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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO I : LE FONTI E L’EFFICACIA DELLE NORME TRIBUTARIE

1. Ripartizione e unicità delle fonti di diritto tributario

Le fonti di diritto tributario navigano in uno scenario ampio e complesso ed è quindi molto importante
possedere un’adeguata conoscenza delle singole norme e della loro precisa collocazione gerarchica, per
poter intervenire in un determinato settore fiscale e capire quale norma debba prevalere sull’altra in caso di
contrasto tra norme. Con il conseguimento di una maggiore autonomia tributaria da parte di enti
regionali e locali, l’assetto delle fonti di diritto tributario è mutato. L’attività legislativa nazionale, ora è
vincolata non più solo alle norme costituzionali, poste al vertice della gerarchia delle fonti, ma anche alle
norme comunitarie del Trattato UE, che limitano e condizionano la sovranità fiscale degli Stati Membri e
incidono sul sistema fiscale nazionale e degli atti derivati del Consiglio e della Commissione Europea. Tale
situazione rende complesso lo studio delle fonti del diritto tributario e l’individuazione di una precisa
collocazione gerarchica delle norme che, avendo stessa efficacia, si affiancano e si sovrappongono tra loro.
In una posizione particolare si collocano gli atti convenzionali che hanno una portata limitata e settoriale,
basandosi fondamentalmente sulla reciprocità. In una terza fascia, subito dopo le norme costituzionali, del
Trattato e degli atti aventi forza di legge, si collocano gli atti non aventi forza di legge che, in materia
tributaria, sono rappresentati prevalentemente dai regolamenti. Tali regolamenti sono emanati dal governo
(regolamenti ministeriali) e dagli enti locali e sono subordinati alla legge. In un’ultima fascia infine vi sono le
circolari, risoluzioni ministeriali, pareri resi a seguito d’interpello e raccomandazioni e pareri della
Commissione UE che vincolano l’Amministrazione Finanziaria e condizionano i comportamenti dei
contribuenti e, a livello comunitario (essendo atti di Soft Law), le politiche fiscali. Attraverso le circolari l’A.F.
impartisce istruzioni d’ufficio, ponendo regole di comportamento, il più delle volte, sul piano interpretativo di
disposizioni di legge. Con tali atti l’A.F. informa il contribuente sulla sua posizione e gli consente di fondare
su di essi il proprio affidamento.

2. Le norme costituzionali

I principi fondamentali in materia tributaria sono previsti prevalentemente da norme costituzionali che
rappresentano le fonti primarie sul quale si fonda l’intero sistema fiscale nazionale e che con le norme
comunitarie del Trattato, limitano l’attività del legislatore nazionale in ambito tributario con una serie di divieti.
Le norme costituzionali operanti in materia tributaria si riconducono ai principi sanciti dagli art. 3, 23, 53,
75, 81, e 119 Cost.. Sulla base di alcune di queste norme costituzionali è stato emanato, in forma di legge
ordinaria, lo Statuto dei diritti del contribuente (legge n° 212/2000) che si qualifica come legge di
attuazione degli articoli sopracitati. Pur vincolando l’attività interpretativa e pur prevedendo la clausola di
auto-rafforzamento che non consente di derogare le disposizioni in esso contenuto se non espressamente,
non può collocarsi a livello superiore elevandosi a rango di norma costituzionale rispetto alle altre leggi
ordinarie.

3. Le norme del Trattato UE in materia fiscale

L’applicazione di norme comunitarie in materia tributaria come quelle del TFUE (istituito con l’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona il 1° Dicembre del 2009) pongono problemi di limitazione della sovranità
fiscale nazionale e di rispetto del principio del dominio riservato di competenza nazionale. Il Trattato
UE fissa principi cui si ispira l’ordinamento comunitario, riguardanti lo sviluppo di attività economiche nei
paesi membri. Tali principi vincolano (allo stesso modo delle norme costituzionali) il legislatore nazionale, il
giudice e l’A.F., attraverso gli art. 10, 11 e 117 Cost. Gli Stati Membri, nonostante la loro appartenenza ad
un’istituzione sovranazionale, hanno voluto mantenere la propria sovranità nazionale e le limitazioni a tale
sovranità sono consentite solo se finalizzate al perseguimento di obiettivi specifici come ad es. l’eliminazione
di conflitti. Recentemente vi sono state limitazioni alla sovranità fiscale nazionale, poiché, necessarie al
perseguimento di finalità anti-elusive e anti-evasione. Si ritiene, però, che, nel nostro ordinamento tributario,
la normativa comunitaria debba essere applicata e che debba prevalere nella sua interezza
indipendentemente dalle domande proposte in giudizio. Tuttavia non sono mancati tentativi, da parte della
giurisprudenza, di arginare tale espansione, rifiutando l’autonomia dell’ordinamento europeo e non
ammettendo che una norma del trattato o un principio europeo potesse rappresentare nell’ordinamento
nazionale un parametro autonomo e unitario, così come emerge dalla nuova formulazione dell’art.117 Cost.
I rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale sono stati oggetto d’esame da parte della nostra
giurisprudenza costituzionale, fino a che non si è consolidata la “tesi del primato della norma UE rispetto a
quella nazionale” e al riconoscimento della “disapplicazione della norma nazionale soccombente”. Il primato
della norma comunitaria su quella tributaria interna è espressione di una supremazia gerarchica riconosciuta
dagli stati che hanno stipulato il Trattato UE. Recentemente vi è stata una certa tendenza nella
giurisprudenza della Corte di giustizia a superare i limiti del diritto interno.

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La Suprema Corte ha inoltre statuito che: “l’integrazione tra ordinamento nazionale e comunitario, derivante
dall’adesione dell’Italia all’UE, determina la recessività del diritto nazionale, laddove sia in contrasto con il
diritto comunitario vigente”.

4. Le leggi ordinarie, le leggi regionali e gli atti aventi forza di legge

La legge è lo strumento attraverso il quale nasce l’obbligazione tributaria come prestazione patrimoniale
imposta e dunque l’esercizio della potestà tributaria, è posta a garanzia dei contribuenti dall’art.23 Cost.
(“nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”). Sono molte
le ragioni che giustificano il riscorso alla legge per l’individuazione e l’istituzione di tributi. Inoltre, la legge
assicura l’attuazione di principi fondamentali come la rappresentatività, il consenso al tributo e la
democraticità. La natura relativa della riserva di legge, garantisce la regolamentazione degli elementi
essenziali della disciplina tributaria. L’esistenza di fonti che hanno la stessa forza della legge, favorisce il
coinvolgimento, nelle scelte di politica fiscale, di diversi attori quali: il Governo e gli enti territoriali
(Regioni) dotati di atti normativi (fonti sub-prime) e di Organismi sovranazionali (Consiglio,
Commissione UE) attraverso direttive decisioni e regolamenti.

Soltanto il Governo e le Regioni hanno un potere istitutivo di tributi e tale potere trova un unico limite nel
rispetto della delega nel caso dei decreti legislativi e del potere di coordinamento nel caso della legge
regionale. La legge regionale, oltre a poter istituire ex art.119, comma 2, della Cost., tributi propri su
presupposti non soggetti a tassazione da parte dello Stato, dovrebbe rappresentare la base legislativa
principale per i Comuni e per le Province appartenenti allo stesso ente territoriale. Si è ritenuto che
l’intervento dello Stato dovrebbe comunque esser necessario per evitare regole troppo diverse nelle
differenti regioni. Proprio per questo motivo, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario della Corte
Costituzionale, limita l’autonomia tributaria regionale e locale ritenendo che i tributi locali non istituiti da leggi
regionali, non sono oggetto di legislazione concorrente ma esclusiva dello Stato. Mentre la funzione
legislativa spetta al Parlamento, il Governo può emanare atti aventi forza di legge, quali i decreti
legislativi e i decreti legge. Da un esame è emerso che vi è un uso abnorme da parte del legislatore dello
strumento di delega, dovuto anche dal tecnicismo della materia e dalla celerità che invece richiedono gli
interventi. Tutto ciò conduce ad un fenomeno di degenerazione della produzione legislativa di questa
tipologia di fonte legislativa.

Il decreto legislativo (art.76 Cost.: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al
Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti
definiti.”) è un atto avente forza di legge e attraverso di esso si possono istituire tributi, modificare e abrogare
altre norme di legge. Delicato, invece, è l’utilizzo dei decreti legge consentiti ai sensi dell’art.77 Cost. in
casi straordinari di eccezionale urgenza e necessità di cui vi è spesso un abuso in materia tributaria. La
provvisorietà e la precarietà che caratterizzano la normazione di urgenza e la decadenza con cessazione di
efficacia retroattiva per mancata conversione dei decreti legge entro sessanta giorni, sancita dal comma 2
dell’art.77 Cost., determinano una situazione di profonda incertezza da parte del contribuente. A tal
proposito, ha assunto particolare rilevanza l’intervento operato dal legislatore attraverso l’art.4 dello Statuto
dei diritti del contribuente, con il quale si è sancita l’inutilizzabilità del decreto legge per l’istituzione di
nuovi tributi e per estendere l'applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti.

a) Le norme dello Statuto dei diritti del contribuente

La legge n° 212 del 27 Luglio del 2000 (Statuto dei diritti del contribuente), ha introdotto una serie di
principi, espressione di norme costituzionali, molti dei quali già esistenti, finalizzati alla tutela dei cittadini nei
confronti dell’erario e volti ad assicurare all’ordinamento tributario maggiore stabilità, chiarezza e
conoscenza. Lo Statuto prevede nuovi e specifici obblighi per il legislatore e per l’A.F., che contribuiscono ad
una maggiore civiltà giuridica del nostro sistema fiscale e del rapporto fisco-contribuente. Oltre alle norme
concernenti l’attività legislativa (art. da 1 a 4), esistono una serie di altre norme (art. da 5 a 12) che
regolamentano il procedimento impositivo e l’attività dell’A.F. Uno dei maggiori problemi relativi all’operatività
e al soddisfacimento delle garanzie previste dallo Statuto, riguarda l’efficacia delle norme contenute
all’interne di esso e che restano, essendo leggi ordinarie, derogabili solo da norme di pari rango.

La clausola di auto-rafforzamento contenuta nell’art.1 dello Statuto, che sancisce la deroga espressa
delle norme dello statuto e l’impossibilità di derogarle attraverso leggi speciali, non è sufficiente al fine del
riconoscimento del rango superiore di tali disposizioni. A tal proposito, la Corte costituzionale ha escluso il
rango Costituzionale delle norme dello Statuto, mentre, la Corte Suprema di Cassazione ha considerato
tali norme come aventi portata vincolante per l’interprete, essendo un “utile parametro di riferimento ai fini
interpretativi ed ha riconosciuto una superiorità assiologia dei principi espressi nello Statuto”. Tutto ciò figura
come un tentativo di rafforzamento delle norme dello Statuto.

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La Cassazione, con la sentenza n°696/2015, in tema di classamento dei terreni, ha affermato che lo Statuto
dei diritti del contribuente, funge solo da criterio guida nell’interpretazione delle norme tributaria e, non
avendo rango superiore alla legge ordinaria, non autorizza la disapplicazione della norma tributaria in
contrasto con esso. Sempre la Cassazione, con una sentenza del 2002, sottolinea poi la differenza tra
norme ricognitive o statutarie (es. affidamento), già operanti prima dello statuto, e norme innovative (es.
interpello, garante, ..).

b) Le direttive, le decisioni e i regolamenti comunitari

- Regolamento UE : Ha portata generale e vincolante, si rivolge a soggetti non determinati e la sua


particolarità di atto self executing (non richiede da parte degli Stati membri nessuna attività di recepimento),
consente di collocare tale norma tra i livelli più alti della gerarchia delle fonti di diritto tributario. Il
regolamento in materia tributaria, però, limita eccessivamente la sovranità fiscale nazionale ed è utilizzato
solo in casi particolari (es. frodi fiscali in materia di Iva).

- Direttiva : Ha portata generale, non è meno vincolante del regolamento e si colloca tra le fonti primarie del
diritto tributario, essendo equiparata agli atti aventi forza di legge. Gli art. 113 e 114 del TFUE, prevedono
rispettivamente l’armonizzazione in materia di imposte indirette da parte degli Stati membri e il potere di
emanare disposizioni volte al ravvicinamento delle legislazioni nazionali che abbiano un’incidenza diretta sul
funzionamento del Mercato interno. Lo strumento più idoneo per raggiungere tali obiettivi di armonizzazione
o “integrazione fiscale negativa” degli ordinamenti nazionali, vincolando i paesi membri al raggiungimento
dei risultati, rispettando comunque la loro competenza è proprio la direttiva. La possibilità di configurare
l’efficacia diretta delle direttive, in grado di vincolare il legislatore nazionale tributario (ad es. nei casi di non
corretto recepimento o interpretazione dubbia da parte delle norme nazionali che disciplinano l’oggetto della
direttiva) si limita ai soli casi in cui esse presentino caratteristiche di norme incondizionate e sufficientemente
precise o dettagliate. A tal proposito, vi è una presunzione di adattamento in tutti i casi in cui, scaduto il
termine per esso, l’ordinamento appaia in grado di garantire la diretta applicabilità delle direttive. L’effetto
diretto delle direttive, consente di ovviare alle negligenze e ai ritardi degli stati membri nell’adempimento
(puntuale e corretto) degli obblighi in materia fiscale e permette ai singoli di invocarle nei confronti dello stato
inadempiente, per impedire che quest’ultimo ne possa trarre giovamento a svantaggio dei contribuenti.

- Decisioni : La giurisprudenza di Cassazione ha riconosciuto di recente la portata vincolante anche delle


decisioni della Commissione UE, in materia di aiuti di stato nel settore tributario (art. 108 TFUE) e la loro
efficacia diretta. Tali atti comunitari (se definitivi, incondizionati, chiari e precisi) sono idonei a sopprimere o
modificare la norma interna che prevede l’aiuto e , sempre con riferimento alla materia degli aiuti di stato, a
vincolare il giudice nazionale nell’ambito dei giudizi portati alla sua cognizione. Il vincolo delle decisioni della
Commissione UE è molto forte, specie nei confronti dell’interprete, rispetto ad atti come le direttive aventi
efficacia diretta, in quanto, mentre è sempre contestabile il non corretto recepimento di queste ultime da
parte del legislatore nazionale, non è possibile sindacare le decisioni della Commissione se divenute
definitive, neanche tramite un rinvio pregiudiziale della Corte di Giustizia UE. Secondo la giurisprudenza
comunitaria, se i giudici nazionali non potessero prendere in considerazione tali atti della Commissione
come norme di diritto comunitario, la portata obbligatoria delle decisioni sarebbe negata.

5. I regolamenti governativi e i regolamenti ministeriali

I regolamenti statali, assumono particolare rilevanza in materia tributaria, sono atti non aventi forza di legge
che gerarchicamente rappresentano fonti secondarie, ossia, si trovano al di sotto della legge ordinaria,
regionale e degli atti aventi forza di legge. Occorre distinguere tra:
- Regolamenti Governativi : sono disciplinati dall’art. 87 Cost. e sono emanati dal Presidente della
Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.
- Regolamenti Ministeriali : si fondano sulla legge n° 408/1998, art.17 e sono adottati nelle materie di
competenza di un singolo ministro, con un D.p.c.m.
Tuttavia, spesso alcune norme secondarie come i regolamenti autorizzati e i decreti ministeriali, che
dovrebbero limitarsi ad attuare la disciplina prevista dalla legge, non consentono di stabilire dove finisce la
mera attuazione e dove, invece, inizia l’integrazione della disciplina. La dottrina tributarista, a tal proposito,
ritiene inderogabile il rispetto di limiti fissati dalla legge.

a) I regolamenti e gli statuti degli enti locali

L’autonomia normativa tributaria degli enti locali, si pone su un piano diverso rispetto alle Regioni,
poiché, si basa su fonti secondarie che non possono rientrare nella sfera della riserva di legge prevista
dall’art. 23 Cost. La competenza degli enti locali deve essere individuata da fonti di rango primario come la
legge regionale e quella statale.

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Il potere di Comuni e Province di emanare regolamenti in materia tributaria, non consiste nell’imporre o
disciplinare autonomamente il tributo, ma nello stabilirne e individuarne gli aspetti procedimentali
(accertamento e riscossione). E’ la legge a definire i limiti dell’autonomia tributaria (o meglio impositiva) degli
enti locali e della potestà regolamentare, infatti, grazie ad essa si può ritenere rispettato il principio della
riserva di legge, ogni qual volta nella legge statale siano indicati i soggetti passivi, il presupposto e i criteri di
determinazione del quantum della prestazione. Nonostante tali indicazioni, però, la tematica dell’autonomia
impositiva degli enti locali non è stata oggetto di significativi approfondimenti, tuttavia, la formulazione
dell’art.119 Cost., che attribuisce il potere di stabilire e applicare i tributi propri e la riserva di legge ex art.
23 Cost., consentono un grado di autonomia impositiva agli enti locali più ampio rispetto al mero potere
amministrativo. Nonostante la maggiore autonomia locale attribuita dagli art. 114, 117, 118 e 119 Cost.,
essendo lo Statuto collocato tra le fonti secondarie, il contenuto delle norme comunali e provinciali, ubicate
all’interno di esso, resta limitato da norme gerarchicamente superiori, infatti, esse non possono contrastare
con norme costituzionali, con principi generali in materia di organizzazione pubblica e con le leggi di
competenza esclusiva dello stato.

6. Le circolari ministeriali e le risoluzioni

Le circolari sono atti amministrativi di indirizzo con i quali vengono impartite dall’Amministrazione Centrale
istruzioni sul piano interpretativo agli Uffici Periferici dell’Agenzia delle Entrate, allo scopo di uniformare il
comportamento di questi ultimi e orientare l’attività dei privati. Sono contrastanti gli orientamenti dottrinati
sull’efficacia giuridica delle circolari ministeriali e dunque sulla loro possibilità di collocare tali atti interpretativi
tra le fonti. La tendenza ad escludere l’efficacia giuridica di tali atti, si fonda sulla mancanza di vincolo da
parte del legislatore, del giudice e dei contribuenti e sulla loro portata meramente interna. Tuttavia, è difficile
non annoverare le circolari tra le fonti di diritto tributario, in quanto esse consento all’A.F. di attuare precetti
contenuti nelle norme giuridiche, fornendo un utile supporto. Lo Statuto dei diritti del contribuente ha
previsto all’art. 10, sulla base di quanto disposto dall’art. 97 Cost., che l’Amministrazione può modificare
l’interpretazione di precedenti circolari senza incorrere in sanzioni, ma questo revirement interpretativo non
può essere retroattivo, in quanto violerebbe la tutela dell’affidamento sul quale il contribuente ha posto
fiducia. La differenza tra le note, le risoluzioni e le circolari risiede nel fatto che le prime due hanno
efficacia diretta nei riguardi dell’ufficio al quale sono dirette e possono essere risposte a quesiti posti dai
privati. É dunque più difficile collocare tali atti, diversi dalle circolari, tra le fonti, essendo privi di portata
generale, anche se, come è stato evidenziato dalla dottrina, assumono un’indiretta rilevanza per gli altri uffici
perché costituiscono dei precedenti per l’A.F. Alle risoluzioni sono assimilabili infine i pareri resi a seguito di
interpello che provengono da istanze proposte dai privati nel caso di obiettiva incertezza della norma
interpretata e che vincolano l’A.F. attraverso il silenzio-assenso.

7. L’efficacia (entrata in vigore e cessazione) delle norme tributarie

Dopo un determinato periodo di tempo dalla pubblicazione sulla G.U. (15 giorni), in seguito all’approvazione
parlamentare e alla promulgazione del Presidente della Repubblica, la legge, salvo diversa disposizione,
entra in vigore e produce efficacia. Durante il periodo di vacatio legis, la legge non ancora efficace, non
deve essere tenuta presente dal giudice, neanche ai fini interpretativi, perché essa è ancora del tutto
estranea all’ordinamento. Tuttavia, accade di frequente che il momento in cui la legge entra in vigore indica
che la legge è perfetta, ma i suoi effetti sono differiti o retroagiscono. Per alcune delle norme tributarie si
prevede un rafforzamento o un ampliamento della vacatio legis, volto a garantire la loro conoscibilità, infatti,
l’art. 3, comma 3, dello Statuto del contribuente stabilisce: il differimento dell’efficacia temporale delle
disposizioni modificative di tributi periodici nel periodo o anno d’imposta successivo, ed un termine di 60
giorni dall’entrata in vigore per gli adempimenti fiscali a carico del contribuente.
Uno dei casi più frequenti di cessazione della legge è l’abrogazione ex art. 15 disp. Prel. c.c., il quale
prevede che essa può avvenire attraverso legge posteriore:
- Per dichiarazione espressa del legislatore;
- Per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti;
- Oppure perché la nuova legge regola l’intera materia già disciplinata dalla legge anteriore.
Il legislatore generalmente si serve della deroga quando vuole introdurre un’eccezione alla disciplina dettata
da una certa disposizione nel corpo della stessa legge. Per garantire una maggiore certezza del diritto,
talvolta, in materia tributaria, viene posto un divieto di deroga e di modifica. In altri casi, alcune vicende o
situazioni giuridiche che erano contemplate da una legge abrogata sono disciplinate per un determinato
periodo da un’apposita disciplina attraverso disposizioni transitorie. In caso di abrogazione, l’efficacia della
legge cessa ex nunc e dunque, in materia tributaria ciò determina che le norme abrogate continuano ad
essere applicate a presupposti verificatisi nel periodo temporale che va dall’entrata in vigore alla sua
abrogazione. L’abrogazione, in diritto tributario, non può avvenire tramite referendum secondo quanto
previsto dall’art. 75 Cost.

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a) La dichiarazione di incostituzionalità e la declaratoria di incompatibilità comunitaria

- La dichiarazione di incostituzionalità : Tale dichiarazione viene pronunciata dalla Corte Costituzionale, la


quale, fa cessare l’efficacia della legge ex tunc (da allora). Una volta che la legge è dichiarata illegittima
costituzionalmente si considera come mai esistita e gli effetti da essa prodotti dovrebbero essere considerati
come mai sorti.

- La declaratoria di incompatibilità comunitaria : La declaratoria viene sancita dalla Corte di Giustizia e, in


seguito ad essa, la legge perde efficacia ex tunc.

La perdita di efficacia, in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale e delle sentenze di incompatibilità
comunitaria, consente ai contribuenti di esercitare il “diritto al rimborso del tributo indebitamente versato
da parte del contribuente”, con esclusione dei casi in cui i rapporti si sono esauriti, come ad es. nel caso
del passaggio in giudicato di una sentenza, oppure come la prescrizione o la decadenza. Non sembrano
esserci dubbi riguardo l’individuazione del dies a quo (giorno di inizio della decorrenza di un termine) per
poter esercitare il diritto al rimborso da versamento indebito sorto a causa di incostituzionalità e della
conseguente cessazione di efficacia della norma impositiva. Più incerta è la situazione in ambito comunitario
in cui il dies a quo, per calcolare i termini di decadenza dell’azione di rimborso per tributi incompatibili con il
diritto UE, decorre dal versamento del tributo ed è garantito dalla tutela dell’affidamento.

8. L’efficacia temporale della norma tributaria e la retroattività

Il concetto di retroattività tributaria è particolarmente complesso, è definito come un “fenomeno patologico”


del nostro ordinamento, in grado di porsi in contrasto con una serie di principi generali e di norme dettagliate
e di compromettere seriamente le garanzie dei contribuenti. Gli interpreti non sempre sono in grado di
distinguere tra norme veramente retroattive, norme imperative e norme retrospettive, insomma, non sempre
riescono a distinguere tra norme inammissibili e norme ammissibili. La norma tributaria è da considerarsi
veramente retroattiva qualora risulta essere innovativa, ingiustificata, irragionevole, in grado di incidere
sfavorevolmente e sconvolgere o alterare situazioni consolidate o garantite, compromettendo la certezza del
diritto. Inoltre, si tende a graduare gli effetti della retroattività per riconoscere la sua legittimità e ad operare
alcune distinzioni come:

- Retroattività propria : la norma incide su preesistenti fattispecie tributarie già considerate dal legislatore.
- Retroattività impropria : la norma incide su preesistenti fattispecie tributarie che non hanno ancora
ricevuto una disciplina giuridica.

Un’altra distinzione fondamentale è tra norma retroattiva (sostanziale) attinente alla fattispecie ed agli
effetti e norma di applicazione immediata, solitamente riconosciuta dal nostro ordinamento che è di tipo
procedimentale, ossia, coinvolge un’attività amministrativa in corso di svolgimento al momento dell’entrata in
vigore della nuova legge.

Nel nostro ordinamento non esistono norme costituzionali che sanciscono un divieto di retroattività in materia
tributaria, ma disposizioni di rango inferiore e dunque derogabili, come l’art. 11 disp. prel. c.c., il quale
sancisce che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” e l’art.3 della legge
n°212/2000, secondo cui “le leggi tributarie non hanno effetto retroattivo”, il quale, inoltre, afferma che per
quanto riguarda i tributi periodici, “le modificazioni introdotte in materia tributaria si applicano a partire dal
periodo d’imposta successivo a quello di entrata in vigore”. La norma regola fattispecie mai previste prima
dal legislatore, come ad es. il divieto di retroattività “non autenticata” (seconda parte del comma 1).

L’unica eccezione è prevista dall’art.1, comma 2, dello Statuto, per l’adozione di leggi interpretative in
materia tributaria le quali possono essere retroattive soltanto in casi eccezionali. Per limitare tale fenomeno,
si è fatto inizialmente ricorso all’attualità della capacità contributiva, espressa dall’art. 53 Cost., o
permanenza dell’idoneità alla contribuzione del presupposto al momento dell’entrata in vigore della nuova
legge e della sua prevedibilità. L’attualità della capacità contributiva, però, ha senso solo se quest’ultima è
intesa in senso oggettivo e non quindi riconducibile agli stati soggettivi del contribuente. Più recentemente,
per limitare la retroattività tributaria nel nostro ordinamento, si è fatto riferimento al principio della tutela del
legittimo affidamento, riconosciuto anche dal diritto comunitario e che consente al contribuente di poter
operare sulla base di una situazione giuridica precedente all’innovazione normativa senza subire il
pregiudizio di successive modifiche sfavorevoli.

Un limite invalicabile della norma sulla retroattività, resta quello delle situazioni consolidate come il
giudicato o la decadenza di termini procedimentali.

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9. Efficacia della norma tributaria nello spazio

Con l’evoluzione dei rapporti economici e commerciali tra gli Stati è sorta l’esigenza di definire l’efficacia
della norma nello spazio. La dottrina economico-finanziaria ha elaborato vari criteri, al fine di esercitare il
potere di accertamento e riscossione oltre i confini nazionali. A tal proposito, la maggior parte dei paesi UE e
l’USA adottano il “principio della tassazione del reddito mondiale" (cd. worldwide taxation), attraverso il
quale si considera quale criterio impositivo il collegamento soggettivo: la residenza fiscale assoggetta il
reddito dei propri residenti, prodotto ovunque nel mondo, al fine di recuperare il gettito derivante da attività
economiche finanziarie svolte parzialmente in un altro paese. Per poter determinare la residenza ai fini fiscali
è necessario considerare: iscrizione anagrafica della popolazione, domicilio, dimora abituale o la sede
principale in ambito societario. Altro principio è quello della “territorialità o della fonte” (cd. source
taxation), con il quale si tende a realizzare “l’efficienza fiscale internazionale”, ossia, l’idea che l’imposizione
fiscale possa essere effettuata esclusivamente nel territorio di uno Stato, a prescindere dalla provenienza di
colui che produce la ricchezza.

Il binomio personalità (residenza) e territorialità (fonte) si è espresso ai fini dell’eliminazione della doppia
imposizione internazionale; ciò si verifica quando gli stessi redditi vengono tassati in due o più stati, facenti
capo allo stesso soggetto. Inizialmente, quando la ricchezza era prodotta entro i confini nazionali, si è
sempre tentato di escludere, nell’ordinamento internazionale, il potere di uno Stato di prelevare tributi in (o
attraverso) un altro Stato, nel rispetto del principio di sovranità di cui il tributo è espressione, quindi, di
esclusività e non collaborazione tra Stati. Con l’evolversi dei rapporti economici e commerciali tra gli Stati, il
quadro è cambiato, di fatti, si è promossa un’estensione dell’efficacia delle norme tributarie nello spazio,
esercitando attraverso di esse il potere impositivo di controllo e riscossione tra stati, stabilendo regole
comuni per garantire lo stesso trattamento fiscale ai contribuenti a prescindere dalla loro residenza o dal
luogo della propria attività lavorativa.

In ambito comunitario è risultata essenziale una limitazione attraverso norme comunitarie della sovranità
fiscale nazionale; tale limitazione ha causato la mancanza della titolarità piena degli Stati membri e una
maggiore predisposizione alla cooperazione tra stati in alcuni settori come ad es. nel caso dell’Iva. Ciò al fine
di garantire maggiore tutela ai contribuenti nel caso di disparità di trattamento derivanti dall’adozione di
norme restrittive con finalità antielusiva. L’espansione di norme comunitarie antirestrittive in materia fiscale,
ha determinato la crisi della distinzione tra: responsabilità fiscale illimitata del residente e limitata del non
residente, sul quale si regge il sistema di tassazione su base mondiale. La cooperazione tra le
Amministrazioni Finanziarie, in ambito comunitario, è prevista da alcune norme comunitarie, ma è
ancora limitata alla complessità dei vari sistemi fiscali nazionali che attribuiscono a tali amministrazioni
diversi poteri in fase di controllo, utilizzando diversi metodi di determinazione delle basi imponibili.

A livello internazionale, i recenti interventi dell’OCSE e della Commissione UE in materia di lotta alla
pianificazione fiscale aggressiva, dettati dalla crisi economica dopo il 2011, hanno avviato un’inasprimento
delle politiche antievasione e antielusione, tramite dei cambiamenti radicali da parte dei sistemi fiscali
nazionali che si stanno adeguando, per la prima volta spontaneamente, a raccomandazioni e atti di soft law,
modificando e uniformando le proprie norme sostanziali e procedurali.

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CAPITOLO II : I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO TRIBUTARIO

PRINCIPI COSTITUZIONALI (PARTE I)

1. La capacità contributiva

Uno dei più importanti limiti sostanziali al potere impositivo è quello della “capacità contributiva”, essendo
essa espressione del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost. eguaglianza in senso verticale)
che per il contribuente rappresenta la principale garanzia, ma per l’A.F. e il legislatore è un forte vincolo. La
capacità contributiva è costituzionalmente consacrata dall’art. 53 Cost., il quale stabilisce che “tutti sono
tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva”. Tale articolo si collega
ad altri precetti costituzionali come il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) e trova un limite nella libera
iniziativa economica (art. 41 Cost.) e nei diritti patrimoniali (art. 42 Cost.) che devono essere
salvaguardati. La nozione di capacità contributiva è stata sempre oggetto di dibattiti dottrinali e
giurisprudenziali, si è evoluta con il mutare del fenomeno economico e finanziario, adeguandosi ad esso.
Essa storicamente sostituiva la nozione di “averi” (Lo Statuto Albertino prevedeva che “i regnicoli
contribuissero indistintamente nella proporzione dei loro avere ai carichi pubblici”) perché vi era una
maggiore varietà di indici di ricchezza ritenuti assoggettabili all’imposizione (es. consumi), rispetto a quelli
più limitati consistenti nei proventi di natura fondiaria (considerati al tempo come la principale espressione di
ricchezza). Il concetto di capacità contributiva fu presto definito come una “scatola vuota” riempibile con
qualsiasi contenuto (con la giurisprudenza costituzionale tale concezione fu superata, attribuendole un
significato più concreto). Tale concetto si connette anche al il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., in
base al quale: “gli individui sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in base alla propria capacità
contributiva”.

Il principio di capacità contributiva, secondo tale orientamento, richiede un riferimento all’attitudine


soggettiva specifica del contribuente, quindi, un’imposizione di tipo personale. Insomma, non ci si
riferisce ad una mera capacità economica, ma ai singoli determinati centri di imputazione, con il fine di
garantire al soggetto gravato della prestazione impositiva i mezzi finanziari per assolvere la stessa. Nella
valutazione della capacità contributiva personale esiste un limite fondamentale insuperabile,
consistente nel tenere presente le risorse economiche che non rivelano ai fini della contribuzione, in quanto
indispensabili al soddisfacimento dei bisogni fondamentali (minimo vitale). L’art. 53 Cost., come è stato
chiarito dalla Corte Costituzionale, risponde all’esigenza di garantire che ogni prelievo tributario debba avere
una causa giustificativa in dei presupposti che possano valere come indici rilevatori di ricchezza dai quali
sia deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione di imposta. La Corte Costituzionale, con il trascorrere
del tempo, ha mutato orientamento riguardo al principio dell’idoneità soggettiva, ritenendo che:
“qualunque fatto che esprime potenzialità o forza economica nella sua oggettività, può essere considerato
presupposto di imposta”. Tale orientamento si fonda su una concezione non personalistica della capacità
contributiva. Questi ultimi orientamenti consentono di elaborare una concezione più moderna di capacità
contributiva, che tiene conto delle molteplici forme di manifestazione della ricchezza che si hanno oggi.

La Corte Costituzionale ha anche chiarito quali debbano essere i requisiti della capacità contributiva:

- Effettività : la capacità del soggetto di contribuire alla spesa publica deve essere effettiva, ossia, certa e
non fittizia. Il legislatore, nel momento in cui andrà ad individuare la base imponibile per la
determinazione dell’imposta, non potrà utilizzare dei criteri riferiti ad entità non esistenti e dunque
penalizzanti il contribuente come le presunzioni assolute. Le presunzioni sono considerate legittime se
razionalmente giustificate e fondate sulla comune esperienza non è consentito però trasformare tali
previsioni in certezze assolute senza possibilità di prova contraria. Gli scopi delle presunzioni operanti in
ambito tributario (presunzioni fiscali) sono identificati nel dare certezza e semplicità al rapporto
tributario, consentendo una pronta e regolare riscossione dei tributi. Ciò è utile ad evitare l’evasione, ma
sempre nel rispetto dell’effettività della capacità contributiva e della proporzionalità.

- Attualità : L’attualità dell’imposizione fiscale consente di limitare la retroattività della norma tributaria. La
capacità del soggetto di contribuire alla spesa pubblica deve essere attuale, cioè, la legge che istituisce il
tributo deve considerare che la capacità contributiva sussista al momento della previsione legislativa.
Questo significa che non potranno essere prese in considerazione situazioni di ricchezza del contribuente
appartenenti ad epoche remote rispetto al momento genetico dell’obbligazione tributaria; la norma
tributaria delle essere irretroattiva, quindi, inoperante per il passato. La Corte Costituzionale , dopo
aver ribadito il carattere oggettivo della capacità contributiva, ha stabilito che il contribuente non può
dimostrare la mancanza di attitudine ad adempiere all’obbligazione tributaria attraverso la prova di non
avere più la disponibilità di una somma al momento dell’imposizione.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Non soltanto le norme impositive ma anche quelle agevolative devono rispettare il principio di capacità
contributiva e basarsi su un presupposto in grado di esprimere una minore forza economica (anche perché
perseguono finalità e interessi costituzionali prevalenti rispetto al concorso alla spesa pubblica). Le diverse
norme costituzionali che sono alla base di trattamenti fiscali agevolativi si pongono in tali casi come norme
speciali rispetto al precetto contenuto nell’art. 53 Cost.. Connesso al principio di capacità contributiva e a
quello di eguaglianza è il criterio di progressività, stabilito dal comma 2 dell’art. 53 Cost., che determina
un aumento del carico tributario al crescere della ricchezza prodotta in maniera più che proporzionale ed al
quale si informa il nostro sistema tributario. Un limite a tale principio si identifica, in alcuni ordinamenti
europei, nella non confiscatorietà del prelievo fiscale e nella non eccessività del carico tributario.

2. L’eguaglianza

Il principio di capacità contributiva integra il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla
legge, previsto dall’art. 3 Cost., che, avendo una portata più generale, postula lo stesso trattamento
giuridico, sia impositivo che agevolativo di situazioni eguali o comparabili (eguaglianza statica) e un
trattamento differenziato in situazioni diverse (eguaglianza dinamica). Il comma 2 dell’art. 3 Cost.,
prevedendo l’obbligo di rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e
l’eguaglianza tra i cittadini (eguaglianza sostanziale), rappresenta un limite fondamentale nei confronti del
legislatore che opera in materia tributaria, oltre ad essere un completamento dell’art. 53 Cost., in grado di
assicurare che il cittadino-contribuente non venga penalizzato da eventuali ostacoli di ordine economico di
tipo fiscale. La Corte di Cassazione, inoltre, ha considerato l’eguaglianza sostanziale congiuntamente
all’art. 53 Cost., quale corollario del fenomeno dell’abuso del diritto in materia tributaria, in quanto
consente di contrastare operazioni elusive non espressamente previste dal legislatore e garantisce parità di
trattamento fiscale. L’eguaglianza tra tutti i contribuenti, strettamente collegata all’art. 53 Cost., viene
intesa come eguaglianza verticale su base economica e si differenzia dall’eguaglianza orizzontale che si
basa sulla territorialità o provenienza dei soggetti assoggettati ad imposta ex art. 3 Cost., comma 1; ciò
solitamente è sancito sotto forma di principio di non discriminazione fiscale in ambito internazionale e
comunitario. Il principio di eguaglianza che contempla anche casi di riconoscimento dello stesso
trattamento fiscale favorevole tra soggetti di diversa nazionalità, può radicarsi in altri principi costituzionali
(es. la libera iniziativa economica) o in principi comunitari (es. libertà fondamentali di circolazione).
L’eguaglianza, infine, garantisce anche una giustizia fiscale. Tale principio, congiuntamente a quello di
capacità contributiva (secondo un nuovo orientamento della Consulta), limita e giustifica il diverso
trattamento delle varie categorie di soggetti che manifestano una diversa capacità economica, purché le
imposizioni fiscali differenziate, siano realizzate senza scadere in discriminazioni arbitrarie.

3. La riserva di legge

Il principio di riserva di legge in materia tributaria, con la nascita del Governo parlamentare, consente il
soddisfacimento di una doppia esigenza: da un lato, è volto ad affidare le scelte in campo fiscale,
comportanti limitazioni dei diritti, all’organo che maggiormente rappresenta la volontà popolare; dall’altro è
volto ad assumere la funzione garantista e democratica, migliorando il coordinamento dei rapporti tra
Parlamento ed Esecutivo. L’intervento legislativo garantisce la partecipazione dell’opposizione ai processi
decisionali, attraverso il cd. consenso al tributo (ciò sarebbe escluso se la disciplina fosse adottata
esclusivamente con atto governativo).

La nascita dell’obbligazione tributaria come prestazione patrimoniale imposta attraverso il verificarsi di un


fatto previsto dalla legge, è posta a garanzia dei contribuenti dall’art. 23 Cost. (“nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”) che comprende non solo le
prestazioni imposte che hanno un carattere tributario, ma anche quelle non aventi tale natura. Dal principio
della riserva di legge e dalla formulazione dell’art. 23 Cost., si desume la natura relativa della stessa,
che consente la corretta individuazione e ripartizione gerarchica tra norma primaria e secondaria che
disciplina la materia tributaria. La norma costituzionale, infatti, richiede che la prestazione patrimoniale sia
imposta “in base alla legge” e non esclusivamente ad opera della legge. Da ciò si evince la possibilità di
determinare con legge gli elementi essenziali del tributo (base legislativa) fissando i criteri generali e i
principi direttivi e di demandare a fonti diverse e subordinate la regolamentazione degli elementi non
essenziali e secondari, come quelli procedimentali (accertamento e riscossione dei tributi).

La Corte Costituzionale spesso è intervenuta per delimitare sia le diverse competenze in materia fiscale dei
vari organi nell’ambito della propria potestà tributaria, sia l’attività delegata dal Parlamento al Governo, per
evitare un eccesso di delega. Questo problema della delegazione è nato in un contesto ove l’uso di
strumenti quali decreti legislativi e decreti legge è divenuto abnorme, fino al punto di condurre alla
degenerazione della produzione legislativa in questo settore del diritto, infatti, difficilmente ormai questi
decreti vengono convertiti in legge.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’art. 23 Cost. consente l’esercizio della potestà tributaria anche ad enti diversi dello Stato (es. enti locali),
sebbene è sempre il legislatore a predeterminare i criteri base e le linee generali di disciplina della
discrezionalità amministrativa. Vi è concordia nella giurisprudenza nel ritenere che la base legislativa è
realizzata quando la legge disciplina gli elementi essenziali della prestazione tributaria, vale a dire:
presupposto, soggetto passivo, base imponibile e aliquota entro i limiti prestabiliti. Per i primi due
elementi, non vi è alcun dubbio che essi vadano indicati dalla legge; per l’identificazione del presupposto,
esso non può prescindere dalla disputa tra: sostenitori della teoria dichiarativa (la sua concezione si basa
sull’efficacia costitutiva dell’obbligazione tributaria che sorge al verificarsi del presupposto) e sostenitori
della teoria costitutiva (essi ritengono che il presupposto comporterebbe solo la nascita di situazioni
giuridiche soggettive a carattere strumentale in ordine al sorgere dell’obbligazione, che si verifica con la
presentazione della dichiarazione). La base imponibile e l’aliquota, invece, sono criteri di determinazione
quantitativa delle prestazioni. La prima richiede un’attività più complessa ed è riservata esclusivamente
alla legge; la seconda può essere demandata a fonti diverse per soddisfare l’esigenza di dare ascolto a
conoscenze tecniche specifiche o esigenze di amministrazioni locali.

La competenza in materia tributaria, pur spettando sia allo Stato che alle Regioni (in quanto l’art. 23 Cost.
stabilisce una riserva di legge relativa che consente di garantire uniformità e omogeneità dell’intero sistema
fiscale), a seguito della modifica dell’art. 119 Cost., risulta riferibile anche alla legge regionale, quindi, le
regioni possono istituire e stabilire tributi propri regionali, determinandone gli elementi fondamentali, nel
rispetto del principio di coordinamento del sistema tributario. L’intervento nei settori riservati dalla legge
dipende da una più o meno ampia autonomia sancita a livello costituzionale che gli enti territoriali possono
esercitare nei confronti di Comuni e Province e non soltanto dall’autorizzazione conferita loro dalla legge
ordinaria che disciplina il singolo tributo.

La sfera di autonomia tributaria degli enti locali che hanno potere regolamentare e statutario, deve
essere fondata sulla legge; non sarebbe quindi legittima costituzionalmente una norma legislativa che
istituisca in generale il potere regolamentare, inteso come ulteriore riserva in materia tributaria. La disciplina
dell’accertamento della riscossione, in base all’art. 23 Cost., può essere demandata da atti non aventi
forza di legge (regolamenti e decreti ministeriali) e l’intervento in tali settori attraverso la disciplina
secondaria ha funzione integrativa. Tuttavia, si è posto il problema di individuare il confine tra: norme sul
presupposto, sulla base imponibile e quelle sull’accertamento, in quanto esso risulta sfumato a tal punto che,
con atto esecutivo volto a determinare i parametri economici di capacità contributiva, si può incidere sul
presupposto del tributo, violando il precetto sancito dalla riserva di legge relativa. Sembra ormai superato il
problema della conflittualità delle norme comunitarie che operano in materia tributaria con il principio di
riserva di legge. Tali norme (pur influenzando fortemente l’attività del legislatore) non consentono agli organi
comunitari di istituire tributi; la sovranità tributaria spetta ancora agli Stati membri che possono esercitarla
servendosi dell’art. 23 Cost., anche se la conservazione di una sfera di riserva di legge si va assottigliando
sempre di più a causa di un’europeizzazione sempre più forte.

4. Autonomia finanziaria degli enti locali e coordinamento dei tributi propri

Il comma 1 dell’art. 119 Cost., a seguito della Riforma del Titolo V, pone sullo stesso piano: Comuni,
Province, Città Metropolitane e Regioni, garantendo loro una maggiore autonomia finanziaria di entrata e di
spesa nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli
economici e finanziari che derivano dall’ordinamento europeo. Limitando la lettura dell’art. 119 al comma
1, si potrebbe ritenere che sia stato rimosso il limite all’autonomia finanziaria costituito dal rinvio alla legge
statale presente nella versione precedente, è evidente però che esso sopravvive (tramite il richiamo del
comma 2 della stessa norma) al rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica, che
comunque va garantito dalla legge nazionale. Il coordinamento, ex art. 117 Cost., comma 2, spetta in
diversa misura anche alle Regioni e riguarda il sistema tributario degli enti locali che appartengono ad esse.
Il riferimento all’autonomia di entrata e di spesa è più ampio e diverso nel comma 1, rispetto al richiamo alle
risorse proprie e ai tributi propri dei successivi commi dell’art. 119 Cost.

La legge delega n° 42/2009 funge da norma attuativa delle disposizioni contenute nell’art. 119 Cost. e
fissa i principi e le linee direttive in base al quale sono stati emanati i decreti legislativi. Maggiori difficoltà
interpretative si hanno in merito all’attuale formulazione dell’art. 119 Cost., comma 2, che risulta diversa
rispetto alla precedente, in particolare, riguardo al potere degli enti territoriali e locali di stabilire e applicare
tributi propri. L’interpretazione dell’art. 119 Cost. da parte della Corte Costituzionale, ha portato a
considerare per molto tempo l’attribuzione del potere di applicare e stabilire tributi locali in base al tipo di
norma (legge dello Stato) con la quale sono stati istituiti, senza possibilità di intervento da parte dell’ente
territoriale. In pratica, si ritiene che solo i tributi che vengono istituiti dalla legge regionale, sarebbero da
considerare propri e modificabili dagli enti locali, ex art. 119 Cost., comma 2.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La legge delega n°42/2009 di attuazione dell’art. 119 Cost., all’art. 7 prevede: da un lato, il
riconoscimento alle Regione della possibilità di istituire autonomamente, con propria legge, veri e propri
tributi (tributi propri) e il potere di intervenire marginalmente sui tributi propri della legge dello Stato
(derivati); dall’altro lato prevede il doppio vincolo nazionale e comunitario che potrebbe non consentire il
superamento dell’orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale di tipo restrittivo. Il d.lgs.
n°446/1997, definisce meglio i limiti dell’autonomia tributaria degli enti locali, esercitabile attraverso atti di
formazione secondaria (regolamenti e statuti) e rappresenta una norma essenziale, in grado di far ritenere
rispettato il principio della riserva di legge ogni volta che vengono indicati: soggetti passivi, presupposto e i
criteri di determinazione del quantum della prestazione nell’atto di formazione primaria, ossia, la legge
statale.

I commi 2, 3 e 4 dell’art. 119 Cost., prevedono che gli enti locali dispongano di compartecipazione ai tributi
locali e che lo Stato dovrebbe assicurare a questi ultimi, insieme ai tributi propri e al fondo perequativo, la
sufficienza delle risorse rispetto ai loro fabbisogni finanziari, correlati all’espletamento delle funzioni
pubbliche attribuite. La compartecipazione, inoltre, essendo destinata all’ordinario fabbisogno regionale è
considerata relativa al gettito dei tributi collegati al territorio regionale o dell’ente locale. La
compartecipazione delle regioni ai tributi erariali, dovrebbe (secondo la legge delega) tener conto del luogo
di consumo, di prestazione lavorativa e della residenza del precettore dei tributi riferibili alle persone fisiche.
In base al comma 3 dell’art. 119 Cost., la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo senza vincoli
di destinazione, volto a riequilibrare le finanze delle Regioni e degli enti locali, specialmente quelli che
hanno minore capacità fiscale per abitante.

Il tentativo di una nuova elaborazione del testo dell’art. 119 Cost., in particolare facendo riferimento al
disegno di legge governativo del 2015, bocciato dal Referendum del 2016, oltre a centralizzare le
competenze degli enti locali, avrebbe dovuto rafforzare il principio di corrispondenza tra le risorse che
spettano agli enti territoriali e le funzioni pubbliche loro attribuite nel rispetto della continenza ed assicurare il
finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite ai Comuni, alle Regioni e alle Città Metropolitane,
riducendo i rispettivi margini di autonomia finanziaria.

5. La tutela dell’affidamento, la buona fede e l’imparzialità della P.A. (chiarezza, conoscenza


e informazione del contribuente)

Uno dei principi fondamentali di diritto tributario è la tutela della buona fede e del legittimo affidamento
nella sicurezza giuridica; Ciò, con il tempo, ha assunto una precisa formulazione, facendo cogliere in modo
distinto l’evoluzione dei rapporti tra fisco e contribuente, spianando la strada ad un livello più elevato di civiltà
giuridica. Tale principio, trova il suo riferimento costituzionale nell’art. 97 Cost., ed è disciplinato dall’art. 10
dello Statuto dei diritti del contribuente, soltanto in merito all’operato dell’A.F.. Gli art. 5, 6 e 7 dello
Statuto, nel prevedere chiarezza, conoscenza e informazione del contribuente, garantiscono l’attuazione del
principio costituzionale di buona fede e buon andamento dell’attività svolta dall’A.F. Occorre precisare, però,
che già prima dello Statuto poteva desumersi l’applicabilità del principio di buona fede, nel senso che tale
clausola, riguardando ogni tipo di attività della P.A., si ricollegava alla buona fede in diritto amministrativo; la
funzione originaria di detta clausola, risiedeva nell’esigenza di regolare rapporti non paritari, al fine di limitare
la possibilità di abuso da parte di chi si trovava in una posizione dominante.

Il principio della tutela dell’affidamento, quale naturale sviluppo del principio di buona fede, svolge (in
materia tributaria) un’importante funzione limitativa, essendo in grado di arginare ogni tentativo di arbitrarietà
da parte del legislatore e dell’A.F. Ciò è utile a garantire la certezza del diritto. A tal proposito, è
fondamentale l’attività giurisprudenziale, essendo essa volta a valutare il principio di affidamento e la
necessità di un sindacato sulla ragionevolezza, relativamente alla portata retroattiva della legge tributaria,
anche se di interpretazione autentica o fittiziamente tale.

Il divieto di retroattività della legge tributaria basato sulla tutela dell’affidamento, quale completamento
dell’attualità della capacità contributiva, è riconducibile al principio di certezza del diritto e libera iniziativa
economica, ex. art. 41 Cost., e della pianificazione fiscale, ossia, l’interesse del contribuente al
mantenimento dello status quo, che va ponderato in considerazione del contrapposto interesse fiscale alla
variazione legislativa, con effetto retroattivo che può determinare la neutralizzazione dell’effetto sfavorevole.
La portata non assoluta della tutela dell’affidamento, determina delle situazioni di sostanziale deroga, ove in
presenza di una valida giustificazione, non si determina la violazione di questo principio. Questo accade
quando ci si trova dinanzi a interventi interpretativi di norme oscure o confuse. La violazione
dell’affidamento è consentita solo nel caso in cui l’irretroattività e le esigenze di certezza del diritto, siano in
contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti, con un conseguente sindacato della Corte
Costituzionale in base a canoni di ragionevolezza, in ordine all’esito del bilanciamento degli interessi in
conflitto.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La tutela dell’affidamento assume particolare rilevanza in ambito europeo e in particolare nella


giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ove non è considerata in
grado di porre un divieto assoluto. In ambito comunitario si è manifestata la necessità di un’applicazione
ponderata del principio di affidamento che condiziona il legislatore e l’A.F., considerando non solo la
prevedibilità (possibilità di conoscere preventivamente una norma), in termini di strumento di
neutralizzazione della retroattività volto ad attuare la certezza del diritto e a garantire una programmazione
dell’attività economica, ma anche il principio di proporzionalità dell’intervento retroattivo, in relazione
all’obiettivo che si vuole raggiungere (quasi sempre di natura economica). Un’altra funzione fondamentale
della tutela dell’affidamento è quella svolta nei confronti dell’A.F. e dei soggetti attivi dell’obbligazione
tributaria, che incide sulla loro attività discrezionale, garantendo l’imparzialità. L’attività ermeneutica
ministeriale è oggetto di fiducia del contribuente nella fase organizzativa delle proprie attività; il contrasto tra
le varie interpretazioni ministeriali o il mutamento di interpretazioni precedenti, può determinare la tassazione
di un presupposto a notevole distanza temporale, con la conseguente incertezza giuridica e il grave
pregiudizio dell’attività economica. Pur non potendosi negare la possibilità dell’A.F. di mutare il suo
orientamento interpretativo, è preferibile ritenere che gli orientamenti interpretativi, una volta manifestati, non
debbano variare in merito a fattispecie già poste in essere quando vanno ad arrecare danno
retroattivamente ai contribuenti che ad esso si erano uniformati. Sono fatte salve le disposizioni
amministrative retroattive emanate per sostituire una precedente interpretazione ministeriale di una legge
tributaria dichiarata illegittima.

Il comma 1 dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, stabilisce che i rapporti tra
Amministrazione e contribuente sono improntati al principio di collaborazione e buona fede; tuttavia, la
portata della norma è limitata dal comma 2, ove si prevede che non sono irrogate sanzioni, né richiesti
interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato ad indicazioni contenute in atti dell’A.F.,
successivamente modificati da essa. Quindi, al comma 2, le due ipotesi normative attengono al
comportamento dell’A.F., dal quale consegue l’errore del contribuente. Tale enunciato normativo,
nell’escludere l’applicabilità di sanzioni e interessi, sembra affermare la sussistenza della pretesa tributaria.
La Suprema Corte, ha ritenuto l’art. 10, una norma immediatamente precettiva, dotata di capacità
espansiva, nel senso che, l’A.F. non può venire contra factum proprium, emanando un atto impositivo in
contrasto con proprie precedenti indicazioni, sulle quali abbia fatto legittimo affidamento il contribuente.

Affinché la prestazione tributaria sia da considerare inesigibile, bisogna appurare se le obiettive


circostanze di una data fattispecie indichino o meno la presenza di una situazione di legittimo affidamento
del contribuente; Al fine di non svalutare il significato del comma 1 dell’art. 10, sarebbe preferibile
un’interpretazione del comma 2 volta a non escludere una responsabilità dell’A.F. in ogni caso di revirement
ministeriale in peius di una sua precedente interpretazione, con un conseguente annullamento dell’atto
impositivo in contrasto con tale interpretazione. Di recente, la Suprema Corte ha chiarito che i casi di tutela
enunciati dal comma 2 dell’art. 10, riferibili alla non applicazione delle sanzioni e degli interessi, sono
esemplificativi ma non limitano la portata generale della regola. Dal principio di tutela dell’affidamento, buona
fede, del buon andamento e dell’imparzialità, scaturiscono alcuni obblighi di informazione, conoscenza,
semplificazione, chiarezza e motivazione degli atti dell’A.F., previsti dallo Statuto dei diritti del contribuente.

PRINCIPI DI DIRITTO EUROPEO (PARTE II)

1. L’armonizzazione e il coordinamento dei sistemi fiscali

L’armonizzazione legislativa in ambito comunitario è una procedura attraverso la quale è possibile


rendere affini gli ordinamenti giuridici nazionali, per la realizzazione di un fine comune. L’armonizzazione
consente l’identificazione di punti di partenza e la determinazione del rapporto in cui devono trovarsi i vari
gruppi di norme che appartengono ad ordinamenti diversi. Ciò presuppone sistemi fiscali compatibili ed
interventi che hanno la medesima finalità di eliminare diversità o asimmetrie delle normative tributarie che
producono effetti restrittivi delle libertà fondamentali di circolazione e distorsivi della concorrenza tra Stati.
Questo procedimento restringe la sovranità fiscale degli Stati membri e la condiziona per il futuro.

Secondo i sostenitori della teoria dell’armonizzazione coattiva, in ambito comunitario, questo


procedimento si verifica quando i vari paesi, di comune accordo, tramite l’Autorità Sovranazionale,
prevedono la modifica di una determinata norma tributaria o l’adeguamento ad essa in conformità ad un
modello unico (integrazione fiscale positiva). I sostenitori dell’armonizzazione spontanea o
coordinamento, invece, ritengono che le imposte dirette determinano effetti distorsivi marginali, poiché, le
forze libere del mercato conducono ad un equilibrio tra gli ordinamenti, senza un intervento comunitario
vincolante. Tale procedimento avviene: attraverso il rispetto dei divieti imposti dal TFUE (es. divieto di
restrizione); oppure, tramite atti di soft law della Commissione (es. raccomandazioni).

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’art. 114 TFUE, disciplina il ravvicinamento delle legislazioni nazionali e riguarda quelle norme che
hanno una diretta incidenza sull’instaurazione e il funzionamento del mercato interno; questo è il principale
mezzo d’azione dell’UE, utile a realizzare l’armonizzazione in settori come quello della fiscalità diretta,
promuovendo allo stesso tempo i suoi obiettivi istituzionali. Dal punto di vista giuridico comunitario, il
concetto di ravvicinamento è assimilabile a quello di affinità delle discipline normative utilizzato nella
definizione generale di armonizzazione e si distingue da quello di unificazione. Questo procedimento
avviene tramite regolamenti che non lasciano spazio di discrezionalità al legislatore nazionale e che non
possono operare nel settore della fiscalità diretta, mancando una competenza esclusiva degli organi
sovranazionali competenti. L’armonizzazione non presuppone l’unicità dei mezzi e può realizzarsi anche
attraverso le direttive, che rappresentano lo strumento principale per rendere affini alcune disposizioni fiscali
nazionali.

L’armonizzazione del settore delle imposte dirette, avviata negli anni 60’, attraverso gli studi della
Commissione, sembrava stesse per realizzarsi del 1990, con l’emanazione di tre direttive che istituivano
regole fiscali comuni neutre, utili alle imprese per adeguarsi alle esigenze del mercato comune di rafforzare
la competizione tra loro in ambito internazionale. Tuttavia, la sfera di applicazione di queste direttive era
abbastanza limitata e l’interpretazione non univoca delle disposizioni in esse contenute ha determinato
problemi di applicazione negli Stati membri. Tutto ciò ha provocato un lungo periodo di stallo, terminato del
2003 con l’emanazione delle direttive sulla tassazione dei redditi da risparmio nn° 48/2003 e 49/2003, in
attuazione della libera circolazione dei capitali e che si fondano sullo scambio di informazioni tra autorità e
istituti di credito; esse hanno un ambito di applicazione che si definisce riguardando il pagamento di interessi
(reddito da risparmio) nei confronti di persone fisiche e società dei vari paesi europei. Tramite questi
interventi, si è previsto un regime comune di tassazione del risparmio in ambito UE, che prevede la
rinuncia al potere impositivo sugli interessi da parte dell’ente erogante, in modo tale da permetterne l’effettiva
imposizione a tutti gli ordinamenti nazionali. I più recenti interventi di ravvicinamento legislativo della
Commissione UE, hanno riguardato il contrasto all’elusione e alla pianificazione fiscale aggressiva delle
imprese; Si pensi alla direttiva “pacchetto antielusione” del 2016.

Diversa è la situazione che riguarda l’armonizzazione delle imposte indirette (in particolare: l’Iva), che si
fonda sull’art. 113 TFUE. Questo procedimento è stato avviato con l’emanazione della sesta direttiva del
1997, alla quale hanno fatto seguito una serie di altre direttive. Le precedenti e numerose direttive in materia
sono state poi raccolte nella direttiva n° 112/2006 e rappresenta una sorta di Testo Unico che ha
razionalizzato e coordinato le varie modifiche intervenute in vista di un sufficiente livello di armonizzazione
dell’Iva in ambito comunitario. Nonostante questi interventi migliorativi, risulta ancora determinante l’attività
interpretativa della Corte di Giustizia che ha consentito di configurare un autonomo sistema Iva,
garantendone l’applicazione uniforme nei vari sistemi fiscali nazionali. L’autonomia procedimentale
tributaria nazionale è stata notevolmente limitata attraverso il recepimento dei principi CEDU in materia di
diritti fondamentali. Tali principi hanno reso disapplicabili le disposizioni interne se in contrasto con la good
governance o quando il diritto di difesa del contribuente è correlato alle libertà fondamentali, che non sono
più solo economiche ma anche collegate alla persona e ai diritti sociali. Ciò ha determinato un maggior
coordinamento dei sistemi procedurali tributari nazionali.

2. Il principio di non discriminazione fiscale

Il principio di non discriminazione in materia tributaria è regolato prevalentemente da norme di diritto


internazionale ed in particolare da quelle di tipo convenzionale attraverso le quali gli Stati contraenti
rinunciano in parte all’esercizio della propria sovranità fiscale, anche se trovano egualmente fondamento
giuridico in disposizioni nazionali. Questo principio impone di trattare in modo uguale situazioni uguali e in
modo diverso situazioni diverse. Sulla base di questo principio sono stati elaborati una serie di divieti che
rappresentano regole fondamentali del commercio e dell’economia internazionale, che condizionano e
vincolano gli ordinamenti tributari nazionali. Il principio di non discriminazione fiscale condiziona e
influenza l’intero settore della sovranità nazionale che riguarda il trattamento più sfavorevole dei non
residenti in un Paese UE. La clausola della nazione più favorita e i divieti di discriminazione hanno assunto
un valore particolare in merito al commercio internazionale. Successivamente, il divieto di discriminazione ha
iniziato a disciplinare in modo più dettagliato il settore dell’imposizione indiretta tramite norme contenute in
trattati internazionali (es. trattato istitutivo della CEE). L’operatività della clausola di non discriminazione
nel settore delle imposte dirette, prima di trovare applicazione nel diritto comunitario è stata prevista dal
“modello di convenzione contro la doppia imposizione OCSE” (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) al quale si ispirano le convenzioni fiscali bilaterali tra gli Stati aderenti. Il principio di
eguaglianza in ambito comunitario è rappresentato dal divieto generale di discriminazione, ex art. 18
TFUE. Questo principio, pur proibendo trattamenti discriminatori in base alla nazionalità, pone un divieto di
ogni altra distinzione anche di tipo fiscale. Esistono una serie di deroghe o giustificazioni al divieto di
discriminazione comunitario, sancite dallo stesso Trattato, fatte valere dagli Stati membri ed esaminate dalla
Corte di Giustizia, che rendono le norme tributarie nazionali compatibili con il diritto UE.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

In relazione al divieto di discriminazione, assumono particolare rilevanza le finalità di tipo economico e


economico-giuridiche, come la prevenzione di comportamenti di elusione fiscale o di abuso del diritto che
possono realizzarsi trasferendo la ricchezza in altri paesi, al solo scopo di beneficiare di un vantaggio fiscale
indebito, continuando, allo stesso tempo, a beneficiare di analoghe disposizioni favorevoli previste nel paese
di residenza. Tale ultima giustificazione non è condivisa nel caso in cui la norma antielusione sia a carattere
generale e non ostacoli una particolare operazione artificiosa tra imprese di diversi paesi. Il Trattato UE
contiene una serie di disposizioni che proibiscono trattamenti discriminatori, come l’art. 110 TFUE che
prevede un divieto di discriminazione fiscale al fine di garantire la libera circolazione delle merci. Tale norma
è una delle poche disposizioni fiscali contenute nel Trattato e garantisce l’eliminazione di ogni imposizione
indiretta sui prodotti degli altri Stati membri che sia superiore rispetto a quella che colpisce i prodotti
nazionali e che comprometta il commercio intracomunitario. Anche la Corte Costituzionale Italiana si è
pronunciata sull’efficacia diretta dell’art. 110 TFUE, evidenziando l’obbligo di applicazione del regime fiscale
interno, a patto che sia coerente con le norme comunitarie in tema di discriminazione delle merci importate.

Con riguardo al divieto di discriminazione alla libera circolazione dei lavoratori dipendenti, sancito
dall’art. 45 TFUE, la Corte di Giustizia, con il “caso Schumacker”, ha posto per la prima volta l’attenzione
sulla situazione reddituale e complessiva dei residenti e non residenti fiscalmente in uno Stato e in
particolare sul relativo carico fiscale dell’imprenditore non residente. E’ stato considerato criterio effettivo di
collegamento della persona fisica con il territorio, ai fini del riconoscimento delle agevolazioni personali
previste dal paese di occupazione, il luogo in cui è localizzata la fonte principale del reddito, piuttosto che la
residenza. Tale criterio presuppone una comparazione complessiva tra situazione reddituale del residente e
del non residente. Se venisse applicato da tutti i Paesi membri (in ambito comunitario), oltre a realizzare
un’eguaglianza fiscale interna ed esterna, consentirebbe un’individuazione più facile della progressività
tributaria verso soggetti che operano al di fuori dello Stato di residenza e distribuiscono il proprio reddito nei
vari Paesi europei. E’ anche vero, però, che ciò non è realizzabile senza l’efficace cooperazione e scambio
di informazioni tra le A.F. dei vari Paesi UE che consente di verificare la situazione reddituale effettiva.
Tuttavia, la difficoltà di valutazione della capacità contributiva complessiva e la complessità dei controlli, può
comunque giustificare il rifiuto da parte dello Stato della fonte di concedere il vantaggio o l’agevolazione al
contribuente non residente, poiché, tale trattamento fiscale potrebbe non spettargli per mancanza di requisiti.

3. Il divieto di restrizione in materia di imposte indirette

Nella seconda metà degli anni 80’, accanto ad un processo di integrazione positiva dei sistemi fiscali (volto
ad un’armonizzazione delle norme tributarie degli Stati membri) è iniziato, tramite l’applicazione di norme
restrittive in materia tributaria, un procedimento di integrazione di tipo negativo. Quest’ultimo ha determinato
un impatto consistente nell’ambito dei sistemi fiscali europei e si basa non sulle direttive ma
sull’interpretazione e l’applicazione di norme primarie del Trattato sulle Libertà Fondamentali. Mentre
l’armonizzazione o integrazione positiva comunitaria rispetta parzialmente la sovranità dei Paesi membri, il
ricorso da parte della Corte di Giustizia (in fase di interpretazione delle norme nazionali in materia
tributaria) alle disposizioni del “Trattato UE sulle libertà di stabilimento delle società e imprenditori e sulla
libera circolazione di capitali e servizi”, volte a realizzare l’istallazione di un mercato interno e ad evitare
distorsioni alla concorrenza tra Stati membri, determina una limitazione costante e più incisiva alla sovranità
fiscale dei Paesi UE, condizionando tutta la sfera dell’imposizione diretta e la potestà tributaria degli Stati
europei (essa stessa vincolata da tali norme).

