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AMMINISTRATIVO
MARCO D’ALBERTI
PARTE I
Mentre nel continente europeo il significato principale del diritto amministrativo è consistito a
lungo nelle garanzie della libertà privata nei confronti del potere pubblico, negli USA
l’administrative law nasce attorno alla garanzia del pubblico nei confronti del potere privato.
2.1 Un primo carattere iniziale del diritto amministrativo è la forte connessione con lo Stato, è il
diritto dello Stato, più in particolare il diritto del governo centrale. 2.2 Vi è incomunicabilità fra i
diritti amministrativi di Stati diversi. Ogni Stato ha il suo diritto amministrativo (secondo carattere);
questo fa la differenza tra diritto amministrativo e diritto privato. Il diritto privato avendo
tradizione millenaria ha avuto la possibilità di sedimentarsi, in più la diffusa codificazione ha
favorito la comunicabilità. All’origine il diritto amministrativo non ha nulla di tutto ciò. Di qui le
grandi differenza fra i vari diritti amministrativi, ogni Stato produce il diritto amministrativo che più
gli conviene. Ad esempio, in Francia il potere si esercita solo attraverso singoli atti amministrativi e
difronte alla decisione della pubblica amministrazione c'è il solo rimedio successivo del ricorso
giudiziario. In Inghilterra invece il destinatario del potere deve essere sentito prima che la
decisione sia presa. In Francia, Germania e Italia c'è la categoria dell'atto amministrativo; in
Inghilterra e negli USA vi sono semplicemente misure adottate dalle pubbliche amministrazioni,
che possono avere contenuti particolari (orders) o generali (rules). 2.3 Un terzo carattere consiste
nella sua lontananza dal diritto privato. Il diritto amministrativo nasce come insieme di regole che
attribuiscono ampi poteri alle amministrazioni pubbliche (vd. esperienza francese, intendenti);
poteri esorbitanti estranei all'equilibrio sostanzialmente paritario del diritto privato. Diviene un
sistema autonomo che si basa non solo su regole speciali derogatorie rispetto al diritto privato, ma
anche su principi propri. Ne sono esempi il principio di imperatività, secondo cui tale atto incide
sugli amministrati indipendentemente dal loro consenso. Il principio di esecutorietà,
l'amministrazione pubblica ha il potere di portare ad esecuzione le proprie decisioni senza
l'intervento del giudice. E anche i principi propri del service public che assicurano continuità delle
prestazioni rivolte ai cittadini, l’eguaglianza e l’adeguamento degli interessi degli utenti. 2.4 Vi è
poi un quarto tratto caratteristico, il diritto amministrativo rimane estraneo alla regolamentazione
dei mercati. La tradizione dello Stato borghese e liberale vuole che i mercati siano lasciati il più
possibile alla spontanea autoregolazione e che, semmai, siano soggetti alle regole di diritto privato
e comune. Fanno eccezione gli Stati Uniti. Occorrerà attendere gli anni Trenta del Novecento,
perché l’administrative law assuma un ruolo centrale nella regolazione dei mercati.
2
3.Gli sviluppi del diritto amministrativo
I caratteri del diritto amministrativo subiscono nel tempo rivolgimenti radicali: si attenua il legame
con lo Stato, emergono sempre maggiori convergenze fra i diritti amministrativi nazionali, si
avvicinano diritto amministrativo e privato, il diritto amministrativo si occupa sempre di più della
regolazione dei mercati. 3.1 In primo luogo abbandona il suo nesso privilegiato con la dimensione
nazionale. Il diritto della Comunità Europea viene a condizionare ampiamente i diritti
amministrativi nazionali, specialmente a seguito del riconoscimento del primato del diritto
comunitario sui diritti interni degli Stati membri. Il potere discrezionale delle pubbliche
amministrazioni viene a subire significative limitazioni, alcuni strumenti di tutela dei cittadini nei
confronti delle amministrazioni vengono potenziati in nome del principio di effettività dei diritti,
che assume rilievo nell'ordinamento comunitario. Anche le discipline internazionali influiscono sui
diritti amministrativi nazionali, sia tramite norme cogenti, sia mediante criteri che assumono forza
di condizionamento. Ad esempio gli accordi internazionali sul commercio mondiale (OMC)
impongono diversi obblighi agli Stati membri dell'OMC che comportano possibili modifiche dei
rispettivi diritti amministrativi. Il diritto amministrativo si è progressivamente esteso non solo al di
sopra ma anche al di sotto delle dimensioni nazionali; dall'ultimo quarto del XX sec lo sviluppo
della "democrazia subnazionale" ha rafforzato i poteri normativi e amministrativi di Regioni e di
Stati membri di federazioni. 3.3 Il diritto amministrativo si avvicina al diritto privato. In Italia si era
avuta una fase storica in cui i rapporti fra amministrazioni e privati erano regolati dal codice civile.
