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ADAM TIZZANO - LINEAMENTI DI DIRITTO DELL'UNIONE


EUROPEA

PARTE PRIMA - L'ORDINAMENTO GIURIDICO DELL'UNIONE EUROPEA

CAP. I - PROFILI GENERALI

Il processo di integrazione europea


Il processo di integrazione tra Stati europei, identificato con l'Unione Europea, si è avviato
con l'entrata in vigore della CECA (1°gennaio 1952), firmata da Belgio, Francia, Germania,
Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. A questa comunità, se ne aggiungeranno altre due nel
1957: CEE e CEEA (o Euratom), firmate dagli stessi paesi. Attraverso queste comunità si
intendeva attuare un disegno unitario, volto a dar vita ad un mercato comune, basato sulla
libera circolazione di persone, merci, servizi, e capitali, ma anche al coordinamento di
politiche comuni, in vari settori: agricoltura, trasporti, commercio, energia nucleare.
L'unitarietà di tale disegno si riflette anche nelle vicende dell'apparato istituzionale cui la
realizzazione era affidata. Originariamente basato su tre strutture separate, ma parallele, è
venuto progressivamente unificandosi nei suoi elementi costitutivi, pur mantenendo le
peculiarità tipiche di ciascuna Comunità.
Costruito formalmente intorno alla prospettiva economico-commerciale, del mercato
comune, il processo d'integrazione prevedeva fin dall'inizio una successiva
caratterizzazione politica.
Come ad esempio nel art. 138 par. 3 del Trattato CEE si prevedeva già il passaggio da un
Parlamento Europeo composto da rappresentanti dei parlamenti nazionali, ad un
Parlamento eletto direttamente dai cittadini degli Stati membri. E sarà proprio il
"nuovo"Parlamento europeo a dare impulso al processo di riforma del sistema, a partire
dal 1986,anno in cui per la prima volta avrà luogo una significativa revisione dei Trattati
originari :semplificazione della presa di decisione del Consiglio con il passaggio
dall'unanimità alla maggioranza qualificata per alcune deliberazioni; inserita la procedura
di cooperazione.
Maggiore incidenza avrà la firma del (TUE) a Maastritcht (1992), che prosegue
l'ampliamento delle competenze delle Comunità e dà luogo ad una profonda mutazione
della struttura avviata nel 1957.
Questa struttura viene collocata all'interno dell'Unione Europea, di cui le Comunità
diventano parte costituente, accanto a due nuovi settori di cooperazione: politica estera e
sicurezza comune (PESC), e giustizia e affari interni (GAI). La struttura originaria risulta
adesso composta da "tre pilastri": Comunità Europee, PESC, GAI.
Con Maastricht il sistema comunitario si rafforza anche nei contenuti. Il suo elemento
centrale, la Comunità economica europea, viene rinominato Comunità europea, e nel
relativo trattato (d'ora in poi TCE), viene inserita la nozione di cittadinanza europea; si
ampliano le competenze della Comunità; vengono modificati alcuni meccanismi di
funzionamento (codecisione con il Parlamento); e viene infine creata, all'interno del TCE,
l'Unione economica e monetaria, in vista del passaggio alla moneta unica.
Questo disegno istituzionale si perfeziona nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, con la
consacrazione nel TUE dei principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti dell'uomo
come valori fondanti dell'Unione; con la prima semplificazione dei Trattati attraverso
l'abrogazione di norme obsolete; parte del terzo pilastro viene "comunitarizzata" (visti,
asilo, immigrazione, cooperazione giudiziaria civile). E' infine prevista la possibilità che
gruppi di Stati membri siano autorizzati dal Consiglio ad avviare tra loro cooperazioni

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rafforzate in determinati settori, esigenza sviluppatasi progressivamente con l'aumento


degli Stati Membri.
Sarà proprio l'aumento degli Stati membri il tema principale dei successivi sviluppi, in
quanto la caduta del muro di Berlino, e la dissoluzione del blocco sovietico, imponevano la
necessità di adattare i meccanismi di funzionamento dell'Unione ad un probabile
incremento massiccio dei membri.
Il "riesame" viene effettuato con il Trattato di Nizza, anche se esso si limita ad intervenire
sulla composizione di alcuni organi, sulla ponderazione del voto in Consiglio,
sull'estensione del voto di questo a maggioranza qualificata, e sull'ambito di applicazione
della codecisione.
La portata assai limitata delle modifiche di Nizza, apre la strada ad una nuova riforma che
preveda una revisione radicale dell'impianto dei Trattati, riconducendo l'intero processo di
integrazione europea ad un solo trattato che si presenti come la carta costituzionale della
costruzione europea.
A Roma nel 2004, viene firmato il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa,
destinato a rimpiazzare integralmente i trattati esistenti.
Mentre però l'unione si appresta a passare a 27 Stati membri, il Trattato Costituzionale,
viene bocciato da referendum negativi in Francia e Paesi Bassi.
Il progetto viene dunque abbandonato, anche se i suoi contenuti saranno la base di
partenza per una nuova Conferenza Intergovernativa del 2007, che porta alla firma di un
nuovo trattato di riforma a Lisbona, che entrerà in vigore, se ratificato da tutti gli Stati
membri, nel 2009.
Il Trattato di riforma porterà a risultati simili a quelli prefissati nel 2004: farà venir meno la
Comunità Europea, trasformando il relativo Trattato istitutivo nel Trattato sul
funzionamento dell'Unione Europea
Architettura e caratteri generali dell'Unione
L'architettura del sistema si basa su tre trattati internazionali principali, che hanno dato vita
rispettivamente a: CE, CEEA, e Unione Europea.
Quest'ultima si presenta come contenitore nel quale le due Comunità sono affiancate da
due forme di cooperazione: PESC e GAI, che si svolgono sulla base di regole, procedure
e strumenti diversi da quelli operanti nelle due Comunità. Ne deriva perciò, che il sistema
giuridico che governa il processo di integrazione europea sia frazionato in più enti giuridici
separati (le due Comunità e l'Unione); articolato in più pilastri, e basato su due metodi di
funzionamento (comunitario e intergovernativo).
In realtà quello creato dai trattati costituisce un sistema che sarebbe difficile non
considerare unitario. In questo sistema unitario, le Comunità Europee vanno considerate
come parti integranti di un unico ente, l'Unione Europea, al cui interno esse, e i due settori
di cooperazione (PESC e GAI) delimitano diversi ambiti materiali di attività, nei quali
l'azione dell'Unione si svolge per mezzo delle stesse istituzioni , ma secondo regole e
criteri di funzionamento differenti, identificati come metodo comunitario e metodo
intergovernativo.

Segue: In particolare l'ordinamento comunitario


Il nucleo principale del sistema dell'Unione è rappresentato dalle Comunità Europee
(pilastro comunitario). Il pilastro comunitario presenta elementi di novità rinvenibili in
alcuni profilo dello stesso: presenza di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da
esercitarsi sia nei confronti degli Stati membri che dei loro cittadini; la partecipazione dei
cittadini al funzionamento della Comunità ed alla formazione delle sue norme attraverso il
Parlamento Europeo; esistenza di una Corte di Giustizia volta ad assicurare l'uniforme
applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali.

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Il sistema creato dalle Comunità Europee è basato sull'attribuzione alle istituzioni


comunitarie di competenze su settori rilevanti della vita nazionale, ma a differenza di
quanto avviene generalmente nel quadro della cooperazione giuridica internazionale, gli
atti normativi comunitari, raggiungono i soggetti interni agli Stati senza bisogno
dell'intermediazione del diritto nazionale.
Un'altra caratteristica fondamentale di questo diritto,in un certo senso riflesso dell'efficacia
diretta, consiste nella supremazia delle sue norme su quelle dei diritti nazionali: la norma
statale contrastante cede, e non può essere applicata dai giudici nazionali.
In un quadro di questo genere, il privato non è destinatario "materiale" di norme prodotte
all'esterno dello Stato, ma soggetto a pieno titolo dell'ordinamento cui quelle norme
appartengono.
In quanto cittadino dell'Unione, infatti, l'individuo partecipa alla formazione del diritto
comunitario attraverso il Parlamento europeo, ma anche in prima persona , poiché grazia
all'efficacia diretta, egli può far valere dinanzi ai giudici nazionali le norme di quel diritto;
allo stesso tempo ha accesso diretto ai meccanismi giurisdizionali previsti dai Trattati
quando i suoi diritti siano lesi dalle istituzioni comunitarie.

Il sistema delle competenze dell'Unione: il principio delle competenze di


attribuzione
Il sistema giuridico creato dai Trattati, è basato sull'attribuzione alle istituzioni dell'Unione
della competenza ad agire, in una serie di materie (e non solo quelle).
L'Unione Europea non dispone di competenza generale, infatti l'art. 5 comma 1
CE,prevede che "la Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e
degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato".
Tale principio, detto "principio delle competenze di attribuzione", comporta che la
legittimità di un azione delle istituzioni comunitarie, va sempre verificata nel quadro delle
competenze che gli Stati hanno attribuito alle stesse istituzioni.
Le competenze effettivamente attribuite all'Unione si ricavano dall'analisi delle disposizioni
dei Trattati, in particolare di quelle che prevedono un'azione delle istituzioni, ovvero la
possibilità delle stesse di regolamentare una certa materia. Rimane comunque operazione
non agevole, almeno per quanto riguarda il TUE, all'interno del quale le competenze delle
istituzioni si legano ad ambiti di cooperazione molto vasti: nel secondo pilastro (PESC), a
causa della "generalità" della sua finalità, risulta difficile delimitare l'azione dell'Unione; nel
terzo pilastro invece, ad una maggiore concretezza dei settori di cooperazione previsti,
non si accompagna una delimitazione precisa degli oggetti possibili di tale cooperazione.
In un certo senso può dirsi anche per il TCE, in quanto le varie competenze della
Comunità sono delineate sulla base di criteri diversi e non sempre omogenei.
Per temperare la rigidità del principio delle competenze di attribuzione, la Corte di Giustizia
ha tradizionalmente privilegiato interpretazioni delle norme rilevanti ampliano la portata di
quelle competenze.
Andando al di là di una interpretazione estensiva del Trattato, ha anche affermato il
principio secondo cui, quando una disposizione affida alla Comunità un compito preciso,
si deve ammettere che essa le attribuisca i poteri indispensabili per svolgere questo
compito.

Segue: La clausola di flessibilità


L'art. 308 del TCE, cosiddetta clausola di flessibilità, opera una vistosa deroga al principio
delle competenze di attribuzione, in quanto consente un'azione della Comunità anche al di
fuori di un'attribuzione specifica , "quando tale azione risulti necessaria per raggiungere
uno degli scopi della Comunità, senza che il Trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal

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uopo richiesti, il Consiglio deliberando all'unanimità su proposta della Commissione, e


dopo aver consultato il Parlamento Europeo, prende le disposizioni del caso".
La Corte di Giustizia ha posto come condizione indispensabile, per ricorrere all'art. 308,
che "nessuna altra disposizione del Trattato attribuisca alle istituzioni comunitarie, la
competenza necessaria per l'emanazione dell'atto stesso."
Non esiste una disposizione analoga nel TUE, anche se potrebbe ritenersi parzialmente
utilizzabile l'art. 6 par. 4 "l'Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi
e per portare a compimento le sue politiche".
Un limite intrinseco al ricorso all'art 308, individuato dalla giurisprudenza comunitaria, sta
nel fatto che questo articolo non può essere utilizzato quale base per l'adozione di
disposizioni che condurrebbero sostanzialmente a una modifica del trattato che sfugga alla
procedura prevista dal Trattato stesso.
Negli ultimi anni, il pregiudizio negativo da parte di alcuni Stati membri, e l'incremento
significativo delle materie di esplicita competenza della Comunità hanno tolto gran parte
dell'operatività teorica dell'art. 308.

Segue: Competenze esclusive e competenze concorrenti e parallele


La circostanza che in una determinata materia sussista la competenza delle istituzioni
comunitarie non significa di per sé che tale competenza diventi esclusiva, e non sia più
utilizzabile dagli Stati membri.
Per quanto riguarda il TUE, gli Stati membri saranno comunque liberi di agire o legiferare
in una determinata materia, a condizione che la loro condotta o le misure adottate non
siano contrarie agli obblighi imposti dall'Unione. Nel quadro del TCE invece, l'art. 5 comma
2 prospetta l'esistenza di settori di competenza esclusiva della Comunità, e di settori che
non sono di sua esclusiva competenza. Indicazione generica, in quanto nel Trattato non vi
sono al momento competenze esplicitamente qualificate come esclusive.
La Corte di Giustizia, seppur senza indicare i criteri e gli elementi di base di tale scelta, ha
riconosciuto carattere di esclusività a talune competenze previste dal TCE: politica
commerciale, conservazione delle risorse biologiche marine, conclusione di accordi con
Stati terzi (quando il contenuto sia già oggetto sul piano interno di norme comunitarie), ma
anche tutte le altre competenze relative a politiche comuni, come quella monetaria.
Fatta eccezione per quelle che si presentano come esclusive, anche nel TCE l'esistenza di
una competenza delle istituzioni non fa venire meno la corrispondente competenza degli
Stati membri. In questo caso, quando la competenza viene ad essere esercitata dai due
soggetti, senza interferenze sul piano formale, l'azione comunitaria si presenta come
"parallela" a quella degli Stati, dovendo le due azioni soltanto integrarsi; l'esercizio da
parte delle istituzioni comunitarie della propria competenza non determina un limite
formale alla libertà degli Stati.

Quando invece la competenza della Comunità è destinata ad intervenire nello spazio


normativo proprio di quella corrispondente degli Stati membri, la competenza di questi
ultimi si presenta come "concorrente" con quella comunitaria; essa incontra un limite di
contenuto: un'azione statale diventa "ammissibile solo in quanto non pregiudichi l'uniforme
applicazione delle norme comunitarie e il pieno effetto dei provvedimenti adottati in
applicazione delle stesse".
Tale limite è indicato dal trattato per i settori in cui prevede che l'armonizzazione delle
legislazioni nazionali debba limitarsi alla regolamentazione minima di un determinato
settore, in genere però la fissazione del limite alla competenza degli Stati è lasciato alla
volontà delle stesse istituzioni.

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Segue: il principio di sussidiarietà


L'espansione data al quadro delle competenze dell'Unione ha avuto come contrappeso, la
sottoposizione dell'esercizio della gran parte di queste al c.d. "Principio di sussidiarietà".
L'art. 2 del TUE stabilisce che gli obiettivi dell'Unione saranno perseguiti nel rispetto del
principio di sussidiarietà definito all'art. 5 : "la Comunità interviene soltanto se e nella
misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri, e possono dunque essere realizzati meglio a livello
comunitario". L'applicazione di tale principio è limitata ai settori che non risultano di
competenza esclusiva della Comunità. L'eventuale decisione di non procedere
all'adozione di un atto dell'Unione in ragione del principio di sussidiarietà, non preclude il
successivo esercizio della sua competenza da parte dell'Unione, laddove mutate
circostanze lo giustifichino alla luce dello stesso principio. La sussidiarietà va vista come
concetto dinamico.
Il Protocollo 30, allegato al TCE, si occupa dell'applicazione dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità.
Richiede che, prima della formulazione di ogni proposta di atto dell'Unione , vi sia una sua
valutazione specifica alla luce del principio della sussidiarietà.
L'ambito di applicazione del Protocollo, al momento circoscritto al TCE, con il Trattato di
Riforma verrà estesa a tutta l'attività legislativa dell'Unione.

CAP. II - IL SISTEMA ISTITUZIONALE


Il quadro istituzionale unico
In base all'art. 3 UE, pur se fondate su trattati istitutivi formalmente distinti, l'Unione e le
Comunità, dispongono di un quadro istituzionale unico, che assicura coerenza e continuità
delle azioni svolte.
Di questo quadro istituzionale fanno parte, in primo luogo le istituzione elencate all'art. 7
CE: Parlamento Europeo, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia e Corte dei Conti;
ma anche il Consiglio Europeo ne è certamente parte, soprattutto alla luce della
formulazione dell'art. 3 UE, che legittima un'accezione che ricomprenda anche tutte le
istituzioni e gli organismi operanti nell'ambito dell'Unione o della Comunità.
Resta fermo però che ciascuna componente esercita le sue funzioni nel quadro del e in
relazione al Trattato dalle cui norme è prevista; ad esclusione di pochi casi, tutte queste
istituzioni agiscono di volta in volta nel quadro o del TUE o dei Trattati comunitari, anche
se ovviamente tutto ciò finirà con il Trattato di Riforma.

Nozione di istituzione e funzionamento del sistema


Nel sistema istituzionale dell'Unione la nozione di istituzione è riservata alle sole elencate
nel par. 1 art.7 CE : Parlamento, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia e Corte dei
Conti.
Dal possesso della qualità di "istituzione" discende, oltre ad una certa autonomia
finanziaria e di gestione del personale, l'applicabilità delle norme dei Trattati che
genericamente si riferiscono alle istituzioni, ma al contrario la mancanza di quella qualità
non esclude necessariamente che una data norma dei Trattati non si applichi anche ad
organismi diversi dalle istituzioni.
La valutazione di applicabilità va fatta caso per caso, e la Corte di Giustizia conferma
questa conclusione, escludendo l'applicabilità di una di quelle norme quando ciò possa
portare ad attribuire prerogative ulteriori ad un organo non elencato nell'art. 7 par. 1
Nel quadro delle rispettive attribuzioni, ciascuna istituzione gode di un potere di
autorganizzazione, che le altre istituzioni e gli Stati membri devono rispettare. L'autonomia
però, incontra un limite nel rispetto dell'equilibrio istituzionale, e delle norme dei Trattati.

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La Corte di Giustizia ha anche desunto dal dovere di cooperazione con le istituzioni


dell'Unione imposto agli Stati membri dall'art 10 CE, un corrispondente obbligo di leale
cooperazione tra le istituzioni; tale obbligo giustifica la conclusione tra le istituzioni di
accordi interistituzionali destinati a disciplinare formalmente aspetti delle reciproche
relazioni.

Caratteristiche generali del sistema istituzionale


L'apparato organico sulla cui base agisce l'Unione è organizzato quasi totalmente intorno
al ruolo dell'istituzione composta dai Governi, il Consiglio, l'unica tra quelle elencate all'art.
5, ad avere competenza rispetto a tutti i settori del TUE; le altre istituzioni hanno invece un
ruolo più limitato.
A fronte di ciò, l'apparato organico della Comunità si presenta assai complesso; al suo
interno si riflettono varie forme d rappresentanza, nonché la pluralità delle funzioni proprie
del sistema comunitario.
Per quanto riguarda la rappresentanza è da notare che la composizione intergovernativa
rappresenta l'eccezione, presente solo nel Consiglio, in quanto gli altri organi comunitari,
sebbene quasi tutti nominati dai governi, sono caratterizzati da una composizione
formalmente indipendente, i cui membri non rappresentano il governo che li ha nominati,
ma fanno parte dell'organo a titolo personale.
La composizione di questi organi assume forme diverse, espressione di differenti
rappresentatività.
Il sistema comunitario affianca ad organi, quali la Commissione o la Corte di Giustizia, la
cui indipendenza dagli Stati è messa unicamente a servizio dell'interesse dell' ente-
Comunità, altri organi, per i quali l'indipendenza è funzionale al fatto di esprimere a livello
della Comunità interessi e istanze diversi da quelli governativi.
Gli elementi peculiari sono:
il fatto che attraverso questi organi, interessi e istanze godono nel sistema comunitario di
una rappresentanza diretta e non mediata attraverso il canale governativo.
che il compito di tali organi non si esaurisce nella rappresentanza di tali interessi, ma essi
contribuiscono al funzionamento del sistema, arrivando talvolta ad assolvere a tale livello,
funzioni analoghe a quelle proprie, sul piano nazionale, delle istanze da essi
rappresentate.
La varietà di competenze e poteri assegnati alla Comunità, si è riflessa in una crescente
complessità del suo sistema istituzionale.
Il potere normativo, non è riservato all'organo intergovernativo, ma è in buona parte
condiviso da Consiglio e Parlamento Europeo, nel triangolo istituzionale in cui essenziale
è il ruolo della Commissione.
Analogamente avviene per il potere esecutivo, esercitato tanto dal Consiglio che dalla
Commissione.
La funzione giurisdizionale infine, inizialmente nelle mani di un solo organo giurisdizionale,
risulta oggi organizzata su più gradi di giurisdizione: Corte di Giustizia, Tribunale di primo
grado, ed ora anche la possibilità di creare tribunali speciali per taluni ricorsi in materie
specifiche.
Una ancor maggiore articolazione di poteri si trova quando si passa dal piano generale a
taluni settori specifici di competenza della Comunità.

Il Consiglio Europeo
L'art. 4 UE prevede che il Consiglio Europeo dà all'Unione l'impulso necessario al suo
sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici, riunisce i capi di Stato e di governo degli
Stati membri, nonché il presidente della Commissione, si riunisce almeno due volte

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all'anno sotto la presidenza del capo di Stato o di governo dello Stato membro che
esercita la presidenza del Consiglio.
Sebbene molto simile al Consiglio, la sua previsione e quella riguardo alla sua presidenza
indicano la non identità tra i due organi, anche se essi potrebbero coincidere per
composizione, e lo fanno per alcune decisioni per cui è imposto il "Consiglio riunito nella
composizione dei capi di Stato o di governo".
Però nella veste di Consiglio dell'Unione, l'assise dei capi di Stato e di governo ha
competenze delimitate e procedure prefissate, invece nella veste di Consiglio europeo, i
capi di Stato o di governo operano al di fuori di queste regole di forma e procedura e le
loro deliberazioni sfuggono al sindacato giurisdizionale.
La differenza tra le due istituzioni verrà confermata dal Trattato di riforma, in base al quale
il Consiglio Europeo sostituirà il Consiglio , tutte le volte che quest'ultimo è previsto che
debba oggi riunirsi a livello di capi di Stato e di governo. Ulteriormente la presidenza del
Consiglio Europeo non spetterà più al capo di Stato o di governo dello Stato membro cui
spetta per rotazione semestrale la presidenza del Consiglio, ma sarà elettiva, da parte
dello stesso Consiglio Europeo. (mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta). Per
quanto riguarda il Consiglio Europeo, in virtù del carattere essenzialmente politico delle
sue funzioni, non è prevista una modalità di voto per la formazione della volontà di tale
organo: le sue deliberazioni sono di regola prese per consensus, sono cioè raggiunte
quando non vi siano obiezioni da parte nessun componente dell'organo, anche se con il
Trattato di riforma, limitatamente all'adozione di atti formali, ad esso verranno estese le
regole di voto valide per il Consiglio.