Diviene necessario, quindi, stabilire se vi sia distinzione tra discriminazione e restrizione fiscale. Il divieto di
restrizione, anche se viene spesso assimilato a quello di non discriminazione, è tale a prescindere dalla
comparazione tra gruppi di soggetti di diversa provenienza, come ad es. nel caso dei residenti e non
residenti (utile per la verifica della discriminazione internazionale). Il divieto di restrizioni, in tal senso, pur
avendo analogo contenuto e finalità, assume, attraverso l’interpretazione della Corte, una portata più ampia
rispetto alla discriminazione. Inoltre, svilisce il limite del collegamento di tipo economico di un residente con
l’altro Paese, considerato inizialmente indispensabile per l’applicazione delle norme sulle libertà
fondamentali. Con riferimento al divieto di restrizioni alla libertà di stabilimento a titolo secondario
(insediamento attraverso enti, agenzie, succursali e filiali), la Corte di Giustizia ha fissato un principio
generale, ritenendo, ai fini dell’applicazione dell’art. 49 TFUE, che se una società residente e un ente non
residente versano nelle stesse condizioni fiscali (hanno stessa imposizione fiscale) essi non potranno essere
esclusi dal riconoscimento di analoghe agevolazioni e benefici tributari. In tal caso, il legislatore del paese
della fonte, non può far altro che ammettere che non esiste alcuna differenza che possa giustificare un
diverso trattamento tra essi. La Corte di Giustizia nella sentenza: “Royal Bank of Scoltand”, tramite
un’ulteriore evoluzione interpretativa dell’art. 43 Trattato UE, considera in merito alle società, che la
distinzione tra obbligo fiscale limitato delle stabili organizzazioni di imprese non residenti e illimitato
dell’impresa residente, non impedisce di ritenere che tali società versino in situazioni analoghe in merito alla
modalità di determinazione della base imponibile.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Il diverso trattamento fiscale tra soggetti che operano nei paesi membri, proibito dal diritto comunitario, non
riguarda solo i non residenti ma anche gli enti o le società che risiedono in uno stesso Stato. Ciò lo si ha nel
caso in cui società che risiedono in uno Stato, decidono di espandersi oltre i confini nazionali e sono
svantaggiati dal cd. Home state Restriction, ossia, trattamenti fiscali restrittivi rispetto ai soggetti residenti
che svolgono analoghe attività ed operano all’interno dello stesso Stato.

Tali situazioni hanno riguardato diversi tipi di norme nazionali. E’ il caso di:

- disposizioni nazionali che stabiliscono trattamenti fiscali favorevoli solo verso gruppi di società ove le
controllate sono residenti nel paese della controllante.
- Norme antielusive e clausole antiabuso particolarmente restrittive come quelle relative a società
controllate straniere.
- Legislazioni in tema di exit tax che vanno a determinare il recupero a tassazione immediata delle
plusvalenze latenti nei casi di trasferimento di residenza all’estero
- Trattamenti fiscali dei dividendi distribuiti a società non residenti.

Interessante è l’interpretazione del divieto di restrizione alla libera circolazione dei capitali previsto
dall’art. 63 TFUE, che è l’unica norma a prevedere deroghe espresse contenute nell’art. 65 TFUE e
attraverso la quale la Corte di Giustizia mantiene solo in modo formale l’approccio seguito
precedentemente per la verifica dei requisiti necessari per l’applicazione del divieto di discriminazione,
effettuando un diverso tipo di comparazione tra le situazioni che si basano sulle finalità perseguite dalla
norma in riferimento alle varie fattispecie, considerando le giustificazioni economiche dei diversi trattamenti
fiscali addotte dai paesi membri. La mancanza di tale attività comparativa complessiva e la mera verifica del
perseguimento dello scopo della norma, può condurre attraverso libertà fondamentali a delle distorsioni o ad
una doppia non tassazione in due diversi Stati.

Le norme comunitarie antirestrittive in materia di libera circolazione dei capitali possono contemplare
situazioni di diritto interno, rivolgendosi ai propri residenti che svolgono attività finanziarie in altri Stati
membri. Ciò emerge chiaramente dalla terminologia utilizzata dalla Corte di Giustizia ove afferma che, ai
sensi dell’ex art. 56, “è vietata qualsiasi misura che complica o rende meno attraente o meno conveniente il
trasferimento transfrontaliero dei capitali scoraggiando l’investitore”.

4. La libera concorrenza e il divieto di aiuti di Stato

Una delle principali esigenze del legislatore nazionale, in fase di attuazione di scelte di politica fiscale in
ambito comunitario, è l’individuazione e il rispetto di criteri di compatibilità delle misure fiscali agevolative a
vantaggio delle imprese con la normativa sugli aiuti di stato. Gli artt. 107 e 108 TFUE, assicurano
l’eliminazione di ogni forma di distorsione alla concorrenza a livello intracomunitario, costituiscono uno dei
maggiori vincoli alla potestà tributaria nazionale e locale e riducono la discrezionalità dell’A.F. e del giudice
tributario, inoltre, tali norme hanno una sfera di applicazione molto ampia.

La difficoltà maggiore per l’interprete della misura fiscale favorevole è la mancanza di una precisa nozione
di “aiuto di stato” nel diritto comunitario. In assenza di tale definizione, se ne è elaborata una più ampia
che comprende ogni possibile vantaggio, economicamente apprezzabile, attribuita ad un’impresa attraverso
un intervento pubblico, che ha l’effetto di ridurre, tramite le risorse statali (quindi, denaro pubblico), gli oneri
di qualsiasi genere gravanti sul bilancio di quest’ultima con gli effetti distorsivi sulla concorrenza. Gli aiuti, per
risultare incompatibili con il diritto comunitario devono essere concessi dagli Stati o enti territoriali tramite
risorse statali che, favorendo alcune imprese o produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
L’incompatibilità con il mercato comune delle misure degli aiuti di Stato deriva dalla loro incidenza sulle
risorse nazionali, dall’effetto discorsivo della concorrenza, dal condizionamento delle attività commerciali tra
gli Stati membri e dal rivolgersi a talune imprese e dall’essere selettive direttamente o indirettamente.

La Corte di Giustizia ha poi precisato che le agevolazioni fiscali rientrano tra gli aiuti, in quanto
costituiscono delle mancate entrate come conseguenza di trattamenti tributari di favore. Questi interventi
normativi selettivi, riducendo i costi di un’impresa, possono incidere sugli scambi, provocando distorsioni di
concorrenza. Non è convincente l’assunto della Corte di Giustizia, in base alla quale, per soddisfare questo
requisito di selettività, è sufficiente la “diminuzione delle possibilità” per le imprese con sedi in altri Stati di
penetrare nel mercato di tale Stato membro. In questo modo, ogni incentivo fiscale, anche regionale, può
influire sula concorrenza e sul commercio nell’ambito del mercato interno, considerando che diversi sistemi
fiscali, determinano l’esistenza di diversi trattamenti fiscali di favore che influiscono sulla concorrenza.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Se agevolazioni o incentivi fiscali possono potenzialmente essere considerati aiuti di Stato, non sempre
questi rientrano nella sfera del divieto previsto dall’art. 107 TFUE, secondo la disciplina del Trattato UE. A
tal proposito, è necessaria un’attenta valutazione delle agevolazioni nella logica del sistema fiscale e della
concorrenza tra imprese europee, seguendo le indicazioni della Corte di Giustizia e della Commissione UE,
infatti, l’art. 108 TFUE, prevede una procedura in base al quale vanno comunicati i progetti volti a modificare
o istituire aiuti e lo Stato non potrà dare esecuzione alle misure agevolative, prima della decisione finale
della Commissione. Recentemente, però, sono stati emanati alcuni Regolamenti in materia, volti a stabilire
una serie di clausole e condizioni che esentano l’autorità pubblica dal dover notificare preventivamente il
progetto alla Commissione.

5. La effettività e l’equivalenza

A conclusione dei “principi comunitari”, occorre menzionare altri due principi fondamentali, utili a garantire
una tutela piena ed effettiva del contribuente, non solo come cittadino nazionale ma anche come cittadino
dell’UE. Questi principi sono:

- Principio di effettività: garantisce che le norme interne non rendano “impossibile o eccessivamente
difficile” l’esercizio dei diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico comunitario e trova il suo fondamento
nell’art. 10 del Trattato UE, che prevede un obbligo di cooperazione e di coordinamento tra gli Stati
membri e l’UE nell’attuazione degli obblighi comunitari e di quelli previsti dai Trattati dell’UE. La recente
tendenza della Corte di Giustizia di limitare nel tempo (su richiesta degli Stati membri) gli effetti delle
proprie sentenze di incompatibilità comunitaria favorevoli al contribuente e la portata dell’interpretazione
delle norme tributarie nazionali dichiarate incompatibili con il diritto comunitario, ha assunto particolare
rilevanza, ricollegandosi all’effettività del diritto del contribuente al rimborso del tributo indebitamente
versato allo Stato membro. Il giudice comunitario di solito limita gli effetti temporali delle sentenze in
materia tributaria, sia quando la sentenza determinerebbe gravi sconvolgimenti finanziari, sia quando vi è
una rilevante incertezza giuridica sul punto chiarito dalla sentenza. Tale attività limitativa deve svolgersi
nell’osservanza del principio di effettività del diritto al rimborso sancito dalla Corte di Giustizia.

- Principio di equivalenza: è strettamente correlato all’effettività, però, stabilisce che i diritti previsti a
livello comunitario, devono trovare una tutela equivalente all’interno dello Stato nazionale.

Se il giudice nazionale non rileva il contrasto tra norma tributaria interna e comunitaria, derivante dal
mancato rispetto dei principi di equivalenza o di effettività, determina, in materia di rimborso di imposta, la
realizzazione di una tutela comunitaria parziale. Sulla base di questi principi è inviolabile la garanzia del
contribuente corrispondente al divieto rivolto al legislatore nazionale di adottare una disposizione
procedurale nazionale che riduca lo spazio di ricuperabilità dei tributi indebitamente versati secondo quanto
stabilito dalle norme comunitarie.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO III : IL TRIBUTO E LE PRESTAZIONI PATRIMONIALI IMPOSTE

1. Le prestazioni patrimoniali

L’art. 23 Cost., indica che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in
base alla legge” e, solo in questo caso, si è dinanzi ad una condizione di legalità tributaria. A tal proposito, è
utile chiarire i concetti di:

- Prestazioni Personali: attività che comportano l’esplicazione di energie fisiche ed intellettuali con una
conseguente limitazione per il privato della possibilità di determinare liberamente la destinazione delle
stesse energie.

- Prestazioni Patrimoniali: sono prestazioni che producono una decurtazione del patrimonio del privato
(es. il pagamento delle tasse).

La prestazione “imposta” si caratterizza per il suo carattere di “coattività” e “autoritatività”, cioè, per essere
imposta “coattivamente” con un atto dell’autorità, senza che ci concorra la volontà dell’obbligato. La
prestazione imposta di natura patrimoniale, presenta un carattere di coattività più ampio, in quanto,
conosce due tipi di imposizioni:

- Formale: le prestazioni sono imposte con un atto autoritativo, i cui effetti non dipendono dalla volontà del
soggetto passivo (es. tributi)
- Sostanziale: la prestazione scaturisce da un’imposizione in senso sostanziale, quando l’obbligazione,
pur nascendo da un contratto, costituisce corrispettivo di un servizio pubblico che soddisfi un bisogno
essenziale e sia reso in regime di monopolio.

La Corte Costituzionale, in base all’art. 23 Cost., ha definito le prestazioni patrimoniali imposte come
“prestazioni dedotte in rapporti obbligatori alla cui costituzione non ha concorso la volontà dell’obbligato e
quindi non negoziali, non contrattuali, ma istituite con atti di autorità”. Il concetto di prestazioni patrimoniali
imposte va ricondotto nella categoria più ampia delle entrate dello Stato e degli Enti locali. Risultano, invece,
estranee ai principi di legalità, di capacità contributiva e di progressività, le entrate di diritto privato dello
Stato, che provengono dall’amministrazione del patrimonio, dalla stipulazione di negozi di diritto privato,
dalla gestione di imprese pubbliche o dal compimento di atti e fatti di rilievo privatistico.

Il diritto tributario rientra in una categoria di diritto cd. “speciale”, poiché, in tale ambito le prestazioni
ineriscono ad obbligazioni che sorgono direttamente dalla legge e si fondano su regole comuni o contratti
disciplinati in gran parte da leggi o atti dell’autorità.

2. La nozione di tributo e i suoi elementi fondamentali

La delineazione del concetto di prestazione tributaria è fondamentale, poiché, essa costituisce il limite
massimo della giurisdizione del giudice tributario. La nozione di tributo è molto vasta e a partire da essa si
vanno poi a specificare le varie branche e categorie che lo compongono. Nel nostro sistema legislativo non
esiste un’espressa definizione di “tributo”; tutte le entrate pubbliche che si fondano, nei confronti del soggetto
passivo, sull’elemento della coattività, rientrano nella categoria giuridica delle prestazioni patrimoniali
imposte e i tributi sono una “specie” di questo “genere”. I tributi in Italia sono disciplinati dalla Costituzione,
agli artt. 23, 53, 81 e 119 Cost. In dottrina vi è un accordo, nel senso che il tributo si configura come
prestazione patrimoniale coattiva caratterizzata dall’attitudine a determinare il concorso alle spese pubbliche,
in quanto collegata all’art. 53 Cost., che esprime un “indice” di capacità contributiva. Altri, invece, negano
tale concetto.

Uno degli elementi fondamentali per l’identificazione di un tributo è il collegamento di una prestazione
patrimoniale ad un fatto, in attuazione del concorso di tutti al finanziamento della spesa pubblica. Inoltre, è
importante sottolineare che il tributo deve rispettare il principio di capacità contributiva per essere legittimo
costituzionalmente. Giustizia, equità ed efficienza fiscale rappresentano concetti necessari da aggiungere al
carattere autoritativo, ormai non più sufficiente a fornire la giustificazione legale dell’obbligazione tributaria.

La Suprema Corte, ai fini della qualificazione o meno di un tributo, conferisce particolare rilievo alla
qualificazione formale da parte del legislatore. Di fatti, una tassa, si dice tale, quando tale qualificazione
viene assegnata espressamente dal legislatore ad una entrata pubblica. Nel caso in cui tale qualificazione
non risulti, si ritiene che il legislatore abbia optato per un modulo di copertura finanziaria dei costi pubblici
diverso.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La Corte Costituzionale, ai fini dell’individuazione della natura tributaria di una data prestazione, sostiene
che debbano sussistere alcuni criteri che, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che
disciplina queste entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di quest’ultima
alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante. La dottrina e la
giurisprudenza, non a caso, utilizzano diverse nozioni di tributo, funzionali a vari istituti.

La natura tributaria delle imposte si basa su tre diversi profili: la struttura (fonte legale
dell’obbligazione), la funzione (concorso alle spese pubbliche) e il regime giuridico della fattispecie
(disciplina tributaria e non privatistica del rapporto); criterio che assume rilievo solo in caso di inadeguatezza
del dato strutturale e di quello funzionale non essendo, di per sé, decisivo.

3. L’identificazione di imposte e tasse

L’imposta è un tributo contributivo che si fonda su un presupposto indipendente dall’attività dell’ente che ne
è il soggetto attivo/creditore, autonomo dai tipi di costi o delle spese e dai benefici dell’attività medesima e
non riferito a settori di attività o a categorie di persone. L’imposta, secondo tale concezione, trae fondamento
esclusivamente dal criterio di riparto delle spese pubbliche che la legge istitutiva individua come suo
presupposto. Lo scopo delle imposte è suddividere tra i contribuenti il carico finanziario delle attività
pubbliche.

La tassa, invece, è un tributo collegato direttamente all’erogazione/fruizione di determinate attività pubbliche


o servizi, resi dall’ente impositore alla collettività. La tassa si distingue da un semplice corrispettivo o “prezzo
pubblico”, poiché, si tratta di un tributo e quindi di una prestazione patrimoniale imposta, ove lo scambio
viene imposto dalla legge coattivamente. La tassa, a differenza dell’imposta, trova la sua giustificazione
nell’esigenza di far fronte alla spesa pubblica riferibile ad un certo soggetto che l’ha causata o che ne ha
tratto vantaggio, evitando di far gravare i corrispondenti oneri su tutta la collettività.

All’interno del sistema costituzionale, troverebbero collocazione anche dei tributi fondati su un criterio di
riparto non conforme a quello che corrisponde alla concezione tradizionale di capacità contributiva, bensì ci
si rifà ad principio di giustizia distributiva, secondo cui: il costo pubblico deve essere sopportato da chi ha
reso necessaria quell’attività ed ha occasionato la spesa connessa allo svolgimento di quell’attività.
Ragionando in modo diverso, tutti i tributi relativi a servizi divisibili non giustificati da una capacità economica
personale, dovrebbero essere considerati costituzionalmente illegittimi. La tassa è considerata come
“concetto mediano”, per definizione, incerto e disputato. A tal proposito, il legislatore si è mostrato più
propenso ad avvalersi di strumenti di prelievo “meno problematici” come le imposte.

In tale ottica, si è assistito al fenomeno della “mutazione” ove le entrate originariamente concepite come
tasse vengono gradualmente trasformate in imposte, ovvero, vengono “defiscalizzate”, cioè trasformate in
canoni, tariffe e prezzi pubblici. La denominazione delle varie entrate degli enti locali, sembra spesso
trascurare la loro esatta riconduzione alla specie di imposte o tasse, infatti, occorre, di volta in volta,
appuntare a quale categoria si ricollega il rapporto fra l’ente locale e il singolo.

4. Le imposte sostitutive

Con una norma derogatoria il legislatore può stabilire che alcune categorie di fatti siano sottratte
dall’applicazione di un’imposta e siano assoggettate ad altri regimi, talvolta più favorevoli. In questo modo si
determina una fattispecie sostitutiva o “regime fiscale sostitutivo”. L’imposta sostitutiva innova in ordine
alle fattispecie imponibili, sia unificando fattispecie altrimenti assoggettabili a diverse imposte, formando il
presupposto di un’unica imposta, sia elevando a fattispecie imponibile fatti che confluirebbero nel
presupposto di una diversa imposta periodica.

Questo tipo di imposta è riferibile a specifici soggetti o a determinate attività, considerate oggettivamente.
L’imposta sostitutiva adotta una nuova impostazione rispetto al normale regime fiscale, attraverso una norma
che può essere qualificata come “eccezionale” o “speciale”, ed in alcuni casi “agevolativa”. Inoltre, gli schemi
di imposizione sostitutiva devono necessariamente essere costituzionalmente legittimi; questi ultimi
integrano una modalità spesso agevolativa che consente di stabilire o ristabilire l’eguaglianza o la capacità
contributiva in relazione a situazioni particolari. L’imposta sostitutiva è un atto normativo derogante e deve
essere dotato di ragionevolezza. In questa categoria rientrano le imposte sostitutive dell’IRPEF (Imposta sul
Reddito delle Persone Fisiche).

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

5. I contributi

I contributi sono somme di denaro elargite da un soggetto (non in qualità di singolo ma come membro di
una collettività), detto contribuente, verso lo Stato o la P.A., per vedersi realizzata un’opera pubblica; questi
ultimi rientrano nella prestazioni patrimoniali imposte. Il contributo si differenzia dalla tassa, proprio perché il
vantaggio perviene al contribuente in qualità di membro di una collettività e non come singolo soggetto.
Dunque, mentre la tassa si ricollega ad una prestazione divisa ed individuata, il contributo è imposto a
seguito di un’attività amministrativa indivisa e in assenza di singole prestazioni.

Tra le principali tipologie di contributi, vi sono:

- Il contributo di miglioria: è quello più antico e prevede che i proprietari di terreni che beneficiavano
degli incrementi di valore della loro proprietà, dovuto alla realizzazione di un’opera pubblica, erano tenuti
a contribuire sostenendo il costo della stessa.

- Il contributo di costruzione (o urbanizzazione): è un contributo di non facile definizione, poiché,


caratterizzato da molto interrogativi a cui si è cercato di dare risposta con l’introduzione del nuovo Testo
Unico, attraverso il quale è stata evidenziata la natura mista di questo contributo, in virtù della possibilità
riconosciuta al titolare del permesso di costruire e realizzare in proprio le opere di urbanizzazione,
riuscendo in tal modo a detrarre i relativi oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione per i nuovi
edifici.

- Il contributo di bonifica: si tratta dell’obbligo di contribuire, annualmente, alle opere di bonifica e


risanamento eseguite dal Consorzio di Bonifica per i proprietari di immobili inclusi nel perimetro
consortile, con il conseguente potere di imposizione da parte del consorzio. Resta fermo, secondo quanto
sostenuto dalla Suprema Corte, che in questo caso si sta parlando di un “esborso” di natura pubblicistica
(tributaria), trattandosi di una forma di finanziamento di un servizio pubblico attraverso il trasferimento dei
relativi costi sull’area sociale che da questi ultimi ricava un beneficio.

- Il contributo previdenziale: andrebbe classificato nell’ambito dei tributi o meglio delle imposte; è una
prestazione patrimoniale obbligatoria ex lege, imposta agli individui in considerazione di finalità di
interesse generale. Si sta parlando di un versamento obbligatorio effettuato dal datore di lavoro nei
confronti dell’ente previdenziale (INPS: Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale), al fine di ottenere la
prestazione pensionistica.

6. Le tariffe e i canoni

La tariffa è il prezzo di un servizio fissato da un’autorità, un ente o dalle imprese pubbliche, insomma, indica
il criterio di quantificazione di una prestazione sia tributaria che corrispettiva. Nell’ambito delle tariffe vi è una
vicenda particolarmente complessa, quella della ricostruzione della natura giuridica della Tia (Tariffa Igiene
Ambientale), sostituita dall’attuale Tari (Tassa sui Rifiuti). La natura giuridica sostanziale delle prestazioni
patrimoniali come quelle locali non dovrebbe essere indirettamente individuata in sede processuale e
nonostante ciò la giurisprudenza, in mancanza di riferimenti normativi, si basa su tale individuazione indiretta
per valutare la natura tributaria di un’entrata locale.

Le Sezioni Unite della Cassazione, con un’ordinanza del 2009, hanno riaperto la questione sulla natura
giuridica della Tia; la Cassazione ha evidenziato alcune caratteristiche della tariffa che sono comuni alle
prestazioni giudicate non tributarie dalla Corte Costituzionale, ossia: il riferimento alla “copertura integrale
dei costi di investimento e di esercizio” che si trova sia nella disciplina della tariffa per il servizio idrico
integrato, sia in quella della Tia; l’assenza di norme che riguardano l’accertamento, le sanzioni e il
contenzioso; l’assoggettamento a Iva della Tia. Tutti questi elementi potrebbero escludere la natura tributaria
della tariffa. Il legislatore, allora, sostengono i giudici di legittimità, ha scelto per la “privatizzazione dei
servizi”. Con una sentenza del 2009 la Corte Costituzionale ha affermato, che le caratteristiche strutturali e
funzionali della Tia indicano che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo e che costituisce una
mera variante della Tarsu, conservando la qualifica di tributo, propria di quest’ultima.

L’interpretazione della Corte Costituzionale, però, non è del tutto convincente; considerando le
caratteristiche della Tia, emerge che la parte variabile è rapportata alla quantità di rifiuti conferiti, oltre che ai
servizi forniti. Su questo elemento che distingueva la Tia dalla Tarsu (Tassa sullo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani), la Corte non si è pronunciata, limitandosi a valutare la copertura dei servizi. Facendo
un’attenta analisi della doppia componente degli elementi di natura fiscale e privatistica, risulta che sarebbe
più corretto riconoscere la natura “mista” della Tia. In questa entrata comunale, infatti, possono essere
individuate due prestazioni patrimoniali scorporabili collegate alle quote di cui, solo la prima è obbligatoria e
ha natura tributaria.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Le Sezioni Unite della Cassazione, con una sentenza del 2010, hanno deciso di pronunciarsi in materia di
Tia e ne hanno confermato la natura tributaria, stabilendo anche alcuni principi importanti in materia, come
nel caso dell’intrasferibilità del potere di deliberare le tariffe Tia, anche per i casi ove vi siano situazioni di
emergenza; di fatti, le controversie in materia di Tia spettano alla Commissione Tributaria.

Per quanto concerne l’uso del termine “canone”, esso richiama l’antico e controverso istituto del canone
demaniale, ritornato attuale con riferimento all’occupazione di spazi e aree pubbliche, oltre che
all’installazione di mezzi pubblicitari. La giurisprudenza, in relazione alla natura di tali canoni, ha stabilito
che si tratta di corrispettivi dovuti a fronte del mero godimento di un bene da ricomprendere tra le prestazioni
patrimoniali non tributarie. La concessione del bene pubblico è una fattispecie complessa: al provvedimento
concessori si collega un vero e proprio rapporto contrattuale al quale si applica la normativa sui contratti. La
concessione-contratto è la fonte delle obbligazioni corrispettive e non il presupposto per l’applicazione del
prelievo. Un passo avanti verso la definizione di “canone” è stato compiuto dalla Corte Costituzionale con
due sentenze in materia di Cosap (canone per l’occupazione di spazi ed aree pubblici) e Cimp (canone
per l’installazione dei mezzi pubblicitari). Siccome non è semplice comprendere se il canone abbia o
meno una natura tributaria, bisognerebbe fare riferimento alla doverosità della prestazione, alla mancanza di
un rapporto sinallagmatico, al collegamento della prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un
presupposto economicamente rilevante. La Corte Costituzionale, con la sua sentenza, sostiene che il
Cosap non abbia natura tributaria, quindi, è illegittima l’attribuzione della competenza alle commissioni
tributarie. La Consulta, invece, sostiene che rientrano nella giurisdizione di tali commissioni le controversie
concernenti il Cimp (quest’ultimo ha natura tributaria). Il canone costituisce, seppure con un diverso nomen
iuris, un prelievo della stessa natura dell’imposta e presenta tutte le caratteristiche del tributo.

Un fondamentale passo in avanti per comprendere se il canone avesse o meno natura tributaria è stato
compiuto con alcune sentenze della Corte Costituzionale in merito alla natura del canone per lo scarico e
la depurazione delle acque reflue. La Corte si è trovata a decidere in merito alla legittimità costituzionale
di alcuni punti relativi alla legge sulle “disposizioni in materia di risorse idriche” e sulle “disposizioni in materia
ambientale”, dichiarando illegittimo il punto ove prevedeva che la quota di tariffa riferita al servizio di
depurazione è dovuta dagli utenti “anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di
depurazione o che questi siano temporaneamente inattivi”. La mancanza del nesso posto a fondamento
della Legge Galli, tra pagamento del canone (di natura non tributaria) e fruizione dei servizi, risultava in
aperta contraddizione con il principio della norma dichiarata illegittima che “impediva irragionevolmente
all’utente di tutelarsi da eventuali inadempimenti della controparte mediante gli ordinari strumenti civilistici
previsti per i contratti a prestazioni corrispettive.” Pertanto, la Corte Costituzionale con una sentenza del
2010, ha affermato che attribuire alla giurisdizione tributaria la cognizione di controversie relative a
prestazioni patrimoniali di natura non tributaria che si risolve nell’istituzione di un giudice speciale, è
incostituzionale poiché vietata dall’art. 102 Cost.

7. I tributi di scopo

La legge attuativa dell’art. 119 Cost. sul federalismo fiscale, con riguardo ai Comuni, estende la facoltà di
applicare il tributo di scopo, oltre che alla “realizzazione di opere pubbliche”, anche al “finanziamento degli
oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilità urbana”. Per quanto riguarda le Province,
questo costituisce una novità rispetto a quanto stabilito dall’art. 12, lett. e) che si riferisce “alla disciplina di
uno o più tributi propri provinciali che valorizzando l’autonomia tributaria attribuisca all’ente la facoltà di
stabilirli e applicarli in riferimento a particolari scopi istituzionali”.

L’imposta di scopo è stata istituita dalla legge n° 296/2006 (Finanziaria 2007). Ai sensi di tale legge, i
Comuni dal 1° Gennaio 2007 possono, con un apposito regolamento, istituire un’imposta di scopo
(all’interno del quale viene indicata l’opera da realizzare, l’ammontare della spesa, l’aliquota e le modalità di
versamento) destinata alla copertura; inoltre, vi è anche un decreto legislativo che prevede la possibilità
che il gettito dell’imposta finanzi l’intero ammontare della spesa per l’opera pubblica da realizzare. L’imposta
di scopo è stata confermata definitivamente con la Legge di Stabilità del 2014; essa è dovuta per un
periodo massimo di 10 anni ed è determinata applicando alla base imponibile dell’IMU (Imposta Municipale
Propria) un’aliquota fissa dello 0,5 x 1000. Nel caso in cui, entro due anni dalla data prevista del progetto
esecutivo, il Comune non realizza l’opera, i contribuenti possono chiedere il rimborso dei versamenti
effettuati. L’imposta di scopo si caratterizza per lo stretto collegamento esistente tra sacrificio richiesto e
conseguimento dell’obiettivo ad esso correlato. La “qualificazione” di imposta di scopo ha sollevato alcune
perplessità, poiché, quest’ultima, per definizione, ha caratteri di generalità ed indeterminatezza, in modo da
far affluire entrate indistinte ed indivisibili all’ente impositore, affinché possa poi spendere in base al proprio
bilancio. Insomma, essa avrebbe dovuto assumere la denominazione di “contributo”, anche se alcuni dubbi
relativi alla sua natura tributaria potrebbero derivare dalla possibilità di ripetere l’indebito in caso di mancata
realizzazione dell’opera. Il contributo di miglioria ha caratteristiche simili al tributo di scopo.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Osservando gli elementi qualificanti del tributo o imposta di scopo, facendo riferimento sempre alla
“Finanziaria del 2007”, si nota che per la disciplina di quest’ultima, si applicano le disposizioni vigenti in
materia di imposta comunale sugli immobili. L’istituzione dell’imposta può avvenire per svariate ragioni,
alcune delle quali sono: opere per il trasporto pubblico, opere di realizzazione di parcheggi pubblici, opere di
sistemazione di aree dedicate a parchi e giardini, ecc; Riguardo alla procedura di rimborso, è configurata
l’ipotesi in cui esso spetta di ufficio, non trovando applicazione quanto previsto in materia di rimborso Ici
(Imposta Comunale sugli Immobili). Per quanto concerne il collegamento all’Ici (oggi ci si riferisce all’IMU),
attualmente sono sorte alcune criticità, poiché, risulterebbe poco chiara la relazione tra soggetti tassati e
beneficiari dell’opera realizzata.

Un esempio tipico di imposta di scopo potrebbe essere quello della “tassa di ingresso” e della “tassa di
soggiorno”; sono imposte di carattere locale, applicate a carico di soggetti che fanno ingresso o soggiornano
in particolari località. Il prelievo risulterebbe volto ad apportare benefici indiscriminati, quali: “realizzazione di
opere pubbliche” e “finanziamento di oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilità
urbana”. Questo tipo di imposta può essere istituita con legge dello Stato e disciplinata nei particolari dai
singoli Comuni. Insomma, il tributo di scopo non si configura né come “tassa una tantum”, né come
“addizionale sull’IMU”;

8. I monopoli di Stato

Sul piano teorico generale, il modello monopolistico si articola in molteplici manifestazioni. Il monopolio di
stato è un istituto giuridico mediante il quale lo Stato riserva a se stesso la produzione e/o la vendita di
determinati beni o servizi, in modo che esso possa trarne una fonte di finanziamento, vietando ai terzi
l’esercizio di tale attività. Soltanto con le prime liberalizzazioni degli anni 80’, ad opera della
Commissione europea, si è assistito ad un progressivo abbattimento dei principali monopoli nazionali,
soprattutto nei servizi dei grandi servizi pubblici, come nel caso delle telecomunicazioni in primis, dei servizi
postali e così via. Di conseguenza, si è assistito ad una riduzione di costi e tariffe a carico degli utenti, oltre
che di un generale miglioramento del servizio offerto. Ad oggi, permangono solo il monopolio dei tabacchi
lavorati e delle sigarette, ed il monopolio fiscale del settore dei giochi e delle scommesse.

9. I dazi doganali, le accise e le tasse di effetto equivalente

I dazi doganali sono imposte che colpiscono le merci al momento del loro passaggio da uno Stato all’altro. Il
concetto di “tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale”, non è definito dal TFUE, ma è stato
delineato dalla giurisprudenza la quale afferma che essa rappresenti un onere pecuniario gravante sulle
merci nazionali o estere a causa del fatto che varcano una frontiera, se non un dazio doganale vero e
proprio. L’art. 28 del TFUE vieta l’applicazione di dazi doganali e tasse di effetto equivalente a tali dazi, a
prescindere dallo scopo per il quale sono stati istituiti, come pure la destinazione dei proventi che ne
derivano. La ratio risiede nella prassi, diffusa tra gli Stati membri, di eludere la norma con l’istituzione di
forme di prelievo interne occulte che abbiano la sua stessa funzione. L’art. 29 TFUE, consente agli Stati
membri di adottare misure ad effetto equivalente a restrizioni quantitative quando esse siano giustificate da
un interesse generale non economico.

Con riguardo ai tributi ambientali, un’ipotesi tipica di violazione del divieto di tassa di effetto equivalente
riguarda le imposizioni tributarie sulle merci che hanno un impatto ambientale al momento o per il fatto di
transitare i confini nazionali; un esempio è costituito dal trasporto dei rifiuti, ove, esclusi quelli riciclabili, gli
altri non hanno valore economico e quindi non sarebbero da considerare merci in senso stretto. Tuttavia, la
Corte di Giustizia ha attribuito a tali prodotti la qualifica di “merce”, rendendoli soggetti al divieto.

Con una sentenza del 2007, la Corte di Giustizia UE, ha riconosciuto definitivamente l’incompatibilità con il
diritto comunitario della cd. “tassa tubo” della Regione Sicilia, istituita nel marzo del 2002. Tale legge
prevedeva il pagamento di un tributo da parte dei proprietari di gasdotti ricadenti nel territorio regionale ed
esercenti attività di trasporto, distribuzione, vendita o acquisto di gas metano, proponendosi di “ridurre e
prevenire il potenziale danno ambientale derivante dalle condotte”. Insomma, i proventi erano destinati al
finanziamento di investimenti diretti alla salvaguardia, alla tutela e al miglioramento della qualità
dell’ambiente. Questo tributo, però, produceva un effetto equivalente a quello di un dazio doganale, dato che
finiva per colpire una merce solo in ragione del suo passaggio su un determinato territorio, con conseguente
violazione dei principi generali di libertà di transito delle merci nell’area comunitaria, ex artt. 28 e 29 TFUE.
Di fatti, lo scopo di un tributo non può fungere da criterio giustificativo relativo alla violazione di un principio
comunitario e a tal proposito, la Corte di Giustizia ha dichiarato illegittimo il tributo in esame.

Le accise, infine, sono tributi indiretti particolari applicati sulla produzione o sul consumo di particolari beni
come olii minerali, alcool, bevande, tabacchi, energia elettrica e gas metano.

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CAPITOLO IV : LA NORMA TRIBUTARIA

LA STRUTTURA DELLA NORMA TRIBUTARIA (PARTE I)

1. L’obbligazione tributaria

La funzione della norma tributaria è principalmente quella di procurare il finanziamento delle spese pubbliche
(è proprio questo che la rende diversa rispetto alle altre prestazioni patrimoniali). L’obbligazione tributaria
corrisponde alla specificazione, in capo al contribuente, attraverso il verificarsi del presupposto, del dovere di
contribuzione, ex art. 53 Cost., correlato al potere di imposizione. Il rapporto di imposta è la relazione
soggettiva che esprime: l’obbligo del soggetto passivo di corrispondere l’imposta che deriva dal presupposto
e il diritto dell’ente impositore di riscuoterla. La norma tributaria utilizza uno schema di carattere obbligatorio
modellato su quello dell’obbligazione di diritto civile; l’obbligazione tributaria, però, a differenza di quella
civile, è di fonte legale; di fatti, in questo schema obbligatorio non è rilevante la volontà dei soggetti coinvolti.
L’obbligazione tributaria, però, presenta aspetti procedimentali altamente derogatori rispetto alla disciplina
civilistica del rapporto obbligatorio. L’Amministrazione Finanziaria, in una concezione moderna di rapporto
di imposta, può esprimere il potere amministrativo attraverso una diversa modalità di azione in cui il privato
assume un ruolo nuovo, intervenendo nella formazione e nell’esercizio del potere. L’A.F., quindi, ha la facoltà
di realizzare l’interesse pubblico primario utilizzando uno strumento consensuale che le permette di
raggiungere il suo scopo nel modo più efficiente, coinvolgendo il privato salvaguardando, allo stesso tempo,
il suo interesse.

2. Il presupposto o fattispecie

Il presupposto o fattispecie dell’imposta consiste in atti, fatti e situazioni previsti dalla legge che
rappresentano indici di capacità contributiva; esso si differenzia dall’oggetto che è costituito dalla ricchezza
che un determinato tributo vuole colpire. Il presupposto dell’imposta rivela la capacità contributiva del
soggetto, ossia, la sua possibilità economica di contribuire alla spesa pubblica.

Il presupposto/fattispecie tributaria comprende molte e diverse situazioni o fatti. La fattispecie si distingue in:

- Fattispecie oggettiva: riguarda le operazioni, atti o fatti posti in essere;


- Fattispecie soggettiva: riguarda lo status o la qualifica di un soggetto e la sua potenzialità produttiva di
ricchezza.

Vi è un’ulteriore distinzione che dovrà disciplinare in termini generali e astratti i fatti economici idonei a
consentire nelle varie modalità una più equa ripartizione delle spese pubbliche e garantire una corretta
rappresentazione di quel fatto, regolamentando procedure idonee alla concreta attuazione della norma
tributaria:

- La fattispecie tributaria statica: comprende la descrizione del fatto o di una situazione espressione di
capacità contributiva a rilevanza tributaria, la fissazione dei criteri di stima di tale fatto, l’individuazione del
soggetto passivo e la determinazione della misura del tributo.
- La fattispecie tributaria dinamica: assicura la corretta e concreta rappresentazione del fatto nella sua
evoluzione, anche temporale.

Nel diritto tributario, a differenza del diritto comune, si procede innanzitutto alla fissazione delle fattispecie
oggettive e poi a quelle soggettive. Mentre in ambito privatistico il contenuto e la misura della fattispecie
dovuta vengono generalmente determinati fra debitore e creditore con un accordo bilaterale di volontà, nel
rapporto obbligatorio di imposta, invece, il contenuto e la misura della prestazione sono previsti dalla legge.

In dottrina si opera una classificazione tra:

- Fattispecie sostitutiva: si ha nel momento in cui il legislatore stabilisce che alcune categorie di fatti
siano sottratte al regime impositivo ad esse astrattamente applicabile e siano sottoposte ad altro speciale
regime.
- Fattispecie equiparate: si hanno nei casi in cui il legislatore prevede che siano sottoposti ad imposizione
anche casi diversi dal presupposto tipico di un certo tributo; ciò affinché determinati fatti economici non
sfuggano alla tassazione.
- Fattispecie surrogatorie o supplementari: sono quelle fattispecie imponibili che il legislatore aggiunge
a quella tipiche, al fine di evitare che il contribuente possa far uso dello strumento racchiuso nella
fattispecie supplementare a fini elusivi.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

3. La determinazione del presupposto

L’art. 53 Cost., non contiene un elenco degli indici di capacità contributiva ma richiede soltanto l’esistenza di
un effettivo collegamento del presupposto di imposta con fatti e situazioni espressivi di potenzialità
economica. Quanto ai criteri di definizione del presupposto, il legislatore dovrà avvalersi di nozioni già
elaborate da altre discipline giuridiche. Il diritto tributario si qualifica come “qualificante”, poiché, adegua ai
propri principi la fattispecie normativa appartenente ad altri rami del diritto.

Dalla configurazione del presupposto dipende la classificazione delle imposte in:

- Dirette: colpiscono il possesso di un reddito o la titolarità di un patrimonio, pertanto, il presupposto di


imposta risulta espressione immediata e diretta della capacità contributiva.

- Indirette: sono rappresentate da tutte le ipotesi in cui la capacità contributiva è desumibile soltanto da
presupposti manifestati in via indiretta o indiziaria.

In base alla manifestazione temporale del presupposto, le imposte si distinguono in:

- Periodiche: sono caratterizzate da un presupposto che si prolunga nel tempo. In tale ipotesi la legge
pone una delimitazione convenzionale della durata del presupposto, individuando distinti “periodi di
imposta” (che generalmente corrispondono all’anno solare o alla durata dell’esercizio sociale per le
società).

- Istantanee: sono contraddistinte da un presupposto che non si protrae nel tempo.


La legge di imposta deve collegare il presupposto di un tributo al territorio di uno Stato (gli elementi di
collegamento possono essere vari: residenza, sede legale, luogo in cui il contratto è stato stipulato, ecc.).

4. Delimitazione del presupposto: agevolazioni, esenzioni ed esclusioni

Sono considerate “agevolazioni fiscali”: l’esenzione e l’esclusione. La categoria generale di


dell’agevolazione fiscale si riferisce a forme di attenuazione o di eliminazione della tassazione o a
semplificazioni formali di attuazione dell’imposta; l’esenzione e l’esclusione, invece, sono caratterizzate
dalla “non tassazione”. In particolare, si determina una esenzione fiscale quando una norma di natura
“speciale” sottrae all’imposizione situazioni e soggetti che, altrimenti, ricadrebbero nell’ambito della
previsione della norma impositiva. In pratica, ad una norma impositiva generale si contrappone una norma
particolare di esenzione, che esclude l’applicazione del tributo a situazione comprese nella fattispecie della
norma generale.

Tuttavia, l’esenzione va tenuta distinta dalla “detrazione” che consente al contribuente di sottrarre oneri,
costi e spese dalla base imponibile e quindi si riflette unicamente sul quantum della prestazione tributaria.
L’esenzione va anche distinta dallo “sgravio di imposta” che si differenzia dalle altre agevolazioni fiscali in
quanto non discente direttamente dalla legge bensì da provvedimenti emessi dall’A.F. nell’esercizio di un
potere conferitole dall’ordinamento giuridico che incide sugli atti impositivi in seguito a sentenza o
annullamento di atto impositivo.

Le “mere esclusioni di imposta” si riferiscono a situazioni estranee alla norma impositiva o per l’assenza di
elementi fondamentali, o perchè il presupposto è già colpito da altro tributo che ha funzioni sostitutive di
quello dal quale è concessa l’esenzione. La fattispecie agevolativa si pone in deroga al presupposto ma
concorre con altre norme per individuare la disciplina impositiva di una norma tributaria nel rispetto del
principio di capacità contributiva e del divieto comunitario degli aiuti di Stato.

Generalmente si può fare una distinzione tra:

- Agevolazioni per concessione: di cui è possibile godere solo in virtù di un apposito preventivo
provvedimento amministrativo esonerativo.
- Agevolazioni ex lege: che operano automaticamente solo per il verificarsi della situazione agevolata.
- Agevolazioni operanti sempre ex lege: che richiedono precisi oneri procedimentali.

Vi sono anche agevolazioni istantanee e pluriennali che esplicano efficacia in più periodi idi imposta. Per
individuare in modo corretto la portata e la sfera di applicazione della disposizione agevolativa, occorre
risalire alla ratio cui essa è preordinata. Tuttavia, vi sono ulteriori distinzioni quali ad es. quella tra
presupposto generatore del diritto all’esenzione e presupposto impositivo.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Nelle imposte periodiche, come l’IRPEF, questi presupposti differiscono con la conseguenza che per
individuare la disciplina agevolativa applicabile bisogna riferisci al momento in cui si perfeziona il
presupposto che va a generare il diritto all’esenzione.

Per quanto concerne i profili ricostruttivi delle fattispecie agevolative esse trovano il loro presupposto formale
indispensabile nel rispetto dell’art. 23 Cost.; in merito al vincolo sostanziale alle scelte agevolative vanno
considerati i principi di capacità contributiva e di eguaglianza unitamente. Le norme agevolative, così come
quelle impositive, considerano i fatti o gli atti che costituiscono indice della minore idoneità alla
contribuzione del soggetto che realizza l’atto o a cui è riconducibile il fatto.

Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale si potrà lamentare la delimitazione delle fattispecie
agevolate rispetto a quelle escluse dal rispettivo ambito di applicazione ed il termine di comparazione è
individuabile nella stessa norma di agevolazione in quanto se ne pone in discussione la validità della
delimitazione della sfera applicativa. I valori alla base delle norme agevolative comportano da un lato
l’apertura verso il potenziamento del valore promozionale o extrafiscale con conseguente estensione della
portata della norma agevolativa, dall’altro il rischio che un’utilizzazione indebita della fattispecie agevolativa,
da parte di chi non possiede i requisiti previsti dalle norme, possa portare a possibili elusioni o evasioni di
imposta.

La Corte Costituzionale ha contrastato la potenzialità espansiva delle fattispecie agevolative in grado di


portare ad una estensione del valore promozionale a fattispecie originariamente non previste dalla legge,
evidenziando che le disposizioni che contengono benefici tributari di qualsiasi genere hanno carattere
derogatorio e costituiscono il frutto di scelte che spettano esclusivamente al legislatore che ha il compito di
scegliere non solo in ordine all’an (se) ed al quantum, ma ad ogni altra modalità utile alla determinazione di
tali agevolazioni. La Corte ha poi proceduto ad una valorizzazione estrema dei canoni della ragionevolezza
e della proporzionalità e ha evidenziato che il carattere straordinario della congiuntura economica e
finanziaria può consentire l’adozione di disposizioni volte a sopprimere norme di agevolazione fiscale
preesistenti.

Una particolare attenzione merita l’esame della problematica dell’interpretazione delle norme di
agevolazione. La giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, spesso non ha ritenuto ammissibile
l’interpretazione analogica ma quella estensiva. Secondo quest'orientamento restrittivo, le norme agevolative
rappresentano una deroga rispetto ad un principio generale, non consentono però il ricorso al criterio
ermeneuti estensivo o analogico. Ciò ha trovato conferma in materia di beneficio dell’aliquota ridotta
dell’imposta di registro, prevista per l’acquisto della “prima casa”, in cui la giurisprudenza evidenzia che nel
caso di specie, trattandosi di una norma eccezionale, essa è da ritenere di stretta interpretazione.

5. La base imponibile

La base imponibile costituisce l’elemento o la grandezza economica a cui si applica l’aliquota per
determinare l’ammontare del tributo; la sua entità va espressa in termini quantitativi e solitamente si fa
riferimento al valore monetario. La base imponibile deve essere necessariamente coerente con il
presupposto di cui è misura, pena l’illegittimità costituzionale della norma. Ad indicare quali sono gli elementi
che compongono la base imponibile è la legge.

Nelle imposte di maggiore rilievo, la base imponibile presenta una struttura composita in quanto è la
risultante tra un insieme di elementi positivi e negativi: è sempre la legge a qualificare gli elementi attivi e
passivi e i rispettivi criteri di tassabili e deducibilità. Il complesso di enunciati che compone la base imponibile
riunisce caratteri definiti, rigorosi e precisi che devono essere stabiliti chiaramente dal legislatore, oltre ad
essere considerati con serietà da chi applica la norma tributaria. Lo scopo dei diversi sistemi contabili è
quello di fornire una rappresentazione fedele e veritiera di una data situazione patrimoniale per determinate
categorie di reddito (lavoro autonomo e di impresa); la loro manipolazione in vista della determinazione e
misurazione dell’imponibile e del carico fiscale finale, non dovrà mai essere espressione di arbitrio.

La legge fa salva la non imponibilità del minimo vitale attraverso l’esclusione di tali fonti dalla base imponibile
e da ciò discende l’illegittimità di esenzioni puramente simboliche che determinano la tassazione di risorse
personali non superiori a tale soglia minima.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

6. L’aliquota

L’aliquota è la percentuale che si applica alla base imponibile ai fini di determinare l’importo o l’ammontare
dell’imposta. L’importo è la somma che il contribuente deve pagare.

L’imposta può essere:

- Proporzionale: quando la sua aliquota è costante, ossia, l’importo dell’imposta varia nella stessa
proporzione della base imponibile.
- Progressiva: quando l’aliquota aumenta con l’aumentare della base imponibile in maniera più che
proporzionale.
- Regressiva: quando l’aliquota diminuisce con l’aumentare della base imponibile
- Progressiva: colpisce maggiormente i redditi elevati, tendendo ad attenuare la concentrazione della
ricchezza e a ridurre la distanza tra i redditi maggiori e quelli minori attuando una politica di distribuzione
dei redditi.

L’eccessiva progressività può ostacolare l’attività di impresa o impedire la formazione del risparmio qualora
l’imposta viene a gravare, con un’aliquota molto elevata, sulle ultime unità di reddito, ossia, quelle che
sarebbero state destinate agli investimento. In tali casi il prelievo può diventare confiscatorio. Il sistema
tributaria italiano, secondo l’art. 53 Cost., è basato su criteri di progressività che si riferisce non a singoli
tributi ma al sistema tributario nel suo complesso.

La progressività si può realizzare in vari modi e può essere:

- Continua: l’aliquota, secondo una determinata formula matematica, aumenta in misura continua con
l’aumentare della base imponibile, raggiunto il massimo essa rimane costante.
- Per classi: l’aliquota varia a scatti, nel passaggio da una classe all’altra; rimane invece costante per tutto
il reddito compreso entro una stessa classe. Questo metodo penalizza i redditi che superano di poco il
limite della classe inferiore.
- Per scaglioni (è il metodo più usato): la base imponibile viene suddivisa in tanti scaglioni a ognuno dei
quali corrisponde una diversa aliquota. L’aliquota superiore non viene applicata a tutta la base imponibile,
ma soltanto a quella parte che eccede lo scaglione inferiore.
- Per deduzione: l’aliquota è costante come se l’imposta fosse proporzionale, ma la base imponibile si
calcola al netto di una somma prestabilita che è esente. L’ammontare di tale deduzione è fisso e la
progressività è garantita non da una diversa aliquota, ma dalla diversa incidenza della deduzione.

Il principio di progressività “deve informare l’intero sistema tributario” ed è legittimo che le Regioni,
nell’esercizio del loro potere autonomo di imposizione, improntino il prelievo a criteri di progressività in
funzione delle politiche economiche e fiscali da esse perseguite.

INTERPRETAZIONE ED ELUSIONE DELLA NORMA TRIBUTARIA (PARTE II)

1. L’interpretazione estensiva, restrittiva e letterale della norma tributaria

L’interpretazione è un’attività conoscitiva che giunge alla determinazione del significato della norma
giuridica. Il significato letterale esprime i valori che nel loro insieme formano la ratio e che sono recepiti
attraverso l’emanazione di altri giudizi. L’art. 12, comma 1, disp. prel. c.c., sancisce che “nell’applicare la
legge non si può attribuire ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”.

Il primo elemento su cui si basa l’operazione interpretativa è il dato letterale. Nell’interpretazione della
legge il significato tecnico prevale su quello corrente. Inoltre, il rapporto tra la norma tributaria e gli istituti
giuridici di altri settori è particolarmente delicato; se la norma tributaria non li definisce diversamente dal
settore di origine, si applica la nozione vigente in questo settore. Considerando che l’ordinamento non è fatto
a compartimenti stagni, l’appartenenza di un dato fenomeno giuridico alla teoria generale dovrebbe indicare
che esso si propone con caratteristiche costanti, indipendentemente dal settore di appartenenza sia esso
pubblico che privato. L’unitarietà dell’ordinamento giuridico, confermata da un procedimento di ricezione
e scambio fra settori a volte ritenuti incompatibili, è considerata “destinata a tradursi nella generale validità e
nella conseguente applicabilità di principi e categorie a questo o a quel settore tutte le volte in cui i principi e
le categorie rilevino caratteristiche comuni”.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Con l’interpretazione estensiva, invece, si estende la portata della norma fino ad un significato più ampio
con essa compatibile, sempre avendo come punto di riferimento la ratio della norma stessa.
L’interpretazione restrittiva consiste nel procedimento opposto.

Se la legge non fornisce all’interprete la disciplina specifica, si hanno delle lacune e problemi di integrazione.
La natura interpretativa del procedimento analogico, volto a colmare le lacune legislative, sottolinea
l’affinità con l’interpretazione estensiva. Tuttavia, quest’ultima si verifica nel caso in cui la norma astratta dal
procedimento conoscitivo presenti un’ampiezza maggiore del significato letterale. L’interpretazione è
analogica quando una situazione di fatto non espressamente prevista dalla legge, manifesta elementi non
comuni a quella prevista che siano irrilevanti nei confronti della ratio. Da tutto ciò emerge l’infondatezza del
divieto dell’analogia fondato sulla riserva della legge, in quanto l’analogia recepisce esclusivamente
manifestazioni della ratio legislativa e non innova rispetto ad essa. Il principio di capacità contributiva non
è violato dall’interpretazione analogica in quanto quest’ultima provoca l’estensione della natura di
fattispecie tributaria a tutte le situazioni affini a quelle previste che risultano indici di capacità contributiva.

L’applicazione per analogia non viola neppure il principio di eguaglianza, poichè consente di
disciplinare in modo eguale situazioni affini e non diseguali. Il divieto di applicazione analogica di alcune
leggi tributarie (come quelle sanzionatorie, penali e di esecuzione) è motivato dall’intento di evitare
l’estensione di una efficacia particolarmente delicata che andrebbe a minare l’unità del sistema e trova il suo
fondamento costituzionale nell’art. 23 Cost.

2. L’interpretazione autentica

L’interpretazione autentica può assumere connotati di particolare complessità in materia tributaria. Il


legislatore, attribuendo un significato innovativo ad una legge tributaria precedente, incide con effetto
retroattivo su situazioni verificatesi nel periodo intercorrente tra norma interpretata e legge interpretativa e su
rapporti giuridici in corso, consentendo di attrarre o di recuperare a tassazione fatti e comportamenti già
posti in essere e creando questioni di legittimità costituzionale. In tal modo, si delinea il problema della
tutela dei diritti fondamentali e del legittimo affidamento del contribuente.

Le leggi di interpretazione autentica si caratterizzano per la loro funzione di provvedere a fissare come
vincolante uno dei tanti significati già attribuibili alla medesima allo scopo di ristabilire la certezza del diritto.
La norma interpretativa, in quanto non innovativa rispetto alla legge interpretata e non modificativa,
determina l’estensione obbligata del significato di essa anche al periodo intercorrente tra le due leggi.
Questa funziona rende l’interpretazione autentica lo strumento maggiormente utilizzato per introdurre, in
modo ingannevole, nuove disposizioni operanti per il passato.

Per stabilire se una legge è effettivamente interpretativa, bisogna esaminare contenuto e struttura, anche
attraverso lavori preparatori, indipendentemente dalla forma apparente. Interpretativa è solo la legge che
impone il significato ad un’altra, senza intaccarlo o integrarlo nella sua essenza originaria, ma
semplicemente illuminandolo.

La legge di interpretazione presenta elementi di affinità con la norma retroattiva, ma non può sostenersi
che entrambe abbiano un effetto di novità. Ciò che contraddistingue la “vera norma retroattiva” (illegittima)
è la sua estraneità alla funzione di imporre il reale significato alla legge interpretata, sin dal momento della
sua entrata in vigore.

La legge dichiaratamente interpretativa, la cui finalità sia quella di eliminare incertezze e contraddizioni
relative alla legge interpretata, se introduce regole che operano nel passato apparentemente nei limiti
conoscitivi, può assumere i connotati di una legge veramente retroattiva avente la caratteristica
dell’autonomia rispetto alla norma interpretata, ma ciò non pregiudica l’esistenza di norme realmente
interpretative, seppure eccezionali. Un ricorso eccessivo a tale tecnica legislativa in materia tributaria, può
produrre effetti lesivi nei riguardi delle garanzie a favore dei contribuenti. Proprio in questo contesto si
inserisce l’art. 1, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente secondo cui le norme interpretative in
materia tributaria, possono essere adottate soltanto in casi eccezionali e qualificando come tali le
disposizioni di interpretazione autentica.

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3. Elusione fiscale e abuso del diritto

Spesso il legislatore, in materia tributaria, legifera considerando una casistica più ristretta rispetto a quella in
cui effettivamente la norma si presta ad essere applicata; ciò comporta incoerenze e vuoti normativi di cui il
contribuente può avvantaggiarsi. L’elusione fiscale si distingue dall’evasione, in quanto essa si verifica non
attraverso una violazione diretta della norma tributaria bensì consiste in un comportamento attraverso il
quale si evita il verificarsi del presupposto previsto dal legislatore, cui la legge ricollega la nascita
dell’obbligazione tributaria o se ne pone in essere uno diverso per minimizzare il carico fiscale ed ottenere
un vantaggio che, attraverso artifici, può collegare tra loro operazione prive di valide ragioni economiche ed
abusando delle forme giuridiche consentite dal diritto. Questa nozione si ricava dall’abrogato art. 37-bis
d.p.r. n° 600/1973, comma 1, abrogato di recente dall’art. 10-bis della legge n° 212/2000. Tale nozione ha
rappresentato una norma di riferimento utile ad identificare il concetto di elusione.

Per distinguere l’elusione fiscale dal risparmio di imposta occorre fare una distinzione tra:

- Risparmio d’imposta patologico: è elusivo. Il contribuente ritorce a proprio favore incompletezze o


difetti, in modo da ottenere risultati che (pur formalmente legittimi) ripugnano al sistema nel suo
complesso;
- Risparmio d’imposta fisiologico: non necessita di essere giustificato con vere o presunte “valide
ragioni economiche” in cui il contribuente si limita ad “usare” la legislazione vigente.

Insito nel concetto di elusione fiscale vi è quello di “abuso”; quest’ultimo è commesso da colui che intende
aggirare le leggi tributarie senza violarle, approfittando delle distorsioni o incoerenze di tali leggi, e costruisce
i fatti nel modo a lui più conveniente per ottenere un vantaggio indebito. Tuttavia, anche se attraverso il
raggiro sembra che si agisca apparentemente “secondo legge”, la norma tributaria è comunque elusa e ciò
costituisce un “abuso del diritto”. L’abuso del diritto è un concetto di matrice giurisprudenziale (inteso
come clausola generale non scritta o regola di rango comunitario) e comunitaria; l’abuso contemplato in
ambito comunitario in materia di Iva, si configura in presenza di operazioni volte al perseguimento del
vantaggio fiscale, la cui concessione appare contraria alla ratio della direttiva Iva e della disposizione
nazionale che la traspone o ad uno o più obiettivi della stessa.

Secondo il diritto comunitario, l’abuso è comunque un principio giurisprudenziale applicabile d’ufficio in


ogni stato e grado, a prescindere da specifiche deduzioni o istanze, operante nei singoli sistemi fiscali
nazionali privi di una clausola antielusiva generale, comprendendo anche fattispecie elusive non previste
espressamente dal legislatore. Questa formulazione, nel nostro ordinamento, è stata considerata come
riconducibile ad un principio generale applicabile anche al settore delle imposte dirette, attraverso parte della
giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione e ulteriori chiarimenti forniti da alcune sentenze del
2008 che hanno riconosciuto un fondamento costituzionale a tale principio ed hanno sganciato dai principi
giurisprudenziali comunitari l’abuso del diritto in materia di imposte dirette, basandolo sugli artt. 53 e 23
Cost. Tutto ciò ha rappresentato un passaggio significativo della giurisprudenza verso l’indipendenza delle
valutazioni della Corte di Giustizia in materia di Iva.

Per poter comprendere la portata e l’impatto di questi interventi giurisprudenziali sul nostro sistema fiscale, è
necessario precisare che una funzione fondamentale del diritto tributario è rappresentata dalla
prevenzione dei comportamenti elusivi determinati da alcune leggi tributarie di per sé suscettibili di
aggiramento. Insomma, per evitare l’elusione si può procedere attraverso:

- Miglioramenti legislativi o perfezionamenti e correzioni che eliminano le distorsioni.


- Maggiore discrezionalità da parte dell’A.F. e della giurisprudenza che possono disconoscere i vantaggi
fiscali realizzati attraverso comportamenti elusivi, sacrificando il garantismo connesso al rispetto delle
norme, qualora vengano posti in essere comportamenti al fine esclusivo di ottenere un indebito vantaggio
eludendo una norma tributaria.

Nel nostro ordinamento, gli Uffici non effettuano valutazioni politiche ed economiche tra interessi ed
esigenze contrastanti, ma si sono sempre limitati ad applicare le norme antielusive e a verificare, spesso
sulla base di presunzioni legali, se esistono i requisiti normativi. Ciò rende difficile la verifica delle valide
ragioni economiche delle operazioni o degli atti posti in essere o del perseguimento di interessi fiscali. La
dottrina italiana ritiene che un’ampia discrezionalità dell’A.F. si scontra con il concetto di certezza del diritto.
In realtà, la certezza delle regole applicabili si trova non solo nelle norme scritte, ma anche nella
preparazione e sensibilità di chi deve applicarle e nel rispetto di principi generali come ragionevolezza e
proporzionalità.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Facendo un’attenta analisi si nota che la nozione di abuso del diritto elaborata inizialmente dal diritto
comunitario, anche se consente di superare la tassatività delle fattispecie elusive, non appare molto diversa
da quella di elusione fiscale. La Corte di Giustizia UE si è dimostrata rigorosa nello stabilire cosa debba
essere considerato “abuso” in materia tributaria e in quali casi e settori tale principio opera. Per quanto
concerne i limiti imposti dalle libertà fondamentali comunitarie, queste possono essere limitate per
prevenire fenomeni di elusione e di evasione se ciò è funzionale e proporzionale a tale obiettivo, altrimenti il
diverso trattamento fiscale diviene discriminatorio. Dunque, lo Stato membro deve limitarsi a dettare le
prescrizioni necessarie per evitare comportamenti in violazione del regime comune senza operare eccessive
restrizioni ai diritti accordati ai singoli dal legislatore comunitario. In conformità a queste indicazioni è stato
individuato un limite fondamentale dalla nostra giurisprudenza nella libera iniziativa economica in
sede di applicazione della regola anti-abuso e in tale occasione è stato riconosciuto che appare
necessaria una grande tutela nella verifica dell’esistenza di una pratica abusiva da parte dell’A.F., avendo
ben presente che l’impiego di forme contrattuali che consentono un minor carico fiscale costituisce esercizio
della libertà di impresa e di iniziativa economica nel quadro delle garanzie riconosciute dalla Costituzione e
dall’ordinamento comunitario.

Il legislatore, con il d.lgs. 5 Agosto 2015, n° 128, ha tentato di unificare abuso del diritto ed elusione
fiscale in un unico concetto che ha una valenza generale, con riguardo a tutti i tributi. Questa riforma ha il
merito di evitare che il disconoscimento dei vantaggi tributari venga a collegarsi ad un giudizio di valore
dell’A.F. del tutto sprovvisto di copertura legislativa, con conseguente lesione dell’affidamento del
contribuente, al quale risulterebbe molto difficile organizzare la propria attività economica, non potendo
contare su un assetto normativo noto “ab origine”. I presupposti per l’esistenza dell’abuso, alla luce della
nuova regolamentazione normativa, sono: l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; la
realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; la circostanza che il vantaggio fiscale costituisca l’effetto
essenziale dell’operatore. Invece, non si considerano abusive le operazioni giustificate da “valide ragioni
extra-fiscali non marginali” anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di
miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale del contribuente. L’art. 10-bis
della legge 212/2000, in sostituzione dell’art. 37-bis del d.p.r. 600/1973, si riferisce al rapporto fra abuso e
clausole specifiche anti-elusione, precisando che “l’abuso del diritto può essere configurato solo se i
vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni
tributarie”. La norma, stabilendo la sanzionabilità amministrativa (e non penale) dell’abuso, crea problemi
riguardanti il coordinamento tra elusione, evasione ed abuso ed inevitabilmente comprime la portata di tale
principio che per sua natura, risulta clausola generale di origine giurisprudenziale ed in quanto tale
difficilmente codificabile.

Nel procedimento di accertamento dell’abuso del diritto, l’onere della prova della condotta abusiva grava
sull’A.F., mentre il contribuente è tenuto a dimostrare la sussistenza delle valide ragioni extra-fiscali che
stanno alla base delle operazioni effettuate. Sono previste specifiche regole procedimentali volte a garantire
un contraddittorio con l’A.F. e il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario;
tuttavia, sono evidenti le difficoltà che derivano dalla necessità da parte dell’Ufficio di verificare la reale
volontà degli operatori economici e probatorie previste in fase procedimentale tributaria dal nostro
ordinamento. Quando l’Agenzia delle Entrate accerta la condotta abusiva, le operazioni elusive effettuate
dal contribuente diventano inefficaci ai fini tributari e non sono ottenibili i relativi vantaggi fiscali. Dalla più
significativa prassi amministrativa, emerge che il disconoscimento del comportamento elusivo implicherebbe
non solo il recupero a tassazione dei vantaggi tributari direttamente conseguenti all’operazione, ma anche la
ridefinizione dell’operazione. L’inefficacia e l’inopponibilità non vanno confuse con la nullità del contratto
essendone l’effetto limitato ai soli profili fiscali della fattispecie.

4. La disciplina comune degli interpelli

L’interpello consente al contribuente di azionare un procedimento per ottenere il parere interpretativo da


parte dell’A.F. sull’applicabilità di alcune norme tributarie a specifiche operazioni che intende effettuare e
sulla loro potenziale portata elusiva. In tal modo si garantisce la tutela dell’affidamento e il diritto del
contribuente di conoscere le conseguenze fiscali e gli effetti giuridici delle proprie azioni.

