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Istituzioni di Diritto

Amministrativo. Sabino
Cassese. V (ultima) edizione.
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Diritto Amministrativo
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
175 pag.

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ISTITUZIONI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO
S. CASSESE
CAPITOLO I ‐ Il diritto amministrativo e i suoi principi

1. IL DIRITTO AMMINISTRATIVO

Il diritto amministrativo è quel ramo del diritto che disciplina la pubblica amministrazione e i suoi
rapporti con i privati. (esempio: le norme sull'organizzazione dei ministeri, sugli enti pubblici, sulle
sovvenzioni pubbliche a privati, sui servizi pubblici erogati alla collettività, ecc).
Non tutta l'attività della pubblica amministrazione è regolata dal diritto amministrativo: quando
stipula contratti di appalto o di società, la pubblica amministrazione si vale delle norme del codice civile
e, quindi, utilizza il diritto privato.
Il diritto amministrativo è un diritto composito, statale, regionale e ultrastatale e speciale. Per
lungo tempo si è ritenuto che il diritto amministrativo fosse un diritto statale e speciale, sulla base di due
considerazioni distinte:
− In primo luogo, perché, di regola, si considerava la pubblica amministrazione legata al governo
nazionale e soggetta a leggi emanate dal Parlamento. Tuttavia, negli ultimi cinquanta anni, sono
intervenuti alcuni cambiamenti: l'ordinamento giuridico italiano è entrato a far parte di un più
vasto ordinamento sopranazionale, quello dell'Unione europea; si sono sviluppati ordinamenti
globali, aperti a tutti gli Stati; sono state istituite le regioni (1970), alle quali è stata trasferita la
competenza legislativa in ordine a numerose materie, tutte relative al diritto amministrativo (ad
esempio, governo del territorio, turismo, agricoltura, trasporti). A causa di tali mutamenti,
l'ordinamento italiano è divenuto composito, nel senso che la sua disciplina non è più
esclusivamente statale, che la sua organizzazione si innesta su quella sopranazionale europea e su
quella mondiale, che le sue procedure sono in parte nazionali, in parte sopranazionali o globali, e
che il diritto amministrativo ha ora anche una componente regionale.

− In secondo luogo, perché l'amministrazione dispone di poteri che eccedono quelli che risultano
dalle normali regole applicabili nei rapporti tra privati e da ciò ne consegue che nel diritto
amministrativo siano presenti istituti, regole, rapporti diversi da quelli propri del diritto privato. Di
conseguenza, il diritto amministrativo è speciale in quanto esso è misto o composto sia di norme e
principi di diritto pubblico, sia di norme e principi di diritto privato. La specialità del diritto
amministrativo é rafforzata dalla presenza di un giudice ad hoc (g. amministrativo), con la
conseguente dualitá giurisdizionale (modello francese). La tutela dei cittadini deve essere, in
questo senso, speciale, poiché l’apparato pubblico dispone di poteri non ordinari.

In conclusione, oggi, il diritto amministrativo presenta un carattere composito, sia perché è in


parte statale, in parte ultra statale ed in parte regionale, sia perché ha una parte pubblicistica e una
privatistica. Fra diritto amministrativo e pubblica amministrazione non c'é una corrispondenza
biunivoca poiché il diritto amministrativo non riguarda solo la P.A. e viceversa la P.A. non è
regolata esclusivamente dal diritto amministrativo.

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2. LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Sono pubbliche amministrazioni la Commissione, le agenzie europee, i ministeri, gli enti pubblici
nazionali (Inps), le regioni, le province, i comuni.
La amministrazioni pubbliche si dividono in statali e non statali. Le prime sono costituite da
apparati pertinenti alla persona giuridica - Stato (i ministeri). Le seconde sono costituite da apparati
pertinenti ad altri enti pubblici sub statali, come comuni, province e regioni (assessorati) o sovrastatali,
come l’UE (Commissione).
La specialità del diritto amministrativo è rafforzata dall'esistenza di un giudice proprio di questo
ramo del diritto. L'ordinamento italiano, infatti, è caratterizzato dal principio del dualismo
giurisdizionale (giudice ordinario-giudice amministrativo). È merito del giudice amministrativo lo
sviluppo di istituti e di poteri c.d. derogatori riconosciuti alle pubbliche amministrazioni come figure
soggettive privilegiate (ad esempio, supremazia, imperatività, esecutorietà).
Va evidenziato che oggi non è possibile enucleare una nozione unitaria e di sintesi di pubblica
amministrazione. L'amministrazione consiste in partecipazione o collaborazione all'attività di governo
(ad esempio, gabinetti dei ministri), di regolazione o di disciplina (ad esempio, il Ministero delle attività
produttive), di erogazione di servizi o di mezzi finanziari (ad esempio, Servizio sanitario nazionale,
Istituto nazionale della previdenza sociale - Inps), di attività di esazione (ad esempio, Ministero
dell'economia e delle finanze), di attività di impresa (ad esempio, Poste italiane) e così via. Ne deriva che,
più che di pubblica amministrazione al singolare, è meglio parlare di pubbliche amministrazioni al
plurale.
Le attività amministrative possono essere svolte sia da soggetti pubblici che da soggetti privati.
Non è vero, infatti, che è pubblica una amministrazione che pertiene ad una persona giuridica pubblica:
da un esame del diritto positivo, infatti, si evince, da una parte, che non tutte le persone giuridiche
pubbliche hanno una amministrazione pubblica (ad esempio, la Banca d'Italia) e che, dall'altra, vi sono
amministrazioni pubbliche le quali pertengono a soggetti privati (ad esempio, i concessionari di servizi
pubblici essenziali). Dunque, il riferimento all'appartenenza soggettiva dell'amministrazione non è
sufficiente, ma occorre far riferimento anche alla natura dell’attività. Anche la definizione secondo cui
l'amministrazione consiste nella " esecuzione di leggi " non è da considerarsi esaustiva. La definizione
secondo cui l'amministrazione è " cura concreta di interessi pubblici " mette in luce un aspetto
importante, quello della "funzionalizzazione" dell'attività amministrativa: quest'ultima, infatti, è sempre
diretta ad un fine pubblico, indicato dalle norme, ed è predisposta, quindi, per la cura di un interesse, per
lo più collettivo, prescelto dalle norme e per questo qualificato come pubblico. In conclusione, le
principali nozioni di pubblica amministrazione possono trarsi sia dal diritto nazionale che da quello
europeo.
1. Una prima nozione di pubblica amministrazione è definita nel diritto europeo e in quello
nazionale, con riferimento all'area alla quale si applicano le procedure di scelta dei contraenti in materia
di appalti; essa include amministrazioni dello Stato, regioni, enti pubblici territoriali, loro unioni, consorzi
e associazioni, enti pubblici non economici, organismi di diritto pubblico (cioè persone giuridiche private
con finalità d'interesse generale, non svolgenti attività economica, finanziati, controllati o influenzati in
prevalenza dallo Stato o da altri enti pubblici); si tratta di una nozione ampia perché lo scopo delle norme
che la regolano è di consentire la circolazione delle imprese in Europa e, dunque, di sottoporre il
maggiore numero di soggetti pubblici o sotto comando pubblico alle procedure di bando e di esame
comparativo delle offerte, per la stipulazione di contratti di appalto di lavori, di servizi e forniture.
2. Una seconda nozione fornita dal diritto nazionale in materia di accesso ai documenti
amministrativi: per pubblica amministrazione si intendono tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di
diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario (art. 22 l. n. 241/1990).

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3. Una terza nozione si trae dal diritto europeo e, di riflesso, da quello nazionale, in relazione al fine
di individuare il debito e il disavanzo pubblico: per pubblico si intende la pubblica amministrazione, vale
a dire l'amministrazione statale, regionale o locale e i fondi di previdenza sociale, ad esclusione delle
operazioni commerciali, quali definiti dal Sistema europeo di conti economici integrati (art. 2 del
protocollo 12 allegato al TUE).
4. Una quarta nozione si trova nel diritto nazionale per soddisfare l'esigenza di delimitare
l'applicazione delle norme sul rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni: per amministrazioni
pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine
e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le
regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni
universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, e le
amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le agenzie di cui al d.lgs. n. 300/1999.
5. Una quinta nozione è propria del diritto europeo: questo stabilisce che la libertà di circolazione dei
lavoratori non si applica agli impieghi nella pubblica amministrazione, la quale, secondo la
giurisprudenza comunitaria, è caratterizzata da due tratti: l'esercizio di poteri pubblici e la tutela di
interessi generali dello Stato o di altre collettività pubbliche (art. 45 TFUE).
Le nozioni legali della pubblica amministrazione possono essere sia di fonte normativa (come nei
casi delle procedure di scelta dei contraenti in materia di appalti, della individuazione del debito e del
disavanzo pubblico e del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni), sia di fonte
giurisprudenziale (come nel caso delle limitazioni alla libertà di circolazione dei lavoratori relativamente
agli impieghi nella pubblica amministrazione).

a. NON vi è una definzione unitaria di P.A.


b. Le P.A. possono essere definite o elencate, secondo differenti criteri e scopi diversi (nozione
funzionale)
c. Le nozioni possono essere individuate con criteri diversi, per elencazione (1,3,4) o per definizione (2,
5)
d. Le nozioni legali della P.A. sono di fonte normativa (1,2,3,4) o di fonte giurisprudenziale (5)
e. queste nozioni di contenuto variabili non costituiscono un elenco chiuso, perché, per altri scopi, leggi o
giurisprudenza possono scegliere altre nozioni

3. DISCIPLINA COSTITUZIONALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE


Le pubbliche amministrazioni hanno una propria posizione costituzionale riconosciuta a livello
formale.
La Costituzione italiana disciplina la pubblica amministrazione in più norme: all'art.5, secondo il quale
la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali ed attua il più ampio decentramento dei servizi
statali; all'art.95, secondo il quale i ministri sono responsabili individualmente degli atti dei loro
dicasteri; all'art.97, secondo il quale i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in
modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione; all'art.118, secondo il
quale le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario,
siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza.Inoltre, molte delle disposizioni contenute nel titolo I della prima parte
della Costituzione, avente ad oggetto i diritti e i doveri dei cittadini, sono rivolte anche alle
amministrazioni pubbliche: così, ad esempio, il diritto alla salute, la cui cura è assicurata dal Servizio
sanitario nazionale, o il diritto allo studio, al quale provvede il Sistema nazionale di istruzione.
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La Costituzione regola le amministrazioni pubbliche in modo sia diretto che indiretto.
− DIRETTO, rimette alla legge l'organizzazione degli uffici, stabilisce chi ne è responsabile, detta
criteri per la dislocazione delle funzioni.
− INDIRETTO, assegna ai privati diritti rispetto ai quali vi sono o limiti dell'attività delle pubbliche
amministrazioni oppure obblighi di prestazione di queste.
La funzione servente svolta dalle pubbliche amministrazioni nei confronti del governo incontra due
limiti:

− Il primo è quello della riserva di legge (relativa) prevista dall'art. 97 cost., secondo il quale
l'organizzazione amministrativa è sottratta al governo: questo può dettare, con
regolamento, l'organizzazione interna dei ministeri, ma non istituirli, sopprimerli,
modificarli.

− Il secondo è quello del principio di imparzialità della P.A., che costituisce un limite alla politicità
indotta in essa dal vertice politico: tale principio è ulteriormente sviluppato dalla
Costituzione, nella parte in cui prevede l'accesso ai pubblici uffici mediante concorso, il
divieto di promozioni non per anzianità dei funzionari pubblici che siano membri del
Parlamento, la possibilità di vietare con legge l'iscrizione ai partiti politici di magistrati,
militari ecc.

Errore diffuso è nel ritenere che, come il governo deve avere la fiducia del parlamento, l’amministrazione
debba avere la fiducia del governo.
Il principio di sussidiarietà, introdotto per la prima volta nell'art.5 Tue, è ora sancito dall'art.118 cost.,
che regola la distribuzione delle funzioni amministrative: in base a tale principio gli organismi superiori
(dal basso verso l'alto, province, città metropolitane, regioni e Stato) intervengono solo se e nella misura
in cui le finalità dell'azione prevista non possano essere sufficientemente realizzate dall'organismo di
livello inferiore e, quindi, più vicino alla collettività amministrata, il comune.

4. I PRINCIPI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

Il diritto amministrativo è retto da alcuni principi fondamentali.


I principi hanno un posto importante nel diritto amministrativo, anche a causa dell'assenza di una
codificazione. Negli altri rami del diritto, da quello civile a quello penale, alle procedure, persino a quello
costituzionale, le norme più importanti sono raccolte in modo organico in codici (o nella Costituzione).
Ciò non accade nel diritto amministrativo, dove vi è, quindi, maggiore necessità dell'azione ordinatrice
svolta dai principi, che reggono i diversi istituti positivi.
Alcuni dei principi fondamentali del diritto amministrativo sono stabiliti dalla Costituzione o da
leggi; altri sono il risultato della giurisprudenza consolidata dei giudici amministrativi nazionali o di
quelli europei; altri ancora sono stabiliti dai trattati o da atti dell'Unione europea. Così come la
definizione della pubblica amministrazione, dunque, i principi che reggono il diritto amministrativo
sono il frutto, congiuntamente, del diritto nazionale e di quello europeo, in quanto, per effetto
dell'integrazione, da un lato, l'ordinamento sopranazionale si è formato sulla base delle tradizioni comuni
dei diritti nazionali e, dall'altro, l'ordinamento sopranazionale penetra in quelli nazionali.

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4.1. Il principio di legalità

Indica che la pubblica amministrazione è sottoposta solo alla legge, nel senso che possono essere
esercitati solo i poteri indicati da quest'ultima e solo nei modi prescritti. In origine, tale principio ha
definito e limitato l'autorità della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini; in seguito, prima,
si è esteso anche ai rapporti tra amministrazione e governo; poi, ha acquisito ulteriori, più ampi
significati, divenendo ora regola di funzionamento dell'amministrazione, ora disciplina dei rapporti, ora
norma di organizzazione.
È un principio non enunciato dalla Costituzione, ma implicito nell'art. 113, secondo il quale
contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Esso, inoltre, si trae, in
forma indiretta, ma in termini più ampi, dall'art. 220 CE, secondo il quale la Corte di giustizia assicura il
rispetto del diritto nell'interpretazione e un controllo di legittimità sugli atti degli organi della Comunità
europea.
La funzione principale del principio di legalità è di tutela dei cittadini: il Parlamento, attraverso la
legge, garantisce questi ultimi, difendendoli dalla pubblica amministrazione. Peraltro, tale principio ha
anche una funzione di indirizzo dell'amministrazione, in quanto assicura il funzionamento del circuito
democratico:
elezione popolare del Parlamento - approvazione parlamentare delle leggi - esecuzione
amministrativa delle leggi.
Il principio di legalità si connette a quelli di eguaglianza, giustiziabilità e democrazia.
Il principio di legalità non riguarda tutte le attività svolte dalla pubblica amministrazione.
Pur nella sua accezione più estrema ed ampia, il principio di legalità riguarda l'attività detta
correntemente autoritativa dell'amministrazione, quella cioè che l'amministrazione svolge in modo
unilaterale, senza il consenso e contro la volontà del privato, esercitando nei suoi confronti un potere
comunemente definito di supremazia (ad esempio, l'espropriazione di un bene privato). Quando
l'amministrazione pubblica esercita la sua autonomia privata ed agisce come un privato, con il consenso
dell'altra parte, non è sottoposta al principio di legalità in tale forma ampia, bastando, ad esempio, che la
legge conferisca un certo potere, senza che vi sia necessità che ne regoli minutamente l'esercizio.
Il principio di legalità comporta sia il rispetto della tipicità e nominatività degli atti, per cui
possono essere emanati solo gli atti espressamente previsti dalla legge e solo in presenza dei presupposti e
per i motivi da questa indicati, non essendo ammessi atti misti o innominati, sia il divieto di ricorso a
poteri impliciti, cioè di poteri non espressamente attribuiti dalle norme, ma derivanti direttamente
dall'esigenza di garantire il soddisfacimento degli obiettivi della pubblica amministrazione. Esso inoltre
comporta l'esclusione di taluni principi, sviluppati dalla giurisprudenza o dalla scienza giuridica, ma non
consacrati dalla legge come tali, quali quelli di autotutela (potestà dell'amministrazione di farsi ragione da
sé) e di autarchia (potestà delle amministrazioni minori di emanare provvedimenti).
Va precisato che il principio di legalità non comporta il rispetto della legge formale da parte della
pubblica amministrazione. Secondo la giurisprudenza, il principio di legalità comporta il rispetto di
qualcosa di più della legge: ad esempio, di principi elaborati dai giudici, come ragionevolezza e
proporzionalità. Poi, alla legge si è aggiunta la Costituzione, che va anch'essa rispettata. Infine, alla legge
nazionale si è aggiunta la norma comunitaria e il giudice comunitario ha stabilito che l'autorità
amministrativa nazionale deve disapplicare la legge nazionale in contrasto con la norma europea.
Diverso dal principio di legalità è il principio della riserva di legge. La riserva di legge è disposta
in numerose materie dalla Costituzione, a differenza del principio di legalità. Essa implica un previo
intervento del legislatore, che deve regolare a sufficienza la materia, prima che possa intervenirvi la
pubblica amministrazione.

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Da queste osservazioni discende che la P.A. è ben lontana dall’esere la meccanica esecutrice di leggi.
Essa deve cercare e valutare la norma da applicare e rispettare i principi di formazione giurisprudenziale.
Il principio di legalità è il prodotto di un processo, durato almeno II secoli, di legalizzazione della P.A.;
le fasi principali sono state:
- Inizialmente P.A. considerata come attività libera da vincoli in quanto esplicazione di un potere
autonomo e indipendente (esecutivo)
- Successivamente è stata sottoposta alla legge
- Sottoposizione della stessa legge, ad una legge più alta, la costituzione che permette l’entrata di
principi ai quali è sottoposto il legislatore, ma anche l’amministrazione
- Principi relativi alle P.A. nazionali in atti normativi di rango costituzionale di portata globale o
sopranazionale. Le corti europee hanno stabilito il dovere di diligenza e l’obbligo di decidere in un
termine ragionevole dell’amministrazione, nonché il diritto di accesso e di essere ascoltati dei
cittadini
Il principio di legalità ha una vasta gamma di contenuti:
- Può essere inteso come limite negativo: assenza di una legge comporta la possibilità per le P.A.
di operare liberamente
- Inteso come limite positivo: la legge deve indicare le finalità dell’azione amministrativa
- Può essere declinato come rispetto di norme superiori. In tal caso il giudice riterrà legittima la
decisione amministrativa che miri ad attuare una disposizione costituzionale o sovranazionale.
- Può essere inteso come principio del rispetto di canoni o principi generali dell’ordinamento.

4.2. Il principio di azionabilità delle pretese o di giustiziabilità

Esso trova fondamento sia nell'art. 24 cost., secondo il quale tutti possono agire in giudizio per la tutela
dei propri diritti e interessi legittimi, e nell'art. 113 cost., secondo il quale contro gli atti della pubblica
amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi; sia nell'art. 230 tr. Ce,
che prevede la azionabilità delle pretese dei cittadini nei confronti dei poteri pubblici; sia nell'art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che sancisce il diritto ad un equo processo, cioè il diritto
di ogni persona a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine
ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle
controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le
venga rivolta.

4.3. Il principio di imparzialità

È stabilito dall'art. 97 cost. Esso ha un contenuto negativo ed uno positivo per la pubblica
amministrazione, in quanto comporta non solo il divieto di favoritismi, preferenze e discriminazioni, ma
anche l'obbligo di determinare criteri e modalità prima di procedere, quello di esaminare in modo
accurato, completo e imparziale tutti gli elementi rilevanti della fattispecie, quello di compiere in modo
oggettivo un esame comparativo degli interessi da valutare e di tenere conto dei relativi risultati e quello
di astensione quando vi sia un interesse alla decisione, per assicurare la terzietà dell'azione
amministrativa.

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4.4. Il principio di buon andamento e di buona amministrazione

É connesso ai criteri di economicità e di efficacia, al diritto ad una buona amministrazione ed al


principio della buona gestione finanziaria.
La portata del principio di buon andamento sancito dall'art. 97 cost. è molto vasta: vi si fanno
rientrare l'obbligo della pubblica amministrazione di perseguire la migliore realizzazione dell'interesse
pubblico, in modo che vi siano coerenza e congruità tra l'azione amministrativa e il fine che essa deve
perseguire; ovvero la tempestività dell'azione amministrativa; ovvero ancora l'economicità (minor costo),
l'efficacia (che misura il rapporto tra risultati ottenuti e obiettivi prestabiliti) e l'efficienza (minore
dispendio di risorse per ottenere i risultati) dell'attività amministrativa. Ad esso si connettono sia i criteri
di economicità e di efficacia stabiliti dall'art. 1, c. 1, l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, sia
il " diritto a una buona amministrazione " riconosciuto dall'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea, sia il principio della " buona gestione finanziaria " disposto dall'art. 274 tr. Ce a
carico della Commissione europea, per l'esecuzione del bilancio.
Dal principio di buon andamento si è sviluppato quello di buona amministrazione. La buona
amministrazione si è evoluta da principio a diritto in quanto conferisce diritti ai quali fanno riscontro
obblighi della P.A.. La buona amministrazione ha contenuto variabile. Vi sono alcuni diritti essenziali
che ne fanno parte: diritto di accesso, quello di essere sentiti, quello a ottenere una decisione motivata.
Questa parte si sovrappone con il principio di legalità. La buona amministrazione, infine comprende
regole più minute, come il dovere di cortesia, o la regola della risposta scritta alla domande dei privati. I
beneficiari sono o la collettività oppure i singoli membri. Obbligati a rispettare il principio sono
autorità nazionali o ultrastatali

4.5. principi di ragionevolezza e di proporzionalità

Sebbene siano diversi, vengono spesso applicati congiuntamente. Essi si riferiscono alla definizione
fornita dall’art. 5.4 del Tue. Il principio di ragionevolezza: è inteso in tre modi:
− come congruità tra disciplina normativa e decisione amministrativa;
− come coerenza tra valutazione compiuta e decisione presa;
− come coerenza tra decisioni comparabili.
Proporzionalità: comporta un giudizio di adeguatezza del mezzo adoperato rispetto all'obiettivo da
perseguire e una valutazione della portata restrittiva delle misure che si possono prendere, per cui gli
atti amministrativi non debbono andare oltre quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo
prefissato: se si presenta una scelta tra più opzioni, occorre ricorrere a quella meno restrittiva, perché non
si possono imporre obblighi e restrizioni alla libertà del cittadino in misura superiore a quella strettamente
necessaria a raggiungere gli scopi che l'amministrazione deve realizzare.

4.6. Il principio del legittimo affidamento

É di esclusiva formazione giurisprudenziale, sia nel diritto nazionale, sia in quello europeo. Esso
è un'applicazione del principio di buona fede oggettiva e comporta la tutela dell'affidamento ragionevole
generato da un precedente comportamento dell'amministrazione pubblica. Serve per la protezione delle
situazione consolidate contro revoche di atti amministrativi.

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4.7. I principi del contraddittorio (o del giusto procedimento), dell’obbligo di motivazione, e della
trasparenza (da cui deriva il diritto di accesso).

Questi tre principi sono tra loro collegati: sono connessi al procedimento amministrativo e disciplinati in
Italia dalla L.241/90. Questa prevede la facoltà degli interessati di intervenire nel procedimento (art.9),
l’obbligo dell’amministrazione di motivare il provvedimento amministrativo (indicando i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Art.3, c.1) e il diritto di accesso ai documenti amministrativi di chiunque vi abbia un interesse diretto,
concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giudicamene tutelata collegata al documento (art.
22,c.1).
I principi del contraddittorio (o del giusto procedimento), dell’obbligo di motivazione hanno
inizialmente avuto origine nei procedimenti amministrativi sanzionatori nei riguardi dei funzionari
pubblici per poi estendersi in modo generalizzato anche per effetto di un ampio riconoscimento
nell’ambito del diritto europeo.
Il principio della trasparenza dell’amministrazione, si contrappone invece a quello del segreto
amministrativo, prima prevalente. La finalità perseguita è favorire, mediante l’accesso alla
documentazione amministrativa, la partecipazione del cittadino all’attività amministrativa, assicurandone
l’imparzialità e la trasparenza.
Il diritto di accesso ai documenti è appunto la principale conseguenza di tale principio. Esso è assicurato
non solo nei confronti delle amministrazioni pubbliche, ma anche dei gestori di servizi pubblici. Riguarda
i documenti amministrativi, e cioè rappresentazioni grafiche, cinematografiche, elettromagnetiche e di
qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni, o,
comunque, utilizzati ai fini dell'attività amministrativa. È escluso solo quando necessario per
salvaguardare sicurezza nazionale, difesa, relazioni internazionali, politica monetaria e valutaria, ordine
pubblico, prevenzione e repressione della criminalità, riservatezza di terzi.
L'obbligo di motivazione è previsto a tutela dei destinatari del provvedimento. Esso, comportando una
completa esposizione del ragionamento di fatto e di diritto alla base del provvedimento, in relazione alle
risultanze dell'istruttoria, ha una duplice funzione: permette agli interessati di conoscere la
giustificazione del provvedimento per difendere i propri diritti e consente al giudice di esercitare il suo
sindacato sulla legittimità della decisione.

4.8. I principi di sussidiarietà e di leale cooperazione,

Non riguardano direttamente i rapporti tra amministrazione pubblica e cittadini, ma le relazioni


organizzative tra amministrazioni pubbliche. Il principio di sussidiarietà è menzionato dall'art. 118
cost. quale criterio di attribuzione delle funzioni amministrative per assicurarne l'esercizio unitario, ai
livelli di governo superiori a quello comunale ed è richiamato nell'art. 5.3 TUE, secondo il quale nei
settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene soltanto e nella misura in cui gli
obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono
dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a
livello comunitario. Il principio di leale cooperazione è definito dall'art.4.3 TUE, secondo il quale gli
Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione
degli obblighi derivanti dal Trattato stesso ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità:
la Corte costituzionale italiana ha affermato un obbligo analogo nei rapporti tra Stato e regioni: quando
concorrono competenze dell'uno e delle altre, devono contemperarsi i rispettivi interessi

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5. La convezione europea dei diritti dell’uomo e il diritto amministrativo

La convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è stata
stipulata nel 1950 e ratificata in Italia nel 1955. La convenzione è amministrata dal Consiglio d’Europa,
istituito nel 1949 e che oggi conta 47 membri. Numerosi articoli della convenzione riguardano materie
amministrative. Di particolare importante è l’art. 6 per il quale ogni persona ha diritto a che la sua causa
sia esaminata equamente, pubblicamente entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e
imparziale. La sentenza deve essere resa pubblicamente. La Corte europea dei diritti dell’uomo, quindi,
da una norma di diritto processuale civile e penale ha tratto una norma di diritto amministrativo
sostanziale, applicabile ai rapporti tra cittadino e amministrazione e al procedimento amministrativo.
Applicato l’art. 6 alla P.A., la Corte europea ha stabilito i seguenti principi: indipendenza/imparzialità
dell’organo decidente; sua sottoposizione alla legge; obbligo del contraddittorio e pubblicità; diritti delle
parti ad un difensore; decidere in tempi ragionevoli.

6. Amministrativizzazione del diritto costituzionale?

Il diritto amministrativo reagisce, conquistando il diritto costituzionale. La costituzionalizzazione del


diritto amministrativo si è svolta in 3 fasi:
- Distinzione tra esecutivo e amministrazione
- Inclusione nelle costituzioni formali di alcuni principi amministrativi
- Penetrazione nei diritti amministrativi nazionali di alcuni principi propri del diritto costituzionale
sovranazionale
La costituzionalizzazione del diritto amministrativo non è un processo a senso unico, perché vi è anche un
processo inverso, di penetrazione e influenza del diritto amministrativo in quello costituzionale.

ALTRE RIFLESSIONI

Nell'ordinamento italiano, pur considerando il principio della separazione dei poteri, l'attività
amministrativa può essere influenzata dal potere giudiziario. La pubblica amministrazione, infatti, pur
essendo separata dal potere giudiziario - così come da quello parlamentare, governativo e privato - ne è in
qualche modo condizionata: ad esempio, i suoi provvedimenti sono sottoposti, su iniziativa dei soggetti
che se ne ritengono lesi, all'esame del giudice amministrativo, che può annullarli.
La pubblica amministrazione risulta anche in qualche modo condizionata da fenomeni quali il
potere politico o le amministrazioni transnazionali. Interi settori della pubblica amministrazione seguono
gli indirizzi delle amministrazioni internazionali, multinazionali o transnazionali, come nel caso
dell'agricoltura, ovvero agiscono secondo criteri fissati da queste ultime, come nel caso delle poste;
inoltre, di regola, a capo delle pubbliche amministrazioni si trovano funzionari tratti dal corpo politico.

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CAPITOLO II ‐ Le funzioni

1. PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E FUNZIONI AMMINISTRATIVE

Le pubbliche amministrazioni sono istituite, dotate di mezzi e disciplinate da regole speciali per garantire
lo svolgimento di specifiche funzioni. Pertanto, le funzioni identificano la ragion d'essere e la posizione
dell'amministrazione nei confronti della società, costituiscono il principio ordinatore
dell'organizzazione e dell'attività amministrativa e, infine, determinano la fonte competente a
regolarle. Per queste ragioni lo studio del diritto amministrativo non può prescindere da un'analisi
giuridica delle funzioni, in quanto disciplinate da norme e fonti di rapporti rilevanti per l’ordinamento. Le
funzioni variano nel tempo e nello spazio e sono disciplinate in modo diverso le une dalle altre: l’unico
criterio generale di classificazione é quello della distribuzione di funzioni tra i livelli amministrativi
(comunitaria, statale, regionale, locale).

2. NOZIONI DI FUNZIONI

2.1. Funzione amministrativa e separazione poteri

La tripartizione delle funzioni e la separazione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) servono a
comprendere le origini di alcuni istituti del diritto amministrativo, ma ormai non corrispondono più al
diritto vigente; al massimo, hanno un valore orientativo.
Vi sono soggetti pubblici, come le autorità indipendenti, non appartenenti ad alcuno dei tre
poteri; così come la stessa amministrazione non è integralmente riducibile al suo vertice politico-
governativo, che ha soltanto poteri di indirizzo e di controllo, non di gestione. Spesso, poi, vi è una
dissociazione tra il potere in senso funzionale o sostanziale (di eseguire, di porre norme, di dirimere
controversie) e il potere in senso formale: l'autorità e l'atto che da essa promana (il provvedimento
dell'amministrazione, la legge del Parlamento, la sentenza del giudice). Si pensi alle funzioni
amministrative affidate ai giudici (ad esempio, l'attività di volontaria giurisdizione); alle funzioni
normative svolte dall'esecutivo (così, l'esercizio del potere regolamentare); alle funzioni di soluzione dei
conflitti attribuite all'amministrazione (si parla, in proposito, di attività " paragiurisdizionale ").
Il principio della separazione dei poteri è stato ulteriormente eroso dall'ordinamento europeo che,
al suo interno, non distingue nettamente le tre funzioni. Ad esempio, la Commissione europea, l'organo
amministrativo-esecutivo dell'Unione, partecipa al procedimento legislativo e svolge funzioni
contenziose. Il diritto europeo, inoltre, nei rapporti verticali con gli Stati membri, impone il superamento
di qualsiasi immunità: non soltanto il potere esecutivo, ma anche quello legislativo, sono sindacabili da
parte del giudice. Quest'ultimo, anzi, può condannare lo Stato "legislatore" al risarcimento del danno, ad
esempio, per mancata o erronea attuazione di direttive comunitarie (procedure di infrazione).

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2.2. Funzione e servizio

Relativamente alla differenza tra Funzione e Servizio, esiste nel Diritto Amministrativo, un'opinione
diffusa che distingue funzione e servizio per affermare che soltanto la prima è un'attività necessaria per la
collettività: quindi, in gestione riservata, retta dal diritto pubblico. Questa concezione, a volte, ispira
singole soluzioni legislative: ad esempio, l'esclusione dal regime privatistico del rapporto di lavoro con le
pubbliche amministrazioni degli impieghi più strettamente connessi all'esercizio delle funzioni "sovrane"
(come i magistrati, il personale militare e delle forze di polizia, il personale della carriera diplomatica e di
quella prefettizia: art. 3, d.lgs. n. 165/2001).
Questa distinzione, tuttavia, costituisce un retaggio dello Stato liberale in larga misura superato.
Infatti, per un verso, la fornitura di determinati servizi è considerata parimenti necessaria al
funzionamento della collettività. Per altro verso, anche l'esercizio delle funzioni amministrative si traduce
nell'erogazione di servizi alla collettività in base alle disponibilità finanziarie dello Stato. Le funzioni,
inoltre, al pari dei servizi pubblici, possono, a certe condizioni, essere delegate a soggetti privati e
persino svolgersi in concorrenza. La distinzione tra funzione e servizio, dunque, non ha valore
generale: serve soltanto ai fini dell'applicazione di singole previsioni normative; queste ultime, tuttavia,
adottano criteri di individuazione diversi caso per caso (anche se a volte assimilabili).
In conclusione, per servizi pubblici si intendono generalmente i servizi erogati all'utenza a
condizioni diverse da quelle di mercato, sulla base di una previsione legislativa e di un incarico
dell'amministrazione. È opportuno, comunque, chiarire che non esiste una nozione legale di servizio
pubblico. Vi sono, invece, tante nozioni diverse, funzionali all'applicazione delle singole discipline. Ciò è
evidente nei casi in cui il legislatore elenca i settori e le attività considerate come servizi pubblici ai fini di
determinare l'ambito oggettivo di applicazione di una data normativa. Il discorso, tuttavia, vale anche
quando la legge utilizza la nozione, senza definirla o esemplificarne i contenuti. L'estensione della
disciplina pubblica, allora, si determina in relazione alla sua ratio complessiva: la maggior parte delle
volte, ad esempio nell'art. 43 cost. o nelle norme sulla regolazione, la nozione di servizio pubblico è
intesa in senso economico.

2.3. L’amministrazione come funzione

Attribuendo un altro significato al termine, anche l’amministrazione è considerata, in quanto tale,


funzione. In questo modo, si intende dire che essa è preposta alla cura di interessi generali e che,
pertanto, deve essere, nella sua globalità, in un " rapporto di congruenza " con i fini pubblici.
L'ordinamento, dunque, assicura la funzionalizzazione dell'amministrazione, in tutti i suoi aspetti:
l'organizzazione, i mezzi (personali, patrimoniali e finanziari) e l’attività sono sottoposti a un regime
ambivalente, per alcuni aspetti pubblico, per altri privato (disciplina del codice civile). La
funzionalizzazione opera con intensità e tecniche giuridiche differenziate, a seconda delle soluzioni
adottate dal legislatore o dalla stessa amministrazione.
Abbiamo quindi visto che l'attività amministrativa, secondo un'opinione diffusa, si
contraddistingue per il carattere funzionale: è, cioè, rilevante nella sua globalità, diversamente
dall'attività privata, che è tale soltanto per alcuni aspetti. L'attività amministrativa, dunque, persegue i
fini determinati dalla legge; è sottoposta a determinati principi, a cominciare da quelli costituzionali di
imparzialità e buon andamento; è, in via generale, procedimentalizzata e sottoposta a controlli.
Bisogna però distinguere le varie modalità in cui ciò avviene. A volte, l'attività amministrativa si svolge
secondo una sequenza tipicamente pubblicistica: si avvia un procedimento che si conclude con
l'emanazione di un provvedimento (anche se questo può essere sostituito o determinato nel contenuto da
accordi retti dal diritto privato).

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Altre volte, l'attività amministrativa si svolge tramite contratti. In questi casi, il perseguimento dei
fini stabiliti dalla legge e il rispetto dei principi dell'azione amministrativa sono assicurati con strumenti
diversi: da un lato, vi sono procedimenti amministrativi diretti alla definizione dell'operazione
contrattuale e alla scelta concorsuale del contraente; dall'altro, vi è un apprezzamento successivo
dell'attività complessiva, attraverso meccanismi propri e diversi da quelli fondati sul giudizio di
legittimità-liceità dell'elemento puntuale (dai controlli di risultato alla valutazione della responsabilità
dirigenziale). Si conferma, così, la pluralità delle tecniche di funzionalizzazione dell’amministrazione.
Nell’organizzazione amministrativa i ministeri e gli enti strumentali convivono con modelli privatistici,
come le SPA. Molti enti pubblici sono soggetti a regole di diritto privato, nel presupposto che queste
consentano la cura dell’interesse pubblico in modo più adeguato. Il personale pubblico è sottoposto a 2
regimi:
- Pubblicistico: fondato su una disciplina legale e riservata ad alcune categorie
- Privatistico: perché fondato su istituti e norme del codice civile
Anche i beni pubblici sono retti da regimi diversi. Vi è un regime pubblicistico, con regole
derogatorie, quali inalienabilità e indisponibilità, riservato ai beni demaniali e del patrimonio
indisponibile.

2.4. Funzionalizzazione dei compiti di interesse generale dei privati

Le ipotesi in cui soggetti privati vengono chiamati a svolgere compiti di interesse generale hanno
conosciuto, negli ultimi anni, un notevole sviluppo, per diverse cause. In primo luogo, le riforme
amministrative hanno condotto alla privatizzazione di molti enti pubblici, cui rimangono affidate le
funzioni svolte nella precedente veste (si pensi alle casse previdenziali dei liberi professionisti).
Contemporaneamente, alcuni compiti propri dell'amministrazione sono stati affidati a terzi: in
particolare, a soggetti di diritto privato, appositamente costituiti per legge ovvero operanti sul mercato. In
secondo luogo, il disegno costituzionale di un sistema sociale misto, dove le prestazioni sono erogate da
amministrazioni e soggetti privati, ha trovato sempre più riconoscimento nella legislazione: si pensi ai
"servizi nazionali" e ai "sistemi integrati" nei settori della sanità, dell'istruzione, della previdenza e
dell'assistenza sociale, ai quali partecipano a pari titolo erogatori pubblici e privati.

Questa prospettiva è ulteriormente rafforzata da una recente riforma costituzionale che invita i pubblici
poteri a favorire "l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di
interesse generale" (art. 118, c. 4, Cost.). In terzo luogo, i principi comunitari di libera circolazione e di
concorrenza hanno ridotto anche nel campo economico la possibilità per lo Stato di riservarsi
l'assolvimento di missioni di interesse generale. Imprese pubbliche e private, pertanto, sono libere di
concorrere nella fornitura di prestazioni essenziali per la collettività.
E’ opportuno sottolineare come il carattere funzionale dei compiti di interesse generale svolti dai
privati imponga, secondo un'opinione diffusa, l'applicazione dei medesimi principi e regole del diritto
amministrativo elaborati con riferimento alle organizzazioni pubbliche. Soltanto in questo modo sarebbe
possibile assicurare il corretto svolgimento della "missione" e tutelarne i beneficiari. Così, a volte, è lo
stesso legislatore a prevedere espressamente l'estensione di singole discipline pubbliche a soggetti
privati: ad esempio, il diritto di accesso ai documenti amministrativi si esercita nei confronti non soltanto
delle pubbliche amministrazioni ma anche dei gestori privati di servizi pubblici (art. 23, legge n.
241/1990). I terzi (gli utenti del servizio) possono così ricorrere ai medesimi strumenti di garanzia di cui
dispongono nei confronti dell'amministrazione. Altre volte invece è la giurisprudenza a pervenire
all’estensione delle norme del diritto amministrativo. Altre volte, l’ordinamento vincola l’attività del
privato al rispetto di una serie di obblighi, condizioni e limiti. Infine si può prevedere per legge la
soggezione dei privati al rispetto di regole concepite in via primaria per l’amministrazione.

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3. ANALISI GIURIDICA DELLE FUNZIONI

Spesso l’ordinamento vincola il privato che espleta un servizio pubblico ad una serie di obblighi,
condizioni e limiti; oppure agevola finanziariamente il soggetto medesimo ma, in linea di principio, il
ricorso ad alcuni rimedi propri del diritto amministrativo potrà avvenire in via residuale, attraverso
applicazioni articolate e calibrate in relazione al caso concreto.

4. DISTRIBUZIONE TRA I LIVELLI DI AMMINISTRAZIONE

Il disporsi dei pubblici poteri su vari livelli, in seguito alla crescente integrazione europea e alla
riforma in senso federale dell’ordinamento repubblicano, ha per certi versi rimodulato la ripartizione delle
funzioni amministrative ed i relativi poteri di disciplina.
Secondo il principio di sussidiarietà, la Comunità europea interviene "soltanto e nella misura in cui
gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri" (art. 5
tr. Tue). Viceversa, è in base al principio di leale cooperazione che gli Stati " adottano tutte le misure di
carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal [...] Trattato,
ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità " (art. 10 tr. Ce).
In riferimento alla progressiva estensione delle politiche dell’UE, si noti come, per effetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale cooperazione le funzioni non soltanto legislative ma
anche amministrative possono essere ripartite tra Comunità e Stati; oppure svolgersi in modo concorrente,
attraverso procedimenti composti. In questo secondo caso, sono responsabili delle singole fasi ora
l'amministrazione comunitaria, ora quella nazionale, ora persino quella di altri Stati membri (in virtù del
principio del mutuo riconoscimento).
Anche nell’ordinamento italiano, in conseguenza della riforma costituzionale del 2001, le regole
sono mutate. L’art. 117 Cost. distribuisce le competenze legislative attraverso l’enumerazione delle
materie spettanti allo Stato. Con un rovesciamento completo della previdente tecnica di riparto sono ora
affidate alle regioni potestà legislative concorrenti e, in via residuale, esclusive.
Lo stesso articolo, nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, stabilisce che le Regioni
esercitano la potestà legislativa nell'ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dalla
legge statale. Ai sensi dell'art. 1, legge n. 131/2003, in difetto di apposite leggi cornice, i principi sono
desumibili dalle leggi statali vigenti ovvero oggetto di appositi decreti legislativi di carattere ricognitivo.
.L'art. 118 Cost., inoltre, stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che,
per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite da leggi statali o regionali, secondo le rispettive
competenze, a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza. Le funzioni amministrative, quindi, rispetto alla precedente versione
dell'art. 118 Cost., non sono più distribuite in corrispondenza con le potestà legislative (e, dunque, in base
al criterio della materia), ma sono anzitutto attribuite al livello di amministrazione più "vicino" ai
cittadini, quello comunale, verificando la natura, le dimensioni e le capacità dei soggetti in grado di
svolgerla.
L’attuazione del federalismo fiscale mira proprio a garantire il coordinamento tra centri di spesa e centri
di prelievo, responsabilizzando regioni ed enti locali nella gestione delle risorse. In tale sistema, in
conclusione, l’amministrazione non è intesa come esecuzione della legge, ma come cura di interessi. La
distribuzione della funzione tra i diversi livelli di amministrazione dipende prima di tutto dalla
dimensione e dalla natura degli interessi da soddisfare.

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5. ELEMENTI E CLASSIFICAZIONI

Gli elementi fondamentali delle funzioni sono quattro: la materia, i fini, le attribuzioni, i destinatari.
Senza una considerazione di insieme di tutti questi elementi, non è possibile comprendere i caratteri delle
funzioni.
- La materia indica il campo o ambito di intervento della funzione, come definito dalla legge: ad
esempio, la legge italiana attribuisce alla pubblica amministrazione compiti relativamente
all'agricoltura, distinguendo, però, tra attività di tutela e attività di produzione; la materia può servire a
delimitare il campo dell’intervento pubblico.
- Con il termine attribuzione ci si riferisce al complesso di compiti conferiti all'amministrazione
dalle norme in ordine ad una materia (" policy " nella terminologia inglese). Ad esempio, in materia di
istruzione, vi sono amministrazioni che provvedono direttamente all'erogazione dei servizi scolastici ed
altre che svolgono attività di controllo nei confronti di istituti privati: dunque, nella stessa materia, si
riscontrano soggetti pubblici che svolgono compiti diversi; le attribuzioni possono essere di vario
genere. La categoria più tradizionale è quella relativa all’esercizio delle funzioni di ordine che si
traducono nell’erogazione di servizi indivisibili alla collettività. Una seconda ipotesi è quella in cui le
amministrazioni erogano servizi a ciascun cittadino, attraverso la costituzione di rapporti individuali
di utenza. Una terza ipotesi è quella in cui le amministrazioni vendono beni e servizi. Una quarta
ipotesi riguarda la direzione di attività private per la cura di interessi collettivi. È il caso delle
funzioni di governo del territorio e di disciplina dell’economia. Infine i pubblici poteri esercitano
attribuzioni di tipo regolatorio aventi ad oggetto rapporti tra privati.
- Fine è lo scopo complessivo, nel senso che non riguarda ogni singolo atto: ad esempio, quello di
assicurare l'istruzione obbligatoria e gratuita, a carico delle amministrazioni centrali, sino al
compimento della scuola dell'obbligo, è un fine regolato soltanto a partire dal 1962.
- Più complessa è l’identificazione dei destinatari che, secondo il prevalente orientamento,
coincidono con quanti chiedono una prestazione all’amministrazione (da qui l’idea che i cittadini
abbiano un interesse oppositivo). Con l’affermazione dello Stato regolatore, si è creato un rapporto
trilaterale tra autorità pubblica, soggetti regolati e soggetti protetti dall’intervento regolativo.
L'individuazione dei destinatari delle funzioni amministrative è operazione importante: ad esempio,
è utile per stabilire i soggetti legittimati a partecipare ai procedimenti amministrativi e a impugnare i
provvedimenti finali.

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CAPITOLO III – L’organizzazione
1. PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA

Con l’espressione organizzazione amministrativa si indica di solito sia il complesso dei soggetti e
delle strutture che svolgono attività di pubblica amministrazione, sia l’esercizio della funzione
organizzativa dei pubblici poteri.
Complesso soggetti: rilevanza profili strutturali e statici; organizzazione come apparato; singole
articolazioni come oggetto di analisi: ministero o ente pubblico.
Esercizio funzione amministrativa: caratteri funzionali e dinamici; attività organizzativa dal punto
di vista oggettivo; strumenti attraverso i quali si esercita la funzione di organizzazione pubblica
(regolamenti, statuti, atti amm.vi, prassi consolidata).
I due significati sono strettamente connessi con differenze marcate: da un lato le strutture
organizzative non esercitano attività amministrativa; dall’altra l’attività amministrativa non viene svolta
soltanto dall’organizzazione amministrativa. Molte fattispecie possono essere considerate in un ottica sia
di organizzazione che di attività, come per esempio nell’ipotesi della conferenza di servizi (art. 14 l. n.
24/1990) per cui il procedimento definire sia strutture che forma dell’attività.
Se la si concepisce come il complesso degli uffici che sono predisposti per la cura degli interessi
generali di una collettività, l’organizzazione amministrativa non si presenta come corpo estraneo ma
come suo sviluppo logico ed elemento di integrazione e rafforzamento.

2. GLI ELEMENTI DELL’ORGANIZZAZIONE

Le amministrazioni pubbliche sono costituite per tutelare gli interessi della collettività e pertanto hanno
natura strumentale. Di volta in volta le norme attribuiscono a ciascuna autorità amministrativa le singole
funzioni da esercitare, individuandone l’ambito di intervento connesso. Il legislatore quindi:
A. Definisce e ordina un’attività giuridica;
B. La assegna ad una articolazione organizzativa;
C. Conferisce a questa i poteri per compierne lo svolgimento.
Quindi, affinché possa aversi una organizzazione amm.va, devono sussistere tre elementi;
funzioni, articolazioni in uffici e attribuzione di potere agli uffici.
Delle funzioni si è già trattato (cap II) dicendo che le funzioni sono organizzate in uffici ma ve ne
sono anche non organizzate.
Per quanto riguarda la articolazione delle funzioni queste devono essere distribuite tra gli uffici, i
quali, a loro volta, si strutturano in relazione alla loro complessità, dando vita sempre più di frequente a
organizzazioni complesse. Di conseguenza l’organizzazione amministrativa viene ad essere definita in
base alle funzioni espletate. Infatti, ogni amministrazione è concepita sulla base di un disegno ordinatore
che prevede la ripartizione di singole funzioni su differenti moduli organizzativi.
Branca amministrativa: insieme di figure soggettive che operano in uno dei tanti settori di intervento.
I criteri attraverso i quali si realizza la distribuzione delle funzioni sono due:
- quello delle materie, in base al quale queste sono attribuite dalla legge a un determinato soggetto
- quello delle attribuzioni, in base al quale una singola materia spetta indistintamente a soggetti
diversi ma variano i compiti di ciascuno di essi.
Secondo il giudice amministrativo, il principio della ripartizione delle funzioni tra uffici differenti è
diretta espressione di quello di imparzialità sancito dall’ art. 97 cost., poiché si concretizza in una
garanzia per l’azione imparziale della pubblica amministrazione.
Il Terzo elemento è quello della distribuzione dei poteri agli uffici affinché questi possano operare.
Inoltre, la competenza é il complesso dei poteri riconosciuto a ciascun ufficio. Essa coincide con la
parte di funzione che deve essere esercitata.

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La distribuzione della competenza tra i vari uffici si realizza avendo a riferimento 3 elementi: la
materia, il grado e il territorio. La competenza è definita dalla legge e, pertanto, non può essere derogata,
salvo che in ipotesi espressamente previste. In caso di contrasti sulla applicazione di norme in materia di
competenza, i relativi conflitti vengono definiti reali o virtuali (a seconda che un organo eserciti ovvero
pretenda di esercitare un potere che sia ritenuto da un altro organo lesivo della propria competenza) e
positivi e negativi (a seconda che gli organi si dichiarino contemporaneamente competenti ovvero
incompetenti).

3. LE NOZIONI DI BASE. LE FIGURE SOGGETTIVE

Le figure soggettive: sono configurate come persone giuridiche pubbliche; per il carattere della
pubblicità bisogna far riferimento al suo regime giuridico, cioè al complesso di norme che ne disciplinano
l’esistenza e l’attività e la inquadrano nel sistema amministrativo.
Per organo si intende quella partizione organizzativa della persona giuridica – l’ufficio – che una
norma qualifica come idonea ad esprimerne la volontà consentendone l’imputazione dell’atto e degli
effetti (sindaco e consiglio comunale); così le persone giuridiche diventano titolari di fattispecie
giuridiche. La necessità dell’imputazione è dovuta a due ragioni:
- consente di mantenere responsabilità al vertice di fronte alla varietà e alla complessità delle
forme organizzative;
- di assicurare la tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei privati.
Gli elementi che caratterizzano l’organo sono due:
− il titolare: è la persona fisica della quale l’ente si avvale per manifestare la propria volontà: essa
deve essere considerata in termini impersonali, attraverso il perseguimento dei principi di continuità
(poiché non può esistere soluzione di continuità nell’attività dell’organo) e intercambiabilità (solo una
persona è abilitata ad agire)
− l’ufficio: è la parte di potestà assegnata dalla legge e delimitata dalla competenza. Essi svolgono
compiti ausiliari e strumentali rispetto agli organi e servono a porre questi nella condizione di assolvere le
funzioni loro assegnate in modo più efficiente e informato.

4. I TIPI E I MODELLI ORGANIZZATIVI

L’organizzazione pubblica si articola in una pluralità di modelli e tipi ordinati sempre più secondo
il criterio della dispersione per due motivi:
- accanto ai corpi centrali dello stato ve ne sono altri che operano a livello nazionale, periferico e
comunitario che hanno una propria personalità giuridica e che agiscono autonomamente;
- in secondo luogo perché si diffonde sempre più la tendenza a consentire alle pubbliche
amministrazioni l’utilizzazione di strumenti propri del diritto privato.
Ne deriva che l’assetto organizzativo della pubblica amministrazione è estremamente composito, tanto da
dare l’impressione di essere addirittura disordinato.

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4.1. Classificazione degli uffici pubblici

- Uffici necessari: costituiti da una norma senza che all’amministrazione sia riconosciuta alcuna
potestà in proposito;
- Uffici non necessari: sono quelli istituiti autonomamente dall’amministrazione stessa
(commissione di studio);
- Uffici monocratici: sono costituti solamente da una persona fisica (questore);
- Uffici collegiali: sono costituiti da una pluralità (commissione di studio); a loro volta si dividono
in:
- Perfetti e imperfetti: se indispensabile o meno una discussione (commissione giudicatrice)
oppure solo esprimere la volontà (collegio elettorale);
- Di ponderazione / reali e di composizione / virtuali: a seconda che debbano raggiungere una
decisione o risolvere conflitti e comporre interessi eterogenei (Consiglio di Stato)
- Rappresentativi e non: a seconda che i titolari siano eletti o designati da gruppi sociali o meno
(consiglio comunale);
- Uffici Semplici: costituiti da una cellula elementare non scomponibile (capitaneria di porto);
- Uffici Complessi: formati da una pluralità di uffici che agiscono in modo coordinato in relazione
a un determinato fine (università);
- Uffici entificati e meri uffici: a seconda che assumano o meno la personalità giuridica;
- Uffici ordinari e straordinari: a seconda che siano permanenti o temporanei;
- Uffici attivi, consultivi e di controllo: in relazione alla natura dei compiti attribuiti
- Uffici centrali, periferici, locali e misti: ministero, prefettura, provincia, regioni e province
autonome;
- Uffici esterni e interni: i primi sono legittimati ad adottare provvedimenti che determinano
conseguenze nei confronti di soggetti estranei; i secondi quando svolgono un’attività che ha rilievo
solo nell’ambito della propria organizzazione.

4.2. I modelli prevalenti

Ministero Ente pubblico Autorità indipendente Soggetto privato


controllato
Modello stabile; sta subendo È in via di dispersione poiché Si sta rafforzando anche Categoria in ampliamento a
mutamenti per le sta subendo gli effetti delle grazie alle indicazioni che causa dell’affermazione degli
modificazioni del rapporto progressive privatizzazioni giungono dalle disposizioni strumenti di diritto privato
centro-periferia. nel settore. UE. applicati all’amministrazione
pubblica.
Accanto agli uffici, nell’organizzazione pubblica assumono rilievo i modelli strutturali, ossia gruppi
di uffici caratterizzati da elementi comuni. Ne esistono 4 prevalenti: ministero, ente pubblico, autorità
indipendente e soggetto privato controllato.

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5. LE RELAZIONI ORGANIZZATIVE

Essendo l’organizzazione amministrativa italiana varia e complessa, questo favorisce lo sviluppo di


un’ampia serie di relazioni, interne ed esterne, tra i vari enti.

5.1. Rapporti di subordinazione

Un ufficio posto in posizione sotto ordinata viene assoggettato, in diversa misura, ai poteri di un
ufficio posto in posizione sovra ordinata. Sono riconducibili in questo ambito le figure della gerarchia,
direzione controllo e delegazione.
- Gerarchia: rapporto che si realizza quando un ufficio viene sottoposto ai poteri di comando, di
indirizzo e di controllo di un altro ufficio. Essa si esplica attraverso ordini, istruzioni e atti di
coordinamento, di vigilanza, di annullamento, di riforma, di decisione, di avocazione e di sostituzione
(amministrazione militare).
- Direzione: consiste nella determinazione da parte di un ufficio nei confronti di un altro di un
obiettivo da perseguire. Essa si concretizza mediante direttive, cioè atti che si limitano a definire i
fini lasciando al discrezionalità in ordine alla scelta e alla modalità di attuazione. Il rapporti di
direzione è molto diffuso nell’amministrazione contemporanea.
- Controllo: si concretizza in una verifica operata da un ufficio della corrispondenza dell’attività
svolta da un altro ad un indirizzo definito in via preventiva a livello normativo o amministrativo e, in
caso negativo, nell’adozione di una misura sanzionatoria. Si pensi al controllo della Corte dei Conti
sugli atti dei ministeri. Il controllo può riguardare singoli atti ovvero l’attività complessiva, o i suoi
risultati, di un altro ufficio e si realizza con modalità diverse in relazione al soggetto, ambito, tempo e
alla natura.
- Delegazione: un ufficio, che è legittimato a provvedere in ordine a specifici interessi attribuiti
alla sua cura, incarica un altro di compiere una determinata attività al medesimo fine. In questo
modo il secondo acquisisce poteri e facoltà che spetterebbero in via esclusiva al primo.

5.2. Rapporti di equiordinazione

Due o più organi o uffici possono essere collocati anche sullo stesso piano, cioè in una posizione
di equiordinazione. In questo caso i rapporti che si instaurano sono di parità o primazia
Parità: ove vi siano più organi od uffici che hanno i medesimi poteri pur se in relazione a materie
diverse: è il caso dei ministeri ovvero dei dipartimenti all’interno di un ministero.
Primazia: quando tra più organi od uffici posti in una situazione paritaria, ve ne è uno che, per
taluni fini particolari, assume una posizione prevalente (presidente di un collegio).

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5.3. Rapporti di autonomia

Con questo termine si indica la capacità di alcuni enti pubblici di autodeterminarsi in ordine alla
soddisfazione degli interessi di propria pertinenza. A seconda dei casi è possibile individuare vari tipi di
autonomia:
• una politico-amministrativa: quando ad un ente viene riconosciuto il potere di darsi un indirizzo
politico-amministrativo diverso da quello del governo centrale, come nel caso degli enti che
rappresentano collettività in quanto a investitura popolare (regioni, province e comuni);
• una normativa: quando a un ente viene riconosciuto il potere di darsi norme rilevanti per il
sistema generale delle fonti di diritto (regolamenti comunali di polizia);
• una organizzativa o statuaria: quando a un ente viene riconosciuto il potere di definire, con uno
statuto, il proprio assetto strutturale per la parte interna non definita da una norma primaria, nonché le
regole per il proprio funzionamento;
• una regolamentare: quando a un ente viene riconosciuto il potere di adottare regolamenti
organici del personale, di contabilità o di servizio;
• una finanziaria: quando a un ente viene riconosciuto il potere di finanziarsi autonomamente;
• una contabile: quando a un ente viene riconosciuto il potere di tenere una propria contabilità in
base a norme che derogano la disciplina di contabilità generale;
• una tributaria: quando a un ente viene riconosciuto il potere di assicurarsi entrate proprie
attraverso l’imposizione di tributi.

Dall’autonomia politico-amministrativa si distinguono:


Autogoverno: si ha quando un ente, nel proprio territorio, viene dotato oltre che di autonomia anche
di tutte le funzioni pubbliche, ad eccezione di quelle concernenti la difesa e i rapporti con l’estero (GB
secolo scorso).
Decentramento: devoluzione di funzioni da uffici centrali a uffici locali, che le esercitano sotto il
controllo della rispettiva collettività e non più del centro.
Deconcentrazione: trasferimento di funzioni da uffici centrali a periferici che dipendono sempre
dall’amministrazione statale.
Infine vi è anche la figura dell’Autarchia che è diversa da autonomia: riconoscimento in capo ad un ente
del potere di adottare atti amministrativi che, in relazione agli effetti, sono equiparati a quelli statali.

5.4. Rapporti di indipendenza

È strettamente collegato a quello di autonomia che può trovare applicazione solo tra soggetti posti
in posizione di equiordinazione. Diversamente, il principio di indipendenza deve essere usato in tutti
quelle ipotesi nelle quali sia necessario evitare che si possano sviluppare relazioni tali da incidere
sull’esercizio della funzione di un soggetto, in qualche modo condizionandola. L’autonomia è un
elemento necessario (strumentale) ai fini dell’affermazione dell’indipendenza. Un esempio su tutti è la
Magistratura.
Il principio di indipendenza si rivela molto simile a quello di imparzialità come strumenti di
garanzia dell’azione amministrativa.

5.5. Altri rapporti tra uffici

Tra questi assume particolare rilievo il concetto di amministrazione indiretta nato dallo studio del
caso dei comuni e delle province per cui svolgono una serie di compiti per conto dello stato. Il concetto di
codipendenza per cui una medesima organizzazione dipendeva contemporaneamente da più enti.
Infine quello di amministrazione impropria: per evitare l’eccessiva burocratizzazione delle regioni,
queste dovevano avvalersi di quelle degli enti minori.
Nell’ultimo quarto di secolo, poi, le leggi hanno introdotto nuovi tipi di rapporti, come, ad esempio,
quelli che derivano dalle conferenze di servizi e dagli accordi tra P.A.
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6. L’ORGANIZZAZIONE PUBBLICA ITALIANA

Oggi il potere pubblico è un complesso frammentato composto cioè da una pluralità di diverse
amministrazioni prive di centro di riferimento e di comando. Accanto alle amministrazioni statali,
vengono ad acquisire rilevanza altri pubblici poteri (regioni, comuni, enti pubblici) che agiscono
seguendo itinerari diversi e con problematiche differenti.Si tratta di un’organizzazione reticolare o ‘multi
organizzativa’. Accanto alle amministrazioni statali assumono sempre maggiore rilevanza altri pubblici
poteri (regioni, comuni, enti pubblici e autorità indipendenti), per cui occorre parlare di una pluralità di
pubblici poteri, senza un vero e proprio centro di comando. Si possono distinguere l’amministrazione
statale (sia centrale che decentrata) e quella pubblica non statale (enti pubblici nazionale, enti
autonomi. L’amministrazione statale è quella pertinente allo Stato.

6.1. I principi fondamentali

La nuova fisionomia dell’organizzazione amministrativa trova esplicito riconoscimento a livello


costituzionale in via diretta nell’art. 97 e indiretta negli artt. 5 -114 – 99 e 100 nonché 117 – 118.
In particolare l’art. 97 stabilisce una riserva di legge in materia di organizzazione pubblica:
l’istituzione, la modificazione e la soppressione degli uffici esterni, nonché la definizione del loro assetto
organizzativo, devono spettare al Parlamento, attraverso atti di normazione primaria, mentre quelli interni
sono proprie del governo, attraverso atti di normazione secondaria. Ad oggi, comunque, non risulta
ancora chiaramente distinta la separazione tra l’ambito di applicazione della normazione primaria e di
quella secondaria.
Artt. 5 e 114 cost., che affermano e tutelano rispettivamente il principio del decentramento e quello
dell’autonomia degli enti locali e territoriali, nonché gli art. 99 e 100 che garantiscono l’indipendenza del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti poi, costituiscono ulteriore conferma della composizione multi
organizzativa del sistema amministrativo.
Un altro principio importante è quello che riserva agli enti autonomi (regioni, città metropolitane,
province e comuni) la potestà statutaria e regolamentare per disciplinare la propria organizzazione
interna (art. 114 e 117 c. 6).
Le disposizioni costituzionali, per un verso, definiscono i principi che devono presiedere
all’espletamento della funzione organizzativa; dall’altro si prospettano come elemento di unificazione di
una realtà giuridica sempre più differenziata.
L’organizzazione amministrativa si ispira anche ad altri criteri che si trovano anche al di fuori
della Costituzione: il principio di sussidiarietà (art. 5 TUE) prevede che una istituzione di rango
superiore possa intervenire, al posto di un’altra che opera a livello inferiore, solamente quando questa
ultima non sia in grado di svolgere, in modo adeguato, i propri compiti. Il principio di sussidiarietà è stato
sancito anche dalla nuova disciplina costituzionale dell’art. 118. In questa disposizione si prevede che
tutte le funzioni amministrative spettano ai comuni, salvo che, per assicurarne un esercizio adeguato
ed efficiente, esse non debbano essere conferite, a seconda dei casi, alle provincie, città metropolitane,
regioni o allo Stato.
- Il principio di cooperazione (art. 4 Tue e 197 Tfue) sancisce l’obbligo di collaborazione e
assistenza reciproca tra le varie strutture pubbliche, sia in senso verticale, che in senso orizzontale.
Altri principi dispongono che le amministrazioni pubbliche devono definire la propria
organizzazione in modo da assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa e
garantire nello stesso tempo la funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi, il perseguimento di
obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità (cap. VII, par. 3.4), l’ampia flessibilità delle strutture, il
collegamento delle attività degli uffici, l’imparzialità e la trasparenza dell’azione, nonché il
soddisfacimento delle esigenze degli utenti.

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Stabiliscono, inoltre, il principio della distinzione tra i compiti di indirizzo e di controllo, riservati
all’organo politico, e quelli di gestione, riservati agli uffici dirigenziali (cap. IV, par. 5.1). Prescrivono,
infine, che, nell’ambito delle leggi e degli altri atti organizzativi, le determinazioni per l’organizzazione
degli uffici sono assunte dagli organi preposti alla gestione (quindi, dai dirigenti) con la capacità e i poteri
del privato datore di lavoro (cap. IV, par. 4.1). Inoltre, indicano i principi di riduzione della spesa e di
razionalizzazione dell’organizzazione in cui si prevede che le P.A. devono provvedere a ridimensionare
gli assetti organizzativi esistenti, tramite la riduzione degli uffici dirigenziali di livello generale e non e
l’unificazione delle strutture che svolgono funzioni logistiche e strumentali.

6.2. Le fonti nazionali ed europee

Questi principi fondamentali sono comuni a tutta l’organizzazione dei pubblici poteri. La
frammentarietà delle strutture, compota una notevole diversificazione delle norme in relazione alla natura,
alla forza e al contenuto. Nel complesso, la disciplina positiva dell’organizzazione amministrativa è
contenuta, anche se non esclusivamente, in atti normativi, primari e secondari, e amministrativi.
Leggi e atti aventi forza di legge devono prevedere i lineamenti fondamentali
dell’organizzazione dello Stato. In particolare, si deve prevedere l’istituzione (ad esempio, quali e quanti
ministeri), la struttura di base (ad esempio, l’articolazione dei ministeri in dipartimenti o in direzioni
generali), le attribuzioni e le competenze degli organi (ad esempio, quelle spettanti rispettivamente ai
ministri e ai dirigenti generali). Le disposizioni contenute nell’art. 97 cost., c. i e 2, distribuiscono in
modo netto il potere organizzativo: questo viene affidato al legislatore per la parte che attiene ai profili
sostanziali e al governo-amministrazione per quella che riguarda gli aspetti settoriali e di dettaglio
della disciplina degli uffici.
Tra gli atti normativi di carattere secondario rientrano in primo luogo i regolamenti statali. L’art.
17, c. 1, lett. d, c. 3 e c. 4-bis, I. n. 400/1988, tratta dei regolamenti governativi e di quelli ministeriali,
stabilendo in particolare che con essi si può disciplinare l’organizzazione e il funzionamento delle
amministrazioni pubbliche, anche se soltanto secondo le disposizioni dettate dalla legge.
Vi sono, poi, i regolamenti sono espressione della potestà organizzativa loro attribuita dalla legge
(tra i quali assumono particolare rilievo quelli organici, che definiscono l’assetto dell’ente attraverso la
classificazione del personale in qualifiche funzionali, per ciascuna delle quali è fissato il numero dei
posti); gli statuti degli enti pubblici (tra i quali speciale importanza hanno quelli regionali e locali) sono
quegli atti che ne individuano le principali regole di organizzazione e di funzionamento.
Anche altri atti, generali o individuali, possono essere rilevanti per l’organizzazione. Così,
talvolta, all’interno di una struttura, il potere organizzativo si esplica definendo un ufficio, determinando
le sue incombenze, individuando il soggetto che lo deve dirigere, assegnandogli le risorse e così via (ad
esempio, art. 4, c. 4, del d.lg. n. 300/1999).
Altre volte, invece, trattandosi di scelte che coinvolgono più soggetti ed hanno efficacia esterna, si
utilizzano strumenti di natura convenzionale (es. consorzi di comuni).
Norme di organizzazione, inoltre, sono contenute anche in atti comunitari. Negli ultimi tempi,
infatti, si è sviluppata la tendenza ad attribuire a soggetti nazionali il compito di svolgere in proprio una
determinata attività necessaria e indispensabile per lo svolgimento di una funzione comunitaria (si pensi
al caso dell’organizzazione comune dei mercati agricoli per quanto attiene alla disciplina degli organismi
nazionali di intervento). Si vengono così ad avere soggetti che, pur facendo parte dell’organizzazione
nazionale, esercitano in via principale poteri attribuiti dall’Unione europea.
Tra le fonti dell’organizzazione, infine, rientra anche la prassi. Spesso, l’adeguamento alla realtà
delle disposizioni, normative e non, di natura organizzativa si realizza de facto. Nelle strutture di tipo
reticolare come quelle contemporanee, diminuendo il livello di formalizzazione delle scelte organizzative,
anche per effetto dell’incremento dei poteri dei funzionari pubblici, la prassi viene ad assumere una
funzione di integrazione del contenuto delle norme. In tal modo, essa diviene strumento di svolgimento
dell’azione dei pubblici poteri.
In conclusione, oggi l’organizzazione pubblica è disciplinata da fonti eterogenee: da disposizioni
costituzionali, da provvedimenti normativi di livello rimario e secondario, da atti di autonomia e da
comportamenti che condizionano, di fatto, le scelte amministrative (C. cost., n. 383/1998).

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7. L’APPARATO MINISTERIALE

Definiti i caratteri dei tipi e delle relazioni e individuati i principi regolatori dell’organizzazione, si passa
ora all’esame dei modelli prevalenti, iniziando da quello dell’organizzazione ministeriale.
I ministeri sono uffici complessi, dotati di personale e mezzi propri, che operano in settori di
intervento omogenei. Essi si diversificano in ordine ai tipi di funzioni, alle soluzioni strutturali, interne
e periferiche, alle dimensioni ed alla disciplina. Perciò, quello dell’amministrazione ministeriale non è
un sistema di eguali.
Tendenzialmente in tutti i ministeri ricorrono tre caratteri:
I. il vertice è mutuato dal governo, poiché, a norma dell’art. 95, c. 1, Cost., a capo dell’apparato
amministrativo viene posto il ministro, membro del Consiglio dei ministri. È temperato dal principio
di separazione dei poteri e rispondenza tra obbiettivi e risultati conseguiti;
II. in secondo luogo, i poteri del ministro e del ministero sono identici, perché il primo opera nei
limiti delle attribuzioni del secondo. Si è verificata la separazione tra responsabile politico e uffici;
III. infine, l’organizzazione interna è di tipo divisionale, in quanto le unità elementari vengono
progressivamente aggregate, sulla base di esigenze funzionali, in uffici intermedi (di solito,
denominati ‘divisioni’) e questi, a loro volta, in uffici generali (a seconda dei casi, denominati
‘dipartimenti’, ‘direzioni’ e ‘servizi’), in molti casi ordinati dal centro alla periferia. Sono stati creati
anche apparati strumentali, funzionali allo svolgimento dei compiti del corpo amministrativo stesso.
Questi tre caratteri, peraltro, non vanno intesi in termini assoluti, perché subiscono numerose
eccezioni e varianti.

7.1. L’ordinamento dei ministeri

L’ordinamento dei ministeri è disciplinato dai d.lg. n. 300/1999 e n. 303/1999 che ne definiscono le
linee generali del sistema, nonché dai d.l. n. 217/2001, n. 343/2001 e n. 181/2006 che ne regolano aspetti
specifici, oltre che da una serie di norme di natura secondaria, che stabiliscono l’assetto interno dei
singoli ministeri.
Con il d.lg. n. 300/1999 è stata riformata l’organizzazione ministeriale, delineandone un nuovo
assetto; il decreto ha operato in tre diverse direzioni.
a. Riduzione degli apparati ministeriali. I ministeri da 18 sono stati ridotti a 12; sono state
limitate le singole unità di comando, identificandole con precisione (segretariati generali,
dipartimenti, direzioni generali); si è sancito il principio della flessibilità nell’organizzazione,
stabilendo — salvo che per quanto attiene al numero, alla denominazione, alle funzioni dei ministeri
ed al numero delle loro unità di comando — un’ampia delegificazione in materia.
b. Istituzione di 12 agenzie (sei delle quali con personalità giuridica), con funzioni tecnico-
operative che richiedono particolari professionalità e conoscenze specialistiche, nonché specifiche
modalità di organizzazione del lavoro (protezione civile, formazione e istruzione professionale,
trasporti terrestri e infrastrutture o protezione dell’ambiente e servizi sociali).
c. Concentrazione degli uffici periferici dell’amministrazione statale. In particolare, si è
previsto che, a completamento della trasformazione in senso autonomista dello Stato, in periferia,
accanto ad amministrazioni specializzate che operano nei settori della sicurezza, della difesa, della
finanza, della giustizia, della scuola e dei beni culturali, vengano istituite strutture a carattere
generale, attraverso la trasformazione delle prefetture in uffici territoriali del governo.
Insieme alla riforma dell’organizzazione dei ministeri, si è proceduto anche a quella della
Presidenza del Consiglio dei ministri, per adattarla al processo di integrazione Ue e a quello di
decentramento verso le autonomie locali. Con il d.lg. n. 303/1999, In particolare, sono state previste
l’individuazione delle funzioni tipiche e proprie della Presidenza del Consiglio dei ministri (rapporti del
governo con il Parlamento, con gli organi costituzionali, con le istituzioni europee e con le autorità locali;
elaborazione dell’indirizzo politico generale; coordinamento dell’attività normativa e amministrativa), la
riallocazione delle funzioni eterogenee e spurie presso le amministrazioni di settore (ad esempio; in
materia di turismo, di aree urbane, di diritti d’autore e di proprietà letteraria, di affari sociali) e la
determinazione di regole di organizzazione e di funzionamento degli uffici (ad esempio, affermazione di
una piena autonomia organizzativa, regolamentare e finanziaria).

