ma che non è difforme dai principi generali dell’ordinamento, ricavabili dalla Costituzione o
principi che sovraintendono determinati settori dell’ordinamento, es. in materia contrattuale
il principio dell’affidamento o della tutela della parte più debole) regola che il giudice dovrà
elaborare nella propria coscienza in base a determinati orientamenti sociali e morali (il
giudice opera come legislatore e giudice insieme) l’equità è la giustizia del caso concreto.
Il ricorso all’equità è consentito solo in via assolutamente eccezionale entro precisi limiti che,
nel nostro ordinamento, emergono dalla stessa Costituzione e che escludono la legittimità
costituzionale di un giudizio totalmente di equità imposto alle parti.
Il giudizio di equità, quando è imposto o necessario, riguarda solo il giudizio innanzi al giudice
delle cause minori (giudice di pace), entro un limite di valore di euro 1100, salvo le cause
derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità dell’art.1342c.c.
(attraverso moduli o formulari, contratti di adesione in cui il consumatore sotto scrive il
modulo e così conclude il contratto), limite ancora inferiore al limite di competenza di questo
giudice, che è di 5000 euro art. 113, 2°comma c.p.c. (per accelerare il giudizio). Laddove sia
chiamato a decidere secondo equità, quando va ad emettere la decisione nella sentenza dovrà:
a)individuare qual è la norma concreta che debba trovare applicazione nel caso di specie;
b)sulla base dell’applicazione di questa norma concreta, la pronuncia della decisione del caso
di specie. (No stessi mezzi di impugnazione delle sentenze decise secondo diritto).
Quando, invece, riguarda il giudizio dei giudici “togati” e senza limiti di valore, è facoltativo o
concordato art.114c.p.c. su accordo delle parti, laddove la controversia riguardi diritti
disponibili, si può chiedere al giudice di decidere secondo equità.
Infine, la legge prevede, in determinati casi, il ricorso a equità (integrativa) per integrare la
portata di determinate norme.
Il principio della disponibilità delle prove (limiti nella valutazione dei fatti)
Il giudice è vincolato nel senso che il giudizio non può investire altri fatti se non quelli allegati,
ma occorre chiarire se tale vincolo riguarda anche il modo col quale in concreto si svolge il
giudizio su quel fatto, e quindi se investe gli strumenti usati per compiere la sua operazione di
giudizio sui fatti, che consiste nel riscontro se i fatti allegati sono veri o meno.
Tali strumenti sono le prove. L’attore, comunque, correda la sua domanda di tali strumenti,
poiché deve convincere il giudice circa la verità dei fatti che afferma. Questa offerta di
strumenti è di solito compiuta anche dal soggetto nei cui confronti è proposta la domanda,
cioè il convenuto.
Il giudice, nel formare il suo convincimento circa la verità dei fatti affermati nella domanda
dall’attore, o nella contro-domanda dal convenuto, è tenuto a servirsi solo delle prove di
questi, oppure può di sua iniziativa adoperarsi o disporre per l’acquisto di prove che gli
sembrano utili per il giudizio?
Risposta nell’art.115c.p.c. (quali fatti hanno bisogno di essere provati e come) tale vincolo
esiste, sia pure con dei limiti: “salvo i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a
fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal p.m.”, nonché i fatti non
specificatamente contestati dalla controparte costituita e così onerata alla contestazione.
Quindi il giudice è vincolato oltre che dall’allegazione (narrazione) dei fatti compiuta dalle
parti, anche dalla contestazione e dall’assolvimento del relativo onere, nonché dalle offerte di
prove ad opera di queste rispetto ai fatti allegati e successivamente all’esito delle prove così
offerte doppio vincolo, in cui, mentre, il vincolo dei fatti allegati, che si esprime nel
principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato o della disponibilità dell’oggetto
del processo, discende dal principio della domanda e da quello della disponibilità della tutela
giurisdizionale e, in definitiva, dalla disponibilità dei diritti, ciò non avviene per il secondo
vincolo, quello che vincola il giudice alle offerte di prove compiute dalle parti, che riguarda il
principio della disponibilità delle prove (principio dispositivo processuale) e che vincola il
giudice nel modo tecnico di svolgere la sua attività decisoria. I mezzi di prova, rispetto ai fatti
allegati, devono essere offerti dalla parte che ha allegato i fatti in questione.
Alcuni ordinamenti si sono orientati nel lasciare al giudice un’ampia facoltà di iniziativa
nell’avvalersi dei mezzi di prova sistema inquisitorio (l’ampiezza della facoltà di iniziativa
probatoria può incrinare la sua posizione di imparzialità).
Altri ordinamenti sono rimasti legati al sistema opposto sistema dispositivo.
Il nostro ordinamento, salvo il processo del lavoro e il processo di divorzio, e, salvo
l’introduzione delle prove ad opera del p.m., come previsto dall’art.115c.p.c., si ispira a un
sistema “dispositivo attenuato”, in cui si afferma il vincolo del giudice alle offerte di prova,
ma non manca di far salvi “i casi previsti dalla legge”, che costituiscono delle eccezioni.
Una di queste eccezioni (art.115, 2°comma c.p.c.) dice che il giudice “può, tuttavia, senza
bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella
comune esperienza (disposizione d’ufficio)”.
Altre ipotesi di possibilità per il giudice, di fondare il suo convincimento intorno a fatti su
prove non proposte dalle parti, si rinvengono negli artt.:
-117c.p.c. consente al giudice di disporre, pure d’ufficio, il c.d. interrogatorio libero, o non
formale, delle parti, cioè un interrogatorio che differisce da quello formale perché, anziché
tendere a provocare la confessione dell’altra parte, vuole facilitare il giudice, attraverso un
colloquio con le parti, il formarsi di un suo libero convincimento sui fatti della causa. E dalle
risposte e dai comportamenti delle parti in questo interrogatorio libero, il giudice può trarre
argomenti di prova, cioè orientamenti generici e non vincolanti (art.116, 2°comma c.p.c.);
-118 c.p.c. consente al giudice di disporre d’ufficio l’ispezione giudiziale di persone o di
cose o luoghi;
-213 c.p.c. possibilità per il giudice di chiedere d’ufficio informazioni scritte alla P.A.
L’art.116, 1°comma c.p.c. (come valuta i risultati delle prove) attribuisce al giudice il potere di
valutare le prove “secondo il suo prudente apprezzamento”, ossia liberamente, con l’adozione
del c.d. principio della libera valutazione delle prove, in cui il giudice non è costretto a una
valutazione automatica delle prove, ma formerà il proprio convincimento sulle risultanze
probatorie, in maniera non vincolata, seguendo un iter coerente dal punto di vista logico (cioè
prudente), valutabile alla luce delle massime di esperienza che ognuno di noi si forma sulla
base dell’esperienza concreta suddetto principio è eseguito nel nostro ordinamento, ma in
via tendenziale, quindi con dei limiti, siccome la norma contiene “salvo i casi in cui la legge
dispone altrimenti”, possono esserci casi di prove, i cui risultati vincolano pienamente il
giudice e che si chiamano “prove legali”, e quindi senza libero convincimento:
- la confessione, cioè la dichiarazione che la parte fa in giudizio, o fuori in particolari
condizioni, di fatti a sé sfavorevoli; se nel corso del processo emerge questa, per il
giudice i relativi fatti sono considerati necessariamente veri;
- il giuramento (decisorio), cioè la dichiarazione che la parte fa di fatti a sé favorevoli
sotto giuramento; l’altra parte chiede di norma all’autore del giuramento di rendere
una dichiarazione in tal senso. Se la parte cui è stato deferito il giuramento accetta di
renderlo, l’esito della dichiarazione è vincolante.
Il 2°comma dell’art.116 riguarda la valutazione del comportamento processuale delle parti; il
giudice può desumere argomenti di prova dal comportamento delle parti tenuto nel processo.
Li chiama argomenti di prova perché non sono vere e proprie prove, ma elementi aggiuntivi,
rispetto ai risultati dei mezzi di prova, che rafforzano il convincimento del giudice in un
particolare senso (per es. un comportamento ostruzionistico per rallentare il processo, che si
aggiunge a dei risultati probatori per la parte). In sede di motivazione dovrà esplicitare quali
sono le ragioni che l’hanno indotto a ritenere quel dato comportamento processuale della
parte come elemento dal quale trarre argomenti di prova che lo rafforzano nel sul
convincimento.
Altra regola di giudizio (per raggiungere determinati risultati si devono svolgere determinate
attività/se non si tengono tali comportamenti, sulla parte onerata ricadono gli effetti negativi
della mancata ottemperanza all’onere), rivolta al giudice, è quella dell’onere della prova, che
concerne la preventiva determinazione delle conseguenze dell’eventuale mancata prova delle
circostanze di fatto che sono state affermate dall’una e/o dall’altra parte la prova dei fatti è
a carico di colui che li afferma e se questi fatti non sono stati provati, il giudice deve
considerarli come non avvenuti (decide solo nel senso di non accogliere la domanda o
accoglierla parzialmente). La parte che allega i fatti costitutivi della domanda è onerata
dell’onere della prova degli stessi.
17marzo 2015
Il principio del contraddittorio e il c.d. diritto alla difesa
E’ un principio generale dell’ordinamento e una condizione essenziale all’esercizio del potere
e dovere del giudice nel giudicare dipende dall’instaurazione di una certa situazione tra le
due parti (attiva e passiva). art.101c.p.c. = principio del contraddittorio (nel processo di
cognizione): “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna
domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è
comparsa”.
Si dà la possibilità alle parti, rispetto all’oggetto del giudizio, prima che il giudice emetta la sua
decisione, di interloquire fra di loro e di far valere le proprie ragioni.
Il contraddittorio non è solo fra le parti, ma c’è la necessità che le parti interloquiscano anche
con l’organo che dovrà decidere.
Il soggetto passivo (coincidenza tra il destinatario della domanda e destinatario della
citazione) è stato fatto regolarmente destinatario della citazione davanti al giudice, salva
l’ipotesi che esso sia presente nel processo come altro convenuto o come altro attore.
La citazione consiste in una vocatio davanti al giudice, con l’indicazione delle modalità di
tempo e luogo, a mezzo di notificazione, ossia consegna ufficiale di copia autentica dell’atto
contenente tale vocatio insieme con la domanda, ossia l’atto di citazione.
Si consente a coloro che del processo dovranno subire gli effetti, di svolgere in esso un ruolo
attivo, che possa in qualche modo influire sul suo esito si collega il principio di uguaglianza
delle parti, non vi è sopraffazione dell’una sull’altra.
L’art.101c.p.c. dice che non basta che il convenuto sia regolarmente citato, ma è necessario
che questo compaia in giudizio, cioè assuma una posizione attiva in realtà non è proprio
così, perché è sufficiente che al convenuto sia stata data la possibilità di partecipare al
processo; sarà poi il convenuto a decidere se rimanere contumacie o essere parte attiva.
Lo strumento tecnico per consentire tale influenza è la difesa art.24 Cost.:“la difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del processo” collegato all’art.111Cost., 2°comma (in tutti i
tipi di processo):“ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parità davanti a giudice terzo e imparziale”.
Quindi, ogni pronuncia del giudice presuppone l’instaurazione del contraddittorio, ossia di
una situazione che consente ai soggetti che, secondo il diritto sostanziale e processuale, sono
legittimati a contraddire, di svolgere, sempre che lo vogliano, le loro contestazioni.
Eccezioni possono sussistere nei confronti della regola (art.101c.p.c.), considerata nella sua
formulazione letterale l’inciso, “salvo i casi..”, sta a significare che ci sono casi in cui si
ammette che il contraddittorio venga assicurato in un momento successivo alla pronuncia;
l’ipotesi classica è quella del procedimento ingiuntivo, in cui il legislatore prevede che il
procedimento si instauri con la sola partecipazione dell’attore. Solo all’esito del procedimento,
verrà assicurato il contraddittorio ed il convenuto avrà la possibilità di difendersi pienamente
e potrà ottenere che il giudice revochi o modifichi quel decreto (provvisorio) che era stato
emanato la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità del procedimento
affermando che non è in contrasto con i principi costituzionali, purché il contraddittorio sia
assicurato in maniera piena e paritaria tra le parti dopo che il provvedimento provvisorio è
stato emanato.
Il 1° comma fa riferimento al contraddittorio tra le parti, ma non prende in considerazione
l’altro profilo, cioè quello del contraddittorio tra parti e giudice; quando il giudice esercita i
suoi poteri (ufficiosi, per esempio di individuazione delle norme o in sede di prova), come si
assicura il contraddittorio? Cioè le parti hanno diritto di interloquire sulle scelte del giudice?
Si, infatti, il legislatore ha previsto al 2°comma che quando il giudice esercita i poteri ufficiosi,
deve avvertire le parti e deve, a pena di nullità della decisione, assegnare dei termini non
inferiori ai 20gg e non superiori ai 40gg, per consentire alle parti di depositare memorie
difensive.
18marzo 2015
L’art. 2697c.c. si occupa delle c.d. “eccezioni di merito o sostanziali”. Sono eccezioni in
senso improprio, se consistono in semplici negazioni dei fatti costitutivi, mentre sono
eccezioni in senso proprio, se consistono nella richiesta di una decisione negativa su
una domanda altrui, sul fondamento di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.
Con queste allegazioni, l’oggetto del processo si allarga rispetto a quello determinato
con la domanda. Una volta che sono stati allegati e provati questi fatti, si pone il
problema della loro rilevabilità, cioè il prodursi dei loro effetti giuridici, perché a volte
non è specificato nessun modo. Con riferimento al rilievo delle eccezioni, sia di rito che
di merito, possiamo avere che questo possa avvenire anche d’ufficio dal giudice (mai
l’allegazione che è propria delle parti) art.112 c.p.c. (seconda parte) “il giudice non si
può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti”, si
dice implicitamente che egli può e deve pronunciare sulle eccezioni in genere.
Interpretazioni art.112c.p.c.:
-funzione descrittiva e riepilogativa della norma tranne le ipotesi in cui il legislatore
ha previsto la rilevabilità d’ufficio, tutte le altre eccezioni sono rilevabili ad istanza di
parte;
-la norma dà un criterio direttivo tranne le ipotesi in cui il legislatore ha previsto la
rilevabilità di parte, tutte le altre eccezioni sono rilevabili d’ufficio (con limiti, non al
punto da consentire al giudice di rilevare anche fatti mod., est., imp., per i quali
l’ordinamento prevede un diritto di azione autonomo in capo alle parti).
Esiste un’esclusiva da parte di chi resiste alla domanda nell’allegare fatti estintivi o
impeditivi, a cui corrisponde una limitazione dell’esclusiva dell’attore?
L’interrogativo non si pone riguardo ad un’ipotetica allegazione da parte dell’attore
(significherebbe chiedere il rigetto della propria domanda), ma con riguardo
all’alternativa dell’iniziativa del giudice il giudice può pronunciarsi d’ufficio su fatti
impeditivi, modificativi o estintivi, dei quali sia venuto a conoscenza attraverso le
risultanze processuali, nonostante che nessuno abbia proposto eccezione con riguardo ad
essi o chiesto una pronuncia su di essi?
L’art. 112 c.p.c., dicendo che il giudice non può pronunciarsi su eccezioni che possono
essere proposte solo dalle parti, afferma implicitamente che esistono due categorie di
eccezioni (di merito): quelle su cui il giudice può pronunciarsi d’ufficio e quelle che
possono essere proposte solo dalle parti quindi, non si può parlare di una generale
esclusiva da parte di chi resiste alla domanda; la zona di esclusiva esiste, ma anziché
investire l’intera categoria di fatti imp., est., e mod., è limitata ai soli fatti che stanno a
fondamento delle “eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti”. All’interno
delle eccezioni in senso proprio c’è, infatti, una categoria più ristretta denominata di
eccezioni (di merito) in senso proprio e stretto.
Rilevabilità delle eccezioni di merito quali sono quei fatti dei quali il giudice può
tener conto d’ufficio, e quali invece quelli dei quali il giudice può conoscere solo se fatti
oggetto di un’eccezione (in senso stretto)?
Cassazione 12353/2010 “…compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le
attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente
prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni
corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni
espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte…”
La legge chiarisce se c’è l’esclusiva delle parti, altrimenti se non è specificato la
rilevabilità è d’ufficio eccezione di compensazione (art. 1242c.c.) ed
eccezione di prescrizione (art. 2938 c.c.), eccezione di decadenza (art. 2969c.c.)
non ci può essere rilievo d’ufficio, ma solo istanza di parte.
Ma tale interpretazione richiede degli aggiustamenti, perché altrimenti contrasterebbe
sul principio della domanda, si coatterebbe la volontà delle parti. Per esempio nella
novazione del contratto (fatto estintivo, estingue il contratto novato, al suo posto
subentra un nuovo contratto), se seguiamo la seconda interpretazione, dobbiamo
ritenere che sia rilevabile anche d’ufficio.