Nel nostro ordinamento ci sono diverse forme di interpello. L’interpello previsto dallo Statuto del
Contribuente, recentemente modificato, fissa una disciplina comune ed ha portata generalissima ed
efficacia più marcata rispetto alle altre forme di interpello. Questa norma, oltre a rappresentare una forma di
prevenzione dell’accertamento e del del contenzioso, svolge l’importante funzione di determinare, attraverso
chiarimenti interpretativi, orientamenti uniformi volti ad evitare ingiustificate disparità di trattamento tra i
contribuenti anche nell’adozione di specifici regimi fiscali.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La dottrina, sulla base di un precedente assetto normativo, ha operato una suddivisione delle istanze di
interpello in considerazione delle finalità e degli effetti delle istanze stesse. Si distingueva fra:

• Interpello consultivo (o ordinario): esso, ex art. 11 legge n° 212/2000, ha una diversa estensione
dell’ambito applicativo. Il contribuente potrà proporre tale interpello non soltanto (secondo la disciplina
vigente prima della riforma del 2015) nell’ipotesi di condizioni di obiettiva incertezza, tali da inficiare la
corretta interpretazione della norma tributaria (il cd. Interpello ordinario interpretativo) ma anche
nell’ipotesi in cui l’incertezza si riferisce alla qualificazione delle fattispecie, dando vita ad un interpello
ordinario qualificatorio che non ha ad oggetto la norma tributaria in sé considerata, ma la qualificazione
della particolare fattispecie concretamente evidenziata, con esclusione di quanto espressamente
disciplinato dalla legge.

• Interpello probatorio: si caratterizza per il fatto che il parere dell’Agenzia delle Entrate incide sulla
distribuzione dell’onere probatorio fra le parti.

• Interpello “disapplicativo” (riguarda generalmente le norme antielusive): autorizza l’accesso ad un


regime diverso da quello ordinario.

Si tende a valorizzare l’unitarietà dell’interpello in termini di atto che, pur in considerazione dei diversi profili
funzionali, resta di indirizzo e orientamento del comportamento dei destinatari. L’obbligatorietà di alcune
tipologie di interpello, volte al monitoraggio preventivo su fattispecie evidentemente pericolose da punto di
vista elusivo, si pone solo sul piano della presentazione dell’istanza e non su quello degli effetti vincolanti
della risposta. Sotto un’altro profilo, si ritiene conforme alla ratio propria dell’istituto, l’applicabilità del
principio peculiare del processo tributario della cd. “tutela differita”, riconoscendo la possibilità di
impugnazione del “dissenso espresso” solo congiuntamente agli atti che ne costituiscono applicazione. Per
quanto concerne gli “interpelli obbligatori”, la risposta all’interpello non dovrebbe assumere i caratteri di
provvedimento amministrativo assimilabile ad una autorizzazione o ad un diniego di agevolazione, e poi non
risulta impugnabile ex lege. Non può sussistere assimilazione tra interpelli ed atti di esercizio di funzioni
impositive.

Proprio in vista del potenziamento e della razionalizzazione dell’istituto dell’interpello, il decreto legislativo
attuativo della legge 11 marzo 2014, n° 23, modifica l’art. 11 della legge n° 212/2000, accorpando in
un’unica disciplina dal 1° Gennaio 2016, le cinque categorie di interpello:

• Ordinario: finalizzato alla richiesta di un chiarimento su aspetti normativi.


• Qualificatorio: a mezzo del quale il contribuente potrà ottenere il parere dell’A.F. in merito
all’inquadramento di specifiche fattispecie.

• Probatorio: finalizzato a ottenere l’accesso a regimi fiscali speciali.


• Anti-abuso: volto a dare attuazione alla nuova disciplina sull’abuso del diritto;
• Disapplicativo: per rimuovere l’operatività di specifiche norme tributarie introdotte in ottica antielusiva.
È prevista anche la possibilità di fare istanze di interpello da parte dei contribuenti, anche non residenti, dei
sostituiti di imposta e dei responsabili di imposta. L’attuale disciplina è solo per certi versi differenziata
rispetto al passato. Per gli “interpelli ordinari” si prevede una riduzione dei tempi di risposta da 120 giorni a
90 giorni per gli “interpelli qualificatori”, mentre per tutte le altre tipologie di interpello la risposta deve
essere fornita entro 120 giorni. Resta disciplinata la regola comune del silenzio-assenso, in base alla
quale, nel caso in cui la risposta non pervenga entro il termine previsto, diventa valida la soluzione
prospettata dal contribuente. La risposta all’interpello, scritta e motivata, vincola l’A.F. con esclusivo
riferimento alla questione trattata e limitatamente al richiedente.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO V : I SOGGETTI DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA E LA SOLIDARIETÁ

I SOGGETTI DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA E IL CONCETTO DI SOGGETTIVITÁ


(PARTE I)

1. La soggettività tributaria

La soggettività tributaria fa riferimento ai soggetti coinvolti nel rapporto giuridico d’imposta titolari di singole
situazioni giuridiche soggettive. A tal proposito, occorre distinguere:

- Soggetti attivi (creditori): hanno il potere impositivo.


- Soggetti passivi (debitori): sono tenuti all’adempimento degli obblighi formali e, al verificarsi del
presupposto richiesto dalla legge, al pagamento delle imposte, dovendo essi concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Nel nostro ordinamento da tempo si dibatte sulla possibilità di attribuire la soggettività di imposta,
attraverso il riconoscimento di un centro di imputazione di indici di capacità contributiva, a entità che non
hanno la capacità di diritto privato, ossia, che non possono essere considerati come soggetti autonomi in
un qualunque rapporto di diritto privato e sull’esistenza o meno di una coincidenza tra capacità giuridica
del diritto privato e capacità o soggettività giuridica tributaria.

2. I soggetti passivi e la soggettività degli enti senza personalità giuridica

L’obbligazione tributaria sorge in capo a tutti i soggetti che pongono in essere il presupposto previsto dalla
norma. Il soggetto passivo, persona fisica, per eccellenza è il “contribuente”; egli è tenuto
all’adempimento dell’obbligazione tributaria e quindi a contribuire, ex art. 53 Cost., alle spese pubbliche.
Tuttavia, non sempre vi è coincidenza tra colui che versa l’imposta e colui che pone in essere il presupposto,
ciò si verifica in particolare nell’imposizione indiretta.

Oltre alle persone fisiche e agli enti collettivi dotati di personalità giuridica, possono essere titolari di
soggettività tributaria anche i soggetti non dotati di capacità giuridica. Ai sensi dell’art. 73, comma 2,
del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) “sono soggetti passivi ai fini IRES (Imposta sul Reddito
delle Società), le persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni non
appartenenti ad altri soggetti passivi, nei cui confronti il presupposto d’imposta si verifica in modo unitario ed
autonomo”. Da questa definizione si possono ricavare alcuni elementi fondamentali ai fini
dell’individuazione della soggettività tributaria, come l’attitudine alla titolarità di situazioni giuridiche
soggettive quali: la non appartenenza ad altro soggetto; l’ autonomia; il modo inteso come unitarietà e
indipendenza in cui il presupposto si manifesta nei confronti di tali organizzazioni. Tali elementi consentono
di superare la teoria formalistica secondo cui la soggettività e quindi la capacità giuridica spetterebbe
solamente alle persone fisiche o giuridiche, con la conseguenza che agli enti non personificati spetterebbe
un’autonomia patrimoniale. In questo modo, titolari dei diritti e degli obblighi risulterebbero non l’ente ma le
persone fisiche che ne fanno parte. Inoltre, gli enti giuridici possono distinguersi in persone giuridiche ed
enti non personificati, ma solo le prime sarebbero dotate di capacità giuridica potendo assumere tutte le
posizioni giuridiche connesse ai loro interessi. Invece, i secondi, disporrebbero di una capacità giuridica
ridotta, che non impegna tutte le posizioni giuridiche connesse ai loro possibili interessi.

In diritto tributario, però, il concetto di capacità giuridica assume una rilevanza diversa ed un ambito di
applicazione che non coincide con la capacità giuridica di diritto privato, ma che si fonda sulla possibilità di
manifestare autonomamente capacità contributiva. Insomma, la soggettività tributaria non coincide con la
capacità giuridica di diritto privato, comprendendo anche enti privi di rilevanza soggettività in diritto civile.
Secondo una disposizione del TUID (Testo Unico delle leggi sulle Imposte Dirette) del 1958: “i soggetti
passivi del rapporto tributario sono le persone fisiche e giuridiche, le società e le associazioni”. Il diritto
tributario riconosce anche altri centri autonomi di imputazione di effetti giuridici patrimoniali, si tratta
dei cd. Soggetti non personificati: le società di persone, le comunioni a scopo di godimento, le società
irregolari, le società di comodo e le società di fatto (considerate soggetti di diritto in quanto titolari di un
patrimonio formato con i beni conferiti dai soci).

In tali casi ciò che rileva ai fini fiscali per poter individuare un soggetto passivo tributario è un complesso
organizzativo di persone e/o cose in grado di rispondere ai fini del prelievo con un patrimonio distinto da
quello delle persone fisiche che lo compongono e che l’obbligazione tributaria sia ad esso imputabile
autonomamente.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

3. Alcune fattispecie peculiari: le società controllate ed i gruppi di società, le stabili


organizzazioni, il fallito

a) Le società controllate ed i gruppi di società

L’art. 4, comma 1, lett. a) della legge 7 aprile 2003 n°80, ha introdotto, in materia di imposte dirette, la
tassazione consolidata di gruppo (di società), prevedendo un’unica dichiarazione dei redditi (presentata
dalla società controllante) fondata su un’unica base imponibile, compensando i risultati positivi e negativi
delle singole società componenti.

La disciplina del “consolidato nazionale”, è stata inserita negli art. da 117 a 129 del nuovo TUIR e prevede
la determinazione in capo alla controllante, su opzione facoltative dei singoli soggetti, di un’unica base
imponibile relativa alle società che aderiscono alla tassazione “di gruppo”. La norma, oltre ad individuare una
specifica e autonoma soggettività passiva della controllante, sembrerebbe mantenere inalterata, almeno
inizialmente, la soggettività passiva anche delle singole società controllate del gruppo. Inoltre, è lo stesso
art. 127, comma 2, a prevedere che “ciascuna società controllata risponde per le maggiori imposte
accertate in relazione al proprio reddito complessivo, oltre che per le relative penalità”. Alcune norme del
TUIR prevedono anche una serie di obblighi per le società controllate e per quella controllante ai fini della
determinazione della tassazione consolidata di gruppo e il dovere di collaborare con la società controllante
per l’adempimento degli obblighi tributari che le competono nei confronti dell’A.F. anche successivamente al
periodo di validità dell’opzione. La società controllante non potrà rivalersi nei confronti delle controllate nel
caso in cui “ometta di trasmettere loro una copia degli atti e dei provvedimento entro il ventesimo giorno
successivo alla notifica ricevuta anche in qualità di domiciliario”. Da tali norme si deduce che per effetto
dell’opzione per la tassazione consolidata del gruppo, le società controllate non perdono la propria
soggettività tributaria e rimangono sempre autonomamente assoggettabili ad attività di accertamento,
nonostante sia prevista l’elezione di domicilio da parte di ognuna di esse presso la società controllante.

Anche ai fini Iva, la disciplina di gruppo non comporta il superamento della soggettività tributaria delle
società controllate e controllanti che conservano la loro autonomia e indipendenza. L’intera disciplina si basa
sul presupposto che ognuno dei soggetti rientranti nel gruppo mantenga la propria autonomia sul piano
giuridico e della responsabilità patrimoniale. Tuttavia, nonostante alcune volte risulta difficile individuare il
centro autonomo di imputazione delle situazioni del gruppo di imprese, non si può ritenere che il legislatore
abbia provveduto alla creazione di un nuovo soggetto passivo dell’imposta sulle società, nei cui confronti il
presupposto si verifica in modo autonomo ed unitario, in quanto si è attribuito al capogruppo il diritto di far
confluire, in un unico supporto dichiarativo, i redditi e le perdite che in difetto di opzione, ciascuna controllata
sarebbe stata costretta a dichiarare autonomamente.

Tale fattispecie è stata modificata attraverso un intervento legislativo, avente per oggetto “la rettifica delle
dichiarazioni dei soggetti aderenti al consolidato nazionale”. Tale norma fa riferimento “all’unico atto” con il
quale si determina “la conseguente maggiore imposta accertata riferita al reddito complessivo globale e
sono irrogate le sanzioni correlate”. Insomma, ne consegue che è prevista la partecipazione contemporanea
sia della consolidante, sia della consolidata, che produce effetti positivi in termini di efficienza e tempestività
dell’azione della P.A. e di adeguate tutele del contribuente.

b) Le stabili organizzazioni

La stabile organizzazione assume rilevanza, nel diritto tributario internazionale, sia ai fini della
distribuzione del potere impositivo tra Stati nelle Convenzioni Bilaterali, ex art. 7 del Modello di
Convenzione contro le Doppie Imposizioni OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico), che ai fini delle modalità di tassazione delle società non residenti. Si è sempre dibattuto sulla
possibilità di riconoscere alla stabile organizzazione di una società non residente soggettività tributaria.

L’art. 162 TUIR fornisce una definizione specifica di stabile organizzazione che coincide con quella
prevista in sede OCSE, qualificandola come: “una sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa non
residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato”.

Si è poi chiarito anche che la stabile organizzazione si considera, ai fini della determinazione reddituale,
entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività, in condizioni identiche o similari,
tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati. La nozione di “stabile
organizzazione” è molto ampia e richiede due elementi fondamentali: un’istallazione fissa in senso
tecnico (locali, materiali, attrezzature) e l’esercizio di attività da parte dell’impresa per mezzo di tale
installazione.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La Corte di Cassazione ha precisato che si deve trattare di un’organizzazione stabile, in modo tale da poter
essere utilizzata in modo durevole e non occasionale; inoltre, l’organizzazione deve essere strumentale ad
un’attività che l’ente straniero svolge abitualmente in Italia. Le stabili organizzazioni devono poi essere di per
sé produttive di reddito o dotate di autonomia gestionale e funzionale.

Per installazione fissa si fa riferimento alla presenza di:

• Una sede di direzione;


• Una succursale;
• Un ufficio;
• Un’officina:
• Un laboratorio;
• Una miniera, un pozzo di petrolio o di gas, una cava o ogni altro luogo di estrazione o sfruttamento di
risorse naturali;
• Una significativa e continuativa presenza economica sul territorio dello Stato costruita in modo tale da
non far risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso;

L’autonomia tributaria della stabile organizzazione e la sua soggettività anche in materia di Iva trova
immediata conferma in un d.p.r. n° 633/1972, laddove si precisa che: “per soggetto passivo nel territorio
dello Stato si intende un soggetto domiciliato o ivi residente che non abbia stabilito domicilio all’estero
ovvero una stabile organizzazione in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero…”.

La giurisprudenza comunitaria ha sancito la consacrazione di alcune stabili organizzazioni quali centri di


imputazione soggettiva della tassazione societaria in ambito UE. Inoltre, siccome le stabili organizzazioni
manifestano la stessa potenzialità economica delle società residenti di uno Stato, per tale ragione anche loro
devono ottenere gli stessi vantaggi fiscali concessi a queste ultime. Secondo la Corte di Cassazione, la
stabile organizzazione costituisce un autonomo centro d’imputazione di rapporti tributari riferibili ad un
soggetto non residente, abilitato all’effettuazione degli adempimenti correlativamente prescritti dalla legge e
ad essa va riconosciuta soggettività fiscale di diritto interno in relazione ai rapporti inerenti al soggetto non
residente in materia di Iva e per le imposte dirette.

c) Il fallito

Fino all’entrata in vigore del TUIR, il riconoscimento della soggettività tributaria autonoma del fallimento o del
fallito è stato oggetto di accesi dibattiti. Infatti, è stato proprio il TUIR, all’art. 183, a prevedere la soggettività
dell’imprenditore fallito o dei soci coinvolti nel fallimento, lasciando a questi ultimi obblighi formali tributari
che non sono esclusi dalla legge o espressamente attributi al curatore fallimentare. Aperto il fallimento il
debitore perde il possesso e la disponibilità del suo patrimonio e, secondo la legge fallimentare, si verifica
la dissociazione tra proprietà e potere di amministrazione giuridica e materiale del patrimonio. Tuttavia, il
fallito non perde la titolarità dei rapporti giuridici patrimoniali e neanche la soggettività di imposta, in pratica,
il soggetto passivo d’imposta sarà sempre il fallito e non la curatela fallimentare.

Particolare è proprio la posizione del curatore fallimentare, che per lungo tempo è stato considerato come
non in grado di rappresentare il fallito e pertanto non qualificato come un “sostituto” o un “responsabile delle
obbligazioni facenti capo al fallito”. La situazione è stata chiarita definitivamente con l’emanazione del d.l. n°
223/2006, art. 37, che ha attribuito al curatore la qualifica di sostituto d’imposta. Ciò nonostante, questo
riconoscimento non è stato sufficiente e si continuava a pensare che il Curatore non avesse la soggettività
tributaria, perchè la sostituzione di imposta non ha nulla a che vedere con l’agire nella sfera giuridica altrui,
piuttosto consiste in una deviazione rispetto al normale meccanismo di riscossione del tributo per garantire
un’efficace adempimento.

L’avviso di accertamento emesso dall’A.F. avente ad oggetto crediti i cui presupposti si siano verificati
antecedentemente alla dichiarazione di fallimento o nel periodo in cui detta dichiarazione doveva essere
presentata, deve essere notificato a pena di nullità, non solo al curatore ma anche al contribuente fallito.
Quest’ultimo deve essere posto nella condizione di esercitare il diritto alla tutela giurisdizionale e alla difesa
garantito dalla Costituzione, visto che in quanto soggetto passivo d’imposta, egli resta (anche se dichiarato
fallito) esposto alle conseguenze patrimoniali e sanzionatorie scaturenti dalla definitività della pretesa
tributaria.

Sebbene resti invariata la soggettività tributaria in capo al fallito, che conserva la legittimazione passiva, in
ordine alla materia della riscossione, sarà il liquidatore ad essere chiamato agli adempimenti in luogo
dell’imprenditore.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

4. Il trust

Il trust è una figura giuridica di origine anglosassone, regolamentato dalla Convenzione dell’Aja, del 1°
Luglio 1985, ratificata con la legge n° 363/1989, in vigore dal 1° Gennaio del 1992. Il trust è l’accordo (di
durata limitata nel tempo) con il quale uno o più soggetti (cd. settlors) trasferiscono, con atto tra vivi o mortis
causa, la proprietà di beni mobili o immobili ad un altro soggetto (cd. trustee) con l’obbligo a carico di
quest’ultimo di amministrarli e, allo scadere dell’accordo o a scadenze periodiche, di trasferire a terzi (cd.
beneficiaries) i redditi derivanti dalla gestione del trust, nonché il patrimonio originariamente trasferito. Con
il trust si verifica la perdita da parte del settlor del diritto di proprietà sui beni trasferiti al trustee;
tuttavia, egli può riservarsi la facoltà di influire sulla gestione dei beni trasferiti mediante le cd. Letter of
Wishes (lettere dei desideri), in cui sono espresse le sue preferenze in merito alla gestione dei beni trasferiti
al trust. Tali istruzioni, però, non sono vincolanti per il trustee, il quale potrà disattenderle qualora ritenga che
un interesse degno di tutela vi si opponga. Nelle sue vesti di proprietario il trustee potrà anche disporre dei
beni, oltre che amministrarli, ma dovrà comunque attenersi a quanto prescritto nel negozio di trust ed evitare
di compiere atti vietati o comunque pregiudizievoli all’interesse dei beneficiari e, in ogni caso, deve
comportarsi come un prudente uomo d’affari.

In base alle finalità da perseguire, il trust si può distinguere in:

- Trust con beneficiario: quando i beni in trust vengono gestiti nell’interesse di un determinato
beneficiario.

- Trust di scopo: quando non ci sono beneficiari ed il trust è strumentale al perseguimento di un


determinato fine.

Considerando la mancanza di un’espressa normativa tributaria, inizialmente il trust si riteneva come


soggetto passivo ai fini delle imposte dirette, riconducendo tale figura alle “altre organizzazioni non
appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo
autonomo ed unitario”. La Finanziaria del 2007, per la prima volta, ha introdotto nell’ordinamento tributario
nazionale delle disposizioni in materia di trust. Il comma 74, dell’art. 1 della Finanziaria ha espressamente
incluso il trust tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società. Con tale disposizione il Legislatore
Italiano ha riconosciuto al trust autonoma soggettività tributaria, rilevante ai fini dell’imposta sul reddito delle
società, degli enti commerciali e non commerciali.

L’art. 73 del d.p.r. n° 917/1989, individua due principali tipologie di trust:

- Trust trasparenti: con beneficiari di reddito individuati, i cui redditi vengono imputati per trasparenza ai
beneficiari.

- Trust opachi: senza beneficiari di reddito individuati, i cui redditi vengono direttamente attribuiti al trust
medesimo.

Il trust può essere, allo stesso tempo, sia opaco che trasparente. Essendo il trust un soggetto passivo, sarà
fisicamente autonomo e tenuto a presentare le dichiarazioni dei redditi nei modi e nei tempi stabiliti per i
soggetti IRES. Secondo l’Agenzia delle Entrate, nei casi in cui il periodo di imposta di un trust trasparente
non coincida con l’anno solare, il reddito da questo conseguito è imputato ai beneficiari individuati alla data
di chiusura del periodo di gestione del trust stesso. Infine, il Trust è tenuto ad adempiere gli obblighi formali
e sostanziali relativi all’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) e sarà il trustee che avrà l’onere di
assolvere a tutti gli adempimenti tributari introdotti. Tra i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture
contabili sono stati previsti sia i trust che hanno per oggetto principale o esclusiva l’esercizio di attività
commerciali, sia quelli che non ce l’hanno. Anche i trust che esercitano attività commerciale in forma non
esclusiva sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili ed è evidente che l’equiparazione dei trust voluta
dal nostro legislatore agli altri soggetti passivi IRES, elimina qualsiasi dubbio sulla soggettività di tale
particolare figura giuridica.

5. I soggetti attivi e le loro competenze

I soggetti attivi del rapporto tributario sono coloro che hanno il potere di applicare e pretendere la
riscossione del tributo, diventando in questo modo creditori dell’obbligazione. Questo potere/dovere deve
essere esercitato nel rispetto della legge e nella misura corrispondente alla capacità contributiva effettiva
manifestata dal presupposto. I soggetti attivi dell’attività finanziaria prendono il nome di “enti impositori”,
poichè dotati di potere impositivo e sono titolari del diritto alla prestazione tributaria, quindi dei poteri diretti
alla concreta realizzazione del credito, anche se necessario e coattivamente. Ai soggetti attivi competono i
poteri di accertamento, controllo e riscossione delle imposte.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

A tale attività si aggiunge quella sanzionatoria o punitiva che consiste nella possibilità degli uffici tributari di
irrogare sanzioni di carattere non penale. Ad assumere particolare rilevanza è l’attività di indirizzo svolta
dall'Amministrazione Centrale nei confronti degli Uffici Periferici al fine di assicurare efficienza, imparzialità
e buon andamento del loro operato. I soggetti attivi cui spetta il potere impositivo sono: lo Stato-
Amministrazione, che opera attraverso uffici centrali e periferici e gli Enti Territoriali Minori (Regioni,
Province, Comuni). È importante sottolineare che non sempre il soggetto attivo che applica il tributo coincide
con quello che lo accerta e lo riscuote.

Talvolta l’ente impositore affida ai terzi le operazioni riguardanti la riscossione dei tributi e
l’esecuzione forzata sui beni del debitore in caso di inadempienze. Al soggetto terzo, il cd. esattore o
concessionario, che ha piena autonomia e legittimazione processuale, non competerà il potere di
imposizioni e non diventerà titolare del diritto di credito. Tale funzione è stata svolta dall’Agente delle
Riscossione (Equitalia) in ciascun ambito geografico stabilito, fino all’entrata in vigore dell’Agenzia Entrate
e Riscossione nel 2016. L’attività di accertamento viene svolta anche dall’ente locale che può ancora
servirsi del concessionario per la sola riscossione, per il recupero del dovuto e per demandare ad apposite
società che si occupino dell’accertamento e della successiva fase di riscossione.

6. Il potere impositivo e la discrezionalità dei soggetti attivi

La legge attribuisce all’A.F. la funzione di imposizione dei tributi e consiste nel potere di provvedere alla
determinazione del tributo dovuto dal contribuente, salvaguardando l’interesse alla giusta distribuzione degli
oneri tributari tra tutti i contribuenti. La funzione impositiva è un’attività amministrativa che ha lo scopo di
soddisfare il fine del prelevamento tributario che consiste nella ripartizione di carichi secondo criteri fissati
dalla legge; a tal proposito sarebbe più corretto parlare di funzione vincolata di ripartizione piuttosto che di
imposizione. L’ente impositore è titolare di una funzione pubblica, per cui è evidente la natura
tendenzialmente svincolata delle singole azioni svolte. L’obbligazione tributaria, in quanto ex lege, sorge
quando si verifica il presupposte al quale la norma si ricollega ed è solo la legge tributaria a poter disporre
diversamente, sempre nel rispetto dei limiti costituzionali, come quello della capacità contributiva, ex art. 53
Cost., stabilendo esenzioni totali o parziali a favore di coloro che is trovano in una determinata condizione.
L’avviso di accertamento, essendo esplicativo della potestà impositiva dell’A.F., è un atto tributario
sostanziale.

La discrezionalità dell’A.F., che si manifesta spesso attraverso la concessione della sospensione dell’atto
impositivo, la rateizzazione o l’individuazione delle categorie di contribuenti da assoggettare a controllo, non
può andare oltre gli spazi consentiti dalla legge. Tuttavia, la discrezionalità degli enti impositori è limitata
ed è basata su alcuni principi fondamentali come quello dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e sui
principi di collaborazione, affidamento e buona fede. Se l’esercizio dei poteri eccede i limiti imposti dalla
norma, esso può implicare responsabilità amministrativo-contabili in capo al funzionario, sussistendone i
presupposti.

Il concetto di indisponibilità si estrinseca nell’asserzione secondo cui il debito di imposta ha il suo


fondamento giuridico nella legge e il rapporto di imposta appartiene alla sfera amministrativa regolata dal
diritto pubblico. Se la legge pone le norme materiali che disciplinano l’obbligazione di imposta,
l’individuazione amministrativa della norma generale e astratta avviene attraverso l’indicazione dei
presupposti. Una caratteristica principale del procedimento impositivo è l’autoritatività del
provvedimento. Nella determinazione della base imponibile si deve tener conto di svariati fatti fiscalmente
rilevanti e il compito dell’Amministrazione è quello di determinare autoritariamente le imposte ed imponibili
sulla base delle relative acquisizione e questo a prescindere dal comportamento del contribuente che può
condizionare l’esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione. Il potere impositivo è espressione
tipica del pubblico potere ed è disciplinato dalla legge; esso trova le sue origini nella Costituzione, in
particolare nella riserva di legge e nell’osservanza dei principi nazionali ed europei.

7. L’Amministrazione Finanziaria: il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia


delle Entrate

L’Amministrazione Finanziaria si divide tra Uffici Centrali e Uffici Periferici ed è stata completamente
riformata a seguito delle leggi n° 59/1997 e n° 300/1999 (Riforma dell’organizzazione del Governo) e dei
due d.m. del 2000 e del 2001.

La Riforma ha portato alla creazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha sostituito e
accorpato i Dicasteri dell’Economia e delle Finanze, del Tesoro, del Bilancio e Programmazione
Economica, che ora ha competenza in materia di politica economica e finanziaria, bilancio e fisco.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Il Nuovo Ministero ha compiti di indirizzo politico e di controllo, mentre i compiti operativi sono attribuiti alle
Agenzie Fiscali, come: l’Agenzia delle Entrate, delle Dogane, del Territorio e del Demanio; tutti questi
sono enti con personalità giuridica di diritto pubblico. L’esercizio delle funzioni di riscossione è stato
attribuito all’Agenzia Entrate-Riscossione, che provvede a monitorare costantemente l’attività svolta da tale
nuovo soggetto secondo i canoni di trasparenza e pubblicità. Le Agenzie sono state istituite a seguito della
Riforma del 1999 e sono operative dal 1° Gennaio del 2001; esse sono dotate di autonomia
regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria.

- L’Agenzia delle Entrate è competete in materia di: imposte dirette, sul valore aggiunto, e tutti gli altri
tributi gestiti e di competenza del dipartimento dell’Entrate del Ministero, ed opera in assoluta
responsabilità gestionale ed operativa. Il rapporto tra l’Agenzia delle Entrate con il Ministero
dell’Economia e delle Finanze è regolato da una Convenzione triennale, con la quale vengono stabiliti
gli obiettivi qualitativi e quantitativi che l’Agenzia deve conseguire, le modalità di verifica dei risultati di
gestione, le risorse finanziarie da attribuire e i risultati attesi in un arco di tempo prestabilito. L’Agenzia
deve garantire il massimo livello di adempimento degli obblighi tributari e semplificare i rapporti con i
contribuenti anche attraverso il miglioramento della qualità dei servizi di assistenza e informazione. Le
funzioni dell’Agenzia, oltre l’assistenza e l’informazione ai contribuenti, sono: accertamento,
amministrazione e riscossione dei tributi, contrasto all’evasione fiscale, interpretazione delle norme
attraverso l’emissione di circolari e gestione del contenzioso tributario.

L’Agenzia è organizzata a livello:

• Centrale: vi sono 7 Direzioni (Accertamento; Affari legali e contenzioso; Normativa; Servizi ai


contribuenti; Personale; Amministrazione, Pianificazione e controllo; Audit e Sicurezza) e 3 Uffici di staff
(Ufficio del Direttore dell’Agenzia; Ufficio Studi; Settore Comunicazione). I compiti delle strutture
centrali sono di programmazione, indirizzo e coordinamento verso le strutture decentralizzate presenti
nel territorio nazionale: Direzioni Regionali e Uffici Periferici. Le Direzioni regionali hanno sede nei
19 capoluoghi di regione, ad eccezione del Trentino Alto Adige e dei 2 capoluoghi delle province
autonome di Trento e Bolzano. Tali direzioni svolgono attività di: programmazione, indirizzo e
coordinamento e controllo nei riguardi delle strutture periferiche. Esse svolgono attività di particolare
rilevanza in materia di: gestione, accertamento, riscossione dei tributi e hanno competenza in materia di
contenzioso tributario, soprattuto verso i cd. Grandi Contribuenti (es. alcune società in base al
fatturato).

• Uffici Periferici: svolgono le funzioni operative e sono composti da 111 Direzioni Provinciali, 7 Centri
di assistenza multicanale, 2 Centri operativi e vari Centri satellite.

• Direzioni Provinciali: con la Legge Finanziaria del 2008, si è consentito all’Agenzia di individuare, con
il proprio regolamento di amministrazione, gli uffici competenti a svolgere le attività di controllo e
accertamento.

L’Agenzia volendo ampliare, per ragioni di funzionalità, il raggio di competenza degli uffici operativi ha
previsto l’istituzione di nuove strutture, di livello provinciale, nella cui circoscrizione territoriale fa confluire
quelle di tutti gli uffici di quell’area. Le Direzioni Provinciali sono articolate in: Ufficio Controlli (suddiviso in
un’area di accertamento e un’area) e uno o più Uffici Territoriali, che si occupano di quelle tipologie di
controllo a maggiore diffusione sul territorio (comunicazioni di irregolarità; controllo formale delle
dichiarazioni dei redditi, accertamenti in materia di imposte e registro; ecc.). Gli Uffici Territoriali con
riguardo all’erogazione dei servizi ai contribuenti, svolgono attività di front office attraverso sportelli
decentrati: registrazione atti pubblici e privati, informazione fiscale, tutoraggio, assistenza alla compilazione
e trasmissione delle dichiarazioni fiscali, rilascio del codice fiscale e partita Iva, denunce di successione, ecc.

Per quanto concerne la funzione impositiva, deve ritenersi che la potestà amministrativa di imposizione,
debba attribuirsi all’Agenzia delle Entrate, competente a svolgere, in luogo della precedente struttura
ministeriale, l’intera sequenza delle attività riguardanti l’attuazione delle prestazioni impositive, partendo
dalla fare istruttoria fino a quella contenziosa. Il Ministero, rimane estraneo alla gestione del rapporto, pur
essendo titolare dell’obbligazione di imposta e del relativo credito, come dimostrato dal fatto che le entrate
tributarie risultano contabilmente impuntate al Ministero dell’Economia e delle Finanze e da questo
impegnate sul piano della spesa pubblica, per sostenere le finalità perseguite dallo Stato.

Questo riparto di funzioni e competenze tra gli organi dell’A.F. è coerente con il senso complessivo della
Riforma del 1999, con la quale si voleva garantire l’agilità e la fluidità dell’azione di accertamento,
realizzabile attraverso la devoluzione dei poteri ad un soggetto specializzato, operante direttamente sul
territorio e in autonomia rispetto al Ministero.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

- L’Agenzia delle Dogane, divisa in Compartimenti Doganali, ha competenze riguardo


all’amministrazione, alla riscossione e al contenzioso tributario dei tributi doganale, delle accise sulla
produzione e sui consumi e delle controversie connesse agli scambi internazionali.

- L’Agenzia del Territorio, esercita compiti relativi ai servizi catastali e alle Conservatorie dei registri
immobiliari. Svolge compiti di determinazione estimativa di beni immobili e tali risultati possono essere
utilizzati dall’Agenzia delle Entrate per modificare i valori di alcuni tributi, in particolare in merito
all’accertamento e la modifica del valore dichiarato ai fini della determinazione dell’imposta di registro.

- L’Agenzia del Demanio, infine, è l’unica a non avere funzioni di natura tributaria, si occupa
dell’amministrazione e della manutenzione degli immobili di proprietà dello Stato. Tale panoramica non
può tralasciare le novità contenute nel d.lgs. del 2015, insieme ad altri quattro testi, in un pacchetto
contenente ampi profili d’interesse in materia tributaria. Il decreto prevede il riassetto dei servizi di
assistenza, consulenza e controllo per facilitare gli adempimenti tributari, contribuire ad accrescere la
competitività delle imprese italiane e favorire l’attrattività degli investimenti in Italia.

L’obiettivo perseguito è quello di rendere i controlli meno invasivi tramite la riorganizzazione delle agenzie
che deve garantire un approccio collaborativo tra amministrazione fiscale, imprese e cittadini. La loro attività
deve essere ispirata al principio del “controllo amministrativo unico” in modo da evitare duplicazioni e
sovrapposizioni e ridurre il disagio per l’attività dell’impresa. Nell’operazione di riorganizzazione delle
agenzie, è prevista una riduzione dell’organico dirigenziale con la riattivazione delle procedure concorsuali.

8. Le Regioni e gli enti locali

L’Ordinamento delle Autonomie Tributarie del 1990 ha rappresentato il primo riconoscimento


dell’autonomia tributaria degli enti locali e della loro soggettività tributaria; con quest’ordinamento il
legislatore non solo ha assicurato a tali enti una potestà impositiva autonoma nel campo delle imposte, delle
tasse e delle tariffe, ma ha anche previsto il conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente.
A ciò ha fatto seguito “l’istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni,
delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzioni di una addizionale regionale a tale imposta, nonché
riordino della disciplina dei tributi locali”, che ribadita la facoltà per i Comuni e le Province di “disciplinare con
regolamento le proprie entrate, anche tributarie” (ovviamente nei limiti entro cui poteva essere esercitata tale
potestà); in aggiunta era previsto il limite rappresentato “dall’individuazione e definizione delle fattispecie
imponibili, dei soggetti passivi e dell’aliquota massima dei singoli tributi” che dovranno venire per legge dello
Stato”. Tale norma rappresentava la volontà del legislatore di costruire equilibri istituzionali improntati ad una
maggiore e crescente autonomia in favore degli enti pubblici territoriali.

Una particolare rilevanza in materia ha avuto la Riforma del Titolo V della Costituzione (legge n° 3/2001),
con cui gli enti locali hanno assunto una maggiore autonomia finanziaria e tributaria. Sotto il riparto delle
competenze legislative, va menzionato l’art. 114, comma 2, Cost., che riconosce agli enti territoriali
un’autonomia esercitabile in base alle proprie norme, poteri e funzioni. L’art. 119, comma 1, Cost.,
attribuisce a tutti gli enti locali autonomia finanziaria di entrata e di spesa, autonomia che risulta differenziata
in base all’ente in considerazione perché le regioni, sotto il profilo del suo esercizio, partono avvantaggiate
essendo gli unici enti dotati di potestà legislativa. Se da un lato non è possibile riconoscere competenza
esclusiva alle regioni in materia tributaria, dall’altro l’utilizzo della legge regionale in alcuni ambiti, la nuova
formulazione dell’art. 119 Cost., e la competenza ripartita tra Stato e Regioni in materia di coordinamento
del sistema tributario, rendono più elastica tale riserva, ampliando la potestà impositiva e agevolativa in
materia fiscale. Ciò in virtù del fatto che esistono esigenze imprescindibili di unitarietà, equilibrio e coerenza
del sistema riconosciute dallo stesso legislatore delegato il cui rispetto va garantito tramite principi generali
fissati da leggi dello Stato.

Le competenze dei Comuni restano più ridotte ed è escluso per loro il potere di creare ed istituire tributi.
L’intervento del legislatore in tal senso appare condivisibile, in quanto consente di rispettare il precetto
dell’art. 23 Cost., secondo il quale “nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge”. Il ruolo dei Comuni quali soggetti attivi del rapporto tributario e la potestà regolamentare, li
rendono diversi rispetto alle Regioni. Qualora il Comune, che regola la potestà regolamentare generale, affidi
il servizio di accertamento e riscossione delle imposte locali, mediante apposita convenzione, a soggetti
terzi, il potere di accertamento del tributo spetta al soggetto concessionario e non al Comune. All’attribuzione
di tali poteri consegue quale ineludibile conseguenza, non solo la legittimazione sostanziale, ma anche
quella processuale per le controversie che riguardano tali materie.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

9. Il concessionario alla riscossione

La Riforma del 1990, sulla base delle disposizioni contenute nella legge del 1986 (Delega al Governo per
l’istituzione e disciplina del servizio di riscossione dei tributi) e del conseguente d.p.r. del 1988, istituì presso
il Ministero delle Finanze, il Servizio Centrale di Riscossione dei Tributi. Lo scopo della Riforma era
abolire le esattorie comunali e gli esattori privati, reputati incapaci di tenere il passo con il continuo
aggiornamento richiesto dal nuovo sistema di iscrizione a ruolo, e migliorare l’incisività dell’azione di
riscossione sul territorio nazionale.

Per 16 anni i Concessionari, in generale Istituti di Credito affidatari della riscossione, hanno organizzato e
gestito la riscossione dei tributi. Il d.lgs del 1999 ha poi modificato il Servizio Nazione di Riscossione, al
fine di raggiungere una maggiore specializzazione delle varie strutture, così da realizzare un effettivo
coordinamento degli obiettivi dello Stato e dei concessionari attraverso un più razionale e mirato sistema dei
controlli. Con la legge n° 248/2005 è stato soppresso il sistema di affidamento in concessione della
riscossione ed è nato l’Agente della Riscossione. Dal 1° Ottobre 2006, le funzioni sono state attribuite
all’Agenzia delle Entrate che le ha esercitate mediante la società “Riscossione S.p.a.” a totale capitale
pubblico; ne consegue che l’attività di riscossione è stata ricondotta sotto l’ombrello pubblico dopo che per
tanti anni era stata affidata in concessione a vari e numerosi enti tra istituti bancari e privati.

Nonostante si tende ad escludere un’autentica discrezionalità amministrativa dell’agente della riscossione,


che appare ridotta a seguito dell’introduzione dell’accertamento esecutivo, risulta sintomatico che tale
soggetto attivo del rapporto tributario, oltre ad essere titolare di azioni introduttive della riscossione coattiva
caratterizzate dell’esercizio di poteri amministrativi, svolge la propria attività impiegando logiche sempre più
analoghe a quelle degli uffici finanziari.

La società di riscossione ha cambiato denominazione passando da “Riscossione s.p.a.” ad “Equitalia


s.p.a.”. Con d.l. n° 193/2006, dal 1° Luglio 2017, Equitalia è stata soppressa. Per garantire continuità e
funzionalità, è stato istituito l’ente pubblico economico denominato “Agenzia delle Entrate-Riscossione”. Il
nuovo ente subentra, a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, delle società
del Gruppo Equitalia. Tale ente può anche svolgere l’attività di riscossione delle entrate tributarie degli enti
locali con esclusione delle società di riscossione. La riscossione si realizza attraverso la ritenuta diretta, i
versamenti diretti da parte del contribuente o, attraverso l’iscrizione nei ruoli. L’Agenzia delle Entrate-
Riscossione e le Società di Riscossione, provvedono a riscuotere coattivamente le somme dovute per cui,
in mancanza di pagamento nei termini di legge, si rende possibile l’inizio della procedura esecutiva di
espropriazione forzata nei confronti del debitore.

LA NOZIONE DI SOLIDARIETÁ TRIBUTARIA E DI SOSTITUZIONE D’IMPOSTA


(PARTE II)

1. Solidarietà e sostituzione

Gli istituti della solidarietà e della sostituzione hanno come scopo primario quello di rafforzare il credito
del fisco garantendo la sicura riscossione del tributo. In ambito tributario, si parla di solidarietà laddove,
oltre al debitore di imposta, la norma individua un altro soggetto, obbligandolo solidalmente col primo, a tutti
o a specifici adempimenti e, in particolare, al versamento del tributo. La sostituzione, invece si verifica
quando la legge, sebbene individui il soggetto cui si riferisce la ricchezza imponibile, trasferisca ad altri ogni
dovere ed ogni facoltà relativi alla specifica imposizione fiscale.

L’istituto della solidarietà trova la sua origine nel diritto civile, nell’art. 1292 c.c. secondo cui: “L’obbligazione
è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione in modo che ciascuno può
essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri”. Ciò accade
anche in riferimento all’obbligazione tributaria. La finalità della coobbligazione solidale è quella di non
costringere il creditore ad intentare tante cause quanti sono i suoi debitori; in pratica, a ciascun condebitore
può essere richiesto l’adempimento dell’intera prestazione oggetto dell’obbligazione. La conseguenza
dell’adempimento di un coobbligato è la liberazione degli altri condebitori dal rapporto col creditore che non
potrà pretendere più nulla dagli altri. Il debitore solvente, nei rapporti interni, avrà il diritto di regresso nei
confronti degli altri coobbligati.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La solidarietà, anche in ambito tributario, rappresenta soltanto un modo di attuazione del rapporto
obbligatorio. Essa si riconnette a due fenomeni profondamente diversi, in quanto l’ordinamento tributario
prevede l’attuazione solidale dell’obbligazione:

• l’uno, rappresentato dalle situazioni di condebito, cioè di contitolarità di una posizione debitoria fra più
soggetti (quella che viene chiamata dai civilisti “obbligazione soggettivamente complessa ad attuazione
solidale, caratterizzata dalla presenza di un interesse comune a tutti i compartecipi e che i tributaristi
identificano nella “solidarietà paritetica”, caratterizzata dalla riferibilità del presupposto impositivo,
determinativo dell’obbligazione tributaria a più soggetti).

• L’altro è rappresentato da una situazione ove vi sono più obbligati, ma dall’esistenza di un interesse
riferibile solo ad uno e non a tutti; la causa obligandi, quindi, non è identica per tutti i coobbligati;
insomma, si tratta di casi di solidarietà tra più soggetti ove non si realizza una situazione di condebito,
poichè vi sono posizioni distinte riferibili a più soggetti, collegate fra loro da un vincolo di solidarietà. Tale
fenomeno è conosciuto come solidarietà dipendente.

Se nel primo caso la solidarietà si riconnette, in diritto tributario, ad un presupposto impositivo comune a
tutti i soggetti, onde il tributo conseguente è riferibile fin dall’origine a tutti coloro che si vedono solidalmente
gravati in relazione ad un presupposto espressione di capacità contributiva; al contrario, in relazione alla
seconda situazione, il presupposto impositivo è all’origine riferibile ad uno dei soggetti solidalmente
responsabili, che assume la veste di debitore principale, e solo successivamente di riflesso, in relazione ad
altra previsione di legge, diviene riferibile al coobbligato solidale.

In alcune ipotesi di solidarietà dipendente, tassativamente individuate, l’obbligo di pagamento del tributo,
invece, grava su un soggetto diverso rispetto a quello che ha realizzato il presupposto impositivo, in questo
caso si verifica la sostituzione tributaria. Nella sostituzione vanno poi distinte le figure del sostituto e
del sostituito d’imposta. Il primo è colui che a seguito della deviazione dell’imputazione del carico
tributario, diviene soggetto passivo di imposta in luogo o insieme al sostituito. Egli ha un’autonomia propria e
una propria soggettività tributaria rispetto all’effettivo soggetto passivo o debitore principale del tributo
(sostituito), ovvero colui che manifesta la capacità contributiva.

2. La solidarietà paritetica e la teoria della supersolidarietà

Con il termine solidarietà paritetica si fa riferimento a quelle situazioni in cui il presupposto d’imposta si
realizza nei confronti di tutti i coobbligati che sono obbligati alla stessa prestazione verso l’Erario. In questo
caso, l’unico fatto imponibile si riferisce contemporaneamente a più soggetti in quanto atto ad evidenziare
la loro capacità contributiva. L’imputazione degli effetti si produce nei confronti di ciascun soggetto per
intero ed unitariamente. Si può parlare di un presupposto unitario e plurisoggettivo, quando tutti i soggetti
hanno concorso a realizzare il medesimo presupposto di fatto dell’imposta e si stabilisce un vincolo di
solidarietà tra essi nell’adempimento dell’obbligazione tributaria. In tal caso, ogni condebitore solidale
manifesta capacità contributiva ed è obbligato in via principale, ovvero in maniera autonoma e indipendente
da tutti gli altri coobbligati. L’A.F. al fine di soddisfare il proprio credito potrà rivolgersi indifferentemente a uno
dei qualsiasi condebitori solidali. L’adempimento di uno libera gli altri condebitori, ma il condebitore che
adempie per l’intero, vanta nei confronti degli altri obbligati un diritto di regresso di quanto pagato.

Tra le diverse ipotesi di solidarietà paritetica vi è quella tra i coobbligati in materia di imposta di
registro; infatti, le parti contraenti e quelle in causa di atti sottoposte a registrazione in termine fisso, sono
coobbligate solidali paritarie o condebitori di imposta, ai fini del pagamento dell’imposta di registro. L’ipotesi
riguardante l’imposta di bollo, rende solidali al pagamento dell’imposta sia le parti che sottoscrivono,
ricevono, accettano o negoziano atti, documenti o registri non in regola con le disposizioni previste dallo
stesso decreto, sia tutti coloro che ne fanno uso. Sussiste poi solidarietà paritetica tra gli eredi all’apertura
della successione. In tal caso, tutti gli eredi sono tenuti, solidalmente, al pagamento per l’intero dell’imposta
di successione.

Fino al 1968 era consolidata la teoria della supersolidarietà, secondo la quale ogni atto impositivo posto in
essere da o nei confronti di uno solo dei coobbligati solidali, vincolasse tutti gli altri condebitori. Se un avviso
di accertamento era notificato ad un solo coobbligato, sia se quest’ultimo lo faceva diventare definitivo per
mancata impugnazione, sia nel caso di un eventuale giudicato formatosi a seguito di ricorso instaurato
dall’unico debitore, esso diventava opponibile nei confronti di tutti gli altri condebitori solidali, anche se questi
non avevano avuto alcuna notizia dell’esistenza dell’atto amministrativo.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La giustificazione di tale teoria risiedeva nella natura unitaria ed indivisibile dell’obbligazione tributaria e
nell’unitarietà del presupposto di imposta che induceva a ritenere non l’esistenza di tanti rapporti di
obbligazione quanti fossero i condebitori, ma un unico rapporto, imputabile a tutti i condebitori solidali. In
altre parole, non esistevano tante obbligazioni, ma un’unica obbligazione con più titolari e ciò avvantaggiava
l’A.F. che vedeva accentuate le sue garanzie patrimoniali, ed allo stesso tempo penalizzava i condebitori a
cui non era stato notificato alcun atto ed in tal modo veniva violato il loro diritto di difesa.

Alla luce di tutto ciò, nel 1968 è intervenuta la Corte Costituzionale che ha ritenuto illegittima la
supersolidarietà per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. Da quel momento tutti i coobbligati erano posti
nella stessa situazione per via degli elementi di unitarietà e interezza tipici della solidarietà paritetica, ma
sorgeva il problema in ambito processuale qualora, una volta notificato l’atto a più condebitori ed instaurati
diversi giudizi, ci fossero stati dei giudicati contrastanti. A tal proposito si devono distinguere due ipotesi:

1) Se si è in presenza di una posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione


dedotta nell’atto autoritativo impugnato (rapporto plurisoggettivo).

2) Se si è in presenza di un fascio di obbligazioni collegate, ovvero ciascun debitore è separatamente


soggetto al potere di accertamento e riscossione dell’amministrazione.

Nella prima ipotesi, secondo la giurisprudenza, si dovrà instaurare, in fase processuale, il litisconsorzio
necessario tra tutti i coobbligati, ciò al fine di rispettare attraverso la partecipazione di più parti allo stesso
giudizio, un’informità di trattamento e allo stesso tempo evitare la compresenza di diritti differenziata sanciti
da diversi giudici, tra i diversi soggetti, a parità di situazione sostanziale. Nella seconda, invece, come
rimedio per evitare il contrasto di giudicati delle singole obbligazioni, le commissioni tributarie possono
disporre la riunione dei giudizi proposti dai singoli debitori che è solo eventuale.

La giurisprudenza, al fine di delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 1306 c.c., in materia tributaria,
ha ritenuto che il condebitore ha la possibilità di opporre all’A.F., nella successiva fase di impugnazione degli
atti di liquidazione e di riscossione, la sentenza favorevole ottenuta da un altro coobbligato in solido, purché
non si verifichino due preclusioni alternative: la sussistenza di un giudice diretto, di segno opposto, ottenuto
dal soggetto che vorrebbe invocare la sentenza pronunciata nei confronti di altro coobbligato, oppure il già
avvenuto pagamento, da parte del medesimo soggetto, dell’imposta liquidata dall’Ufficio, in forza delle
determinazioni contenute nell’atto divenuto definitivo.

3. La solidarietà dipendente

La solidarietà dipendente si verifica nel caso in cui, sebbene il presupposto del tributo sia stato posto in
essere da un soggetto (cd. sostituito), la legge obbliga un altro soggetto estraneo al presupposto,
all’adempimento dell’obbligazione tributaria. In pratica, i vincoli in capo a ciascun soggetto sono posti in
rapporto di dipendenza. Lo scopo della solidarietà dipendente è quello di garantire l’adempimento
dell’obbligazione estendendo l’ambito dei soggetti passivi a cui l’A.F. può rivolgersi. Si definisce rapporto di
pregiudizialità-dipendenza quello che si viene a creare tra la fattispecie che ha fatto sorgere il debito
d’imposta in capo all’obbligato principale e la fattispecie secondaria che fa nascere l’obbligazione tributaria in
capo all’obbligato dipendente. In virtù di questo rapporto, l’obbligazione secondaria segue le vicende
sostanziali di quella principale, laddove venga meno il presupposto impositivo in capo al soggetto principale,
si avrà l’inesistenza della pretesa in capo al coobbligato solidale dipendente. I due soggetti obbligati non
sono posti sullo stesso piano nei rapporti con l’Amministrazione che non sempre potrà rivolgersi
indifferentemente all’uno o all’altro. Il coobbligato dipendente che abbia adempiuto all’obbligazione tributaria,
nei rapporti interni tra i coobbligati, potrà rivalersi per l’intero e non pro quota come nell’obbligazione
paritetica.

4. Il sostituto ed il responsabile d’imposta

Talvolta, la norma tributaria affianca al debitore naturale dell’obbligazione un altro soggetto che sarà tenuto
in luogo o insieme al debitore principale, al versamento dell’imposta e ad alcuni o a tutti gli adempimenti
formali. Il sostituto d’imposta è colui che in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di
imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto. Nella sostituzione
il presupposto si verifica in capo al sostituto, ma debitore d’imposta nei confronti dello Stato sarà il sostituto
in quanto debitore esclusivo.

Il sostituto di imposta si identifica con il soggetto erogatore di un reddito obbligato, per legge, a realizzare il
prelievo tributario attraverso il cd. “meccanismo di ritenuta alla fonte”, cioè, trattenendo una percentuale
del compenso al momento della corresponsione e versando la somma così trattenuta all’Erario.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Inoltre, il sostituto avrà una serie di obblighi: l’obbligo di rivalsa nei confronti del sostituito; l’obbligo di
effettuare il versamento allo Stato delle somme ritenute; l’obbligo di presentare la dichiarazione. Il sostituto
è l’unico debitore e, in quanto tale, eventuali omissioni saranno addebitabili solo ed esclusivamente in capo
a quest’ultimo. Lo scopo principale della sostituzione è quello di garantire all’Erario un’anticipazione del
prelievo tributario, nel momento in cui viene erogato il reddito e, allo stesso tempo, trasla l’obbligo di
adempiere in capo ad un diverso soggetto che, essendo garantito dalla previsione dell’obbligo di risalva, non
ha interesse ad evadere. In tal modo, si conferisce maggiore certezza al prelievo tributario ed alla
riscossione. La sostituzione tributaria opera esclusivamente nel capo delle imposte dirette e in
particolare delle imposte sui redditi.

Il responsabile d’imposta, invece, è colui che, per legge, è obbligato al pagamento di imposte insieme ad
altri per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi. Diversamente dal sostituto, il responsabile ha il
diritto ma non l’obbligo di rivalsa e deve adempiere all’obbligazione tributaria, ma non è tenuto ad alcun
obbligo di carattere formale. Se il responsabile assolve al pagamento delle imposte riferite ai contribuenti,
questi sono liberati restando obbligati al pagamento del tributo in ogni caso diverso.

Dal punto di vista processuale, i diversi rapporti intercorrenti e le relative controversie nascenti dal
rapporto di sostituzione tributaria, hanno dato origine ad un importante contenzioso che dimostra la rilevanza
della loro tipologia.

Ci sono diverse ipotesi di inadempienze del sostituto:

- Il sostituto non ha effettuato la ritenuta ma ha versato l’importo allo Stato: il sostituto non avrà
alcuna conseguenza, essendo stato regolarmente versato l’importo; al sostituto saranno applicate le
sanzioni previste per l’omesso obbligato di operare la ritenuta, ma potrà comunque esercitare il diritto di
rivalsa, limitatamente all’importa versata e negli ordinari limiti di prescrizione;

- Il sostituto non ha effettuato la ritenuta e non ha versato l’importo allo Stato: l’accertamento per
omessa dichiarazione, omesso versamento ed omessa ritenuta riguarderà esclusivamente il sostituto,
visto che questi obblighi sono solo a suo carico;

- Il sostituto ha effettuato la ritenuta, ma non ha versato l’importo allo Stato: anche il sostituito deve
ritenersi fin dall’origine obbligato solidale al pagamento dell’imposta. Deriva da ciò che anche il sostituito
d’imposta è soggetto al potere di accertamento e a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di
regresso verso il sostituto.

Il rapporto di solidarietà passiva che si crea tra sostituto e sostituito, non dà luogo, neppure nel
processo tributario, a litisconsorzio necessario, ma eventualmente solo a quello facoltativo. Ne consegue
che in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del datore di lavoro, obbligato al
pagamento del tributo è anche il lavoratore contribuente che, laddove pretenda il rimborso dell’indebito
tributario, potrà rivolgere la domanda nei confronti del sostituto oltre che nei confronti dell’A.F. Mentre per le
liti da rimborso, avendo come controparte l’A.F. e sorgendo a seguito di una richiesta che può portare ad
un diniego espresso o tacito, non è mai sorto alcun dubbio circa la loro devoluzione alle Commissioni
tributarie, le liti di rivalsa, concernenti il rapporto tra sostituto e sostituito, sono state oggetto e lo sono
ancora, di contrasti dottrinali e giurisprudenziali, riguardando una controversia sorta tra due soggetti privati
ed in mancanza di un atto impugnabile innanzi al giudice tributario.

5. La sostituzione soggettiva a titolo d’imposta e a titolo d’acconto

La sostituzione d’imposta (soggettiva) si realizza in due forme: a titolo d’imposta (detta anche
“sostituzione propria” o a titolo definitivo) e a titolo d’acconto (detta anche “sostituzione impropria”).
Nella sostituzione a titolo di imposta la ritenuta effettuata dal sostituto estingue definitivamente
l’obbligazione, sia per il sostituto che per il sostituito.

Il sostituto non è obbligato a presentare la dichiarazione in relazione a quanto percepito e quindi non è
obbligato a effettuare il versamento del tributo e gli obblighi ricadono esclusivamente sul sostituto. Solo se il
Sostituto non opera la ritenuta e non provvede al versamento, il Fisco dopo aver iniziato la riscossione dei
confronti del sostituto, potrà recuperare l’importo della ritenuta anche dal sostituito, pertanto i due diventano
obbligati in solido verso il fisco.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Nella sostituzione propria il sostituto, pur non avendo realizzato il presupposto, subentra totalmente nella
posizione del sostituito, diventando l’unico debitore verso il Fisco dell’imposta dovuta. Il suo adempimento
estingue l’intera obbligazione e il contribuente sostituito non sarà tenuto ad alcun obbligo di collaborazione
attiva nell’attuazione del prelievo, poichè, la ritenuta effettuata dal sostituto “costituisce adempimento
integrale del tributo dovuto sulla specifica manifestazione di capacità contributiva”. La sostituzione a titolo
d’imposta si verifica solitamente in capo alle società o enti dotati di una certa organizzazione che
corrispondono ai soci dei redditi di capitale e rappresenta una notevole garanzia di riscossione. La
sostituzione a titolo di acconto, invece, si concretizza nell’obbligo, a carico del sostituto, di operare una
ritenuta e di versarne l’importo all’Erario quale anticipazione provvisoria dell’imposta che, poi, sarà
eventualmente dovuta dal sostituito sul totale dei redditi da questi percepiti nell’anno di riferimento. In
questo secondo caso si instaura un rapporto tra l’Erario ed il sostituito, che è obbligato a presentare la
dichiarazione. Il sostituto non è l’unico soggetto titolare dell’obbligazione tributaria, bensì è soggetto passivo
solo ai fini di un obbligo di versamento. Con una Sentenza del 2007, la Cassazione ha precisato che “il
sostituto svolge comunque anche un’attività di accertamento… perchè il sorgere del suo obbligo disperare la
ritenuta suppone l’accertamento… della sussistenza dei presupposto di legge per effettuarla”. Il soggetto
passivo del rapporto di imposta è il sostituito, in quanto l’obbligazione fiscale fa capo unicamente a chi
realizza il presupposto impositivo. A tal proposito, al rapporto tra Stato e sostituto si affianca quello tra Stato
e sostituito. Nella sostituzione impropria, il rapporto riguarda tre soggetti.

Particolarmente gravi sono le conseguenze ai fini sanzionatori del mancato versamento delle ritenute.
L’omesso veramente è punito penalmente. Con d.lgs. del 10 marzo 2000, n° 74, invece, non si è prevista
alcuna norma incriminatrice dell’omesso versamento di ritenute, con ciò abbandonando la scelta di tipo
sanzionatorio penale fino a quel momento operata. Con la Finanziaria del 2005, il legislatore è tornato sui
suoi passi e ha introdotto nel sistema penale tributario, l’art. 10-bis inserito nel d.lgs. n° 74/2000, che
sanziona nuovamente penalmente l’omesso versamento di ritenute certificate.

6. La traslazione e l’accollo

La traslazione è un contratto o una pattuizione accessoria con la quale si prevede che il tributo sia a carico
di un soggetto diverso da quello previsto dalle norme tributarie. Vi sono dei casi in cui i tributi, posti a carico
di un soggetto passivo andranno a gravare economicamente su altri soggetti, dove il debitore è l’operatore
economico che ingloba l’onere tributario nel prezzo del bene così da gravare, di fatto, il consumatore finale
dell’onere. Vi sono altri casi in cui è espressamente attribuito al soggetto passivo il diritto di traslare l’onere
in capo ad un altro soggetto. I privati sono liberi di stipulare patti di traslazione di imposta e lo strumento
utilizzato per realizzare tale scopo è usualmente l’accollo del debito d’imposta. Tale istituto, per lungo
tempo oggetto di opinioni contrastanti, è stato disciplinato dallo Statuto dei Diritti del Contribuente, che
all’art. 8, comma 2, prevede che è ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del
contribuente originario. Nel caso previsto dall’art. 8 si tratta di accollo con rilievo esterno, in quanto
viene attribuito al creditore (accollatario) il diritto di agire verso il contribuente accollante. L’accollo interno,
invece, è diverso e avviene tra contribuente accollato e contribuente accollante che non produce effetti per il
creditore, ed ove il Fisco creditore non ha alcun diritto verso l’accollante.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO VI : GLI OBBLIGHI STRUMENTALI DEL CONTRIBUENTE E I PRINCIPI DI


DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA

GLI OBBLIGHI STRUMENTALI (PARTE I)

1. Natura e funzione della contabilità nel sistema giuridico

Il legislatore, per l’attività di accertamento dei tributi, con la Riforma Generale tributaria del 1971, sancì
una serie di obblighi a carico dei contribuenti, primo tra tutti: la generalizzazione della dichiarazione
tributaria per tutti i soggetti passivi delle nuove imposte. Il legislatore diede concreta attuazione alla
previsione del dovere di controllo delle dichiarazioni, con i principi scritti negli artt. 1-37 del d.p.r. 29
Settembre 1973, n° 600. Nasceva il cd. “Fisco di massa” che, da un lato imponeva a milioni di cittadini ad
adempiere all’obbligo della dichiarazione tributaria, e dall’altro prescriveva all’A.F. di sviluppare una
vastissima azione accertatrice, con risorse e mezzi inidonei a gestire una simile attività. Per agevolare tale
attività di controllo fu esteso l’obbligo della tenuta di un impianto contabile, oltre che per le imprese di grandi
dimensioni, anche per tutti i soggetti titolari di redditi d’impresa e di redditi di lavoro autonomo.

Le scritture contabili costituiscono un sistema di rivelazione di accadimenti, dell’attività imprenditoriale o


professionale, ridotti in unità di misura quale il denaro e devono essere obbligatoriamente tenute da una
serie di soggetti elencati nell’art. 13 del d.p.r. n° 600/1973:

- Soggetti passivi IRES (società di capitali, enti commerciali residenti, trust).


- Imprenditori individuali, società di persone.
- Enti non commerciali compresi i trust con attività commerciale accessoria ed Onlus.
- Lavoratori autonomi, associazioni professionali e società tra professionisti.
- Soggetti residenti all’estero con stabile organizzazione in Italia.

In pratica, la scrittura contabile registra l’evento aziendale o professionale economicamente rilevante,


dandogli una valutazione numerica. Al termine di ogni esercizio ciò che risulta dalle scritture contabili
confluisce nella formazione del rendiconto di esercizio che, per le imprese minori e i professionisti hanno la
funzione prevalente di determinare il risultato economico conseguito, mentre per le realtà imprenditoriali
maggiormente complesse, come quelle svolte da persone giuridiche, rappresentano il bilancio di esercizio.

Le scritture contabili, secondo l’art. 2219 c.c., vanno tenute e trascritte su appositi registri/libri contabili
rispettando una serie di:

- Formalità intrinseche: determinano che i libri contabili vanno numerati progressivamente pagina per
pagina prima di essere utilizzati.
- Formalità estrinseche: si sostanziano dell’obbligo di una contabilità tenuta in modo chiaro e ordinato e
che tutti i documenti contabili siano conservati per almeno 10 anni anche su supporti informatici.

Le norme tributarie impongono ulteriori obblighi e sono destinate anche a soggetti non obbligati alla tenuta
delle scritture contabili secondo il codice civile.

2. Le scritture contabili obbligatorie

I libri contabili obbligatori, secondo quanto stabilito dal d.p.r. n° 600/1973, sono quelli previsti dal codice
civile e dunque:

- Il libro giornale;
- Il libro degli inventari:
- I libri sociali obbligatori per le società di capitali;
- Le scritture ausiliarie;

Inoltre, devono essere tenute scritture contabili previste esclusivamente dalle leggi fiscali, quali:

- I registri Iva;
- Le scritture ausiliarie di magazzino (per i soggetti che superano un certo limite di fatturato e ammontare di
magazzino);
- Il registro dei beni ammortizzabili (che può essere sostituito a condizione che alcune annotazioni in ordine
agli ammortamenti siano riportate sul libro giornale);

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Questo tipo di impianto è denominato di “contabilità ordinaria” e rappresenta un regime contabile


obbligatorio per le persone giuridiche e le imprese che superano determinati volumi di affari e che non sono
qualificabili quali imprese minori. Le “imprese minori” , non essendo obbligate alla tenuta della “contabilità
ordinaria”, hanno come regime “naturale” quello della “contabilità semplificata”, che si concretizza
nell’obbligo di tenuta dei soli Registri Iva, in cui sono indicate le operazioni escluse ai fini Iva, rilevanti ai fini
della determinazione della base imponibile per le imposte dirette, nonché il valore delle rimanenze finali
dell’anno. La contabilità semplificata rileva i flussi reddituali, ma non la situazione patrimoniale.

Oltre a questi regimi contabili, il legislatore, per i soggetti esercenti l’attività imprenditoriale in forma
individuale, nonché per i lavoratori autonomi, ha previsto un ulteriore regime contabile semplificato: il cd.
“regime fiscale di vantaggio”. Il d.l. n° 98/2011, convertito con modificazioni dalla legge n° 111/2011, al
fine di agevolare la costituzione di nuove imprese da parte dei giovani e di coloro che hanno perso il lavoro o
coloro che svolgevano attività in forma occasionale o precaria; inoltre, ha introdotto un regime contabile e
fiscale particolarmente privilegiato per le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato, esercenti attività
imprenditoriali o arti o professioni i cui ricavi nell’anno precedente non risultano essere superiori a 30.000
euro e che congiuntamente, negli ultimi tre anni, non abbiano acquistato beni strumentali per un importo
superiore a 15.000 euro. Per tali soggetti gli adempimenti contabili sono ridotti al solo obbligo di
numerazione e conservazione delle fatture di acquisto e delle bollette doganali ed emissione delle fatture e
scontrini privi di Iva. Il regime fiscale di vantaggio ha un’applicazione temporale limitata. Inoltre, anche le
persone fisiche esercenti arti o professioni individualmente, nonché le società tra professionisti, hanno come
regime contabile naturale il regime della contabilità semplificata. Costoro possono limitarsi alla tenuta dei soli
registri Iva, integrando le annotazioni con i dati rilevanti ai fini delle imposte dirette.