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Il nuovo assetto è entrato in vigore nel 2001. In seguito, è stato oggetto di una serie di interventi
normativi di assestamento. Con la l. n. 172/2009 il numero dei ministeri è stato fissato a 13.
In definitiva, la riforma è stata attuata in modo frammentario, sicché il principale obiettivo che si
voleva perseguire, cioè il passaggio da una situazione di frammentazione delle strutture ministeriali ad
una situazione di fusione, ai fini della loro diminuzione, nella sostanza è stato disatteso e contraddetto.

7.2. I singoli ministeri e la Presidenza del Consiglio dei ministri

Attualmente, i ministeri sono 13. Ad essi, però, vanno aggiunti quantomeno il Dipartimento per la
funzione pubblica e quello Politiche europee.
Vi sono, innanzitutto, quattro ministeri che esercitano compiti di ordine e di indirizzo:
• Ministero degli affari esteri (attende ai rapporti internazionali);
• Ministero dell’interno (ha attribuzioni molto differenziate: la principale è la pubblica
sicurezza);
• Ministero della giustizia (si occupa prevalentemente dell’amministrazione degli organi
giudiziari, svolgendo anche le funzioni dell’ufficio di Guardasigilli);
• Ministero della difesa (gestione delle forze armate).

Ad altri quattro ministeri sono affidate funzioni di natura economico-finanziaria:


• Ministero dell’economia e delle finanze (politica di gestione della spesa, di bilancio e fiscale,
nonché delle entrate finanziarie dello Stato),
• Ministero dello sviluppo economico (industria, commercio, artigianato, rapporti estero,
poste);
• Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (cura delle relazioni internazionali,
di partecipazione alla elaborazione delle politiche comunitarie e di definizione delle politiche
nazionali);
• Ministero del lavoro e della politiche sociali (lavoro e di previdenza sociale).

Un gruppo di tre ministeri, poi, opera nel campo sociale e culturale:


• Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (amministra il sistema formativo
pubblico — scuola e università — e la ricerca scientifica e tecnologica);
• Ministero per i beni e le attività culturali (tutela, promuove il patrimonio culturale e lo
spettacolo);
• Ministero della salute (competente in materia sanitaria).

Infine, vi sono due ministeri che agiscono nel settore delle infrastrutture e dei servizi:
• Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (opere pubbliche, navigazione e trasporti);
• Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (promozione, conservazione
e recupero delle condizioni ambientali e del patrimonio naturale nazionale, nonché alla politica
territoriale).

Al vertice di ciascun ministero sono collocati organi politici: ministri e, eventualmente, vice
ministri (che sono stati istituiti dalla 1. n. 81/2001). Tali organi si avvalgono di uffici di diretta
collaborazione, con funzioni di supporto e di raccordo con l’amministrazione (gabinetto, ufficio
legislativo, ecc.). Non può essere assimilata ad un ministero la Presidenza del Consiglio dei ministri,
che ha una articolazione in dipartimenti ed uffici posti alle dipendenze del Segretariato generale, con
l’eccezione di quelli che di volta in volta vengono affidati a ministri senza portafoglio. L’assetto interno,
peraltro, è variabile: infatti, il Presidente del Consiglio dei ministri, con proprio decreto, può istituire
altre unità organizzative per l’esercizio di compiti espressamente previsti dalla legge.
La nuova regolamentazione assicura l’unità di indirizzo politico e amministrativo del governo
(art.95 Costituzione.) e il principio della flessibilità dell’organizzazione.

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Alla Presidenza del Consiglio dei ministri fanno capo, sotto il profilo organizzativo, organi
consultivi e di controllo, quali l’Avvocatura dello Stato, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, ed enti
pubblici nazionali, come il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e l'Istat.

7.3. L’articolazione periferica

L’articolazione periferica dei ministeri è stata oggetto di specifiche previsioni da parte di tre
provvedimenti, che hanno introdotto rilevanti innovazioni in materia: la 1. n. 59/1997, il d.lg. n. 112/1998
e il d.lg. n. 300/1999 (successivamente modificato).
La l. n. 59/1997 ha disposto il riordino dell’amministrazione periferica dello Stato secondo criteri di
omogeneità, complementarietà e organicità. Ai fini del decentramento delle funzioni statali e grazie alla
affermazione del principio di sussidiarietà, essa ha attribuito agli enti regionali e locali una competenza
amm.va generale. Per questo, all’amministrazione centrale sono state riconosciute solo funzioni
tassativamente individuate.
Il d.lg. n. 112/1998, nell’attuare il trasferimento delle funzioni statali in sede regionale e locale, ha
stabilito la soppressione di alcuni uffici (gli uffici provinciali dell’industria, del commercio e
dell’artigianato) e la riorganizzazione di altre strutture ministeriali con articolazione periferica.
Il d.lg.. 300/1999 , infine, ha affrontato per la prima volta in termini generali il problema
dell’amministrazione periferica dei ministeri, prevedendo, da una parte, l’istituzione di una serie di
agenzie e trasformando, dall’altra, le prefetture in uffici territoriali del governo, i quali, in seguito (d.lg.
n. 29/2004) sono stati ridenominati prefetture-uffici territoriali del governo. Questi ultimi sono strutture
con competenze generali, in quanto titolari di tutte le attribuzioni non espressamente conferite ad altri
uffici.
Il coordinamento tra le amministrazioni è assicurato da una conferenza permanente presieduta
dal titolare dell’ufficio territoriale del governo e composta dai responsabili delle strutture periferiche
dello Stato, delle agenzie e degli enti pubblici a carattere nazionale e provinciale, con esclusione di
quelli territoriali.
Il raccordo con le amministrazioni regionali e degli enti locali, invece, viene realizzato attraverso
convenzioni.
In realtà, il disegno organizzativo non ha trovato piena applicazione, tanto che il legislatore é
tornato più volte sul tema, proponendo anche una riorganizzazione su base territoriale dell’organizzazione
amministrativa periferica, accrescendo ulteriormente la frammentazione del sistema.

7.4. Le agenzie

Le agenzie sono strutture che svolgono attività di carattere tecnico-operativo di interesse


nazionale al servizio delle amministrazioni pubbliche, comprese anche quelle regionali o locali
(l’Agenzia spaziale italiana e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale nelle pubbliche amministrazioni).
La figura dell’agenzia si è affermata nell’ordinamento italiano a partire dagli anni 80. Con il d.lg. n.
300/1999 è stata introdotta una normativa generale di riferimento che consente di definire i lineamenti
di un nuovo tipo organizzativo, ordinato con regole unitarie. Tale decreto prevede 2 distinte specie di
agenzie:
In primo luogo, vi sono le agenzie soggette alle disposizioni generali contenute nel decreto stesso,
le quali ne regolano l’ordinamento, il personale e la dotazione finanziaria, nonché le modalità di azione e
di gestione. Esse hanno propri organi, propri bilanci e regolamenti di contabilità, potestà di
autorganizzazione. Le agenzie, inoltre, sono sottoposte ai poteri di indirizzo e di vigilanza del ministro
(questi ne approva i programmi di attività, i bilanci e i rendiconti e accerta l’osservanza delle prescrizioni
impartite). Esempio di questa specie è l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici.
In secondo luogo, vi sono le agenzie sottoposte ad un regime speciale, in deroga alle disposizioni
generali, soprattutto per quanto attiene ai profili concernenti lo statuto, i rapporti con il ministro, il
personale, la finanza ed i controlli. Si tratta delle tre agenzie fiscali: delle entrate, delle dogane e del
territorio e demanio.
L’adozione di disposizioni di carattere generale e sistematico in materia di agenzie aveva il triplice
obiettivo di ribadire l’affermazione del principio di distinzione tra politica e amministrazione, realizzare il

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principio di flessibilità dell’organizzazione ministeriale, affermare quello di complementarità tra
l’amministrazione centrale e quella regionale e locale
Le agenzie si inseriscono nel disegno di riforma dei ministeri ma resistenze sia politiche che
territoriali hanno provocato il quasi completo fallimento del processo.

8. LE AUTORITÀ INDIPENDENTI

Il fenomeno della diffusione di autorità costituite per lo svolgimento di funzioni pubblicistiche


sostanzialmente atipiche di regolazione del mercato e di tutela di diritti fondamentali si è affermato negli
ultimi anni. Si tratta di figure soggettive alle quali viene riconosciuto un particolare grado di
indipendenza non solo nei confronti del potere politico, ma anche di quello economico e burocratico.
Esempi di autorità indipendente sono la Consob, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la
Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi
pubblici essenziali, il Garante per la tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Per assicurare a tali autorità una posizione di neutralità e terzietà rispetto a tutti gli interessi esterni,
le diverse leggi che le regolano prevedono, soprattutto, tre tipi di misure.
i. Possiedono autonomia gestionale, organizzatoria, di organico, finanziaria e contabile;
ii. Garanzie su requisiti soggettivi dei titolari, condizioni di esercizio del mandato e modalità
di designazione;
iii. Piena indipendenza delle autorità sotto il profilo funzionale, cioè in relazione all’effettivo
esercizio dell’azione di regolazione e di protezione di interessi socialmente rilevanti.
Per l’esercizio delle funzioni loro attribuite, le autorità indipendenti, sebbene in misura diversa a
seconda dei casi, dispongono di una ampia gamma di poteri di vario tipo: di controllo (in senso ampio),
di indagine, di raccomandazione, di proposta, di sanzione (in senso lato), di regolamentazione e di
decisione individuale (anche sulla base di criteri extragiuridici e, in particolare, dell’analisi economica).
La diffusione di questo modello, resa possibile dalla frammentazione dell’ordinamento italiano, ha
introdotto ulteriori elementi di complessità nel sistema organizzativo dei pubblici poteri.
L’introduzione di questo modello ha comportato, sia la dispersione del potere normativo, che
viene affidato a soggetti diversi da quelli cui l’ordinamento lo riconosce istituzionalmente (primo tra tutti
il Parlamento), sia una limitazione del ruolo del governo, che vede trasferito parte del proprio potere di
decisione ad altre istituzioni. Diventa perciò impossibile ricondurre queste autorità nell’ambito di uno dei
poteri tradizionali dello Stato, realizzando la garanzia di terzietà e neutralità.

9. GLI ENTI PUBBLICI

Il modello organizzativo dell’ente pubblico è molto complesso, perché nel diritto positivo se ne
rinvengono tante specie diverse, difficilmente definibili: risulta così impossibile individuarne tratti
comuni, tanto che si è rilevato come quello dell’ente pubblico non sia un istituto, ma la somma di un
insieme di istituti. Oggi, per effetto delle privatizzazioni che hanno condotto alla trasformazione di un
grandissimo numero di enti pubblici in società per azioni, questo modello ha subito un forte
ridimensionamento.

9.1. Caratteri
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La definizione di ente pubblico è generica: è una persona giuridica avente particolari attributi di
natura pubblicistica e disciplinata da norme specifiche, derogatorie rispetto a quelle di ordine generale
che regolano le associazioni, le fondazioni e le società. Difficile risulta stabilire i parametri distintivi
degli enti pubblici, quali il perseguimento di un fine pubblico o il rapporto di servizio che sussiste nei
confronti dello Stato.
Attraverso l’elaborazione del criterio degli indici di riconoscibilità, si individuano vari elementi
distintivi della natura pubblica di un ente: la titolarità di poteri d’imperio (di autorganizzazione, di
certificazione, di autotutela, ecc.), l’istituzione da parte dello Stato o di altro ente pubblico, il
riconoscimento della c.d. « operatività necessaria » (impossibilità che i compiti attribuiti vengano
espletati da altro soggetto ovvero impossibilità di fallimento o di estinzione volontaria),
l’assoggettamento al controllo o all’ingerenza dello Stato, la fruizione di agevolazioni o di privilegi tipici
di amministrazioni statali e così via (tra le altre, Cons. St., VI, n. 639/1998 e Cass., sez. un., n. 3322/1995,
o. 3036/1996, n. 8053/1997, n. 1987/1998).
Nella realtà, però, anche questo metodo si rivela impreciso, perché correlato a regole particolari,
oltretutto spesso in contraddizione tra loro. Dall’esame del diritto positivo si evince che le differenze sono
maggiori dei tratti comuni e che ci si imbatte sempre in fattispecie non riconducibili ad unità. Se ne
deduce che la nozione di ente pubblico appare inutile sotto il profilo scientifico, in quanto in materia
prevale l’atipicità e, dunque, che non risulta possibile definire una disciplina unitaria.
9.2. Categorie principali

Le categorie principali di enti pubblici sono 3:

- La prima categoria, molto diffusa, è quella degli enti territoriali. Tali sono quegli enti (ad
esempio, le regioni e le province) che trovano nel territorio una limitazione alla validità dei propri atti
amministrativi (e non anche di queffi che sono espressione di attività svolte in forme privatistiche).
- Vi è, poi, la categoria degli enti economici, il maggior esempio dei quali è rappresentato
attualmente dalle aziende sanitarie locali e dall’Agenzia del demanio. Tali enti si caratterizzano per il
fatto di esercitare in via principale e prevalente un’impresa, non assumendo importanza, al contrario, il
settore di intervento che, eventualmente, può essere non economico. Di conseguenza, nella maggior
parte dei casi, la loro attività è di tipo privatistico, essendo pochissime le ipotesi rilevanti per il diritto
pubblico (lo è, ad esempio, quella dell’approvazione del bilancio) (C. cost., n. 466/1993 e Cass., sez.
un., n. 10239/1994).
- Infine, vi è la categoria degli enti non economici. Si tratta di una categoria di contenuto residuale,
perché è individuata in termini negativi, in quanto comprende tutti gli enti che non sono riconducibili
alle due precedenti. Per questo motivo, essa è formata da realtà che sono fortemente disomogenee sul
piano delle funzioni e delle strutture, avendo in comune soltanto la disciplina collettiva del rapporto di
lavoro per i propri dipendenti (l’Inps, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro — Inail, il Consiglio nazionale delle ricerche — Cnr, l’Aci, le università, le camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura, gli ordini professionali ne rappresentano qualche
esempio).

Tra gli enti non economici, dunque, prevalgono le discipline particolari. Per tale ragione in dottrina sono
state individuate svariate specie:

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− istituti di Stato sono soggetti dotati di propri organi, i cui membri sono scelti dal governo,
hanno un bilancio autonomo, ancorché siano finanziati dal Ministero dell’economia e delle
finanze e sottoposti a controllo statale, e esercitano funzioni essenziali dei pubblici poteri
(l’esempio più noto è l’Istat).
− enti di disciplina di settore svolgono funzioni di controllo di attività private (come nel caso
delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità introdotte dalla 1. n. 481/1995).
− enti di servizio erogano servizi a favore di privati avvalendosi di finanziamenti di natura fiscale
e parafiscale (è l’ipotesi dell’Inps e dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti delle
amministrazioni pubbliche — Inpdap).
− enti associativi rappresentano una espressione pubblicistica del fenomeno
dell’associazionismo, perché hanno la rappresentanza degli interessi propri del gruppo sociale di
riferimento (tra gli altri, si ricordino l’Automobile Club d’Italia — Aci e gli istituti scolastici).
Come modello base è stato seguito quello della società per azioni ordinaria, con un vertice
formato da un presidente e da un consiglio di amministrazione, con un organo di controllo e con
una assemblea di partecipanti o di soci. In mancanza di tratti comuni, quello dell’ente pubblico è
un modello in via di dispersione.Non è una categoria di enti pubblici quella degli organismi di
diritto pubblico, che sono definiti nella normativa comunitaria in materia di appalti pubblici.
Questi sono persone giuridiche private istituite per soddisfare specificamente finalità di interesse
generale, svolgenti attività non economiche (quindi, non industriali o commerciali) e sottoposte a
controllo o influenza pubblica.

9.3. I consorzi di enti pubblici


Una trattazione a parte meritano i consorzi di enti pubblici. Nella esperienza della pubblica
amministrazione, sempre più di frequente ci si imbatte in manifestazioni del fenomeno consortile. Queste,
per quanto assumano configurazioni giuridiche differenziate, si ispirano ad una ratio unitaria, presentando
comunque 3 tratti comuni: una pluralità di soggetti pubblici portatori di interessi affini, un vincolo
associativo e un apparato organizzativo stabile dotato di personalità giuridica (C. cost., n. 326/1998). Il
consorzio viene creato per l’assolvimento di compiti che sono propri di TUTTI i soggetti
partecipanti. La relazione associativa può derivare da un contratto o da un provvedimento di natura
autoritativa. Di recente, tra le varie figure di consorzio, una sempre maggiore rilevanza hanno assunto i
consorzi tra enti locali. L’ art. 31 del d.lg. n. 267/2000 dispone che possono essere costituiti consorzi
tra enti locali soltanto per la gestione associata di servizi pubblici secondo le norme previste per le
aziende speciali, in quanto compatibili.

10. L’AMMINISTRAZIONE REGIONALE E LOCALE

enti autonomi territoriali: regioni, province e comuni.


Anche essi sono enti pubblici ma sono indipendenti dallo Stato poiché rappresentativi delle collettività di
riferimento (rispettivamente, quelle regionali, provinciali e comunali) e sono, conseguentemente, titolari
anche di poteri di indirizzo politico-amministrativo.
Gli enti pubblici autonomi, inoltre, a differenza degli altri enti pubblici nazionali, trovano la loro
disciplina di base nella Costituzione. Questa, infatti, prima, dispone che « la Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5). Poi, dedica a regioni ed enti locali
l’intero titolo V (art. 114-133).

L’art. 114, in particolare, qualifica questi enti, così come lo Stato, elementi costitutivi della Repubblica.
Si comprende, quindi, che gli enti autonomi hanno rilevanza costituzionale e fanno parte dell’assetto
fondamentale della Repubblica.
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Di seguito, si tratta degli enti autonomi di maggiore importanza, le regioni, le province e i comuni:
l’attenzione si concentra sulla rispettiva organizzazione di governo e amministrativa, non, invece, sui
profili di tipo funzionale, già esaminati in precedenza quando si è trattato degli enti pubblici in generale.
Tuttavia, nell’ambito di questi enti, si sono costituiti altri organismi, che hanno minore importanza,
talvolta sono in via di sperimentazione, e non sono diffusi su tutto il territorio: i consorzi, ai quali già si è
accennato, formati soprattutto da comuni e province, per la gestione associata di uno o più servizi e
l’esercizio di funzioni; le unioni di comuni, costituite da due o più comuni contermini per esercitare
congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza; le comunità montane, unioni di comuni
montani o parzialmente montani, con compiti di valorizzazione delle zone montane; le città
metropolitane (previste dalla Costituzione e dalla legge, ma non ancora costituite) le quali, previa
delimitazione della rispettiva area metropolitana, acquisiscono tutte le funzioni della provincia in quella
medesima area; i municipi, la cui istituzione può essere prevista dagli statuti dei comuni derivanti dalla
fusione di due o più comuni contigui.

10.1. L’organizzazione di governo e i rapporti tra organi politici e organi amministrativi.

Dopo la l. n. 56/2014, dedicata alla disciplina delle città metropolitane, delle province e delle unione di
comuni, possono distinguersi 2 diversi modelli di organizzazione del governo degli organismi regionali e
locali: quello che riguarda le regioni e i comuni e quello che informa l’organizzazione delle città
metropolitane, delle provincie e delle unioni di comuni.
L’organizzazione di governo delle regioni, delle province e dei comuni è regolata in modo uniforme in
sede nazionale (per le regioni, addirittura, dalla Costituzione) secondo il modulo proprio dello Stato
centrale. Infatti, vi è un consiglio (regionale, provinciale e comunale) eletto dalle collettività stanziate nel
territorio con compiti normativi, di indirizzo e di controllo; una giunta (regionale, provinciale e
comunale) con compiti esecutivi e di supporto del capo dell’esecutivo; un presidente (regionale e
provinciale) o un sindaco (nei comuni) con compiti di direzione dell’amministrazione e di rappresentanza
dell’ente. Anche i rapporti tra questi tre organi sono disciplinati secondo principi molto simili per
ciascuno degli enti autonomi indicati.
La regola, infatti, è che il capo dell’esecutivo venga scelto direttamente dai cittadini (ma gli statuti
regionali possono adottare soluzioni diverse). Ad esso, poi, spetta scegliere (e nel caso revocare) i
componenti della giunta, denominati assessori, e darne comunicazione al consiglio. Il consiglio, a sua
volta, non può influire sulla formazione della giunta, ma determinare con una mozione di sfiducia la
cessazione dalla carica della stessa e del capo dell’esecutivo. Altre norme, tuttavia, stabiliscono un
legame indissolubile tra il capo dell’esecutivo e il consiglio: qualunque causa che faccia cessare dalla
carica il primo (dimissioni, impedimento permanente, morte, ecc.) determina lo scioglimento del secondo;
viceversa, qualunque ragione di scioglimento del consiglio comporta la decadenza del capo dell’esecutivo
e, ovviamente, della sua giunta.
Il consiglio, infine, è eletto con un sistema di scrutinio maggioritario, temperato con norme dirette a
garantire la rappresentanza proporzionale dei vari gruppi politici (ma anche per l’elezione dei consigli gli
statuti regionali possono scegliere sistemi differenti da questo). Queste norme configurano i governi
regionali e comunali come sistemi di tipo presidenziale.
3 sono i tratti che caratterizzano l’organizzazione di città metropolitane, province e unioni di comuni:
- Sono tutti enti di secondo grado, i cui organi, cioè, sono composti solo da sindaci e da consiglieri
comunali

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- Tutti e 3 hanno organi che ne fanno sostanzialmente forme atipiche e obbligatorie di associazioni
di comuni.
- Tutti e 3 gli enti si configurano quali enti territoriali di rappresentanza non dei cittadini del
territorio, ma delle loro comunità rappresentate dai loro amministratori.
Ulteriori regole riguardano i rapporti tra gli organi di governo e gli uffici amministrativi. Ad essi si
applica il principio generale, già richiamato, della distinzione tra uffici politici e uffici amministrativi
(cap. IV, par. 5.1). La specificazione di questo principio, per le regioni, è demandata alle norme statutarie.

10.2. L’organizzazione amministrativa

Come si è già rilevato, la Costituzione sancisce il principio dell’autonomia organizzativa delle regioni,
delle province e dei comuni. Ciò significa che l’organizzazione amministrativa è rimessa alle scelte
compiute, in regime di autonomia, da ciascun ente, per il mezzo dello statuto e del regolamento. I caratteri
simili di regioni e comuni sono i seguenti:
Innanzitutto, di norma, ogni assessore (regionale, provinciale o comunale) è posto a capo di un
complesso di uffici, identificato in ragione della materia affidata alla propria competenza (urbanistica,
commercio, agricoltura, ecc.), denominato assessorato.
Poi, nelle regioni è frequente il ricorso ad enti strumentali o aziende e a società per azioni a prevalente
partecipazione regionale. I primi sono legati da un rapporto di ausiliarietà con la regione e sono soggetti,
perciò, a poteri di indirizzo, controllo e nomina da parte della giunta e del consiglio.
Quanto alle specificità dell’organizzazione amministrativa di comuni e province, se ne possono indicare 3
tipi, corrispondenti ad altrettanti gruppi di disposizioni di legge.
In primo luogo, è prevista la presenza (eventuale) di un direttore generale e quella (necessaria)
del segretario comunale e provinciale. Il direttore generale può essere nominato nelle province e nei
comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti dal sindaco (o dal presidente della provincia),
previa delibera della giunta. è scelto al di fuori della dotazione organica e ha un contratto a tempo
determinato. Provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente,
secondo le direttive impartite dal sindaco (o dal presidente della provincia) e sovrintende alla gestione
dell’ente.
Anche il segretario comunale e provinciale non è elettivo. E un impiegato di carriera, selezionato
mediante pubblico concorso. Tutti i segretari sono iscritti in un apposito “albo dei segretari comunali e
provinciali”, gestito dal Ministero dell’Interno, nell’ambito del quale il sindaco sceglie il soggetto al quale
attribuire l’incarico nell’ente locale di riferimento. Il segretario esercita funzioni di collaborazione e di
consulenza amministrativa. Inoltre, quando il sindaco o il presidente della provincia non si avvalgano
della facoltà di nominare il direttore generale, le funzioni dì questo sono esercitate dal segretario
medesimo.
In secondo luogo, la legge prevede la possibilità per i soli comuni con popolazione superiore a 250
mila abitanti, di istituire le circoscrizioni, organi di decentramento di compiti e di partecipazione dei
cittadini all’amministrazione locale.

Un ultimo aspetto riguarda l’organizzazione e la gestione dei servizi pubblici locali. Le norme del
titolo V del d.lg. n. 267/2000 operano la distinzione tra servizi con rilevanza economica e servizi privi
di rilevanza economica. Quanto ai primi, viene stabilito il principio della separazione tra la proprietà
delle reti e degli impianti, di norma riservatra all’ente locale, e l’erogazione del servizio, affidata a

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soggetti terzi. L’affidamento dell’erogazione del servizio, poi, avviene a favore di imprenditori o di
società, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del
TFUE e dei principi generali relativi ai contratti pubblici. L’erogazione del sevizio pubblico locale privo
di rilevanza economica è affidata direttamente dall’ente locale a società a capitale interamente pubblico,
ad aziende speciali e a istituzioni.

11. Le strutture di coordinamento amministrativo e le amministrazioni composte


Con l’accentuazione del processo di moltiplicazione e di differenziazione dei centri di poteri
amministrativo si sono perse la coerenza e l’unitarietà della struttura organizzativa originaria,
ordinata in modo gerarchico, e si è affermata la disunione dello Stato, rafforzandosi il legame tra
organismi disposti a rete. Si è evidenziata l’esigenza di individuare strumenti di coordinamento
tra soggetti che agiscono nei vari settori di interesse pubblico. Si tratta di strumenti che hanno
natura procedimentale (conferenza dei servizi e l’accordo di programma) e di strumenti di natura
organizzativa (strutture di coordinamento e di raccordo tra soggetti pubblici che agiscono in sede
nazionale e locale)

11.1. Le strutture di coordinamento amministrativo a livello nazionale e periferico


Le strutture di coordinamento tra amministrazioni sono numerose alcune con valenza nazionale, altre
periferica. A livello nazionale, poteri di coordinamento e di indirizzo sono attribuiti, oltre che alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai comitati interministeriali (organi collegiali composti da
ministri, che esercitano insieme a funzioni di natura politica e di governo, anche funzioni
amministrative). Esempio importante il comitato interministeriale per la programmazione
economica (CIPE) al quale compete stabilire gli indirizzi di programmazione e del bilancio.
Accanto ai comitati interministeriali operano anche comitati di ministri, composti da funzionari, istituiti
con decreto del Presidente del Consiglio, con il compito di esaminare questioni di interesse
comune a più amministrazioni e di esprimere pareri su problemi di rilievo da sottoporre al
Consiglio dei Ministri
Anche la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le provincie autonome di
Trento e Bolzano, la Conferenza Stato-città e auotnomie locali, nonché la Conferenza unificata
Stato, regioni, città e autonomie locali si propongono come strumenti di coordinamento a livello
nazionale competenti a esprimere pareri sulle proposte di normative statali concernenti materie di
interesse locale
Tra i maggiori strumenti di coordinamento a livello periferico si segnalano i prefetti e i commissari
straordinari del governo, nonché la Conferenza permanente presso la prefettura-ufficio
territoriale del governo.

11.2. Le amministrazioni composte e il modello delle organizzazioni a rete


Il problema del coordinamento assume una connotazione in parte diversa con riferimento ai rapporti tra
centro e periferia. Questi sono caratterizzati da incertezza, perché il sistema organizzativo non è
più centralizzato, ma non si è ancora completamente ordinato in termini autonomistici. Di
recente si è venuto a creare un nuovo modello strutturale che si caratterizza per la complessa rete
di funzioni, poteri e responsabilità: quello dell’amministrazione composta. Nelle
amministrazioni composte ricorrono 3 elementi:

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• Sono organizzazioni cui soggetti diversi conferiscono determinate funzioni delle quali sono
titolari, oltre che personale e risorse finanziarie.
• Proprio perché sono espressione dell’integrazione di amministrazioni centrali e locali, sono
ordinate in funzione della collettività servita e non del centro o della periferia.
• Esercitano attività autonome, distinte da quelle dei soggetti che ne fanno parte
I modelli più importanti di amministrazioni composte sono quelli del Servizio sanitario nazionale, del
sistema statistico nazionale (ISTAT) e del servizio nazionale della protezione civile.

Accanto al modello dell’amministrazione composta si sta diffondendo nell’amministrazione


contemporanea quello più generale delle organizzazioni a rete. Si tratta di un modello che si rivela utile
sul piano descrittivo, perché individua un fenomeno importante. Oggi, il potere pubblico, avendo perso le
caratteristiche di unità e di compattezza proprie dell’assetto originario, si presenta come un conglomerato
di amministrazioni non collegate tra loro e poste in posizione asimmetrica. Nell’organizzazione a rete
intervengono più soggetti che sono portatori di interessi diversi, interagendo l’uno con l’altro e
scambiandosi risorse e informazioni nella prospettiva di un’aggregazione in vista di un fine comune. Non
vi è un organismo che si pone come centro dell’organizzazione. L’esercizio della funzione viene
attribuito a soggetti non soltanto pubblici ma anche privati. Si evidenzia la progressiva perdita di
territorialità delle funzioni pubbliche che vengono gestite a più livelli. Uno degli esempi più noti di
organizzazione a rete è quello del settore dell’ambiente, che si caratterizza per una struttura tripartita
(Ministero dell’ambiente, Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale, province e agenzie
regionali per l’ambiente).

12. Organizzazione amministrativa e strumenti privatistici


Ai fini dello svolgimento di talune attività delle pubbliche amministrazioni, si ricorre, oltre che ad
istituti tipici del diritto amministrativo, anche a strumenti propri del diritto privato, creando una
disciplina mista. Per la l. n. 241/1990 nell’adozione di atti di natura non autoritativa, la pubblica
amministrazione opera secondo le norme di diritto privato. La ragione principale di tale tendenza sta
nell’esigenza delle pubbliche amministrazioni di esercitare attività imprenditoriali in modo efficiente ed
efficace, senza i condizionamenti che derivano dalle specifiche regole di gestione dell’attività
amministrativa. L’utilizzazione di strumenti privatistici da parte dei pubblici poteri non avviene in modo
completo. Per quanto attiene in particolare al settore dell’organizzazione, il fenomeno in questione si è
sviluppato in due modi diversi: quello dell’amministrazione pubblica in forma privata e quello dei privati
in funzione dell’amministrazione.

12.1. L’amministrazione pubblica in forma privata: società di diritto speciale, amministrazioni


private per l’esercizio di funzioni pubbliche e amministrazioni private in pubblico comando

I tipi principali di amministrazioni pubbliche in forma privata sono tre


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− Il primo tipo è quello delle c.d. società anomale o di diritto speciale o legali. Si tratta di società
per azioni che presentano caratteri derogatori rispetto al modello definito nel codice civile in
quanto previste e regolate da una legge (C. cost., n. 35/1992), che ne detta i principi essenziali
(come, ad esempio, è avvenuto di recente per le società Patrimonio dello Stato, Infrastrutture,
Coni Servizi, Cassa depositi e prestiti, Istituto per lo sviluppo agroalimentare e riscossione).
Rispetto al modello dell’ente pubblico economico vi è una differenza sostanziale: nel primo il
soggetto è pubblico, pur operando per la maggior parte in base a regole privatistiche, mentre nel
secondo il soggetto è privato, ma è retto da norme che derogano in chiave pubblicistica alla
disciplina civilistica. Con riferimento a tale caratteristica, di recente, la giurisprudenza è giunta ad
affermare che si tratta di enti pubblici a natura societaria (Cons. St., VI, n. 1206/2001 e n.
1303/2002). Questo modello sta avendo uno sviluppo straordinario, in quanto il legislatore vi
ricorre con grande frequenza, sia in esito alla decisione di trasformare enti pubblici economici o
aziende autonome in soggetti privati, sia per l’istituzione di nuove figure.

− Il secondo tipo è quello delle amministrazioni private per l’esercizio di funzioni pubbliche, cioè di
quei soggetti privati ai quali è attribuito dalla legge l’esercizio di compiti pubblici (così, le
associazioni e le fondazioni che gestiscono la previdenza e l’assistenza obbligatoria per talune
categorie di lavoratori, come avvocati, dottori commercialisti, notai, ecc.). Naturalmente, in tali
fattispecie, la natura della funzione esercitata giustifica la previsione di specifici controlli pubblici
(Cass., sez. un., n. 5812/1985).

− Infine, vi sono le amministrazioni private in pubblico comando. L’ipotesi più diffusa è quella delle
società per azioni di diritto comune nelle quali soggetti pubblici detengono partecipazioni
azionarie. In queste ipotesi, si applicano totalmente le norme civilistiche in materia societaria che
definiscono le relazioni giuridiche tra società e azionisti.

Oltre a quello della società per azioni, peraltro, nella realtà emergono altri moduli privatistici che sono
utilizzati dalle pubbliche amministrazioni, anche se non frequentemente: si pensi, in particolare,
alle figure dell’associazione e della fondazione, regolate dagli art. 14 ss. c.c. (esempi sono il
Centro di formazione e studi del mezzogiorno — Formez, il quale ha tra i propri soci lo Stato che,
per un verso, lo ha costituito e, per l’altro, lo disciplina per legge, provvedendo anche al
finanziamento corrente, e l’Istituto per la promozione industriale — Ipi).

12.2. 1 privati in funzione dell’amministrazione: esercizio privato di funzioni pubbliche, concessioni


e contratti di servizio

Le amministrazioni pubbliche provvedono alla realizzazione dei propri fini e all’esercizio delle proprie
funzioni anche avvalendosi di soggetti privati, di solito in forza di rapporti continuativi. Talvolta, infatti,
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piuttosto che svolgere compiti risulta più conveniente affidarli a terzi, i quali vengono ad agire in
funzione strumentale dell’amministrazione, rimanendo separati da quest’ultima e utilizzando
organizzazione e mezzi propri. Per definire il fenomeno, di solito, si utilizza il termine esternalizzazione.
Questa si realizza sempre per mezzo di atti specifici, che assumono di volta in volta natura normativa,
autoritativa o contrattuale.
Innanzitutto, esistono casi nei quali vi è una legge che demanda a determinati soggetti l’esercizio di
particolari funzioni pubbliche: così, ad esempio, gli art. 2699 e 2703 c.c., che consentono ai notai di
esercitare attività costitutive di certezza pubblica. Questa figura, denominata tradizionalmente esercizio
privato di funzioni pubbliche, si caratterizza per il fatto che vi è una attribuzione ad un soggetto esterno
all’amministrazione della titolarità di un munus pubblico, seppur temperata dalla previsione di poteri di
vigilanza ed a volte di sanzione in capo ad organi pubblici relativamente all’esercizio dell’attività.
In secondo luogo, tra soggetti pubblici e privati possono stabilirsi rapporti che vengono disciplinati da atti
autoritativi, come nel caso delle concessioni di servizio. Tali concessioni vengono utilizzate quando una
pubblica amministrazione intende affidare ad un terzo un servizio, regolandone attraverso uno specifico
atto gli obblighi: ad esempio, il Ministero dei trasporti può attribuire mediante concessione l’attività di
revisione degli autoveicoli ad imprese di autoriparazione che abbiano particolari requisiti.
In terzo luogo, un’attività di pubblico interesse può essere svolta in via indiretta, mediante contratto.
Ancora una volta, si ha il caso di un’amministrazione che decide di utilizzare una organizzazione esterna
per lo svolgimento di una determinata attività (ad esempio, il servizio di pulizia degli edifici pubblici):
rispetto alla fattispecie precedente, però, quest’ultima ha natura privata e non di servizio pubblico.
In tutti questi casi, tra il soggetto pubblico e quello privato si instaura un rapporto di ausiliarietà e di
collaborazione. Tale rapporto comporta una ripartizione di compiti e, quindi, di poteri tra enti collegati,
tra i quali ve ne è uno posto in posizione sovra ordinata dal punto di vista funzionale che detiene la
potestà di controllo. Ciò determina una composizione di interessi in previsione del perseguimento di un
fine concordato (cap. II, par. 2.4). In questa prospettiva, assume rilevanza l’attività — pubblica o di
pubblico interesse — svolta e non la natura dell’ente ausiliario, tant’è che, nella realtà, i rapporti in
questione si instaurano nei confronti di enti sia interamente privati (come le banche, quando agiscono in
veste di collettori delle imposte per conto del Ministero dell’economia e delle finanze), sia privati posti
sotto il controllo pubblico (come la Società Concessionaria servizi informati pubblici — Consip, che
svolge attività di conduzione, manutenzione e sviluppo dei sistemi informatici del Ministero
dell’economia e delle finanze e, in parte, della corte dei conti), sia pubblici (come l’Aci).

13. Organizzazione amministrativa e Ue

La crescente complessità della struttura europea ha favorito l’integrazione tra i diversi paesi e
prodotto un processo di progressivo adeguamento delle strutture nazionali a quelle sopranazionali. Sotto il
profilo organizzativo, l’UE è divenuta una struttura composita, perché comprende non solo le istituzioni
europee con i loro apparati, ma anche quelle degli Stati membri, che sono chiamate a partecipare al
processo di elaborazione delle decisioni sopranazionali.

13.1 I rapporti con l’Ue e il coordinamento delle politiche sopranazionali

Il consiglio dei ministri è l'organo competente per la definizione delle linea di indirizzo concernenti
la politica comunitaria. Il presidente del Consiglio ha il compito di promuovere e coordinare l’azione del
governo in materia, nonché quello di coordinare e promuovere l’azione diretta ad assicurare la piena
partecipazione dell’Italia all’UE e lo sviluppo del processo di integrazione. In merito ai soggetti che
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agiscono a livello amministrativo, occorre distinguere fra istituzioni centrali e regionali. Quelle centrali
agiscono attraverso i singoli ministeri (nelle materie di competenza) o con uffici unificati, mentre quelle
regionali hanno assunto un ruolo di interlocutore diretto dell’Ue, anche grazie alla legislazione
concorrente sancita dall’art. 117 Cost il quale prevede espressamente tra le varie materie di legislazione
concorrente quella relativa ai rapporti internazionali e con l’UE delle regioni e attribuisce alle regioni
poteri di attuazione e di esecuzione degli atti dell’UE. Per effetto dell’affermazione, da una parte, di un
vero e proprio regionalismo comunitario, che è divenuto uno dei tratti caratterizzanti del sistema
sopranazionale, e, dall’altra, di un ordinamento decentrato e autonomistico a livello nazionale, le regioni,
abbandonata la posizione di marginalità istituzionale, hanno assunto il ruolo di interlocutore diretto
dell’UE. In conclusione, per garantire un coordinamento omogeneo tra i vari attori in campo, è stato
istituito il Dipartimento politiche europee, presso la Presidenza del Consiglio.

13.2.3.4 Le forme di integrazione organizzativa nei settori interesse comunitario:

Accanto ai modelli tradizionali dell'amministrazione se ne sviluppano altri più numerosi e


complessi:
a) La coamministrazione. Prevede la contitolarità della competenza tra commissione dell'Ue
autorità amministrative nazionali, per realizzare mutuo controllo tra i due livelli.
b) L’ integrazione decentrata: Le attribuzioni relative ad una determinata funzione comunitaria
vengono ripartite tra una pluralità di uffici nazionali, sovranazionali o misti, istituendo una "agenzia
europea”.
c) Il concerto regolamentare: Si realizza una integrazione strutturale e funzionale di autorità
indipendenti nazionali: ne è un esempio il Garante europeo sulla protezione dei dati personali.

14. Organizzazione amministrativa e ordinamento globale


In definitiva, è evidente che i mutamenti del disegno organizzativo dell'amministrazione dell'Unione
europea si riflettono sulle strutture amministrative nazionali. Si afferma l’idea di uno spazio giuridico
composto da una molteplicità di poteri pubblici e di ordinamenti giuridici. L’organizzazione delle
amministrazioni nazionali può essere condizionata anche dai rapporti con altre amministrazioni globali
(Nato, ONU).

CAPITOLO IV ‐ IL PERSONALE

1. TITOLARITÀ DEGLI UFFICI PUBBLICI E CATEGORIE DI PERSONALE

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Le funzioni sono distribuite fra gli uffici che compongono l’organizzazione amministrativa. Esse sono
materialmente svolte da persone fisiche le quali prestano la propria attività al servizio della P.A. stessa. Il
personale che presta servizio presso le P.A.in alcuni casi assume la titolarità degli uffici pubblici.

1.1. rapporto di ufficio e di servizio


Il personale che presta servizio presso le P.A. assume, in alcuni casi, ma non sempre, anche la titolarità
di uffici pubblici. Questo significa che il servizio, da una parte, e la titolarità dell’ufficio, dall’altra,
sono due cose diverse.
il rapporto di servizio, riguarda l’attività lavorativa che il dipendente si obbliga a prestare in cambio di
una retribuzione.
Il rapporto d’ufficio, produce il collegamento giuridico tra il dipendente ed una componente
dell’organizzazione. Mediante questo la persona fisica (funzionario pubblico) assume la titolarità di un
ufficio e la capacità di esercitare i poteri e le funzioni che le norme attribuiscono a tale ufficio e
compiere atti giuridici rilevanti all’esterno dell’amministrazione. In quanto titolare di una sfera di
funzioni pubbliche, si dice anche che, il dipendente è, in questo caso, un funzionario pubblico. E in
quanto titolare di una componente dell’organizzazione amministrativa si dice pure che egli vi si
immedesima.

1.2. Principi comuni ai titolari d’ufficio


La disciplina che regola il rapporto di ufficio è variabile. Essa cambia a seconda del tipo di ufficio che si
prenda in considerazione. La titolarità dell’ufficio si acquisisce per nomina da parte di titolare di altro
ufficio o per elezione. La si può perdere per dimissioni, scadenza del termine quando l’incarico è
temporaneo, per revoca o rimozione decisa dalla stessa autorità che l’ha conferita o altra autorità.
Esistono alcuni principi che si applicano a tutti i titolari di uffici:
- continuità dell’ufficio: in caso di impedimento temporaneo del titolare subentra il supplente o
vicario se nominato. Altrimenti l’ufficio può essere affidato al titolare di altro ufficio che ne diviene il
reggente. Quando il rapporto di ufficio si estingue per scadenza del termine il titolare resta in carica
fino alla nomina del successore con una proroga max di 45 giorni, dopodiché i suoi atti divengono
nulli (istituto della prorogatio). Durante la proroga deve limitarsi all’ordinaria amministrazione.
- Eguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici : secondo l’articolo 51 della Cost. tutti i cittadini di
entrambi i sessi possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
uguaglianza.
-Adempimento delle funzioni pubbliche con disciplina e onore : posto dall’art. 54 Cost. dispone che i
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore.
L’onorabilità è preservata precludendo il conferimento della titolarità di cariche pubbliche a
soggetti che siano stati condannati in sede penale per gravi reati o per delitti contro la P.A.
-Esercizio imparziale delle funzioni pubbliche e prevenzione dei conflitti di interesse : al citato art. 54
Cost, nonché all’art. 97 Cost. è riconducbile un ulteriore principio comune ai titolari di uffici, che
è quello della separazione fra l’interesse dell’ufficio e quello del suo titolare. Il principio è volto
a preservare l’imparzialità nell’esercizio delle funzioni pubbliche, evitando che queste ultime
siano piegate ad interessi personali o particolari del titolare dell’ufficio.

Sotto questo profilo la legge ha introdotto penetranti vincoli al conferimento della titolarità di uffici
pubblici, ricorrendo, in particolare, agli istituti della incompatibilità, inconferibilità. La l. n. 215/2004
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prevede, che il titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incrico, non possa ricorpire
altre cariche o uffici pubblici. Nel momento in cui un soggetto assume la carica di governo tutti gli
incarichi o funzioni incompatibili con essa devono cessare. Si vuole limitare il fenomeno del
“pantouflage” cioè la pratica, molto diffusa in Francia, di alti funzionari pubblici che pongono termine al
loro impegno pubblico per essere assunti da imprese private soggette al potere di regolazione
dell’amministrazione per la quale essi hanno prestato servizio.

2. Categorie di personale pubblico


Gli uffici posono essere conferiti a diverse specie di titolari, che si distinguono in base al rapporto di
servizio.

2.1 il personale non volontario


Il rapporto di servizio può essere volontario o obbligatorio. Nel secondo caso, il servizio è imposto
dall’amministrazione, anche contro la volontà dell’interessato. Il servizio obbligatorio assume una
notevole importanza nel settore della difesa (servizio militare obbligatorio sospeso nel 2005 ma può
essere ripristinato, con decreto del Presidente della repubblica, in caso di insufficienza del personale
militare volontario).

2.2 Il personale non professionale (onorario)


Il personale volontario si distingue in personale professionale e non professionale (onorario). Le due
specie si differenziano in base al rapporto di servizio, o meglio si distinguono in base al tipo di
collegamento fra la titolarità dell’ufficio e il rapporto di servizio.
Quando viene conferita ad un funzionario non professionale o onorario, la titolarità dell’ufficio è
attribuita ad un soggetto che, indipendentemente da tale atto di investitura, non avrebbe alcun obbligo di
prestare il proprio servizio a favore dell’amministrazione. Quell’obbligo sorge solo nel momento in cui si
costituisce il rapporto di ufficio e viene meno con l’estinguersi di quest’ultimo. Da ciò derivano una
serie di caratteri che distinguono il funzionario onorario da quello professionale:
− scelta politico-discrezionale che non presuppone un concorso anche se, di recente, si è diffusa
la prassi di selezionare anche i titolari onorari degli uffici mediante avvisi pubblici e selezioni fra i
candidati che abbiano previamente manifestato il proprio interesse a ricoprire la carica.
− Disciplina dei diritti e degli obblighi, generalmente molto ridotti poiché l’aspetto professionale
(lavoro – retribuzione) assume valore marginale prevalendo l’identificazione del funzionario
nell’organizzazione.
− Il compenso non è un elemento essenziale del rapporto e in ogni caso non costituisce una
vera retribuzione ma tutt’al più una indennità percepita a titolo di rimborso degli oneri
sostenuti, anche se considerando che l’attività assorbe l’intera capacità lavorativa del funzionario
ora la legge riconosce indennità cospicue. Ora gli amministratori oltre a percepire una indennità di
funzione hanno diritto, a richiesta, se lavoratori dipendenti all’aspettativa per il periodo del
mandato.
- Rapporto a termine, in quanto di natura politica.
- Infine quanto alla tutela la giurisdizione sulle controversie relative ai funzionari onorari è
ripartita tra giudice ordinario e giudice amministrativo sulla base del comune criterio della situazione
soggettiva lesa.
- La categoria del personale non professionale comprende parlamentari, membri del governo,
amministratori di enti pubblici, presidenti di regioni, assessori consiglieri regionali, amministratori

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di enti locali, membri di organi collegiali. La titolarità dell’ufficio è conferita secondo un criterio di
rappresentanza politica (elezione) oppure rappresentanza di interessi. Essi rappresentano uno
strumento di attuazione del principio democratico, un meccanismo di collegamento tra società e
amministrazione.

2.3 Il personale professionale

La seconda specie di personale volontario è rappresentata dal personale professionale. In questi casi,
la titolarità dell’ufficio viene attribuita ad un soggetto, nel presupposto che questi appartenga ad una
carriera. Il soggetto deve appartenere ad un corpo di burocrati di professione, selezionati in base al
merito, i quali, in cambio della retribuzione, pongono permanentemente e continuativamente la
propria capacità lavorativa al servizio dell’amministrazione.
Qui il rapporto di servizio esiste indipendentemente dal rapporto di ufficio e non si estingue insieme ad
esso. Il funzionario professionale assume, nel corso della sua carriera, la titolarità di svariati uffici,
conservando sempre il medesimo rapporto di servizio, che non subisce nessuna interruzione.
Gli uffici a titolarità professionale riflettono il criterio del merito e garantiscono il rispetto di
imparzialità amministrativa.
Il personale professionale costituisce la maggioranza del personale pubblico. La categoria del personale
professionale è quella più numerosa. Essa comprende circa 3 milioni e mezzo di persone.
Il personale professionale può essere retto, anzitutto, dal diritto pubblico, oppure, prevalentemente dal
diritto privato. Il pubblico impiego, da una parte, e il rapporto di lavoro privato con le P.A., dall’altra,
rappresentano i due modelli di rapporti di servizio più importanti. Entrambi costituiscono rapporti di
lavoro subordinato e a tempo indeterminato.

2.4 Il personale precario


Vi sono categorie di personale il cui rapporto di servizio presenta l’elemento della subordinazione, ma
non quello della stabilità. Il personale precario è assunto per esigenze straordinarie, per un periodo
determinato, senza concorso e fuori organico ma generalmente, prima o dopo, mediante appositi
provvedimenti legislativi immesso stabilmente in ruolo. Tali provvedimenti di stabilizzazione
producono 2 inconvenienti: da un lato, una crescita incontrollata del personale, dall’altro, un aggiramento
del principio del concorso pubblico. La Corte Costituzionale considera illegittime le leggi di
stabilizzazione, salvo che essa siano giustificate da particolari e straordinarie esigenze di interesse
pubblico. Per evitare inconvenienti, il legislatore ha spesso posto, in passato, divieti generali per le P.A. di
assumere personale a tempo determinato. Nel quadro della generale tendenza alla convergenza della
disciplina del lavoro pubblico e di quello privato, le P.A. sono state però autorizzate ad avvalersi di tutte
le forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego previste dal codice civile e dalle leggi sul lavoro
subordinato nell’impresa. Ma questa apertura alla flessibilità, unita ai blocchi delle assunzioni a tempo
indeterminato, disposti a più riprese dalle leggi finanziarie ai fini di contenimento della spesa pubblica, ha
prodotto una crescita esponenziale del personale precario nelle P.A., oltre il 14%. Ciò ha spinto il
legislatore, da un lato, ad adottare ulteriori provvedimenti di stabilizzazione dei precari e, dall’altro lato,
ad introdurre nuovamente limitazioni alla facoltà delle P.A. di ricorrere alle forme di lavoro flessibile.
Il d.lg. n. 165/2001 prevede la regola generale secondo cui, per le esigenze connesse al loro fabbisogno
ordinario, le P.A. possono assumere esclusivamente personale stabile, cioè a tempo indeterminato,
reclutandolo attraverso il concorso pubblico. La disciplina inoltre, per scoraggiare la formazione di
ulteriori sacche di precariato, dispone che le P.A. attingano, per l’assunzione di personale a tempo
determinato, ai vincitori e agli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato. La violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o impiego di lavoratori da
parte di P.A. non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
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2.5 Il personale con rapporto di lavoro autonomo
Ad alcune categorie di personale professionale fa difetto sia l’elemento della stabilità sia quello
della subordinazione. Si tratta del personale utilizzato in virtù di un rapporto di lavoro autonomo. Il
d.lg. n. 165/2001 autorizza le P.A., per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, a
conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e
continuativa, ad esperti di provata competenza. Le P.A. hanno però abusato di questa facoltà. Ciò ha
indotto la giurisprudenza e il legislatore a fissare limiti più rigorosi per il ricorso a tale strumento e a
scoraggiarne, anche sul piano sanzionatorio, l’abuso.
Questi incarichi di lavoro autonomo possono essere conferiti, mediante procedure comparative da
rendersi pubbliche, solo qualora ricorrano, contemporaneamente, i seguenti 4 presupposti:
- L’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento
all’amministrazione conferente e ad obiettivi e progetti specifici e determinati.
- L’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare
le risorse umane disponibili al suo interno.
- La prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata.
- Devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione
- L’incarico non è rinnovabile e può essere prorogato al solo fine di completare il progetto e per
ritardi non imputabili al collaboratore.
In taluni casi, tali soggetti possono diventare anche titolari di un ufficio pubblico (es. commissioni
di concorso); in tal caso si configurano come funzionari onorari anche se la loro titolarità non trova
fondamento nella rappresentanza politica ma nella particolare qualifica professionale.

3. La disciplina europea dell’impiego con le P.A. nazionali

Il diritto europeo influisce sulle discipline nazionali relative al personale professionale al servizio
delle pubbliche amministrazioni degli Stati membri. I dipendenti pubblici sono lavoratori, e le norme
europee, allo scopo di costruire un mercato comune, proteggono la libertà di circolazione dei lavoratori
dalle eventuali discriminazioni previste, dagli Stati membri, in base alla nazionalità dei lavoratori
stessi.
La disciplina, contenuta nel TFUE rispetta il principio del necessario collegamento tra la
cittadinanza di uno Stato, da una parte, e l’accesso agli impieghi presso le P.A. di quel medesimo Stato.
Gli Stati, in virtù del 4 comma dell’art. 45 TFUE, conservano la facoltà di discriminare in base alla
cittadinanza nazionale quando si tratti dell’accesso agli impieghi nella P.A.
La corte di giustizia delle comunità europee ha affermato che la nozione di P.A. non può essere
lasciata interamente alla discrezionalità dei singoli Stati e deve interpretarsi in senso restrittivo. Il
requisito della nazionalità può essere imposto esclusivamente per l’accesso a quei posti che implicano
partecipazione all’esercizio di poteri pubblici, ovvero tutela di interessi; essi soli, infatti, possono
richiedere un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato. Quindi l’eccezione al
principio di libera circolazione può valere, ad esempio, per le funzioni tipiche e specifiche dello stato,
come la difesa, la sicurezza, la giustizia.
Il criterio indicato dalla corte di giustizia è stato recepito nell’ordinamento italiano, ove si è
affermato il principio dell’accesso dei cittadini UE ai posti di lavoro presso le P.A. che non implicano
esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale.
Il d.lg. n. 286/1998, in attuazione di apposite convenzioni internazionali, ha riconosciuto al
cittadino extracomunitario, regolarmente soggiornante in Italia, parità di trattamento e piena uguaglianza
di diritti rispetto ai lavoratori italiani, prevedendo anche un apposito procedimento giurisdizionale per
tutelare il lavoratore extracomunitario leso da una condotta discriminatoria.
La legge europea 2013, ha stabilito che possono accedere ai posti di lavoro presso le P.A., che non
implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, oltre ai cittadini degli Stati membri UE, anche:

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- I loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di
soggiorno o del diritto di soggiorno permanente
- I cittadini di paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo o che siano titolari dello status di rifugiato.
L’accesso non è ancora riconosciuto ai cittadini di paesi terzi in termini generali.

4. IL PUBBLICO IMPIEGO
L’affermarsi di una burocrazia professionale ha segnato la formazione dello stato moderno (WEBER). Il
pubblico impiego rappresenta un corpo di impiegati professionali di carriera cui viene riservata la
titolarità di uffici amministrativi.

4.1. i caratteri del pubblico impiego


Il rapporto di pubblico impiego presenta due caratteri fondamentali:
- È strettamente legato ad un rapporto di cittadinanza ( identificazione personale professionale –
Stato, maggiore senso di appartenenza). Il rapporto di cittadinanza indica una relazione di
appartenenza dell’individuo allo Stato. Non si tratta, anzi, di un rapporto, ma di uno status, cioè di una
posizione del soggetto nell’ordinamento, da cui derivano diritti e doveri. La concezione dell’impiegato
pubblico come cittadino speciale si riflette anche nella costituzione. L’ art. 51 Cost. collega
l’ammissione agli uffici pubblici allo status di cittadino. “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso
possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza e secondo i requisiti stabiliti dalla
legge. Dunque, chiunque sia cittadino, può divenire anche impiegato pubblico.
- È un rapporto di diritto pubblico. Il rapporto di pubblico impiego era considerato come un
relazione fra cittadino e stato. E la scienza giuridica italiana non poteva ammettere relazioni paritarie
fra Stato e cittadini. Quei rapporti, pertanto, non poteva essere regolati dal diritto privato, ma da quello
pubblico. Essi dovevano essere retti da un ramo dell’ordinamento ispirato all’idea della disuguaglianza
fra lo Stato, in posizione di supremazia, e il privato, in posizione di soggezione. Inoltre, il personale è
legato all’amministrazione da una relazione bipolare; rapporto di servizio e rapporto di ufficio. Il
primo aspetto corrisponde al rapporti di lavoro privato, mentre il secondo è regolato dal diritto
pubblico e di conseguenza anche il primo è stato attratto nella sfera del diritto pubblico.

4.2. Il regime giuridico del rapporto di pubblico impiego


Il regime giuridico del rapporto di pubblico impiego si basa su 4 principi:
− l’amministrazione costituisce il rapporto con l’atto di nomina. È inteso come manifestazione
del potere pubblico ed è un provvedimento unilaterale sebbene condizionato dall’accettazione del
destinatario.
− Il rapporto di pubblico impiego non può essere regolato mediante accordi, anche la disciplina
del rapporto è quindi unilaterale in quanto contenuta nella legge o in altre fonti
dell’ordinamento.
− Il rapporto di pubblico impiego si modifica e si estingue per effetto di decisioni che sono, a
loro
volta, espressione di potere pubblico.
− Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, conseguenza processuale della natura
pubblica del rapporto.

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4.3. Categorie di personale con rapporto di impiego pubblico: tratti comuni
L’area del personale professionale legato all’amministrazione da un rapporto di pubblico impiego è
ancora vasta. Essa comprende 621.977 dipendenti, pari a circa il 18% del totale. (un quinto).
A determinate categorie come personale della carriera diplomatica, prefettizia, militare, delle forze di
polizia, magistrati, avvocati dello Stato, professori universitari,vigili del fuoco, sono affidate funzioni
pubbliche che rappresentano il cuore della sovranità degli Stati (difesa, affari esteri, ordine pubblico…).
Sono funzioni per le quali il diritto europeo consente agli Stati di riservare ai propri cittadini l’accesso ai
relativi uffici.
Tali categorie hanno sempre ricevuto un trattamento normativo speciale differenziato rispetto a quello
riservato alla generalità degli impiegati pubblici. Per essi la disciplina del rapporto di lavoro è ancora
dettata dalla legge.
4.4. Il personale della carriera diplomatica e prefettizia
Per alcune categorie di personale il regime dell’impiego pubblico è più adeguato in ragione della
identificazione fra cittadino e Stato che esprime.
Il personale della carriera diplomatica e prefettizia è preposto ad uffici cui è attribuita una complessiva
funzione di rappresentanza dello Stato, verso l’esterno, in ambito internazionale nel caso degli agenti
diplomatici, verso l’interno, in periferia, nel caso dei prefetti. Lo svolgimento di tali funzioni spiega
anche il particolare trattamento normativo riservato a queste categorie come la chiusura verso l’esterno
delle rispettive carriere cui si può accedere solo a grado iniziale per poi progredire per merito. Esso
giustifica, anche, la speciale relazione fiduciaria con il governo, al venir meno della quale prefetti e
diplomatici possono essere collocati a disposizione nell’interesse del servizio.

4.5. Il personale militare e delle forze di polizia


La natura paritaria del rapporto di lavoro privato mal si concilierebbe con i criteri di gerarchia e disciplina
che ispirano la disciplina del personale militare e dei corpi di polizia. Ai militari è stato vietato sia lo
sciopero, sia sia l’iscrizione ad associazioni sindacali.
Il personale di polizia di Stato è stato smilitarizzato e, di conseguenza, il relativo rapporto di impiego è
ora regolato da decreti del Presidente della Repubblica adottati a seguito di accordi sindacali. Questa
stessa disciplina ha previsto che anche il rapporto di impiego del personale delle forze di polizia che sono
rimaste ad ordinamento militare, così come quello del personale delle forze armate, sia regolato da decreti
che recepiscono gli esiti di procedure di concertazione con i rappresentanti del Consiglio centrale di
rappresentanza (COCER) cioè con esponenti di una sorta di sindacato interno.

3.6. Magistrati, avvocati di Stato e docenti universtitari


Il rapporto di diritto pubblico serve anche per assicurare la neutralità politica e l’indipendenza di
determinate categorie di personale professionale. Tale esigenza è particolarmente avvertita per i
magistrati. La Costituzione impone che il loro status sia regolato dalla legge escludendo ogni spazio
per una disciplina negoziale. Tale status deve prevedere la stabilità e l’inamovibilità dei magistrati. È
sempre la costituzione a vietare che essi siano dispensati o sospesi dal servizio salvo che intervenga una
decisione adottata dal consiglio superiore della magistratura il quale è un organo di autogoverno.
Analoghe garanzie di autonomia e inamovibilità sono previste anche per i magistrati amministrativi e
contabili e agli avvocati e procuratori dello Stato.

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Anche per i professori e ricercatori universitari lo statuto di diritto pubblico viene giustificato in base
all’esigenza di tutelarne l’autonomia e di garantire i valori costituzionali del pluralismo culturale e della
libertà della scienza. È vietato il trasferimento dei docenti senza il loro consenso.
4.7. Personale autorità indipendenti
Anche il personale delle autorità indipendenti risulta escluso dall’ambito dell’applicazione delle
disposizioni sulla privatizzazione del rapporto di impiego. Tale personale, però, non può essere
ricompreso nell’ambito del pubblico impiego. Il peculiare regime applicabile al personale delle autorità
indipendenti si basa sulle disposizioni dei regolamenti da ciascuna di esse adottati, i quali devono
uniformarsi ai criteri fissati dal contratto collettivo di lavoro in vigore per la Banca d’Italia.

5. IL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO CON LE P.A.


Il personale professionale, in prevalenza, è legato all’amministrazione da un rapporto di natura
privatistica in larga misura regolato dal diritto comune del lavoro.
Il d.lg. n. 165/2001 ha disposto la privatizzazione dei rapporti di impiego di più dell’ 80% dei
dipendenti pubblici. Tale disciplina agisce su un duplice versante: da un lato equipara il regime giuridico
dei rapporti di impiego con le pubbliche amministrazioni a quello proprio dei rapporti di lavoro
subordinato con imprese private. Dall’altro dispone l’applicazione anche ai rapporti di impiego con le
P.A. della stessa disciplina sostanziale che regola il lavoro subordinato nell’impresa. Questa
privatizzazione rende incerta la rilevanza per il diritto amministrativo di tali rapporti dove il datore di
lavoro ha natura pubblica.

5.1. Il regime giuridico del rapporto di lavoro privato con le P.A.


Il regime giuridico del rapporto di lavoro privato con le P.A. poggia su 4 principi fondamentali:
− origine contrattuale del rapporto: l’assunzione nelle P.A. avviene con contratto individuale di
lavoro
− regolamentazione contrattuale del rapporto: i rapporti individuali di lavoro sono regolati
contrattualmente. La materia del trattamento economico è riservata esclusivamente alla
contrattazione collettiva, che deve però contemplare trattamenti economici accessori collegati alla
perfomance individuale e organizzativa.
− Gestione del rapporto mediante atti negoziali: le misure inerenti alla gestione dei rapporti di
lavoro (promozione, trasferimento, licenziamento) sono assunte con la capacità e i poteri del
privato datore di lavoro
− Cognizione al giudice ordinario: sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del
lavoro, le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle P.A. Il giudice può
adottare, nei confronti delle P.A., tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi e di condanna,
richiesti dalla natura dei diritti tutelati.
In conclusione, per la maggior parte del personale professionale, il regime giuridico del rapporto di
pubblico impiego, che si applica alle categorie di personale sopra menzionate , è rovesciato: qui
vi è un contratto di lavoro, li vi è un atto di nomina, qui vi è un rapporto obbligatorio di diritto
privato, li vi è uno status di diritto pubblico, qui vi sono atti negoziali di gestione del rapporto, li
vi sono provvedimenti amministrativi. Qui vi è il giudice ordinario, li il giudice amministrativo.
In conclusione, il carattere pubblico dell’organizzazione non esclude la natura privata del
rapporto di lavoro; al contrario, è quest’ultima che hafinito per attrarre , in orbita privatistica,
anche una quota dell’organizzazione.

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5.2. L’applicazione del diritto comune del lavoro e i suoi limiti
La privatizzazione dei rapporti di lavoro con le P.A. comporta l’applicazione ad essi della stessa
disciplina sostanziale valida peri rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. Essi vengono sottoposti, in
altre parole, ad un diritto del lavoro comune a pubblici e privati operatori. L’applicaazione di questo
diritto del lavoro comune è l’effetto di due principi, stabiliti dal d.lg. n. 165/2001:
- Pars destruens mira a eliminare la vasta e disordinata disciplina speciale, cioè applicabile ai soli
dipendenti pubblici
- Pars construens è invece rappresentata di un rinvio mobile alla disciplina privatistica. Il rinvio è
mobile, perché non si riferisce a singole specifiche regole, ma a tutte le norme, vigenti e future, che
regolano e regoleranno il lavoro subordinato nell’impresa. Le norme del diritto del lavoro, salvo che
non sia disposto altrimenti, si applicano ai rapporti di lavoro subordinato indipendentemente dalla
natura, pubblica o privata, del datore di lavoro.
Per la combinazione di questi due principi, il vecchio diritto speciale dell’impiego pubblico dovrebbe
essere sostituito da un nuovo diritto comune, ugualmente applicabile tanto ai rapporti di lavoro con P.A.
quanto ai rapporti di lavoro subordinato nell’impresa.
Questa privatizzazione della disciplina però da un lato è precaria perché il legislatore ha sempre la
possibilità di tornare a disciplinare, con regole speciali che prevalgono sui contratti collettivi, i rapporti di
lavoro con le P.A. Dall’altro lato, la privatizzazione, non è un principio assoluto in quanto la disciplina
privatistica si applica ai rapporti di lavoro con le P.A., fatte salve le diverse disposizioni contenute nel
presente decreto. Il d.lg. n. 165/2001 costituisce il fondamento della privatizzazione, ma segna anche il
suo limite. Esso infatti autorizza la permanenza di una disciplina speciale e, contemporaneamente, la
definisce, con norme che prevalgono sulle regole privatistiche e non sono derogabili da parte della
contrattazione. Vi è, quindi, una clausola di salvaguardia della specialità del lavoro pubblico e
consiste di singole e specifiche regole o istituti, che si innestano nel tronco della disciplina di diritto
comune. Il rapporto si costituisce mediante contratto individuale ed è regolato da contratti collettivi. Ma
la stipulazione dell’uno e degli altri è disciplinata dalla legge con norme speciali che non si applicano al
settore privato
Una volta costituito il rapporto esso è regolato oltre che dai contratti dalla disciplina legislativa
privatistica.

5.3 La disciplina della contrattazione collettiva


A differenza di quanto accade per i contratti collettivi di lavoro stipulati da imprese private, la legge
stabilisce il modo in cui le pubbliche amministrazioni devono stipulare i propri contratti collettivi, il
d.lg 165/2001 regola tre aspetti: la struttura, i soggetti e le procedure della contrattazione:
La struttura: è definita dalla stessa contrattazione con la quale appositi accordi individuano i comparti
della contrattazione collettiva nazionale. All’autonomia collettiva spetta anche disciplinare la durata dei
contratti collettivi nazionali e integrativi, la struttura contrattuale e i rapporti fra i diversi livelli. La legge
prevede cha vi siano almeno tre livelli contrattuali e regola il rapporto fra il livello intermedio e quello
inferiore:
− Il primo livello è rappresentato dai contratti che difiniscono i comparti: essi sono unità
negoziali riferite a settori omogenei o affini comprendenti personale pubblico cui si applica uno
stesso contratto collettivo. La legge prevede al riguardo 2 ordini di vincoli: in primo luogo, i
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comparti in cui si articola la contrattazione collettiva non possono essere superiori a 4; in secondo
luogo, i dipendenti di alcune tipologie di amministrazioni devono confluire nel medesimo
comparto: in un comparto devono essere compresi i dipendenti delle regioni, dei relativi enti
dipendenti e delle amministrazioni del servizio sanitario nazionale, mentre in un altro comparto
devono confluire i dipendenti degli enti locali, delle CCIAA e i segretari comunali e provinciali. I
comparti costituiscono un limite alla privatizzazione, perché escludono che i dipendenti pubblici
possano essere regolati da contratti collettivi applicabili anche a lavoratori del settore privato.
− Il secondo livello contrattuale è costituito dai contratti collettivi nazionali detti anche di
comparto e si applicano ai dipendenti di una certa categoria.
− Il terzo livello contrattuale è costituito dai contratti collettivi integrativi e si riferiscono di
norma al personale di una singola amministrazione (un ministero). La terza contrattazione dipende
dalla seconda: le singole amministrazioni non possono sottoscrivere contratti integrativi in
contrasto con quelli nazionali.

I soggetti: la contrattazione nazionale si svolge fra una parte pubblica, che rappresenta le
amministrazioni del comparto e una parte sindacale che rappresenta i rispettivi dipendenti. Le
amministrazioni sono rappresentate dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A.
(ARAN). L’ARAN ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è un organo tecnico di cui le
norme tutelano l’autonomia ed indipendenza rispetto al corpo politico. Questo organismo negozia
in base a direttive impartite dalla amministrazioni pubbliche che esso rappresenta a alle quali si
applicano i contratti che esso conclude. A tal fine le amministrazioni costituiscono proprie istanze
associative o rappresentative. La legge impone ad esse l’osservanza dei contratti sottoscritti dall’
ARAN i quali si applicano a tutti i dipendenti del comparto indipendentemente dalla iscrizione al
sindacato che lo ha stipulato. L’ARAN è tenuta ad ammettere alle trattative tutte le organizzazioni
sindacali che raggiungano una soglia minima di rappresentatività del 5 per cento del comparto
interessato.

Il procedimento: per la stipulazione del contratto collettivo. Questo si apre con la quantificazione delle
risorse finanziarie da destinare alla contrattazione collettiva. Le trattative si concludono con una ipotesi di
accordo fra l’ARAN e le parti sindacali, dopo di che l’ARAN deve acquisire un parere favorevole del
comitato di settore e quindi trasmettere una quantificazione dei costi derivanti dall’accordo alla Corte dei
Conti per la compatibilità dei vincoli finanziari previsti in sede di programmazione e di bilancio. La
certificazione positiva della Corte dei conti legittima il presidente dell’ARAN a sottoscrivere
definitivamente il contratto collettivo, mentre in caso di certificazione non positiva, occorre stralciare
le clausole nulle oppure riaprire le trattative e raggiungere una nuova ipotesi di accordo, sulla quale
deve intervenire una nuova certificazione.
La disciplina della contrattazione ha rivelato, in sede applicativa diversi difetti e distorsioni:
• Un primo difetto è forse ineliminabile e dipende dalla circostanza che le risorse da destinare ai
rinnovi contrattuali sono predeterminate dal governo e, quindi, sono note in anticipo ai sindacati.
Ciò significa che la parte pubblica, cioè l’ARAN, contratta a carte scoperte, perché i sindacati già
sanno, nel corso delle trattative, quanto essa è disposta a concedere. Con il tempo l’ARAN si è
indebolito ed è stata spesso chiamata a ratificare intese già raggiunte in sede di concertazione
politico-sindacale.

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• La maggior parte degli incrementi retributivi sono stati decisi in sede di contrattazione integrativa.
La particolare debolezza della parte pubblica in sede di contrattazione integrativa, e il
corrispondente strapotere sindacale, ha prodotto molte disfunzioni.

Le poche risorse teoricamente utilizzate per il trattamento accessorio collegato alla produttività sono state,
in realtà, erogate a pioggia e a prescindere da una effettiva verifica del merito, con la conseguenza che il
personale tende a considerare anche quella parte della retribuzione come se essa fosse una componente
fissa. Il d.lg n. 150/2009 obbliga ciascuna amministrazione a dotarsi di un sistema di misurazione della
perfomance organizzativa e individuale e di un organismo indipendente di valutazione della performance,
ciascun dipendente deve essere sottoposto a valutazione in modo tale da attribuire i trattamenti economici
in modo selettivo.