Se si pensa che il dovere di pronunciare nel merito è quello di pronunciarsi
sull’esistenza attuale del diritto affermato nella domanda, è evidente che, per assolvere
tale dovere, il giudice deve conoscere tutti i fatti, anche quelli che imp., est., e mod., che
abbiano automaticamente prodotto i loro effetti (es. risoluzione consensuale del
contratto, rescissione, nullità degli atti giuridici, simulazione ecc./una volta avvenuta la
novazione, sostituzione del contratto, il fatto novazione non può essere oggetto di
domanda autonoma ) di questi fatti, il giudice può tener conto d’ufficio, purché
risultino da atti di causa e siano non controversi o provati (no azione autonoma delle
parti). Quelli, invece, di cui non può tener conto d’ufficio (appartengono alla sfera
privata delle parti, si coatterebbe la loro volontà), sono quei fatti est., imp., mod. che
producono questi loro effetti non automaticamente solo se le parti esercitano il
diritto di azione; quando questi effetti sono oggetto di contro-diritto che la parte che
resiste potrebbe far valere con un’azione autonoma (es. diritti all’annullamento dei
contratti per errore, violenza, dolo, incapacità). Di questi fatti (diritti potestativi) il
giudice non può conoscere in mancanza di espressa eccezione.
L’eccezione in senso stretto, quindi, è il diritto di colui che resiste alla domanda, ad
ottenere che il provvedimento sul merito della domanda stessa che il giudice tenga
conto anche dei fatti estintivi, modificativi, impeditivi la cui allegazione è affidata alla
sua disponibilità.
Anche l’efficacia estintiva, impeditiva, modificativa dei fatti che sono oggetto di
eccezione può rimanere a sua volta estinta, modificata o impedita da altri fatti, la cui
allegazione configura la c.d. contro-eccezione (es. interruzione della prescrizione).
4. infine, occorre vedere se e come il convenuto può non limitarsi a chiedere il rigetto
della domanda dell’atto, ma proporre a sua volta una sua domanda, rispetto alla quale
assumerebbe il ruolo proprio dell’attore (e l’attore diventa convenuto). Tale nuova
domanda è detta domanda riconvenzionale, con la quale il convenuto esercita una
sua propria azione contro l’attore nello stesso processo nel quale è stato convenuto. Il
nostro ordinamento nega l’ammissibilità incondizionata delle domande
riconvenzionali, ma la riconosce in presenza di due particolari ragioni di collegamento.
Ciò risulta dall’art.36c.p.c. (può implicare una deroga al fatto che il potere di decidere
sulle diverse domande è distribuito tra i diversi giudici COMPETENZA), il quale
stabilisce che possono proporsi nello stesso giudizio, non tutte le domande
riconvenzionali, ma solo quelle “che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore
o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione”.
Titolo = ragione della domanda, che trova fondamento nei fatti costitutivi.
La domanda riconvenzionale deve dipendere da fatti che siano genericamente
collegati, connessi oggettivamente con i fatti costitutivi della domanda principale o con
i fatti estintivi, modificativi o impeditivi introdotto nella causa sotto forma di eccezioni
senza che occorra una comunanza di causa petendi (tipico esempio eccezione di
compensazione, quando il contro-credito opposto in compensazione ecceda il credito
per il quale è stata proposta la domanda: il convenuto, dopo aver chiesto il rigetto di
quest’ultima può far valere, in via riconvenzionale, il suo diritto alla differenza). Questa
trattazione congiunta innanzi al giudice della domanda principale è possibile solo in
quanto la domanda riconvenzionale non eccede la competenza per materia o valore del
giudice adito e sempre che questo sia competente sulla domanda principale; se invece
la eccede, il giudice adito deve rimettere tutta la causa al giudice superiore, assegnando
alle parti un termine perentorio per la riassunzione se la riconvenzionale implica una
questione pregiudiziale da decidersi con efficacia di giudicato, mentre negli altri casi
può scegliere tra la rimessione o la separazione delle cause. L’utilità della domanda
riconvenzionale è di far valere i propri diritti all’interno dello stesso processo, invece
di instaurarne un altro; altra utilità sta nel fatto che attraverso tale domanda si può
neutralizzare la domanda dell’attore.
23 marzo 2015
L’attore, con l’esercizio della sua azione, determina l’oggetto sostanziale del processo, così
determinando i confini che il giudice deve raggiungere e non può superare con la sua
pronuncia; i quali confini costituiscono anche, in linea di massima, il limite per le contro-
richieste che il convenuto può inserire nel processo.
Quindi, per individuare l’oggetto del processo nei suoi esatti confini si deve risalire all’azione
il singolo processo individuato nel suo oggetto sostanziale è indicato col termine “causa”.
Vi sono 4esigenze nell’ordinamento da rispettare nella “identificazione dell’azione”, cioè
l’operazione logico-giuridica da compiere per individuare l’oggetto del processo:
1. Prima esigenza collegato alla necessità di individuare esattamente quale sia
l’azione proposta in concreto dall’attore è il fatto che vige nel nostro
ordinamento il divieto di mutamento della domanda per sapere quando vi è
mutamento della domanda dobbiamo sapere qual era stata la domanda
originaria, attraverso gli elementi individuatori della stessa;
2. Seconda esigenza questo divieto di mutamento della domanda rileverà nel
corso del giudizio di primo grado, ma anche nel passaggio dal primo al secondo
grado di giudizio; cioè in questo passaggio vedremo che vige anche qui il divieto
di introduzione di domande nuove (non solo mutare domanda originaria) =
divieto di nova in appello. Questo perché è nell’interesse della parte convenuta
che ha diritto a difendersi, oltre che nel primo grado, anche in appello, rispetto a
quella domanda. Si deve assicurare che l’oggetto del processo, sul quale il
convenuto debba difendersi, rimanga identico per sapere quando vi è
introduzione di nuova domanda dobbiamo sapere qual era stata la domanda
originaria attraverso un confronto degli elementi individuatori delle stesse;
3. Terza esigenza divieto per l’attore, una volta che ha esercitato la sua
domanda, di poter esercitare la stessa domanda davanti allo stesso giudice o
davanti ad altro. Questo divieto va sotto il nome di litispendenza (art.39c.p.c.)
se accade, il secondo giudice attivato non ha potere giurisdizionale e deve
dichiararlo altrimenti vizio = questo divieto sta per evitare che vi siano
contrasti di giudicato, ma anche per l’esigenza di economia processuale;
4. Quarta esigenza legata al giudicato. Obiettivo del processo è avere una
decisione nel merito da parte del giudice che acquisti l’incontrovertibilità del
giudicato 2909c.c. = che faccia stato fra le parti. Per stabilire quali siano i
limiti di formazione di questo giudicato e per stabilire nei confronti di chi e su
che cosa si formerà il giudicato bisogna guardare all’azione originaria (gli
elementi che esorbitano, non saranno coperti da giudicato) la c.d. regola ne
bis in idem, cioè il divieto di proporre la stessa azione in un nuovo giudizio una
volta che su questa si sia prodotto il giudicato e che giustifica la necessità di
guardare gli elementi identificatori della domanda.
La questione si presenterebbe come un problema di limiti del giudicato, cioè un problema di
limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato stesso.
Occorre ora chiarire (il come) in che modo si compie questa operazione di identificazione
delle azioni. Innanzitutto due azioni sono identiche (in realtà una sola) quando i loro elementi
oggettivi e soggettivi (l’oggetto e i soggetti) sono identici. Se anche uno solo di essi dovesse
risultare diverso non si avrebbe identità di azioni, ma un fenomeno affine, detto connessione.
Gli elementi soggettivi sono i soggetti delle azioni, o personae, cioè il soggetto attivo e passivo,
che si identificano in base al diritto sostanziale affermato nell’azione. La regola della
legittimazione dice che devono coincidere con colui che propone la domanda e colui nei cui
confronti la domanda è proposta.
In caso di LEGITTIMAZIONE ORDINARIAfinché l’attore fa valere un suo diritto nei confronti
del convenuto la parte processuale è identica alla parte sostanziale. Colui che è attore,
esercitando l’azione, è lo stesso titolare del diritto sul quale si pronuncerà il giudice e si ha
una piena identità tra parte processuale e parte sostanziale;
In caso di LEGITTIMAZIONE STRAORDINARIA (art.81c.p.c. attore esercita un diritto che non è
il suo) c’è una scissione tra attore parte processuale e attore parte sostanziale, cioè il
titolare del diritto nella cui sfera giuridica si produrranno gli effetti della pronuncia. Nel
parlare degli elementi soggettivi dobbiamo distinguere queste due parti: la prima è titolare
solo del diritto d’azione, la seconda è titolare del diritto sostanziale.
Il sostituito ha la posizione di parte necessaria nel processo, sebbene non ha esercitato
l’azione.
Questa distinzione è utile quando si parla di elementi identificatori dell’azione e tale profilo
rileva nei c.d. limiti soggettivi del giudicato quando dobbiamo stabilire quali soggetti
coinvolge il giudicato che si formerà, in queste ipotesi, occorre dire che si formerà sia sulla
parte processuale che su quella sostanziale.
La regola sul cui fondamento si risolve il problema dei limiti soggettivi del giudicato è
codificata nell’art.2909c.c., per il quale “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato fa sta a ogni effetto fra le parti, i loro eredi o aventi causa”.
Vanno tenuti presenti alcuni punti fermi:
la sentenza vale rispetto a tutti ma come sentenza fra le parti, quindi non può
pregiudicare altri che furono estranei alla lite perché in questo senso va intesa
l’espressione “la sentenza produce effetto fra le parti”;
con la parola “parti” si intende non solo i soggetti degli atti del processo (parte
in senso processuale) ma anche i soggetti del rapporto sostanziale affermato o
dell’azione (parte in senso sostanziale) e l’art.2909c.c. intende le parti in senso
sostanziale;
i soggetti sostituiti o che subiscono effetti dell’esercizio dell’azione da parte di
altri (a proposito della legittimazione straordinaria), sono inclusi in questa
nozione di parti;
l’ordinamento, tuttavia, offre molti esempi di casi di estensione degli effetti del
giudicato nei confronti di soggetti che non furono parti nel processo
l’art.2909c.c. parla di “eredi ed aventi causa”. Si tratti di soggetti che sono
divenuti eredi od aventi causa DOPO l’instaurazione del giudicato;
vi sono comunque altri casi di vera e propria estensione del giudicato ad altri
soggetti oltre a “parti in senso sostanziale” e a parte gli effetti erga omnes
della pronuncia su rapporti soprattutto di stato, vi sono i casi di più soggetti
legittimati ad un’azione che può essere esercitata una sola volta, i casi di
soggetti il cui diritto si trova, rispetto a quello deciso dalla sentenza, in un
rapporto di c.d. pregiudizialità-dipendenza (consegue normalmente
l’estensione), i casi di estensione “anormale” prevista dalla legge, in qualche
caso secundum eventum litis;
vi sono poi casi di non estensione, che il terzo può far valere contro chi invece
pretende che sussista l’estensione; il terzo nei cui confronti sussiste l’estensione
non può opporsi ad essa perché il pregiudizio che egli subisce è, come si dice, di
mero fatto.
Quindi va distinto l’attore in senso sostanziale dall’attore in senso processuale.
ESEMPIO l’azione surrogatoria (art.2900c.c.), il creditore ha esercitato l’azione a tutela di
un diritto patrimoniale del suo debitore, successivamente il debitore si attiva e vuole
esercitare lui l’azione a tutela del suo diritto sostanziale; questa seconda azione è identica alla
prima? SI, perché l’elemento soggettivo è dato tanto dalla parte sostanziale che da quella
processuale e qui l’elemento soggettivo dell’azione è identico. Il diritto della parte sostanziale
è già stato oggetto di un’azione e si sta facendo valere lo stesso diritto nelle ipotesi di
legittimazione straordinaria gli effetti si produrranno in tutte e due le parti. Quindi si
impedisce alla parte in senso sostanziale di far valere la stessa azione (cambiata la parte
processuale ma la parte sostanziale è la stessa).
Nelle ipotesi in cui il titolare del diritto stia in giudizio non personalmente, ma attraverso un
suo rappresentante tali ipotesi sono quelle in cui il titolare è un soggetto o totalmente
incapace (no capacità di agire), oppure semi-incapace avremo la necessità che quel
soggetto per poter tutelare i suoi diritti di avere un soggetto che lo rappresenti =
RAPPRESENTENZA PROCESSUALE. In questo caso all’interno del processo troviamo ancora
una scissione della parte in senso sostanziale e processuale. Quella in senso processuale è il
rappresentante, quella in senso sostanziale è il titolare del diritto verso cui si produrranno gli
effetti della decisione, cioè il rappresentato. Fenomeno simile alla legittimazione
straordinaria, ma le due si differenziano perché in questa l’attore in senso processuale
esercita l’azione in nome proprio per conto del titolare (in caso dell’azione surrogatoria per
conto del debitore); l’azione è propria. In caso di rappresentanza processuale anche l’azione
esercitata dal rappresentante è l’azione di cui egli non è titolare, la esercita sempre in nome e
per conto del rappresentato (non è titolare del diritto d’azione, ma è lo strumento attraverso il
quale il vero titolare dell’azione la esercita concretamente).
Tutti i soggetti che non rientrano nella nozione di parte sono qualificati come terzi, rispetto a
quell’azione e al processo tutti i soggetti che non possono essere identificati rispetto
all’azione che è stata esercitata, né come attore né come convenuto (in senso processuale,
sostanziale o in entrambi i sensi). I terzi non sono parte del processo, ma ci sono alcuni terzi
che hanno posizione meritevole di tutela e altri terzi generici, rispetto ai quali il processo in
corso è del tutto indifferente.
Gli elementi soggettivi dell’azione quindi danno gli elementi soggettivi del processo, tra i quali
si produrrà il giudicato.
Gli elementi oggettivi dell’azione sono l’oggetto ed il titolo, e la loro determinazione assorbe il
tema dei limiti oggettivi di giudicato, perché da una parte i confini del giudicato coincidono
con quelli dell’azione, e dall’altra non esiste una norma dedicata ai problemi di estensione
oggettiva di giudicato (come l’art.2909c.c.). Mi dicono qual è l’azione che è stata
concretamente esercitata.
L’oggetto, o petitum, è ciò che si chiede con la domanda. E poiché la domanda è rivolta a due
soggetti (al giudice e all’altra parte), ai quali si chiedono cose diverse, il petitum assumerà due
aspetti diversi:
- la domanda si rivolge al giudice, in via immediata, al quale si chiede un provvedimento,
non la cosa o la prestazione oggetto del diritto sostanziale. In questo senso si parla di
petitum immediato: la condanna, il mero accertamento, il sequestro ecc., la cui
differenza basta ad escludere l’identità dell’azione;
- la domanda si rivolte alla controparte, in via mediata, cioè per lo più il convenuto a cui
si chiede un bene della vita (non un provvedimento): una cosa, una prestazione, di non
contestare una determinata situazione giuridica che ha un certo oggetto, o di subire
una certa modificazione giuridica. In questo senso si parla di petitum mediato, che
deve coincide se si ha identità di azioni.
L’identità delle azioni postula la coincidenza tanto del petitum immediato che del petitum
mediato. Se è diverso il petitum anche solo in relazione a quello mediato o immediato, si ha
diversità di azione.
In altri termini nel momento in cui l’attore va ad esercitare l’azione, concretamente chiede
al giudice l’adozione di un provvedimento, ma dietro ci sarà sempre un bene materiale (su cui
ha un diritto) che vuole tutelare. Quando si parla di petitum, non possiamo limitarci a dire
quale provvedimento vogliamo (sentenza di condanna, accertamento ecc.), ma dobbiamo
anche individuare qual è il bene da tutelare; per distinguere questi due elementi, mentre con
riferimento al provvedimento si parla di petitum immediato, con riferimento al bene
materiale si parla di petitum mediato. La diversità di petitum mi dà diversità di azione,
tenendo fermi gli altri due elementi (le parti e il tipo di provvedimento).
Il riferimento o l’affermazione di un diritto sostanziale che qualifica, da un lato, come petitum
il bene della vita richiesto, dall’altro lato, viene in rilievo, se considerato per se stesso, come il
secondo dei due elementi oggettivi di identificazione dell’azione, cioè il titolo o causa
petendi (o ragione della domanda).
Causa petendi significa ragione del domandare, cioè ragione giuridica o titolo giuridico, la
ragione obiettiva su cui la domanda si fonda, che giustifica sul piano del diritto sostanziale
quel determinato petitum: in altri termini il diritto sostanziale affermato in forza del quale si
chiede il petitum. Il bene della vita può essere chiesto in forza di diritti diversi o, come si dice,
a diverso titolo (es. l’azione con la quale si chiede la consegna di una certa cosa perché è stata
data in comodato e ne è conseguito il diritto alla restituzione è diversa dall’azione con la quale
si chiede la consegna di quella stessa cosa in quanto se ne vanta la proprietà; è logico che il
giudicato o la litispendenza di una di queste due azioni non deve precludere il giudizio
sull’altra).
In che cosa concretamente possiamo individuare la causa petendi di una determinata azione?
nei fatti costitutivi del diritto che giustificano il petitum della stessa domanda.
Petitum (mediato) e causa petendi sono due angolazioni del diritto sostanziale affermato, che
è l’oggetto del processo. L’una riguarda ciò che si domanda, l’altra il diritto sul cui fondamento
si domanda ed entrambe si presuppongono a vicenda e si esprimono nel diritto sostanziale
affermato.
Se si ricorda che ciò che individua il diritto come volontà concreta di legge non è la norma
giuridica o volontà astratta di legge, ma i fatti costitutivi del diritto, è evidente che la causa
petendi si risolve nel riferimento concreto a quel fatto o a quei fatti che sono affermati e
allegati come costitutivi del diritto che si fa valere.
Il fatto costitutivo del diritto affermato, però, non è sempre elemento sufficiente per
individuare la causa petendi lo è nei casi in cui la tutela giurisdizionale prescinde dalla
violazione e si dice che l’interesse ad agire è in re ipsa (fatti costitutivi di diritti potestativi
necessari ad una modificazione giuridica) nonché nei casi in cui il diritto si identifica col suo
fatto costitutivo.