Le istituzioni politiche: a) il Consiglio


Il Consiglio dell'Unione è la riunione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri.
Concentra una serie di ruoli e funzioni che lo caratterizzano come titolare del potere
legislativo ed esecutivo. In quanto unico organo rappresentativo del canale governativo,
attraverso esso passano tutte le decisioni su cui ruota l'azione dell'Unione; e anche se
altre istituzioni lo affiancano talvolta nelle decisioni, rimane comunque il protagonista
principale.
E' compito suo fornire all'Unione indirizzi politici e orientamenti generali, prendere le
principali decisioni istituzionali, dirigere l'attività legislativa, coordinare le politiche
economiche generali degli Stati membri, concludere gli accordi internazionali dell'Unione,
di cui detiene l'effettiva titolarità del potere estero.
Il Consiglio è formato da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello
ministeriale, abilitato ad impegnare il proprio governo, ma vede modificarsi la sua
composizione a seconda degli argomenti all'ordine del giorno. E' invalso l'uso di
denominazioni conseguenti che richiamano le diverse formazioni (Consiglio Giustizia,
Agricoltura), anche se rimane ferma l'unicità del Consiglio in quanto istituzione. La scelta
del rappresentante da inviare è rimessa al singolo Stato membro, purché abbia livello
ministeriale (ministri, sottosegretari).
A parte questa articolazione orizzontale, ce n'è anche una verticale:
gruppi di lavoro, composti da funzionari degli Stati membri, ad essi è affidato l esame
tecnico dei singoli dossier. Comitato dei Rappresentanti permanenti (COREPER),
perfezionano la preparazione delle deliberazioni e la valutazione politica dei nodi ancora
aperti. Consiglio a livello dei ministri, prende la deliberazione finale.
Il Consiglio, nelle sue varie formazioni, è presieduto a turno da ciascuno Stato membro,
con rotazione semestrale.
E' inoltre assistito da un apparato amministrativo (Segretariato Generale), al cui vertice
stanno Segretario e Vicesegretario generale, entrambi nominati a maggioranza qualificata
dallo stesso Consiglio.
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Se non è prevista una modalità di voto diversa, il Consiglio delibera con maggioranza
semplice dei suoi membri nel quadro della Comunità, ed all'unanimità nel quadro
dell'Unione.
Anche se per quanto riguarda la Comunità, il Trattato stabilisce nella maggior parte dei
casi quale procedura debba essere seguita: generalmente maggioranza qualificata, e
l'unanimità per le decisioni più importanti. Nell'ambito dell'Unione invece, è l'unanimità la
regola generale, con la maggioranza qualificata espressamente prevista solo per le
decisioni minori.
Di solito l'astensione di un rappresentante non rende inapplicabile l'atto allo Stato
dell'astenuto,tranne quando il Consiglio delibera all'unanimità nell'ambito del secondo
pilastro, in tal caso il rappresentante, con dichiarazione formale di "astensione costruttiva",
impedirà che il proprio Stato sia destinatario degli obblighi derivanti dalla decisione su cui
si è astenuto.
La maggioranza qualificata si fonda su un criterio di voto ponderato: a ciascuno Stato
spetta un numero di voti espressamente previsto nel Trattato, commisurato al peso
economico, demografico e alle regole di equilibrio politico. (Italia = 29 voti su 345 totali) Il
Trattato di riforma prevede che la maggioranza qualificata verrà affiancata dal 2014, fino al
2017, dal sistema di doppia maggioranza (55% degli Stati, 65% della popolazione.)

b) Il Parlamento Europeo
E' l'istituzione attraverso cui si esprime il principio di democrazia nell'ordinamento
comunitario, esso è infatti composto da rappresentanti dei popoli degli Stati membri, eletti
a suffragio diretto.
L'art. 189 CE ne fissa il numero massimo in 732; per il momento sono 785 per l'ingresso di
rumeni e bulgari; dal 2009 saranno 736, ma con il Trattato di riforma diventeranno 751
I seggi sono ripartiti in base al criterio peso demografico di ogni paese, con un vantaggio
per i paesi più piccoli. L'art. 19 CE riconosce ai cittadini degli Stati membri, in quanto
"cittadini dell'Unione", il diritto di elettorato passivo e attivo alle elezioni europee anche in
Stati diversi dal proprio, con la conseguenza che in un seggio spettante ad uno Stato
possa essere eletto un cittadino di un'altro Stato.
Il Parlamento Europeo è eletto ogni 5 anni, ed all'inizio di ogni legislatura nomina al suo
interno il presidente e un certo numero di vicepresidenti, in carica per metà legislatura.
Il potere deliberativo si esercita unicamente in sessione plenaria, e a maggioranza
assoluta dei suffragi espressi, a meno che non sia diversamente stabilito dai Trattati.
Il carattere democratico-rappresentativo del Parlamento europeo si esprime infine, in un
generale ruolo di controllo politico verso le altre istituzioni, in particolare della
Commissione, alla cui nomina il Parlamento partecipazione, e nei cui confronti ha un
potere di censura. La Commissione è obbligata ogni anno a presentare una relazione
generale sull'attività della Comunità, e su specifici settori.
Nei confronti del Consiglio invece, potrà proporre interrogazioni, e pretendere di essere
informato degli sviluppi nei due pilastri intergovernativi. Analogo obbligo anche per il
Consiglio europeo.

c) La Commissione
Nella Commissione si assommano più competenze, riguardanti tutti i settori di attività della
Comunità e, in maniera più ridotta, dell'Unione.
La Commissione ha un ruolo determinante nell'attività normativa della Comunità, con atti
normativi propri, o in collaborazione con il Consiglio e il Parlamento europeo, che, tranne
in rari casi, non possono deliberare se non a partire da una sua proposta, da cui il
Consiglio non si potrà discostare, ma da essa sempre modificabile. Altrettanto importante
è il potere normativo diretto della Commissione, soprattutto in relazione al frequente
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ricorso che gli atti adottati da Consiglio e Parlamento fanno, alla delega della
Commissione per l'emanazione di misure applicative. Il TCE attribuisce alla Commissione
un generale potere di esecuzione del diritto comunitario, sia sul piano dell'applicazione
amministrativa, che su quello della vigilanza rispetto all'osservanza delle norme
comunitarie da parte dei destinatari.
E per quanto riguarda le inosservanze ha il potere di portare un Stato membro
inadempiente dinanzi alla Corte di Giustizia, oppure di sanzionare direttamente, in alcuni
casi, i comportamenti contrari al diritto comunitario di soggetti privati e degli Stati.
Alla Commissione spetta anche la rappresentanza internazionale dell'Unione nei settori
disciplinati dal TCE.
Il ruolo preponderante delineato nel TCE, non si ritrova nei settori di cooperazione
disciplinati nel TUE.
Infatti all'interno del TUE la Commissione mantiene un ruolo primario per quanto riguarda
iniziativa e vigilanza, ma viene ridimensionato nel GAI, e risulta del tutto marginale nel
PESC.
I membri della Commissione sono 27, quanti sono gli Stati membri, in carica per 5 anni,
nominati dal Consiglio su proposta dei governi nazionali.

Le istituzioni di controllo. La Corte di Giustizia (rinvio) e la Corte dei Conti.


Sono previste anche forme più specifiche di controllo sul funzionamento dell'Unione: il
controllo giurisdizionale della Corte di Giustizia e il controllo contabile della Corte dei
Conti.
La Corte dei conti è composta da un cittadino per ciascuno Stato membro, nominato su
proposta di questo, ma dotato di piena indipendenza.
membri devono provenire da istituzioni di controllo esterno dei rispettivi paesi e devono
comunque avere le qualificazioni specifiche per la funzione da ricoprire. Sono nominati per
sei anni rinnovabili dal Consiglio.
Parlamento Europeo esprime parere non vincolante per il Consiglio, sui cittadini proposti
dagli Stati membri. La Corte nomina al suo interno un presidente in carica per 3 anni
rinnovabili.
Svolge due funzioni:
di controllo, esame delle entrate e delle spese delle istituzioni, organi, e organismi
dell'Unione , che ha ad oggetto sia la legittimità e la regolarità di tali operazioni, che la
sana gestione finanziaria. Le spese esaminate sono quelle effettuate nel quadro delle
attività previste dal TCE, ma anche amministrative ed operative sostenute ai fini del
secondo e terzo pilastro, o da organismi dell'Unione, a meno che il Consiglio non decida di
porle a carico degli Stati membri. Al termine di ciascun esercizio redige una relazione
annuale sull'esecuzione del bilancio, e può presentare in ogni momento le sue
osservazioni su problemi particolari.
La funzione consultiva si estrinseca in pareri che la Corte può produrre di propria iniziativa
o su richiesta di una delle altre istituzioni della Comunità, e in due casi tale richiesta è
obbligatoria, perché espressamente prevista dal TCE.

Gli organismi monetari e finanziari: a) la Banca centrale europea


La Banca centrale europea (BCE) è stata istituita nel 1998 dal trattato sull‘Unione europea
e ha sede a Francoforte (Germania). Suo compito è gestire l'euro, la moneta unica
dell'UE, e garantire la stabilità dei prezzi per gli oltre due terzi dei cittadini dell'UE che
utilizzano l'euro. È compito della BCE anche definire e attuare la politica economica e
monetaria dell‘UE.
Per assolvere le sue funzioni, la BCE opera nell‘ambito del ―Sistema europeo delle banche

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centrali‖ (SEBC), che comprende tutti i 27 paesi dell‘UE. Tuttavia, solo 16 di tali paesi
hanno finora adottato l‘euro. Questi ultimi formano collettivamente ―l‘area dell‘euro‖ e le
loro banche centrali, insieme alla BCE, costituiscono il cosiddetto ―eurosistema‖.
La BCE è totalmente indipendente nell‘esercizio delle sue funzioni e non può, al pari delle
banche centrali nazionali dell‘Eurosistema e dei membri dei rispettivi organi decisionali,
sollecitare o accettare istruzioni da organismi esterni. Le istituzioni dell‘UE e i governi degli
Stati membri si impegnano a rispettare questo principio evitando di influenzare la BCE o le
banche centrali nazionali nell‘assolvimento dei loro compiti.
La BCE, in stretta collaborazione con le banche centrali nazionali, predispone e attua le
decisioni degli organi decisionali dell‘Eurosistema, che sono il consiglio direttivo, il
comitato esecutivo e il consiglio generale.
Una delle funzioni principali della BCE è mantenere la stabilità dei prezzi nell‘area
dell‘euro, per garantire che il potere d‘acquisto dell‘euro non sia eroso dall‘inflazione.
Obiettivo della BCE è garantire che la progressione annuale dei prezzi al consumo sia
inferiore, ma vicina, al 2% a medio termine.
Due sono le modalità di attuazione:
in primo luogo, controllando la massa monetaria. L‘inflazione risulta infatti da un eccesso
di massa monetaria rispetto all‘offerta di beni e servizi;
in secondo luogo, monitorando le tendenze dei prezzi e valutando il rischio che ne può
derivare in rapporto alla stabilità dei prezzi nell‘area dell‘euro.
Tenere sotto controllo la massa monetaria comporta, tra l‘altro, fissare i tassi d‘interesse in
tutta l‘area dell‘euro, che è forse la più nota tra le funzioni della Banca.
La Banca centrale europea opera attraverso i suoi tre organi decisionali:
 Il comitato esecutivo, comprende il presidente della BCE, il vicepresidente e
quattro altri membri, tutti nominati di comune accordo dai presidenti e dai primi
ministri dei paesi dell‘area dell‘euro. Il loro mandato dura otto anni e non è
rinnovabile. Il comitato esecutivo attua la politica monetaria secondo le decisioni e
gli indirizzi del consiglio direttivo (v. infra), impartendo le necessarie istruzioni alle
banche centrali nazionali. Ha inoltre il compito di preparare le riunioni del consiglio
direttivo ed è responsabile della gestione degli affari correnti della BCE.
 Il consiglio direttivo è il massimo organo decisionale della Banca centrale
europea. Composto da sei membri del comitato esecutivo e dai governatori delle 15
banche centrali dell‘area dell‘euro, è presieduto dal presidente della BCE. Suo
compito primario è definire la politica monetaria dell‘area dell‘euro, fissando in
particolare i tassi d‘interesse applicabili ai prestiti erogati dalla Banca centrale alle
banche commerciali.
 Il consiglio generale è il terzo organo decisionale della BCE. Comprende il
presidente della BCE, il vicepresidente e i governatori delle banche centrali
nazionali dei 27 Stati membri dell‘Unione. Il consiglio generale concorre
all‘adempimento delle funzioni consultive e di coordinamento della BCE e ai
preparativi necessari per il futuro allargamento dell‘area dell‘euro.

b) La Banca europea degli investimenti


La Banca europea per gli investimenti (BEI) è un organismo dell'UE dotato di personalità
giuridica, con sede a Lussemburgo, che, come dispone l'art. 309 del TFUE, "ha il compito
di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ed alle proprie risorse, allo sviluppo
equilibrato e senza scosse del mercato comune nell'interesse dell'Unione"36. Essa è
disciplinata dagli arti. 3UK e 309 del TFUE e dallo statuto che costituisce un protocollo
allegato ai trattati.

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Sono soci della BEI tutti gli Stati membri, i quali sottoscrivono una quota del suo capitale
sociale e sono responsabili in solido per le obbligazioni assunte dalla banca, ciascuno
limitatamente all'ammontare della quota di capitale sottoscritto.
Gli organi della BEI sono il consiglio dei governatori, il consiglio di amministrazione e il
comitato direttivo.
Il consiglio dei governatori è l'organo di indirizzo della BEI ed e composto dei ministri
designati dagli Stati membri. Il consiglio di amministrazione è l'organo decisionale della
BEI e ha competenza esclusiva per decidere della concessione di crediti e di garanzie e
per la conclusione di prestiti. Infine, il comitato direttivo è l'organo esecutivo della BEI e
provvede alla gestione degli affari d'ordinaria amministrazione.
La BEI facilita, mediante la concessione di prestiti e garanzie, senza fini di lucro, il
finanziamento di progetti in tutti i settori dell'economia, in particolare:
a) progetti di valorizzazione delle regioni meno sviluppate;
b) progetti di ammodernamento o riconversione di imprese o di creazione di nuove attività
richieste dalla graduale realizzazione del mercato comune che, per la loro ampiezza o
natura, non possono essere interamente assicurati dai vari mezzi di finanziamento
esistenti nei singoli Stati membri;
c) progetti dì interesse comune per più Stati membri che, per la loro ampiezza o natura,
non possono essere completamente finanziati dai singoli Stati membri.
Inoltre, la BEI concorre al finanziamento di programmi di investimento nel quadro della
politica di coesione economica e sociale congiuntamente, come dispone l'art. 175 del
TFUE, con gli interventi dei fondi strutturali e degli altri strumenti finanziari dell'UE, nonché
nel quadro della politica di cooperazione allo sviluppo, come prevede l'art. 209, prf. 3 del
TFUE.
Infine, poiché la BEI non può acquistare partecipazioni in imprese, ne assumere
responsabilità nella loro gestione, il suo statuto ha consentito di istituire un Fondo europeo
per gli investimenti (FEI), con sede in Lussemburgo, dotato di personalità giuridica e
autonomia finanziaria, di cui la BEI è membro fondatore assieme all'UE e a diversi istituti
finanziari.

Gli organi consultivi: a) il Comitato economico e sociale


Istituito dal trattato di Roma nel 1957, il Comitato economico e sociale europeo (CESE) è
un organo consultivo incaricato di rappresentare datori di lavoro, sindacati, agricoltori,
consumatori e altri gruppi d‘interesse che costituiscono collettivamente la ―società civile
organizzata‖. Il suo ruolo è quindi esporre i pareri e difendere gli interessi delle varie
categorie socioeconomiche nel dibattito politico con la Commissione, il Consiglio e il
Parlamento europeo.
Il CESE fa da ponte fra l‘Unione e i suoi cittadini, promuovendo un modello di società
democratica di tipo più partecipativo e inclusivo.
Il Comitato è parte integrante del processo decisionale dell‘UE: è infatti consultato
obbligatoriamente prima che vengano prese decisioni di politica economica e sociale. Di
propria iniziativa o su richiesta di un‘altra istituzione UE, può inoltre esprimere pareri in
merito ad altre questioni.
Il CESE è costituito da 344 membri. Il numero dei rappresentanti per ogni Stato membro
ne riflette all‘incirca la popolazione.
I suoi membri sono nominati su proposta degli Stati membri per quattro anni ma esercitano
le loro funzioni in piena indipendenza. Il loro mandato è rinnovabile. Il Comitato si riunisce
in sessione plenaria e i dibattiti si svolgono in base al lavoro preparatorio di sei
sottocomitati denominati ‗sezioni‘, ciascuna delle quali è competente per un determinato
settore. Il Comitato elegge un presidente e due vicepresidenti, che restano in carica per un
periodo di due anni.
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Tre sono i suoi compiti fondamentali del comitato:


formulare pareri destinati alle tre grandi istituzioni, il Parlamento europeo, il Consiglio e la
Commissione, sia su loro richiesta che di sua iniziativa;
permettere una maggiore adesione e partecipazione della società civile organizzata al
processo decisionale dell‘UE;
rafforzare il ruolo della società civile nei paesi terzi e promuovere l‘istituzione di strutture
consultive ispirate al suo modello.
Pur continuando a svolgere le rispettive attività professionali nei paesi di origine, i membri
del Comitato formano tre gruppi distinti, in rappresentanza di datori di lavoro, lavoratori
dipendenti e soggetti di diverse attività di natura sociale ed economica.
Il primo gruppo è composto da esponenti del settore pubblico e privato, delle piccole e
medie imprese, delle camere di commercio, del commercio all‘ingrosso e al dettaglio, delle
banche e delle assicurazioni, dei trasporti e dell‘agricoltura.
Il secondo gruppo rappresenta tutte le categorie di lavoratori dipendenti, dagli operai ai
dirigenti. I suoi membri sono esponenti dei sindacati.
Il terzo gruppo rappresenta una vasta gamma di interessi: ONG, organizzazioni di
agricoltori, artigiani e professioni liberali, cooperative e associazioni senza scopo di lucro,
organizzazioni consumistiche e ambientaliste, comunità scientifiche e accademiche e
associazioni in rappresentanza delle famiglie, delle donne e dei disabili.

b) Il Comitato delle regioni


Istituito nel 1994 dal trattato sull‘Unione europea, il Comitato delle regioni (CDR) è un
organo consultivo costituito da rappresentanti degli enti locali e regionali d‘Europa. Nel
quadro del processo decisionale dell‘UE, il CDR deve essere consultato su questioni di
politica regionale, ambiente, istruzione e trasporti, tutti settori di cui sono competenti i
governi locali e regionali.
Il Comitato è costituito da 344 membri. Il numero di rappresentanti per ogni Stato membro
ne riflette all‘incirca la popolazione. I suoi membri sono rappresentanti politici eletti
nell‘ambito di enti municipali o regionali, spesso a capo di governi regionali o di
amministrazioni comunali cittadine. Sono nominati su proposta degli Stati membri per
quattro anni ma esercitano le loro funzioni in piena indipendenza. Il loro mandato è
rinnovabile. Devono ricevere anche un mandato dagli enti che rappresentano o essere
politicamente responsabili dinanzi ad essi.
Il Comitato designa il presidente tra i suoi membri per un mandato biennale.
Suo ruolo è fare in modo che la legislazione dell‘UE tenga conto della prospettiva locale e
regionale. A tal fine formula pareri sulle proposte della Commissione.
La Commissione e il Consiglio hanno l‘obbligo di consultare il Comitato delle regioni ogni
volta che vengono presentate nuove proposte in settori che interessano la realtà locale e
regionale e in tutti i casi in cui lo ritengano opportuno. Dal canto suo il Comitato può
adottare pareri di sua iniziativa e presentarli alla Commissione, al Consiglio e al
Parlamento.

Le agenzie europee
In connessione con l'aumento dei compiti assegnati all'UE e con il crescente impegno
della
Commissione nella gestione di numerose politiche e programmi, a partire dalla metà degli
anni '70 del secolo scorso, sono state istituite alcune Agenzie europee specializzate e
decentrate negli Stati membri, cui sono stati delegati compiti di assistenza e consulenza
tecnico scientifica in settori specifici. Il loro compito principale consiste nell'assistere le
istituzioni europee sotto il profilo giuridico, tecnico o scientifico.