5.4. La costituzione del rapporto: a) organici e programmazione delle assunzioni


La fase costituiva del rapporto di lavoro, che precede la stipulazione del contratto individuale, è
regolata dal diritto amministrativo. Questo prevede vincoli che riguardano sia la decisione di assumere
personale, sia la scelta del personale da assumere. La facoltà delle P.A. di assumere personale trova un
limite nella disciplina che riguarda gli organici, la programmazione delle assunzioni e la mobilità. Le P.A.
non possono assumere un dipendente in mancanza di un corrispondente posto in organico. La
consistenza delle dotazioni organiche deve essere determinata dall’amministrazione in base agli
effettivi fabbisogni di personale.
La decisione di avviare le rispettive procedure di reclutamente è adottata in base ad atti di
programmazione triennale delle assunzioni. La previsione di nuove assunzioni è subordinata, in sede
di programmazione, all’esperimento di procedure di mobilità. Prima di assumere nuovo personale le
P.A. sono tenute a verificare la possibilità di impiegare dipendenti già in servizio presso altre P.A., che
siano stati dichiarati in eccedenza e collocati in disponibilità.

5.5. Segue: b) Il concorso


La scelta del personale da assumere deve essere effettuata, per espressa previsione costituzionale,
mediante concorso. L’art. 97 della Cost. codifica il principio del merit system il quale garantisce il
diritto ai cittadini di accedere ai pubblici uffici in condizioni di eguaglianza senza altra distinzione che
quella della loro virtù e dei loro talenti, inoltre la competizione fra i candidati consente si scegliere i più
capaci. Il concorso pubblico si contrappone al political patronage il quale impedisce che il reclutamente
dei pubblici impiegati avvenga in base a criteri di appartenenza politica e garantisce un certo grado di
distinzione fra l’azione del governo, normalmente legata agli interessi di una parte politica, e quella
dell’amministrazione, vincolata invece ad agire senza distinzioni di parti politiche. Il concorso è una
selezione trasparente, comparativa, basata esclusivamente sul merito e aparte a tutti i cittadini in
possesso di requisiti previamente e obiettivamente definiti. L’art.35 del d.lg. 165/2001 esclude il
concorso per i posti delle qualifiche più basse, per l’accesso ai quali è previsto il solo requisito della
scuola dell’obbligo. Tali assunzioni avvengono mediante avviamento degli iscritti nelle liste di
collocamento. Le procedure selettive sono disciplinate dalle singole amministrazioni secondo principi
comuni fissati dalla legge. In base al d.lg. n. 165/2001 le procedure di reclutamente devono garantire la
pubblicità e l’imparzialità della selezione. Devono poi prevedere meccanismi oggettivi e trasparenti per
l’accertamento dei requisiti profesionali e attitudinali richiesti. Per assicurare la neutralità della selezione
questa deve essere affidata ad una commissione di tecnici ed esperti della quale non possono farne parte
titolari di altre cariche politiche o rappresentanti dei sindacati, almeno un terzo dei posti delle
commissioni deve essere riservato alle donne. Le procedure concorsuali, devono ispirarsi al principio del
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decentramento. In particolare, i concorsi per le assunzioni nelle amministrazioni dello stato si espletano,
salvo deroghe, a livello regionale.

Il procedimento del concorso si articola in quattro fasi:


− adozione del bando di concorso: disciplina le modalità di svolgimento della selezione e fissa i
requisiti, generali e speciali, richiesti per l’ammissione. Un requisito generale è in alcuni casi la
cittadinanza italiana. Altri requisiti generali sono l’idoneità fisica all’impiego, il possesso del
titolo di studio prescritto ecc.
− invio domande di ammissione: l’amministrazione accerta il possesso dei requisiti prescritti e
delibera, per ciascun candidato, l’ammissione alla selezione o l’esclusione dal concorso. Il
provvedimento di esclusione può essere impugnato e, se illegittimo, annulato dal giudice
amministivo. Spesso è prevista la ammissione con riserva in questo caso, l’accertamento del
possesso dei requisiti viene rimandato ad un momento successivo allo svolgimento delle prove.

− selezione dei candidati: sulla base dei titoli presentati e delle prove sostenute. Questa è
effettuata dalla commissione giudicatrice. Prima dello svolgimento delle prove la commissione
deve definire i criteri di massima per la valutazione dei titoli e i criteri e le modalità di
valutazione delle prove concorsuali. Al termine delle prove, e in base alla valutazione delle stesse
e dei titoli, la commissione forma la graduatoria di merito.
− approvazione della graduatoria: conclude il procedimento concorsuale e costituisce il
presupposto della stipulazione del contratto individuale di lavoro con il vincitore/i del concorso.
Essa segna il passaggio dal diritto amministrativo a quello privato.

Le controversie relative alle procedure concorsuali sono competenza del giudice amministrativo,
mentre quelle che attengono al rapporto di lavoro rientrano nella competenza del giudice ordinario.

5.6. La disciplina derogatoria del rapporto: a) inquadramento professionale, mansioni e carriera


Una volta costituito, con la stipulazione del contratto individuale, il rapporto fra il dipendente e
l’amministrazione è tendenzialmente regolato dai CCNL e dal diritto del lavoro. Su tale disciplina
privatistica, si innestano alcune regole speciali dettate o richiamate dal d.lg. n. 165/2001. Queste
investono la materia dell’inquadramento profesionale, delle mansioni e della carriera dei dipendenti
pubblici, quella dei loro obblighi e della loro responsabilità disciplinare nonché quella
dell’estinzione del loro rapporto.
Sulla disciplina dell’inquadramento, mansioni e carriera dei dipendenti pubblici influiscono gli stessi
principi che ispirano le regole sulla costituzione del loro rapporto di lavoro. Mentre il regime privatistico
non prevede alcuna limitazione alla facoltà del datore di lavoro di promuovere i propri dipendenti, quella
facoltà è limitata per il datore di lavoro pubblico.
Sul piano degli orientamenti giurisprudenziali, la Corte Costituzionale è da tempo impegnata a
salvaguardare il principio del concorso pubblico, minacciato da provvedimenti legislativi diretti a
soddisfare le aspettative di carriera del personale in servizio. Essa sostiene che ogni passaggio di
qualifica costituisce una nuova assunzione, assoggettata alla regola del concorso pubblico. La
successiva giurisprudenza della cassazione ha chiarito che soltanto l’accesso ad un’area o categoria di
inquadramento superiore (progressioni verticali) costituisce una assunzione, che richiede il concorso
aperto agli esterni e implica la giurisdizione del giudice amministrativo. Non è così, invece, per i passaggi
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a posizioni superiori che, però, si trovino all’interno della stessa area o categoria progressioni orizzontali
che avvengono secondo i principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e professionali,
dell’attività svolta e dei risultati ottenuti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito. Tali progressioni non
presuppongono un concorso pubblico aperto agli esterni, ma solo procedure selettive riservate agli interni.
In base a questo sistema, dunque, la progressione di carriera dei dipendenti pubblici avviene, da un lato,
mediante selezioni ad essi riservate per passaggi di posizione economica all’interno dell’area di
appartenenza e, dall’altro lato, attraverso l’attribuzione di posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area
superiore.
Ulteriori aspetti di specialità connotano la disciplina delle mansioni dei dipendenti pubblici: il regime
privatistico prevede, da un lato, il divieto di attribuzione di mansioni inferiori (demansionamento) e,
dall’altro lato, la promozione automatica in caso di attribuzione di mansioni superiori. Il lavoratore deve
essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte. Il demansionamento si verifica se le nuove mansioni non sono equivalenti alle ultime
effettivamente svolte e, in caso di mansioni superiori, è la situazione formale (inquadramento) che deve
adeguarsi a quella sostanziale (mansioni attribuite di fatto). Nel settore pubblico questa disciplina
subisce deroghe: per quanto concerne il demansionamento il dipendente pubblico deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito di inquadramento.

Condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera
previsione in tale senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità
acquisita. Nel settore pubblico non è applicabile la regola privatistica della promozione automatica in
caso di esercizio di fatto di mansioni superiori. L’esercizio di fatto di mansioni superiori è irrilevante ai
fini della promozione, ma rileva ai fini del trattamento economico. Il dipendente legittimamente adibito a
mansioni superiori ha diritto al trattamento economico della qualifica corrispondente.

5.7. Segue: b) doveri e responsabilità


Una seconda area di regole speciali si riferisce agli obblighi dei dipendenti pubblici e alla loro
responsabilità disciplinare. In luogo del normale dovere di fedeltà (2105 c.c.), grava sul dipendente
pubblico un più incisivo dovere di esclusività che gli impone di porre tutte le proprie energie lavorative
al servizio esclusivo dell’amministrazione di appartenenza. L’esclusività è richiesta perché si presume che
lo svolgimento di una seconda attività lavorativa riduca l’impegno del dipendente nell’esercizio dei
compiti attribuitigli dall’amministrazione. La legge vieta ai dipendenti pubblici l’esercizio di attività
industriali e commerciali, l’accettazione di cariche in società costituite a fini di lucro e qualsiasi altra
attività di lavoro subordinato o autonomo. Il divieto di una seconda attività lavorativa non vale, ad
esempio, per i lavoratori part time. Anche lo svolgimento di altri incarichi può essere autorizzato
dall’amministrazione di appartenenza.
Una disciplina speciale regola il dovere di osservanza dei dipendenti pubblici, inteso come
soggezione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Il potere direttivo si esercita attraverso
la definizione di un codice di comportamento. Il codice approvato con decreto del Presidente della
Repubblica indica i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici
dipendenti sono tenuti ad osservare. Si prevede il divieto di chiedere o sollecitare regali o altre utilità o
l’obbligo di comunicare i propri rapporti diretti o non di collaborazione con soggetti privati. Il codice è
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e consegnato al dipendente, che lo sottoscrive all’atto dell’assunzione.
La violazione dei doveri del codice comporta la responsabilità disciplinare del dipendente e le
violazioni più gravi sono punite con il licenziamento.
La disciplina del codice è poi integrata e specificata da ciascuna P.A.

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Spetta ai contratti definire la tipologia delle infrazioni e sanzioni disciplinari. La disciplina
legislativa mira a rendere obbligatorio l’esercizio dell’azione disciplinare, incentivando il ricorso a tale
strumento, in passato poco utilizzato da parte del datore di lavoro pubblico e, segnatamente, dalla
dirigenza.
Per le infrazioni meno gravi il procedimento è gestito e concluso direttamente dal dirigente
responsabile della struttura presso cui lavora il dipendente e si svolge secondo termini abbreviati. Per le
infrazioni più gravi, il procedimento è istruito e concluso da un apposito ufficio per i procedimenti
disciplinari e si svolge in termini ordinari. In ogni caso è sempre garantito al dipendente il diritto al
contraddittorio.
Considerando poi che, alcuni comportamenti del dipendente pubblico possono dar luogo,
contemporaneamente, a responsabilità disciplinare e a responsabilità penale, esiste anche una
disciplina legislativa dei rapporti fra i due tipi di procedimento. Il principio a cui tale disciplina è
attualmente ispirata è che il procedimento disciplinare possa proseguire e concludersi anche in
pendenza del procedimento penale in modo che i tempi lunghi per la conclusione del secondo non
abbiano l’effetto di impedire la tempestiva ed efficace irrogazione delle sanzioni disciplinari.

5.8. Segue: c) il licenziamento


Una terza area di regole speciali attiene, infine, alla fase estintiva del rapporto. Essa riguarda il
licenziamento individuale che può avere natura disciplinare o meno e i licenziamenti collettivi disposti
in caso di eccedenza di personale.
Sotto il profilo del licenziamento individuale la legge, ferma restando la disciplina civilistica del
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, prevede alcune ulteriori ipotesi. La maggior parte di
esse ha natura disciplinare, nel senso che il licenziamento costituisce la sanzione prevista in caso di
infrazioni tipizzate dal legislatore e presuppone un giudizio disciplinare. Sono punibili con il
licenziamento, secondo il d.lg. n. 165/2001 le seguenti infrazioni: falsa attestazione della presenza in
servizio o giustificazione mediante certificazione medica falsa; ingiustificato rifiuto del trasferimento;
falsità documentali o dichiarative; reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o
moleste o minacciose o lesive dell’onore e della dignità personale altrui ecc…
Sotto il profilo dei licenziamenti collettivi per eccedenza di personale, le P.A. che rilevino tali
eccedenze, pari ad almeno 10 dipendenti, devono darne comunicazione ai sindacati, indicando il
personale in esubero, i motivi della situazione di eccedenze e le proposte per rimediarvi.
Segue un esame congiunto della situazione, per verificare la possibilità di ricollocare il personale in
eccedenza preso altre P.A., mediante l’istituto della mobilità. Al termine dell’esame, il personale che non
è passato ad altra amministrazione, o che ha rifiutato il trasferimento, viene collocato in disponibilità. Il
personale in disponibilità percepisce per 2 anni, senza lavorare, una indennità pari all’80% dello
stipendio. Terminati i 2 anni, in mancanza di ricollocazione, il rapporto di lavoro si estingue
definitivamente.

5.9. L’Ambito di applicazione della disciplina del lavoro privato con le P.A.
Il lavoro privato con le P.A. è divenuto il modello tipico e prevalente di rapporto di servizio del
personale professionale pubblico.
Secondo l’art. 117 Cost. la materia dell’organizzazione amministrativa spetta alla potestà legislativa
(esclusiva) dello Stato solo relativamente alle amministrazioni dello Stato solo relativamente alle
amministrazioni dello stato stesso e degli enti pubblici nazionali. Per le altre P.A., e in particolare per
quelle degli enti territoriali, essa spetta invece alla potestà legislativa (residuale) delle regioni e alla
potestà regolamentare attribuita a comuni, province, città metropolitane. Il principio è che ogni livello di
governo disciplina la propria organizzazione amministrativa.
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Il legislatore statale, soprattutto, ha competenza esclusiva in materia di ordinamento civile.

Anche in materia di organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti locali, il legislatore statale
può porre norme vincolanti, in particolare quando esse rappresentino esercizio della sua potestà
concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica: in questo caso, tuttavia, la legge statale
può solo dettare norme di principio e non di dettaglio.
La Corte Costituzionale si trova a dover stabilire, caso per caso, se in una certa disciplina prevalga la
ratio di regolamentazione del rapporto di lavoro o quella di definizione degli aspetti organizzativi.

6. LA DIRIGENZA
È una categoria di personale professionale creata, negli anni 70 dello scorso secolo per separare dagli
altri dipendenti l’alta burocrazia. Essa comprende i funzionari amministrativi di vertice, titolari degli
uffici di livello più elevato.
La dirigenza è oggetto di una disciplina speciale e particolarmente importante perché si colloca al
crocevia del rapporto fra politica e amministrazione. La disciplina sull’alta burocrazia definisce infatti
l’equilibrio fra il principio democratico e il principio di imparzialità. Il primo impone il controllo
dell’amministrazione da parte degli organi politici. Il secondo postula un’amministrazione al servizio
dell’intera collettività anziché della parte politica al governo. Questo equilibrio dipende da due elementi:
- dal punto di vista funzionale, l’equilibrio dipende dal modo in cui sono distribuiti i poteri fra gli
uffici affidati a titolari politici (non professionali) e gli uffici affidati a titolari professionali ( i
dirigenti). Qui il rapporto gerarchico tra i due uffici favorisce il controllo politico, mentre la
separazione delle rispettive competenze limita gli effetti della politicizzazione.
- dal punto di vista strutturale l’equilibrio dipende dal modo in cui è configurato il rapporto fra
titolare dell’ufficio dirigenziale e il suo datore di lavoro (che è poi l’organo politico). Qui la precarietà
assicura la prevalenza politica, mentre la stabilità garantisce maggiormente l’imparzialità.

6.1. La distinzione fra politica e amministrazione


La distribuzione delle funzioni fra gli uffici politici e quelli dirigenziali risponde al principio di
separazione o distinzione delle rispettive competenze. Ai primi spettano le funzioni di indirizzo politico-
amministrativo e di controllo, ai secondi sono affidati i compiti di gestione amministrativa. solo la
leggitimazione professionale, invece, abilita all’attuazione e realizzazione concreta delle finalità e degli
obiettivi prestabiliti. Questo principio trova la sua regolamentazione nel d.lg. n. 165/2001. Questa
disciplina traccia, con maggiore precisione, la distinzione fra compiti di indirizzo e di gestione, nel modo
seguente:
- con riguardo alle attribuzioni finali dell’amministrazione, gli organi politici adottano, in
particolare, gli atti normativi e quelli di carattere programmatico, quali in particolare, le direttive
generali per l’azione amministrativa. Spetta invece alla dirigenza, l’adozione degli atti e dei
provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno.
- Con riguardo alle attribuzioni strumentali, gli organi politici definiscono con atti di diritto
pubblico, l’organizzazione di vertice, cioè gli uffici di livello dirigenziale; essi ripartiscono, quindi, fra
questi, il personale e le risorse finanziarie. I dirigenti, invece, mediante atti di diritto privato
definiscono la parte bassa dell’organizzazione degli uffici (micro organizzazione); essi provvedono,

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poi, sia ad una ulteriore ripartizione di personale e di risorse finanziarie fra i centri di responsabilità
collocati all’interno degli uffici dirigenziali, sia alla gestione di tale personale e di tali risorse.

Questa distinzione funzionale ha trasformato il rapporto fra politica e amministrazione , cioè tra uffici
politici e uffici burocratici. Questo era in passato un rapporto gerarchico, la competenza dell’organo
politico sovraordinato comprendeva anche quella degli uffici amministrativi subordinati; ora il rapporto è
di direzione: non tutte le funzioni possono essere esercitate dal ministro perché alcune di esse sono
sottratte agli organi politici e riservate al personale professionale. Per questo il ministro non ha poteri di
ordine nei confronti dei dirigenti ma solo di indirizzo.
La giurisprudenza considera atti di gestione, di competenza della dirigenza, e pertanto illegittimi se
adottati dall’organo politico, i seguenti: gli atti di revoca o rilascio di titoli abilitativi edilizi; i
provvedimenti di approvazione di progetti di opere pubbliche e di occupazione di urgenza degli immobili
occorrenti per la realizzazione di tali progetti; l’approvazione di bandi di concorso e la nomina delle
commissioni esaminatrici;l’irrogazione di sanzioni amministrative ecc…
Si è ritenuto che invece appartengano alla competenza dell’organo politico, gli atti relativi alla
valutazione di impatto ambientale.
Le rispettive competenze della politica e dell’amministrazionje non sono scollegate ma coordinate fra
loro nell’ambito di un complesso procedimento definito dalla legge e denominato ciclo della
performance. I dirigenti partecipano alle funzioni di indirizzo e gli organi politici hanno compiti di
controllo e valutazione dei risultati dell’attività di gestione. Gli organi di indirizzo politico adottano gli
atti di indirizzo e definiscono gli obiettivi definiti con il piano della performance adottato dall’organo di
indirizzo politico in collaborazione con i vertici dell’amministrazione. I dirigenti partecipano
all’esercizio dei compiti intestati al vertice politico. Il vertice politico deve stilare la relazione sulla
perfomance che evidenzia i risultati organizzativi e individuali raggiunti rispetto ai singoli obiettivi
programmati e alle risorse, con rilevazione degli eventuali scostamenti.
In questo modo, l’azione amministrativa si svolge secondo un processo circolare.

6.2. Il rapporto fra il dirigente e l’amministrazione


I dirigenti pubblici sono reclutati per concorso. L’ accesso ordinario alla dirigenza avviene in due modi:
- Per un numero di posti non superiore alla metà, attraverso un concorso per titoli ed esami indetto,
separatamente, da ciascuna amministrazione, cui possono partecipare principalmente dipendenti
laureati delle P.A. con almeno 5 anni di servizio.
-La parte restante dei posti da dirigente, che non può essere inferiore al 50% del totale, sono invece
coperti mediante un corso-concorso selettivo di formazione, bandito per tutte le P.A. dalla
Scuola Superiore della pubblica amministrazione, che consente l’accesso anche di giovani
laureati.
Coloro che superano queste procedure di reclutamento vengono inseriti nei ruoli dirigenziali di ciascuna
amministrazione. Una volta reclutati, i dirigenti stipulano con l’amministrazione un contratto di lavoro e
instaurano con essa un rapporto che è regolato dal diritto comune del lavoro e, naturalmente, dalla
contrattazione collettiva, la quale, per ciascun comparto, prevede una autonoma area contrattuale relativa
alla dirigenza. Se è vero che i dirigenti, come tutti gli altri dipendenti, sono stati privatizzati, con la
conseguenza che il loro rapporto di servizio è regolato dai contratti e retto dal diritto civile, è però anche
vero che essi, a differenza degli altri dipendenti, assumono la titolarità di uffici dirigenziali, costituiti con
atti di diritto pubblico, con la conseguenza che il loro rapporto di ufficio è invece regolato dalla legge e
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la relativa disciplina appartiene al diritto amministrativo. Tale disciplina attiene alla fase costitutiva del
rapporto di ufficio, cioè alle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali, e, dall’altro lato, alla
fase estintiva, cioè alla revoca, o al mancato rinnovo, degli incarichi stessi.
Sotto il profilo costitutivo la disciplina relativa alla dirigenza statale prevede che, ai dirigenti di ruolo,
possano essere conferiti 3 tipi di incarichi dirigenziali:
• Titolarità di strutture sovraordinate agli uffici dirigenziali generali (segretario generale dei
ministeri)
• Titolarità di uffici dirigenziali generali
• Titolarità di uffici dirigenziali non generali
Ai dirigenti della prima fascia può essere affidato qualsiasi tipo di incarico. Ai dirigenti della seconda
fascia, invece, possono essere conferiti solo gli incarichi di livello più basso e, in una percentuale limitata,
quelli del livello intermedio, il cui svolgimento per oltre 3 anni senza incorrere in ipotesi di responsabilità
dirigenziale comporta la promozione alla prima fascia.
In percentuale limitata, gli incarichi possono essere attribuiti anche a soggetti che non appartengono ai
ruoli dirigenziali delle P.A.: a soggetti esterni di particolare e comprovata qualificazione professionale,
assunti a tempo determinato; oppure a dirigenti che siano dipendenti di P.A. o di organi cosituzionali,
posti in posizione di comando o di collocamento fouri ruolo. Può anche accadere il contrario, che ad un
dirigente di ruolo non sia attribuito alcun incarico dirigenziale: in questo caso, possono essergli affidati
compiti ispettivi, di consulenza, di studio o ricerca ecc.
Gli incarichi di livello più basso sono conferiti dal dirigente titolare dell’ufficio dirigenziale
sovraordinato. Mentre gli altri incarichi sono conferiti con un provvedimento adottato dall’organo
politico, cui si accompagna un contratto individuale, che definisce sia il trattamento economico
fondamentale sia il trattamento accessorio che non può essere inferiore al 30% della retribuzione
complessiva.
Il dirigente cui conferire l’incarico deve essere individuato in ragione degli obiettivi prefissati, delle sue
capacità professionali e dei risultati dallo stesso ottenuti in precedenza. Si tratta di una scelta
discrezionale però compiuta nel rispetto della trasparenza e pubblicità. L’amministrazione deve
rendere conoscibili il numero e la tipologia dei posti di funzione disponibili e i criteri di scelta e deve
acquisire le disponibilità dei dirigenti interessati e valutarle. La valutazione deve avere carattere
comparativo.
Una volta costituito, il rapporto di ufficio del dirigente può esinguersi, essenzialmente, per 3 ordini di
cause:
• L’incarico può essere revocato in caso di responsabilità dirigenziale: cioè di inosservanza delle
direttive, oppure di mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, accertato attraverso il
sistema di valutazione della performance. Questo accertamento può comportare, nelle ipotesi di
responsabilità dirigenziale meno grave, l’impossibilità di rinnovare al dirigente lo stesso incarico
e, in quelle più gravi, la revoca dell’incarico o anche il recesso del rapporto di lavoro.
• Il rapporto di ufficio del dirigente può estinguersi per mancato rinnovo dello stesso: gli incarichi
dirigenziali sono sempre temporanei e sempre rinnovabili. Anche la decisione di rinnovo, o di
mancato rinnovo, dell’incarico, deve essere adeguatamente motivata.
• Il rapporto di ufficio del dirigente si può estinguere in virtù di norme che ricollegano al rinnovo
dell’organo politico di vertice la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali in corso:
trova applicazione, in questi casi, una variante dello spoils system: chi vince le elezioni ha diritto
di occupare con personale di propria fiducia i posti della P.A. Questo sistema è attualmente
previso per gli incarichi dirigenziali di livello più elevato, i quali cessano automaticamente entro
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90 giorni dal voto sulla fiducia al governo. Il legislatore statale e regionale, ha introdotto diverse
altre figure di spoils system, in relazione degli incarichi dirigenziali di altre P.A., quali quelle del
Servizio sanitario nazionale o delle regioni.
La corte costituzionale ha affermato che lo spoils system, se applicato a posizioni dirigenziali apicali,
contribuisce a rafforzare la coesione fra l’organo politico e gli organi di vertice dell’apparato
burocratico, al fine di consentire il buon andamento dell’attività di direzione dell’ente.

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CAPITOLO V – LA FINANZA (parte speciale)
1. NOZIONE E CARATTERI

La finanza pubblica può essere definita come l’insieme delle attività con le quali i soggetti che
compongono la Repubblica si procurano le entrate necessarie a sostenere la spesa per l’erogazione dei
servizi alla collettività, per consentire il funzionamento delle strutture pubbliche e per lo svolgimento
di funzioni pubbliche. L’attività finanziaria pubblica è progressivamente cresciuta negli anni, in relazione
all’aumento dei servizi richiesti dai cittadini e all’esigenza di migliorarne la qualità; ciò ha comportato la
necessità di accrescere le entrate. Ma i costi dei servizi hanno indotto l’Italia a ridurne il numero. Il
welfare state era diventato troppo costoso rispetto alle entrate percepite.
Le entrate dello Stato possono essere costituite:
- Tributi
- Ricavi derivanti dall’amministrazione del proprio patrimonio
- Prestiti
- Vendita di beni pubblici, i cui proventi sono percepiti una tantum
La maggiore fonte di entrata è rappresentata dai TRIBUTI. L’ammontare delle entrate che si prevede di
riscuotere e delle spese che si prevede di effettuare è iscritto nel BILANCIO DI PREVISIONE che è il
documento redatto ogni anno dall’organo di governo e presentato per l’approvazione alle assemblee
rappresentative.
Le spese sono utilizzate per diverse destinazioni:
- A seconda che siano volte a soddisfare i bisogni della collettività: le erogazioni possono avvenire
sia in forma indiretta attraverso la costruzione di opere pubbliche o l’offerta di servizi, sia in
forma diretta assumendo un carattere individuale attraverso finanziamenti a singoli soggetti o
imprese, oppure per integrare i redditi più bassi
- O che consentano il funzionamento delle strutture amministrative: la finanza pubblica deve
garantire le funzioni irrinunciabili dello Stato e consentire il funzionamento degli uffici necessari
per l’erogazione dei servizi alla collettività.
La finanza deve assicurare che le decisioni delle assemblee rappresentative possano essere effettuate
con adeguate risorse finanziarie. Le entrate e le spese non sono predeterminabili con precisione all’inizio
dell’esercizio finanziario, essendo fondate su previsioni.
L’ammontare delle entrate dipende anche dall’entità dei redditi percepiti in un anno dai singoli cittadini
e dalle imprese in quanto entrambi dovranno, sui guadagni percepiti, pagare allo Stato le relative
imposte, secondo un criterio di progressività.
L’ammontare delle spese è influenzato da eventi imprevedibili.
Fino a oggi, le spese che si prevedeva di eseguire sono state maggiori delle entrate, e la differenza –
deficit – è stata coperta da prestiti (BOT). Non tutte le spese si possono finanziare accedendo a prestiti.
La regola generale è quella per cui le spese di investimento, che aumentano il benessere della
collettività possono essere finanziate attraverso prestiti, poiché il relativo costo è ripagato da un
aumento del benessere; spese correnti che servono al funzionamento degli uffici pubblici, debbono
trovare il loro finanziamento all’interno del bilancio, cioè con entrate previste

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La tendenza attuale, influenzata dalle richieste europee, è quella di restringere la discrezionalità degli
Stati e di vincolare i governi al pareggio di bilancio attraverso una norma scritta nella Costituzione. Dal
2014, il ricorso al debito è di regola vietato, salvo che non ricorrano precise condizioni indicate nell’art.
81 cost.

2. LA DISCIPLINA NAZIONALE

La finanza pubblica risulta di fondamentale importanza per attuare i fini dello Stato e per soddisfare i
numero bisogni sociali volti ad aumentare il benessere collettivo.
I fini dello Stato sono indicati nel programma di governo. L’approvazione del bilancio da parte delle
assemblee legislative, è servita a garantire la necessaria copertura finanziaria alle finalità contenute nel
programma di governo. Senza questa copertura, il programma di governo non avrebbe potuto trovate
attuazione. In tempi recenti si è, però, affermata la tendenza a condizionare il programma di governo a
un saldo che rispetti l’equilibrio del bilancio.
La disciplina europea ha considerato gran parte dell’attività finanziaria degli Stati “materia comunitaria”,
cioè materia le cui decisioni fondamentali dovessero essere sottratte alla sovranità degli Stati. Il diritto
finanziario presenta un carattere composito nel quale la componente europea è di gran lunga
prevalente rispetto a quella nazionale. Si può affermare che il diritto finanziario è stato oggetto di 3
fondamentali interventi:
- L’ordinamento nazionale si è aperto a quello comunitario e l’attività finanziaria è stata oggetto di
numerose disposizioni che l’hanno avocata in sede europea
- Secondo intervento derivante dalla crisi finanziaria mondiale, che ha reso più dettagliate le
regole europee già esistenti, prevedendone di nuove e più minuziose
- Si sono aggiunte regole internazionali che hanno modificato i confini costituzionali dell’UE

3. LA DISCIPLINA COMUNITARIA

Le norme comunitarie che guidano la finanza degli Stati sono numerose e contenute principalmente nel
Trattato di Maastricht, Amsterdam e Lisbona, il quale si divide in due trattati: quello sull’Unione
europea che detta i principi costituzionali, e il TFUE che disciplina la parte operativa. Inoltre, in
attuazione dei trattati, esiste una cospicua legislazione derivata (regolamenti e direttive) che, negli anni,
ha corretto e precisato le disposizioni finanziarie degli Stati. Dopo il trattato di Lisbona, si è andata
affermando l’esigenza di una politica condivisa, fondata sul rilievo delle politiche economiche degli Stati
considerata “una questione di interesse comune”, da coordinare nel Consiglio e la necessità di rispettare
i parametri fissati nel 1992, sul divieto di disavanzi e debiti eccessivi. I trattati di cui si è detto sono parte
integrante della Costituzione europea (non scritta in un documento formale). Ai trattati è riconosciuto
un valore costituzionale, e per questo godono di un primato rispetto alle norme, anche costituzionali.
La disciplina contenuta nel trattato di Maastricht priva gli stati che aderiscono al sistema monetario
europeo della sovranità sulla moneta, attribuita alla BCE. Il disavanzo annuale, cioè la differenza tra
entrate e spese, deve essere mantenuto all’interno del 3% del PIL, mentre il debito complessivo non
deve superare il 60% del PIL.
L’UE è andata oltre queste regole e ha introdotto nel 1997 il patto di stabilità e crescita che impone agli
Stati aderenti all’euro di raggiungere, a medio termine, il bilancio in pareggio. Gli Stati non aderenti
all’euro convergeranno verso questi obiettivi.

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4. LA CRISI FINANZIARIA E GLI INTERVENTI SOPRANAZIONALI

La crisi finanziaria degli ultimi anni ha messo in luce la debolezza del quadro regolamentare e
dell’attività di vigilanza sulle finanze nazionali esercitata in sede europea, mostrando che le finanze degli
Stati aderenti all’euro sono collegate tra loro e che nessuno Stato è in grado di affrontare radicali sfide
finanziarie se agisce da solo. L’instabilità finanziaria ha segnalato l’insufficienza della disciplina di
bilancio, l’inadeguatezza di un controllo rivolto esclusivamente alla finanza pubblica e l’esigenza di una
governance europea dotata di maggiori poteri. Così, al momento di approvare una nuova normativa per
potenziare la supervisione finanziaria sugli Stati, l’Unione ha:
1. Rafforzato il controllo sul rispetto, da parte degli Stati, degli obiettivi del patto di stabilità e
crescita, introducendo forme di controllo preventivo.
L’attività di controllo europeo si svolge con un controllo successivo (braccio correttivo) e un controllo
preventivo (braccio preventivo). Entrambi i momenti sono disciplinati dal SIX PACK che ha sostituito il
Patto di stabilità e crescita. Il controllo successivo è abbinato al rafforzamento delle sanzioni, attivabili
nei confronti di Stati che non abbiano rispettato, con riferimento al deficit, i parametri di Maastricht.
Una prima sanzione si fonda sull’apertura di una procedura di infrazione per deficit eccessivi, guidata
dalla Commissione. Quando il pericolo di disavanzo eccessivo è rientrato, la procedura si chiude con una
dichiarazione del Consiglio. Sono previste altre sanzioni che investono i depositi infruttiferi e
l’imposizione di ammende. Nello svolgimento di queste attività, la Commissione ha visto rafforzato il
proprio ruolo soprattutto a causa dell’introduzione del reverse majority voting in base al quale, una
proposta della Commissione di sanzionare uno Stato può essere respinta solo con un voto contrario del
Consiglio assunto a maggioranza qualificata. Il SIX PACK è intervenuto anche sul profilo del controllo
preventivo disponendo azioni per evitare il formarsi di deficit eccessivi. Nella disciplina preventiva la
funzione guida è rappresentata dal raggiungimento dell’obiettivo di bilancio a medio termine, che
consiste in un programma triennale volto al conseguimento di un disavanzo strutturale, inferiore, all’1%
del PIL.
Per il rafforzamento del controllo preventivo il SIX PACK ha introdotto il SEMESTRE EUROPEO, è un
periodo che va dal 1 gennaio al 30 giugno di ogni anno nel quale la Commissione può richiedere agli Stati
l’adozione di particolari riforme strutturali, incidenti sulle decisioni di bilancio nazionali, che dovranno
essere assunte dai singoli governi, sotto la sorveglianza della Commissione, al fine di impedire, per il
futuro il formarsi di disavanzi o debiti eccessivi o per ridurne l’entità. Da un lato, il Semestre consente
alla Commissione lo svolgimento di un’attività di coordinamento sulle decisioni finanziarie del
complesso degli Stati europei; dall’altro, il coordinamento permette alla Commissione l’esercizio di una
particolare attività di vigilanza su singoli Stati con richiesta dell’adozione di specifiche riforme. Con
l’attività compiuta all’interno del Semestre, gli Stati, che già avevano rinunciato alla loro moneta, si
privano, anche, della sovranità sulle scelte di bilancio e sulle decisioni, in materia di politica
economica.
Così, se il bilancio era, in passato, il documento che mostrava ex post il raggiungimento o il mancato
conseguimento di obiettivi indicati in sede UE, con il Semestre la disciplina pone al proprio centro un
complesso di attività e strumenti, che eserciteranno la propria influenza in un momento precedente

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all’approvazione e alla gestione del bilancio. Il TWO PACK ha imposto agli Stati comportamenti da porre
in essere nella seconda parte del Semestre europeo, dilatando, quindi, a 12 mesi l’attività di controllo
preventivo europeo. Con il TWO PACK è stato previsto un rafforzamento della sorveglianza economica e
sono stati predisposti meccanismi di allerta.

2. Integrato l’organizzazione finanziaria, con la costituzione di nuovi organismi europei di vigilanza.


Costituzione di nuovi organismi di vigilanza, nel settore bancario, con l’Autorità bancaria europea (EBA);
nel settore del mercato, con l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA); nel
settore delle assicurazioni e delle pensioni, con l’Autorità europea per le assicurazioni e le pensioni
(EIOPA) attivi dal 1 gennaio 2011. Queste autorità sono riunite sotto l’European system of financial
suopervision (ESFS) ed esercitano una vigilanza preventiva. Queste autorità affiancano le autorità
nazionali. Recentemente è nata l’idea di un’Unione bancaria il cui primo pilastro è costituito da un
Meccanismo di vigilanza prudenziale unico (MVU) entrato in funzione nel 2014, con il quale i compiti di
vigilanza esercitati dalle autorità di vigilanza nazionali sugli istituti creditizi, di importanza significativa,
appartenenti alla zona euro, sono trasferiti alla BCE.
3. Introdotto, nuovi meccanismi di salvataggio degli Stati in difficoltà, legati al principio del pareggio
di bilancio, dettando un complesso di regole fiscali altamente controverso.
È stato istituito l’EFSM della durata di 3 anni, i cui interventi sul mercato sono stati finanziati da bond
garantiti dagli Stati membri. Quando si è trattato di trasformare in permanente l’erogazione, è stata
costituita l’ EFSF, società lussemburghese autorizzata a raccogliere fondi sul mercato, emettendo titoli
garantiti dai paesi euro. Successivamente, è stato istituito il meccanismo europeo di stabilità (MES),
dotato di personalità giuridica internazionale, con la finalità di gestire la crisi finanziaria in via
permanente e per stabilizzare l’euro. L’assistenza finanziaria ai singoli Stati è concessa dal MES, in
cambio dell’adozione di particolari provvedimenti volti al risanamento finanziario, controllati da un
organismo internazionale TROIKA, cui fanno parte Commissione europea, BCE e FMI.
Nel 2012 è stato approvato il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione
economica e monetaria (TSCG), che contiene il FISCAL COMPACT che è un patto, in base al quale gli Stati
appartenenti all’eurozona, che hanno sottoscritto il trattato MES, se vogliono usufruire di aiuti
finanziari, si obbligano a inserire nel proprio ordinamento la regola del bilancio in pareggio, adottando
una normativa certa e di carattere permanente.

4.1 LE CONSEGUENZE SULL’ASSETTO COSTITUZIONALE

ART. 23 COST. prevede, per le prestazioni patrimoniali, il ricorso a una riserva relativa di legge. Sui
legami tra pubblica amministrazione e ordinamento europeo si può fare riferimento all’ART. 97. Sulle
regole che sovraintendono al bilancio dello stato e degli enti locali si possono richiamare gli artt. 81 e
119. Art. 81, riscritto nel 2012, dopo l’approvazione del fiscal compact, il principio del pareggio di
bilancio è stato tradotto come volontà dello Stato di assicurare l’equilibrio tra entrate e spese, tenendo
contro delle fasi favorevoli e della fasi avverse del ciclo economico (C.1). L’equilibrio tra entrate e spese
coincide, come stabilito dall’UE, con l’Obiettivo del bilancio a medio termine (OMT). Il comma 2 dell’art.
81 vieta il ricorso al debito, consentito come deroga in due sole ipotesi: al fine di considerare gli effetti
del ciclo economico e previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi
componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. La prima condizione è collegata al manifestarsi di un ciclo
economico negativo. Con le disposizioni ora ricordate, il riconoscimento dei vincoli finanziari derivanti
dall’ordinamento europeo in merito al bilancio, ha acquistato una base costituzionale sicura. L’apertura

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all’esterno del nostro ordinamento costituzionale, sancita con l’art. 11, ha portato a un riconoscimento
della forza del diritto europeo e di quello internazionale, creando tra i 3 ordinamenti una coincidenza
formale, che si è tradotta in una progressiva limitazione della potestà legislativa statale.

La regola prevista per il bilancio dello Stato è stata estesa al complesso delle PA, considerata l’entità
dei bilanci degli enti che ne fanno parte. Questa estensione ha imposto una nuova scrittura dell’art. 97
in cui le PA assicurano l’equilibro dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, perseguendo
l’equilibrio tra le entrate e le spese e quello della sostenibilità del debito pubblico. Si è così spezzato il
legame tra Stato e diritto amministrativo. È stato integrato anche l’art. 119 in cui si chiarisce che gli enti
territoriali hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi
bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziaria derivanti
dall’ordinamento UE. Gli enti locali sono chiamati a passare da una finanza strumentale a una finanza
funzionale, nel senso che alla loro attività finanziaria è affidata una funzione primaria: il conseguimento
di un bilancio in pareggio e la riduzione del debito, seguendo le indicazioni UE, che a sua volta agisce
guidata dai principi espressi nel TFUE. L’ultimo comma dell’art. 119 regola l’indebitamento degli enti. Gli
enti possono ricorrete all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento a condizione che,
per il complesso degli enti di ciascuna regione, sia rispettato l’equilibrio di bilancio.

4.2 LE CONSEGUENZE SULLA DISCIPLINA NAZIONALE

Anche la disciplina finanziari nazionale è stata influenzata dalle disposizioni esaminate. Sin dai primi anni
90, il rispetto dei parametri di Maastricht ha agito in profondità sulla disciplina legislativa ordinaria, sugli
atti aventi forza fi legge e su quelli regolamentari. Le leggi di stabilità hanno previsto, numerosi vincoli
da rispettare volti alla riduzione della spesa pubblica con i tagli lineare alle spese dei ministeri, con il
blocco del turn over, con provvedimenti per la riduzione degli organici e per l’abbattimento delle
consulenze. Con il PATTO INTERNO DI STABILITA’ sono posti, annualmente, i tetti alla spese degli enti.
Si è avuto lo spostamento temporale dell’attività di controllo, da preventiva a successiva e
l’articolazione del bilancio in MISSIONI E IN PROGRAMMI. Ai sensi della L. n. 196/2009, le MISSIONI
sono 34, coincidono con le principali funzioni pubbliche affidate ai ministeri. La loro particolarità è
quella di rappresentare il costo di una funzione, per intero, anche se svolta da più di un ministero,
contribuendo a migliorare l’informazione da dare al Parlamento ed al cittadino. I PROGRAMMI sono
168. Essi rappresentano aggregati omogenei condivisibili tra diversi centri di responsabilità all’interno di
uno stesso ministero o anche tra più ministeri. Con la legge n. 243/2012 è stato costituito l’Ufficio
parlamentare di bilancio.

4.3 LA CONSEGUENZE SUGLI ATTI DELL’AMMINISTRAZIONE E SUI PRINCIPI DELLA FINANZA PUBBLICA

Sotto il profilo amministrativo, ai fini della riduzione della spesa, è stato disposto, in passato, il blocco
degli impegni. Nel 2002, con decreto legge n.194/2002 detto “decreto taglia spese” è stato consentito al
Ministro dell’economia e delle finanze di agire con decreti che privavano di efficacia le disposizioni
recanti espresse autorizzazioni di spesa, senza alcun intervento del Parlamento. Si possono anche
menzionare le c.d. manovre estive e i pacchetti finanziari, approvati in corso d’anno, volti a ridurre la
spesa pubblica, spesso ricorrendo a tagli lineari, uguali per tutte le amministrazioni.
L’attività finanziaria è stata guidata ed è tuttora retta da diversi principi, alcuni, come quello
dell’annualità del bilancio, scritti nella stessa Costituzione. Altri, affermati, direttamente o non, da
diverse norme. È fondamentale quello di efficienza dell’attività finanziaria, che si è diffuso nell’ultimo
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ventennio del secolo scorso, configurando, attraverso le carte del cittadino, veri e propri diritti alla
corretta copertura della spesa e all’equilibrio finanziario.

Lo stesso principio di legalità ha subito, negli anni 90, una profonda dilatazione, per cui esso, attraverso
la riforma dei controlli, non si arresta alla verifica di conformità alla legge degli atti emanati dalle PA, ma
investe il modo in cui l’attività amministrativa, inclusa quella finanziaria, raggiunge i fini stabiliti dalle
norme. Vi è poi il principio della buona gestione finanziaria e della finanza sana.

5. I SOGGETTI

MES -> funzioni di salvataggio


FMI -> funzioni di controllo finanziario
Tra le istituzioni europee, un ruolo fondamentale è esercitato da:
Consiglio europeo -> indica i traguardi finanziari da raggiungere e agisce attraverso orientamenti,
indicando le priorità delle politiche europee.
Parlamento europeo e Consiglio dei ministri finanziari e Commissione europea e Corte dei conti
europea.
A livello nazionale, le principali decisioni finanziaria (legge stabilità e legge di bilancio) spettano al
GOVERNO, mentre il parlamento svolge la funzione di discuterle e approvarle. Negli ultimi 5 anni, si è
assistito a una crescita nell’autonomia della decisione finanziaria da parte del Ministro dell’economia e
delle finanze e nell’assunzione di una sua posizione di preminenza, consolidata dalla l. n. 196/2009 e
dalla l. n. 39/2011, cui ha corrisposto un impoverimento del ruolo esercitato dal Parlamento, al
momento dell’approvazione della manovra triennale di finanza pubblica. Del Ministero fa parte il
dipartimento della ragioneria generale dello stato, che svolge un ruolo centrale, sia nella
predisposizione dei documenti di bilancio, sia nel procedimento di presentazione dei nuovi
provvedimenti di spesa; inoltre, interviene sui piani nazionali di riforma elaborati a seguito della nuova
strategia europea 2020 e sui programmi di stabilità e convergenza, nonché sul DEF.
Tra i soggetti nazionali vanno menzionate le singole amministrazioni che attuano le prescrizioni del
bilancio, operando per realizzare, con le risorse disponibili, le diverse finalità di spesa. Infine, la corte dei
conti esercita, per previsione costituzionale (art. 100 cost.), il controllo preventivo sugli atti del governo
e quello successivo sulla gestione del bilancio e, ai sensi della l.n. 20/1994, è configurabile come il
controllore di tutti i controlli.

6. LA MANOVRA DI FINANZA PUBBLICA

Il DEF, documenti di economia e finanza, rappresenta il principale strumento di programmazione


economica e finanziaria. Sul documento, si esprimono entro il 10 aprile le Camere, in tempo utile per il
suo invio, entro il 30 aprile al Consiglio europeo e alla Commissione. A quel momento, il Documento sarà
esaminato nell’ambito del semestre europeo. In base alla l. n. 196/2009 e n. 39/2011, il documento è
composto da 3 sezioni:
- Programma di stabilità
- Analisi del conto economico e del conto di cassa delle amministrazioni
- Schema del programma nazionale di riforma

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Il Documenti è un atto di grande rilievo, soprattutto per l’influenza che esercita sulla costruzione del
bilancio e della legge di stabilità, indicando la politica finanziaria del governo per il successivo triennio,
influenzando i contenuti degli atti che compongono la “manovra triennale di finanza pubblica” che è
accompagnata dalla presentazione del bilancio pluriennale, a carattere triennale, che ha fini conoscitivi
e non è vincolante.
6.1 IL BILANCIO DI PREVISIONE
La procedura di presentazione e approvazione del bilancio è regolata dall’art. 81 cost. Con questo si
dispone che la presentazione del disegno di legge di bilancio sia riservata al governo e che la sua
discussione avvenga in assemblea. Questi vincoli sono stati estesi dalla prassi anche al disegno di legge
di stabilità. Entrambe le leggi sono poi sottratte alla richiesta di referendum abrogativo. Il bilancio di
previsione è redatto in termini di:
- Competenza: comporta che sia indicato l’ammontare delle entrate che si prevede di accertare e
l’ammontare delle somme che si prevede di erogare nell’esercizio finanziario. Il bilancio iscrive
tra le proprie voci i crediti e i debiti, senza tener conto dell’effettiva esigibilità dei crediti e
dell’effettiva possibilità di pagare i debiti.
- Cassa: indica l’ammontare delle somme che si prevede di incassare e di quelle che si prevede di
pagare nell’anno cui il bilancio si riferisce.
Oggi con la l. n. 243/2012 il disegno di legge di bilancio viene presentato diviso in due sezioni:
- La prima contiene, per un triennio, le disposizioni di entrata e di spesa, il saldo netto da
finanziare e il livello massimo del ricorso al mercato
- La seconda sezione contiene le previsioni di entrata e di spesa, espresse in termini di
competenze e di cassa, formate sulla base della legislazione vigente. In essa sono scritti gli Stati
di previsioni della spesa distinti per ministeri e il Quadro generale riassuntivo, con riferimento al
triennio.
Il bilancio annuale di previsione costituisce la base per la gestione finanziaria dello stato. Le somme
iscritte in bilancio sotto la denominazione uscite, possono essere classificate in diversi modi, ma la
distinzione di base è quella tra:
- Spese correnti: “spese obbligatorie” (pensioni). Vi sono poi, altre spese obbligatorie per legge,
denominate entitlements, esigibili dagli interessati al verificarsi di determinati eventi
- In conto capitale: sono quelle che producono ricchezza per le generazioni presenti e future, ma
non sono, nella gran parte dei casi, obbligatorie, potendo essere effettuate anche in anni
successivi a quello in cui sono state deliberate.
Il bilancio di previsione è annuale ma a esso è allegato un bilancio pluriennale che copre un periodo di 3
anni ed è redatto per missioni e programmi, in termini di competenza e cassa. Il bilancio pluriennale
svolge una funzione conoscitiva utile e non è vincolante. Il bilancio di previsione annuale va approvato
dal Parlamento entro il 31 dicembre di ogni anno. Se l’approvazione non intervenisse da quella data,
ogni possibilità di spesa sarebbe preclusa allo stato. In caso di mancata approvazione entro il termine, è
previsto il ricorso all’esercizio provvisorio del bilancio, per cui il governo è autorizzato dal Parlamento
ad erogare, mensilmente e per un periodo limitato, un ridotto ammontare di spesa. Anche per
l’esercizio provvisorio del bilancio, la procedura costituzionale prevede che solo il governo possa
presentare al Parlamento il disegno di legge per la sua approvazione.

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6.2 LA LEGGE DI STABILITA’
La legge di stabilità indica, per il triennio considerato dal bilancio pluriennale, le misure qualitative e
quantitative necessarie a realizzare gli obiettivi programmatici contenuti nella decisione di finanza
pubblica, rappresentando, unitamente alla legge di bilancio e al DEF, la manovra triennale di finanza
pubblica. L’approvazione della legge di stabilità è prevista da una legge ordinaria (196/2009). Fino
all’esercizio finanziario 2014/2015, la legge di stabilità è stata approvata per consentire al parlamento di
correggere le disposizioni legislative che hanno effetto sulle entrate e sulle spese. Alla fine degli anni 80,
è stata prevista l’approvazione di provvedimenti collegati alla decisione finanziaria. Questi
provvedimenti sono di 2 tipi:
- Provvedimenti collegati di sessione contenenti disposizioni che influiscono sul bilancio dello
Stato
- Provvedimenti collegati di ordinamento
Della manovra triennale di finanza pubblica che, comprende la legge di bilancio, cui è allegato il bilancio
pluriennale, e la legge di stabilità, si è lamentato, lo scarso approfondimento e la scarsa trasparenza. La
regola imposta dai regolamenti parlamentari è che, dopo l’approvazione del testo in Commissione, non
possono essere presentati emendamenti nuovi per evitare che in assemblea si riapra un dibattito su
questioni già esaurite. Nell’ultimo decennio si è affermata la prassi di riunire tutti gli interventi finanziari,
in un maxiemendamento, composto da un unico articolo e da un numero indefinito di commi, ponendo
sul testo la questione di fiducia, impedendo lo svolgimento di un corretto dibattito parlamentare.
Questo mancato rispetto della procedura legislativa ha sollevato critiche per l’evidente aggiramento
delle disposizioni costituzionali che impongono l’approvazione di un disegno di legge, articolo per
articolo e poi, con votazione finale.

6.3 I FONDI DI RISERVA E I FONDI SPECIALI


Per far fronte alle spese impreviste, o a quelle di cui non si può prevedere l’ammontare al momento
della redazione del bilancio, sono disposti accantonamenti di somme prive di una destinazione
specifica che si distinguono in:
- Fondi di riserva: sono accantonamenti di somme, non aventi ancora una specifica destinazione,
erogabili per finanziare spese il cui ammontare si determinerà dopo l’approvazione del bilancio.
Possono riguardare le spese obbligatorie, il finanziamento di spese impreviste o per far fronte a
eventuali deficienze delle assegnazioni di bilancio. Al verificarsi di un evento, questi fondi sono
trasferiti alle singole amministrazioni, secondo le specifiche necessità e andranno ad aumentare
le loro dotazioni.
- Fondi speciali: introdotti con l.n. 468/1978 interessano l’ordinamento contabile dello Stato e
delle regioni. Essi sono previsti per attribuire una copertura finanziaria ai disegni di legge o alle
proposte di legge. Al bilancio di previsione è allegato l’elenco delle proposte di legge e dei
disegni di legge in discussione, ai quali i fondi speciali devono garantire una copertura finanziaria.
In caso di mancata approvazione dei provvedimenti legislativi, i fondi possono essere utilizzati
per provvedere ad altre coperture (utilizzazione dei fondi in deroga).

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6.4 LE SESSIONI DI BILANCIO
La discussione dei documenti di finanza pubblica avviene nelle sessioni di bilancio, periodi dedicati, sia
dalla Camera sia dal Senato, alla discussione e all’approvazione di tutti gli atti che riguardano la finanza
pubblica. Le sessioni di bilancio sono 2:
- Primaverile/estiva: nella quale le camere approvano i documenti di indirizzo finanziario, il DEF
- Autunnale/invernale: dedicata alla discussione e approvazione del bilancio e della legge di
stabilità
Le sessioni di bilancio possono essere interrotte solo dalla presentazione alle camere, per la
conversione, di un decreto legge che deve avvenire il giorno stesso dell’adozione. Al di fuori della
sessione di bilancio, il Parlamento è libero di approvare leggi che comportano spese, ma deve indicarne
sempre la copertura, ossia le modalità con le quali le erogazioni finanziarie che queste leggi prevedono,
saranno pagate.

7. LA SIGNIFICATIVITA’ DEL BILANCIO


In passato, la legge di bilancio era considerata l’atto più importante del Parlamento. Successivamente,
l’importanza del bilancio nella vita dello Stato si è ridotta. In primo luogo, perché la riscossione delle
entrate è stata resa stabile e indipendente dalla legge di bilancio. Per la spesa vale invece, il principio
che essa non può essere erogata se non in base a un bilancio approvato. In secondo luogo, la riduzione
dell’importanza del bilancio è derivata dall’introduzione della legge di stabilità, che ha spostato
l’attenzione del Parlamento su questa legge, i cui contenuti sono poi riportati nella legge di bilancio.
Ulteriore causa della diminuita attenzione dedicata al bilancio va ricercata nella circostanza che molte
spese iscritte nei bilanci sono destinate a finalità non immediatamente evidenti. Da un lato, infatti, una
parte non indifferente delle spese dello Stato è oggetto di trasferimento ad altri enti, che le
erogheranno secondo le proprie decisioni. Dall’altro, più del 10% delle somme che ogni anno, lo Stato e
gli altri enti dovrebbero erogare non viene materialmente speso nell’esercizio finanziario, per la
eccessiva lunghezza dei procedimenti di spesa o per la lentezza degli uffici che vi sono preposti. Come ha
osservato la Corte dei conti nelle sue periodiche relazioni, in alcune leggi, sono stati introdotti
emendamenti, disordinatamente, nel corso del dibattito parlamentare, senza attenzione al loro costo.
- Residui passivi: somme destinate a determinate finalità, ma non spese nel corso dell’anno
- Residui attivi: le somme di cui è accertato il diritto a percepirle, ma per le quali non è stata
conclusa la fase di riscossione
Una parte consistente delle somme da erogare è stata fino a oggi iscritta in più di uno stato di previsione
della spesa. Il caso più importante riguarda la spesa sanitaria che figura: nel bilancio dello stato, sotto
forma di trasferimenti alle regioni; nei bilanci delle regioni; nei bilanci delle province e dei comuni.
- Gestioni fuori bilancio: somme non registrate in bilancio
Il bilancio resta un atto centrale della finanza pubblica sia per l’ammontare delle somme, sia per il
numero di soggetti pubblici e privati che coinvolge.

8. LA GESTIONE DEL BILANCIO E IL RENDICONTO

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L’approvazione dei bilanci da parte delle assemblee rappresentative, rende possibile la loro gestione,
vale a dire l’attività di spesa, per fornire beni, servizi e risorse finanziarie alla collettività e per
consentire il funzionamento degli uffici pubblici.

8.1 LA GESTIONE DELLA SPESA


Le somme da erogare sono affidate a specifiche strutture amministrative. Esse gestiscono la spesa dopo
che le obbligazioni assunte dalla amministrazioni statali, regionali, ecc., dalle quali la spesa discende, si
siano perfezionate. Le obbligazioni possono derivare direttamente dalle leggi, sentenze, contratti o da
provvedimenti amministrativi. Le attività di spesa che ciascuna amministrazione intende effettuare nel
corso dell’esercizio finanziario, sono indicate, nei primi mesi dell’anno precedente a quello in cui inizierà
l’esercizio finanziario, in uno stato di previsione della spesa redatto dalle singole amministrazioni. La
somma degli stati di previsione della spesa, unitamente al quadro delle entrate, forma lo schema o
progetto di bilancio. Le amministrazioni sono interessate ad effettuare per intero l’attività di spesa loro
affidata dalle norme, onde realizzare appieno i risultati e gli obiettivi da queste indicati. La gestione del
bilancio presenta 2 caratteristiche:
- Separazione tra chi decide la spesa e chi materialmente la eroga. Attribuire una destinazione
alla spesa significa, sotto il profilo contabile, emettere un atto di impegno. Una volta impegnate
le somme, la loro materiale erogazione al creditore non è più di pertinenza dell’amministrazione
che ne ha deciso la destinazione, ma degli uffici di tesoreria. Questa separazione è prevista per
evitare che chi decide la spesa abbia anche il maneggio del pubblico denaro.
- Sia la decisione di destinare una somma a una determinata finalità, sia la sua effettiva
erogazione, seguono un procedimento in cui si alternano fasi amministrative di gestione,
spettanti all’amministrazione che decide la spesa, ad atti di controllo, affidati ad uffici di
controllo amministrativo-contabile delle stesse amministrazioni e, per taluni atti di particolare
rilievo finanziario, anche ad un organo di controllo esterno (corte dei conti). Il controllo è volto a
verificare la legittimità dell’erogazione finanziaria. la decisione amministrativa di dare corso a
una spesa non può svolgersi liberamente.

8.2 L’ASSESTAMENTO DI BILANCIO E IL RENDICONTO


Entro il 30 giugno, il governo presenta al Parlamento un disegno di legge avente a oggetto
l’assestamento del bilancio relativo all’anno in corso. L’assestamento di bilancio è una rappresentazione
dei residui attivi e passivi. Si tratta di somme per le quali è stato iniziata, ma non conclusa, la procedura
che porta al versamento delle entrate in tesoreria, o al pagamento delle somme al creditore.
L’assestamento di bilancio è stato utilizzato per finalità più ampie volte a una correzione dei conti
pubblici. Entro lo stesso termine è presentato il disegno di legge che contiene il rendiconto dello stato
che indica la differenza tra ammontare delle spese previste e ammontare delle spese effettivamente
erogate. Per lo Stato, la Costituzione (art.81) prevede che il rendiconto sia approvato con legge del
parlamento. Il rendiconto è un atto del governo ed è redatto, materialmente, dal Ministero
dell’economia e delle finanze. Esso è inviato, entro il 31 maggio dall’esercizio successivo a quello cui si
riferisce, alla Corte dei Conti, che lo esamina e procede alla parificazione dei conti. Questa consiste in un
giudizio con il quale la Corte dichiara che l’amministrazione dei fondi è stata conforme o difforme. La
parificazione deve essere effettuata entro il 30 giugno di ogni anno. Analoghi procedimenti (esclusa la

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parificazione della Corte dei conti) regolano l’approvazione dei rendiconti delle regioni e dei conti
consuntivi degli enti locali.

9. IL PROCEDIMENTO DI SPESA
Il procedimento di spesa si articola in 4 fasi:
- Impegno: l’amministrazione destina una somma a una determinata finalità
- Liquidazione: serve ad individuare esattamente la figura del creditore dello Stato
- Ordinazione: ordine dell’amministrazione che ha deciso la spesa agli uffici di tesoreria perché
paghino la somma determinata dall’amministrazione
- Pagamento: operazione materiale, mediante la quale la somma viene trasferita nella
disponibilità del creditore.
La procedura di spesa non è sempre seguita. Esistono forme più rapide di erogazione.
Ordine di accreditamento mediante il quale i dirigenti di un’amministrazione dispongono l’assegnazione
di somme a favore di funzionari, per consentire a questi di erogare le somme che rientrano nella
competenza dell’organo delegante. A tal fine, i funzionari deleganti emettono ordinativi diretti a favore
dei creditori, senza seguire particolari procedure. Altra forma derogatoria rispetto al procedimento
ordinario è costituita dalle contabilità speciali: esse consistono in gestioni di fondi trasferiti dal bilancio
dello stato a talune amministrazioni, che hanno bisogno di un maneggio di denaro per affrontare
situazioni urgenti. Si afferma che le contabilità speciali riflettono le esigenze di colui che spende e non
del soggetto che dispone l’apertura del credito. Vanne ricordate anche le gestioni fuori bilancio, in via di
principio vietate dalla normativa in quanto contrastanti con i principi di universalità e annualità del
bilancio, per cui le entrate non possono, senza passare per il bilancio, essere assegnate alla copertura
delle spese.

10.LA COPERTURA FINANZIARIA DELLE LEGGI DI SPESA IN CORSO D’ANNO


Le Camere, in corso d’anno, possono presentare proposte di legge e approvare liberamente leggi,
rispettando, però, l’obbligo costituzionale di copertura, fissato dall’art. 81, in base al quale ogni legge
che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Esistono altri atti, di natura non
legislativa, che comportano rilevanti erogazioni finanziarie per lo Stato, di cui la Costituzione non si
occupa. Tra le spese non dipendenti da leggi che incidono sul bilancio, vi sono quelle che derivano da
sentenze giurisdizionali che riconoscono al cittadino il diritto a ottenere maggiori entrate o riduzioni
spese. Vi sono poi eventi imprevedibili che generano spese. L’art. 30 della legge n. 196/2009 prevede
che le leggi indichino la spesa complessiva e il costo relativo al primo anno, in termini di competenza,
nonché le quote di competenza attribuite a ciascuno degli anni considerati nel bilancio pluriennale,
rimodulabili annualmente dalla legge di stabilità. Naturalmente, queste disposizioni pongono il
problema del reperimento dei mezzi necessari, reperimento che è apparso negli anni sempre più difficile
poiché la finanza pubblica è stata interessata da una serie di eventi tra i quali spiccano l’espansione della
spesa e la contrazione delle risorse disponibili (crisi fiscale dello stato). La necessità di garantire il rigore
finanziario non può essere disgiunta da quella, non meno rilevante di tutelare i livelli essenziali delle
prestazioni e l’esercizio delle funzioni fondamentali. La Corte Costituzionale si è interessata delle
modalità seguite per la copertura delle spese. Secondo la consulta, un primo mezzo di copertura è

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certamente il ricorso a nuove entrate o alla riduzione di altre spese, previste nel bilancio, ma non ancora
impegnate.

Altro mezzo è costituito dall’utilizzo di disponibilità createsi in bilancio. Infine, un corretto metodo di
copertura, è l’utilizzo degli accantonamenti previsti nei fondi speciali. Ai fini di una corretta copertura,
l’ordinamento ha anche previsto una serie di controlli preventivi e successivi.
- Il primo tra i controlli preventivi è svolto sulla relazione tecnica di accompagnamento agli atti di
iniziativa legislativa, scritta dalle singole amministrazioni promotrici della proposta di legge di cui
si richiede l’approvazione. La relazione tecnica è predisposta dalle amministrazioni competenti e
verificata dal Ministero dell’economia e delle finanze e certificata con la bollinatura. La
bollinatura è un visto di conformità, spettante alla Ragioneria dello Stato, con il quale si certifica
che le relazioni tecniche trasmesse dalle amministrazioni competenti hanno una corretta
copertura finanziaria. Un’ultima verifica sui mezzi di copertura, è affidata, al momento della
promulga della legge, al Presidente della Repubblica che può rinviare alle Camere l’atto non
conforme all’art. 81, richiedendo al Parlamento di sanare l’illegittimità
- In via successiva, la verifica della copertura è affidata alla Corte dei conti che, ogni 4 mesi,
trasmette al Parlamento una relazione sulle tecniche e sulle modalità di copertura adottate dalle
amministrazioni.

Le modalità di copertura delle leggi sono state precisate dall’art. 17 della legge n. 196/2009. Questa ha
distinto tra leggi che prevedono: oneri autorizzati che indicano i limiti quantitativi e temporali della
spesa, e oneri stimati, previsti e valutati, per i quali la spesa può essere solo stimata al momento
dell’approvazione della legge. Ai fini di una corretta copertura, occorre prevedere una clausola di
salvaguardia che dovrebbe garantire la corrispondenza tra l’onere e la relativa copertura, anche sotto il
profilo temporale. La clausola di salvaguardia consiste nell’individuazione di un meccanismo di
reperimento dei fondi.

11. LA FINANZA REGIONALE E LOCALE


Anche la finanza regionale e locale, così come quella statale, dipendono dalla normativa europea.
L’attuazione del Patto di stabilità e crescita, introdotto nel 1997, e modificato nel 2005, richiede che la
finanza regionale e quella locale siano incluse nel processo di riduzione del disavanzo. Con la legge n.
42/2009, è stato avviato il FEDERALISMO FISCALE. I provvedimenti anticrisi hanno portato a decisioni
finanziarie maggiormente accentrate, riducendo, attraverso la regola costituzionale dell’equilibrio tra
entrate e spese, parte degli spazi di autonomia che l’ordinamento locale aveva ottenuto. L’azione dello
Stato di coinvolgimento della finanza locale si trova, oggi stretta tra le esigenze dell’UE, volte a evitare il
rischio sistemico e le esigenze che derivano dall’autonomia finanziaria degli enti, sia pure limitata dai
principi di redistribuzione, e dalla regola aurea, sancita nella Costituzione, che impone l’equilibrio del
bilancio nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo.

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12. IL PATTO DI STABILITA’ INTERNO

L’UE ha richiesto che ogni Stato, ai fini dell’attuazione del Patto di stabilità e crescita, elabori un patto di
stabilità interno, nel quale siano indicati, ogni anno, gli interventi, anche nell’ambito della finanza
locale, saranno adottati per raggiungere gli obiettivi di convergenza fra le diverse economie nazionali,
stabiliti in sede europea. Ma l’autonomia di cui godono gli enti fa sì che lo Stato debba concordare tali
interventi con gli enti; e ciò avviene con la Conferenza unificata Stato-regioni-città. I risultati degli
accordi vengono comunicati alla Commissione Europea e inseriti nella legge di stabilità approvata
annualmente, che acquista, in tal modo, un ruolo di legge di coordinamento tra finanza statale e
regionale. I comuni e le province con una finanza sana e un bilancio in pareggio (virtuosi), hanno chiesto
una maggiore libertà finanziaria rispetto a quelli con consistenti disavanzi. Dal 2010 sono state
introdotte nella gestione finanziaria degli enti, misure di flessibilità. Tra queste, la cessione reciproca,
tra enti locali, di spazi finanziari cioè un ente locale può aumentare la propria spesa oltre i limiti, ceduti
da un altro ente, e che dovranno essere restituiti nel biennio successivo. Per le regioni, il patto interno di
stabilità coincide con la spesa sanitaria. Lo stato fissa i livelli essenziali di assistenza, al di sotto dei quali
le regioni non possono scendere, come disposto dalla Corte costituzionale. Ma le somme che lo stato
trasferisce non sono quasi mai sufficienti e sono costrette a trovare fondi destinati ad altri scopi. In
materia sanitaria, si è cercato di adottare una policy per la riduzione della spesa regionale non più con i
tagli, ma attraverso il recupero di efficienza, controllato da organismi come il SiVeAS.

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CAPITOLO VI – I BENI (parte speciale)

1. RAGIONI D’IMPORTANZA DEI BENI E DELLA LORO DISCIPLINA


L’importanza dei beni pubblici e della loro disciplina giuridica dipende da più di un motivo.
Storicamente, vi è stata connessione tra i concetti di sovranità e di proprietà pubblica dei beni. La
sovranità è stata concepita come un insieme unitario di potestà supreme, insuscettibili di essere
trasferite ad altre entità, né di essere perdute per il fatto di non essere state esercitate per un lungo
periodo di tempo. La proprietà pubblica è stata concepita come un insieme di beni (naturali o artificiali)
in uso comune o di beni destinati allo svolgimento di servizi pubblici. I diritti su questi beni spettano alla
collettività. Art. 42 della Costituzione, si apre con l’affermazione “la proprietà è pubblica o privata”,
seguita da “i beni appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. Distinguere i beni pubblici dagli altri beni
è fondamentale per assicurare che gli interessi della collettività emergano appieno e siano ben protetti.
Ciò comporta l’inalienabilità e l’imprescrittibilità dei diritti dominicali (diritto da parte di un proprietario
di godere della sua proprietà). Sono ordinate alla conservazione e alla tutela dei beni pubblici le potestà
che l’ordinamento attribuisce alle autorità pubbliche. L’amministrazione pubblica non fa che difendere i
propri beni, come può farlo qualunque altro soggetto, è pur vero che essa è sempre tenuta a farlo e
dispone a tal fine non semplicemente di poteri giuridici, come ogni altro soggetto, bensì di potestà
pubbliche. Il denaro stesso è un bene pubblico, se acquisito dalle amministrazioni nei modi prescritti
dalle norme. Al pari del denaro, la maggior parte dei beni pubblici, mobili e immobili, sono da
annoverare tra i mezzi dell’azione amministrativa. Per lungo tempo, i beni, soprattutto quelli
immobiliari, hanno avuto notevole rilievo nel quadro dei mezzi dell’azione amministrativa perché
procuravano pedaggi e canoni. In seguito, queste entrate sono andate riducendosi rispetto a quelle
assicurate da tributi e da altre prestazioni imposte. Hanno avuto minor rilievo anche le entrate
patrimoniali procurate mediante dismissioni, particolarmente importanti alla fine dell’800, in occasione
della liquidazione dell’asse ecclesiastico, quando numerosi beni appartenenti agli enti religiosi vennero
acquisiti dallo Stato, per essere ceduti ai privati a titolo oneroso. Oggi, nel quadro dell’UE, l’azione dei
pubblici poteri è libera nei fini, non nei modi di svolgimento.