In altri casi, però, l’individuazione del fatto costitutivo deve essere integrato con
l’individuazione del fatto lesivo affermato, poiché è quest’ultimo elemento che concreta
l’interesse ad agire, che pure costituisce un aspetto della ragione del domandare, e quindi
della causa petendi (passiva) ciò che individua la causa petendi è il fatto costitutivo del
diritto, talvolta in correlazione col fatto lesivo di quel diritto.
Non sempre però il fenomeno del venire in essere di un diritto si verifica secondo lo schema
di un fatto che è costitutivo di un diritto. Può accadere che il riferimento a fatti diversi non
basti a implicare la diversità della causa petendi, e quindi dell’azione.
N.B. Quindi il criterio orientatore per stabilire se il riferimento a fatti diversi implica
diversità della causa petendi (e quindi dell’azione) sta nel verificare, con un’indagine, che è di
diritto sostanziale, se il fatto diverso fonda un diritto diverso, oppure lo stesso diritto.
Frazionabilità del diritto di credito abbiamo a che fare con un diritto di credito da tutelare,
per es. il pagamento di una somma di denaro derivante da responsabilità extracontrattuale, e
ammettiamo che l’entità della somma del risarcimento ammonti a 10.000euro (diritto di
credito petitum mediato è la condanna del convenuto al pagamento di 10.000 a titolo di
risarcimento del danno). Nella pratica, fino a poco tempo fa, si riteneva che il titolare del
diritto di credito potesse frazionare il suo diritto d’azione rispetto al petitum e proporre più
azioni parziali, cioè limitate ad una porzione del diritto di credito, invece di far valere un’unica
azione per la tutela dell’intero diritto di credito. Nell’esempio, invece di avanzare un’unica
azione di condanna nei confronti del convenuto, per il risarcimento del danno da 10.000 euro,
si ammetteva che l’attore potesse proporre due processi, due azioni di condanna, una per
5.000 euro e l’altra per altri 5.000 euro, frazionando il diritto di credito (oppure 5 azioni
ognuna da 2.000 euro) si riteneva che entrasse nella disponibilità del diritto di azione
anche la possibilità di calibrare l’ampiezza del petitum secondo le esigenze dell’attore. Questo
perché, frazionando il diritto, si consentiva di proporre l’azione davanti ad un giudice di pace
(con competenza più limitata del tribunale) e ciò perché era più conveniente, in quanto
davanti al GdP il procedimento è più veloce.
Questo fino al 2007, quando le sezioni unite della Cassazione hanno escluso tale possibilità,
per la salvaguardia della ragionevole durata dei processi se si consentisse all’attore di
frazionare il suo petitum si inflazionerebbe il numero dei processi pendenti e questo
andrebbe a discapito della comunità che si troverebbe più processi, quando in realtà, per
risolvere quella controversia, ne basterebbe uno. Quindi, se l’attore, di fronte ad un potenziale
diritto di credito di 10.000 euro, dovesse decidere di proporre un’azione di condanna,
limitando il petitum mediato a 5.000 euro, implicitamente rinuncerebbe all’altra azione (degli
altri 5.000). L’altra porzione non la potrà più far valere, perché non è più possibile frazionare
il suo diritto.
24marzo2015
ESEMPIO azione di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale i fatti
costitutivi emergono dall’art. 2043 c.c.; azione di risarcimento di danni per responsabilità
contrattuale i fatti costitutivi emergono dall’art. 1218 c.c.. Se confrontiamo le norme, i fatti
costitutivi del diritto sono diversi e di conseguenza anche l’azione è diversa. Una cosa è
chiedere una somma a titolo di risarcimento di danni per responsabilità contrattuale, un’altra
è chiederla per responsabilità extracontrattuale. Sebbene il petitum sia lo stesso (quello
immediato è sempre una sentenza di condanna, quello mediato è sempre una somma di
denaro), e sebbene siano identici i soggetti, cambiando la causa petendi, le due azioni saranno
diverse.
Questo discorso di avere causae petendi diverse per ogni diritto che si intende far valere in
giudizio, quindi per ogni azione, non sempre è vero, cioè il discorso della diversità dei fatti che
supportano diversi diritti, non vale sempre perché le situazioni che divergono dalla regola
possono verificarsi:
- perché diversi fatti in realtà supportano lo stesso diritto (il diritto non cambia
cambiando le causae petendi);
- perché la stessa azione presenta causae petendi diverse (abbiamo lo stesso diritto che
può essere fatto valere con più azioni).
Il primo caso, cioè più fatti che in realtà sorreggono lo stesso diritto, si verifica quando si ha a
che fare con diritti assoluti (reali es. diritto di proprietà); qui quale che sia il fatto
costitutivo, i diritti hanno lo stesso contenuto art. 932 c.c. ci dice quando nasce il diritto di
proprietà elenco dei fatti costitutivi; quale che sia il fatto, il diritto di proprietà non cambia
(possibilità di una stessa azione che vengono definite azioni autodeterminate, in cui
l’ampiezza dell’azione segue l’ampiezza del diritto (cambiando la causa petendi l’ampiezza
dell’azione non cambia e nemmeno l’oggetto della decisione del giudice). Sbagliare l’azione
per far valere il mio diritto di proprietà, non mi preclude il fatto che io possa modificarla in
corso di causa. Questi diritti sono sempre identici, qualunque sia il fatto che ha costituito la
sua genesi (es. il diritto di proprietà su una cosa sarà sempre lo stesso e non potrà esistere più
di una volta, sia che sia sorto con compravendita, sia per donazione o successione) basta
affermarsi proprietario perché sia sufficientemente determinata la causa petendi la portata
individuatrice dell’azione è polarizzata nel petitum che, almeno tendenzialmente, implica la
causa petendi. Questo comporta che quando si ha a che fare con un’azione ad oggetto diritti
assoluti, una volta riconosciutane l’esistenza, quale che sia il fatto, il giudicato copre tutti i
possibili fatti generatori.
I diritti relativi, invece, cambiano a seconda del fatto es. diritto di risarcimento danni per
resp. contr. o extracontr., oppure diritto al rilascio per contratto di locazione o comodato
stesso bene, ma diverso diritto relativo che cambia a seconda del fatto generatore..
Nei diritti relativi è fondamentale sapere il fatto generatore ed il giudicato segue questo il
diritto verrà riconosciuto in base al fatto generatore (possibilità di più azioni se cambia il fatto
generatore abbiamo azioni eterodeterminate, cioè la loro ampiezza è definita dal titolo per
il quale si fa valere il diritto). Cambiare causa petendi in corso di causa, vuol dire cambiare
azione la domanda è diversa.
La categoria di diritti rispetto ai quali si verifica il fenomeno, almeno in linea di massima,
secondo lo schema di un fatto che è costitutivo di un diritto, è quella dei diritti relativi ed in
particolare dei diritti di obbligazione ad una prestazione generica, poiché ognuno di
questi diritti nasce con il proprio rispettivo fatto costitutivo (es. uso e godimento), che è
diverso per ogni singolo diritto, sicché è in questo solo fatto che si ravvisa la causa petendi.
Poiché il diritto può venire in essere più di una volta tra gli stessi soggetti, ad ogni fatto
costitutivo corrisponde un diverso diritto, e quindi una diversa causa petendi ed una diversa
azione la portata individuatrice dell’azione è polarizzata nella causa petendi che, almeno
tendenzialmente, implica il petitum; funzione polarizzatrice della causa petendi, incentrata
sull’identità del fatto, sussiste anche nei casi in cui il medesimo fatto è preso in considerazione
da norme diverse che prefigurino, per quel fatto, un medesimo effetto.
Dire che la causa petendi nei diritti assoluti è così ampia da ricomprendere tutti i fatti
generatori del diritto, equivale a dire che il giudicato andrà a formarsi non solo sul dedotto,
ma anche sul deducibile; se io so che nel corso del processo, proponendo un’azione che ha ad
oggetto la tutela di un diritto assoluto, potevo far valere tutti i fatti costitutivi senza che
questo determinasse mutamento della domanda, devo anche sapere che il giudicato si
formerà su tutti i fatti generatori che io avrei potuto dedurre e che però non ho dedotto. Nel
caso di diritti relativi il giudicato segue solo il dedotto, perché oltre che quel fatto, il deducibile
io non potevo dedurlo; nel caso di diritti assoluti o domande autodeterminate, poiché il
deducibile è ampio, il giudicato che si forma copre anche l’intera ampiezza del deducibile. Se
ho proposto la domanda per ottenere il riconoscimento del mio diritto di proprietà
sostenendo che il mio diritto è nato da un contratto, e nel corso del processo il contratto viene
dichiarato nullo, se io non faccio valere il mio diritto di proprietà per usucapione (come avrei
potuto fare), il giudicato di rigetto della mia domanda è un giudicato che mi preclude la
possibilità di far valere il mio diritto di proprietà per usucapione in un altro giudizio. Copre il
dedotto (il diritto di proprietà su contratto di compravendita) ed il deducibile (diritto di
proprietà che avrei potuto rivendicare facendo valere il fatto costitutivo usucapione).
RIEPILOGO normalmente cambiare la causa petendi significa cambiare la domanda o
l’azione; tuttavia non è sempre così la prima deroga si trova nei diritti assoluti dove si
ritiene che mutare la causa petendi non determini mutamento della domanda. Quindi
sbagliare l’azione quando si parla di diritti assoluti, non preclude la possibilità di cambiarla in
corso di causa; sbagliare invece con i diritti relativi non permette di cambiare la domanda
dopo.
Nel secondo caso, cioè quando più fatti sono considerati fatti costitutivi di un’identica azione,
abbiamo a che fare con azioni costitutive, e più precisamente con quelle che hanno ad oggetto
impugnative negoziali (tutte quelle azioni che mirano a togliere efficacia al contratto). Classici
esempi sono l’annullamento o la risoluzione.
ESEMPIO annullamento (art.1427 c.c.) si dice che questo si può ottenere per vizio del
volere quando si sia verificato il dolo, la violenza e l’errore materiale. Questo sono fatti
costitutivi dell’azione di annullamento quindi dietro c’è un diritto potestativo che nasce sul
piano sostanziale quando si siano verificati i presupposti indicati dall’art. 1427c.c. (errore,
violenza e dolo) qui i fatti sono diversi ma l’azione è una ci sono più fatti che hanno
generato il dolo, la violenza o l’errore (all’interno di ciascuno di questi fatti possiamo avere
un’ulteriore molteplicità di fatti che integrano lo stesso fatto costitutivo.
ESEMPIO risoluzione azione costitutiva che mira ad eliminare il contratto. Secondo il c.c.
l’azione di risoluzione può essere proposta per tre fatti diversi: per inadempimento
art.1453c.c., per possibilità sopravvenuta della prestazione art.1463c.c., per eccessiva
onerosità. Quindi ancora una volta i fatti sono diversi, ma l’azione è una.
Il problema che si pone qui è se si possa proporre la stessa azione nello stesso processo se il
fatto non sia lo stesso. Il legislatore non dice nulla al riguardo e gli orientamenti sono 3:
1. quello più rigido l’azione di risoluzione o di annullamento si ha a prescindere
da quale sia il fatto costitutivo (nozione ampia di causa petendi e quindi di
giudicato;
2. quello secondo cui l’azione non è unica ma avremo un’azione per ogni categoria
di fatti generatori quindi l’azione di annullamento per errore prende tutti i
fatti integranti l’errore materiale, e quindi avremo un’azione diversa per ogni
categoria di fatti generatori;
3. quello secondo cui in realtà avremo tante azioni per ognuno dei fatti generatori.
Le tesi prevalenti sono le ultime due, la prima delle quali è minoritaria.
E quindi l’annullamento del contratto è conseguibile non con un’unica azione e neppure con
tante azioni quanti sono i possibili fatti, ma vi saranno tre diverse azioni che conseguono ai tre
diversi diritti all’annullamento per errore, per violenza o per dolo (ogni azione con una
propria causa petendi, per ogni categoria).
Due azioni sono identiche quando c’è una piena identità di tutti i loro elementi. Quando due
azioni hanno in comune alcuni elementi, ma non tutti, non sono identiche, ma hanno una
comunanza parziale, che non interessa all’ordinamento sotto il profilo della litispendenza o
del giudicato ma sotto il profilo della eventuale opportunità che le due o più cause siano
esaminate e trattate insieme, nello stesso processo CONNESSIONE delle azioni o delle
cause, cioè si parla di cumulo di domande all’interno del processo che presentino tra loro
degli elementi di connessione. Un esempio è costituito dalla domanda riconvenzionale.
La connessione tra azioni può dipende sia da comunanza di entrambi gli elementi soggettivi e
sia da comunanza di almeno uno degli elementi oggettivi.
Nel primo caso (connessione soggettiva) si verifica quando due o più cause hanno in comune
entrambi i soggetti cause proposte, o da proporre, dallo stesso soggetto contro lo stesso
soggetto. In tal caso oltre ad avere gli stessi soggetti, anche gli elementi oggettivi, che sono
diversi, sono cumulati in quel processo. Si avrebbe un cumulo oggettivo conseguente alla
connessione soggettiva che consiste nella proposizione di più azioni diverse dalla stessa parte
contro la stessa parte del processo art.104c.p.c. che, per ragioni di opportunità di cumulo
oggettivo, dispone che contro la stessa parte possono proporsi nello stesso processo più
domande anche non connesse, ossia anche quando la connessione è solo oggettiva. Unico
limite si devono rispettare le regole della competenza (la distribuzione tra i diversi giudici
del potere di decidere le cause).
Allo stesso modo si possono avere connessioni oggettive con conseguente cumulo soggettivo.
Ciò comporta che più soggetti possono agire, ossia assumere la qualità di attori nello stesso
processo o possono convenire nello stesso processo più persone. Questo fenomeno della
presenza di più parti si chiama LITISCONSORZIO, ed in questo caso, essendo una facoltà per
chi agisce, è chiamato litisconsorzio facoltativo, da contrapporre al litisconsorzio necessario.
Quello facoltativo è richiamato dall’art.103c.p.c. più parti possono agire o essere convenute
nello stesso processo nei casi in cui si ha connessione oggettiva, detta propria, cioè quando
tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto (petitum) o per il titolo (causa
petendi, cioè della fattispecie costitutiva), oppure connessione per pregiudizialità-
dipendenza. Vi sono poi casi di connessione oggettiva, detta impropria, quando vi è in
comune la necessità di risolvere “identiche questioni”, di fatto o di diritto; qui non si può
parlare di comunione di elementi individuatori e di vera e propria connessione.
Le ragioni che stanno alla base dell’istituto della connessione sono diverse: innanzitutto per
ragioni di economia processuale, ma anche per evitare contrasto di giudicati.
Il codice prende poi in considerazione talune figure particolari di connessione oggettiva, in
diverse norme e sotto diversi profili, tutti accomunati dall’opportunità di consentire
l’eventuale trattazione congiunta delle cause connesse:
- la riconvenzione domanda riconvenzionale;
- l’accessorietà;
- la pregiudizialità;
- la garanzia;
Il cumulo soggettivo conseguente a connessione oggettiva e che si concreta nel litisconsorzio
facoltativo, può realizzarsi non solo all’inizio del processo (art.103c.p.c.), ma anche a processo
in corso attraverso l’intervento, che è un modo di instaurazione successiva del
litisconsorzio, oppure il giudice può riunire le cause connesse, eventualmente proposte
separatamente, davanti allo stesso o ad altro giudice.
La comunanza di taluni elementi di due o più azioni può anche far sì che la conseguente
connessione assuma rilievo anche sotto altro profilo (oltre quello della trattazione delle due o
più cause in un unico processo) l’esercizio di un’azione consegue il risultato pratico anche
dell’altra, e quindi diventa inutile e priva del requisito dell’interesse ad agire e comunque
infondata si tratti del CONCORSO DI AZIONI. Si può avere concorso di azioni:
- per connessione di petitum e di causa petendi, quando lo stesso diritto potestativo
necessario è attribuito a soggetti diversi (es. azione di interdizione spetta al coniuge, ai
parenti entro il 4°grado ecc.; se uno di questi ha esercitato l’azione e ottenuto
l’interdizione, nessuno degli altri soggetti può ancora chiederla, per difetto di interesse
d’agire);
- per connessione oggettiva rispetto al petitum quando all’identità dei soggetti e del
petitum corrispondano varie causae petendi (es. Tizio ha dato una cosa in locazione a
Caio e poi anche in comodato allo stesso Caio. Una volta esercitata con successo
l’azione ex commodatu, non ha più interesse ad esercitare l’azione ex locato; potrebbe
esercitarla se quella ex commodatu era stata respinta).
Il cumulo può avvenire sulla base di domande che siano sullo stesso piano ma anche che non
lo sono (cumulo complesso) in questo caso l’attore propone più domande connesse
oggettivamente fra di loro nei confronti del medesimo convenuto, ma le propone in via
alternativa CUMULO ALTERNATIVO l’attore chiede al giudice che prenda in
considerazione l’una o l’altra domanda (es. art.1453c.c. si può chiedere la risoluzione o
l’adempimento coattivo). Diverso è il CUMULO CONDIZIONALE che si verifica quando due o
più domande siano proposte nello stesso processo alla condizione che una di queste sia stata
preventivamente accolta (c.d. cumulo successivo o condizionale in senso stretto o in senso
proprio) o previamente respinta (cumulo eventuale o subordinato o in senso improprio).