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Dalla sanità alle relazioni esterne, passando per la politica sociale, le agenzie europee
intervengono in pressoché tutti i settori di attività dell'UE.
Si raggruppano in quattro grandi categorie, di cui le due principali sono le agenzie
esecutive e le agenzie comunitarie tradizionali.
Le sei agenzie esecutive, istituite nel 2002, hanno il compito di contribuire alla gestione di
uno o più programmi dell'UE.
Le agenzie comunitarie sono invece state create per rispondere ad esigenze specifiche.
Ne è un esempio l'Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA), istituita nel 2007 nel
quadro del regolamento REACH.
La notevole diversità, sia geografica che giuridica, delle agenzie tradizionali contrasta con
l'omogeneità delle agenzie esecutive, specie per quanto riguarda il loro ruolo e statuto.
Questa eterogeneità e la mancanza di una struttura comune costituiscono un notevole
ostacolo alla chiara definizione del loro posto nella struttura istituzionale dell'UE.
Il dibattito sulle agenzie europee non è di ieri. Già nel 2005 le condizioni di creazione,
funzionamento e controllo delle agenzie erano state oggetto di un progetto di accordo
interistituzionale, che però non è andato in porto.
La Commissione ha ora rivolto un nuovo appello al Parlamento europeo e al Consiglio per
la costituzione di un gruppo di lavoro interistituzionale chiamato a rilanciare il dibattito.

CAP. III - IL PROCESSO DECISIONALE


I profili generali
Il processo decisionale dell'Unione, vede di regola la partecipazione di più istituzioni o
organi, espressa attraverso diverse modalità. Modalità ed istituzioni coinvolte dipendono
dal contenuto dell'atto da adottare. Nel quadro del TUE (II e III pilastro), il potere
decisionale, non soltanto è riservato al solo Consiglio, ma esso lo esercita il più delle volte
in quasi completa solitudine.
Per quanto riguarda il TCE invece, il Consiglio rimane pur sempre organo centrale del
processo decisionale, tuttavia il suo potere è bilanciato dalla partecipazione alla decisione,
in forme e con intensità diverse, di istituzioni e organi espressivi di interessi diversi da
quelli dei governi; questo rende le procedure di decisione all'interno del pilastro
comunitario, particolarmente numerose.
Spetta quindi a chi propone l'atto, all'istituzione che lo adotta, individuare la base giuridica
e quindi la procedura da seguire, ma la scelta non è libera: secondo la Corte di Giustizia
va opera attraverso criteri oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale (scopo,
contenuto).
Quando ad un atto siano applicabili più basi giuridiche prevedono differenti procedure:
laddove queste appartengano tanto al TUE che al TCE, verranno adottati due atti paralleli
di contenuto analogo ,quando invece appartengano allo stesso Trattato, l'istituzione deve
adottare gli atti corrispondenti sulla base di ambedue le norme considerate.

Le procedure "legislative" comunitarie: a) la procedura di consultazione


La funzione normativa primaria della Comunità, si fonda sui procedimenti che, sfociando in
una decisione finale del Consiglio, si sono definiti "principali".
Nella partecipazione, e con differenti modalità, dei diversi organi e istituzioni si riflette
l'equilibrio di ruoli che il Trattato ha voluto individuare rispetto ad ogni decisione normativa
importante della Comunità.
Il principale punto di equilibrio è quello tra le tre istituzioni "politiche": il Consiglio,
rappresentativo degli Stati, il Parlamento europeo, rappresentativo dei popoli, e la
Commissione, rappresentativo dell'interesse generale della Comunità. La prima procedura
prevista è stata la consultazione, sul cui nucleo procedurale originario, innesti di ulteriori
fasi, hanno creato le nuove procedure
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a) Consultazione:
La Commissione presenta una proposta - il Consiglio adotta l'atto dopo aver chiesto il
parere del Parlamento Europeo. La Commissione può liberamente modificare la proposta
fino a che l'atto non sia adottato, al fine di aiutare la formazione della maggioranza
all'interno del Consiglio, il quale può modificare la proposta solo all'unanimità, e solo con
emendamenti che non incidano sull'ambito sostanziale definito dalla proposta iniziale.
La Commissione potrà anche ritirare la proposta in caso di disaccordo grave con il
Consiglio, o di proposte mai discusse e quindi obsolete.
Il parere del Parlamento è obbligatorio, ma mai vincolante, tranne in casi particolari e
limitati; quindi il Consiglio può disattenderlo, ma è tenuto a richiederlo, a pena di invalidità,
e ad attenderlo, a meno che l'inerzia del Parlamento non concretizzi una violazione del
principio di leale collaborazione, in tal caso il Consiglio può adottare l'atto senza attendere
oltre.
E' previsto anche l'obbligo di una nuova consultazione del Parlamento, ogni volta che l'atto
infine adottato, sia diverso da quello su cui il Parlamento stesso sia già stato consultato.
La mancata riconsultazione è motivo di annullamento dell'atto.

Segue b) la procedura di cooperazione


E' articolata in due fasi:
la prima segue fedelmente la sequenza della consultazione, tranne il fatto che la
deliberazione del Consiglio non ha carattere definitivo, ma piuttosto di posizione comune;
tale posizione sarà oggetto della seconda fase la posizione comune è comunicata la
Parlamento Europeo, che entro tre mesi:
approva a maggioranza semplice, l'atto viene definitivamente adottato dal Consiglio in
conformità alla posizione comune, e senza modifiche respinge a maggioranza assoluta
può proporre emendamenti, che rimettono in gioco la Commissione, la quale riesamina la
proposta, successivamente il Consiglio potrà pronunciarsi.
Se dopo il riesame della Commissione o l'eventuale bocciatura della posizione comune da
parte del Parlamento europeo, il Consiglio non riesca a pronunciarsi entro tre mesi, in
mancanza di una decisione, la proposta si ritiene non adottata.
Con il Trattato di riforma la cooperazione verrà soppiantata dalla codecisione e in un caso
dalla consultazione.

Segue: c) La procedura di codecisione


L'introduzione della procedura di codecisione, determina una sostanziale equiparazione di
ruoli tra Consiglio e Parlamento europeo all'interno del processo decisionale.
Al momento l'ambito di applicazione della codecisione è molto esteso, più di metà
dell'attività legislativa della Comunità, e verrà ancora ampliato con il Trattato di riforma,
che la consacrerà a procedura ordinaria. Sul piano formale lo schema è quello consueto:
proposta della Commissione - parere del Parlamento europeo -pronuncia del Consiglio. la
peculiarità sta nel fatto che tale fase può anche essere l'ultima, nel senso che se il
Parlamento approva o propone emendamenti interamente condivisi dal Consiglio, questo
può adottare l'atto a maggioranza qualificata.
Nel caso in cui non concordi con tutti o alcuni emendamenti, il Consiglio adotterà una
posizione comune, dando inizio alla seconda fase, che comincia con la trasmissione della
posizione comune del Consiglio al Parlamento. Il Parlamento ha tre mesi per pronunciarsi
con tre possibili risultati:
approvazione implicita o esplicita, l'atto si considera definitivamente adottato
bocciatura, atto definitivamente non adottato
propone degli emendamenti, sui quali la Commissione deve formulare un parere. Entro tre
mesi, di nuovo, il Consiglio potrà approvare a maggioranza qualificata tutti gli
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emendamenti parlamentari e adottare la posizione comune; ovvero convocare entro sei


settimane un comitato di conciliazione : membri di Consiglio, Parlamento e Commissione,
e da il via alla terza fase.
La terza fase consiste nella ricerca di un accordo su un "progetto comune". In caso di
mancato accordo l'atto si considera non adottato, e comunque l'eventuale progetto su cui
si trovi l'accordo, potrebbe non avere la maggioranza in Consiglio o in Parlamento per
tradurlo in atto definitivo.

Segue: d) La procedura di parere conforme


Per taluni atti si prevede una procedura di adozione che richiede il parere del Parlamento
perché il Consiglio possa adottare l'atto, e che tale parere sia conforme; in mancanza è
impedita l'adozione dell'atto.
Questa procedura si usa per la decisione di conclusione di accordi di associazione, per
quella sull'adesione di nuovi Stati membri, e per alcune decisione attribuite dal TCE al
Consiglio.
A differenza della procedura di codecisione, il parere conforme non contribuisce alla
definizione dell'atto, ma interviene su un atto già definito.

Le procedure decisionali nel quadro dell'Unione:

a) il processo decisionale nel secondo pilastro


La politica estera e di sicurezza comune (PESC), il cosiddetto secondo pilastro, ha il suo
fondamento giuridico nel titolo V del Trattato sull‘Unione europea. Il processo decisionale
nell‘ambito della PESC si esplica mediante procedure intergovernative. Ogni Stato
membro e la Commissione possono sottoporre al Consiglio questioni che rientrano nella
PESC e presentare proposte.
Il Consiglio europeo, formato dai Capi di Stato e di governo degli Stati membri, stabilisce i
principi e gli orientamenti generali della PESC, decidendo le strategie comuni che l‘Unione
deve attuare nei settori in cui gli Stati membri hanno importanti interessi in comune. Il
Consiglio dell'Unione europea, formato da rappresentanti di ciascuno Stato membro a
livello ministeriale, decide le misure necessarie alla definizione e all‘attuazione della
PESC, in base agli orientamenti generali adottati dal Consiglio europeo. Il Consiglio
dell'Unione europea può adottare azioni comuni su specifiche situazioni in cui si ritiene
necessario un intervento operativo dell‘Unione, oppure posizioni comuni per definire
l‘approccio dell‘Unione su una questione particolare. Relativamente alla conclusione di
accordi internazionali nel settore PESC, il Consiglio può autorizzare la Presidenza ad
avviare negoziati. Tali accordi sono in seguito deliberati dal Consiglio. Inoltre, l'Unione
europea può adottare dichiarazioni comuni che esprimono pubblicamente una posizione,
una richiesta o un'aspettativa dell'Unione europea rispetto ad un Paese terzo o ad una
questione internazionale.
La regola generale per le decisioni in ambito PESC è l'unanimità, mitigata dall‘astensione
―costruttiva‖ (che non impedisce l‘adozione dell‘atto). E‘ previsto il ricorso alla maggioranza
qualificata per le misure di attuazione adottate sulla base di strategie comuni del Consiglio
europeo, per le decisioni di attuazione di un‘azione comune o di una posizione comune,
per la nomina di rappresentanti speciali con mandati politici specifici. Il Parlamento
europeo viene informato periodicamente dalla Presidenza e dalla Commissione sugli
sviluppi della politica estera e di sicurezza comune. E‘ inoltre consultato sui principali
aspetti e sulle scelte fondamentali della PESC. Può rivolgere interrogazioni ed indirizzare
raccomandazioni al Consiglio ed una volta all‘anno tiene un dibattito sui progressi compiuti
in materia.

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Segue: b) Il processo decisionale nel terzo pilastro


La cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, il cosiddetto terzo pilastro, ha il
suo fondamento giuridico nel titolo VI del Trattato dell'Unione europea.
Originariamente il Trattato dell‘Unione europea includeva nel terzo pilastro tutte le materie
relative alla giustizia e agli affari interni. Successivamente il Trattato di Amsterdam ha fatto
confluire le disposizioni concernenti visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse
alla libera circolazione delle persone nel titolo IV del Trattato istitutivo della Comunità
europea (ossia nel primo pilastro). Nel terzo pilastro sono rimaste le disposizioni relative
alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Nel terzo pilastro il Consiglio può adottare:
· posizioni comuni che definiscono l‘orientamento dell‘Unione in merito a una questione
specifica;
· decisioni-quadro per ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati
membri. Tali decisioni-quadro sono vincolanti quanto al risultato da ottenere
(analogamente alle direttive), ma non hanno efficacia diretta;
· decisioni per qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi prefissati, escluso il
ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri; le
decisioni sono vincolanti ma prive di efficacia diretta. Le misure di attuazione delle
decisioni a livello dell‘Unione sono deliberate a maggioranza qualificata;
· convenzioni, soggette alla successiva ratifica degli Stati membri.

Le procedure basate sulla delega di competenze alla Commissione


Le leggi europee e le leggi quadro europee possono, inoltre, delegare alla Commissione la
facoltà di emanare regolamenti delegati che completano o modificano determinati elementi
non essenziali della legge o della legge quadro, delimitando esplicitamente obiettivi,
contenuto, portata e durata della delega. La disciplina degli elementi essenziali di un
settore rimane riservata alla legge o alla legge quadro.
Gli atti delegati sono adottati della Commissione su delega di un atto legislativo. L‟art. 290
prevede infatti che ―un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare
atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non
essenziali dell‟atto legislativo‖. Al tempo stesso si specifica che ―gli atti legislativi
delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata del potere di
delega. Gli elementi essenziali di un settore sono riservati all‟atto legislativo e non
possono pertanto essere oggetto del potere di delega‖; inoltre, il Parlamento europeo o il
Consiglio possono comunque decidere di revocare la delega. Infine ―l‟aggettivo „delegato‟
o „delegata‟ è inserito nel titolo degli atti delegati‖ (art. 290, par. 3).

Le procedure per la conclusione di accordi internazionali con Stati terzi:


a) da partedella Comunità
Così come nel quadro del TCE, il processo decisionale è organizzato intorno al triangolo
istituzionale Parlamento europeo – Consiglio - Commissione, anche la procedura di
conclusione di accordi internazionali con Stati terzi (o con organizzazioni internazionali)
sulla base dello stesso Trattato vede coinvolte le stesse istituzioni; e così come l'adozione
di atti nei settori di cooperazione PESC e GAI è riservata quasi totalmente al Consiglio,
anche la conclusione di accordi con Stati terzi in quegli stessi settori spetta al Consiglio.
(parallelismo delle procedure)

a) la procedura di conclusione degli accordi internazionali è disciplinata nel TCE dall'art


300, integrato da ulteriori previsioni in altri articoli.
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Tale procedura si avvia su iniziativa della Commissione che presenta una


raccomandazione al Consiglio di autorizzare la stessa Commissione il negoziato con uno
Stato terzo, che verrà condotto da questa in base alle direttive impartite dal Consiglio. La
fase negoziale si chiude con la paragrafatura del progetto di accordo da parte della
Commissione e la presentazione di una sua proposta al Consiglio per l'adozione della
decisione di autorizzazione alla firma dell'accordo da parte di un rappresentante dello
stesso Consiglio. Può anche essere disposta l'applicazione provvisoria dell'accordo in
attesa della conclusione formale.
Oltre a questa procedura "solenne", può anche essere seguita una procedura semplificata,
prevedendo direttamente nella decisione di firma,che questa valga come espressione
della volontà della Comunità a vincolarsi all'accordo. La procedura solenne è utilizzata
soprattutto quando sulla decisione debba essere obbligatoriamente sentito il Parlamento.
Per la gran parte degli accordi il Trattato prevede un parere non vincolante, ma per alcuni
tipi di accordi richiede un parere conforme. Oltre che per gli accordi di associazione e per
quelli assimilabili, il parere conforme è imposto per gli accordi che comportino modifiche di
un atto di diritto derivato adottato in codecisione e di accordi che abbiano ripercussioni
finanziarie considerevoli per la comunità.
Il principio del parallelismo delle procedure caratterizza anche le modalità di voto con cui il
Consiglio è chiamato ad adottare i diversi atti che scandiscono la procedura di conclusione
di un accordo con uno Stato terzo. E' previsto infatti che esso deliberi in tutti questi casi a
maggioranza qualificata, salvo quando si tratti di accordi di associazione o di accordi
riguardanti un settore in cui sul piano interno è richiesto l'unanimità.
Infine in taluni casi la competenza a concludere un accordo internazionale è attribuita, nel
quadro del TCE, alla stessa Commissione; in particolare per quanto riguarda gli accordi
diretti a formalizzare forme di collaborazione o di collegamento reciproci con altre
organizzazioni internazionali.

Segue: b) Da parte dell'Unione


In relazione alla competenza dell'Unione di concludere accordi internazionali, l'articolo III-
225 del progetto di Costituzione istituzionalizza la giurisprudenza della Corte di giustizia
sulle competenze esterne implicite . Di conseguenza, l'Unione può concludere tali accordi
qualora la Costituzione lo preveda o qualora la loro conclusione sia necessaria per
realizzare uno degli obiettivi fissati dalla Costituzione, o ancora quando sia prevista in un
atto giuridico obbligatorio dell'Unione o incida su un atto interno dell'Unione. Lo stesso
avviene per la giurisprudenza della Corte relativa alle competenze esclusive per esercizio.
L'articolo 12 della Costituzione prevede in effetti, al paragrafo 2, che l'Unione abbia
competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione
sia prevista in un atto legislativo dell'Unione, o sia necessaria per consentirle di esercitare
le sue competenze a livello interno, o incida su un atto interno dell'Unione.
In materia di negoziazione degli accordi internazionali, un'unica disposizione, l'articolo III-
227 della Costituzione, disciplina tutti gli accordi conclusi dall'Unione, ad eccezione degli
accordi nel settore monetario. La Costituzione delimita chiaramente la responsabilità della
Commissione e quella del ministro degli Affari esteri per quanto riguarda l'avvio di
negoziazioni. Essa infatti precisa che il ministro degli Affari esteri è responsabile della
negoziazione di accordi che riguardano esclusivamente o principalmente la politica estera
e di sicurezza comune. Per contro, l'articolo III-227 non designa in linea di principio alcun
negoziatore, conferendo al Consiglio dei ministri, in funzione della materia dell'accordo da
negoziare, il potere di designare il negoziatore o il capofila dell'équipe negoziale
dell'Unione.
Peraltro, il progetto di Costituzione rafforza il ruolo del Parlamento europeo, estendendo il
suo potere di approvazione a tutti gli accordi che interessano settori ai quali sia applicabile
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la procedura legislativa. In effetti, nell'ambito del trattato CE, il Parlamento dispone di un


potere di parere conforme solo per gli accordi di associazione, gli accordi che creano un
quadro istituzionale specifico, gli accordi con ripercussioni finanziarie considerevoli e gli
accordi che richiedono l'emendamento di un atto adottato secondo la procedura di
codecisione (articolo 300, paragrafo 3, del trattato CE).
Infine, per quanto concerne il processo decisionale, il voto del Consiglio dei ministri resta
soggetto alla regola del parallelismo delle forme. Di conseguenza, il Consiglio delibera a
maggioranza qualificata, salvo nel caso in cui l'accordo interessi un settore in cui
l'adozione di un atto dell'Unione richiede l'unanimità. Del resto, l'unanimità è necessaria
per la conclusione di accordi di associazione o per l'adesione dell'Unione alla
Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

PARTE SECONDA – LE FONTI


CAP. I - TIPOLOGIA DELLE FONTI
Profili introduttivi
Anche l'ordinamento creato dai Trattati istitutivi è organizzato intorno ad un sistema di
fonti.
Fonti che non si riducono alla classica coppia diritto primario-diritto derivato, ma che
annoverano anche altre categorie di fonti normative che arricchiscono il sistema in modo
consono al compito che deve affrontare; infine accanto alle fonti in senso proprio troviamo
una serie di procedimenti normativi che rappresentano elementi importanti di
condizionamento dell'assetto del sistema giuridico creato dai Trattati.

I Trattati e il diritto primario


Al vertice del complesso di fonti vi sono senza dubbio i Trattati istitutivi, ciascuno dei quali
è atto fondante rispettivamente dell'Unione e delle singole Comunità, ed allo stesso tempo
che regola competenze e procedura di funzionamento delle stesse. Le norme contenute
nei trattati sono dunque norme sovraordinate rispetto alle altre dell'ordinamento, in quanto
i procedimenti produttivi di queste ultime traggono la loro idoneità a farlo dalle norme dei
Trattati.
I Trattati istitutivi risultano corredati fin dall'inizio, o a seguito dei Trattati di modifica, di una
serie di protocolli, all'interno dei quali vengono disciplinati alcuni aspetti di funzionamento
dell'Unione, regolati solo in via generale, o non regolata, nei Trattati cui sono allegati.
Il protocollo è strumento tipico per non appesantire il testo dei Trattati, per facilitarne la
successiva integrazione/modifica,per immettere nell'ordinamento comunitario una
disciplina di carattere meramente o formalmente transitorio, o per introdurre nel sistema
discipline ad applicazione differenziata, senza intaccare formalmente la portata unitaria del
Trattato.
Alla nozione di Trattati vanno poi ricondotti anche gli atti di adesione, con cui hanno
acquistato lo status di membro i diversi Stati che si sono aggiunti ai sei originari.

Segue: Il carattere "costituzionale" dei Trattati. La loro modificabilità


Nonostante l'assimilazione dei Trattati istitutivi a "Costituzione" dell'ordinamento
comunitario abbia più una valenza politica che formale, in quanto essi non si limitano a
dettare principi strutturali, ma disciplinano nel dettaglio alcuni settori di competenza della
Comunità, tuttavia il paragone con una carta costituzionale sottolinea in maniera adeguata
le peculiarità dei Trattati rispetto ai normali accordi internazionali. Ciò e vero in particolare
per il modo in cui le norme dei Trattati vanno interpretate; in ragione infatti della funzione
che svolgono rispetto all'ordinamento cui hanno dato vita, nella loro interpretazione, le
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considerazioni di carattere sistematico hanno finito per prevalere molto spesso sul dato
testuale. E' la stessa Corte di Giustizia a stabilire che "ogni disposizione di diritto
comunitario va ricollocata nel contesto e interpretata alla luce dell'insieme delle
disposizioni, delle sue finalità e del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data
applicazione al disposizione in esame. Per quanto riguarda poi le supposte limitazioni al
potere di emendamento dei Trattati, affermazione del carattere costituzionale degli stessi,
non si possono certo pensare dei limiti materiali nei confronti degli Stati membri per
l'esercizio di tale potere; si configura semmai una ridotta libertà, rispetto a ciò che
normalmente avviene nel diritto internazionale, in quanto gli Stati non sono del tutto liberi
circa il procedimento da seguire. Il Trattato (TCE), infatti prevede che, sulla convocazione
di una conferenza intergovernativa tra gli Stati membri, destinata a portare all'adozione di
un accordo di modifica del Trattato, il Consiglio debba esprimere il proprio parere
favorevole, previa consultazione del Parlamento europeo, e se del caso, della
Commissione.
La Corte di Giustizia stabilisce inoltre a riguardo, che il Trattato non può essere modificato,
se non mediante una revisione da effettuarsi ai sensi di detto procedimento, e che rimane
esclusa la possibilità di riconoscere effetti nell'ordinamento comunitario a prassi seguite
dagli Stati membri in deroga al TCE.