Con l'avvento del diritto amministrativo si ha la grande pubblicizzazione di tutti i rapporti
amministrativi: il provvedimento unilaterale e autoritativo prende il posto del contratto. Subito
dopo però si riespande la contrattualità amministrativa; ad esempio le maggiori concessioni
amministrative per la gestione di servizi di pubblica utilità divengono veri e propri contratti
collegati ad un provvedimento amministrativo. Anche da un punto di vista organizzativo il diritto
amministrativo si avvicina a quello privato. Ad esempio in Francia nel XX sec, ai servizi pubblici
amministrativi posti sotto la giurisdizione amministrativa (istruzione, previdenza obbligatoria..) si
affiancano i servizi pubblici industriali e commerciali (i trasporti) caratterizzati da un ampia
applicazione del diritto civile. Amministrazioni pubbliche concedenti e imprese concessionarie si
mettono d’accordo sui prezzi, sui canoni, sugli impianti, sulle modalità di gestione, sulle clausole di
risoluzione e di responsabilità. Tutto ciò scaturì dal decollo industriale del Novecento che fece sì
che le imprese assumessero consistente potere. Le pubbliche amministrazioni non essendo in
grado di imporre unilateralmente alle imprese le condizioni per lo svolgimento delle attività,
scendono a patti con il contraente privato (espansione della contrattualità amministrativa). Ne è
testimonianza il nuovo codice dei contratti pubblici del 2006, di derivazione comunitaria. 3.4 Infine
il diritto è sempre più coinvolto nella regolazione dell'economia e dei mercati; tale nesso si fa più
forte con le norme sull'antitrust soprattutto negli anni Trenta, quando a seguito della crisi di Wall
Street viene istituita la Security and Exchange Commission per la vigilanza sulla borsa e sui mercati
finanziari. In Europa continentale è più lento l'avvicinamento del diritto amministrativo ai mercati,
solo dagli anni Settanta si assiste allo sviluppo di autorità amministrative indipendenti chiamate a
svolgere funzioni di regolazione e di garanzia in materie di rilevanza economica. La globalizzazione
economica, più in generale, ha comportato una riespansione della lex mercatoria.
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CAPITOLO II. I principi del diritto amministrativo
Oggi, più di prima, il desordre normatif provocato dal moltiplicarsi delle leggi tocca tutte le
branche del diritto, ma in particolare gli insiemi giuridici tradizionalmente non codificati come il
diritto amministrativo. In una simile situazione di disordine normativo, i principi operano come
vere e proprie norme giuridiche e sono caratterizzati da un contenuto o da un riconoscimento
generale. Essi assumono un ruolo particolarmente importante; possono ricondurre ad una
maggiore omogeneità o uniformità le normative frammentate, sia in sede di interpretazione e
applicazione di norme vigenti, sia in sede di costruzione di norme nuove.
I principi possono essere posti dalla legislazione. Può trattarsi delle Costituzioni: nel nostro paese
due principi essenziali per l'amministrare pubblico, l'imparzialità e il buon andamento sono stabiliti
dall'art.97 Cost., ancor prima il principio di eguaglianza è sancito all'art 3 Cost. Può anche trattarsi
del legislatore ordinario: la legge sul procedimento amministrativo (n.241/1990) prevede principi
di economicità ,di efficacia, di pubblicità, di trasparenza, e richiama i principi dell'ordinamento
comunitario; il codice civile stabilisce i principi di buona fede (art. 1337 e 1375) e di correttezza
(art.1175). I principi sono posti anche dalla legislazione ultranazionale. Il Trattato sul
funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) prevede il principio di libera concorrenza e di
precauzione. Le discipline internazionali dettano principi a loro volta: ad esempio, la Convezione
europea dei diritti dell'uomo (CEDU) stabilisce il principio del giusto processo (art.6). Al tempo
stesso resta fondamentale il ruolo giocato nella formazione dei principi dalla giurisprudenza. Vi
sono da un lato quelli che la dottrina francese denomina principes sans texte, principi privi di
esplicita previsione normativa e sono stabiliti dall'opera dei giudici. Vi sono d'altro lato definizioni
e precisazioni che i giudici danno delle enunciazioni di principi che si ritrovano nelle leggi.
3. Tipi di principi
-Il principio di legalità: l'attività amministrativa deve trovare una base nella legge, questa è la
definizione più ampia di tale principio. Non esiste un fondamento costituzionale espresso di
questo principio ma vi sono norme della Costituzione che si riferiscono ad esso, come l'art 23
secondo cui "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla
legge". Il legislatore ordinario ha previsto una versione delimitata del principio di legalità, là dove
ha stabilito che "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge". Il potere
amministrativo deve trovare una base esplicita nelle norme di legge. Quel che risulta chiaro è che
il principio di legalità si pone come argine a protezione del cittadino nei confronti dell’attività
4
autoritativa della PA. È un contrappeso all'autorità amministrativa. La pubblica amministrazione
deve però rispettare non solo le leggi ma anche i principi di diritto privi di espressa previsione
legislativa o integrativi dell'enunciazione legislativa (come la ragionevolezza). Per di più deve
rispettare i principi comunitari: tanto che la legge nazionale può e deve essere disapplicata se
contrasta con norme comunitarie aventi efficacia diretta nell'ordinamento statale (come le norme
self-executing).
-Il principio di imparzialità: trova il suo fondamento normativo espresso nella Costituzione: "I
pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione" (art.97 Cost.).Vi è dunque un rapporto stretto fra imparzialità e potere
discrezionale dell'amministrazione, che si concreta appunto nella ponderazione fra interessi
pubblici, privati e collettivi. La giurisprudenza ha fatto discendere dal canone dell'imparzialità
alcuni obblighi specifici delle pubbliche amministrazioni. Innanzitutto, l'obbligo di determinare
criteri e modalità prima di procedere; in secondo luogo l'obbligo di compiere un adeguata
valutazione di tutti gli interessi in gioco prima di decidere. In terzo luogo, l'obbligo di astensione
del funzionario amministrativo in caso di conflitto d'interessi. Il mancato rispetto di tali obblighi
può dar luogo a invalidità del provvedimento.
-Il principio di buon andamento: esso sta accanto all'imparzialità nell'art.97 Cost. Può, come tale,
trovare applicazione tanto all’attività pubblicistica e autoritativa della PA, quanto all’attività
consensuale o contrattuale. La giurisprudenza ha ricondotto al buon andamento l'economicità,
l'efficienza, l'efficacia, la tempestività dell'azione amministrativa. Applicazioni legislative del buon
andamento si ritrovano nel divieto di aggravare il procedimento amministrativo e nell’obbligo di
provvedere entro un termine stabilito.