25 marzo 2015
GIURISDIZIONE
I due presupposti fondamentali che determinano la regolare instaurazione del processo sono:
la giurisdizione l’ambito entro il quale il giudice civile esercita il suo potere;
la competenza.
Essi rappresentano i presupposti personali che i soggetti del processo devono possedere (in
particolare il giudice) perché possano operare all’interno del processo. Quindi il giudice in
primo luogo deve essere munito di giurisdizione art.1c.p.c. “la giurisdizione civile, salvo
speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari, secondo le norme del presente
Codice” da questa norma ricaviamo tre informazioni:
1. la giurisdizione civile (quell’attività con la quale lo Stato esercita il potere
giurisdizionale) è esercitata dai giudici civili ordinari (accanto ad essi nell’ordinamento
abbiamo anche i giudici speciali);
2. i giudici che esercitano la funzione civile sono giudici ordinari (ripresa della norma
costituzionale art.102 Cost. dove viene espressamente detto che la giurisdizione
normalmente viene esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sul
regolamento giudiziario (decreto 12/1941) la differenza tra magistrato ordinario e
speciale è dato dallo status del giudice. Nel nostro ordinamento i giudici ordinari sono:
in primo grado abbiamo il Giudice di Pace e il Tribunale;
in appello abbiamo il Tribunale e la Corte di Appello (il tribunale ha funzioni sia
di primo grado che di appello);
infine abbiamo la Corte di Cassazione (organo di controllo di legittimità di
operato dei giudici di primo e secondo grado
su questi organi esercita un controllo importante il Consiglio Superiore della
Magistratura (CSM) controllo che non svolge sui giudici speciali.
3. la terza informazione la troviamo nell’inciso “salvo che… questo inciso ci dice che,
sebbene la regola sia che le controversie civili appartengano ai giudici civili ordinari,
abbiamo delle regole nell’ordinamento che derogano ad essa. E da questa indicazione
dobbiamo partire per delimitare l’ambito del potere della giurisdizione civile, cioè
sapere quando, nonostante la materia della controversia sia di natura civile, il giudice
civile ordinario non possa esercitare la propria giurisdizione. In termini generali questi
limiti emergono in 3 direzioni diverse:
giudice civile straniero;
rapporto che intercorre tra il giudice civile italiano ed altri poteri dello Stato;
rapporto che intercorre tra giudici civili ordinari e speciali.
30 marzo 2015
3. Giudice civile italiano e giudici speciali i giudici speciali sono quei giudici che non
sono istituiti e regolati dalle norme dell’ordinamento giurisdizionale.
La questione più rilevante in questo ambito è quella dei rapporti con il giudice
amministrativo quando può emergere questo conflitto? (l’ambito di esercizio della
giurisdizione del giudice speciale amministrativo riguarda il controllo di legittimità
sugli atti della PA tramite questa funzione emette degli atti amministrativi e rispetto
ad essi il controllo di legittimità, cioè la possibilità che un giudice controlli se la PA
abbia correttamente operato. Il controllo di legittimità può avvenire dinanzi al giudice
amministrativo per 3 ragioni fondamentali:
a. incompetenza;
b. eccesso di potere;
c. violazione di legge.
In questi casi la situazione giuridica che viene riconosciuta in capo al privato
cittadino è definito interesse legittimo nel caso in cui venga presentata al
giudice civile una controversia che abbia ad oggetto interessi legittimi egli deve
dichiarare la sua carenza di giurisdizione. Il conflitto, dunque, emerge quando si ha
a che fare con interessi legittimi. Per capire se siamo di fronte a interessi legittimi o
diritti soggettivi, bisogna guardare al petitum mediato della domanda, cioè qual è il
bene della vita che il privato intende tutelare. Alcune volte però i giudici speciali
amministrativi hanno anche la giurisdizione in materia di tutela di diritti soggettivi;
per capire quali sono tali casi dobbiamo adire alla norma costituzione art.103 Cost.
il Consiglio di Stato (il giudice amministrativo speciale) ha la giurisdizione per la
tutela nei confronti della PA degli interessi legittimi e in particolari materie indicate
dalla legge anche dei diritti soggettivi. In quali materie?
Innanzitutto in queste materie si parla di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo ed in secondo luogo, prima di rispondere al quesito dobbiamo
capire perché il primo comma dell’art. 103 Cost. prevede che il giudice
amministrativo in alcune materie tuteli anche i diritti soggetti la ragione sta nel
voler agevolare la funzione giurisdizionale può accadere che in determinate
controversie il cittadino abbia da far valere contestualmente un interesse legittimo
ed un diritto soggettivo. Questo determinerebbe la nascita di due controversie
davanti a due diversi ambiti giurisdizionali; opportunamente l’art.103 Cost.
permette che in questi casi, per agevolare la natura giurisdizionale da parte del
privato, si possa prevedere che la tutela, tanto del diritto soggettivo che
dell’interesse legittimo, avvenga davanti al giudice amministrativo. La giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo è prevista solo per quelle materie in cui
emerge contestualmente la tutela tanto dei diritti che degli interessi, Laddove
questa esigenza non nasca, il giudice ordinario non potrà essere sottratto dalla
tutela giurisdizionale che gli è propria questo è quanto affermato dalla Corte
Costituzionale nel 2004 quando è stata sollevata la questione di giurisdizionalità
rispetto ad una indicazione avvenuta da parte del giudice ordinario di affidare in un
settore particolare la giurisdizione esclusiva per la tutela dei diritti soggettivi al
giudice amministrativo.
ESEMPIO di un settore o ambito in cui può nascere questa esigenza lo abbiamo
rispetto al risarcimento dei danni derivanti da lesioni di interessi legittimi. Fino al
1999 si negava la risarcibilità degli interessi legittimi, poi la Corte di Cassazione con
la sentenza 500/99 ha riconosciuto che in realtà anche dalla lesione di interessi
legittimi da parte della PA nasce in capo al privato il diritto soggettivo al
risarcimento.
ESEMPIO in materia di appalti pubblici; rispetto alla procedura amministrativa
di appalti pubblici, il privato deve tutelare normalmente solo un interesse legittimo.
Ma ammettiamo che sia stata svolta la gara pubblica e dopo che si è svolta va
stipulato il contratto rispetto a questo contratto potrebbe nascere l’esigenza di
annullamento per vizio del volere (o risoluzione). Essendo quest’ultimo un normale
contratto, sarà sottoposto alle normali impugnative negoziali in relazione alle quali
il privato avrà un diritto soggettivo nel decreto 104/2010 troviamo la previsione
della giurisdizione esclusiva anche in questo caso.
ESEMPIO servizi pubblici, più nello specifico di autotrasporti possibilità che
un privato metta a disposizione, in caso di mancanza e di richiesta da parte dello
Stato, propri mezzi per il trasporto pubblico. Se quest’ultimo dovesse far valere un
diritto soggettivo perché la PA magari non lo paga (esercitando un servizio
pubblico ha diritto ad essere pagato), andrà davanti al giudice amministrativo, in
base alla regola della giurisdizione amministrativa esclusiva.
Nell’art. 133 del decreto 104/2010 si trova un elenco di materie che appartengono
alla giurisdizione esclusiva amministrativa (non del tutto esaustivo).
-Accanto al giudice amministrativo, vi sono altri giudici speciali ai quali il
legislatore ha affidato settori di giurisdizione esclusiva giudice tributario
(commissioni tributarie). Esso è un giudice non istituito né regolato dalle norme
sull’ordinamento giudiziario; infatti, le commissioni tributarie sono state istituite e
regolate da un testo normativo che è il decreto legislativo 602/1973. Essi si
occupano di controversie in materia di amministrazione finanziaria tributaria, cioè
tutte quelle ad oggetto l’applicazione di imposte e tasse. In questo ambito è ancora
evidente che il privato rispetto agli atti compiuti dall’amministrazione avrà la
possibilità di tutelare l’interesse legittimo e di contestare gli atti della PA per uno
dei 3 vizi contestabili. Queste commissioni possono avere anche la giurisdizione
amministrativa per la tutela di diritti soggettivi nascenti dall’operato
dell’amministrazione finanziaria.
ESEMPIO il caso in cui nel fare la dichiarazione dei redditi, il privato abbia
versato una somma superiore di quanto avrebbe dovuto; in tal caso, si ha il diritto
al rimborso di quel supplemento (diritto soggettivo).
-Terzo giudice con cui il giudice civile può venire a contatto è la Corte dei Conti.
Questa è in parte organo di controllo sull’operato del Governo, ed in parte organo
giurisdizionale nel settore della responsabilità dei finanziamenti pubblici qui, si
parla ancora di giurisdizione esclusiva.
ESEMPIO il caso in cui una SPA a esclusiva gestione pubblica, come la RAI, sia
posta in pericolo da uno degli amministratori che compie degli atti a danno della
società ipotesi di malagestione; in caso di società private, la malagestione si fa
valere anche da parte della società stessa di fronte al giudice civile ordinario
(diritto soggettivo); in caso di società pubblica è adita la Corte dei Conti.
N.B. Non confondere i giudici speciali con le sezioni speciali, le quali sono delle
sezioni all’interno di organi giurisdizionali ordinari. Esempi in tal senso possono
essere il Tribunale dei Minori o il Tribunale per le Imprese; questi non pongono
problemi in materia di conflitti di attribuzione.
Rilevabilità dell’eventuale difetto di giurisdizione nei rapporti con la PA e con
i giudici speciali.
In questo caso la norma di riferimento è l’art.37c.p.c. “il difetto di giurisdizione
del giudice ordinario, nei confronti della PA e dei giudici speciali, è rilevato anche
d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio”.
Quindi, stando all’articolo, il difetto può essere rilevato dalle parti (il convenuto), in
qualsiasi stato e grado del giudizio, e può essere sempre rilevato d’ufficio non
solo ad istanza di parte ma anche dal giudice.
L’esito di questa rilevabilità sarà una sentenza di rito. Su questa norma, tuttavia, c’è
stata una lunga evoluzione giurisprudenziale da parte della Corte di Cassazione, in
particolare, a partire da un intervento delle sezioni unite del 2008 hanno
interpretato in maniera più restrittiva tale articolo; la questione è sorta non tanto
con riferimento al rilievo di parte delle eccezioni, ma in riferimento al rilievo
d’ufficio. Rispetto a questo, la questione nasce dal momento che il giudice di primo
grado quando va a pronunciare la sentenza di merito, si ritiene che implicitamente
abbia valutato la sussistenza di tutti i presupposti processuali, anche della
giurisdizione. Se il giudizio passa dal primo al secondo grado, il problema qual è? Se
l’appello è stato proposto solo per ragioni di merito e nessuna delle parti propone
davanti al giudice d’appello tali questioni, questo ha ancora il potere di rilevare
d’ufficio l’eventuale difetto di giurisdizione? quesito posto alle sezioni unite nel
2008: se le questioni implicitamente decise dal giudice di primo grado non sono
fatte oggetto di esplicita contestazione nel passaggio, su quelle questioni si forma il
giudicato che la Cassazione chiama implicito (giudicato interno); quindi essendosi
formato il giudicato implicito, quelle determinate questioni, i giudici dei gradi
successivi non possono più rilevare d’ufficio. Riprendendo l’art. 37c.p.c., non è vero
che il giudice può rilevare il difetto in ogni stato e grado del giudizio, perché in
realtà il rilievo lo può fare SOLO se non si è formato il c.d. giudicato implicito. Si è
parlato a proposito della riscrittura dell’art. 37c.p.c.
Questa lettura dell’art.37c.p.c., incide anche sul potere della parte di rilevare il
difetto, anche se solo parzialmente l’articolo ci dice che il manifestarsi del
giudicato deve valere anche per la parte, non solo per il giudice e si manifesta
anche per la parte, anche se diversamente.
Per concludere, occorre sapere che quando si è parte di un giudizio e si ha
intenzione di contestare il profilo della giurisdizione del giudice si rischia, sebbene
l’art. 37c.p.c. ci dica che si possa fare, di perdere questo potere se, nel passaggio dal
primo al secondo grado si sia formato il giudicato implicito e si formerà se le
parti, sulla questione della giurisdizione, non esplicitano quest’ultima nel proporre
l’appello.
31 marzo 2015
Nel nostro ordinamento l’organo regolatore della giurisdizione sono le SEZIONI UNITE della
Cassazione (è l’organo che dice l’ultima parola in materia di riparto di giurisdizione. Una volta
che la questione sia emersa davanti ai giudici di merito, essa non si chiuderà se non nel
momento in cui verrà chiusa dalle Sezioni Unite. Esse sono il collegio massimo della Corte di
Cassazione, che è formato da 11 membri che sono diversi membri delle diverse sezioni
presenti in Cassazione. Questa attribuzione di organo regolatore si trova nell’art. 65
dell’ordinamento giudiziario la Corte di Cassazione, oltre ad avere la funzione della
monofilachia, ha anche la funzione di organo regolatore.
Come si arriva ad avere la pronuncia della Corte sulla questione di giurisdizione?
Per ora abbiamo visto come essa emerga di fronte al giudice = o viene rilevata dalla parte
oppure, se consentito, è rilevata d’ufficio dal giudice; se il giudice ritiene che la questione sia
fondata, avremo una pronuncia in rito, mentre nel caso contrario avremo la decisione nel
merito. Questa decisione del giudice di primo grado sarà poi appellabile e infine arriverà in
Cassazione (sempre che non si sia formato il giudicato implicito).
Se si segue questo iter, alla fine arriveremo alla pronuncia della Cassazione.
Se la questione di giurisdizione dovesse rimanere aperta fino alla Cassazione, il rischio è che si
arrivi in Cassazione e questa ritenga (andando in contrario avviso con quello ritenuto dal
giudice di primo grado) che il difetto di giurisdizione sussista. La conseguenza sarà che tutta
l’attività processuale, svolta in primo grado e in appello, venga annullata.
Per evitare questo rischio, il codice del ’42 individua un meccanismo del tutto particolare che
va sotto il nome di regolamento di giurisdizione, il quale si trova disciplinato nell’art. 41c.p.c.
Questo regolamento dice che le parti hanno la possibilità, ove nutrano dubbi sull’esistenza
della giurisdizione in capo al giudice attivato, di proporre immediatamente che sulla
questione si pronuncino le sezioni unite della Cassazione.
Questo è un meccanismo che consente di risolvere subito la questione di giurisdizione, senza
dover attendere i vari gradi di giudizio si tratta di una sorta di ricorso per Cassazione per
SALTUM: si salta l’appello e i diversi gradi e si ottiene subito la possibilità di attivare l’organo
cui è demandata la funzione di stabilire quale sia il giudice munito di giurisdizione. Nell’art.
41c.p.c. troviamo 2 modi diversi di proporre il regolamento di giurisdizione:
il primo modo lo troviamo nel 1°comma, e riguarda l’ipotesi in cui all’interno del
processo instaurato davanti al giudice di primo grado una delle due parti in causa
abbia un dubbio sulla sussistenza della giurisdizione in capo al giudice “prima che il
giudice decida nel merito si può proporre la questione di giurisdizione attraverso
questo regolamento davanti alle Sezioni Unite della Cassazione”;
il secondo modo lo troviamo invece nel 2°comma, ed è una modalità che l’ordinamento
riserva solo alla PA quando essa non sia parte del processo a salvaguardia delle sue
prerogative.
Art. 41,1 c.p.c. la prima questione che dobbiamo vedere in relazione a questa modalità
riguarda i termini entro i quali può essere proposto tale regolamento, come si propone il
regolamento ed infine quali effetti determina sul processo in corso il regolamento che viene
proposto da una delle parti:
1. termini “La possibilità è data fino a che il giudice di primo grado non abbia deciso
nel merito”; questo è il limite temporale che pone l’art.41c.p.c. Qui è sottinteso che se il
giudice di primo grado ha già deciso nel merito si presuppone che abbia già valutato la
questione di giurisdizione il regolamento qui non sarà più proponibile perché esso
non è un mezzo di impugnazione, i quali sono rimedi che le parti possono esperire
rispetto alla decisione del giudice, e quindi è necessario che lo utilizzino prima che il
giudice si sia pronunciato. Bisogna fare però attenzione all’interpretazione dell’art.
41,1c.p.c., perché se si volesse interpretare letteralmente, si individuerebbe il limite
entro il quale è proponibile il regolamento, cioè finché il giudice di primo grado non
abbia pronunciato una sentenza di merito (interpretazione seguita fino al 1996).
Nel 1996 le sezioni unite hanno dato un’interpretazione molto più restrittiva,
basandosi ancora una volta sulla decisione implicita della questione di giurisdizione
la possibilità di proporre il regolamento è data alle parti, ai sensi del 1°comma, fino a
che il giudice di merito non abbia deciso qualunque cosa, tanto in rito quanto in merito.
Perché le sezioni unite arrivano a restringere il campo di applicazione del
regolamento? Perché nel ’96 vigeva una disposizione che si trovava nell’art.367c.p.c., il
quale stabiliva che, proposto il regolamento, automaticamente il processo in corso si
sospendesse e quindi era invalso nella pratica forense di utilizzare, soprattutto da
parte degli avvocati della parte che aveva meno interesse ad arrivare nel più breve
tempo possibile ad una decisione nel merito (convenuto), il meccanismo di ritardare il
più possibile la decisione nel merito. Le Sezioni Unite, per contrastare questo utilizzo
abusivo del regolamento, adottano questa interpretazione più restrittiva.