Segue: Gli effetti delle norme di diritto primario sui soggetti dell'ordinamento
La collocazione dei Trattati istitutivi al vertice dell'ordinamento comunitario comporta che
essi abbiano come destinatari tutti i soggetti di questo.
La Corte di Giustizia ha infatti, in riferimento al TCE, affermato che in un ordinamento che
riconosce come soggetti,
non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini, è del tutto concepibile che dal
Trattato derivino diritti soggettivi per i singoli, anche come contropartita di precisi obblighi
imposti ai singoli stessi.
Ciò non vale però per il TUE, visto che esso stesso esclude qualsiasi efficacia diretta sui
privati.Ma anche nel caso delle norme del TCE, la possibilità di ricavarne diritti
direttamente in capo ai privati dipenderà dalla rispondenza della norma a determinate
caratteristiche, che ne evidenzino la capacità di creare per i singoli situazioni soggettive
che possano essere invocate davanti a un giudice nazionale.
La Corte di Giustizia ha individuato le suddette caratteristiche in: chiarezza, precisione,
completezza e carattere incondizionato della norma invocata.
Ovviamente, come possono attribuire diritti, le norme del TCE possono essere per i privati
anche fonte diretta di obblighi nei confronti di altri privati. (es. principio della parità di
retribuzione tra uomo e donna nello stesso lavoro)

Gli atti di diritto derivato. Il rapporto tra gli atti tipici


Nell'ordinamento creato dai Trattai, operano in posizione subordinata ad essi, una serie di
fonti di diritto derivato frutto dell'attività normativa delle istituzioni.
Ciascuno dei Trattati specifica i diversi tipi di atti di cui le istituzioni si possono avvalere
nell'esercizio di questa attività, e li indica come "atti tipici".
Tali atti, nonostante siano differenziati per caratteristiche ed effetti che ad essi il Trattato
riconosce, non stanno tra di loro in nessun rapporto gerarchico.
Ciò non significa che tra atti adottati dalle istituzioni non possa in taluni casi esistere un
rapporto gerarchico, ma che tale rapporto dipenderà, non dalla forma degli atti utilizzati,
ma da altre circostanze. Una di queste può essere la particolare funzione cui un
determinato atto delle istituzioni assolve.

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Non dipendendo da una diversa collocazione "gerarchica", la scelta del tipo di atto da
utilizzare nel caso concreto è evidentemente basata sulle diverse caratteristiche di
ciascuno di essi.
La scelta talvolta è operata dal Trattato stesso, che nell'articolo sul quale si fonda la
competenza ad agire dell'Unione in una determinata materia, indica attraverso quale
strumento tale competenza debba essere esercitata. Altre volte la scelta è rimessa dal
Trattato al legislatore, attraverso la generica previsione dell'adozione di "provvedimenti" o
"misure".
In ogni caso la scelta sarà dettata dalla maggiore o minore rispondenza delle
caratteristiche specifiche di ogni atto al contenuto e agli obiettivi dell'intervento normativo
di cui si tratta, dato che diverse caratteristiche esprimono un modo diverso di esercitare la
competenza attribuita all'Unione.

Segue: Il regime comune agli atti tipici


Nonostante la diversità per caratteristiche ed effetti, gli atti tipici del diritto derivato sono
soggetti ad un regime in linea di principio comune per quanto attiene a certi requisiti di
forma e alla loro entrata in vigore.
Tale regime è disciplinato in realtà solo per gli atti comunitari del TCE, ma alcuni aspetti
sono da ritenere applicabili anche agli atti adottati dalle istituzioni in applicazione del TUE.
In primo luogo l'art. 253 CE pone un obbligo di motivazione, intesa come formalità
sostanziale, la cui omissione o insufficienza comporta l'invalidità dell'atto.
La sufficienza della motivazione va valutata in rapporto alla natura dell'atto di cui si tratta,
in quanto varia a seconda che si tratti di decisioni generali di carattere normativo o
decisioni a cui manchi tale carattere.
Parte integrante della motivazione è l'indicazione della base giuridica dell'atto, la quale
contribuisce a fornire elementi essenziali per una migliore comprensione della portata e
della validità dell'atto stesso.
L'applicazione di un atto delle istituzioni è subordinata a una pubblicità preventiva che ne
condiziona l'opponibilità ai soggetti dell'ordinamento. L'art. 254 CE impone la
pubblicazione obbligatoria sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, dei regolamenti,
delle direttive indirizzate a tutti gli Stati membri, nonché degli atti adottati in codecisione;
direttive e decisioni non rientranti in tali categorie devono essere notificate ai loro
destinatari, pur essendo di regola oggetto di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Se non
diversamente specificato, l'atto, sempre in base all'art 254 CE, entrerà il vigore il
ventesimo giorno dalla pubblicazione o dalla notifica.

Gli atti di diritto comunitario: a) i regolamenti


Nell'ambito del TCE, il nucleo originario delle fonti di diritto derivato è costituito dagli atti
elencati all'art 249, comunemente indicati come atti tipici del diritto comunitario derivato:
a)regolamenti; b) direttive; c)decisioni.
a) in base all'art. 249 il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi
elementi, e direttamente applicabile, in ciascuno degli Stati membri. E' quindi atto di natura
essenzialmente normativa. E' lo strumento più adeguato con cui realizzare il trasferimento
di competenze dagli Stati membri alle istituzioni comunitarie, in quanto attraverso il
regolamento la normativa comunitaria viene a sostituirsi integralmente, nel settore da essa
regolato, alle norme nazionali. Ha portata generale in quanto si rivolge, non ad un numero
limitato di destinatari, ma a una o più categorie di destinatari determinate astrattamente;
anche se la portata generale non implica necessariamente che il regolamento debba
applicarsi a tutto il territorio comunitario, non mancano infatti regolamenti diretti a
disciplinare fattispecie territorialmente circoscritte.

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E' obbligatorio in tutti i suoi elementi in quanto uno Stato non può applicare in modo
incompleto o selettivo un regolamento, ma vi si deve conformare in maniera rigorosa.
Tuttavia tale caratteristica non implica una necessaria completezza di contenuto normativo
del regolamento; nulla esclude che la disciplina da esso dettata debba essere integrata
mediante atti ulteriori, per potere operare compiutamente, anzi ciò può essere
esplicitamente previsto dal regolamento stesso.
L'intervento normativo di integrazione da parte degli Stati membri, si giustifica però, solo
nella misura necessaria all'esecuzione dei regolamenti.
L'ultima, ma principale caratteristica dei regolamenti è la diretta applicabilità in ciascuno
degli Stati membri, in cui entra in vigore senza bisogno di alcun atto di ricezione del diritto
interno. L'applicabilità diretta comporta che essi sono suscettibili di porre situazioni
giuridiche soggettive in capo ai privati, tanto nei loro rapporti con i privati, che con gli Stati
o le istituzioni comunitarie. Tali effetti non possono essere messi in causa nemmeno dal
fatto che per l'ordinamento dello Stato sarebbe necessario un intervento normativo che
permetta al regolamento di operare pienamente. L'ordinamento giuridico nazionale deve
rendere possibile, secondo la Corte di Giustizia, l'efficacia diretta, in modo che i singoli
possono far valere i regolamenti senza vedersi opporre disposizioni o prassi di carattere
nazionale.
Segue: b) Le direttive
Lo strumento della direttiva esprime un modo di funzionamento delle competenze
comunitarie articolato su una ripartizione del potere normativo tra Comunità e Stati
membri. La direttiva opera infatti sulla base di una riserva di competenza a favore di questi
ultimi, nel senso che implica la permanenza di normative nazionali. Questo strumento, in
base all'art 249 CE, vincola lo Stato membro per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in merito alle forme e ai
mezzi. Questo comporta che la direttiva, per svolgere i suoi effetti all'interno dello Stato,
abbisogna dell'intervento delle autorità nazionali, che devono tradurre le sue disposizioni
in norme interne.
L'attuazione delle direttive nell'ordinamento interno è quindi oggetto di un preciso obbligo
che gli Stati membri sono tenuti ad adempiere, mediante l'emanazione di un atto di
recepimento della stessa.
Nonostante una certa libertà del dato normativo, la Corte di Giustizia ha precisato che
l'attuazione di una direttiva deve avvenire con le forme ed i mezzi più idonei a a garantire
l'efficacia reale delle disposizioni della direttiva, ma deve anche corrispondere alle
esigenze di chiarezza e certezza delle situazioni giuridiche volute da tale atto. E' stata
quindi esclusa l'idoneità di una semplice circolare, o di prassi amministrative. Il fatto che lo
strumento della direttiva richieda una mediazione del diritto interno, non impedisce che,
indipendentemente dalla mediazione, norme di una direttiva possano esplicare effetti in
tale ordinamento, in particolare aprendo ai privati la possibilità di far valere dinanzi ai
giudici nazionali, obblighi che le norme in questione pongano a carico dello Stato.
La possibilità che le direttive abbiano efficacia diretta comunque, rimane circoscritta alle
ipotesi in cui la mediazione di tale direttiva nel diritto interno, non sia avvenuta, o sia
avvenuta in modo incompleto; in tal modo si assicurano al singolo i diritti che la direttiva gli
vuole riconosciuti.
Anche in caso di adozione delle misure nazionali di trasposizione entro il termine previsto,
la direttiva non cessa i suoi effetti, in quanto gli Stati rimangono obbligati ad assicurarne
effettivamente la piena applicazione anche dopo il recepimento.
La giurisprudenza comunitaria ha comunque limitato la possibilità dei privati di far valere
eventuali effetti diretti di disposizioni di una normativa soltanto alle ipotesi che ciò avvenga
nei confronti dello Stato(effetto verticale) , escludendo che queste stesse disposizioni
possano essere fonte diretti di diritti individuali nei confronti di altri privati(effetto
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orizzontale), in quanto è esclusa la circostanza che una direttiva possa di per sé creare
obblighi a carico di un singolo.
L'obbligo gravante sugli Stati membri, di conseguire il risultato voluto da una direttiva, non
si esaurisce con la trasposizione formale di questa nell'ordinamento nazionale, ma si
impone a tutti gli organi dello Stato, i quali, nel loro ambito di competenza, sono tenuti a
garantire l'applicazione effettiva della direttiva.
In particolare per gli organi giurisdizionali, che devono, in quanto possibile, interpretare il
diritto interno, a partire dalla scadenza del termine di attuazione, alla luce del testo e della
finalità della direttiva di cui trattasi, privilegiando l'interpretazione ad essa più conforme.

Segue: Le decisioni
In base all'art. 249 CE, la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da
essa designati. E' atto quindi spiccatamente individuale, i cui destinatari però, non
risultano predeterminati.
Il ricorso alla decisione è generalmente espressione di un'attività amministrativa delle
istituzioni, attraverso la quale provvedono ad applicare al caso concreto le previsioni
normative astratte del Trattato o di altri atti comunitari. Questa funzione si lega bene con i
caratteri propri della decisione delineati dall'art.249: atto a portata individuale come la
direttiva, ma a differenza di questa, rivolta ai soli Stati membri, essa può indirizzarsi a
destinatari di tutte le categorie del diritto comunitario. Altra differenza con la direttiva, è che
la decisione appare dotata dell'efficacia necessaria a raggiungere i suoi destinatari, nel
senso che vincolando questi pur quando essi siano soggetti interni agli Stati membri, la
decisione risulta in questi casi, come i regolamenti, direttamente applicabile negli
ordinamenti giuridici nazionali; anche le decisioni indirizzate agli Stati membri possono
esplicare effetti diretti nell'ordinamento nazionale. Nonostante la spiccata attitudine ad
essere usate in funzione amministrativa, non mancano casi in cui le decisioni, indirizzate a
tutti gli Stati, svolgono una funzione tipicamente normativa, specificando ad esempio, la
disciplina di dettaglio di procedure previste in un regolamento o in una direttiva.
Questo tipo di decisioni va distinto da altre, che si atteggiano come atti generali privi di
destinatari, dirette a regolare rapporti interistituzionali, o altri aspetti del funzionamento del
sistema, le cui norme non sono quindi destinate direttamente agli ordinamenti nazionali.
Talvolta possono essere adottate con la procedura tipicamente legislativa della
codecisione, e per la loro diversità dal modello dell'art. 249, sono state inserite nella
categoria degli atti atipici.

Gli altri atti comunitari


Il sistema comunitario conosce una serie di altri atti di varia natura, accomunati dal fatto di
non costituire in linea di principio fonti formali di norme.
Questo è vero per gli altri due atti tipici dell'art. 249 CE:
- raccomandazioni: per lo più utilizzate dal Consiglio e dalla Commissione per indirizzare
agli Stati membri o ad altri soggetti, norme di comportamento di carattere non vincolante.
La Corte di Giustizia ha ammesso in via generale che i giudici nazionali sono tenuti a
prendere in considerazione le raccomandazioni, ai fini della soluzione delle controversie,
in particolare quando sono di aiuto per l'interpretazione di norme nazionali adottate allo
scopo di garantire la loro attuazione.
- pareri: strumento attraverso cui una istituzione fa conoscere la propria valutazione su
una determinata questione o atto. In tale categoria ve ne sono alcuni che in conseguenza
della loro funzione all'interno di un determinato procedimento o dell'espressa previsione di
un articolo del Trattato, sono produttivi di effetti giuridici assai significativi.
Le istituzioni fanno sovente ricorso ad ulteriori tipi di atti; il Consiglio adotta ad esempio
"conclusioni" o "risoluzioni", nelle quali preannuncia le possibili linee di sviluppo di una
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successiva attività normativa comunitaria, ovvero fissa la sua posizione rispetto a una
questione di interpretazione del diritto comunitario, ma le adotta anche per consacrare un
accordo politico tra i membri dello stesso Consiglio, su sviluppi successivi del negoziato al
suo interno su di una determinata proposta della Commissione.
Frequente anche il ricorso da parte della Commissione a "comunicazioni", "orientamenti" o
"linee direttrici", atti utilizzati soprattutto per esplicitare all'indirizzo dei soggetti interessati
(Stati o privati) il proprio modo di interpretare una sua competenza, ovvero le modalità con
le quali essa intende esercitarla.
Vanno menzionati infine gli accordi interistituzionali, serie di atti frutto della volontà
congiunta di due o più istituzioni in vista della disciplina di un certo aspetto delle loro
relazioni, ovvero dell'esternazione di una comune posizione su una data questione di
rilievo politico.
Se nel secondo caso l'atto ha valenza esclusivamente politica, nel primo caso è atto che in
linea di principio impegna giuridicamente le istituzioni che lo concludono; efficacia che
deriva talvolta da espressa previsione del Trattato, e talvolta dall'essere questi atti
espressione dell'obbligo di cooperazione tra le istituzioni, ricavato dalla Corte di Giustizia
dall'art. 10 CE.
Rimangono comunque atti non rilevanti per la posizione dei singoli, anche se, quando
hanno carattere vincolante, il loro mancato rispetto può essere causa dell'illegittimità di un
atto comunitario.
Sembra ovvio però che l'eventuale carattere vincolante di un accordo interistituzionale
sussisterà solo nei confronti delle istituzioni concludenti.
Gli accordi interistituzionali devono sempre rimanere nei limiti previsti dai Trattati; essi
possono integrare o specificare le disposizioni dei Trattati, ma non modificarle, alterando
l'equilibrio istituzionale da queste delineato.

Gli atti dell'Unione: a) gli atti della politica estera e di difesa comune
Gli atti di cui le istituzioni possono servire per agire nel quadro della cooperazione PESC e
GAI,anche se coincidenti nella denominazione, differiscono notevolmente da quelli previsti
dal TCE.
Differiscono anche per natura, effetti giuridici sugli ordinamenti degli Stati membri, e per
requisiti di forma e pubblicità.
a) ai fini della cooperazione nell'ambito del PESC, il TUE all'art 12 prevede che il Consiglio
europeo o il Consiglio, possano far ricorso a : strategie comuni, posizioni comuni, azioni
comuni (e decisioni).
strategie comuni: competono al Consiglio europeo; atti che definiscono un approccio
integrato dell'Unione e degli Stati membri in relazione ad aree geografiche o tematiche
nelle quali gli Stati hanno importanti interessi comuni.
posizioni comuni: adottate dal Consiglio per definire l'approccio dell'Unione, rispetto ad
una questio particolare di natura geografica o tematica; dirette a orientare i comportamenti
degli Stati membri, tenuti a uniformarsi.
azioni comuni : atto attraverso cui si realizza un intervento operativo dell'Unione in una
specifica situazione, del quale essa stessa definisce obiettivi, portata, mezzi, condizioni di
attuazione, durata.
decisioni : anche se non elencate all'art. 12, il Consiglio, nell'ambito del PESC fa spesso
ricorso alle decisioni, con cui autorizza la firma o la conclusione di accordi internazionali,
nomina rappresentanti speciali dell'Unione, crea comitati od organi militari nell'ambito della
difesa comune.

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Segue: b) gli atti adottati nel quadro del terzo pilastro


Per la cooperazione nell'ambito del GAI, il TUE prevede il ricorso a strumenti giuridici
specifici.
L'art. 34 par. 2 UE, elenca quattro tipi di atti:

 posizioni comuni: le sole che rivestono natura di strumento di azione politica più
che normativa. Definiscono l'orientamento dell'Unione, in merito ad una questione
specifica e vincolano gli Stati membri ad attenervisi nelle organizzazioni
internazionali a cui partecipano. Con posizione comune il Consiglio dispone anche
sanzioni economiche o politiche nei confronti di Stati terzi, e persone fisiche o
giuridiche.
 decisioni-quadro: strumento di legislazione; espressamente finalizzate al
ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, con
funzione analoga alle direttive nel TCE; sono vincolanti per gli Stati membri in
quanto al risultato, salva restando la competenza nazionale in merito a forma e
mezzi. Vanno recepite negli ordinamenti nazionali con un atto di legislazione ad
hoc, il cui termine è fissato nella stessa decisione-quadro. A differenza delle
direttive non hanno efficacia diretta.
 decisioni: definito per esclusione dall'art. 34, par. 2 lett c), che ne dichiara
l'assenza di efficacia diretta, e si limita a prevedere che la decisione ha qualsiasi
altro scopo coerente con gli obiettivi del terzo pilastro, escluso il ravvicinamento
delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
 convenzioni : convenzioni internazionali da concludere tra gli Stati membri, una
volta che il loro testo sia stato stabilito dal Consiglio.

Gli accordi internazionali con Stati terzi e le altre norme internazionali.


Un'ulteriore fonte di norme per l'ordinamento dell'Unione si trova nel diritto internazionale e
negli accordi internazionali,conclusi con Stati terzi od organizzazioni internazionali.
Dal momento in cui entrano in vigore sul piano internazionale, tali accordi diventano
automaticamente parte integrante dell'ordinamento comunitario.
Da ciò non consegue necessariamente che le sue disposizioni possano essere invocate in
giudizio dai singoli. Questo è certamente escluso per le disposizioni di accordi conclusi
sulla base del TUE. Nel caso invece di accordi conclusi sulla base del TCE, questa
possibilità è condizionata dalla Corte di Giustizia, alla rispondenza della disposizione
invocata agli stessi requisiti che giustificano l'esplicazione di effetti diretti di norme di tale
Trattato, o direttive e decisioni: la disposizione deve porre un obbligo chiaro e preciso, la
cui esecuzione o effetti non siano subordinati all'adozione di ulteriori atti.
Gli accordi conclusi con Stati terzi sono ovviamente subordinati ai Trattati, dato che
l'esercizio di competenze internazionali dell'Unione deve avvenire nel rispetto delle regole
materiali e procedurali in essi stabiliti.

I principi generali di diritto.


In particolare il principio del rispetto dei diritti fondamentali

Il Trattato sull'Unione europea afferma che l'Unione rispetta i diritti fondamentali garantiti
dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi
generali del diritto comunitario. Nel TCE si trova invece un solo riferimento ai principi
generali comuni ai diritti degli Stati membri.
Il ricorso ai principi generali si presenta necessario di fronte al carattere generale o
parziale di molte regole di funzionamento dell'ordinamento comunitario. Tali principi
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servono di volta in volta, a ricostruire compiutamente il dettato normativo generico o


incompleto, a rafforzare una certa interpretazione di disposizioni comunitarie incerte. La
Corte ha affermato da un lato l'esistenza di un obbligo comunitario di rispetto dei diritti
fondamentali, dall'altro a ricostruire concretamente questi ultimi. L'idea centrale è stata e i
diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi del diritto di cui essa
garantisce l'osservanza.
Ha anche affermato la propria competenza a valutare la compatibilità di un atto
comunitario con tali diritti. Per la concreta individuazione dei diritti fondamentali, la Corte
ha individuato la fonte a cui ispirarsi, nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, e nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo: diritto alla libertà di
associazione sindacale, alla proprietà privata, alla libertà religiosa, al libero esercizio di
un'attività economica e professionale, all'irretroattività delle norme penali, all'uguaglianza
etc etc.
Con l'adozione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, nel 2000, l'Unione si è
dotata di uno strumento autonomo di rilevazione dei diritti fondamentali;tale Carta
acquisirà efficacia vincolante con il Trattato di riforma. La giurisprudenza ha anche
affermato l'esistenza di veri e propri principi generali del diritto comunitario, ricostruiti a
partire da alcune specifiche norme del TCE: principio di leale collaborazione tra le
istituzioni e con gli Stati membri, rispetto dell'equilibrio istituzionale, principio della certezza
del diritto,il legittimo affidamento, il principio di proporzionalità, il rispetto dei diritti quesiti.