3. La dichiarazione dei redditi

Con la nascita del “Fisco di massa” (Riforma Tributaria del 1973) è stato introdotto l’obbligo
generalizzato della presentazione della dichiarazione dei redditi. Il contribuente, attraverso la
dichiarazione, mediante la compilazione di modelli ministeriali approvati per ciascun periodo di imposta,
procede ad una forma di auto-accertamento dei redditi percepiti nell’anno d’imposta di riferimento e alla
conseguente autoliquidazione delle imposte da versare. I modelli ministeriali attualmente utilizzati per la
dichiarazione dei redditi delle persone fisiche, sono due:

- Modello 730, utilizzato da lavoratori dipendenti e pensionati.


- Modello Unico, utilizzato dalle persone fisiche che percepiscono redditi d’impresa o di lavoro autonomo
e in possesso di partita Iva.

Essendo la dichiarazione assoggettata a controllo, assume rilevanza procedimentale ed è funzionale per la


fase di liquidazione e versamento delle imposte. Se essa risulta inesatta o infedele, sarà base di partenza
per accertamenti e controlli. Vi sono diverse tesi sulla natura della dichiarazione. Da una parte, si è
sostenuto che la dichiarazione avesse natura “negoziale”, influenzata dalla volontà e da tutti i vizi ad essa
connessa. Dall’altra parte, è stato sostenuto che la dichiarazione avesse natura di “scienza”; tesi che ha
indotto a sostenere la possibilità di revocare e rettificare quanto dichiarato.

In linea generale, sono obbligati alla presentazione della dichiarazione dei redditi tutti coloro che nel periodo
d’imposta abbiano conseguito dei redditi, indipendentemente dalle eventuali imposte da versare. Sono
comunque tenuti alla presentazione della dichiarazione quei soggetti i cui redditi sono determinati sulla base
delle scritture contabili, pur in assenza di un reddito imponibile o anche in presenza di una perdita di
esercizio. La norma fiscale prevede anche dei casi di esonero dall’obbligo della dichiarazione, a favore di
contribuenti persone fisiche che non siano imprenditori o lavoratori autonomi che abbiano prodotto
unicamente redditi esenti o da lavoro dipendente e reddito derivante dall’abitazione principale.

I soggetti passivi Iva e Irap, in caso di esercizi coincidente con l’anno solare, devono presentare una
“dichiarazione unificata” su un modello comprendente la dichiarazione sulle imposte sui redditi, quella Iva
e Irap. Anche i sostituti di imposta possono presentare la propria dichiarazione usufruendo del “modello
unificato”. Con la “dichiarazione unificata” si è in presenza di una pluralità di dichiarazioni autonome, con la
differenza che vengono presentate contemporaneamente entro il termine di presentazione della
dichiarazione dei redditi.

Per quanto concerne il contenuto, la dichiarazione deve fornire “l’indicazione degli elementi attivi e passivi
necessari per la determinazione degli imponibili secondo le norme che disciplinano le imposte stesse”.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Alla fase di auto-accertamento della base imponibile fa seguito quella della liquidazione, che si concretizza
nella determinazione dell’imposta da versare: applicando alla base imponibile l’aliquota si quantifica
l’imposta lorda di competenza; da tale imposta vengono operate detrazioni per oneri pervenendo all’imposta
netta dalla quale, sottraendo le eventuali ritenute subite e gli acconti, si determina l’imposta da versare o il
credito maturato. Inoltre, la dichiarazione deve contenere una serie di indicazioni volte ad agevolare l’attività
di controllo da parte degli organi verificatori anche per finalità diverse da quelle fiscali, quali i trasferimenti
finanziari da e verso l’estero, la disponibilità di investimenti all’estero, oppure vanno evidenziate le opzioni
per i regimi contabili dottati o in materia di tassazione separata.

Riguardo ai termini e le modalità per la presentazione della dichiarazione dei redditi, essa va
presentata entro il 30 giugno dell’anno successivo (in caso di soggetto Ires con esercizio non coincidente
con l’anno solare, entro il 9° mene dalla fine del periodo di imposta), se in forma telematica. Per i soggetti
titolari di partita Iva nell’anno di riferimento della dichiarazione, la stessa va presentata esclusivamente in
forma telematica. La dichiarazione va sottoscritta dal contribuente o dal suo legale rappresentate e dal
Presidente del Collegio Sindacale, in caso di presenza dello stesso. La legge di bilancio 2018 (n°
205/2017) ha introdotto la “dichiarazione precompilata” che prevede alcune semplificazioni amministrative
e contabili per chi opta per la fatturazione elettronica. Per l’elaborazione della dichiarazione precompilata,
l’Agenzia delle Entrate utilizza le informazioni disponibili in Anagrafe Tributaria (ad esempio la dichiarazione
dell’anno precedente e i versamenti effettuati), i dati trasmessi da parte di soggetti terzi (ad esempio banche,
assicurazioni ed enti previdenziali) e i dati contenuti nelle certificazioni rilasciate dai sostituti di imposta con
riferimento, ad esempio, ai redditi di lavoro dipendente e assimilati, ai compensi per attività occasionali di
lavoro autonomo.

4. La ritrattabilità e l’emendabilità delle dichiarazioni

La Corte di Cassazione rileva che: “la dichiarazione non deve essere valutata alla luce di categorie
privatistiche ma pubblicistiche; che la dichiarazione stessa è soggetta a una disciplina pubblicistica
caratterizzata da vincoli formali e temporali volti a garantire la stabilità delle situazioni; che detti vincoli non
possono essere posti nel nulla dalla determinazione di un regime di emendabilità della dichiarazione erronea
che non sia ancorato al carattere materiale ed alla testuale riconoscibilità dell’errore, sottolineando, che dalla
natura non negoziale e di scienza della dichiarazione non deriva con certezza l’emendabilità della stessa”.

In tale ottica, il principio di “immodificabilità della dichiarazione annuale dei redditi, al di là delle
scadenze stabilite per la presentazione di essa”, impediva al contribuente di porre a fondamento
dell’istanza di rimborso fatti che in origine non erano esposti in essa, con la conseguenza che questi ultimi
potevano essere dedotti nel giudizio di impugnazione dell’eventuale accertamento in rettifica.

La Corte, in riferimento alla possibilità di rettificare la dichiarazione dei redditi, ne richiama la natura di atto
non negoziale e non dispositivo, recante una mera esternazione di scienza e giudizio, senza valutare
compiutamente l’orientamento che era invece giunto ad opposte conclusioni, ritenendo sufficiente, per
argomentare la ritrattabilità della dichiarazione, affermare che questa non costituisce il titolo dell’obbligazione
tributaria, ma integra un momento nell’iter procedimentale inteso all’accertamento di tale obbligazione ed al
soddisfacimento delle ragioni erariali che ne sono oggetto.

Il principio di emendabilità della dichiarazione, che trova conferma nell’art. 10 della legge n° 212/2000,
consente al contribuente di poter correggere una dichiarazione dei redditi che presenti errori od omissioni,
sia prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione stessa (presentando la cd.
Dichiarazione correttiva) che successivamente alla presentazione della stessa (presentando la cd.
Dichiarazione integrativa). Sia la dichiarazione correttiva che quella integrativa presuppongono che la
dichiarazione originaria sia stata a suo tempo validamente e tempestivamente presentata.

“La dichiarazione tributaria ha la funzione di portare a conoscenza della Finanza la concreta capacità
contributiva alla cui esatta individuazione è indirizzata tutta l’attività di accertamento”.

a) La dichiarazione integrativa

Per quanto concerne il principio di emendabilità della dichiarazione dei redditi, è importante sottolineare
che si tratta di un principio operativo, in quanto è stata correttamente presentata nei termini una
dichiarazione. In questi stessi termini la dichiarazione, validamente presentata, può essere liberamente
corretta presentandone un’altra in sostituzione e senza dover apportare nessuna conseguenza
sanzionatoria. La seconda dichiarazione poi si definisce corretta.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Scaduto il termine per la presentazione della dichiarazione, invece, si parla di “dichiarazione integrativa”,
che va coordinata con le norme sul ravvedimento operoso, volte ad ammorbidire il carico sanzionatorio.
Questo tipo di dichiarazione va redatta utilizzando lo stesso modello della dichiarazione originaria.

Sono disciplinate tre tipologie di dichiarazioni integrative, differenti per ambito, termini e procedure.

• La prima ipotesi, di carattere generale, è scritta nell’art. 2, comma 8, d.p.r. n° 322/1998 e va


presentata negli stessi termini stabiliti per l’accertamento delle imposte sui redditi.

• La seconda fattispecie, prevista nel comma 8-bis dello stesso articolo, è stata introdotta per
correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o di un
maggior debito di imposta o di un minor credito, non oltre il termine prescritto per la presentazione della
dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo.

• La terza ipotesi, scritta al comma 8-ter, è stata aggiunta per modificare l’originaria richiesta di rimborso
dell’eccedenza d’imposta, esclusivamente per la scelta della compensazione, a condizione che il
rimborso stesso non sia stato già erogato, anche in parte, mediante dichiarazione da presentare entro
120 giorni dalla scadenza del termine ordinario di presentazione.

La differenza di struttura per termini e tipologia è evidente tra l’ultima e le prime due, essendo la previsione
del comma 8-ter finalizzata ad un’istanza di rimborso tout court, quella del comma 8-bis legata alla
compensazione, quella del comma 8 di carattere più generale. In alcuni casi, la differenza tra le prime due è
più sfumata.

La giurisprudenza ha dilatato ancora di più la modificabilità della dichiarazione, chiarendo che il


contribuente, anche dopo la ricezione degli atti impositivi, rimane comunque libero di “contestare la demenza
del tributo, frutto di errore nella dichiarazione presentata, anche in sede di impugnazione della cartella di
pagamento, nonostante la scadenza del termine di cui all’art. 2, comma 8-bis, del d.p.r. n° 322/1998, atteso
che le dichiarazioni dei redditi sono, in linea di principio, sempre emendabili, sin in sede processuale, ove
per effetto dell’errore commesso derivi, in contrasto con l’art. 53 Cost., l’assoggettamento del dichiarante ad
un tributo più gravoso di quello previsto dalla legge”. Il legislatore ha fatto tesoro di queste incertezze e
complicanze e ha poi deciso di semplificare la normativa in questione. I termini previsti per l’accertamento
sono quinquennali.

CATEGORIE REDDITUALI E PRINCIPI DI DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA


(PARTE II)

1. Le categorie reddituali

L’art. 6 dei TUIR (Testo Unico delle Imposte sul Reddito) prevede, ai fini dell’assoggettamento all’IRPEF
(Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche), alcune categorie reddituali: i “redditi fondiari”, i “redditi di
capitale”, i “redditi di lavoro dipendente”, i “redditi di lavoro autonomo”, i “redditi di impresa” e i “redditi
diversi”.

Il Reddito è un concetto dinamico che deriva dall’incremento patrimoniale in un determinato arco temporale,
ricollegabile a fonti legislative. Il legislatore, per comprendere la ratio della classificazione normativa, ha
dovuto contemperare varie esigenze; innanzitutto, dare omogeneità di contenuto a ciascuna categoria,
considerando la diversa natura della stessa, per garantire regole uniformi per la quantificazione del reddito
imponibile e l’adempimento degli obblighi di dichiarazione e liquidazione delle imposte.

Allo stesso tempo, il legislatore ha dovuto comprendere, nelle categorie delineate, tutta la materia imponibile
Riconducibile all’IRPEF e all’IRES; questa esigenza di onnicomprensività ha portato tre rilevanti
conseguenze:

- La prima di elaborazione di categorie che, anche quando utilizzano nozioni extra-tributarie, siano più
ampie della nozione utilizzata.
- La seconda di inclusione, non solo dei redditi pienamente rispondente alla definizione della categoria,
ma anche di altri redditi, di carattere spurio.
- La terza di elaborazione di una categoria residuale e di chiusura, che non presenta omogeneità di
contenuto.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Se si prescinde dai “redditi diversi”, le altre categorie reddituali sono contrassegnate dalla derivazione da un
tipo unico o unitario di fonte produttiva. I redditi ritratti da ogni categoria, sommati tra loro, sottraendo le
perdite derivanti dall’esercizio di impresa e da quello di arti e professioni danno il “reddito complessivo” da
assoggettare a tassazione e che diviene visibile, agli occhi del Fisco, con la dichiarazione e
l’autoliquidazione. La categoria più rilevante, anche in riferimento al gettito generato ai fini IRPEF, è
rappresentata dal reddito di impresa, la cui individuazione e determinazione, ai fini impositivi, si fonda su
principi particolari che rilevano anche nelle fasi successive di accertamento. Il reddito generato dalle imprese
commerciali rileva ai fini IRES (Imposta sul Reddito delle Società). Anche il reddito prodotto nel territorio
dello Stato dai soggetti non residenti è assoggettato a tassazione nel nostro ordinamento, ex art. 23 TUIR,
che stabilisce regole particolari per ognuna delle categorie reddituali sancite dall’art. 6 del TUIR.

2. La definizione di reddito d’impresa

La definizione di reddito d’impresa si fonda sulla ricorrenza di requisiti soggettivi, riferiti alle modalità di
esercizio dell’attività, o requisiti oggettivi riguardanti il tipo di attività svolta. Dal punto di vista soggettivo,
ogni reddito imputabile a società ed enti commerciali che hanno le caratteristiche previste dall’art. 55 TUIR,
è automaticamente d’impresa; Per tutti gli altri contribuenti entra in gioco il profilo oggettivo, posto che solo
le attività commerciali possono generare reddito d’impresa, ad eccezione di quelle prive del carattere di
commerciabilità. Per individuare se un’attività sia produttiva di reddito d’impresa, è fondamentale il
requisito dell’esercizio abituale, consistente nella continuativa e normale destinazione del tempo, delle
energia e della capacità produttiva di un certo soggetto a un’attività oggettivamente commerciale, ex art.
2195 c.c. Il reddito d’impresa si determina secondo le regole dettate per l’IRES, anche per i soggetti
sottoposti ad IRPEF, i quali applicheranno norme specifiche ed integrative dettate, in tema di redditi
d’impresa, per i soggetti non Ires. In questa previsione rientrano le attività professionali che non possono
essere definite commerciali in senso stretto, ma la cui organizzazione imprenditoriale ne può determinare la
natura commerciale.

Tra i soggetti che possono produrre reddito d’impresa e le relative modalità di tassazione, vi sono:

- Le società di capitali, quali le società per azioni, a responsabilità limitata e in accomandita per azioni,
nonché le società cooperative e gli enti pubblici e privati che hanno per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di attività commerciali.

- Gli enti non commerciali, limitatamente alle attività commerciali dagli stessi svolte, il cui reddito
d’impresa concorre a formare il reddito complessivo.

- Gli imprenditori individuali, soggetti a IRPEF salva opzione per l’IRI (Imposta sul Reddito d’Impresa).
Nel primo caso il reddito fa cumulo con quello delle altre categorie reddituali, nel secondo resta a
tassazione separata.

- Le società di persone, quali quella in nome collettivo e in accomandita semplice, mentre le società
semplici non possono avere ad oggetto l’esercizio di attività commerciale. Queste ultime devono
presentare la dichiarazione ai fini delle Imposte sui Redditi e non sono autonomamente soggette a
tassazione. Secondo alcune disposizioni del TUIR, i redditi prodotti sono imputati direttamente a ciascun
socio, indipendentemente dalla percezione proporzionalmente alla quota di partecipazione di ognuno
(principio di trasparenza); le quote di partecipazione agli utili, si presumono proporzionate al valore dei
conferimenti, se non risultano determinate diversamente.

3. I principi generali per la determinazione del reddito d’impresa

a) Il principio di competenza e i principi di certezza e determinabilità

L’art. 109 TUIR, nell’ambito della determinazione del reddito d’impresa imponibile sulla base del risultato
civilistico, precisa alcuni principi di valenza generale che sovrintendono alla determinazione del reddito
stesso e valgono per tutti i soggetti che producono reddito d’impresa.

• Il principio di competenza: è il criterio generale che regola l’imputazione temporale dei diversi elementi
reddituali per i quali non sono previste prescrizioni specifiche. Il comma 1 dell’art. 109 TUIR, stabilisce
che “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, concorrono a formare il reddito
nell’esercizio di competenza”. In base a tale principio si considera l’esercizio o il periodo d’imposta in cui
avvengono le operazioni o prestazioni, indipendentemente dai relativi pagamenti e corrispettivi.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

• Il principio di certezza: comunemente si afferma che la certezza attiene all’an, ossia, all’effettiva
esistenza del componente reddituale. Il requisito della certezza deve essere inteso in un’accezione
giuridica, nel senso che la componente reddituale, per essere considerata fiscalmente certa, deve essere
fondata sull’esistenza di un titolo produttivo di effetti giuridici, sia pure in via non definitiva.

• Il principio di determinabilità: comunemente si afferma che la determinabilità riguarda il quantum,


ossia, la misura. Il requisito dell’obiettiva determinabilità assume un valore relativo e non assoluto,
ammettendo che la quantificazione degli elementi reddituali da considerare ai fini della determinazione
del reddito d’impresa non sia da basare esclusivamente su meri criteri matematici, ma possa riferirsi
anche a parametri di valutazione in possesso dell’impresa all’atto della formazione del bilancio,
riguardanti sia l’esercizio in chiusura, sia la proiezione degli stessi sugli esercizi successivi.

Tutti e tre questi principi sono contenuti dallo stesso comma 1 dell’art. 109 TUIR e si ritiene che i requisiti di
certezza e determinabilità debbano ricorrere congiuntamente nello stesso periodo d’imposta.

b) Il principio di inerenza

Un altro principio generale sancito dall’art. 109 TUIR, al comma 5, è quello di inerenza, inteso come
necessaria correlazione del costo a produrre un ricavo, nel senso della sua attitudine a generarlo, a
prescindere dall’effettivo conseguimento dell’elemento positivo del reddito. Il costo, così inteso, è deducibile
dal reddito di impresa, nel senso che concorre a determinarlo negativamente, se può potenzialmente
generare reddito ed ha attinenza o è collegato all’attività di impresa, nel senso che è volto a realizzare un
interesse dell’impresa e non personale. Inoltre, si può affermare che il giudizio di deducibilità di un costo per
inerenza riguarda la natura del bene o del servizio e il suo rapporto con l’attività di impresa, da valutarsi in
relazione allo scopo perseguito al momento in cui la spesa è stata sostenuta con riferimento a tutte le attività
tipiche dell’impresa e non semplicemente in relazione ai risultati ottenuti in termini di produzione reddituale.

c) Il principio di imputazione a conto economico

Un ulteriore principio generale per la determinazione del reddito di impresa è quello di imputazione dei
costi ed oneri (elementi negativi) a conto economico. Nell’ambito delle regole di determinazione del
reddito di impresa, a differenza dei componenti positivi, tali oneri non possono essere dedotti fiscalmente se
non previamente imputati a conto economico, con le relative eccezioni. La finalizzazione di questo principio,
fondato sulla regola della certezza e della determinabilità, va vista esclusivamente in chiave probatoria
dell’esistenza contabile di costi e oneri che, in quanto rilevati nel bilancio come tali, sono riconosciuti come
idonei a concorrere alla formazione della base imponibile fiscalmente rilevante; la rigidità apparente del
comma 3 del TUIR, viene stemperata dal successivo comma 4, per cui le spese e gli oneri “specificamente
afferenti i ricavi e altri proventi” non imputati a conto economico, comunque concorrenti a formare reddito,
sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi. Tuttavia, esistono
delle eccezioni a questo principio, per cui, taluni soggetti, potranno dedurre dal reddito di impresa dei
costi, anche se non previamente imputati a conto economico.

d) Le regole generali in tema di valutazioni

Fra le disposizioni del TUIR che assumono una valenza generale, applicabile a più categorie di componenti
reddituali, rientra anche l’art. 110, contenete norme generali in tema di valutazioni. Gli elementi che
caratterizzano le regole di valutazione in ambito fiscale sono:

• Valore fiscale dei beni d’impresa: consiste nel costo sostenuto, inclusi gli oneri accessori di diretta
imputazione o rivalutazione, al netto delle quote di ammortamento e delle svalutazioni fiscali annesse.
• Principio di continuità dei valori fiscali nel tempo: i criteri di attribuzione dei valori devono essere
costanti negli esercizi.
• Valore normale: rappresenta il criterio/valore per determinare il costo dei beni e servizi in natura.
4. La derivazione del reddito d’impresa dal risultato civilistico

Il reddito d’impresa nasce per derivazione dal risultato civilistico. La regola che fonda la determinazione
del reddito d’impresa fiscalmente rilevante, nei riguardi nei soggetti che sono tenuti alla redazione del
bilancio o del conto economico, è il calcolo basato sull’utile o sulla perdita risultante dal conto economico o,
più in generale, il risultato di ciascun esercizio. Esso è determinato secondo le regole contabili e civilistiche,
a cui vanno apportate, in sede di dichiarazione presentata ai fini fiscali, le variazioni in aumento o in
diminuzione che risultano dall’applicazione delle specifiche regole di carattere tributario. Questo tipo di
variazioni “fiscali” possono tanto variare quanto ridurre il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Il bilancio di esercizio è costituito dallo stato patrimoniale, dal conto economico, dalla nota integrativa e dal
rendiconto finanziario; inoltre è corredato dalla relazione degli amministratori sulla gestione. Il codice civile
indica i principi generali per la sua redazione. In aggiunta, esistono delle forme specifiche di bilancio
abbreviato e delle microimprese. A tal proposito, al fine di uniformarsi quanto più possibile ai principi
civilistici, la prassi ha da tempo fatto ricorso ai cd. “principi contabili” elaborati da qualificati
Organismi. In particolare:

- Sul piano nazionale, l’OIC (Organismo Italiano di Contabilità) si è interessato ad emanare principi
contabili per la redazione dei bilanci per i quali non era prevista l’applicazione di quelli internazionali e di
fornire supporto per l’applicazione in Italia di questi ultimi.

- Sul piano internazionale, la medesima funzione è stata sviluppata da appositi Organismi rappresentativi
delle professioni contabili a livello mondiale. I principi contabili emessi dalla IASC Foundation (si tratta
di un comitato interno all’organizzazione mondiale dei professionisti contabili, trasformatosi poi in una
fondazione privata di diritto statunitense), sono stati denominati IFRS (International Financial Reporting
Standards) o IAS (International According Standards); nella prassi, i principi contabili internazionali
vengono individuati con la doppia sigla “IAS-IFRS”. Tali principi attualmente rappresentano il sistema di
regole contabili maggiormente condiviso a livello mondiale.

Il legislatore ha attribuito, con sempre maggiore evidenza, “forza normativa” ai principi contabili e ne ha
stabilito un diretto legame con la determinazione del reddito fiscalmente rilevante. Per effetto di tale
processo normativo, nell’ordinamento contabile nazionale si distinguono imprese che redigono il bilancio
sulla base di principi nazionali IAS-IFRS e imprese che vi provvedono tenendo conto esclusivamente delle
indicazioni contenute nel codice civile e dei principi contabili nazionali.

Sul versante fiscale, in virtù del principio di derivazione del reddito fiscalmente imponibile dal risultato
d’esercizio si è determinata, nel tempo, una bipartizione nella determinazione della base imponibile dei
soggetti IRES, in quanto:

- Le “imprese IAS” determinavano il proprio reddito imponibile muovendo da un risultato di bilancio redatto
in conformità con i principi contabili internazionali IAS/IFRS (IAS adopter).

- Le “imprese non IAS” determinavano il proprio reddito imponibile muovendo da un risultato di bilancio
determinato sulla scorta dell’applicazione dei principi contabili nazionali.

Tale divisione è stata successivamente composta nel nuovo art. 83 TUIR.

a) Ulteriori regole generali

Esistono ulteriori regole generali importanti. Una prima distinzione vi è tra i ricavi, gli altri proventi di ogni
genere e le rimanenze, che concorrono a formare il reddito anche se non risultano imputati a conto
economico e le spese che, con tutti gli altri componenti negativi, non possono essere fiscalmente portati in
deduzione dal reddito imponibile se, e nella misura in cui, non risultano imputanti al conto economico relativo
all’esercizio di competenza.

Ai sensi dell’art. 109 TUIR, comma 4, sono fiscalmente deducibili i componenti imputati al conto economico
di un esercizio precedente, se la deduzione è stata rinviata conformemente alle disposizioni del TUIR che ne
dispongono o ne consentono il rinvio o che, pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili
per disposizioni di legge.

L’art. 2423 c.c. stabilisce, quali regole importanti, che:

- Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione
patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico d’esercizio.

- Nel caso in cui le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge siano insufficienti a fornire la
suddetta rappresentazione veritiera e corretta, si devono esporre le informazioni complementari
necessarie allo scopo.

- Nel caso in cui, in situazioni eccezionali, l’applicazione di una specifica disposizione di legge sia
incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta, la disposizione stessa non va applicata,
motivando la deroga con una nota integrativa, indicandone l’influenza sulla rappresentazione della
situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico. Gli eventuali utili derivanti dalla deroga
vanno iscritti in una riserva non distribuitile esse non in mostra corrispondente al valore recuperato.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La regola della rappresentazione veritiera e corretta è integrata, quantomeno in parte, dalla regola della
prevalenza della sostanza sulla forma. La coesistenza di tali postulati viene confermata anche da una
disposizione del codice civile, che nell’elencare i principi di redazione del bilancio, stabilisce che la
valutazione delle voci deve esser fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività,
nonché tenendo conto della funzione economica dell’elemento dell’attivo o del passivo considerato.

b) I principi contabili internazionali

I principi contabili internazionali IAS/IFRS costituiscono un sistema di regole contabili, di matrice


anglosassone, riconosciute e analizzate a livello mondiale per la redazione dei conti d’esercizio e consolidati
dalle società. Negli ordinamenti anglosassoni le informazioni di bilancio rappresentano uno strumento
d’informazione per coloro che interagiscono con l’impresa ( i cd. stakeholders o “portatori di interessi”).
Per tale motivo, i principi contabili internazionali interpretano il bilancio in chiave evolutiva e nel rispetto del
principio di competenza, il risultato dell’esercizio è visto come indicazione della performance aziendale
futura. L’obiettivo degli IAS/IFRS è la conformità dei risultati economici, finanziari e patrimoniali
dell’azienda, per realizzare una corretta e oggettiva informatica di mercato, diretta agli investitori.

In questo senso, i cardini del sistema contabile in argomento sono due:

- Il principio del “fair value” nella misurazione delle componenti economiche e patrimoniali, che
rappresenta “il corrispettivo al quale un’attività potrebbe essere scambiata, o una passività estinta, in una
libera transazione fra le parti consapevoli e indipendenti”

- Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma nella rappresentazione contabile delle vicende
gestionali.

Quindi, da un lato, gli IAS/IFRS tendono al superamento del criterio del costo storico, quale limite certo delle
valutazioni di bilancio, e inducono alla misurazione delle performance di impresa a prescindere dagli atti di
realizzo e sulla base valutativa; dall’altro lato, l’applicazione di tali principi contabili conduce a
rappresentazioni spesso differenti da quelle tradizionali, a rivelazioni di profitti o perdite, di ricavi e costi con
criteri di competenza e di quantificazione innovatici e, spesso, attraverso l’attribuzione a tali componenti di
una natura contabile non in linea con quella giuridico-formale emergente dai negozi sottostanti.

In attuazione della delega sopracitata, è stato emanato nel 2005 un d.lgs. che ha individuato l’ambito, il
soggetto e i termini di decorrenza nell’applicazione degli IAS/IFRS; inoltre, ha introdotto alcune modifiche di
sistema alle disposizioni tributarie in materia di reddito d’impresa e ha regolamentato le disposizioni
transitorie in sede di prima applicazione dei citati principi. I soggetti a cui si applicano gli IAS/IFRS sono
indicati sempre dallo stesso d.lgs., in un contesto tanto ampio che gli unici soggetti, cui è viceversa fatto
esplicito divieto di redigere il proprio bilancio secondo le regole disposte dagli IAS/IFRS, sono coloro che
hanno la facoltà di redigere il bilancio in forma abbreviata.

Il legislatore fiscale ha introdotto una serie di regole, al fine di uniformare e rendere compatibili le norme
del TUIR con gli IAS/IFRS; merita particolare attenzione l’art. 1, commi 58-60 della legge n° 244/2007
(Legge Finanziaria del 2008), che ha introdotto, per i soggetti che redigono il bilancio in conformità ai
principi contabili internazionali IAS/IFRS, una disciplina di determinazione del reddito imponibile più aderente
alle risultanze del bilancio, mediante l’introduzione del cd. “principio di derivazione rafforzata”, quale
“evoluzione” del consolidato “principio di derivazione” che tradizionalmente ispirava la determinazione del
reddito d’impresa.

Infatti, l’art. 83 del TUIR prevede che per i soggetti IAS adopter, in tema di determinazione del reddito
d’impresa e di singole componenti di questo, valgono i criteri di qualificazione, imputazione temporale e
classificazione in bilancio previsti dagli IAS/IFRS. A tal proposito, è stata introdotta una deroga alle
disposizioni dell’art. 109 del TUIR, che nell’assunzione dei costi e dei ricavi, fanno prevalentemente
riferimento alle condizioni di certezza e determinabilità dei componenti reddituali e alle risultanze negoziali e
all’acquisizione/passaggio della proprietà dei beni. È importante precisare che, mentre la deroga al comma
1 dell’art. 109 si è resa necessaria per evitare la sovrapposizione tra IAS/IFRS e norma fiscale, quella al
comma 2, ha una valenza molto più ampia.

Infatti, l’art. 109, comma 2, del TUIR detta regole applicative del principio di competenza e stabilisce che i
corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei beni si considerano
sostenute, alla data della consegna o spedizione per i beni mobili e della stipulazione dell’atto per gli
immobili e le aziende, ovvero, se diversa e successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o
costitutivo della proprietà o del diritto reale.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Le norme fiscali stabiliscono la prevalenza della forma sulla sostanza, in quanto danno piena valenza alle
risultanze giuridico-formali delle operazioni poste in essere. Invece, gli IAS/IFRS muovono in modo opposto,
in quanto le operazioni sono rilevate avendo riguardo alla “sostanza” economica delle stesse, a prescindere
dalla forma giuridica prescelta. Di conseguenza, devono intendersi derogati i criteri temporali di imputazione
dei componenti reddituali in conformità alla diversa natura di bilancio assunta dall’operazione.

La disciplina di adeguamento delle disposizioni del TUIR ai principi contabili internazionali, introdotta
dalla legge n° 244/2007, è stata integrata dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 1°
Aprile 2009, n° 48 (cd. Regolamento IAS) e dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze,
datato 8 Giugno 2011.

c) I principi contabili nazionali

Per quanto concerne le società che adottano i principi contabili nazionali, il d.lgs. n° 139/2015,
attuativo della direttiva 2013/34 UE del 26 Giugno 2013, ha riscritto le regole di predisposizione del
bilancio di esercizio. In sintesi, tale provvedimento ha delineato in primo luogo tre categorie di imprese,
differenziando il contenuto dell’informativa di bilancio in funzione della loro rispettiva dimensione: quelle che
redigono di bilancio in forma ordinaria, quelle che lo redigono in forma abbreviata (le piccole imprese) e
quelle che adottano una forma ultra-specifica (cd. microimprese). In secondo luogo, ha introdotto nel nostro
ordinamento una serie di principi e di regole di rappresentazione che evocano analoghi istituti già presenti
nell’ambito degli standard contabili internazionali IAS/IFRS. In questo modo, si è realizzata una convergenza
sostanziale tra bilancio redatto secondo le regole del codice civile e il bilancio delle imprese “IAS adopter”.

A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n° 139/2015 e della revisione dei principi contabili, sono state
adeguate le norme fiscali alla nuova disciplina sul bilancio. In particolare, con una modifica dell’art. 83,
comma 1, del TUIR, è stato previsto che:

- Per i soggetti, diversi dalle microimprese, che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni del codice
civile, ai fini della determinazione del reddito complessivo da assoggettare a IRES, valgono i criteri di
qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai principi contabili di
riferimento, anche in deroga alle regole del TUIR.

- Ai soggetti, diversi dalle microimprese, che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni del codice
civile, si applicano, “in quanto compatibili”, le disposizioni attuative che delimitano la portata del principio
di derivazione rafforzata per i soggetti “IAS adopter”.

Con un Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 3 Agosto del 2017 sono state elencate
le disposizioni dei due decreti IAS sopracitati, che si rendono applicabili alle società che adottano gli OIC. In
particolare, viene estesa a questi soggetti la declinazione del concetto di derivazione rafforzata, già previsto
per i soggetti IAS/IFRS, riconoscendo fiscalmente le qualificazioni di bilancio ispirate al principio della
prevalenza della sostanza sulla forma. In questo senso, è stata estesa anche ai soggetti OIC la deroga alle
disposizioni dell’art. 109, commi 1 e 2, del TUIR che subordinano la rilevanza fiscale dei costi e dei ricavi
ponendo prevalentemente riferimento:

- Alle condizioni di certezza e determinabilità dei componenti reddituali (comma 1).


- Al trasferimento della proprietà di un bene in senso formale (comma 2).

È importante tenere presente che il nuovo principio di derivazione rafforzata non si applica alle cd.
Microimprese, cioè, a quelle imprese che rientrano nella categoria dimensionale definita dall’art. 2435-ter
c.c.; questi soggetti devono attenersi al dato giuridico delle operazioni compiute, a prescindere dalle
risultanze di bilancio.

Si profila, ai fini dell’IRES, un sistema “tripartito” in cui, accanto alla categoria delle imprese “IAS adopter” e
a quella delle imprese OIC (con bilancio ordinario e abbreviato), che seguono una derivazione dell’imponibile
dal bilancio redatto in base ai rispettivi standard contabili di riferimento, vi è una terza categoria di soggetti,
le cd. microimprese, che rimane vincolata al rispetto delle regole tradizionali del TUIR, indipendentemente
dall’impostazione di bilancio e che è rimasta insensibile al processo di avvicinamento al regime contabile
fiscale delle imprese “IAS adopter”.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO VII : PRINCIPI E NOZIONI IN FASE DI ISTRUTTORIA E DI


ACCERTAMENTO

PRINCIPI (PARTE I)

1. L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e il principio di collaborazione e buona fede

La dottrina si è a lungo interrogata sulla natura delle obbligazioni tributarie; qualificarle come di diritto
privato o pubblico significa individuare in concreto la normativa ad esse applicabile. L’obbligazione
tributaria non differisce, nei suoi aspetti ontologici, dalle obbligazioni tipiche del diritto civile; tuttavia,
contemporaneamente essa è priva di alcune facoltà e poteri propri dei soggetti titolari di diritti soggettivi,
ovvero dei soggetti titolari di un obbligazione. Le facoltà in questione sono: la rinuncia, il rifiuto, la
rimessione, la compromissione, la transazione e tutti quegli istituti che si concretizzano in un unico grande
potere: quello di disposizione dell’obbligazione. Il motivo per cui tale l’obbligazione manca di queste ultime
caratteristiche è proprio la sua connotazione tributaria. In altre parole, “l’indisponibilità dell’obbligazione
tributaria” indica che: il tributo non è soggetto a contrattazione o accordi tra le parti e disporre pienamente
dell’obbligazione tributaria significherebbe ledere gli interessi della collettività.

In sostanza, l’A.F. non può sostituirsi al legislatore nell’esercizio di un dovere-potere finalizzato alla tutela
dell’interesse pubblico ed attuato attraverso il puntuale, giusto e regolare prelievo di entrate tributarie
finalizzate alla copertura delle spese pubbliche. Tale potere impositivo deve essere esercitato in modo tale
che l’imposta sia paritariamente e imparzialmente ripartita a carico di ciascun contribuente secondo dei
criteri fissati dalla legge. La legge tributaria trova la sua fonte e i suoi confini negli artt. 2, 3, 53 e 97 Cost.,
e nel principio della “good governance” sancito e riconosciuto a livello europeo. A tal proposito, si può
affermare che, nel nostro ordinamento, i principi di indisponibilità dell’obbligazione tributaria e di vincolatività
dell’azione amministrativa, abbiano il loro fondamento nella Costituzione. L’A.F., nello svolgimento della sua
attività di indirizzo, nel rispetto dei principi sopracitati, è volta a garantire il rispetto dell’efficienza e
dell’imparzialità da parte degli uffici periferici nell’esercizio dei propri poteri discrezionali. Quest’attività di
indirizzo si esercita attraverso l’emanazione di atti regolamentari ed interpretativi aventi diversa efficacia,
che rientrano tra le fonti di diritto tributario e che si fondano su disposizioni di legge. L’emanazione di tali atti
concorre a determinare il sistema delle fonti di diritto tributario vincolato dall’art. 23 Cost., oltre a consentire
l’esercizio di un’attività discrezionalità come ad esempio nel caso del redditometro o dei criteri selettivi per
individuare i contribuenti da sottoporre a verifica.

Inoltre, il diritto tributario è caratterizzato da istituti quali: il condono, l’accertamento con adesione, la
conciliazione giudiziaria, la cd. “adesione ai processi verbali di contestazione (recentemente abrogata), la
mediazione obbligatoria per le liti con valore pari o inferiore a 50.000 euro, l’autotutela, che potrebbero
sembrare eccezioni rispetto alla regola in esame, ma non lo sono. Questi istituti, permettono definizioni
concordate e/o anticipate in un momento in cui l’obbligazione tributaria non è ancora certa nell’an (cioè nel
“se”) e nel quantum.

L’attività conoscitiva e di indirizzo dell’A.F. deve essere espletata nel rispetto di alcune regole
fondamentali riconosciute dallo Statuto dei diritti del contribuente: si pensi ai “principi della buona fede” e
di “conoscenza e chiarezza degli atti”, ecc., che in prima analisi potrebbero interferire con la regola della
indisponibilità dell’obbligazione tributaria. Detti principi di matrice privatistica, devono essere contestualizzati
in un sistema pubblicistico nel quale si inserisce il dovere costituzionale di contribuire alle spese pubbliche
attraverso il pagamento dei tributi. Tutti questi principi vanno letti in armonia con l’art. 97 Cost., con la
conseguenza che la P.A. deve perseguire l’interesse pubblico generale contemperando gli interessi pubblici
con quelli privati e non può disporre della singola obbligazione tributaria ma, attraverso tali principi, può
raggiungere il fondamentale obiettivo di un prelievo fiscale basato sull’effettività della capacità contributiva.
Tutti i principi presi in esame, rappresentano regole a cui l’A.F. deve attenersi per effettuare un’attenta
ponderazione nell’individuazione dell’obbligazione tributaria.

2. L’interesse fiscale

L’interesse fiscale è quel valore insito nel nostro ordinamento tributario destinato ad assicurare il regolare
svolgimento dell’attività finanziaria dello Stato, attraverso il regolare funzionamento dei servizi statali. In
sostanza, attraverso la percezione dei tributi si posso perseguire tutti i pubblici servizi conformi ai valori
fondamentali codificati dalla Costituzione. L’intera legislazione fiscale ha legittimità costituzionale solo se
finalizzata a perseguire o rafforzare quel riparto di regole, giusto ed universale così come cristallizzato nella
Costituzione, che garantiscono una percezione del tributo e una fruizione dello stesso sotto forma di
pubblico servizio.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Al cittadino, ex art. 2 Cost., sono riconosciuti dei diritti inviolabili, sia come singolo, che come membro delle
formazioni sociali dove si svolge la sua personalità e non vi è dubbio che tra essi rientra anche il diritto alla
giustizia contributiva e all’equo riparto. Tuttavia, accanto a tale diritto si pone anche l’interesse del
contribuente ad attenuare il prelievo tributario cui è sottoposto, se non addirittura a sottrarsi lecitamente al
pagamento delle imposte. Si tratta di una tendenza finalizzata all’obiettivo di evitare che l’integrità del proprio
patrimonio sia intaccata da decurtazioni di ogni tipo. Oltre a questo interesse del singolo considerato nella
sua individualità, vi è l’interesse del cittadino considerato nella collettività e, in questo caso, il cittadino
contribuente, per garantire il corretto funzionamento del sistema tributario, è tenuto all’adempimento delle
proprie obbligazioni tributarie per contribuire allo sviluppo e alla tutela della società in cui vive. Di fatti,
ognuno, per quel che può, deve contribuire alla spesa pubblica senza sentirsi ingiustamente vessato,
spegnendo il proprio impulso egoistico nella certezza che ogni altro consociato rispetterà la regola.

3. Il contraddittorio con l’A.F. e la “cooperative compliance”

Il procedimento tributario è considerato species del più ampio genus rappresentato dal procedimento
amministrativo. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, in ambito tributario non è previsto in via generale e a
livello normativo un diritto di partecipazione del cittadino all’agere dell’A.F. Nel procedimento tributario non è
positivizzato un diritto del contribuente a contraddire e a dialogare con l’autorità amministrativa. Pur
mancando un principio generale di contraddittorio nell’ordinamento tributario, esso si può ricavare da norme
costituzionale a portata generale, come gli artt. 3 e 97 Cost., i quali consentono di determinare una migliore
economicità dell’azione amministrativa.

Tuttavia, già prima della riforma degli anni 70’ si erano cominciate a delineare forme di partecipazione del
privato. Esse, però, avevano una finalità meramente collaborativa rispetto all’attività accertativa e
all’interesse del fisco. In sostanza, il contribuente, di fronte ad un’attuazione del prelievo, aveva forme di
partecipazione (es: dichiarazione, tenuta delle scritture contabili, ecc.), rigorosamente previste dalla legge,
tutte finalizzate all’attuazione dell’interesse della P.A. al giusto prelievo erariale. Anche quando il contribuente
è ammesso a fornire una prova contraria rispetto alle presunzioni del fisco, si tratta di un apporto
liberamente valutabile dall’A.F. A partire dagli anni 70’, con la cd. Fiscalità di Massa, è cominciato a
mutare nel panorama sociale e giudico, il ruolo del contribuente; infatti, si era resa necessaria una nuova
forma di partecipazione del privato, che permettesse all’A.F. di giungere nella maniera più attendibile
possibile al presupposto di imposta senza dover basarsi sulle certezze dei dati risultanti dalle scritture
contabili e dalle dichiarazioni; il tutto avveniva attraverso la “richiesta di chiarimenti”, prevista dall’art. 2
della legge n°17/1985, obbligatoria a pena di nullità per la validità dell’accertamento basato su criteri
statico-matematici. Si assiste per la prima volta alla partecipazione del cittadino al procedimento
tributario, non per una mera collaborazione, ma in funzione di contraddittorio, cioè a tutela della propria
posizione giuridica, ossia dei propri diritti ed interessi.

Nel decennio successivo, è continuato il processo riformatore della disciplina partecipativa in materia
tributaria, che ha alleggerito sempre di più gli obblighi di dichiarazione elevando i limiti per l’esonero,
eliminando quasi del tutto gli allegati alle dichiarazioni dei redditi o Iva, riducendo gli obblighi contabili e di
documentazione. Insomma, il contribuente inizia a partecipare in modo attivo rispetto all’attuazione del
tributo (con la cooperazione) e riesce anche a tutelare le proprie posizioni giuridiche e patrimoniali (con il
contraddittorio). Nonostante ciò continua però a mancare una norma generale idonea a sancire in via
astratta il diritto del contribuente alla partecipazione attiva posta in essere dall’A.F., avente ad oggetto la
propria posizione erariale.

Il contribuente può partecipare all’attività istruttoria e di accertamento:

- Tutte le volte in cui dai controlli automatici o dal controllo formale della dichiarazione emerge un dato
diverso da quello dichiarato, l’A.F. deve comunicare al contribuente l’esito del controllo e garantirgli la
possibilità di fornire i chiarimenti ritenuti opportuni.

- Qualora l’A.F. ritenga di dover applicare la normativa antielusiva (ora antiabuso) e deve, a pena di nullità,
richiedere chiarimenti al contribuente.

- Prima dell’emissione di un avviso di accertamento sintetico, l’A.F. deve invitare il contribuente a


comparire per dargli la possibilità di dimostrare che il maggior reddito determinato sinteticamente non è
tassabile o è stato tassato.

- Terminate le verifiche fiscali, al contribuente devono essere concessi 60 giorni di tempo per effettuare le
proprie osservazioni e richieste all’ufficio. Inoltre, quest’ultimo fino al ricorso di tale termine non può
emanare l’avviso di accertamento salvo casi di particolare e motivata urgenza.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Non va trascurata, poi, l’ipotesi di un contraddittorio tra Ufficio e contribuente che termina con l’emissione di
un provvedimento di accertamento dell’A.F. sottoscritto per adesione anche dallo stesso contribuente. Si
tratta, dell’accertamento con adesione (cd. concordato) azionabile sia dal contribuente che dall’Ufficio. Vi
sono anche ipotesi in cui il legislatore ha dato all’A.F. non un obbligo, ma una mera facoltà di contraddire
con il contribuente; ad es. nel caso di emissione di un avviso di accertamento fondato su presunzioni
ricavate dai conti correnti bancari, l’A.F. può interpellare il contribuente al fine di fornire la prova contraria.
Un’altra ipotesi, invece, si ha quando è il contribuente a decidere di interloquire con l’A.F. , tramite il suo
diritto di interpello per ottenere dalla stessa l’esplicitazione di una linea interpretativa cui attenersi nel
compimento di una determinata operazione. Nella fase giudiziale, infine, vi è la possibilità per le parti del
processo tributario di poter ricorrere all’istituto della conciliazione giudiziale, per giungere ad una soluzione
condivisa dalla controversia in atto.

Con riferimento agli atti notificati a decorrere dal 1° Aprile 2012 il legislatore ha disposto che: “per le
controversie di valore non superiore a 20.000 euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle Entrate, chi
intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo”. La presentazione del reclamo è
condizione di inammissibilità del ricorso, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. L’ A.F., se non
intende accogliere il reclamo volto all’annullamento totale o parziale dell’atto, formula d’ufficio una proposta
di mediazione, tenendo presente dell’eventuale incertezza delle questioni controverse, del grado di
sostenibilità della pretesa e del principio di economicità dell’azione amministrativa. Tuttavia, diversi sono i
punti critici di questo istituto che non prevedere obbligatoriamente il contraddittorio tra le parti e che sancisce
la trasformazione automatica del reclamo in ricorso nel caso in cui non si pervenga ad un accordo.

Di recente, si è cercato di semplificare e migliorare il rapporto di collaborazione tra contribuente-impresa e


A.F. nelle pratiche elusive ed evasive, in linea con l’adozione di forme di interlocuzione avanzata basate sulla
collaborazione, la trasparenza e la fiducia reciproca, già diffuse in altri Paesi e note come: “Cooperative
Compliance Programmes (regime di adempimento collaborativo)”. In particolare, la cooperative compliance
determinerà l’assunzione di particolari doveri da parte dell’A.F.: si pensi all’obbligo per l’Agenzia delle Entrate
di pubblicare periodicamente sul proprio sito le operazioni di pianificazione fiscale ritenute “aggressive”. I
contribuenti, infine, potranno giungere con l’Agenzia delle Entrate ad una comune valutazione delle
situazioni suscettibili di generare rischi fiscali prima di effettuare determinate operazioni o prima di
presentare le dichiarazioni fiscali. In quest’ottica è stata introdotta una procedura abbreviata di interpello
preventivo, con un termine per la risposta di 45 giorni ed è prevista una riduzione delle sanzioni a metà se
l’Amministrazione non condivide la posizione dell’impresa.

4. Il diritto di accesso agli atti

L’accesso ai documenti amministrativi, nato con la legge n° 241/1990, è un principio generale molto
importante, poichè garantisce la trasparenza dell’agere amministrativo. In base all’art. 117, comma 2, lett.
m), Cost., spetta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato garantire uniformemente tale principio su tutto
il territorio nazionale. Contestualmente al diritto di accesso, quale diritto fondamentale dell’azione
amministrativa, il legislatore ha previsto delle ipotesi di esclusione di accesso a determinati documenti
amministrativi (tra i quali quelli tributari), per esigenze di tutela del segreto e della riservatezza. Pertanto, le
norme attuali non riconoscono al cittadino un diritto di accesso agli atti tributari che lo riguardano, ossia, agli
atti di un procedimento tributario instaurato nei propri confronti. Tuttavia, si può ritenere che il diritto di
accesso sia parzialmente riconosciuto attraverso l’obbligo di conoscenza degli atti dell’A.F. previsto dall’art.
6 della legge n° 212/2000. Tale norma, prevede che l’A.F. deve assicurare al contribuente la conoscenza
degli atti a lui destinati attraverso delle comunicazioni e disciplina anche l’obbligo di informazione di ogni
fatto o circostanza a conoscenza della stessa A.F. dai quali possa derivare per il contribuente il mancato
riconoscimento di un credito o l’irrogazione di una sanzione.

5. Il principio di proporzionalità

Il principio di proporzionalità, criterio cardine di matrice europea e di orientamento nell’esercizio dei


pubblici poteri, risulta fondamentale in una materia come quella fiscale caratterizzata da mutamenti rapidi e
corposi. Tale principio non è contenuto né nella nostra Costituzione né nel nostro tessuto normativo, ma è
nato nell’ordinamento tedesco e ha iniziato ad operare anche negli ordinamenti nazionali, trovando un
pieno riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che, sin dagli inizi degli anni 60’, lo ha
elevato al rango di principio generale dell’ordinamento europeo. Tuttavia, il legislatore tributario ha
riconosciuto che il principio di proporzionalità può essere pienamente utilizzabile anche nelle questioni
tributarie. La proporzionalità è un parametro utile all’individuazione della più appropriata intensità dell’autorità
impositiva e contribuisce alla determinazione dei limiti alla legittimità delle “scelte” amministrative.

52
DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Nel nostro ordinamento, il principio in esame viene a qualificarsi come principio pienamente normativo a
seguito di una sua previsione all’interno del nuovo testo dell’art. 1 della legge n° 241/1990, secondo la
quale: “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità,
efficienza, pubblicità e trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle disposizioni
che disciplinano i singoli procedimenti nonché dall’ordinamento comunitario”. In base al principio di
proporzionalità, gli interventi del legislatore e le azioni della P.A., anche in materia tributaria, devono essere
idonei al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, arrecando il minor pregiudizio o sacrificio possibile
all’individuo. Più in particolare, tale principio garantisce una più fedele ricostruzione del presupposto e, della
finalità della legge tributaria, nel rispetto della norma costituzionale sulla capacità contributiva e
dell’effettività. Dunque, la proporzionalità regola la discrezionalità amministrativa e si pone quale canone
essenziale di interpretazione delle disposizioni normative, rappresentando, in ambio europeo, un
nuovo contro-limite che integra ed espande in materia tributaria la portata dei fondamentali principi
costituzionali posti a salvaguardia dei diritti del contribuente. La proporzionalità, inoltre, consente alle
autorità nazionali la corretta operatività di una serie di garanzie quali: la coerenza, l’imparzialità, la tutela
dell’affidamento dell’azione amministrativa, contemperando l’interesse fiscale che deve salvaguardare
l’attività dell’A.F.. Insomma, essa riesce a rafforzare il diritto di difesa sia durante l’istruttoria procedimentale,
che in fase processuale.

6. La riservatezza e la privacy

Nell’esercizio della propria azione di verifica, l’A.F. può venire a conoscenza di dati, notizie ed informazioni
personali relative ai singoli contribuenti. La possibilità di venire in contatto con aspetti e notizia propri del
singolo cittadino configge con il diritto riconosciuto a quest’ultimo di veder non violata la propria riservatezza.
Proprio per contemperare queste esigenze opposte il legislatore ha dettato una serie di norme tese a
disciplinare lo svolgimento delle ispezioni per preservare il diritto alla riservatezza spettante al singolo.
Nel settore tributario, proprio per la presenza di un interesse pubblico, il diritto alla privacy trova un
contemperamento più rilevante rispetto ad altri settore in cui pure enti istituzionali si trovano ad agire e a
conoscere dati, notizie ed informazioni sui cittadini. Infatti, l’A.F. è legittimata, durante l’effettuazione di
verifiche ed ispezioni fiscali, ad accedere a qualunque dato personale senza nessuna necessità di ottenere il
parere favorevole dell’interessato, con il solo limite di attenersi alla disciplina tributaria dettata in materia,
così come non è tenuta ad effettuare alcuna notifica al garante della privacy. Dei problemi di riservatezza si
sono verificati a seguito dell’introduzione del nuovo redditometro che consente l’acquisizione e la
conservazione di una molteplicità di dati relativi ad ogni tipo di spesa effettuata. Inoltre, l’A.F. potrà anche
procedere al trattamento dei dati sensibili e giudiziari con l’unico limite di impiegare tali dati solo ai fini di
natura erariale. Insomma, l’A.F. nell’esercitare il proprio potere potrà trattare solo quei dati sensibili e
giudiziari che si rivelino strettamente necessari ai fini fiscali, mentre dovrà limitare all’utilizzo dei soli dati
personali o anonimi quando ciò non ostacoli l’efficacia del controllo e comunque risulti possibile.

7. Chiarezza e trasparenza degli atti dell’Amministrazione Finanziaria

Negli ultimi decenni (ove vi è stata un’importante evoluzione normativa in merito alla regolazione dei
rapporti tra P.A. e privati), i principi di fonte costituzionale quali quelli dell’imparzialità, del buon
andamento e della trasparenza, hanno radicalmente rivoluzionato i modelli gestionali e organizzativi
dell’A.F., in generale, e dei suoi rapporti con il cittadino, in particolare. In tale contesto il cittadino gode di
forti garanzie dei confronti dell’agere amministrativo, perchè in questo modo si permette all’utente di
conoscere e capire i criteri in applicazione dei quali è stato esercitato il potere amministrativo e gli garantiste
nel contempo un adeguato diritto di difesa.

Dopo l’emanazione della legge n° 241/1990, che ha profondamente riformato (in senso garantista) il
rapporto tra cittadino e Fisco, l’ordinamento tributario è stato innovato con l’introduzione dello Statuto dei
Diritti del Contribuente, che all’art. 7 ha espressamente previsto che:

“Gli atti dell’A.F. e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare:

- l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato
e il responsabile del procedimento.

- L’organo o l’autorità amministrativa presso il quale è possibile promuovere un riesame, anche nel merito,
dell’atto in sede di autotutela.

- Le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso
di atti impugnabili”.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’art. 7 ha portato al riconoscimento, a favore del contribuente, di un diritto all’informazione e alla


chiarezza degli atti, ponendosi come un’ importante anello di congiunzione tra lo Statuto dei diritti del
contribuente e i principi fissati dall’art. 97 Cost.; insomma, anche l’esercizio di un potere amministrativo
vincolato, quale è quello impositivo, deve ispirarsi a criteri di assoluta trasparenza.

8. L’autotutela

L’autotutela è espressione di un potere riconosciuto alla P.A. di rimuovere essa stessa gli ostacoli che
si frappongono fra il provvedimento ed il risultato cui la stessa P.A. mira, ossia, la realizzazione
dell’interesse pubblico. In particolare, l’interesse pubblico in materia tributaria deriva dal combinato
disposto dei principi dettati dall’art. 53 Cost. (Capacità contributiva) e l’art. 97 Cost. (Buon andamento ed
imparzialità della P.A.) e consiste nella giusta esazione delle imposte. Inoltre, tale principio va raccordato con
quello di legalità e buona fede cui deve attenersi la P.A. nel proprio agere. Ne deriva che se l’atto tributario
risulta viziato, in quanto posto in essere in violazione di norme di legge ovvero in modo da non garantire un
concreto prelievo fiscale, l’A.F. ha il dovere di provvedere utilizzando l’istituto dell’autotutela. In particolare, il
provvedimento emesso potrà essere annullato o revocato; più precisamente, si apre l’annullamento degli atti
che presentano vizi di legittimità e la revoca degli atti infondati, ossia, viziati nel merito.

Questo istituto trova riconoscimento nello Statuto dei diritti del contribuente quando dispone che gli atti
dell’A.F. e dei Concessionari della riscossione devono indicare tassativamente l’organo e l’autorità
amministrativa presso i quali è possibile ottenere un riesame dell’atto stesso. I provvedimenti tributari che
possono essere suscettibili di autotutela sono gli atti impositivi e tutti gli atti della riscossione.
L’autotutela può essere richiesta direttamente dal contribuente o può essere azionata d’ufficio; ciò sia prima
che l’atto sia impugnato in sede giudiziale, sia in pendenza di giudizio che dopo che l’atto stesso sia
divenuto definitivo. In realtà, neppure il formarsi del giudicato impedisce in via assoluta l’esercizio del potere
di autotutela da parte dell’A.F., essa, infatti, sarà pur sempre possibile a condizione che la ceduazione
dell’atto sia effettuata per ragioni che non vadano a contraddire le motivazioni della sentenza passata in
giudicato.

In ordine al potere di annullamento e di revoca, va detto che esso spetta all’Ufficio che ha emanato
l’atto illegittimo, oppure, in via sostitutiva, in caso di grave inerzia, alla Direzione Generale o
Compartimentale sovraordinata. Considerato che gli atti emessi dall’A.F. sono sempre vincolati e mai
discrezionali, se ne deduce che l’Ufficio, in presenza di un atto viziato, deve procedere alla “correzione” dello
stesso mediante il suo annullamento o riesame. Inoltre è stato ipotizzato che, in caso di mancata
autotutela, il contribuente sarebbe titolare di una situazione di interesse legittimo o di un diritto soggettivo,
con conseguente possibilità di risarcimento per lesione della posizione giuridica violata. Infine, il rifiuto
espresso o tacito dell’A.F. a procedere all’esercizio dell’autotutela a fronte di una istanza del privato, può
essere impugnato innanzi al giudice tributario.

LA FASE ISTRUTTORIA (PARTE II)

1. I poteri istruttori

L’attività istruttoria dell’A.F. ha carattere conoscitivo ed è in grado di intaccare diritti e libertà


costituzionalmente garantiti, per questo è inderogabilmente soggetta al principio di riserva di legge ex art.
23 Cost. I poteri istruttori si sostanziano in un’attività di controllo, da parte dell’A.F., della corretta
determinazione dell’imposta e del rispetto dei connessi obblighi formali da parte del contribuente. A tal
proposito, assumono particolare importanza: gli accessi, le ispezioni e le verifiche. A fronte
dell’esercizio di questi poteri, la posizione del contribuente può consistere in un facere (si pensi all’ipotesi
dell’invito a comparire), in un dare (si pensi all’invito ad esibire i documenti) o in un pati (si pensi
all’accesso).

Le fonti dei poteri istruttori, in mancanza di una norma generale che li disciplini, sono contenute nelle
singole leggi di imposta e i soggetti legittimati all’esercizio degli stessi sono: l’A.F. e la Guardia di
Finanza.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

In particolare, l’A.F. può:

- Procedere all’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche.


- Invitare i contribuenti a comparire per fornire dati e notizie, ovvero per esibire o trasmettere atti e
documenti.
- Inviare questionari per l’acquisizione di dati e notizie.
- Richiedere a soggetti terzi, anche dell’Amministrazione dello Stato, che effettuano riscossioni e
pagamenti, dati e notizie per singoli soggetti o per categoria.
- Avviare, previa apposita autorizzazione, indagini finanziarie nei confronti di soggetti preventivamente
individuati, attraverso specifiche richieste da inoltrare agli intermediari finanziari.

Da ciò si deduce che le modalità di controllo a disposizione dell’A.F. possono distinguersi in tre
tipologie:

- poteri istruttori esterni che si concretizzano in un intervento presso il luogo in cui si svolge l’attività del
contribuente.
- Poteri istruttori operati per iscritto “a distanza” nei confronti del soggetto controllato.
- Poteri istruttori nei confronti dei terzi.

La scelta dell’A.F. di esercitare uno o più poteri deve tener conto: da un lato, del rispetto dei principi di
efficienza, efficacia ed economicità; dall’altro lato, del diverso grado di ingerenza dei vari strumenti istruttori
nella sfera giuridica del contribuente.

Se si riscontra una certa discrezionalità nell’individuazione degli strumenti utilizzabili dall’A.F., essa non può
essere né assoluta e né arbitraria, incontrando il limite: delle garanzie previste dalla Costituzione a tutela
della persona, della privacy e del domicilio; dei principi di imparzialità, buon andamento della P.A. e capacità
contributiva; delle disposizioni contenute nello Statuto dei diritti del contribuente. Per quanto concerne poi i
soggetti destinatari dei poteri ispettivi, l’A.F. deve attenersi ai criteri selettivi stabiliti nei decreti di
programma emanati annualmente.

2. La liquidazione e il controllo formale della dichiarazione

La liquidazione, prevista dall’art. 36-bis del d.p.r. n° 600/1973, è un controllo automatico della
dichiarazione in via informatica ed è volto a correggere errori risultanti dal contenuto della dichiarazione
stessa e dagli elementi in possesso dell’Anagrafe Tributaria. La comunicazione volta alla liquidazione
immediata è effettuata attraverso atto impositivo da notificare entro il periodo di presentazione della
dichiarazione per l’anno successivo, preceduto da avviso bonario che consente al contribuente di evitare
l’iscrizione a ruolo adempiendo o fornendo entro 30 giorni chiarimenti o elementi necessari. La
giurisprudenza ha interpretato la norma nel senso che solo gli errori necessitano dell’avviso bonario, non
anche l’omesso o tardivo versamento.

L’art. 36 del d.p.r. n° 600/1973 disciplina il cd. controllo formale delle dichiarazioni. Attraverso tale
strumento l’A.F. procede ad una valutazione delle dichiarazioni dei redditi presentate dai contribuenti e
dai sostituti d’imposta, soffermandosi in particolare su alcune voci della dichiarazione meritevoli di essere
giustificate documentalmente dal soggetto passivo di imposta. Tuttavia, non tutte le dichiarazioni presentate
sono sottoposte a tale controllo, ma solo quelle individuate sulla base dell’applicazione di appositi criteri
selettivi fissati dal Ministero delle Finanze e comunque entro il 31 Dicembre del secondo anno
successivo a quello di presentazione delle stesse.

La finalità del controllo formale delle dichiarazioni è quella di vagliare con attenzione alcuni suoi
elementi, quali: deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, ecc., pretendendo che per gli stessi vengano forniti
dal dichiarante chiarimenti ed idonei documenti giustificativi. Se ne deduce che il contribuente è parte
essenziale di tale procedimento e di fatto esso è invitato espressamente dagli Uffici Finanziari a fornire
tutti i chiarimenti relativi alle voci della dichiarazione oggetto di controllo. L’esito di tale procedura dipende
fortemente da quanto e come il contribuente sia riuscito a giustificare rispetto ai dati formalmente dichiarati
all’A.F.. L’esito del controllo formale deve essere comunicato al contribuente con un atto motivato che
indichi le ragioni che hanno dato luogo alla rettifica delle imposte, dei contributi e dei premi dichiarati. In
questo modo il destinatario dell’atto sarà messo nella condizione di segnalare eventuali dati ed elementi
valutati erroneamente o non considerati dall’ufficio. In sostanza, il controllo formale ex art. 36-ter del d.p.r.
n° 600/1973 è diretto all’approfondita verifica della correttezza della dichiarazione. Se all’esito del
controllo, il contribuente dovesse risultare debitore di un maggior carico tributario, lo stesso riceverà la
suddetta comunicazione e potrà versare la somma dovuta in sede di autoliquidazione, evitando l’iscrizione a
ruolo con conseguente riduzione della sanzione ad un terzo.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

3. Il controllo sostanziale: accessi, ispezioni e verifiche

Il controllo sostanziale delle posizioni fiscali dei contribuenti viene effettuato dagli organi preposti
(A.F., Guardia di Finanzia, Agenzia delle Entrate) attraverso specifici poteri di indagine, che sono poteri
investigativi non generalizzati ma specifici, tassativamente individuati ed esercitabili solo a fronte del
verificarsi dei presupposti legislativamente previsti e nel rispetto delle libertà fondamentali del contribuente,
tutelate dalla stessa Costituzione. In una delicata opera di bilanciamento di interessi contrapposti, il
legislatore ammette la limitazione di libertà fondamentali e garanzie personali solo se ricorrono delle finalità
di carattere erariale ben individuate, anch’esse di interesse pubblico e tutelate dalla Costituzione. Pertanto, è
da riconoscere in capo al contribuente un diritto di appurare, all’inizio della verifica, la sussistenza
dell’interesse conoscitivo del Fisco ad esaminare la sua posizione tributaria, ricevendo
un’informazione chiara ed esaustiva. Inoltre, esistono una serie di diritti e garanzie riconosciuti dall’art. 12
dello Statuto dei diritti del contribuente, come l’obbligo di informare il contribuente dell’inizio o dello
svolgimento delle verifiche fiscali, arrecando la minor turbativa alle attività del contribuente.

I singoli momenti che compongono la verifica fiscale sono:

• L’accesso: con questo termine si intende l’ingresso e la permanenza degli impiegati dell’A.F. e della
Guardia di Finanza in un determinato luogo (compreso le sedi degli enti non commerciali), anche contro
la volontà del contribuente.

Le posizioni giuridiche del contribuente che l’A.F. si trova a dover forzare in sede di “accesso” sono
particolarmente significative, avendo esse forte rilevanza costituzionale. Ci si riferisce al diritto alla libertà
individuale, al domicilio e più in generale alla riservatezza. Per questo motivo l’accesso deve essere
autorizzato. Inoltre, l’autorizzazione deve obbligatoriamente indicare i motivi dell’accesso, soprattutto se
questo avviene in abitazioni private. I soggetti legittimati al rilascio di tali autorizzazioni sono: il Capo
dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate o il Comandante di zona della Guardia di Finanza. La disciplina
varia se sono locali destinati all’esercizio di attività commerciali; locali destinati all’esercizio di arti o
professioni; locali aventi altra destinazione (es. abitazioni):

- Per l’accesso eseguito in locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricola ed artistica:
è sufficiente l’autorizzazione del Capo dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate o del Comandante di zona
della Guardia di Finanza.

- Per l’accesso eseguito nei locali destinati all’esercizio di arti o professioni: è richiesta la presenza
del titolare dello studio o di un suo delegato; se sono studi professionali per l’esame di documenti per cui
vige il segreto professionale, sarà necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.