-Il principio di ragionevolezza: è un principe sans texte, formato nel tempo dall’opera della
giurisprudenza. I giudici costituzionali l'hanno applicato all'attività legislativa; i giudici ordinari e
amministrativi all'attività delle pubbliche amministrazioni. Il punto di riferimento della
ragionevolezza è stato l'obbligo di motivazione dell'atto, della decisione, del provvedimento
amministrativo. Si è passati da un controllo epidermico e formale ad un controllo più incisivo e
sostanziale. Fino alla metà del XX sec. si è impiegato un concetto molto labile di ragionevolezza, la
decisione violava il principio di ragionevolezza quando veniva adottata una scelta talmente
assurda che nessuna persona ragionevole avrebbe mai pensato di adottare. Il giudice è passato
progressivamente ad un concetto ben diverso, che lo ha condotto a censurare tutti gli atti delle
pubbliche amministrazioni contraddittori, illogici, dotati di motivazioni irrazionali, incoerenti,
incongrue. Siamo, dunque, in presenza di un principio legato alle attività autoritative dei pubblici
poteri.
-Il principio di proporzionalità: Il principio ha trovato la sua formazione e i suoi sviluppi nell’opera
della giurisprudenza. Affinchè la decisione sia proporzionata devono sussistere essenzialmente tre
profili: l'adeguatezza della decisione al fine che si intende realizzare; il fatto che la misura non
ecceda quel che è necessario per raggiungere il fine e che non esitano misure meno restrittive nei
confronti degli amministrati; l'equilibrata proporzione fra le utilità pubbliche al cui perseguimento
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la decisione è finalizzata e i sacrifici imposti. In altri termini il sacrificio deve essere proporzionato
rispetto al beneficio ottenuto. E’ chiaro che la valutazione del giudice sul proporzionato e non
proporzionato equilibrio fra benefici ottenuti e sacrifici imposti può comportare un controllo
sostanzialmente di merito sull’azione amministrativa, che non è consentito al giudice se non in casi
espressamente previsti dal legislatore.
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quanto alle attività di tipo non autoritativo. Le esclusioni dal diritto di accesso sono fattispecie
tassative e espressamente previste dalla legge o con regolamento.
3.2 Vi sono poi principi generali di diritto applicabili non solo alla pubblica amministrazione ma
anche a soggetti privati.
-Il principio di buona fede: è un concetto di tradizione privatistica, "le parti nello svolgimento delle
trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede" (art 1337
c.c.).E "il contratto deve essere eseguito secondo buona fede" (art. 1375 c.c.). In diritto
amministrativo il principio di buona fede si applica tanto all'attività privatistica (esecuzione dei
contratti pubblici), quanto all'attività pubblicistica ed anche all'attività provvedimentale, che si
concreta nell'adozione di misure sanzionatorie. Esso è quindi canone generale dell'attività
amministrativa.
-Il principio di correttezza: anch'esso ha tradizione privatistica, " il debitore ed il creditore devono
comportarsi secondo le regole della correttezza" (art.1175 c.c.). La correttezza vale dunque tra le
parti di un rapporto obbligatorio (art.1173 c.c.),che può dunque derivare anche da procedimento o
provvedimento amministrativo nei quali, infatti, secondo la giurisprudenza, si viene a creare un
"contatto" tra amministrazione e privato simile ad un rapporto obbligatorio. La violazione della
correttezza può comportare una "responsabilità da contatto" della pubblica amministrazione, che
in ragione della somiglianza con il rapporto obbligatorio, comporta l’inversione dell’onere della
prova, ponendolo a carico dell’amministrazione. In definitiva, anche tale principio è divenuto
canone generale dell'attività amministrativa, tanto nelle sue manifestazioni privatistiche quanto in
quelle pubblicistiche.
-Il principio di libera concorrenza: la norma più rilevante riguardante tale principio si ritrova
nell'art. 119 TFUE che obbliga le istituzione dell'Unione Europea e gli Stati membri a conformarsi al
principio di un "economia di mercato aperto e in libera concorrenza"; in caso di mancata
conformazione possono scattare procedure comunitarie di infrazione o se vi è violazione di regole
di concorrenza immediatamente efficaci le autorità giudiziali o amministrative nazionali possono e
debbono disapplicare le misure interne contrastanti con le norme comunitarie. Nel nostro paese la
Costituzione stabilisce che i legislatori devono rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario, tra i quali il principio di concorrenza; ed attribuisce alla legislazione statale la materia
denominata "tutela della concorrenza" (art.117 c.2 Cost.). Il principio di libera concorrenza, inoltre,
vale per le amministrazioni pubbliche, anche al di fuori della loro attività imprenditoriale. Ciò vuol
dire che l’attività amministrativa tipicamente autoritativa è ormai tenuta anch’essa al rispetto del
principio di libera concorrenza.
-Il principio di trasparenza: nasce come principio di diritto commerciale e di diritto dell'economia
per compensare l'asimmetria informativa che pone risparmiatori, investitori ed assicurati in una
posizione di debolezza. Operante oggi anche per le attività delle pubbliche amministrazioni, viene
ricondotto a vicende diverse ,quali l'obbligo di motivazione, il diritto di accesso ai documenti, la
pubblicità di alcune fasi di procedure di concorso. Per la pubblica amministrazione diviene cogente
sia in relazione all’attività privatistica che a quella pubblicistica.
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4. La diversa portata dei principi in diritto amministrativo
Tre sono le funzioni principali dei principi giuridici: la funzione interpretativa delle disposizioni, la
funzione integrativa delle norme, la funzione limitativa del potere. L'interprete legge le norme alla
luce dei principi, prevale l'interpretazione delle norme che è più in armonia con i principi di diritto.