CAP. II - IL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA NELL'ORDINAMENTO


GIURIDICO ITALIANO

La natura del rapporto del diritto comunitario con il diritto degli Stati membri nella
giurisprudenza della Corte di Giustizia
Come già visto, le norme comunitarie svolgono i loro effetti direttamente in capo a soggetti
che, benché interni agli Stati, sono anche, nei limiti della sfera di competenza della
Comunità, soggetti dell'ordinamento di questa. La capacità di raggiungere direttamente
soggetti individuali non esclude tuttavia, che esista anche per l'ordinamento comunitario,
un problema di rapporti con l'ordinamento degli Stati membri. La Corte di Giustizia ha
sottolineato che i due ordinamenti vivono in rapporto di integrazione, che vede
l'ordinamento comunitario, a causa della sua parzialità, avvalersi di quello degli Stati per
molti aspetti del suo funzionamento; con il risultato di una permanente situazione di
interferenza e potenziale conflitto.
La questione del rapporto tra norme comunitarie, e norme interne ad esse contrastanti, è
stata affrontata dalla Corte di Giustizia, sulla base dell'affermazione del principio della
supremazia del diritto comunitario, ancorato alle caratteristiche proprie dell'ordinamento
comunitario : "integrato nell'ordinamento giuridico degli Stati membri all'atto dell'entrata in
vigore del Trattato e che i giudici sono tenuti ad osservare... "
Il ragionamento si fonda, non sulla prevalenza delle norme, ma sulla considerazione delle
rispettive sfere di azione dell'ordinamento comunitario e nazionale: secondo la Corte "il
trasferimento effettuato dagli Stati a favore dell'ordinamento giuridico comunitario, dei diritti
e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del Trattato, implica una limitazione
definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore,
incompatibile con il sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia."
"Qualsiasi giudice nazionale ha l'obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario, e
di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni
eventualmente contrastanti della legge interna. Stesso obbligo vale per gli altri organi dello
Stato, specialmente quelli amministrativi.
La Corte afferma ancora l'obbligo dei giudici nazionali di non applicare norme dello Stato
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che, pur senza risultare direttamente contrastanti con la norma comunitaria applicabile
nella fattispecie, ne impediscano l'effettiva applicazione.

La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento italiano e diritto


comunitario
Da un'analisi della giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale in materia comunitaria,
emerge chiaramente quando difficile sia stato l'inserimento delle posizioni della Corte di
Giustizia, nei vari ordinamenti nazionali. Basti pensare che la Corte
Costituzionale ha dovuto anche pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della
partecipazione italiana alla Comunità, autorizzata e resa esecutiva mediante legge
ordinaria.
La Corte Costituzionale ha concluso che la legge ordinaria di esecuzione trova
fondamento di legittimità nella disposizione dell'art. 11 Cost., in base al quale "l'Italia
consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie,
ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia fra le nazioni, e promuove le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."
Sull'art.11 la Corte Costituzionale ha basato anche la soluzione del problema del rapporto
tra norme comunitarie e quelle dello Stato, anche se in una primissima giurisprudenza
aveva affrontato la questione in maniera del tutto indipendente. Ma subito dopo, si è ben
presto uniformata alle conclusioni della Corte di Giustizia in materia di supremazia delle
norme comunitarie sulle norme nazionali contrastanti, e ha finito per giustificarla, proprio
sull'art. 11. E' sulla base di tale articolo che si è avuto il trasferimento del potere di
emanare norme giuridiche, per cui le norme nazionali devono cedere a quelle comunitarie;
in caso contrario la norma nazionale si porrebbe in contrasto con lo stesso art. 11 Cost.
Rimanevano comunque aperte le divergenze sul modo di interpretare tale supremazia e le
conseguenze relative.
In base alla prospettiva "italiana", la norma nazionale cede di fronte ai regolamenti
comunitari, perché in caso contrario solleverebbe un problema di legittimità costituzionale
in relazione alla violazione dell'art. 11. Questa impostazione crea nuovi contrasti con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale sostiene che il giudice nazionale debba
applicare integralmente il diritto comunitario, disapplicando quello nazionale
eventualmente contrastante, senza l'intervento di altri organi.
Tale possibilità è però preclusa al giudice in base al nostro ordinamento, poiché esso
prevede che, in caso di contrasto norme comunitarie e nazionale, il giudice debba
sollevare la questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte, fondata sulla
violazione dell'art. 11.
Tale divergenza si è potuta sanare solo a con un nuovo mutamento della giurisprudenza
della Corte Costituzionale.

Segue: la giurisprudenza Granital


Nella giurisprudenza costituzionale degli anni Settanta si è realizzata una decisa
inversione di tendenza nella direzione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto
interno. La concezione dualista o di separazione dei due ordinamenti, viene affrontata
nuovamente nella storica sentenza n.170 dell‘ 8 giugno 19847 ( Granital v. Ministero delle
finanze), in cui la Corte Costituzionale, adeguandosi alla sentenza ―Simmenthal‖ della
Corte di Giustizia, riconosce la piena competenza del giudice di merito a dare applicazione
immediata alla norma comunitaria. In essa viene, altresì, precisato che ―l‘assetto dei
rapporti fra diritto comunitario e diritto interno … è venuto evolvendosi, ed è ormai ordinato
sul principio secondo cui il regolamento della CEE prevale rispetto alle configgenti
statuizioni del legislatore interno. Questo risultato viene, peraltro, in considerazione sotto
vario riguardo. In primo luogo, sul piano ermeneutico, vige la presunzione di conformità
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della legge interna al regolamento comunitario… Quando, poi, vi sia irriducibile


incompatibilità fra la norma interna e quella comunitaria, è quest‘ultima, in ogni caso, a
prevalere. Tale criterio opera, tuttavia, diversamente, secondo che il regolamento segua o
preceda nel tempo la disposizione della legge statale. Nel primo caso, la norma interna
deve ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del
regolamento comunitario, la quale andrà necessariamente applicata dal giudice nazionale.
Tale effetto caducatorio … è altresì retroattivo, quando la norma comunitaria confermi la
disciplina già dettata … dagli organi della CEE. In quest‘evenienza, le norme interne si
ritengono, dunque, caducate sin dal momento al quale risale la loro incompatibilità con le
precedenti statuizioni della Comunità, che il nuovo regolamento ha richiamato. Diversa è
la sistemazione data fin qui in giurisprudenza all‘ipotesi in cui la disposizione della legge
interna configga con la previgente normativa comunitaria. E‘ stato, invero, ritenuto che …
la norma interna risulti aver offeso l‘articolo 11 Cost. e possa in conseguenza esser
rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale‖.
I due ordinamenti, comunitario ed interno, dunque, sono ―configurati come autonomi e
distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal
Trattato‖, le disposizioni interne contrarie al regolamento comunitario sono da considerarsi
costituzionalmente illegittime per violazione dell‘articolo 11 Cost.
Si conferma, pertanto, la posizione dualista (a differenza di quella monista fatta propria
come vedremo in seguito dalla Corte di Giustizia CE) della Corte Costituzionale nella
direzione di un sempre maggiore riconoscimento della sopranazionalità della norma
comunitaria, nonché delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia europea e delle
sentenze di condanna, che ha permeato anche la giurisprudenza costituzionale
successiva.

Diritto comunitario e norme costituzionali


La supremazia del diritto comunitario si esprime nei confronti dell'ordinamento nel suo
complesso; ciò sembrerebbe comportare che di fronte a norme del diritto comunitario
debbano cedere anche eventuali disposizioni contrastanti della nostra Costituzione. La
Corte Costituzionale ha dovuto affrontare tale questione sotto il profilo della legittimità
costituzionale della partecipazione italiana alla Comunità, risolta con un'affermazione
implicita di supremazia del diritto comunitario, in ragione della previsione dell'art. 11 Cost.
Nella stessa occasione, del resto, la Corte precisava che "in base all'art. 11, sono
consentite
limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate, e deve
quindi escludersi che tali limitazioni possano comportare per gli organi della CE un potere
di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale... " La Corte
avvertiva anzi che, qualora si fosse presentata la situazione di una norma comunitaria
confliggente con i principi materiale della Costituzione, essa avrebbe esercitato
puntualmente il proprio sindacato sulla legittimità costituzionale di quella norma.
Finora, nei casi in cui ha dovuto esercitare il proprio sindacato, la Corte costituzionale ha
sempre concluso per la piena legittimità della legge di esecuzione dei Trattati comunitari, o
di norme del diritto comunitario derivato.

Organizzazione e procedure per l'adempimento degli obblighi posti dal diritto


dell'Unione: "la legge comunitaria"

Il fatto che in linea di principio le norme dell'ordinamento comunitario siano in grado di


raggiungere gli individui, non esclude necessariamente ogni intervento normativo dello
Stato ai fini della loro attuazione. In base al Trattato, tale necessità è esclusa solo in caso
di norme contenute in regolamenti o in decisioni diretti a individui; è necessario invece nel
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caso delle altre norme comunitarie. In Italia l'adempimento di questo obbligo è sempre
stato difficile a causa della lentezza delle procedure parlamentari dei relativi
provvedimenti.
Furono cercati rimedi che consentissero di semplificare il passaggio al Parlamento di tali
provvedimenti, e di concentrare i provvedimenti relativi a più direttive in un unico iter
parlamentare e quindi un'unica legge di attuazione. La legge n. 11/2005 prevede che il
Presidente del Consiglio o il Ministro per le politiche comunitarie, debbano predisporre
entro il 31 gennaio di ogni anno un disegno di legge, recante le norme necessarie ad
assicurare l'adempimento di più atti od obblighi cui l'Italia debba dare attuazione nell'anno
di riferimento.
Il provvedimento, formalmente denominato "legge comunitaria", può disporre l'attuazione
degli obblighi sulla base di differenti soluzioni.

PARTE TERZA – LA TUTELA DEI DIRITTI

SEZIONE I - LA TUTELA IN AMBITO COMUNITARIO

CAP. I - LA TUTELA IN GENERALE

Premessa
Le forme di tutela apprestate a livello comunitario sono ampie e molteplici, e nel
complesso idonee a soddisfare le esigenze di un ordinamento improntato al principio di
legalità. Va anche riconosciuto però, che nel complesso la situazione non può ritenersi
appagante, soprattutto con riferimento alla posizione delle persone fisiche e giuridiche,
soprattutto per quanto attiene all'ampiezza delle vie di ricorso di quei soggetti a causa
delle restrizioni imposte dal Trattato CE alla ricevibilità dei ricorsi per l'annullamento degli
atti di portata generale delle istituzioni ed a quella delle azioni per i danni provocati da
quegli atti a titolo di responsabilità aquiliana della Comunità.

La tutela non giudiziaria


Come strumento di tutela non giudiziaria va anzitutto segnalata la possibilità offerta ai
cittadini comunitari di rivolgere petizioni al Parlamento europeo e di provocare l'istituzione
di una commissione parlamentare d'inchiesta.
La Commissione d'inchiesta, prevista dall'art. 195 CE, può entro certi limiti esaminare le
denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell'applicazione del diritto comunitario
da parte delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri.
Fini analoghi ha il Mediatore, che sempre in base all'art. 195 CE, riceve le denunce (ma
agisce anche d'ufficio ), provenienti da qualunque soggetto con sede in uno Stato membro
e riguardanti casi di cattiva amministrazione di qualsiasi organo comunitario, ad eccezione
di quelli giurisdizionali, purché esse non riguardino casi che formino o abbiano formato
oggetto di procedure giudiziarie. Tra gli strumenti non giurisdizionali si segnala anche la
possibilità di indirizzare un reclamo alla Commissione europea per denunciare violazioni
del diritto comunitario commesse da autorità nazionali.

La tutela giudiziaria. Il ruolo e la funzione della Corte. In generale.


Maggiore efficacia hanno gli strumenti di tutela di carattere giurisdizionale, che fanno leva
sull'apparato giudiziario di cui la Comunità si è dotata.
Fin dalle origini essa può contare su un autonomo apparato, in grado di assicurare
l'esercizio della funzione giurisdizionale nell'ambito dello specifico ordinamento. Con la
creazione della Corte di Giustizia, per la prima volta, in un ente internazionale, è stato
assicurato l'esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un organo ad hoc, che
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afferma la propria giurisdizione obbligatoria sulle questioni rilevanti per la vita dell'ente
stesso.
Gli stessi Trattati rivelano come a tale istituzioni si sia inteso assegnare un compito di
mantenimento e attuazione dell'ordinamento giuridico.
Varie sono state le istanze comunitarie che hanno reso auspicabile, e in alcuni casi
necessaria, la creazione di tale organo:
l'inevitabile nesso che lega l'attività delle istituzioni comunitarie a quella degli Stati membri,
richiedeva che alla Corte fosse affidato il controllo del rispetto da parte degli Stati degli
obblighi ad essi incombenti.
essenziale anche in senso inverso l'intervento della Corte, volto ad assicurare, a garanzia
per gli Stati membri, il corretto esercizio dei rilevanti poteri attribuiti alle istituzioni
comunitarie
la complessa dialettica dei rapporti tra le istituzioni rendeva necessario il controllo
giurisdizionale sul rispetto delle sfere di competenza spettanti ad ognuna di esse.
la Corte garantisce anche un'immediata tutela delle situazioni giuridiche individuali, su cui
spesso l'attività comunitaria va ad incidere formalmente e materialmente.
Per questi motivi è stata creata la Corte di Giustizia, e ad essa è stato dato il monopolio,
almeno tendenziale, della funzione giurisdizionale.

Segue: L'azione da essa svolta per rafforzare le garanzie del sistema


E' generalmente riconosciuto che la Corte di Giustizia ha svolto un ruolo fondamentale nel
processo di integrazione europea.
In questo senso, il suo ruolo non è stato solo giurisdizionale, ma anche strutturale, in
quanto con il suo contributo ha reso possibile la ricostruzione del sistema giuridico
comunitario come un ordinamento giuridico omogeneo e tendenzialmente compiuto,
dando ad esso organicità, coerenza e sistematicità, rilevandone i principi qualificanti,
definendone le nozioni e caratterizzandolo rispetto agli altri ordinamenti.

Segue: E per lo sviluppo del diritto comunitario e della sua integrazione con quelli
nazionali
I diritti degli Stati membri hanno chiaramente subito un forte impatto dal diritto comunitario.
Una vasta attività normativa ed una prassi giurisprudenziale hanno influito su aspetti
essenziale delle varie legislazioni nazionali. Parti importanti di numerose discipline sono
cadute sotto l'impresa del diritto comunitario.
Tale diritto incide profondamente in quanto si avvale della caratteristiche tipiche del
sistema comunitario: autorità sopranazionali che presiedono alla formazione di norme e
che dispongono gli strumenti per il controllo e il rispetto delle stesse. Ma si avvale
soprattutto di meccanismi di interpretazione autonomi, quale appunto è la Corte di
Giustizia, la cui azione esplica i propri riflessi sulla compattezza e sulla coerenza del corpo
normativo comune, ma anche sulla sua capacità di resistenza rispetto ai sistemi nazionali.
Sempre grazie alla Corte il processo di europeizzazione si sviluppa non solo attraverso
l'incidenza della normativa comunitaria, ma anche per vie meno formali, come la creazione
e diffusione spontanea di principi, metodi, e prassi legali che si realizza nel contesto
comunitario, come conseguenza del naturale processo di recezione, trapianto e
armonizzazione delle regole giuridiche che lo sviluppo stesso dell'integrazione favorisce.
Tale processo si è tradotto poi nell'affermazione di principi comuni, apparentemente nuovi,
ma in realtà spesso definiti sulla base dei diritti nazionali.
Questa originale sintesi tra sistemi giuridici diversi non avrebbe avuto sbocchi così
significativi, quali quelli fin qui registrati, senza l'azione della Corte di Giustizia.
Grazie alla singolare posizione che i Trattati le assegnano, quella di interprete supremo
del diritto comunitario e di garante del rispetto di tale diritto e della sua applicazione negli
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Stati membri, la Corte ha potuto, fin dall'inizio esercitare un ruolo determinante sotto il
profilo appena esposto.

CAP. II - GLI ORGANI DELLA GIUSTIZIA COMUNITARIA

Origini e sviluppi
La prima previsione di un organo giurisdizionale nel quadro comunitario, risale al Trattato
CECA del 1951 : la Corte di Giustizia. Con i Trattati di Roma del 1957, fu ribadita la sua
funzione essenziale nell'ambito del sistema comunitario, e furono assegnate ad essa
nuove competenze. Nonostante ognuno dei due Trattati di Roma prevedesse l'istituzione
di una Corte "propria", ulteriore a quella prevista nel CECA, con un'apposita convenzione
si istituì una Corte di Giustizia unica, dotata delle competenze attribuite alle diverse Corti
previste nei Trattati, andando a sostituire anche la Corte CECA.
L'unicità è solo strutturale, perché non si estende alle competenze attribuite all'organo dai
singoli Trattati, che restano diverse tra loro. Da ciò deriva che l'attività della Corte è
imputabile di volta in volta all'una o all'altra comunità, secondo che la Corte agisca come
organo dell'una o dell'altra.
La Corte entra in funzione a partire dalla nomina dei giudici, il 7 ottobre 1958, e per lungo
tempo ha proseguito la propria attività giurisdizionale senza sostanziali variazioni
d'impianto.
Nel 1989, invece, è stata affiancata dal Tribunale di primo grado (TPI), competente a
giudicare in primo grado un numero di casi, inizialmente limitato, ma poi molto più ampio.
In questo modo la Corte tende sempre più a connotarsi come giudice di mera legittimità e
supremo garante dell'unità giuridica del sistema, mentre il Tribunale assume il ruolo di
giudice di diritto comune di primo grado. I due organi però, sono tra loro strettamente
collegati sul piano organico, funzionale e strutturale; essi concorrono a formare la
complessiva ed unica Istituzione"Corte di Giustizia"delle Comunità europee.

La Corte di Giustizia
Norme relative a composizione e funzionamento della Corte di Giustizia si rinvengono in
Trattati istitutivi, Protocollo sullo Statuto e Regolamento di procedura.
Attualmente la Corte è composta da un giudice per ogni Stato membro, quindi 27, assistiti
da 8 avvocati generali.
Giudici e avvocati generali sono nominati per sei anni dai governi degli Stati tra personalità
che offrano garanzie di indipendenza che integrino le condizioni richieste, nei rispettivi
paesi, per l'esercizio delle più alte funzioni giurisdizionali. Il loro mandato può essere
rinnovato.
Il Presidente della Corte, eletto fra e dai giudici, dirige le attività e gli uffici dell'istituzione,
presiede le udienze e le deliberazioni in camera di consiglio, distribuisce le cause tra i
giudici. la Corte è assistita da un Cancelliere da essa nominato, il quale, oltre a dirigere la
Cancelleria, cura la gestione amministrativa e finanziaria della Corte.
La Corte si riunisce normalmente in sezioni, da tre o cinque giudici, ma può scegliere di
riunirsi in grande sezione, tredici, ed è tenuta a farlo quando lo richiedano uno Stato
membro o un'istituzione della Comunità parte in causa. Si riunisce invece in seduta
plenaria, in base all'art. 16, giudizi sul comportamento dei membri di alcuni organi
comunitari e ogniqualvolta reputi che un giudizio pendente dinanzi ad essa rivesta
eccezionale importanza.

Il Tribunale di primo grado


Istituito con l'intento di assicurare anche nell'ambito del sistema comunitario il principio
del doppio grado di giurisdizione, ma anche per sgravare il carico di lavoro della Corte.
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Ha visto progressivamente allargarsi l'ambito delle proprie competenze, estese a tutti


iricorsi introdotti da persone fisiche e giuridiche, e poi a tutti di ricorsi, quale che sia la
natura del ricorrente, ad eccezione di quelli attribuiti a una camera giurisdizionale e di
quelli che lo Statuto riserva alla Corte di Giustizia. La competenza del Tribunale di primo
grado può essere estesa per materie specifiche.
Disciplinato in parte dal Trattato CE e in parte dallo Statuto della Corte di Giustizia, si
caratterizza sul piano organizzativo e strutturale per essere composto di soli giudici, in
quanto la nomina di avvocati generali è solo eventuale e decisa di volta in volta; Il numero
dei giudici è variabile, in quanto è fissato nello Statuto e quindi facilmente modificabile,
anche se l'art. 224 CE impone il numero minimo di almeno un giudice per Stato membro.
Anche il TPI si organizza in sezioni (tre o cinque giudici); determinati casi sono decisi dalla
grande sezione (tredici) o in seduta plenaria. Recentemente è stata prevista la possibilità,
visti i carichi di lavoro, che il Tribunale possa statuire nella persona di un giudice unico in
casi tassativamente indicati.

Le Camere giurisdizionali. Il Tribunale della funzione pubblica


Il Trattato di Nizza ha autorizzato il Consiglio ad istituire delle camere giurisdizionali
incaricate di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specificate.
Esse saranno composte da membri, nominati dal Consiglio e scelti tra persone che offrano
tutte le garanzie di indipendenza e possiedano la capacità per l'esercizio di funzioni
giurisdizionali.
Finora il Consiglio ha istituito solo il Tribunale della funzione pubblica europea (TFP),
competente in primo grado a pronunciarsi in merito alle controversie tra le Comunità e i
suoi agenti, comprese le controversie tra gli organi o tra gli organismi e il loro personale. E'
composta da sette giudici, nominati per sei anni dal Consiglio, previa consultazione di un
comitato ad hoc.