2. PLURALITA’ DI INTERESSI RIGUARDANTI I BENI PUBBLICI


A partire dalla fine dell’800 è stata elaborata una teoria della proprietà pubblica, distinta da quella
privata. Per alcuni, la proprietà pubblica non era solo distinta da quella privata per la diversa natura del
soggetto al quale erano imputati i diritti dominicali. Lo era altresì, da un lato, per via dell’inerenza delle
“cose” pubbliche, oggetto di questo tipo di proprietà e, dall’altro lato, in ragione dei poteri inerenti a tali
“cose”, i quali rientrano nel campo del diritto pubblico. Ci sono beni che non fungono da mezzi
dell’azione amministrativa, nel senso che realizzano immediatamente gli interessi della collettività
(musei, biblioteche, autostrade, mare, foreste). Questi interessi giustificano anche la limitazione di
alcune facoltà insite nei diritti dominicali spettanti ai privati, soprattutto quella di costruire, ma lo studio
di questi limiti rientra a rigore nella regolazione amministrativa dei beni. Anziché una rigida separazione
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tra la proprietà pubblica e la proprietà privata, vi è una varietà di situazioni intermedie. Alla disciplina
dei beni pubblici sono in parte sottoposte altresì quelle che solevano essere considerate come beni
collettivi (etere, aria, terra). Il progresso tecnologico ha reso possibili forme di utilizzo un tempo
impensabili. Si consideri l’etere: esso è un bene essenziale ai fini delle trasmissioni radiotelevisive. È
inoltre, un bene limitato, per cui occorre stabilire garanzie rispetto al modo in cui lo Stato concede in
uno le poche frequenze disponibili agli operatori economici che ne fanno richiesta. Alle norme nazionali,
dunque, si aggiungono quelle stabilite dai poteri pubblici ultrastatali, cui le prime devono conformarsi.
3. I PRINCIPI COSTITUZIONALI NAZIONALI ED EUROPEI
Bisogna esaminare congiuntamente i principi costituzionali europei e nazionali relativi ai beni pubblici. Il
TFUE lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri. Esso rafforza la
tutela che l’ordinamento giuridico assicura all’interesse all’efficiente uso delle risorse esistenti e allo
sviluppo economico. Il TFUE liberalizza gli scambi di merci e i movimenti di capitale. Ne consegue che gli
stati rinunciano all’esercizio delle potestà, di cui sono titolari, suscettibili d’impedire o di rendere
eccessivamente gravoso il godimento delle libertà di circolazione. Il TFUE impone anche la riduzione del
debito pubblico.
L’ordinamento italiano disciplina sia l’appartenenza dei beni, sia il loro regime giuridico. La Costituzione
enuncia i principi in base ai quali la proprietà è pubblica o privata e i beni economici appartengono allo
Stato, a enti o a privati (art. 42), prevede che possano essere espropriati determinati beni; consente che
altri tipi di beni produttivi siano/possano essere trasferiti ai pubblici poteri oppure a comunità di
lavoratori e di utenti (43). Essa stabilisce, inoltre, che le regioni e gli enti locali abbiano “un proprio
patrimonio (119). Possono individuarsi 4 principali caratteristiche del regime dei beni pubblici:
1. esistenza di un regime giuridico pubblicistico, per esempio, in base al codice civile, i beni demaniali
sono inalienabili e imprescrittibili (823). La ragione di questa disciplina risiede nella necessità di
salvaguardare gli interessi della collettività sia da chi amministra i beni pubblici, sia dai terzi.
2. legittimazione generale dei pubblici poteri e degli enti pubblici ad acquisire diritti dominicali sui
beni. Non vi è limite alla capacità di costituire e modificare diritti sui beni, quanto meno in rapporto ai
beni produttivi o economici. Altro discorso è se e come quei diritto possano essere acquisiti: mentre nei
rapporti tra privati resta indispensabile il consenso delle parti, le PA possono prescinderne o imporsi
sulla volontà contraria da parte del titolare del diritto di proprietà, esercitando la potestà di
espropriazione.
3. possibilità che i pubblici poteri e gli enti pubblici stabiliscano una limitazione all’appropriazione dei
beni da parte dei singoli, mediante l’apposizione di una riserva originaria. La riserva originaria, agendo
come ostacolo al sorgere della legittimazione, impedisce che i soggetti privati, pur se dotati di capacità
giuridica, possano acquisire diritti in rapporto a determinati beni. Ai pubblici poteri nazionali, dunque,
non è consentito sottrarre per intero, o quasi, i beni produttivi all’appropriazione privata.
4. uso dei beni pubblici. I principi di imparzialità e buon andamento comportano una serie di obblighi a
carico dell’amministrazione. Prima di concedere in suo risorse scarse, essa deve valutare a quale uso un
bene sia normalmente adibito, si vi siano usi alternativi, si vi sia una pluralità d’interessati.

4. DALLA PROPRIETA’ PUBBLICA ALLE PROPRIETA’ PUBBLICHE


Al centro della disciplina giuridica non è tanto l’appartenenza dei beni, quanto il loro uso. È più agevole
intendere il significato della disposizione costituzionale che fa riferimento alla proprietà pubblica,
insieme a quella privata. Essa implica che alcuni beni, in quanto pubblici, siano sottratti a determinate
regole valide per altri tipi di beni e siano sottoposti a regole a sé stanti. In particolare, la circostanza che
un bene sia incluso nel demanio comporta, oltre alla riserva a favore dei pubblici poteri, la duplice

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possibilità che questo reagiscano alle turbative dell’integrità dei beni con propri ordini e li rendano
esecutivi con propri procedimenti. Mentre il codice civile presuppone che i beni demaniali
appartengano esclusivamente agli enti territoriali, altre norme, consentono che i relativi diritti siano
trasferiti ad apposite società. Anche quando un bene è destinato all’uso da parte delle PA, nulla
impedisce l’applicazione degli istituti che disciplinano l’accrescimento dei beni e la percezione dei frutti.

Due conclusioni:
- Non si può collegare in modo biunivoco la natura dell’ente e la natura del diritto di proprietà
- Non esiste un regime giuridico della proprietà pubblica, unitario e del tutto separato rispetto al
regime giuridico della proprietà privata.

5. DALLA PROPRIETA’ ALL’USO


La preminenza dell’uso rispetto all’appartenenza si manifesta in modo evidente nell’ordinamento
giuridico dell’Unione europea. Questo, non attribuisce alcun privilegio allo stato proprietario rispetto ai
privati. Per contro, impone il rispetto di regole volte a livellare il terreno di gioco tra i vari operatori. Le
norme dell’Unione esigono che tutti gli imprenditori di un certo settore economico abbiano il diritto di
accedere a pari condizioni al demanio pubblico. Allo stesso modo, le norme relative alle reti ferroviarie
dispongono che il gestore debba consentire a chiunque di accedervi a condizioni non discriminatorie. Il
diritto europeo prescinde dalla titolarità del bene, dette norme per chiunque sia in relazione con esso:
ciò che viene disciplinato è l’uso del bene. Lo stesso codice civile distingue tra la proprietà e l’uso.
D’altra parte, molti bene pubblici non sono importanti per la natura del soggetto proprietario, ma per
l’uso collettivo di cui sono suscettibili. L’importanza dell’uso si manifesta anche in rapporto ai beni
mobili indispensabili per l’esplicazione delle funzioni del benessere (trasporto pubblico, farmaci) e ai
diritti pubblici d’uso sui beni privati (servitù prediali, militari, d’acquedotto). Ulteriore conferma del fatto
che l’uso è l’elemento caratterizzante dei beni pubblici può trarsi dalle norme che mantengono le
destinazioni e gli usi dei beni nonostante il trasferimento della proprietà a soggetti privati. La legge n.
410/2001, ha affidato all’Agenzia del demanio la ricognizione dei beni appartenenti allo Stato e agli enti
pubblici, nonché dei beni utilizzati per uso pubblico, ininterrottamente da oltre 20 anni, con il consenso
dei proprietari. Le norme di questo tipo prescindono dall’elemento soggettivo, cioè dall’appartenenza.
Fanno riferimento al criterio dell’uso, per escludere che questo risenta della eventuale modificazione
dell’appartenenza. Mentre il codice civile usa la locuzione “beni appartenenti allo Stato e agli enti
pubblici”, vi sono ora designazioni legislative unitarie, le quali non fanno riferimento ai beni spettanti
all’uno o all’altro soggetto pubblico, bensì ai beni pubblici in quanto tali.

6. TIPOLOGIE DI BENI PUBBLICI

È difficile redigere una classificazione che includa tutti i diversi tipi di beni pubblici. Nella realtà attuale si
può constatare che convivono beni a uso collettivo, beni destinati all’uso di una o più PA, beni di
proprietà privata delle amministrazioni.

6.1 I BENI A FRUIZIONE COLLETTIVA

Ai fini della determinazione della natura pubblica di un bene, non è essenziale quale sia il potere
pubblico o l’ente al quale appartiene, bensì la destinazione del bene alla fruizione collettiva. L’uso

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collettivo è comune al lido del mare, alle spiagge, strade, aree verdi, giardini pubblici e i parchi, foreste,
spazio aereo. Essi sono destinati all’uso da parte di tutti i soggetti dell’ordinamento. Per i beni di questo
tipo non vi è una proprietà nel senso comune del termine. Quanto meno, vi è una scissione tra il
proprietario del bene e chi lo usa. Il lido del mare è pubblico in quanto destinato all’uso collettivo, non a
quello dell’amministrazione. È sottratto ai poteri di disposizioni normalmente spettanti al proprietario.
Essi non possono neppure essere assoggettati a espropriazione forzata da parte dei creditori
dell’amministrazione.
La situazione dunque non è equiparabile al proprietario che ha il diritto di godere delle cose in modo
pieno ed esclusivo e di disporne (832 c.c.). Le amministrazione ne disciplinano l’uso tramite i poteri di
polizia dei beni. Una serie di potestà, attribuite alle autorità competenti affinché emanino atti
amministrativi generali per imporre determinate condotte o vietarle, ordini per assicurarne l’osservanza,
sanzioni nei confronti di coloro che non vi si conformino. I beni a fruizione collettiva si distinguono in più
modi: quelli più importanti sono basati sul tipo di uso dei beni e sui soggetti legittimati a fruirne.
Mentre per alcuni beni l’uso è SOLO collettivo, altri ammettono usi parziali riservati ai soggetti che
ottengano dall’amministrazione uno specifico titolo abilitativo.
Un caso di questo tipo riguarda gli stabilimenti balneari: in cambio del pagamento di un canone, il
titolare della concessione ottiene per un certo periodo il godimento esclusivo di alcune utilità del bene,
ma può consentirlo ad altri, a titolo oneroso, ossia quanto siano soci di un circolo nautico o più
semplicemente paghino un biglietto giornaliero. Anche tra i beni la cui fruizione è solo collettiva, però,
bisogna distinguere l’uso ordinario da quello eccezionale. L’uso pubblico, infine, può aver luogo a titolo
gratuito o oneroso, come accade per le autostrade e i musei.

6.2 I BENI DESTINATI ALL’USO DA PARTE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI


Questi beni non sono pubblici in quanto d’uso collettivo, ma sono destinati ala fruizione da parte di una
o più PA in vista di uno o più interessi pubblici. L’uso è qui da intendersi come esclusivo, in senso
assoluto o relativo. Assoluto le opere destinate alla difesa nazionale, caserme, armamenti, aerei, navi. I
beni per i quali l’uso da parte delle PA è esclusivo solo in senso relativo sono molto più numerosi, dal
momento che ne fanno parte gli edifici destinati a sedi di uffici pubblici, i loro arredi.
In questo caso, una ulteriore distinzione si instaura tra i beni in uso alle PA, a seconda che l’uso sia:
- Diretto: permesso soltanto a chi vi sia legittimato in base ad un rapporto d’ufficio o di servizio,
come accade per l’accesso alle sedi degli edifici pubblici o la conduzione degli automezzi e dei
treni
- Indiretto: è consentito agli utenti dei servizi e riguarda l’accesso agli uffici aperti al pubblico e la
fruizione dei mezzi di trasporto pubblico.
L’incedibilità, nell’ordinamento italiano vale sia per i beni demaniali, come gli acquedotti, sia per i beni
patrimoniali. Variano anche le finalità in vista delle quali l’ordinamento destina i beni all’uso da parte di
un pubblico potere o di un ente pubblico. A volte, il fine consiste nella conservazione dell’integrità del
bene, la quale giustifica l’impiego di risorse pubbliche, nazionali e comunitarie, per il restauro di edifici di
particolare pregio storico o artistico. Altre volte, il fine pubblico è costituito dalla fruizione del bene.
Altre volte ancora, il fine previsto consiste nel consumo del bene.

6.3 I BENI DI PROPRIETA’ PRIVATA DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI


Mentre i beni finora passati in rassegna sono pubblici per via del tipo di uso al quale sono destinati, altri
beni servono a conseguire utilità economiche, mediante l’esercizio di poteri e facoltà non diversi da
quelli spettanti ai soggetti privati. Esempio: qualora un ente previdenziale pubblico acquisti degli

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immobili per realizzare un investimento, le modalità di costituzione, modificazione ed estinzione dei
diritti non differiscono da quelle che denotano la proprietà dei soggetti privati sul medesimo tipo di
bene. Il bene è pubblico solo in senso soggettivo, in ragione dell’appartenenza. Per esso, valgono le
regole che disciplinano i rapporti tra i privati. I beni di questo tipo sono anche definiti beni di proprietà
imprenditoriale. Una proprietà di tipo imprenditoriale in senso proprio si ha, invece, per le
partecipazioni azionarie detenute in società di capitali, pubbliche e private.

6.4 ALTRE DISTINZIONI RELATIVE AI BENI PUBBLICI


La distinzione più rilevante, da questo punto di vista, è quella stabilita dal codice civile tra i beni
demaniali e patrimoniali, questi ultimi distinti a seconda che siano disponibili o indisponibili. Il codice
civile non fornisce, una definizione dei beni demaniali. Si limita ad attribuirne la proprietà allo stato e
agli enti territoriali, come i comuni e le province, e ad annettere a tali beni una serie di tratti specifici. I
beni demaniali sono inalienabili e imprescrittibili, di conseguenza i privati non possono essere titolari di
diritti di proprietà su di essi, ma solo di uso, mediante concessione; le turbative della proprietà e del
possesso possono essere represse con ordini e procedimenti esecutivi. Poiché da ciò deriva un limite alla
circolazione dei diritti relativi ai beni. Che è un interesse protetto dall’ordine giuridico nazionale, oltre
che da quello dell’UE, il codice civile elenca in modo tassativo le categorie di beni demaniali (822 c.c.
demanio necessario). vi sono, poi, beni che possono appartenere sia ai privati, sia alle PA, ma i quali, se
di proprietà degli enti territoriali, sono destinati a confluire nel relativo demanio (demanio accidentale).
Quanto ai beni patrimoniali, anch’essi appartengono allo Stato e agli enti territoriali, nonché agli enti
non territoriali, e non sono definiti, ma individuati secondo il criterio dell’enumerazione tassativa per
categorie (foreste, miniere, cave, caserme, armamenti ecc. 826 c.c.) e con un criterio residuale rispetto
al demanio, nel senso che i beni pubblici, se non sono demaniali, rientrano nel patrimonio
indispensabile. Gli altri beni patrimoniale si dicono disponibili, nel senso che per essi è ammessa la
cessione dei diritti dominicali e degli altri diritti. Vi è la possibilità che per un bene patrimoniale, una
volta venuta meno la destinazione a un pubblico servizio, esso entri a far parte del patrimonio disponibili
e la possibilità di acquistare attraverso il possesso pacifico ultraventennale, diritti reali sui beni
appartenenti al patrimonio indisponibile.
Presenta notevole importanza, il decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 che realizza il c.d.
federalismo demaniale. Esso attribuisce a comuni, province, città metropolitane e regioni un proprio
patrimonio, in base ai criteri di sussidiarietà, adeguatezza, capacità finanziaria, correlazione tra i beni e
le competenze, nonché valorizzazione ambientale. Prevede che diverse categorie di beni siano trasferiti
dallo Stato agli altri enti territoriali, in particolare i beni del demanio marittimo alle regioni, quelli del
demanio idrico e le miniere alle province. Ma prevede anche che lo Stato eserciti poteri sostitutivi nel
caso in cui l’ente non utilizzi il bene nel rispetto delle finalità stabilite.
Sebbene la distinzione tra beni demaniali e patrimoniali sia tuttora utilizzata e vi facciano riferimento
norme abbastanza recenti, essa è d’incerto valore, per almeno 4 motivi:
- essa non si fonda su un criterio sicuro. Basti pensare che in base all’art. 826 c.c., le foreste che
costituiscono il demanio forestale dello stato fanno parte del patrimonio indisponibile.
- tanto per il demanio, quanto per il patrimonio, le norme si ispirano a criteri comuni, stabilendo limiti
alla circolazione dei beni, ma al tempo stesso circoscrivendone la portata mediante l’elencazione
tassativa. L’art. 829 c.c. regola il passaggio di beni dal demanio al patrimonio; il venir meno del vincolo di
destinazione fa sì che un bene passi dal patrimonio indisponibile a quello disponibile.

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- da diversi anni la giurisprudenza ha esteso ai beni patrimoniali indisponibili l’autotutela. In virtù della
destinazione, per esempio, gli alloggi pubblici destinati ai non abbienti non possono essere usucapiti.
Dunque, la distinzione tra beni demaniali e patrimoniali indisponibili ha perso rilevanza esterna.
- mentre le disposizioni del c.c. escludono l’alienabilità dei beni demaniali, quelle più recenti la
prevedono espressamente, con procedure innovative.

Constatata la perdita d’importanza della tradizionale classificazione dei beni in demaniali e patrimoniali,
alcuni studiosi hanno tentato d’individuare il tratto comune ai beni pubblici nel vincolo di destinazione.
Ma neppure questo tentativo è soddisfacente, prima di tutto perché un vincolo di questo tipo non
costituisce una caratteristica esclusiva dei beni appartenenti ai pubblici poteri o agli enti pubblici.
Inoltre, bisogna tenere distinto lo specifico vincolo di destinazione che, in ragione della presenza d’un
interesse pubblico, grava su alcune specie di beni dal vincolo relativo ai beni di proprietà privata delle
PA, il cui regime giuridico non si discosta da quello dei beni appartenenti ai privati. Anche i beni di entità
privata, come le fondazioni, sono assoggettate a vincoli di destinazione. Assai più rilevante, sul piano
normativo, è un’altra distinzione, che riguarda i beni demaniali, suddivisi in beni naturali, come il lido
del mare e artificiali, come le strade. Nel primo caso, l’esistenza del bene dipende da meri fatti. Nel
secondo caso, l’esistenza del bene è il frutto dell’opera umana, come il faro costruito in prossimità di un
porto. Questa distinzione ha natura convenzionale, per una varietà di motivi:
- Definire taluni beni naturali non è del tutto appropriato, giacché vi è pur sempre una norma che
li qualifica come pubblici
- Vi sono beni artificiali aventi le medesime caratteristiche fisiche di quelli naturali, come i canali e
i laghi artificiali.

7. INIZIO, MODIFICAZIONE ED ESTINZIONE DELA NATURA PUBBLICA DEI BENI


Per alcune specie di beni a fruizione collettiva le norme stabiliscono la necessaria e costante inerenza
degli interessi pubblici, come accade per le spiagge. Per altri, invece, la pubblicità del bene dipende da
un atto di ricognizione emanato dall’amministrazione, per esempio le strade. L’inizio e la cessazione
della natura pubblica di un bene dipendono da fatti o atti giuridici. I primi sono i fatti ai quali il diritto
attribuisce rilievo mediante norme generali, residuali, speciali. Nel novero degli atti giuridici idonei a far
sorgere diritti sui beni vi sono le leggi, i provvedimenti amministrativi e quelli giurisdizionali, gli atti
negoziali. Il riconoscimento ope legis (per opera della legge) della natura pubblica del bene opera per
determinati beni culturali, denominati monumenti nazionali e perciò sottratti all’alienazione, come, per
esempio il Colosseo. Hanno una certa importanza, nella prassi, le convenzioni di lottizzazione. Esse
consentono all’amministrazione di acquisire dai privati le aree necessarie per l’installazione delle opere
di urbanizzazione primaria, ai privati di ottenere le concessioni edilizie, una volta che sia stato effettuato
il pagamento degli oneri per le opere di urbanizzazione secondaria.
Come fanno sorgere la natura pubblica dei beni, così i fatti e gli atti giuridici possono comportarne la
modificazione e l’estinzione. Non è determinante, a questo proposito, se una figura soggettiva pubblica
subentri all’altra, ma se muti il contenuto del diritto. Un’eventualità di questo tipo si realizza ove un atto
normativo o amministrativo sancisca il venir meno della natura demaniale di un bene
(sdemanializzazione).

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L’estinzione dei diritti interviene solo in conseguenza di altre vicende, come il venire meno dell’oggetto.
Ma la giurisprudenza ammette l’estinzione di un uso solo in presenza di atti o fatti che attestino in modo
inequivocabile la volontà dell’amministrazione di sottrarre il bene alla destinazione pubblica in modo
permanente. Oltre alle norme riguardanti singoli beni o categorie di beni, le vicende relative alla genesi,
alla modificazione e all’estinzione dei diritti sui beni soggiacciono alle norme generale dell’ordinamento,
in quanto compatibili. Una volta ammessa la capacità contrattuale delle PA, non si può escludere la
permuta d’un bene.

8. CONSERVAZIONE, GESTIONE, VALORIZZZAZIONE DEI BENI PUBBLICI


Nei confronti dei beni dei quali sono proprietarie, le amministrazioni sono tenute a svolgere una serie di
funzioni. La prima può dirsi di conoscenza. Essa attiene all’acquisizione e all’organizzazione delle
informazioni relative ai vari beni, alla situazione in cui versano, al loro valore economico, mediante
archivi e banche dati; a tal fine, un ruolo di rilievo spetta all’agenzia del demanio. Un’altra funzione
consiste nella conservazione dei beni. Essa comporta per l’amministrazione obblighi di mantenimento
più intensi di quelli che gravano sui privati e potestà specifiche. Gli amministratori hanno il dovere di
evitare danni ai terzi. Per tutelare i beni pubblici, le norme attribuiscono alle amministrazioni potestà di
autotutela. L’inerzia dell’amministratore dà luogo a responsabilità a suo carico. Una terza funzione è
quella di gestione dei beni, a lungo considerata solo o prevalentemente dal punto di vista della scelta tra
la gestione: essa può essere diretta o indiretta. La prima include una serie di attività distinte dalle
attività di conservazione e tutela: dalla manutenzione alla individuazione di forme di fruizione più
efficienti o meno onerose, dalla ristrutturazione delle opere alla verifica della persistente necessità ed
opportunità del possesso. Nel caso in cui questa verifica abbia esito negativo, la gestione può essere
affidata a privati nel qual caso lo strumento tradizionale è la concessione. Essa è configurata come
provvedimento discrezionale, oneroso, revocabile, sottoposto alla giurisdizione del giudice
amministrativo. La scelta del privato è effettuata mediante una procedura ad evidenza pubblica. Un caso
particolare riguarda la disciplina dei beni sequestrati alle organizzazioni criminali di tipo mafioso. In
base alla l. n. 109/1996, il diritto di proprietà e i diritti connessi sono stati acquistati dallo Stato, tramite
l’agenzia del demanio. Se si tratta di beni mobili registrati, ne viene disposta la vendita. Nel caso di beni
immobili, essi sono mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di
protezione civile oppure trasferiti al patrimonio del comune ove l’immobile è sito, il quale può darlo in
uso a privati, a titolo gratuito o oneroso.
La valorizzazione non può realizzarsi a scapito della conservazione di una parte fondamentale del
patrimonio culturale.

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9. LE DISMISSIONI

Un’altra funzione dei pubblici poteri consiste nell’alienare i diritti relativi ai beni pubblici. Nell’ancien
regime, si riteneva che il sovrano non disponesse dei beni, ma li amministrasse soltanto. In realtà, la
dismissione del patrimonio mobiliare e immobiliare è un’evenienza tutt’altro che eccezionale, com’è
dimostrato dalla liquidazione, nell’800, dei beni dell’asse ecclesiastico. È notevole anche la rilevanza
economica delle dismissioni fatte nell’ultimo decennio. Sotto il profilo soggettivo, se ne avvalgono lo
Stato, le regioni e gli enti locali e gli enti pubblici funzionali. Quanto all’oggetto, in alcuni casi
l’alienazione è espressamente escluse dalle norme primarie. Un impedimento assoluto è stabilito dalla
legge anche per le reti dei servizi pubblici locali, classificate come beni patrimoniali. La disciplina delle
dismissioni è frammentaria. La regola principale è che l’alienazione dei diritti afferenti ai beni pubblici
sia preceduta da un’asta. Però, come si è visto, è stata prevista una deroga per gli immobili trasferiti a
talune società, come la Patrimonio dello Stato S.P.A.. Ulteriori deroghe sono stabilite dai regolamenti
degli enti locali. Ha acquistato rilievo la cartolarizzazione dei crediti. Mediante la cartolarizzazione, il
valore economico dei beni immobili viene corrisposto alle rispettive amministrazioni dalle società
acquirenti, le quali poi collocano i beni sul mercato. In questo modo, le amministrazioni possono
ottenere subito le somme di denaro che altrimenti acquisirebbero solo al termine di procedure di
alienazione tutt’altro che brevi. È stata predisposta la Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici (SCIP).

Ulteriori differenze attengono agli effetti dell’alienazione dei diritti dominicali. A volte, essa non
comporta il venir meno del vincolo di destinazione che grava sul bene, come accade per i beni demaniali
conferiti alla società Patrimonio dello Stato. Altre volte, quei vincoli devono essere riconsiderati, come è
stato stabilito dalla giurisprudenza per gli immobili, attualmente destinati a servizi ospedalieri, per i quali
non può essere esclusa ogni destinazione d’uso connessa con lo svolgimento di attività commerciali, sul
solo presupposto che ne soffrirebbero gli elementi del decoro e della configurazione architettonica.
Altre volte, ancora, il vincolo di destinazione di trasferisce sulle risorse acquisite grazie alle dismissioni.
Un esempio di questo tipo riguarda gli alloggi precedentemente destinati alle forze armate. In ogni caso,
le risorse acquisite non possono essere destinate a spese di tipo corrente, giacché esse servono alla
riduzione del debito.

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CAPITOLO VII ‐ IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA E PROCEDIMENTI


Consideriamo le P.A. in termini dinamici, esaminando il modo in cui esser svolgono la loro attività.

1.1. Le forme dell’attività amministrativa


Le funzioni amministrative si esprimono in diversi modi: definiscono norme giuridiche, rilasciano
autorizzazioni, concludono contratti, erogano pensioni, forniscono cure mediche ecc.
La "sostanza" delle funzioni amministrative, quindi, può essere riversata in forme giuridiche
diverse. Sotto il profilo strutturale l'attività delle pubbliche amministrazioni non si distingue da quella
di ogni altro soggetto di diritto. Esse pongono in essere sia dichiarazioni di volontà (come i
provvedimenti amministrativi e i contratti), di scienza (come i verbali e i certificati) e di giudizio (come i
pareri e le valutazioni tecniche), sia operazioni materiali (la demolizione di un fabbricato abusivo,
l'arresto di un ladro, le prestazioni sanitarie).
Anche i comportamenti negativi dell'amministrazione assumono rilevanza, come nel caso del c.d. silenzio
della pubblica amministrazione, fenomeno che coinvolge anche il diritto civile (proroga tacita del
contratto).
Alcune funzioni amministrative sono svolte essenzialmente attraverso operazioni materiali. Non
presentano particolarità, rispetto ad analoghi atti conosciuto dal diritto privato, neanche le dichiarazioni di
scienza e di giudizio.
La distinzione tra atti unilaterali e accordi rientra nell'ambito delle dichiarazioni di volontà.
Questa distinzione, peraltro, non coincide con quella, molto diffusa ma imprecisa, tra attività
amministrativa di diritto pubblico e attività amministrativa di diritto privato: sia tra gli uni che tra gli altri,
infatti, vi sono atti analoghi a quelli normalmente posti in essere nei rapporti tra privati (per esempio,
rispettivamente, un atto di costituzione in mora e un contratto di locazione) e atti estranei a questi rapporti
(per esempio, rispettivamente, un'espropriazione per pubblica utilità e una convenzione urbanistica). Il
processo decisionale delle pubbliche amministrazioni, in realtà, è sempre regolato in parte dal diritto
pubblico, sia quando le amministrazioni decidono unilateralmente, sia quando concludono accordi.
Tra gli accordi la figura principale è quella del contratto, mentre tra gli atti unilaterali, la figura
principale è quella dei provvedimenti amministrativi: sono gli atti, emanati a conclusione di
procedimenti amministrativi, con i quali le amministrazioni esercitano poteri loro conferiti dalle norme
per la cura di interessi pubblici, producendo effetti giuridici anche nei confronti di altri soggetti,
distinguendosi dagli atti strumentali (proposte, pareri), posti in funzione servente.
Quella degli atti strumentali è una categoria eterogenea (nella quale rientrano dichiarazioni di
volontà, di scienza e di giudizio), per la quale l'ordinamento non pone regole generali (a differenza di
quanto fa per i provvedimenti): l'unico dato comune agli atti strumentali è quello di non costituire
provvedimenti amministrativi, ma anche questo è un dato che ha senso solo all'interno del singolo
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procedimento, considerato che molti atti strumentali richiedono a loro volta procedimenti amministrativi,
nei quali si pongono come provvedimenti finali. Gli atti strumentali non sono autonomamente
impugnabili dinanzi al giudice amministrativo, in quanto non sono autonomamente lesivi di interessi
giuridicamente rilevanti.

1.2. La procedimentalizzazione dell’attività amministrativa


Il carattere più vistoso dell'attività amministrativa è la procedimentalizzazione: essa è un'attività
ordinata in sequenze. Le decisioni delle pubbliche amministrazioni non sono prese in modo istantaneo,
ma si formano attraverso procedimenti: un procedimento è necessario per rilasciare un permesso di
costruire o per irrogare una sanzione pecuniaria e anche per concludere un contratto di appalto o per
vendere una partecipazione azionaria. La decisione è racchiusa in un atto finale (l'autorizzazione, la
sanzione, il contratto o la decisione di concluderlo), ma il contenuto di questo atto è in gran parte
determinato dagli atti e dai fatti che hanno avuto luogo nel corso del procedimento.
La procedimentalizzazione dell'attività amministrativa è dovuta, da un lato, al fatto che le pubbliche
amministrazioni sono organizzazioni complesse e, come tali, svolgono normalmente la propria attività
attraverso diversi uffici e articolano il ruolo di questi, definendo in via generale competenze e procedure;
dall'altro lato l’attività è regolata, nel suo svolgimento di esercizio, dalle norme. Esse disciplinano il
processo di formazione delle decisioni, individuano gli organi competenti, provvedono a fornire prove e
consulenze, attribuiscono compiti a soggetti pubblici o privati. In sintesi, il procedimento, limitando la
discrezionalità amministrativa, è giuridicamente rilevante, in senso sostanziale (e non solo formale). Il
potere può legittimamente essere esercitato solo se si è svolto il procedimento previsto dalle norme; il
provvedimento è legittimo solo se il suo contenuto è coerente con le risultanze del procedimento stesso.
L’articolazione dell’attività ha diversi scopi:
- ordinare la stessa attività;
- definire il ruolo degli uffici e distribuire il potere decisionale;
- tutelare i privati; consentire la collaborazione a soggetti pubblici o privati;
- confrontare gli interessi coinvolti;
- individuare le circostanze rilevanti per la decisione.

Il fenomeno della procedimentalizzazione riguarda tutta l'attività amministrativa: non solo


l'emanazione di atti unilaterali, ma anche la conclusione di accordi; non solo le dichiarazioni di volontà,
ma anche quelle di scienza e di giudizio; non solo l'attività finale, volta a perseguire gli interessi pubblici
indicati dalla legge, ma anche quella strumentale, attraverso la quale le pubbliche amministrazioni
organizzano se stesse e soddisfano le esigenze del proprio apparato; anche le operazioni materiali (come
la riparazione di una strada e lo svolgimento di una lezione universitaria) hanno luogo di regola sulla base
di un procedimento, volto se non altro a individuare l'ufficio competente e il momento della loro
esecuzione.

1.3. Procedimenti amministrativi e altri procedimenti giuridici


Il procedimento amministrativo è la forma della funzione amministrativa: la funzione legislativa
si svolge attraverso il procedimento legislativo, la funzione amministrativa si svolge attraverso
procedimenti amministrativi e si differenzia nettamente da quello legislativo e dal processo
giurisdizionale per via della sua eterogeneità e atipicità: i procedimenti amministrativi hanno strutture
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estremamente diverse l'una dall’altra, esistendo un numero enorme di essi. Ciò dipende dalla varietà delle
funzioni amministrative e, di riflesso, dal diverso modo in cui il procedimento amministrativo è
disciplinato: mentre il procedimento legislativo e il processo sono disciplinati essenzialmente da norme
generali, per il procedimento amministrativo prevalgono le norme speciali, relative a singoli tipi di
procedimento. Il procedimento amministrativo cambia la sua struttura in ragione del tipo di
provvedimento da emanare, perché ogni tipo di procedimento ha le sue norme. Esistono norme generali,
che si applicano a tutti i procedimenti amministrativi o ad ampie categorie di essi: nell'ordinamento
italiano esse sono contenute nella legge n. 241/1990. La teoria del procedimento amministrativo è
piuttosto giovane. Solo negli ultimi decenni si è imposta l’idea che il procedimento è la forma naturale di
svolgimento di tutta l’attività amministrativa.
2. POTERE AMMINISTRATIVO E DISCREZIONALITÀ
Le norme pongono solo alcune regole comuni o prevedono istituti di applicazione eventuale. Il
procedimento amministrativo è innanzi tutto un modo di esercizio del potere amministrativo.

2.1. Potere amministrativo


Il procedimento legislativo è un potere libero dato che il legislatore, entro limiti imposti dai principi
costituzionali e dal diritto europeo, è libero di individuare i fini da perseguire; mentre il potere esercitato
dal giudice nel processo è vincolato all’unico fine dell’attuazione della legge. Il procedimento
amministrativo è una via di mezzo perché le pubbliche amministrazioni devono rispettare la legge e
perseguire i fini da essa stabiliti, ma devono colmare i vuoti lasciati dalle norme e definire in concreto
l'assetto di interessi. Per un verso, le amministrazioni devono essere imparziali, non molto diversamente
dai giudici; per un altro verso, esse non sono indifferenti rispetto agli interessi in gioco, anzi sono esse
stesse portatrici di interessi pubblici. Ciò significa che il procedimento amministrativo è uno strumento
di esercizio di un particolare tipo di potere, che è il potere amministrativo: esso si distingue dal potere
privato, che è libero nel fine e non richiede un procedimento; dal potere legislativo, che è libero nel fine;
dal potere giurisdizionale, che non implica un apprezzamento di interessi. Come ogni situazione
soggettiva di potere, il potere amministrativo implica un ruolo di mediazione, affidato al suo titolare,
tra la norma e l'effetto giuridico. La norma non produce immediatamente l'effetto, ma ne affida la
produzione al titolare del potere, in questo caso la pubblica amministrazione: spetta ad autorità
amministrative, per esempio, stabilire il limite di velocità in determinate strade (mentre il limite in
autostrada è fissato dalla legge), autorizzare l'apertura di grandi supermercati (mentre l'apertura di piccoli
negozi è consentita dalla legge), ecc.

2.2. Norme giuridiche e poteri amministrativi


A monte di un potere amministrativo vi è sempre una norma, a valle, vi è l’effetto che la norma
mira a ottenere attraverso l’esercizio del potere.
I poteri amministrativi devono sempre avere un fondamento normativo, quindi le amministrazioni
possono emanare provvedimenti solo nei casi previsti dalle norme: è il principio di tipicità dei
provvedimenti amministrativi, che si fonda su quello di legalità. Esso viene spesso enfatizzato dalla
scienza giuridica ed è affermato dalla giurisprudenza nelle (non molto frequenti) ipotesi in cui le
amministrazioni esercitano poteri non attribuiti da alcuna norma. Il problema del tipo di norma dalla
quale il potere amministrativo deve essere attribuito si risolve con il richiamo alle riserve di legge poste
dalla Costituzione a tute dei diritto fondamentali e dei diritti di proprietà e impresa. L'art. 23 cost.,
secondo cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge,
implica che i provvedimenti restrittivi, come quelli ablatori e quelli sanzionatori, possono essere emanati
solo nei casi previsti da atti aventi forza di legge. La fonte legislativa, in questi casi, deve non solo
contemplare l'emanazione del provvedimento, ma anche indicarne i presupposti e il contenuto. Questo
principio, peraltro, soffre qualche eccezione o limitazione, come nel caso delle ordinanze d'urgenza.
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Anche a livello comunitario sono affermati gli stessi principi; inoltre quando gli effetti di un atto sono
favorevoli al destinatario, il potere amministrativo può anche essere attribuito da norme di ragno
subordinato. L’incidenza del diritto europeo è tale da dettare requisiti generali per intere categorie di
provvedimenti amministrativi, come le autorizzazioni. La disciplina amministrativa nazionale deve
adeguarsi a quella europea.

2.3. Caratteri del potere amministrativo


Il potere delle pubbliche amministrazioni determina l’immediata produzione dell’effetto
giuridico, senza bisogno di rivolgersi a un giudice. Altri poteri,invece, si esercitano agendo in giudizio.
Ciò è legato alla disciplina dell'invalidità del provvedimento amministrativo e alla struttura del processo
amministrativo: il provvedimento invalido è di regola annullabile (e non nullo), cioè produce
provvisoriamente i suoi effetti; e il processo amministrativo inizia di regola con un ricorso del privato,
che impugna il provvedimento per ottenerne l'annullamento (a doversi rivolgere al giudice, quindi, è il
privato per ottenere la rimozione degli effetti del provvedimento, non l'amministrazione per ottenere la
loro produzione). I caratteri che distinguono il potere amministrativo dagli altri tipi di poteri dipendono
dal suo inserirsi nello svolgimento di una funzione: esso è un potere a esercizio doveroso; si esercita
attraverso un procedimento; deve essere esercitato entro un certo termine, che è il termine entro il quale
il procedimento deve concludersi; è disciplinato da numerose regole, generali e speciali; è soggetto a
controlli penetranti, affidati a organi sia amministrativi sia giurisdizionali.

2.4. Potere amministrativo e interessi protetti


Le norme e la giurisprudenza sembrano spesso mosse da una certa diffidenza nei confronti dei
poteri amministrativi: a volte li escludono (per esempio, le riunioni e le associazioni tra cittadini non
possono essere sottoposte ad autorizzazione: art. 17 e 18 cost.); nell'attribuirli, individuano con precisione
i presupposti (per esempio, all'espropriazione per pubblica utilità si può procedere solo nei casi previsti
dalla legge: art. 42 cost.) e il contenuto (per esempio, l'ammontare delle sanzioni pecuniarie) dei relativi
provvedimenti; disciplinano il procedimento con norme sia di applicazione generale, sia relative a singoli
tipi di procedimento; impongono regole relative alla formazione della decisione, come quella della
coerenza tra motivazione e dispositivo e quella della non disparità di trattamento; prevedono controlli
amministrativi e giurisdizionali.
Più che di diffidenza nei confronti delle amministrazioni, comunque, si tratta della conseguenza, da
un lato, della natura funzionale dell'attività amministrativa, dall'altro, della garanzia dei diritti dei
cittadini: prevenire il rischio di abusi significa assicurare che l'interesse pubblico sia correttamente
perseguito e che tutti gli interessi rilevanti siano adeguatamente valutati. Ciò spiega perché regole e
controlli possano essere invocati dai titolari di questi interessi, partecipando al procedimento
amministrativo e impugnando il provvedimento dinanzi al giudice. Nei confronti di un potere
amministrativo, i titolari degli interessi coinvolti si trovano in una situazione più favorevole che nei
confronti di un potere privato: chi voglia ottenere un'autorizzazione amministrativa è più tutelato di chi
voglia ottenere un'autorizzazione dal proprio vicino di casa, perché può partecipare al procedimento di
formazione della decisione dell'amministrazione e invocare il rispetto delle regole che disciplinano questo
procedimento (mentre il modo in cui il vicino prende le proprie decisioni è ovviamente insindacabile);
analogamente, il proprietario del bene è più tutelato in sede di espropriazione per pubblica utilità che nei
confronti del creditore espropriante.

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Le pubbliche amministrazioni non si trovano in una posizione di supremazia nei confronti dei
cittadini, né i loro provvedimenti hanno alcuna particolare forza giuridica. Tutto ciò che si può dire è
che esse sono titolari di numerosi poteri amministrativi, dei quali i privati non possono essere titolari:
ma il regime giuridico di questi poteri è volto a limitare le scelte delle amministrazioni e a tutelare i diritti
dei cittadini. I titolari degli interessi su cui il potere amministrativo incide, destinatari degli effetti dei
relativi provvedimenti, non si trovano in una situazione di mera soggezione né di diritto soggettivo, ma
in una situazione di interesse legittimo: situazione giuridica soggettiva che, a differenza della
soggezione, consente al suo titolare di incidere sull'esercizio del potere, che si trova di fronte. Questa
nozione, che ha avuto una notevole importanza per la formazione del sistema italiano di giustizia
amministrativa (essendo utilizzata per operare il riparto della giurisdizione), indica appunto una tecnica di
tutela degli interessi coinvolti dalle decisioni dell'amministrazione.
Agli interessi legittimi fanno riferimento gli art. 24 e 113 Cost. ma è sufficiente ricordare la
distinzione tra interessi oppositivi, di cui sono titolari coloro che temono di ricevere un pregiudizio
dall’esercizio di un potere amministrativo e interessi pretensivi di coloro che aspirano a riceverne un
beneficio.

2.5. Le valutazioni amministrative; la discrezionalità


L'attività amministrativa contempla continuamente il compimento di scelte tra più soluzioni
compatibili con il dato normativo. Così, in presenza di un edificio pericolante occorre: interpretare le
norme, per esempio per individuare l'ufficio competente; valutare il rischio di crollo; individuare una
misura, per esempio scegliendo tra demolizione e restauro; decidere se concedere un finanziamento per
l'eventuale restauro; adottare eventuali misure temporanee, come la chiusura al traffico della strada
adiacente; e così via. Si tratta, evidentemente, di scelte molto eterogenee per le quali la decisione
adottata è spesso opinabile, per cui nascono i problemi di modalità di esercizio della scelta e controllo
giurisdizionale su di essa.
Maggiore è il problema della discrezionalità amministrativa che presenta diversi aspetti: se
emanare un certo provvedimento (discrezionalità nell'an), quando emanarlo (nel quando), con quale
contenuto (nel quid), come esternarlo e quali elementi accidentali inserirvi (nel quomodo). Naturalmente,
questi diversi tipi di valutazione amministrativa non sono sempre presenti: la discrezionalità nell'an, per
esempio, spesso manca, perché, in presenza dei presupposti di legge, l'emanazione del provvedimento è
obbligata (non si può rifiutare il rilascio di un diploma universitario a chi abbia sostenuto tutti gli esami e
pagato tutte le tasse; accertato un illecito, non si può fare a meno di irrogare la sanzione). Anche la
discrezionalità nel quando è di regola molto limitata per la previsione di un termine del procedimento. Le
altre due forme di discrezionalità hanno intensità molto variabile. Se le norme non dispongono
diversamente, l’amministrazione, nel compiere la scelta, deve considerare non soltanto l’interesse
primario, ma anche gli altri interessi che l’ordinamento considera meritevoli di tutela.

2.6. Discrezionalità amministrativa e controllo giurisdizionale


Nel XIX secolo, infatti, l'espressione "atto discrezionale" indicava gli atti dell'amministrazione
sottratti al sindacato giurisdizionale, in ossequio al principio della separazione dei poteri.
Successivamente, questo principio è stato bilanciato dal principio di legalità e dall'esigenza di tutela dei
diritti dei cittadini. Da un lato, alcune scelte sono rimesse dalla legge all'amministrazione; dall'altro,
occorre un controllo sul corretto perseguimento dell'interesse pubblico da parte di essa. La soluzione,
sviluppata in Italia come in altri ordinamenti dalla giurisprudenza amministrativa, è il ricorso a regole
logiche o di comune esperienza, oggettive e verificabili. La loro violazione è sintomatica del cattivo
svolgimento della funzione, quindi determina l’illegittimità del provvedimento e il suo annullamento.
La nozione di discrezionalità esprime una situazione intermedia tra la libertà e il vincolo:
all'amministrazione spettano scelte, ma esse devono realizzare l'interesse pubblico. L'attività discrezionale
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viene tradizionalmente contrapposta all'attività vincolata, interamente regolata dalle norme, con
esclusione di ogni possibilità di scelta. Gli atti totalmente vincolati, in realtà, sono pochi: per esempio,
alcune autorizzazioni che devono essere rilasciate sulla base dell'accertamento di presupposti certi, per le
quali vi è solo una limitata discrezionalità nel quando. Si potrebbe anche dubitare che simili atti
costituiscano esercizio di poteri, perché la componente dell'obbligo è decisamente prevalente su quella del
potere. La discrezionalità è cosa diversa dalla libertà.

2.7. La discrezionalità tecnica


Le scelte basate sull’applicazione di conoscenze specialistiche sono definite dall'art. 17, legge n.
241/1990, valutazioni tecniche, che si distinguono dagli accertamenti tecnici proprio per l'opinabilità
della scelta, per il margine di incertezza che essa lascia, per la variabilità del risultato in relazione al
metodo adottato. L'espressione tradizionale, invece, è quella di discrezionalità tecnica, in evidente
simmetria con quella amministrativa. Per un verso, l'evoluzione del processo amministrativo (con
l'ampliamento dei mezzi istruttori, compresa la consulenza tecnica d'ufficio) induce i giudici a sindacare
le valutazioni tecniche. Per un altro, essi tendono ad arrestarsi di fronte a valutazioni particolarmente
complesse.

2.8. L’obbligo di provvedere; il termine di procedimento


L’esercizio del potere amministrativo è doveroso. In presenza dei presupposti previsti dalle
norme, il procedimento deve essere avviato e il provvedimento emanato.
A carico dell'amministrazione, vi sono sia un obbligo di procedere, cioè di avviare il
procedimento, che un obbligo di provvedere, cioè di concluderlo. Del primo si è sempre riconosciuta
l'esistenza: esso deriva, se non altro, dalle norme che attribuiscono i poteri, prevedendo che essi siano
esercitati al realizzarsi di determinati presupposti. Il secondo è imposto dall'art. 2, legge n. 241/1990, a
norma del quale, quando il procedimento consegua obbligatoriamente a una istanza o debba essere
iniziato d'ufficio, l'amministrazione ha il dovere di concluderlo con un provvedimento espresso
(migliore di quello tacito per la possibilità di ricorso in sede amministrativa e giurisdizionale).
L'obbligo di provvedere risponde a esigenze sia di efficienza dell'amministrazione e di controllo,
sia di garanzia dei privati, i quali aspirino a ottenere una misura favorevole (nei procedimenti a iniziativa
di parte) o a rimuovere lo stato di incertezza in ordine all'eventuale adozione di una misura sfavorevole
(in quelli a iniziativa d'ufficio). Il provvedimento espresso è preferibile a quello tacito non solo quando
il suo contenuto è favorevole, ma anche quando esso è sfavorevole, perché contro il provvedimento
espresso essi possono esperire i rimedi amministrativi e giurisdizionali.
I provvedimenti negativi (diniego di autorizzazione) costituiscono una particolarità del potere
amministrativo rispetto ad altri poteri: non esiste la legge negativa, né il contratto negativo; esistono,
invece, per le stesse ragioni, le sentenze di rigetto.
L'art. 2, legge n. 241/1990, prevede che, per ogni tipo di procedimento, deve essere stabilito il
termine massimo di durata. In qualche caso, esso è fissato dalle norme che disciplinano il singolo tipo di
procedimento: ciò avviene di regola, per esempio, per i procedimenti sanzionatori. Ove ciò non avvenga,
sempre l'art. 2, legge n. 241/1990, prevede che sia l'amministrazione stessa a fissarlo, vincolando la
propria condotta futura. Se non lo fa, si applica il termine residuale indicato dalla legge stessa, di 30
giorni. Può accadere che lo stesso tipo di procedimento possa avere termini diversi in amministrazioni
diverse. Il termine può essere sospeso (1 sola volta e per non più di 30 gg.) se le norme richiedono
all’amministrazione di chiedere valutazioni tecniche ad altri uffici e se deve acquisire informazioni che
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non siano già in suo possesso. Il decorso del termine non fa venire meno il potere, né l’obbligo
dell’amministrazione di provvedere. Esso, però, qualifica la sua inerzia come inadempimento, aprendo
la strada ai rimedi contro il silenzio della P.A.
Attraverso la legge n. 69/2009 si è voluto indurre le amministrazioni a rispettare i termini previsti
dalla 241, mediante il risarcimento del danno causato dall’inosservanza del termine e come elemento di
valutazione per i dirigenti (sia sui risultati he sulla responsabilità). L’art. 2-bis 241/1990 prevede che le
amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

3. LA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO


La disciplina del procedimento amministrativo consiste in principi e regole sia generali che
speciali: gli uni e gli altri sono contenuti in disposizioni normative o generati dalla giurisprudenza. I
principi e le regole generali, definiti dalle norme e dai giudici nazionali, sono spesso analoghi a quelli che
si ritrovano in altri ordinamenti e nel diritto europeo.

3.1. I principi giurisprudenziali


Il diritto amministrativo non è codificato, essendo stato sviluppato soprattutto dai giudici. È una
materia molto ampia poiché esistono una grande quantità di norme relative a singole funzioni. Per
quanto riguarda, in particolare, la disciplina del procedimento amministrativo, il fenomeno è dovuto
anche a due ulteriori fattori: da un lato, le norme che attribuiscono poteri amministrativi tendono a
disciplinarne puntualmente le modalità di esercizio, per garantire il corretto perseguimento degli interessi
pubblici e la tutela di quelli privati; dall'altro, l'eterogeneità delle funzioni e dei procedimenti
amministrativi rende difficile l'elaborazione di una disciplina generale, che regoli in dettaglio il suo
svolgimento. La maggior parte dei principi generali relativi al procedimento è di origine
giurisprudenziale. La giurisprudenza amministrativa ha elaborato una serie di regole e ne ha imposto il
rispetto alle amministrazioni annullando i provvedimenti che non le osservassero. In tempi più recenti, i
giudici spesso prescindono dalle figure sintomatiche, per valutare la legittimità del provvedimento
direttamente alla luce di principi come quelli di ragionevolezza, proporzionalità, buona fede, dei quali
quelle figure sono spesso state ritenute applicazioni.

3.2. Le discipline legislative


Nei paesi europei, vi è una notevole eterogeneità nelle discipline legislative del procedimento
amministrativo: alcune leggi lo disciplinano analiticamente, altre si concentrano su alcune fasi o su alcuni
aspetti; alcune si occupano solo di alcuni tipi di procedimento (come quella statunitense), altre sono
applicabili a tutti i procedimenti (come quella italiana); alcune adottano un approccio "processuale" o
"giudiziale" (come quella austriaca), altre un approccio "politico" o "partecipativo" (come quella
statunitense, basata sulla "rappresentanza degli interessi"), altre ancora entrambi gli approcci (come
quelle tedesca, italiana e spagnola); in alcuni ordinamenti (come quelli da ultimo menzionati) vi è
un'unica legge sul procedimento, in altri (come la Francia) ve ne sono diverse, relative a singoli aspetti;
molte di queste leggi non si limitano a disciplinare il procedimento, ma intervengono anche sul regime
giuridico del provvedimento (per esempio, imponendone la motivazione o individuandone i vizi e le
relative conseguenze) e pongono principi generali sull'attività amministrativa (come quelli enunciati
dall'art. 1, legge n. 241/1990); La "codificazione" della disciplina del procedimento ha determinato nei
vari ordinamenti, da un lato, l'introduzione di nuove regole generali, dall'altro, la codificazione di regole
già affermate dalla giurisprudenza. Di conseguenza, è mutato il rapporto tra legge e giurisprudenza: la
prima pone anche norme generali, che la seconda è chiamata a specificare e applicare.
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La disciplina di ciacun procedimento risulta da regola giurisprudenziali e da disposizioni
normative.

3.3. Principi del diritto amministrativo e principi del procedimento


Nel complesso, dunque, la disciplina di ciascun procedimento risulta da regole giurisprudenziali e
da disposizioni normative. Le une e le altre a volte hanno portata generale (principio di proporzionalità e
regola del termine del procedimento), altre volte si applicano a grossi gruppi di procedimenti (come la
regola della predeterminazione dei criteri di decisione, relativa ai procedimenti di sovvenzione, e la
disciplina legislativa delle sanzioni amm.), altre volte ancora riguardano singoli tipi di procedimento,
previsti dalle norme speciali.

3.4. I principi del procedimento nell’ordinamento italiano


I principi più importanti sono quelli di imparzialità (valutare gli interessi rilevanti) e buon
andamento (economicità ed efficacia), enunciati dal Costituzione.
- L'economicità riguarda il rapporto tra mezzi e risultati, quindi impone di fare buon uso delle risorse a
disposizione, sia di quelle materiali, che finanziarie che umane; un’applicazione del principio di
economicità è il divieto di aggravare il procedimento.
- L’efficacia riguarda il rapporto tra obbiettivi e risultati
- L’efficienza riguarda il rapporto costi-benefici.
- La ragionevolezza: è un principio assoluto che indica plausibilità e giustificabilità della scelta operata
dall’amministrazione, alla base di regole empiriche sull’eccesso di potere.
- La proporzionalità: la scelta dell’amministrazione deve comportare il minor sacrifico possibile per gli
interessi rilevanti nel conseguire il risultato voluto.
-Il principio del giusto procedimento, che riecheggia il principio costituzionale americano del due
process of law, riguarda i procedimenti che sfociano in misure restrittive per i destinatari, come quelli
ablatori e quelli sanzionatori: prima dell'adozione di simili misure occorre svolgere un'adeguata istruttoria
e offrire agli interessati la possibilità di essere ascoltati (non ha valore assoluto).
- Il principio della partecipazione ha portata generale, essendo riferito dalla legge n. 241/1990 a tutti i
procedimenti (con le sole eccezioni indicate dall'art. 13: procedimenti per i quali vi sono comunque
norme specifiche sull'intervento degli interessati nel procedimento). Le norme in questione danno anche
contenuto al principio, indicando gli obblighi dell'amministrazione e i poteri degli interessati. Entrambi i
principi possono essere sacrificati in presenza di esigenze prevalenti, come la celerità e la segretezza.
- La giurisprudenza applica anche principi “minori” come la buona fede (impone all’amministrazione di
tene conto dell’affidamento generato nei privati dai suoi provvedimenti e comportamenti) e la
consequenzialità (impone di rispettare i criteri di azione che essa stessa si sia data). Inoltre vi sono i
principi di portata speciale, relativi alle singole materie, posti dalle leggi di settore. Mentre due ulteriori
principi generali sono quello di semplicità e di pubblicità.


3.5. Le semplificazione amministrativa


Naturale derivazione dei principi di buon andamento, economicità ed efficacia è quello di
semplicità, indotto dalla legge 241/90, la quale ha avviato una intensa politica di semplificazione
amministrativa con lo scopo di ridurre la spesa e migliorare i servizi resi al cittadino. La conferenza di
servizi e gli accordi tra amministrazioni sono istituti di semplificazione amministrativa, al pari della
disciplina dei pareri e delle valutazioni tecniche, dell'autocertificazione, della denuncia di inizio di attività
e del silenzio-assenso.
Il principio di semplicità è ormai anche un principio del diritto europeo.

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A livello nazionale, negli ultimi 25 anni il principio di semplicità ha dato vita a varie altre previsioni
normative. Gli istituti previsti dalla 241/1990 sono stati utilizzati da varie norme di settore.
A partire dal 1997, quello di semplificazione è divenuto un processo permanente, alimentato
annualmente da una legge di semplificazione approvata su iniziativa del governo. Quest'ultima introduce
varie misure di semplificazione, tra le quali la riduzione del numero delle fasi procedimentali, la riduzione
dei termini dei procedimenti, la riduzione del numero e il loro accorpamento.

3.6. La trasparenza e l'accesso ai documenti amministrativi


Il principio della trasparenza è un principio generale del diritto amministrativo. Si tratta di uno
dei principi fondamentali del diritto amministrativo in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali. La
trasparenza è un elemento centrale nell’ambito amministrativo; può essere garantita anche al di fuori del
procedimento in due direzioni: accesso ai documenti e informazione dei cittadini.
L’accesso ai documenti amministrativi è un principio generale espressamente previsto dalla legge
n. 241/1990, secondo la quale esso è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti (destinatario).
Nel procedimento, il principio della trasparenza determina l’obbligo dell’amministrazione di
rendere pubbliche determinate informazioni e di comunicare determinate circostanze agli interessati.
L'oggetto al quale si accede è il documento amministrativo: cartaceo, fotografico, nastro
registrato, memorie pc. Esso non va confuso con l'atto amministrativo il quale è sempre una
dichiarazione (volontà, giudizio, scienza) e non ha necessariamente forma scritta.
Titolari del diritto sono tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento al quale richiesto
l’accesso: la richiesta deve essere motivata. La disciplina degli enti locali stabilisce che tutti gli atti
comunali o provinciali siano pubblici e garantisce l'accesso a tutti i cittadini.
Il diritto si esercita mediante esame ed estrazione di copia del documento, con un accesso
informale (quando la richiesta è evidentemente fondata) o con un procedimento di accesso formale se
sorgono dei dubbi sulla legittimità della richiesta.
Il principio di pubblicità non è assoluto, in quanto esclude i documenti non accessibili, come
quelli coperti da segreto di Stato. È prevista l'esclusione dell'accesso anche ai documenti inerenti la difesa
nazionale, l'ordine pubblico, la politica monetaria e riservati a terzi. La decisione in ordine all’accesso
richiede spesso una ponderazione, da parte dell’amministrazione. È il giudice, in sede di giudizio sulla
legittimità del diniego di accesso, a valutare se l’esclusione dell’accesso a determinati documenti è
giustificata da uno degli interessi indicati.
È problematico il rapporto fra diritto d'accesso di tutela dei dati personali: vi è convergenza quando
ad accedere è la persona alla quale si riferiscono le informazioni, è di opposizione quando riguardano un
altro soggetto. L’art. 24 241/1990 prevede 4 ipotesi diverse:
- previsione, secondo la quale i documenti amministrativi possono essere sottratti all’accesso a
tutela della riservatezza di terzi. La tutela della riservatezza può prevalere sul diritto di accesso
- Quando l’accesso non è semplicemente utile per la cura di un interesse ma “necessario”, è il
relativo diritto a prevalere sulla tutela della riservatezza.
- Per i documenti contenenti dati sensibili o giudiziari l’accesso è consentito nei limiti in cui sia
strettamente indispensabile.

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- Per i documenti contenenti dati ipersensibili cioè idonei a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale si applica l’art. 60 del codice in materia di protezione dei dati personali a norma del
quale si può accedere se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la
richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato,
ovvero consiste in un diritto della personlità o in un altro diritto o libertà fondamentale e
inviolabile.
La tutela del diritto di accesso è assicurata dal giudice amministrativo.
L'altro modello di trasparenza prevede la pubblicità delle informazioni in possesso delle
amministrazioni, garantendo il controllo da parte dei cittadini: essa è finalizzata alla tutela di interessi
generali, prescindendo dal procedimento. La legge numero 15/2009 richiede l'accessibilità totale delle
informazioni relative a organizzazione funzionamento della P.A, mentre il d. lg. 33/2013 elenca un gran
numero di informazione che devono essere pubblicate sul sito Internet (personale, finanza, rendimenti
degli uffici, organizzazione…).
4. L’OGGETTO E L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA LEGGE SUL PROCEDIMENTO
La disciplina legislativa generale relativa al procedimento è contenuta nella l. n. 241/1990, oggetto
di revisione della l. n. 15/2005. Occorre analizzare l’oggetto della disciplina e l’ambito di applicazione.

4.1 L’individuazione dei procedimenti amministrativi


Prima della l. 241 la nozione di procedimento era sconosciuta al legislatore; la legge pone la
nozione ma non la definisce: occorre stabilire che cosa sia un procedimento e cosa non lo sia, vista
l’eterogeneità della disciplina e dei vari tipi di procedimenti. Sorgono due ulteriori problemi: i
procedimenti che si concludono con un atto che non sia un provvedimento (i) e la questione relativa al
collegamento tra diversi procedimenti(ii).

4.2 Procedimenti senza provvedimento


(i)Il provvedimento (autorizzazione, concessione, espropriazione, sanzione) nasce dall’esigenza di
individuare un atto impugnabile davanti al giudice amministrativo e la teoria del procedimento è stata
costruita intorno alle principali figure di provvedimento amministrativo (autorizzazioni, espropriazioni,
concessioni ecc.). Il legislatore, nell’emanare la 241/1990 ha mirato a disciplinare in primo luogo i
procedimenti volti all’emanazione di simili provvedimenti. Tuttavia le P.A. pongono in essere
procedimenti diversi (contrattuali, finanziari, dichiarativi) che non si concludono con un atto: a essi la
legge si applica solo parzialmente.

4.3 Procedimenti collegati


(ii) Come devono essere individuati il termine e il responsabile nel caso di procedimenti collegati?
Essi vanno determinati con riferimento al procedimento principale o complessivo il cui provvedimento
incide sul privato: è infatti nella tutela dei suoi interessi che la legge impone certezza dei tempi e
responsabilità.

4.4 Il catalogo dei procedimenti


A fronte di una nozione imprecisa di procedimento, la legge impone alle amministrazioni di tenere
un catalogo di tutti i procedimenti amministrativi di propria competenza. La determinazione del termine
e del responsabile del procedimento è oggetto di un potere normativo. Inoltre, per le amministrazioni
statali, l’individuazione di termini e responsabile deve avvenire attraverso regolamenti amministrativi. La
pubblicazione di questi regolamenti, consente agli interessati di conoscere il terime entro il quale
l’amministrazione deve, o può, emanarlo e l’ufficio al quale rivolgersi per avere informazioni o
presentare memorie e documenti. I regolamenti di attuazione degli artt. 2 e 4 241/1990 non elencano
soltanto procedimenti come quelli autorizzatori e ablatori, ma anche i procedimenti con i quali le P.A.
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concludono contratti, pagano debiti, gestiscono il personale ecc. Essi individuano i termini e i responsabili
non solo per i procedimenti, ma anche per le loro fasi e per i subprocedimenti.
Può accadere che, nell’individuazione dei procedimenti, le amministrazioni applichino la legge in
modo erroneo. L’interessato può ben impugnare un provvedimento al quale non corrisponda un
procedimento elencato dal regolamento della relativa amministrazione. D’altra parte, la legge stessa, nel
disciplinare il termine, contempla il caso in cui un procedimento non sia stato identificato
dall’amministrazione: essa stabilisce che, in questa ipotesi, si applica il termine di 90 giorni.

4.5.6 La l. 241, quali tipi di procedimenti regola?


Ambito di applicazione oggettivo: tipi di procedimento che essa regola.
La maggior parte delle disposizioni sono dettate per tutti i procedimenti, mentre alcune previsioni
ne escludono determinati tipi (artt. 3, 13) o ne riguardano solo alcuni tipi (artt. 12,19,20). Il fatto che la
legge escluda determinati tipi di procedimento da alcune sue regole non vuol dire che le stesse regole non
possano essere imposte da altre fonti, compresa la giurisprudenza.
L’ambito di applicazione soggettivo: amministrazioni alle quali si applica.
Essendo legge nazionale si applica alle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali. Più
complesso è il discorso per regioni ed enti locali, anche a seguito della rif. Cost. del 2001, modificante il
riparto di competenze centro-periferia. La disciplina del procedimento deriva sia da norme generali (241)
sia da norme speciali (leggi e regolamenti) sparse nelle diverse amministrazioni. Regioni ed enti locali, in
linea di principio, avrebbero la possibilità di disciplinare in modo indipendente la materia, restando però
all’interno dei principi posti dalla legge statale, dalla riserva esclusiva sancita dalla Cost, dalle materie
trasversali di interesse nazionale avocate a sé dallo Stato, dal diritto comunitario derivato e dagli obblighi
internazionali. L’art. 29 della 241 esprime, a livello di principio, questi limiti posti a regioni ed enti
locali. Le regioni, in particolare, hanno emanato leggi sul procedimento che mirano a recepire i principi
della legge statale. Discorso a parte meritano le autorità indipendenti, le quali compensano la carenza di
legittimazione derivante dall’estraneità al potere politico, attraverso un rafforzamento delle garanzie
procedimentali.

5. LA STRUTTURA DEL PROCEDIMENTO


I procedimenti hanno strutture estremamente diversificate: alcuni hanno un’articolazione molto
complessa, con varie fasi identificabili (elaborazione dei piani urbanistici); altri sono estremamente
semplici e si esauriscono nella fase decisioria (emanazione direttive di urgenza).

5.1. L’avvio
Può essere di due tipi:
- di ufficio: è la stessa amministrazione che delibera l'avvio del procedimento, essendosi verificato il
presupposto, al quale la legge ricollega l'emanazione del provvedimento: il presupposto è una situazione
giuridica (emanazione di una legge, sentenza, atto amministrativo o scadenza di un termine) o una
circostanza di fatto (commissione di un illecito, situazione di pericolo, esigenza di acquistare un bene o di
assumere un impiegato). L’ amministrazione perviene alle circostanze di fatto attraverso attività di
vigilanza o a seguito di denuncia di segnalazione. L’individuazione del termine iniziale può non essere
facile: occorre individuare il momento in cui, superata la fase preparatoria o di vigilanza,
l’amministrazione decide di procedere. La 241/1990 impone di individuare questo momento per due
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ragioni: perché da esso decorre il termine (finale) del procedimento; e perché l’avvio del procedimento fa
sorgere, in capo all’amministrazione procedente, l’obbligo di informarne determinati soggetti.
- Di parte: il procedimento consegue a un'istanza del soggetto interessato, prevista da disposizione
normativa, allegando (se richiesto) la relativa documentazione. L'amministrazione opera una valutazione
dell’istanza, verificando l’obbligo che a provvedere debba essere lei stessa o no (obbligo non sorge, ad
esempio, se l’istanza è presentata a un’amministrazione diversa da quella competente). L’ individuazione
del termine iniziale del procedimento è facile: esso è dato dal momento della ricezione dell’istanza.
L’iniziativa può essere anche di un’altra P.A.: determinati procedimenti non possono che cominciare con
una proposta di un’altra amministrazione.
L’istanza o proposta costituisce l’atto iniziale del provvedimento.

È la comunicazione d'avvio del procedimento, prevista dall'art. 7 che consente la partecipazione degli
interessati al procedimento. Essa è espressione, appunto, dei principi di partecipazione e - per i
procedimenti volti all'emanazione di provvedimenti restrittivi - del giusto procedimento. I destinatari
sono:
- i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti;
- quelli che per legge devono intervenire nel procedimento;
- quelli ai quali dal provvedimento possa derivare un pregiudizio (titolari di interessi oppositivi).
La comunicazione può essere fatta senza particolari formalità, purché contenga le informazioni
indicate dall'art. 8, legge n. 241/1990. Deve essere fatta non solo nei procedimenti a iniziativa d’ufficio,
ma anche in quelli a iniziativa di parte, in quanto serve non solo a informare dell’avvio del procedimento,
ma anche a dare le informazioni indicate dalla legge.
L’ omissione della comunicazione determina un vizio del procedimento e l'invalidità del
provvedimento finale, ma non per forza l’annullabilità del provvedimento. La comunicazione dell'avvio
del procedimento, in base all’art.13, legge n. 241/1990, è esclusa per i procedimenti di formazione di atti
normativi e di atti amministrativi generali. La legge impone alle P.A. l’obbligo di provvedere alla
comunicazione, ma a volte omette di sanzionare la violazione di questo obbligo. La legge, inoltre, dispone
che l’omissione possa possa essere fatta valere solo dal soggetto destinatario.

5.2. L’istruttoria e il responsabile del procedimento


L’istruttoria è la fase centrale del procedimento, nella quale si forma la decisone
dell’amministrazione, attraverso l’acquisizione di interessi e fatti rilevanti: la valutazione di questi
ultimi concerne la discrezionalità amministrativa. L’acquisizione dei fatti può richiedere accertamenti
tecnici, ispezioni, inchieste, pareri, valutazioni. Ove sia necessario acquisire documenti, il principio di
semplificazione opera sia attraverso l’istituto dell’ autocertificazione, sia attraverso l’obbligo del
responsabile del procedimento di acquisire i documenti in possesso della stessa o di altra
amministrazione. L’amministrazione titolare del procedimento raccoglie in un fascicolo (informatico)
tutti i documenti e gli atti del medesimo, consentendone l’accesso.
L’art. 6 della 241 elenca le funzioni del responsabile del procedimento (determinato in via
generale). Si tratta di un istituto volto a promuovere sia il buon andamento dell’amministrazione, sia la
pubblicità e la partecipazione. Il termine “responsabile” in questo caso, indica più la titolarità di un
compito che l’obbligo di rispondere delle proprie azioni. Il responsabile è sia l’ufficio nei confronti della
tipologia di procedimento, sia il funzionario nei confronti della singola pratica; quest’ultimo è stabilito dal
dirigente dell’ufficio. Non necessariamente l’ufficio responsabile del procedimento è competente per
l’adozione del provvedimento finale.

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5.3. L’attività consultiva
Le norme di settore stabiliscono che l’amministrazione procedente, prima di provvedere, chieda
pareri o valutazioni tecniche altre amministrazioni o uffici. I pareri sono resi da organi consultivi, per
lo più collegiali, e anche ad associazioni private (sindacati), garantendo la partecipazione al
procedimento.
I pareri possono essere obbligatori (previsti dalla legge) o facoltativi (iniziativa amministrativa);
quelli obbligatori possono essere anche vincolanti.
L’art. 16 fissa i termini per l’acquisizione del parere, superato il quale, l’amministrazione può
procedere. Per le valutazioni tecniche, la legge prevede anche la sospensione del termine del
procedimento per il tempo necessario alla loro acquisizione (art.2).

5.4. La partecipazione degli interessati


Il principio della partecipazione è uno dei più importanti principi che ispirano la disciplina del
procedimento. La partecipazione è un importante principio che regola il funzionamento delle P.A.
I soggetti legittimati (art.9) ad essa sono coloro che si aggiungono a quelli della comunicazione di
avvio: sono sia i soggetti oppositivi che associazioni e comitati (stakeholder).
Gli interventori possono prendere visione degli atti e presentare documenti o scritti.
Un’ulteriore forma di partcipazione, relativa ai soli procedimenti a iniziativa di parte, è quella
proposta dall’art. 10-bis introdotto nel 2005. Essa impone all’amministrazione di comunicare al
richiedente, prima dell’adozione di un provvedimento negativo, le ragioni che impediscono
l’accoglimento della sua domanda (es. mancanza di un documento), consentendogli di presentare ulteriori
osservazioni o documenti. Il difetto di questa comunicazione (preavviso di rigetto) rende illegittimo il
provvedimento finale.
La legge precisa che la comunicazione interrompe il termine del procedimento, che ricomincia poi
a decorrere.
La disciplina della partecipazione si applica solo ai procedimenti volti all’emanazione di
provvedimenti individuali, e non a quelli volti all’emanazione di atti amministrativi generali.

5.5 Gli accordi tra amministrazioni e interessati


L'art. 11, legge n. 241/1990, prevede, in generale, la possibilità di stipulare accordi tra pubblica
amministrazione e interessati per determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, c.d.
accordo procedimentale (atto strumentale), nonché, ma solo in casi indicati dalla legge, l’accordo
sostitutivo di provvedimento (atto conclusivo). Gli accordi con privati sono ammessi nel procedimento
ma la sostituzione di un provvedimento con un accordo richiede una previsione normativa del fenomeno.
Questa previsione, modificata nel 2005, è ora molto ampia e consente, in astratto, di concludere
qualsiasi procedimento con un accordo.
Agli accordi si applica la disciplina del codice civile in materia di obbligazioni e contratti (se
compatibili). Nel caso del recesso unilaterale, la compatibilità è risolta dalla legge, prevedendo il recesso
a tutela del pubblico interesse. In questo caso al privato è dovuto un indennizzo per l’eventuale
pregiudizio subito.

6. LA CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO


Il procedimento è volto all’emanazione di un atto conclusivo, di varia natura: dichiarazione di
volontà, dichiarazione di scienza, atto strumentale, accordo. Esso può essere imputabile ad uno o a più
soggetti.

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6.1. La deliberazione collegiale
Se l’atto finale di un procedimento è espresso da un organo collegiale, la sua emanazione
richiede un procedimento ad hoc; la violazione di queste regole determina l’illegittimità della
deliberazione. Nei collegi, la convocazione spetta al Presidente che comunica attraverso l’avviso, in
termine congruo, il quale deve contenere l’ordine del giorno (elenco degli argomenti da trattare). Per la
riunione dei collegi reali ci deve essere la presenza di tutti i componenti, per i collegi virtuali è sufficiente
la maggioranza dei membri in carica (quorum strutturale). Lo svolgimento dell’assemblea è gestito dal
presidente, che decide l’ordine di trattazione degli oggetti e dà la parola; essa è di regola riservata, non
pubblica; la deliberazione si svolge con il voto, con approvazione mediante la maggioranza, compresi
astenuti e schede bianche (quorum funzionale); le modalità di espressione del voto sono decise dal
collegio, ma il voto deve essere segreto per le deliberazioni che riguardano persone; la deliberazione deve
essere verbalizzata, pena l’inesistenza della stessa.