Se vi sono lacune, non colmabili tramite analogia, l'interprete e applicatore di norme fa ricorso ai
principi (vd art 12 delle preleggi). Infine tutti questi principi hanno funzione di contrappeso al
potere pubblicistico della pubblica amministrazione, limitando sempre più la discrezionalità delle
pubbliche amministrazioni. Il diritto dell'UE promuove anch'esso la connessione fra principi e
tutela dei diritti fondamentali: art.6 TUE" i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fanno parte del
diritto dell'Unione in quanto principi generali". Vi è dunque una sorta di equiparazione fra principi
generali e diritti fondamentali.
PARTE II
Pubblica amministrazione può significare tanto l'attività amministrativa, quanto l'insieme degli
apparati che la svolgono. La dottrina giuridica ha sottolineato che le pubbliche amministrazioni si
frappongono tra la collettività generale e gli organi costituzionali. In questa loro posizione
intermedia essi si distinguono sia dagli apparati del potere legislativo, sia da quelli del potere
giudiziario. Nel nostro ordinamento le pubbliche amministrazioni nascono all'interno
dell'esecutivo, per poi conoscere forme diverse di autonomizzazione da esso. Per inquadrare il
concetto di pubblica amministrazione è necessario guardare al diritto positivo, a partire dalla
Costituzione. L'art 97, con il quale inizia la sezione dedicata alla "pubblica amministrazione",
stabilisce che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge. Il medesimo articolo
procede disponendo che alle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salve le
eccezioni previste dalla legge. Assoluta centralità assume l'elenco di cui all'art.1 del d.lgs.
n.165/2001 che, ai fini dell’individuazione delle amministrazione pubbliche tenute all’applicazione
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del regime di impiego pubblico, dispone che "per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le
amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative, le aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le
Province, i Comuni, e i loro consorzi e associazioni, istituzioni universitarie, le Camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura, tutti gli enti pubblici non economici nazionali,
regionali e locali, il servizio nazionale sanitario e le Agenzie di cui al d.lgs. n300/1999". La legge
241/1990 menziona le pubbliche amministrazioni che sono tenute ad applicare i principi e le
regole procedurali da essa dettate (art.29). In particolare ,le amministrazioni statali e gli enti
pubblici nazionali sono tenuti a conformarsi a tutte le norme della legge 241, mentre le società con
totale o prevalente capitale pubblico sono tenute ad applicare la legge solo se svolgono " funzioni
amministrative". L'art 22 della legge 241 inoltre stabilisce che, in materia di diritto di accesso ai
documenti amministrativi, per "pubblica amministrazione" si intendono "tutti i soggetti di diritto
pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario". Il recente codice dei contratti pubblici (d.lgs.
163/06), nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione di contratti di
appalto, definisce come "amministrazioni aggiudicatrici" le "amministrazioni dello Stato, gli enti
pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico (cioè
qualsiasi organismo che è istituito per soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere
non industriale o commerciale; e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato,
dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia
soggetta al controllo di quest'ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di vigilanza o di
direzione sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti
pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico"), le associazioni, unioni, consorzi,
comunque costituiti da tali soggetti". A livello comunitario non sussiste una nozione condivisa di
amministrazione pubblica. Tuttavia l'attuale art.45 TFUE stabilisce una deroga alla libertà di
circolazione dei lavoratori per gli impieghi nella "pubblica amministrazione": la nozione ha qui
valenza restrittiva, in quanto ad eccezione ad un principio. Sempre in sede comunitaria, il
regolamento CE n.2223/96 ha demandato agli istituti nazionali di statistica, per l' Italia l'ISTAT, il
compito di predisporre l'elenco delle unità che fanno parte del settore "amministrazioni
pubbliche"; secondo tale regolamento le unità comprese sono: a) gli organismi pubblici che
gestiscono e finanziano un insieme di attività consistenti nel fornire alla collettività beni e servizi
non destinabili alla vendita, b) le istituzioni senza scopo di lucro finanziate in prevalenza da
amministrazioni pubbliche, c) fondi pensione. Quanto al regime del controllo e della giurisdizione
della Corte dei Conti, ad esso erano tradizionalmente sottoposti soggetti pubblici considerati
pubbliche amministrazioni o loro dipendenti. Nel tempo si è ampliato il novero dei soggetti
sottoposti al controllo e alla giurisdizione della Corte dei Conti, includendovi anche figure
soggettive di natura privata purchè siano stabilmente finanziate dallo Stato o da altri enti pubblici
anche territoriali, ovvero svolgano attività o servizi pubblici con risorse pubbliche e nell’interesse
dell’amministrazione. Il controllo sulla gestione finanziaria della Corte dei Conti (ai sensi
dell’art.100) permane fino a che la partecipazione pubblica è prevalente. E' arduo dunque
pervenire ad una definizione unitaria; alcune strutture sono soggette a tutti i regimi sopra
menzionati e sono le pubbliche amministrazioni in senso proprio (ministeri, agenzie
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amministrative, enti pubblici, autorità indipendenti); altre sono soggette solo ad alcuni dei regimi
se ricorrono talune condizioni, in questo caso tali soggetti non sono riconducibili alla nozione di
pubblica amministrazione in senso soggettivo (società in partecipazione pubblica, organismi di
diritto pubblico).
La figura organizzativa tipica è quella del ministero. Alle origini del diritto amministrativo il
ministro è capo gerarchico dell'organizzazione ministeriale, che si presenta come un disegno
piramidale. Gradualmente aumentano le funzioni svolte dalla pubblica amministrazione; governo e
ministri non riescono più a seguire tutti gli affari amministrativi, assumono quindi grande
importanza e peso decisionale le strutture amministrative dapprima sottomesse ai ministri, e con
esse acquistano ruolo rilevante i dirigenti amministrativi e i funzionari. In seguito la Costituzione ci
fornisce due immagini del rapporto tra amministrazione e politica. Da un lato l'art 95 Cost.
prevede che il Presidente del Consiglio "mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo
coordinando l'attività dei ministri". D'altro lato la Costituzione apre verso l'autonomia e la
neutralità dell'amministrazione pubblica (vd art 97 Cost). La Costituzione dispone che " i pubblici
impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione" (art.98 Cost) e non del governo.