Le regole di procedura
Il procedimento dinanzi al Tribunale e alla Corte prevede una fase scritta ed una fase
orale, prima che si proceda alla decisione della causa.
Nelle azioni dirette (annullamento, carenza, resp. extra.) la procedura è attivata con un
ricorso da presentarsi entro il termine indicato per ciascuna azione del Trattato. Il ricorso
contiene l‘indicazione delle parti, e dei difensori, l‘esposizione dell‘oggetto della
controversia, dei mezzi dedotti e delle prove che si offrono, nonché la esatta enunciazione
della domanda. Il ricorso viene inviato alla cancelleria della Corte che provvede alla
pubblicazione dell‘essenziale sulla G. ufficiale nonché alla notifica alla controparte.
La procedura pregiudiziale inizia dinanzi al giudice nazionale con la sospensione del
procedimento e la rimessione di una ordinanza alla Corte di giustizia con i quesiti che
richiedono una risposta ai fini della decisione. L‘ordinanza va trasmessa direttamente alla
cancelleria della Corte a Lussemburgo. La cancelleria la trasmette anche alla
Commissione ed altre istituzioni interessate e agli Stati membri.
Gli stati membri e le istituzioni comunitarie possono intervenire in tutte le procedure
attivate con ricorso dinanzi al giudice comunitario, vuoi a supporto vuoi per contestarla.
Il giudice relatore allora deposita una relazione d‘udienza che riassume i termini essenziali
della causa, il quadro normativo e la posizione delle parti. Al tempo stesso di fanno
richieste o si pongono dei quesiti alle parti e si fissa l‘udienza. All‘udienza i difensori delle
parti principali espongono i punti e rispondono alle domande dell‘avvocato generale. La
fase orale termina con la lettura in udienza pubblica del dispositivo delle conclusioni
dell‘avvocato generale. Della sentenza viene pubblicato il dispositivo nella G.U.

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/
CAP. III - LE COMPETENZE DELLA CORTE. IN GENERALE

Premessa
Alle istanze giurisdizionali i Trattati attribuiscono una gamma di competenze molto ampia,
che copre, con riferimento al primo pilastro, l'intero arco delle questione che l'azione
comunitaria può sollevare. Conviene sottolinearne alcune caratteristiche generali.

Peculiarità delle attribuzioni della Corte


In primo luogo la competenza della Corte si afferma su materie e piani molto diversi fra
loro. Da qui l'estrema eterogeneità delle sue manifestazioni.
A determinare la peculiare articolazione della giurisdizione della Corte concorrono un
insieme di elementi che egualmente riflettono le caratteristiche del sistema.
Vi è anzitutto un elemento esterno, rappresentato inizialmente dall'esistenza di tre Trattati
istitutivi di tre Comunità, le quali restavano distinte quanto ai principi ispiratori, all'impianto
istituzionale e ai meccanismi decisionali. Rileva poi un insieme di elementi intrinseci alle
competenze stesse, attinenti alla sfera di giurisdizione materiale e personale dell'organo,
nonché al tipo di attività esplicata.
Facile quindi intuire che la giurisdizione della Corte risulta molto ampia e differenziata,
dato che concerne una vasta categorie di soggetti, la cui posizione processuale è regolata
in modo molto diverso. Già visto quanto sia articolata la competenza a livello di materie.

Sintesi delle stesse


Riguardo al primo pilastro possiamo riassumere le competenze della Corte nei seguenti
termini.
Nella grandissima maggioranza dei casi hanno natura giurisdizionale, anche se in alcuni
casi la Corte può svolgere funzione consultiva. Per quanto riguarda le competenze di
natura giurisdizionale distinguiamo un solo caso competenza non contenziosa, cioè la
competenza pregiudiziale.
Tutti gli altri casi riguardano competenze di tipo contenzioso, che seppur varie possono
essere raccolte in pochi gruppi:
la giurisdizione sulle questioni che oppongono la Comunità agli Stati membri, o questi fra
loro in ordine all'interpretazione e all'applicazione dei Trattati.
ampia e articolata ipotesi di giurisdizione sui comportamenti delle istituzioni comunitarie
della loro funzione di governo delle organizzazioni. Sono i vari casi in cui la Corte esercita
il suo sindacato sulla corretta amministrazione della Comunità, controllando la legittimità
sai degli atti dei suoi organi, sia dei comportamenti omissivi degli stessi, nonché la liceità
degli uni e degli altri. Sono previste alcune di rilievo minore, ma non sempre marginale.

CAP. IV - I GIUDIZI SUI COMPORTAMENTI DEGLI STATI MEMBRI

Premessa
Tra le indicate ipotesi di competenza, quella che attiene al controllo sui comportamenti
degli Stati membri assume rilevanza particolare, poiché si presta a mettere in causa il
comportamento degli enti che, oltre ad aver dato vita alle organizzazioni europee, restano i
principali garanti della loro effettiva funzionalità.
E' utile quindi sottolineare come questi ultimi si siano preoccupati di predisporre una
disciplina che da un lato prevede per gli stessi Stati membri l'obbligo di risolvere eventuali
controversie sull'interpretazione/applicazione dei trattati nel quadro e secondo le
procedure previste dal sistema, e dall'altro istituisce talune procedure tendenti ad
assicurare l'osservanza dei trattati da parte degli Stati, nella quali è fatto largamente posto

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all'iniziativa delle istituzioni comunitarie, ed in particolare della Commissione.

a) I ricorsi della Commissione per inadempimento degli obblighi comunitari. I


presupposti generali
Fra le ipotesi accennate quella di maggior rilievo riguarda le azioni promosse dalla
Commissione europea contro gli Stati membri per inadempimento degli obblighi derivanti
dal diritto comunitario.
Tale procedura è attivata soprattutto grazie all'esecutivo comunitario, cui attiene la
funzione di controllo sul rispetto dei Trattati, e che può riceve le sollecitazioni da parte dei
soggetti privati interessati. Più rari i casi in cui l'iniziativa è assunta dagli stessi Stati
membri.
Oggetto delle procedure in esame è l'accertamento della sussistenza di un inadempimento
da parte degli Stati membri degli obblighi derivanti dal diritto comunitario.
Incombe allo Stato una responsabilità a carattere assoluto e oggettivo: non rilevano né
l'insussistenza di una colpa dello Stato, né la natura o la gravità dell'inadempimento
commesso, né l'assenza di un pregiudizio da questo provocato. Ad essa lo Stato può
sottrarsi solo in caso di difficoltà insormontabili provocate da cause di forza maggiore, e
per il periodo strettamente necessario ad un'amministrazione diligente per porvi rimedio.
Per quanto rileva ai presenti fini, gli obblighi incombenti agli Stati membri sono quelli
enunciati dai trattati istitutivi, dagli atti vincolanti adottati dalle istituzioni comunitarie e dagli
accordi internazionali da queste stipulati; ma si deve ritenere che vi rientri anche il rispetto
dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione di Roma e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni, in quanto principi generali dell'ordinamento comunitario.
L'inadempimento può concretizzarsi tanto in un'azione quanto in un'omissione.
Per quanto riguarda l'omissione, assai frequenti sono le procedure d'infrazione per la
mancata trasposizione delle direttive comunitarie.
Perché si possa escludere l'infrazione occorre che il rispetto degli obblighi comunitari sia
assicurato dagli Stati non già su un piano meramente formale, ma in termini di effettività.
Ne consegue che disposizioni legislative, regolamentari, o amministrative nazionali non
vanno valutate per se, ma tenendo conto dell'interpretazione che ne danno i giudici
nazionali in sede di concreta applicazione. L'inadempimento può essere contestato anche
se è solo parziale, purché sia attuale: deve sussistere nel momento in cui è contestato, a
nulla rilevando che in un momento successivo lo Stato vi abbia posto fine.

La fase precontenziosa
Il Trattato CE stabilisce una disciplina dettagliata della varie fasi della procedura di
accertamento della violazione commessa dagli Stati membri. Tale procedura si articola in
due passaggi essenziali: una fase precontenziosa, interamente nelle mani della
Commissione, essendo questa la sola a poter contestare l'inadempimento; una seconda
fase di natura giudiziaria, nella quale entra in scena la Corte, cui spetta accertare l'effettiva
sussistenza dell'illecito e pronunciarsi sul comportamento dello Stato.
Non sempre il sospetto o la certezza di una violazione mettono in moto la procedura,
giacchè tra la rilevazione o la denuncia dell'inadempimento e l'avvio di tale procedura non
sussiste necessariamente un rapporto di consequenzialità. La contestazione formale allo
Stato è subordinata ad un giudizio discrezionale della Commissione, che non può essere
obbligata ad avviare la procedura né da parte di uno Stato, né da parte dei privati
interessati, che comunque possono sempre denunciare le violazione del diritto comunitario
commesse da autorità nazionali.
Ove comunque decida di contestare l'illecito, la Commissione avvia la fase
precontenziosa, che si articola a sua volta in due fasi: quella della c.d. lettera di messa in
mora (o diffida) e quella, eventuale, del "parere motivato". Con la prima la Commissione
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comunica formalmente allo Stato interessato l'apertura della procedura e lo mette in


condizione di presentare le proprie osservazioni.
La fase che si apre con l'invio della lettera è considerata essenziale e necessaria per
l'avvio della procedura in esame, poiché rappresenta l'ultimo tentativo di composizione
extragiudiziale della controversia, ma anche perché in questa fase si garantisce il rispetto
del diritto di difesa dello Stato interessato.
I requisiti formali e sostanziali del passaggio procedurale in esame sono disciplinati
genericamente dal Trattato. Emerge tuttavia dalla prassi che la messa in mora non è
sottoposta a particolari requisiti formali, essendo sufficiente una semplice lettere
dell'esecutivo che contenga almeno l'esplicito riferimento alla violazione contestata, gli
elementi necessari alla preparazione della difesa dello Stato, insieme con l'avvertimento
che, in mancanza di una risposta adeguata entro un termine fissato, la Commissione
proseguirà la procedura fino al ricorso alla Corte. Nel caso in cui lo Stato non risponda, o
lo faccia in maniera inadeguata, la Commissione emetterà un "parere motivato" con il
quale precisa la propria posizione e sollecita lo Stato a mettere fine al comportamento
contestato.
I requisiti formali e sostanziali del parere motivato sono più rigidi che per la diffida. Esso
non può modificare l'oggetto della contestazione se non nel senso della sua riduzione. Il
parere deve essere motivato adeguatamente, pena l'irricevibilità dell'eventuale ricorso
della Commissione alla Corte.
Quanto al termine concesso allo Stato, la prassi indica che esso è di solito di due mesi,
ma può essere ridotto o ampliato in funzione delle circostanze.

La fase giudiziaria
Se dopo la decorrenza del termine fissato, lo Stato membro non si conforma al parere
motivato della Commissione, questa può adire la Corte.
Come per i passaggi precedenti, anche la decisione sul se e quando introdurre il ricorso
rientra nella discrezionalità della Commissione. Il ricorso resta sempre possibile finché
sussistono l'attività o la situazione contrarie al diritto comunitario. Nella prassi avviene di
frequente che la Commissione si conceda un ampio margine di tempo prima di procedere.
Anche il giudizio sul punto se lo Stato si sia conformato o meno al parere, o se abbia posto
fine alla trasgressione, è rimesso pienamente alla Commissione, la quale decide sulla
base dei provvedimenti eventualmente adottati dallo Stato, se presentare o meno il ricorso
giurisdizionale.
Le eventuali rimostranze dello Stato non trovano altra sede che quella del procedimento
innanzi alla Corte.
Il ricorso potrà essere accolto se la Commissione provi la sussistenza dell'inadempimento
contestato: è ad essa che incombe l'onere di fornire alla Corte gli elementi necessari per
l'accertamento dell'esistenza dell'inadempimento. Allo Stato incomberà invece confutare le
pretese della Commissione o provare eventuali circostanza giustificative del
comportamento che gli viene contestato.
Per quanto riguarda la disciplina processuale l'art. 40 dello Statuto della Corte preclude
alle persone fisiche e giuridiche di intervenire nelle controversie fra Stati membri, fra
istituzioni comunitarie, e fra Stati e istituzioni. La Corte può adottare provvedimenti urgenti
anche nei giudizi in esame, e quindi ordinare, ad esempio, la sospensione
dell'applicazione di una normativa o di una prassi nazionale.

La pronuncia della Corte ed i suoi effetti


Ove accerti l'inadempimento, la Corte pronuncia una sentenza meramente dichiarativa,
che si limita ad accertare l'esistenza dell'inadempimento. Lo Stato è tenuto a prendere i
provvedimenti necessari per l'esecuzione della sentenza in base all'art. 228 CE.
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Si comprende perché nella sentenza non vengano indicati i provvedimenti che lo Stato è
tenuto ad assumere, che sono invece lasciati alla discrezionalità dello Stato stesso, che
deciderà misure e modalità dell'adempimento. Destinatario dell'obbligo di osservare la
sentenza, è lo Stato nella sua unità e non i singoli organi che in concreto abbiano esplicato
l'attività ritenuta illecita dalla Corte.
Come la Corte ha chiarito, tutti gli organi dello Stato membro devono garantire, nei settori
di loro competenza, l'esecuzione della sentenza.
La segnalata libertà degli Stati membri nella scelta dei mezzi non attenua la rigidità
dell'obbligo incombente ai medesimi di assicurare la piena osservanza della sentenza. Nel
caso ciò non avvenisse, la Commissione potrebbe presentare un nuovo ricorso alla Corte
per inadempimento del citato art. 228 CE.
Il Trattato di Maastricht del 1992 ha introdotto un nuovo comma nel suddetto articolo, che
attribuisce alla Commissione il potere di ricorrere nuovamente alla Corte contro lo Stato
doppiamente inadempiente, ma questa volta per chiederle di imporre a suo carico una
somma forfettaria o una penale di cui la stessa Commissione propone l'importo. Il sistema
di calcolo che la Commissione si è proposta di seguire prevede che l'importo debba
essere calcolato in funzione di tre criteri fondamentali: gravità dell'infrazione; durata della
stessa; necessità di imprimere alla sanzione un effetto dissuasivo onde prevenire le
recidive.

b) Le controversie tra Stati membri. In generale


La procedura fin qui descritta, può essere attivata anche da uno Stato membro per
denunciare alla Corte la violazione del diritto comunitario da parte di un altro Stato
membro. Per le questioni concernenti gli Stati membri, l'art. 292 CE sancisce l'obbligo
degli stessi di non sottoporre le loro controversie sull'interpretazione/applicazione dei
Trattati ad un modo di regolamento diverso da quello previsto nei Trattati medesimi. Un
simile obbligo mira a tutelare il sistema delle competenze definito dai Trattati e quindi
l'autonomia dell'ordinamento giuridico comunitario di cui la Corte di Giustizia deve
assicurare il rispetto. Il ricorso al giudice comunitario rappresenta uno dei mezzi più
rilevanti offerti per la soluzione delle controversie tra Stati membri nell'ambito del sistema.
Tuttavia tale giurisdizione ha carattere obbligatorio solo rispetto ad una parte di tali
controversie: quelle relative all'inadempimento dei Trattati da parte di uno Stato membro.
Negli altri casi l'obbligo è solo negativo, gli Stati dovranno evitare il ricorso a modi di
soluzione non previsti dal sistema, ma non sono tenuti a rivolgersi alla Corte. Non va
tuttavia dimenticato che, per i restanti casi, i Trattati ugualmente istituiscono la
giurisdizione della Corte, sia pure subordinandola a un compromesso tra le parti. Inoltre,
ove gli Stati membri non volessero o potessero risolvere la controversia per tale via, essi
potrebbero comunque ricorrere a procedure extragiudiziarie.

In particolare I) I ricorsi di inadempimento promossi da un'altro Stato membro; II) Le


controversie connesse con l'oggetto del Trattato

I) Ipotesi più importante, la cui disciplina è sviluppata sulla falsariga di quella dei ricorsi
della Commissione contro gli Stati membri.
Anche qui la giurisdizione della corte ha ad oggetto questioni relative all'inosservanza dei
Trattati da parte degli Stati. Anche qui si svolge una fase precontenziosa nelle mani della
Commissione, che è investita del compito di esperire i necessari tentativi perché il conflitto
si chiarisca senza l'intervento della Corte.
Per l'avvio di tale procedura non occorre che lo Stato agente abbia subito una lesione di
un proprio interesse materiale; la legittimazione ad agire deriva automaticamente dalla sua
posizione di Stato membro.
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La procedura è avviata da una domanda dello Stato denunciante alla Commissione, in cui
deve precisare di voler dare inizio alla procedura, indicando i motivi della propria
contestazione. Ricevuta la domanda, la Commissione deve darne notizia allo Stato
chiamato in causa, e deve istituire un contraddittorio in cui entrambi possano presentare
osservazioni. Al termine del contraddittorio la Commissione emette un parere motivato che
potrà essere: interlocutorio, nel caso in cui non sia in grado di assumere un atteggiamento
definitivo; favorevole alla tesi dello Stato accusato; conforme alle pretese dello Stato che
ha avviato la procedura.
Nei primi due casi lo Stato agente potrà fare ricorso alla Corte, nel caso in cui non
concordi con la Commissione. Nell'ultimo caso, con il parere si constaterà l'illecito dello
Stato chiamato in causa, e lo si inviterà a prendere opportuni provvedimenti entro un certo
termine.
Decorso infruttuosamente tale termine, lo Stato agente, o in caso di inerzia, la stessa
Commissione, potrà comunque ricorrere alla Corte.
Lo Stato agente potrà anche ricorrere alla Corte nel caso in cui siano passati tre mesi dalla
domanda, senza che la Commissione abbia emesso un parere.
II) I Trattati, per rendere quanto più possibile completo il sistema, hanno previsto la
possibilità che alla Corte vengano sottoposte controversie soltanto connesse con l'oggetto
dei Trattati, sia pur subordinatamente ad un compromesso fra gli Stati interessati.
Gli Stati possono sottoporre alla Corte tutte le controversie che rilevino anche solo
indirettamente con l'oggetto dei Trattati, purché presentino un collegamento obiettivo,
individuato in relazione alla materia oggetto della controversia.

Le analoghe competenze della Corte nell'ambito del terzo pilastro


Per quanto riguarda il terzo pilastro la Corte può essere chiamata a dirimere le
controversie tra Stati membri concernenti l'interpretazione/applicazione degli atti adottati
dal Consiglio per la realizzazione delle finalità GAI, ogniqualvolta detta controversia non
possa essere risolta dallo stesso Consiglio entro sei mesi dalla data nel quale è stato
adito.
La Corte è competente a statuire su ogni controversia tra Stati membri e Commissione
concernenti l'interpretazione/applicazione delle convenzioni fra Stati membri stabilite per il
raggiungimento delle predette finalità. Infine è competente per il controllo sul rispetto delle
regole procedurali dettate dall'art. 7 TUE in occasione delle procedure promosse contro
uno Stato membro per violazione dei principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello Stato di diritto, proclamanti dall'art. 6 par. 2
TUE.

CAP. V - IL CONTROLLO SUI COMPORTAMENTI DELLE ISTITUZIONI


COMUNITARIE

Introduzione
Il controllo giurisdizionale diretto sulla legittimità degli atti comunitari è attribuito alla
competenza esclusiva del giudice comunitario: al tribunale di primo grado il contenzioso
sul rapporto d‘impiego presso la Comunità ed ai ricorsi individuali; alla Corte di giustizia
per i ricorsi degli Stati membri e delle istituzioni, nonché in secondo grado rispetto alle
sentenze del Tribunale.
Il controllo si realizza attraverso procedure e con effetti diversi: l‘azione di annullamento,
l‘azione in carenza, l‘eccezione incidentale d‘invalidità, l‘azione di danni da responsabilità
extra-contrattuale della Comunità, il contenzioso in materia di personale.

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I. I ricorsi di annullamento

Premessa. L'organo competente


L'art. 230 CE attribuisce agli Stati membri, alle istituzioni comunitarie e ai soggetti privati, il
diritto di ricorrere alla Corte per motivi di legittimità contro gli atti delle istituzioni medesime
al fine di chiederne l'annullamento. La competenza a giudicare su tali ricorsi è
essenzialmente devoluta in primo grado, al TPI, fatti salvi alcuni casi espressamente
riservati alla Corte, indicati dall'art. 51 dello Statuto, nonché le controversie di impiego del
personale comunitario, riservate al Tribunale della funzione pubblica.

La legittimazione passiva
Oggetto del giudizio sono i comportamenti delle istituzioni comunitarie. Di norma quindi
solo queste ultime possono essere convenute in giudizio, e non anche le autorità
nazionali.
In passato la legittimazione passiva era limitata al Consiglio e alla Commissione. In
seguito la disposizione è stata modificata nel senso di sottoporre al controllo della Corte gli
atti emanati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio in codecisione e
quelli autonomamente adottati da Consiglio, Commissione e BCE, nonché gli atti del
Parlamento europeo, destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. Anche atti
di altri organismi comunitari possono essere impugnati, se suscettibili di produrre in capo
agli ricorrente determinati effetti giuridici.

Gli atti impugnabili


L'art. 230 CE prevede che sono impugnabili gli atti delle indicate istituzioni che non siano
raccomandazioni e pareri, ed esclude gli atti del Parlamento europeo che non siano
destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. Basterebbe quindi individuare
quali tipi di atti sono considerati impugnabili ex 230 CE e verificare poi in concreto se un
determinato provvedimento sia ad essi riconducibile.
Una simile verifica però non risulta agevole, poiché i Trattati da un lato, hanno evitato di
fissare con particolare precisione le caratteristiche formali e sostanziali di ogni tipo di atti in
modo da consentire di ricondurvi con sicurezza i singoli comportamenti rilevanti in
concreto; dall' altro non sempre hanno precisato quale dei tipi dovesse essere utilizzato
all'occorrenza, lasciando le istituzioni libere di scegliere tra più categorie di atti.
Ma prima ancora o anche contestualmente a tale operazione, si pone il problema di
accertare se si sia o meno in presenza di un atto impugnabile.
In estrema sintesi può dirsi che la nozione di atto impugnabile che emerge dalla
giurisprudenza può riassumersi nella formula secondo cui sono impugnabili gli atti definitivi
emanati dalle istituzioni comunitarie nell'esercizio del loro potere d'imperio e produttivi di
effetti obbligatori nei confronti di terzi.
La Corte ha precisato che un atto è impugnabile quando con esso l'istituzione prenda
comunque una posizione definitiva rispetto ad una determinata questione.
Per questi motivi non sono impugnabili gli atti che si pongono come passaggi intermedi
per l'emanazione dell'atto definitivo, né gli atti destinati ad avere effetti solo all'interno
dell'istituzione.
Ancora, perché l'atto sia impugnabile occorre che esso innovi nelle posizioni giuridiche
preesistenti; un provvedimento che si limitasse a confermare o dare esecuzione a un atto
precedente non sarebbe suscettibile di ricorso.