L’art.367 è stato poi modificato e attualmente prevede che, proposto il regolamento di
giurisdizione entro il limite che abbiamo visto, non è più automatica la sospensione del
processo, ma questo verrà sospeso solo se il regolamento proposto non è
manifestamente inammissibile o infondato;
2. come il regolamento si propone con modalità previste dall’art.364 e ss. c.p.c. Questi
regolano la proposizione del ricorso per Cassazione, quindi il regolamento si proporrà
secondo le modalità di questo istituto. Sul regolamento si pronunceranno poi le Sezioni
Unite con uno di questi tre esiti:
a) confermando che il giudice adito ha la giurisdizione;
b) accogliendo il difetto di giurisdizione rilevando che il giudice non ha il potere di
giudicare e che la giurisdizione spetta ad un giudice speciale;
c) decidendo che quel giudice non ha la giurisdizione e che non ce l’ha nessun altro
e che quindi la controversia in oggetto non può essere sottoposta a sindacato
giurisdizionale difetto assoluto di giurisdizione.
Per quanto riguarda l’art.41,2c.p.c., come proporrà il regolamento la PA? Teniamo
da conto che essa NON fa parte del processo. La PA si attiverà attraverso il prefetto,
il quale solleciterà il pm ad intervenire nel processo e proporre questo regolamento
(il regolamento non può essere proposto dall’esterno e quindi è necessario che
intervenga il pm);
3. effetti TRANSLATIO IUDICII per difetto di giurisdizione disciplinato nell’art.59 della
l.69/2009. Prima del 2009 che efficacia aveva la sentenza sulla giurisdizione? La
sentenza che rilevava il difetto, determinava la chiusura del processo in rito. Nel 2007
la sentenza 77 pone di fronte alla Corte Costituzionale il dubbio di legittimità
costituzionale su questa soluzione normativa in particolare in relazione all’art.382
del codice, che prevede che, laddove ci sia stata una decisione della Cassazione sul
difetto, il processo debba chiudersi definitivamente. La Corte Costituzionale pronuncia
questa sentenza del 2007 con una interpretativa di rigetto (non vincolante) dicendo
che quella norma andava interpretata in un’altra maniera, ovvero alla luce del
principio della ragionevole durata del processo e cioè nel senso che, una volta rilevato
il difetto di giurisdizione, è consentito, alle parti che lo vogliano, di riassumere lo stesso
processo davanti al giudice individuato come munito di giurisdizione per consentire il
processo prosegua e arrivi ad una decisione nel merito. Subito dopo (2009) avremo
delle pronunce che seguono questa interpretazione da parte delle sezioni unite si
potrà dunque continuare il medesimo processo davanti ad un altro giudice munito di
giurisdizione Translatio iudicii quel determinato processo continuerà ad essere
retto dalla domanda iniziale. Dunque risulterà essere una sorta di sanatoria del difetto
di giurisdizione.
A questo punto andiamo ad analizzare l’art.59 della l. 69/2009 che presenta 4 profili
fondamentali:
Il primo comma ci dice che nel momento in cui qualunque giudice dovesse
rilevare un difetto di giurisdizione che riguardi i rapporti tra il giudice civile
ordinario e un giudice speciale, deve anche individuare se esiste il giudice
munito di giurisdizione “se esiste”, perché potremmo anche avere un difetto
assoluto di giurisdizione;
Una volta che ci sia stata la decisione sulla giurisdizione, entro massimo TRE
MESI dal passaggio in giudicato della sentenza che ha rilevato il difetto, ognuna
delle parti può riassumere il processo davanti al giudice indicato come munito
di giurisdizione. In questo caso gli effetti della domanda continueranno a
prodursi dal momento in cui è stata proposta la domanda originaria;
Una volta che sia stato riassunto il processo davanti al giudice munito di
giurisdizione ci saranno due situazioni prospettabili:
a) la riassunzione è avvenuta sulla base di una decisione di una sentenza
che ha rilevato il difetto di giurisdizione ma è una sentenza pronunciata,
non dalle Sezioni Unite il giudice può sollevare, se non condivide la
decisione del giudice a quo, d’ufficio il regolamento perché siano le
sezioni unite a decidere definitivamente quale sia il giudice munito della
giurisdizione;
b) la seconda eventualità che può verificarsi è che la riassunzione sia
avvenuta dopo che ci sia stata la pronuncia delle sezioni unite in
questo caso, siccome le sezioni unite hanno detto l’ultima parola, il
giudice davanti al quale è stata riassunta la causa non può fare alcunché.
Possibilità a salvezza della eventuale attività istruttoria che sia stata compiuta
davanti al giudice a quo. Può accadere che, prima che si arrivi alla pronuncia sul
difetto di giurisdizione e della conseguente riassunzione davanti al giudice ad
quem, sia stata svolta un’attività istruttoria davanti al giudice a quo. Quando
avviene la translatio non si perde del tutto l’attività istruttoria svolta, ma i
mezzi di prova che erano stati assunti dal giudice a quo varranno come
argomenti di prova nel giudizio davanti al giudice ad quem.
Alla luce della formazione dell’art.59, bisogna aggiungere alcune cose che non sono
subito evidenti:
Primo profilo esso può trovare applicazione solo laddove venga rilevato un
difetto di giurisdizione relativo interno all’ordinamento (non si può applicare
quando dovesse riguardare i rapporti con un giudice straniero);
Secondo profilo riguarda il secondo comma dell’art.59, quando dice che, una
volta rilevato il difetto, la parte può riproporre la domanda davanti al giudice
munito di giurisdizione questa è una non corretta formulazione della norma
(riproporre la domanda vorrebbe dire che non vale più quanto detto prima)
avremmo una contraddizione, per questo NON avremo una riproposizione, ma
una RIASSUNZIONE.
Terzo profilo sempre relativo al secondo comma, cioè che una volta che sia
riassunto il processo sono fatte salve le decadenze e le preclusioni già
maturate davanti al giudice a quo cioè la translatio non può riassumere le
preclusioni e le decadenze che sono già ferme, se sono maturate sulla base della
disciplina processuale applicabile davanti al giudice a quo.
1aprile 2015
COMPETENZA
Altro presupposto processuale che riguarda il giudice e che lo condiziona ad emettere un
giudizio di merito è la COMPETENZA requisito processuale.
La competenza è definita come una fetta di giurisdizione dopo aver individuato l’ambito di
giurisdizione civile, all’interno di questo ambito i criteri della competenza ci consentono di
individuare esattamente quale sia il giudice (ufficio giudiziario) che dovrà decidere quella
specifica controversia ordine logico ed è interesse dell’attore di instaurare un processo che
sia corretto dal punto di vista dei presupposti.
I criteri sulla competenza servono per stabilire quale sia tra giudice di pace o tribunale qual è
quello competente.
I giudici civili ordinari:
1° grado Giudice di Pace o Tribunale;
2° grado Corte d’Appello (territorialmente competente);
3° grado Corte di Cassazione = giudice di legittimità.
In primo luogo bisogna individuare quale giudice sia competente ed in secondo luogo quale
tipo specifico di Giudice di Pace o di Tribunale, tra quelli presenti sul territorio, sia
competente per la nostra competenza.
I criteri di competenza che rilevano per il 1°grado si distinguono tra criteri in senso
verticale, che individuano la competenza tra giudice di pace o tribunale, oppure criteri in
senso orizzontale, che individuano l’ufficio giudiziario competente, sempre su base
territoriale.
Dopo aver risolto il 1° grado, il criterio che l’ordinamento impone è semplice in quanto per i
gradi successivi il criterio è quello secondo il quale il giudice competente per l’impugnazione è
individuato sulla base del giudice che ha emesso la sentenza di 1°grado (es. l’appello segue la
sentenza del giudice di 1°grado).
Ancora più semplice è la questione della competenza del ricorso per Cassazione essendo
quest’ultima una sola.
Criteri di competenza in senso verticale per valore o per materia utilizzandoli potremo
stabilire se c’è competenza del giudice di pace o tribunale (giudice di pace art.7, tribunale
art.9). Dopo aver risolto la competenza verticale, poi si deve stabilire all’interno dell’organo
giudiziario competente quale sia l’ufficio giudiziario competente sul territorio (criteri di
competenza territoriale =orizzontale).
Come si determina la competenza per valore di una causa?
Si fa riferimento al valore della causa e poi ai profili della competenza per materia (valore
della causa è dato dalla domanda - art.10) PETITUM MEDIATUM (bene della vita) da il
valore della causa (es. 10.000euro). Se all’interno del processo abbiamo più domande
proposte dallo stesso attore verso più convenuti, il valore della causa è dato dalla somma.
Art. 10 = la somma ce l’avremo quando avremo più domande di una parte verso l’altra. Non vi
è somma se vi sono domande contrapposte da una parte verso l’altra e viceversa con
domanda riconvenzionale.
Una volta individuato il valore della causa, in relazione a questo valore si stabilisce se la
competenza è del giudice di pace o tribunale = art. 7c.p.c. giudice di pace, il valore della
causa non deve essere superiore a 5000euro, purché la controversia non abbia ad oggetto
beni immobili.
Art. 9c.p.c. tribunale, il valore della causa non deve essere superiore a 5000euro;
Se a seguito di un cumulo di domande, dovesse risultare che il valore delle due domande
sommate supera i 5000euro, ma prese separatamente valgono meno, comunque la
competenza è del tribunale.
Ai fini della determinazione della competenza verticale, il criterio della competenza per valore
non è l’unico da artt. 7 e 9 c.p.c. si ricava che per alcune controversie il legislatore vuole che
la competenza sia o dell’uno o dell’altro competenza per materia (predeterminata sulla
base dell’oggetto della controversia); il legislatore non si affida al valore della controversia,
ma predetermina lui, sulla base dell’oggetto, quale sia il giudice competente si guarda
comunque alla domanda, non si guarda però più al PETITUM, ma alla CAUSA PETENDI.
Nell’art. 7 il legislatore individua una serie di materie per le quali il giudice di pace è l’unico
competente. Mentre al comma 1 parla della competenza per valore, al comma 2 elenca le varie
materie competenti al giudice di pace, utilizzando contestualmente entrambi i criteri. Fa
l’ipotesi del risarcimento danni derivanti da circolazione di veicoli e natanti ma il cui danno,
comunque, non deve superare i 5000euro. La competenza per materia, quindi, non è illimitata,
perché fissa un limite di valore (cumula criteri). Nei commi successivi individua altre materie
competenti al giudice di pace, però senza limite di valore criterio competenza per materia
in maniera esclusiva senza usare il valore della controversia. Il riferimento riguarda
controversie per rapporti condominiali per uso dei servizi, rapporti di vicinato (immissioni),
tutte le controversie ad oggetto opposizioni a verbali di accertamento di violazione del codice
della strada (alcune controversie in materia di opposizioni a sanzioni amministrative (legge
689/81 depenalizzazione), le quali sono attribuite alla competenza del giudice di pace.
I giudici di pace sono magistrati non togati, ma ordinari; lo fanno volontariamente dopo
essere ritenuti idonei dal CSM.
Quindi in primo luogo occorre accertare la CAUSA PETENDI se rientra nella competenza del
giudice di pace, se non vi rientra vedremo il PETITUM per accertare il valore, se non vi rientra
la competenza non è del giudice di pace, ma del tribunale.
Per quanto riguarda il Tribunale (giudice togato), l’art. 9 individua la sua competenza in via
residuale rispetto al giudice di pace però nell’art. 9 vi sono indicazioni di competenza per
materia controversie per materie di stato e capacità delle persone, controversia ad oggetto
la querela di falso (rimedio per contestare la veridicità di un atto pubblico = notaio in
teoria l’ordinamento lo considera atto pienamente affidabile quindi il legislatore vuole che se
ne occupi un giudice più esperto), processi di esecuzione forzata, diritti onorifici, per tutte le
controversie di valore indeterminabile (tutela diritto non quantificabile).
Criteri di competenza in senso orizzontale o territoriale = per accertare lo specifico ufficio
giudiziario dobbiamo considerare i criteri orizzontali, cioè territoriali (secondo accertamento)
indicazioni del legislatore nell’art. 18 tratta delle persone fisiche, nell’art. 19 di persone
giuridiche.
Vi sono 3 situazioni:
- foro generale: art. 18 residenza (dove abita abitualmente) e domicilio (centro affari) del
convenuto; se non si conoscono né l’uno né l’altro si guarda alla dimora (luogo nel quale il
soggetto ha momentaneamente la sua abitazione). Art. 19 sede della persona giuridica.
Il legislatore individua altre ipotesi di:
- foro esclusivo regole derogatorie del foro generale: ipotesi tipiche che riguardano (artt.21
e ss.) controversie ad oggetto beni immobili (tribunale del luogo in cui si trova l’immobile),
cause societarie o condominiale (sede società o del luogo in cui ha sede il condominio), foro
della P.A (la P.A. utilizza l’avvocatura dello stato, che di solito si trova presso le corti d’appello
= quindi luogo in cui ha sede l’avvocatura, nel cui distretto ha sede il giudice competente), foro
previsto per le controversie in materia ereditaria (luogo in cui si ha avuta l’apertura della
successione, luogo dell’ultimo domicilio del de cuius), controversie individuali di lavoro
(luogo in cui il lavoratore svolge la sua attività lavorativa);
- foro alternativo in alternativa al foro generale, l’attore può utilizzare altri fori, cioè altre
competenze territoriali (il non utilizzarli non determina un vizio come per il foro esclusivo); le
ipotesi sono 2 art. 20 (controversie nascenti da obbligazione – sapere quali sono le fonti di
obbligazione = l’attore può scegliere come criterio di competenza territoriale, il luogo in cui è
sorta o va adempiuta l’obbligazione oltre che il foro generale) e 30 (domicilio eletto = per
esempio in alcuni contratti, come quelli di massa, ci sono alcune clausole che eleggono il
domicilio presso un certo luogo; purché sia esplicitato, può essere usato anche come foro
esclusivo, quindi non siamo più in presenza di un foro alternativo).
13 aprile 2015
Il regolamento necessario di competenza, rubricato nell’art. 43c.p.c., è un mezzo di
impugnazione, con cui si può contestare una pronuncia del giudice. Questo è l’ultimo rimedio
per le parti per contestare la decisione del giudice.
Deve essere esperito davanti alla Corte di Cassazione entro il termine di 30 GIORNI e questa si
pronuncerà con un’ordinanza in camera di consiglio. A seguito della pronuncia le parti
avranno la possibilità o di riassumere il giudizio davanti al giudice individuato come
competente entro 3 MESI, oppure il procedimento si estinguerà.
Nel caso in cui il giudice, invece, decide all’esito possono verificarsi due situazioni distinte:
1. una volta che abbia terminato la trattazione della causa, questa è rimessa in decisione
per l’eventuale vizio di incompetenza il cui rilievo è considerato fondato il giudice
deve dichiararsi privo di competenza con ordinanza. Avendo qui un provvedimento
solo sulla competenza torna in ballo l’art. 43c.p.c.;
2. se l’eccezione di incompetenza si rivela infondata, il giudice deciderà anche sul merito
della domanda con sentenza. In quest’ultimo troveremo anche il rigetto della questione
di incompetenza.
I rimedi esperibili avverso questo provvedimento li dobbiamo distinguere a seconda che: 1) la
parte voglia contestare il giudice, TANTO per il profilo della competenza QUANTO per quello
del merito in questo caso il rimedio impugnatore è quello ordinario per le sentenze di
primo grado, cioè l’appello. 2) La parte soccombente voglia contestare SOLO il profilo della
competenza in questo caso si può proporre il regolamento facoltativo di competenza,
rubricato nell’art.42c.p.c., che prevede lo stesso procedimento di quello necessario, ma viene
definito facoltativo perché la parte può decidere se proporre quello o l’appello avverso la
sentenza. In questo caso l’ordinamento vuole evitare che le due impugnazioni procedano
parallelamente sullo stesso provvedimento ed, infatti, l’art.48c.p.c. prevede che, proposto il
regolamento facoltativo, i termini per proporre l’appello (se l’appello non è stato proposto),
vengano sospesi in attesa di avere la decisione da parte della Corte di Cassazione.
L’art. 46c.p.c. prevede che questi rimedi (i due regolamenti) NON siano esperibili davanti al
giudice di pace. In relazione a questo articolo si è prospettata una questione di legittimità nel
senso che la pronuncia del giudice di pace sarebbe priva di rimedi proprio per questo
motivo si è ritenuto possibile che si possa comunque esperire il regolamento necessario di
competenza, come interpretazione correttiva dell’art.46c.p.c.
A questo punto occorre tener presente un terzo regolamento di competenza, previsto
dall’art.45c.p.c. un po’ particolare: finora abbiamo visto regolamenti che prevedono dei rimedi
a favore delle parti che siano risultate soccombenti rispetto alla questione di competenza
l’art. 45c.p.c. parla del c.d. regolamento di competenza d’ufficio, cioè un rimedio che è
proposto non dalle parti, ma d’ufficio dal giudice. Il giudice può proporre questo regolamento
quando, in seguito all’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito per ragioni di
materia o di territorio, nei casi di cui all’art.28c.p.c., la causa è riassunta di fronte ad un altro
giudice. Se il secondo giudice dunque ritiene di non essere competente per uno di questi
motivi (per materia o per territorio inderogabile), può d’ufficio avanzare lui stesso il
regolamento di competenza di fronte alla Corte di Cassazione. L’art.45c.p.c. trova applicazione
quando ancora la Corte non si sia pronunciata sulla questione (l’ordinanza su cui fa
riferimento l’articolo non è quella della Corte). Il legislatore ha formulato tale rimedio per
evitare che il giudice davanti al quale le parti hanno riassunto il processo possa a sua volta
dichiararsi incompetente, determinando un conflitto di incompetenza.