-Gli enti pubblici: fino al Novecento gli enti pubblici erano quasi esclusivamente enti territoriali.
Dall'inizio del Novecento prendono a svilupparsi enti pubblici non territoriali ma funzionali. La
differenza è che i primi sono enti politici che perseguono tutti gli interessi pubblici del loro
territorio; mentre i secondi sono monofunzionali: curano cioè un solo interesse pubblico o un
insieme limitato di interessi. Il fascismo porta con sé una grande espansione degli enti pubblici
funzionali, si pensi all'ISTAT e all'INPS. L'art 114 Cost. stabilisce che "la Repubblica è costituita da
Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato". L'aspetto degli enti territoriali di maggior
rilievo è quello che concerne le funzioni amministrative di tali enti. La disciplina attuale attribuisce
di regola le funzioni amministrative ai Comuni, tuttavia possono essere conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza
(art.118 Cost.). Oggetto proprio del diritto amministrativo sono gli enti pubblici funzionali; essi si
distinguono in enti pubblici economici e enti pubblici non economici. I primi sono persone
giuridiche e gestiscono imprese (l'INA, l'ENEL, le Ferrovie dello Stato..); gli atti che adottano tali
enti non sono provvedimenti amministrativi, ma atti negoziali. Il rapporto di lavoro è privatistico e
le relative controversie rientrano nella competenza del giudice ordinario come giudice del lavoro.
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La figura dell'ente pubblico economico è entrata in profonda crisi a seguito della crescente
importanza acquisita dal diritto comunitario. Innanzitutto le entrate degli enti pubblici economici si
sono basate essenzialmente su finanziamenti pubblici; ciò ha posto problemi di compatibilità con
la normativa comunitaria che vieta gli aiuti dello Stato idonei ad alterare la concorrenza. Inoltre i
monopoli attribuiti a tali enti sono entrati in collisione con quello che è l'attuale art 106 TFUE, che
sottopone alle regole di concorrenza anche le imprese che gestiscono servizi d'interesse
economico generale. La crisi ha portato ad una serie di privatizzazioni; si distinguono
privatizzazioni formali e sostanziali. Con il primo termine si sta a significare la trasformazione
dell'ente pubblico economico in società per azioni, che però può rimanere in mano pubblica (es.
INA,ENI,IRI). Le privatizzazioni sostanziali invece comportano il passaggio, totale o parziale, dalla
mano pubblica a quella privata (es. ENEL S.p.A.). Gli enti pubblici non economici sono invece la
specie di enti di maggior rilievo; essi pur essendo assoggettati a discipline eterogenee presentano
alcuni tratti comuni. Sono persone giuridiche di diritto pubblico, disciplinate da norme derogatorie
rispetto alle regole civilistiche su associazioni, fondazioni e società. [La giurisprudenza ha
individuato una serie di indici di riconoscimento dell'ente pubblico: perseguimento di fini pubblici,
titolarità di poteri autoritativi, istituzione da parte dello Stato o di altro ente pubblico, percezione
di contributi pubblici, assoggettamento al controllo di pubblici poteri]. Negli enti pubblici non
economici sono usualmente previsti: un consiglio di amministrazione, talora un comitato
esecutivo, un presidente, un collegio di revisori. Quanto ai rapporti tra politica e amministrazione,
il governo ha di regola il potere di nomina dei titolari degli organi di vertice degli enti; dopo la
nomina però vale una larga autonomia funzionale dell'ente pubblico non economico, che ha un
indirizzo proprio, salvi i poteri di vigilanza della Presidenza del consiglio o dei singoli ministri. Dagli
anni 70 del XX sec. sono intervenute molte trasformazioni; si sono previste soppressioni e
ridimensionamenti di enti pubblici non economici nazionali operanti in materie trasferite alle
funzioni amministrative delle Regioni, inoltre si è stabilita la trasformazione di enti pubblici non
economici in persone giuridiche private (associazioni o fondazioni).