- Per l’accesso in locali aventi altra destinazione (abitazioni o locali cd. misti): è necessaria
l’autorizzazione del Capo dell’Ufficio, mentre per accedere in locali adibiti anche ad abitazione, oltre
all’autorizzazione rilasciata dai soggetti suddetti, è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della
Repubblica (è un atto amministrativo discrezionale che deve essere motivato ed è sindacabile dal giudice
tributario), la quale potrà avvenire sulla base della semplice esigenza, avanzata dall’A.F., di effettuare un
controllo fiscale;

- Per accedere ai locali destinati esclusivamente ad abitazione: il rilascio dell’autorizzazione da parte


del Procuratore della Repubblica è subordinato alla sussistenza di significativi indizi di violazione delle
norme impositive dettate in tema di imposte sui redditi ed Iva e deve anche essere strettamente
funzionale al reperimento di libri, registri, documenti e atti idonei a provare tali violazioni.

L’autorizzazione del Procuratore della Repubblica è necessaria ogniqualvolta si deva procedere


con perquisizioni personali o anche per procedere all’apertura coattiva di plichi sigillati, borse, cassaforti,
ecc.

Al fine di evitare duplicazioni dell’attività ispettiva, con l’art. 7 del d.l. n° 70/2011 (cd. Decreto Sviluppo)
è stato introdotto l’obbligo di coordinamento preventivo dell’attività di verifica in forma di accesso tra:
le Agenzie Fiscali, Guardia di Finanza ed Enti Previdenziali e del Lavoro. In pratica, le P.A. hanno l’onere di
scambiarsi, preventivamente e telematicamente, i dati inerenti l’attività di verifica da intraprendere e, chiusa
la verifica, di comunicare i dati che riguardano le competenze di ciascun ente.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’art. 12, comma 6, dello Statuto dei diritti del contribuente, disponeva che la permanenza presso la sede
del contribuente non potesse superare i 30 giorni lavorativi, prorogabili ad ulteriori 30 nei casi di particolare
complessità e che i verificatori, solo per specifiche ragioni o per esaminare osservazioni e richieste
eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica, possono
ritornare presso la sede del contribuente. Con il Decreto Sviluppo è stato poi disposto che la permanenza
presso la sede del contribuente non potesse superare i 15 giorni lavorativi contenuti nell’arco di un trimestre.

• L’ispezione: si concretizza in un esame della documentazione contabile in possesso del soggetto


sottoposto a verifica. La presa visione dei documenti non è vincolata ad un obbligo di conservazione degli
stessi, per cui l’A.F. può ispezionare tutti i libri, registri, documenti e scritture contabili che si trovano nei
locali, indipendentemente dalla loro obbligatorietà. I libri e le scritture contabili che non verranno esibite in
corso di ispezione, non potranno successivamente essere presi in considerazione in sede amministrativa
o contenziosa.

• Le verificazioni: consistono in un controllo effettuato dagli organi ispettivi nei confronti del personale,
degli impianti e delle merci, con l’obiettivo di compiere un riscontro sulla correttezza della contabilità.

Tutte le attività compiute durante l’accesso, nonché le richieste fatte e le risposte ottenute, devono
essere descritte cronologicamente ed analiticamente dai soggetti precedenti nel cd. “processo verbale di
verifica”, che deve essere sottoscritto dal contribuente che ha diritto di averne copia. Al termine di tutte le
operazioni viene redatto un “processo verbale di constatazione”, nel quale vengono sintetizzati i dati
rilevanti durante l’attività investigativa.

4. Le verifiche bancarie

Gli accertamenti bancari costituiscono uno dei mezzi istruttori utilizzati a supporto dell’A.F., ai fini
dell’accertamento dei redditi del contribuente. Tale potere di indagine ha sempre trovato un limite,
inizialmente invalicabile, nel segreto bancario. Quest’ultimo non è previsto in via generale ed espressa da
nessuna norma ed è stato considerato come discendente diretto delle norme costituzionali relative alla tutela
del risparmio e dell’investimento.

Pertanto, fino al 1971 in Italia, si riteneva che il segreto bancario non potesse subire deroghe neppure
ai fini fiscali. Tuttavia, a partire dalla legge delega n° 825/1071, il legislatore ha ritenuto di consentire,
seppur timidamente, la previsione di prime, piccole deroghe al segreto bancario. Con il d.p.r. n° 462/1982, il
legislatore ha fatto un passo avanti nell’abbattimento di tale ostacolo. Ma è con la legge n° 413/1991 che il
legislatore è intervenuto a ridimensionare notevolmente la rilevanza del segreto bancario in ambito tributario,
prevedendo l’abolizione dello stesso.

Attualmente, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza possono svolgere indagini senza il limite
imposto dal segreto bancario. La stessa Corte Costituzionale ha poi chiarito che il dovere di riservatezza,
quale esplicazione del segreto bancario, non può essere tutelato al punto da ostacolare la necessaria attività
di accertamento degli illeciti tributari. Pertanto, al momento per svolgere le indagini bancarie, gli organi
ispettivi devono essere muniti di autorizzazione rispettivamente concessa dal Direttore Centrale
dell’Accertamento dell’Agenzia delle Entrate, dal Direttore Regionale della stessa e dal Comandante
Regionale.

Inoltre, l’A.F. può chiedere alle banche e/o all’Amministrazione postale e/o alle Società di investimento e
agli Intermediari Finanziari, una copia dei conti intrattenuti con il contribuente indagato, con la
specificazione di tutti i rapporti connessi o inerenti a tali conti, comprese le garanzie prestate da terzi. Nel
caso in cui le banche o l’amministrazione postale non trasmettano tempestivamente i dati richiesti, o non vi
sia il fondato sospetto che le notizie trasmesse siano inesatte o incomplete, l’A.F., previa autorizzazione del
Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate, può disporre l’accesso di propri funzionari presso le banche o
l’amministrazione postale ai fini di rilevare direttamente i dati richiesti o controllare l’esattezza e la
completezza di quelli ricevuti. Per giunta, le banche devono comunicare all’Anagrafe Tributaria il nome dei
loro clienti e la natura dei rapporti intrattenuti. Il potere di richiesta dell’A.F. è illimitato, potendosi
estendere a qualsiasi documento di natura bancaria relativo a qualunque rapporto e a qualunque operazione
effettuata tra banca e contribuente.

Una volta acquisiti i dati bancari ricercati, l’A.F. può chiedere al contribuente di comparire di persona o di
compilare questionari al fine di ottenere ulteriori dati e notizie. Se i dati rilevati tramite l’indagine bancaria
non trovano riscontro nella contabilità, opera una “presunzione legale” di evasione, che il contribuente
può superare solo giustificando le operazioni e i rilievi emersi in fase di verifica.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

I tipi di presunzione bancaria sono due, a seconda che si tratti di una verifica su una società, su un
imprenditore o su un lavoratore dipendente. Nel primo caso, esiste una “doppia presunzione legale di
evasione” e si ha nel caso in cui si riscontra un prelevamento non contabilizzato al quale segue (per questo
si dice doppio) una seconda presunzione legata ad un introito non dichiarato. Ciò perché si presume che il
prelevamento sia servito all’esplicazione dell’attività imprenditoriale, quindi, si tratta di un introito
praticamente “nero”, ossia, non dichiarato. La Corte Costituzionale, nel 2014, ha cambiato il suo
orientamento in materia e ha confermato la legittimità costituzionale della doppia presunzione legale di
evasione in capo alle persone fisiche ed imprenditori, quindi essi saranno tenuti a giustificare tutti i
prelevamenti da conti correnti ed anche versamenti, mentre si afferma che per i lavoratori autonomi o
dipendenti non ci sia necessità di giustificare prelevamenti, ma solo versamenti.

Un ulteriore potenziamento delle indagini finanziarie si è avuto con il d.l. n° 138/2011, il quale ha
previsto che, dal 1° Gennaio 2012, gli operatori finanziari sono obbligati a comunicare periodicamente con
l’Anagrafe tributaria le movimentazioni relative ai rapporti finanziari e ogni altra informazione relativa ai
predetti rapporti necessaria ai fini dei controlli fiscali, nonché l’importo delle operazioni finanziarie stesse. In
tal modo, gli operatori finanziari dovranno collaborare per l’elaborazione di “liste selettive meramente
ricognitive” di contribuenti dalle quali poter attingere per scegliere i soggetti da sottoporre ad
accertamento fiscale. A tal proposito, però, si è chiarito che nessun Ufficio dell’Agenzia delle Entrate avrà la
possibilità di accedere automaticamente alle informazioni stesse. Solo qualora sia attivato un controllo,
l’ufficio potrà ottenere informazioni di dettaglio sul contenuto dei rapporti finanziari mediante specifica
richiesta telematica preceduta da una regolare autorizzazione agli intermediari finanziari.

5. Il processo verbale di constatazione

Al termine delle operazioni di accesso, ispezione e verifica l’A.F. o la Polizia Tributaria redigono un
documento che sintetizza l’esito delle operazioni di controllo effettuate. Tale documento prende il nome di
PVC (Processo Verbale di Contestazione); si tratta di un atto meramente istruttorio, quanto la sua
funzione è unicamente quella di portare a conoscenza degli Uffici Finanziari le violazioni normative compiute
dal contribuente e accertate a seguito dell’esercizio dei poteri di indagine. Una volta avuta la conoscenza
dello stesso, l’A.F. ne esamina il contenuto e, se ritiene di condividere le conclusioni dei verbalizzanti,
provvede ad emettere un avviso di accertamento specificando le ragioni logico giuridiche su cui si fondano le
contestazioni ed imputando, in maniera autoritaria e definitiva al soggetto passivo di imposta, le valutazioni
poste in essere.

I verbalizzanti sono pubblici ed ufficiali, dunque, il processo verbale di constatazione da loro redatto
assume la valenza di atto pubblico. Il PVC deve essere sottoscritto dal contribuente e tale
sottoscrizione è espressione della collaborazione dello stesso alla redazione del processo verbale,
ponendosi come dimostrazione certa della presa visione dell’atto da parte del destinatario delle operazioni di
verifica fiscale in esso descritte. La sottoscrizione, però, non ha nessuna portata confermativa dei rilievi in
esso riportati, né alcuna efficacia sanante degli eventuali vizi in esso contenuti. Le dichiarazioni rese dal
contribuente nella fase di accesso e riportate nel PVC, assumono rilievo di ammissione e non quello di
confessione; ciononostante, si ritiene che l’A.F. non necessiti di ulteriori prove per supportare i propri rilievi.
In ogni caso, le eventuali dichiarazioni rese dal contribuente e relative ai rilievi formulati nel PVC, dovrebbero
attenere esclusivamente alle operazioni meramente materiali svolte dai verificatori, ma non anche alle
deduzioni e presunzioni che gli stessi abbiano ritenuto di trarre in base a valutazioni logiche. Queste, infatti,
essendo opinioni di una parte del procedimento di verifica possono essere suscettibili di verifica sotto ogni
aspetto dinanzi al giudice tributario e una loro preventiva accettazione pregiudicherebbe il diritto di
impugnare il successivo avviso di accertamento.

Una delle forme di tutela del contribuente nella fase di verifica fiscale, in applicazione del principio di
collaborazione tra Fisco e contribuente, così come indicato dall’art. 12, comma 7, della legge n° 212/2000,
consiste nella possibilità offerta a quest’ultimo di comunicare, entro 60 giorni dal rilascio della copia del PVC,
osservazioni e richieste che devono essere esaminate dagli Uffici Impositori. Pertanto, l’avviso di
accertamento non può essere emesso prima della scadenza di tale termine, pena la sua illegittimità, salvo
che non sia giustificato da particolari motivazioni di comprovata urgenza.

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I SINGOLI ATTI IMPOSITIVI (PARTE III)

Gli atti impositivi sono atti attraverso i quali l’A.F. porta a conoscenza del contribuente la propria pretesa,
all’esito di tutta una serie di aspetti procedimentali, come nel caso di una verifica di controllo della
dichiarazione, di ispezione, di verifiche e di attribuzioni di nuovi e diversi coefficienti. Questi sono: l’avviso di
accertamento, l’avviso di liquidazione, l’avviso di accertamento catastale e l’avviso di accertamento
parziale.

1. L’avviso di accertamento e i suoi requisiti

L’avviso di accertamento è l’atto mediante il quale l’A.F. manifesta la pretesa impositiva nei confronti del
contribuente nell’ambito di un rapporto di obbligazione tributaria. Fino al 2011 l’avviso di accertamento è
stato considerato come “atto di imposizione officioso”, dotato di autoritatività, idoneo ad incidere sulla
situazione giuridica soggettiva del contribuente e suscettibile di divenire definitivo se non opportunamente
impugnato. Con l’avviso di accertamento l’A.F. può rideterminare il presupposto del tributo e la base
imponibile. Di recente la giurisprudenza di legittimità ha rilevato la natura amministrativa sostanziale
dell’atto impositivo tributario, inteso quale species dell’atto amministrativo, poichè espressivo delle pretesa
avanzata dall’A.F. all’esito di un vero e proprio procedimento amministrativo.

In dottrina e in giurisprudenza si è dibattuto molto su quella che è la natura dell’avviso di accertamento e


tale dibattito è stato risolto attraverso l’elaborazione di due teorie: quella dichiarativa e quella costitutiva.

• Teoria dichiarativa o tradizionale: secondo tale impostazione, il contribuente è titolare di un diritto


soggettivo e l’avviso di accertamento è espressione di una manifestazione autoritativa
dell’Amministrazione pubblica. In questa prospettiva, ci si riferisce al fatto che l’obbligazione tributaria
esiste da prima dell’emissione dell’avviso di accertamento e che quest’ultimo svolge solo una funzione
“ricognitiva”, non facendo altro che “dichiarare” una cosa già esistente.

• Teoria costitutiva: Secondo tale teoria la situazione giuridica soggettiva del contribuente sarebbe di
interesse legittimo e non di diritto soggettivo. L’accertamento tributario qui assume una chiara efficacia
costitutiva dei rapporti d’imposta; in altre parole, gli atti emanati dall’A.F. hanno l’attitudine a creare,
costituendo ex novo, un rapporto obbligatorio non preesistente all’emanazione dell’atto.

Nel rispetto delle prescrizioni normative, l’avviso di accertamento deve necessariamente rispondere ai
vincoli posti dalla legge ed in particolare dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente. A tal
proposito, l’atto di accertamento deve contenere, oltre alla motivazione: l’indicazione dell’ufficio presso il
quale è possibile ottenere informazioni, l’indicazione del responsabile del procedimento, l’organo o l’autorità
amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito in sede di autotutela, le
modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti
impugnabili.

È noto che il potere dell’A.F. di emettere atti impositivi è subordinato ad una pluralità di norme sulle
quali si fonda la legittimità dell’azione amministrativa, disposizioni che attengono al contenuto, ai
requisiti, alla competenza dell’ufficio impositore, ovvero alla notificazione dell’atto impositivo. Per quanto
concerne le imposte sui redditi, l’avviso deve indicare, oltre all’imponibile accertato, anche le aliquote
applicate e le imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute d’accordo e dei crediti
d’imposta. In materia di Iva, l’avviso dovrà contenere, oltre ad una diversa possibile determinazione
impositiva, anche l’eventuale diversa determinazione dell’Iva detraibile.

La legge n° 122/2000, ha innovato la funzione e la natura dell’avviso di accertamento rendendolo un


atto di imposizione esecutivo non più officioso. L’atto diventa automaticamente esecutivo dopo 60 giorni
dalla notifica, anche se è prevista una sospensione dell’esecuzione forzata di 180 giorni dall’affidamento in
carico all’Agente della Riscossione.

Dal 1° Luglio 2011 il nuovo atto di accertamento è l’atto unico che racchiude in sé sia la fase della
riscossione che dell’accertamento, per accorciare i tempi tra accertato e riscosso. Tale atto deve
contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di
pagamento nello stesso indicato.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

2. La motivazione

L’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, rubricato “Chiarezza e motivazione degli atti”, dispone
l’obbligo di motivazione degli atti dell’A.F., cioè l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche
che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione. Per la dottrina, l’osservanza dell’obbligo della
“motivazione”, imposto dalla legge, sarebbe funzionale, non solo alla concreta possibilità per il contribuente
di valutare la fondatezza della pretesa avanzata dall’Ufficio impositore, ma costituirebbe una garanzia
dell’osservanza, da parte dell’Amministrazione, delle norme sul procedimento e sulla formazione del
provvedimento amministrativo.

La funzione della motivazione è quella di mettere in condizione il contribuente di conoscere le ragioni della
pretesa tributaria e di sviluppare le proprie deduzioni difensive, al fine di farlo adempiere alla propria
obbligazione tributaria. La motivazione contenuta nell’atto notificato, inoltre, oltre a contenere elementi
minimi essenziali individuati dalla legge, deve essere idonea a garantire al contribuente l’esercizio del
diritto di difesa e i principi dell’agire amministrativo dell’imparzialità e del buon andamento. Il contribuente,
qualora ritenga che l’atto non sia conforme ai dettami di legge, può presentare ricorso. È importante
precisare che l’A.F. non può modificare o integrare la motivazione dell’atto impositivo una volta che lo stesso
sia stato notificato al contribuente in ragione del cd. “divieto della motivazione successiva nel corso del
processo”. Se la motivazione dell’atto manca fin dall’inizio, è prevista la nullità dell’atto stesso da parte del
giudice in sede contenziosa.

Molto importante è la distinzione tra “motivazione” e “prova”. La prova, a differenza della motivazione
che deve indicare i risultati dell’istruttoria esponendo le relative argomentazioni, non è un elemento proprio
dell’avviso di accertamento, poiché rappresenta la dimostrazione della fondatezza della pretesa impositiva,
che di solito avviene in sede contenziosa e che non può verificarsi nella fase procedimentale precedente.

Un’altra questione importante attiene alla legittimità della motivazione per relationem, che si ha in merito
alla legittimità delle ragioni giuridiche degli atti che vengono richiamati da colui che redige, nella stesura
dell’atto principale (gli atti richiamati entrano a far parte di quello principale). Questo metodo di scrittura
consente di non appesantire il testo, evitando la riproduzione integrale o parziale dell’atto integrato. Tale
orientamento risulta del tutto superato dall’art. 7 dello Statuto dei Diritti del contribuente, il quale non
consente il rinvio ad atti meramente conoscibili, poiché l’atto richiamato deve essere necessariamente
conosciuto, notificato ovvero allegato all’atto di imposizione.

La giurisprudenza ha chiarito che la motivazione per relationem, mediante il rinvio ad altro atto, non è
illegittima se con essa s’intende realizzare un’economia di scrittura che non arreca pregiudizi al corretto
svolgimento del contraddittorio e al diritto di difesa. Di recente, la Cassazione ha riconosciuto l’assoluta
validità della motivazione per relationem soltanto se si dimostra che l’atto a cui si fa riferimento sia
conosciuto dal contribuente e ovviamente c’è bisogno della prova che quest’ultimo lo conosca.

3. L’avviso di liquidazione

L’avviso di liquidazione è un provvedimento che l’ente impositore emette a seguito di una serie di
operazioni volte al controllo dei calcoli e alla verifica dei versamenti eseguiti dal contribuente, dalle quali può
risultare un’imposta pagata nella misura inferiore, uguale o superiore a quella dovuta. Con la liquidazione
l’A.F. non può modificare i valori dichiarati, ma si limita a verificare ciò che il contribuente ha
dichiarato e ciò che ha versato.

Tuttavia, si evidenziano casi in cui l’ufficio impositore procede contestualmente sia all’accertamento che alla
liquidazione dell’imposta dovuta. Se è stato già determinato il valore imponibile, l’ufficio procede a liquidare
la maggiore imposta dovuta; quando tale imponibile non è predeterminato, l’ufficio provvederà all’emissione
e alla notifica di un unico atto di rettifica dell’imponibile e liquidazione d’imposta. L’avviso di liquidazione
deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche che l’hanno determinato e
deve indicare i criteri adottati per la determinazioni dell’imposta dovuta o di quella da rimborsare.

Avendo l’avviso di liquidazione la natura di atto impositivo autoritativo, in caso di mancata


impugnazione nei termini di legge si determinerebbe l’impossibilità di eventuali contestazioni postume,
assumendo l’atto la sua definitività. Tale atto costituisce un presupposto valido per la riscossione
coattiva al pari dell’atto di accertamento.

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4. L’accertamento catastale

L’avviso di accertamento catastale è funzionale alla tassazione dei redditi fondiari, ovvero, redditi dei
terreni, dei fabbricati e dei tributi comunali sugli immobili. Si tratta di una consultazione degli archivi del
catasto, mediante alcuni parametri di ricerca, finalizzata all’acquisizione di informazioni, in base alla
quantificazione economica delle proprietà immobiliari possedute da un contribuente. Il catasto è stato
definito come un sistema di determinazione, preventiva ed astratta, dei redditi ravvisabili dai cespiti
immobiliari. Esso altro non è che un inventario finalizzato alla descrizione della proprietà terriera divisa in
particelle, recante l’indicazione del reddito delle cd. rendite catastali. Inoltre, gli immobili vengono suddivisi
sia per classi che per categorie, ciò al fine di semplificare il controllo della redditività a seguito di operazioni
tecniche.

Risulta logico pensare che il catasto esprime dei valori che talvolta si discostano da quelli realmente
conseguiti negli anni, rappresentando esso una situazione fattuale redditualmente valutabile di un
determinato momento storico. Per questo motivo sono stati pensati alcuni strumenti per adeguare tale
istituto ai tempi moderni, come ad es. i “coefficienti di aggiornamento” che risultano utili per contravvenire
alla svalutazione monetaria.

Nell’espletamento dei poteri di accertamento dell’A.F., assume particolare importanza la cd. Tariffa
d’estimo, che può essere praticata dallo Stato e dall’Amministrazione tributaria al fine di determinare il
reddito generale da un bene immobiliare. La tariffa d’estimo può essere disapplicata dal giudice qualora
sussistano i presupposti di illegittimità. Il potere di classamento degli immobili, invece, ha ad oggetto la
quantificazione e la qualificazione dei singoli beni nelle categorie delle tariffe d’estimo; l’atto di classamento
necessita poi di una motivazione, impugnabile dinanzi al giudice tributario. Infine, un ulteriore potere
dell’amministrazione è l’iscrizione catastale, la quale va considerata quale elemento finalizzato
all’identificazione oggettiva e soggettiva delle prestazioni tributarie. Attraverso l’utilizzo sistematico di tali
poteri, il catasto ha l’attitudine strumentale a fornire il valore del reddito fondiario imponibile.

5. L’accertamento parziale

L’art. 41-bis del d.p.r. n° 600/1973 rubricato “Accertamento parziale” ha introdotto l’avviso di
accertamento parziale, in deroga al principio generale dell’unicità e della globalità dell’atto di accertamento,
che consiste nel potere dell’A.F. di emettere atti di accertamento fondati su circostanze ed elementi certi ma
non definitivi, ovvero fondati su notizie frammentarie ed incomplete, provenienti dai sistemi informativi
dell’Anagrafe tributaria, dalla Guardia di Finanza, da pubbliche amministrazioni o da enti pubblici. In dottrina
è stato chiarito che tale accertamento sembra consistere in uno strumento anticipatore di un successivo atto
integro e completo, rispetto a ricerche, controlli e verifiche ancora in fase di esecuzione. In tale accertamento
si rinviene, non solo il potere dell’Ufficio di modificare in modo unilaterale la sfera giuridica del contribuente,
ma anche il potere di revisionare successivamente l’atto parziale notificato qualora sussistano i presupposti,
giacché “emesso senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dalla legge”.
Pertanto, l’avviso di accertamento parziale è stato ritenuto illegittimo.

6. La patologia degli atti impositivi: annullabilità e nullità

Nel merito della patologia degli atti tributari, va precisato che, in diritto civile, vi è una rilevante differenza
tra annullabilità e nullità degli atti. Secondo le norme del codice civile, infatti, il contratto nullo, essendo
inefficace non produce effetti; diversamente, quello annullabile è pienamente efficace, sempre che non
venga rimossa la relativa azione di annullamento. Nell’ambito del diritto tributario, invece, non vi è alcuna
differenza tra la nullità e l’annullabilità e l’atto fisicamente nullo produce effetti nel mondo giuridico come se
fosse valido. Per poter ottenere l’annullamento dell’atto, è necessario fare ricorso al giudice tributario o
presentare istanza di autotutela dell’A.F..

Nelle norme tributarie di riferimento non vi sono criteri generali chiari e conseguenze tipizzate da cui far
discendere l’invalidità di un atto impositivo. Talvolta, le disposizioni richiedono la sussistenza di un requisito
necessario a pena di nullità dell’atto, in altre ipotesi il legislatore tributario non individua alcuna conseguenza
in caso di atto viziato. Da una prima analisi, sembrerebbe rimettere la decisione in ordine all’invalidità o
meno di un atto all’esame del caso di specie, differenziando i vizi invalidanti dell’atto (derivanti da una
violazione delle regole poste a garanzia del contribuente) da quei vizi che non comprimono alcuna garanzia
e che non comporterebbero alcuna invalidità dell’atto impositivo. Talvolta, è evidente che un atto impositivo
viziato, sebbene illegittimo, può essere pur sempre efficace ed inesistente; diversamente, in altre ipotesi,
l’atto viziato risulta giuridicamente inesistente, ovvero privo di vita sin dalla sua genesi.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La patologia dell’inesistenza giuridica, si ha nelle ipotesi in cui non sussistono elementi minimi essenziali
dell’atto, ossia, quando l’atto: è privo di notifica; è privo di sottoscrizione; è inesistente il destinatario; è
indeterminato o manca il dispositivo o quando è emesso in assenza di potere. Tuttavia, il contribuente può
comunque vedersi tutelata la sua posizione giuridica soggettiva dinanzi ad un atto inesistente e dovrà pur
sempre impugnare l’atto, notificando, onde evitare che esso diventi definitivo, oppure, può procedere
presentando un’istanza di autotutela. Ciò nonostante, la legge n° 15/2005, ha introdotto il testo della
legge n° 241/1990, in particolare l’art. 21-septies, rubricato: “Nullità di provvedimento”, in base al quale:
“È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto
assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi
espressamente previsti dalla legge”. Accanto a tale disposizione, è stato inserito l’art. 21-octies, secondo
cui: “É annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di
potere o da incompetenza”.

Tale intervento legislativo ha innovato profondamente il procedimento amministrativo e quello tributario. Di


fatti, gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali hanno relegato sino ad ora l’espressa nullità a ipotesi
marginali, assimilabili ai casi di inesistenza dell’atto; in tutti gli altri casi si è ritenuto applicabile il regime
dell’annullabilità, richiedendo la tempestiva deduzione del vizio in giudizio per evitare il consolidarsi degli
effetti. Per tutte le disposizioni precedenti all’entrata in vigore della legge n° 15/2005, si continua ad
applicare il regime dell’annullabilità a tutte le ipotesi di nullità; invece, per le disposizioni successive
all’entrata in vigore della legge, si potranno applicare gli artt. 21-septies e 21-octies.

7. La notificazione

Gli atti tributari, espressione del potere impositivo dell’A.F., sono portati a conoscenza del destinatario
mediante la notificazione. Essa non consiste in una spedizione o in una mera comunicazione dell’atto, ma
in un procedimento diretto a comprovare la conoscenza legale dell’atto impositivo emanato dall’A.F..
La “notificazione” è quindi l’effetto finale del procedimento che si è perfezionato in base alla normativa
vigente. L’atto di accertamento è un atto recettizio, cioè esso esiste e produce effetti in quando sia portato
a conoscenza del destinatario/contribuente.

La disciplina tributaria, parzialmente differenziata da quella codicistica, attribuisce la possibilità di


notificazione a:

- Messi comunali o a messi speciali autorizzati dall’ufficio impositore: in tal caso, il messo addetto
alla notificazione dell’atto impositivo, deve far sottoscrivere l’atto al destinatario.

- È ammessa la notifica degli atti tributari a mezzo servizio postale: in tal caso vale la data di
spedizione, ma i termini processuale e procedimentali decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto.

La notifica deve avvenire presso il domicilio fiscale del contribuente, fatta salva la consegna a mani proprie.

Il domicilio fiscale è indispensabile per la notifica degli atti tributari; è dato dalla residenza anagrafica
per le persone fisiche residenti; dal Comune in cui si è prodotto il reddito o in cui si è prodotto il reddito più
elevato per le persone fisiche non residenti; mentre per i soggetti diversi dalle persone fisiche occorre
guardare alla sede legale, in mancanza, alla sede amministrativa o, in mancanza anche di questa, nel
Comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione o, ancora, in assenza anche di
questa, nel Comune in cui è esercitata prevalentemente l’attività principale. Spetta al contribuente stabilire
dov’è il proprio domicilio, per la notificazione degli atti e degli avvisi che lo riguardano. Se, invece, non è
stato stabilito il domicilio fiscale, al fine di realizzare la notifica, quest’ultima è fatta mediante la procedura
codicistica degli atti irreperibili, ovvero mediante deposito presso il Comune e contestuale affissione
dell’avviso di deposito presso l’albo del Comune, dando notizia al destinatario mediante raccomandata. Le
notifiche degli atti di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate, possono essere effettuate alle
imprese individuali o costituite in forma societaria ed ai professionisti iscritti in albi o elenchi istituiti con legge
dello Stato, a mezzo PEC, all’indirizzo del destinatario risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta
elettronica certificata.

Altra questione di fondamentale importanza riguarda i “vizi di notifica” dell’atto notificato.

La recettizietà dell’atto impositivo impone che esso, per esplicare i suoi effetti, deve essere portato
necessariamente a conoscenza del destinatario mediante la notificazione entro un determinato termine a
pena di decadenza, altrimenti l’atto risulta viziato e l’A.F. decade dal potere di imposizione. Inoltre, eventuali
vizi della notificazione possono pregiudicare la validità dell’atto sino a comprometterne l’esistenza.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Sulla questione dei vizi della notifica sono stati espressi diversi orientamenti. Il primo, è che il vizio
della notificazione è sanata qualora il destinatario abbia avuto conoscenza dell’atto impositivo entro i termini
previsti dalla legge, o perchè l’abbia impugnato. Il secondo orientamento, invece, ritiene che
l’impugnazione dell’atto impositivo non implica la sanatoria, considerato che il fine della notificazione non
sarebbe quello di provocare l’impugnazione dell’atto tributario, ma quello di perfezionare l’atto stesso. Fatte
salve queste ipotesi di sanatoria della nullità della notificazione per raggiungimento dello scopo, in altre
circostanze l’atto è da ritenersi totalmente inesistente e non sanabile, qualora, ad esempio, sia privo di
requisiti essenziali per la sua qualificazione giuridica. L’inesistenza della notifica di un atto impositivo,
quindi, non è suscettibile di sanatoria, di conseguenza, l’atto risulta privo di vita sin dalla sua genesi. La
legge, infatti, impone che la notifica di un atto tributario debba avvenire entro un termine previsto a pena di
decadenza con conseguente illegittimità dell’atto emesso dopo tale termine. La decadenza opera anche nei
confronti del contribuente che intende impugnare tale atto con la conseguenza che decorsi i termini, il ricorso
è inammissibile e l’atto diventa definitivo.

LE DIVERSE TIPOLOGIE DI ACCERTAMENTO (PARTE IV)

- Le diverse tipologie di accertamento.


All’esito della riforma tributaria, l’ordinamento giuridico accolse con favore la cd. Teoria dei diversi metodi
di accertamento, contraddistinti da specifici presupposti normativamente previsti, già in precedenza
teorizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Dunque, l’accertamento può essere:

• Analitico - Induttivo: ricostruisce la base imponibile del reddito, partendo da un’analisi delle singole
componenti reddituali.

• Sintetico: l’accertamento del reddito con modalità sintetica, non si preoccupa dell’identificazione delle
singole voci del reddito, ma mira semplicemente alla ricomposizione del reddito nella sua interezza.

• Induttivo/non induttivo: è sinonimo di presuntivo, ossia, opera sulla base di presunzioni alla
ricostruzione della base imponibile.

• Contabile - Extracontabile: è contabile quando è basato sulla contabilità, extracontabile quando


prescinde dalla contabilità.

Queste tipologie vanno a combinarsi tra loro in maniera differenziata, così da creare ulteriori moduli, o
meglio, le singole categorie di accertamento.

1. L’accertamento analitico

L’accertamento analitico è disciplinato dall’art. 38, commi 1, 2 e 3 del d.p.r. n° 600/1973 rubricato
“Rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche”. In riferimento a tale tipo di accertamento, è
importante distinguere se si tratti di:

- Accertamento nei confronti di persone fisiche (si fa riferimento all’art. 38).


- Accertamento avente ad oggetto redditi di impresa (si fa riferimento all’art. 39).
Un presupposto necessario è la conoscenza delle varie categorie reddituali del contribuente
accertato, altrimenti non sarebbe possibile nemmeno decidere quale norma applicare e quindi quale
tipologia di accertamento deve essere condotto nel caso sottoposto.

L’art. 38, commi 1, 2 e 3 del d.p.r. n° 600/1973, introduce la possibilità di rettifica in via analitica della
dichiarazione qualora il reddito dichiarato sia inferiore al reddito effettivo. L’accertamento in via analitica
può avvenire anche quando l’A.F. scopre che il contribuente non poteva beneficiare di determinate deduzioni
o detrazioni. È possibile rilevare anomalie e inesattezze della dichiarazione e ricorrere a presunzioni
semplici.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

1.1 L’accertamento analitico - contabile

Per “accertamento - analitico contabile per i redditi d’impresa” si intende la tipologia di accertamento
eseguita mediante la determinazione, ovvero la rettifica, delle singole componenti positive e negative del
reddito: ciò presupponendo l’attendibilità delle scritture contabili sulla cui base operare le singole variazioni
reddituali. Quest’ultimo è regolato dall’art. 39 del d.p.r. n° 600/1973 e può scaturire sia dal confronto tra le
dichiarazioni, bilancio e scritture contabili; sia dall’esame della documentazione che si basa sulla contabilità,
o da circostanze estranee a quest’ultima. Questo tipo di accertamento si definisce “analitico-contabile” anche
perché ha ad oggetto l’analisi sia della sola contabilità, sia della contabilità in relazione ad altri elementi
indicati nella dichiarazione.

2. L’accertamento analitico induttivo ed extracontabile: le presunzioni

L’accertamento analitico induttivo è regolato dall’art. 39, comma 1, del d.p.r. n° 600/1973. Con questo
tipo di accertamento si ricostruisce la base imponibile in via induttiva, infatti, mentre l’accertamento analitico -
contabile (consistente in rettifiche delle singole componenti reddituali) si basa sostanzialmente sulla
contabilità, l’accertamento analitico induttivo, invece, si basa sulle cd. presunzioni.

Per poter comprendere l’istituto delle presunzioni, occorre osservare il diritto privato e il diritto civile,
osservando gli artt. 2727 e ss. del codice civile. Le presunzioni possono essere definite quali conseguenze
logiche che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoro. Nel panorama giuridico si
distinguono due tipi di presunzioni:

• Legali: sono le conseguenze che la legge trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. Queste
ultime a loro volta possono dividersi in due categorie:

- Presunzioni assolute: non ammettono prova contraria.


- Presunzioni relative: ammettono prova contraria.

• Semplici: sono ricavate o dal giudice o dall’A.F. e non dalla legge.


Dunque, la presunzione legale non richiede la prova di un fatto sul quale possa fondarsi o giustificarsi, ma
la sussistenza di un elemento previsto dalla legge (es. un dato contabile o finanziario); la presunzione
semplice, invece, è lasciala alla prudenza del giudice e il fatto sul quale si fondano, deve essere provato in
giudizio, mentre il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio. Nell’ordinamento tributario, la
legge consente all’Amministrazione accertatrice di procedere alla rettifica delle dichiarazioni quando, ai
sensi dell’art. 39, comma 1, a seguito di un’attività ispettiva si ricava l’incompletezza, la falsità o
l’inesattezza degli elementi delle dichiarazioni.

Inoltre, l’accertamento non può essere condotto validamente se non sono soddisfatti tre requisiti:

- Gravità: nel senso che vi debba essere una seria riferibilità del fatto noto al fatto ignoto.
- Precisione: nel senso che si richiede una precisione della connessione quantitativa tra fatto noto e fatto
ignoto.

- Concordanza: nel senso che gli elementi esistenti non devono essere in contrasto tra loro bensì devono
essere concordanti, determinando la “promozione” dell’indizio al livello di prova.

La rettifica delle dichiarazioni non è possibile tutte le volte in cui le presunzioni non soddisfano questi tre
elementi.

Nell’ambito dell’accertamento analitico - induttivo occorre indicare un’altra tipologia di accertamento: il


cd. “accertamento induttivo - extracontabile”, previsto e regolato dall’art. 39 del d.p.r. n° 600/1973. Esso
si basa su presunzioni supersemplici, cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. In
questo specifico caso, la mancanza di questi tre requisiti è giustificata dal fatto che ora entra in gioco la
condotta del contribuente.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’accertamento induttivo - extracontabile è esperibile in quattro casi, espressamente tipizzati dalla


legge:

- Quando il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione.


- Quando dal verbale di ispezione risulta che il contribuente: non ha tenuto le scritture contabili; le ha
sottratte all’ispezione; non sono disponibili per causa di forza maggiore (Es. se in caso di incendio le
scritture contabili si sono bruciate).

- Quando l’irregolarità, le omissioni e le inesattezze siano tante e tali da rendere le scritture completamente
inattendibili;

- Quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici dell’A.F.

L’Amministrazione, soltanto dopo aver verificato la presenza di questi elementi, potrà avvalersi di
presunzioni supersemplici, cioè di dati e notizie raccolti per fondare l’attività accertativa. L’art. 23, comma
28, del d.l. n° 98/2011, ha modificato l’art. 39 del d.p.r. n° 600/1973, perchè ha aggiunto al comma 2 di
questo articolo la lettera d-ter). Essa prevede la possibilità di esperire l’accertamento induttivo -
extracontabile quando viene rilevata l’omessa e infedele indicazione dei dati previsti nei modelli rilevanti ai
fini dell’applicazione degli “studi di settore”.

a) Dagli studi di settore agli indici di affidabilità

Gli studi di settore sono strumenti finalizzati all’accertamento (cd. parametrico) del reddito per chi
esercita attività d’impresa, arti e professioni, al fine di smascherare costoro nel caso in cui dichiarano redditi
che risultano dubbi per il tipo o per la quantità di attività svolta e, così facendo, si avvicinano ad azioni
riprovevoli come l’evasione fiscale. Essi sono disciplinati dall’art. 62-bis del d.l. n°331/1993, convertito
dalla legge n° 427/1993. Precisamente, l’accertamento degli studi di settore avviene mediante
l’individuazione di tutti i fattori interni ed esterni delle attività sopracitate, esercitate dal contribuente da cui
produce ricavi o consegue compensi.

L’A.F. per poter assumere informazioni e recepire notizie utili, ha predisposto appositi questionari che ha
inviato ai contribuenti nel corso degli anni. Sulla base delle risposte dei contribuenti sono stati individuati i
cd. Cluster, ossia, categorie di contribuenti individuati sulla base di vari criteri, come quello territoriale, il
sesso del professionista, l’età, la zona operativa ecc., attraverso i quali è possibile calcolare i ricavi che
l’impresa avrebbe potuto conseguire. Gli studi di settore trovano applicazione, non solo quando la
contabilità risulta inattendibile, ma anche qualora il totale dei redditi percepiti sia superiore alla totalità dei
ricavi dichiarati per 2 periodi di imposta su 3 periodi ininterrotti.

In realtà, talvolta, le imprese e i professionisti per evitare l’accertamento, hanno dichiarato un reddito
inferiore o superiore rispetto a quello realmente percepito, al fine di rientrare nella fascia ritenuta attendibile
dagli studi di settore. Per evitare un accertamento basato su studi di settore, le imprese e i professionisti
possono farsi rilasciare dal CAF (Centri di Assistenza Finanziaria) e soggetti professionali abilitati, un
visto di conformità detto “visto pesante”, cioè un’asservazione, attraverso il quale il professionista o il
responsabile del CAF certificano che gli elementi contabili ed extracontabili comunicati all’A.F. corrispondono
a quelli che risultano dalle scritture contabili.

Non solo in dottrina ma soprattuto in giurisprudenza ci si era chiesti quali fossero i limiti di tale
metodologia accertativa, unitamente ai dubbi di legittimità costituzionale che erano sorti relativamente
agli studi di settore. La giurisprudenza si è pronunciata più volte sulla legittimità dell’accertamento
parametrico basato sugli studi di settore. Quest’ultima ha chiarito che la presunzione degli studi è semplice e
ha affermato che: è l’ufficio a dover provare le gravi incongruenze e i requisiti di gravità, precisione e
concordanza, propri delle presunzioni semplici.

Inoltre, la Corte di Cassazione ha sostenuto la legittimità degli studi di settore. Questi ultimi orientamenti
hanno indotto il legislatore a sostituire gli studi di settore con i nuovi indici di affidabilità fiscale, il cui
obiettivo è quello di incentivare il dialogo tra contribuenti e fisco e favorire l’adempimento spontaneo.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

3. L’accertamento sintetico

Il reddito delle persone fisiche, oltre che con il metodo analitico, può essere accertato anche mediante
un’altra tipologia accertativa, ovvero l’accertamento sintetico, previsto dall’art. 38, commi 4 e 5, del
d.p.r. n° 300/1973. L’accertamento sintetico è quel tipo di accertamento che non mira all’identificazione delle
singole voci reddituali, ma alla ricostruzione del reddito nella sua interezza. Questo tipo di accertamento si
basa su presunzioni, poiché da un fatto noto (quale la spesa), si vuole risalire ad un fatto ignoto (che è il
reddito effettivo). Le modifiche apportate all’art. 38, comma 4, del d.p.r. n° 600/1973, hanno
profondamente revisionato l’istituto dell’accertamento con la determinazione sintetica del reddito, recependo
l’ormai mutato contesto socio-economico in cui si manifesta la capacità di spesa del contribuente.

Il redditometro è lo strumento con il quale si conduce l’accertamento sintetico e consente di ricostruire


i redditi del contribuente partendo dalle spese sostenute, guardando non tanto come viene prodotta la
ricchezza, ma come essa viene usata per mantenere un certo tenore di vita; più precisamente, il
redditometro consente di risalire al reddito mediante un’analisi delle manifestazioni indirette di
capacità contributiva, che fanno presumere una capacità di spesa che deve trovare giustificazione nel
reddito imponibile dichiarato; tale strumento considera come indici di maggior reddito, la disponibilità, da
parte dei contribuenti, di particolari beni di lusso indicatori di un’elevata capacità contributiva, quali: aerei,
imbarcazioni, autoveicoli, beni immobili ecc.

È importante distinguere tra il “redditometro” che può essere utilizzato dall’A.F. per controllare i redditi
conseguiti fino all’anno di imposta 2008, dal “nuovo redditometro” che può essere utilizzato dall’Agenzia
delle Entrate per controllare tutte le dichiarazioni dei redditi presentate dall’anno di imposta 2009 in poi.

In dottrina si è evidenziato che il redditometro avrebbe un’efficacia vincolante per l’Amministrazione


accertatrice; viceversa, non risulterebbe vincolate per i contribuenti, i quali, in caso di mancato adeguamento
alle risultanze redditometriche, avranno l’onere di dimostrare all’Amministrazione l’infondatezza di quanto
affermato su basi presuntive. Dunque, il redditometro comporta la cd. Inversione dell’onere della prova,
poichè anche se l’ufficio non ha solo il potere di presumere l’esistenza di un reddito non dichiarato, ma
anche di quantificarlo, spetta sempre al contribuente l’onere di provare che il maggior imponibile accertato
con tale strumento non corrisponde a quello effettivo. Le basi presuntive del redditometro non risultano
vincolanti per i giudici tributari, poichè anche i regolamenti aventi ad oggetto i fatti indice possono essere
disapplicati dall’Autorità giudiziaria tributaria, laddove sussistano i presupposti. Gli elementi e i dati
considerati dal nuovo redditometro, richiedendo un’attività integrativa del contribuente resa in sede di
contraddittorio, non possono essere inquadrati tra le presunzioni semplici. Per quanto concerne questo tipo
di strumento, se da un lato la Corte Costituzionale ha legittimato l’automaticità del redditometro a cui
dovrebbe adeguarsi il contribuente; dall’altro lato tale automaticità è stata ridimensionata dai giudici di
merito che hanno evidenziato il valore meramente indiziario degli indicatori redditometrici di spesa.

Collegato al redditometro è il cd. Spesometro, introdotto con il d.l. n° 78/2010. Quest’ultimo ha lo scopo di
controllare i pagamenti che superano una certa soglia, insomma, è utile a valutare la cd. Capacità di
spesa del contribuente. Più precisamente, esso ha introdotto l’obbligo della comunicazione telematica
delle operazioni rilevanti ai fini Iva, relative ad ogni trimestre. I dati acquisiti saranno raccolti in un’apposita
banca dati e, tramite gli incroci con le altre informazioni contenute nell’Anagrafe tributaria, consentiranno
un’analisi del rischio finalizzata alla selezione dei soggetti da sottoporre a controllo che potrà incidere in
modo efficace sul contrasto all’evasione. Per i soggetti non titolari di partita Iva, gli elementi acquisiti
saranno posti a confronto con i redditi dichiarati e, in caso di incongruenza, saranno utilizzati nell’ambito del
nuovo procedimento di accertamento sintetico.

I presupposti per l’utilizzo dell’accertamento sintetico risultano essenzialmente due, ossia:

- che il reddito netto accertabile si deve discostare per almeno un quinto da quello dichiarato.
- Che tale incongruenza si manifesti per almeno un’annualità di imposta.
Secondo la vecchia disposizione dell’art. 38, sussistendo i entrambi i presupposti, l’ufficio poteva “in base
agli elementi e alle circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del
contribuente”. Anche in questo caso la prova contraria grava in capo al contribuente, anche prima della
notifica dell’atto di accertamento. Essendo l’accertamento sintetico basato sulla capacità di spesa del
contribuente, risulta di fondamentale importanza individuare i fatti indici di spesa mediante i quali l’ufficio,
nonostante la loro eventuale incertezza, giunge alla qualificazione e quantificazione del reddito.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

4. L’accertamento integrativo

L’accertamento integrativo, previsto dall’art. 43, comma 4, del d.p.r. n° 600/1973, rappresenta
un’ulteriore deroga al principio dell’unitarietà dell’accertamento tributario ad avviso del quale l’ufficio
deve utilizzare tutti i dati in suo possesso quando emette un atto di accertamento. A tal proposito,
l’accertamento può essere integrato o modificato mediamente l’emissione di nuovi avvisi, in base alla
sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, indicando, a pena di nullità del medesimo avviso, tali nuovi
elementi e gli atti o fatti venuti a conoscenza dell’ufficio. Dunque, emerge con evidenza che l’accertamento
integrativo è valido solo se sorgono nuovi elementi successivamente all’emissione del primo avviso di
accertamento (ovviamente tale circostanza deve essere verificata dai giudici tributari). Di recente, la
giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel secondo avviso di accertamento, notificato al
contribuente ad integrazione del precedente, si deve evidenziare non solo l’indicazione di nuovi elementi, ma
anche gli atti e i fatti di cui l’Ufficio sia venuto a conoscenza. Tuttavia, qualora non sussista il necessario
requisito dell’effettiva sopravvenuta conoscenza dei nuovi elementi, l’Ufficio accentratore può
provvedere alla modifica dell’atto in precedenza emesso soltanto nel caso in cui la modifica attenga
ai vizi di forma. Ciò presuppone che il potere di integrazione del’Amministrazione non oltrepassi i limiti
propri dell’attività integrativa, tale da modificare o correggere eventuali errori sussistenti nel precedente atto
di accertamento. L’Amministrazione, in ossequio al principio di garanzia del contribuente, nell’adempimento
dei suoi doveri di accertamento è vincolata al criterio di non reiterazione degli atti di accertamento
sfavorevoli ai contribuenti, soprattutto se infondati e privi di ragionevolezza giuridica, nel rispetto dei principi
di buona fede e di legittimo affidamento.

4. L’accertamento con adesione

L’accertamento con adesione, disciplinato dal d.lgs. n° 218/1997 rubricato “Disposizioni in materia di
accertamento con adesione e conciliazione giudiziale”, non è un accertamento, ma una procedura con la
quale il legislatore tributario ha voluto semplificare i rapporti tra l’A.F. e il contribuente, riducendo i tempi di
definizione degli accertamenti, prevedendo anche il raggiungimento di un accordo tra Fisco e contribuente.
Proprio per questo motivo, l’accertamento con adesione è detto anche “concordato”.

Tale accordo può avvenire o su invito dell’A.F. o su istanza del contribuente. Nel primo caso, l’ufficio
può invitare il contribuente a comparire, indicando i periodi di imposta interessati all’adesione e le altre
modalità del contraddittorio. Nel secondo caso, invece, il contribuente può inoltrare all’ufficio competente
un’istanza di adesione in carta semplice nel caso in cui siano stati eseguiti accessi, ispezioni o verifiche,
prima che gli venga notificato un avviso di accertamento; oppure, nel caso in cui sia stato già notificato un
avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall’invito a comparire, il contribuente può formulare
anteriormente all’impugnazione dell’atto innanzi la Commissione tributaria provinciale, su istanza in carta
libera (può essere scritta a mano o al pc, senza intestazione e senza marca da bollo) di accertamento con
adesione. Una volta avviata la procedura di adesione entro i 60 giorni dalla notifica dell’atto di
accertamento, la legge prevede una sospensione di 90 giorni non solo del termine per il pagamento, ma
anche per impugnare l’atto di accertamento notificato dinanzi alle Commissioni tributarie. Inoltrata l’istanza
del contribuente, ovvero ricevuto l’invito da parte dell’ufficio, ed una volta raggiunto l’accordo tra le parti,
l’accertamento con adesione è redatto con atto scritto in doppio originale, sottoscritto dal contribuente
e dal capo dell’ufficio o da un suo delegato, ma l’atto si perfeziona con il pagamento di quanto stabilito
nell’accordo o nella prima rata (nel caso di un pagamento rateale), il cui versamento deve essere eseguito
entro 20 giorni dalla redazione dell’atto. Se il relativo pagamento non avviene, l’atto non è definitivo.

L’accertamento con adesione può essere integrato con un successivo accertamento, soltanto:

- se sopravviene la conoscenza di nuovi elementi, in base ai quali è possibile accertare un maggior reddito,
superiore al 50% del reddito definito e non inferiore a 50 milioni di lire.
- Se la definizione riguarda accertamenti parziali.
- Se la definizione riguarda i redditi derivanti da partecipazione nel società o associazioni indicate dall’art. 5
del TUIR.
- Se l’azione accertatrice è esercitata nei confronti delle società, delle associazioni o dell’azienda coniugale
alle quali partecipa il contribuente coinvolto in tale accertamento.

L’accertamento con adesione permette al contribuente di usufruire di una riduzione delle sanzioni
amministrative di 1/4 del minimo. Invece, per i fatti accertati, perseguibili anche penalmente, è prevista
una riduzione della pena fino alla metà se il contribuente, prima dell’apertura del dibattimento, abbia
adempiuto alle obbligazioni tributarie.

La dottrina maggioritaria attualmente sostiene che tale istituto sia da considerarsi come: un atto
unilaterale di accertamento, cui si affianca in subordinazione l’adesione del contribuente.
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CAPITOLO VIII : LE SANZIONI TRIBUTARIE

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE (PARTE I)

1. Le linee guida della recente riforma delle sanzioni tributarie

Con l’art. 8 della legge delega n° 23/2014 è stato approvato il d.lgs. n° 158/2015, volto a riformare
l’impianto sanzionatorio tributario. Il legislatore, in sede di riforma, ha cercato di attuare e garantire i
principi europei di effettività e di proporzionalità, oltre a quello della certezza della risposta sanzionatoria
dell’ordinamento a seguito di condotte illecite, in sede amministrativa e penale. Particolare attenzione è stata
riservata alla predeterminazione delle condotte illecite, alla rapidità dei tempi di irrogazione delle sanzioni,
all’adeguatezza delle misure sanzionatorie rispetto alla gravità della condotta ed alla percezione della pena
come risposta non vessatoria e tantomeno di carattere espropriativo.

Nel tentativo di realizzare tutti questi interessi il legislatore, nell’art. 8 sopracitato, ha dettato in primis
alcune importanti linee guida come quella riguardante l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione
e quelle di evasione fiscale con le relative conseguenze sanzionatorie; o ancora, che i rapporti tra sistema
sanzionatorio penale e sistema sanzionatorio amministrativo sono regolati dal principio di specialità. Allo
stesso tempo, è stata espressa la volontà di ridurre l’area di intervento della sanzione punitiva per
eccellenza, ovvero quella penale, ai soli casi caratterizzati da un particolare disvalore giuridico. Il legislatore
con la riduzione delle fattispecie criminose, il ripensamento delle soglie di punibilità e l’individuazione di
nuove ipotesi di non punibilità, aveva intenzione di garantire la prevenzione dei reati e degli illeciti penali
tributari e al contempo voleva riservare all’impianto sanzionatorio amministrativo la repressione delle
condotte di minore rilevanza.

Inoltre, si è proceduto per una revisione del regime della dichiarazione infedele del sistema
sanzionatorio amministrativo, al fine di correlare le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti,
tenendo presente gli interventi realizzati nel d.lgs. n° 74/2000, e si è prevista la possibilità di ridurre le
sanzioni delle fattispecie meno gravi.

2. L’illecito amministrativo tributario e il principio di legalità

La violazione degli obblighi imposti dalle norme tributarie dà luogo all’irrogazione di sanzioni,
prevalentemente di natura amministrativa, salva la previsione di fattispecie a rilevanza penale. Alla sanzione
amministrativa tributaria, disciplinata originariamente dalla legge n° 4/1929, veniva riconosciuto sia il
carattere afflittivo tipico della pena pecuniaria che quello risarcitorio della soprattassa.

Con la riforma degli anni 70’ il legislatore annunciò l’idea di regolamentare in maniera generale le sanzioni
introducendo una serie di microsismi sanzionatori disciplinati autonomamente da ciascuna legge istitutiva dei
singoli tributi. Solo agli inizi degli ani 90’ si è maturata la convinzione di portare a termine una radicale
riforma del sistema sanzionatorio tributario amministrativo che, abbandonando il carattere risarcitorio,
privilegiasse la natura afflittiva delle sanzioni amministrative affermando il principio personalistico ed
ispirandosi il più possibile alla “legge sulle modifiche al sistema penale”. Con l’art. 3, comma 133, della
legge n° 622/1996, infatti, il Governo veniva delegato ad emanare dei decreti legislativi recanti disposizioni
per revisionare la disciplina delle sanzioni tributarie non penali, con la previsione di un’unica sanzione
pecuniaria amministrativa, assoggettata ai principi di legalità, imputabilità e colpevolezza, e riferibile alla
persona fisica autrice della violazione. In attuazione della legge delega sono poi stati emanati, nel 1997,
tre decreti legislativi, tutti entrati in vigore il 1° Aprile del 1998 e modificati poi nel 2015.

Gli illeciti assoggettabili a sanzioni amministrative possono essere divisi in tre gruppi:

- Quelli concernenti la violazione degli obblighi meramente formali (obblighi contabili).


- Gli illeciti relativi alla dichiarazione tributaria.
- Gli illeciti concernenti l’omesso o ritardato versamento d’imposta.

Il principio di legalità contenuto, nell’art. 3, comma 1, d.lgs. n° 472/1997, risulta uno dei pilastri
principali del sistema sanzionatorio e si ispira chiaramente al principio penalistico “nulla poena sine lege”
e prevede che solo la legge può introdurre sanzioni, sancendo, inoltre, la retroattività della norma tributaria
sanzionatoria.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Al principio di legalità e di retroattività è collegato il principio del cd. abolitio criminis, il quale prevede
l’abrogazione di una fattispecie di reato ad opera del legislatore. Se una legge successiva abroga un reato
che era considerato tale dalla legge vigente al tempo in cui fu commesso, si applica il principio del favor
rei, salvo che sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile. Il principio del favor rei prevede la non
ultrattività della norma tributaria sanzionatoria e l’applicazione della sanzione più favorevole al reo. Il favor
rei può trovare applicazione in ogni stato e grado del processo. Diversa dalla cd. abolitio criminis è
l’abrogazione di un tributo, che non incidendo specificamente sulla fattispecie sanzionatoria non estingue
l’illecito. Lo stesso art. 3 del d.lgs. n° 472/1997, ha stravolto il principio “tempus regit actum” (ogni atto è
regolato dalla legge del tempo in cui esso si verifica) operante in materia procedurale di cui all’art. 20 della
legge n° 4/1929, prevedendo che non si possa essere assoggettati a sanzioni per un fatto che, secondo la
legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Nel caso di sanzione irrogata con provvedimento
definitivo il debito residuo si estingue, fatti salvi gli importi già pagati per i quali non è ammessa ripetizione.
Espressione diretta del principio di legalità è la previsione del comma 3 del d.lgs. n° 472/1997 che,
sempre in applicazione del favor rei, prevede che nel caso in cui la legge vigente al momento della
commissione della violazione e leggi posteriori stabiliscano sanzioni diverse, venga applicata la sanzione
concretamente più favorevole.

3. La sanzione unica amministrativa tributaria e le sanzioni accessorie

Il d.lgs. n° 472/1997 elimina ogni riferimento alla soprattassa, introducendo quale unica sanzione
amministrativa la sanzione pecuniaria, consistente nel pagamento di una somma di denaro entro un limite
minimo e massimo stabilito dalla legge, o nella misura di una frazione o di un multiplo del tributo cui si
riferisce la violazione o in misura fissa. Accanto alla sanzione pecuniaria si prevedono anche delle sanzioni
accessorie, che possono essere irrogate nei soli casi previsti e che consistono: nell’interdizione dalla carica
di amministratore, sindaco o revisore di società di capitali; nell’interdizione dalla partecipazione a gare
pubbliche; nell’interdizione dal conseguimento di licenze, concessioni o autorizzazioni; nella sospensione,
per un massimo di 6 mesi, dall’esercizio di attività di lavoro autonomo o di impresa.

4. L’elemento soggettivo e la colpevolezza

L’applicazione della sanzione non può avere luogo se l’azione o l’omissione non sia stata posta in essere da
un soggetto imputabile e non sia qualificata almeno come colposa e non dolosa. Per definire la nozione di
colpa si deve fare riferimento all’art. 43 c.p. secondo cui: “si ha colpa quando l’evento non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di legge,
regolamenti, ordini o discipline”. Sul piano delle sanzioni amministrative tributarie sussiste colpa ogni
volta in cui le violazioni di legge siano conseguenza: di insufficiente attenzione o di inadeguata
organizzazione rispetto ai doveri imposti dalla legge fiscale (negligenza); di atteggiamenti o decisioni
avventate, cioè assunte senza le cautele consigliate dalle circostanze; di una insufficiente conoscenza degli
obblighi tributari che si possa per far risalire ad un difetto di diligenza (imperizia). La colpa, quindi, si
considera presunta al realizzarsi di una violazione, non essendo in tal caso necessarie ulteriori indagini
sull’elemento psicologico e ribaltandosi sul trasgressore l’onere di dimostrare l’eventuale assenza di
colpevolezza. Diverso e più complicato, invece, è il caso in cui si parla di colpa grave e di dolo; non a caso,
l’A.F. ha ritenuto più semplice privilegiare la contestazione della colpa che si presume in caso di violazione di
legge o regolamenti, non necessitando essa di alcuna dimostrazione; al contrario, la colpa grave o il dolo
necessitano di una specifica motivazione.

Il legislatore, con l’art. 7 del d.lgs. n° 472/1997, ha avuto l’intento di valorizzare l’elemento soggettivo,
imponendo all’A.F. di determinare la sanzione in base alla gravità della violazione desunta anche dalla
condotta dell’agente, dall’opera da esso svolta per eliminare o attenuare le conseguenze e dalle sue
condizioni economiche e sociali, nonché dalla sua personalità (rilevabile anche da precedenti illeciti fiscali).
Tale disposizione, ispirata a criteri personalistici di derivazione penalistica, risulta di problematica
applicazione nel settore tributario, nel quale gli organi competenti dell’A.F. riescono con maggiore
difficoltà ad approfondire aspetti di carattere comportamentale e si limitano alla semplice contestazione della
violazione.

Molto importante è anche la previsione dell’ipotesi di recidiva, intesa come aumento della sanzione nei
confronti dei soggetti che nel corso di un triennio abbiano commesso più volte violazioni “della stessa indole”
non definite né con ravvedimento, né in via breve o con adesione. La Riforma delle Sanzioni del 2015,
novellando l’art. 7 del d.lgs. n° 472/1997, ha stabilito che la sanzione si determina sulla base della
proporzionalità. Il comma 3 dell’art. 7, ha previsto che la sanzione può essere aumentata fino alla metà nei
confronti di chi, nel corso dei tre anni precedenti, sia incorso in un’altra violazione “della stessa indole”.
Questo principio è sempre valido, ad eccezione dei casi in cui determinerebbe una sproporzione fra l’entità
del tributo e la sanzione.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

5. Il principio di personalità

Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie prevede la riferibilità della sanzione alla persona fisica
che ha commesso il fatto, secondo un modello tipico del diritto penale al quale sono ispirate anche le
sanzioni amministrative nella disciplina della legge n° 689/1981. Dunque, l’illecito non è più riferibile al
contribuente, ma alla persona fisica che ha materialmente commesso la violazione. Il contribuente continua
a rispondere del tributo, il trasgressore, invece, della sanzione: i due soggetti possono coincidere ma non
necessariamente questo accade. Inoltre, il criterio personalistico ha definitivamente sancito
l’intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi, secondo la previsione dell’art. 8 del d.lgs. n° 472/1997 e
l’estinzione dell’obbligazione derivante dall’irrogazione della sanzione con la morte del trasgressore.
Tuttavia, può anche accadere che a commettere l’illecito, da cui deriva l’irrogazione di una sanzione, non sia
un solo soggetto bensì più soggetti. Quando più soggetti concorrono in una violazione, ognuno di essi
soggiace alla sanzione per quel determinato illecito. Non poche difficoltà sono derivate nel campo degli
illeciti commessi da società o enti. Il legislatore ha trovato difficoltà a seguire fino in fondo il modello
personalistico, che avrebbe comportato l’inconveniente di lasciare immune il soggetto con personalità
giuridica, effettivo beneficiario della violazione, per sanzionare solo il trasgressore. Per ovviare a tale
difficoltà, in un primo momento si è voluta introdurre una peculiare forma di coobbligazione solidale tra
l’autore della violazione e il soggetto potenzialmente beneficiario della stessa, tentando così di conciliare il
principio della personalità con l’esigenza di soddisfare l’interesse patrimoniale dell’erario. Nel 2003, il
principio personalistico ha subìto un evidente ridimensionamento, perché l’art. 7 del d.l. n°269/2003
ha specificamente previsto che le sanzioni relative a rapporti tributari di società o enti con personalità
giuridica sono esclusivamente a carico di queste ultime.

6. Il concorso di persone e l’autore mediato

Dal principio della personalità e della responsabilità sanzionatoria discende come corollario la
previsione contenuta nell’art. 9 del d.lgs. n° 472/1997, secondo la quale, conformemente al modello
penalistico, “quando più persone concorrono in una violazione ciascuna di esse soggiace alla sanzione per
questa disposta”. La norma non fornisce una definizione di concorso e impone di fare riferimento
all’elaborazione penalistica secondo la quale il concorso presuppone la partecipazione di più soggetti alla
realizzazione della violazione di un obbligo di legge, con la volontà di cooperare o di commettere l’illecito.

Si possono avere diversi tipi di concorso:

- Concorso formale: si ha quando, materialmente, più soggetti realizzano la condotta illecita.


- Concorso di natura meramente psicologica: si ha quando il soggetto concorrente crea o rafforza il
proposito di altri soggetti di contravvenire alla disposizione tributaria.

Per venire incontro alle preoccupazioni delle categorie professionali, spesso indirettamente coinvolte negli
illeciti dei contribuenti in ipotesi di concorso, il d.lgs. n° 203/1998, è intervenuto nel corpo dell’art. 5 del
d.lgs. n° 472/1997, stabilendo che: “le violazioni commesse nell’esercizio dell’attività di consulenza tributaria
e comportanti la soluzione di problemi di speciale difficoltà sono punibili solo in caso di dolo o colpa grave”. Il
concorso, inoltre, è escluso nei casi in cui la violazione consista nell’omissione di un comportamento cui
sono obbligati in solido più soggetti; ciò perchè la sanzione irrogata è unica ed il pagamento eseguito da uno
solo dei responsabili libera tutti gli altri, salvo il diritto di regresso. Strettamente correlata al concorso di
persone è la figura dell’autore mediato, ossia, di chi (con violenza, con minaccia, inducendo gli altri in
errore o avvalendosi di persone incapaci di intendere e di volere) si serve di altri come mezzo per il materiale
compimento del reato. In tal caso, a rispondere della violazione sarà l’autore mediato e non l’autore
materiale.

7. Responsabilità per le sanzioni amministrative

In caso di cessione d’azienda, avvenuta con beneficio di escussione del cedente, il cessionario è
responsabile per il pagamento delle imposte e delle sanzioni riferibili a violazioni commesse nell’anno in cui
è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché di quelle irrogate e contestate nel medesimo periodo
anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. A tutela del cessionario è stabilito che la sua
obbligazione è limitata: al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti dell’ufficio dell’A.F. che per
tale motivo è tenuta a rilasciare un certificato attestante l’esistenza delle contestazioni in corso per le quali
sussiste la corresponsabilità del cessionario. Le limitazioni alla richiamata corresponsabilità solidale non
operano nel caso in cui la cessione sia stata effettuata con frode, che si presume quando il trasferimento è
avvenuto nei 6 mesi dalla constatazione, in una violazione penalmente rilevante.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Nei casi di trasformazione, fusione e scissione societaria, la società o l’ente risultante dall’operazione
straordinaria subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse (relativamente al pagamento dei tributi).
Nell’ipotesi di scissione, anche parziale, di società o enti, ciascun soggetto è obbligato in solido al
pagamento delle somme dovute per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione
produce effetti. Questa regolamentazione generale, invece, non si applica quando la cessione avviene in
caso di fallimento.