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I vizi degli atti. In generale


Gli atti degli organi comunitari devono essere conformi alle norme contenute nei Trattati.
La violazione di tali norme determina l'invalidità del provvedimento comunitario, e la
possibilità di far funzionare i rimedi predisposti. Fra questi ha preminente rilievo la
possibilità di annullamento dell'atto in via giurisdizionale. L'annullabilità opera in presenza
dei vizi che inficiano la validità degli atti ed è espressamente prevista dai Trattati. E' anche
prevista l'inesistenza ma solo come ipotesi eccezionale.
L'art. 230 CE elenca le cause di invalidità dell'atto: incompetenza, violazione di forme
essenziali, violazione del Trattato, sviamento di potere.

Segue: I singoli vizi


I) Il vizio di competenza ricorre allorché un atto eccede i poteri conferiti all'autorità che lo
ha posto in essere. In ambito comunitario può tradursi nell'invasione delle attribuzioni di
un'altra istituzione, o nella fuoriuscita dalle competenze comunitarie. Si comprende quindi
perché l'incompetenza costituisca un vizio grave, rilevabile d'ufficio ed invocabile in
qualsiasi momento del procedimento.
Il vizio di violazione delle forme sostanziali non appare del tutto definito. La principale
difficoltà sta nel fatto che non esiste una definizione di forme sostanziali. Talora i Trattati
prescrivono alcuni requisiti di forma necessari alla valida emanazione dell'atto, ma nel
sistema comunitario il principio dominante è la libertà della forma degli atti.
Ne consegue allora che una valutazione del carattere sostanziale delle prescrizioni formali
previste va operata con cautela. In particolare è da ritenere che ai fini della valutazione,
assuma rilievo l'incidenza delle forme sulla sostanza del provvedimento finale, cioè
esistenza contenuto ed efficacia giuridica dell'atto.
Le rare previsioni normative a riguardo, vengono in rilievo rispetto alla procedura di
formazione degli atti comunitari, e ai requisiti intrinseci degli atti.
Le norme di procedura riguardano i casi in cui è imposta dai Trattati, la consultazione o
l'iniziativa di persone fisiche o giuridiche, degli Stati, o di altri organi comunitari, ai fini
dell'emanazione di un provvedimento, pena invalidità dell'atto. Altri casi di tale violazione
potrebbero aversi, relativamente alla regolare costituzione dell'organo consultato,
all'inosservanza da parte dello stesso delle norme in materia di votazione, ecc.
Per quanto riguarda i requisiti formali intrinseci, si considerato solitamente rilevanti quelli
che investono, la composizione dell'organo, le modalità di votazione, i quorum necessari,
il rispetto delle norme relative al suo funzionamento, la pubblicazione e la notificazione
degli atti.
Rilievo preminente assumono però i vizi relativi al rispetto dell'obbligo di motivazione che
i testi prescrivono per taluni atti comunitari.
La violazione del Trattato o di ogni regola di diritto relativa alla sua applicazione identifica i
vizi che attengono non alla veste esterna, bensì alla "legalità interna", la sostanza degli atti
comunitari.
In linea generale si può dire che tale vizio tende a racchiudere tutti i difetti che attengono
alla legittimità degli atti. Nel suo significato tecnico viene delimitato per lo più in via
d'esclusione rispetto a quei difetti che possono ricondursi sotto gli altri vizi espressamente
previsti.
Il vizio di cui si discute, si presta a comprendere i più numerosi e frequenti difetti degli atti
comunitari, in particolare derivanti dalla mancata, incompleta, inesatta considerazione di
una norma, e quelli concernenti la valutazione della fattispecie concreta cui applicare una
norma.
Ai fini della valutazione della legalità di un atto comunitario non vengono in rilievo soltanto i
trattati, ma anche gli atti delle istituzioni comunitarie, gli accordi stipulati dalle Comunità, e i
principi generali di diritto.
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IV) Anche per il vizio di sviamento di potere, la Corte ha preferito evitare definizioni di
carattere generale e procedere piuttosto in modo pragmatico. Questo atteggiamento è
dettato dall'intento di non vincolarsi ad astratte definizioni per adattare invece la nozione
alle caratteristiche del sistema in cui opera.
Di norma si considera sviato il potere esercitato per un fine diverso da quello per cui era
stato attribuito. L'atto, nonostante la sua conformità al dettato normativo per quanto
riguarda competenza, forma e singoli elementi costitutivi, contrasta con i fini perseguiti
dalla norma in base alla quale è emanato.
L'accento è posto quindi sui motivi che hanno guidato l'organo nell'emanazione, anche se
la Corte può estendere la sua valutazione agli aspetti "obiettivi" dell'atto.

La legittimazione attiva: I) delle istituzioni; II) degli Stati membri


Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni comunitarie non è esercitato d'ufficio dalla
Corte, ma si attiva con la presentazione di un ricorso. Legittimati ad agire sono le
istituzioni comunitarie, gli Stati membri, e i soggetti di diritto interno ai quali è consentito
sollecitare l'intervento della Corte.
I) Il ricorso delle istituzioni comunitarie costituisce uno dei mezzi più incisivi per assicurare
il rispetto delle competenze. Ciò spiega il carattere pieno e obbiettivo del ricorso, che non
soffre nessuna specifica limitazione posta dai testi quanto agli atti impugnabili e ai motivi di
impugnazione, e la sua ricevibilità non è condizionata dalla sussistenza di un interesse ad
agire, che qui è presunto.
Le istituzioni legittimate a proporre l'annullamento sono: Consiglio, Commissione,
Parlamento europeo, e Corte dei conti e BCE limitatamente alla difesa delle loro
prerogative.
II) Analoga disciplina per il ricorso degli Stati membri, che in quanto ricorrenti privilegiati,
godono anch'essi di legittimazione attiva piena e obbiettiva.
Anche per questo motivo, la legittimazione ad agire è riservata allo Stato nella sua unità e
in particolare alla autorità di governo, non spetta quindi ai singoli organi, che però
potranno ricorrere alla stregua di una persona giuridica ai sensi della disposizione relativa
ai ricorsi dei privati.

Segue: III) Dei soggetti privati


Anche i soggetti di diritto interno, c.d. privati, persone fisiche e giuridiche, possono
sollecitare il controllo della Corte sulla legittimità degli atti comunitari.
Questa è indubbiamente la più importante fra le varie forme dirette di garanzia apprestate
dal sistema giurisdizionale comunitario per i soggetti in questione.
Né tale osservazione è contraddetta dalla diversa e più restrittiva disciplina predisposta
per i ricorsi dei soggetti in parola rispetto a quelli delle istituzioni e degli Stati membri. Data
la natura dei soggetti, il Trattato ha escluso la possibilità di una sorta di "azione popolare"
concessa agli Stati membri e alle istituzioni, ed ha imposto alcune specifiche condizioni
per la ricevibilità di quei ricorsi. Il Trattato, oltre a subordinare l'ammissibilità del ricorso dei
privati alla condizione che essi possano provare una lesione attuale e diretta di un
interesse tutelato, ha imposto ulteriori limitazioni; infatti ai sensi dell'art. 230 comma 4 CE,
le persone fisiche e giuridiche possono impugnare le decisioni prese nei loro confronti, le
decisioni che appaiono come regolamenti ma concernono direttamente il ricorrente e le
decisioni prese nei confronti di altre persone ma che concernono direttamente il ricorrente.
Tutela molto limita appare riguardo ai regolamenti , e addirittura nulla riguardo alle
direttive.
Ma i limiti sono posti anche sotto altri profili. Ai fini della ricevibilità del ricorso dei privati,
non basta che l'atto rientri tra quelli che il ricorrente ha il diritto di impugnare, ma occorre
altresì che questi ne sia direttamente e individualmente colpito.
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Una svolta si è avuta nel 2000, con l'approvazione della Carta dei diritti fondamentali, che
sancisce all'art. 47 il "diritto ad un ricorso effettivo".
In realtà nell'immediato l'innovazione non produsse effetti, poiché, nonostante alcune
aperture, la Corte ritenne di ribadire che nell'insieme il sistema dei rimedi approntati in
ambito comunitario appare completo e idoneo a garantire il rispetto del principio di legalità;
pur riconoscendo che il principio di una protezione giurisdizionale effettiva deve trovare
piena applicazione nel sistema comunitario, il giudice comunitario non può stravolgere il
dettato dell'art. 230 CE. Altro però potrebbe dirsi, se quella previsione fosse modificata in
vista di un ampliamento delle condizioni di ricevibilità dei ricorsi privati. Il segnale fu
recepito e trasfuso nel Trattato, attraverso una modifica dell'art. 230 comma 4 CE, nel
senso auspicato; modifica che è poi stata ripresa nel Trattato di Riforma.

I termini per il ricorso


Il ricorso deve essere presentato entro due mesi dalla pubblicazione dell'atto o dalla
notifica dello stesso al destinatario, o comunque dal momento in cui il soggetto ne ha
avuto conoscenza. A tale termine vanno aggiunti i termini di distanza, un certo numero di
giorni, variabile secondo la distanza dello Stato dalla sede della Corte.
La proposizione del ricorso non sospende l'esecuzione dell'atto impugnato. Fino al loro
annullamento da parte della Corte, e salvo l'eventuale revoca da parte delle istituzioni che
li hanno emanati, gli ha esplicano piena efficacia.
La Corte tuttavia può concedere in via provvisoria la sospensione dell'atto quando reputi
che le circostanze lo richiedano.

La sentenza di annullamento ed i suoi effetti


In caso di accoglimento del ricorso, la Corte dichiara "nullo e non avvenuto l'atto
impugnato". La sentenza che pronuncia l'annullamento non esaurisce i suoi effetti
nell'ambito del giudizio e limitatamente alle parti in causa, ma esplica una efficacia
assoluta, in quanto elimina l'atto dal mondo del diritto con effetti erga omnes e sin dal
momento in cui è stato emanato.
Sul piano processuale l'annullamento dell'atto preclude a chiunque la presentazione di un
nuovo ricorso. Di gran lunga più importanti sono gli effetti sostanziali della pronuncia: l'atto
viene considerato come non avvenuto, e deve essere ricostruita la situazione preesistente
all'emanazione dell'atto, eliminando gli effetti da esso già prodotti. Ciò implica una serie di
attività cui deve provvedere l'istituzione convenuta.
Naturalmente, il ripristino della precedente situazione non si presenta sempre possibile e
giusto.
Il provvedimento potrebbe aver prodotto effetti la cui eliminazione, potrebbe risultare
contraria al principio della certezza del diritto e del rispetto dei diritti acquisiti. In tal senso
l'art. 231 comma 2 CE consente alla Corte di precisare "ove lo reputi necessario, gli effetti
del regolamento annullato che devono essere considerati come definitivi". La
giurisprudenza ha provveduto ad ampliare di molto le ipotesi in cui tale potere può essere
esercitato. L'ipotesi appena considerata va tenuta distinta dall'annullamento parziale
dell'atto, che si riferisce ai casi in cui quest'ultimo sia divisibile quanto alle sue parti e ai
suoi effetti. In conseguenza della sentenza della Corte, l'istituzione da cui emana l'atto
annullato deve prendere i provvedimenti necessari ad assicurare la piena osservanza
della sentenza (art. 233 CE), attraverso una serie di attività che garantiscano il ripristino
della situazione preesistente all'atto annullato.
Lo stesso art. 233 CE prevede che tale obbligo non esclude comunque la possibilità di un
risarcimento dei danni provocati dall'atto annullato.

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L’accertamento incidentale della illegittimità di un atto


Attraverso una eccezione incidentale di invalidità, le parti possono sollevare una richiesta
di annullamento nel corso di una procedura già attivata (per altri motivi) dinanzi alla Corte,
al fine di far dichiarare l‘inapplicabilità del regolamento di cui si tratta ( anche dopo che sia
trascorso il termine d‘impugnazione previsto per il ricorso). L‘ipotesi è quella dell‘eccezione
d‘invalidità di un regolamento di base in occasione dell‘impugnazione di un atto di
esecuzione di quel regolamento e come motivo dell‘invalidità dell‘atto impugnato.
La sfera di applicazione dell‘eccezione di invalidità è limitata ai regolamenti; ma si è
ampliato a tutti gli atti aventi portata generale; atti che producono gli stessi effetti del
regolamento e producono effetti analoghi e non potrebbero essere impugnati dai singoli.
L‘effetto di un eventuale accoglimento dell‘eccezione d‘invalidità è l‘inapplicabilità dell‘atto
e non già il suo annullamento. Formalmente l‘atto viene dichiarato inapplicabile alla
fattispecie ma resta pienamente in vigore.

II. I ricorsi in carenza


Condizioni generali
Il ricorso per carenza é diretto contro l'inerzia illegale delle istituzioni riguardo al diritto
comunitario. Questo ricorso è aperto alle istituzioni e ai privati in virtù del trattato che
istituisce le Comunità europee. Al termine della procedura, qualora l'istituzione interessata
non sia conforme ai suoi obblighi, la Corte di giustizia delle Comunità europee prende atto
della carenza cui l'istituzione dovrà porre fine.
Il ricorso per carenza si basa sull'articolo 232 del trattato che istituisce la Comunità
europea (trattato CE). Questo ricorso si prefigge di far condannare un'istituzione per
un'astensione illegale relativa al diritto comunitario .Il ricorso per carenza si basa
sull'assenza o sull'omissione di azione delle istituzioni europee mentre il diritto comunitario
impone un obbligo di agire come l'obbligo di approvare un atto. L'assenza o l'omissione
ha, quindi, un carattere illegale.
Le istituzioni europee la cui astensione illegale può formare oggetto di un ricorso per
carenza sono il Consiglio, la Commissione, il Parlamento europeo e la Banca centrale
europea.
Invece le astensioni degli Stati membri formano oggetto di un ricorso per inadempimento.
Infatti il ricorso in carenza riguarda non l‘ipotesi di un rifiuto che è pur sempre un
provvedimento, ma quella di illegittima assenza di decisione e tende precisamente ad una
constatazione della inerzia dell‘istituzione.

Gli aspetti procedurali


L‘introduzione del ricorso davanti alla Corte è subordinata ad una fase amministrativa
preliminare. Perché il ricorso sia ricevibile, occorre che l‘istituzione cui è rimproverata
l‘inerzia sia stata invitata a prendere posizione; una tale messa in mora deve intervenire a
giudizio della Corte, entro un termine ragionevole a partire dal momento in cui appare
chiaro che l‘istituzione in questione non ha intenzione di agire. Dal momento della messa
in mora, l‘istituzione dispone poi di un periodo di 2 mesi, per prendere posizione;
trascorso invano tale periodo, l‘autore della messa in mora può introdurre il ricorso, a sua
volta entro un termine di 2 mesi. L‘assenza di decisione deve essere attuale e permanere
anche durante tutto il corso della procedura; se l‘istituzione risponde alla messa in mora
che gli è stata indirizzata, adottando l‘atto voluto dal richiedente, la procedura diventa
senza oggetto.
L‘azione in carenza può essere introdotto dagli Stati membri e dalle istituzioni in relazione
a qualunque ipotesi di astensione che integri una violazione del Trattato. Il singolo può
agire in carenza solo quando l‘istituzione abbia omesso di emanare nei suoi confronti un
atto che non sia una raccomandazione o un parere.
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III. III. L'azione di danni


Caratteristiche e specificità di tale azione
La competenza del giudice comunitario in materia di responsabilità extracontrattuale della
Comunità e di conseguente risarcimento dei danni, va anch‘essa collegata alla funzione di
controllo sulla legittimità degli atti comunitari.
Il T. CE impone alla Comunità di risarcire conformemente ai principi generali comuni ai
diritti degli Stati membri, i danni causati dalle sue istituzioni o dagli agenti nell‘esercizio
delle loro funzioni.

Le condizioni per la sua promozione


La competenza della Corte sussiste solo quando il danno sia stato cagionato da
un‘istituzione comunitaria in senso lato o dai suoi agenti nell‘esercizio delle loro funzioni.
Per contro la competenza appartiene ai giudici nazionali quando risulti che il danno
allegato è stato prodotto da organi nazionali.
La ricevibilità dell‘azione di responsabilità è stata messa in discussione rispetto all‘ipotesi
di applicazione, da parte di organi nazionali, di provvedimenti adottati in esecuzione di atti
comunitari di cui è stata poi contestata la validità.

CAP. VI - LA COMPETENZA PREGIUDIZIALE

Premessa
La Corte vanta anche una competenza giurisdizionale a carattere non contenzioso, in
quanto essa non dirime una controversia, ma conserva egualmente natura giurisdizionale
dal momento che non si traduce in mera attività consultiva. L'ipotesi in questione concerne
la competenza della Corte a pronunciarsi in via pregiudiziale (art. 234 CE), su questioni di
interpretazione di disposizioni di diritto comunitario, o di validità di atti delle istituzioni, a
seguito degli appositi rinvii che le giurisdizioni degli Stati membri devono o possono
operare ove la soluzione di simili questioni sia necessaria per risolvere la controversia
pendente.
La competenza pregiudiziale non è attivata su ricorso delle parti di una controversia, ma a
seguito del rinvio del giudice nazionale innanzi alla quale quella controversia pende ; non
è destinata a risolvere la controversia, ma a fornire gli elementi necessari alla sua
soluzione. E' una competenza che si articola da giudice a giudice e quindi assume rilievo
essenziale il rapporto di stretta collaborazione tra le due istanze giurisdizionali in causa. Lo
straordinario processo della procedura pregiudiziale conferma che i giudici nazionali
hanno ben compreso che nessun ridimensionamento del loro ruolo e del loro prestigio
deriva dalla sottoposizione di una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

Le finalità della competenza


La competenza pregiudiziale presenta una finalità ben precisa: assicurare grazie alla
presenza di un organo ad hoc, l'uniformità dell'interpretazione del diritto comunitario, per
evitare che si arrivasse ad una nazionalizzazione del diritto comunitario e della loro
interpretazione da parte delle singole giurisdizioni nazionali, con conseguente e
progressiva diversificazione del loro senso.
L'attribuzione alla Corte di tale competenza mirava a rafforzare la capacità di questo
corpus normativo comune di resistere alle particolarità dei sistemi nazionali. In questo
modo la Corte avrebbe potuto garantire l'unità e la coerenza del diritto comunitario rispetto
al relativo ordinamento ma anche rispetto agli ordinamenti degli Stati membri. Col tempo la
competenza pregiudiziale si è prestata a finalità assai più estese. Anzitutto ha permesso
alla Corte di spingersi a rilevare i principi cardine del sistema giuridico comunitario. Ma
soprattutto ha saputo utilizzare la competenza ponendola al centro del sistema
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giurisdizionale comunitario, ma soprattutto dei rapporti fra diritto comunitario e diritto


nazionale, anche con riguardo ai rispettivi apparati giudiziari. Detta competenza diventa
quindi uno straordinario strumento di cooperazione con i giudici nazionali, favorendo il loro
coinvolgimento nell'applicazione del diritto comunitario.
Attraverso la sottolineata azione della Corte, la competenza pregiudiziale è diventata
rapidamente uno strumento fondamentale anche per la tutela dei diritti garantiti dalle
norme comunitarie e per la tutela giudiziaria dei privati. Ciò è stato reso possibile grazie
all'uso "alternativo" della competenza , attraverso la sottoposizione alla Corte di Giustizia
di questioni che vertono formalmente sulla portata di un principio o di una disposizione
comunitaria, ma che in realtà consentono di mettere in causa una norma o una prassi
interna di uno Stato membro, ritenute non conformi a quel diritto.