-Le società in partecipazione pubblica: Tale figura è divenuta prevalente a partire dagli anni Venti
del Novecento, venendo a costituire la principale manifestazione del cosiddetto "Stato
imprenditore". La figura della società in partecipazione pubblica ha avuto uno sviluppo importante
grazie alle vicende istituzionali dell'IRI (Istituto per la ricostruzione industriale). La crisi americana
del '29 si ripercosse in Europa e provocò gravi difficoltà per le banche che detenevano azioni delle
imprese in crisi; nel '33 viene istituita l'IRI come struttura pubblica transitoria, per procedere
all'acquisto delle azioni detenute dalla banche e al risanamento delle società ovvero per porre in
essere liquidazioni o fusioni. Nel 1937 l'IRI è divenuto stabile, costituendo holdings che hanno
acquisito azioni di imprese operanti in vari settori. È stato l’avvio del c.d. sistema delle
partecipazioni statali, articolato nell’IRI, nelle holdings e nelle società operative. Nel 1956 il
sistema si è consolidato con l'istituzione dell'apposito Ministero delle partecipazioni statali,
formalmente al vertice del sistema, adottava direttive rivolte all'IRI, all'ENI (adottato nel settore
degli idrocarburi) e ,a cascata, alle holdings e alle società operative. Tale sistema dimostratosi però
disfunzionale ha portato alla soppressione del ministero delle partecipazioni statali nel '93, ma ha
mantenuto la figura della società in partecipazione pubblica che si è diffusa anche a livello
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regionale e soprattutto comunale (es. l'ACEA S.p.A.). Quanto alla natura giuridica, tale società si
presenta come persona giuridica di diritto privato, regolata essenzialmente dalle norme del codice
civile, pur essendo previste (anche dallo stesso codice) diverse deroghe. Innanzitutto lo statuto
può prevedere la cosiddetta golden share, un azione che ha come titolare il ministro di
riferimento, che comporta poteri rilevanti, quali il diritto di veto del ministro su acquisizione
azionarie ritenute inopportune. La CdG ha ritenuto la golden share incompatibile con quello che è
l'attuale art.63 TFUE, che stabilisce il divieto di restrizioni ai movimenti di capitali; gli Stati hanno
reagito stabilendo limitazioni all'operatività della stessa che però non è scomparsa. Sono previsti,
inoltre, controlli ministeriali sull'attività delle società partecipate; spesso tali controlli sono
"contrattualizzati": vengono cioè stipulati contratti di programma tra impresa e ministro, che
stabiliscono l'ambito e le modalità della vigilanza governativa. Finchè però la partecipazione
pubblica è prevalente, vale il Controllo della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria, in
applicazione dell'art. 100 Cost. Esiste una giurisprudenza che ha considerato enti pubblici come
società a partecipazione pubblica integrale, ne sono derivate alcune conseguenze, in particolare
sia il controllo della Corte dei conti, sia gli orientamenti eccessivamente pubblicistici sono
suscettibili di alterare nella sostanza la natura privatistica di queste società e possono costituire
ostacoli alla loro attività. In ambito locale, la partecipazione pubblica integrale può contribuire a
giustificare deroghe alle regole di libera concorrenza. Infatti le società interamente partecipate da
enti locali, se sottoposte a un controllo “analogo” a quello esercitato sugli uffici dell’ente
medesimo, e se prive di “vocazione commerciale”, possono ricevere affidamenti di servizi pubblici
locali senza gara: è il cosiddetto affidamento in house. Ora il legislatore è intervenuto limitando la
possibilità dell’affidamento in house ai soli casi in cui il valore economico del servizio non superi
una determinata soglia di valore. In quanto al rapporto tra politica e società, esse godono di un
ampia autonomia; quando la partecipazione pubblica è totalitaria il rapporto può equipararsi a
quello dell'ente pubblico ( l'indirizzo spetta alla società, la vigilanza al ministro); quando è
maggioritaria, l'autonomia si espande.
-Le autorità indipendenti: Due sono i principali tratti caratterizzanti tale figura: l'elevata expertise
tecnica e l'estraneità rispetto all'indirizzo politico e al controllo dell'esecutivo; proprio quest'ultimo
tratto giustifica l'aggettivo "indipendenti". Queste amministrazioni pubbliche sono nate e si sono
sviluppate in modi diversi; in Inghilterra sono stati istituiti gli administrative tribunals chiamati a
decidere controversie con procedure di tipo processuali e indipendenti o semi-indipendenti dal
governo; negli USA si sono sviluppate le indipendent agencies caratterizzate da funzioni di tipo
regolatorio e amministrativo. L'Europa continentale ha conosciuto tardi tale figura; la Francia ha
sempre avuto una tradizione di forte indipendenza dell'amministrazione dal governo, tantè che
fino a vent'anni fa i giuristi francesi sostenevano che, interrogandosi sulle autorità indipendenti, se
sono amministrazioni non possono essere indipendenti e viceversa. Il diritto comunitario ha dato
un grande contributo allo sviluppo di tale figura; il TFUE a proposito del sistema europeo delle
banche centrali (SEBC), composto dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dalle banche centrali
nazionali, dispone che: "Nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei loro doveri
attribuiti dal presente trattato e dallo statuto della SEBC e della BCE, né la Banca Centrale Europea,
né una banca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi possono sollecitare o
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accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli
Stati né da qualsiasi altro organismo" (art.130 TFUE). Come si è detto non esiste un modello
generale di autorità indipendenti. Esse si sono sviluppate là dove serviva; e le loro funzioni e i loro
poteri si sono atteggiati in modo diverso, più somiglianti ai giudici gli administrative tribunals
britannici, più vicine ai poteri amministrativi e regolamentari le indipendent agencies statunitensi.
Esistono però alcuni tratti comuni, innanzitutto la ragione di fondo del ricorso ad autorità
indipendenti, e cioè la necessità di regolare territori sensibili nei quali esistono diritti
fondamentali; ma ancor più il tratto comune si può ritrovare nel loro status di indipendenza
dall'esecutivo, dal governo, dall'indirizzo politico. L’indipendenza è garantita dalle procedure di
nomina degli organi di vertice: in esse il governo non interviene, o il suo intervento è posto sotto il
controllo del parlamento o di organismi tecnici. Inoltre non sono previste direttive governative o
forme di vigilanza ministeriale che incidano sulle funzioni delle autorità indipendenti.
5. Organi e uffici
Le figure soggettive di cui si è parlato si articolano in uffici, unità strutturali elementari. Gli uffici si
distinguono in meri uffici e uffici-organi. I primi svolgono attività che hanno una rilevanza solo
interna alle figure soggettive; i secondi compiono atti idonei a manifestare verso l'esterno la
volontà delle figure soggettive. L'ufficio-organo imputa alla persona giuridica per la quale opera le
intere fattispecie giuridiche, comprensive degli atti e degli effetti. Agli uffici-organi sono preposti
titolari di diversa natura, può trattarsi di singole persone fisiche o di collegi; nel primo caso si è in
presenza di un organo monocratico , nel secondo di un organo collegiale. Il titolare professionale
presta un opera retribuita e continuativa presso la figura soggettiva di appartenenza; il titolare
onorario svolge le sue funzioni a titolo gratuito o se remunerato riceve un indennità e non una
retribuzione; il titolare dell'ufficio è legato alla figura soggettiva di appartenenza da due rapporti
giuridici: il rapporto di servizio ( rapporto di tipo patrimoniale che riguarda essenzialmente la
remunerazione per le prestazioni) e il rapporto d'ufficio (rapporto di tipo funzionale, ha a che fare
con l'esercizio delle competenze affidate all'ufficio). Gli organi collegiali seguono procedimenti
molto formalizzati per l’adozione delle loro decisioni ( convocazione e fissazione dell’ordine del
giorno, il numero legale, le maggioranze). La regola del numero legale non si applica ai c.d. collegi
perfetti, che richiedono la presenza di tutti i componenti.