Infine c’è un’altra particolarità che lo distingue dagli altri due tipi di regolamento, cioè, così
formulato, esso non è un mezzo di impugnazione, perché in questo caso il secondo giudice sta
solo dubitando della sua competenza, non sta contestando il provvedimento di un altro
giudice.
Se leggiamo l’art.42c.p.c., nel disciplinare il regolamento necessario, ci dice che questo rimedio
impugnatorio è proponibile quando abbiamo a che fare con provvedimento con i quali il
giudice ha deciso solo sulla competenza; però aggiunge che in realtà lo stesso rimedio è
proponibile anche laddove il giudice abbia deciso sulla competenza nei casi di cui
all’art.59c.p.c. A cosa fa riferimento l’art.42c.p.c. nel richiamare l’art.39c.p.c.? Quest’ultimo
articolo disciplina due fattispecie che sono affini alla competenza, ma che sono da tenere
distinti da quest’ultima: si tratta della litispendenza e della c.d. continenza, che vengono
accomunati alla competenza per determinati motivi:
per quanto riguarda la litispendenza, riguarda il caso in cui la medesima causa venga
presentata davanti a giudici diversi la seconda presentazione risulterà nulla.
L’ordinamento, infatti, vuole evitare che avvenga questo per ragioni sia di economia
processuale che per evitare il contrasto di giudicati. In questo caso il giudice, anche
quello che sia stato attivato per secondo, deve, anche d’ufficio, rilevare la litispendenza
e dichiarare questa, disponendo la cancellazione della causa il secondo giudizio,
infatti è viziato. Il giudice disporrà la cancellazione con ordinanza che, ai sensi
dell’art.42, è suscettibile di essere sottoposta a regolamento necessario, ove le parti
dovessero non condividere la decisione.
l’altro istituto, quello della continenza fra cause, si avrà quando due cause instaurate
davanti a giudici diversi presentino identità di soggetti, di causa petendi e presentino
un petitum l’uno più ampio dell’altro, ma comprensivo anche del petitum dell’altra
causa. Anche qui il legislatore assimila la questione alla competenza, volendo evitare
che se ne occupino due giudici diversi sempre per ragioni di economia processuale e
per evitare contrasto di giudicati. Anche in questo caso il giudice adito per secondo
potrà rilevare la continenza e disporre che la causa introdotta davanti al giudice venga
riassunta davanti al giudice adito per primo il quale deciderà tanto sulla prima causa
quanto sulla secondo. Anche in questo caso il provvedimento utilizzato sarà
l’ordinanza che potrà essere sottoposta al regolamento di competenza per contestare
la valutazione di sussistenza della competenza. Occorre precisare che la seconda causa
sarà una causa che non rientra nella competenza del giudice adito per primo.
ESEMPIO nella prima causa l’attore chiede l’adempimento di una rata scaduta del
mutuo nell’ambito di un contratto di mutuo. Il valore della rata è di 1000euro quindi la
questione verrà presentata davanti al giudice di pace. Poi viene introdotta una seconda
causa con la quale la contro-parte propone la domanda di annullamento del contratto
per vizio del volere. Nell’introdurre la domanda di annullamento, il valore della causa
si determina sulla base dell’intero contratto; mettiamo sia di 100.000euro quindi
verrà presentato davanti al Tribunale. Qui il petitum è più ampio, la causa petendi è
identica, ma il petitum della seconda causa chiede l’eliminazione degli effetti del
contratto. In questo caso l’art.39c.p.c. ci dice che se il giudice che è stato adito per
primo dovesse risultare incompetente (come in questo caso, essendo giudice di pace),
rispetto alla causa che è stata introdotta per seconda, sarà il prima giudice che, rilevata
la continenza, disporrà la riunione davanti al secondo giudice, quindi il tribunale.
Altro fenomeno molto importante, è quello della c.d. DEROGA AI CRITERI DI COMPETENZA
PER RAGIONI DI CONNESSIONE.
Noi già sappiamo che possiamo avere all’interno di un processo la possibilità di introdurre più
domande che siano connesse fra di loro oggettivamente o soggettivamente; e sappiamo che se
ricorre questa connessione, le diverse cause sono proponibili davanti al medesimo giudice in
un unico processo.
L’aspetto di cui ci dobbiamo occupare riguarda l’ipotesi che queste cause/domande tra loro
connesse, se vengono proposte in maniera autonoma, seguono determinati criteri di
competenza proposte in maniera cumulata all’interno di un unico processo, possono
vedersi derogati i loro criteri di competenza (da art.31 a art.36c.p.c.).
ESEMPIO rate del mutuo che singolarmente sarebbero di competenza del giudice di pace,
mentre cumulate del tribunale art.104c.p.c. deroga al criterio del valore per ragioni di
connessione, la cui deroga sarebbe stata applicata se le domande fossero state proposte
autonomamente. L’art. 104 c.p.c. dice che una volta che siano proposte le diverse cause
all’interno del medesimo processo, per determinare la competenza per valore bisogna
SOMMARE il valore delle diverse domande. Richiama l’art.10.
14aprile 2015
La possibilità di deroga è prevista solo nei confronti dei criteri di competenza per territorio o
per valore, mentre nei confronti dei criteri di competenza per materia e per territorio sono
inderogabili (art.28c.p.c.)
Ora vediamo l’ipotesi nella quale abbiamo la deroga della competenza per ragioni di
connessione oggettiva. Il presupposto è quello di più domande connesse oggettivamente,
proposte all’interno del medesimo processo, anche in derogai criteri di competenza. Queste
ipotesi le troviamo in una serie di norme, cioè dall’art.31 all’art. 36c.p.c.:
il primo articolo che bisogna analizzare è l’art. 33c.p.c., il quale ci dice che, ove l’attore
proponga più domande nei confronti di più convenuti, connesse per l’oggetto e per il
titolo, in questo caso può proporre queste domande diverse all’interno del medesimo
processo, in deroga ai criteri di competenza territoriale. Le ipotesi a cui fa riferimento
l’art.33c.p.c. sono quelle del LITISCONSORZIO FACOLTATIVO, previsto all’art.103c.p.c.
per introdurre il processo, l’attore può, all’interno del medesimo processo, proporre
più domande connesse per l’oggetto o per il titolo, nei confronti di più convenuti.
L’art.33c.p.c. dunque ci dice che diventa irrilevante quale giudice territorialmente
competente sia da adire (nel caso in cui i convenuti siano di più e abbiamo domicili
diversi). L’attore avrà la piena libertà di scegliere ciò per favorire la trattazione
congiunta in quanto, nell’ambito del litisconsorzio facoltativo, diventa prevalente
rispetto alla necessità di salvaguardare le regole fissate per individuare il giudice
territorialmente competente. Qui peraltro non si pone un problema di deroga ai criteri
di competenza, perché le diverse domande sono proposte non nei confronti della
medesima parte, e quindi non sono cumulabili dal punto di vista del valore l’unica
deroga si ha rispetto ai criteri di competenza territoriale.
andando avanti, troviamo due norme che possiamo accomunare al discorso
dell’art.33c.p.c., perché fanno riferimento entrambe ad un istituto che troviamo sul
piano sostanziale e di cui il legislatore processuale tiene conto al fine di avere la
trattazione congiunta di più cause all’interno del medesimo processo art. 31 e 32
c.p.c. (disposizioni ricomprese tra quelle norme usate per derogare ai criteri della
competenza utilizzando la connessione);
ESEMPIO piano sostanziale: diritto di credito per il capitale in un rapporto di mutuo
ovvero il diritto ad ottenere la restituzione di una somma di denaro prestata a titolo
di mutuo. Se il debitore dovesse restituire in ritardo la somma, sarà tenuto anche a
corrispondere gli interessi i quali configurano un diritto di credito accessorio rispetto
al principale. Oltre gli interessi poi dovrà anche corrispondere l’eventuale risarcimento
danni (sempre accessorio). Il creditore avrà diritto tanto ad esercitare la domanda per
l’adempimento coattivo del credito principale, quanto per quello accessorio. Il
legislatore, nell’art.31c.p.c., ci dice che queste tre domande devono essere presentate
TUTTE INSIEME; la domanda che ha ad oggetto il diritto accessorio è proponibile
davanti al giudice competente per la domanda principale. Mettiamo che il mutuo
ammonti a 10.000 euro, la domanda per gli interessi maturati a 2.000 euro ed il
risarcimento a 4.000euro. Se le domande fossero proposte separatamente la principale
sarebbe del tribunale, le accessorie del giudice di pace. Se però l’attore le propone
insieme (e lo può fare) le deve proporre davanti al giudice competente per la causa
principale, quindi il tribunale questa è la deroga ai criteri di competenza per valore.
Se l’attore decidesse di proporre le domande separatamente, avremo processi diversi,
però i processi che hanno ad oggetto gli elementi accessori, non potranno mai
proseguire se non c’è stata la decisione sulla causa principale il legislatore in questo
caso infatti prevede la sospensione necessaria del processo sulle domande
accessorie. Proprio per questo è meglio ricorre a quanto previsto dall’art.31c.p.c., con il
quale l’attore ottiene il risparmio di attività processuale, ma anche la possibilità di
evitare di sospendere i processi accessori.
Questo fenomeno della deroga ai criteri della competenza per valore per ragioni di
connessione oggettiva per accessorietà, il legislatore lo prende in considerazione due
volte; infatti lo stesso meccanismo, ma in una situazione un po’ diversa, lo troviamo
applicato nella seconda disposizione, cioè all’art.32c.p.c., che fa riferimento sempre al
fenomeno dell’accessorietà con riferimento al rapporto di garanzia.
Quando facciamo riferimento al rapporto di garanzia, ancora una volta, facciamo
riferimento ad un istituto di diritto sostanziale.
ESEMPIO fideiussione (garanzia personale), che comporta che nel momento in cui
scadrà un eventuale contratto di mutuo, il soggetto debitore, tenuto alla restituzione
della somma che ha ricevuto a titolo di mutuo, se non dovesse adempiere, la banca può
far valere il suo diritto di credito nei confronti del fideiussore.
Comunque di rapporti di garanzia ce ne sono molti e possono nascere anche senza che
ci sia stato un contratto:
ESEMPIO contratto di compravendita e relativa garanzia per l’evizione
(art.1483c.c.) una volta stipulato il contratto di compravendita, il venditore
garantisce per legge al compratore, non tramite contratto, che il bene che gli ha
venduto è di sua proprietà, con la conseguenza che se il compratore dovesse subire
l’evizione da parte di terzo, il compratore può a sua volta rivalersi nei confronti di chi
gli ha venduto il bene.
Le ipotesi prese in considerazione sono tutte ipotesi di diritto sostanziale che
ovviamente avranno delle ripercussioni sul piano processuale nel primo esempio,
alla scadenza, il debitore non restituisce il debito e la basca va in giudizio per chiedere
la condanna del debitore come può far valere l’esistenza del contratto di
fideiussione? Chiamando in causa anche il fideiussore ciò è quello che consente
l’art.32c.p.c., che dice che la domanda che ha ad oggetto il rapporto di garanzia può
essere proposta all’interno del processo che ha ad oggetto il rapporto principale. Nei
confronti del fideiussore chiamato farà valere una domanda coordinata al mancato
adempimento della domanda principale. Se non dovesse sfruttare l’ipotesi proposta
dall’art.32, si dovrebbe instaurare più processi: oltre a quello principale, anche quello
accessorio nei confronti del fideiussore.
Ovviamente lo stesso meccanismo è applicabile all’esempio della garanzia per
l’evizione. Il fatto che la domanda di garanzia venga proposta insieme a quella
principale permette di avere una deroga al criterio di competenza per territorio ma
anche una deroga al criterio di competenza per valore.
15aprile 2015
Art. 34 c.p.c. fenomeno della connessione oggettiva per pregiudizialità-dipendenza.
Quest’ultimo è un fenomeno che troviamo sul piano sostanziale ipotesi nelle quale
un determinato diritto prevede nella sua fattispecie costitutiva l’esistenza di un altro
rapporto o diritto
ESEMPIO contratto di sublocazione fattispecie costitutiva del contratto di
sublocazione prevede al suo interno l’esistenza del rapporto di locazione.
Per identificare questo fenomeno si dice che il diritto o rapporto la cui esistenza
presuppone a sua volta l’esistenza della validità di un altro rapporto è un DIRITTO
DIPENDENTE, mentre il rapporto o il diritto la cui esistenza e validità è richiesta
affinché si abbia il diritto o rapporto dipendente è definito DIRITTO PREGIUDIZIALE.
Può accadere che venga esercitata una domanda e che venga instaurato un giudizio che
ha ad oggetto il rapporto dipendente il giudice, prima di decidere sulla domanda
dipendente, deve conoscere l’esistenza del rapporto pregiudiziale.
L’art. 34c.p.c. dice che, ove si determini una situazione di questo tipo, possiamo
distinguere 2possibilità diverse che ha il giudice per conoscere il rapporto
pregiudiziale e per decidere la domanda:
- accertamento in via meramente incidentale del rapporto pregiudiziale, lo può
conoscere come elemento costitutivo al fine di decidere il rapporto dipendente
(come fatto costitutivo in maniera del tutto incidentale);
- accertamento con efficacia di giudicato, non solo deve conoscere il rapporto
pregiudiziale, ma lo deve accertare in maniera approfondita e con efficacia di
giudicato ( che acquista efficacia incontrovertibile).
Il giudice accerta in via meramente incidentale, sempre che non abbia l’obbligo di
accertare con efficacia di giudicato o per volontà di legge oppure perché gli viene
richiesto dalle parti.
Per “volontà di legge” si intende che abbiamo norme espresse nelle quali il
legislatore diche che bisogna far attenzione all’eventualità in cui venga proposta
una domanda che abbia ad oggetto un rapporto dipendente; qui il giudice deve
decidere ed accertare in maniera definitiva l’esistenza e la validità del rapporto
pregiudiziale.
ESEMPIO art.124c.c. prende in considerazione l’ipotesi del rapporto di
bigamia; laddove venga chiesta o proposta la domanda di annullamento del
matrimonio per un precedente matrimonio valido, il giudice al quale viene posta la
domanda pregiudiziale, deve accertare la validità del primo matrimonio.
In termini generali le ipotesi nelle quali il legislatore espressamente impone al
giudice di accertare con efficacia di giudicato il rapporto pregiudiziale ce le avremo
in tutti i casi in cui il rapporto pregiudiziale integri uno status personale.
La ratio di ciò è che se il legislatore si accontentasse del mero accertamento
incidentale, la conseguenza sarebbe che avendo accertate lo status personale in
maniera meramente incidentale, quindi con efficacia limitata solo a quel processo,
quello status potrebbe essere oggetto di un autonomo processo che arrivi a
conclusioni opposte a quelle alle quali è arrivato il giudice nell’accertarlo
incidentalmente. Il giudice, invece, decide di accertare in maniera approfondita il
rapporto pregiudiziale quando ha a che fare con tutti quei casi al di fuori di quelli in
cui il legislatore ha previsto l’obbligo del giudice di accertarlo in via incidentale.
Se una delle parti vuole che ci sia ci sia l’accertamento in termini di giudicato, sta
proponendo una domanda che ha ad oggetto l’accertamento della validità del
diritto pregiudiziale. E una volta che la parte abbia manifestato la sua volontà in
questo senso all’interno del processo avremo due domande:
1. la prima è quella con la quale la parte abbia chiesto l’accertamento del
diritto dipendente;
2. la seconda è quella con la quale si chiede l’accertamento della validità ed
efficacia del rapporto pregiudiziale. Questa seconda domanda è
oggettivamente connessa con la prima domanda.
E perché in questo caso si pone un problema di competenza? Perché è come se il
rapporto pregiudiziale fosse stato oggetto di una domanda che introduce un
processo avente ad oggetto specificatamente la decisione su quel rapporto
pregiudiziale.
Quindi quando il giudice, che deve decidere sul rapporto dipendente, è
chiamato ad accertare in via meramente incidentale, sarà sempre il giudice che
conoscerà anche del rapporto pregiudiziale perché non lo decide in maniera
definitiva e non si pone il problema di competenza. Infatti, se anche il rapporto
pregiudiziale dovesse appartenere alla competenza di altro giudice, questo
problema di competenza non si pone perché quel giudice in realtà sta
accertando in maniera meramente incidentale l’esistenza o la validità del
rapporto.
Il problema si pone quando il giudice deve accertare con efficacia di giudicato il
rapporto pregiudiziale perché è come se quel rapporto fosse stato oggetto di
una domanda avente ad oggetto la decisione sul quel rapporto pregiudiziale.
L’art. 34 dice che si possono verificare due situazioni:
- la competenza sul rapporto pregiudiziale appartiene allo stesso giudice
che dovrà decidere sul rapporto dipendente (non c’è un problema di
spostare la causa ad altro giudice). Il giudice deciderà la domanda
originaria sul rapporto dipendente e la domanda sul rapporto
pregiudiziale sempre nella stessa sentenza;
- la decisione sul rapporto pregiudiziale non rientra nella competenza per
materia o per valore del giudice adito entra in ballo la previsione
dell’art 34c.p.c. Si avrà deroga ai criteri di competenza solo per valore,
perché se fosse deroga anche per materia questo spostamento non potrà
aversi e le due cause dovranno essere tenute distinte. Se il giudice non ha
la competenza, l’intera causa dovrà essere trasferita al giudice
competente per materia o valore sul rapporto pregiudiziale = tanto la
domanda originale (decisione sul rapporto dipendente) quanto la causa
che oggetto la decisione sul rapporto pregiudiziale.