6.2. Gli atti strutturalmente complessi


Piuttosto che la volontà di un unico organo collegiale, il provvedimento può esprimere quella di più
organi: ciò avviene quando la legge stabilisce che esso sia emanato da più organi congiuntamente, da un
organo su proposta di un altro organo o P.A., di concerto o d’intesa con un altro organo o
amministrazione; quando sia rchiesto un nulla osta o in presenza di pareri vincolanti. Si parla in queste
ipotesi di decisione pluristrutturata e di atto complesso.

6.3 Gli accordi tra amministrazioni


La conclusione del procedimento tramite accordo può avere luogo non solo con gli interessati ma
anche tra due amministrazioni. Le P.A. hanno sempre concluso accordi tra loro. È ormai frequente che a
questi accordi partecipino anche soggetti privati.
L’art. 34 del d.lg. n. 267/2000 prevede gli accordi di programma volti a realizzare interventi che
richiedano la partecipazione di amministrazioni appartenenti a diversi livelli. La disposizione di portata
generale si trova nell’art. 15 della 241, la quale consente alle P.A. di concludere accordi per disciplinare
lo svolgimento di attività di interesse comune. Queste norme hanno una grande applicazione per cui le
amministrazioni realizzano nuove e variegate figure di accordo.

6.4. La conferenza di servizi


Il contenuto dell’atto conclusivo del procedimento è il frutto dell’attività di acquisizione dei fatti
rilevanti e degli interessi coinvolti, la quale avviene in diverse fasi. Tuttavia le diverse fasi possono
essere concentrate in un’unica fase nella quale i diversi interessi pubblici siano oggetto di valutazione
contestuale, da parte dei rappresentanti delle relative amministrazioni, appositamente riuniti.
Tramite la conferenza dei servizi, che semplifica il procedimento accelerandolo e favorendo il
coordinamento tra le amministrazioni e il confronto tra gli interessi coinvolti, si realizza una
concentrazione in un’unica fase, semplificando il procedimento.
A norma dell'art. 14, legge n. 241/1990, la conferenza di servizi può essere di due tipi:
- Istruttoria: può essere convocata dall’amministrazione procedente, titolare del potere
amministrativo, quando sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici
coinvolti. La valutazione di questa opportunità spetta all'amministrazione stessa (al responsabile
del procedimento). L’amministrazione procedente rimane titolare del potere di provvedere: essa
non è tenuta a recepire nel provvedimento le soluzioni emerse in sede di conferenza, salvo
l’obbligo di motivare tale decisione.
- Decisoria: è sempre indetta quando l’amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti,
nullaosta o assensi comunque denominati da altre P.A. e non li ottenga entro un breve termine.
Può essere indetta altresì in presenza di esplicito dissenso di una delle amministrazioni interpellate
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e quando l’amministrazione procedente può emanare il suo provvedimento in assenza delle
determinazioni delle altre amministrazioni. Il provvedimento finale conforme alla determinazione
conclusiva della conferenza di servizi sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione,
concessione, nullaosta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle
amministrazioni partecipanti.
Le norme che richiedono l’assenso di altre amministrazioni, per l’emanazione di un provvedimento,
pongono un potenziale fattore di rallenamento del relativo procedimento.
La decisione dell’amministrazione procedente può comportare dei sacrifici nei confronti dei singoli
interessi normalmente tutelati per quelle amministrazioni che sono in minoranza all’interno della
conferenza: solo a tutela di determinati interessi (relativi all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio
storico-artistico e alla salute) è previsto un rimedio, consistente nella rimessione della decisione
all'autorità politica.

Questa possibilità è particolarmente problematica quando l'amministrazione dissenziente appartenga a un


livello di governo diverso da quella procedente (per esempio, quando un comune dissenta dalle
determinazioni adottate a maggioranza in una conferenza di servizi convocata da un’amministrazione
statale), in quanto il ricorso a questo meccanismo può alterare il riparto delle funzioni amministrative,
definito a livello costituzionale.
Oltre alla disciplina generale, contenuta nella legge sul procedimento, vi sono varie norme statali e
regionali che prevedono la conferenza dei servizi in singole materie (edilizia, opere pubbliche,
espropriazione).
L’art. 14-bis l.n. 241/1990 prevede anche la conferenza semplificata la quale è indetta
dall’amministrazione procedente entro 5 gg dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della
domanda. A tal fine l’amministrazione procedente comunica alle altre amministrazioni interessate:
oggetto della determinazione da assumere, l’istanza e la relativa documentazione; le credenziali per
l’accesso automatico alle informazioni; il termine perentorio, non più di 15 gg, entro il quale le P.A.
coinvolte possono richiedere integrazioni documentali; il termine perentorio non più di 45 gg, entro il
quale le P.A. coinvolte devono rendere le proprie determinazioni relative alla decisione oggetto della
conferenza; la data della eventuale riunione sincrona ecc.
L’art. 14-ter l.n 241/1990 prevede la conferenza simultanea.

6.5. L’integrazione dell’efficacia


Normalmente, il procedimento non si conclude con l'emanazione dell'atto principale: sono
necessari adempimenti ulteriori (controllo dell'atto, comunicazione, pagamento di un tributo, produzione
di un documento, prestazione di un giuramento). Si parla di fase integrativa dell'efficacia, soprattutto con
riferimento ai controlli preventivi di legittimità, che sono condizione di efficacia del provvedimento
(seppur piuttosto rari).

7. TIPOLOGIA
I procedimenti amministrativi possono essere classificati in vari modi: per materie, funzioni,
amministrazione procedente, parti, destinatari, complessità. l’ordinamento crea sempre nuove categorie.
Nessuna classificazione è esaustiva, dato che l’ordinamento crea continuamente nuovi tipi di
procedimento.

7.1. Tipologia dei procedimenti e dei provvedimenti


La classificazione più diffusa è quella basata sulla funzione o sugli effetti del provvedimento
finale: autorizzatori, concessori, ablatori…, al cui interno sorgono diverse strutture procedimentali.

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Questa distinzione risulta più utile per classificare il provvedimento e lascia indeterminati i procedimenti
che non hanno una conclusione provvedimentale, quali contratti, atti interni, operazioni contabili.

7.2. I procedimenti strumentali


Ai procedimenti finali, attraverso i quali si volgono le funzioni amministrative, si affiancano i
procedimenti strumentali, relativi al funzionamento interno dell’amministrazione, hanno ad oggetto
l’organizzazione amministrativa, il personale o la finanza. Quelli volti all'emanazione dei principali tipi
di provvedimento amministrativo, quindi, sono procedimenti finali. Anche alcuni procedimenti
strumentali, peraltro, possono sfociare in un provvedimento amministrativo, come l'emanazione di uno
statuto, l'approvazione della graduatoria di un concorso, la delibera di scioglimento di un organo
collegiale e l'annullamento di un atto da parte dell'organo di controllo.
La natura strumentale di tali procedimenti non fa venir meno la loro importanza pratica né il loro
rilievo giuridico, che ne giustificano la minuta disciplina legislativa: si pensi al rilievo della distribuzione
delle risorse, operata attraverso procedimenti finanziari, per l'erogazione delle prestazioni ai cittadini.
Inoltre, pur essendo rivolti a un fine interno, essi producono spesso effetti giuridici nei confronti di
soggetti diversi dall'amministrazione: per esempio, coloro che aspirino a un impiego, partecipando a un
procedimento concorsuale.
Mentre la struttura dei procedimenti finali, ovviamente, dipende dalle funzioni delle varie
amministrazioni, i procedimenti strumentali sono spesso standardizzati, nel senso che possono svolgersi
in modo analogo nelle diverse amministrazioni, perché essi soddisfano esigenze che si pongono in termini
analoghi in ciascuna di esse (dotazione di personale, all'organizzazione degli uffici, al controllo sulla
spesa).
Attraverso i procedimenti organizzativi viene esercitata la potestà sull’organizzazione all’interno
dell’amministrazione.
I procedimenti di amministrazione del personale emanano atti relativi al rapporto tra
amministrazione e dipendenti.
Con i procedimenti finanziari le amministrazioni spendono il loro denaro.

7.3. I procedimenti dichiarativi


I procedimenti dichiarativi sono volti all'accertamento della realtà giuridica, quindi danno luogo
a dichiarazioni di scienza. Tali procedimenti si concludono di regola con atti non soggetti, se non in
parte, al regime del provvedimento: iscrizioni, certificati, verbali, relazioni, notificazioni, avvisi e simili.
Questi procedimenti servono alla produzione di certezze giuridiche in ordine a fatti giuridicamente
rilevanti (es. l’atto di acquisto di un immobile non è opponibile a terzi se non è stato registrato).
Alla base degli atti dichiarativi vi sono una situazione di fatto e il suo accertamento o la sua
comunicazione. In alcuni procedimenti dichiarativi è prevalente l'aspetto dell'accertamento (come nelle
inchieste e nelle ispezioni), in altri quello della comunicazione (come nelle pubblicazioni e nelle
notificazioni).
Nell’ultimo ventennio, i procedimenti dichiarativi sono stati oggetto di semplificazione, avviata
dall’art. 18 241/1990 relative all’ autocertificazione e alla presentazione di atti e documenti alle
amministrazioni da parte dei cittadini.
Procedimenti costitutivi: sono i procedimenti volti alla modificazione della realtà giuridica, i quali
danno luogo a dichiarazioni di volontà.
I procedimenti dichiarativi assolvono alla funzione di produrre certezza giuridica in relazione a
situazioni di fatto o di diritto delle quali la pubblica amministrazione ha avuto conoscenza mediante
l'attività dei propri organi..

7.4. Procedimenti e accordi


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Alcuni procedimenti sono volti all'emanazione di provvedimenti amministrativi, quindi di atti
unilaterali. Altri, definiti procedimenti di concertazione, sono volti alla conclusione di numerosi tipi di
accordo (procedimenti di concertazione): contratti di appalto o fornitura, contratti collettivi per la
disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici, accordi di programma, patti territoriali e contratti
d'area per lo sviluppo locale, convenzioni tra università e ospedali, accordi tra comuni per la gestione
congiunta di servizi pubblici, convenzioni tra concedente e concessionario di un servizio pubblico e così
via. In qualche caso, provvedimento e accordo coesistono come nelle ipotesi di conferenza di servizi
decisoria e di accordo procedimentale.

7.5. Procedimenti nazionali, comunitari, composti


L’ordinamento comunitario è privo di una disciplina generale sul procedimento. I procedimenti
amministrativi nazionali servono spesso all’attuazione delle decisioni comunitarie, secondo il modello
della "esecuzione indiretta", tuttavia essi sono anche variamente collegati a procedimenti comunitari o si
fondono con essi per formare procedimenti composti che si svolgono in parte presso amministrazioni
nazionali, in parte presso amministrazioni comunitarie.
I caratteri del funzionamento amministrativo comunitario rispecchiano la condivisione che si
desidera realizzare tra i vari livelli di governo. Problemi di concertazione si pongono anche nel rapporto
tra l’amministrazione nazionale/comunitaria e quella internazionale.

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CAPITOLO VIII – IL PROVVEDIMENTO
1. NOZIONE E CARATTERI
Il provvedimento amministrativo è l’atto con il quale, a conclusione di un procedimento, viene
esercitato il potere amministrativo. È tradizionalmente considerato l’atto tipico di esplicazione delle
funzioni amministrative.
La nozione di provvedimento amministrativo sfugge a una definizione e a delimitazioni precise.

1.1. Natura della nozione


A differenza di altri tipi di atto giuridico (come la legge, la sentenza e il contratto), nell'ordinamento
italiano, il provvedimento amministrativo non è né definito né compiutamente disciplinato dalla legge.
Non vi è una norma che dica che cosa è un provvedimento amministrativo, consentendo di includere
certi atti in questa nozione e di escluderne altri.
Il regime giuridico dei provvedimenti amministrativi continua a risultare da una serie di regole, ciascuna
delle quali può applicarsi a un diverso insieme di atti. Per esempio, alcuni atti non provengono da autorità
amministrative, ma sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo; altri provengono da autorità
amministrative, ma non sono impugnabili dinanzi a questo giudice.
Quella di provvedimento non è una nozione normativa, volta a stabilire l’ambito di applicazione di una
disciplina, essa serve a sintetizzare le regole a cui sono normalmente sottoposti gli atti di esercizio dei
poteri amministrativi, a ricostruire un regime giuridico.
La legge vuole che i poteri attribuiti alle P.A. siano normalmente esercitati attraverso procedimenti che si
concludano con atti soggetti al regime giuridico del provvedimento, anche se, per determinati tipi di atto,
singole componenti della disciplina del procedimento o del provvedimento sono escluse dalla natura degli
atti o dalla legge stessa. È arbitrario definire il provvedimento sulla base di caratteri generici (tipicità),
ingannevoli (imperatività) o eventuali (discrezionalità).
Si può soltanto, preso atto del suo carattere impreciso ed individuare i caratteri normali o più frequenti
dei provvedimenti.

1.2. Potere amministrativo, procedimento, provvedimento, processo


Posto che nessuno degli elementi dai quali risulta il regime giuridico sintetizzato dall'espressione
“provvedimento amministrativo" è indefettibile, perché ogni definizione è arbitraria e molti atti,

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normalmente considerati provvedimenti, difettano dell'uno o dell'altro, vi sono comunque due caratteri in
assenza dei quali parlare di provvedimento amministrativo ha poco senso:
− l'emanazione a seguito di un procedimento
− l'impugnabilità dinanzi a un giudice, di solito quello amministrativo.
Ciò dipende da:
- un dato storico: storicamente si può osservare che la nozione è nata da due esigenze: la prima è
quella di individuare gli atti impugnabili dinanzi al giudice, distinguendoli da quelli non
impugnabili in quanto strumentali o preparatori e non idonei a ledere un interesse di un privato;
la seconda è quella di individuare l’atto conclusivo del procedimento e i procedimenti ai quali
applicare la disciplina in essa contenuta.

- Un dato normativo: le uniche norme generali che utilizzano questa nozione sono quelle della l. n.
241/1990 (la quale fino al 2005, conteneva quasi esclusivamente norme sul procedimento, e non
sul provvedimento) e quelle relative alla giustizia amministrativa
Ogni potere amministrativo - cioè ogni potere, conferito dalle norme a una pubblica amministrazione, di
curare
un interesse pubblico emanando un atto produttivo di effetti giuridici anche nei confronti di altri soggetti
deve essere esercitato di regola attraverso un procedimento, soggetto alla disciplina legislativa, che deve
concludersi con un provvedimento impugnabile dinanzi al giudice amministrativo (processo).
Ciò dipende, evidentemente, dal fatto che il potere amministrativo si inquadra nello svolgimento di una
funzione, con quanto ne consegue in termini di disciplina e controllo.
D'altra parte, la combinazione dei due caratteri indicati non consente di definire o delimitare con
precisione la nozione di provvedimento: in primo luogo, perché i due caratteri spesso non sono
compresenti; in secondo luogo, perché ciascuno di essi è a sua volta incerto.
Dal primo punto di vista, è sufficiente osservare che vi sono atti impugnabili dinanzi al giudice
amministrativo pur non essendo stati emanati a seguito di un procedimento e atti emanati a seguito
di un procedimento ma non impugnabili dinanzi ad alcun giudice. I due criteri di definizione,
quindi, non coincidono, e stabilire se uno dei due debba prevalere sull'altro, nella definizione del
provvedimento, sarebbe arbitrario.
Dal secondo punto di vista, da un lato, la nozione di procedimento è a sua volta imprecisa, essendo
utilizzata ma non definita dalla legge. Dall'altro, la distinzione tra provvedimenti e atti strumentali è
incerta e la giurisprudenza ammette spesso l'impugnabilità di atti endo-procedimentali che in concreto
possano essere lesivi, come un bando di concorso o un piano regolatore adottato dal comune ma non
ancora approvato dalla regione.

1.3. I caratteri
Il provvedimento è un atto di esercizio di un potere quindi:
-È unilaterale che produce effetti giuridici anche nei confronti di soggetti diversi da quello che lo
emana
-È un atto tipico che trova il proprio fondamento in una norma, anche se non necessariamente in una
legge. La tipicità del provvedimento è conseguenza del principio di tipicità dei poteri
amministrativi.
-È un atto di svolgimento di una funzione
-È un atto impugnabile dinanzi a un giudice di regola quello amministrativo.
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Dalle norme in materia di giustizia amministrativa, poi, derivano ulteriori caratteri come la ricorribilità in
sede contenziosa; l’annullabilità del provvedimento invalido da parte del giudice amministrativo; il
divieto di annullamento a carico del giudice ordinario e la disapplicabilità da parte di questo giudice.
Le norme del nuovo capo IV-bis della legge 241 codificano ulteriori caratteri come la soggezione del
provvedimento alla revoca, alla sospensione e all’annullamento d’ufficio il quale è un privilegio della
P.A., alla quale è consentito di far valere essa stessa l’invalidità dei propri atti.

2. AMBITO DELLA NOZIONE


Stabilire quale carattere sia necessario per poter includere un atto nella nozione di provvedimento è
arbitrario e inutile. La nozione di provvedimento è imprecisa.

2.1. Provvedimenti amministrativi e altri atti di pubblici poteri


I provvedimenti amministrativi sono atti di esercizio di poteri amministrativi. NON sono provvedimenti
gli atti di esercizio della funzione legislativa e di quella giurisdizionale. Ad esempio le c.d. leggi-
provvedimento sono leggi, soggette al relativo regime giuridico, e non provvedimenti amministrativi.
La legge esclude l’impugnabilità degli atti politici, come quelli con cui il governo regola le relazioni
internazionali ad esempio. Si tratta di atti posti in essere da un organo costituzionale nell’esercizio della
funzione di governo; non essendo atti di svolgimento di una funzione amministrativa essi sono sottratti al
regime tipico del provvedimento amministrativo.
Sono soggetti al regime del provvedimento gli atti di alta amministrazione, come i provvedimenti di
nomina o trasferimento di alti dirigenti amministrativi o il decreto di scioglimento di un consiglio
comunale.
Si può riconoscere la natura di provvedimento, invece, agli atti di altri organi costituzionali o di rilievo
costituzionale, che possono essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo.

2.2. Provvedimenti amministrativi e atti privati


I provvedimenti amministrativi sono atti unilaterali, quindi non sono tali gli accordi, i quali sono soggetti
a una disciplina ispirata a quella del contratto. Non sono provvedimenti i contratti delle P.A.
Non sono soggetti al regime del provvedimento gli atti di esercizio di poteri privati (come il recesso da
un contratto e la costituzione in mora del debitore) posti in essere dalle pubbliche amministrazioni, non
molto diversamente che dai soggetti privati. Ciò vale anche per atti che, fino a tempi molto recenti, erano
giustamente considerati provvedimenti, come quelli inerenti al rapporto di lavoro con le pubbliche
amministrazioni: a seguito della contrattualizzazione della disciplina e, soprattutto, della devoluzione
delle relative controversie alla giurisdizione ordinaria, gli atti delle pubbliche amministrazioni come
datori di lavoro non hanno più un regime differenziato rispetto a quelli dei datori di lavoro privati.
Non a caso, da alcuni anni si pone anche il problema di qualificare determinati atti emanati da soggetti
privati come provvedimenti e, soprattutto, dell'applicazione a essi del regime tipico del provvedimento.
Inoltre, la giurisprudenza ammette la giurisdizione del giudice amministrativo sugli atti emanati dai
concessionari di opere pubbliche e di servizi pubblici in sede di scelta dell'altro contraente. Ma anche in
altre materie la legge assoggetta alla giurisdizione amministrativa gli atti "delle amministrazioni
pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati" (art. 34, d.lgs. n. 80/1998).
La scienza giuridica tende a rifiutare la qualificazione di questi atti come provvedimenti, ritenendo che
un provvedimento amministrativo possa essere emanato solo da un soggetto pubblico.

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Occorre però considerare la pluralità di nozioni di pubblica amministrazione: la mobilità dei confini della
pubblica amministrazione si riflette inevitabilmente sui confini del provvedimento amministrativo.
Il problema della qualificazione, comunque, è poco importante, mentre possono porsi delicati problemi di
regime giuridico, come quello dell'applicazione a questi atti delle previsioni - o di singole previsioni -
della legge n. 241/1990 e quello della loro sindacabilità per eccesso di potere.

2.3. Atti normativi e atti amministrativi generali


Agli atti normativi emanati dalle pubbliche amministrazioni, come molti statuti e regolamenti, si
applica il regime giuridico del provvedimento amministrativo: sono soggetti alla disciplina legislativa
del procedimento, impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (in quanto "atti della pubblica
amministrazione", ai sensi dell'art. 113 cost.), disapplicabili da quello ordinario e così via.
Dal contenuto normativo, peraltro, derivano alcune particolarità rispetto a tale regime.
1. In primo luogo, la Costituzione provvede a ripartire tra i diversi livelli di governo non solo la potestà
legislativa, ma anche quella di emanare atti normativi subordinati alla legge. In particolare, l'art. 117
cost., come modificato nel 2001, attribuisce la potestà regolamentare allo Stato nelle materie di
legislazione esclusiva, agli enti locali in ordine alle funzioni loro attribuite, alle regioni in tutte le altre
materie.
2. questi atti hanno i caratteri tipici delle fonti del diritto:
− devono essere pubblicati e la loro ignoranza è inescusabile;
− vanno interpretati secondo i principi stabiliti dalle preleggi;
− non possono essere derogati da atti puntuali e la loro violazione dà luogo a illegittimità per
violazione di legge;
− nel caso di loro violazione o erronea applicazione è ammesso il ricorso in cassazione per
violazione di legge e vale per essi il principio iura novit curia.
3. diversamente da quanto accade nel diritto comunitario:
− sono sottratti all'obbligo di motivazione
− ai loro procedimenti non si applicano le norme sulla partecipazione degli interessati.
Sono atti amministrativi generali ( non aventi destinatari determinati né determinabili, ma rivolti a un
gruppo indeterminato di individui), ad esempio, le direttive, i bandi, gli atti con i quali vengono fissate
tariffe o livelli di prestazione nei servizi pubblici, quelli con i quali vengono approvati moduli e prospetti
informativi, i codici di comportamento e così via. Essi sono molto frequenti, anche perché la legge
spesso impone alle autorità amministrative di stabilire criteri generali per la propria azione.
Questi atti sono soggetti al regime del provvedimento ma spesso, proprio per il loro contenuto generale,
non sono autonomamente impugnabili dinanzi al giudice amministrativo, in quanto non ledono
immediatamente l'interesse dei privati. Essi, quindi, devono essere impugnati unitamente agli atti
applicativi: per esempio, il regolamento che ha posto un divieto insieme a quello che irroga la sanzione
per la sua violazione; il bando di un concorso insieme al provvedimento di esclusione dal concorso stesso

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(ma, se il bando contiene clausole immediatamente lesive dei suoi interessi, per esempio stabilendo
requisiti dei quali egli sia sprovvisto, il candidato ha l'onere di impugnarlo immediatamente).

2.4. Altri tipi particolari di atto


Gli atti dichiarativi, conclusivi dei relativi procedimenti, sono di regola dichiarazioni di scienza e non di
volontà. Essi sono per lo più sottratti, almeno in parte, al regime processuale tipico del provvedimento,
perché le norme prevedono la loro impugnazione dinanzi a giudici diversi da quello amministrativo o
predispongono rimedi diversi dall'impugnazione, come la querela di falso. Tuttavia, i relativi
procedimenti sono tendenzialmente soggetti alla disciplina della legge n. 241/1990, al potere di
autotutela dell'amministrazione (per esempio, all'annullamento d'ufficio) e anche a norme processuali
come quelle relative al silenzio dell'amministrazione.
Molte Sanzioni Amministrative sono in buona parte sottratte al regime del provvedimento: il loro
procedimento è disciplinato dalle norme in modo più dettagliato, accentuando la garanzia del
contraddittorio, ed esse sono impugnabili dinanzi a giudici diversi da quello amministrativo. Contro le
sanzioni amministrative pecuniarie, in generale, è dato ricorso al giudice ordinario. Sono impugnabili
dinanzi al giudice ordinario anche altri provvedimenti sanzionatori, come quelli di espulsione
amministrativa dello straniero.
Gli Atti di Controllo sono di regola provvedimenti amministrativi, anche se la giurisprudenza esclude
l'impugnabilità dinanzi al giudice amministrativo di quelli della Corte dei conti.
Gli Atti Strumentali del procedimento possono a loro volta essere provvedimenti.
Gli Atti esternati oralmente (come un ordine di polizia) sono in gran parte sottratti al regime tipico del
provvedimento. Da un lato non richiede un procedimento. Dall'altro, essi non sono di per sé impugnabili
dinanzi al giudice amministrativo: non solo perché le norme sul processo amministrativo richiedono il
deposito del provvedimento impugnato insieme al ricorso, ma anche per l'immediatezza dei loro effetti.
Di regola, infatti, l'illegittimità di un ordine verbale non viene fatta valere in sede di impugnazione, ma in
altri modi: per esempio, impugnando il provvedimento sanzionatorio irrogato in seguito al mancato
rispetto dell'ordine stesso. Per altri aspetti (come la disapplicabilità e la sindacabilità per eccesso di
potere), tuttavia, questi atti condividono il regime del provvedimento.
A maggior ragione, non ha senso qualificare come provvedimenti le operazioni materiali poste in essere
dall’amministrazione, come la disciplina del traffico automobilistico: esse non sono provvedimenti, ma
atti di esecuzione di provvedimenti.

3. PROFILI STRUTTURALI
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Individuare i requisiti che un atto deve avere per essere un provvedimento, cioè un atto di esercizio di un
potere amministrativo, attiene al problema della struttura del provvedimento: per esempio, riguarda lo
stabilire se una certa sanzione amministrativa è stata irrogata, cioè se con un certo atto il relativo potere è
stato esercitato e l'obbligazione pecuniaria è sorta. Diversamente, il problema dei caratteri del
provvedimento concerne l'individuazione dei caratteri che differenziano il provvedimento dagli altri atti
giuridici: per esempio, determinare se l'atto di irrogazione di una sanzione pecuniaria è o non è un
provvedimento amministrativo.

3.1. Esistenza e requisiti del provvedimento


Spesso si pone il problema di stabilire se un provvedimento amministrativo esiste, cioè se una certa
dichiarazione può essere considerata un efficace esercizio del relativo potere amministrativo. Il problema
dell’esistenza è distinto da quello della validità: un provvedimento può essere esistente ma invalido. Il
provvedimento potrà essere annulato dal giudice o dall’amministrazione stessa ma, fino a quando ciò
non avvenga, rimane esistente e produce i suoi effetti.
In altre ipotesi, la difformità è talmente grave da rendere la fattispecie concreta non riconoscibile
come provvedimento: ciò avviene, appunto, quando mancano i requisiti essenziali di quest'ultimo.
La legge 241/1990 stabilisce che è nullo il provvedimento che manca degli elementi essenziali. Ma la
legge non individua questi elementi essenziali. La nuova norma è destinata ad avere un’applicazione
molto sporadica, dato che le ipotesi di nullità per l’assenza di un elemento che può dirsi essenziali sono
estremamente rare nella pratica.
La legge pone all’interprete l’individuazione degli elementi del provvedimento.

3.2. Il soggetto
Il soggetto che emana il provvedimento è di regola una pubblica amministrazione. Vanno considerate le
nozioni di attribuzione, competenza e legittimazione.
-La competenza è riferita al singolo ufficio.
-L’attribuzione è riferita all’intera amministrazione, per cui si dice che la competenza è misura
dell’esercizio dell’attribuzione. Il provvedimento emanato in difetto assoluto di attribuzione è
nullo e non produce alcun effetto; quello viziato da incompetenza è soltanto annullabile, quindi
produce provvisoriamente i suoi effetti.
-I fatti di legittimazione costituiscono circostanze alle quali le norme condizionano il legittimo
esercizio del potere: ad esempio la regolare investitura o convocazione dell’organo collegiale.

3.3. I presupposti
I presupposti del provvedimento sono le circostanze di fatto e le situazioni giuridiche che ne
consentono l’emanazione. Presupposto di un provvedimento può essere anche un atto della stessa o di
un’altra amministrazione: può trattarsi di un atto strumentale previsto dalle norme o di un autonomo
provvedimento, detto atto presupposto. Nell’uno e nell’altro caso, l’eventuale invalidità di questi atti
pone due problemi: quello della loro impugnazione e quello degli effetti del loro annullamento sul
successivo provvedimento. In ordine al primo problema, l’illegittimità dell’atto strumentale si fa valere
impugnando il provvedimento finale. Se invece, l’illegittimità del provvedimento finale dipende da quella
di un autonomo provvedimento (cioè di un atto presupposto), occorre impugnare l’uno e l’altro. Per
quanto riguarda il secondo, l’annullamento di questi atti determina di regola l’illegittimità derivata.
L'urgenza costituisce un particolare presupposto del provvedimento. Come in altri rami del diritto
determinati poteri (ai decreti legge), possono essere esercitati solo in sua presenza: per esempio, quello di
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omettere la comunicazione di avvio del procedimento o di ricorrere alla trattativa privata per la
conclusione di un contratto. A volte il potere in questione è quello di emanare un provvedimento
amministrativo: l'urgenza consente alle autorità amministrative, per esempio, di occupare, requisire o
disporre di beni privati o di emanare un atto di competenza di un altro organo. Gli atti così emanati sono
detti Atti Necessitati.
Se emanati in difetto del presupposto dell'urgenza, essi sono ovviamente illegittimi. Nelle ipotesi appena
indicate, il presupposto del provvedimento è indicato in modo generico (" in caso di urgenza ... "), ma il
suo contenuto è indicato dalle norme. In altre ipotesi, anche il contenuto del provvedimento è generico,
perché le norme attribuiscono alle autorità amministrative il potere di adottare, in caso di urgenza, "i
provvedimenti più opportuni", "le misure adeguate" e via dicendo. Si tratta di previsioni volte a fare
fronte a situazioni non prevedibili né tipizzabili, come quelle determinate da catastrofi naturali.
Si parla, in questi casi, di ordinanze d'urgenza o di necessità.

3.4. La volontà e i motivi


Il provvedimento è sempre un Atto Volontario, cioè voluto dal soggetto che lo emana, che è un organo
ben identificabile. Esso è, di regola, anche una dichiarazione di volontà, in quanto anche il suo
contenuto è voluto. La volontà del contenuto dell’atto è una volontà procedimentale perché si forma
progressivamente e, per lo più, risulta dall’apporto di diversi soggetti nel corso del procedimento. Inoltre,
non diversamente da quanto stabilito dal codice civile per il contratto, se la volontà manca, non vi è un
provvedimento; invece, se la volontà è viziata, un provvedimento è identificabile.
A differenza di quanto accade per il contratto, tuttavia, l'unilateralità del provvedimento e la sua normale
forma scritta fanno sì che difficilmente per esso si ponga il problema dell'assenza di volontà. I vizi della
volontà, in quanto tali, non rilevano in ordine alla validità del provvedimento, se non in quanto si
traducano in un suo vizio tipico: per esempio, l'errore di fatto può dare luogo a eccesso di potere per
travisamento dei fatti o per errore sui presupposti. Ciò dipende semplicemente dalla circostanza che le
norme (in materia di giustizia amministrativa) prevedono per il provvedimento cause di annullamento
diverse da quelle previste (dal codice civile) per il contratto.
Per la teoria del provvedimento è poco utile la nozione di causa.
Non che la causa non sia individuabile nei vari tipi di provvedimento: tuttavia, l'assetto di interessi
realizzato dal provvedimento non ha bisogno di alcuna giustificazione ulteriore rispetto alla
valutazione implicita nell'attribuzione del potere amministrativo da parte della norma.
Hanno rilievo giuridico i MOTIVI del provvedimento. Essi coincidono con il perseguimento:
− dell'interesse pubblico a tutela del quale il potere amministrativo è attribuito
− degli altri interessi che l'amministrazione deve prendere in considerazione.
Il provvedimento è illegittimo se i suoi motivi non coincidono con la tutela degli interessi in questione.
Ciò è alla base, ovviamente, dell'obbligo di motivazione. L’operazione giuridica costituita dal
provvedimento
deve trovare una giustificazione in esso. Ciò spiega la regola secondo la quale, in caso di pluralità di
motivi del
provvedimento, è sufficiente che uno solo di essi sia sufficiente per giustificare o sorreggere l’atto,
rendendolo legittimo.

3.5. Il contenuto

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Il contenuto del provvedimento dipende dal tipo di potere esercitato e può, quindi, essere il più vario:
l'autorizzazione a svolgere un'attività, il trasferimento della proprietà di un bene o l'attribuzione a esso di
una qualificazione giuridica, l'attribuzione di una somma di denaro a un privato, l'irrogazione di una
sanzione e così via. Esso è di regola riconducibile in parte alle previsioni normative, in parte alle
valutazioni dell'amministrazione. È un elemento necessario, in assenza del quale (per esempio, se
manca l'indicazione dell'attività autorizzata o del bene espropriato) non vi è alcun provvedimento.
L’assenza o l’indeterminabilità del contenuto sono solo ipotesi teoriche, ma la nozione è rilevante per vari
aspetti:
-In primo luogo, per l’identificazione del provvedimento e del potere con esso esercitato, che va
operata sulla base del contenuto piuttosto che del nomen attribuito all’atto.
-In secondo luogo, per l’applicazione di norme che si riferiscano soltanto a determinati atti, indicati
in base a qualità del contenuto.
-In terzo luogo, per valutare la tempestività di un ricorso giurisdizionale.
-In quarto luogo, per verificare se il provvedimento è addetto da eccesso di potere per disparità di
trattamento o per contraddittorietà tra provvedimenti.
Peculiarità del provvedimento è la formazione progressiva del contenuto. Il contenuto dipende dai vari
apporti e dalle diverse attività compiute nel corso del procedimento. Du
Due particolari categorie di provvedimenti si distinguono per quanto riguarda il contenuto:
1. I provvedimenti negativi sono soggetti allo stesso regime giuridico, anche processuale, del
provvedimento positivo: per esempio, devono essere motivati e possono essere annullati dal giudice
amministrativo su richiesta di chi aspiri a un provvedimento (positivo) favorevole.
2. Le decisioni amministrative presuppongono un conflitto, tra l’amministrazione e l’interessato/i, e sono
emanate nel perseguimento non solo dell’interesse al contenuto del provvedimento, ma anche
dell’interesse della giusta soluzione di quel conflitto: hanno contenuto simile alle sentenze. Molti atti
delle autorità indipendenti rientrano in questa categoria (atti accertamento tributario).

4. L’ESTERNAZIONE
Come ogni atto giuridico, il provvedimento deve avere un’esternazione: perchè l’atto esista, non basta
che vi sia la volontà di emanarlo, ma è necessario che questa volontà venga manifestata.

4.1. L’esternazione scritta


In Italia, non vi sono regole generali che impongano una determinata forma di esternazione: quindi, si
afferma normalmente il principio della libertà delle forme di esternazione. Tuttavia, la forma normale è
senz'altro quella scritta, che in molti casi è imposta dalle norme: per esempio, quando sono previsti
pareri o controlli sull'atto. L’obbligo di comunicazione del provvedimento agli interessati rende
necessaria la sua redazione per iscritto.
I provvedimenti esternati in forma scritta hanno spesso una struttura formalizzata: intestazione,
preambolo, dispositivo, motivazione, luogo, data, sottoscrizione, indicazione del termine e, indicazione
delle autorità a cui è possibile ricorrere contro il provvedimento. Ma la struttura può essere diversa, per
via del principio della libertà delle forme: è necessario soltanto che il testo contenga alcune indicazioni
essenziali (come l'autorità emanante, l'oggetto e il contenuto) in assenza delle quali l'atto non è
riconducibile a un provvedimento e, quindi, è, come tale, inesistente.
Se manca la sottoscrizione, il provvedimento è inesistente, mentre se essa è illeggibile il provvedimento
è illegittimo, a meno che - in base a elementi come la dicitura dattiloscritta o il timbro apposto sull'atto -
sia ugualmente possibile l'identificazione del funzionario che la ha apposta.
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Il testo può essere redatto a stampa o con scrittura a mano o a macchina; esso non deve contenere lacune,
aggiunte o correzioni. Non c’è nessun motivo per utilizzare un linguaggio diverso da quello comune. La
legge stabilisce che gli atti amministrativi sono di norma predisposti tramite sistemi informativi
automatizzati e ammette anche la possibilità che la stessa emanazione del provvedimento avvenga
mediante sistemi informatici o telematici: si parla di atto amministrativo informatico.
Manca una disciplina legislativa dell’interpretazione del provvedimento. Alcune volte, la
giurisprudenza, applica per lo più le norme del codice civile relative all’interpretazione del contratto.
Altre volte, essa applica regole ulteriori, come i principi di imparzialità e buon andamento, quelli del
diritto comunitario e il ricorso a provvedimenti precedenti.

4.2. Le altre forme di esternazione


Hanno esternazione orale, costituita dalla proclamazione del risultato della votazione da parte del
presidente, le deliberazioni degli organi collegiali, per i quali vi è però anche un’ulteriore forma di
esternazione, data dal verbale il quale è condizione di esistenza della deliberazione.
Altre forme di esternazione:
-Provvedimento implicito risultante da un altro provvedimento o atto che lo presuppone (esclusione
di una impresa da una gara o il diniego di un permesso di costruire).
-Comportamento concludente che mostra la volontà dell’amministrazione pur non essendo volto a
manifestarla (erogazione di una somma di denaro che mostri la concessione di un finanziamento)
-Via di fatto cioè l’esecuzione di un provvedimento non emanato o non comunicato al destinatario
(presa di possesso di un bene immobile di proprietà di un privato, da parte della forza pubblica,
in esecuzione di un provvedimento di espropriazione ignoto all’espropriato).

La distinzione tra queste figure non è facile, né particolarmente importante, dato che la giurisprudenza
usa queste espressioni in modo promiscuo. In base al principio di legalità e alla regola per cui il
procedimento deve concludersi con un provvedimento espresso (art. 2, legge n. 241/1990), occorrerebbe
escluderne l'ammissibilità, ma la giurisprudenza spesso le ammette per tutelare da provvedimenti non
debitamente comunicati.

4.3. La motivazione
A norma dell’ art. 3 l. n. 241/1990 l’esternazione del provvedimento deve comprendere non solo
l’indicazione della decisione dell’amministrazione, ma anche la sua motivazione a pena di illegittimità
del provvedimento. Le uniche eccezioni alla regola riguardano gli atti normativi e quelli a contenuto
generale.
L’obbligo di motivazione è volto a favorire allo stesso tempo la trasparenza amministrativa e il
sindacato giurisdizionale. La motivazione serve sia agli interessati sia al giudice. La norma precisa quale
deve essere il contenuto della motivazione:
1. essa deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche del provvedimento.
2. da essa devono emergere le risultanze dell’istruttoria: di quest’ultima la motivazione deve essere una
sintesi. La legge si preoccupa che la decisione racchiusa nel provvedimento sia la corretta conclusione del

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procedimento stesso. In altri termini, la legge si preoccupa non solo che i motivi siano espressi, ma
anche che essi siano fondati.
Il grado di analiticità e di esaustività della motivazione dipenda dal tipo di provvedimento. Per i
provvedimenti sostanzialmente vincolati per esempio, non essendovi scelte compiute
dall’amministrazione, non vi sono motivi da esternare. Per questi provvedimenti non si pone un problema
di motivazione in senso stretto, ma di giustificazione dell’esercizio del potere, cioè di indicazione delle
norme applicate.
Indipendentemente dall’applicazione della norma in questione, la giurisprudenza sulla motivazione
oscialla tra una concezione formalista, che la induce a richiedere che la motivazione vi sia, cioè che i
motivi siano espressi (la giurisprudenza tende a escludere che i voti riportati dai candidati negli esami e
nei concorsi pubblici debbano essere motivati), e una concezione sostanzialista, che la induce a
concentrarsi sui motivi piusttosto che sulla loro espressione (la giurisprudenza ammette a volte che la
motivazione, carente al momento dell’emanazione del provvedimento, possa essere integrata
successivamente anche di fronte al giudice).
La legge ammette che la motivazione rinvii a un altro atto dell’amministrazione, dal quale risultino le
ragioni della decisione: per esempio, il diniego di permesso di costruire può essere motivato rinviando al
parere negativo della commissione edilizia (motivazione per relationem).

4.4. La comunicazione agli interessati


L’ esternazione del provvedimento implica di per sé una forma di comunicazione: fino a quando la
dichiarazione non esce dalla sfera individuale del suo autore, essa non può neanche essergli imputata. La
semplice emanazione del provvedimento normalmente non assicura il raggiungimento del suo scopo.
Il provvedimento deve essere comunicato agli interessati, in forma individuale (notificazione) o
collettiva (pubblicazione, alla quale si ricorre se gli interessati sono numerosi o non sono determinabili).
L'obbligo dell'amministrazione di procedere alla comunicazione non deriva da una norma espressa,
ma dal principio di pubblicità e da varie previsioni normative. Infatti, la legge n. 241/1990 impone
l'obbligo di conclusione del procedimento con un "provvedimento espresso"; nell'ammettere la
motivazione per relationem, fa riferimento alla comunicazione della decisione; disciplina in via generale
le notificazioni degli atti del procedimento ai privati.
Le norme in materia di giustizia amministrativa, poi, parlano di comunicazione degli atti soggetti a ricorso
amministrativo, di deposito dell'atto impugnato dinanzi al giudice amministrativo e di decorso del
termine di impugnazione dalla comunicazione del provvedimento.
Anche la giurisprudenza afferma che perché l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine
possa dirsi rispettato è necessario che il provvedimento venga non solo emanato, ma anche comunicato
agli interessati, entro il termine stesso.
Poiché la comunicazione non attiene alla formazione del provvedimento, ma ha ad oggetto un
provvedimento già perfetto, la violazione dell'obbligo di comunicarlo è sanzionata dall'ordinamento
non con l'illegittimità del provvedimento (la cui legittimità va valutata con riferimento al momento della
sua emanazione), ma in altri modi: in generale, con il mancato decorso del termine di impugnazione e,
ove si sia prodotto un danno, con la responsabilità civile.
Per i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati (espropriazioni e sanzioni
amministrative) vi è una sanzione più forte, data dall’ inefficacia, perché essi sono atti recettizi: fino a
quando non vengono comunicati a ciascun destinatario, essi non producono effetti nei suoi confronti. (art.
21 bis l. n. 241/1990). Questa provvisoria inefficacia può diventare definitiva, nel senso che, decorso un
certo termine, può venir meno il potere di emanare il provvedimento.
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A volte le norme stabiliscono le modalità di comunicazione, disponendo per esempio che certi atti siano
pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, o che di essi sia data notizia con affissioni. In assenza di simili norme,
la pubblicazione non costituisce adempimento dell’obbligo di comunicazione.
Oggetto della comunicazione sono l’avvenuta emanazione dell’atto e il suo contenuto. L’art. 3. C. 4 l.
n. 241/1990 afferma che in ogni atto notificato nel corso del procedimento devono essere indicati
l’autorità alla quale è possibile ricorrere contro di esso e il relativo termine. Per i provvedimenti
favorevoli al destinatario (autorizzazioni) la mancata comunicazione è sanzionata con l’esperibilità dei
rimedi contro il silenzio-rifiuto o con la formazione del silenzio-assenso.Per i provvedimenti sfavorevoli
al destinatario (come le espropriazioni e le sanzioni), infine, la mancata comunicazione può far sì che il
provvedimento non produca effetti, dato che l'esercizio dei relativi poteri è spesso soggetto a termini
perentori.

4.5. Il c.d. silenzio della pubblica amministrazione


Il comportamento inerte dell’amministrazione, in ordine all’emanazione di un atto, è definito silenzio.
Può trattarsi del provvedimento o di un atto strumentale: in ogni caso, il risultato è la mancata
emanazione del provvedimento e la violazione dell’obbligo di provvedere. Le norme e la giurisprudenza
si preoccupano in vari modi di rimediare a questo inadempimento: con misure di tipo sostanziale (come il
silenzio-assenso) o processuale (come il ricorso contro il silenzio-rifiuto), oltre che con altre meno
rilevanti.
Il problema del silenzio non riguarda tutte le ipotesi di comportamento inerte dell’amministrazione, ma
solo quelle relative all’esercizio del potere amministrativo: quindi, quelle relative al compimento di atti
del procedimento o all’emanazione del provvedimento. In particolare, se l’inerzia riguarda
l’adempimento di un’obbligazione, si ha una normale ipotesi di inadempimento, soggetta alla
disciplina del codice civile.Per procedimenti a iniziativa d'ufficio, che si concludono con provvedimenti
sfavorevoli per il destinatario, il problema di tutela dell'interessato è ovviamente minore, anche perché, in
molti casi, i provvedimenti in questione non possono più essere emanati dopo il decorso di un certo
termine.
Il problema si pone, quindi, essenzialmente per i procedimenti a iniziativa di parte, nei quali il silenzio
prolunga una situazione di mancato soddisfacimento dell'interesse del privato.
Il silenzio-assenso è utilizzabile solo per alcuni provvedimenti. Si tratta di procedimenti a iniziativa di
parte, nei quali la discrezionalità dell’amministrazione è assente o molto limitata e il provvedimento
amministrativo ha essenzialmente una funzione di controllo in ordine alla sussistenza dei presupposti
richiesti dalle norme per la produzione di un certo effetto giuridico.
Più naturale, anche se meno favorevole all'interessato, è la soluzione inversa, quella di desumere dal
silenzio la volontà dell'amministrazione di non emanare il provvedimento (positivo) richiesto,
equiparandolo al provvedimento negativo. Il Silenzio-Rifiuto, infatti, è la soluzione più frequente.
A volte le norme equiparano esplicitamente il silenzio al provvedimento negativo, stabilendo per esempio
che il mancato rilascio di un'autorizzazione entro un certo termine deve intendersi come diniego di
autorizzazione o che il mancato accoglimento di un ricorso equivale al suo rigetto: si parla, appunto, nel
primo caso di Silenzio-Diniego, nel secondo di Silenzio-Rigetto, in entrambi di silenzio significativo
negativo (contrapposto al silenzio significativo positivo, che è il silenzio-assenso). L'equiparazione è
comunque utile per l'interessato, che contro il silenzio potrà rivolgersi al giudice amministrativo.

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In assenza di norme esplicite, il Silenzio dell'amministrazione a fronte di una domanda del privato
costituisce inadempimento (si parla, appunto, di Silenzio-Inadempimento), contro il quale l’interessato
può ricorrere al giudice amministrativo a partire dalla scadenza del termine del procedimento.
Il codice del processo amministrativo detta un rito abbreviato e semplificato per il ricorso contro il
silenzio dell’amministrazione e stabilisce che il giudice ordina all’amministrazione, rimasta inerte, di
provvedere entro un termine, decorso il quale il giudice può nominare un commissario. Il giudice non
deve limitarsi ad accertare l’inadempimento dell’amministrazione, ma può, anche pronunciarsi sulla
pretesa dell’interessato; può ordinare all’amministrazione non solo di provvedere, ma anche come
provvedere.

5. L’efficacia e l’esecuzione
All'emanazione di un provvedimento l'ordinamento si ricollegano sempre determinati effetti. Si
consideri, per esempio, l'obbligo, per l'autorità emanante, di comunicare il provvedimento all'interessato o
l'obbligo, per le pubbliche amministrazioni interessate, di dare esecuzione al provvedimento stesso.

5.1. Regime giuridico ed efficacia del provvedimento


Gli effetti giuridici del provvedimento non sono diversi da quelli di altri atti giuridici, come la legge, la
sentenza e il contratto: si tratta della costituzione, modifica o estinzione di situazioni giuridiche.
I singoli tipi di provvedimento si differenziano in base ai loro effetti giuridici.
Indipendentemente dal suo contenuto, all’emanazione di un provvedimento l’ordinamento ricollega
sempre determinati effetti come:
-Obbligo per l’autorità emanante, di comunicare il provvedimento all’interessato;
-L’obbligo, per le P.A. interessate, di dare esecuzione al provvedimento stesso;
-I poteri di annullamento e di sospensione del giudice amministrativo;
-L’obbligo per lo stesso giudice amministrativo, di applicare il provvedimento efficace.
Questi effetti vengono riassunti nell’espressione effiacia legale mentre gli effetti derivanti dal contenuto
del provvedimento vengono riassunti nell’espressione efficacia precettiva.
All’efficacia del provvedimento viene normalmente ricondotta l’autotutela amministrativa, espressione
con la quale si indicano fenomeni diversi accomunati dalla possibilità, per l’amministrazione, di fare a
meno del giudice:
-Autotutela decisioria: cioè il potere di rimuovere o modificare precedenti provvedimenti, senza un
processo di cognizione.
-Autotutela esecutiva: cioè il potere di portare a esecuzione coattivamente i propri provvedimenti,
senza un processo di esecuzione.

5.2. Validità ed efficacia


Il provvedimento può essere esistente, cioè avere tutti i requisiti che consentono di riconoscerlo come
provvedimento, ma invalido, in quanto affetto da un vizio, cioè da una difformità rispetto alla
fattispecie normativa.
Per il provvedimento l’ordinamento tende naturalmente a far conseguire l’efficacia alla validità e
l’inefficacia all’invalidità.
Il provvedimento invalido è di regola annullabile, quindi provvisoriamente efficace: i suoi effetti
giuridici si producono, ma sono destinati a venire meno quando il provvedimento venga annullato.
Può aversi, dunque, una temporanea disgunzione tra validità e efficacia, nel senso che il provvedimento
può essere invalido ma efficace. La disgiunzione viene meno con l’annullamento del provvedimento, ma
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può anche diventare definitiva con il decorso dei termini per ricorrere al giudice amministrativo, piuttosto
brevi: si ha in questo caso l’inoppugnabilità del provvedimento.
Il provvedimento inoppugnabile, se è invalido, rimane tale e può sempre essere annullato d’ufficio
dall’amministrazione e disapplicato dal giudice ordinario.
Lo stesso effetto di stabilizzazione può essere prodotto, prima che il provvedimento diventa
inoppugnabile, dall’acquiescenza cioè dalla spontanea accettazione degli effetti del provvedimento stesso
da parte dell’interessato, espressa o risultante in modo inequivocabile da atti o comportamenti che
dimostrino la volontà di non contestare il provvedimento. La disgiunzione può operare anche in senso
inverso, quando il provvedimento è valido ma inefficace per esempio perché è soggetto a condizione
sospensiva.

5.3. L’efficacia soggettiva


Il provvedimento può avere un solo destinatario (individuale) o una pluralità di destinatari. Nella
seconda ipotesi si distingue tra:
-Atti generali: come i piani regolatori e i bandi. Essi sono rivolti a un gruppo non determinato di
individui, ma il loro contenuto è unitario: di conseguenza, il loro annullamento determina il
venire meno dei loro effetti nei confronti di tutti i destinatari.
-Atti collettivi: hanno un contenuto unitario, ma i loro destinatari sono determinati o determinabili
(scioglimento di un consiglio comunale). Anche in questo caso, l’annullamento elimina gli effetti
per tutti i destinatari.
-Atti plurimi: sono scindibili in tanti provvedimenti quanti sono i destinatari: vi è una pluralità di
provvedimenti, aventi contenuto identico e destinatari diversi. L’annullamento dell’atto da parte
del giudice amministrativo va a beneficio dei soli destinatari che lo abbiano impugnato, mentre
esso rimane efficace nei confronti degli altri.

5.4. Luogo e tempo degli effetti


Gli effetti del provvedimento sono limitati nel tempo e nello spazio.
Spazio: l’efficacia di molti provvedimenti trova un limite naturale nei confini dello Stato. A volte questo
limite è dato dai confini UE. Non sono mancati casi in cui anch questo limite è stato superato. L'ambito
territoriale di competenza dell'autorità emanante solo in alcuni casi costituisce un limite all'efficacia del
provvedimento, salvo che per pochi casi: ciò avviene, per esempio, per la fissazione delle aliquote dei
tributi locali, ma non per il rilascio della patente di guida.
Tempo: occorre considerare sia il momento dell’inizio degli effetti, sia quello della loro cessazione. Il
primo coincide con con quello dell’emanazione del provvedimento (esternazione). La retroattività del
provvedimento dipende a volte dalla natura stessa dell'atto (non possono che essere retroattivi gli atti di
controllo, di annullamento o di convalida); però, la giurisprudenza tende a escludere che il provvedimento
possa essere retroattivo, a meno che arrechi un vantaggio al destinatario o si tratti di legittimare una
situazione di fatto corrispondente a una imprescindibile necessità pubblica. Per i regolamenti e per le
sanzioni amministrative, poi, la retroattività è esplicitamente esclusa dalla legge (art. 11, preleggi; art.
1, legge n. 689/1981).

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Il problema della cessazione degli effetti si pone solo per i provvedimenti a efficacia durevole, come gli
atti normativi, autorizzazioni commerciali, non per quelli a efficacia istantanea come espropriazioni e
sovvenzioni.
La cessazione può essere auotmatica, derivando per esempio dal decorso del termine finale, o
volontaria, derivando da un atto come la revoca.
La durata del rapporto costituito dal provvedimento può normalmente essere prolungata con un
provvedimento di proroga.
Anche dopo la cessazione degli effetti del provvedimento è ammissibile la sua rinnovazione cioè
l’emanazione di un nuovo provvedimento con identico contenuto, che ne prolunga gli effetti. La
rinnovazione si distingue dalla proroga in quanto, piuttosto che prolungare la durata del precedente
rapporto, ne costituisce uno nuovo.

5.5. L’esecuzione

L'esecuzione del provvedimento costituisce un'attività di concretizzazione dell'effetto giuridico o di


adeguamento ad esso della realtà di fatto. Non tutti i provvedimenti amministrativi, quindi, richiedono
un'attività di esecuzione. Non la richiedono, per esempio, i provvedimenti negativi e quelli dichiarativi.
La richiedono i provvedimenti dai quali sorgono obblighi, come quello di espulsione (che impone allo
straniero di uscire dal territorio nazionale e, in alcuni casi, alla forza pubblica di accompagnarlo alla
frontiera) e gli atti di imposizione tributaria (che impongono ai destinatari il pagamento di somme di
denaro). Inoltre, non tutte le attività logicamente conseguenti al provvedimento costituiscono esecuzione
di esso: non lo è, per esempio, lo svolgimento dell'attività autorizzata. Non costituiscono esecuzione del
provvedimento neanche le misure repressive adottate nel caso di mancata ottemperanza, che consistono
piuttosto in ulteriori provvedimenti, come le diffide e le sanzioni amministrative.
L'esecuzione può competere all'amministrazione stessa o ad altri soggetti e può consistere nel
compimento di sola attività materiale (come nel caso del provvedimento di occupazione d'urgenza o
dell'ordine di demolizione) o anche di atti giuridici (come nel caso del bando di concorso o di gara).
Quando l’esecuzione del provvedimento comporta l’emanazione di ulteriori provvedimenti, questi
vengono detti atti esecutivi.

5.6. L’esecuzione forzata amministrativa

L'esecuzione forzata consiste nell'esecuzione del provvedimento contro la volontà dell'interessato, in


presenza di un conflitto. Essa può aversi nel caso di inosservanza, da parte di un privato, dell'obbligo di
eseguire un provvedimento e nel caso in cui vengano frapposte resistenze all'esecuzione da parte
dell'amministrazione: in queste ipotesi, la legge può prevedere che l'amministrazione ponga in essere essa
stessa l'attività spettante al privato o superi la sua opposizione, se necessario con l'uso della forza anche se
la legge stabilisce che ciò può avvenire solo nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge (art.
21-ter c.1, l. n. 241/1990). Poiché con l'esecuzione forzata l'amministrazione risolve il conflitto
instauratosi con il privato, senza la mediazione di un giudice, essa viene normalmente inquadrata nel
fenomeno dell'autotutela.
I provvedimenti suscettibili di esecuzione forzata si dicono esecutori.
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Le modalità di esecuzione sono stabilite dalle singole norme che la prevedono. Può comunque dirsi che ai
vari tipi di obbligo violato corrispondono le diverse forme dell’esecuzione forzata.
L’esecuzione forzata amministrativa richiede di regola un procedimento esecutivo, strutturato in modo
simile al processo esecutivo. La struttura del procedimento dipende dal tipo di obbligo violato.
L’esecuzione forzata è normalmente delimitata dai confini nazionali, nel senso che le autorità nazionali
non possono usare la forza al di fuori di essi. Ma il diritto europeo, determina a volte il superamento di
questi confini in quanto in casi particolari, funzionari di uno stato membro possono usare la forza nel
territorio di un altro Stato membro, per esempio, per inseguire un criminale in fuga o nel corso di
operazioni di polizia congiunte.

6. L’INVALIDITÀ
Come ogni atto di esercizio di un potere, il provvedimento amministrativo è soggetto a una valutazione
di validità, il cui parametro è dato dalle norme che attribuiscono il potere e ne disciplinano l'esercizio.
Invalido è il provvedimento affetto da un vizio al quale l'ordinamento riconosce rilevanza (cioè da una
difformità rispetto al modello delineato da queste norme).
Il provvedimento NON è soggetto a una valutazione di liceità: l’illiceità deriva dalla violazione di norme
impositive di doveri e non di norme attributive di poteri. L’emanazione di un provvedimento può
costituire un illecito e dare luogo a responsabilità civile dell’amministrazione nei confronti del
danneggiato, ma ciò non attiene al regime giuridico del provvedimento.

6.1. Cause ed effetti dell’invalidità


Quando l’ordinamento attribuisce un potere a un soggetto, esso ricollega al valido esercizio di quel potere
la produzione di determinati effetti giuridici. Questi effetti si producono se il potere è validamente
esercitato, cioè se l’atto è conforme alle norme che attribuiscono il potere e ne regolano l’esercizio. Ciò
pone sempre 2 problemi:
-Quando un certo atto è un valido esercizio del potere? In questo caso il problema è quello
dell’individuazione dei vizi rilevanti, cioè delle difformità abbastanza gravi da rendere l’atto
invalido. La brutta grafia, le improprietà di linguaggio e la presenza di un errore di battitura, che
non lascino dubbi sul contenuto dell’atto, certamente non sono difformità rilevanti; l’esercizio
del potere da parte di un soggetto che non ne è titolare certamente lo è. Al di là di questi casi
estremi, l’individuazione dei vizi rilevanti può non essere facile. Per il provvedimento esso è
risolto dalla legge disponendo l’invalidità non solo del provvedimento che violi la legge, ma
anche di quello che non rispetti ulteriori regole d’imparzialità, logicità e coerenza.
-E che cosa succede se non lo è? In questo caso il problema è quello delle conseguenze dei vizi
rilevanti, cioè di come l’ordinamento reagisce all’invalidità.
La soluzione più naturale è quella di ricondurre la produzione degli effetti solo al valido esercizio del
potere: l’atto invalido è qualcodsa di diverso da quello (valido) al quale l’ordinamento ricollega detti
effetti, quindi non li produce. L’ordinamento persegue la corrispondenza tra inefficacie e invalidità con
intensità variabile.
Il normale regime di invalidità delle leggi e delle sentenze è quello dell’annullabilità e non della nullità.
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Il regime di invalidità del provvedimento amministrativo è analogo a quello della legge e della
sentenza: l’annullabilità è la regola, la nullità l’eccezione.
Al giudice amministrativo e alla stessa amministrazione è attribuito il potere di annullare il
provvedimento invalido e al giudice ordinario è attribuito il potere di non applicarlo nel caso concreto.

Art. 21-septies l.n. 241/1990: è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione
del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.
Art. 21-octies l.n. 241/1990: è ANNULLABILE il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.NON è ANNULLABILE il
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il
provvedimento amministrativo non è comunque annulabile per mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
6.2. Invalidità e illegittimità
L’invalidità del provvedimento deriva dalla violazione di norme giuridiche : coincide con l’illegittimità.
Vizi di legittimità tradizionalmente definiti i 3 vizi del provvedimento individuati dalla legge :
- Incompetenza;
- Eccesso di potere;
- Violazione di legge.

I vizi di legittimità sono contrapposti ai vizi di merito (o di opportunità), derivanti dall’inopportunità,


cioè dalla non corrispondenza all’interesse pubblico. Il provvedimento, in altri termini, può essere
perfettamente legittimo, perché conforme alle norme, ma inopportuno, perché inutile o dannoso. I vizi di
merito non sono veri e propri vizi, perché non vi sono regole la cui violazione possa essere verificata.
Il controllo sulla validità del provvedimento è essenzialmente un controllo di legittimità. Il giudice può
soltanto verificare il rispetto delle norme giuridiche, non sostituirsi all’amministrazione nel
perseguimento dell’interesse a essa affidato.
Il giudice amministrativo ha gradualmente imposto alle P.A. il rispetto non solo delle norme scritte, ma
anche dei principi e regole generali, da esso stesso elaborati, tendenti ad assicurare la logicità e la
ragionevolezza dell’azione amministrativa e a favorire l’effettiva realizzazione dell’interesse pubblico.
Il giudice ha ricondotto all’eccesso di potere, e quindi all’illegittimità, le anomalie non costituenti
violazione di norme scritte, ma suscettibili di valutazione oggettiva e non opinabile.
Il controllo del giudice amministrativo sul provvedimento amministrativo è molto più penetrante di quello
svolto da altri giudici su altri atti di esercizio di poteri, in ordine ai quali si verifica essenzialmente il
rispetto delle norme e non il corretto perseguimento del relativo interesse.
La distinzione tra i 3 vizi di legittimità del provvedimento non ha grande rilevanza pratica, perché essi
hanno lo stesso effetto: l’annullabilità.

6.3. L’eccesso di potere

L’eccesso di potere si tratta di una conseguenza della natura funzionale dell’attività amministrativa:
perché il potere amministrativo venga validamente esercitato, non è sufficiente che tutte le norme che
lo riguardano siano rispettate, ma è altresì necessario che le scelte riservate all’amministrazione siano
fatte in modo da assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico.

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L’ecceso di potere è legato al cattivo svolgimento della funzione amministrativa.
La genericità della previsione legislativa relativa all'eccesso di potere e l'impossibilità di ricondurre le
ipotesi di eccesso di potere a norme scritte hanno indotto la giurisprudenza a operare il sindacato per
eccesso di potere attraverso figure sintomatiche corrispondenti a regole il cui rispetto è facilmente
verificabile. La circostanza che queste regole siano state elaborate con riferimento a casi in cui esse erano
state violate, ha fatto sì che esse venissero enunciate in forma negativa (il-logicità, dis-parità di
trattamento, in-giustizia manifesta, difetto di istruttoria e così via). Le figure sintomatiche dell'eccesso di
potere costituiscono un'originale creazione del giudice amministrativo italiano, che si presta molto bene a
un controllo avente per oggetto non direttamente la scelta, ma il modo in cui essa viene fatta: il giudice
non può sindacare nel merito la scelta dell'amministrazione, ma può controllare che non si sia
verificata nessuna di quelle circostanze che normalmente sono indizi di cattivo esercizio del potere.

Tra le figure sintomatiche i confini non sono netti e, nella pratica, avvocati e giudici spesso accostano e
sovrappongono figure diverse:
-Sviamento di potere: figura originaria di eccesso di potere e indica il perseguimento di un fine diverse
da quello per il quale il potere amministrativo è attribuito
-Travisamento dei fatti o errore sui prosupposti: eliminazione della destinazione a campeggio di un’area
per temuto sovraffollamento di una strada diversa da quella dalla quale era previsto l’accesso al
campeggio
-Violazione di circolare: la circolare non è un atto normativo, quindi la sua violazione non da luogo a
violazione di legge. La violazione di circolare avviene in ipotesi come: autorizzazione al trasferimento
di impianto di distribuzione di carburante in violazione delle distanze minime stabilite con circolare
ministeriale.
-Contraddizione tra motivi e dispositivo (o contraddittorietà): approvazione di lavori per un certo
importo, con impiego di una somma superiore.
-Contraddizione tra provvedimenti: diniego di contributo per la ricostruzione di un’unità immobiliare,
motivato con la circostanza che l’edificio risulti abbandonato, seguito da un’ordinanza di demolizione
che accerti che l’edificio è adibito a deposito.
-Disparità di trattamento: mantenimento in servizio di alcuni impiegati che hanno raggiunto i limiti di
età, con esclusione di altri che si trovano nelle stesse condizioni.
-Ingiustizia manifests: esonero per scarso rendimento di un dipendente la cui capacità di lavoro sia stata
limitata da un infortunio sul lavoro.
-Illogicità: disposizioni amministrative che, dopo aver imposto un divieto di circolazione stradale per gli
automezzi pesanti, ne riducono gravemente la portata con numerose deroghe.
-Difetto di istruttoria: chiusura al traffico auto di un’ampia parte del centro storico in assenza di adeguata
istruttoria, relativamente alle esigenze di tutela della stabilità dei palazzi monumentali, alle
conseguenze su abitanti e operatori economici.

6.4. L’incompetenza
All'incompetenza sono normalmente ricondotti i vizi relativi al soggetto. Vi rientra, in primo luogo, il
caso in cui il provvedimento sia stato emanato da un organo diverso da quello competente, nell'ambito
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della stessa amministrazione: per esempio, dal sindaco invece che dal consiglio comunale, dall'assessore
invece che dalla giunta regionale. A seguito dell'introduzione nell'ordinamento del principio di distinzione
tra indirizzo politico e gestione, nell'incompetenza rientrano anche le violazioni delle competenze degli
organi politici (come il ministro e il sindaco) e i dirigenti.
Rientra nell'incompetenza anche il difetto di attribuzione, che si ha quando il provvedimento sia stato
emanato da un organo che, oltre a non essere competente, appartenga ad amministrazione diversa da
quella titolare del potere.
Ciò avviene nei casi meno gravi, nei quali il difetto di attribuzione determina l'incompetenza relativa,
che è una forma di illegittimità. Nei casi più gravi, invece, il provvedimento emanato in difetto di
attribuzione è affetto da incompetenza assoluta, la quale determina carenza di potere e, quindi,
inesistenza del provvedimento. La distinzione tra le due ipotesi è alquanto difficile: il criterio posto dalla
giurisprudenza è quello della titolarità, in capo all'amministrazione che ha emanato l'atto, di funzioni nella
relativa materia: se essa opera in settori del tutto diversi, si ha incompetenza assoluta; se, viceversa, i
compiti in quella materia sono ripartiti tra più amministrazioni, tra le quali quella che ha emanato il
provvedimento, si ha incompetenza relativa.
Infine, nell'incompetenza viene spesso incluso il difetto di legittimazione, quindi vizi come quelli
derivanti dall'incompatibilità, dalla violazione dell'obbligo di astensione, dall'irregolare composizione o
convocazione degli organi collegiali. L’incompetenza è una forma di violazione di legge.

6.5. La violazione di legge


Nell’espressione violazione di legge, il termine “legge” indica le norme giuridiche che disciplinano
l’esercizio del potere amministrativo, comprese quelle consuetudinarie.
La violazione di legge può derivare:
− dalla violazione di norme procedimentali (comprese, ovviamente, quelle della legge n.
241/1990),
− dall'assenza dei presupposti necessari per l'adozione del provvedimento o dalla loro errata
valutazione,
− da vizi dell'esternazione,
− dalla violazione di espliciti divieti contenuti nelle norme e così via.
Nella pratica giudiziaria si distingue la mancata applicazione della norma a un caso da essa contemplato,
dalla falsa applicazione, consistente nell’applicazione della norma a un caso da essa non contemplato o
nell’errata individuazione degli effetti della sua applicazione nel caso concreto.
Vale per il provvedimento amministrativo il principio tempus regit actum: la sua legittimità va valutata
con riferimento alle norme vigenti al momento della sua emanazione, senza che le norme emanate
successivamente incidano su di essa. Può accadere però, che un provvedimento, che doveva essere
considerato valido nel momento in cui è stato adottato, diventi invalido in una fase successiva (invalidità
successiva o sopravvenuta). Ciò può avvenire quando la norma, in base alla quale il provvedimento è
stato emanato, viene annullata o abrogata con effetto retroattivo.
La legittimità del provvedimento amministrativo va valutato anche alla stregua delle norme comunitarie
applicabili: il provvedimento dell'autorità amministrativa nazionale, che violi simili norme, è
illegittimo.
Ciò vale anche nel caso in cui la violazione del diritto comunitario dipende dal rispetto di quello interno,
cioè se il provvedimento rispetta le norme nazionali ma viola quelle comunitarie. Per la diretta
applicabilità del diritto comunitario, infatti, in presenza di un contrasto tra diritto comunitario e diritto
interno le amministrazioni pubbliche devono applicare il primo e non il secondo: se ciò non avviene, il
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provvedimento è illegittimo. La giurisprudenza afferma che se il provvedimento rispetta una norma
nazionale, ma viola una norma comunitaria, occorre disapplicare la prima e, in applicazione della
seconda, dichiarare l’illegittimità del provvedimento.

6.6. L’annullabilità del provvedimento invalido


Il regime del provvedimento invalido segue lo schema dell’annullabilità.
Da un lato l’ordinamento tende a mantenere la corrispondenza tra validità e efficacia e, quindi, a garantire
gli effetti giuridici dei soli provvedimenti validi. Per realizzare questo risultato, esso attribuisce a vari
organi il potere di annullare i provvedimenti invalidi.
Dall’altro, le esigenze di certezza dei rapporti e conservazione dei valori giuridici fanno sì che, fino al
suo annullamento, il provvedimento efficace, anche se illegittimo, debba essere applicato.

La giurisprudenza e il legislatore si preoccupano di evitare l’annullamento di provvedimenti per vizi che


non abbiano effettivamente leso l’interesse protetto. Il legislatore ha inserito nella l.n. 241/1990 la
previsione secondo la quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Questa norma impedisce di annullare provvedimenti pur emanati in violazione di legge.
Nel diritto amministrativo l’annullamento sia giurisdizionale che d’ufficio, opera retroattivamente,
facendo venire meno ex tunc gli effetti del provvedimento. Esso può essere parziale riguardando solo
una parte del contenuto del provvedimento. Gli ulteriori provvedimenti, conseguenziali rispetto a quello
annullato, sono affetti da illegittimità derivata e rimangono esistenti, ma possono essere annullati.
In seguito all’annullamento, l’amministrazione rimane titolare del potere amministrativo, che può essere
nuovamente esercitato evitando di emanare un provvedimento affetto dallo stesso vizio del precedente e
deve adeguare la propria attività alle statuizioni contenute nell’atto di annullamento.

6.7. La nullità

Le ipotesi di nullità sono previste in via generale dall’ art. 21-septies l.n. 241/1990 (è nullo il
provvedimento amministrativo che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in
violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.)
In presenza di un potere amministrativo possono sorgere incertezze e controversie di due tipi:
-Quelle relative alle modalità del suo esercizio
-Quelle relative alla sua esistenza
Per le ipotesi del primo tipo l’ordinamento può scegliere tra lo schema della nullità e quello
dell’annullabilità, per il provvedimento sceglie di regola il secondo. Ma per quelle del primo, non può che
comminare l’inefficacia degli atti di esercizio di poteri inesistenti: altrimenti potrebbero acquistare
efficacia leggi emanate da un consiglio comunale, sentenze pronunciate da un cancelliere, provvedimento
di espropriazione emessi da un sindaco di un comune lontano e quant’altro.
La regola dell’annullabilità del provvedimento invalido implica che i vizi del provvedimento non
pregiudichino la sua efficacia.

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La nullità del provvedimento può ovviamente essere accertata da qualsiasi giudice, compreso quello
ordinario. L’azione di annullamento dinanzi al giudice amministrativo è ora oggetto di una specifica
disciplina da parte del Codice del processo amministrativo.

6.8. Le cause di nullità


La legge 241/1990 art. 21-septies elenca le cause di nullità del provvedimento :
- Tra le cause di nullità, la legge menziona in primo luogo il difetto degli elementi essenziali del
provvedimento. Non è facile stabilire quali siano questi elementi essenziali.
- Molto più frequente è la seconda ipotesi indicata dalla legge: il difetto assoluto di attribuzione: se il
soggetto che pone in essere un atto non è titolare del corrispondente potere, l’atto non può essere
considerato esercizio di quel potere. Si parla in questi casi di carenza di potere, la quale si può avere
nel caso della c.d. incompetenza assoluta e nel caso in cui nessuna norma attribuisce ad alcuna
autorità il potere amministrativo che si pretende di esercitare. L’esercizio da parte
dell’amministrazione di un potere inesistente può determinare non carenza di potere e nullità del
provvedimento, ma illegittimità e annullabilità di esso.
- La terza causa di nullità indicata dalla legge è quella in cui il provvedimento è emanata in violazione o
elusione del giudicato. Ciò dipende dall’esigenza di evitare che l’interessato abbiano l’onere di
impugnarlo.
- Infine la legge prevede la nullità negli altri casi espressamente previsti dalla legge tra i quali: le
assunzioni operate dalle P.A. senza concorso; l’inquadramento di dipendenti pubblici in violazione
delle norme; il conferimento di incarichi a dipendenti di altre P.A., senza l’autorizzazione delle stesse;
gli atti privi di copertura finanziaria; i provvedimenti emanati da organi amministrativi scaduti.