Tra le figure soggettive e tra i loro uffici corrono rapporti organizzativi di diverso tipo, si possono
distinguere alcuni tipi principali: la gerarchia, la direzione, il controllo, il coordinamento. La
gerarchia è un rapporto che corre tra un ufficio sopraordinato e un ufficio sottordinato e tra i
rispettivi titolari. L'ufficio sopraordinato ha innanzitutto un potere d'ordine (vincolante) al quale
l'ufficio sottordinato deve conformarsi, a meno che ritenga palesemente illegittimo l'ordine,
facendone rimostranza allo stesso superiore; la gerarchia comporta poi il potere di annullamento
d'ufficio, il potere di decisione dei ricorsi gerarchici, il potere di controllo, il potere di sostituzione e
di avocazione: l’ufficio sopraordinato può sempre trasferire a sé le competenze dell’ufficio
sottordinato. Il rapporto di direzione è caratterizzato da una sopraordinazione più attenuata
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rispetto alla gerarchia; l'ufficio sopraordinato ha infatti non un potere d'ordine bensì di direttiva
nei confronti dell'ufficio sottordinato, il quale ,dando adeguata motivazione, può discostarsi dalla
direttiva. In alcuni casi l’ufficio sottordinato formula una proposta sui contenuti della direttiva che
è destinato a ricevere; in altri casi, la direttiva può nascere direttamente dall'ufficio sottordinato
che la invia all'ufficio sopraordinato, il quale lo recepisce, lo rielabora e lo rimanda all'ufficio
sottordinato in forma di direttiva. Nel rapporto di controllo invece controllore e controllato non
sono in un rapporto di sopraordinazione, il controllore svolge funzioni di controllo nei confronti di
un'altra struttura che svolge funzioni di amministrazioni. L'organismo di controllo può essere
esterno alla struttura o interno. Si distinguono diversi tipi di controllo: il controllo di regolarità
amministrativa e contabile ,finalizzato a garantire legittimità, regolarità e correttezza dell'azione
amministrativa; il controllo di gestione, verifica l'efficienza, l'efficacia e l'economicità dell'azione
amministrativa al fine di ottimizzare il rapporto tra costi e risultati; la valutazione della dirigenza ha
ad oggetto le valutazione del personale con qualifica dirigenziale; il controllo strategico valuta
l’adeguatezza delle scelte compiute in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi
predefiniti. Il coordinamento ,infine, consiste nel realizzare forme di collegamento e di
armonizzazione delle attività svolte da strutture diverse per il perseguimento di fini comuni. Il
coordinamento può costituire un elemento dei rapporti organizzativi di sopraordinazione, l’ufficio
sopraordinato può coordinare le attività degli uffici sottordinati. Può anche intervenire tra
strutture equiordinate; in tal caso possono aversi organi collegiali di coordinamento (comitati
interministeriali) o modelli procedimentali (conferenza di servizi).
Fino alla fine dell'800 il rapporto di lavoro degli impiegati era di natura privatistica, l'atto
costitutivo del rapporto era qualificato come contratto, gli atti successivi come promozioni,
trasferimenti, licenziamenti erano considerati atti negoziali della pubblica amministrazione datore
di lavoro. Vi erano diritti ed obblighi contrapposti. Le controversie erano decise dal giudice
ordinario. Tra la fine del secolo e l'inizio del Novecento c'è stata una progressiva
"pubblicizzazione"; gli atti più rilevanti sono stati configurati non più come atti negoziali ma come
provvedimenti amministrativi unilaterali. La competenza giurisdizionale è passata al giudice
amministrativo. Il regime pubblicistico si è cosi gradualmente rafforzato tantochè si era previsto
una carriera speciale per i dipendenti pubblici (testo unico sugli impiegati civile dello Stato del '57).
Dalla seconda metà degli anni 60 del XX sec si è avuto un ritorno alla "privatizzazione" del rapporto
d'impiego presso le pubbliche amministrazioni. Innanzitutto le organizzazioni sindacali si sono
occupate con maggiore impegno del lavoro dei pubblici dipendenti, il che ha portato allo sviluppo
della contrattazione collettiva nei settori pubblici. La "legge quadro" sul pubblico impiego (l.
n.93/1983) ha formalizzato la regolazione dei contratti collettivi, ma la vera e propria svolta si è
avuta con il d.lgs. n. 29/1993 (poi refluito nel d.lgs. n. 165/2001) con il quale la contrattazione
collettiva è divenuta la fonte principale di regolazione del rapporto di impiego presso le
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amministrazioni pubbliche; la gran parte delle controversie è passata alla competenza
giurisdizionale del giudice ordinario, come giudice del lavoro.
Gli atti principali nei quali il rapporto di impiego pubblico si articola hanno natura negoziale,
soltanto la fase preliminare all'instaurazione del rapporto d'impiego, quella del concorso pubblico,
conserva natura pubblicistica. Mantengono natura pubblicistica però alcuni rapporti d'impiego di
determinate categorie di personale quali magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, forze
militari e di polizia di Stato. La "privatizzazione" ha, come si è detto, affidato la competenza
giurisdizionale al giudice ordinario come giudice del lavoro; egli può annullare o anche modificare
gli atti dell'amministrazione datore di lavoro; adotta nei confronti delle pubbliche amministrazioni,
tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti
tutelati. Quando si tratta di provvedimenti amministrativi si limita alla disapplicazione in quanto
opera il divieto di annullamento. Il giudice ordinario cede il passo al giudice amministrativo solo in
presenza di controversie relative alle categorie speciali di personale o ai concorsi di reclutamento.