8. Le cause di non punibilità

La mancanza di colpevolezza trova sostanza nella previsione normativa di alcune cause di non punibilità
tassativamente disciplinate dalla legge e di diretta derivazione delle esimenti tipiche del diritto penale
(escludono la responsabilità penale), non sempre rinvenibili nel procedimento tributario.

Non è semplice stabilire se si tratti di errore non colposo sul fatto, fattispecie tipica del diritto penale, che
si verifica quando l’agente crede di realizzare un fatto diverso da quello vietato dalla norma, escludendo
l’esistenza di uno degli elementi costitutivi del reato, o di errore scusabile, che si ha quando il soggetto,
data la complessità del sistema giuridico, cade in errore e questo risulta giustificabile. Risulta molto più
facile verificare le ipotesi in cui la non colpevolezza della condotta dipende dalla forza maggiore, da
intendersi come la “vis maior cui resisti non potest (cioè una situazione a fronte della quale il contribuente
non ha potuto fare diversamente), quindi, si riferisce ad accadimenti estranei alla volontà dell’agente, per lo
più fenomeni naturali, ma anche scioperi ed occupazioni particolarmente rilevanti, che impediscono
oggettivamente l’assolvimento dell’obbligo tributario. Meno condivisibile è l’orientamento assunto da
qualche pronuncia in merito; tali pronunce hanno ritenuto di poter estendere l’ambito di applicazione
dell’esimente in questione anche a fattispecie di mancato pagamento delle imposte per motivi di crisi
economico e/o finanziaria indipendenti dalla volontà del contribuente.

Il d.lgs. n° 32/2001, per adeguare la disciplina delle sanzioni allo Statuto dei diritti del contribuente, ha
introdotto una disposizione con la quale si esclude la punibilità delle violazioni cd. Meramente Formali
e cioè quelle che non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del
tributo e che non arrecano pregiudizio all’attività di controllo deputata dall’A.F..

9. Il ravvedimento

La disciplina vigente stabilisce che il contribuente può sanare la violazione commessa pagando una
sanzione ridotta al tributo o alla differenza da versare, se dovuti, e agli interessi moratori, purché la
violazione non sia stata già constatata e non sia iniziata alcuna attività di accertamento della quale l’autore
abbia formale conoscenza.

In caso di versamento omesso, il ravvedimento può essere perfezionato nei 30 giorni con il pagamento
della sanzione pari ad 1/10 del minimo. Inoltre, il ravvedimento è ammesso per qualsiasi errore od
omissione, anche se incidente sulla determinazione o sul pagato del tributo, e viene perfezionato con il
pagamento della sanzione ridotta ad 1/8 del minimo entro il termine per la presentazione della dichiarazione
relativa all’anno nel corso del quale è stata commessa la violazione (o entro 1 anno dalla violazione nel caso
in cui non sia prevista la dichiarazione periodica).

Infine, è sanabile anche l’omessa presentazione della dichiarazione nei 90 giorni dalla scadenza con il
pagamento di una sanzione di 1/10 del minimo di quella prevista per l’omissione della dichiarazione. L’art.
13 del d.lgs. n° 472/1997 ha subìto profonde modifiche, entrate in vigore dal 2015, ad opera della legge di
stabilità, volte a riconoscere al contribuente maggiori possibilità di ravvedersi (anche se la violazione è stata
contestata o sono stati effettuati accessi, ispezioni e verifiche) e un numero più ampio di riduzioni delle
sanzioni (da 1/10 ad 1/5 del minimo).

10. Concorso di illecito e continuazione

Per ovviare alle gravose conseguenze derivanti dall’applicazione del cumulo materiale (con una sola
condotta si vanno a violare più disposizioni di una stessa norma tributaria, il che rendeva complesso
verificare le singole condotte sanzionabili), il legislatore ha introdotto il cd. Cumulo Giuridico che, come in
diritto penale, consiste nell’applicazione di una sola sanzione maggioritaria, così come previsto dall’art. 12
del d.lgs. n° 472/1997.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La norma in questione disciplina tre ipotesi diverse di cumulo giuridico:

• Concorso formale: Si parla di concorso formale quando un soggetto viola più norme, anche relative a
diversi tributi, con una sola azione. Esso viene definito poi “omogeneo” quando si commettono diverse
violazioni di una stessa disposizione con una sola azione od omissione; viene, invece, definito
“eterogeneo” quando vengono violate più disposizioni con una sola azione od omissione anche relative a
tributi diversi. Nel caso di concorso formale omogeneo o eterogeneo, il comma 1 dell’art. 12 prevede
l’applicazione della sanzione più grave aumentata da 1/4 al doppio. Se le violazioni rilevano ai fini dei
tributi si considera quale sanzione base sulla quale effettuare l’aumento da 1/4 al doppio, quella più grave
aumentata del 20%.

• Concorso materiale: si realizza quando la stessa disposizione viene violata più volte. Per avere
rilevanza e consentire il cumulo giuridico piuttosto che quello materiale delle sanzioni, esso deve riferirsi,
però, a violazioni formali restando escluse quelle sostanziali.

• Illecito continuato: è disciplinato dal comma 2 dell’art. 12 e prevede anch’esso l’applicazione della
sanzione più grave aumentata di 1/4 al doppio. Esso presuppone la commissione di una molteplicità di
violazioni anche in tempi diversi che, nella loro progressione, conducano all’obiettivo di alterare la
determinazione imponibile ovvero la liquidazione anche periodica del tributo.

Nel caso in cui l’Ufficio, però, non contesti tutte le violazioni contemporaneamente (come spesso accada),
al momento della contestazione dell’ultima violazione, si deve rideterminare la sanzione complessiva. In
sede processuale, laddove pendono diversi procedimenti, il giudice che prende cognizione dell’ultimo atto
di irrogazione della sanzione, deve provvedere alla rideterminazione complessiva tenendo conto delle
sentenze precedenti.

Con l’art. 16, comma 1, del d.lgs. n° 158/2015, si estende la previsione secondo cui le disposizioni sulla
determinazione di una sanzione unica, in caso di progressione, si applicano separatamente per ciascun
tributo e per ciascun periodo d’imposta oltre che nell’accertamento con adesione, anche nell’ipotesi di
mediazione e conciliazione giudiziale. In questo modo si superano i possibili effetti distorsivi che potrebbero
indurre il contribuente a concludere con esito negativo il procedimento di accertamento con adesione.

11. Le diverse forme di contestazione della violazione: la contestazione con atto separato

Il contribuente ha sempre il diritto di contestare le sanzioni che gli vengono comminate dall’A.F. Inoltre, una
delle novità più importanti del sistema sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n° 472/1997 consiste nella
codificazione dei procedimenti di irrogazione comuni a tutte le violazioni e a tutti i tributi.

In verità, la legge delega aveva espressamente richiesto la “previsione, ove possibile, di un procedimento
unitario per irrogazione delle sanzioni amministrative tale da garantire la difesa e nel contempo assicurare la
sollecita esecuzione del provvedimento”. Il legislatore delegato, invece, anche per motivi pratici, ha introdotto
e disciplinato tre diverse forme procedimentali:

1) É disciplinata dall’art. 16 del d.lgs. n° 472/1997, come metodo generale per la sola irrogazione delle
sanzioni tributarie.

2) É disciplinata come metodo generale per l’irrogazione delle sanzioni contestualmente all’accertamento
del tributo.

3) É disciplinata come metodo generale per l’irrogazione delle sanzioni mediante diretta iscrizione a ruolo.

La competenza risiede in capo allo stesso Ufficio o ente impositore competente all’accertamento del tributo
cui le violazioni si riferiscono. Il procedimento comincia con la notifica di uno specifico atto di
contestazione che deve contenere e indicare a pena di nullità i fatti attribuiti al trasgressore, gli elementi
probatori, le norme applicate, i criteri che si ritiene di seguire per la determinazione delle sanzioni e la loro
entità, nonché i minimi edittali previsti dalla legge per le singole violazioni. La previsione della nullità quale
sanzione specifica nel caso di assenza di uno degli elementi sopraindicati, rappresenta la conferma
esplicita di quel penetrante obbligo di motivazione degli atti impositivi.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Una volta ricevuto l’atto di contestazione, il trasgressore dispone di tre facoltà alternative, ovvero:

1) La definizione agevolata delle sanzioni con il pagamento di 1/3 della sanzione irrogata. La definizione
agevolata consiste in un meccanismo premiale che impedisce anche l’irrogazione delle sanzioni
accessorie.

2) La facoltà di presentare deduzioni difensive finalizzate ad un riesame, ovvero all’annullamento,


dell’atto sanzionatorio in contraddittorio con l’amministrazione. La presentazione delle deduzioni rende
improcedibile l’impugnazione immediata e ha l’effetto di instaurare un contraddittorio con
l’Amministrazione che deve essere concluso entro il termine di 1 anno, oppure con la conferma
dell’irrogazione con atto motivato anche in relazione alle deduzioni stesse, o ancora con la revoca
(totale o parziale) dell’atto in contestazione.

3) Al contribuente che non voglia definire in via breve, né voglia presentare controdeduzioni è consentito,
infine, di impugnare direttamente l’atto di contestazione pressa la Commissione Tributaria
Provinciale, nel termine di 60 giorni dalla notifica.

12. La contestazione della violazione con atto contestuale all’avviso di accertamento e


mediante iscrizione a ruolo

L’art. 17 del d.lgs. n° 472/1997 prevede che, in deroga alle disposizioni del precedente art. 16, le sanzioni
collegate al tributo possono essere irrogate senza previa contestazione del tributo stesso, con atto
contestuale all’avviso di accertamento o di rettifica motivato a pena di nullità. Si tratta di un provvedimento
del tutto autonomo e indipendente, alternativamente e liberamente esperibile al ricorrere dei
presupposti applicativi, consistenti nella sussistenza di contestazioni riferibili anche al tributo, contenute in
un avviso di accertamento o di rettifica. Nella prassi applicativa, inoltre, il meccanismo procedimentale di
irrogazione delle sanzioni, contestualmente all’accertamento del tributo, ha finito per rivelarsi addirittura
prevalente, laddove praticabile, essendo evidentemente più conveniente sotto il profilo della snellezza
burocratica avviare un solo procedimento di accertamento del tributo ed irrogazione di sanzioni piuttosto che
due atti separati. Anche per il modello procedimentale è ammessa la definizione agevolata delle sole
sanzioni con il pagamento nella misura ridotta di 1/3 delle sanzioni irrogate. Il terzo tipo di procedimento di
irrogazione delle sanzioni, infine, è quello che ne consente l’applicazione direttamente mediante
iscrizione a ruolo e senza previa contestazione, al quale si può ricorrere per le sanzioni per omesso o
ritardato pagamento dei tributi. La scelta legislativa di prevedere un procedimento di irrogazione delle
sanzioni più snello per violazioni riscontrate con i cd. Controlli formali, risponde senza dubbio ad un criterio
di velocizzazione delle procedure.

13. L’esecuzione e la riscossione delle sanzioni

L’art. 19 del d.lgs. n° 472/1997 ha previsto la riscossione parziale della sanzione pecuniaria sulla base
della decisione di primo grado, disponendo l’applicazione delle norme regolanti la riscossione in pendenza
di contenzioso, anche nei casi in cui non operi la riscossione frazionata del tributo. Lo stesso art. 19, al
comma 2, ha introdotto la tutela cautelare consistente nella sospensione dell’esecuzione delle sanzioni da
parte della Commissione Tributaria Regionale, con l’applicazione delle disposizioni regolanti la
sospensione dell’atto nel processo tributario e contenute nell’art. 47 del d.lgs. n° 546/1992. Peculiare nel
procedimento cautelare di sospensione delle sanzioni è la previsione del comma 3 dell’art. 19 che,
prevedendo che la misura cautelare “deve essere concessa se viene prestata idonea garanzia”, sembra non
richiedere al giudice quella valutazione sommaria del danno grave e irreparabile e del “fumus boni iuris” che,
invece, è pregnante nell’art. 47 del d.lgs. n° 546/1992.

14. Decadenza e prescrizione

L’art. 20 del d.lgs. n° 472/1997 dispone i termini di decadenza per l’esercizio del potere sanzionatorio e
di prescrizione per la riscossione del credito. L’atto di contestazione deve essere notificato a pena di
decadenza entro il 31 dicembre del 5° anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione o nel diverso
termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi. Anche il diritto alla riscossione si prescrive nel
termine di 5 anni, che però decorrono da quando l’Ufficio ha il potere di attivarsi per l’esecuzione e cioè da
quando il provvedimento irrogato delle sanzioni è divenuto definitivo. Va evidenziato, però, l’autorevole
orientamento della giurisprudenza di legittimità (la Cassazione) che ha ritenuto che il termine
prescrizionale di 5 anni sia applicabile nel solo caso di atto definitivo per mancata impugnazione e che,
invece, nel caso di definitività derivante da un giudicato e, quindi, a seguito di un processo, il termine
prescrizionale sia quello, più lungo di 10 anni, previsto dal codice civile.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

15. Ipoteca e sequestro conservativo

L’ordinamento tributario vuole tutelare l’A.F. nella sua azione di contrasto all’evasione fiscale e per offrire ad
essa la presenza di qualche garanzia atta a tutelare la riscossione del proprio credito, il legislatore, con
l’art. 22 del d.lgs. n° 472/1997, infatti, ha previsto alcune misure cautelari: l’iscrizione di ipoteca o il
sequestro conservativo dei beni del contribuente, finalizzati a conservare l’integrità patrimoniale del
trasgressore nelle more del procedimento giurisdizionale.

• L’iscrizione di ipoteca: ha il fine di costituire una prelazione, attribuendo all’A.F. il diritto di espropriare i
beni vincolati a garanzia del suo credito e di essere soddisfatta con preferenza sul prezzo ricavato
dall’espropriazione. I beni, eventualmente, possono anche essere messi all’asta e, nel caso in cui l’A.F.
non riesca a rivalersi sul contribuente in nessun altro modo, essere venduti in modo da ottenere quanto
dovuto. Sono ipotecabili: i beni immobili.

• Il sequestro conservativo: ha come finalità quella di evitare che i beni del trasgressore vengano
dispersi, nascosti o venduti, facendo venire meno la garanzia per il Fisco. In sostanza, consiste nel
blocco dei beni del debitore, il quale non può più disporne liberamente, pena l’applicazione di sanzioni
penali.

Per avviare la procedura cautelare è necessario che sia stato notificato al trasgressore un PVC (processo
verbale di constatazione), un atto di contestazione o un avviso di irrogazione di sanzione e che, l’Ufficio
impositore abbia un “fondato timore” che il debitore possa sottrarre i suoi beni e diminuire così le garanzie
che l’amministrazione vanta sul patrimonio del debitore stesso. Questa misura cautelare viene richiesta
con istanza al Presidente della Commissione Tributaria Provinciale, poi notificata alla controparte e ha il
termine di 20 giorni per depositare memorie e documenti difensivi. La trattazione dell’istanza viene fissata
per la prima Camera di consiglio utile disponendo che ne sia data comunicazione alle parti almeno 10 giorni
prima. Il collegio decide con sentenza. Si tratta di una procedura che ricalca quella dell’art. 47 del d.lgs.
n°546/1992, ma con la particolarità che il giudice sembra tenuto solo ad una valutazione sul periculum in
mora (pericolo nel ritardo) e non a quella del fumus boni iuris (parvenza di buon diritto) che sembra
sussistere per la sola presenza di un processo verbale di constatazione o altro atto di contestazione e/o
accertamento, prescindendo dalla fondatezza dello stesso.

16. Sospensione dei rimborsi e compensazione

L’art. 23 del d.lgs. n° 472/1997 ha inserito nel sistema sanzionatorio tributario due istituti: la sospensione
dei rimborsi dei crediti nei confronti dell’A.F. e la compensazione.

• La sospensione dei rimborsi: ha una chiara natura cautelare e consiste nel fatto che laddove l’A.F.
abbia un credito nei confronti del contribuente, ha la possibilità, nel caso in cui il contribuente non
adempia immediatamente a quanto dovuto, di sospendere l’erogazione dei rimborsi. La sospensione
opera nei limiti della somma risultante dall’atto o dalla sentenza, o dalla decisione della Commissione
Tributaria.

• La compensazione: la compensazione del proprio debito con il credito derivante dalle sanzioni può
essere pronunciata solamente dall’Ufficio competente per il rimborso, dopo essersi accertato che il
provvedimento sanzionatorio improprio è divenuto definitivo.

In entrambi i casi si tratta di atti che devono essere notificati ai trasgressori e agli eventuali coobbligati in
solido, impugnabili innanzi agli organi della giurisdizione tributaria.

LE SANZIONI PENALI (PARTE II)

1. La riforma delle sanzioni penali

Il sistema sanzionatorio penale tributario è stato oggetto di una radicale riforma attuata con il d.lgs. n°
74/2000, emanato in virtù della delega conferita dall’art. 9 della legge n° 205/1999, il cui obiettivo è stato
quello di colpire con la sanzione penale solo le fattispecie più gravi di violazioni tributarie e non più quelle
formali e/o prodromiche all’evasione, fattispecie, queste, colpite da sanzioni amministrative.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’intento del legislatore delegante di circoscrivere la previsione di fattispecie penali ai casi di


violazioni più gravi, ha portato a caratterizzare il reato penale tributario per la presenza del “dolo
specifico” (il fine di evadere le imposte) e per frequente previsione di soglie di punibilità al di sotto delle
quali non scatta la violazione penale, ma si rimane nell’ambito dell’illecito amministrativo. La legge n°
205/1999 ha abolito il principio di ultrattività delle norme penali tributarie che consentiva la
sopravvivenza di reati anche dopo l’abrogazione.

Mentre in passato era previsto il cumulo delle sanzioni, che consentiva di punire il soggetto due volte per la
stessa condotta, sia con una sanzione penale che amministrativa, oggi, il rapporto tra illecito
amministrativo e penale è stato disciplinato sul presupposto dell’unicità della misura afflittiva, sulla
considerazione che una stessa violazione non può essere colpita con il cumulo di due sanzioni, ma
applicando la disposizione che si considera speciale (cd. Principio di specialità). Pertanto, quando una
violazione potrebbe essere astrattamente colpita sia da una sanzione penale che amministrativa è
necessario confrontare le due norme per stabilire quale delle due abbia portata generale e quale, invece,
abbia portata speciale, quindi, un ambito di applicazione più ristretto. La norma che prevede la sanzione
amministrativa ha portate generale, essendo sufficiente la commissione della violazione consistente nella
mancata presentazione della dichiarazione; la norma che disciplina la sanzione penale, invece, prevede
un quid pluris consistente nell’elemento soggettivo del dolo specifico e nel superamento della soglia di
punibilità, quindi, essa si caratterizza per essere speciale e finirà per essere applicata, rispetto alla prima che
ha portata generale.

Più di recente, a livello giurisprudenziale, trova applicazione il principio del “ne bis in idem”, che ha
ridefinito la portata della specialità pur avendo simile finalità e che si fonda sul principio della proporzionalità.
Tali ultimi principi di matrice europea, militano nel senso della non coerenza dei due sistemi sanzionatori
quando il cumulo di sanzioni aventi analoga natura giuridica, a prescindere dalla loro qualificazione, appare
sproporzionato rispetto all’offesa recata dalla condotta del contribuente. L’attenzione va riservata alla natura
giuridica effettiva della sanzione amministrativa che può risultare afflittiva ed assumere gli stessi connotati
della sanzione penale.

Ai fini processuali è bene ricordare che nel 1982 è stata abolita la cd. “pregiudiziale tributaria”, ossia, la
regola secondo la quale l’esercizio dell’azione penale veniva subordinato alla definitività dell’accertamento
dell’imposta; quindi, quando l’imposta veniva accertata definitivamente, si poteva avviare un’azione penale.
Tutt’oggi il principio vigente è quello del “doppio binario”, cioè dell’indipendenza dei due procedimenti e
processi (tributario e penale) che possono anche svolgersi simultaneamente e secondo le diverse regole dei
rispettivi processi. Tuttavia, per consentire la corretta applicazione del “principio di specialità”,
l’esecuzione della sanzione amministrativa irrogata viene sospesa quando pende un processo penale. In
altre parole, se per quella condotta vi è una sentenza penale, non si irroga anche una sanzione
amministrativa; se, invece, il processo penale dovesse concludersi con l’archiviazione o con sentenza
irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento, permangono i presupposti della sanzione amministrative,
che diviene poi esecutiva.

L’idea di fondo del principio della proporzionalità e del “ne bis in idem”, consiste nel verificare, di volta
in volta, la portata afflittiva della sanzione che si intende comminata ispirandosi a principi come quello della
ragionevolezza. In altre parole, si deve verificare man mano la compatibilità delle singole sanzioni che si
vogliono comminare al contribuente e la loro coerenza nel sistema tributario in generale. Il d.lgs. n°
158/2015, Titolo I, ha revisionato il sistema sanzionatorio in materia tributaria e penale.

2. I singoli reati e le loro modifiche

Il d.lgs. n° 74/2000 ha suddiviso le ipotesi di reato in due gruppi:

- I reati in materia di dichiarazione: sono caratterizzati dalla necessaria sussistenza del dolo specifico e
dalla previsione di soglie di punibilità riferite all’entità di imposta evasa, al superamento delle quali si
perfeziona il reato.

- I reati in materia di documenti fiscali e pagamenti di imposta: costituiscono il genus, pertanto


esistono diverse species rispetto a questo reato specifico. Occorre, quindi, considerarne alcune:

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

a) La dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per l’operazione


inesistenti (art. 2, d.lgs n° 74/2000)

Tale reato si configura quando, nell’ambito della dichiarazione dei redditi, il contribuente, con dolo, va ad
inserire elementi passivi fittizi correlati a fatture o altri documenti riferiti ad operazioni insistenti. Il reato in
questione è l’unico che non prevede una soglia di punibilità al di sotto della quale la condotta non venga
sanzionata bensì è prevista la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni.

b) La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3)

Il reato ricorre nel caso in cui le dichiarazioni fittizie attengano a elementi attivi inferiori a quelli realmente
conseguiti oppure elementi passivi superiori a quelli effettivi.

A differenza del reato precedente, che si riferisce esclusivamente all’esposizione di costi fittizi, in questo
caso, le indicazioni mendaci possono riguardare tanto gli elementi attivi che quelli passivi di soggetti
obbligati alla tenuta delle scritture contabili.

Il reato in questione è punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni, solo quando si
superano le soglie di punibilità, ossia, quando congiuntamente:

- l’imposta evasa è superiore, con riferimento alle singole imposte considerate, a 30.000 euro.
- L’ammontare è complessivo degli elementi attivi (i guadagni) sottratti all’imposizione anche mediante
indicazione di elementi passivi fittizi è superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi
indicati in dichiarazione o comunque è superiore ad 1 milione di euro (soglia poi aumentata a 1 milione e
500mila euro).

La disciplina in esame è stata modificata dalla novella del d.lgs. n° 158/2015, volto a dilatare i confini
applicativi della norma. Tuttavia, la nuova formulazione della disposizione non è riuscita a risolvere
alcune questioni, abbastanza controverse, rimaste ancora irrisolte.

Inoltre, il reato in esame si sviluppa in tre momenti:

1) Il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente.

2) L’utilizzo di mezzi fraudolenti che siano idonei ad ostacolare l’attività di accertamento da parte dell’A.F.

3) L’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, oppure nella dichiarazione fatta ai fini Iva, di elementi attivi
inferiori a quelli effettivi o di elementi passivi fittizi, quindi, superiori a quelli effettivi.

In seguito alla riforma del 2000 è stata eliminata la prima delle tre fasi, rendendo non più necessario
l’elemento della falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e ciò sembra ampliare i potenziali
autori del reato. La condotta tipica consiste nel compimento di “operazioni simulate oggettivamente o
soggettivamente”, ovvero dell’avvalersi “di documenti falsi o altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare
l’accertamento e ad indurre in errore l’A.F.”. A tal proposito, è importante precisare che oggigiorno la
norma è tornata ad assumere una struttura trifasica.

c) La dichiarazione infedele (art. 4)

Questo reato ha carattere residuale rispetto ai reati che caratterizzano le dichiarazioni fraudolente e si ha
quando nella dichiarazione dei redditi o nella dichiarazione ai fini Iva si indicano uno o più elementi attivi per
un ammontare inferiore a quello effettivo oppure elementi passivi fittizi. Non essendo richiesto l’inserimento
in contabilità dei documenti fittizi, questo reato può essere commesso anche da contribuenti non tenuti agli
obblighi di contabilità. Quest’ultimo è punito con la reclusione da 1 a 3 anni quando, congiuntamente:

- L’imposta evasa è superiore a 150mila euro.


- L’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di
elementi passivi fittizi, è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in
dichiarazione, o, comunque, superiore a 3 milioni di euro.

Questo tipo di reato dal 2015 si è ridotto poichè il legislatore delegato ha elevato sia la soglia di punibilità
che quella del valore degli elementi attivi sottratti all’imposizione.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

d) La dichiarazione omessa (art. 5)

Questo reato si ha quando il contribuente non presenta la dichiarazione dei redditi nei tempi indicategli, cioè
entro 90 giorni dalla scadenza del termine. Non si considera omessa la dichiarazione presentata dal
contribuente entro 90 giorni dalla scadenza del termine, o nel caso in cui venga presentata senza essere
sottoscritta o, ancora, quando sia redatta su un modello diverso rispetto a quello fornito dall’A.F. La pena
prevista per i contribuenti che commettono tale reato è di 1 anno e 6 mesi fino a 4 anni di reclusione se
l’imposta evasa è superiore a 50mila euro.

I reati in materia di documentazione e pagamento di imposte, invece, sono disciplinati dal capo II del
Titolo II, del d.lgs. n° 74/2000 e sono:

1) Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8)

L’emissione di fatture false è un reato punito con la stessa sanzione che è prevista per il reato di
dichiarazione fraudolenta (reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni) e si realizza quando, per
consentire a terzi l’evasone delle imposte sui redditi o sull’Iva, un soggetto emetta fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti. Si tratta di un reato istantaneo che si consola al momento dell’emissione della
fattura falsa, non essendo necessario che lo scopo perseguito sia effettivamente conseguito. I due reati di
emissione di fatture false e dichiarazione fraudolenta sono puniti autonomamente per cui, colui che emette
fatture false e colui che le utilizza, non sono punibili a titolo di concorso nell’altro delitto.

2) Occultamento o distruzione dei documenti contabili (art. 10)

Compie questo reato chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, o di consentire
l’evasione a terzi, occulta o distrugga in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria
la conservazione per non consentire all’A.F. la ricostruzione dell’ammontare dei ricavi o del volume degli
affari. Se, invece, nonostante la distruzione o l’occultamento, l’A.F. riesce a ricostruire il reddito o il volume
d’affari del soggetto accertato, questo tipo di reato non si realizza. Chi commette questo reato è punito con la
reclusione da 1 anno e sei mesi fino a 6 anni.

3) Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis)

Questo reato si verifica quando il sostituto d’imposta non versa entro il termine previsto per la presentazione
della relativa dichiarazione annuale le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un
ammontare superiore a 150mila euro per ciascun periodo d’imposta ed è punito con la reclusione da 6
mesi a 2 anni.

4) Omesso versamento Iva (art. 10-ter)

L’Iva va pagata annualmente, ma mensilmente si pagano gli acconti Iva. Alla reclusione da 6 mesi a 2 anni
è punito chi non versa l’imposta sul valore aggiunto, per un ammontare superiore a 250mila euro nel termine
previsto per il versamento dell’acconto relativo all’anno d’imposta successivo (31 Dicembre).

5) Indebita compensazione (art. 10-quater)

La reclusione da 6 mesi a 2 anni è applicata anche a chiunque non versa le imposte dovute per un importo
superiore a 150mila euro, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti.

6) Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11)

La sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è da considerarsi come un “reato di pericolo”,


perchè è sufficiente l’astratta possibilità che una determinata operazione di alienazione simulata o il
compimento di altri atti fraudolenti sui beni propri o altrui, sia idonea a rendere difficoltosa o impossibile la
procedura di riscossione coattiva. Il reato di pericolo si perfeziona con il compimento degli atti di sottrazione
fraudolenta per un importo superiore a 50mila euro ed è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni,
aumentata da 1 anno a 6 mesi quando il debito di imposta è superiore a 200mila euro. Alla stessa pena
soggiace chiunque indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale
elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi per un ammontare
complessivo superiore a 50mila euro.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

3. Le altre novità introdotte dalla riforma

Con la riforma del 2015 si introduce, un nuovo art. 12-bis nel corpo del d.lgs. n° 74/2000, con cui si
attribuisce una più coerente collocazione normativa alla disposizione relativa alla confisca.

Quest’ultimo, al comma 1, prevede che: “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta
delle parti a norma dell’art. 444 del c.p.c. per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata
la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al
reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore
corrispondente a tale prezzo o profitto”.

Si tratta, dunque, di un’ipotesi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo e del profitto del
reato.

Il comma 2, dell’art. 12-bis, stabilisce che: “la confisca non opera per la parte che può essere restituita
all’Erario”.

Ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n° 74/2000 si ha “l’estinzione del debito tributario” anche a seguito di
adesione e conciliazione. Inoltre, se un soggetto ha commesso uno di questi reati e poi cerca una
conciliazione o un’adesione, la legge prevede che “non può essere punito”. Viene anche previsto che: “se
prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario è in fase di estinzione mediante
rateizzazione è dato un termine di 3 mesi (prorogabile, se necessario, di altri 3) per il pagamento del debito
residuo”.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO IX : LA RISCOSSIONE

INTRODUZIONE : EVOLUZIONE LEGISLATIVA DELLA DISCIPLINA DELLA RISCOSSIONE


DEI TRIBUTI

La riscossione dei tributi è molto importante, essa rappresenta il momento in cui si attua e si realizza
l’obbligazione tributaria, nonché la concreta acquisizione di risorse finanziare per lo Stato e per gli Enti
Pubblici. Gli atti autoritativi della riscossione garantiscono all’ente impositore di acquisire le somme
spettanti a titolo di tributo secondo procedure semplificate rispetto a quelle privatistiche. Il sistema della
riscossione dei tributi può essere distinto in due parti: una prima che comprende la disciplina delle
modalità e dei termini di attuazione della riscossione dei tributi e una seconda che regola le modalità di
gestione del servizio di riscossione. Inoltre, questo sistema inizialmente è andato verso una privatizzazione
del servizio con l’affidamento dello stesso a soggetti professionali, impegnati nel settore del credito e delle
attività finanziarie; in questo modo si è cercato di alleggerire l’apparato pubblico dall’esercizio di funzioni
strumentali, liberando in questo modo le risorse per lo svolgimento di compiti più strettamente amministrativi:
ispezioni, controlli e accertamenti. Un’altra ragione fondamentale che ha tenuto in vita per moltissimi anni
l’indirizzo di affidare a soggetti privati la gestione del servizio di riscossione è stata quella della possibilità di
applicare l’istituto del “riscosso per il non riscosso”, che comportava l’obbligo per il gestore del servizio di
versare ratealmente all’ente creditore le somme che avrebbe poi esso stesso dovuto riscuotere, a
prescindere dall’effettiva riscossione delle stesse. Insomma, si trattava di anticipazioni finanziarie che
l’esattore eseguiva a favore dell’ente creditore, assicurando così all’ente pubblico la disponibilità costante e
tempestiva delle risorse necessarie a fronteggiare le spese pubbliche; in tal modo, il ruolo dell’esattore o del
concessionario assumeva il carattere di “polmone finanziario” per gli enti pubblici. La disciplina delle due
parti in cui è distinto il sistema della riscossione dei tributi ha subìto nel tempo moltissime riforme
tutte finalizzate alla semplificazione delle modalità dell’esazione dei tributi e all’efficienza del servizio di
riscossione.

In attuazione della legge delega n° 825/1971, il legislatore delegato ha emanato due d.p.r.: uno nel 1973,
riguardante la disciplina delle modalità e i termini di riscossione e dei rimborsi delle imposte dirette e un altro
nel 1988, regolante i rapporti tra enti creditori ed esattori o concessionari del servizio di riscossione. Una
delle innovazioni più importanti di quella riforma è rappresentata dal passaggio dalla riscossione a mezzo
ruolo alla modalità di riscossione in autoliquidazione, mediante l’adempimento spontaneo da parte del
contribuente del versamento delle proprie imposte. Questo passaggio si è reso necessario a seguito
dell’avvento del cd. Fisco di massa, avendo il legislatore della riforma degli anni 70’, con un altro
provvedimento legislativo, posto il principio dell’obbligo della dichiarazione tributaria per tutti i soggetti
passivi dei nuovi tributi ed era inimmaginabile mantenere un sistema di riscossione dei tributi basato sul
ruolo anche per la riscossione volontaria.

Altri punti importanti della riforma sono stati: l’ampliamento del sistema delle ritenute e l’introduzione degli
acconti che il contribuente era tenuto a versare nel corso e in costanza di ciascun periodi di imposta. Inoltre,
il ruolo (che prima costituiva il mezzo principale di esazione delle imposte dirette), a seguito di questa
riforma, ha perso di importanza a favore dei metodi della ritenuta a fonte del versamento diretto; tuttavia il
ruolo non veniva del tutto eliminato anche per la riscossone volontaria, ma assumeva semplicemente un
carattere residuale rispetto al versamento diretto. Infatti, esso risultava ancora necessario per il prelievo
coattivo dei tributi che non venivano pagati spontaneamente con il sistema delle ritenute e dei versamenti
diretti.

Ciò nonostante, questo sistema continuava a presentare numerosi inconvenienti e il legislatore ha


deciso di intervenire emanando, nel 1999, tre decreti legislativi, i n° 37, 46 e 112, con cui è stato
modificato quest’originario impianto di riscossione. La modifica principale si è avuta con il d.lgs. n°
37/1999 con cui è stato soppresso l’istituto dell’obbligo del “riscosso per il non riscosso” a carico del
concessionario, che ha assunto più di una funzione di “mero incaricato di un pubblico servizio”, anziché
quella di “finanziatore anticipato dell’erario”. Con questi provvedimenti del 1999 si voleva migliorare il
rapporto tra contribuenti e Fisco, ma ciò non si è avuto. Anzi, nel quinquennio 2000-2004, nonostante gli
sforzi della Riforma del 99’ e di altri interventi legislativi per rendere il sistema della riscossione efficiente, si
registrò un forte calo di entrate.

Per tali ragioni, nel 2005 è stata adottata la rivoluzionaria scelta di abbandonare, dopo circa un secolo e
mezzo, il sistema di riscossione affidato a soggetti privati a favore di un sistema gestito direttamente
dalla P.A.. In altre parole, si ha così il passaggio da una riscossione cd. “appaltata” o “delegata” ad una
riscossione “diretta”.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’art. 3, comma 1, d.l. n° 203/2005, convertito dalla legge n° 248/2005, infatti, ha soppresso, a decorrere
dal 1° Ottobre 2006, il sistema di affidamento in concessione a soggetti privati della riscossione ed
ha attribuito le relative funzioni all’Agenzia delle Entrate che le esercita tramite l’Equitalia s.p.a. (che
prima del 2007 era denominata Riscossione s.p.a.); si tratta di un nuovo soggetto interamente costituito con
capitale pubblico, partecipato dalla stessa Agenzia delle Entrate al 51% e dall’Inps al 49%. Questa soluzione
viene adottata per concentrare in un unico soggetto la fase dell’accertamento e della riscossione e ha lo
scopo di lottare contro il fenomeno dell’evasione.

A completamento di questa riforma il legislatore con la legge n° 122/2010 ha fuso la fase della
riscossione con quella dell’accertamento, rendendo titoli esecutivi gli atti di accertamento decorso il
termine per il pagamento della pretesa tributaria, intimata nel medesimo atto di accertamento; il ruolo e la
cartella di pagamento ora non sono più necessari ai fini dell’esecutività, quindi, non vengono più notificati e
si passa direttamente alle azioni espropriative che, comunque, a pena di decadenza, devono iniziare entro il
biennio successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo. Tutto ciò oggi vale solo per le
imposte dirette e l’Iva a partire dal 1° Luglio 2011 con riguardo ai periodi d’imposta in corso alla data
del 31 Dicembre 2007 e successivi, mentre per gli altri tributi è prevista una progressiva estensione
del medesimo sistema.

Questo sistema rappresenta un passo di rilevanza strategica nella lotta all’evasione fiscale, poiché
attribuisce all’Agenzia delle Entrate una posizione di centralità anche nell’attività di riscossione coattiva e
garantisce così il governo unitario dell’azione di accertamento e di riscossione, che ne costituisce il naturale
compimento. Tale posizione si è consolidata con lo scioglimento delle società del Gruppo Equitalia dal
1° Luglio 2017 e la contestuale istituzione del nuovo ente pubblico economico denominato “Agenzia delle
Entrate-Riscossione” strumentale all’Agenzia delle Entrate, avente autonomia patrimoniale, contabile e di
gestione e che svolge le funzioni relative alla riscossione nazionale sottoposto alla vigilanza del MEF.

L’attuale sistema di riscossione dei tributi si suddivide in due parti: una prima, concernente le modalità e
i termini di riscossione; una seconda, riguardante le modalità di gestione del servizio di riscossione.

La prima parte, a seconda delle modalità di riscossione, può essere divisa in tre specie:

- Riscossione spontanea o autoliquidazione: quando l’obbligo di pagamento del tributo è adempiuto da


parte del contribuente in modo spontaneo, corretto e tempestivo.

- Riscossione coattiva: quando il versamento del tributo, non adempito spontaneamente dal contribuente,
viene realizzato in modo coercitivo ed anche mediante procedure espropriative.

- Riscossione spontanea e non coattiva: quando l’iscrizione a ruolo non deriva da inadempimento del
contribuente ed è prevista dalla legge, oppure, quando l’ente creditore, per sua scelta, ritiene già
opportuno utilizzare il ruolo per discutere le proprie entrate.

In ultimo, è stato emanato il d.lgs. n° 159/2015, avente ad oggetto “misure per la semplificazione e
razionalizzazione delle norme in materia di riscossione”. L’obiettivo del provvedimento è creare un
sistema di riscossione che favorisca la compliance, attraverso norme che inducano il contribuente ad
adempiere spontaneamente ai versamenti delle imposte, anche attraverso forme più ampie di rateizzazione.
Anche l’Erario potrà beneficiare di una maggiore certezza nei tempi di riscossione e di modalità semplificate.
In caso di definizione concordata dell’accertamento, il pagamento può essere effettuato in quattro anni,
anziché tre, con un minimo di otto rate e un massimo di 16.

Contestualmente, è stato introdotto il principio del “lieve inadempimento” secondo cui non è prevista la
decadenza della rateizzazione nel caso di ritardo del versamento. Si è poi prevista la possibilità di utilizzare
la posta elettronica, oltre che la semplice raccomandata, per comunicare al contribuente l’affidamento delle
somme da parte dell’Ente Creditore dell’Agente della Riscossione. A seguito dell’istituzione del nuovo ente
“Agenzia delle Entrate e Riscossione”, vengono mantenuti: il costo aggiuntivo e gli oneri di funzionamento
relativi all’attività di riscossione; inoltre, è prevista anche una quota incentivante destinata al miglioramento
della nuova struttura.

Il dubbio che l’aggio possa essere considerato un aiuto incompatibile con il diritto comunitario e il sospetto
della sua legittimità costituzionale, hanno portato il legislatore a ripensare le modalità attraverso le quali
assicurare il funzionamento del servizio nazionale della riscossione, riconoscendo comunque agli agenti un
ristoro più commisurato al costo di funzionamento del servizio.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’ADEMPIMENTO SPONTANEO DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA (PARTE I)

1. Le ritenute

La ritenuta diretta è una modalità di estinzione parziale o totale dell’obbligazione tributaria che si
realizza mediante il trattenimento di somme, poi versate all’erario, da parte del soggetto, definito “sostituto”,
che eroga emolumenti (retribuzioni per una prestazione d’opera), indennità o compensi a favore del soggetto
passivo del tributo, definito sostituito, nel momento in cui dette somme vengono corrisposte. Quindi, il
sostituto ha l’obbligo di attuare il prelievo nel momento in cui viene realizzato il presupposto d’imposta,
mentre il sostituito sopporta il prelievo (è il soggetto inciso da tale prelievo).

La ritenuta diretta può essere di due specie:

• A titolo d’imposta: se l’obbligazione tributaria è completamente e definitivamente estinta.


• A titolo d’acconto: se l’obbligazione tributaria è parzialmente estinta e quindi il contribuente dovrà
versare la restante parte in sede di dichiarazione.

La ritenuta diretta d’acconto, normalmente operata dal sostituto d’imposta, presenta a differenza di quella
d’imposta la caratteristica di costituire un prelievo anticipato rispetto alla chiusura del periodo d’imposta, ma
collegato al presupposto dell’obbligazione, essendo effettuata su proventi che concorreranno a formare il
reddito complessivo del soggetto che la subisce. In caso di ritenute dritte a titolo definitivo il prelievo
svolge la doppia funzione di riscossione e di regime fiscale sostitutivo. Si tratta di una modalità pubblicistica
di estinzione dell’obbligazione tributaria.

L’art. 2 del d.p.r. n° 602/1973 precisa che le imposte sono pagate mediante ritenuta diretta nei casi indicati
dalla legge. Nel caso della ritenuta sui redditi di lavoro dipendente, essa è determinata applicando alla
somma versata l’aliquota Irpef corrispondente allo scaglione di reddito in cui presumibilmente si colloca la
somma percepita dal prestare di lavoro, scomputando (sottraendo dalla somma totale) le detrazioni per
carichi di famiglia. Quindi, il datore di lavoro, sostituto d’imposta, entro il 28 Febbraio dell’anno successivo a
quello d’imposizione, riliquida l’Irpef dovuta dal lavoratore dipendente, tenendo conto di tutte le detrazioni
spettanti, confronta detta imposta con l’ammontare delle ritenute effettuate ed, asseconda del risultato, opera
una ritenuta, di regola sulle somme in pagamento, a titolo di conguaglio di fine anno se l’ammontare delle
trattenute è inferiore all’imposta dovuta ovvero provvede al rimborso delle ritenute che dovessero risultare
eccedenti.

2. I versamenti diretti

I versamenti diretti possono essere distinti in due gruppi:

- Versamenti eseguiti dal soggetto passivo del tributo che, in autoliquidazione, provvede direttamente
all’adempimento dell’obbligazione tributaria (es. Irpef, Ires, Irap), nonché il versamento dell’imposta
sostitutiva sui redditi di capitali corrisposti da soggetti non residenti a soggetti residenti nel territorio dello
Stato.

- Versamenti eseguiti dal sostituto d’imposta che versa allo Stato le somme oggetto della ritenuta da egli
operata (es. versamento operato dal sostituto sui redditi di lavoro dipendente).

Il tratto distintivo dei versamenti diretti del primo gruppo rispetto a quelli del secondo gruppo è che i
versamenti dell’Irpef, dell’Ires e dell’Irap, dovuti in base alle dichiarazioni annuali, sono effettuati in
autoliquidazione, nel senso che il soggetto passivo del tributo ha l’obbligo di calcolare l’imposta dovuta
(liquidazione) e di eseguire direttamente il versamento di quest’ultima, mentre le ritenute sia a titolo di
acconto che di imposta, sono liquidate dal sostituto d’imposta e su di lui incombe l’obbligo del versamento.
Di fatti, i versamenti diretti afferenti al primo gruppo costituiscono un’estinzione diretta dell’obbligazione
tributaria, mentre quelli del secondo gruppo comportano una sorta di riversamento, essendo già avvenuta
l’estinzione parziale (ritenuta a titolo di acconto) o totale (ritenuta a titolo l’imposta) al momento
dell’effettuazione della ritenuta.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

I versamenti diretti vengono eseguiti mediante delega irrevocabile rilasciata ad un istituto di credito
convenzionato oppure alle Poste Italiane S.p.a.. Questa delega viene rilasciata attraverso due modelli:

• Il modello F24: per il versamento delle imposte dirette, dell’Irpef, dell’Iva e dell’Irap; quest’ultimo è
approvato con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, recante l’indicazione dei dati
identificativi del soggetto che effettua il versamento, il numero del codice fiscale, la data, la causale e gli
importi dell’ordine di pagamento, nonché l’impegno dell’istituto delegato ad effettuare il pagamento degli
enti destinatari per il conto del delegante.

• Il modello F23: per il versamento delle imposte indirette; è approvato con d.m. del 17 Dicembre 1988.
La delega può essere consegnata, per le persone fisiche, sia su modello cartaceo che telematico;
mentre, per i soggetti che sono titolari di partita Iva, quindi dalle società ai professionisti, la consegna
della delega avviene solo per via telematica. Il beneficio di utilizzare la via telematica è la tracciabilità
(cioè si permette al Fisco di ricostruire tutti i movimenti della delega. Se la delega è stata data, il
versamento può essere effettuato).

In particolari casi, i versamenti diretti possono essere eseguiti in danaro su appositi conti correnti postali
intestati alle tesorerie dello Stato, all’agente della riscossione oppure a distinti uffici dell’Amministrazione
Finanziaria, mediante stampati conformi al modello approvato con Decreto del MEF.

3. Gli acconti e i versamenti periodici

Gli acconti d’imposta, al pari delle ritenute d’acconto, costituiscono una modalità di estinzione parziale
dell’obbligazione tributaria con la sostanziale differenza che, mentre le ritenute alla fonte sono liquidate su
segmenti di redditi effettivamente prodotti, gli acconti d’imposta sono calcolati sulla base di imposte stimate
e, quindi, del tutto slegate dal presupposto d’imposta. L’Istituto degli acconti delle imposte, è stato
introdotto nel nostro ordinamento con la legge n° 97/1977, poi sostituita dalla legge n° 749/1977. Gli
acconti di imposta sono parte di un’imposta che si paga prima della totale estinzione dell’obbligazione
tributaria, come ad es. nel caso dell’anticipo dell’IRPEF che il contribuente deve versare all’erario ogni anno
per il periodo d’imposta in corso; tale acconto sarà sottratto dall’imposta dovuta al momento della
dichiarazione dei redditi.

La disciplina dei versamenti anticipati è stata modificata più volte, sia in ordine alla misura degli acconti,
sia per quanto concerne le modalità di pagamento. Gli acconti afferenti alle imposte sul reddito, all’Iva,
all’Irap, come avviene per il versamento delle ritenute e per i versamenti diretti, sono versati mediante
delega irrevocabile rilasciata con l’utilizzo del modello F24 ad un’istituto di credito convenzionato oppure alle
Poste Italiane S.p.a. (L’acconto si calcola in misura percentuale).

La base per il calcolo dell’importo da versare a titolo di acconto, secondo il “metodo storico”, è
l’imposta dovuta per l’anno precedente a quello in corso e la determinazione dell’acconto è effettuata in
misura percentuale di detta imposta pregressa. Se il contribuente, però, ritiene che l’imposta dovuta per
l’anno in corso è inferiore a quella dell’anno precedente, a causa della percezione di minori redditi o per
l’effetto di maggiori detrazioni o crediti d’imposta, può per il calcolo dell’importo d’acconto, abbandonare il
metodo storico e utilizzare il “metodo previsionale”. Tuttavia, come conseguenza a quest’ultimo metodo vi è
la previsione di sanzioni tributarie amministrative per omesso o insufficiente versamento, nel caso in cui
l’acconto dovesse risultare diverso rispetto a quello effettivamente dovuto. Inoltre, può esservi l’obbligo di
versare l’acconto in un’unica soluzione o in due rate. Il contribuente, alla fine del periodo d’imposta, dovrà
poi versare il saldo d’imposta e avrà diritto al rimborso oppure deciderà di portare in detrazione dell’imposta
dovuta per l’anno successivo l’eccedenza dell’imposta versata, nell’ipotesi in cui l’ammontare degli acconti
versati dovesse risultare superiore all’ammontare dell’imposta effettivamente dovuta.

Diversa, invece, è la disciplina dei versamenti periodici che, nel nostro ordinamento, interessa quasi
esclusivamente l’Iva. La legge, infatti, impone l’obbligo al soggetto passivo Iva di eseguire versamenti
periodici (con decadenza mensile) della differenza tra l’Iva incassata sulla cessione dei beni e prestazioni dei
servizi eseguiti nel mese precedente e l’Iva assolta sugli acquisti di beni e servizi nel medesimo periodo. Il
soggetto passivo, in questo caso, può optare per la liquidazione dell’Iva dovuta su basi trimestrali, con
conseguenti versamenti periodici. Tali versamenti, a differenza delle fattispecie precedenti, concretizzano
l’estinzione del totale dell’obbligazione tributaria e la liquidazione finale operata in sede di dichiarazione
annuale rappresenta un mero riepilogo delle liquidazioni infrannuali e dei relativi tributi già corrisposti.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

4. Il versamento unitario e la compensazione

L’art. 17 del d.lgs. n° 241/1997 ha previsto il versamento unitario, attraverso il quale i contribuenti
possono versare tutti i loro tributi con lo stesso versamento. Circa le modalità del versamento unitario, vi è
l’obbligo dell’utilizzo della delega irrevocabile rilasciata mediante il Modello F24 ad un istituto di credito
convenzionato oppure alle Poste Italiane S.p.a. Il versamenti unitari consentono la compensazione tra
“partite attive” e “partite passive” del contribuente, relative non solo alle imposte diverse, ma anche ai
rapporti con gli enti previdenziali. Più precisamente, la “compensazione fiscale” è un’operazione contabile
con caratteristiche e modalità diverse dalla compensazione civile, contraddistinta da un campo di azione
limitato. La compensazione si verifica quando due persone sono obbligate una verso l’altra per i debiti e
crediti reciproci; in questo caso i reciproci debiti e crediti si estinguono per le quantità corrispondenti.
Possono essere portati in compensazione tutti i debiti relativi ad imposte e contributi che risultano da
dichiarazioni o denunce. Un limite a tale disciplina è stato previsto dal legislatore, stabilendo che:
“Qualora il credito d’imposta utilizzato in compensazione risulti superiore all’importo previsto dalle
disposizioni che fissano il limite massimo dei crediti compensabili, il modello F24 è scartato”.

LA RISCOSSIONE COATTIVA (PARTE II)

1. Gli atti prodromici: l’avviso bonario

Nel procedimento riscossivo, per atti prodromici si intendono tutti quegli atti che l’A.F. o l’Agente della
Riscossione notifica al contribuente prima di procedere all’iscrizione nei ruoli e che hanno la duplice finalità
di portare a conoscenza del contribuente la circostanza che si sta procedendo all’iscrizione a ruolo di somme
a suo carico e di evitare l’avvio della fase di riscossione coattiva. Queste non sono altro che
“Comunicazioni di irregolarità” che originariamente avevano la funzione di colmare una carenza legislativa
che non consentiva al contribuente di conoscere il termine entro il quale era stata eseguita l’attività di
controllo formale e delle dichiarazioni fiscali da parte dell’A.F. Diversa è la disciplina dei cd. “Avvisi bonari”
che si basa sul comma 5 dell’art. 6 della legge n° 212/2000, che recita: “Prima di procedere alle iscrizioni a
ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti
rilevanti della dichiarazione, l’A.F. deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi
telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine non inferiore
a 30 giorni dalla ricezione della richiesta”. Inoltre, tale articolo ha esplicitato anche che gli avvisi bonari
devono essere notificati al contribuente, altrimenti sono nulli.

In relazione a queste due categorie di atti sono sorti alcuni problemi: uno di ordine processuale
“concernente l’autonoma impugnabilità” e l’altro di natura sostanziale riguardante gli “effetti connessi alla loro
mancata notificazione”. Circa quest’ultimo problema è importante chiarire la differenza tra “Avvisi bonari” e
“Comunicazioni di irregolarità”.

Sulla base di tale disposizione si è formato un consolidato indirizzo della giurisprudenza di merito che
ritiene affette da nullità le iscrizioni nei ruoli e le cartelle di pagamento non precedute dall’invito al
contribuente, da parte dell’A.F., a fornire chiarimenti. Al riguardo è intervenuta la giurisprudenza tributaria,
la quale ha affermato che: “la mancanza di tale formalità determina la nullità insanabile della successiva
cartella esattoriale che diviene priva di una condizione di validità della riscossione”, proprio perchè l’avviso
bonario è un atto prodromico della cartella di pagamento. La stessa A.F. ha affermato che: “l’emissione
dell’avviso fa parte del procedimento di riscossione del tributo e ha, quindi, carattere obbligatorio”. Un’altro
problema, invece, riguarda la mancanza di sanzione di nullità della successiva cartella esattoriale per
l’omissione della comunicazione di irregolarità, la quale dovrebbe essere espressamente prevista. Tuttavia,
per alcune comunicazioni previste dall’art. 36-ter del d.p.r. n° 600/1973 è invece comminata la sanzione
della nullità consequenziale della cartella di pagamento.

Per quanto concerne l’impugnabilità di questi atti prodromici, si è posto il problema in quanto gli “Avvisi
bonari” e le “Comunicazioni di irregolarità” non sono indicati dalla legge tra gli atti espressamente
impugnabili. Al riguardo ed in linea generale, è prevalsa la tesi estensiva che consente di superare la
tassatività dell’elencazione degli atti impugnabili. In realtà, andrebbe operato un distinguo poichè le
“comunicazioni di irregolarità” non esprimono una pretesa tributaria compiuta, in quanto si tratta di meri inviti
a fornire documenti, dati o elementi non considerati dall’A.F., o erroneamente valutati dalla stessa ai fini della
liquidazione e, quindi, non appaiono impugnabili. La Cassazione, invece, esprime un orientamento
opposto proprio nel senso della loro impugnabilità.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Diverso è il discorso per gli avvisi bonari di pagamento, i quali si ritengono impugnabili, poiché la
Cassazione, a Sezioni Unite, con un provvedimento ha consolidato il proprio indirizzo nel senso di
ammettere l’impugnabilità degli inviti al pagamento solo qualora essi contengano tutti gli elementi per la
liquidazione del tributo, per cui si è in presenza di una pretesa tributaria definita, anche se richiesta in via
bonaria. A differenza degli atti indicati nell’art. 19 del d.lgs. 546/1992, la mancata impugnazione degli avvisi
bonari non comporta la “cristallizzazione” della pretesa tributaria.

2. Il ruolo

Il ruolo è un atto che contiene un elenco formato dall’Agenzia delle Entrate in cui vengono iscritte le
somme che non sono state versate dal contribuente. Esso è fondamentale per procedere alla
riscossione coattiva quando il versamento del tributo, non adempiuto spontaneamente dal contribuente,
viene realizzato in modo coercitivo e consente di avviare le procedure espropriative. Rispetto al previgente
sistema che conteneva quattro specie di ruoli, l’attuale disciplina ne prevede solo due:

• Ruolo ordinario: in cui sono confluiti i ruoli principali.


• Ruolo suppletivo, speciale e straordinario: quando vi è un fondato pericolo per la loro riscossione.

Questi ruoli non devono più essere autorizzati dall’Intendente di Finanza, come accadeva nel vecchio
sistema, attraverso una procedura amministrativa molto complessa. L’Ufficio competente forma ruoli distinti
per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari operano; in ciascun ruolo sonno iscritte tutte le
somme dovute dai contribuenti che hanno il domicilio fiscale in un Comune compreso nell’ambito territoriale.
Inoltre, nel ruolo deve essere indicato: il numero del codice fiscale del contribuente, la specie del ruolo, la
data in cui esso diviene esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento oppure, in
mancanza, la motivazione della pretesa tributaria. Il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica,
dal titolare dell’Ufficio o da un suo delegato e con la sottoscrizione diviene “esecutivo”. Inoltre, si è
previsto, attuando il principio di economicità degli atti amministrativi in generale e di quelli tributari in
particolare, che non si procede ad iscrizione a ruolo per somme inferiori a 10,33 euro. Infine, dopo che
l’Agenzia delle Entrate aveva comunicato il ruolo all’Equitalia, quest’ultima procedeva con la notifica della
cartella di pagamento.

3. La cartella di pagamento e l’accertamento esecutivo

La cartella è l’atto riscossivo con cui si porta a conoscenza del contribuente il ruolo limitatamente
alla partita iscritta a suo carico e si avanza la pretesa tributaria. Le norme che disciplinano la cartella di
pagamento sono contenute nel d.p.r. n° 602/1973.

In merito alla notificazione della cartella di pagamento, tale atto è notificato dagli Uffici della Riscossione
o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge, ovvero previa eventuale
convenzione tra Comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. La
notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la
cartella è notificata in un plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di
ricevimento. Nel caso in cui la notificazione della cartella di pagamento avviene mediante consegna nelle
mani proprie del destinatario, di persone di famiglia o addette alla casa, all’Ufficio o all’azienda, non è
richiesta la sottoscrizione dell’originale da parte del consegnatario. Inoltre, la notifica può essere eseguita
anche tramite posta elettronica certificata (INI-PEC).

Al centro di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale vi è la questione dei termini di notifica


del ruolo e della cartella di pagamento; il tema centrale di tale dibattito era l’inaccettabilità di un
procedimento riscossivo che negava al contribuente la possibilità di effettuare dei controlli circa i termini di
decadenza previsti per le attività dell’A.F., relegandolo in una situazione di assoluta incertezza circa il
momento in cui poteva essere chiamato a pagare somme iscritte a ruolo a suo carico. In mancanza della
previsione di un termine di notifica della cartella, il contribuente poteva ricevere la notifica di tale atto
riscossivo fino allo scadere del termine decennale di prescrizione del credito erariale che, se interrotto dal
ricevimento di un mero avviso di mora, poneva il contribuente in una condizione di indefinita soggezione
all’azione esecutiva del fisco. Inoltre, il contribuente conoscendo la pretesa erariale solo al momento della
notifica della cartella (molti anni dopo la data in cui si era verificato il fatto che aveva dato luogo all’iscrizione
a ruolo), non era più in grado né di dimostrare l’eventuale infondatezza della pretesa del fisco, né di
controllare la legittimità dell’azione dell’A.F., soprattutto sotto il profilo del rispetto dei termini legislativamente
previsti per l’attività di controllo formale delle dichiarazioni e per la formazione dei ruoli.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Come soluzione al dibattito dottrinale in questione, il legislatore con un provvedimento ha abrogato


l’art. 17 del d.p.r. n° 602/1973, disciplinante i termini di decadenza dei ruoli e lo ha sostituito con l’art. 25
del medesimo d.p.r., stabilendo come inderogabili i termini per la notifica della cartella di pagamento, il cui
dies a quo non risultava più essere la data della consegna dei ruoli bensì la data delle presentazioni delle
dichiarazioni ovvero la data di definitività degli accertamenti. Inoltre, un d.lgs. del 2015, si è occupato del
termine di notifica della cartella di pagamento in casi specifici e di coordinare la disciplina della decadenza
dal diritto di notificare la cartella con i nuovi istituti concordatari della pretesa fiscale. La modifica è stata
necessaria per scongiurare il rischio che venga a scadenza il termine per la notificazione della cartella di
pagamento relativa alle somme oggetto di certificazione dell’Ufficio non iscritte a ruolo e affidate all’Agente
della riscossione.

Venendo agli aspetti procedurali, la cartella di pagamento, redatta in conformità al modello approvato con
Decreto del Ministero delle Finanze, deve rispettare criteri ben precisi di contenuto/forma e contenere
l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultate dal ruolo entro un termine di 60 giorni dalla notificazione, con
l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata, assumendo così la funzione
dell’avviso di mora; tutto ciò si ha in conformità alla legge che, ai fini dello snellimento e della
razionalizzazione delle procedure di esecuzione, aveva previsto la notifica di un unico atto con funzioni di
avviso di pagamento e di mora. Un elemento essenziale ai fini della legittimità della cartella è
l’indicazione del responsabile del procedimento. La Corte Costituzionale ha riaffermato l’obbligo del
concessionario del servizio della riscossione di indicare nella cartella di pagamento il responsabile del
procedimento, con lo scopo: di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione al
cittadino e la garanzia del diritto alla difesa (altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della
P.A.).

Un altro elemento essenziale della cartella di pagamento è la motivazione; a tal proposito, la Corte di
Cassazione ha chiarito che alle cartelle di pagamento si applicano i principi di ordine generale sull’obbligo di
motivazione fissati per ogni procedimento amministrativo. Quindi, ad essere motivati devono essere anche
gli atti esecutivi (proprio come la cartella di pagamento) in quanto atti tributari; la legittimità di un atto
amministrativo privo della motivazione contrasterebbe con fonti normative di diverso rango e livello. A tal
proposito anche gli interessi, a partire dalla data di consegna del ruolo, devono essere ben calcolati ed
esplicati. La cartella esattoriale è nulla se non chiarisce al suo interno la causale delle somme pretese
dal Fisco. L’obbligo di motivazione diviene stringente e ancor più necessario nelle ipotesi in cui il
destinatario dell’atto viene a giuridica conoscenza, per la prima volta e solo con l’atto del concessionario per
la riscossione, della pretesa azionata. Il pagamento delle somme indicate nella cartella di pagamento,
quindi delle somme iscritte a ruolo, può essere effettuato presso gli sportelli del concessionario, le agenzie
postali e le banche. In caso di versamento presso le agenzie postali e le banche, i costi dell’operazione sono
a carico del contribuente.

Con l’obiettivo di semplificare e velocizzare la riscossione coattiva, l’art. 29 del d.l. n° 78/2010 (cd.
Riforma del 2010), ha introdotto il cd. “accertamento esecutivo” che diventa, con il decorso del tempo,
automaticamente titolo su cui fondare l’esecuzione esattoriale in luogo della storica cartella di pagamento.

Gli atti sopracitati, oltre alla quantificazione della pretesa impositiva, devono contenere l’intimazione ad
adempiere all’obbligo di pagamento:

- Degli importi negli stessi indicati entro il termine per la presentazione del ricorso (60 giorni dalla notifica
dell’avviso di accertamento).

- Degli importi dovuti a titolo provvisorio, in caso di tempestiva impugnazione dell’atto.

Inoltre, tali atti divengono esecutivi decorsi 60 giorni dalla notifica. In caso di inadempimento totale o
parziale, la riscossione delle somme risultanti dagli avvisi di accertamento, in deroga alle disposizioni in
materia di iscrizione a ruolo, è affidata agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata.
Decorsi 30 giorni, avvenuta la cd. “presa in carico”, l’esecuzione forzata è inibita ex lege (senza che sia
richiesta l’attivazione da parte del contribuente) per ulteriori 180 giorni. Tale ultima sospensione non opera in
diversi casi. Innanzitutto non si applica alle azioni cautelari e conservative, nonché ad ogni altra azione
prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore. Inoltre, la sospensione legale di 180 giorni non opera
qualora l’Agenzia delle Entrate abbia il fondato timore che vi sia pericolo per l’esito positivo della riscossione
e non opera neppure il termine dei 30 giorni successivi allo spirare del termine per la proposizione del
ricorso, per cui l’esecuzione forzata può avere inizio decorsi 60 giorni dalla notifica dell’avviso di
accertamento. In tal caso, l’Agenzia delle Entrate dovrà fornire all’agente della riscossione tutti gli elementi
utili, acquisiti anche in fase di accertamento, per l’esecuzione. Nel 2015 sono state introdotte altre cause di
mancata operatività della sospensione dell’esecutività dell’atto di accertamento.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

A tal proposito, rimane ferma l’esigenza di motivare e provare, da parte dell’A.F., l’eventuale sussistenza del
periculum in mora (in mancanza di adeguata motivazione, pur in assenza di un’espressa previsione
normativa a riguardo, il contribuente dovrebbe poter far valere la nullità dello stesso in sede di presentazione
del ricorso). Infine, la sospensione legale non opera qualora l’agente della riscossione, successivamente
all’affidamento in carico della riscossione, venga a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato
pericolo per l’esito positivo della procedura.

Decorso il periodo di sospensione legale può cominciare l’espropriazione forzata che generalmente
inizia con il pignoramento. Resta fermo che, decorso un anno dalla notificazione del titolo esecutivo,
l’espropriazione forzata dovrà essere preceduta dalla notificazione dell’avviso recante l’intimazione ad
adempiere entro 5 giorni, avviso che perde efficacia trascorsi 180 giorni dalla data della sua notifica.

4. La dilazione di pagamento delle somme iscritte nel ruolo

La disciplina della dilazione del pagamento delle somme iscritte nei ruoli (in poche parole, la
rateizzazione) è prevista dall’art. 19 del d.p.r. n° 602/1973; tale articolo ha subito svariate modifiche e
l’ultima si è avuta con l’art. 13-bis del d.l. n° 113/2016. Secondo l’attuale formulazione dell’art. 19,
l’Agente della Riscossione, su richiesta del contribuente che si trova in una temporanea condizione di
obiettiva difficoltà, può concedere, senza la prestazione di alcuna garanzia, la dilazione del pagamento delle
somme iscritte a ruolo fino ad un massimo di 72 rate mensili. La disciplina è stata integrata dalle direttive
emanate dall’ex Equitalia che, in merito alla rateizzazione, ha cercato di individuare dei criteri generali ed
obiettivi per l’accertamento della sussistenza del requisito della “temporanea situazione di obiettiva difficoltà”
del soggetto iscritto a ruolo, dell’importo della rata e del numero massimo di rate concedibili, in relazione alla
situazione economico-finanziaria del debitore.

In particolare, per le persone fisiche e gli imprenditori individuali minori in regime di contabilità
semplificata rilevano due parametri:

- L’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) del nucleo familiare.


- L’entità del debito, calcolato considerando le somme iscritte a ruolo residue e, quindi, al netto di
eventuali sgravi parziali o parziali pagamenti e non computando interessi di mora, aggi, spese esecutive
e diritti di notifica della cartella di pagamento.

Per quanto concerne le persone giuridiche, per tali soggetti il requisito di “temporanea situazione di
obiettiva difficoltà” è valutato in base alla capacità di far fronte ai debiti di prossima scadenza con i propri
mezzi, accertata mediante l’applicazione dell’indice di “liquidità”.