6.9. L’irregolarità
L'irregolarità è la condizione del provvedimento caratterizzato da una difformità, rispetto allo schema
normativo, il cui rilievo non è tale da viziare il provvedimento. Si tratta, quindi, di una condizione
diversa dall'invalidità: a essa la giurisprudenza fa spesso riferimento proprio per evitare l'annullamento di
atti la cui anormalità non sia tale da pregiudicare gli interessi tutelati dalle norme.
L'irregolarità è una figura non prevista dalle norme ma applicata dalla giurisprudenza soprattutto per
anomalie relative all'esternazione (difetto dell'intestazione; mancata indicazione della data o del numero
di protocollo; errore nella citazione dei testi normativi o nell'indicazione degli atti preparatori; inesatta
indicazione dei membri di un organo collegiale o dei loro nomi e così via) o per atti di organi collegiali
(per esempio, l'irregolarità nella convocazione o nella fissazione dell'ordine del giorno è sanata dalla
partecipazione di tutti i componenti alla riunione e dall'assenza di loro obiezioni sugli argomenti all'ordine
del giorno).
L'irregolarità, comunque, non incide sulla validità né sull'efficacia del provvedimento, ma può rilevare
ad altri fini, in particolare in ordine alla responsabilità del dipendente che ha predisposto o emanato il
provvedimento stesso.

7. TIPOLOGIA DEI PROVVEDIMENTI

7.1. Gli atti precettivi


Gli atti precettivi sono quelli volti alla definizione di norme giuridiche (atti normativi, come i
regolamenti amministrativi) o, comunque, di prescrizioni generali. La loro funzione, quindi, è di regolare

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la condotta di uffici pubblici, di soggetti privati o di entrambi. Regolano principalmente la condotta di
uffici pubblici (atti di organizzazione, programmi di attività, direttive, regolamenti di attuazione della
legge n. 241/1990 in materia di termine e responsabile del procedimento e di diritto d'accesso ai
documenti amministrativi).
Regolano essenzialmente la condotta di privati, invece, gli atti volti alla fissazione di prezzi o tariffe, le
c.d autorizzazioni generali che stabiliscono il trattamento dei dati personali o la fornitura di reti o di
servizi di comunicazione elettronica, l'atto con il quale la CONSOB disciplina la redazione e la
pubblicazione del prospetto informativo che deve accompagnare la sollecitazione all'investimento.
Regolano la condotta degli uni e degli altri, infine, i piani urbanistici, i piani e programmi economici, i
bandi, i regolamenti edilizi dei comuni, i regolamenti delle biblioteche pubbliche.
Il contenuto degli atti in questione incide sia sulla struttura dei relativi procedimenti, sia sul regime
giuridico degli atti stessi. Per molti di questi atti sono previsti controlli preventivi di legittimità ed essi di
regola non sono autonomamente impugnabili dinanzi al giudice amministrativo.

7.2. La concessione
Le concessioni sono atti con i quali le P.A. dispongono di risorse riservate, cioè sottratte alla
disponibilità dei privati. Si tratta, di regola, di un’ attribuzione patrimoniale, almeno nei tipi principali
di concessione:
-Quelle di beni pubblici (beni demaniali e il denaro)
-Quelle di servizi pubblici (servizio idrico e radiotelevisivo)
-Quelle di lavori pubbici (realizzazione strada o ospedale)
Vi sono però, anche concessioni a contenuto NON patrimoniale, come quelle aventi a oggetto la
cittadinanza, onorificenze e la ricerca archeologica.
La sottrazione di una determinata risorsa alla disponibilità dei privati (riserva originaria) dipende dal
fatto che si tratta di una risorsa scarsa (spiagge, acqua). Altre volte, dipende da un’esigenza di controllo
che deriva da interessi pubblici come la sicurezza dei cittadini, la tutela degli utenti e lo sviluppo
economico.
La concessione è spesso strumento non di disposizione di risorse scarse, ma di governo dell’economia e
di controllo sullo svolgimento di attività private. Tuttavia, questa seconda funzione delle concessioni è
oggi recessiva a causa dell'affermarsi del principio della concorrenza, che induce ad assoggettare lo
svolgimento delle attività economiche alle leggi del mercato piuttosto che ai poteri di indirizzo di autorità
pubbliche e, quindi, a eliminare o limitare la discrezionalità amministrativa nel consentire l'accesso degli
operatori ai mercati. Soprattutto nella disciplina dei servizi pubblici, di conseguenza, il regime
concessorio viene sempre più spesso abbandonato e sostituito da altri, come quello autorizzatorio
È evidente che il provvedimento di concessione soddisfa innanzitutto un interesse del concessionario, il
quale ottiene la disponibilità del bene o la possibilità di svolgere l'attività, oggetto di riserva.
Esso però soddisfa anche un interesse dell'amministrazione, che riceve un corrispettivo (per esempio,
un canone per l'uso di beni pubblici) o ottiene che un'attività di pubblico interesse venga svolta. È per
questo che alle concessioni si tende ad attribuire natura contrattuale, che in qualche caso è riconosciuta
dalle norme. Ciò spiega perché, da un lato, quelli volti al rilascio delle concessioni siano procedimenti a
iniziativa di parte, essendo avviati dalla domanda dell'aspirante concessionario; dall'altro, le domande

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siano spesso precedute da un bando: la scelta tra i diversi aspiranti, in questi casi, avviene attraverso una
procedura concorsuale.
La concessione costituisce un rapporto tra P.A. concedente e il concessionario.
Le concessioni aventi ad oggetto l'erogazione di denaro pubblico si definiscono sovvenzioni. Le
sovvenzioni sono sottoposte ad una disciplina particolare. Il tr. Ce contiene una disciplina limitativa degli
aiuti concessi dagli Stati alle imprese: in quanto capaci di alterare la concorrenza tra le imprese, essi sono
vietati, con alcune eccezioni; alla Commissione europea è attribuito il compito di vigilare sul rispetto del
divieto (art. 87 ss.). Anche a livello nazionale vi è una disciplina particolare, data dall'art. 12, legge n.
241/1990, e dal d.lgs. n. 123/1998: il primo pone in capo alle amministrazioni concedenti un obbligo di
predeterminazione dei criteri di decisione e delle modalità di erogazione; il secondo ha uniformato e
semplificato la disciplina dei procedimenti di erogazione, individuandone diversi tipi e fissando alcune
regole comuni.

7.3. Le autorizzazioni
Le autorizzazioni servono a controllare la compatibilità dello svolgimento di un’attività privata con un
interesse pubblico. È una tecnica di controllo sulle attività private. L’esplicazione di molte attività
(guidare un autoveicolo, possedere un'arma, andare a caccia, esercitare un commercio, costruire o
ristrutturare un immobile e così via) può ledere interessi pubblici (la sicurezza dei cittadini, la salute o
l'affidamento dei consumatori, lo sviluppo dell'economia, il paesaggio e l'assetto del territorio, la stabilità
degli edifici e così via). Di conseguenza, la liceità del loro svolgimento è spesso condizionata all'esito
positivo di un controllo preventivo. Le autorizzazioni, quindi, sono atti favorevoli per il privato - e i
relativi procedimenti sono a iniziativa di parte - ma il regime autorizzatorio nel suo complesso non lo è,
perché implica una restrizione della possibilità di svolgimento di determinate attività.
L'autorizzazione, comunque, è spesso fungibile con altre tecniche di controllo. Quest'ultimo, infatti, può
non essere necessario né preventivo. Per esempio, per ascoltare musica e per stabilire il prezzo dei
prodotti in vendita non c'è bisogno di alcuna autorizzazione: ma se la musica viene ascoltata in un orario e
a un volume tali da disturbare i vicini, questi possono rivolgersi alle forze dell'ordine, per ottenere la sua
interruzione; e se diverse imprese si accordano per operare prezzi tali da falsare il gioco della
concorrenza, esse vengono sanzionate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato. In queste
ipotesi, il controllo è successivo ed eventuale. A volte non può non esserlo, perché lo svolgimento di
determinate attività private costituisce esercizio di diritti garantiti dalla Costituzione, che non tollera
l'imposizione di regimi autorizzatori: sarebbe incostituzionale, per esempio, una legge che imponesse
un'autorizzazione per riunirsi, per costituire un'associazione, per manifestare la propria opinione o per
pubblicare un libro o un articolo; i pubblici poteri, quindi, possono intervenire solo successivamente, per
sanzionare le violazioni (per esempio, per sciogliere una riunione pericolosa o violenta o per punire la
diffamazione a mezzo stampa).
Al di là di queste ipotesi, il legislatore può decidere se privilegiare l'interesse privato allo svolgimento
dell'attività o quello pubblico, che può esserne danneggiato: nel primo caso, sottoporrà l'attività a un
controllo eventuale e successivo (per esempio, quello dei vigili urbani sul rispetto delle prescrizioni

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urbanistiche e del regolamento edilizio), nel secondo a un regime autorizzatorio (per esempio, il permesso
di costruire).
La tendenza attuale è nel senso di una maggiore tutela del primo e, quindi, di un alleggerimento del
controllo sulle attività private, a causa di tre fattori:
-il diritto europeo: spesso considera i regimi autorizzatori strumenti di restrizione dell’accesso ai mercati,
che viene condizionato alla decisione discrezionale di un’autorità amministrativa. in vari settori le
norme e la giurisprudenza UE tendono alla sostituzione del regime autorizzatorio con un regime
diverso: autorizzazione generale seguita da una dichiarazione di inizio di attività del privato. In altri
casi esse mantengono il regime autorizzatorio, ma definiscono i caratteri delle autorizzazioni,
stabilendo che devono rispettare i principi di oggettività, non discriminazione, parità di trattamento,
trasparenza e proporzionalità.
-la politica di semplificazione: è alla base dell’istituto del silenzio-assenso, che risolve il problema
derivante dall’inerzia dell’amministrazione, a fronte di un’istanza del soggetto interessato, nel modo
più favorevole al richiedente: ricollegando all’inerzia la produzione degli effetti giuridici del
provvedimento non emanato. Disciplina generale del silenzio assenso è contenuta nell’ art. 20
241/1990. Esso pone il silenzio assenso come una regola sussidiaria rispetto a quella della
dichiarazione di inizio di attività. Il confine tra la dichiarazione di inizio di attività e il silenzio assenso
è incerto.
La legge stabilisce comunque che, nei casi in cui si applica il silenzio assenso, l’amministrazione può
convocare una conferenza di servizi, tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei
controinteressati, e che anche sugli effetti dei provvedimenti tacitamente formati con questo
meccanismo l’amministrazione può intervenire in via di autotutela. L’art. 20 fa riferimento non solo
alle autorizzazioni, ma ai procedimenti a istanza di parte.
- la politica di liberalizzazione: induce a sostituire le autorizzazioni con meccanismi di controllo
successivo, come la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) fatta dal privato alla P.A.
competente. L’abilitazione allo svolgimento dell’attività, in questo caso, consegue a un atto del privato
stesso, al quale è affidata, la verifica della conformità della sua attività di interesse pubblico. Il
controllo da parte della P.A. è comunque necessario, ma è successivo. Questo istituto ha avuto
notevole impulso nell’art. 19 della 241/1990 il quale afferma che la dichiarazione del privato
sostituisce tutte le autorizzazioni il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti
e presupposti previsti dalla legge. Si tratta però, di una regola che soggre molte accezioni, dato che è
esclusa: nell’ipotesi in cui siano previsti limiti o contigenti o forme di programmazione settoriale;
quando esistono vincoli ambientali, paesaggistici o culturali; per gli atti rilasciati dalle P.A. preposte
alla difesa nazionale, sicurezza, immigrazione ecc..

7.4. I Provvedimenti Ablatori


I Provvedimenti Ablatori sono quelli con i quali l'amministrazione sacrifica l'interesse di un privato,
obbligandolo a fare (ordini), a non fare (divieti) o a dare (atti di imposizione tributaria) o privandolo di
un bene (espropriazione, requisizione, sequestro amministrativo e imposizione di servitù pubbliche).
A differenza che nelle autorizzazioni, dove il conflitto tra interesse pubblico e interesse privato è solo
potenziale e può essere composto con un controllo sull'attività privata, in queste ipotesi il contrasto è
insanabile e deve risolversi con il sacrificio dell'interesse che l'ordinamento ritiene meno meritevole di
tutela, cioè quello privato. L'attribuzione del potere ablatorio all'amministrazione, dunque, implica una
definizione dell'assetto di interessi da parte del legislatore, che ritiene prevalente l'interesse pubblico su

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quello privato. Ma ciò non vuol dire che il sacrificio di quest'ultimo sia dovuto a una valutazione negativa
o a un intento punitivo: al contrario, esso è a sua volta tutelato dalle norme, anche costituzionali, che si
preoccupano in vari modi di evitare sacrifici non necessari o sproporzionati.
La migliore dimostrazione di ciò è data dalla disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità (art.
42). La Costituzione pone 3 distinte garanzie per il proprietario:
-La riserva di legge (la proprietà privata può essere espropriata solo “nei casi preveduti dalla legge”)
-L’indennizzo
-La sussitenza di un pubblico interesse.
I procedimenti ablatori sono a iniziativa d'ufficio. La loro articolazione riflette le esigenze di garanzia
del privato: si applicano le norme della legge n. 241/1990 (come quelle sulla comunicazione di avvio e
quelle sulla partecipazione al procedimento), alle quali le leggi speciali ne aggiungono ulteriori.
Spesso il provvedimento ablatorio deve essere emanato entro un termine perentorio, che decorre
dall'inizio del procedimento o da un atto intermedio, oltre il quale il potere amministrativo viene meno
e, quindi, il provvedimento non può più essere emanato: per esempio, il termine fissato dalla
dichiarazione di pubblica utilità o dalla legge per l'emanazione del decreto di espropriazione per pubblica
utilità.

7.5. Le sanzioni amministrative


Le sanzioni amministrative servono a punire gli illeciti amministrativi, cioè i comportamenti censurati
dall’ordinamento con la previsione di una responsabilità non penale o civile ma amministrativa: quindi,
con l’irrogazione di una sanzione da parte non di un giudice, ma di un’autorità amministrativa. Esse
hanno in comune con i procedimenti ablatori gli effetti restrittivi nei confronti del destinatario, che
tuttavia dipende da un intento punitivo nei suoi confronti e non dal contrasto tra il suo interesse e quello
pubblico. Le sanzioni amministrative hanno sempre natura afflittiva, in quanto colpiscono l’autore
dell’illecito. Illeciti e sanzioni esistono in tutti i settori della normazione amministrativa. Vi sono diversi
tipi di sanzione amministrativa:
-Sanzioni pecuniarie: determinano il sorgere di un’obbligazione pecuniaria:
-Sanzioni interdittive: impediscono l’esercizio di un diritto (ordine di chiusura di un esercizio
commerciale)

La legge n. 689/1981 contiene una disciplina generale delle sanzioni amministrative, che detta principi e
norme sia sostanziali, sia procedurali.
Per quanto riguarda il procedimento di irrogazione, che è ovviamente a iniziativa d’ufficio, la disciplina è
ispirata dal principio del giusto procedimento, quindi si svolge in contraddittorio con l’interessato. Vale
naturalmente, l’obbligo di motivazione. Generalmente, le norme prevedono un termine perentorio per
l’irrogazione dei provvedimenti sanzionatori.
Una categoria a sé è data dalle sanzioni disciplinari previste per i pubblici dipendenti. Esse si fondano su
un particolare status o qualifica del destinatario, che lo assoggetta appunto a responsabilità disciplinare.

7.6. I provvedimenti di secondo grado


I provvedimenti di secondo grado sono quelli con i quali l'amministrazione interviene su precedenti
provvedimenti per modificarne, rimuoverne o confermarne gli effetti.
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I provvedimenti di secondo grado sono emanati:
− sulla base di un ricorso amministrativo per il ripristino della legalità violata: implica che,
sussistendone i presupposti (come il mancato decorso del relativo termine), il ricorso sia stato
proposto: il procedimento è quindi avviato su iniziativa di parte, che fa sorgere in capo
all'amministrazione l'obbligo di provvedere (accogliendo o rigettando il ricorso). Le norme sulla
giustizia amministrativa disciplinano in dettaglio i procedimenti innescati dai ricorsi
amministrativi.
− su iniziativa dell'amministrazione; il provvedimento di II grado è espressione della stessa
funzione amministrativa svolta con il provvedimento di I grado: con esso l’amministrazione
persegue lo stesso interesse pubblico che ha determinato l’adozione del precedente
provvedimento. Di conseguenza, la competenza per la sua adozione spetta allo stesso organo e la
sua legittimità va valutata alla stregua delle stesse norme, in quanto anche i provvedimenti di II
grado devono perseguire correttamente l’interesse pubblico in vista del quale il potere è
attribuito.
Il procedimento è a iniziativa d’ufficio, la quale può anche essere sollecitata dall’interessato, senza
ovviamente che sorga l’obbligo di provvedere. L’articolazione del procedimento corrisponde a
quella del procedimento di I grado (regola del contrarius actus: per rimuovere gli effetti di un
provvedimento, è necessario porre in essere un procedimento uguale a quello seguito per la sua
emanazione).
Gli atti di secondo grado si suddividono in:
- Atti che tendono alla conservazione o alla permanenza degli effetti del provvedimento come:
- Sanatoria: è l’effetto di conservazione dell’efficacia di un atto, a seguito dell’eliminazione di un vizio.
Essa può essere determinata da ulteriori atti dell’amministrazione o da fatti giuridici.
- Convalida: è l’atto con il quale l’amministrazione dichiara l’esistenza del vizio o lo elimina,
riaffermando l’efficacia del provvedimento: essa è ammessa dalla legge, purché avvenga entro un
termine ragionevole. Ovviamente, può essere convalidato un provvedimento viziato ma esistente
perciò annullabile, non può esserlo un provvedimento inesistente o già annullato. Quando il vizio che
si intende eliminare è di incompetenza, poi, la convalida, emanata dall'organo competente, prende il
nome di Ratifica

- Atti che tendono all’interruzione, eliminazione o alla modifica di tali effetti come:
- Annullamento d’ufficio: atto con il quale l’amministrazione rimuove retroattivamente, di sua
iniziativa, gli effetti di un proprio provvedimento invalido. Esso ora è previsto dalla legge che lo
ammette, entro un termine ragionevole, in presenza di 2 presupposti: l’illegittimità del provvedimento
e la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico. Questi 2 presupposti mostrano la duplice natura
dell’annullamento d’ufficio, che serve sia al ripristino della legalità, sia al perseguimento
dell’interesse pubblico. L’annullamento è un provvedimento discrezionale. L’annullamento d’ufficio
opera retroattivamente, rimuovendo gli effetti illegittimamente prodotti dal provvedimento annullato.
L’annullamento d’ufficio costituisce una peculiarità del diritto amministrativo e del regime giuridico
del provvedimento, rispetto ad altri atti giuridici. Le P.A. possono annullare i propri provvedimenti,
facendone valere l’illegittimità. L’annullamento, quindi, costituisce una manifestazione di autotutela
amministrativa.
- Revoca: atto con il quale l’amministrazione fa cessare gli effetti di un precedente provvedimento per
ragioni di merito, relative all’interesse pubblico da essa curato: essa si distingue dall’annullamento sia

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per la causa (l’inopportunità e non l’invalidità) sia per l’effetto (non retroattivo). Non essendo
retroattiva, la revoca può aversi solo per i provvedimenti a efficacia durevole, solo per questi la
revoca è ora prevista in via generale dalla legge, che stabilisce che essa determina la inidoneità del
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta un danno per
l’interessato, peraltro, l’amministrazione deve corrispondergli un indennizo. Anche la revoca è un
provvedimento ampiamente discrezionale, che implica la ponderazione dell’interesse pubblico e degli
altri interessi coinvolti, in primo luogo quello del privato che abbia fatto affidamento sul
provvedimento.
- Riforma: può essere adottata per ragioni di legittimità o di merito ed è ammessa dalla giurisprudenza
purché vi siano i presupposti richiesti per l’annullamento o per la revoca. La riforma consiste spesso
nell’annullamento o nella revoca parziale.
- Sospensione: pone gli effetti del provvedimento in uno stato di quiescenza, paralizzando le situazioni
soggettive sorte sulla base del provvedimento stesso e impedendo la sua esecuzione. Essa può essere
prevista dalle norme, come contenuto di un provvedimento sanzionatorio (come la sospensione della
patente di guida, della licenza di porto d'arma, delle autorizzazioni relative alle sostanze stupefacenti),
ma è ammessa in via generale dalla giurisprudenza come misura temporanea.

CAPITOLO IX- I CONTRATTI (parte speciale)


1. Moduli convenzionali e azione amministrativa: contratti e accordi
Si utilizza l'espressione "modulo convenzionale" (o accordo in senso lato) quando una decisione
di una pubblica amministrazione è l'esito di uno scambio di consensi tra la stessa e un soggetto privato
o un'altra amministrazione, sulla base di un documento formalmente sottoscritto da entrambe le parti
del rapporto e con un contenuto predeterminato e vincolante di diritti e di obblighi reciprocamente
collegati. Il modulo operativo utilizzato risulta conforme ad uno schema bilaterale o plurilaterale di tipo
negoziale.
Ciò induce all’ingresso degli istituti del diritto privato visto che queste soluzioni sono preferibili ad
atti unilaterali. Le riforme degli anni 2000 hanno portato ad una sostanziale equivalenza tra le due forme
strumentali, fatti salvi i poteri autoritativi concessi alla P.A. Connotato tipico della vicenda di "contratto"
tra un'amministrazione e una controparte (pubblica o privata) è che gli effetti giuridicamente rilevanti si
producono conseguentemente e, almeno nella maggior parte delle fattispecie, direttamente a seguito dello
scambio intercorso. Pertanto, il modulo operativo utilizzato risulta conforme ad uno schema bilaterale (o
plurilaterale) di tipo negoziale.
Contratto (1321 c.c.): accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un
rapporto giuridico patrimoniale.
L’amministrazione è considerata dall’ordinamento come soggetto portatore di autonomia
negoziale.
In questa logica, il diritto amministrativo interviene per stabilire le forme specifiche di ricorso allo
strumento contrattuale, salvaguardando le finalità peculiari dell’azione amministrativa.
La legislazione amministrativa fa grande riferimento a formule convenzionali operative di carattere
negoziale, all’interno delle quali si possono scorgere elementi comuni:
- l’amministrazione si presenta, nel confronto con il privato, come autorità con maggiori poteri
(esorbitanti) rispetto a quelli disponibili nell’ambito dei rapporti interprivati;

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- la legge invita/obbliga a determinate decisioni concordate;
- l’interesse pubblico è l’elemento centrale e causale dell’accordo;
- la disciplina del diritto comune riempie gli spazi vuoti del diritto amministrativo.
Sorge quindi una naturale distinzione tra contratto e accordo in senso stretto; essi sono, anzitutto, il
prodotto dell’esercizio di poteri diversi.
Il contratto è il prodotto derivante dall’azione amministrativa come soggetto dotato di capacità
giuridica; nell’accordo permane la presenza della discrezionalità amministrativa, così come viene
normalmente svolta nel procedimento. Nell’accordo quindi, l’interesse pubblico è intrinseco allo stesso
oggetto, mentre nel contratto è solo il contesto in cui si muove una delle controparti. Due regole
fondamenti del contratto sono la durevolezza del legame per tutto il tempo da esso stabilito e la capacità
di produzione degli effetti che ne conseguono. Per l’accordo invece, la discrezionalità amministrativa
opera a seguito della ponderazione e valutazione degli interessi in gioco, sia pubblici che privati, e il
potere discrezionale risulta inesauribile, potendo rinnovare o recedere dall’accordo in modo unilaterale.

2. PROCEDURA AMMINISTRATIVA E STRUMENTO NEGOZIALE


La compresenza delle due discipline deve essere presa in esame per le modalità e gli esiti a cui
conduce, anche accertando l’applicazione puntuale dei principi di imparzialità e buon andamento da una
parte e di buona fede e correttezza dall’altra: decisiva è la tutela equilibrata degli interessi in gioco. La
rilevanza dell’azione amministrativa realizzata mediante contratti o accordi per il perseguimento degli
specifici interessi pubblici affidati alla cura di ciascuna amministrazione fa sì che anche ad essi, sia pure
in forme differenti, si applichino le modalità tipiche dell’agire amministrativo. Anche ai contratti e agli
accordi della P.A. si applicano modalità tipiche del procedimento amministrativo. L’accordo a cui può
pervenire l’amministrazione è endogeno al procedimento amministrativo poiché, una volta che esso viene
attivato, deve produrre una sua manifestazione espressa, per cui l’accordo ne é un esempio: secondo i
dettami della l. 241, l’accordo è strettamente in funzione con la procedura.
Un caso è quello delle convenzioni accessive a concessioni (regolazione utilizzo beni pubblici) per
cui l’accordo è espressamente previsto, nel contesto di responsabilità concernente l’ordine pubblico
(concessioni-contratto).
Un secondo caso è quello dei contratti di servizio, previsti per la gestione dei servizi pubblici
locali, nei quali l’accordo è necessario, ponendosi in relazione di immediata funzionalità con il
procedimento per l’esercizio del potere di regolazione e di organizzazione del servizio pubblico.
Il contratto è fin da principio lo strumento individuato dall’amministrazione per lo svolgimento
della propria azione in vista del perseguimento dell’interesse pubblico di riferimento. Attraverso una
serie di atti vengono fatti emergere e resi visibili i motivi di interesse pubblico che presiedono alla scelta
contrattuale nonché i modi di gestione delle risorse finanziarie che vengono impegnate
dall’amministrazione nell’esercizio della propria azione contrattuale.
Le procedure di "Evidenza pubblica” sono quelle comprendenti atti e qualificazioni funzionali alla
garanzia amministrativa e, allo stesso tempo, alle opportunità imprenditoriali.

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3. LA DISCIPLINA DEI CONTRATTI DELLE P.A: la complessa convivenza tra dir.
amm/civile/UE e il riassetto operato con il codice dei contratti pubblici
La relazione complicata tra diritto civile amministrativo si è complicata con il processo di
integrazione europea e dal Government Procurement Agreement GPA, quale accordo voluto dal WTO
per liberalizzare il settore degli appalti. Il GPA è stato stipulato nel 1994. Una revisione del GPA è stata
conclusa nel 2012. Al GPA hanno aderito 14 Stati oltre all’UE. La disciplina del GPA si fonda sugli stessi
principi che presiedono alla regolazione europea e quella USA, cioè i principi di non discriminazione,
trasparenza e pubblicità, con l’obiettivo della costruzione di un mercato effettivamente aperto alla
concorrenza mondiale delle imprese.

3.1. Le fonti di diritto UE


Disposizioni di principio sono situate nel Trattato di Roma, che sanciscono divieto di
discriminazione in base a nazionalità, restrizione a importazioni, diritto di stabilimento, libera
prestazione di servizi e divieto di restrizione della concorrenza. La ragione dell’estensione della
regolazione comunitaria al settore dei contratti delle P.A. è stata dipendente dalle dimensioni quantitative
del fenomeno e dalla sua rilevanza ai fini della costruzione di una economia di mercato aperta e in libera
concorrenza (19% del Pil). Da qui l’evoluzione, anche nel settore degli appalti pubblici di lavori e delle
fornitura pubbliche di beni e servizi. La direttiva 23/2014 UE specifica la disciplina dettata per i contratti
di concessioni di lavori e servizi (recepita entro il 2016).

3.2. Le fonti di diritto interno: fonti statali


La complicazione del quadro normativo interno deriva dalla pluralità delle normative da tenere in
considerazione. Il legislatore era tenuto a prendere in considerazione la normativa privatistica e quella
amministrativistica e quindi:
- Contabilità dello Stato: ritenuta di contenere i principi generali per le spese di tutte le P.A.
- Legge sul procedimento amministrativo
- Normativa dei singoli settori (appalti, servizi e forniture)
- Normativa regionale
- Normativa regolamentare degli enti locali (Università)
- Normativa di origine europea, sia in quanto direttamente applicabile, sia in quanto applicabile
mediante la interposizione delle leggi nazionali.
Un’azione di riunificazione, ricomposizione e riassetto di un così variegato quadro normativo è
stata scolta anche dal legislatore nazionale, cogliendo l’occasione del doveroso recepimento del
“pacchetto legislativo” comunitario del 2004, con l’adozione del d.lg. n. 163/2006 del codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
Il riferimento al codice civile implica, in particolare, il richiamo ai principi di autonomia
contrattuale, di buona fede e di correttezza nel comportamento negoziale, ai principi di diligenza, di
responsabilità e di assoggettabilità a procedure esecutive nell'adempimento delle obbligazioni derivanti,
nonché alle regole in materia di effetti del contratto di stati di invalidità ed i rimedi per l’inadempimento.
Il riferimento alla legge sul procedimento amministrativo implica in particolare il richiamo al
principio di legalità e ai criteri di economicità, efficacia, pubblicità, trasparenza sanciti come
parametri fondamentali per l’azione amministrativa (241/1990).
Il codice dei contratti pubblici ha prodotto una situazione di iper regolamentazione dell'attività
contrattuale pubblica, data dalla somma delle norme contenute nel codice stesso e di quelle contenute
nel regolamento di attuazione di esecuzione, che è andata a danno sia dell’efficacia della spesa pubblica
che dell’efficienza di mercato, con effetto anche di gonfiamento del contenzioso. Dal 2006, anno di
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adozione del codice dei contratti pubblici, il codice è stato oggetto di più di 200 interventi legislativi di
riforma con portata modificativa, integrativa o sostitutiva.

3.3. Le fonti regionali: i capitolati


La complessità del quadro regolatorio si aggrava a seguito della riforma costituzionale del titolo V
(2001), derivante da una nuova incisività della disciplina di fonte regionale. Secondo l’art. 117 Cost. alle
regioni, infatti, spetta di provvedere all'attuazione degli atti dell'UE nelle materie di loro competenza e di
esercitare la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione statale. Ma la
questione del riparto del potere legislativo in materia tra Stato e regioni si è naturalmente venuta a porre
nella sua pienezza con l’emanazione del codice dei contratti pubblici.
Tra le fonti della materia contrattuale per le P.A. sono annoverati anche i capitolati d’oneri, distinti
in capitolati speciali e generali.

4. IL MERCATO DEI CONTRATTI DELLE P.A.


Tanto per la teoria economica, quanto per quella giuridica, l'area dei contratti delle P.A.
rappresenta un caso di mercato regolamentato: infatti, la domanda di beni, servizi e lavori avanzata
dalle P.A., e che attende soddisfazione da produttori e fornitori appartenenti ai vari settori economici,
viene a costituire distinti segmenti di mercato. Essi si caratterizzano per: la rilevanza delle dimensioni
quantitative della domanda pubblica, che in certi casi copre quasi l'intero mercato di riferimento (settore
della difesa o grandi opere infrastrutturali) e per i peculiari connotati dei soggetti che in quei mercati
operano sostanzialmente nella posizione di "consumatori", cioè le P.A. in senso stretto e i gestori dei
servizi di interesse pubblico, che sono a loro volta entità regolate.
In considerazione della specifica posizione delle amministrazioni nell’ordinamento e nella società,
il mercato delle forniture e degli appalti pubblici deve essere un mercato regolamentato. Una politica
efficace nel settore degli appalti pubblici, frenando l’inefficienza della spesa pubblica e fornendo un
importante strumento di prevenzione della corruzione, potrà dare ai contribuenti la certezza di un corretto
investimento del loro denaro e rafforzare così la fiducia del pubblico in coloro che li governano.
La tutela della par condicio, come garanzia dell'effettivo svolgimento del libero gioco competitivo
nel mercato dell'offerta delle prestazioni contrattuali richieste dalle P.A., si deve alla centralità acquisita
anche in materia dalla normativa comunitaria (orientamento pro competitivo). Al contrario, la normativa
statale di contabilità era pensata in considerazione dell'amministrazione e le pari condizioni erano
assicurate agli aspiranti contraenti solo nella prospettiva della correttezza e della regolarità complessiva
della procedura amministrativa.

4.1. I principi della regolazione del mercato dei contratti pubblici


I principi della regolazione in materia sono essenzialmente principi di garanzia. Vi rientrano:
- la garanzia della conformità dell'azione pubblica negoziale al vincolo del fine, cioè la cura
dell'interesse pubblico specifico;

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- la garanzia della correttezza formale e della convenienza economica nella gestione delle risorse
finanziarie pubbliche;
- la garanzia della diligenza, lealtà e correttezza dell'agire dei pubblici funzionari incaricati di operare
con lo strumento negoziale;
- garanzia della pari condizione degli operatori economici. L’Anac è l’agenzia responsabile della
vigilanza sulla razionalità economica, imparzialità e integrità dell’azione amministrativa.
Si conferma che l’amministrazione pubblica in quanto soggetto contrattante è anch’essa innanzitutto
oggetto della regolazione, a partire da quella dell’ordinamento sovranazionale.

4.2. Le regole dell’attività


La regola fondamentale è quella per la quale la P.A. deve procedere alla scelta del contraente e
alla conclusione del contratto mediante una procedura di gara formalizzata, disciplinata a norma di
legge; la libera competizione tra idee, progetti, offerte, è la migliore garanzia per tutti gli ordini di
ragioni: non a caso, il comma 1 dell’art.27, del codice dei contratti pubblici, stabilisce che l'affidamento
del contratto deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti. Al fine della costruzione di
un contesto di adeguata pubblicità e trasparenza delle procedure, sono state stabilite delle prescrizioni:
- a) informazioni pre e post contrattuali;
- b) pubblicità dei bandi di gara;
- c) termini ampi per le domande;
- d) predeterminazione dei requisiti per i candidati;
- e) predeterminazione sugli oggetti delle prestazioni;
- f) aggiudicazione con criteri oggettivi;
- g) valutazione delle offerte anomale;
- h) motivazione delle scelte.
Spetta, poi, all’ordinamento nazionale, attraverso le proprie discipline di ordine civilistico e
amministrativistico, disporre le altre regole sull’attività contrattuale delle P.A.
L'attuazione del principio di trasparenza avviene attraverso il diritto di accesso ai documenti
amministrativi, relativi ai momenti essenziali dell’attività (oggetto del bando, operatori invitati,
aggiudicatario, importo, tempistiche, somme liquidate).
Il codice dei contratti pubblici ha fatto una particolare valorizzazione della figura del responsabile
del procedimento come vero e proprio project manager.
La tensione tra obiettivi nazionali e sovranazionali si è verificata intorno alle secondary policies
(lotta a corruzione, disoccupazione, ambiente, sviluppo regionale e criminalità organizzata) poiché esse
mettono a rischio l'applicazione concreta del principio invia economicità. I criteri di aggiudicazione di un
appalto pubblico all’offerta economicamente più vantaggiosa non necessariamente devono essere di
natura meramente economica. Le norme UE prevedono che gli Stati membri adottano misure adeguate
per garantire che gli operatori economici, nell’esecuzione degli appalti pubblici, rispettino gli obblighi
applicabili in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro.

4.3. I soggetti
È da considerare "amministrazione aggiudicatrice", non soltanto l'ente pubblico, nelle sue varie
forme, ma qualsiasi organismo, dotato di personalità giuridica e costituito per finalità di interesse generale
a carattere non economico, che sia funzionalmente collegato con lo Stato, le regioni, gli enti locali o
anche altri enti pubblici, attraverso l'intestazione a queste ultime amministrazioni di un potere di
controllo, di direzione, di vigilanza, di nomina o di finanziamento (generale o specifico ad un singolo
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intervento) e che, quindi, si trova ad assumere la configurazione dell'organismo privato di diritto
pubblico.
Anche il diritto nazionale ha adottato una combinazione di criteri per delimitare l’area della
soggettività che può trovare collocazione sul lato della domanda nel mercato dei contratti pubblici,
affiancando l’indicazione di categorie di amministrazioni con la definizione di altre figure soggettive
come derivate dal diritto UE; il risultato finale, nel codice dei contratti pubblici, è stata la previsione
secondo una sorta di disegno a cerchi concentrici di 5 gruppi di committenti di interesse pubblico,
individuati con le formule delle amministrazioni aggiudicatrici, enti aggiudicatori, altri soggetti
aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti. Il diritto nazionale ha recentemente introdotto
elementi di qualificazione e professionalizzazione rilevanti anche per gli operatori pubblici, talvolta
sanzionati con la previsione della nullità degli atti adottati e dei contratti stipulati in violazione delle
relative disposizioni e degli adempimenti ivi stabiliti nonché della responsabilità disciplinare e per danno
erariale del funzionario competente.
Occorre considerare che i soggetti sopposti al regime di diritto pubblico possono disporsi da
entrambe le parti del rapporto contrattuale.
Sul versante dei soggetti privati, una prima questione che viene in rilievo è quella della
qualificazione delle imprese aspiranti alla partecipazione alle gare. È stato adottato un sistema di
accertamento dei requisiti di qualità, professionalitò e correttezza dei concorrenti, e in specie dei requisiti
di ordine generale nonché tecnico-organizzativi ed economico-finanziari conformi alle disposizioni
europee in materia, affidato alle Società organismi di attestazione (SOA). Il codice dei contratti ha
definito anche per i settori dei servizi e delle forniture un sistema analogamente orientato, il quale
consente all’amministrazione appaltante un maggior controllo sulla selezione.

Una seconda questione è quella dei soggetti collettivi che sono legittimate a presentare offerte nelle
gare. Il codice dei contratti pubblici ha stabilizzato nell’ordinamento la figura del raggruppamento (una
pluralità di imprese riunite, aventi analoghe capacità tecniche, conferiscono un mandato collettivo
speciale con rappresentanza anche processuale ad una di esse, la capogruppo) o associazione
temporanea di imprese (una pluralità di imprese, con capacità tecnica differenziata e specializzata,
conferiscono un mandato ad un’impresa capogruppo ciascuna per l’esecuzione di una parte scorporabile
della prestazione). Per i soggetti collettivi i requisiti di affidabilità morale e di regolarità della gestione
sotto il profilo dell’ordine pubblico e anche di quello economico dovranno essere posseduti dalle singole
imprese associate.
Sostanzialmente analoga è la questione che si pone per quanto riguarda l’avvalimento cioè la
possibilità per un’impresa di comprovare il possesso delle capacità richieste ai fini della partecipazione
ad una gara, fornendo le referenze di altre società appartenenti allo stesso gruppo.
Il par. 1 della Dir. UE 24/2014 prevede espressamente che le amministrazioni aggiudicatrici
possano esigerem anche se solo laddove l’operatore economico si affidi alle capacità di altri soggetti per
quanto riguarda specificamente i criteri relativi alla capacità economina e finanziaria, che l’operatore
economico e i soggetti ausiliari siano solidalmente responsabili dell’esecuzione del contratto.
Vi è un ulteriore aspetto, viene in rilievo, in presenza di una pluralità di offerte provenienti da una
pluralità di imprese collegate, anche l’esigenza di evitare situazioni che possano alterare il corretto e
trasparente svolgimento della gara stessa.
La regolamentazione europea contiene ora una disposizione generale completamente nuova,
intitolata ai conflitti d’interesse in forza della quale gli Stati membri sono autorizzati a provvedere
affinchè le amministrazioni aggiudicatrici adottino misure adeguate per prevenire, individuare e porre
rimedio in modo efficace a conflitti d’interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli
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appalti in modo da evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di trattamento di
tutti gli operatori economici.

4.4 Gli oggetti


Il codice dei contratti pubblici ha recepito la regolazione europea, facendo giungere la precedente
forma dell’ autoritatività amministrativa ad una forma di partenariato pubblico-privato contrattuale, per
cui è assunto il rischio derivante dalla gestione del lavoro o servizio.

5. TIPOLOGIE DEI CONTRATTI DELLE P.A.


I contratti conclusi dalle P.A. sono assoggettabili a classificazioni diverse, distinte a seconda del punto di
vita assunto per la classificazione stessa, che corrispondono anche a conseguenze giuridicamente
apprezzabili sul tipo contrattuale in tal modo individuato.

5.1. A seconda della causa del contratto


Secondo la disciplina del codice civile, in base alla causa negoziale, i contratti possono distinguersi in:
Tipici. Sono quelli espressamente previsti dal Titolo III il Libro IV del codice civile (vendita,
locazione..). Per questi tipi non esistono limitazioni di genere per la P.A.
Misti. Risultanti dalla combinazione di più tipi previsti dal codice civile. Per la P.A. è una tipologia
alquanto ricorrente. La questione che si pone è quella della disciplina applicabile: prevale il criterio
della prevalenza economica, cioè del maggior valore del tipo di prestazioni concretamente dedotte
nel contratto. in base alla relazione principale-accessorio. Ma la combinazione contrattuale può anche
produrre il risultato di un tipo nuovo di negozio, non riconducibile compiutamente a nessuno dei tipi
previsti dal codice.
Innominati. Il regolamento contrattuale può dare vita ad una figura integralmente nuova,
manifestazione dell'autonomia contrattuale, riconosciuta dall’art. 1322 (sono esempi il leasing e il
factoring).
5.2. A seconda dell’interesse economico: attivi e passivi
I contratti possono distinguersi in attivi e passivi. La distinzione tra contratto attivo e contratto
passivo dipende dal criterio ordinatore. Se il criterio di riferimento è quello degli effetti del contratto sul
bilancio dell'ente pubblico, saranno da intendersi come attivi quei contratti che comporteranno
l'acquisizione di una entrata a vantaggio del bilancio stesso e, per converso, come passivi quei contratti
che comporteranno un esborso di danaro a carico del bilancio pubblico.
Se, invece, il criterio è piuttosto quello dell'incidenza sul patrimonio dell'ente pubblico, si
intenderanno come attivi i contratti che comporteranno un incremento del patrimonio stesso e, per
converso, passivi quelli a cui seguirà un decremento del patrimonio pubblico (ad esempio, un contratto di
alienazione di un immobile da parte dell'ente pubblico). Secondo il primo criterio, per la natura dei
contratti attivi il criterio prevalente di aggiudicazione è quello del prezzo, mentre per i passivi quello
dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

5.3. A seconda della disciplina


Si distinguono contratti di diritto comune e di diritto speciale.
I contratti di diritto comune sono quelli il cui nucleo essenziale di disciplina trova la propria fonte
nelle disposizioni del codice civile, anche se possono subire dalla legislazione pubblicistica variazioni
non irrilevanti.
I primi trovano la propria fonte nelle disposizioni del codice civile. Per l’ art. 3 codice dei
contratti pubblici, gli appalti pubblici di lavori sono appalti pubblici aventi per oggetto l’esecuzione o la
progettazione esecutiva e l’esecuzione con qualsiasi mezzo, di un’opera. Così gli appalti pubblici di
servizi sono appalti pubblici diversi dagli appalti pubblici di lavori o forniture. La maggiore applicazione
è stata estesa grazie alla normativa di origine comunitaria.
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I contratti di diritto speciale sono essenzialmente quelli in relazione ai quali una P.A. è
necessariamente una delle parti o predetermina, in forza di una riserva, le regole specifiche di
svolgimento del rapporto, comportando questo elemento una disciplina diversa da quella contemplata per
analoghe figure del codice civile (giochi e scommesse e debito pubblico). Nei primi due casi (giochi e
scommesse) l'amministrazione partecipa come organizzatore del gioco, dando vita ad un contratto
bilaterale; nel caso del debito il soggetto pubblico stipula un contratto di mutuo con il sottoscrittore di
titoli di debito. Giochi e scommesse e contratti del debito pubblico, hanno in comune il fatto che alle
entrate acquisite al momento della formazione del contratto dovrebbero corrispondere uscite derivanti dal
verificarsi dell’evento dedotto in contratto appunto in termini di pronostico o scommessa, o dalla
scadenza del termine previsto per la restituzione del debito.

6. PROCEDURE DELL’EVIDENZA PUBBLICA E FORMAZIONE DEL CONTRATTO : 4 FASI:


6.1. La determinazione di contrarre (fase 1)
La prima fase è costituita dalla assunzione della determinazione di contrarre. L’atto della
determinazione di contrarre predetermina gli scopi, i criteri, i contenuti e le modalità della successiva
attività che l'amministrazione porrà in essere in vista della formazione dell'obbligazione contrattuale,
dall'altro, sono fissati i principali parametri che l'autorità di controllo dovrà tenere presenti
nell'approvazione del contratto concluso. Fino all’art. 11 del d.lg. 163/2006 la disciplina non era
espressamente regolata dalla normativa generale di contabilità dello Stato: pertanto, il giudice ordinario la
riteneva un mero atto interno dell'amministrazione. In precedenza, per le amministrazioni dello Stato, la
competenza ad adottare la deliberazione di contrattare spettava all'organo che aveva, in base alla
normativa di contabilità, la competenza a contrarre, cioè ai ministri e ai funzionari delegati.

Ora titolari del potere sono i dirigenti generali e gli altri dirigenti amministrativi secondo il riparto
di competenze stabilito ai sensi degli artt. 16 e 17, d.lgs. n. 165/2001, derivante dal regime di separazione
delle funzioni amministrative da quelle politiche, introdotto da principio dal d.lgs. n. 29/1993,
successivamente trasfuso con le sue numerose modificazioni nel d.lgs. n 165/2001. Come per gli enti
locali, vale la competenza propria dei dirigenti amministrativi cui è oggi riconosciuta dalla legge, con
formula ampia (art. 107, d.lgs. n. 267/2000), "la responsabilità delle procedure di appalto”.
6.2. La scelta del contraente (fase 2)
La seconda fase è costituita dal complesso degli atti e delle operazioni necessarie per la scelta del
contraente. Gli originari 4 sistemi (pubblico incanto o asta pubblica, licitazione privata, appalto-
concorso, trattativa privata) sono stati rivisti dalle innovazioni apportate dal diritto comunitario. Esso ha
evidenziato la portata rinforzata del principio di concorsualità come modalità essenziale per la scelta del
contraente da parte dell'amministrazione. Questa si esprime nel principio di effettiva competizione:
canone della eventuale verifica di legittimità della procedura; regola non derogabile, anche in quelle
procedure di gara a partecipazione limitata, che non possono tradursi in situazioni di discriminazione a
danno dei soggetti candidati.
Anche la trattativa privata, la meno formalizzata delle procedure, attraverso l'obbligo per
l'amministrazione di provvedere alla preliminare pubblicazione di un bando, tende a
"procedimentalizzarsi" nella direzione della concorsualità.
Nella stessa direzione vanno obblighi di preinformazione: sono comunicazioni che le P.A. sono
tenute a dare circa le caratteristiche essenziali degli appalti di lavori e servizi e delle forniture, riferiti ad
un arco temporale determinato. L’adunanza plenaria del CdS con decisione n. 13/2011 ha stabilito
l’obbligo per la stazione appaltante di procedere in seduta pubblica alla verifica dell’integrità dei plichi
contenenti non solo le offerte economiche ma anche quelle tecniche al fine di assicurare il corretto
ingresso del materiale documentario nella procedura di gara.
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Inoltre, la normativa europea ha indotto alla riformulazione dei criteri di aggiudicazione. Il diritto
europeo ha più volte indotto il legislatore nazionale a modificare la normativa interna sul trattamento
delle offerte anormalmente basse, disincentivando l’impiego di formule automatiche di esclusione delle
offerte ritenute tali e quindi senza contraddittorio con i candidati interessati. Integrare, il diritto
sovranazionale ha condotto al superamento del tradizionale assetto che prevedeva una distanza netta tra
P.A. e operatori economici, aggiungendo procedure tipiche del confronto concorrenziale.
La dir. UE 24/2014 oltre a trasformare la procedure negoziata in procedura competitiva con
negoziazione ha introdotto una ulteriore tipologia di procedura nuova denominata partenariato per
l’innovazione la quale è una procedura orientata alla produzione di servizi, prodotti o lavori non
disponibilisul mercato e al successivo loro acquisto, a condizione che essi corrispondano ai livelli di
prestazioni e ai costi massimi concordati tra l’amministrzione aggiudicatrice e i partecipanti. Anche tale
sistema consiste in una procedura a carattere competitivo, avviata da apposito bando.
Sempre la dir. 24 prevede che prima dell’avvio di una procedura di appalto, le amministrazioni
aggiudicatrici possonos svolgere consultazioni di mercato ai fini della preparazione dell’appalto e per
informare gli operatori economici degli appalti da essi programmati e dei requisiti relativi a questi ultimi.

6.3. La procedura aperta e il bando di gara


Alla procedura di gara aperta, il legislatore italiano ha ricondotto la procedura per pubblico
incanto (asta pubblica). Essa si contraddistingue per la caratteristica di consentire la massima
competitività tra i soggetti aspiranti ad acquisire la posizione di controparte contrattuale
dell'amministrazione pubblica, garantita anche dalla pubblicazione del bando di gara.
Il bando di gara è soggetto a rigoroso regime di pubblicità dal diritto sovranazionale. Esso ha un
duplice carattere: è riproduttivo dei contenuti essenziali nello schema contrattuale, già fissati nella
determinazione di contrarre, dei quali viene reso effettivamente possibile quel pieno grado di
conoscibilità che può essere garantito solo da forme di pubblicizzazione quali l’inserimento nella
Gazzetta Ufficiale UE e in quella italiana, oltre che sul sito informatico dell’amministrazione appaltante e
del Ministero delle infrastrutture.; è integrativo di quella delibera, contenendo le clausole ordinatorie
della gara, la portata del bando è, da un lato, di precisazione dei criteri di selezione e delle modalità
applicative del criterio di aggiudicazione prescelto, dall’altro, di determinazione puntuale degli
adempimenti di ordine amministrativo e finanziario posti a carico dei partecipanti alla gara.
La normativa amministrativistica sui contratti sottoposti alle procedure dell’evidenza pubblica
riconosce alle P.A. il potere di esclusione dalla gara di persone o ditte. Particolare rilevanza assumono i
requisiti di idoneità alla specifica prestazione dedotta come oggetto del contratto, il cui possesso
l’amministrazione appaltante è legittimata a richiedere inserendone l’espressa previsione nel bando. La
normativa europea ha introdotto distinti requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-
organizzativa per i partecipanti alle gare. La determinazione in concreto dei requisiti per la singola
procedura rimane affidata alla discrezionalità della amministrazione appaltante. Tale potere è
circoscritto nel suo esercizio da un criterio di ragionevole corrispondenza e proporzionalità tra prestazione
contrattuale e requisiti richiesti.

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Il regime delle esclusioni dalla gara rimane una questione di particolare complessità. L’ art 57 Dir.
UE 24/2014 dispone che venga obbligatoriamente escluso dalla procedura di appalto l’operatore
economico che sia stato condannatto con sentenza definitiva per diversi motivi (es. partecipazione a
organizzazione criminale, corruzione, reati terroristici, riciclaggio, lavoro minorile). Può essere escluso
anche l’operatore economico che si sia avvantaggiato di comportamenti corruttivi o collusivi o di gravi
illeciti professionali, che rendano dubbia la sua personale integrità o abbiano falsato la concorrenza.
Il bando di gara vale come offerta al pubblico (ex. 1336 c.c.) e la conseguente offerta del soggetto
privato è una dichiarazione negoziale mista, con contenuto di accettazione dell’oggetto della prestazione
indicato nel bando e di formulazione della proposta di quantificazione definitiva dell’elemento prezzo del
contratto.
Per quanto riguarda la raccolta delle offerte di prezzo e le modalità di aggiudicazione dell’asta sulla
base delle offerte presentata, la originaria normativa di contabilità dello Stato prevedeva una pluralità di
metodi (antiquati) ma caratterizzati da un elemento comune tra di essi, vale a dire dalla assoluta decisività
per la scelta finale esercitata dal prezzo. Il contratto, infatti, era aggiudicato al concorrente che avesse
presentato l’offerta più vantaggiosa cioè che conteneva il prezzo migliore, identificato con quello
risultante come il minimo o massimo tra i prezzi indicati nelle offerte presentate. Anche su questa parte
della materia ha inciso il diritto europeo che ha unificato i metodi di aggiudicazione della procedura
aperta con quelli previsti per la procedura ristretta.

6.4. La procedura ristretta


Vi corrispondono la licitazione privata (La licitazione privata, detta anche gara ad inviti, è un
sistema di scelta del contraente della pubblica amministrazione italiana, diciplinata dal codice dei
contratti pubblici. A differenza dell'asta pubblica, dove il pubblico incanto è aperto a tutti gli interessati
che rispettano i requisiti fissati dal bando, la licitazione privata è una gara nella quale sono invitati a
partecipare solamente i soggetti (in questo senso è privata) che sono considerati idonei, in base ad una
valutazione in via preliminare, a concludere il contratto. Nella licitazione privata è l'amministrazione a
definire lo schema negoziale, per cui il privato non può negoziare i contenuti del contratto.) e l’appalto-
concorso. Entrambi i sistemi presupponevano la previa conoscenza, da parte dell’amministrazione
appaltante, del mercato degli operatori del settore cui il contratto si riferiva.
Le stazioni appaltanti utilizzano di preferenza le procedure ristrette quando il contratto non ha
per oggetto la sola esecuzione.
La normativa nazionale, dietro impulso di quella comunitaria, ha tipizzato e specificato il criterio di
scelta dell’aggiudicatario, rendendolo trasversale a tutti i sistemi di selezione e parificando pienamente al
criterio tradizionale costituito dal prezzo più basso.
Il codice dei contratti pubblici ha istituzionalizzato criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa come criterio di aggiudicazione del contratto, concedendo la possibilità all'amministrazione
appaltante di decidere con riferimento alla maggiore adeguatezza delle offerte presentate, dal momento
che il criterio del prezzo più basso, utilizzato precedentemente, si è dimostrato insoddisfacente. Con
questo criterio nuovo il prezzo rimane solo come uno degli elementi necessari per la formulazione
dell'offerta e del conseguente giudizio dell'amministrazione, accanto agli altri parametri tecnici.

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La scelta del contraente, quindi, avviene attraverso l'individuazione dell'offerta preferibile,
ovvero, migliore sotto il profilo della qualità delle prestazioni. La direzione comunitaria va verso il
criterio del miglior rapporto qualità/prezzo.
Altra innovazione in materia è la presa in considerazione di elementi reputazionali riferiti alla
concreta capacità realizzativa degli operatori economici in caso di possesso di specifiche modalità
organizzative, qualifiche e esperienze che possano avere una influenza signficativa sull’esecuzione
dell’appalto.

6.5. La procedura negoziata


La trattativa privata a luogo quando, dopo aver interpellato più ditte, si tratta con una di esse.
Durante l'attività di contrattazione vera e propria, l'amministrazione opera libera da particolari forme
procedimentali o, meglio, con quel grado di libertà che le è riconosciuta anche nel suo agire privatistico,
comunque tenuto al rispetto del vincolo del fine specificato concretamente nella deliberazione di
contrattare. Rimane conservata, nella normativa UE 2014, la procedure negoziata senza previa
pubblicazione di bando di gara.

6.6. Stipulazione del contratto (fase 3)


Il verbale di aggiudicazione è l'ultima operazione della procedura di gara che conclude la
complessa fase di individuazione del contraente sulla base della scelta dell’offerta migliore.
Per la formale conclusione del contratto, è necessaria la successiva stipulazione del contratto
medesimo. Il codice dei contratti pubblici non ha riprodotto la formula normativa per cui il verbale di
aggiudicazione equivale per ogni effetto legale al contratto. L’aggiudicazione del contratto al miglior
offerente, risultante dal verbale di gara, è solo provvisoria. La medesima aggiudicazione definitiva
diventa a sua volta efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti da parte
dell’aggiudicatario.
La norma garantisce uno tempo di riflessione dopo l'aggiudicazione alla P.A., al termine del
quale può anche decidere di non procedere alla stipulazione del contratto, senza che, nel caso di
mancata stipulazione, l'aggiudicatario possa pretendere alcun indennizzo (salvo spese contrattuali).
La normativa vigente non prevede solo un termine finale, decorrente dalla aggiudicazione, per la
stipulazione del contratto, ma anche un termine dilatorio. È previsto lo standstill period cioè una pausa
nello svolgimento delle operazioni che conducono l’amministrazione alla formale conclusione del
contratto, che consenta ai concorrenti di valutare consapevolmente se esperire i rimedi per la tutela dei
loro interessi, nel caso che ritenessero che tali interessi lesi in concreto per violazioni delle norme sulla
procedura di evidenza pubblica. Questo periodo di pausa è stato voluto anche dall’UE.

6.7. Approvazione del contratto (fase 4)

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Il contratto giunge alla fase di esecuzione a seguito dell'approvazione del medesimo, da parte
dell'autorità competente. L'eventuale approvazione deve subire i controlli posti dalle norme delle stazioni
appaltanti o degli enti aggiudicatori. Come è propria di ogni funzione di controllo, gli aspetti di maggior
rilievo attengono alle competenze, parametri ed effetti. Per quanto riguarda i contratti delle
amministrazioni statali, i decreti di approvazione rimangono sottoposti al successivo controllo esterno
della Corte dei conti. La funzione di controllo attiene sia alla legittimità che al merito: il controllo
comporta, non solo la verifica della conformità alle norme, al bando…, ma anche della convenienza
economica. Infine, la mancata approvazione del contratto impedisce il verificarsi della produzione degli
effetti derivanti dall'accordo.

7. LE ALTERNATIVE ALL’EVIDENZA PUBBLICA


L'ordinamento nazionale e quello sovranazionale prevedono forme di contrattazione alternative,
favorendo l'alleggerimento dei vincoli procedurali.

7.1. Spese in economia


La P.A. può realizzare determinati lavori, servizi, forniture attraverso funzionari autorizzati, in forza
di apposito regolamento, sotto la propria responsabilità, il quale provvede direttamente all'acquisto di
beni, servizi, materiale e all'assunzione di tecnici ed operai (amministrazione diretta) oppure all'appalto
con imprenditori legati da un rapporto di fiducia all'ufficio procedente (cottimo fiduciario). L’elenco dei
lavori da effettuare con queste modalità deve essere inserito nel programma annuale
dell’amministrazione. A fini di garanzia, costui è tenuto all'obbligo di rendiconto finale periodico delle
somme messe a disposizione dalle amministrazioni di appartenenza e l'attività così realizzata è soggetta a
controllo successivo di regolarità

La materia delle spese in economia è disciplinata dall'articolo 125 del codice dei contratti
pubblici, il quale stabilisce distinti importi-limite per i lavori, servizi e forniture; la tipologia di
prestazioni è rimessa alla singola amministrazione in relazione alle specifiche esigenze.
La specificità di questo sistema di svolgimento dell’attività contrattuale delle P.A. attiene alle
forme procedurali. Alla riduzione dell’attività procedurale si accompagna una istituzionalizzazione della
trattativa privata.

7.2. Affidamento diretto


L’affidamento diretto è in realtà una variante delle spese in economia. L’affidamento diretto
condivide con le spese in economia la prevalenza o la rilevanza dell’elemento fiduciario nella scelta della
controparte contrattuale da parte della P.A. L'affidamento diretto prevede che l'appalto possa essere
aggiudicato a trattativa privata, senza preliminare pubblicazione di bando di gara, qualora per motivi di
natura tecnica, artistica o per ragioni attinenti alla tutela di diritti esclusivi, l'esecuzione dei servizi possa
venire affidata unicamente a un particolare prestatore di servizi.
Esso va riferito a due fattispecie: gli accordi quadro, tra una o più stazioni appaltanti uno o più
operatori economici, il cui scopo è quello di stabilire le clausole relative agli appalti, considerando prezzo
e quantità; il sistema dinamico di acquisizione, il quale si applica solo la prestazione tipizzate e
standardizzate.
La figura dell’accordo quadro era già conosciuta nell’ordinamento nazionale in una sua variante
mediante l’istituto delle “convenzioni quadro”La Società Concessionaria servizi informativi pubblici -
Consip, società a totale partecipazione statale, amministra le procedure competitive, a seguito delle quali
l'impresa prescelta sottoscrive con il Ministero dell'economia e delle finanze una convenzione-quadro (per
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le amministrazioni statali). Essa è l’impresa aggiudicatrice che, sulla base del codice dei contratti
pubblici, acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici prova ad altri enti
aggiudicatori o aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati
ad amministrazioni aggiudicatrici o ad altri eventi aggiudicatori. La legislazione nazionale ha allargato a
un numero molto ampio di tipologie di P.A. l’obbligo del ricorso, per categorie di beni e servizi e per
importi da individuare con decreto del Presidente del consiglio, alle convenzioni e agli accordi quadro
stipulati dalla Consip, obbligo sanzionato e rafforzato dall’abrogazione della disposizione che faceva
salva la possibilità per le P.A. di acquisire in autonomia, mediante procedure di evidenza pubblica, beni e
servizi, qualora i relativi prezzi fossero inferiori a quelli emersi dalle gare di Consip e dei soggetti
aggregatori.

7.3. E-procurement
Con tale denominazione si indica l’ingresso di sistemi informatici e telematici nell'attività
contrattuale delle P.A., mirato a conseguire obiettivi l'ampliamento delle economie di scala, maggiore
trasparenza nel confronto competitivo, velocizzazione, riduzione dei costi di transazione attraverso la
standardizzazione della domanda. La direttiva del 2014 ha stabilito che tutte le procedure di
aggiudicazione degli appalti svolte da questi organismi sono effettuate utilizzando mezzi di
comunicazione elettronici. Le amministrazioni aggiudicatrici possono affiancare alle gare tradizionali,
una procedura telematica che sia parzialmente integrativa delle prime o integralmente sostitutiva (asta
elettronica e gara telematica). L’asta elettronica è aggiudicabile con entrambi i criteri previsti per le
procedure dell’evidenza pubblica e si conclude con la scelta automatizzata del contraente in funzione dei
risultati dell’asta medesima. La gara telematica può prevedere il metodo dell’offerta unica o quello dei
rilanci.Le P.A. possono attivare procedure telematiche del tipo “mercato elettronico” per le spese in
economia e per gli acquisti al di sotto della soglia di rilievo europeo dagli operatori economici abilitati a
seguito di procedura avviata con apposito bando.
Gli acquisti mediante cataloghi elettronici sono disciplinati dall’art. 35 Dir. UE 24/2014.
8. Poteri, diritti ed obblighi nell’esecuzione del contratto
La fase dell’esecuzione del contratto è assoggettata alle regole generali del diritto privato.
L'amministrazione è tenuta sostanzialmente ad eseguire il contratto secondo buona fede, come previsto
nell'art. 1375 c.c., per cui deve assicurare la buona esecuzione delle forniture o dei lavori e vigilare per
l'esatto adempimento del contratto, come recitano le norme del regio decreto n. 827/1924.

8.1. La specificità di alcune norme di diritto pubblico


La normativa pubblicistica contiene la disciplina di alcuni poteri di intervento unilaterale delle
P.A., il cui esercizio è in grado di incidere, anche con effetto risolutivo, sulla vita del rapporto
obbligatorio costituito con il contratto. Questi poteri sono ricondotti all'autotutela che l'ordinamento
riconosce e garantisce alle P.A. in vista della tutela privilegiata dell'interesse pubblico. A questo ambito
vanno ricondotti poteri come:
• Disporre invia l'urgenza la anticipata esecuzione del contratto di appalto
• Risoluzione del contratto di appalto di lavori per reati espressamente individuati, per grave
inadempimento, irregolarità, ritardo; in questo caso si ricorre allo scorrimento della graduatoria
• Recedere in qualunque tempo dal contratto previo il pagamento dei lavori eseguiti del valore di
materiali, oltre al decimo delle opere non eseguite
• Sospensione dei lavori quando circostanze speciali impediscano in via temporanea che i lavori
procedano a regola d’arte
• Risoluzione per inadempimento e revoca della concessione di lavori e servizi
• Potere pubblicistico di recesso (sottoposto al giudice amministrativo).

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In questo ambito, la pressione esercitata dalle esigenze di spending review e di lotta alla
corruzione e ai fenomeni malavitosi, ha indotto a estendere e rafforzare la gamma di poteri unilaterali
previsti per la P.A.
L’art. 1 c. 13 d.l.n. 95/2012 ha disposto l’inserimento automatico del diritto di recesso in ogni
tempo nei contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c.
Per quanto concerne la revisione del prezzo, ai lavori pubblici, affidati dalle amministrazioni
aggiudicatrici e dagli altri enti aggiudicatori o realizzatori, (vige il principio della invariabilità del
prezzo) si applica il prezzo chiuso, eventualmente maggiorato di una percentuale che tenga conto degli
andamenti inflazionistici (secondo le modalità fissate dall'art. 26, legge n. 109/1994”).
Il potere dell’amministrazione di risolvere il contratto, salvo indennizzo, quando le varianti
necessarie per il manifestarsi di errori od omissioni del progetto esecutivo che pregiudicano in tutto o in
parte la realizzazione dell’opera o la sua utilizzazione eccedano 1/5 dell’importo originario del contratto è
in buona misura equivalente al diritto potestativo di recesso del committente. Anche ai servizi e alle
forniture si applica il regime disposto per i lavori ordinari.
Per quanto concerne l’esecuzione del contratto, uno degli aspetti maggiormente rilevanti circa la
valutazione dell’impatto della nuova regolazione UE sulla disciplina nazionale attiene al fatto che per la
prima volta le direttive estendono in modo significativo il proprio intervento uniformatore. La finalità
della disciplina del 2014 è di garantire che gli interventi non unilaterali ma concordati con il partner
contrattuale sulle condizioni di contratto siano mantenuti entro i limiti compatibili con l’assetto
concorrenziale del mercato rilevante. Finalità della disciplina del 2014 è che i poteri di nuovo unilaterali
di terminazione del contratto riconosciuti in capo all’amministrazione vengano utilizzati per rimediare a
violazioni delle regole pro-concorrenziali.
La presenza di profili almeno in parte comuni tra diritto pubblico e privato risiede nel collaudo dei
lavori e delle forniture previsto dall’art. 120 codice dei contratti pubblici, attuato con gli artt. 215-238
del regolamento per i lavori e con gli artt. 312-325 per i servizi e forniture, corrisponde infatti, in via
di prima approssimazione, alla “verifica” preliminare all’accettazione dell’opera prevista dall’art. 1665
c.c.
La procedura di collaudo, momento terminale della vicenda contrattuale, presenta diverse
funzioni:
a) la verifica, da parte del committente, di conformità dell'opera alle regole dell'arte e agli accordi
risultanti dal contratto originario e dalle sue eventuali varianti e, conseguentemente, anche la
comunicazione del risultato di tale verifica.
b) la risoluzione delle questioni tecnico-patrimoniali (che la relativa disciplina prevede possano
rimanere in sospeso).
c) la liquidazione del corrispettivo spettante all'appaltatore come accettazione definitiva
dell'opera. Perciò l'atto di collaudo è inteso dalla giurisprudenza come atto necessario per la regolare
conclusione della vicenda contrattuale.


8.2. L’applicabilità di alcune norme di diritto privato


Le clausole vessatorie (artt.1341-1342 c.c.), fino a metà degli anni 80 non erano applicabili agli
enti pubblici ma con il tempo si è affermato il principio che il contratto di applato di lavori pubblici si
fonda su una norma di diritto privato ed è manifestazione dell’autonomia negoziale dell’amministrazione.
Da qui l’affermazione che la specifica approvazione per iscritto di clausola limitativa di responsabilità o
di altre clausole onerose predisposte unilateralmente da una parte per una serie indefinita di futuri
contratti si estende anche al caso in cui il soggetto predisponente sia la P.A. Le clausole vessatorie
riguardano il momento della formazione del vincolo negoziale, per cui la pubblica amministrazione deve
tutelare il consumatore dagli abusi del professionista.

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Nell’ambito della materia dei contratti delle P.A., la questione della applicabilità delle norme
civilistiche in esame si è posta particolarmente per quanto concerne le clausole contenute nei capitolati
d’appalto.
Sul versante del momento conclusivo del vincolo negoziale, si pone nella questione
dell'adempimento della prestazione pecuniaria da parte dell'amministrazione, per cui il privilegio per il
contraente pubblico è stato superato per garantire il corretto funzionamento del mercato interno contro i
ritardi nei pagamenti.

9. Forme e vicende della patologia dell’attività contrattuale. Responsabilità delle parti e tutela
giurisdizionale.
Nello svolgimento del rapporto contrattuale possono realizzarsi momenti di difformità rispetto alle
regole del diritto amministrativo nei confronti del codice civile, con la conseguenza di dover verificare
modalità e limiti delle interferenze nelle rispettive qualificazioni.

9.1. Aggiudicazione e contratto tra invalidità e inefficacia e tecniche di tutela


Il vincolo contrattuale può formarsi in modo invalido a seguito di difformità inerenti alle
prescrizioni del codice civile; l’art. 1418 prevede infatti che la mancata ottemperanza degli elementi
attinenti alla causa, alla forma (di norma per le P.A. deve essere utilizzata la forma scritta), all’oggetto o
alla contrarietà di norme imperative, possa produrre la nullità del contratto.
Una questione di validità ed efficacia del contratto si pone a seguito di una patologia nella fase di
formazione, a seguito di anomalie del consenso: sia nel caso di determinazione a contrarre invalida (si
viene a realizzare un vizio di legittimazione dell’organo deputato alla dichiarazione negoziale), sia in
difformità (la conclusione da parte dell’organo autorizzato di un ente pubblico di un contratto in tutto o in
parte diverso da quello deliberato dall’organo competente realizza una forma di eccesso di potere) con
quanto previsto dalla determinazione. In entrambi, la conseguenza è l'annullabilità del contratto stesso
ad iniziativa esclusiva dell'amministrazione interessata.