Le condizioni di esercizio
In base alla disciplina dettata dall'art. 234 CE, quella pregiudiziale è una competenza
esclusiva della Corte di Giustizia, anche se la previsione dell'art. 255 par. 3 CE, non
ancora attuata, stabilisce che essa possa essere devoluta al Tribunale di primo grado "in
materie specifiche determinate dallo Statuto".
giudici nazionali possono porre alla Corte tanto questioni di interpretazione che questioni
di validità. Le prime possono vertere su qualsiasi disposizione del diritto comunitario:
norme dei trattati, atti di diritto derivato, accordi stipulati dalla Comunità, e anche principi
generali di diritto.
In sede di competenza pregiudiziale la Corte non può invece interpretare norme o prassi
nazionali per pronunciarsi direttamente sulla loro compatibilità con il diritto comunitario,
anche se la limitazione può essere aggirata riformulando il quesito come volto a chiarire se
la norma comunitaria vada interpretata in un senso che consenta ad uno Stato membro di
mantenere norme o prassi del tipo di quelle messe in causa.
Rispetto agli atti delle istituzioni comunitarie la Corte può altresì esercitare, in sede di
competenza pregiudiziale, un controllo di validità sul modello del controllo di legittimità
svolto nei ricorsi per annullamento ex art. 230 CE. Legittimate ad operare il rinvio
pregiudiziale sono le "giurisdizioni" degli Stati membri di ogni ordine e grado, individuate
dalla Corte in una definizione comunitaria di "giurisdizione" ai sensi dell'art. 234 CE.
Se non è di ultima istanza, il giudice nazionale ha la facoltà di operare il rinvio
pregiudiziale, ma se decide di non farlo, può comunque procede autonomamente
all'interpretazione del Trattato o dell'atto comunitario in causa.
La Corte ha riconosciuto al giudice nazionale che operi il rinvio, il potere di sospendere, in
attesa della pronuncia della Corte, l'efficacia dei provvedimenti nazionali fondati su atti
comunitari rispetto alla cui validità il giudice nutra seri dubbi.
La soluzione di lasciare libere le giurisdizioni si spiega con il fatto che in tal caso gli
interessati possono pur sempre impugnare la decisione e riproporre la domanda di rinvio
alla Corte nel successivo grado di giudizio. Proprio per questo motivo il Trattato ha
previsto che per le "giurisdizioni attraverso le quali non possa proporsi un ricorso di diritto
interno", il rinvio pregiudiziale costituisca un vero e proprio obbligo.
La decisione di sospendere il giudizio nazionale e sottoporre alla Corte la questione
pregiudiziale è di esclusiva competenza del giudice nazionale, perché spetta ad esso
valutare se la pronuncia della Corte sia necessaria per la decisione nel caso di specie. Ne
consegue che nell'esaminare la ricevibilità dell'ordinanza di rinvio la Corte non può
sindacare tali valutazioni, ed è quindi tenuta a a dar seguito all'ordinanza stessa. Restano
comunque ampi margini di di apprezzamento alla ricevibilità dell'ordinanza per quello che
riguarda la competenza della Corte stessa. In particolare la Corte declina la propria
competenza quando vi siano dubbi sulla rilevanza dei quesiti ai fini della decisione a quo
e quindi sulla necessità del rinvio.
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Gli aspetti procedurali


rinvio, insieme con la contestuale sospensione del procedimento, è di regola disposto con
ordinanza motivata, notificata alla Corte a cura del giudice interno.
In sede comunitaria il procedimento innanzi alla Corte è oggetto di apposita disciplina del
relativo regolamento di procedura. Ad esso sono autorizzati a partecipare: le parti del
giudizio a quo, gli Stati membri, la Commissione, e quando ne sia il caso, il Parlamento
europeo, il Consiglio e la Banca centrale europea. Tutte queste parti possono presentare
osservazioni scritte entro due mesi dalla notifica. Segue di regola una fase orale, che può
essere omessa dalla Corte; la quale può disporre misure istruttorie e chiedere chiarimenti
e informazioni alle parti, anche direttamente in udienza. Peculiarità del procedimento
pregiudiziale è la facoltà concessa alla Corte di chiedere chiarimenti direttamente al
giudice nazionale.
La Corte decide di regola con sentenza, ma talvolta anche con ordinanza motivata. La
decisione è notificata al giudice, alle parti cui è stata notificata l'ordinanza di rinvio. Per
quanto riguarda gli effetti delle decisioni pregiudiziali, esse sono vincolanti per il giudice a
quo.
Nel caso in cui la Corte si sia pronunciata su questioni di interpretazione di norme
comunitarie, la decisione rimane obbligatoria per il giudice del rinvio, ma si impone anche
con effetti erga omnes.
Nel caso in cui invece si sia pronunciata qu questioni di validità degli atti delle istituzioni,
bisogna distinguere secondo che la Corte si sia pronunciata o meno nel senso della
validità della disposizione di diritto comunitario in discussione. Se lo ha fatto, l'efficacia
della sentenza sarà limitata alla controversia particolare, potendo sempre i giudici
nazionali riproporre la medesima questioni di validità. Se invece si sia pronunciata nel
senso delle invalidità, la sentenza della Corte, sebbene non comporti che l'atto sia "nullo e
non avvenuto", come nei giudizi di annullamento, di fatto produce i medesimi effetti.

Altre analoghe ipotesi di competenza previste dai testi comunitaria omissis


Per effetto dell‘entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, la competenza pregiudiziale
della Corte di giustizia è stata estesa al Titolo IV TCE (‗Visti, asilo, immigrazione ed altre
politiche connesse con la libera circolazione delle persone‘) in virtù dell‘art. 68 TCE. Per
effetto dell‘art. 2 del Protocollo sull‘integrazione dell‘acquis di Schengen, la competenza
pregiudiziale della Corte ai sensi del Titolo IV TCE include altresì le Convenzioni e le
decisioni adottate nell‘ambito del sistema Schengen, ad eccezione delle materie che
rientrano nel III Pilastro del TUE. L‘art. 68 TCE prevede una disciplina del rinvio
pregiudiziale (sull‘interpretazione e la validità) in parte diversa da quella dell‘art. 234. Il
meccanismo del rinvio è attivabile solo dalle giurisdizioni nazionali di ultima istanza, le
quali sono peraltro tenute a sollevare questione pregiudiziale, qualora cioè il giudice reputi
necessaria per emanare la sua una decisione su tale punto.
La competenza della Corte, interpretativa e di validità, è esclusa per le misure e le
decisioni relative all‘attraversamento delle frontiere (ex art. 62, par. 1, TCE) in materia di
mantenimento dell‘ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna.
Infine la competenza interpretativa della Corte può essere attivata anche dal Consiglio,
dalla Commissione o da uno Stato membro, con la precisazione che la sentenza adottata
dalla Corte «non si applica alle sentenze degli organi giurisdizionali degli Stati membri
passate in giudicato».
Il Trattato di Amsterdam ha altresì previsto la competenza pregiudiziale della Corte nel
settore della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale che ha un carattere
facoltativo, è cioè subordinata ad una accettazione da parte degli Stati membri. È inoltre
prevista la facoltà statuale di scegliere le categorie di giudici abilitati ad operare il rinvio
(tutti i giudici, o solo i giudici di ultima istanza).
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L‘oggetto del rinvio pregiudiziale di interpretazione è limitatamente definito dall‘art. 35, par.
1: non vi sono incluse, infatti, né le norme primarie, né le posizioni comuni assunte
nell‘ambito del III Pilastro. Secondo la dottrina, queste fonti potranno comunque rilevare
nel contesto dell‘interpretazione, o dell‘accertamento della validità, di atti derivati che vi
danno attuazione.
L‘intervento può essere esperito da tutti gli Stati membri, anche nell‘ipotesi in cui non
abbiano accettato la competenza pregiudiziale della Corte (possibile ratio: l‘effetto
persuasivo che possono rivestire le sentenze rese dalla Corte per i giudici di quegli Stati).

CAP. VII - ALTRE COMPETENZE

La competenza sulle controversie relative alla funzione pubblica


Con la decisione del Consiglio n. 2004/752/CE del 2 novembre 2004 è stata istituita la
prima camera giurisdizionale: il Tribunale della funzione pubblica dell'Unione europea,
organo giurisdizionale incaricato di statuire in merito al contenzioso sul pubblico impiego.
In sostanza esso si pronuncia sulle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti,
comprese le controversie tra gli organi ed il loro personale.
Il Tribunale della funzione pubblica è composto di 7 giudici, nominati dal Consiglio per un
periodo di sette anni, che designano tra loro il presidente per tre anni; il suo mandato è
rinnovabile.
Esso si riunisce generalmente in sezioni composte di tre giudici ma può anche riunirsi in
seduta plenaria, in sezioni di cinque giudici, o statuire nella persona di un giudice unico.
Per quanto riguarda il suo regolamento di procedura, si applica in linea di principio quello
relativo alla Corte di giustizia disciplinato nello statuto, ad eccezione di alcune integrazioni
precisate nell'allegato. La fase scritta, infatti, comprende la presentazione del ricorso e del
controricorso e la trattazione orale, con il consenso delle parti, può anche non avere luogo.
Inoltre è specificato che in ogni fase del procedimento il Tribunale può adoperarsi per
risolvere la controversia attraverso una composizione amichevole. Le decisioni del
Tribunale possono essere impugnate dinanzi il Tribunale di primo grado entro un termine
di due mesi e per i soli motivi di diritto.

La competenza in materia contrattuale


Il ricorso per responsabilità contrattuale, cioè per il fatto di contratti conclusi tra la
Comunità e un terzo, è sottoposto a disposizioni specifiche e la Corte di giustizia delle
Comunità europee (Corte di giustizia) interviene unicamente se lo prevede una clausola
specifica del contratto. Le condizioni e le modalità del ricorso per responsabilità derivano
dal diritto applicabile. Tale diritto è definito dal contratto e si tratta in linea di massima di un
diritto nazionale. La Corte di giustizia può rappresentare la giurisdizione competente per
decidere a condizione che una clausola contrattuale, la clausola compromissoria, lo
enunci esplicitamente.

Il potere di pronunciare le dimissioni di ufficio di membri degli organi comunitari


Con la decisione del Consiglio n. 2004/752/CE del 2 novembre 2004 è stata istituita la
prima camera giurisdizionale: il Tribunale della funzione pubblica dell'Unione europea,
organo giurisdizionale incaricato di statuire in merito al contenzioso sul pubblico impiego.
In sostanza esso si pronuncia sulle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti,
comprese le controversie tra gli organi ed il loro personale.
Il Tribunale della funzione pubblica è composto di 7 giudici, nominati dal Consiglio per un
periodo di sette anni, che designano tra loro il presidente per tre anni; il suo mandato è
rinnovabile.

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Esso si riunisce generalmente in sezioni composte di tre giudici ma può anche riunirsi in
seduta plenaria, in sezioni di cinque giudici, o statuire nella persona di un giudice unico.
Per quanto riguarda il suo regolamento di procedura, si applica in linea di principio quello
relativo alla Corte di giustizia disciplinato nello statuto, ad eccezione di alcune integrazioni
precisate nell'allegato. La fase scritta, infatti, comprende la presentazione del ricorso e del
controricorso e la trattazione orale, con il consenso delle parti, può anche non avere luogo.
Inoltre è specificato che in ogni fase del procedimento il Tribunale può adoperarsi per
risolvere la controversia attraverso una composizione amichevole. Le decisioni del
Tribunale possono essere impugnate dinanzi il Tribunale di primo grado entro un termine
di due mesi e per i soli motivi di diritto.

La funzione consultiva
Un altro aspetto della giurisdizione non contenziosa della Corte di Giustizia riguarda la
funzione consultiva che essa esercita nei confronti delle altre Istituzioni comunità rie, Si
tratta di una funzione tipica degli organi giurisdizionali internazionali; si pensi, a titolo
esemplificativo, alla Corte Internazionale di Giustizia che è competente a esprimere pareri
all'Assemblea delle Nazioni Unite, generale, al Consiglio di sicurezza su qualunque
questione giuridica, nonché agli istituti specializzati delle Nazioni Unite, ove autorizzati
dall‘ Assemblea generale.
La competenza consultiva della Corte di Giustizia non ha però carattere generale, ma è
limitata ad alcune ipotesi ben de terminate dai Trattati istitutivi, in particolare in tema di
compatibilità col Trattato degli accordi stipulati dagli Stati membri e dalla CE FA, nonché
degli accordi conclusi dalla Comunità con Stati terzi o con Organizzazioni internazionali.
Per quanto concerne i soggetti legittimati ad adire la Corte in sede consultiva, l'art. 300,
paragrafo 6 TCE afferma: ―Il Parlamento europeo, il Consiglio la Commissione o uno Stato
membro possono domandare il parere della Corte di Giustizia circa la compatibilità di un
accordo previsto con le disposizioni dei presente trattato‖.
La seconda parte del paragrafo descrive, invece, gli effetti dell'eventuale parere negativo.
Quest'ultimo, in verità, non preclude ai soggetti interessati (gli Stati, la CE o la CEEA) di
concludere ugualmente l'accordo in questione, ma condiziona la sua entrata in vigore all‘
esperimento della procedura di revisione dei Trattati comunitari prevista dall'art. 48 TUE.
In merito alla portata del parere, esso assume carattere vincolante per le Istituzione ma
sembra esaurire ì suoi effetti all'interno del procedimento in cui si inserisce, a differenza
delle sentenze che la Corte emette nei procedimenti contenziosi che, come abbiamo visto,
possono trascendere il procedimento cui appartengono.

Le competenze previste dal Trattato sull'Unione europea


La Corte di giustizia assume un ruolo rilevante anche nell'ambito delle disposizioni previste
dal Trattato sull'Unione europea. In particolare:
— si pronuncia (art. 35 TUE) in via pregiudiziale sulla validità e sull'interpretazione delle
decisioni-quadro, delle decisioni e delle misure di applicazione delle convenzioni, sulla
legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nonché sulle controversie tra Stati
membri relative all'applicazione e interpretazione degli atti adottati nel terzo pilastro, vale a
dire la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale;
— è competente (art. 46 TUE) ad esaminare eventuali violazioni di carattere procedurale
nell'iter che può portare all'applicazione di sanzioni a carico dello Stato che non rispetti i
principi fondamentali su cui è fondata l'Unione. Si tratta di un controllo limitato alla verifica
della legalità del procedimento, esercitato su richiesta dello Stato membro interessato,
entro un mese a decorrere dalla data in cui il Consiglio procede alla constatazione del
comportamento degli Stati rispetto ai rischi di violazione dei principi di libertà, democrazia
e di rispetto dei diritti dell'uomo.
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SEZIONE II - LA TUTELA IN AMBITO NAZIONALE


Premessa
Spetta prima di tutto ai giudici nazionali tutelare il diritto comunitario. Si parla di ―primato e
diretta e immediata applicabilità del diritto comunitario‖, anche grazie al forte impulso della
Corte di Giustizia: da un lato c‘è un diritto dei privati ad invocare le sue disposizioni,
dall‘altro c‘è l' obbligo giudici nazionali di disapplicare norme interne incompatibili. Il
rapporto tra diritto comunitario e Stati membri è quindi determinante, considerando anche
il fatto che il primo non è completo e quindi non ha tutti gli strumenti necessari per
assicurare il pieno rispetto delle sue prescrizioni, ma deve poter contare sugli organi
nazionali (nella specie, i giudici).

L'azione della Corte per garantire la tutela giurisdizionale effettiva dei privati. In
generale
Il sistema comunitario vuole non solo che gli Stati favoriscano il rispetto del suo diritto, ma,
in merito alle situazioni dei privati, che apprestino rimedi giurisdizionali e procedimenti che
garantiscano una tutela giurisdizionale effettiva delle diverse situazioni giuridiche fondate
su quel diritto. Non è la Corte a dettare questa tutela, ma lascia che lo facciano gli Stati. In
particolare vanno ricordati: il principio di equità (condizioni non meno favorevoli rispetto ad
una impugnazione di diritto nazionale) e di effettività (l‘esercizio diritti conferiti dal diritto
comunitario non deve essere impossibile). Ma l‘ influenza della Corte è aumentata sempre
di più, fino a creare uno ―standard europeo di tutela giudiziaria‖, a cui gli Stati cedono il
passo (es. Corte ha richiesto di assicurare livelli di risarcimento effettivi, anche in deroga ai
limiti fissati dagli ordinamenti nazionali).
Si è cosi creata una solida rete di protezione attorno alle situazioni giuridiche di cui
parliamo, anche alla luce del fatto che mentre in precedenza gli Stati inadempienti
venivano scarsamente sanzionati (ad es. per il ritardo nell‘applicare una direttiva), ora tale
inadempienza è senz‘altro più sconveniente.
Un pilastro nell‘applicazione del diritto comunitario è l‘art.10 TCE, cioè obbligo di leale
cooperazione.

La tutela cautelare
La Corte di giustizia, dopo aver affermato il principio della preminenza del diritto
comunitario su quello nazionale, ha riconosciuto come indefettibile l'esigenza della tutela
cautelare che i giudici devono poter apprestare a diritti vantati dai singoli in forza di norme
comunitarie ed in attesa della sentenza definitiva.
Ex art. 242 TCE il giudice nazionale può sospendere in via cautelare l'esecuzione di atti
comunitari in ragione di una pretesa di illegittimità dell‘atto comunitario di cui l‘atto
impugnato rappresenta la misura interna di attuazione. Si tratta per il giudice nazionale di
sospendere l‘atto comunitario, che mal si concilierebbe con la mancanza di competenza
sulla sua validità, che è esclusiva del giudice comunitario. La Giurisprudenza ha
riconosciuto che il giudice nazionale può esercitare in via cautelare il potere in questione
purché operi un rinvio alla Corte di giustizia affinché si pronunci in via pregiudiziale sulla
validità dell‘atto. . Questo provvedimento può essere adottato solo per gli atti comunitari la
cui legittimità è contestata con: 1. un ricorso per annullamento ex art. 230 TCE; 2. Un
ricorso di risarcimento danni ex art. 235 TCE; 3. un ricorso In materia di funzione pubblica
ex art. 236, TCE Ex art. 243 TCE: adozione di provvedimenti provvisori residuali necessari
diversi dalla sospensione, in particolare nell'ambito di un ricorso per inadempimento ex art.
226 TCE.
La domanda di provvedimenti d'urgenza è accessoria al procedimento principale e ha
come scopo quello di evitare che la durata del giudizio principale comprometta

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Irreparabilmente gli interessi delle parti in causa vanificando l'efficacia della successiva
sentenza che definisce la controversia. Le condizioni perché tale domanda accessoria sia
accolta devono essere: urgenza, pericolo di un danno grave e irreparabile, fumus boni
iuris, bilancio degli interessi della parte richiedente, in relazione a quelli dell'ordinamento
comunitario e dì eventuali terzi. Sono competenti, come giudici, i presidenti
rispettivamente della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado (di tutto il collegio
qualora le questioni sollevate rivestano particolare importanza di diritto o di fatto).

Il risarcimento dei danni provocati da violazioni del diritto comunitario


Non è affatto scontato che la protezione giudiziaria dei diritti possa sempre essere
assicurata in modo pieno ed effettivo. Ecco allora affiorare nella giurisprudenza della
Corte, accanto a quelli già esaminati, ulteriori principi e strumenti di tutela, che hanno
trovato la massima espressione nell'affermazione del principio della responsabilità degli
Stati membri per omessa o incompleta o non corretta esecuzione del diritto comunitario.
La Corte non ha dovuto far altro che svolgere con coerenza le premesse degli indirizzi
giurisprudenziali, richiamandosi ancora una volta all'obbligo di leale cooperazione imposto
dall'art 10 CE.
La Corte ha anzitutto chiarito che il principio va applicato indipendentemente dalla natura
dell'organo che ha posto in essere l'azione o l'omissione, sicché la responsabilità può
derivare anche da fatti imputabili al legislatore nazionale, al di là e a prescindere dalla
configurabilità nei singoli ordinamenti di un illecito a carico del potere legislativo. Ma per
questo stesso motivo, essa potrà derivare anche dai comportamenti e dalle prassi delle
giurisdizioni nazionali che si pronuncino in via definitiva.
Quanto poi alle condizioni di sussistenza della responsabilità dello Stato, la Corte, muove
dalla premessa che in questa materia la tutela dei diritti attribuiti ai singoli non può variare
in funzione della natura, nazionale, o comunitaria dell'organo che ha cagionato il danno.
Ai fini che qui rilevano la Corte richiede in principio la sussistenza di tre condizioni: la
norma comunitaria deve essere preordinata ad attribuire diritti a favore dei singoli; deve
trattarsi di una violazione grave e manifesta; deve esistere un nesso di causalità tra la
violazione dell'obbligo incombente sullo Stato ed il danno subito. Ove tali condizioni
ricorrano, esse vanno considerate necessarie e sufficienti e non possono richiedersene di
ulteriori; all'inverso sono fatte salve le eventuali condizioni meno restrittive previste
dall'ordinamento nazionale in causa.
In ogni caso la violazione del diritto comunitario è sicuramente manifesta e grave quando
essa continua nonostante che una sentenza della Corte abbia già accertato che il
contestato comportamento dello Stato costituisce inadempimento di obblighi comunitari, o
comunque venga palesemente ignorata una giurisprudenza della Corte, dalla quale risulti
l'illegittimità di detto comportamento. Del pari la Corte ritiene sicuramente sussistere la
violazione ove il giudice non abbia osservato l'obbligo del rinvio pregiudiziale ai sensi
dell'art. 234, comma 3, CE.
Una volta accertata la violazione dovrà poi farsi riferimento agli ordinamenti giuridici
nazionali per individuare in concreto le condizioni e le modalità dell'azione di danni.

L'inquadramento delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dall'ordinamento


comunitario
Il diverso trattamento giurisprudenziale previsto nel nostro ordinamento per la tutela di
diritti soggettivi ed interessi legittimi rischia di apparire inadeguato alla complessità delle
pretese e delle aspettative che sono connesse all'idea della cittadinanza comunitaria
atteso che da essa deriva l'esigenza di garantire l'effettività della loro tutela (ed insieme ad
essa del diritto comunitario stesso) al di là di ogni questione inerente alla differente
qualificazione giuridica. Come è noto, la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi su

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norme generali vigenti in diverse materie, parla piuttosto di ―posizioni giuridiche individuali‖
senza distinguere le due categorie, ma sottolineando unicamente l‘'importanza
dell'effettività della tutela. A questo punto vale riflettere se l'interesse legittimo sia
compatibile con l'ordinamento comunitario. La questione trova risposta in alcune posizioni
assunte dalla Corte di giustizia, per la quale la qualificazione di una situazione soggettiva
fondata sul diritto comunitario come interesse legittimo, non può considerarsi né preclusa
né scorretta, atteso che detto sistema non conosce la distinzione tra diritti ed interessi, ma
mira a garantire la tutela piena ed effettiva di tutte le situazioni giuridiche esistenti negli
ordinamenti interni. Nell'ottica europea l'interesse legittimo non è una situazione soggettiva
(essendo da questo punto vista un diritto) , ma una 'formula organizzatoria' propria del
sistema amministrativo italiano, volta ad individuare il giudice competente e da attribuire
un sistema compiuto di tutela dei diritti. Gli stati membri, cioè, hanno possibilità di
organizzare liberamente il proprio sistema di giustizia anche in forza del riferimento a
situazioni soggettive; è il momento delle tutele l'aspetto qualificante per la Comunità: alla
situazione soggettiva di derivazione comunitaria deve essere offerta una tutela piena e
non alcuni mezzi di gravame solo perché nel nostro ordinamento una situazione di
derivazione comunitaria possa essere ricondotta alla figura degli interessi
legittimi,piuttosto che a quella dei diritti.

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