L’ex Equitalia, oggi Agenzia Entrate-Riscossione, o le sue società partecipate, hanno una
discrezionalità nel concedere o meno il provvedimento di dilazionamento della somma e, quindi, non
vi è un diritto del soggetto creditore ad ottenere la rateizzazione. Questo tipo di discrezionalità è di tipo
tecnico per cui, se sussiste il requisito della “temporanea situazione di obiettiva difficoltà” e tutte le altre
condizioni idonee alla concessione del provvedimento in questione, per il principio di imparzialità e buon
andamento delle P.A., il provvedimento di dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo deve essere
concesso. Nel caso in cui il debitore comprovi un peggioramento della situazione di difficoltà posta a
base della concessione della prima dilazione, la legge n° 214/2011 prevede la possibilità per quest’ultimo di
chiedere una proroga per le rateazioni concesse entro il 28 dicembre 2011, anche se c’è stata decadenza
della rateazione, per un ulteriore periodo e fino ad un massimo di 72 mesi.

Delle importantissime novità al regime di rateazione sono stata introdotte dal d.lgs. n° 159/2015, con gli
artt. 2 e 3. L’art. 2 ha come scopo quello di semplificare gli adempimenti dei contribuenti e, in particolare,
viene uniformato il numero minimo di rate (8) trimestrali ed elevato il numero massimo delle stesse che sale
da 12 a 16 per gli istituti definitori. Si è anche uniformato il termine di scadenza delle rate successive alla
prima, individuandolo nell’ultimo giorno di ciascun trimestre. L’art. 3, invece, prevede disposizioni volte ad
ampliare l’ambito applicativo dell’istituto della rateizzazione dei debiti tributari, in particolare procedendo ad
una revisione della disciplina sanzionatoria, stabilendo che ritardi di breve durata, o errori di limitata entità
verso le rate, non comportano la decadenza dal beneficio della rateizzazione. Inoltre, la normativa in
materia stabilisce anche che l’Agente della riscossione possa scrivere il fermo amministrativo nel caso
di mancato accoglimento della richiesta di rateazione, o di decadenza della stessa, al pari di quanto già
previsto per l’iscrizione di ipoteca immobiliare. Si prevede anche che a seguito della presentazione della
richiesta di rateizzazione, non possono essere avviate azioni esecutive fino all’eventuale rigetto della stessa
e che in caso di relativo accoglimento, già solo il pagamento della prima rata determina l’impossibilità di
proseguire le procedure di recupero coattivo avviate in precedenza.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

5. L’ingiunzione fiscale

Gli enti locali, in alternativa alla riscossione coattiva a mezzo ruolo, possono provvedere direttamente
alla riscossione coattiva delle loro entrate mediante ingiunzione fiscale, disciplinata dal r.d. (regio decreto)
n° 639/1910. L’ingiunzione fiscale è l’atto iniziale della riscossione coattiva e può essere svolta in proprio
dall’ente locale o affidata ai concessionari della riscossione. Secondo la consolidata giurisprudenza, tale
ingiunzione ha natura di atto amministrativo complesso e non ha solo la funzione di formale
accertamento del credito, fondato sul potere della P.A. di rateizzare coattivamente le proprie pretese, ma
culmina in sé anche le caratteristiche di forma ed efficacia di titolo esecutivo e di precetto. La disciplina
della riscossione coattiva delle entrate locali, già attua mediante la procedura di ingiunzione fiscale, aveva
subito delle modifiche con un d.p.r. del 1988, abrogato poi da un d.lgs. dell’anno successivo; tali
modifiche, nell’istituire il servizio centrale della riscossione, avevano generalizzato le modalità di riscossione
mediante ruolo, già utilizzate per le imposte dirette, secondo la disciplina del d.p.r. n° 602/1973, imponendo
la formazione dei ruoli anche per le entrate precedentemente riscosse con la procedura di ingiunzione
fiscale. In questo contesto specifico, per i Comuni e le Province, viene “ripresa” la peculiare procedura di
riscossione coattiva mediante ingiunzione fiscale, e viene istituto l’albo dei soggetti privati abilitati ad
effettuare l’attività di riscossione delle entrate dei predetti enti locali. L’ingiunzione fiscale è un atto
amministrativo recettizio che esplica i suoi effetti nel momento in cui si perfeziona la notifica, ovvero
quando l’intimazione venga a conoscenza del destinatario. Essa consiste in un ordine di pagamento con il
quale l’ente impositore intima di pagare l’importo richiesto, entro un preciso arco di tempo.

6. Le azioni espropriative

Il legislatore tributario, seguendo lo schema del libro III del c.p.c., dedicato al processo di esecuzione,
ha previsto tre forme di espropriazione forzata: mobiliare, immobiliare e presso terzi. A tal proposito, la
disciplina delle espropriazioni per il recupero coattivo delle somme iscritte a ruolo si presenta con il carattere
di disciplina speciale, anche se non autonoma rispetto a quella codicistica. Una differenza rilevante tra le
due discipline è che l’Agente della riscossione assume tutte le funzioni di competenza degli Uffici giudiziari
e provvede direttamente alla vendita dei beni pignorati senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria,
governando così tutto il procedimento espropriativo, salvo l’intervento del giudice dell’esecuzione in sede di
riparto e assegnazione delle somme ricavate dalla vendita. In aggiunta, il giudice dell’esecuzione nomina
uno stimatore ai fini della determinazione del prezzo base di oggetti preziosi e, su istanza del debitore o
dell’agenzia della riscossione, per ordinare la pubblicità degli incanti a mezzo di giornali o altra forma idonea
di pubblicità commerciale.

Ovviamente, in caso di eventuali opposizioni all’esecuzione, il giudice dell’esecuzione esercita il


controllo di legittimità sull’operato dell’Agente della riscossione che è tenuto al risarcimento dei danno
a seguito di un autonomo giudizio esperibile solo dopo il compimento dell’esecuzione forzata. Il giudice
dell’esecuzione può anche sospendere il procedimento esecutivo in caso di gravi motivi e se vi sia un
fondato pericolo di grave ed irreparabile danno addotto e provato dal contribuente esecutato. È
importante precisare che sono escluse dalla giurisdizione del giudice tributario soltanto le controversie
riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata successivi alla notificazione della cartella di pagamento.
Inoltre, il titolo esecutivo e la sua notificazione, nel procedimento riscossivo esattoriale, non sono altro che il
ruolo e la cartella di pagamento impugnabili innanzi al giudice tributario nella cui giurisdizione rientra anche
l’accertamento della legittimità della pretesa tributaria.Particolarmente delicata è la questione che si pone
quando il contribuente assume di essere venuto a conoscenza della pretesa erariale solo con l’atto
espropriavo. Ciò lo autorizzerebbe ad adire il giudice tributario per questioni inerenti la sussistenza del
debito anche tardivamente.

Passando alle singole forme espropriative va rilevato che rispetto al sistema precedente, non esiste più la
propedeuticità dell’esecuzione mobiliare rispetto a quella immobiliare, potendo l’agente della riscossione
intraprendere, a sua scelta, una delle due forme di espropriazione, salvo il limite economico posto per
l’espropriazione immobiliare. Il procedimento di espropriazione forzata ai fini della riscossione coattiva
delle somme iscritte a ruolo, è regolato dalle norme del c.p.c. applicabili in relazione al bene oggetto di
esecuzione, salvo le deroghe apportate dalle speciali disposizioni contenute nel Capo II del Titolo III del
d.p.r. n° 602/1973.

• Espropriazione forzata Mobiliare: in merito a questo tipo di espropriazione, le previsioni in materia


sostengono che l’Agente della riscossione deve astenersi dal pignoramento o desistere dal procedimento
quando è dimostrato che i beni appartengono a una persona diversa dal debitore iscritto a ruolo o dai
coobbligati, parenti e affini, in virtù del titolo avente dara anteriore all’anno cui si riferisce l’entrata iscritta
a ruolo. La dimostrazione può essere offerta soltanto mediante esibizione di atto pubblico o scrittura
privata autenticata, oppure con una sentenza passata in giudicato pronunciata su domanda proposta
prima di detto anno.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

• Espropriazione forzata verso terzi: il procedimento di espropriazione dei beni mobili o crediti del
debitore presso terzi è particolarmente coercitivo ed immediato, infatti, è previsto che l’Agente della
riscossione, senza citare in giudizio il terzo (debitore del soggetto esecutato) per l’accertamento del
credito, può rivolgere direttamente a quest’ultimo l’ordine di versare le somme dovute e maturate entro il
termine di 15 giorni dalla notifica dell’atto di pignoramento, oppure, alle rispettive scadenze nell’ipotesi in
cui le somme dovessero maturare successivamente alla predetta data. Inoltre, l’Agente della riscossione,
prima di procedere al pignoramento presso terzi, può chiedere ai soggetti debitori del soggetto esecutato
di indicare per iscritto, possibilmente in modo dettagliato, le cose e le somme da loro dovute al soggetto
iscritto a ruolo, fissando un termine non inferiore a 30 giorni dalla data di ricezione della richiesta. Oltre a
ciò, è previsto un’obbligo di segnalazione dell’inadempimento all’agente per la riscossione competente
per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo. In caso di
inadempimento, il concessionario della riscossione indica l’ammontare del debito tributario del
beneficiario, comprensivo delle spese esecutive e degli interessi di mora dovuti; con la stessa
comunicazione, l’Agenzia Entrate e Riscossione preannuncia l’intenzione di procedere alla notifica
dell’ordine di versamento. A seguito di tale comunicazione di esito positivo, il soggetto pubblico sospende
il pagamento delle somme dovute al beneficiario fino alla concorrenza dell’ammontare del debito
comunicato per i 30 giorni successivi a quello della comunicazione. Se durante la sospensione e prima
della notifica del predetto ordine di versamento intervengono pagamenti da parte del beneficiario o
provvedimenti dell’ente creditore che fanno venir meno l’inadempimento o ne riducono l’ammontare,
l’Agente della riscossione lo comunica prontamente al soggetto pubblico, indicando l’importo del
pagamento che quest’ultimo può conseguentemente effettuare a favore del beneficiario.

• Espropriazione forzata Immobiliare: Occorre sottolineare che vi sono molte deroghe alla disciplina
dell’espropriazione immobiliare dettate dal c.p.c., come ad es. quella del limite economico e quella della
determinazione del prezzo base dell’incanto. Per quanto concerne il limite economico, questo
rappresenta un preciso paletto per il concessionario per la riscossione quando promuove
l’espropriazione, poichè questi è inibito dall’intraprendere l’azione esecutiva se l’immobile è l’unico di
proprietà del debitore, se sia adibito ad abitazione, se è un bene di lusso e se il contribuente vi risieda
anagraficamente. Per poter espropriare occorre che il credito superi i 120mila euro, ma occorre iscrivere
ipoteca ed attendere almeno 6 mesi per verificare se il debitore abbia assolto al suo debito. Particolare è
il criterio di determinazione del prezzo base dell’incanto nella procedura di espropriazione immobiliare
che richiama le regole della valutazione automatica degli immobili, in base alla rendita catastale, dettate
in materia di imposta di registro. Il criterio di automatica determinazione del valore degli immobili, ai fini
dell’imposta di registro non è un criterio estimativo, ma una mera metodologia di calcolo con valenza di
inibizione del potere di accertamento per gli uffici finanziari. Tuttavia, il legislatore, cosciente della
significativa diversità tra il valore catastale e quello commerciale degli immobili, ha disposto che il valore
automatico calcolato, ai fini della determinazione del prezzo base dell’incanto della procedura
espropriativa immobiliare esattoriale, fosse moltiplicato per tre, sanando così in parte la evidente diversità
di valore.

7. Il fallimento e le soluzioni concordatarie

Ai sensi dell’art. 87 del d.p.r. n° 602/1973 il concessionario può, per conto dell’Agenzia delle Entrate,
presentare il ricorso di fallimento utilizzando il ruolo per chiedere l’ammissione al passivo della procedura.
Da ultimo la giurisprudenza ha chiarito che in caso di fallimento del debitore, i crediti iscritti a ruolo e
azionati dalla società concessionaria per la riscossione, seguono l’iter processuale prescritto per gli altri
crediti concorsuali, risultando legittima la richiesta di ammissione al passivo. Il ruolo è titolo da utilizzare
nella procedura di concordato preventivo che prevede la redazione di un piano di soddisfacimento ridotto dei
crediti sotto la vigilanza del Tribunale, d’intesa con i creditori. Inoltre, la norma in questione prevede anche
che l’Agente della Riscossione a cui viene comunicata la proposta di concordato, deve trasmetterla senza
ritardo all’Agenzia delle Entrate che: o la approva espressamente, oppure omette di esprimere dissenso.

Molto utilizzato negli ultimi tempi è l’accordo di ristrutturazione dei debiti in quanto strumento flessibile
disciplinato dalla legge come mezzo di risanamento proposto dall’impresa in crisi. Esso si fonda su un
accordo con tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti e sulla relazione di un professionista
che ne attesti l’attuabilità. Il contenuto dell’accordo con i creditori aderenti, anche di crediti tributari e
previdenziali, è determinabile con una certe larghezza, mentre a quelli non aderenti si deve assicurare
l’integrale pagamento nei termini fissati dalla legge. Per facilitare l’utilizzo di questi accordi l’impresa può
fare una richiesta di preaccordo o di accordo, ottenendo l’applicazione anticipata delle tutele e vedendosi
assegnato un termine per depositare i documenti. L’accordo di ristrutturazione dei debiti richiede lo stato
d’insolvenza e l’intervento del Tribunale in chiave pre-fallimentare.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Apprezzata in egual modo è la transazione fiscale che, sempre tra le disposizioni dedicate alle vicende
fallimentari, trova collocazione e prevede una proposta di pagamento parziale o dilazione dei tributi che va
fatta con apposto piano di concordato preventivo, con domanda e comprovante documentazione da
depositare in Tribunale, al Concessionario per la Riscossione e all’Agenzia delle Entrate individuata sulla
scorta dell’ultimo domicilio fiscale del debitore. La procedura comporta la cessazione della materia del
contendere per le liti inerenti i tributi e può essere conclusa anche nella trattativa sviluppata durante
l’accordo di ristrutturazione. La transazione fiscale prevista dalla legge fallimentare rappresenta una
chiara forma di accordo. L’espropriazione debitoria del contribuente, a seguito dell’omologazione del
Tribunale, assume una dimensione quantitativa ben diversa da quella risultante dalla somma, sia delle
imposte richieste con gli atti impositivi notificati, sia dei versamenti non effettuati ma non ancora iscritti a
ruolo, incidendo sull’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

LE AZIONI E I PROVVEDIMENTI DI GARANZIA DEI CREDITI ERARIALI (PARTE III)

1. La revocatoria ed il sequestro conservativo

La legge n° 311/2004, innovando le disposizioni previste dall’art. 49 del d.p.r. n° 602/1973, ha


espressamente sancito che il concessionario, sulla base del ruolo che costituisce titolo esecutivo, può
promuovere azioni cautelari e conservative nonché ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela
del creditore. Questa estensione degli ordinari istituti di conservazione del patrimonio all’attività di
riscossione coattiva dei tributi si è resa necessaria perchè sovente essa si rivelava improduttiva in quanto,
nel momento in cui il concessionario cercava di aggredire il patrimonio del contribuente moroso, emergeva
che lo stesso aveva sottratto i propri beni alla garanzia generica prevista dal codice civile. Pertanto, con il
riconoscimento, espressamente previsto dal comma 1 del sopracitato art. 49, del potere del
concessionario di procedere al recupero delle somme affidategli per la riscossione, il legislatore ha
inteso rafforzare innanzitutto le competenze dell’agente della riscossione ai fini del contrasto al fenomeno
dell’evasione da riscossione. Il rinvio generico operato dall’art. 49 alle azioni che l’ordinamento mette a
disposizione del creditore per la tutela dei suoi interessi, implica che l’agente della riscossione possa
tutelare la pretesa erariale attraverso molteplici mezzi di conservazione del patrimonio del soggetto
iscritto a ruolo e tra questi, vanno segnalati: la “revocatoria” ex art. 2901 c.c. e il “sequestro
conservativo” previsto dall’art. 2905 c.c..

- L’azione revocatoria tende a far dichiarare l’inefficacia di tutti quegli atti con i quali il debitore trasferisce
ad altri un diritto che gli appartiene (es. la vendita di un immobile), ovvero costituisce diritti a favore di
terzi (ipoteca), con conseguente insufficienza del suo patrimonio a garantire il soddisfacimento del
creditore.

- Il sequestro conservativo, invece, ha lo scopo di bloccare i beni disponibili del debitore nel patrimonio
dello stesso, ancorandoli alle ragioni dell’esecuzione forzata, rendendoli inopponibili al creditore.

Per quanto riguarda l’opportunità di promuovere le azioni in argomento ed in particolare per quanto riguarda
l’esercizio dell’azione revocatoria, l’A.F. ha raccomandato ai concessionari della riscossione di verificare la
sussistenza dei presupposti di legge e “di assumere le conseguenti decisioni sulla base di una valutazione
improntata al principio di economicità e quindi di convenienza economica, in relazione ai costi connessi
all’esercizio di tali azioni, all’entità del credito tributario per il quale si procede, al valore dei beni sui quali
potranno essere esercitate le azioni esecutive, tenendo presente che il rischio di soccombenza resta a
carico del concessionario, così come anche le spese relative alle azioni accolte che dovessero però risultare
non recuperabili neri confronti del debitore”.

2. L’iscrizione di ipoteca sugli immobili del debitore o dei coobbligati

Il concessionario per la riscossione può avvalersi di strumenti legali per garantire l’efficacia e la
certezza di risultato alla sua attività di recupero. La prima misura è descritta dall’art. 77 del d.p.r. n°
602/1973, dove al comma 1 è stabilito che il ruolo, decorso inutilmente il termine di 60 giorni dalla notifica
della cartella di pagamento, costituisce il titolo per iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei
cobbligati per un importo pari al doppio dell’importo complesso e del credito erariale iscritto, specificando al
comma 2 che se l’importo complessivo del credito per cui si procede non supera il 5% del valore
dell’immobile da sottoporre ad espropriazione, il concessionario, prima di procedere all’esecuzione, deve
iscrivere ipoteca.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Entro 6 mesi dall’iscrizione, senza che il debito sia stato estinto, lo stesso concessionario procede
all’espropriazione forzata immobiliare. Per accendere ipoteca occorre che il credito erariale ammonti ad
almeno 20mila euro. Tale iscrizione necessita della notificazione di una comunicazione preventiva al debitore
che lo renda edotto della imminente cautela. Questa norma va letta in stretta correlazione con la
disposizione relativa ai limiti dell’espropriazione immobiliare. Inoltre, si è posto il problema della
giurisdizione inerente le controversie ad oggetto il provvedimento di ipoteca esattoriale, non essendo
espressamente indicato tale atto tra quelli elencati nell’art. 19 del d.lgs. n° 546/1992. Infine, il legislatore
ha anche inserito un’ulteriore disposizione nel sopracitato art. 19, che ha incluso tra gli atti impugnabili
innanzi al giudice tributario anche il provvedimento di iscrizione di ipoteca.

3. Il fermo amministrativo dei beni mobili registrati

Il fermo amministrativo è un atto con il quale le amministrazioni o gli enti competenti bloccano,
attraverso i servizi concessi dai concessionari della riscossione, un bene mobile al fine di recuperare le
somme dovute. L’art. 86 del d.p.r. n° 602/1973 tratta del fermo di beni mobili registrati, disponendo che,
decorso inutilmente il termine di 60 giorni dalla data di notifica della cartella di pagamento, il concessionario
può disporre il fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia
alla Direzione Regionale delle Entrate ed alla Regione di residenza. Secondo l’art. 86, il fermo si estingue
mediate iscrizione a cura del concessionario, del relativo provvedimento nei registri dei beni mobili (pubblico
registro automobilistico, PRA, tenuto dall’ACI, ossia, Automobile Club Italia). Il comma 2 di tale norma,
detta prescrizioni procedurali, posto che la cautela è attivabile decorsi 30 giorni dalla comunicazione
preventiva al contribuente nella quale lo si informa del suo debito tributario e dell’imminente iscrizione. Al
contempo la norma preclude l’attivazione se il bene è strumentale all’impresa o alla professione. L’iscrizione
del fermo nei registri di fatto non precludeva la circolazione del veicolo, essendo sottoposto soltanto ad una
sanzione pecuniaria amministrativa alla quale, tuttavia, si è di recente introdotta anche la confisca del
veicolo così inibendone l’uso.

Le disposizioni contenute nell’art. 86 hanno fatto sorgere due rilevanti questioni:

1) La prima: concernente la possibilità di eseguire o meno il fermo amministrativo anche in assenza di un


decreto ministeriale.

2) La seconda: riguardante la natura giuridica del fermo, soprattutto ai fini di stabilirne la giurisdizione.

Il primo problema è stato legislativamente risolto con una previsione contenuta dal d.lgs. n° 203/2005
che, in via di interpretazione autentica, ha chiarito che le disposizioni del comma 4 dell’art. 86 si
interpretano nel senso che, fino all’emanazione del predetto d.m., il fermo può essere eseguito dal
concessionario sui veicoli a motore nel rispetto delle disposizioni relative alle modalità di iscrizione e di
cancellazione ed agli effetti dello stesso. Per quanto riguarda la seconda questione, il legislatore ha, allo
stesso modo dell’iscrizione dell’ipoteca, inserito nel testo dell’art. 19 del d.lgs. n° 546/1992 e, quindi,
indicato negli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario, anche il provvedimento di fermo
amministrativo.

Giuridicamente si concorda nel sostenere che il fermo amministrativo abbia una natura giuridica di
atto del procedimento cautelare, in vista del reperimento del bene mobile. Infatti, esso è del tutto
strumentale alla successiva fase esecutiva, dal momento che non possiede in sé un termine prestabilito, e
pertanto la esecutiva vera e propria potrebbe anche non avere mai inizio, oppure iniziare a distanza di anni.
La natura di garanzia del credito maturato dall’ente, colloca il fermo amministrativo ai fini fiscali, in una
fase precedente a quella dell’esecuzione forzata. L’istituto in oggetto non può essere considerato atto
della procedura di riscossione, perché non è finalizzato in via diretta al soddisfacimento del credito mediante
l’”aggressione” immediata del bene mobile individuato. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con
l’ordinanza del 5 Giugno del 2008 ha sottolineato che la giurisdizione tributaria sul provvedimento di fermo
amministrativo è stata attribuita per via legislativa, precisando che essa resta esclusa ogni volta che il fermo
è stato disposto a fronte di cartelle aventi ad oggetto iscrizioni a ruolo diverse dai tributi.

Pertanto, il fermo amministrativo è da ritenersi come il risultato dell’azione di un soggetto privato,


concessionario di pubblici servizi, che emette un provvedimento amministrativo, in virtù di un potere
discrezionale, incidente sulla situazione giuridica soggettiva del contribuente di interesse al corretto esercizio
dello stesso.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

La tutela del contribuente è particolarmente garantita anche dalla Cassazione che, a Sezioni Unite, con
un’ordinanza del 2009, ha precisato che: “il preavviso di fermo amministrativo, riguardante una pretesa
dell’ente pubblico in materia tributaria, è impugnabile dinnanzi al giudice tributario in quanto atto funzionale a
portare a conoscenza del contribuente una compiuta pretesa tributaria rispetto alla quale sorge l’interesse
del contribuente alla tutela giurisdizionale”; in questo modo si sono consolidati i principi già espressi in
materia di immediatezza ed effettività della tutela del contribuente di fronte agli atti riscossivi e di
interpretazione estensiva degli atti impugnabili.

IL SERVIZIO DI RISCOSSIONE (PARTE IV)

1. Il riordino del servizio nazionale della riscossione

Il riordino del servizio nazionale della riscossione ha avuto inizio con la legge delega n° 337/1988. I
principi e i criteri direttivi consegnati dal legislatore delegante all’esecutivo, con la citata legge delega,
prevedevano l’affidamento in concessione del servizio di riscossione delle entrate dello Stato, degli enti
territoriali e degli enti pubblici, anche previdenziali, mediante procedure ad evidenza pubblica, a società per
azioni in possesso di adeguati requisiti tecnici, finanziari e di affidabilità. Inoltre, la delega prevedeva
l’eliminazione dell’obbligo del non riscosso come riscosso gravante sui concessionari, l’individuazione
di un sistema di compensi collegati alle somme iscritte a ruolo effettivamente riscosse, alla tempestività
della riscossione e ai suoi costi, nonché la revisione delle procedure per il riconoscimento
dell’inesigibilità delle some iscritte a ruolo, attraverso meccanismi di discarico automatico ed effettivo
controllo della situazione di inesigibilità. In attuazione di questi principi e criteri direttivi, il legislatore
delegato, con il d.lgs. n° 37/1999, ha disposto che il concessionario non anticipa nulla all’erario e lo storno
delle quote inesigibili assume la forma di discarico amministrativo automatico, consistente in una mera
operazione contabile.

Con il successivo d.lgs. n° 122/1999, il legislatore ha sostituito l’intero d.p.r. n° 43/1988, dettando nuove
regole per l’affidamento e l’estinzione della concessione del servizio di riscossione e per la gestione dei
rapporti tra i concessionari della riscossione e gli enti creditori. Per quanto concerne la revisione del
sistema di affidamento del servizio di riscossione in concessione amministrativa, il d.lgs. n° 122/1999
prevede l’affidamento diretto da parte del MEF, previo espletamento di gare ad evidenza pubblica, a società
per azioni con capitale interamente versato, che dispongano di sistemi informatici automatizzati adeguati al
volume delle operazioni da trattare e collegati telematicamente tra loro, con la rete unitaria della P.A..Sempre
in base al rapporto concessorio sono regolati i poteri di vigilanza e controllo da parte del MEF, il recesso del
concessionario e la revoca del provvedimento di concessione. Con l’ingresso di Equitalia S.p.a., il servizio
di riscossione coattiva a mezzo ruolo, a decorrere dal 1° Ottobre 2006, è stato attribuito direttamente
dalla legge a questo nuovo soggetto pubblico e contemporaneamente è stato soppresso il sistema di
affidamento in concessione della riscossione coattiva a mezzo ruolo che è divenuta una funzione attribuita,
per legge, all’Agenzia delle Entrate o tramite tale nuovo soggetto. Il legislatore, preso atto dell’insuccesso
dei vari tentativi rivolti al miglioramento dei risultati della riscossione mediante ruolo, ha ricondotto
nell’ambito della P.A. questa delicatissima attività che sottende “un interesse vitale per la collettività, perchè
rende possibile il regolare funzionamento sei servizi pubblici”, dando così un nuovo impulso al sistema di
riscossione delle entrate pubbliche in Italia e adeguando il modello italiano al contesto europeo.

Il d.l. n° 203/2015 affidava ad Equitalia tre specifiche competenze, trasferite ora all’Agenzia delle
Entrate-Riscossione:

- Riscossione mediante ruolo (è esclusiva).


- Attività di riscossione spontanea, di accertamento e liquidazione delle entrate tributarie o patrimoniali
degli enti pubblici anche locali e territoriali (non esclusiva).

- Attività strumentai a quelle svolte dall’Agenzia delle Entrate (non esclusiva).

Interessante è l’indagine della natura giuridica di Equitalia S.p.a.; occorre considerare che tale soggetto,
dato il rapporto specifico che lo lega all’Agenzia delle Entrate, era un ente di diretta emanazione dello Stato,
operante nel settore fiscale. Infatti, il suo socio maggioritario, Agenzia delle Entrate, sebbene fosse un ente
autonomo, dotato di autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e
finanziaria, era comunque collegato all’A.F. dello Stato.

91
DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

L’Agente della riscossione, anche dopo la soppressione di Equitalia S.p.a., ha il diritto al rimborso
delle spese della procedura esecutiva, determinate in base ad un’apposita tabella approvata con un
decreto del MEF; dette spese sono a carico del debitore iscritto a ruolo, salvo provvedimenti di
annullamento o sgravio delle somme iscritte, in queste ipotesi le spese di procedura sono a carico dell’ente
creditore.

Delle novità importanti sono state introdotte a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n° 159/2015 (art. 9),
in quanto al posto dell’aggio è stata prevista una quota, denominata “oneri di riscossione” a carico del
debitore, pari al 3% delle somme iscritte a ruolo in caso di pagamento entro il 60° giorno dalla notifica della
cartella, ovvero, pari al 6% delle somme iscritte a ruolo dei relativi interessi di mora in caso di pagamento
oltre tale termine. A ciò si aggiunge una nota denominata “spese esecutive” correlata all’attivazione delle
procedure esecutive e cautelari da parte dell’agente della riscossione ed è sempre a carico del debitore nella
misura fissata con decreto del MEF, che individua anche le tipologie di spesa oggetto di rimborso. Infine, vi è
una quota, sempre a carico del debitore, correlata alla notifica della cartella di pagamento e degli altri atti
della riscossione, da determinare con il medesimo decreto. A tal fine, l’Agente della Riscossione invia, anche
telematicamente, all’ente creditore una comunicazione di inesigibilità, entro 3 anni dalla consegna del ruolo,
redatta e trasmessa con le modalità stabilite dalla legge; trascorsi 3 anni dalla comunicazione, l’Agente della
Riscossione resterà discaricato automaticamente e contestualmente i crediti erariali saranno eliminati dalle
scritture patrimoniali. L’Agente della Riscossione perde il diritto di ottenere il discarico delle quote inesigibili
in alcune ipotesi, legislativamente previste dalla legge e che sono assoggettate a particolari forme di
controllo a campione da parte degli Uffici titolari delle partite iscritte nei ruoli sulla base di criteri stabiliti dallo
stesso ufficio creditore.

2. La soppressione di Equitalia e la nascita di Agenzia delle Entrate-Riscossione

A partire dal 1° Luglio 2017, con d.l. n°193/2016, le funzioni esercitate dal gruppo delle società di
Equitalia sono state attribuite ad un nuovo ente pubblico: “l’Agenzia delle Entrate-Riscossione” che è
subentrato in tutti i rapporti giuridici posti in essere (attivi, passivi e procedurali) e che è inquadrato
nell’ambito dell’Agenzia delle Entrate. Questo nuovo ente, cui è attribuito il servizio nazionale di riscossione,
ha autonomia organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione ed è sottoposto all’indirizzo e alla vigilanza
del MEF. L’Agenzia delle Entrate provvede a monitorare costantemente l’attività dell’Agenzia delle Entrate-
Riscossione, secondo i principi di trasparenza e pubblicità.

Nel rapporto con i contribuenti tale ente si conforma ai principi dello Statuto dei diritti del contribuente,
con particolare riferimento ai principi di trasparenza, leale collaborazione e tutela dell’affidamento e della
buona fede, nonché agli obiettivi in materia di cooperazione rafforzata, riduzione degli adempimenti,
assistenza e tutoraggio del contribuente. L’ente opera nel rispetto dei principi di legalità ed imparzialità, con
criteri di efficienza gestionale, economicità dell’attività ed efficacia dell’azione, nel perseguimento di nuove
strategia garantendo la massima trasparenza degli obiettivi stessi, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti.
L’obiettivo del legislatore era quello di completare la concentrazione dell’attività di riscossione in
quella di accertamento, già avviata con l’accertamento esecutivo e lo snellimento delle procedure
burocratiche. Al fine della costituzione del trasporto tra Comuni e Province, il nuovo ente può anche svolgere
le attività di riscossione delle entrate tributarie o patrimoniali delle amministrazioni locali. Inoltre, è previsto
anche il perseguimento, da parte del nuovo ente, di obiettivi quantitativi da raggiungere in termini di
economicità della gestione, soddisfazione dei contribuenti per i servizi prestati ed ammontare delle entrate
riscosse. Dunque, si persegue una logica di massimizzazione dell’attività di recupero coattivo e di
razionalizzazione dei processi gestionali, eliminando definitivamente sovrapposizioni di strutture aziendali,
anche al fine di un significativo contenimento dei costi in un’ottica che mira all’efficacia del sistema tributario.

La legge affida la funzione del servizio di riscossione coattiva alla stessa Agenzia delle Entrate che la
monitoria e la esercita insieme a quella di accertamento e controllo attraverso un ente strumentale, creando
un’assoluta collaborazione/compenetrazione tra le due attività. All’Agenzia delle Entrate appartiene
l’esercizio dell’amministrazione e la gestione delle entrate pubbliche erariali, mentre al Ministero delle
Finanze compete il potere di indirizzo e vigilanza anche dell’attività di riscossione, ecco perché vi è un
collegamento tra i due soggetti, pur beneficiando l’Agenzia di un’autonomia statutaria e di gestione della
propria attività. La differenza tra il nuovo agente della riscossione rispetto a quello precedente, consiste
nella sua diversa natura, in quanto, Equitalia si trovava su una linea di confine tra pubblico e privato, pur
non essendo rilevante il modello codicistico di diritto privato che la legge aveva imposto per la sua
costituzione ed organizzazione. Ciò risultava rilevante solo dal punto di vista formale in quanto un ente può
essere comunque ritenuto pubblico, nel senso che le definizioni non vincolano l’interprete, che dovrà
individuare la natura dell’ente indipendentemente dalla sua denominazione.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Un primo dato che si traeva dalle specifiche disposizioni dell’art. 3 del d.l. n° 203/2005, istitutivo di
Equitalia S.p.a., era innanzitutto la mutazione del servizio di riscossione, precedentemente affidato in
concessione amministrativa a soggetti privati, in una funzione pubblica affidata all’Agenzia delle Entrate
e traslata a Equitalia S.p.a.. Ciò ha comportato che il vero oggetto sociale di Equitalia non sottendesse una
causa tipica lucrativa, bensì una missione strettamente connessa ad una pubblica funzione. Un altro dato
importante è che l’intero capitale costitutivo di fonte pubblica, sottoscritto esclusivamente a due soggetti
pubblici (Agenzia delle Entrate e Inps), determinava l’assoggettamento del controllo della Corte dei conti
sulla gestione finanziaria. In conclusione, si può ritenere che l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, anche
se al pari di Equitalia, è un ente pubblico di tipo strumentale, che svolge una pubblica funzione
essenziale: la riscossione dei tributi quale parte integrante dell’attività di accertamento, organizzata su un
modello codicistico societario al solo fine di una gestione che sia ancora più agile, efficiente e maggiormente
idonea a conseguire obiettivi di efficacia di tale attività svolta per conto dello Stato e degli enti pubblici
territoriali e locali.

I RIMBORSI (PARTE V)

1. I crediti d’imposta e le varie tipologie di rimborso

La disciplina del rimborso può ritenersi una fattispecie un pò anomala dell’ambito dell’ordinamento
tributario, in quanto capovolge quello che è il normale rapporto giuridico esistente tra l’A.F., creditrice, ed il
contribuente, debitore. Infatti, qui, il contribuente si trova ad essere creditore nei confronti dell’A.F. perchè
ha versato delle somme non dovute. Il rimborso in materia tributaria si confronta con il corrispondendo
istituto civilistico della ripetizione dell’indebito disciplinato dall’art. 2033 c.c., secondo cui: “Chi ha eseguito
un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”. In dottrina, si ritiene che seppure manchi
in materia tributaria una norma che disciplina in modo specifico la ripetizione dell’indebito, non può dubitarsi
che il divieto di arricchirsi in modo ingiustificato ai danni degli altri, in quanto espressione di un principio
generale dell’ordinamento, vige anche in ambito tributario. La legittimità della sussistenza del diritto di
rimborso è anche collegata all’art. 53 Cost., infatti in virtù del principio di capacità contributiva, nessuno
può essere chiamato a corrispondere pagamenti superiori o non dovuti in base alla propria capacità
contributiva. Questo principio è stato sancito anche dalla Corte di Cassazione.

Nell’ambito dei rimborsi bisogna distinguere tra la figura della restituzione dal credito d’imposta.
Mentre la prima si realizza in presenza di una situazione creditoria del contribuente scaturente da fattispecie
agevolative, equitative o di aiuto finanziario, la seconda, si riferisce ad una situazione creditoria diversa da
quella ottenuta con indebito e votata alla compensazione di una somma e non la rimborso.

La dottrina cerca di tenere distinti i rimborsi fisiologici da quelli patologici, in base al fatto che le
somme indebitamente versate fossero dovute o meno fin dall’origine. Rientrano, infatti, nei rimborsi di tipo
fisiologico o strutturale, quelli in cui le somme versate erano originariamente dovute. Nei rimborsi di tipo
patologico o accidentale rientrano, invece, quelli in cui le somme versate già all’origine erano indebite, ma
per errore di calcolo o d’interpretazione delle norme, o ancora per evitare una eventuale sanzione, sono
state comunque corrisposte. Di recente, attraverso la modifica del comma 1, dell’art. 31 del d.l. n°
78/2010 da parte dell’art. 8 del d.lgs. n° 159/2015, si è integrata la disciplina dei crediti oggetto di
compensazione. Tale innovazione è utile a scongiurare il pericolo che, simulando un’errata compensazione,
ad es. utilizzando un credito erariale per pagare un debito non erariale iscritto a ruolo, possa essere aggirato
il sistema di garanzie ordinariamente adottato per il rimborso dei crediti d’imposta. È necessario pertanto, ai
fini dell’erogazione del rimborso, che l’agente della riscossione controlli l’effettiva sussistenza del credito.

2. Il rimborso da indebito versamento

Il rimborso da indebito versamento sorge a favore di un soggetto che corrisponde una somma non
dovuta. È necessario collegare le fattispecie patologiche di rimborso generatrici dell’indebito
versamento:

- All’illegittimità di norme impositrici: si fa riferimento alle ipotesi più frequenti che riguardano i casi in
cui il pagamento indebito sia effettuato sulla base di una norma che successivamente è stata dichiarata
incostituzionale, o ad una norma che sia incompatibile con la norma tributaria comunitaria, o anche nelle
ipotesi in cui un tributo sia stato corrisposto sulla base di una norma che non esiste, sulla base di un d.l.
non convertito o sulla base di una norma che sia stata abrogata retroattivamente.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

- A fattispecie connesse all’attuazione dei tributi: a queste possono ricondursi le ipotesi che riguardano
la presentazione di un’errata dichiarazione con relativa liquidazione e versamento d’imposta maggiore al
dovuto, oppure, in ipotesi di accertamento, in cui l’Ufficio determini e costituisca un debito maggiore
rispetto a quello realmente dovuto, ed infine le ipotesi di errori riguardanti le ritenute dirette, i versamenti
diretti o somme iscritte a ruolo non dovute.

Per quanto concerne i pagamenti dei tributi regolati da norme che vengono successivamente
dichiarate incostituzionali, il dies a quo per poter esercitare il diritto al rimborso da indebito versamento
nasce in seguito alla sentenza di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte Costituzionale, con
esclusione dei casi in cui i rapporti si sono esauriti. Inoltre, per quanto riguarda la restituzione di tributi
disciplinati da norme nazionali dichiarate incompatibili con le disposizioni comunitarie, ci sono stati
diversi tentativi di individuare un limite all’efficacia ex tunc della sentenza di incompatibilità della Corte di
Giustizia UE e alle richieste di rimborso attraverso l’individuazione di adempimenti procedimentali previsti
dalle legislazioni nazionali per esercitare le azioni di rimborso la cui inosservanza genia rapporti esauriti e
l’impossibilità di beneficiare dei rimborsi. Essendo ormai consolidato l’orientamento in base alla quale il dies
a quo per calcolare i termini di decadenza decorre dal versamento del tributo, sembrano coesistere diversi
orientamenti giurisprudenziali comunitari, volti ad ampliare la categoria dei rapporti esauriti per arginare
l’efficacia temporale ex tunc della sentenza di incompatibilità in materia tributaria, limitando le richieste di
rimborso. Tuttavia, tali tentavi di ampliamento possono determinare il contrasto con i principi di equivalenza
ed effettività del diritto al rimborso sancito dalla stessa Corte di Giustizia UE in base al quale il legislatore
nazionale non deve rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti garantiti
dall’ordinamento comunitario.

3. Il rimborso d’ufficio

Per alcune ipotesi di versamenti indebiti fatti dal contribuente nei confronti dell’A.F., la legge prevede
che l’Ufficio provveda “autonomamente” al rimborso, a differenza delle ipotesi di rimborsi da indebito
precedentemente analizzate, dove deve essere il contribuente a farsi parte attiva per ottenere il rimborso di
quanto indebitamente versato, presentando un’apposita istanza all’Ufficio. L’Ufficio dell’Agenzia delle
Entrate deve provvedere ad effettuare il rimborso d’ufficio di tutto ciò che risulta non dovuto dal
contribuente, qualora emergano:

- Errori materiali o duplicazioni dovute allo stesso Ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
- Eccedenze di acconti e ulteriori versamenti provvisori rispetto all’imposta liquidata in base alla
dichiarazione.

- Crediti d’imposta derivanti dalla medesima dichiarazione.


Un ulteriore caso non previsto dalla legislazione in materia riguarda i rimborsi derivanti da una
decisione delle Commissioni tributarie. Infatti, se il tributo non è dovuto o le somme da iscrivere a ruolo in
base alla decisione sono inferiori a quelle già iscritte e riscosse, l’Ufficio deve disporre lo sgravio parziale e la
restituzione, per effetto dei quali il Concessionario della riscossione restituirà le somme riscosse. Trattasi, in
tutti gli altri casi, di versamenti provvisori dovuti, che poi in via di definitiva liquidazione risultano in parte
indebiti. In tali circostanze l’Ufficio dovrà provvedere alla ripetizione dell’indebito, non solo senza l’istanza
della parte interessata, ma anche senza che il contribuente abbia fatto menzione del credito nella sua
dichiarazione annuale. Nei casi in cui è previsto il rimborso d’Ufficio, il contribuente creditore non è
soggetto ai termini di decadenza previsti tassativamente per le varie imposte, bensì esclusivamente al
termine di prescrizione ordinaria decennale. Se l’Ufficio non provvede autonomamente ad effettuare il
rimborso, il contribuente dovrà presentare un’apposita istanza entro il termine prescrizionale di 10 anni, e
qualora l’Ufficio non risponda, il contribuente dovrà presentare ricorso alle Commissioni tributarie. In tal caso,
il contribuente oltre a chiedere alla Commissione Tributaria l’accertamento dell’indebito versamento e la
condanna al pagamento da parte dell’A.F., potrà chiedere il pagamento di tutti gli interessi maturati per il
ritardo del rimborso, disciplinati per le singole imposte.

4. Procedimento di rimborso e tutela giurisdizionale avverso il diniego

Gli artt. 19 e 21 del d.lgs. n° 546/1992, disciplinano la tutela giurisdizionale anche in materia di rimborsi
d’imposta.

• L’art. 19 che elenca tassativamente tutti gli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni Tributarie Provinciali,
al comma 1, lett. g) indica: “il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed
interessi o altri accessori non dovuti”.
94
DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

• L’art. 21, invece, individua i termini entro cui occorre proporre ricorso. Al comma 1, indica un termine di
60 giorni dalla data di notificazione dell’atto che s’intende impugnare; tale norma contempla il caso in cui
vi sia stato un rifiuto espresso di rimborso. Al comma 2, lo stesso art. 21, indica un termine diverso per
proporre ricorso avverso rifiuto tacito. In tal caso piò essere proposto solo dopo il 90° giorno dalla
domanda di rimborso presentata nei termini di decadenza previsti da ciascuna legge d’imposta e fino alla
prescrizione di tale diritto di restituzione.

Quindi, tanto il rifiuto tacito quanto quello espresso con provvedimento dell’A.F. presuppongono una
precedente attività del “creditore”, data dalla preposizione di un’apposita istanza di rimborso. Il termine
decadenziale entro il quale deve essere presentata l’istanza di rimborso è di 2 anni ma ha carattere
residuale e pertanto questo termine è valido solo qualora non vi siano specifiche disposizioni che
regolino le singole imposte, quindi:

- Per il rimborso di ritenute e versamenti diretti: il termine decadenziale per presentare domanda di
rimborso è di 48 mesi.

- Per il rimborso di imposte indirette: il termine decadenziale per presentare domanda di rimborso è di 3
anni e decorrono dal pagamento indebito (es. imposta sulle donazioni, successioni, ecc.).

- Per le accise: i termini decadenziali per presentare domanda di rimborso è di 2 anni.


- Per il rimborso dei crediti Iva: la domanda di rimborso va presentata entro il termine di decadenza di 2
anni.

Individuati i termini entro cui proporre istanza, diventa rilevante stabilire meglio il momento da cui essi
decorano e l’Ufficio a cui presentare l’istanza. Per le imposte versate in eccesso, nei casi diversi da errori e
duplicazioni o inesistenza, il termine decorre dalla data di versamento. Diversamente, i termini decorrono
dalla presentazione della dichiarazione annuale o più in generale da quando il diritto può essere fatto valere.
L’istanza di rimborso deve essere presentata all’Ufficio locale competente, in base alla domiciliazione
fiscale del contribuente creditore, che tratta la materia oggetto di rimborso e in base alla natura del tributo.
Inoltre, con una sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, è stato stabilito che “l’Ufficio
non competente che riceve un’istanza di rimborso, è tenuto a trasmettere l’istanza all’Ufficio competente, in
conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa Amministrazione”. Tale sentenza ha
rivoluzionato la disciplina del rimborso, considerando che in precedenza l’istanza di rimborso presentata ad
un Ufficio incompetente non aveva né effetto interruttivo dei termini, né era idonea per la formazione del
silenzio-rifiuto, mentre ora un’istanza di rimborso seppur presentata ad un Ufficio incompetente è atto idoneo
ad interrompere i termini decadenziali del diritto di rimborso.

Se all’istanza di rimborso, l’Ufficio risponde con un atto espresso di diniego totale della richiesta del
contribuente, tale atto è direttamente ed autonomamente impugnabile. Però, anche l’atto che dispone
un rimborso inferiore a quello richiesto è impugnabile, qualora non sufficientemente motivato. Infatti, in questi
casi, il contribuente non solo potrà impugnare l’atto entro 60 giorni dalla notifica o comunicazione del
diniego, ma potrà anche successivamente proporre ricorso, oltre i 90 giorni, avverso il rifiuto tacito della
ripetizione dell’indebito non riconosciuta. Nel caso in cui l’Ufficio non risponda entro 90 giorni, tale condotta
omissiva viene equiparata ad un rifiuto della domanda di ripetizione dell’indebito, espresso con appropriato
atto amministrativo. La dottrina ha sempre discusso sulla natura di “atto” del silenzio rifiuto.

Il processo tributario si instaura con il ricorso avverso un provvedimento dell’A.F., ed in tal senso si definisce
come giudizio di impugnazione. Nel caso di rifiuto tacito di rimborso, questo non accade, poichè,
seppure molto discussa la sua natura, non gli si riconosce tassativamente quella di “atto”, bensì
quella di “fatto” considerato quale presupposto processuale per promuovere un’azione di natura
dichiarativa, volta ad accertare l’esistenza del diritto al rimborso, e non di natura impugnativa volta ad
annullare un atto come per il rifiuto espresso. Pertanto, anche le sentenze che ne conseguiranno avranno
diversa natura, infatti, la sentenza di accoglimento emessa in seguito ad un giudizio instaurato con ricorso
avverso un rifiuto espresso, sarà una sentenza di annullamento dell’atto impugnato, con condanna al
rimborso a carico dell’A.F.; invece, la sentenza di accoglimento avuto a seguito di un giudizio instaurato con
ricorso avverso rifiuto tacito, sarà di accertamento del credito del contribuente.

* È anche per questi motivi che il ricorso avverso il rifiuto-tacito può essere proposto solo dopo il 90° giorno
dalla notifica dell’istanza e fino al termine prescrizionale di 10 anni. *

L’onere di provare il pagamento non dovuto resta sempre in capo al contribuente, tranne nel caso in cui
il peso economico dell’imposta sia stato trasferito su altri soggetti; in tali casi, l’onere della prova si trasferirà
in capo all’amministrazione.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

CAPITOLO X : LA GIUSTIZIA TRIBUTARIA

IL PROCESSO E LA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA (PARTE I)

1. I caratteri del processo tributario: il giudizio di impugnazione-merito

Il processo tributario nasce come contenzioso amministrativo. Esso, però, solo dopo aver recepito
alcuni dei principi fondamentali di ogni tipo di processo, come la ripartizione dell’onere della prova tra le parti
in giudizio e l’applicazione del principio del contraddittorio, si trasformò in un processo vero e proprio. La
Costituzione (agli artt. 24 e 113) assicura anche la tutela processuale del contribuente nei confronti
dell’A.F.. Tuttavia, la tutela costituzionale dell’interesse fiscale non dovrebbe mai determinare attenuazioni
del diritto di difesa e delle regole del giusto processo, considerando che tali diritti sono particolarmente
garantiti a livello europeo dalla CEDU anche in materia tributaria.

Il sistema del contenzioso tributario è essenzialmente disciplinato dai d.lgs. n° 545 e 546 del 1992.
L’applicazione del c.p.c. al processo tributario non avviene più con la tecnica dell’analogia, ma sottoponendo
la norme del codice civile al test di compatibilità. La legge n° 62/2009 ha apportato al c.p.c. numerose
modifiche (riduzioni dei termini processuali, rimessione in termini, testimonianza scritta, ecc.) che si possono
applicare anche al processo tributario attraverso l’art. 1 del d.lgs. n° 546/1992.

In dottrina si è molto dibattuto circa la stretta connessione intercorrente fra la natura dell’obbligazione
tributaria sostanziale e la questione della natura del processo tributario; insomma vi è: da un lato, chi
sostiene che il giudizio tributario riguarderebbe più in generale l’esame del rapporto sussistente fra
contribuente e amministrazione tributaria; dall’altro lato, chi sostiene che il giudizio tributario avrebbe ad
oggetto solo il provvedimento impugnato. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha chiarito che il processo
tributario non è annoverato tra quelli di “impugnazione-annullamento”, bensì tra i processi di “impugnazione-
merito”, poichè esso non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di
una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, che del procedimento di
accertamento dell’ufficio e dunque in grado di incidere sul rapporto. Quindi, il giudice tributario, laddove
ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare
l’atto impositivo, ma deve esaminare attentamente la pretesa tributaria e il rapporto tra contribuente e
amministrazione alla base di quell’atto, operando una motivazione sostitutiva.

2. L’individuazione della giurisdizione tributaria

Fino al 2001 la giurisdizione delle commissioni tributarie aveva ad oggetto soltanto le liti relative ad un
elenco specifico di tributi (imposte sui redditi, iva, ecc.), mentre le liti relative agli altri tributi appartenevano
alla giurisdizione dei giudici ordinari. Dal 2002 la giurisdizione delle Commissioni Tributarie è stata
ampliata e comprende tutte le controversie aventi ad oggetti i tributi di ogni genere e specie, compresi quelli
regionali, provinciali e comunali. Insomma, il giudice tributario è competente a conoscere tutte le
controversie in materia di tributi di ogni genere e specie comunque denominati, unitamente ad un’ampia
competenza in merito a qualsiasi questione da cui dipende la decisione sul rapporto principale, escluse
quelle in materia di querela di falso e di stato e capacità delle persone e le controversie riguardanti gli atti
dell’esecuzione forzata tributaria. Da ciò deriva che l‘oggetto della giurisdizione tributaria ha ormai assunto
carattere di generalità. Inoltre, da un pò di tempo si sta delineando l’esistenza di una giurisdizione
comunitaria dei giudici tributari, derivante dall’operatività in materia tributaria di una serie di principi e
norme di diritto europeo che trovano sempre maggiore spazio. Il giudice tributario nazionale è tenuto a
pronunciarsi in ogni stato e grado del giudizio su questioni di incompatibilità della legislazione fiscale
nazionale con norme del Trattato UE e quelle direttamente applicabili. In aggiunta, è necessario evitare che
la giurisdizione della Corte di Giustizia e della Corte EDU rischi di diventare illimitata e di assorbire quella
delle Corti costituzionali e delle Corti Supreme.

La giurisdizione tributaria, pur essendo di impugnazione-merito, è subordinata all’impugnazione di uno


degli atti normativamente indicati dall’art. 19 del d.lgs. n° 546/1992, pertanto, con riguardo all’estensione di
tale giurisdizione, accanto al limite “materiale”, si delinea uno specifico limite “funzionale” al di fuori dei quali
una determinata controversia potrò rientrare nella competenza del giudice ordinario o, in alcuni casi, del
giudice amministrativo. Quindi, oltre alla verifica preliminare riguardante la natura del prelievo, è necessario
verificare che l’atto sia impugnabile ai sensi della norma sopracitata, per rispettare i cd. “limiti interni” della
giurisdizione. Insomma, se da un lato si ribadisce il principio di unità della tutela presso un unico giudice
tributario, dall’altro questo principio viene poi smentito quando manca un atto impugnabile (con la necessità
di adire il giudice ordinario).

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

In materia, si è sviluppato un importante orientamento volto a superare i limiti tassativi dell’art. 19, in
base al quale l’art. 2 del d.lgs. n° 546/1992 attribuisce alla giurisdizione tributaria, anche le controversie
aventi per oggetto tutti gli atti che vengono adottati nella fase di accertamento delle imposte e in funzione di
esso. Inoltre, il giudice tributario è tenuto ad annullare l’atto finale (es. l’avviso di accertamento), anche se
privo di vizio, quando sia illegittimo l’atto istruttorio antecedente (illegittimità derivata). In molti casi non è
ancora per nulla chiaro a chi spetta la giurisdizione ed esistono tuttora orientamenti discordanti che si
riflettono sull’individuazione, da parte del contribuente, del giudice competente a conoscere la controversia.
In ogni caso, se una controversia tributaria viene proposta innanzi ad un giudice non competente, opera la
traslatio iudicii che consente la prosecuzione innanzi al giudice competente. La Corte di Cassazione a
Sezioni Unite, con un’ordinanza del 2009, ha ribadito che appartiene alla giurisdizione ordinaria e non a
quella tributaria la controversia tra il cedente e il cessionario in merito alla legittimità della rivalsa
dell’Iva. Secondo la Corte, il cessionario/committente non è di regola debitore/co-debitore nei confronti
dell’Erario dell’Iva addebitatagli dal fornitore. Egli non ha un rapporto con l’A.F. ed una deroga è prevista solo
nell’ipotesi in cui il cessionario/committente a sua volta soggetto passivo Iva, non abbia ricevuto la fattura
della controparte, ovvero abbia ricevuto una fattura irregolare. In ordine all’addebito della rivalsa dell’Iva, la
controversia fra cliente e fornitore atterrebbe a un rapporto tra privati.

Nell’ambito delle possibili tutele esperibili nel processo tributario, sotto il profilo della giurisdizione va
considerato, ancora, il tema della tutela risarcitoria del danno, che può essere cagionata da un atto illegittimo
dell’A.F. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento prevalente in base al quale la
cognizione della domanda di risarcimento danni da comportamenti illeciti dell’A.F. dello Stato, o di altri Enti
impositori, sia di competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria, non potendo tale controversia rientrare nelle
fattispecie attribuite alla giurisdizione delle Commissioni tributarie. Non si comprende, invece, per quale
ragione appartengono alla cognizione delle Commissioni Tributarie le domande relative agli interessi ed al
risarcimento danni da svalutazione monetaria, sebbene quest’ultima presenti carattere autonomo rispetto
alla domanda principale inerente il rapporto tributario.

In conclusione, si può affermare che una controversia può essere considerata come “tributaria”, sul piano
oggettivo, solo nel caso in cui abbia ad oggetto l’accertamento del rapporto giuridico di imposta; sul piano
soggettivo, invece, la controversia deve necessariamente avere come protagonisti, da un lato il contribuente
e dall’altro l’ente impositore o agente della riscossione.

3. La giurisdizione tributaria e la tassatività degli atti impugnabili

Il processo tributario si attiva con l’impugnazione di un provvedimento o comportamento dell’A.F. Ai


sensi dell’art. 19 del d.lgs. n° 546/1992, gli atti autonomamente impugnabili sono: l’avviso di
accertamento; l’avviso di liquidazione; il provvedimento che irroga le sanzioni; l’iscrizione a ruolo e cartella di
pagamento; l’avviso di mora (intimazione ad adempiere); gli atti delle operazioni catastali; il rifiuto espresso o
tacito di restituzione; il diniego o la revoca di agevolazioni e il rigetto di domande di definizione agevolata;
l’iscrizione di ipoteca sugli immobili e il fermo di beni mobili registrati. Gli atti diversi da quelli espressamente
previsti dal legislatore non sono impugnabili autonomamente. In ambito tributario, infatti, vige il cd.
principio della tutela differita, in base al quale i vizi delle attività che hanno portato all’adozione di un atto
impugnabile, possono essere contestati dal contribuente esclusivamente in sede di impugnazione dell’atto
finale del procedimento. Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi
propri e per vizi delle attività ad essi presupposti; inoltre, la mancata notificazione di atti autonomamente
impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a
quest’ultimo. L’elenco dell’art. 19 è considerato tassativo ma interpretabile estensivamente. Ciò
determina un ampliamento in grado di comprendere qualsiasi atto autonomamente impugnabile anche non
compreso nell’elenco dell’art. sopracitato, In quest’ottica la Corte ha ritenuto impugnabili il cd. Preavviso di
fermo di beni mobili registrati emesso dall’agente di riscossione; l’avviso di liquidazione per indebita
detrazione Iva; il provvedimento di recupero di somme relative ad agevolazioni tributarie successivamente
disconosciute, ecc.

4. Il principio del giusto processo e il diritto di difesa

Il processo tributario deve ispirarsi:

- all’art. 111 Cost., il quale sancisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla
legge e che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità dinanzi ad un
giudice terzo ed imparziale;

- Al diritto di difesa, che deve essere garantito in maniera continuativa e senza preclusioni in sede
processuale, ex art. 24 Cost.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Spetta alla dottrina e alla giurisprudenza considerare se le disposizioni dei decreti sull’ordinamento e la
procedura delle Commissioni siano o meno rispettose delle regole di contraddittorio/parità tra le parti, di
terzietà e imparzialità del giudice e di ragionevole durata del processo. Anche l’art. 6 della CEDU sancisce il
diritto ad un equo processo; in questo modo, si delinea un modello al quale ogni giudice, ordinario o
speciale, deve uniformarsi. Tuttavia, nonostante tale ampliamento della sfera di garanzie processuali, sono
ancora delicate le tematiche connesse alla parità delle parti nel processo tributario.

5. Il giusto processo e la parità delle parti

Attualmente sono ancora molte le “anomalie” del processo tributario rispetto al principio del contraddittorio e
della parità di armi. Sostanzialmente, affinché la disciplina del processo tributario si adegui effettivamente a
quanto disposto dall’art. 111 Cost., l’instaurazione dei procedimenti di rimborso dovrebbe essere
semplificata, la discussione orale dovrebbe essere la regola ed alcune preclusioni probatorie andrebbero
eliminate. Inoltre, occorre precisare che l’art. 7 del d.lgs. n° 546/1992, non prevede la possibilità da parte
del contribuente di produrre in giudizio dichiarazioni di terzi quali prove testimoniali; tale possibilità non è
contemplata da nessuna norma e ciò risulta incomprensibile. L’attuale sistema prevede un’accesso alla
tutela giurisdizionale sottoposto a condizioni particolarmente onerose, si pensi al persistente obbligo di
versare in tutto o in parte (attraverso iscrizione provvisoria) il debito e alle difficili modalità di esecuzione di
un giudicato favorevole. A tal proposito: da un lato, sussistono una giurisprudenza tradizionale e una prassi,
volte ad assicurare l’efficienza del sistema tributario a mezzo di un insieme di privilegi a favore della parte
pubblica; dall’altro, si sta delineando, anche sulla scorta dello Statuto dei diritti del contribuente, un nuovo
filone giurisprudenziale anche di origine europea, propenso a proporre il contribuente su un piano paritario
rispetto all’A.F. L’art. 111 Cost., che considera la parità delle parti componente essenziale del giusto
processo, pone delicati problemi interpretativi di compatibilità tra alcune disposizioni del processo tributario e
quest’ultimo principio, come ad es. nel caso della disciplina della costituzione in giudizio delle parti. In
riguardo a ciò, la Corte Costituzionale ritiene che il valore della parità, in realtà, fosse già compreso negli
artt. 3 e 24 Cost.. Insomma, la parità delle parti si può considerare come un principio dotato di una
propria autonomia e il richiamo a tale principio può essere utile sia in ordine all’orientamento
giurisprudenziale che attribuisce al giudice poteri officiosi, spendibili solo a favore dell’A.F. (al fine di tutelare
l’interesse pubblico), che riguardo al regime delle eccezioni a favore dell’A.F., oltre che in materia di
decadenza.

GLI ORGANI E L’ORDINAMENTO DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE (PARTE II)

1. Le Commissioni Tributarie

A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n° 545/1992, le Commissioni Tributarie (organi giurisdizionali in
materia tributaria, quindi, giudici speciali) si articolano in:

- Commissione Tributarie provinciali: avente sede in ciacun capoluogo di provincia che giudicano in
primo grado.

- Commissioni Tributarie Regionali: avente sede in ciascun capoluogo in di regione che giudicano in
grado di appello.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul nuovo elenco delle materia affidate alle Commissioni tributarie
e ha affermato che il legislatore ordinario conserva il potere di sopprimere, trasformare e riordinare anche nel
funzionamento e nella procedura le Commissioni tributarie osservando, tuttavia, il duplice limite di non
snaturare le materia di sua competenza e di rispettarne la conformità verso la Costituzione, fermo il principio
che il divieto dei giudici speciali non tocca quelli preesistenti e mantenuti a seguito di revisione.

A ciascuna Commissione Tributaria è preposto un Presidente che presiede anche la prima sezione; a
ciascuna sezione sono assegnati: un Presidente, un Vicepresidente e non meno di 4 Giudici Tributari;
il Collegio Giudicante è però costruito da 3 membri, tra cui il Presidente o il Vicepresidente di Sezione,
che lo presiede. I componenti di tali Commissioni sono nominati con Decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del MEF, previa deliberazione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Inoltre, la nomina segue l’ordine di collocazione in elenchi formati per ogni Commissione Tributaria e spetta
al Consiglio di Presidenza valutare i requisiti di chi aspira a divenire giudice tributario; la designazione si
basa su graduatorie formate in base a punteggi e criteri predeterminati. Attualmente non è preciso lo
strumento concorsuale per il reclutamento dei componenti delle Commissioni Tributarie.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

- I Presidenti delle Commissioni Tributarie e delle loro Sezioni, sono scelti tra: magistrati ordinari o
amministrativi e militari (in servizio o a riposo);

- I Vicepresidenti, invece, sono scelti tra: gli stessi magistrati o tra coloro che hanno esercitato per
almeno 5 anni (Commissioni Provinciali) o 10 anni (Commissioni Regionali) le funzioni di giudice
tributario.

I componenti delle Commissioni Tributarie cessano dall’incarico al compimento del 75° anno di età;
la nomina non costituisce un rapporto di pubblico impiego, inoltre, i giudici tributari percepiscono un
compenso fisso mensile e un compenso aggiuntivo per ogni ricorso deciso.

2. Gli Uffici di Segreteria

Le Commissioni Tributarie sono supportate da Uffici di Segreteria, dipendenti dal MEF, che svolgono
attività preparatorie dell’udienza e di assistenza ai collegi giudicanti. Questi ultimi sono definiti “Organi di
assistenza delle commissioni tributarie” e sono investiti di funzioni che la legge attribuisce loro
direttamente, in via immediata. Tali funzioni possono essere:

- Concorrenti con quelle del giudice: si pensi ad es. alla redazione del processo verbale di udienza o
esecuzione degli ordini della Commissione.

- Autonome (si caratterizzano maggiormente per rilevanza ed efficacia): si pensi all’iscrizione dei ricorsi
nel registro generale; alla formazione e tenuta dei fascicoli processuali; al rilascio di copie autentiche
delle pronunce giudiziali; alle comunicazioni o notificazioni e pubblicazioni delle sentenze.

Per ciascuna Commissione Tributaria Regionale è operativo un Ufficio del Massimario che provvede a
rilevare, classificare e ordinare le decisioni delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali; predetti al
servizio di tale ufficio sono un congruo numero di giudici, di cui uno con funzioni di Direttore. Il Direttore e i
giudici redattori sono assistiti da funzionari di segreteria, dotati di adeguata preparazione nelle materie
tributarie, cui vengono affidate le cure dello specifico Ufficio. In pratica, lo scopo dell’Ufficio del Massimario è
quello di alimentare la banca dati del servizio di documentazione tributaria.

3. Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria

Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (CPGT), istituito dal d.lgs. n° 545/1992, è l’organo di
autogoverno della magistratura tributaria; il Consiglio è costituito con Decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del MEF, ed è composto da:

- 11 Membri eletti da e tra i componenti delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali.


- 4 Membri eletti dal Parlamento a maggioranza assoluta (2 dalla Camera dei Deputati e 2 dal Senato
della Repubblica); questi ultimi sono eletti tra: professori universitari di materie giuridiche o soggetti
abilitati alla difesa dinanzi alle Commissioni Tributarie, che risultino iscritti ai rispettivi albi professionali da
almeno 12 anni.

Il Consiglio di Presidenza dura in carica circa 4 anni ed elegge nel suo ambito il Presidente e 2
Vicepresidenti. Il Consiglio ha il compito: di verificare i titoli di ammissione dei propri componenti e di
decidere sui reclami attinenti alle elezioni; deliberare sulle nomine e su ogni altro provvedimento riguardante
i compiti delle commissioni tributarie; stabilire i criteri di massima per la formazione delle Sezioni, dei Collegi
Giudicanti e la ripartizione dei ricorsi nell’ambito delle Commissioni Tributarie divise in Sezioni; promuovere
iniziative intese a perfezionare la formazione e l’aggiornamento professionale dei giudici tributari, vigilare
sulle Commissioni e disporre di ispezioni.

Il CPGT è anche il custode della deontologia professionale dei giudici tributari allorquando si promuove
l’azione disciplinare su iniziativa del Presidente del Consiglio e dei Presidenti delle Commissioni regionali
nell’esercizio del loro potere di vigilanza.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

LE PARTI E GLI ATTI DEL PROCESSO TRIBUTARIO (PARTE III)

1. Il giudice tributario: competenza e poteri istruttori

Le Commissioni Tributarie Provinciali sono presenti in ogni capoluogo di provincia; ciascuna


Commissione è competente per le controversie proposte nei confronti degli Uffici Tributari del
Ministero delle Finanze, degli Enti Locali e dei Concessionari del Servizio di Riscossione che hanno
sede nella sua circoscrizione. Le Commissioni Tributarie Regionali hanno competenza in appello per le
Sentenze delle Commissioni Tributarie Provinciali; le Commissioni Tributarie Regionali sono presenti
in ogni capoluogo di regione, nella cui circoscrizione ha sede la Commissione Tributaria Provinciale che ha
emesso la sentenza impugnata.