L’unica ipotesi in cui abbiamo deroga è quella in cui l’intera causa, una volta
sorta la questione sulla decisione del rapporto pregiudiziale, è trasferita al
giudice competente (es. domanda di alimenti).
Inoltre, l’art. 34c.p.c., che è inserito fra le norme che il codice utilizza per
disporre deroga ai criteri di competenza per ragioni di connessione, rileva
poi per altri due profili:
- la determinazione dei limiti oggettivi di giudicato acquista
rilevanza l’art 34c.p.c. che spiega che il giudicato si determina sulla
base della domanda. Il problema è Quando l’oggetto della sentenza
è l’accertamento di un rapporto dipendente, il giudicato che si è
formato su questo, si estende anche sul rapporto pregiudiziale? NO,
non si estende automaticamente in quanto l’art 34c.p.c. dice che
serve o una previsione di legge o una domanda di parte. Il rapporto
pregiudiziale continua ad essere un rapporto non coperto da
giudicato e quindi suscettibile di essere introdotto autonomamente
in un processo distinto;
- questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito art. 187c.p.c.
il codice parla di questo articolo e dice (commi 2 e 3) che, se nel
corso del processo di cognizione dovesse emergere una questione
pregiudiziale di rito o preliminare di merito, il giudice, se ritiene che
questa questione può chiudere il processo, può rimettere subito in
decisione la causa e decidere, anche se l’istruttoria non si è svolta o
non si è esaurita. Serve chiarire a quali istituti fa riferimento il
legislatore quando parla di questioni pregiudiziali di rito e questioni
preliminari di merito si tratta di questioni che assumono, ai fini
della decisione, caratteri di pregiudizialità o di preliminarità in
ordine logico da decidere logicamente prima di tutte le altre (norme
di economia processuale); questo perché se dovessero risultare
fondate comportano l’inutilità di svolgere l’attività processuale.
Le questioni pregiudiziali di rito, riguardano il corretto svolgimento
del processo (es. questione di giurisdizione o di competenza) se
viene posta la questione di giurisdizione e risulta fondata è inutile
andare avanti con la trattazione e stesso discorso per la questione di
competenza. Quindi le questioni di carattere processuale, se
dovessero risultare fondate, consentono di chiudere il processo senza
svolgere la trattazione.
Le questioni preliminari di merito , sono questioni (eccezioni) che
hanno ad oggetto il merito e che se dovessero fondate consentono di
decidere subito nel merito la causa eccezioni di merito sono tuti
quei fatti (estintivi, impeditivi, modificativi) che sono posti dal
convenuto nel processo e che hanno questa caratteristica di
consentire di decidere subito (es. domanda di pagamento di credito,
eccezione di avvenuto pagamento o di prescrizione del pagamento
se fondate, si può decidere subito in merito, come il rigetto domanda
perché il credito è già pagato o prescritto).
Quindi, l’art. 187 differisce con l’art 34 perché il primo, parlando di
questioni pregiudiziali di rito (natura processuale) o preliminari di
merito (natura sostanziale) sta parlando di FATTI e NON DI DIRITTI
O DI RAPPORTI come l’art. 34. Questi fatti non possono mai essere
oggetto di autonomo processo o di domanda, cosa che può accadere
per i rapporti pregiudiziali dell’art 34.
In collegamento con l’art 34, ci sono due altre disposizioni che prendono in
considerazione due fenomeni, sempre ai fini di deroga ai criteri di competenza,
trattandoli come se fossero di pregiudizialità-dipendenza, anche se non si parla di
pregiudizialità-dipendenza nel senso che abbiamo visto. Per queste due norme la
soluzione è identica a quella adottata per l’art. 34;
l’art. 35c.p.c. ipotesi che sia stata formulata dal convenuto una eccezione di
COMPENSAZIONE (1241 e ss c.c. = modo di estinzione del credito vantato fino a
concorrenza del controcredito che sussista in capo al debitore nei confronti del
creditore), che è un istituto di diritto sostanziale.
Sul piano sostanziale i due crediti/debiti non sono connessi, non è un’ipotesi di
connessione oggettiva, però sul piano processuale l’eccezione di compensazione (fatto
estintivo del credito vantato da attore nella domanda nei limiti del controcredito) la
situazione è diversa. Che problema pone il legislatore processuale quando viene
esperita l’eccezione di compensazione?
Può il giudice decidere nel senso di far determinare gli effetti della compensazione se
non sa in maniera definitiva che il controcredito fatto valere dal convenuto esiste
validamente?
L’art.35 c.p.c. risolve questo problema il convenuto ha formulato una eccezione e
non domanda. Il giudice, per decidere sulla domanda, deve accertare con efficacia di
giudicato l’esistenza del controcredito vantato dal convenuto, in sede di
compensazione. L’art. 35 tratta l’eccezione di compensazione come se il convenuto, nel
formularla, abbia avanzato una sorta di domanda di accertamento del suo
controcredito (anche se non l’ha fatto!).
Sul piano processuale instaura un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra domanda
principale e domanda pregiudiziale (nell’art.34c.p.c. l’accertamento doveva avvenire
anche sul piano sostanziale). Ipotesi in cui per legge il giudice deve accertare con
efficacia di giudicato il rapporto pregiudiziale (non di natura sostanziale ma solo
processuale). PREGIUDIZIALITA-DIPENDENZA DI TIPO PROCESSUALE.
L’eccezione di compensazione si dice in questi termini sia un’eccezione
riconvenzionale. Esso allarga l’oggetto del giudizio, che originariamente era di
accertare il diritto vantato dall’attore con la domanda, per effetto della formulazione
dell’eccezione di compensazione fino ad arrivare ad accertare anche l’esistenza e la
validità del diritto di credito offerto in compensazione dal convenuto.
Quindi il giudice originariamente adito che si vede porre l’eccezione di compensazione,
ai sensi dell’art.35c.p.c., deve accertare con efficacia di giudicato anche l’esistenza del
controcredito. Qui il giudice può avere due possibilità:
1. Sul credito offerto in compensazione sussiste la competenza per materia o per
valore del giudice originariamente adito nulla quaestio questo giudice
deciderà tanto sulla domanda principale che sull’eccezione di compensazione;
2. Per l’accertamento del controcredito il giudice originariamente adito potrebbe
non essere competente per materia o per valore si pone lo stesso problema
configurato con l’art.34c.p.c. L’art.35c.p.c. introduce una variante quando sia
offerto in compensazione un credito che è contestato e che supera i limiti di
competenza del giudice prima adito, non necessariamente il giudice trasferisce
l’intera causa al giudice competente, ma la trasferirà quando il credito fatto
valere con la domanda originaria non sia fondato su un titolo facilmente
accertabile (ad es. fondata su una prova documentale); nel caso lo sia, la causa
sostanzialmente si dividerà.
Occorre qui porsi il problema dei limiti oggettivi di giudicato, perché è chiaro
che, siccome ai sensi dell’art.35c.p.c. una volta che sia formulata l’eccezione di
compensazione il giudice è tenuto ad accertare con efficacia di giudicato anche
il credito che è stato offerto in compensazione, ne deriva che una volta che ci sia
stata l’eccezione del giudice, il giudicato si estenderà anche all’esistenza e
validità del controcredito nei limiti dell’esistenza dei due crediti;
Sempre in collegamento con l’art.34c.p.c. c’è l’art.36c.p.c. ipotesi in cui sia stata
FORMULATA dal convenuto una DOMANDA RICONVENZIONALE = si intende far valere
un diritto nei confronti dell’attore. L’oggetto del processo si allarga al diritto oggetto di
domanda riconvenzionale. Per poterla formulare, la domanda riconvenzionale deve
essere connessa oggettivamente con la domanda originaria dell’attore. stessa causa
petendi e/o stesso oggetto, petitum (bene della vita); oppure deve esserci una
connessione oggettiva con l’eventuale eccezione si fa riferimento a quanto detto
nell’art. 35. Prendendo l’esempio precedente, il convenuto avanza l’eccezione di
compensazione, ma nella stessa comparsa di risposta avanza domanda riconvenzionale
per far pagare la parte di controcredito che sopravanza. Se Il controcredito che è stato
offerto in compensazione dovesse superare i limiti di valore del credito vantato
dall’attore, per la parte che supera, rimane un diritto che non è coperto dall’eccezione
di compensazione il giudicato che si formerà non riguarderà anche la parte del
controcredito che sopravanza. E’ qui che si può agganciare la domanda riconvenzionale
di cui parla l’art.36c.p.c., ipotizzando la connessione oggettiva con l’eccezione.
Quindi anche qui si pone un problema di deroga ai criteri di competenza
nell’eventualità in cui la domanda riconvenzionale dovesse essere una domanda che
appartiene alla competenza per materia o per valore di un giudice diverso dal giudice
adito dall’attore. Se la domanda riconvenzionale supera i limiti di competenza per
materia o per valore del giudice originariamente adito, il giudice deve provvedere
secondo quanto stabilito dai due articoli precedenti quindi, o trasferirà l’intera
causa al giudice competente per materia o per valore sulla domanda riconvenzionale
(DEROGA), oppure può separare le due domande, trattenere la domanda originaria
per sé e trasferire al giudice competente la sola domanda riconvenzionale, quando
ricorrono i presupposti dell’art.35c.p.c.
20aprile2015
Qualora siano state proposte le diverse cause, connesse oggettivamente, davanti a giudici
diversi, la riunione può avvenire anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 40 c.p.c. Le diverse cause,
che pure ai sensi degli artt. 31-36, potevano essere proposte insieme, sono state proposte
separatamente.
Si può avere d’ufficio la riunione di queste diverse cause.
Occorre vedere qual è il giudice che rileva la presenza di più cause connesse ai sensi artt. 31-
36 (connessione soggettiva o oggettiva) e che poi dispone della riunione ed infine qual è il
giudice di fronte al quale le diverse cause si riuniranno.
1) L’art. 40c.p.c. (riunione delle cause su iniziativa del giudice) distingue a seconda che si
tratti di connessione per accessorietà, (sono state introdotte separatamente la causa
principale e una causa accessoria davanti ad altro giudice, ipotesi artt.31-32), dove è
competente a rilevare il giudice della causa principale. Negli altri casi, la riunione
avverrà ad opera del giudice per primo adito, perché in questo causa non c’è una causa
accessoria (cause connesse oggettivamente o soggettivamente). La riunione si
configura come una sorta di CUMULO SUCCESSIVO, per favorire il fenomeno della
trattazione congiunta. Quindi anche nel corso del processo si può avere un cumulo
successivo delle diverse cause davanti ad un giudice.
2) Per quanto riguarda il termine entro il quale il giudice può d’ufficio disporre la
riunione, l’art.40c.p.c. dice che il rilievo d’ufficio (e la riunione) della connessione non
può avvenire quando la causa abbia superato la prima udienza. Dopo tale momento, il
giudice non può più rilevare d’ufficio la connessione e disporre la riunione. Accanto
alla previsione di questo limite, l’art. 40 aggiunge che se anche è rispettato tale limite,
la riunione non può avvenire se la causa attraente dovesse essere in una fase avanzata
tale da non consentire la trattazione adeguata della causa attratta. Può accadere che la
causa pendente del giudice davanti al quale dovrebbero riunirsi le cause, si trovi già in
fase di decisione la riunione non può avvenire perché la causa che verrebbe attratta
non potrebbe essere adeguatamente istruita.
Nella pratica ciò può avvenire per il fatto che le parti non scelgono di sfruttare la
possibilità degli artt. 31-36, oppure la parte introduce la causa separatamente rispetto
alla causa già introdotta, perché questa è già in stato avanzato.
I commi successivi dell’art.40c.p.c. affronta problemi successivi alla riunione la
riunione è disposta con ordinanza e si tratta di ordinanza che l’ordinamento assimila,
dal punto di vista dei rimedi esperibili, ad una ordinanza che ha deciso solo sulla
competenza. Questo vuol dire che questa ordinanza è sottoponibile come rimedio al
solo REGOLAMENTO NECESSARIO DI COMPETENZA. Questo rimedio viene dato
perché le parti hanno diritto di sindacare la valutazione compiuta dal giudice.
A questo punto possono accadere situazioni particolari determinate dal fatto che le
diverse cause riunite sarebbero da trattare seguendo riti diversi (processi di
cognizione diversi), ai sensi del codice. nel nostro ordinamento abbiamo un
processo ordinario di cognizione(II libro), che si applica per tutte le controversie
civili (applicazione generalizzata); ma abbiamo anche riti speciali, cioè quelli che si
applicano solo alle controversie per le quali il legislatore li ha espressamente previsti.
Le differenze di disciplina tra il rito ordinario e i riti speciali in realtà sono poche
alcune particolarità:
-rito speciale per eccellenza = PROCESSO DEL LAVORO O PREVIDENZIALE destinato
a regolare controversie in materia di rapporti di lavoro individuale dipendente.
All’interno di questo, una delle due parti si trova in una posizione economicamente
svantaggiata rispetto all’altra, cioè il lavoratore contro il datore di lavoro sono
previsti aggiustamenti che tengono conto di questa situazione squilibrata;
-RITO LOCATIZIO da applicare alle controversie ad oggetto rapporti di locazione di
immobili urbani; modellato sul rito del lavoro.
-PROCESSO DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO si applicano a controversie in materia
di separazione o divorzio di coniugi.
L’art. 40c.p.c. parla della presenza di molteplici riti una volta che ci sia stata la
riunione, può accadere che alcune di queste cause sono da trattare con rito ordinario,
altre con uno dei riti speciali. (es. la causa principale con rito ordinario, la causa
accessorio con rito speciale) qual è il rito da applicare?
Il 3comma dell’art. 40c.p.c. chiarisce che prevale sempre il rito ordinario, a meno che il
rito speciale, richiamato per una di esse, non sia il rito del lavoro, il quale prevale
anche rispetto al rito ordinario perché c’è la volontà del legislatore che ritiene che
nel rito del lavoro ci sia una situazione squilibrata, e quindi, per assicurare che quella
controversia, per la quale ha previsto l’applicazione del rito del lavoro o previdenziale,
comunque venga trattata con tale rito.
Il 5 comma, invece, parla di una situazione che può verificarsi quando nessuna delle
cause cumulate siano da sottoporre a rito ordinario, ma a rito speciale. E qui siccome
non si applica la regola generale del rito ordinario, se una delle cause cumulate è
sottoposta al rito speciale del lavoro, questo diventerà il rito comune a tutte le altre. Se
invece i molteplici riti speciali a cui sono sottoposte le cause cumulate non includono
anche il rito del lavoro prevale il rito nel caso di connessione per accessorietà previsto
per la causa principale, in tutti gli altri casi prevale il rito per la causa che ha
determinato la competenza del giudice.
Infine sempre nello stesso articolo (commi 6 e 7) c’è una sorta di prevalenza del
giudice togato sul giudice onorario tra le diverse cause da trattare in maniera
cumulata, ce ne sono alcune di competenza del tribunale e altre di competenza del
giudice di pace. I due commi dicono che la trattazione congiunta deve avvenire sempre
davanti al tribunale. Questo in deroga ai criteri di competenza per valore e non per
materia, tanto nelle ipotesi in cui fin dall’inizio le parti vogliano riunire le molteplici
cause connesse, quanto in quelle cumulate dopo d’ufficio.
L’ultimo profilo che riguarda il giudice, e anche requisito processuale dopo la
giurisdizione e la competenza, è l’IMPARZIALITA’: occorre chiarire le conseguenze che
si hanno se il giudice non presenta questo requisito.
Per imparzialità si intende quel requisito che riguarda il giudice-persona (non come
organo o ufficio). E’ necessario che nel processo vi sia equidistanza del giudice-persona
dalle due parti in concorso. Il vizio di imparzialità si ha quando il giudice, per qualche
ragione ai sensi dell’art. 51c.p.c. si trova in una situazione di non imparzialità.
Se dovesse emergere tale vizio e questo non dovesse essere superato fino alla
pronuncia, il vizio si ripercuote sulla sentenza, la quale sarà viziata suscettibile di
essere sottoposta ad impugnazione. E’ vero anche che invece di attendere la pronuncia
della sentenza, l’ordinamento cerca di anticipare le tutele verso tale vizio tramite due
istituti:
-astensione del giudice (art.51);
-ricusazione del giudice ad opera della parte (art.52).
Il giudice è tale se è terzo, se non è terzo non è giudice.
L’astensione è un istituto previsto a garanzia dello stesso giudice. Lo può lui utilizzare
se ritiene di non essere in una posizione imparziale. Nell’art. 51, dove è disciplinato
tale istituto, si distingue a seconda che l’astensione debba essere obbligatoria (a pena
di sanzioni disciplinari del CSM ipotesi tassative), oppure facoltativa (valutazione
del giudice per la possibilità di astenersi dal trattare la causa, senza implicazioni sul
piano disciplinare).
Per quanto riguarda l’astensione obbligatoria, è indubbio che c’è un vizio di
imparzialità; vi sono 5 ipotesi che sono elencate nell’art.51:
-interesse in causa del giudice = è coinvolto nella controversia;
-nelle altre 4ipotesi siamo in presenza di rapporti personali del giudice o il coniuge del
giudice con una delle parti o con l’avvocato di una delle parti (rapporti di parentela
fino al 4°grado, rapporti di inimicizia grave, rapporti di commensalità, cioè di amicizia,
rapporti di lavoro, o svolge attività di tutore, curatore o amministratore di sostegno; in
più il giudice non si deve essere occupato della causa in questione in altro grado,
poiché potrebbe avere pregiudizio).