Una ulteriore patologia che si è formata è quella concernente l’azione dell’amministrazione di


individuare un contraente attraverso procedura negoziale, al di fuori delle ipotesi legislativamente
previste; la giurisprudenza ha riconosciuto alle imprese del settore la possibilità di impugnare gli atti
davanti al giudice amministrativo. Nel corso del tempo la giurisprudenza ha stabilito, a carico della P.A.,
una responsabilità precontrattuale (ai sensi dell’art.1337 c.c.) che stabilisce l’azione in osservanza dei
doveri di correttezza, lealtà e buona fede. Risulta superato l’orientamento giurisprudenziale che negava al
privato di ricorrere al giudice amministrativo contro abusi della P.A., dovendo restare in posizione di
mera aspettativa nei suoi confronti. La contestazione per motivi di legittimità nei confronti di atti ed
operazioni della procedura, a partire dallo stesso bando di gara, va portata davanti al giudice
amministrativo, dai soggetti partecipanti alla gara, nei confronti dell’atto di aggiudicazione definitiva.
La posizione dell’aggiudicatario dopo l’inutile decorso dello standstill period va considerata alla
luce della disciplina contenuta nell’art. 11 codice dei contratti pubblici che sembra sottrarre
l’amministrazione aggiudicatrice all’obbligo della redazione formale del contratto pur dopo
l’aggiudicazione, come adempimento vincolato. L’aggiudicazione definitiva non equivale ad
accettazione dell’offerta.
Facendo propria la distinzione di matrice civilistica tra “norme di condotta” e “norme di validità”, il
giudice amministrativo addebita ormai all’amministrazione una responsabilità di tipo precontrattuale ogni
qual colta essa realizzi con il suo comportamento una violazione delle norme imperative che pongono
regole di condotta da osservarsi durante l’intero svolgimento della procedura di evidenza pubblica, pur
senza che ciò comporti necessariamente l’invalidità della procedura di affidamento, operando tali regole
su di un piano diverso da quello proprio delle regole di validità.
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Non possono sussistere obblighi risarcitori per l’amministrazione in caso di revoca legittima di
un’aggiudicazione provvisoria, per cui l’aggiudicatoria scaduti i termini per la stipulazione e il controllo,
può scogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto.
Anche su questa parte della materia è stata determinante l’influenza del diritto UE con la “direttiva
ricorsi” volta a sanzionare con la “privazione di effetti” del contratto aggiudicato alcune della fattispecie
più gravi di illegittimità della procedura. Tale previsione, in particolare, è riferita alle fattispecie di
illegittimità derivanti dalla aggiudicazione del contratto senza previa pubblicazione del bando di gara e
dal mancato rispetto dei termini sospensivi previsti per la stipulazione del contratto. Le conseguenze della
“privazione di effetti” sono definite dal diritto nazionale, potendo comportare la soppressione, anche a
carattere retroattivo, totale o parziale degli obblighi contrattuali. Per i casi di violazione delle regole non
espressamente specificati dalla norma sovranazionale, gli effetti delle decisioni in merito alle
procedure di ricorso devono essere determinati dal diritto nazionale.
È alla luce della nuova normative processuale che va presa in considerazione anche l’eventuale
pretesa del concorrente pretermesso al risarcimento danni, per la lesione dei suoi interessi per il mancato
o illegittimo affidamento del contratto, in quanto cioè sia possibile imputare all’amministrazione
contrattante la responsabilità extracontrattule.
Il Consiglio di Stato si è espresso nei confronti delle amministrazioni attribuendo loro queste
responsabilità precontrattuali, anche a seguito di atti di autotutela da parte della stessa, nei casi in cui
sia lesa la ragionevole aspettativa dell’aggiudicatario, per cui la P.A. assume un atteggiamento
colpevole.
Ne sono esempi:
- le revoca della gara per revisione del progetto anni dopo l’aggiudicazione;
- impossibilità di realizzare l’opera per mutate condizioni di intervento;
- annullamento per vizio rilevato alla fine della procedura quando esso poteva essere già stato rilevato
preliminarmente.
Al contrario non possono sussistere obblighi risarcitori per l’amministrazione in caso di revoca legittima
di un’aggiudicazione provvisoria.
9.2. Segue: l’applicazione dei criteri di riparto della giurisdizione
In forza dell’art. 133 del codice del processo amministrativo, sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alle procedure affidamento di lavori,
servizi, forniture, svolte da soggetti tenuti all’applicazione della normativa comunitaria, statale e
regionale. Sono altresì assegnate alla giurisdizione esclusiva le controversie sulla revisione o
sull’adeguamento del prezzo e sul divieto di rinnovo tacito dei contratti.
In tale modo, il codice del processo amministrativo, ha confermato, per un verso, l’assegnazione al
giudice amministrativo della competenza a disporre circa la definizione del complessivo assetto degli
interessi coinvolti dall’avvio di una procedura di evidenza pubblica
Il giudice amministrativo è stato configurato dalla legislazione statale in materia, in quanto giudice
naturale della legittimità della funzione pubblica, come giudice esclusivo sull’illegittimo svolgimento
della itnera attività di formazione dei contratti di appalto in quanto abbia connotato funzionale.
Tale giurisdizione presenta inoltre la peculiarità di svolgersi secondo un rito che è abbreviato e speciale
insieme. Essa è una giurisdizione, per cosi dire, riservata in quanto sottratta all’alternativa, sul piano
degli strumenti di tutela, con il ricorso al Capo dello Stato; ed è giurisdizione pur sempre integrata
dall’eventuale giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato di annullamento
dell’aggiudicazione, compresa la declaratoria di inefficienza del contratto.
La disciplina sulla giurisdizione contenuta nel codice del processo amministrativo ha tenuto ferma,
escludendola dalla devoluzione ivi definita, l’attribuzione al giudice ordinario delle controversie
insorte nella fase di esecuzione del contratto.

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Anche per questa parte del contenzioso, secondo una rislente tradizione nella materia dei contratti
pubblici, rende possibile l’esperimento di modalità alternative di risoluzione delle controversie:
- transazione
- accordo bonario
- arbitrato

CAPITOLO X – I CONTROLLI
1. Introduzione

I controlli amministrativi consistono nella verificazione di atti o attività di P.A. La verificazione è svolta
da autorità che valutano la conformità o meno di quegli atti e attività a determinate regole e che adottano
gli interventi o “misure” conseguenti, ovvero che sollecitano altre autorità ad assumere le misure che ad
esse spettano nella sfera delle loro attribuzioni. Tutti gli atti e le attività delle pubbliche amministrazioni
possono formare oggetto di controlli. Si tratta del principio della generalizzazione del controllo, basato
sulla considerazione che l'attività amministrativa è rilevante in tutti i suoi aspetti per i fini che persegue.
Di qui da una parte, l’estensione dei controlli a tutti gli ambiti di attività amministrativa e, dall’altra, la
loro differenziazione, in ragione della varietà di conoscenze da applicare nei diversi settori.
I controli esprimono sempre un rapporto fra l’autorità di controllo e il soggetto la cui azione è
sottoposta a controllo. La situazione dell’autorità di controllo rirspetto al soggetto sul quale il controllo si
esercita ha le caratteristiche proprie del potere, nel senso che l’autorità di controllo ha la capacità di
realizzare, all’interno del rapporto, l’interesse specifico per il quale è ad essa intestata l’attribuzione di
controllo.

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La caratteristica più rilevante dei controlli è la loro accessività rispetto all’azione amministrativa di cui
valutano la regolarità, ovvero rispetto all’azione delle autorità che hanno, sull’amministrazione, poteri
di indirizzo o d’intervento.
La finalità del controllo è di migliorare l'attività amministrativa ed il modo in cui l'amministrazione
cura gli interessi pubblici che è chiamata a perseguire. I controlli appartengono all’organizzazione della
funzione principale cui accedono; il che distingue i controlli amministrativi da funzioni e procedimenti
che si caratterizzano per l’avere in se stessi una finalità di controllo su attività di privati o anche finalità di
revisione o riesame di procedimenti amministrativi.
L'autorità di controllo dispone di una posizione giuridica di potere rispetto al soggetto controllato a fronte
del quale corrisponde un dovere di cooperazione, consistente nell'obbligo del soggetto controllato di
sottostare a tale attività di verifica, rendendo possibile ogni tipo di attività necessaria a consentirne
l'esercizio.

2. Il rapporto di controllo

Gli elementi del rapporto di controllo sono:


- parti (soggetti) in posizione di subordinazione, equiordinazione, di autonomia o di reciproca
indipendenza
- l’oggetto cioè l’attività amministrativa da controllare, dagli atti singolarmente considerati ai risultati
delle pubbliche gestioni
- il parametro cioè il conseguimento di determinati obiettivi fissati dalla legge, dai regolamenti o da
appositi piani e programmi
- il giudizio cioè la valutazione di conformità ad una regola prestabilita nel parametro
la misura (l’esito) rappresentata dall’intervento che segue al giudizio secondo i poteri fissati dalle
norme. Non vi rientra, invece, la finalità, rapportata ogni volta all’interesse specifico per il quale è
intestata l’attribuzione di controllo all’autorità.

2.1. Le parti
Le parti del rapporto di controllo possono essere, fra loro, in posizione di subordinazione, di
equiordinazione, di autonomia o di reciproca indipendenza.
- Rapporti di subordinazione: è sempre compreso un rapporto di controllo, nel senso che l’autorità
sopraordinata ha un potere di controllo sull’autorità subordinata. L’autorità superiore può annullare,
modificare, revocare gli atti dell’autorità inferiore.
- Rapporti tra autorità equiordinate: questi rapporti di controllo sono previsti, in genere, da norme di
legge, poiché implicano la soggezione, altrimenti non consentita, di un’autorità amministrativa ad
un’altra dello stesso livello. È il caso dei ministeri nei confronti del minestero dell’Economia e delle
finanze, cui la legge attribuisce il potere di verificare la congruità e la coerenza fra gli obiettivi che
ogni ministero si propone di conseguire e le risorse da esso richieste per la loro realizzazione; o il
potere di monitorare l’andamaneto delle spese dei singoli ministeri; o il potere di sottoporre a controllo
di regolarità amministrativa e contabile i loro atti e rendiconti. Ma vi sono rapporti di controllo
instaurati su base convenzionale, come quelli che derivano dagli accordi fra amministrazioni per
l’esercizio in comune di attività.

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- Rapporti di controllo tra autorità in posizione di reciproca indipendenza (fra Corte dei Conti e
Governo) o di autonomia (fra Stato e Regioni): sono istituiti direttamente dalla Costituzione o da
norme di legge sulla base di precise esigenze costituzionali. È il caso del controllo successivo della
Corte dei Conti sulla gestione del bilancio dello Stato da parte del governo e dei controlli del MEF
(oltre che della Corte dei Conti) sull’orsservanza da parte delle Regioni e degli enti locali, del patto di
stabilità interno, il cui rispetto è fattore essenziale dell’unità economica della Repubblica. Le difficoltà
in cui versa la finanza pubblica nazionale hanno determinato effetti restrittivi sulla gestione delle
regioni e degli enti locali, con un consistente rafforzamento dei controlli nei confronti delle une e degli
altri. Tali controlli hanno dato vita ad un sistema di sorveglianza preventiva e successiva sul rispetto
degli equilibri finanziari.

2.2. L’oggetto e il parametro


Ogni attività amministrativa, di qualsiasi autorità, può formare oggetto di controlli. Vi sono però dei
limiti:
- Il primo deriva dall’ambito del potere di controllo, talchè, ad esempio, il controllo di legittimità degli
atti amministrativi non può riguardare la verifica di efficienza degli uffici
- Il secondo dipende dalla grande varietà dei possibili oggetti di controllo e dalla molteplicità dei
parametri di giudizio applicabili dall’autorità di controllo. In assenza di specifiche limitazioni, la
scelta degli oggetti e dei parametri del controllo sarebbe rimessa alla piena discrezionalità del
controllore, con il pericolo di esporre gli amministratori ad un potere illimitato.
La Costituzione e le leggi circoscrivono gli oggetti delle verifiche e i parametri in base ai quali verrà
espresso il giudizio di controllo. Art. 100 Cost. stabilisce che la Corte dei Conti verifica gli atti del
governo mediante un controllo preventivo di legittimità; un insieme di norme costituzionali (artt.
28,81,97,100 e 119) consente che la stessa Corte eserciti il controllo successivo sui risultati delle
pubbliche gestioni, ma la Corte può svolgere questo controllo solo dopo aver stabilito il programma
annuale della propria attività, nel quale indica sia gli oggetti di controllo, sia i parametri che impiegherà
per valutare i risultati di ciascuna gestione.
Possono essere oggetto di controllo sia atti amministrativi singolarmente considerati, sia attività o
gestioni amministrative, intese come insiemi complessi di atti, comportamenti, strutture, procedimenti,
ordinati al raggiungimento di determinati risultati.
Il controllo su atti è un controllo preventivo (ex ante) che precede l'introduzione dell'atto
nell'ordinamento e ne condiziona l'acquisto di efficacia; il suo parametro è la legittimità e, cioè, la
conformita alla legge.
Ad oggi, controlli preventivi di legittimità ad effetto impeditivo dell’efficacia si esercitano, per un verso,
nei confronti degli atti delle amministrazioni statali che sono sottoposti al controllo interno di regolarità
amministrativa e contabile del Dipartimento della ragioneria generale dello Stato; per un altro verso, nei
confronti degli atti del governo grazie alla norma costituzionale dell’art. 100 che attribuisce alla Corte dei
Conti il relativo potere. L’effetto impeditivo è sempre superabile se l’autorità che ha emesso l’atto si
assume la responsabilità della sua esecuzione.
Il controllo su attività o su gestioni o meglio, sui risultati di attività o di gestioni è un controllo ex post
(successivo): in quanto la verifica dei risultati o della realizzazione degli obiettivi fissati nel programma
non può che avvenire una volta conclusa l'attività o la gestione pubblica. Dell’attività o della gestione
possono essere esaminati gli oggetti più diversi. I parametri del controllo assumono a riferimento il

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conseguimento degli obiettivi definiti dalle leggi, dai regolamenti, da piani e programmi ed hanno lo
scopo di misurare il grado di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Vi sono situazioni nelle quali il controllo su atti è associato e combinato con il controllo su attività o su
gestioni. Il caso più significativo è quello dei controlli successivi della Corte dei Conti sui bilanci e sui
rendiconti degli enti locali e degli enti sanitari. Si tratta di controlli su atti (bilanci e rendiconti), l’esame
dei quali consente di acquisire elementi rivelatori di anomalie gestionali, oppure il mancato
perseguimento di obiettivi prestabiliti; o ancora la violazione di regole gestionali.

2.3. Il giudizio e la misura


Il giudizio nel quale culmina il controllo è una valutazione di conformità a regole. E siccome le regole
dell’azione amministrativa sono innumerevoli, lo sono anche i possibili giudizi che riguardano le attività
delle P.A.
- Il controllo di legittimità: in cui le regole sono costituite da norme giuridiche ed il giudizio può essere
di conformità o difformità di un atto o un’attività rispetto ad una o più norme. Ne sono esempi il
controllo di legittimità della Corte dei conti sugli atti degli governo.
- Controlli tecnici: cioè a carattere tecnico o scientifico, che sono di tante specie quante sono le
tecniche e le scienze con le quali è possibile misurare le attività amministrative. Vi sono quelli
contabili, finanziari, di qualità, di gestione, di valutazione del personale, strategici che analizzano la
congruenza tra obiettivi prestabiliti e risultati conseguiti.
- Controlli di merito o di opportunità: le cui regole sono quelle della convenienza amministrativa e
cioè, di utilità suscettibili del più vario apprezzamento, a seconda del punto di vista assunto da chi
amministra e da chi esercita il controllo. Si tratta, ad esempio, dei controlli che, nel regime
precostituzionale, i prefetti esercitavano sugli enti locali al fine di indirizzare le loro scelte politico-
amministrative.
La pronuncia del giudizio di controllo apre la via all’applicazione della misura e cioè dell’intervento che,
secondo le norme, deve far seguito al giudizio. Si può trattare, nel giudizio su atti, di autorizzare o meno
la loro introduzione nell’ordinamento. Nel giudizio su attività, l’accertamento della regolarità può
determinare, quando ad esito positivo, l’adozione di misure favorevoli a chi ha svolto l’attività; quando ad
esito negativo, misure di ripristino della regolarità.

3. I controlli nella Costituzione e l’influenza del diritto europeo


La Costituzione si occupa espressamente di controlli in due disposizioni:
- Art. 100 c.2: relativa al controllo preventivo della Corte dei Conti sugli atti del governo e al controllo
successivo della stessa Corte sulla gestione del bilancio dello Stato e sulla gestione finanziaria degli
enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria
- Art. 100 c.3: che garantisce l’indipendenza della Corte e dei suoi componenti nei confronti del
governo.
Vi sono però, nella Costituzione, numerose disposizioni che indirettamente si riferiscono ai controlli. La
più importante è quella che impone al legislatore statale ed ai legislatori regionali il rispetto degli obblighi
derivanti dall’appartenenza all’UE (art. 117).
Su questa norma si fondano taluni controlli che costituiscono il riflesso dell’appartenenza all’UE, essendo
intesi a verificare l’uso delle risorse finanziarie provenienti dall’UE e il rispetto degli obblighi comunitari.
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Sono, anzitutto, i controlli della Commissione e quelli nazionali sull’utilizzo dei fondi comunitari e
sull’osservanza del patto di stabilità e crescita, che vincola gli Stati a realizzare determinati obiettivi di
finanza pubblica; di qui, l’interesse di ciascuno Stato membro a verificare, mediante propri controlli, che
ogni sua componente rispetti le regole di evoluzione della finanza pubblica stabilite in sede UE.
Sono anche i controlli della Corte dei Conti europea di norma effettuati in collaborazione con le
istituzioni nazionali di controllo, ma sotto la direzione e la responsabilità della Corte comunitaria, sulla
sana gestione finanziaria di qualsiasi organismo (pubblico e non) che gestisca le entrate o le spese per
conto dell’UE e negli Stati membri, con esito di relazione al parlamento europeo e al consiglio su ogni
caso di irregolarità.
La Corte dei Conti europea ha favorito la creazione di un sistema di controlli a catena o a piramide
fondato su 3 principi:
- Continuità fra i controlli
- Valore aggiunto
- Ogni livello di controllo deve poter contare sulla provata fondatezza dei giudizi formulati nel
livello precedente.
il sistema dei controlli a catena è ormai assunto come paradigma del regime di controlli indipendenti
richiesto dalla nuova governance economica europea. I controlli nazionali poggiano sempre più su di
una base europea.
Vi sono poi, numerose altre norme costituzionali che interessano, in vario modo, la materia dei controlli:
- art. 81 c.3 che stabilisce il principio dell’equilibrio finanziario fra entrate e spese e che incorpora i
parametri di convergenza fra le economie degli Stati UE
- art. 2 l. cost. n. 1/2012 che richiama le P.A. all’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito
pubblico.
- artt. 117 c.3 e 119 c.2 relativi al coordinamento della finanza pubblica, che richiamano l’esigenza di
controlli sull’intera finanza nazionale, allo scopo di garantire il rispetto degli equilibri generali stabiliti dal
parlamento.
- art. 120 sull’unità economica della Repubblica
- art. 97 c.1 che stabilisce il principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione e richiede
che i controlli abbiano di mira l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa.
- art. 28 che fonda la responsabilità dei pubblici funzionari anche per i risultati dell’attività
amministrativa e che implica controlli sulla congruenza tra risorse assegnate ai dirigenti e risultati da essi
conseguiti, oltre che alla valutazione della loro performance.
Nuovi controlli, interni ed esterni, sulle amministrazioni regionali e locali sono stati introdotti dal d.l. n.
174/2012 convertito dalla l. n. 213/2012 con la finalità di far sì che tutti gli enti del settore pubblico
contribuiscano al rispetto dei vincoli UE. Inoltre la finalizzazione europea che è propria dei controlli
regolati dal d.l. 174/2012 comporta che i poteri di controllo esterno debbono imporsi in modo uniforme
nell’intero territorio nazionale.
4. I principali tipi di controllo
Le principali tipologie dei controlli amministrativi sono rispecchiate dalle distinzioni fra controlli
preventivi e controlli successivi, controlli interni e esterni, controlli di conformazione e controlli di
integrazione.

4.1 Controlli preventivi e controlli successivi

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Il controllo preventivo di legittimità verifica la conformità di atti amministrativi rispetto a norme
giuridiche.
L’effetto impeditivo è presente nell’unico controllo esterno di legittimità su atti, quello della Corte dei
Conti, il quale può essere superato con la registrazione con riserva che consente al governo di rendere
efficace l’atto, assumendo la responsabilità davanti al parlamento. Il controllo preventivo di legittimità,
avendo ad oggetto atti non ancora esguiti, non è in grado di valutarne gli effetti e, quindi, i risultati, in
rapporto agli interessi pubblici da realizzare.
Il controllo successivo verifica i risultati di attività o di gestioni, secondo le regole delle scienze e delle
tecniche mediante le quali è possibile valutare i prodotti dell’azione amministrativa. Il suo scopo è
quello di segnalare inefficienze e disfunzioni ai responsabili della gestione e ad altre autorità, affinché
possano intervenire a modificare gli assetti organizzativi o riallocare competenze. Ma il controllo
successivo può anche avere la finalità di rilevare, in positivo, standard di efficienza e qualità di servizi e,
su questa base, avviare il perseguimento di obiettivi più elevati.
Si tratta, quindi, di controlli che hanno lo scopo di cooperare al miglior svolgimento dell’attività
amministrativa essendo diretti prima di tutto a stimolare, nell’ente o nell’amministrazione controllati,
processi di autocorrezione sia sul piano delle decisioni legislative, dell’organizzazione amministrativa e
delle attività gestionali, sia sul piano dei controlli interni.
Il controllo successivo riveste carattere collaborativo. Tale carattere giustifica l’esercizio dei controlli
che, a fini costituzionali di coordinamento della finanza pubblica, la Corte dei conti è chiamata a svolgere
nei confronti delle regioni e degli enti locali, verificando che le une e gli altri operino nel rispetto degli
equilibri di bilancio e dei principi di sana gestione finanziaria.
Una specie di controllo successivo è il controllo in corso di esercizio che viene effettuato durante lo
svolgimento dell’attività. Controlli in corso di esercizio sono anche quelli che, sotto forma di
monitoraggio, consentono alle autorità competenti di intervenire con relativa immediatezza a fini di
correzione o di aggiustamento.
Un’evoluzione dei controlli preventivi e successivi è costituita dalla valutazione delle politiche
pubbliche, intese come l’insieme delle attività che vanno dall’enunciazione degli obiettivi da conseguire
alla definizione dei programmi operativi. La valutazione delle politiche consiste in un giudizio su
attività, con riguardo al loro impatto sui destinatari, diretti o indiretti, dell’azione; onde è proprio
l’analisi di tale impatto a fornire la misura dell’utilità dell’azione stessa, ovvero la necessità di meglio
organizzarla o svolgerla.
Al controllo preventivo sfugge ogni apprezzamento dell’impatto che andrà a produrre l’atto sottoposto a
controllo; la valutazione si compie mediante previsioni e proiezioni circa gli effetti dell’azione pubblica.
La valutazione ex ante costistuisce la forma più moderna di controllo preventivo.
La differenza fra valutazione e controllo successivo consiste nel fatto che la valutazione, quando è rivolta
a verificare gli effetti prodotti da un atto normativo sulla realtà economico-sociale, ha, rispetto al
controllo, un oggetto più esteso e parametri più articolati.
Oggetto: il controllo si occupa di risultati dell’attività (output); la valutazione cerca di cogliere gli effetti
complessivamente determinati da quella attività (outcome) nell’ambiente in cui essa si è svolta.
Parametri: il controllo si svolge istituendo una serie di rapporti fra gli obiettivi, i mezzi e i risultati;
invece, la valutazione utilizza anche metodologie di altre scienze sociali e si propone l’apprezzamento di
obiettivi a lungo termine, da conseguire o conseguiti mediante una certa politica.
A metà strada tra controlli preventivi e successivi si collocano pure quelli nei quali la finalità del controllo
sui risultati viene perseguita mediante valutazioni preventive circa il possibile impatto dei programmi di
spesa sugli equilibri di bilancio. È quanto accade con le relazioni mediante le quali la Corte dei conti
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riferisce al parlamento e ai consigli regionali l’esito delle sue valutazioni circa le tecniche di
quantificazione degli oneri e le modalità di copertura delle nuove leggi di spesa.

4.2. controlli interni


I controlli interni costituiscono attribuzione dell'amministrazione i cui atti o la cui attività sono oggetto
di verifica. Essi sono svolti da uffici della stessa amministrazione o dello stesso insieme di
amministrazioni, che può comprendere anche amministrazioni fra loro non omogenee. I controlli interni si
fondano sul presupposto che le amministrazioni debbano organizzare le risorse di cui dispongono nella
maniera più economica, efficiente ed efficace. La disciplina dei controlli interni è prerogativa di
ciascuna amministrazione e in questo senso dispongono le norme costituzionali, intestando alle
amministrazioni collocati ai diversi livelli di governo la potestà normativa in materia di organizzazione
dei propri uffici e quindi anche degli uffici di controllo interno.
Le quattro tipologie di controllo interno descritte dal d.lgs. n. 286/1999 sono:
- Controllo di regolarità amministrativa e contabile: inteso a garantire la legittimità, regolarità e
correttezza dell’azione amministrativa; può avere carattere preventivo solo nei casi stabiliti dalla legge
e non è mai impeditivo dell’efficacia dell’atto.
- Controllo di gestione: inteso a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione
amministrativa, per consentire ai dirigenti di ottimizzare il rapporto tra costi e risultati.
- La valutazione dei dirigenti: ha ad oggetto sia i risultati della gestione loro affidata, sia le loro
competenze organizzative e costituisce il presupposto per l’applicazione delle misure stabilite in
materia di responsabità dirigenziale, come anche per l’attribuzione dei riconoscimenti economici
previsti dai CCNL.
- La valutazione e il controllo strategico: intesi a supportare l’attività degli organi di indirizzo politico-
amministrativo e ad apprezzare l’adeguatezza delle scelte operate dai dirigenti rispetto agli obiettivi
stabiliti dalle norme, nonché a identificare gli eventuali fattori ostativi al conseguimento degli
obiettivi.
A parte il controllo di gestione, le altre specie di controllo interno sono state oggetto di norme successive
al d.lg n. 286/1999 che ne hanno modificato l’impostazione originaria, incentrata sulla distinzione dei
compiti fra potere politico e dirigenza amministrativa, in favore di una maggiore ingerenza del primo
nelle attività della seconda, oltre che di una più ampia accountability dei dirigenti nei confronti dei
cittadini.

Il d.lg. n. 150/2009 ha stabilito che ogni amministrazione è tenuta a misurare e a valutare la


performance della propria organizzazione e dei suoi dipendenti. Si tratta di un compito che le
amministrazioni non hanno mai svolto, soprattutto per l’assenza, al loro interno, di una cultura della
valutazione e di strumenti idonei a valutare le qualità delle prestazioni di lavoro. È stato quindi previsto
(d.l. n. 90/2014) che un regolamento governativo provveda a riordinare le funzioni in materia di
misurazione e valutazione della performance, sulla base di una serie di criteri come la semplificazione
degli adempimenti a carico delle P.A., onde rendere effettivo il principio di premialità all’esito positivo
delle valutazioni circa le performance organizzativa e individuale.
Ciascuna amministrazione è tenuta a dotarsi di un sistema di misurazione e valutazione della
performance idoneo a rilevare sia la performance organizzativa sia quella individuale dei dipendenti. Le

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P.A. sono tenute a redigere e a rendere pubblici, ogni anno, un documento programmatico iniziale,
denominato piano della performance e un documento riassuntivo finale relazione sulla performance.

Il sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ha ad oggetto: l’attuazione di


piani e programmi; la qualità e la quantità dei servizi erogati; l’efficienza nell’impiego delle risorse; la
modernizzazione e il miglioramento qualititativo dell’organizzazione. Il sistema di rilevazione della
performance individuale è diverso a seconda che esso riguardi i dirigenti o il personale non dirigente.
Il legislatore ha stabilito il metodo da seguire nel processo di misurazione e valutazione della
performance. Tale metodo, denominato ciclo di gestione della performance (art. 4. D.lg. n. 150/2009),
si articola in una serie di fasi, che debbono procedere in coerenza con i documenti di programmazione e
di bilancio propri di ciascuna P.A.
L’operazione principale di tale processo è la definizione degli obiettivi, ed è stabilito che essi siano
programmati su base triennale e che debbano possedere delle caratteristiche come ad esempio la rilevanza
e la pertinenza ai bisogni della collettività.
La funzione di misurazione e valutazione delle performance è svolta da un insieme di soggetti che sono:
gli organismi indipendenti di valutazione della performance (OIV), costituiti in ciascuna amministrazione
e nominati dal rispettivo organo di indirizzo politico-amministrativo; il dipartimento della funzione
pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri; l’organo di indirizzo politico-amministrativo di
ciascuna P.A.; i dirigenti di ciascuna amministrazione.
Quanto al controllo di regolarità amministrativa e contabili, è stato introdotto (d.lg. n. 123/2011) un
complesso regime di controlli sugli atti, amministrativi e negoziali, delle P.A. e degli enti pubblici.
I controlli esterni ganno fra i propri oggetti principali proprio il funzionamento dei controlli interni; in tale
direzione, è stabilito che il controllo esterno della Corte dei conti verifichi anche il funzionamento dei
controlli interni a ciascuna amministrazione.

4.3. controlli esterni
I controlli esterni costituiscono attribuzione di organi non appartenenti all’amministrazione di cui
vengono verificati gli atti o l’attività. Possono essere preventivi e successivi. Gli organi del controllo
esterno sono la Corte dei Conti dell’UE e la Corte dei conti della Repubblica.
La Corte dei conti italiana è un organo ausiliario del parlamento e del governo nazionali, nei confronti
di entrambi costituzionalmente garantito ad autonomia di giudizio e indipendenza dei suoi
comportamenti. La stessa posizione essa riveste nell’esercizio del controllo sulle amministrazioni delle
regioni e degli enti locali, che si svolge in funzione di ausilio alle assemblee ed ai governi regionali e
locali. La giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che l’attribuzione alla Corte dei conti del controllo
esterno sulla generalità delle P.A., comprese quelle regionali e locali, comporti lo svolgimento di un
compito essenzialmente collaborativo posto al servizio di esigenze pubbliche costituzionalmente tutelate e
volto a garantire che ogni settore della P.A. risponda al modello realmente operante sulla base dei principi
di legalità, imparzialità e efficienza. La corte dei conti è l’unica a poter garantire le regioni e gli enti
locali circa l’imparziale esercizio di controlli esterni sulle loro gestioni finanziarie.
Mentre i controlli interni partecipano della funzione amministrativa, i controlli esterni ne sono estranei.
Questi hanno lo scopo di attivare le stesse amministrazioni o altre autorità affinché adottino le misure
necessarie o utili al miglior perseguimento dell’interesse cui ciascuna amministrazione deve provvedere.

4.4. controlli di conformazione e controlli di integrazione

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I controlli di conformazione sono diretti ad assicurare che atti o attività soggetti a controllo non
vengano posti in essere se non nel rispetto di certe regole. Es,: tutti i controlli preventivi di legittimità.
I controlli di integrazione hanno la finalità di garantire il rispetto di determinate coerenze da parte delle
amministrazioni, ovvero, in contesti nei quali amministrazioni diverse sono chiamate a conseguire
obiettivi comuni, la congruenza fra i comportamenti di ciascuna amministrazione e gli obiettivi da
perseguire. Si tratta di controlli che implicano estesi poteri di acquisizione, elaborazione e comparazione
di dati e informazioni sull’andamento delle attività o sulle gestioni soggette a controllo. Rientrano in
questo caso i controlli del Ministero dell'economia e delle finanze e della Corte dei conti che si svolgono
ex post al fine di verificare l'avvenuto rispetto del patto di stabilità interno da parte di regioni ed enti
locali.
I controlli di conformazione assolvono ad una funzione di direzione dell’amministrazione, nel senso che
questa, volendo emettere un atto, non può farlo se non con il contenuto che l’organo di controllo ritiene
legittimo.
I controlli di integrazione avviano, invece, un processo di aggiustamento dell’attività amministrativa al
fine di assicurare che i comportamenti delle amministrazioni siano coerenti a determinate regole, ovvero
ai risultati e agli obiettivi da realizzare. I controlli di integrazione possono associare la loro funzione
principale ad una di tipo repressivo, generalmente intestata ad un’autorità diversa da quella di controllo
I poteri sostitutivi sono destinati ad assumere una funzione di chiusura del sistema, nel senso che
intervengono quando i controlli con finalità di integrazione abbiano mancato il loro obiettivo.
A metà strada fra i controlli di conformazione e i controlli di integrazione vi sono quelli che le norme
costruiscono come controlli mediante riesame, che non impediscono in assoluto l’efficacia degli atti, ma
la procrastinano all’esito di una nuova deliberazione dell’autorità decidente.
Spesso le procedure di controllo sono fine a se stesse o si intrecciano le une alle altre, ostacolandosi. I
risultati dei controlli non determinano, il più delle volte, reazioni virtuose da parte del parlamento e delle
P.A.

4.5. Altri tipi di controllo


E’ risalente nel tempo l’espressione controllo sostitutivo, che designa lo svolgimento, da parte di
un’autorità amministrativa, di poteri che sarebbero propri di un’autorità dotata di autonomia, al verificarsi
di un evento che legittima la prima a svolgere funzioni o compiti della seconda (convocazione consiglio
comunale da parte del Prefetto). La sostituzione non integra, di per sé, un’attività di controllo, essendone
l’effetto o uno dei possibili effetti.
Controllo sugli organi indica l’attribuzione ad un’autorità amministrativa di una posizione di supremazia
rispetto ad un’autorità, generalmente dotata di autonomia, al verificarsi di determinati presupposti
(scioglimento dei consigli comunali per il compimento di atti contrari alla Costituzione).
Controlli ispettivi sono procedimenti dichiarativi, a volte autonomi, a volte inseriti in altri procedimenti,
anche di controllo. Il potere ispettivo è sempre componente di un rapporto più ampio, benché raramente
sia disciplinato da norme espresse. Ogni amministrazione sia titolare di poteri ispettivi sull’attività dei
propri uffici.
Controllo conoscenza e controllo informazione si riferiscono alla finalità dei controlli successivi,
consistente nel rassegnare ad altri organi il risultato delle verificazioni eseguite.
Controllo referente riassume l’esito di relazione, rapporto o referto, che designa il mezzo attraverso il
quale l’autorità di controllo fa conoscere ad altra autorità il risultato della sua verificazione.
Controlli atipici se ne parla per designare i controlli che non rispondono ai tipi costituzionali.

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Annullamento straordinario l’annullamento sarebbe oggetto di un procedimento di controllo
straordinario, ovvero di un procedimento di riesame, a sua volta di carattere atipico. Si può ritenere, che
si tratti di un controllo a posteriori di legittimità su atti. Il potere di annullamento non può essere
esercitato nei confronti delle regioni, in quanto incompatibile con la natura stessa della loro autonomia.

5. Il regime giuridico dei poteri e degli atti di controllo.


L’accessività dei controlli rispetto all’attività amministrativa comporta che a ciascun tipo di controllo
corrisponda una forma di utilità per l’amministrazione i cui atti o la cui attività sono soggetti a controllo,
ovvero per le autorità che hanno, su diessa, poteri di indirizzo o d’intervento. Di regola, i poteri
dell’autorità di controllo corrispondono alle finalità per le quali il potere è stato attribuito:
I poteri dell’autorità di controllo corrispondono alle finalità per le quali il potere è stato attribuito; l’esito
(la misura) del controllo deve essere congruente con l’interesse che costituisce la finalità del potere di
controllo. Conseguenze:
- il potere di controllo non può esercitarsi se non nei confronti delle amministrazioni indicate dalla
Costituzione o dalla legge. La Corte dei conti è legittimata a rivendicare il proprio potere di controllo
nei confronti di ogni altro potere dello Stato e persino del parlamento, ove questo ne menomi le
garanzie di organo ausiliario o, meglio, di organo ad ausiliarietà costituzionalmente garantita.
- L’esercizio del potere di controllo deve avvenire con modalità e nei limiti necessari e sufficienti al
conseguimento delle finalità stabilite dall’ordinamento.
- Le misure del controllo non possono eccedere i limiti della corrispondenza o proporzionalità
rispetto all’interesse che costituisce la finalità del potere di controllo.
- L’amministrazione o l’autorità cui spetta adottare la misura è tenuta a valutare i risultati del
controllo eseguito, ferma restando la discrezionalità ad essa attribuita nell’adottare le iniziative
conseguenti.
Il regime giuridico degli atti di controllo dipenda dalla natura del rapporto di controllo e, cioè, dalla
circostanza che tale rapporto sia di :
- Subordinazione: l’atto di controllo è un provvedimento che costituisce espressione di un potere di
supremazia ed è soggetto agli ordinari mezzi di impugnazione.
- Equiordinazione: l’atto di controllo può assumere una varietà di contenuti: da quelli sanzionatori a
quelli che incidono sulla potestà amministrativa, a quelli di natura politica
- di autonomia-indipendenza: la distinzione fra controllo preventivo e successivo non rileva sul regime
giuridico dei rispettivi atti. Nel controllo preventivo, l’atto di controllo non incide direttamente sulle
posizioni dei soggetti interessati all’atto amministrativo. Nel controllo successivo, le relazioni o i
rapporti, si inseriscono in procedimenti il cui atto conclusivo (misura) appartiene alla competenza di
altri organi. La conseguenza è, in entrambi i casi, che gli atti di controllo, poiché non incidono
direttamente in situazioni soggettive altrui, non sono impugnabili davanti ad alcun giudice.
Può accadere che, nel corso del procedimento di controllo davanti alla Corte dei conti, emergano dubbi di
legittimità costituzionale in ordine a leggi sulle quali si fonda l’atto sopposto a controllo preventivo. In
tali casi, si pone il problema delle condizioni e dei limiti ai quali è consentito alla Corte dei conti,
nell’esercizio della funzione di controllo, di promuovere il sindacato di costituzionalità delle leggi. La
giurisprudenza costituzionale riconosce senz’altro alla Corte dei conti tale legittimazione nell’ambito del
controllo preventivo di legittimità e limitatamente alla violazione dell’art. 81 cost. In tale ambito, rietene
la Corte Costituzionale che la funzione svolta dalla Corte dei Conti è analoga alla funzione
giurisdizionale, risolvendosi in un tipo di controllo esterno, neutrale e volto a garantire la legalità degli
atti ad esso sottoposti, attraverso un procedimento che culmina con un giudizio sulla conformità o meno
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di un provvedimento a norme giuridiche. La legittimazione della Corte dei Conti al giudizio di
costituzionalità delle leggi è, invece, esclusa nell’esercizio della funzione di controllo successivo,
trattandosi di un controllo che non è diretto a dirimere una controversia. Il controllo successivo si svolge
sulla base di parametri giuridici e non. Il controllo successivo sulla gestione non è tale da poter assumere
le connotazioni di un controllo assimilabile alla funzione giurisdizionale, cioè preordinato alla tutela del
diritto oggettivo, con esclusione di qualsiasi apprezzamento non giuridico. Vi è, però, un’eccezione,
dovuta alla configurazione come vero e proprio giudizio (giudizio di parificazione) del controllo
successivo sul rendiconto generale dello stato, la cui funzione è quella di verificare gli scostamenti che,
negli equilibri stabiliti dal bilancio preventivo, si evidenziano in sede consuntiva.

6. I controlli nelle diverse specie di amministrazioni

6.1 I controlli sulle amministrazioni dello Stato


Nelle amministrazioni statali, i controlli interni più risalenti nel tempo sono quelli di natura contabile.
Sono svolti dagli Uffici centrali del bilancio e dalle Ragionerie Territoriali del Dipartimento della
ragioneria generale dello Stato (RGS) del MEF. Il controllo sugli impegni di spesa ha sensibilmente
ampliato il suo ambito oggettivo, estendosi alla verifica di tutti gli atti dai quali derivino effetti finanziari
per il bilancio dello Stato. Il controllo del Dipartimento della ragioneria riguarda, quindi, anche atti che
non comportanno direttamente impegni di spesa, ma che potrebbero determinarne; inoltre, esso investe
non soltanto i profili contabili dell’atto, ma anche quelli di legittimità (controllo di regolarità
amministrativa e contabile). Sono sottoposti al controllo preventivo di regolarità amministrativa e
contabile del Dipartimento della ragioneria generale dello Stato:
- tutti gli atti soggetti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti
- i decreti di approvazione dei contratti e gli atti di riconoscimento di debito
- i provvedimenti o contratti di assunzione di personale a qualsiasi titolo
- gli atti relativi al trattamento giuridico ed economico del personale statale in servizio
- gli accordi in materia di contrattazione integrativa, di qualunque livello
- gli atti e i provvedimenti comportanti trasferimenti di somme dal bilancio dello Stato ad altri enti
- atti e provvedimenti di gestione degli stati di previsione dell’entrata e della spesa
Il controllo di ciascun atto si articola in due fasi: quella contabile e quella amministrativa. La prima
verifica il rispetto delle regole che disciplinano il procedimento di spesa e culmina nella registrazione
contabile. La seconda consiste nell’esame dell’atto sotto il profilo della regolarità amministrativa. Gli atti
sottoposti al controllo sono inviati all’ufficio di controllo, che è tenuto ad esaminarli entro 30/60 giorni, a
seconda dei casi, dal ricevimento. In caso di esito negativo del controllo, gli atti non producono effetti a
carico del bilancio dello Stato.

È pure previsto un controllo successivo di regolarità amministrativa e contabile, avente ad oggetto:


- i rendiconti amministrativi relativi alla gestione di fondi da parte di funzionari delegati
- i conti giudiziali
Alla RGS compete di effettuare, attraverso i servizi ispettivi di finanza pubblica, verifiche
amministrativo-contabili sulla gesitione delle amministrazioni statali, al fine di verificarne la regolarità e
l’economicità e di suggerire le misure necessarie o utili a migliorare la performance e la qualità della
spesa.

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Una nuova e originale modalità di controllo è costituita dalla analisi e valutazione della spesa
(SPENDING REVIEW) che consiste in un’attività di revisione critica dei programmi di spesa previsti
dalle leggi nelle diverse aree dell’intervento pubblico, allo scopo di rilevare inefficienze e incongruenze
nella destinazione e nell’uso delle risorse e, quindi, di migliorare il rapporto fra obiettivi e risorse
disponibili. L’art. 25 d.lg. n. 123/2011 prevede che i sistemi informativi esistenti nelle amministrazioni
centrali garantiscano il monitoraggio della spesa in termini di realizzazione fisica. La Spending Review è
svolta da un apposito nucleo di valutazione della spesa, del quale fa comunque parte un esponente del
MEF.
Gli altri compiti di controllo della RGS riguardano gli andamenti di finanza pubblica in rapporto alle
decisioni di politica economica e finanziaria del governo e gli effetti finanziari delle misure previste dalla
manovra di finanza pubblica e dai principali provvedimenti adottati nell’anno. Quanto ai primi, la RGS,
verifica l’evoluzione delle grandezze di finanza pubblica e i flussi di cassa. Quanto ai secondi, la RGS
raccoglie ed elabora i dati e le informazioni necessari a verificare la corrispondenza fra previsioni e
risultati di entrata e di spesa.
I controlli esterni sulle amministrazioni dello stato sono svolti dalla Corte dei conti. Essi sono di 2 tipi:
- controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo: le categorie di atti soggetti al controllo
preventivo di legittimità sono indicate nella legge n. 20/1994 e sono ad esempio: i provvedimenti
emanati previa deliberazione del Consiglio dei Ministri; gli atti del Presidente del Consiglio dei
ministri e dei ministri che hanno ad oggetto le direttive generali per l’indirizzo e lo svolgimento
dell’azione amministrativa, la definizione delle piante organiche, il conferimento di incarichi di
funzioni dirigenziali; gli atti amministrativi generali, gli atti di programmazione che importano spesa,
gli atti generali che danno attuazione a norme comunitarie ecc.. Il procedimento di controllo deve
concludersi entro 60 giorni dalla ricezione dell’atto, trascorsi i quali questo diviene esecutivo. Ove la
Corte dei conti ritenga che l’atto sottoposto a controllo non sia conforme a legge, l’amministrazione
può promuovere un’ulteriore fase di controllo.
- controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato: consiste nel verificare sia gli andamenti
generali della finanza pubblica, attraverso l’esame del rendiconto generale dello Stato, sia l’attività di
specifiche branche dell’amministrazione, sulla base di programmi annuali. L’esame del rendiconto
presenta caratteri misti, tipici della valutazione delle politiche pubbliche e del controllo su attività e
gestioni. Le risultanze del rendiconto vengono messe a raffronto con la legge di bilancio; quindi, in
base alla concordanza fra le une e l’altra, la Corte pronuncia un giudizio di parificazione. Alla
relativa decisione è allegata una relazione, che contiene analisi e valutazioni sullo stato di applicazione
della legislazione nei diversi settori d’intervento dell’amministrazione, nonché sull’attuazione delle
politiche pubbliche perseguite dal governo, in rapporto alle risorse che il parlamento ha messo a sua
disposizione con la legge di bilancio. La decisione e la relazione vengono inviate al parlamento entro
il 30 giugno di ogni anno.
Il controllo successivo sulla gestione delle singole amministrazioni è pur esso ad esito di referto. Le
relazioni vengono inviate al parlamento ed anche alle amministrazioni interessate, cui la Corte può
formulare, in qualsiasi momento, le proprie osservazioni. A loro volta, le amministrazioni comunicano
alla Corte e al parlamento le misure di conseguenza adottate.
È anche prevista una funzione di “vigilanza” della Corte dei Conti sulla riscossione delle pubbliche
entrate, che si è evoluta, nel tempo, in un’attività di monitoraggio, analisi e relazione al parlamento sugli
andamenti di politica fiscale, anche con riferimento agli obiettivi di politica economica generale.

6.2 I controlli sugli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria


Negli enti pubblici nazionali, specifici controlli interni sono previsti, dai rispettivi ordinamenti, ad opera
di collegi di revisori dei conti o collegi sindacali, dei quali fanno parte, di solito, rappresentanti delle

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amministrazioni che hanno, con l’ente, rapporti di vigilanza; di ciascun collegio fa comunque parte un
rappresentante del MEF.
I collegi dei revisori e i collegi sindacali hanno il compito di verificare la correttezza della gestione
contabile e amministrativa, mediante l’analisi del bilancio e dei risultati finanziari, economici e
patrimoniali della gestione. Essi esprimono un parere preventibo sull’approvazione dei bilanci ed
effettuano i controlli sui costi del personale. Alla RGS spetta poi, di riassumere e coordinare i risultati di
controllo sugli enti, utilizzando il flusso delle notizie provenienti dai collegi dei revisori. La disciplina del
controllo è contenuta nella l.n. 259/1958.

Gli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria sono:


- Gli enti, pubblici e privati, che ricevono, sotto qualsiasi denominazione, somme a carico di
un’amministrazione statale o di un altro ente pubblico, con sistematicità e non, purchè iscritte in
bilancio da oltre 2 anni;
- Gli enti pubblici e privati, che sono autorizzati ad imporre tributi o che ne sono destinatari;
- Gli enti pubblici che ricevono dallo Stato apporti al patrimonio, in capitale, servizi o beni, o che
beneficiano di garanzie finanziarie.
- Società per azioni risultanti dalla privatizzazione di enti pubblici nazionali, fino a quando permanga,
rispetto al capitale delle stesse società, la partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato.
La l.n. 259/1958 non si applica alle regioni, enti locali, enti di interesse esclusivamente locale e a quelli
cui lo Stato eroga contribuzioni di particolare tenuità.
Il controllo si esercita mediante l’esame dei rendiconti approvati dagli enti, anche sulla base delle
relazioni predisposte dagli organi interni di revisione. La Corte dei Conti ha il potere di richiedere agli
enti la trasmissione di ampie categorie di atti, che essa ritenga necessario o utile acquisire sia allo scopo di
riferire al parlamento sulla gestione finanziaria degli enti medesimi, sia allo scopo di formulare
osservazioni ai ministri vigilanti ogni qualvolta lo ritenga opportuno. Il risultato del controllo eseguito è
raccolto in apposita relazione, inviata al parlamento entro i 6 mesi successivi al ricevimento, da parte
della Corte, dei documenti di bilancio relativi alla gestione dell’ente.

6.3. I controlli sulle amministrazioni regionali e locali


Per le amministrazioni regionali, controlli interni di gestione, sono previsti, con norme di principio, dal
d.lg. n. 286/1999, ferma restando la potestà (legislativa, statutaria, regolamentare) di ciascuna regione in
ordine all'organizzazione dei propri controlli. Le regioni a statuto speciale, invece, godono di piena
autonomia nel fissare l'organizzazione e il funzionamento dei controlli interni.
Per quanto attiene agli enti locali, la disciplina dei controlli interni è contenuta nei loro statuti e
regolamenti, grazie all'autonomia normativa ad essi riconosciuta (art. 117 cost.), sia pure nell'ambito dei
principi fondamentali di cui al d.lgs. n. 286/1999. Un ruolo di particolare importanza è rivestito, negli enti
locali, dal collegio dei revisori, il quale, da una parte, svolge funzioni di collaborazione con le assemblee
consiliari e vigilia sulla regolarità contabile e finanziaria della gestione dell’ente; dall’altr, riferisce al
MEF sui comportamenti di entrata e di spesa degli enti. Il d.l. n. 174/2012 ha rafforzato i compiti del
collegio dei revisori degli enti locali, estendendo la sua vigilanza sull’intera gestione finanziaria e
patrimoniale degli enti, sia stabilendo che i loro pareri di congruità, coerenza e attendibilità contabile sulle
previsioni di bilancio e dei programmi di spesa hanno carattere obbligatorio. Di recente, poi, uno stretto
collegamento è stato istituito fra i collegi dei revisori e la Corte dei Conti.
L’art. 14 d.l. n. 138/2011 ha stabilito che, a decorrere dal 01/01/2012, anche le regioni si dotino di
collegi di revisori dei conti e che tali collegi operino in raccordo con le sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti. I componenti di ciascun collegio debbono essere scelti mediante estrazione da un
elenco, i cui iscritti devono avere la qualifica di revisori legali dei conti.
Hanno la struttura di controlli interni all’apparato amministrativo alcuni controlli del MEF sulla gestione
della finanza regionale e locale. Si tratta di controlli di sistema, mediante i quali il governo è posto in
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grado di adottare o di promuovere l’adozione delle iniziative necessarie a ripristinare il rispetto delle
regole di evoluzione della finanza nazionale.
Alla stessa categoria di controlli appartengono alcuni strumenti di informazione e d’intervento sugli
andamenti della finanza sanitaria; il più importante è quello che ha lo scopo di verificare, da una parte, il
livello di efficienza dei servizi sanitari e il rispetto dei livelli essenziali di assistenza; dall’altra,
l’osservanza dei vincoli di bilancio posti annualmente all’evoluzione della spesa sanitaria.
Ove la regione non rispetti i parametri stabiliti o non esegua i programmi aventi ad oggetto la
riorganizzazione o il potenziamento dei servizi sanitari regionali è previsto l’esercizio di poteri sostitutivi
ad opera del Consiglio dei ministri, anche con la nomina di un commissario ad acta.
Nuove norme sui controlli interni negli enti locali sono state introdotte dal d.l. n. 174/2012 nel contesto
del rafforzamento dell’intero sistema dei controlli sugli enti territoriali. Il controllo di regolarità
amministrativa e contabile è stato articolato in una fase preventiva e una successiva. La prima si esplica
attraverso due pareri: quello di regolarità tecnica e quello di regolarità contabile. Nel controllo di
regolarità amministrativa e contabile rientra anche il controllo sugli equilibri finanziari. Il sistema dei
controlli interni deve comprendere, in ciascun ente:
- Controllo di gestione
- Controllo strategico

Relativamente ai controlli esterni, la Corte dei Conti verifica il rispetto degli equilibri di bilancio da
parte delle regioni e degli enti locali, in relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli posti
dall’appartenenza all’UE, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di
principio e di programma, la sana gestione finanziaria e il funzionamento dei controlli interni.
La gestione finanziaria delle Regioni, è oggetto di controllo da parte delle sezioni regionali della Corte
dei conti. Il rendiconto di ciascuna regione è sottoposto al giudizio di parificazione della competente
sezione regionale di controllo della Corte dei conti; giudizio che culima in una decisione cui è allegata
una relazione al Consiglio e alla Giunta regionale.
Per gli Enti locali è previsto che i collegi dei revisori elaborino annualmente una relazione sul bilancio di
previsione e una sul conto consuntivo di ciascun ente, da inviare alle sezioni regionali della Corte dei
conti.
L’accertamento, da parte della Corte dei conti, di violazioni o deviazioni rispetto alle regole della sana
gestione economico-finanziaria, comporta per gli enti l’obbligo di adottare i provvedimenti idonei a
rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio.
Una particolare procedura è prevista per consentire agli enti che versino in condizioni di grave squilibrio
finanziario di adottare un piano di risanamento, contenente le misure che l’ente si impegna ad adottare
per ripristinare, in un arco di tempo che può raggiungere i 10 anni, l’equilibrio della propria situazione
economico-finanziaria. Il mancato raggiungimento degli obiettivi intermedi o il mancato raggiungimento
del riequilibrio finanziario al termine del periodo di durata del piano comporta l’apertura della procedura
di dissesto finanziario con l’assegnazione, al consiglio dell’ente, da parte del Prefetto, di un termine non
superiore a 20 giorni per la deliberazione del dissesto.
Non danno luogo a una nuova categoria di controlli, ma costituiscono specificazione di controlli già
esistenti le norme che hanno recentemente disciplinato talune procedure di spending review per le
regioni e gli enti locali. Vi si prevede che la Corte dei conti, nell’ambito dei propri controlli, verifichi
l’efficacia delle misure di razionalizzazione della spesa adottate da questi enti. Si tratta di un controllo
ausiliario, privo di misure repressive o sanzionatorie nei confronti degli enti locali, introdotto dal

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legislatore statale per verificare le cause di eventuali squilibri, cui gli enti sono chiamati a porre rimedio
ripristinando le condizioni della sana gestione finanziaria.
Vi è, infine, una serie numerosa di controlli sugli organi degli enti locali (art. 141, d.lg. n. 267/2000).

6.4. I controlli sulle amministrazioni universitarie


Il rango costituzionale (art. 33) dell’autonomia garantita alle università determina un particolare regime
di controlli su di esse. Le norme privilegiano forme di controllo interne al sistema universitario.
Il controllo interno sulla gestione amministrativa, finanziaria e contabile delle università è rimesso a
nuclei di valutazione che hanno il compito di verificare la produttività della ricerca e della didattica, la
corretta gestione delle risorse pubbliche, l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa. i
nuclei hanno autonomia operativa e diritto di accesso ai dati e alle informazioni necessari. L’attività dei
nuclei è indirizzata e coordinata dall’ Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e
della ricerca (ANVUR), che fissa i criteri e i parametri per la valutazione sia delle attività di ricerca
condotte dal personale, sia della qualità dei corsi di studio e dei servizi universitari. All’agenzia è
attribuito anche, il compito di valutare la qualità, l’efficienza e l’efficacia del sistema universitario nel suo
complesso. I risultati delle valutazioni Anvur sono assunti a riferimento per l’attribuzione dei
finanziamenti statali alle università.
Il controllo esterno è svolto dalla Corte dei Conti, alla quale è espressamente escluso il riscontro dei
singoli atti di gestione. Le università trasmettono alla Corte i consuntivi annuali

CAPITOLO XI – LA RESPONSABILITA’

1. Responsabilità e sovranità

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La responsabilità della P.A. ha la sua base normativa nel codice civile e comporta che
l’amministrazione risponda nei termini propri della responsabilità extracontrattuale per i danni
ingiusti che provoca, oltre che per la responsabilità precontrattuale e contrattuale.
Il principio secondo il quale la P.A. risponde degli effetti dannosi provocati dalla sua azione come
qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento ha incontrato nel passato una serie di limitazioni, perché si è a
lungo ritenuto che lo Stato sovrano fosse immune dalla responsabilità, in quanto soggetto dotato di
prerogative speciali e la cui azione era rivolta alla tutela dell’interesse pubblico.
L’esenzione del potere pubblico dalla responsabilità contrattuale (Lex Aquilia) è carattere ricorrente nei
diversi ordinamenti, sia a diritto amministrativo sia di common law. Il sovrano non risponde delle proprie
azioni, che non sono soggette ad alcun possibile sindacato, ne è possibile riconnettere a quelle azioni
alcun effetto dannoso, perché si giungerebbe, così, a porre sullo stesso piano l’azione del sovrano e la
reazione giuridica di chi la subisce. La corrispondenza fra sovranità e immunità si è retta a lungo su 2
elementi:
- L’affermazione della natura speciale del diritto amministrativo
- La dimensione generale e pubblica dell’interesse perseguito.
L’immunità del potere sovrano è stata via via superata negli ordinamenti moderni, che contengono
regole generali e comuni sulla responsabilità di tutti i soggetti e quindi anche della P.A., la quale non
viene più considerata come un soggetto dotato di particolari e speciali prerogative. È evidente che la
responsabilità dell’amministrazione nell’ambito dell’attività contrattuale non può essere disciplinata
diversamente da quella di qualsiasi altro contraente, altrimenti lo stesso contratto di diritto privato ne
risulterebbe modificato.
L’assimilazione alla disciplina di diritto comune presta ancora qualche area di incertezza per quanto
riguarda la responsabilità che deriva dall’esercizio di attività amministrativa svolta mediante strumenti di
diritto pubblico.
La responsabilità della P.A. è, per certi versi, ancora più ampia della responsabilità dei soggetti privati,
perché essa si estende ad aree e profili che non rilevano per l’attività dei privati, come ad esempio per
la responsabilità procedimentale.
La P.A. è composta inoltre sia da apparati che da persone ed è quindi necessario distinguere e disciplinare
le relazioni fra responsabilità dell’apparato e responsabilità dell’agente.

2. La disciplina costituzionale e lo statuto del pubblico impiego

La Costituzione contiene almeno 2 norme direttamente rilevanti per la responsabilità della P.A.:
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- Art. 113: prevede un sistema di tutela generalizzata, dinanzi al giudice, contro ogni e qualsiasi atto
dell'amministrazione. La P.A. non è mai immune dal sindacato giurisdizionale e non esistono atti
amministrativi contro i quali non possa ricorrersi in giudizio.
- Art. 28: prevede un sistema di responsabilità solidale fra amministrazione e suoi dipendenti per
quanto riguarda la responsabilità civile. I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in
violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
Questo articolo, riguarda la responsabilità non solo dell’amministrazione, ma anche dei dipendenti e
funzionari. Dove c’è responsabilità dell’agente c’è anche responsabilità dell’amministrazione. Il
soggeto terzo danneggiato ingiustamente dal dipendente o dal funzionario nell’esercizio dei compiti
propri dell’amministrazione potrà quindi rivalersi non solo sullo stesso dipendente o funzionario, ma
sull’amministrazione pubblica di appartenenza.

La responsabilità personale e diretta dei dipendenti e dei funzionari per gli atti compiuti in violazione
dei diritti dei terzi, prevista dall’art. 28 Cost., è rinviata, quanto alla sua concreta disciplina, alle leggi
ordinarie. Il rinvio alle leggi ordinarie consente di escludere, in linea di principio, particolari esenzioni o
immunità per la P.A. e i suoi agenti, che rispondono della responsabilità civile come tutti gli altri soggetti
dell’ordinamento, anche se accanto alle regole proprio del codice civile possono essere operanti altre
norme di legge che prevedano particolari modalità di attivazione.
Le leggi ordinarie prevedono alcune norme speciali per particolari categorie di personale (magistrati) o
per particolari attività (prestazioni sanitarie)
Le norme generali sulla responsabilità dei dipendenti e dei funzionari sono contenute nello statuto del
pubblico impiego (D.P.R. N. 3/1957). Secondo questa disciplina, la responsabilità personale del
dipendente è limitata ai casi di violazioni commesse per dolo o colpa grave. La P.A. risponde, invece,
del danno provocato anche in caso di colpa lieve o quando l’agente resta anonimo.
L’ambito di applicazione della disciplina è molto ampio, perché non è necessario che il dipendente sia
legato all’apparato amministrativo da un rapporto di pubblico impiego, è sufficiente che sussista un
rapporto di servizio tra P.A. e agente. La connessione fra responsabilità dell’apparato e responsabilità del
dipendente non sussiste nei casi in cui il dipendente agisca per finalità strettamente personali, estranee
all’attività della P.A.
L’impiegato risponde, inoltre, nei confronti della P.A., dei danni arrecati a terzi nel caso in cui questi
abbiano esperito con successo l’azione risarcitoria nei confronti dell’amministrazione.
La responsabilità amministrativa è una specifica forma di responsabilità imputabile ai soggetti che si
trovino in rapporto di servizio con una P.A. e soggetta alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti.
La responsabilità amministrativa sussiste quando l’attività svolta nel corso del rapporto di servizio
abbia provocato un danno all’erario e richiede un comportamento doloro o gravemente colposo.
La Costituzione conferma che la responsabilità della P.A. trova la sua base giuridica nel codice civile e
conosce la stessa articolazione della responsabulità dei privati in responsabilità precontrattuale,
contrattuale ed extracontrattuale.

3. La struttura della responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione


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La responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione trova la sua base nell’art. 2043 c.c. secondo il
quale qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno. Gli elementi necessari alla sussistenza di un illecito civile sono:
- Un danno ingiusto: occorre individuare i criteri sono i quali un danno può essere qualificato come
ingiusto (danno non iure e contra ius).
- Una condotta dolosa o colposa: occorre verificare i criteri di individuazione del dolo e della colpa e di
imputazione degli stessi ad un soggeto.
- Un nesso causale tra condotta e evento dannoso: occorre verificare che la condotta abbia generato
l’evento dannoso.
- L’impossibilità di cancellare il danno stesso, con la conseguente necessità di risarcirlo: poiché non
si può tornare alla situazione precedente al venere in essere del danno, occorre che il danneggiato
ottenga un ristoro patrimoniale del sacrificio ingiusto che ha dovuto subire.
Il problema sta allore, per quanto riguarda la P.A., nell’individuare quali siano i comportamenti
antigiuridici dai quali deriva un obbligo di risarcimento e nel verificare se si possano applicare le regole
generali in materia di atipicità dell’illecito e di distinzione fra risarcimento per equivalente o risarcimento
in forma specifica. Nessun problema si pone quando la P.A. agisce usando il diritto privato, perché in
questi casi trova piena e completa applicazione la disciplina civilistica, mentre tale applicazione non è
piena o comunque presenta profili di problematicità nei casi in cui l’amministrazione agisce mediante
provvedimenti amministrativi o mediante organizzazione dei pubblici servizi.

3.1. Il danno ingiusto e il risarcimento


La condotta illecita dell’amministrazione produce un danno ingiusto quando in seguito ad essa risulta
lesa una situazione soggettiva che l’ordinamento considera meritevole di tutela. Fra queste situazioni
soggettive rientrano, oggi, sia i diritti soggettivi, sia gli interessi legittimi.
Più il potere amministrativo è circondato da vincoli e ridotto nella discrezionalità, più facile sarà far
valere l’ingiustizia del danno provocato dal cattivo esercizio del potere.
La giurisprudenza ha per lungo tempo differenziato la tutela che si poteva accordare alle situazioni
soggettive lese a seconda che esse fossero qualificate come diritti soggettivi o come interessi legittimi.
Il danno arrecato ad un diritto soggettivo era considerato risarcibile, mentre per il danno arrecato a un
interesse legittimo si escludeva la risarcibilità. Il privato assoggettato ad un provvedimento di
espropriazione illegittimo aveva così la possibilità di vedersi riconosciuto e risarcito il danno provocato al
suo patrimonio, mentre il privato a cui era stata illegittimamente negata un’ autorizzazione poteva
ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo, ma non il risarcimento. Questo orientamento è
stato via via superato, anche grazie al diritto comunitario, che ha imposto il risarcimento del danno in
materia di applati indipendentemente dalla natura della situazione soggettiva lesa. La giurisprudenza ha
attribuito al giudice amministrativo la competenza a conoscere del riscarcimento del danno anche in sede
di giurisdizione di legittimità generale: e quindi nella sede in cui il giudice amministrativo conosce solo di
interessi legittimi.
Il danno ingiusto provocato dalla condotta illecita dell’amministrazione è oggi in linea di principio
sempre risarcibile. È ancora oggi almeno parzialmente utilizzata la preclusione per il risarcimento degli
interessi legittimi cosiddetti pretensivi, giustificata con la inscindibile connessione di tali situazioni
soggettive con l’esercizio di potere amministrativo. Esse non godrebbero di tutela propria e troverebbero
soddisfazione con la decisione del giudice in ordine alla legittimità o meno del provvedimento.

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Emerge il problema della spettanza: la pretesa ad un provvedimento favorevole può essere tutelata
mediante l’annullamento, da parte del giudice, dell’illegittimo diniego del provvedimento stesso, ma il
danno provocato dall’illegittimo diniego non può essere risarcito, perché non è il giudice a poter dire se il
provvedimento favorevole in effetti spettasse al privato. Per quanto riguarda la quantificazione del danno,
i criteri e gli strumenti da utilizzare sono gli stessi sia dinanzi al giudice amministrativo sia dinanzi a
quello ordinario.

3.2 L’elemento soggettivo


Nel diritto civile dolo e colpa hanno una connotazione psicologica. Sono definibili attraverso il
riferimento a un soggetto agente e alle sue volizioni.
- Dolo: consiste nella piena coscienza e intenzionalità di compiere l’atto
- Colpa: si ha quando il soggetto pone in essere una certa condotta omettendo il rispetto di un criterio di
diligenza media (diligenza del buon padre di famiglia).
Quando però si applica la struttura della responsabilità civile alla condotta della P.A., il significato dei
singoli elementi che fondano la responsabilità cambia. L’elemento soggettivo viene reinterpretato
quando riferito alla P.A. a causa della difficile riferibilità dell’elemento psicologico ad un apparato.
Prima del 1999, l’elemento soggettivo non era inserito tra gli elementi che fondavano la responsabilità
della P.A. La sentenza della Corte di Cassazione n. 500/1999 ha segnato il definitivo passaggio alla
piena risarcibilità delle violazioni degli interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Prima di questa
sentenza la risarcibilità degli interessi non era negata in principio, ma attraverso la teoria della
degradazione era limitata alla violazione di interessi legittimi oppositivi derivanti da diritto. Nel giudizio
civile di risarcimento, che seguiva quello amministrativo di annullamento, al privato non era richiesto di
provare il dolo o la colpa dell’amministrazione, ma solo l’illegittimità del provvedimento.
La sentenza n. 500/1999, inquadrando la responsabilità della P.A. nello schema della responsabilità
civile e richiedendo al privato la prova degli elementi elencati nell’art. 2043 ha due conseguenze di segno
opposto:
- Si considera ingiusto non solo il danno che deriva dalla violazione di interessi legittimi oppostivi, ma
anche quello derivante dalla violazione di interessi legittimi pretensivi
- Al privato è richiesta la prova dell’elemento soggettivo. Il privato deve provare il dolo o almeno la
colpa dell’amministrazione nel provocare il danno.

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3.2.1. La colpa
La prova dell’elemento soggettivo ha posto i problemi di imputabilità psicologica. La giurisprudenza ha
chiarito i termini in cui deve essere inteso l’elemento psicologico e la colpa.
La giurisprudenza ha inizialmente ritenuto che vi fosse colpa quando l’adozione e l’esecuzione dell’atto
fossero avvenute in violazione delle regole di imparzialità, correttezza, buon andamento che la P.A. è
tenuta a osservare nello svolgimento della propria attività. Per dimostrare la colpa il privato doveva
provare la violazione di queste regole e il giudice valutare se e fino a che punto l’amministrazione le
avesse violate. Questa interpretazione è stata progressivamente integrata con ulteriori precisazioni; 2
orientamenti:
- La colpa della P.A. può configurarsi quando l’illegittimità del provvedimento sia stata causata da una
violazione grave delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. La dimostrazione
di questi elementi (indici presuntivi) grava per intero sul privato danneggiato. L’amministrazione può
non essere ritenuta colpevole nel caso in cui abbia posto in essere un atto illegittimo a causa di un
quadro normativo confuso e di difficile intepretazione.
- L’illeggittimità dell’atto è già di per sé un indice presuntivo della colpa dell’amministrazione salvo
che l’amministrazione non riesca a provare il contrario. L’onere probatorio è ripartito tra il privato e la
P.A. Il privato deve dimostrare l’illegittimità. La P.A. ha l’onere di dimostrare che alla base della
propria condotta vi è un errore scusabile.
La differenza tra i 2 orientamenti sta nella ripartizione dell’onere probatorio. Nel primo caso la
responsabilità della P.A. è riconducibile alla struttura dell’illecito civile (2043) e l’onere della prova è
regolato dall’art. 2697 (chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento). Nel secondo caso l’accertata illegittimità dell’azione amministrativa fa presumere
l’esistenza della colpa. Si capovolge l’onere probatorio dell’illecito civile.
La giurisprudenza comunitaria ha dato indicazioni a favore della necessità di alleggerire la prova
dell’elemento soggettivo, fino a negarla in alcuni settori. La responsabilità delle istituzioni comunitarie
verso i privati e quella degli Stati per violazione del diritto comunitario è stata strutturata dalla Corte di
Giustizia UE in modo da non incluedere tra i propri elementi costitutivi quello soggettivo. Sono
sufficienti 3 condizioni:
- La norma violata deve attribuire diritti
- La violazione deve essere grave e manifesta
- Vi deve essere un nesso causale tra la violazione dell’obbligo e il danno prodotto.
Così, un privato che subisce un danno da un’attività illegittima di un’istituzione europea può ottenere che
sia riconosciuta la responsabilità dell’istituzione e vedersi risarcito il danno senza dover provare il dolo o
colpa dell’istituzione.
Un proprio divieto di incluedere la colpa tra gli elementi della responsabilità è stato espresso dalla
giurisprudenza UE con riferimento al settore degli appalti pubblici. La Corte di Giustizia UE ha stabilito
che sono incompatibili con il diritto comunitario discipline nazionali in materia di appalti che richiedono
la prova dell’elemento soggettivo per fondare la responsabilità della P.A. Ha, inoltre, ritenuto
incompatibili con il diritto comunitario le normative nazionali sugli appalti che collegano alla illegittimità
la presunzione di colpa dell’amministrazione ma che, allo stesso tempo, consentono all’amministrazione
di provare l’assenza di colpa. Viola, cioè, il diritto comunitario anche un sistema di ripartizione dell’onere
probatorio che preveda l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministrazione.

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Dall’orientamento della Corte di Giustizia UE, il Consiglio di Stato italiano ha dato un’interpretazione
restrittiva: esso sarebbe limitato solo alle procedure di appalto pubblico, mentre per illegittimità occorse
in qualsiasi altro settore di attività della P.A., l’applicazione dell’art. 2043 c.c., e quindi l’onere di
provare l’elemento soggettivo, rimarrebbe invariato.

3.2.2. Il dolo
L’art. 2043 include il dolo tra gli elementi che fondano la responsabilità. Le difficoltà di provare la
colpa sono state superate dalla giurisprudenza attraverso una oggettivizzazione del contenuto della colpa e
attraverso l’identificazione della stessa con la violazione dei principi dell’azione amministrativa.
Il dolo è pur sempre quello di un agente, ossia di un singolo funzionario che ha posto in essere la
condotta e provato intenzionalmente il danno. In caso di danni provocati da colpa (lieve), il soggetto
imputabile della condotta corrisponde al soggetto responsabile, ed è la P.A.In caso di danni provocati da
dolo, vi è una parziale dissociazione fra il soggetto che pone in essere la condotta e a cui la condotta è
imputabile, ossia il funzionario, e quello che è responsabile e tenuto al risarcimento, ossia la P.A. e il
privato in solido.
Il privato sarà tenuto a provare il dolo del funzionario e potrà pretendere il risarcimento dal
funzionario, ma anche in alternativa dalla P.A. in virtù del rapporto di servizio tra questa e il funzionario.
Nel caso di dolo, le conseguenze risarcitorie non sono sostenute dalla sola amministrazione: se questa è
destinataria un’azione risarcitoria esperita con successo dal privato, sarà tenuta a risarcire, ma potrà
rivalersi sul funzionario che dovrà risarcire l’amministrazione.

4. Le azioni di tutela contro l’illecito civile dell’amministrazione. Il superamento della


pregiudizialità amministrativa
Il privato che si ritenga ingiustamento leso da un comportamento o da un atto dell’amministrazione
dispone di 2 tipi di azioni: l’azione di annullamento e l’azione di risarcimento. La tutela è azionabile
dinanzi al giudice amministrativo o dinanzi al giudice ordinario a seconda della competenza. Nell’attuale
distribuzione della competenza, il giudice amministrativo conosce dalla maggior parte degli illeciti civili
dell’amministrazione, perché conosce di tutti i danni agli interessi legittimi e dei danni ai diritti soggettivi
nell’ambito della giuridizione esclusiva.
Il codice del processo amministrativo (c.p.a.) stabilisce che sono attribuite alla giurisdizione generale di
legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti ed omissioni delle
P.A., comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e che il
giudice amministrativo conosce in sede di giurisdizione esclusiva delle controversie aventi ad oggetto
diritti soggettivi, anche a fini risarcitori.
La pregiudizialità amministrativa è stata superata. Secondo l’orientamento giurisprudenziale
favorevole alla pregiudizialità, il privato non poteva richiedere il risarcimento del danno provocato
dall’amministrazione, se prima non chiedeva e otteneva l’annullamento del provvedimento a causa del
danno stesso. L’azione di risarcimento poteva essere esperita contestualmente o consequenzialmente
all’azione di annullamento, ma non autonomamente da quest’ultima. Questo orientamento si giustificava
soprattutto con ragioni di ordine processuale e in primis con la necessità di mantenere fermo il termine
decadenziale di 60 gg stabilito per l’impugnazione del provvedimento amministrativo, mentre per
l’azione di risarcimento vale il ben più ampio termine di prescrizione di 5 anni.La questione della
pregiudizalità è ora disciplinata dal c.p.a. L’art. 30 stabilisce che l’azione di condanna al risarcimento del
danno per lesione di interessi legittimi può essere proposta in via autonoma entro un termine di decadenza
di 120 gg.
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Il rapporto fra azione di annullamento e azione di risarcimento non è più un rapporto di pregiudizialità,
ma un rapporto di autonomia, se pur con il limite di un termine di decadenza breve. L’autonomia
dell’azione risarcitoria sul piano processuale non cancella il rilievo che, sul piano sostanziale, la domanda
di annullamento del provvedimento può assumere ai fini non più della inammissibilità, ma della
fondatezza della domanda di risarcimento.