La presentazione di un ricorso ad un giudice territorialmente non competente non è un errore


irrimediabile, infatti, dopo che la Commissione si è dichiarata incompetente, il ricorrente potrà riassumere la
causa innanzi alla commissione dichiarata competente; la riassunzione deve avvenire nei termini indicati dal
giudice o, in mancanza, nei termini di legge, altrimenti il processo si estingue; con l’estinzione del processo
l’atto, impugnato innanzi al giudice incompetente, diventa definitivo. In materia di competenza, nei casi in
cui l’Ufficio Finanziario che ha formato il ruolo ha sede in una provincia diversa rispetto a quella del
Concessionario delle Riscossione che ha emesso la cartella di pagamento, giurisprudenza e dottrina
concordano che la soluzione sta nella proposizione di due distinti e separati riscorsi innanzi a
entrambe le Commissioni, in considerazione del fatto che la legge individua la competenza delle
Commissioni Tributarie sulla base della sede del soggetto che ha emanato l’atto impugnato.

Il d.lgs. n 546/1992, all’art. 7 disciplina i poteri istruttori del giudice, affermando il principio del
parallelismo tra i poteri istruttori delle Commissioni Tributarie e quelli dell’Ente Impositore; tale disposizione
trova la sua giustificazione in quanto le Commissioni Tributarie, originariamente nate come organi
competenti in materia di accertamento dei redditi, hanno subito un travagliato processo di
“giurisdizionalizzazione” consacrato solo agli inizi degli anni 70’. Tuttavia, tale disciplina contrasta con la
ormai indiscussa natura giurisdizionale che caratterizza le Commissioni Tributarie, poichè i poteri istruttori
delle Commissioni derivano dai procedimenti amministrativi di accertamento degli uffici rivolti verso il
contribuente; quindi, non potendosi eliminare quella unidirezionalità che caratterizza i due poteri istruttori
(giurisdizionale e amministrativo), il potere istruttorio del giudice non potrà operare in ugual misura con le
due parti (Amministrazione e Contribuente). Inoltre, le Commissioni hanno facoltà e non già l’obbligo di
esercitare i poteri istruttori, anche quando le parti abbiano inoltrato apposita formale istanza per la loro
assunzione; ove, però, la Commissione non accolga l’istanza e, conseguentemente non disponga
l’adempimento istruttorio, deve specificatamente giustificarla nella motivazione della sentenza.

Infine, si può concludere asserendo che la Commissione Tributaria Regionale non ha la piena libertà
istruttoria di cui dispone la Commissione Tributaria Provinciale, ma può esercitare i poteri istruttori in
quanto ne sussista la necessarie ai fini della pronuncia. Ciò nonostante, i poteri istruttori non sono
esercitabili incondizionatamente, essendo l’attività istruttoria dei giudici sottoposta a dei precisi limiti, che
trovano fondamento nella specifica natura del processo tributario inteso quale processo di impugnazione di
atti impositivi aventi prevalentemente carattere dispositivo. L’attività istruttoria dei giudici, pertanto, può
essere esercitata nell’ambito dei fatti dedotti dalle parti, cioè dei fatti posti a fondamento della pretesa
tributaria; si deve escludere, invece, qualsiasi autonoma indagine da parte delle Commissioni, in quanto ogni
intervento in tal senso comporterebbe un ampliamento dell’oggetto del contendere ed uno scavalcamento
dei limiti dei poteri istruttori che necessariamente devono essere circoscritti.

2. Il ricorrente: la legittimazione attiva

L’art. 10 del d.lgs. n° 546/1992 individua direttamente i soggetti che possono essere parti del processo,
però, quando si riferisce al ricorrente usa un termine generico che non consente l’immediata individuazione
di chi sia effettivamente tale soggetto. Il problema della legittimazione ad agire consiste
nell’individuazione della persona fisica o giuridica cui spetta l’interesse ad agire, infatti, affinché la
Commissione Tributaria provveda nel merito, non basta che il ricorso sia stato proposto, ma occorre che sia
stato proposto proprio da quel soggetto che, per legge, può agire giurisdizionalmente.

Una volta notificato l’atto impositivo, la posizione di legittimato attivo deve essere riconosciuta in capo al
destinatario dell’atto anche quando vi sia stata un’erronea individuazione del contribuente; in tal caso, il
ricorrente non è privo della legittimazione attiva, ma si verifica una infondatezza soggettiva della pretesa
tributaria. Il ricorso, proposto da un soggetto passivo privo della necessaria legittimazione, perché
terzo rispetto al rapporto d’imposta, deve essere dichiarato inammissibile.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Infine, si è riconosciuta la legittimazione attiva in capo al cessionario nella proposizione del ricorso
per il rimborso Iva nei confronti dell’A.F.. Tale apertura è rilevante se si considera che nel sistema dell’Iva
il soggetto passivo del tributo, legittimato a chiedere il rimborso se il pagamento non è dovuto, è considerato
il solo cedente e non il cessionario, il quale è un soggetto Iva e quindi parte del meccanismo applicativo
dell’imposta, ma assolutamente estraneo al rapporto con l’A.F..

3. Il resistente: la legittimazione passiva

L’art. 10 del d.lgs. n° 546/1992 afferma che sono parti del processo, oltre al ricorrente, l’Ufficio
dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, gli altri Enti Impositori, l’Agente
della Riscossione ed i soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del d.lgs n°446/1997 (enti locali), che
hanno emesso l’atto impugnato o non hanno emesso l’atto richiesto.

La legittimazione passiva, quindi, si determina sulla base dell’atto che si intende impugnare, pertanto
il resistente è l’ente o l’ufficio che ha emanato l’atto impositivo. Se dopo la presentazione di un’istanza
di rimborso, l’ente o l’ufficio non ha emanato l’atto richiesto, si forma il silenzio-rifiuto. Legittimato a
resistere verso tale silenzio-rifiuto è l’ufficio o l’ente cui è stata presentata l’istanza; una volta individuato tale
soggetto, si determina anche la Commissione Provinciale competente. Gli Uffici dell’Agenzia e gli Enti
stanno in giudizio senza difensore tecnico. Ne consegue che, nei procedimenti innanzi alla Commissione
Tributaria Provinciale, il soggetto legittimato passivo è principalmente l’Ufficio locale dell’Agenzia
delle Entrate che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto, quindi, il destinatario
della notifica del ricorso è l’Ufficio legittimato passivamente, che sta in giudizio direttamente o mediante
l’Ufficio del contenzioso della direzione regionale o compartimentale ad esso sovraordinata. Attualmente la
competenza spetta alle Direzioni Provinciali presso l’Agenzia delle Entrate. Il destinatario della notifica
della sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale è l’Ufficio resistente.

Infine, il ricorso per Cassazione, se proposto contro l’Ufficio Periferico anziché contro il MEF, è
inammissibile, atteso che, essendo l’Ufficio Periferico di detto Ministero privo di soggettività esterna per
quanto attiene tale giudizio, non risulta alcuna azione proposta nei confronti di alcun legittimo contraddittore.
Se si contestano vizi della cartella dovrà essere notificato il ricorso al concessionario della riscossione,
mentre, se questa controversia riguarda la parte erariale dovrà essere chiamato in causa l’ente impositore.
Considerato che il confine tra le differenti ipotesi di legittimazione passiva può risultare difficile da
individuare, potrebbe essere consigliabile procedere alla chiamata in causa, oltre che dell’Agenzia delle
Entrate, anche dell’Agente della Riscossione; il giudice adito, quindi, potrà dichiarare il difetto di
legittimazione della parte in cui non sono ascrivibili violazioni. Per quanto riguarda l’Ente Locale, anche in
questo caso sarà legittimato passivo l’Ente che ha emesso l’atto; inoltre, va ricordato che taluni tributi
non sono gestiti direttamente dall’ente, ma da altri soggetti che si sostituiscono a questi ultimi nell’esercizio
della potestà impositiva. L’Ente Locale nei cui confronti è proposto il ricorso, può stare in giudizio anche
mediante il dirigente dell’Ufficio Tributi, mentre, per gli Enti Locali privi di figura dirigenziale, mediante il
titolare della posizione organizzativa in cui è collocato tale Ufficio.

4. Il litisconsorzio e il principio del contraddittorio

In alcuni casi la partecipazione di più soggetti ricorrenti nel processo tributario è imposta dalla
legge; in questo caso si parla di “litisconsorzio” e tale situazione si verifica quando l’accertamento
giudiziale della situazione dispiega i propri effetti nei confronti di una pluralità di soggetti cosicché la mancata
partecipazione di alcuni di essi determina una limitazione del diritto di difesa. Quindi, il litisconsorzio è
necessario per una parità di trattamento e per un interesse ad evitare un contrasto tra i giudicati, per
garantire l’unicità del trattamento giudiziale e delle pronunce sulle fattispecie costitutive
dell’obbligazione tributaria a tutte le parti.

Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n° 546/1992 l’istituto del litisconsorzio trovava già applicazione,
infatti, era ammesso il litisconsorzio facoltativo che prevede la possibile partecipazione di altri soggetti a
giudizio instaurato, in quanto era stabilito che fossero applicabili al processo tributario le norme del
Libro I del c.p.c..

La formula attualmente prevista nel processo tributario sembra diversa da quella racchiusa nell’art.
102 del c.p.c. sul litisconsorzio necessario, in quanto appare più restrittiva.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Tra le varie ipotesi di litisconsorzio da prendere in considerazione, vi sono:

- Il litisconsorzio nelle controversie che riguardano sostituto e sostituito: In questo caso parte della
giurisprudenza afferma il carattere litisconsortile del giudizio, che deve coinvolgere anche l’A.F.; l’altra
parte, invece, è orientata nel senso di escludere la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra
sostituto d’imposta e sostituito nelle controversie con l’A.F..

- Il litisconsorzio nelle controversie che vedono coinvolti soci e società di persone: secondo un
orientamento costante della Cassazione, si prefigura la sussistenza di un litisconsorzio necessario.
Inoltre, la celebrazione di un giudizio senza la partecipazione di tutti i litisconsorziati necessari è affetta da
nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio.

- Una particolare ipotesi controversa di litisconsorzio necessario: questa fattispecie può configurarsi
dal lato attivo della pretesa impositiva tra l’Agenzia del Territorio e l’Ente Locale nelle liti catastali.

Il principio del contraddittorio è disciplinato nell’art. 111 Cost., secondo il quale ogni processo si svolge
nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità di fronte ad un giudice terzo ed imparziale. Non è
configurabile litisconsorzio nel caso di svolgimento simultaneo dei due distinti processi davanti agli stessi
giudici di merito, in maniera strettamente coordinata e conclusi con sentenze identicamente motivate. La
mancata proposizione di ricorso di tutte le parti del litisconsorzio non determina l’inammissibilità
dello stesso, ma è imposto al giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio fissando un
termine entro il quale i ricorrenti devono chiamare in causa gli altri legittimati: il litisconsorte deve
costituirsi, a pena di decadenza, nel termine di 30 giorni. La sentenza che deve essere emanata a
contraddittorio non integro è inutiliter data (sentenza alla quale non può essere accordata alcuna efficacia) e
il vizio è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

5. L’assistenza tecnica

L’art. 12 del d.lgs. n° 546/1992 ha introdotto la non obbligatorietà dell’assistenza tecnica nel processo
quando la controversia ha un valore inferiore a 3.000 euro. Il valore deve essere determinato facendo
riferimento al solo importo del tributo accertato e richiesto, senza tener conto degli interesse e delle eventuali
sanzioni irrogate nell’atto. Nell’ipotesi di controversie relativa a due o più tributi, ci si è chiesti a più
riprese se il valore deve essere determinato per ogni tributo o per l’ammontare complessivo di tutti i tributi: la
prassi ha chiarito che il valore della lite deve essere calcolato con riferimento all’importo complessivo dei
tributi richiesti con l’atto impositivo e non con riferimento ad ogni singolo importo.

Il professionista a cui è affidata la difesa tecnica obbligatoria è scelto tra gli appartenenti a
determinate categorie; la norma distingue tra:

- Un’abilitazione a carattere generale, in cui rientrano: gli avvocati, i dottori commercialisti, i ragionieri e i
periti commerciali purché iscritti negli appositi albi professionali;

- Un’abilitazione a carattere limitato, che comprende professionisti di determinate materie, ovvero:


consulenti del lavoro, ingegneri, architetti, geometri, periti edili, dottori agronomi, periti agrari,
spedizionieri.

Questi professionisti possono stare in giudizio dinanzi alle Commissioni Tributarie senza l’assistenza tecnica
di altri difensori; la procura deve risultare da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, e può essere
speciale o generale, deve essere prodotta in giudizio e può essere apposta in calce o al margine del ricorso.
Inoltre, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta
la rappresentanza. Per quanto concerne il ricorso, quest’ultimo deve essere sottoscritto dal difensore e la
sanzione per la carenza di sottoscrizione è l’inammissibilità del ricorso.

In aggiunta, il nostro ordinamento prevede il gratuito patrocinio per i non abbienti e per poter
beneficiare di tale assistenza è necessario avere un reddito imponibile non superiore a 9.296,22 euro;
l’interessato, in questo caso, deve presentare un’istanza all’apposita Commissione (provinciale o regionale);
chi è ammesso al patrocinio può nominare un difensore tra gli iscritti negli appositi albi (elenco degli
avvocati) o un difensore scelto nell’ambito di altri albi od elenchi.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

6. Gli atti del giudice tributario: il decreto, l’ordinanza, la sentenza

Il giudice tributario può emettere 3 tipi di atti: la sentenza, l’ordinanza e il decreto.

• La Sentenza: solo per la Sentenza il d.lgs. n° 546/1992 (sul processo tributario) disciplina il contenuto.
La Sentenza deve essere emanata in nome del popolo italiano ed è intestata alla Repubblica italiana,
inoltre, deve essere sottoscritta dal Presidente della Commissione e dal Relatore e deve contenere:
l’indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei difensori; la coincisa esposizione dello
svolgimento del processo; le richieste delle parti; la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto ed il
dispositivo.

• L’Ordinanza: è un atto collegiale e viene pronunciata in tutti i casi in cui il Collegio Giudicante non
definisce il giudizio; l’ordinanza presuppone il contraddittorio e deve essere motivata. La Commissione
emana un’ordinanza quando: dispone la separazione di processi se ritiene che la riunione degli stessi
ritarda o rende più gravosa la loro trattazione; decide in merito alla sospensione dell’atto impugnato;
dispone la sospensione o l’interruzione del processo.

• Il Decreto: è un atto che può essere emanato solo da un organo monocratico, ovvero dal Presidente
della Commissione o dal Presidente della Sezione; esso è volto a regolare lo svolgimento del processo
ed è motivato solo quando la legge lo stabilisce espressamente. Il Presidente della Commissione emette
decreto quando: assegna il ricorso ad una Sezione; riunisce dinanzi ad una medesima Sezione ricorsi
pendenti dinanzi a Sezioni diverse; fissa l’udienza di trattazione dell’istanza di sospensione; dispone la
provvisoria sospensione dell’esecuzione, in caso di eccezionale urgenza, fino alla pronuncia del collegio.
Il Presidente della Sezione, invece, emette decreto quando: fissa la trattazione della controversia; nomina
il relatore; dichiara l’inammissibilità manifesta del ricorso, la sospensione del processo, l’interruzione del
processo e l’estinzione del processo.

7. Gli atti delle parti: il ricorso, le controdeduzioni, i documenti e le memorie

Ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 546/1992, il processo è introdotto dal ricorrente con ricorso alla Commissione
Tributaria Provinciale. Nel ricorso, a pena di inammissibilità, devono essere indicati:

• La Commissione a cui è diretto, quindi, la Commissione competente per territorio e per grado funzionale.
• Il Ricorrente e il suo Legale Rappresentante, la residenza, la sede legale o il domicilio eletto ai fini del
giudizio nel territorio dello Stato ed il codice fiscale del ricorrente; l’omissione del codice fiscale non è
motivo di inammissibilità del ricorso.

• l’Ufficio del Ministero delle Finanze (attualmente la Direzione Provinciale), l’Ente Locale o il
Concessionario del servizio di riscossione, quindi, colui che ha emanato l’atto, nei cui confronti il ricorso è
preposto;

• l’Atto impugnato e l’oggetto del ricorso; quando si impugna il rifiuto tacito ad un’istanza di rimborso,
l’allegazione dell’atto è sostituita con l’indicazione dell’istanza di restituzione e della data di presentazione
della stessa. L’oggetto della domanda consiste nel provvedimento che si chiede al giudice di emanare
(annullamento dell’atto, concessione del rimborso, concessione dell’agevolazione, ecc.);

• I Motivi, ovvero, le ragioni di fatto e di diritto per le quali si chiede di rimuovere l’atto, concedere il
rimborso o l’agevolazione. Il contribuente non può addurre successivamente in giudizio motivi che non
siano stati formulati nel ricorso.

Con il d.l. n° 98/2011 è stato introdotto l’art. 17-bis del d.lgs. n. 546/1992 che, per le liti il cui ammontare è
inferiore a 50mila euro, prevede la procedura del reclamo-mediazione in ambito amministrativo.

8. Il processo tributario telematico

A partire dal 1° Gennaio 2016, in alcune regioni, oggi a regime, si è introdotto il nuovo processo tributario
telematico. In pratica, viene garantito alle parti di affiancare, alle tradizionali forme di notificazione, la notifica
a mezzo della posta elettronica certificata (PEC). Tale forma di notificazione degli atti tra le parti, viene
estesa anche alle comunicazioni, ovvero agli atti che la Commissione Tributaria comunica ai litiganti, quali:
decreti, ordinanze, sentenze o meri avvisi di trattazione della pubblica udienza o della camera di consiglio.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

LE PROVE (PARTE IV)

1. Motivazione dell’atto impositivo e onere della prova

L’atto impositivo deve contenere le ragioni giuridiche che ne hanno portato all’emanazione, ponendo
così il contribuente nella situazione di conoscere l’iter logico-giuridico che ha indotto l’ufficio ad emetterlo. A
tal proposito, l’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, prevede espressamente che: “nei
provvedimenti amministrativi devono essere indicati i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione dell’Amministrazione”. Lo stesso art. 7, ha esteso tale obbligo di motivazione anche
agli organi indiretti dell’A.F..

L’onere della prova costituisce un elemento fondamentale all’interno del processo tributario. Le
affermazioni dell’Amministrazione, anche se contenute e proclamate in atti, non possono da sole costituire
prova a favore della stessa senza il supporto o l’integrazione di elementi indiziari o probatori documentali.
Per quanto concerne il rapporto d’imposta, spetta all’Amministrazione l’onere di provare i fatti
costitutivi della pretesa erariale, mentre ricade sul contribuente la prova del fatto modificato ed
estintivo dell’obbligazione tributaria. La veste di parte attrice in senso sostanziale è assunta
dall’Amministrazione, che deve fornire la prova del credito vantato, mentre il contribuente è solo
formalmente attore nel processo tributario. Tuttavia, la posizione formale delle parti in sede processuale,
non rileva ai fini del riparto dell’onere della prova; in materia di contenzioso da rimborso, tale onere grava
sul contribuente, mentre nel processo tributario d’impugnazione (essendo in discussione i fatti sui quali
si fonda e dai quali trae legittimità l’atto impugnato) grava sull’A.F..

La Cassazione, con una sentenza del 2007, ha confermato quanto detto finora, sostenendo che il
principio dell’onere della prova debba modellarsi sulla struttura del rapporto giuridico formalizzato nel
provvedimento impositivo e non può essere ancorato alla posizione formale (di attore o convenuto) assunta
dalle parti nel processo.

2. Prove escluse e preclusioni probatorie

Il comma 4 dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, prevede che: “non sono ammessi il giuramento e la prova
testimoniale”, sottolineando così il carattere scritto e documentale del processo tributario. I vari tipi di prove
documentali che possono trovare ingresso nel processo tributario, sono: la consulenza tecnica di
parte (meglio se giurata) fornita dal contribuente a sua difesa e la consulenza tecnica disposta
dall’A.F..

L’esclusione del giuramento è giustificata dal fatto che l’art. 2379 c.c. vieta la prestazione del giuramento
per la decisione di cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre e tra queste sicuramente
rientrano le controversie in materia di tributi in virtù dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, nonché
dalla circostanza che il giuramento non potrebbe mai essere reso dall’A.F., che non ha la disponibilità del
diritto controverso; pertanto, la sua ammissione determinerebbe una evidente disparità di trattamento tra le
parti del giudizio.

L’esclusione della prova testimoniale non è motivata. Al riguardo si potrebbe dedurre che questa
esclusione risponderebbe alla generale esigenza normativa che i fatti economici, aventi rilevanza tributaria,
siano documentati. Ciò nonostante, si dubita sia dell’opportunità di tale esclusione, sia della sua
costituzionalità, dato che non sempre la disciplina richiede che i fatti con rilevanza tributaria siano
documentati per iscritto, considerando che è sempre più frequente il ricorso a presunzioni da parte dell’A.F.
basate su situazioni di fatto. Inoltre, potrebbero assumere rilevanza nel processo anche fatti di natura non
economica, per i quali non è determinabile una prova scritta. Perciò l’esclusione della prova testimoniale si
pone come un impedimento all’esercizio del diritto d’azione e di difesa delle parti in lite e come ostacolo
all’accertamento dei fatti del giudice.

Il divieto di un mezzo di prova ed, in particolare, il divieto di prova testimoniale, limita gli strumenti di
ricostruzione della verità e incide negativamente sulla completa attuazione del contraddittorio e sul diritto alla
prova. L’utilizzo della prova testimoniale potrebbe richiedere un allungamento dei tempi processuali, ma
garantirebbe di sicuro una visione dei fatti più completa. L’utilizzo di tale prova, pur non andando
sopravalutato, deve essere considerato uno strumento generale indispensabile ai fini dell’individuazione
della verità anche in campo tributario, ove sono sempre più numerosi i tributi che hanno un presupposto e
una base imponibile per la cui determinazione il ricorso ai soli documenti e alle presunzioni si rivela del tutto
insufficiente.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Negli anni si sono susseguiti orientamenti contrastanti relativamente all’utilizzo delle prove testimoniali
in sede processuale. La Cassazione, nella più recente sentenza del 2016, ha riconosciuto alle
dichiarazioni di terzi un valore indiziario per il contribuente, nel rispetto dell’art. 111 Cost.. Tuttavia, in casi
particolari, le testimonianze scritte possono costituire prova (confessione) solo se rese con giuramento nella
narrazione dei fatto o in atto notorio. Sul divieto della prova testimoniale si è espressa negativamente
anche la CEDU, con una sentenza del 2006, adottando un orientamento opposto a quello della Corte
Costituzionale, secondo la quale il divieto della prova orale, quand’anche fosse l’unico mezzo possibile per
contrastare la pretesa tributaria, resta comunque legittimo in vista dell’assoluta specificità del processo
tributario.

In aggiunta, esistono altre preclusioni probatorie alla fase processuale e tali preclusioni possono
determinare una limitazione dell’attività di difesa in ambito processuale, sancita dall’art. 24 Cost., con
incidenza sulla parità delle parti e del giusto processo. Il diritto di difesa deve poter essere garantito in
maniera continuativa e senza preclusioni in sede processuale, soprattutto in presenza di limitati poteri
istruttori nel rispetto della proporzionalità.

3. Prove atipiche ed elementi indiziari

L’ingresso nel procedimento tributario di prove atipiche che influenzano in sede di contenzioso il giudice,
risulta legittimato da un nucleo normativo che si è ampliato nel tempo. Si tratta di norme che, in tema di
accertamento, riconoscono la possibilità di utilizzare dati e notizie raccolti o di cui si è venuti a conoscenza.
Tra le prove atipiche utilizzabili nel processo, può costituire fonte di convincimento del giudice anche
la cd. perizia di parte, in quanto il giudice può elevarla a fondamento della decisione a condizione che
indichi le ragioni per la quale la ritenga corretta e convincente. Quindi, in merito alla questione riguardante il
valore probatorio da attribuire agli elementi di prova atipici, si può ritenere che tale valore generalmente
riconosciuto loro è quello proprio degli “indizi”. L’indizio, sostanzialmente, rappresenta una situazione che si
presenta con un modesto grado di attendibilità.

Tuttavia, le prove atipiche non possono essere equiparate a quelle tipiche, anche per ragioni di diritto
positivo; ciò anche in considerazione del fatto che anche se il giudice può desumere argomenti di prova dalle
risposte di libero interrogatorio e dal comportamento processuale delle parti, ha escluso che le dette fonti di
informazioni possano divenire componenti esclusive della valutazione giudiziale ai fini della decisione. In
sostanza, gli argomenti di prova possono rafforzare il convincimento del giudice ma mai, da di per sé soli,
fondarlo. La cd. contabilità “in nero”, risultante da appunti personali ed informali dell’imprenditore, ovvero le
indicazioni contenute in floppy disk rinvenuti durante una verifica fiscale, costituiscono, secondo la
giurisprudenza, dei validi elementi indiziari, dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Tra gli
elementi indiziari rientrano anche le dichiarazioni rese in sede di verifica utilizzate dall’A.F..

La Corte Costituzionale, nel 2000, è intervenuta in materia, affermando che: “il divieto della prova
testimoniale non esclude l’utilizzo nel processo tributario di dichiarazioni scritte di terzi, a contenuto
essenzialmente testimoniale, eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale, dotate
di un’efficacia probatoria minore della vera e propria prova per testi, da considerarsi quali meri argomenti di
prova, strumenti da soli non sufficienti a fondare il convincimento del giudice in mancanza di idonei riscontri
obiettivi”. Pertanto, la Cassazione ha ritenuto viziate le sentenze emanate dalla Commissione Tributaria
Regionale, fondate solo su dichiarazioni, senza utilizzare validi elementi di riscontro.

4. Diverse tipologie di prove: accesso, richiesta di dati, di informazioni e di chiarimenti;


consulenza tecnica

Il comma 1 dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992 attribuisce alle Commissioni Tributarie gli stessi poteri
istruttori conferiti agli Uffici Tributari e all’Ente Locale da ciascuna legge d’imposta. Ciò significa che i
poteri del Giudice non sono sempre gli stessi ma variano col mutare del tributo oggetto della controversia. Il
comma 1 dell’art. 7 attribuisce alle Commissioni Tributarie la facoltà di accesso ai luoghi, senza alcun
bisogno dell’autorizzazione della Procura della Repubblica, perché si tratta di un potere riconosciuto ad un
giudice, nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. Tuttavia, questo articolo non fa riferimento
all’ispezione, anche se è ammesso che essa può essere disposta, pure in via coattiva.

La richiesta di dati, di informazioni e di chiarimenti permette alle Commissioni Tributarie di invitare il


contribuente a comparire di persona al fine di fornire dati, chiarimenti, e notizie rilevanti per la decisione. Tale
richiesta può essere rivolta, sia al ricorrente e all’A.F., sia a soggetti terzi. La ratio della norma che attribuisce
al giudice un potere analogo a quello dell’amministrazione, consiste nel garantire un sostanziale riequilibrio
tra le parti in contraddittorio. A differenza dell’Ufficio, il giudice tributario non ha il potere sanzionatorio in caso
di inottemperanza alla richiesta.
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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

Il giudice, al fine di acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, può richiedere una consulenza
tecnica, ad esperti in materia, cioè ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o ad altri enti pubblici,
compresa la Guardia di Finanza. Il giudice ricorre a questa soluzione quando è chiamato a decidere su
questioni particolarmente complesse che necessitano di particolari conoscenze in un determinato settore di
attività. La consulenza può essere richiesta solo dal giudice (qualora non sia in grado di risolvere problemi
che richiedono conoscenze tecniche) e non anche dalle parti. Spetta al giudice valutare quale organo può
meglio svolgere tale assistenza. La Commissione, infine, potrà decidere di rinnovare le indagini richieste al
perito, quando i risultati raggiunti dalla consulenza già espletata siano ritenuti insufficienti. Invece, nel caso
in cui fra le stesse parti pendano innanzi al medesimo giudice più cause, la cui soluzione dipende da
analoghi problemi tecnici e giuridici, la consulenza tecnica eseguita potrà essere utilizzata anche per la
decisione degli altri casi.

5. Inutilizzabilità delle prove acquisite illegittimamente

Prima di procedere alla valutazione della prova il giudice tributario deve verificare che siano state rispettate
tutte le norme procedimentali che regolano l’attività istruttoria dell’A.F.. Per acquisire prove, in maniera
legittima, da utilizzare all’interno del processo tributario, il legislatore tributario ha creato un sistema
che prevede l’emissione di atti legittimativi all’effettuazione di tali attività, tali da tutelare (almeno
formalmente) i diritti coinvolti.

La prima forma di tutela adoperata dal legislatore tributario, per contemperare l’interesse pubblico al
prelievo con quello attinente alla sfera personale dei privati, è l’istituto dell’autorizzazione; infatti, la tutela
della libertà personale e quella del domicilio costituiscono il limite più rilevante all’esercizio della potestà
ispettiva ed una garanzia essenziale dei diritti del cittadino-contribuente. L’autorizzazione (del capo ufficio da
cui dipendono i verificatori) è fondamentale affinché i verificatori, cioè gli impiegati degli uffici finanziari e
della Guardia di Finanza, possano accedere alle varie ispezioni. L’autorizzazione deve essere preventiva,
ed è rilasciata in forma scritta; inoltre, deve indicare: i locali in cui è destinata a svolgersi l’azione ispettiva
e le generalità del funzionario responsabile del procedimento, cioè il dipendente dell’Amministrazione al
quale il contribuente può rivolgersi per chiedere informazioni e chiarimenti per inoltrare eventuali lamentele.
Il predetto responsabile dirige lo svolgimento delle operazioni al fine di garantire il corretto svolgimento
dell’attività ispettiva. Il provvedimento autorizzatorio alla perquisizione di un domicilio di un soggetto, emesso
dall’autorità competente, consente di acquisire in tale domicilio anche la documentazione relativa ad altro
soggetto, pur non menzionato nel provvedimento stesso.

Relativamente all’utilizzabilità, in fase di giudizio, delle prove raccolte in assenza della richiesta
documentazione, sono sorti alcuni problemi. La giurisprudenza di merito e la Suprema Corte sono
orientate verso l’inutilizzabilità degli elementi probatori raccolti nel corso di accessi effettuati in mancanza
dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ritenendo che il giudice tributario, prima di utilizzare
una prova per la decisione, debba verificare la regolarità della relativa acquisizione, in quanto non potrà
porre a base della sua decisione prove indebitamente raccolte.

IL PRIMO GRADO DEL GIUDIZIO (PARTE V)

1. La proposizione del ricorso

Il Ricorso alla competente Commissione Tributaria Provinciale, va notificato all’Ufficio che ha emanato
l’atto impugnato entro 60 giorni dalla data in cui il contribuente ha ricevuto il medesimo atto. I termini per la
proposizione del ricorso sono sospesi nel periodo feriale dal 1° al 31 Agosto. Per le domande di
rimborso alle quali l’Amministrazione non ha dato risposta, il ricorso si può produrre decorsi 90 giorni
dalla data di presentazione della richiesta. Con la proposizione del ricorso si instaura solo il
contraddittorio fra le parti, ma, affinché il processo possa essere considerato effettivamente incardinato, è
necessaria la partecipazione del giudice, che si attiva solo con la costituzione in giudizio del ricorrente. Il
ricorso deve essere notificato innanzitutto all’ufficio che ha emesso l’atto contestato, mediante:
consegna diretta; per posta, con plico raccomandato senza busta e con l’avviso di ricevimento; a mezzo
notifica di Ufficiale Giudiziario. La stessa procedura si segue per il reclamo mediazione. Inoltre, le
notificazioni ed i disposti dei ricorsi e degli atti processuali, possono avvenire anche in via telematica.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

2. La costituzione delle parti

Notificato il ricorso, l’art. 22 del d.lgs. n. 546/1992, dispone che il ricorrente, entro 30 giorni dalla
proposizione del ricorso (si tratta di un termine perentorio e decorre dalla data in cui si propone il ricorso), a
pena d’inammissibilità, deposita (o trasmette a mezzo posta) nella segreteria della Commissione tributaria
provinciale competente l’originale del ricorso depositato, oppure la copia del ricorso consegnato o spedito
alla controparte per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a
mezzo del servizio postale (anche i depositi possono avvenire per via telematica). L’inammissibilità del
ricorso è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Se l’atto depositato nella segreteria della
Commissione non è conforme a quello consegnato o spedito alla controparte, quest’ultimo è inammissibile.
Unitamente al ricorso ed ai documenti sopraindicati, il ricorrente deposita il proprio fascicolo, con l’originale o
la fotocopia dell’atto impugnato, se notificato, ed i documenti che produce, in originale o in fotocopia. In caso
di contestazioni, il giudice tributario ordina l’esibizione degli originali degli atti e documenti in questione.

Per quanto concerne la costituzione della parte resistente, l’art. 23 del d.lgs. n° 546/1992 dispone che:
“L'ufficio del Ministero delle finanze, l'ente locale o il concessionario del servizio di riscossione nei cui
confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio entro 60 giorni dal giorno in cui il ricorso è
stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale. La costituzione della parte resistente è
fatta mediante deposito presso la segreteria della Commissione adita del proprio fascicolo contenente le
controdeduzioni in tante copie quante sono le parti in giudizio e i documenti offerti in comunicazione. Nelle
controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente
e indica le prove di cui intende valersi, proponendo altresì le eccezioni processuali e di merito che non siano
rilevabili d'ufficio e instando, se del caso, per la chiamata di terzi in causa”.

Il termine di 60 giorni previsto per la costituzione in giudizio della parte resistente, non è da
considerarsi come perentorio, bensì ha natura chiaramente ordinatoria. Tuttavia, la tardività del deposito
dell’atto di controdeduzioni da parte dell’A.F. resistente genera la necessità di un’accettazione del giudizio
nello stato in cui esso si trova, essendo precluse alla parte resistente che si è costituita tardivamente in
giudizio, alcune attività processuali. Quindi, la parte resistente può costituirsi anche posteriormente i
suddetti 60 giorni.

Il termine ultimo di costituzione per la parte resistente va:

- fino a 20 giorni liberi prima della discussione della lite.


- Non oltre la data fissata per l’udienza, in caso di trattazione in pubblica udienza (che può essere richiesta
anche da una sola parte), fatte salve le decadenze nel frattempo maturate.

3. Il reclamo e la mediazione

Gli istituti della mediazione e del reclamo sono volti a spingere le parti del rapporto d’imposta a dialogare e
risolvere le controversie anteriormente alla fase processuale, in chiara ottica deflativa del contenzioso, a
pena d’improcedibilità dello stesso. Attualmente tale istituto si può applicare per le liti inferiori a 50mila euro e
relative ad atti emessi dall’Agenzia delle Entrate. La mediazione, a partire dal 1° Gennaio del 2016, ex
d.lgs. n° 156/2015, è stata estesa anche agli atti emanati dall’Agente della Riscossione e dall’ente locale.

Il ruolo di mediatore viene svolto da una delle parti coinvolte, di solito la stessa Agenzia delle Entrate, o
meglio da un Ufficio diverso da quello che ha emesso l’atto reclamato. Il meccanismo è attivato dal
contribuente gravato da un obbligo, ma può anche accadere che l’ufficio potrà rimanere silente. Il reclamo
può contenere anche una proposta motivata di mediazione del contribuente che può trovare concorde
l’Ufficio, ponendo fine alla contesa senza intervento del Giudice. A sua volta, l’Ufficio ricevente, se non
ritiene di accogliere la proposta del contribuente, può articolare una propria proposta di mediazione, oppure
non formulare alcuna proposta. In entrambi i casi, se il contribuente non concorda, nasce la lite in quanto il
reclamo “è già insito nel ricorso”, con conseguente deposito del ricorso innanzi al giudice tributario. Decorsi
90 giorni senza che sia notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia conclusa la mediazione, il
reclamo produce gli effetti del ricorso. L’intero procedimento sospende l’esecutività dell’atto impugnato per
un breve periodo, ovvero per i 90 giorni dalla proporzione del reclamo, entro i quali deve in qualche modo
concludersi.

La mediazione tributaria, fin dall’inizio, ha attirato le perplessità di gran parte della dottrina per una
serie di ragioni quali l’assenza della figura del mediatore, la duplicazione dell’istituto dell’accertamento con
adesione e, soprattutto, la condizione di ammissibilità del ricorso e l’irrilevanza ai fini della sospensione della
riscossione.
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Insomma, viene a mancare la terzietà del mediatore rispetto all’oggetto di cui si discute. Tuttavia,
un’altra parte della dottrina ha ritenuto che nel procedimento di mediazione non occorre una figura di
mediatore vero e proprio, poichè l’A.F. opererebbe comunque come soggetto agente per il perseguimento
dell’interesse pubblico alla corretta ed equa riscossione dei tributi. In questo modo, vengono meno i profili di
criticità in merito all’imparzialità dell’Ufficio, che esegue semplicemente una valutazione in veste di
amministrazione che persegue un pubblico interesse. Inoltre, la mediazione presenta delle analogie con
l’accertamento con adesione, tanto da poter essere considerata, per un certo verso, un suo duplicato; ciò
è possibile se si considera questo istituto come uno strumento di tipo amministrativo e non processuale,
sovrapponibile all’accertamento con adesione o all’autotutela.

4. Presentazione di memorie, produzione dei documenti e motivi aggiunti

Le parti possono depositare documenti fino a 20 giorni prima dell’udienza e fino a 10 giorni anteriori
alla trattazione memorie illustrativa. I documenti da produrre in giudizio devono poi essere elencati negli
atti di parte cui sono allegati o, se prodotti separatamente, in un’apposita nota sottoscritta da depositare in
originale e in numero di copie in carta semplice pari a quello delle altre parti. In merito all’integrazione dei
motivi di ricorso, quest’ultima è ammessa entro il termine perentorio di 60 giorni dalla data in cui
l’interessato ha notizia di tale deposito. Se la trattazione della controversia è stata già fissata,
l’interessato, a pena di inammissibilità, deve dichiarare, non oltre la trattazione in Camera di consiglio o la
discussione in pubblica udienza, che intende proporre motivi aggiunti. In tal caso, la trattazione o l’udienza
devono essere rinviata ad un’altra data. Un principio fondamentale del processo tributario è
l’immodificabilità della domanda, infatti, proposto il ricorso, è fatto divieto al contribuente di integrare i
motivi già evidenziati nell’atto introduttivo del giudizio. L’unica eccezione in materia è rappresentata dalla
possibilità, per il ricorrente, di integrazione nel caso in cui tale esigenza sia sorta in relazione al deposito di
documenti non conosciuti, ad opera delle altre parti processuali o per ordine della Commissione. Inoltre,
quest’ultimo principio non può essere derogato per volontà della controparte, in quanto esso trova
fondamento in un’esigenza di ordine pubblico, ossia, la “speditezza del processo tributario”.

5. La trattazione della controversia in Camera di Consiglio o in Pubblica Udienza

L’art. 33 del d.lgs. n° 546/1992, prevede come modalità ordinaria per la trattazione della controversia la
Camera di Consiglio a meno che una delle parti non chieda la discussione in Pubblica Udienza. La scelta
del legislatore si basa su ragioni di economia processuale: è consentito a ciascuna parte chiedere che
la discussione avvenga in Pubblica Udienza mediante un’apposita istanza da depositate nella segreteria e
notificata alle altre parti costituite entro un termine di 10 giorni liberi prima della data fissata per la
trattazione. La Corte Costituzionale ha ammesso la possibilità che l’istanza potesse essere proposta “sin
dal primo scritto difensivo”. Inoltre, la stessa Corte Costituzione ha respinto le questioni di costituzionalità
proposte, in relazione alla norma in oggetto, per la violazione di alcuni principi costituzionali, evidenziando
che la peculiare struttura del processo tributario, concepito dal legislatore come processo essenzialmente
documentale, si concilia bene con la duplicità di riti, in pubblica udienza e in Camera di Consiglio previsti, fra
loro, in rapporto di alternatività. Se l’istanza è proposta correttamente, la trattazione della controversia in
Pubblica Udienza è obbligatoria. Nel caso in cui nonostante la richiesta di Pubblica Udienza, la causa è
trattata col rito camerale, la sentenza emessa è nulla per violazione del diritto di difesa.

6. La decisione della controversia: comunicazione del dispositivo, pubblicazione e


notificazione della sentenza

Lo stesso d.lgs. n° 546/1992, dispone che la sentenza è resa pubblica nel testo integrale originale
mediante deposito nella segreteria della Commissione Tributaria entro 30 giorni dalla deliberazione. Il
segretario fa risultare l’avvenuto deposito apponendo sulla sentenza la propria firma e la data.
La sentenza non pubblicata è giuridicamente inesistente. La comunicazione del dispositivo alle parti
costituite che il segretario della Commissione deve eseguire entro 10 giorni dal deposito, ha un mero valore
informativo, perché non assume rilevanza ai fini della decorrenza dei termini di impugnazione. Il deposito da
parte del giudice rileva ai fini dell’esistenza della sentenza, mentre la certificazione ad opera del
segretario non è necessaria ai fini del suo perfezionamento ed assume solo valore probatorio della data in
cui essa ha avuto luogo.

L’interesse alla notifica della sentenza è il decorso del cd. “termine breve” per l’impugnazione innanzi
alla Commissione Tributaria Regionale. Infatti se, ad esempio, il contribuente perde in primo grado, il
termine per l’appello sarà di 60 giorni dalla suddetta notificazione, o, in assenza di questa, di 6 mesi dalla
data di deposito della sentenza.

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Nel caso in cui l’interesse alla notifica sia in capo al contribuente, questi, ferma restando la possibilità di
avvalersi dell’ufficiale giudiziario, potrà servirsi sia della notifica a mezzo posta, sia della consegna diretta.
Qualora il notificatario sia una delle Agenzie Fiscali o l’Ente Locale, la sentenza potrà essere notificata
per consegna diretta, in questo caso occorrerà il deposito, in segreteria, della ricevuta di consegna e la
notifica potrà avvenire oltre che a mezzo di ufficiale giudiziario, anche mediante messo comunale o messo
autorizzato dall’A.F.

7. Sospensione, interruzione ed estinzione del processo

Il processo si definisce “sospeso”: quando è presentata querela di falso o deve essere decisa, in via
pregiudiziale, una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare
in giudizio. Il processo è sospeso anche in altri casi, come ad es. quando sia rivolta domanda, in via
pregiudiziale, alla Corte di Giustizia per l’interpretazione e/o la validità di una norma comunitaria, al fine di
valutare se la norma interna sia compatibile con quella comunitaria; oppure quando viene eccepita la
costituzionalità di una norma, e quindi in via incidentale, quando il giudice tributario ritenga la questione non
manifestamente infondata e si richiede un giudizio alla Corte Costituzionale.

Il processo è interrotto: quando si verifica il venir meno per morte, per perdita di capacità di stare in
giudizio di una delle parti o del suo legale rappresentante; la morte o sospensione dall’albo o dall’elenco di
uno dei difensori incaricati. L’interruzione si ha al momento dell’evento, se la parte sta personalmente in
giudizio, o nei casi sopraindicati. In ogni altro caso, l’interruzione si ha al momento in cui l’evento è dichiarato
o in pubblica udienza o per iscritto con apposita comunicazione del difensore della parte a cui l’evento si
riferisce. Se uno degli eventi si verifica durante il termine per la proposizione del ricorso, il termine viene
prorogato di 6 mesi a decorrere dalla dalla data dell’evento.

*Durante la sospensione e l’interruzione non possono essere compiuti atti del processo.*

I termini in corso sono interrotti e ricominciano a decorrere dalla presentazione dell’istanza di trattazione.
Anche il processo tributario deve essere ripreso su istanza delle parti nel termine di 6 mesi. Esso può
estinguersi per rinuncia al ricorso, per inattività delle parti e per cessazione della materia del contendere. La
rinuncia deve essere sottoscritta dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale e comporta il
rimborso delle spese alle altre parti. La rinuncia acquista efficacia quando viene accettata dalla controparte
in giudizio che possa avere interesse alla prosecuzione del giudizio stesso. L’inattività delle parti si ha
quando esse non si attivano per porre in essere gli atti del processo. La cessazione della materia del
contendere, invece, si ha nei casi in cui si estingue la causa che ha instaurato la controversia tra le parti.

8. La sospensione dell’atto impugnato e della sentenza

L’istanza di sospensione è un atto incidentale, disciplinato dal d.lgs. n° 546/1992, che può essere
formulato solo nel caso in cui si sia instaurato il processo principale sull’atto impugnato. Questa istanza può
essere proposta nel ricorso introduttivo, in appello o con atto separato da notificare alle parti. Con tale
domanda il contribuente chiede alla Commissione Tributaria Provinciale di sospendere l’esecuzione
dell’atto impugnato in considerazione della sussistenza di due presupposti:

• Fumus boni iuris: ossia la probabile fondatezza del ricorso.


• Periculum in mora: ossia il pericolo che nelle more del processo si verifichi un danno grave ed
irreparabile

La decisione in merito alla domanda cautelare spetta alla Commissione adita, ma in casi di
“eccezionale” urgenza il Presidente, con decreto, può disporre la provvisoria sospensione
dell’esecuzione fino alla pronuncia del Collegio. Il Collegio decide in Camera di Consiglio e provvede con
ordinanza motivata non impugnabile. La sospensione può anche essere parziale e subordinata alla
prestazione di garanzia mediante cauzione o fideiussione bancaria o assicurativa. I suoi effetti cessano con
la pubblicazione della sentenza di primo grado. Di recente, con il d.lgs. n° 156/2015, che ha parzialmente
riformato il processo tributario, si è prevista l’estensione della tutela cautelare a tutte le fasi del
processo prevedendo la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione delle sentenze anche in
Appello e in Cassazione. Il contribuente, infatti, può avanzare la richiesta della sospensione se
dall’esecuzione della sentenza può derivargli un danno grave ed irreparabile.

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DIRITTO TRIBUTARIO ALESSIA SCHETTINI

9. La conciliazione giudiziale

La conciliazione giudiziale è uno strumento deflattivo del contenzioso, il quale presuppone che il
giudizio sia iniziato, ossia che già sia stato presentato un ricorso. Durante la fase di pendenza di
giudizio può accadere che l’A.F. ed il contribuente (anche alla scadenza del tempo procedimentale dei 90
giorni per accertamento con adesione/mediazione), si incontrino prima dell’udienza di trattazione (non già
della prima udienza, ma della generica successiva udienza) e trovino un accordo.

Il d.lgs. n. 156/2015, ha modificato la disciplina ed ha esteso l’ambito di applicazione della


conciliazione giudiziale, prevedendo la possibilità di ricorrervi anche in secondo grado di giudizio (in
appello).

Il legislatore stabilisce un ammontare diverso delle sanzioni amministrative dovute a seguito della
conciliazione, distinguendo il primo dal secondo grado di giudizio:

- Se il perfezionamento della conciliazione avviene nel corso del primo grado di giudizio, vi sarà una
riduzione delle sanzioni pari al 40%.

- Se il perfezionamento della conciliazione avviene nel corso del secondo grado di giudizio, vi sarà
una riduzione delle sanzioni pari al 50%.

È prevista, ex artt. 48 e 48-bis d.lgs. n° 546/1992, la possibilità di conciliare sia in sede processuale
che extraprocessuale (prima dell’udienza). In dettaglio:

- Il processo conciliativo "fuori udienza”: In questo caso l’accordo si raggiunge prima dell’udienza,
appunto “fuori” dall’udienza. Insomma, le parti sottoscrivono un accordo conciliativo, lo presentano in
udienza (se l’udienza è già stata fissata) e, in tale sede, il Presidente dichiara la cessazione della materia
del contendere (che costituirà la “fine” della lite). Entro 20 giorni, il contribuente o l’AF (a seconda della
causa del ricorso) dovrà versare quanto “pattuito” in sede conciliativa (per intero, oppure nella parte
relativa alla prima rata). Il perfezionamento ha avviene già tramite versamento, ma con la sottoscrizione
dell’accordo (che costituisce, per il contribuente, valido titolo per il rimborso; per l’A.F., valido titolo per la
riscossione).

- Il processo conciliativo “in udienza”: in questo caso, ciascuna delle parti costituite può proporre alla
controparte, fino a 10 giorni prima dell’udienza, la conciliazione totale o parziale della controversia,
mediante l’istanza prevista per la sua, eventuale, trattazione

Quando in udienza si raggiunge l’accordo, viene redatto un processo verbale che chiude il giudizio e
costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute. Qualora una delle parti abbia proposto l’accordo e
questo non riesce a raggiungersi nel corso della prima udienza, la commissione può rinviare ad una
successiva udienza la causa per il perfezionamento dell’accordo.

Per quanto concerne la portata dell’esame che il Presidente della Commissione o il Collegio effettuano
sull’accordo conciliativo, si ritiene che si sia in presenza di un controllo di mera legittimità, teso alla
verifica del rispetto dei termini, della competenza e del contenuto obbligatorio della proposta. Infatti, il
giudice limita il suo controllo alla cornice di legittimità, effettuando sostanzialmente un esame di correttezza
di una operazione logico giuridica, non essendo egli tenuto a sindacare sui termini dell’accordo sottoscritto
dalle parti, né a pronunciarsi sull’opportunità dell’accordo stesso.

Il perfezionamento della conciliazione, si verifica con la sottoscrizione dell’accordo ed è recepito in un


apposito processo verbale nel quale risultano indicate le somme dovute per imposte, sanzioni e interessi;
detto processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute, in un’unica soluzione o in
forma rateale, a decorrere, rispettivamente, dalla data di redazione del processo verbale in caso di
conciliazione in udienza, oppure dalla data di comunicazione del decreto di estinzione del giudizio nell’ipotesi
di conciliazione fuori udienza.

Il processo si estingue con una sentenza declaratoria della cessata materia del contendere. In merito
alla natura dell’istituto conciliativo, secondo la Cassazione, la conciliazione è una forma di composizione
negoziale della lite tributaria nella sede del processo, dunque si tratterebbe di un vero e proprio accordo
avente natura novativa rispetto alla pretesa originaria.

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LE IMPUGNAZIONI (PARTE VI)

1. Premessa

I mezzi d’impugnazione esperibili nel processo tributario sono: l’appello alla Commissione Tributaria
Regionale contro le sentenze della Commissione Tributaria Provinciale; il ricorso per Cassazione contro le
sentenze della Commissione Tributaria Regionale; la Revocazione (contro le sentenze di I e II grado). Non
sono proponibili né l’opposizione di terzo, né il regolamento di competenza. Si considerano mezzi di
impugnazione “ordinaria”: l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione ordinaria. Le sentenze
passano in giudicato quando non possono più essere impugnate con tali mezzi. Costituisce, invece, mezzo
di impugnazione “straordinaria”: la revocazione proponibile contro le sentenze passate in giudicato.

2. L’appello

Per il deposito in Commissione tributaria, sia del ricorso introduttivo del giudizio sia del ricorso in appello,
valgono le stesse regole previste dall’art. 22, commi 1, 2 e 3 del d.lgs. n. 546/1992, ossia:

- Consegna diretta o spedizione a mezzo del servizio postale


- Attestazione di conformità, da parte del ricorrente, dell’atto depositato a quello consegnato o spedito.
- Inammissibilità del ricorso rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

Costituisce causa d’inammissibilità non la mancata attestazione, da parte dell’appellante, della conformità
tra il documento depositato e il documento notificato, ma solo la loro “effettiva” difformità.

In caso di contumacia del resistente o dell’appellato si è evidenziato che: “qualora l’appellato sia
rimasto contumace, venendo a mancare in radice la possibilità di riscontrare e denunciare la difformità, si
impone la declaratoria dell’inammissibilità dell’appello, in quanto, in caso contrario, la prescritta formalità
risulterebbe priva di qualsiasi reale funzione”.

L’atto di appello deve essere proposto nel termine di 60 giorni dalla notificazione della sentenza di primo
grado. In mancanza di notificazione si considera il termine lungo così come modificato dall’art. 327 c.p.c.
(6 mesi dal deposito della sentenza con esclusione dei giorni dal 1° agosto al 31 agosto). L’art. 61 del d.lgs.
n° 546/1992 prevede che nel procedimento di appello si osservano le norme dettate per il primo grado.
L’atto deve contenere, a pena di inammissibilità: l’indicazione del giudice adito, dell’appellante e delle parti
nei cui confronti l’appello è proposto, gli estremi della sentenza impugnata, l’espropriazione dei fatti, l’oggetto
della domanda ed i motivi specifici dell’impugnazione, nonché recare la sottoscrizione del difensore o della
parte, sia nell’originale che nelle copie.

L’appello è un mezzo di impugnazione a “critica libera” (nel senso che la legge non lo riconduce a motivi
predeterminati) ed a carattere tendenzialmente sostitutivo, poichè il giudice di appello possiede poteri
tendenzialmente uguali a quelli del primo giudice, giungendo, di regola, ad una pronuncia che sostituisce in
tutto o in parte quella impugnata. Ai sensi dell’art. 58 del d.lgs. n. 546/1992 “il giudice d’appello non può
disporre di nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di
non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile”. Pertanto, il
giudice può consentire l’introduzione di nuove prove, sia nel caso in cui tali prove siano ritenute necessarie
ai fini della decisione, che nel caso in cui la parte dimostri che la mancata produzione nel primo grado sia
dipesa da causa a lei non imputabile. È anche riconosciuta alle parti la facoltà di produrre nuovi documenti.
Di conseguenza è condivisibile l’impostazione in base alla quale il giudizio di appello costituisce un
“nuovo giudizio”. Tuttavia, la facoltà di produrre nuovi documenti non può eludere il divieto di ampliamento
dell’oggetto della decisione, che fissa il divieto di produrre nuove domande e nuove eccezioni che non siano
rilevabili d’ufficio in grado di appello pena l’inammissibilità.

In ordine ai capi che hanno formato oggetto di impugnazione si determina l’effetto devolutivo in base al
quale le deduzioni ed i materiali acquisiti in primo grado passano automaticamente all’attenzione del
secondo giudice.

Le decisioni d’appello possono avere un contenuto soltanto processuale (decisione di inammissibilità


dell’appello, di remissione al primo giudice, di estinzione del giudizio di appello) o di merito (dette decisioni
sostituiscono quelle di primo grado sia nel caso in cui accolgono l’appello sia nel caso respingono l’appello).

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Il giudice d’appello deve rimette la causa al primo giudice nei casi tassativamente previsti dall’art. 59
del d.lgs. n° 546/1992, ossia, quando:

- Dichiara la competenza declinata o la giurisdizione negata dal primo giudice.


- Quando nel giudizio di primo grado il contraddittorio non è stato regolarmente costituito o integrato.
- Quando la sentenza impugnata ha erroneamente dichiarato estinto il processo in sede di reclamo contro il
provvedimento presidenziale.

- Quando il collegio della commissione tributaria provinciale non era legittimamente composto.
- Quando manca la sottoscrizione della sentenza di primo grado.

3. Il ricorso in Cassazione

Le Sentenze della Commissioni Tributarie Regionali sono impugnabili dinanzi alla Corte di
Cassazione. In base all’art. 62 del d.lgs. n° 546/92, al ricorso per Cassazione avverso le sentenze della
Commissione Tributaria Regionale e al relativo procedimento “si applicano le norme dettate dal codice di
procedura civile in quanto compatibili con il d.lgs. 546/1992”.

• Motivi per il ricorso alla Cassazione: il ricorso per Cassazione è proponibile per i motivi di cui all’art.
360 c.p.c.: a) motivi attinenti alla giurisdizione, b) per violazione delle norme sulla competenza, c) per
violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, d)
per nullità della sentenza o del procedimento, e) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione tra le parti. Inoltre, l’art. 360 bis c.p.c. prevede due motivi di
inammissibilità del ricorso: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in
modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o
mutare l’orientamento della stessa; 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla
violazione dei principi regolatori del giusto processo.

• Procedimento: il termine per proporre ricorso in Cassazione è quello breve di 60 gg. dalla notificazione
della sentenza della Commissione tributaria regionale. Se la sentenza non è notificata vale il termine
lungo di 6 mesi dal deposito della stessa. Il ricorso per Cassazione deve essere sottoscritto, a pena di
inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo munito di procura speciale (cassazionista). Nel
caso in cui viene accolto il ricorso, il giudizio di Cassazione si conclude con una sentenza che annulla la
sentenza impugnata senza rinvio o con rinvio; il rinvio si opera generalmente dinanzi alla Commissione
tributaria regionale, in alcuni casi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale.

La Cassazione si può pronunciare eccezionalmente sul merito, ma solo nel caso in cui siano necessari
ulteriori accertamenti di fatto. La riassunzione del giudizio tributario di merito deve avvenire “entro il
termine perentorio di 1 anno dalla pubblicazione della sentenza” della Suprema Corte che ha cassato la
sentenza, rinviando la causa al giudice di primo o di secondo grado; se la riassunzione non avviene entro il
predetto termine o si avvera successivamente a essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, “l’intero
processo si estingue”.

Sul punto è opportuno considerare che la mancata riassunzione dopo l’intervento di una sentenza di
Cassazione con rinvio, fa sì che l’atto impositivo originariamente impugnato diviene definitivo, legittimando
l’iscrizione a ruolo di imposte, sanzioni ed interessi. Nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa
posizione processuale che avevano nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza cassata e non
possono formulare richieste diverse da quelle prese in tale procedimento, salvi gli adeguamenti di cui alla
sentenza di Cassazione.

4. La revocazione

A differenza dell’appello, impugnazione a carattere generale e a critica libera, la revocazione è un


impugnazione limitata, a critica vincolata, proponibile solo in ordine ai motivi tassativamente indicati dalla
legge non suscettibili di integrazione analogica.

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La revocazione delle sentenze delle Commissioni Tributarie è possibile:

• Per motivi di revocazione ordinaria: si tratta di motivi palesi intrinseci alla sentenza (errore di fatto e
contrasto con il precedente giudicato); il termine per farli valere è quello ordinario di 60 gg. dalla
notificazione della sentenza o di 6 mesi dal deposito della sentenza in caso di mancata notificazione della
stessa.

• Per motivi di revocazione straordinaria: trattasi di motivi occulti esteriori alla sentenza (costituiti dal
dolo della parte, falsità della prova, ritrovamento di documenti decisivi, dolo del giudice) che possono
essere scoperti dalla parte interessata anche più in là nel tempo: il termine per proporre l’impugnazione
decorre dal momento in cui la parte è venuta a conoscenza del motivo legittimante.

È importante sottolineare che fra motivo legittimante e decisione impugnata deve sussistere un nesso di
causalità. Nel momento in cui si accerta l’esistenza del motivo di revocazione il giudice dichiarerà la
revocazione della sentenza impugnata, sostituendola con un’altra di diverso contenuto solo nel caso in cui il
motivo abbia avuto un’incidenza causalmente rilevante sul contenuto della stessa.

Sono soggette a revocazione:

- Le sentenze della Commissioni Tributarie Provinciali passate in giudicato, limitatamente alla revocazione
straordinaria; se non sono passate in giudicato è sempre esperibile l’appello;

- Le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionali sia per revocazione ordinaria che straordinaria;
- Le sentenze della Corte di Cassazione in caso di errore di fatto.
Il ricorso di revocazione, a pena di inammissibilità, deve contenere gli stessi elementi del ricorso in appello
e la specifica indicazione del motivo di revocazione. Allo svolgimento del processo in esame si applicano le
regole dettate per il procedimento dinanzi alla commissione adita. Inoltre, la decisione pronunciata dal
giudice della revocazione è soggetta ai mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la
sentenza impugnata.

L’ESECUZIONE DELLE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE (PARTE VII)

1. Il pagamento del tributo e delle sanzioni pecuniarie in pendenza del giudizio

L’art. 68 del d.lgs. 546 del 1992 disciplina il “pagamento frazionato” in pendenza del processo; pertanto,
anche per quanto previsto dalle singole leggi d’imposta, nei casi in cui è prevista la riscossione
frazionata del tributo oggetto del giudizio dinanzi alle commissioni, il tributo, con i relativi interessi
previsti dalle leggi fiscali, deve essere pagato:

- Per i due terzi, dopo la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale che respinge il ricorso;
- Per l’ammontare risultante dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale e comunque non oltre
i due terzi, se la stessa accoglie parzialmente il ricorso;

- Per il residuo ammontare determinato nella sentenza della Commissione Tributaria Regionale.
La riscossione frazionata è sempre stata intesa come strumento di temperamento della normale
esecutorietà dei provvedimenti amministrativi, in funzione cautelare delle ragioni sia del contribuente che
della P.A..

Se il ricorso viene accolto, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla Sentenza
della Commissione Tributaria Provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere
rimborsato d’ufficio entro 90 gg. dalla notificazione della sentenza. Per dare esecuzione ai provvedimenti
giudiziari non occorre attendere la notifica della sentenza favorevole al contribuente, le somme devono
essere restituite entro 90 gg. dalla comunicazione del dispositivo della sentenza da parte della segreteria
della Commissione Tributaria all’Ufficio.

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2. La condanna dell’Ufficio al rimborso

L’art. 69 del d.lgs. 546/1992 sancisce che: “Se la Commissione condanna l’Ufficio del Ministero delle
Finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione al pagamento di somme, comprese le
spese di giudizio, e la relativa sentenza è passata in giudicato, la segreteria ne rilascia copia spedita in
forma esecutiva”. L’art. 69 trova applicazione di giudizi concernenti il diniego espresso o tacito alla
restituzione di tributi e relativi accessori, pagati spontaneamente, ossia non in conseguenza della notifica di
atti autonomamente impugnabili. Detta norma obbliga l’Amministrazione ad effettuare il rimborso soltanto in
esecuzione di sentenze passate in giudicato e rappresenta un passo avanti verso la parità delle parti.
L’Agenzia chiariva che qualora la stessa avesse riconosciuto, in pendenza di causa la spettanza del
rimborso, avrebbe dovuto poi provvedervi sollecitamente, con abbandono del contenzioso in ogni stato e
grado del giudizio anche in assenza di sentenza. Le modifiche apportate dal d.lgs. n° 156/2015 riguardano
l’esecutività delle sentenze in favore dell’Amministrazione, in cui resta il meccanismo della riscossione
frazionata del tributo al fine di garantire una maggior tutela dei contribuenti; per quanto concerne le sentenze
a favore del contribuente, per pagamenti di somme superiori a 10.000 euro, per l’immediata esecutività può
essere richiesta idonea garanzia il cui onere graverà comunque sulla parte che risulterà definitivamente
soccombente in giudizio.

3. Il giudizio di ottemperanza

L’ottemperanza è disciplinata dall’art. 70 del d.lgs. n° 546/1992 e può essere azionata nel caso in cui, a
seguito di un giudicato, l’A.F. non ottemperi all’obbligo di restituzione di somme derivanti da rimborso o da
importi già versati in virtù della riscossione in pendenza di giudizio. Il giudice, anche mediante nomina di un
commissario ad acta, adotta provvedimenti (come, ad es., mandati di pagamento) in luogo
dell’amministrazione inadempiente. Il giudizio di ottemperanza e l’espropriazione forzata sono mezzi a
disposizione del contribuente alternativi e cumulativi; il nuovo giudizio di ottemperanza è strumentale
all’adozione di provvedimenti di merito in luogo dell’amministrazione inadempiente. Lo scopo del
procedimento di ottemperanza è quello di rendere effettivo il comando contenuto nelle sentenze definitive
dei giudici tributari.

Procedimento: Ai sensi dell’art. 70, il ricorso deve essere proposto dopo la scadenza del termine entro il
quale è prescritto dalla legge l’adempimento dell’ufficio del Ministero delle finanze o dell’Ente locale
all’obbligo posto a carico della sentenza. Il pagamento delle somme dovute a seguito di sentenza, deve
essere eseguito entro 90 giorni dalla sua notificazione. Per l’ottemperanza, il contribuente dovrà
necessariamente attendere la scadenza di tale termine prima di procedere. L’art. 70, nel disciplinare la
ripartizione della competenza a giudicare sull’ottemperanza, si ispira a criteri sostanziali e stabilisce che:
“competente a giudicare sull’ottemperanza è la Commissione Tributaria Provinciale, qualora la sentenza sia
passata in giudicato sia da essa pronunciata, in ogni altro caso la competenza è attribuita alla Commissione
Tributaria Regionale”.

I provvedimenti emessi nel giudizio di ottemperanza sono immediatamente esecutivi. Si può, infine,
proporre ricorso in Cassazione per inosservanza delle norme sul procedimento.

4. Il giudicato tributario

Il passaggio in giudicato della sentenza si verifica a seguito del decorso dei termini di impugnazione della
sentenza e determina l’incontestabilità e la definitività della stessa. Il giudicato in senso formale riguarda
sia le sentenze aventi contenuto meramente processuale, sia le sentenze di merito; la cosa giudicata in
senso sostanziale, si riferisce esclusivamente alle sentenze di merito. Bisogna ancora distinguere tra
giudicato interno e giudicato esterno (formatosi in altro processo ma avente implicazioni). Considerando
tale profilo, è di estrema attualità l’interrogativo relativo alla possibilità di estendere il contenuto accertativo in
cui la cosa giudicata si sostanzia oltre i confini del procedimento in esito al quale è stata resa (cd.
Ultrattività del giudicato o rilevanza esterna del giudicato). La giurisprudenza comunitaria pone dei
limiti all’efficacia ultrannuale del giudicato e la Corte di Cassazione ha operato un ridimensionamento
all’efficacia ultra litem del giudicato tributario; alla luce di ciò, la valenza del giudicato esterno in materia
tributaria sarebbe da ricondursi a quella di un mero precedente.

Sotto un’altro profilo, relativo al condizionamento del rito tributario ad opera del giudicato penale,
bisogna considerare che il giudice tributario non può estendere automaticamente gli effetti del giudicato
penale a quello tributario. La ragione della mancata estensione del giudicato penale in ambito tributario
deriva dai differenti regimi probatori dei due processi e dal doppio binario: in particolare, il giudice tributario
non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari ma deve, in ogni
caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare.

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