Come si arriva all’astensione obbligatoria? Il giudice chiede al capo del suo ufficio (nel
caso del Tribunale al presidente) di volersi astenere e chiede di essere sostituito.
Accanto alle ipotesi di astensione obbligatoria, l’art. 51 prevede anche quando ci sia
l’opportunità di astensione (facoltativa) il giudice ritiene che, per ragioni di
convenienza, sia opportuno non occuparsi di quella causa; il capo dell’ufficio gli darà la
possibilità di astenersi, se lo ritiene opportuno.
La ricusazione è collegata con le ipotesi di astensione obbligatoria, perché così recita
l’inizio dell’articolo. Se il giudice era obbligato ad astenersi, ma non l’ha fatto, le parti
possono proporre la ricusazione, per far si che la causa non venga trattata da quel
determinato giudice. Il destinatario dell’istanza di ricusazione non è lo stesso giudice,
ma è il presidente del tribunale (nel caso di giudice di pace) o il collegio del tribunale di
cui fa parte il giudice ricusando (nel caso del tribunale).
Il presidente o il collegio decideranno su tale istanza.
Questione controversa l’organo destinatario decide sempre con ordinanza non
impugnabile. Siccome si tratta di ordinanza con cui è stato deciso un diritto
processuale, la non impugnabilità è sospettata di illegittimità costituzionale, perché
non garantisce le possibilità difensive delle parti. La Cassazione ritiene che tale
provvedimento non è suscettibile di impugnazione e non rileva dal punto di vista delle
garanzie, dato che la questione dell’imparzialità può essere proposta successivamente
in sede di impugnazione della sentenza che si è pronunciata sul merito (se non hanno
ottenuto la ricusazione inizialmente, la stessa questione può essere proposta dopo in
sede di impugnazione). no lesione di diritto di difesa delle parti.
Se l’istanza è stata rigettata, la parte che ha proposto ricusazione può essere soggetta a
pena pecuniaria.
All’interno del processo, dove è stata proposta istanza di ricusazione, l’art. 52 cita in
questi termini: la ricusazione sospende il processo. Varie interpretazioni quella
prevalente ritiene che non vi è sospensione automatica, ma può aversi sospensione
qualora il giudice ritenga che l’istanza sia manifestamente ammissibile o fondata.
21aprile 2015
Presupposti e requisiti che devono sussistere nel processo in relazione alle
parti
E’ necessario prima chiarire cosa si intende con il concetto di “parti” le parti del processo
sono quei soggetti tra i quali è stata esercitata l’azione. Sono quei soggetti che compiono gli
atti nel processo, ne subiscono gli effetti e sono perciò destinatari dei provvedimenti del
giudice. La qualità di parte è la qualificazione soggettiva minima ma sempre presente nei
soggetti attivi e passivi di un processo.
Tutti quei soggetti che non sono coinvolti nel processo vengono definiti terzi soggetti che in
un processo non hanno la qualifica di parte.
Quindi il minimo che possiamo avere all’interno di un processo sono l’attore ed il convenuto,
minimo perché può accadere che vi siano più parti, cioè può verificarsi quel fenomeno che è
definito come LITISCONSORZIO (art.103c.p.c. processo nel quale partecipano più parti).
Quali requisiti deve assumere e in quale situazione deve trovarsi dal punto di vista personale
la parte per poter essere definita tale?
Devono sussistere determinati requisiti personali l’art.75c.p.c. ci dice che per poter essere
parte del processo è necessario avere il libero esercizio dei propri diritti.
Il codice con questa affermazione si riferisce alla capacità di agire sul piano sostanziale.
Sul piano processuale si ha la stessa cosa dal punto di vista contenutistico, ma viene definita
come capacità processuale.
Circa i fenomeni della rappresentanza e della sostituzione nel processo, le parti sono
rispettivamente il rappresentato (nel cui nome il rappresentante ha proposto la domanda) ed
il sostituto (che propone la domanda in nome proprio anche se per far valere un diritto
altrui): quindi, parte è colui che propone la domanda in nome proprio o nel cui nome si
propone la domanda; o rispettivamente colui nei cui confronti la domanda è proposta.
La qualità di parte è la sola qualificazione soggettiva che in un processo non manca mai, ma
potrebbe mancare la titolarità del diritto sostanziale o la titolarità dell’azione o anche il potere
di proporre la domanda. Quindi la qualità di parti sussiste a prescindere da ogni qualificazione
giuridica preesistente e sussiste per il solo fatto che è stata proposta una domanda anche
senza il potere di proporla.
Quindi la qualità di parte prescinde da ogni altra qualificazione soggettiva diversa dalla
titolarità attiva e passiva della domanda, ed in particolare dalla titolarità dell’azione e della
titolarità di proporre la domanda. Però, se la parte (che ha proposto la domanda) ha anche la
legittimazione ad agire (titolarità dell’azione) si dice che è parte legittimata. Se la parte che ha
proposto la domanda aveva anche il potere di proporla ha un diverso tipo di legittimazione
legittimazione processuale presupposto processuale, ossia uno dei requisiti anteriori al
processo che condizionano l’attitudine del processo stesso a pervenire ad una pronuncia sul
merito in sostanza, POTERE STARE IN GIUDIZIO.
Con riferimento all’azione si è visto che il soggetto per poter esercitare correttamente l’azione
deve avere la c.d. LEGITTIMAZIONE AD AGIRE (titolarità dell’azione) in che termini questa
si pone in relazione con la capacità processuale? In realtà questi sono entrambi requisiti che
condizionano l’azione, ma vanno posti in maniera graduata: solo se il soggetto ha la capacità
processuale andremo poi a vedere se sussiste anche la condizione dell’azione della
legittimazione ad agire.
Quindi in primo luogo il soggetto deve avere le qualità necessarie per diventare parte del
processo e solo dopo che si è verificata la presenza di questo requisito della capacità
processuale, andremo ad esaminare anche il profilo della legittimazione ad agire.
L’art.75 (“sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che
si fanno valere”) afferma che il potere di proporre la domanda spetta a tutti con la sola
limitazione che deriva dalla eventuale incapacità quindi, tale potere deriva dalla capacità.
L’art.75 affronta il problema dell’eventualità in cui una delle parti non abbia il libero esercizio
dei diritti, cioè la capacità processuale. Questa situazione si verifica quando abbiamo a che
fare con soggetti che non hanno la capacità di agire sul piano sostanziale (capacità di agire
piena o parziale minori, interdetti, inabilitati). L’articolo dice che quando ci sono soggetti
che non hanno la capacità processuale dal punto di vista personale bisogna ricorrere o alla
rappresentanza oppure alla assistenza.
In caso di soggetti totalmente privi di capacità sul piano sostanziale, gli atti da compiere
devono essere eseguiti da un suo rappresentante (RAPPRESENTANZA LEGALE); in caso di
soggetti semi-capaci, sul piano sostanziale gli atti devono essere compiuti dal curatore che sul
piano processuale diventa assistente (ASSISTENZA dove vi è una partecipazione
contemporanea dei due soggetti all’esercizio dei poteri e quindi una titolarità congiunta dei
poteri che diventa collegittimazione processuale o legittimazione processuale congiunta),
oppure tali soggetti necessitano di AUTORIZZAZIONE (rimozione di un ostacolo all’esercizio
del potere che già sussiste).
Ovviamente i poteri sono quelli di proporre la domanda e di compiere tutti gli altri atti, cioè
legittimazione processuale (potere stare in giudizio), ma il rappresentante deve dichiarare di
agire in nome del rappresentato.
Se parti del processo sono persone giuridiche queste possono agire in giudizio mediante
organi statutari che rappresentano la c.d. RAPPRESENTANZA ORGANICA DELL’ENTE organi
ai quali per statuto o per legge è conferita la rappresentanza della persona giuridica sul piano
sostanziale, attraverso lo strumento organico.
La rappresentanza organica è diversa dalla rappresentanza personale, perché il titolare
dell’organo non si limita a produrre effetti in capo all’ente, ma realizza direttamente l’attività
dell’ente, ossia appartiene ad esso. Quindi la legittimazione processuale non fa capo al
rappresentante, ma alla persona giuridica, che la esercita per mezzo dell’organo.
Può accadere, infatti, che per taluni enti la rappresentanza sia subordinata ad una
autorizzazione di un altro organo dello stesso ente. Nel caso si determini un vizio inerente alla
capacità processuale, rilevato dal giudice o su eccezione di parte, non si potrà giungere alla
pronuncia sul merito.
Nelle ipotesi in cui manchi la persona alla quale spetti la rappresentanza, l’assistenza e vi
siano ragioni di urgenza, su istanza dell’interessato (anche incapace) o del p.m., si nomina un
curatore speciale all’incapace, all’ente con poteri di rappresentanza o assistenza in via
provvisoria (quando subentri colui al quale spetta il potere). Il decreto di nomina va
comunicato al p.m. affinché assuma le necessarie iniziative per la costituzione della normale
rappresentanza o assistenza (art.80c.p.c.).
Il legislatore ha attenuato la rilevanza del vizio di capacità introducendo una modifica del
codice nel 2009 la modifica è stata introdotta nell’art.182c.p.c. ovvero la norma in cui si cita
il DIFETTI DI RAPPRESENTANZA O DI AUTORIZZAZIONE (difetto di capacità processuale).
Prima questo articolo prevedeva che, ove il giudice rilevasse il vizio di difetto di capacità
processuale, la conseguenza doveva essere che il processo doveva chiudersi in rito.
Ora l’art.182c.p.c. prevede una possibilità che questo vizio, una volta rilevato dal giudice,
invece di portare alla pronuncia di una sentenza in rito, venga sanato. Il giudice, ove rilevi il
vizio, può assegnare un tempo alle parti per dargli modo di regolarizzare il difetto di
rappresentanza, assistenza o di autorizzazione. Aggiunge poi che se entro il termine il difetto
è stato regolarizzato, il vizio si sana con efficacia EX TUNC (a decorrere dalla prima
notificazione, a decorrere da quando è stato compiuto il primo atto in difetto di capacità).
Questa è comunque solo una possibilità, in quanto il giudice ha una facoltà. Inoltre occorre
tenere presente che, ove ci sia una sentenza in rito, evidentemente non si avrà la decisione nel
merito e quindi vuol dire che quell’azione che ha portato alla pronuncia in rito potrà essere
nuovamente esercitata in un nuovo processo, non essendosi avuta la formazione del giudicato.
Sempre con riguardo al profilo dell’attività processuale va tenuto presente l’istituto della
RAPPRESENTANZA PROCESSUALE VOLONTARIA art.77c.p.c. istituto presente sul piano
sostanziale dove anche un soggetto che abbia il libero esercizio dei propri diritti può compiere
determinati atti giuridici nominando un suo rappresentate, il potere rappresentativo non è
conferito dalla legge, ma dal titolare del diritto attraverso un negozio (la procura) il
contratto con cui si conferisce la rappresentanza è il MANDATO. La stessa cosa può avvenire
sul piano processuale, ma l’art.77 lo disciplina in maniera leggermente diversa: il soggetto che
ha il libero esercizio dei propri diritti può decidere di conferire la rappresentanza per
qualsiasi atto, l’importante è che rispetti le formalità prescritte nel conferire il mandato per il
compimento di quello stesso atto. L’art.77, per come è formulato, sembra porre un limite alla
rappresentanza processuale “Il procuratore generale e quello preposto a determinati affari
non possono stare in giudizio per il proponente quando questo potere non è stato conferito
espressamente”. Quindi il rappresentante volontario nel campo sostanziale, in forza di
procura, non può agire come tale anche nel processo se non ha ricevuto apposita procura
proprio per agire nel processo. E inoltre non si può conferire la legittimazione processuale
rappresentativa ad un soggetto che già non rivesta la qualità di rappresentante anche nel
campo sostanziale (no rappresentante puramente processuale).
Ci sono quindi due limiti alla rappresentanza processuale volontaria:
1) Il potere deve essere espressamente conferito ci deve essere un atto espresso con il
quale la parte conferisce ad un altro soggetto la rappresentanza dei suoi interessi
all’interno del processo;
2) Questo mandato inoltre può essere dato o al procuratore generale della parte o al
procuratore speciale, cioè colui che ha già avuto il mandato per il compimento di
determinati atti sostanziali (no ad altri soggetti).
In base alla formulazione dell’art.77c.p.c. si ritiene che questa rappresentanza si possa avere
solo quando la controversia riguardi atti per i quali il rappresentante volontario in sede
processuale abbia già una rappresentanza volontaria sul piano sostanziale.
La rappresentanza processuale viene presunta in 2 casi e quindi sono eccezioni:
a) Si presume la rappresentanza processuale volontaria, anche quando non ci sia l’atto
espresso, quando si tratti di rappresentante o procuratore generale che non ha in Italia
il domicilio o la residenza si presume che il procuratore che abbia la rappresentanza
sul piano sostanziale abbia implicitamente anche la rappresentanza processuale (si
prescinde dal requisito del conferimento espresso);
b) Si prescinde dal requisito del conferimento espresso nel caso del c.d. INSTITORE
figura ausiliare dell’imprenditore commerciale, disciplinato dall’art.2204c.c. (può
rappresentare in giudizio l’imprenditore commerciale, può operare per conto ed in
nome dell’imprenditore come se fosse un procuratore generale). Anche nel caso
dell’institore, la rappresentanza processuale dell’imprenditore si presume e non
necessita del conferimento espresso;
c) L’art.77 afferma: “tranne che per gli atti urgenti e per le misure cautelari”.
E’ evidente che se non dovessero essere rispettati i requisiti dell’art.77 nel conferire la
rappresentanza volontaria in sede processuale quella rappresentanza sarebbe viziata.
Il vizio di capacità processuale in questo caso sarebbe il vizio del falsus procurator atto
compiuto da un rappresentante che tuttavia non aveva il potere di farlo. L’atto compiuto dal
falsus procurator sul piano sostanziale è un atto che non produce effetti nella sfera del
rappresentato, ma può produrli in capo al falsus. Ma anche qui, pur essendo il processo
validamente instaurato, dovrà arrestarsi, in caso di vizio rilevato e non sanato, alla pronuncia
del difetto del contraddittorio. Può accadere anche in sede processuale qualcosa di simile
proprio alla luce dell’art.182c.p.c. nel corso del processo si avrà, nei confronti di un
soggetto che è falsus procurator di una delle parti, la rilevazione di ciò da parte del giudice
ciò deve avvenire entro un determinato termine fissato nell’art.182c.p.c. e se entro questo
termine il falsus procurator si costituisce il vizio si sana ed il giudice, invece di pronunciare
una sentenza in rito pronuncerà una sentenza nel merito.
Se il giudice non se ne accorge o non lo rileva, il vizio rimane si pronuncerà nel merito con
una sentenza che non produce effetti nella sfera del rappresentato.
Nel compiere gli atti del processo, o stare in giudizio, la parte non opera, il più delle volte non
opera da sola, ma si avvale della collaborazione di altri soggetti i difensori.
I tecnici del diritto dei quali la parte può o deve servirsi sono due figure di ausiliari della
parte:
i procuratori, la cui attività è detta dalla legge stessa “ministero di difensore”;
gli avvocati, la cui attività è detta dalla legge stessa “assistenza di difensore”.
In realtà, in forza della suddetta legge le due qualifiche professionali si sono formalmente
unificate, essendo stato soppresso l’albo dei procuratori legali, confluito nell’unico albo degli
avvocati; al quale poi si affianca l’albo speciale degli avvocati abilitati al patrocinio innanzi alla
Corte di Cassazione e alle altre giurisdizioni superiori.
E’ necessario il ministero del difensore quando il giudizio è più complesso ed impegnativo,
ossia davanti alla Corte di Cassazione (albo speciale), alla Corte d’Appello e ai tribunali (salvo i
casi in cui la parte stessa ha la qualifica professionale); non è necessario davanti al giudice di
pace, limitatamente alle cause di valore inferiore ai 1100 euro o superiore se il giudice
autorizza la parte a stare in giudizio di persona senza l’ausilio di difensore. In caso di rito del
lavoro la parte può stare in giudizio personalmente, quando la causa non ecceda un
determinato valore.
MINISTERO DI DIFENSORE art.84c.p.c. “quando la parte sta in giudizio col ministero
del difensore, questi può compiere e ricevere, nell’interesse della parte stessa, tutti gli atti del
processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati”. In ogni caso “non può
compiere atti che importano disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto
espressamente il potere”.
Il difensore può, quindi, compiere e ricevere tutti gli atti del processo (esclusi quelli riservati o
che implicano disposizione del diritto di contesa). La parte, di regola, non può esercitare
questi poteri personalmente, ma per mezzo del difensore, ossia avvalendosi di esso come di
no strumento tecnico che può operare in quanto la stessa legge conferisce a lui l’esercizio di
quei medesimi poteri che aveva già conferito alla parte, compie una sorta di sub-conferimento
al difensore dell’esercizio di quei poteri che sono e restano della parte.
Il difensore compare davanti al giudice in nome della parte o del suo rappresentante, compie
gli atti del processo in nome della parte o del suo rappresentante e ciò perché la parte lo ha
designato con un atto che la legge chiama procura, che è in realtà una sem