4.1 La tutela annullatoria


La tutela annullatoria è volta a ottenere la rimozione dall’ordinamento dell’atto o del comportamento
illegittimo dell’amministrazione che ha provocato il danno ed è esperibile di norma dinanzi al giudice
amministrativo. Si tratta di una tutela demolitoria mediante la quale si elimina la causa del danno,
normalmente identificata con un atto o un comportamento dell’amministrazione lesivo del diritto o
dell’interesse del privato. L’annullamento dell’atto o comunque la dichiarazione dell’illegittimità del
comportamento consentono di qualificare l’atto o il comportamento come un fatto illecito, dal quale
discende, ai sensi dell’art. 2043 c.c. un danno ingiusto che deve essere risarcito.
Gli effetti della tutela annullatoria sono diversi a seconda del tipo di provvedimento o di comportamento
oggetto dell’azione. Esempio: il privato che, intendendo svolgere un’attività commerciale il cui esercizio
è subordinato al rilascio di un’autorizzazione amministrativa, faccia richiesta all’amministrazione
competente dell’apposita autorizzazione o licenza. L’amministrazione nega l’autorizzazione adducendo la
mancanza di un requisito che il privato ritiene di possede e di avere dimostrato con la documentazione
allegata alla richiesta. Il privato può impugnare il provvedimento di diniego di fronte al giudice
amministrative, chiedendone l’annullamento. Se il giudice valuta che in effetti il requisito richiesto
sussisteva ed era stato documentato, giudicherà illegittimo il provvedimento negativo
dell’amministrazione e lo annullerà. Mediante l’azione di annullamento il privato avrà così ottenuto la
rimozione di un atto illegittimo, ma non avrà ancora ottenuto l’autorizzazione richiesta. Se il suo obiettivo
era ottenere comunque l’autorizzazione, egli potrà sollecitare l’amministrazione a riprendere in esame la
richiesta e a rilasciare l’autorizzazione. Se invece il privato non ha più interesse ad ottenere
l’autorizzazione potrà chiedere, sempre al giudice amministrativo, il risarcimento del danno provocato
dall’illegittimo provvedimento di diniego e dovrà fornire la prova dello stesso danno.
Simile è il caso in cui l’amministrazione revoca una concessione e il concessionario riesca ad ottenere dal
giudice una pronunica di illegittimità della revoca. In questa ipotesi l’annullamento della revoca,
rimuovendo dall’ordinamento il provvedimento illegittimo, ha l’effetto di ripristinare la situazione
preesistente e quindi il concessionario tornerà a svolgere la propria attività senza bisogno di ulteriori
provvedimenti da parte dell’amministrazione. Una eventuale azione risarcitoria potrà riguardare soltanto,
in questo caso, l’eventuale danno relativo al periodo in cui l’attività del concessionario è stata sospesa per
effetto della revoca, ma in genere l’annullamento della revoca illegittima è sufficiente a soddisfare la
pretesa del privato.
Art. 21-quinquies l.n. 241/1990 prevede che in caso di revoca di un provvedimento amministrativo,
l’amministrazione debba indennizzare il soggetto danneggiato dalla revoca e che, se la revoca incide su
rapporti negoziali, l’indennizzo sia limitato al solo danno emergente.
La tutela annullatoria è garantita non solo contro i provvedimenti espressi, ma anche nel caso in cui
l’amministrazione rimanga inerte di fronte a una richiesta del privato. Se l’amministrazione non adotta
una decisione entro il termine previsto per la conclusione del procedimento avviato con l’istanza del
privato, questi può ricorrere dinanzi al giudice amministrativo e chiedergli di annullare il silenzio e anche
di valutare la fondatezza della pretesa.

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4.2. Tutela risarcitoria
La tutela risarcitoria è volta ad ottenre una compensazione o riparazione patrimoniale per il danno
subito a seguito del provvedimento o del comportamento illegittimo dell’amministrazione e può essere
esperita sia dinanzi al giudice amministrativo, sia dinanzi al giudice ordinario. Con l’azione
risarcitoria, il privato chiede che il giudice verifichi la sussistenza di un danno ingiusto, ne quantifichi gli
effetti e condanni l’amministrazione al risarcimento. L'effetto della tutela risarcitoria è la riparazione o
compensazione del danno subito, ma i criteri di individuazione del danno e le misure di riparazione sono
diverse a seconda della conformazione della situazione soggettiva privata lesa.
- L’amministrazione sottrae un terreno ad un privato con un provvedimento di espropriazione,
illegittimo perché manca la dichiarazione di pubblica utilità e realizza l’opera pubblica su quel terreno,
trasformando così il bene. In questo caso al privato non basterà l’annullamento del provvedimento
illegittimo, che non avrebbe effetti sul danno subito: per compensare il danno occorre la tutela
risarcitoria.
Questo schema di base può conoscere molte varianti a seconda delle ragioni individuate come causa di
illegittimità:
1) Nel caso in cui l'illegittimità del provvedimento dipende da un vizio procedimentale, come la mancata
acquisizione di un parere o una insufficienza di motivazione, e, quindi, il potere amministrativo può
essere nuovamente esercitato, poiché non c'è un'illegittimità sostanziale dell'atto, il giudice
amministrativo ammette la tutela risarcitoria, ma con criteri più restrittivi rispetto ai casi in cui
l'illegittimità è tale da non consentire un nuovo esercizio del potere.
2) Il privato si vede illegittimamente negare il permesso di costruire (e cioè un provvedimento
amministrativo finalizzato ad accertare l’esistenza del diritto di costruire) potrà richiedere non solo
l’annullamento del diniego, ma anche la dichiarazione del diritto ad ottenere il permesso e il risarcimento
dei danni subiti per la mancata concessione.

Secondo la disciplina civilistica, il risarcimento del danno può avvenire per equivalente o in forma
specifica. Il c.p.a. all’ art. 30 prevede che il giudice, nel determinare il risarcimento, deve valutare tutte
le circostanze di fatto e il comportamento delle parti. Questa valutazione può portare ad escludere il
risarcimento dei danni che lo stesso danneggiato avrebbe potuto evitare mediante l’ordinaria diligenza,
anche attraverso il ricorso agli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento.
La fondatezza della domanda di risarcimento va valutata anche in base al comportamento del
danneggiato, sul quale incombe l’obbligo di attivare tutti gli strumenti utili ad evitare o almeno
circoscrivere il danno.
Il giudice deve, però, verificare se, in relazione alle concrete circostanze, la tempestiva proposizione
dell’azione di annullamento avrebbe in effetti evitato o mitigato il danno.
Di converso, la domanda di risarcimento può essere del tutto svincolata dalla tutela costitutiva quando
l’annullamento dell’atto non può avere alcun effetto sul danno.
Il risarcimento del danno, sia per equivalente, sia in forma specifica, è richiamato anche nell’art. 34, lett
c) del c.p.a. secondo il quale il giudice può condannare l’amministrazione al pagamento di una somma di
denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione di misure idonee a tutelare la situazione
soggettiva dedotta in giudizio e all’adozione di misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art.
2058 c.c.

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La giurisprudenza ha mostrato, prima dell’entrata in vigore del c.p.a., una prevalente tendenza a
identificare l’annullamento del provvedimento con la reintegrazione in forma specifica ricostruendo,
però, l’istituto della reintegrazione in forma specifica diversamente da quanto accade nel diritto civile
dove la reintegrazione in forma specifica può essere accordata o mediante una determinazione di una
somma di denaro o mediante la ricostituzione della situazione del debitore prima dell’evento dannoso; il
giudice amministrativo ha identificato la reintegrazione in forma specifica con l’annullamento dell’atto
illegittimo, perché mediante l’annullamento del provvedimento sfavorevole si ricostituirebbe la situazione
quo ante che era stata illecitamente modificata e allo stesso annullamento segue, in alcuni casi, l’obbligo
della P.A. di adottare un provvedimento favorevole per il privato.
A parziale correzione di questa tendenza, si vanno moltiplicando le norme che prevedono espessamente
l’obbligo di provvedere al risarcimento per equivalente in specifiche circostanze. L’esempio più
importante è il cosiddetto danno da ritardo.

5. Tipologie ulteriori di responsabilità dell’amministrazione


L’illecito civile della P.A. è dunque sottoposto alla stessa disciplina generale dell’illecito civile dei
privati, pur presentando alcuni tratti di specie.

5.1. Responsabilità per danno da ritardo


Le amministrazione sono obbligate a concludere i procedimenti, iniziati ad istanza di parte o d’ufficio,
mediante provvedimenti espressi ed entro i termini stabiliti dalla legge. Le P.A. sono tenute a risarcire il
danno ingiusto che deriva dalla inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento.
Di fronte all’inerzia della P.A. il privato è titolare di una situazione giuridica soggettiva composita. Da un
lato, ha un interesse sostanziale a ottenere tempestivamente l’utilità connessa al rilascio del
provvedimento richiesto (bene della vita); dall’altro ha un interesse di carattere formale al rispetto dei
tempi del procedimento, ossia che il provvedimento anche negativo, sia comunque ottenuto nel tempo
previsto. Le situazioni che astrattamente si possono configurare sono 3:
- La P.A. emana un provvedimento favorevole oltre i termini stabiliti dalla legge: il privato ha
conseguito il bene della vita cui aspriava, ma ha visto frustrato il proprio interesse a che questo
avvenisse entro i termini prescritti dalla legge.
- La P.A. emana un provvedimento sfavorevole oltre i termini stabiliti dalla legge: né l’interesse al
provvedimento, né quello al rispetto dei tempi procedimentali sono stati soddisfatti.
- La P.A. non emana il provvedimento e rimane inerte anche oltre il limite: l’interesse al rispetto dei
termini è stato violato, mentre quello al provvedimento rimane in sospeso. In questa ipotesi il privato
può fare ricorso contro il silenzio, chiedendo che la P.A. si esprima con un provvedimento espresso.
Per lungo tempo il privato poteva ottenere il risarcimento solo se il provvedimento oggetto del ritardo
fosse stato a lui favorevole, ossia se si rientrava nel primo dei 3 casi. Nell’ipotesi in cui il provvedimento
fosse stato sfavorevole, la richiesta di risarcimento mancava del presupposto costitutivo. Il danno
provocato non era ingiusto: il ritardo non aveva compromesso il godimento del bene perché il bene
comunque non spettava al privato. La violazione dei termini del procedimento, dolosa o colposa, non
integrava quindi una fattispecie autonoma di risarcimento. Le nuove regole modificano questa situazione,
separando la possibilità di ottenere il risarcimento dalla necessità che il provvedimento emesso con
ritardo sia un provvedimento favorevole.

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Il danno da mero ritardo è ingiusto perché la P.A. non ha rispettato i termini del provedimento e il
privato può ottenere il risarcimento indipendentemente dal contenuto del provvedimento emesso.
Nel rapporto tra amministrazione e privato i beni della vita meritevoli di tutela sono: il contenuto
favorevole dell’atto e il rispetto dei tempi del procedimento.

5.2. Responsabilità da contatto o procedimentale


La giurisprudenza e una parte della dottina hanno prospettato una peculiare configurazione della
responsabiltià della P.A., definita come responsabilità da contatto.
La responsabilità per lesione di interessi legittimi, specie se pretensivi, non sarebbe da riportare allo
schema generale della responsabilità extracontrattuale, ma troverebbe il suo elemento caratteristico nel
“contatto” che si stabilisce fra privato e P.A. con l’avvio del procedimento amministrativo. All’interno
del procedimento l’amministrazione sarebbe tenuta non tanto all’adozione del provvedimento favorevole,
ma al rispetto del principio di affidamento e del principio di buona fede e il privato potrebbe vantare non
tanto una pretesa al provvedimento favorevole quanto una pretesa al rispetto degli obblighi che la P.A.
assume in ragione del contatto procedimentale.
La responsabilità da contatto non sarebbe assimilabile all’illecito aquiliano, ma avrebbe alcuni
carattere della responsabilità contrattuale e di quella per inadempimento delle obbligazioni. Da questa
ricostruzione discende una diversa individuazione dei presupposti del risarcimento. Non è necessario che
il danno comprometta il godimento di un bene della vita e l’utilità a cui l’interesse è preposto. È
sufficiente che vi sia un inadempimento di obblighi sorti per effetto del contatto qualificato.
Nella responsabilità da contatto la ripartizione dell’onere probatorio segue l’art. 1218 c.c. e spetta al
danneggiante provare l’assenza di colpa.
Oggi permangono nella giurisprudenza sporadici rinvii alla responsabilità da contatto. Per esempio, è
stata inquadrata nell’art. 1218 c.c. la responsabilità dell’amministrazione ospedaliera conseguente alla
violazione di obblighi di protezione che la stessa deve al paziente in virtù del contatto sociale tra struttura
sanitaria e paziente.

5.3. Responsabilità da atto lecito


La P.A. può provocare un danno a un privato sia commettendo un fatto illecito, sia nell’esercizio
legittimo dei suoi poteri. Esempio: il privato viene espropriato per ragioni di pubblica utilità, il suo
sacrificio è giustificato dal perseguimento di un interesse pubblico. In queste ipotesi non dovrebbe
sussitere la pretesa al risarcimento: si è verificato un danno, ma poiché il danno consegue ad un’attività
legittima, il danno stesso non può essere qualificato come ingiusto. Nel bilanciamento tra un interesse
pubblico e un interesse privato si sacrifica il secondo a favore del primo. Se però, il sacrificio che si
chiede al privato è di entità rilevante, lo Stato ha l’obbligo di corrispondere un indennizo al privato. In
questo modo si ripartisce l’onere del sacrificio tra il privato e la collettività, in quanto l’indennizo viene
pagato con denaro pubblico.
I presupposti dell’indennizzo sono 4:
- Che la condotta dell’amministrazione comporti per il privato un sacrificio speciale: il sacrificio è
speciale perché è conseguenza di un atto amministrativo che incide in modo specifico sul privato.
- Che la situazione giuridica soggettiva lesa sia un diritto e non un semplice interesse.
- Che il danno sia di rilevante entità
- Che il privato non abbia contribuito con la propria condotta a provocare il danno e che il danno sia
imputabile solo ed esclusivamente all’amministrazione.

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Il fondamento normativo della responsabilità da atto illecito e dell’obblifo dell’indennizzo in caso di
violazione di diritti patrimoniali viene ricondotto all’art. 42 cost.: la proprietà privata può essere, nei
casi previsti dalla legge, e salvo indennizo, espropriata per motivi d’interesse generale. Il patrimonio
individuale è inviolabile, a meno che non sia necessario alla soddisfazione di un interesse pubblico
superiore.
Diritti all’indennizo sorgono anche in conseguenza di danni subiti dai privati a causa di provvedimenti
di autotutela dell’amministrazione. La legge 241/1990 art. 11 stabilisce che se l’amministrazione
conclude con il privato un accordo preparatorio o sostitutivo di un provvedimento amministrativo e
recede da questo accordo per sopravvenute ragioni di pubblico interesse, è tenuta ad indennizzare il
privato per il danno subito a seguito della risoluzione anticipata dell’accordo. L’autotutela deve essere
esercitata entro termini ragionevoli e entro questi termini il privato ha diritto a un indennizo, e non a
un vero e proprio risarcimento.
L’indennizo può derivare anche dalla violazione di diritti non patrimoniali. È il caso degli indennizi
dovuti per danni alla salute conseguenti a trattamenti sanitari obbligatori, come le vaccinazioni. A fondare
il diritto all’indennizo è sempre il principio di solidarietà: il privato sopporta il sacrificio in nome
dell’interesse generale alla salute di tutti i consociati; la collettività lo compensa per il danno subito.
Una spinta all’ampliamento delle ipotesi di responsabilità da atto lecito si è avuta con l’applicazione
nell’ordinamento italiano della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e della normativa
comunitaria.
La misura del risarcimento è commisurata al danno subito e la sua quantificazione è rimessa al
giudice, la misura dell’indennizo è determinata dalla legge secondo criteri standard diversificati a
seconda del tipo di bene.

5.4 Responsabilità da servizio pubblico e per attività di regolazione e vigilanza.


La responsabilità connessa allo svolgimento di un servizio pubblico è specificamente disciplinata dalle
norme in materia di Carta dei servizi. Ciascun soggetto erogatore di pubblico servizio, quale che sia la
sua natura, pubblica o privata, deve adottare una Carta dei servizi, la quale contiene i principi generali
di organizzazione e resa del servizio nonché alcuni standard quantitativi e qualitativi che il gestore si
impegna a rispettare e della cui violazione risponde nei termini e con le modalità previste dalla Carta
per lo specifico settore.
Nella responsabilità da pubblico servizio si combinano regole pubblicistiche (l'obbligo di adottare la
carta e i contenuti essenziali e minimi della stessa sono determinati legislativamente) e regole civilistiche,
applicate all'attività di servizio pubblico indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, del soggetto
erogatore.
La natura e la quantificazione del danno risarcibile in materia di servizi pubblici sono peraltro
differenziate a seconda di diversi elementi:
- Natura del servizio: (sociale o imprenditoriale)
- Dimensione della prestazione: (individuale o collettiva)
- Conseguenze della mancata o inesatta prestazione sulla situazione soggettiva lesa
Sempre più spesso il legislatore e il giudice prevedono forme di indennizzo automatico che prescindono
da una esatta determinazione del danno prodotto, ma consentono un ristoro più facile e meno soggetto a
contenzioso.

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A seguito dei processi di liberalizzazione dei servizi pubblici la responsabilità del servizio pubblico si è
ampliata, perché il giudice l’ha ritenuta sussistene non solo nei confronti dell’utente, ma anche nei
confronti degli altri gestori concorrenti.
La responsabilità si estende anche alle autorità indipendenti, con riferimento alle attività di vigilanza e
regolazione, con il riconoscimento della responsabilità in solido dell’aurotià vigilante con il vigilato per il
danno arrecato a terzi. Gli esiti della responsabilità sono diversi a seconda che si tratti di attività di
vigilanza o di regolazione. Azioni e omissioni nell’attività di vigilanza che abbiano provocato danni a
terzi configurano violazioni dei principi costituzionali alla cui tutela le autorità sono preposte.Per
esempio: la CONSOB non ha un semplice onere di vigilanza disciplinato nella legislazione istitutiva.
Deve tenere condotte improntata a una particolare diligenza in virtù del suo ruolo di garante dei valori
costituzionali.
La diligenza qualificata risponde all’esigenza di garantire la collettivitù degli utenti che fanno ricorso al
credito e il loro diritto costituzionale all’integrità patrimoniale. La responsabilità connessa all’attività di
regolazione è più problematica e limitata. Le autorità sono soggetti istituzionali indipendenti dal potere
politico e si collocano al di fuori del circuito di responsabilità politica. Le autorità indipendenti devono,
nell’esercizio dei propri poteri regolatori, seguire articolati procedimenti che garantiscono la
partecipazione e il contraddittorio con i privati. La responsabilità che segue alla violazione di queste
regole difficilmente dà luogo a una tutela risarcitoria. La tutela è di tipo annullatorio: il giudice dispone
l’annullamento dell’atto di regolazione adottato senza che sia stata garantita la preventiva partecipazione
dei soggetti interessati.

5.5. Responsabilità per violazione del diritto comunitario


La responsabilitò dello Stato per violazione del diritto comunitario, affermata dalla Corte di giustizia sin
dagli anni 70, è inerente al sistema del Trattato quale strumento che assicura la realizzazione degli
obiettivi politico-economici dell’UE. In funzione di questi obiettivi, gli Stati sono tenuti al rispetto di
obblighi imposti dalle istituzioni UE e ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare che ne
assicurano l’esecuzione. L’osservanza del diritto dell’UE da parte degli Stati ha due elementi:
- Obbligo di non violare il diritto comunitario e di darvi esecuzione
- Eliminare le conseguenze illecite di un’eventuale violazione
Quali esempi di violazione possono ricordarsi: la mancata trasposizione di una direttiva o la violazione
di una previsione del Trattato mediante una legge nazionale o mediante un atto amministrativo e, infine,
la scorretta trasposizione di una direttiva.
Se uno Stato incorre in una di queste violazioni è ritenuto responsabile del danno provocato alle
situazioni soggettive dei privati ed è tenuto a corrispondere un risarcimento. Il danneggiato deve non
solo provare la gravità della violazione, ma è tenuto anche a cooperare per la limitazione del danno,
mediante l’esperimento di tutte le azioni e i rimedi disponibili negli ordinamenti nazionali come in quello
comunitario.
La Corte di Giustizia UE ha affermato che la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitrio
non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno.
Il principio di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario vale per qualunque dei
poteri pubblici che in concreto cagioni il danno.
La responsabilità per violazione del diritto comunitario sussiste quando si verificano 3 condizioni:
- La norma violata attribuisce diritti individuali
- La violazione è grave e manifesta
- Sussiste un nesso causale fra la violazione dell’obbligo da parte dello Stato e il danno arrecato.

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Il sistema di responsabilità comunitario non contempla la distinzione tra diritti soggettivi e interessi
legittimi e la responsabilità per violazione del diritto comunitario non viene subordinata né alla prova
della colpa, né a quella del dolo. La condizione fondante sta nel tipo di violazione che deve essere grave
e manifesta. La giurisprudenza comunitaria ha individuato alcuni indici per valutare la gravità e il
carattere manifesto, molti dei quali ripresi anche dai giudici nazionali. L’approccio comunitario tende ad
assicurare che il risarcimento del danno sia comunque dovuto a meno che non ricorrano circostanze
particolari che la giurisprudenza identifica con gli indici. La tutela risarcitoria si configura come un
complemente necessario alla tutela annullatoria. La giurisprudenza italiana prevalente, invece, prospetta
la tutela risarcitoria come eventuale, legandola alla presenza di elementi che il privato deve provare per
dimostrare la responsabilità dell’amministrazione. La responsabilità per violazione del diritto
comunitario è finalizzata a garantire sia la tutela dei diritti dei singoli, sia la piena attuazione del
diritto comunitario. Essa ha di conseguenza, sia natura di rimedio risarcitorio, sia natura di strumento di
attuazione del diritto comunitario da parte degli ordinamenti nazionali.

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CAPITOLO XII ‐ LA GIUSTIZIA
1. Le forme della giustizia amministrativa
La P.A. è tenuta ad operare secondo imparzialità e buon andamento, nel rispetto del diritto e senza
imporre, in modo arbitrario, sacrifici alla sfera giuridica dei soggetti che subiscono gli effetti della sua
azione.
Non sempre ciò accade. Può verificarsi che la P.A. agisca contra legem o faccia un uso non corretto della
propria discrezionalità amministrativa ovvero provochi un danno ingiusto ad altri soggetti.
Art. 113 Cost: contro gli atti dell’amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti
e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.
La Costituzione inidividua il sindacato giurisdizionale quale suprema garanzia di tipo successivo (tipo
rimediale) del cittadino nei riguardi dell’attività amministrativa, anche autoritativa, che abbia leso suoi
diritti o interessi.
La tutela giurisdizionale rappresenta il principale strumento di salvaguardia dell’individuo nei
confronti del comportamento arbitrario della P.A. Essa presenta 2 inconvenienti:
- È costosa, dovendo il cittadino, per far valere le proprie ragioni, essere rappresentato da un legale
- È lenta in quanto un processo, in particolare quello civile, può durare diversi anni.
I rimedi sono di tre tipi:
- Giuridizionali
- Amministrativi
- Arbitrali o conciliativi (introdotti dal legislatore per favorire la diminuzione del contenzioso
giurisdizionale e fornire al cittadino forme alternative, più celeri, di tutela)

1.1. fonti della giustizia amministrativa


La legislazione in materia è complessa. Si possono annoverare 4 tipi di fonti:
- Costituzione: stabilisce i generali principi di giustizia nel nostro ordinamento
(24,25,103,108,111,113)
- Fonti sovranazionali e internazionali: art. 6 CEDU e art. 47 e 48 della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE.
- Fonti legislative: la legge fondamentale in materia di processo amministrativo, volta a definire le
modalità di svolgimento del giudizio di I e II grado, è il d.lg. n. 104/2010 il codice del processo
amministrativo (c.p.a.). Il codice è composto da 137 articoli, suddivisi in 5 libri e di 4 allegati. Ciò ha
permesso alla materia di acquisire maggiore organicità e sistematicità. Il codice è oggetto di costante
modifica e aggiornamento. Il c.p.a. disciplina le modalità di svolgimento del processo ordinario
innanzi al giudice civile, anche per ciò che riguarda le controversia tra amministrazione e cittadino. Il
d.P.R. n. 1199/1971 regolamenta le modalità di esperimento dei ricorsi amministrativi
- Pronunce giurisprudenziali: svolgono un fondamentale ruolo di integrazione e di interpretazione
delle disposizioni normative in materia. Nel nostro ordinamento la sentenza del giudice è volta a
decidere il caso concreto, trovando applicazione esclusivamente tra le parti in causa. Non vale, quindi,
la regola tipica anglosassone dello stare decisis (per cui la pronuncia del giudice costituisce un
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precedente che fa stato per il futuro). La ripetizione costante nel tempo di un indirizzo
giurisprudenziale esplica gli effetti di una vera e propria penetrazione della regola giurisprudenziale
nel tessuto dell’ordinamento giuridico.

La giustizia amministrativa è nata e si è sviluppata, in Italia, in virtù del decisivo contributo della
giurisprudenza. È per questo che, quando i giudici elaborano, con le proprie sentenze, vere e proprie
regole di diritto, si dice che essi, ponendo in essere un’attività pretoria, adempiono ad una funzione
creativa del diritto.

1.2. I rimedi giurisdizionali:


Il ricorso giurisdizionale verso atti o comportamenti della P.A., oltre ad essere il solo a godere di tutela
costituzionale, è anche il più utilizzato. Esso può essere proposto, a seconda delle aree di giurisdizione, al
giudice ordinario, ai giudici speciali (amministrativo, contabile, tributario, delle acque, militare), alla
giurisdizione domestica (giudice parlamentare).
- Il giudice ordinario è soggetto, nei confronti degli atti della P.A., ad un limite esterno, potendo
giudicare soltanto delle controversie aventi ad oggetto la tutela dei diritti soggettivi, e ad un limite
interno, non potendo emanare sentenze costitutive nei confronti di un atto amministrativo, ma
soltanto disapplicare lo stesso. Esistono eccezioni ad entrambi i limiti. Quanto al limite esterno, vi
sono casi (opposizione a sanzioni amministrative; gli accertamenti ed i TSO; l’espulsione; il permesso
di soggiorno ecc.) in cui il legislatore ha previsto che il giudice ordinario possa annullare, sospendere
o riformare l’atto amministrativo. In relazione al limite interno, vi sono casi in cui possono essere
emesse, nei confronti della P.A., decisioni di accoglimento di domande possessorie e di ingiunzione di
pagamento e di convalida di sfratto.
- Il giudice penale ordinario è competente per tutte le questioni relative ai delitti contro la P.A.
(corruzione, concussione, peculato). Poiché la responsabilità penale è personale, oggetto del sindacato
del giudice penale è la condotta dei titolari di uffici pubblici, professionali od onorari che siano.
- Al giudice contabile va presentato il ricorso giurisdizionale in materia contabile (cioè, per i giudizi
concernenti la responsabilità amministrativa e contabile dei pubblici funzionari, le pensioni, i giudizi
di conto) e quindi, in I grado, ad una tra le 20 sezioni regionali della Corte dei conti, organo ausiliario
e indipendente, nonché titolare della funzione giurisdizionale in materia contabile. Verso la promuncia
della sezione regionale può proporsi in appello alle sezioni centrali.
- Il giudice tributario si pronuncia sulle liti tra i cittadini e l’amministrazione finanziaria o altri enti
impositori. Esso è costituito dalle Commissioni tributarie provinciali e regionali. Verso la pronuncia
della Comissione tributaria regionale è ammesso il ricorso in Cassazione.
- I tribunali delle acque pubbliche hanno competenze in materia di acque. Il ricorso va presentato, in I
grado, ai Tribunali regionali delle acque pubbliche e, in II grado, al Tribunale superiore delle acque
pubbliche.
- Per i Tribunali militari la giurisdizione varia a seconda che si versi in tempo di pace o di guerra. Nel
primo caso, è limitata ai reati militari commessi dagli appartenenti alle forze armate. Nel secondo
caso, è molto più estesa e la definizione dei suoi confini è demandata al legislatore.
- Giurisdizione domestica esamina i ricorsi controlo gli atti di amministrazione della Camera dei
deputati. Gli organi di giurisdizione domestica sono 2: il consiglio di giurisdizione (I grado); collegio
d’appello. Essi sono composti da deputati in possesso di qualifiche che ne garantiscano professionalità

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e indipendenza. Anche per il Senato esistono simili organi di autodichia: la commissione contenziosa
(I grado); consiglio di garanzia.

1.3. I rimedi amministrativi


Il rimedio giurisdizionale è soltanto una tra le misure eperibili. Colui che ritenga di aver subito la lesione
di una situazione soggettiva qualificata (diritto soggettivo o interesse legittimo) può anche presentare
ricorso amministrativo, ordinario o straordinario (d.P.R n. 1199/1971).
I ricorsi ordinari sono 3: gerarchico, gerarchico improprio, in opposizione.
Il ricorso straordinario è quello rivolto al Presidente della Repubblica, solo contro i provvedimenti
definitivi. È considerato definitivo il provvedimento nei cui confronti il ricorso ordinario sia già stato
esperito o non possa esserlo: possono ritenersi definitivi i provvedimenti che sia l’autorità emanante sia
quella gerarchicamente superiore non sono più in grado di ritrattare, essendo da considerare
definitivamente espressa la volontà dell’amministrazione.
Oltre a quella tra ordinari e straordinari, sono rinvenibili altre due classificazioni dei ricorsi
amministrativi: la prima concerne la distinzione tra ricorsi generali (ricorso gerarchico e straordinario)
cioè che non necessitano di una espressa previsione normativa per poter essere esperiti; e tassativi
(ricorso gerarchico improprio e quello in opposizione) possono essere utilizzati solo ove la norma lo
consenta.
La seconda la differenza tra ricorsi rinnovatori (gerarchico e in opposizione) cioè possono dar luogo non
soltanto all’annullamento dell’atto impugnato, ma anche alla sua modificazione o sostituzione; ed
eliminatori (ricorso gerarchico improprio e straordinario) in quanto possono comportare solo
l’annullamento dell’atto impugnato.
I ricorsi amministrativi rientrano nella categoria dei procedimenti amministrativi di II grado. L’atto
con il quale si conclude il ricorso amministrativo è tradizionalmente annoverato tra le decisioni
amministrative, provvedimenti amministrativi aventi natura contenziosa ed effetti giustiziali.
I ricorsi amministrativi vanno distinti da quelli giurisdizionali. È vero che in relazione ai procedimenti
volti a decidere ricorsi amministrativi trovano applicazione talune regole che sono più assimilabili a
quelle processuali che a quelle amministrative. Si pensi, ad esempio, al principio dispositivo per il quale
l’autorità decidente non può introdurre d’ufficio motivi ulteriori rispetto a quelli dedotti nel ricorso. Il
ricorso amministrativo non può essere confuso o pienamente assimilato a quello giurisdizionale. L’uno
ha natura giustiziale, l’altro giurisdizionale. Il primo si conclude con un provvedimento amministrativo,
il secondo termina con una sentenza.

- Ricorso gerarchico: è quel rimedio amministrativo che va presentato non al soggetto pubblico che ha
emanato il provvedimento, ma a quello che si trova ad esso gerarchicamente sovraordinato. Il rilievo
del ricorso gerarchico è andato scemando. Oggi si fa raramente uso di tale rimedio. Ci si serve ancora
di esso per conseguire due tipi di utilità: da un lato, il ricorso gerarchico è esperibile anche per ragioni
di merito; dall’altro è economico, non essendo necessaria la rappresentanza o l’assistenza di un
avvocato, e celere, concludendosi al massimo entro 90 giorni, scaduti i quali l’inerzia dell’autorità
decidente equivale al rigetto del ricorso. Art. 16 d.lg. n. 165/2001 stabilisce che non siano suscettibili
di ricorso gerarchico i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice dell’amministrazione e
dai dirigenti di uffici dirigenziali generali. Il ricorso gerarchico è ammesso in un unico grado, è
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diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato il provvedimento e va
presentato, entro 30 giorni dalla notificazione dell’atto da impugnare, all’organo cui è diretto. Il
ricorrente non è tenuto a notificare il ricorso né all’organo che ha emanato il provvedimento, né agli
eventuali controinteressati. L’autorità decidente provvede ad integrare il contraddittorio nei confronti
di questi ultimi.

- Ricorso gerarchico improprio: è diretto ad un organo non gerarchicamente sovraordinato rispetto a


quello che ha emanato l’atto impugnato ed è previsto dall’ordinamento per casi nei quali il
provvedimento avrebbe altrimenti acquisito carattere di definitività. In tali ipotesi, la norma individua
l’organo della medesima amministrazione o di altra amministrazione, al quale, pur in carenza di un
rapporto gerarchico, spetterà il compito di decidere il ricorso.
- Ricorso in opposizione: più raro ed è diretto al medesimo organo che ha adottato l’atto impugnato.
- Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: è proposto contro provvedimenti definitivi, in
alternativa rispetto al ricorso giurisdizionale.
L’alternatività implica che il ricorrente è chiamato a compiere una scelta definitiva sulla tutela da
impiegare, poiché, una volta proposto il ricorso straordinario, egli non può più rivolgersi al giudice
amministrativo, e viceversa. L’alternatività ha sempre operato esclusivamente in riferimento al giudice
amministrativo. Il principio di alternativitià non si applicava in riferimento alla giurisdizione ordinaria.
L’art. 7 c.p.a. ammette il ricorso straordinario unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione
amministrativa, precludendo così tale tipologia di rimedio, pertanto, alle controversie devolute alla
giurisdizione del giudice ordinario, fra cui quelle concernenti il rapporto di lavoro con le P.A. Vi sono
alcune ipotesi in cui il legislatore non ammette ugualmente il ricorso straordinario: è il caso degli atti
delle procedure di affidamento relativi a pubblici lavori.
Le ragioni dell’utilizzo del ricorso straordinario sono principalmente 3:
- È economico ed è divenuto, soprattutto in tempi recenti, piuttosto celere.
- Assicura un apprezzabile grado di terzietà dell’organo chiamato a pronunciarsi
- Rappresenta l’ultima possibilità di tutela per il cittadino, nel caso in cui sia, spirato il termine di
impugnazione innazi al giudice amministrativo: il ricorso straordinario può essere sottposto entro 120
gg dalla comunicazione del provvedimento definitivo ovvero dalla formazione del silenzio rigetto in
ordine al ricorso ordinario.
La giurisdizione amministrativa garantisce il doppio grado di giudizio, mentre la decisione del ricorso
straordinario avviene in un unico grado.
Possono essere impugnati in sede di ricorso straordinario anche gli atti di diritto privato posti in essere
della P.A., purché la controversia afferisca a una materia rientrante tra quelle devolute alla giurisdizione
amministrativa.
La disciplina del ricorso straordinario differisce rispetto a quella dei ricorsi ordinari; le differenze
principali riguardano il procedimento, che è più complesso. Il ricorso, che può contenere anche la
richiesta di sospensione degli effetti del provvedimento, va presentato all’autorità amministrativa che ha
adottato l’atto impugnato o al Ministero competente per materia e deve essere notificato, a pena di
inammissibilità, ad almeno uno dei controinteressati. Questi ultimi hanno 60 gg dalla notificazione del
ricorso per presentare deduzioni, documenti o un eventuale ricorso incidentale. Il Ministero competente,
disposta l’eventuale integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i controinteressati e svolta, entro
120 gg, l’istruttoria del ricorso, trasmetti gli atti al Consiglio di Stato, per l’emanazione del parere
obbligatorio e vincolante. Questi ha 45 gg per pronunciarsi, scaduti i quali il Ministro potrebbe procedere

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indipendentemente dall’acquisizione dell’atto di consulenza. Ricevuto il parere predisposto dal Consiglio
di Stato, il Ministro elabora, su tali basi, il testo di decreto del Presidente della Repubblica. Il decreto è
sottoposto a controllo della Corte dei Conti. La presenza di un parere obbligatorio e vincolante del
Consiglio di Stato consente di comprendere le ragioni della necessaria alternanza tra il ricorso
straordinario ed il ricorso giurisdizionale. Qualora i rimedi fossero entrambi esperibili, il Consiglio di
Stato potrebbe essere chiamato, quale giudice amministrativo di II grado, a pronunciarsi sulla legittimità
di un parere emesso da una sua Sezione in sede consultiva.
1.4. I rimedi arbitrali o conciliativi
I rimedi arbitrali e conciliativi possono essere strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. Si
tratta di rimedi giustiziali, da distinguere rispetto a quelli giurisdizionali. La ragione principale di ricorso
a tali strumenti è rappresentata dalla celerità del loro svolgimento. Non sempre si tratta di strumenti
economici.
- Arbitrato: questo non possiede carattere giurisdizionale, pur essendo uno strumento processuale (vi
possono partecipare solo coloro nei confronti dei quali l’atto finale è destinato a produrre effetti; si
svolge in contraddittorio; si conclude con un lodo cui soltanto l’autorità giudiziaria può attribuire
piena esecutività). La sua natura, piuttosto, è privata e contrattuale, essendo l’arbitrato affidato a
giudici privati e non a giudici professionali e dovendo essere esperito sulla base di un espresso
accordo tra le parti. L’arbitrato può trovare applicazione anche nei riguardi delle P.A. Per le
controversie che investono le P.A. vige una limitazione: si può far uso dell’arbitrato soltanto per i
rapporti attinenti a diritti soggettivi; restrizione motivata dall’esigenza di rimettere ad arbitri
soltanto questioni che concernano diritti disponibili e non anche vertenze riguardanti l’esercizio del
potere pubblico. L’art. 12 c.p.a. ha stabilito che sono risolvibili mediante arbitrato rituale, oltre alle
controversie ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario, anche quelle devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo.
- Procedure conciliative o transattive: diffuse in particolare negli ordinamenti anglosassoni si sono
affermate anche nell’ordinamento italiano. Il conciliatore a differenza dell’arbitro, non ha potere
decisionale finale: suggerisce ed agevola l’accordo, non decide la controversia. I vantaggi del ricorso a
tale strumento sono dati dalla tempestiva conclusione del tenativo e dalla possibilità di rinnovata
analisi di questioni di merito. Procedure di questo tipo sussitono in molti campi, quali, ad esempio, in
materia di lavori pubblici, servizi e forniture; comunicazioni elettroniche; energia elettrica e gas ecc.
- Il legislatore ha previsto apposite forme di soluzione, alternative o podromiche al ricorso
giurisdizionale. La più interessate è quella relativa all’istanza alla Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi in caso di diniego di accesso ai documenti da parte di amministrazioni
statali. L’art. 25 l.n. 241/1990 dà la possibilità al cittadino di chiedere alla Commissione per
l’accesso, entro il termine di 30 gg dal rifiuto, che sia riesaminata la determinazione negativa. Qualora
questa ritenga illegittimo il diniego o il differimento, partecipa l’illegittimità a colui che ha disposto in
tal senso, il quale ha 30 gg per adottare un provvedimento confermativo motivato. Scaduto tale
termine, l’accesso è consentito.

2. Monismo e dualismo giurisdizionale


Le controversie tra soggetti privati sono demandate alla giurisdizione di un unico giudice, quello
ordinario. Quelle che investono le P.A. sono oggetto di una disciplina differenziata a seconda che
l’ordinamento giuridico propenda per un modello monistico o per uno dualistico.

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- Modello monistico: adottato nei paesi di tradizione anglosassone. Ciò significa che, anche nel caso in
cui una delle parti del processo sia una P.A., il giudizio è comunque rimesso ad un unico giudice. Il
ragionamento alla base di tale scelta è il seguente:
a. l’amministrazione non è che uno tra i soggetti che compongono l’ordinamento
b. non vi è ragione che il suo trattamento, sul piano della tutela giurisdizionale, si differenzi da quello
degli altri soggetti.
- Modello dualistico: sviluppato nei paesi dell’Europa continentale. Implica la ripartizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo delle controversie tra il cittadino e la P.A.
Nel nostro ordinamento è sempre stato applicato il modello dualistico. Il ragionamento su cui è fondata
tale scelta è il seguente:
- La P.A., quando, al fine di perseguire una funzione pubblica, esercita, attraverso strumenti autoritativi,
il potere pubblico ad essa conferito dalla legge, si colloca su un piano differenziato rispetto a quello
degli altri soggetti dell’ordinamento
- Ne consegue che anche la tutela giurisdizionale debba essere speciale ed essere attribuita ad un giudice
ad hoc, il giudice amministrativo.
In Italia, il sistema dualistico è stato elevato a rango costituzionale: l’art. 103 Cost. (il Consiglio di Stato
e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della P.A.
degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.)
riconosce al giudice amministrativo il ruolo di giudice naturale degli interessi legittimi e la possibilità di
eservitare la giurisdizione esclusiva su specifiche materie.

2.1. Le ragioni di una giurisdizione specializzata per le controversie con le P.A.


L’esistenza di una giurisdizione specializzata per le controversie con le pubbliche amministrazioni
origina da due ragioni:
- Ragione storica: derivante dalla concezione, affermatasi tra fine XIX e inizio XX sec., di P.A. quale
autorità esercente il pubblico potere nel perseguimento dell’interesse pubblico. All’atteggiarsi
dell’autorità farebbe da contraltare la situazione giuridica soggettiva del cittadino, titolare, nei
confronti di quest’ultima, non di un diritto soggettivo, bensì di un interesse legittimo.
- Ragione tecnica: il giudice amministrativo è considerato professionalmente più idoneo e sensibile,
data la specifica preparazione, a comprendere e risolvere liti coinvolgenti cittadini e P.A. I magistrati
dei TAR e quelli del Consiglio di Stato costituiscono un corpo altamente professionale, una élite di
poche unità, selezionata, in parte, con severe regole concorsuali.
L’affermazione di queste due ragioni ha determinato la creazione di una giurisdizione amministrativa
separata da quella ordinaria. Basti pensare all’uso della locuzione riparto delle giurisdizioni per indicare
le regole concernenti l’individuazione dei confini tra giudice ordinario e amministrativo.
Una serie di fenomeni, intervenutìi nel corso degli ultimi anni, sembrerebbe aver attenutato le ragioni a
sostegno di una giurisdizione amministrativa speciale, separata da quella ordinaria:
- La concezione della P.A. quale autorità operante attraverso provvedimenti è da considerarsi in larga
misura superata, giacché, da un lato, la P.A. agisce sempre meno attraverso strumenti autoritativi e,
dall’altro, la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi è andata perdendo gradualmente di
rilievo.
- Proprio la trasformazione del criterio di riparto, attraverso l’estensione della giurisdizione esclusiva,
ha reso meno rilevante il profilo tecnico. Da un lato, la circostanza per la quale il giudice

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amministrativo è chiamato a pronunciarsi, in materia di giurisdizione esclusiva, anche sui diritti
soggettivi, comporta la trasformazione del suo ruolo: da giudice dell’atto a giudice del rapporto.
Dall’altro, la riforma del processo amministrativo, postula l’applicazione di regole generali di diritto
processuale anche al processo amministrativo, con la conseguente estensione, a quest’ultimo, della
teoria generale del processo. L’avvicinamento del processo amministrativo a quello civile implica,
anche sotto il profilo delle regole di diritto processuale, l’attenuazione della specialità del giudice
amministrativo.

Il graduale processo di omologazione tra giurisdizioni e processi ha prodotto il venir meno di una netta
separazione tra le due giurisdizioni. Il confine tra di esse è divenuto assai mobile. Si è affermata, dunque,
una concezione unitaria di giurisdizione, che non ha condotto, peraltro, a rinnegare il sistema dualista,
ma, anzi, ha favorito il suo rafforzamento, attraverso il criterio di riparto fondato sui blocchi di
competenza.

2.2. Criteri di riparto della giurisdizione

L’art. 103 Cost. individua quale generale criterio di riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella
amministrativa quello per situazioni giuridiche soggettive. Il giudice naturale per i diritti soggettivi
sarebbe il giudice ordinario e quello per gli interessi legittimi sarebbe il giudice amministrativo. Ciò
comporta che il giudice sia chiamato a valutare, sulla base della causa petendi (o del petitum
sostanziale: cioè, della situazione giuridica soggettiva realmente lesa, anziché meramente del petitum,
cioè della situazione che il ricorrente assume lesa), se la controversia rientri nel proprio ambito di
giurisdizione. La situazione si è andata evolvendo in senso opposto al dettato costituzionale: il criterio di
riparto per materia è divenuto di gran lunga la principale regola di articolazione della giurisdizione,
mentre quello per situazioni giuridiche soggettive ha assunto un rilievo secondario. Può ritenersi che il
riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo si configuri nel seguente modo:
- Il giudice ordinario è titolare della giurisdizione relativa alle liti sui diritti soggettivi, ad eccezione di
quelle riguardanti le materie espressamente devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. In via eccezionale, in relazione ad un ridotto numero di materie, il giudice ordinario
ha un sindacato giurisdizionale più ampio, potendo annullare, modificare o sospendere l’atto
amministrativo.
- Il giudice amministrativo è titolare di giurisdizione esclusiva su un articolato novero di materie
(urbanistica, edilizia, appalti e servizi pubblici) e, per il resto, della giurisdizione generale di
legittimità concernente le liti sugli interessi legittimi, ad eccezione del ridotto gruppo di materie di
cui si è appena detto. L’art. 7 c.p.a. riconosce al giudice amministrativo la titolarità di un generale
potere risarcitorio, a prescindere dalla forma della giurisdizione.
La soluzione dei conflitti di giurisdizione è attribuita alle sezioni unite della Corte di Cassazione.
Qualora il giudice ordinario o quello amministrativo si pronuncino sul ricorso negando la propria
giurisdizione, il processo trasmigra presso l’altro giudice, rimanendo salvi gli effetti sostanziali e
processuali della domanda proposta innazi al giudice privo di giurisdizione.

2.3. La distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo

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- Diritto soggettivo: si intende la posizione di vantaggio che consente ad un soggetto di realizzare in
modo pieno l’interesse ad un bene della vita, attraverso l'uso degli strumenti consentiti
dall’ordinamento. A fronte di una situazione giuridica soggettiva attiva di diritto soggettivo, non
possono che contrapporsi obblighi e doveri ovvero situazioni giuridiche soggettive passive.
- Interesse legittimo: della definizione di interesse legittimo esistono numerose varianti. Secondo la
variante più diffusa, per interesse legittimo si intende la posizione di vantaggio che consente ad un
soggetto di tentare di realizzare l’interesse ad un bene della vita che sia oggetto di potere
amministrativo, attraverso l’uso degli strumenti idonei ad influire sul corretto uso di detto potere.
Ad una situazione giuridica soggettiva attiva pubblica (potestà amministrativa), se ne contrapporrebbe
una privata (interesse legittimo), anch’essa attiva.
L’interesse legittimo sarebbe una situazione giuridica soggettiva in qualche modo correlata al potere
amministrativo, suscettibile di consentire la realizzazione dell’interesse al bene della vita a condizione di
riuscire a dimostrare che l’interesse pubblico sia stato conseguito attraverso un uso non corretto del potere
amministrativo.
La distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo sembrerebbe chiara e netta. In realtà, gli
elementi di difformità tra essi sono tuttora oggetto di discussione. L’influenza del diritto comunitario ha
ulteriormente attenuato le distanze tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, dal momento che, pur
affermando l’autonomia dello Stato membro a qualificare in modo diverso situazioni giuridiche protette
dal diritto comunitario come diritto soggettivo, ha sostenuto l’obbligo per il giudice interno competente di
garantire l’effettività e l’analogia della tutela giurisdizionale.

2.4. La giurisdizione del giudice ordinario

In relazione alle controversie con le P.A., la giurisdizione ordinaria è andata riducendosi quanto a novero
di materie, pur ampliandosi quanto a mole di contenzioso.
Il giudice ordinario è titolare della giurisdizione sulle controversie che concernono diritti soggettivi, ad
eccezione di quelle riguardanti materie demandate alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
In un ristretto novero di materie per le quali la legge prevede l’esperimento di procedimenti speciali
(sanzioni amministrative pecuniarie, trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera,
espulsione di stranieri, impugnazione degli atti del Garante della privacy), al giudice ordinario è
attribuita una giurisdizione più estesa, avendo anche la possibilità di incidere sull'atto amministrativo,
annullandolo, modificandolo, sospendendolo.
Da poco più di un decennio, inoltre, al giudice ordinario, a seguito della contrattualizzazione del rapporto
di lavoro con le P.A., è stato devoluto il complesso di controversie concernenti tale rapporto, ad eccezione
di quelle relative alle procedure di concorso per l’assunzione del personale.
È rimasta spettanza del giudice amministrativo la giurisdizione in ordine ad alcune categorie di
dipendenti dell’amministrazione statale (magistrati, avvocati dello Stato, militari e forze di polizia,
diplomatici, professori e ricercatori universitari) in ordine ai quali si è conservato il regime del pubblico
impiego.
La sentenza della Cassazione, sez. un. n. 500/1999 ha sostenuto che il giudice ordinario ha
giurisdizione anche per la tutela degli interessi legittimi, in relazione alle materie non devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

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Per il giudice amministrativo, invece, l’entrata in vigore dell’art. 7 l.n. 205/2000, la giurisprudenza
amministrativa ha ricavato tale disposizione che la tutela risarcitoria per danni da interessi legittimi sia
sempre di competenza del giudice amministrativo.

In passato, il sindacato del giudice ordinario su diritti soggettivi (limite esterno) è stato assoggettato, per
le controversie con le P.A., ad una serie di vincoli:
- Impossibilità di emettere sentente costitutive e di condanna diverse dal pagamento di somme di
denaro. Non sussiste più una preclusione generale a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei
confronti della P.A. E’ semplicemente preclusa alla sentenza del giudice ordinario la possibilità di
incidere sul contenuto del provvedimento amministrativo. Al di là di ciò, esso può pronunciare
qualunque sentenza nei riguardi dell’amministrazione ed adottare qualsiasi misura necessaria. È
possibile esperire nei confronti della P.A. tutte le forme di esecuzione forzata indicate nel c.p.a.
(eccetto beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili, ai quali non si applica l’esecuzione forzata).
- Impossibilità di annullare l’atto amministrativo, potendo esclusivamente disapplicarlo (limite
interno). Questo vincolo è ancora pienamente attivo: il giudice ordinario può annullare, modificare o
sospendere il provvedimento soltanto in relazione alle poche materie assoggettate a procedimenti
speciali.

3. La codificazione del processo amministrativo

Il processo amministrativo è ora retto da un proprio codice (d.lg. n. 104/2010), che ha dotato tale
processo di organicità e sistematicità. Il codice è stato adottato nell’esercizio di una delega, attribuita
dall’art. 44 l. n. 69/2009, volta al riassetto del processo. Tale riassetto è stato inteso nel senso della
codificazione e di un codice che, coordinando le norme vigenti sul processo amministrativo con quelle del
processo civile previste dal relativo codice, ponesse ambiziosamente il processo amministrativo e il suo
codice in una posizione di equiordinazione e di coordinamento con l’omologo civilistico. La struttura del
c.p.a. richiama quella del c.p.c., con la ripartizione di libri, titoli e capi e con un primo libro contenente
le disposizioni generali.
Attraverso il codice, il processo amministrativo sembra aver percorso un lungo tratto di quell’accidentato
tragitto, duranto più di un secolo, di avvicinamento al processo civile, sia sotto il profilo della pienezza
sia sotto il profilo dell’effettività della tutela.
Che il coordinamento con il processo civile costituisca uno tra gli obiettivi principali del c.p.a. si avverte
in in più punti di esso: soprattutto nell’art. 39 c.p.a. in cui per quanto non disciplinato dal presente
codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di
principi generali.

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4. L’organizzazione della magistratura amministrativa

Sono organi di giurisdizione amministrativa:


- Tribunali amministrativi regionali (TAR) i quali giudicano in I grado
- Consiglio di Stato che pronuncia, come giudice d’appello, in II grado (il giudizio di II grado nei
riguardi delle pronunce del TAR Sicilia è reso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione
Sicilia)
La magistratura amministrativa costituisce un complesso unitario ed indipendente, dotato di un
proprio apparato, di un ufficio del segretario generale e di un apposito organismo di autogoverno, il
Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (consta di 15 membri, presieduto dal Presidente
del Consiglio di Stato e composto da 4 componenti laici, eletti 2 dalla Camera e 2 dal Senato, da 4
magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato e da 6 magistrati dei TAR). Le competenze
dell’organismo sono molto vaste:
- Fissa i carichi di lavoro
- Si esprime in materia di status dei magistrati amministrativi
- Delibera in ordine agli incarichi esterni degli stessi
- Disciplina l’organizzazione, il funzionamento e la gestione delle spese del Consiglio di Stato e dei
TAR

4.1. Il Consiglio di Stato


Il Consiglio di Stato è composto da organi permanenti (presidente, sezioni, adunanza generale,
adunanza plenaria) e da organi temporanei o straordinari (commissioni speciali) ed è dotato di un
organico che comprende 101 magistrati, oltre al personale di segreteria ed ausiliario (300 dipendenti).
Il Consiglio di Stato è titolare, ai sensi dell’art. 100 Cost, di funzioni consultive e giurisdizionali.
- Le funzioni consultive: sono svolte da 3 sezioni. Ciascuna sezione consultiva è composta da 2
presidenti e da almeno 9 consiglieri.
- L’adunanza generale, presieduta dal Presidente del CdS e composta da tutti i magistrati in servizio
presso tale organo, esprime pareri sugli schemi di atti legislativi e regolamentari di particolare rilievo.
- Le funzioni giurisdizionali: sono esercitate da 4 sezioni. Ciascuna di esse è composta da 2 presidenti
e da almeno 12 consiglieri. Le sezioni giudicano in collegi formati da 5 magistrati: 1 presidente e 4
consiglieri. La ripartizione dei ricorsi tra le sezioni è compiuta dal Presidente del CdS, sulla base dei
criteri di massima fissati dal Consiglio di Presidenza.
- L’adunanza plenaria: presieduta dal Presidente del CdS e composta da 12 magistrati, pronuncia su
ricorsi:
a. concernenti questioni che abbiano generato o possano generare contrasti giurisprudenziali
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b. richiedenti la soluzione di questioni di particolare rilievo.

I posti vacanti di consigliere di Stato sono conferiti, per metà, ai consiglieri di TAR; per ¼ a professori
ordinari di materie giuridiche, ad avvocati di provata esperienza e capacità professionali, a dirigenti
generali, a magistrati di Corte d’appello; per ¼ ai vincitori del conrso pubblico per titoli ed esami teorico-
pratici, al quale possono partecipare determinate categorie di soggetti.

4.2. Il consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana

Il consiglio di giustizia amministrativa è stato istituito nel 1948 ed è espressione della speciale
autonomia riconosciuta alla Sicilia. Esso ha sede in Palermo ed è composto da 2 sezioni, una consultiva
e l’alta giurisdizionale.
Ne fanno parte un presidente, designato dal Presidente del CdS tra i presidenti di sezione del medesimo, 2
altri presidenti di sezione del CdS ed 8 componenti, di cui 6 scelti fra i magistrati del CdS, 1 prefetto e 9
componenti selezionati sulla base della particolare esperienza in materie giuridiche.
Il consiglio di giustizia amministrativa svolge funzioni consultive, in quanto organo di consulenza
giuridico-amministrativa del governo regionale, e funzioni giurisdizionali, pronunciando quale giudice
d’appello sui ricorso proposti avverso le pronunce del TAR Sicilia.

4.3. I Tribunali amministrativi regionali (TAR)

I Tribunali amministrativi regionali (TAR) sono stati istituiti nel 1971, hanno sede presso ciascun
capoluogo di regione. In 9 regioni (Trentino, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania,
Puglia, Calabria, Sicilia) operano delle sezioni staccate in altre province.
Si possono verificare 4 possibili ipotesi relative alla competenza territoriale:
- Ai sensi della II parte dell’art. 13 c.p.a. il TAR è inderogabilmente competente sulle controversie
riguardanti provvedimenti, atti o comportamenti di P.A. i cui effetti diretti sono limitati all’ambito
territoriale della regione in cui il tribunale ha sede. Dunque, deve guardarsi al territorio nel quale
l’atto esplica gli effetti diretti.
- Laddove vi siano problemi a individuare il territorio ove l’atto esplichi effetti ovvero tali effetti siano
ultraregionali, è competente il TAR presso cui ha sede la P.A. che ha emesso l’atto
- Per gli atti Statali è territorialmente competente il TAR Lazio, sede di Roma
- L’art. 13 c.p.a. ha stabilito che per le controversie riguardanti pubblici dipendenti è inderogabilmente
competente il tribunale nella cui circoscrizione territoriale è situata la sede di servizio.

Il c.p.a. ha individuato alcune ipotesi di competenza funzionale e quindi, ipotesi in cui, in relzione a una
determinata funzione, per instaurare il giudizio non si guarda alla competenza territoriale, ma la
competenza di uno specifico TAR è previamente determinata dal legislatore. Gli art. 14 e 135 c.p.a.
hanno elencato numerosi casi in cui la competenza è sempre del TAR Lazio. Spettano sempre al Tar
Lombardia le controversie sui poteri esercitati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas.

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Il difetto di competenza può essere rilevato in I grado anche d’ufficio, l’ordinanza che dichiara
l’incompetenza indica in ogni caso il giudice competente.
Una situazione particolare è quella del Trentino in cui, accanto alla sede di Trento, opera una sezione
distaccata con ordinamento speciale a Bolzano.
I TAR giudicano con collegi costituiti da 3 magistrati: 1 presidente e 2 tra referendari, primi referendari e
consiglieri. Per divenire referendario del TAR occorre superare un concorso pubblico di II grado, cui sono
ammesse a partecipare determinate categorie di soggetti che vantino una certa anzianità di carriera.

8. I soggetti del processo ed i loro atti.

I soggetti del processo sono: il giudice e le parti.

8.1. Il giudice e i suoi atti


Il giudice può adottare 3 tipi di atti nel processo:
- Decreti: sono solitamente atti individuali, i quali sono rivolti ai propri uffici, anziché alle parti.
Hanno lo scopo di risolvere questioni di rito e fasi interlocutorie del processo.
- Ordinanze: il giudice pronuncia ordinanze quando assume misure cautelari o interlocutorie, ovvero
decide sulla competenza. Anche le ordinanze sono rivolte a definire questioni di rito e fasi
interlocutorie del processo, ma sono per lo più collegiali e sono sempre rivolte alle parti. Le ordinanze
debbono sempre contenere una succinta motivazione e sono adottate, di norma, a seguito di
contradditorio tra le parti.
- Sentenza: è l’atto giudiziario con il quale solitamente il processo ha termine. È articolata in 4 parti:
a. intestazione
b. esposizione dei fatti
c. motivazioni di diritto
d. il dispositivo con il quale il giudice decide la controversia e commina ordini alle parti
Le sentenze sono generalmente definitive e possono essere oggetto di appello. Le sentenze definitive si
articolano in:
- Sentenze di rito: definiscono il giudizio senza inoltrarsi nella soluzione della controversia, bensì
dichiarando il ricorso irricevibile, inammissibile, improcedibile. In caso di rinuncia, perenzione o
mancata riassunzione nel termine perentorio fissato dalla legge o assegnato dal giudice, la sentenza di
rito dichiara estinto il giudizio
- Sentenze di merito: risolvono la controversia e possono essere dichiarative (volte ad accertare la
sussistenza di situazioni giuridiche soggettive), di condanna (impongono un comportamento al
destinatario), costitutive (costituiscono, modificano o estinguono situazioni giuridiche soggettive).
Le sentenze possono essere emesse in forma semplificata e, cioè, possono limitarsi a una succinta
motivazione, potendo il giudice amministrativo decidere il ricorso direttamente nella camera di consiglio
fissata per l’esame dell’istanza cautelare. La sentenza deve seguire un prestabilito ordine logico
nell’affrontare le diverse questioni sollevate. Innanzitutto, deve risolvere le questioni preliminari di rito:
ricevibilità, ammissibilità, procedibilità. In secondo luogo vanno affrontare le questioni pregiudiziali di
merito. Infine, può procedersi ad esaminare le questioni di merito.
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8.2. Le parti ed i loro atti

Le parti sono i soggetti legittimati a presentarsi di fronte a un giudice per ottenere da questi la
soluzione di una controversia. Le parti possono essere necessarie e non necessarie.
Sono parti necessarie il:
- Ricorrente: è il soggetto, privato o pubblico, titolare di un diritto soggettivo o di un interesse
legittimo, che ha interesse a modificare la situazione di fatto esistente, che gli reca un pregiudizio.
- Resistente: è il soggetto (di solito P.A.) che ha emesso l’atto o ha attuato il comportamento che ha
originato la controversia.
- Controinteressato: è il soggetto titolare di un interesse qualificato e differenziato, che, al contrario
del ricorrente, ha interesse a conservare la situazione di fatto esistente, che lo pone in posizione di
vantaggio. Il mancato rispetto della garanzia del contraddittorio nei suoi confronti comporta
l’invalidità della sentenza.
Sono parti non necessarie:
- Cointeressato: è il soggetto, titolare di un interesse qualificato e differenziato, che ha un interesse
analogo a quello del ricorrente all’annullamento dell’atto impugnato. Egli è tenuto a presentare ricorso
autonomo, potendo chiederne la riunione a quello già prendente.
- Interventore: è il soggetto titolare di un interesse mediato e riflesso all’annullamento o alla
conservazione dell’atto impugnato: non avendo la possibilità di impugnare direttamente il
provvedimento, può partecipare al giudizio soltanto in qualità di interventore.

Le parti possono presentare, in sede processuale, una pluralità di atti:


- Ricorso: è l’atto introduttivo del giudizio e deve essere notificato al resistente e ad almeno 1 tra i
controinteressati
- Controricorso: la parte resistente o i controinteressati possono costituirsi in giudizio con il
controricorso, con il quale si tende a dimostrare l’inconsistenza delle pretese del ricorrente.
- Intervento: può essere necessario, se determinato da un ordine del giudice o dalla chiamata di parte,
ovvero volontario.
- Ricorso incidentale: atto con il quale il controinteressato può a sua volta impugnare il provvedimento
investito dal ricorso principale. Il ricorrente incidentale non lamenta una lesione attuale ma una lesione
virtuale, derivante dall’eventuale accoglimento del ricorso principale. Non è ammissibile nei giudizi di
accertamento e di condanna, né nel processo di esecuzione.

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- Ricorso per motivi aggiunti: può essere presentato dal ricorrente. Tale ricorso può essere di 2 tipi.
Tradizionalmente esso è volto a consentire alla parte di sollevare nuove censure in relazione a vizi del
provvedimento impugnato non conosciuti entro il termine. Il ricorso in oggetto può anche servire per
introdurre domande nuove nel giudizio in corso, cioè per impugnare provvedimenti diversi da quello
precedentemente denunziato, purchè le parti siano le medesime e si tratti di un provvedimento
sopravvenuto e connesso con quello inizialmente impugnato.
Si è detto che l’atto con il quale solitamente il resistente si costituisce in giudizio è il controricorso. Ma le
parti possono anche presentare altri tipi di atti difensivi, quali le memorie e le comparse conlusionali. Le
memorie del ricorrente non possono contenere domande nuove, ma soltanto illustrare le precedenti
deduzioni. Le comparse conclusionali servono a fissare definitivamente le conclusioni.

9. I tipi di azione
I soggetti portatori di interesse a ricorrere sono legittimati a proporre azioni nel processo amministrativo.
Le azioni proponibili possono essere costitutive, di accertamento o dichiarative, di condanna. In taluni
casi è possibile anche il cumulo delle azioni: assieme all’azione di annullamento, può essere chiesta
anche la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno.
- Azione costitutiva: è volta ad annullare l’atto amministrativo produttivo del pregiudizio. Essa è
sempre ammessa nel processo amministrativo, ove vi sia un provvedimento da impugnare. La
sentenza di annullamento produce 3 tipi di effetti:
a. eliminatorio o caducatorio: elimina il provvedimento impugnato
b. ripristinatorio: operando ex tunc è come se il provvedimento non fosse mai stato adottato
c. conformativo: poiché l’amministrazione è tenuta ad adeguarsi ai contenuti della sentenza
- Azione di accertamento o dichiarativa: mira ad ottenere il riconoscimento della situazione giuridica
soggettiva vantata dal ricorrente. Le azioni di accertamento nel processo amministrativo sono quella
avverso il silenzio, quella relativa alla declaratoria di nullità, nonché quella relativa al diniego di
accesso ai documenti amministrativi.
- Azione di condanna: tesa ad ottenere un ordine del giudice, che imponga al resistente un facere
ovvero il pagamento di una somma di denaro o la consegna di un bene. Può essere chiesto al giudice
anche il risarcimento del danno provocato dall’amministrazione per lesione di interessi legittimi. Ai
sensi dell’art. 30 c.p.a. l’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o
anche in via autonoma. Attraverso l’azione di condanna si può chiedere il risarcimento del danno
ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di
quella obbligatoria.
La domanda di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di
decadenza di 120 gg., decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero della conoscenza del
provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. In caso di mancato rispetto del termine di
conclusione del procedimento, il termine di decadenza non decorre fintanto che perdura l’inadempimento
e inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine di provvedere.
Il decreto di ingiunzione al pagamento di una somma di denaro è codificato, per il processo
amministrativo, dall’art. 118 c.p.a. che lo ha ammesso a garanzia dei diritti soggettivi a natura
patrimoniale, nel caso in cui un soggetto, il quale possa provare il suo diritto con una idonea prova scritta,
vanti un credito di una somma di denaro o di altre cose fungibili.

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Con gli artt. 31 e 34 c.p.a. si ritiene che sia stata ammessa, anche nel processo amministrativo, l’azione
di adempimento, volta ad ottenere direttamente dal giudice il conseguimento della pretesa non soddisfatta
dall’amministrazione.
Con il d.lg. n. 198/2009 è stata introdotta, anche nei confronti delle P.A., l’azione di classe e, cioè,
l’azione proposta da uno o più soggetti con l’obiettivo di risolvere una questione di interesse comune e di
ottenere una pronuncia efficace anche per altri soggetti che si trovino nella medesima situazione.

11.2 La tutela cautelare


La presentazione del ricorso giurisdizionale non sospende gli effetti del provvedimento impugnato:
questo permane efficace sino a quando non venga, con sentenza, dichiarato illegittimo. Ed è giusto che sia
così, perché altrimenti si avrebbe il paradossale risultato per cui gli effetti di un provvedimento
amministrativo perfettamente legittimo potrebbero essere paralizzati in attesa della conclusione del
giudizio.
L’ordinamento contempla talune garanzie in favore di colui che ritenga di essere stato illegittimamente
pregiudicato da un atto o comportamento di una P.A. Questi può chiedere al giudice, qualora vi sia il
concreto rischio di subire un danno grave ed irreparabile, di adottare, nei confronti dell’amministrazione,
una misura cautelare idonea a tutelare i suoi interessi. Benchè sia soltanto eventuale, la fase cautelare
rappresenta un momento fondamentale del processo amministrativo, dato che, spesso, le sorti dell’intero
giudizio dipendono dalle decisioni assunte dal giudice in tale sede.
Affinchè il giudice conceda la misura cautelare è necessario che sia accertata la sussistenza di 2
presupposti:
- Il fumus boni juris ossia un primo sommario esame dal quale risulti una ragionevole probabilità circa
il positivo esito del ricorso.
- Il periculum in mora ovvero il comprovato e concreto rischio di subire danni gravi e irreparabili
dall’atto o dal comportamento della P.A.
Il giudice amministrativo può ordinare tutte le misure cautelari che siano suscettibili di esplicare un utile
effetto di garanzia per il ricorrente e cioè che siano più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della
decisione sul ricorso. La richiesta della misura cautelare va presentata dal ricorrente, con il ricorso di
merito o con distinto ricorso notificato alle altre parti, al medesimo giudice del giudizio principale.
Il giudizio sulla richiesta di ordinanza cautelare è definito camerale nel senso che la decisione è presa
dal collegio riunito in camera di consiglio. La tutela cautelare potrebbe intervenire tardivamente rispetto
alle esigenze del ricorrente, che potrebbe rischiare di subire un danno irreparabile prima che il collegio
decidente si riunisca per l’udienza cautelare. In caso di estrema gravità e urgenza, la richiesta di misure
cautelari provvisorie può essere presentata, previa notifica alle parti del processo, al presidente del TAR o
della sezione alla quale sia stato assegnato il ricorso principale. Il giudice decide con proprio decreto
motivato non impugnabile, che esplica effetti sino alla prima udienza utile del collegio, il quale esprime la
propria decisione riunito in camera di consiglio.

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Sulla spinta della giurisprudenza comunitaria, l’art. 61 c.p.a. ha esteso, in via generale, al processo
amministrativo l’istituto della tutela cautelare ante causam e, cioè, quella forma di tutela cautelare,
prevista nel processo civile, volta a garantire la tutela interinale indipendentemente dalla previa
proposizione di un ricorso di merito. L’art 61 stabilisce che in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale
da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari
provvisorie con decreto presidenziale, il soggetto legittimato al ricorso può proporre al presidente del
TAR competente istanza per l’adozione delle misure interinali e provvisorie che appaiono indispensabili
durante il tempo occorrente per la proposizione del ricorso di merito e della domanda cautelare in corso
di causa. Il provvedimento di accoglimento dell’istanza è notificato dal richiedente alle parti entro il
termine perentorio fissato dal giudice, non superiore a 5 gg. La misura concessa in applicazione della
tutela cautelare ante causam perde in ogni caso effetto con il decorso di 60 gg dalla sua emissione.

L’ordinanza cautelare è efficace sino all’emanazione della sentenza che conclude il relativo grado di
giudizio. Il venir meno del periculum in mora può comportare la revoca di essa da parte del medesimo
giudice che ha accolto l’istanza. Il processo di I grado può anche direttamente concludersi in sede
cautelare. Qualora la richiesta di una misura cautelare sia rigettata dal giudice di I grago può essere
presentato appello al CdS entro 30 gg dalla notifica dell’ordinanza. Le ordinanze cautelari possono
essere oggetto di revocazione.

11.8. Il giudizio di ottemperanza

Il giudizio di ottemperanza consente di far eseguire i provvedimenti del giudice amministrativa dalla P.A.
e dalle altre parti. Il giudizio di ottemperanza consente al giudice amministrativo di sostituirsi
diretamente all’amministrazione inadempiente, ovvero di nominare un commissario ad acta, con
l’incarico di emanare, in vece dell’amministrazione, gli atti idonei ad eseguire le sentenze del giudice
amministrativo passate in giudicato; le sentenze esecutive e gli altri provvedimenti del giudice
amministrativo.
In sede di giudizio di ottemperanza, può essere proposta la domanda risarcitoria concernente la mancata
esecuzione della sentenza o del lodo da parte dell’amministrazione.
Per le sentenze passate in giudicato del giudice ordinario, per le sentenze passate in giudicato per le quali
non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza e per i lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili, il
ricorso si propone al Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è
chiesta l’ottemperanza.
La nomina del commisario ad acta consente di evitare, quanto meno sotto il profilo formale ed in
ossequio al principio di separazione dei poteri, che quello giurisdizionale si sostituisca al potere
amministrativo. Il giudice può adottare decisione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo
giudizio di cognizione, risolvendo anche gli eventuali problemi interpretativi.
Il commissario ad acta non opera in qualità di organo straordinario dell’amministrazione, bensì nelle
vesti di ausiliario del giudice. Il ricorso verso gli atti del commissario ad acta va proposto innanzi al
giudice dell’ottemperanza, anziché innanzi al TAR come avviene per qualsiasi provvedimento
amministrativo.

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Le decisioni adottate dal TAR in sede di giudizio di ottemperanza possono essere appellate innanzi al
CdS, salvo che per le parti di mera esecuzione.

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