Recentemente il d.lgs. n. 150/2009 ha introdotto modifiche alla disciplina del pubblico impiego,
riducendo il ruolo della contrattazione collettiva a favore della legge. Prevede che la forza
derogatrice dei contratti collettivi rispetto alle disposizioni di legge non opera più "salvo che la
legge non disponga in senso contrario", ma è riconosciuta soltanto "qualora ciò sia previsto
espressamente dalla legge"; è dunque necessaria una previsione legislativa esplicita, volta per
volta. Alcune materie sono state esplicitamente sottratte alla contrattazione collettiva. Da ultimo il
legislatore ha previsto che “con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri… viene definito il
trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze
pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con
pubbliche amministrazioni statali… stabilendo come parametro massimo di riferimento il
trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione”.
Vi sono state tre formule che si sono succedute nella legislazione in materia di dirigenti dello Stato
e che hanno definito il rapporto tra questi ultimi e gli organi politici. La prima formula è stata
introdotta dalla legislazione cavourriana sui ministeri; tutte le funzioni decisionali erano
concentrate nel ministro. Le strutture affidate ai dirigenti erano meri uffici interni coadiutori del
ministro, privi di legittimazione ad adottare atti rilevanti verso l'esterno. Questa formula è durata
fino agli anni 70 del Novecento. Con l'amministrazione Crispi le pubbliche amministrazioni hanno
cominciato ad emergere e si sono specializzate le loro funzioni. Con Giolitti accanto al ministero si
sono sviluppate nuove figure soggettive (amministrazioni autonome, enti pubblici); i dirigenti
assumono ruoli decisionali, non essendo i ministri più in grado di seguire tutte le pratiche. Negli
anni 30 i direttori generali dei ministeri hanno acquisito forti poteri decisionali e con l’espansione
degli enti pubblici è diminuita l’influenza politica sull’amministrazione. La seconda formula è
intervenuta con la riforma della dirigenza degli anni 70 del XX sec. Alcune competenze sono state
affidate per legge ai dirigenti; si tratta di competenze funzionali previste per legge ed indipendenti
16
da atti di delega del ministro. In tale quadro, il ministro, in genere, non ha più poteri d'ordine, ma
di direttiva; conserva però la facoltà di avocare a sé le competenze (gerarchia attenuata). Gli uffici
dirigenziali divengono, limitatamente alle competenze loro attribuite, organi aventi rilevanza
esterna. Emergono tre qualifiche dirigenziali: dirigente, dirigente superiore, dirigente generale. Si
può essere dirigenti di ruolo, di carriera o dirigenti per incarico: sono previsti incarichi biennali a
soggetti esterni all’amministrazione. Gli enti pubblici si sono dati regole diverse sui dirigenti,
attribuendogli spazi decisionali ancora maggiori, anticipando così la terza formula.
La terza formula è stata introdotta dal d.lgs. 29/1993 poi refluito nel d.lgs. n. 165/2001. Tale
formula si basa sulla distinzione fra indirizzo politico e controllo sulla sua attuazione, da un lato, e
gestione amministrativa dall'altro. L'indirizzo politico e la verifica della sua attuazione sono affidati
al ministro, la gestione amministrativa al dirigente." Gli organi di governo esercitano le funzioni di
indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la
rispondenza dei risultati agli indirizzi impartiti". Si è giunti col tempo ad un'elencazione puntuale
degli atti di competenza degli organi di governo. Per i dirigenti vale invece una competenza
definita dalla legge in via generale; ad essi "spetta l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la
gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri. Essi sono responsabili dei
relativi risultati". A tutela delle attribuzioni dei dirigenti il decreto stabilisce che esse possono
essere derogate soltanto ad opera di specifiche disposizioni legislative. Gli uffici dirigenziali
divengono organi a legittimazione generale, poiché adottano tutti i provvedimenti rilevanti
all’esterno. Le qualifiche dirigenziali da tre diventano due: la qualifica iniziale è quella di dirigente,
la qualifica superiore è quella di dirigente generale. L'accesso alla qualifica iniziale avviene per
concorso. Si distinguono tre tipologie di funzioni dirigenziali, a seconda dell'importanza degli uffici
cui gli incaricati vengono preposti. In primo luogo, troviamo gli incarichi di segretario generale e di
direzione di strutture articolate in più uffici dirigenziali generali; sono i cosiddetti incarichi apicali,
conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri su deliberazione del Ministro competente. In secondo luogo si hanno gli incarichi di
direzione di uffici di livello dirigenziale generale; sono conferiti con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro competente. Infine, gli incarichi di direzione di altri
uffici dirigenziali, conferiti dal dirigente dell'ufficio di livello dirigenziale generale a funzionari con
la qualifica di dirigenti assegnati al suo ufficio o ad esterni. Tutti gli incarichi sono a tempo
determinato, era prevista una durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni poi
modificata dalla legge n.145/2002 che ora prevede una durata massima di tre anni per gli incarichi
apicali e per gli incarichi di direzione di uffici dirigenziali di livello generale e una durata massima di
5 anni per gli altri. Tale legge ha inoltre introdotto meccanismi di spoils system (sistema delle
spoglie) in base ai quali alcuni incarichi dirigenziali terminano al mutare dei governi; ha disposto
per gli incarichi apicali e per gli incarichi ad esterni, la cessazione decorsi 90 giorni dal voto sulla
fiducia al governo; e per gli incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali allora in essere, la
cessazione al sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della stessa legge. La Corte ha
ritenuto che tale meccanismo viola il principio di continuità e buon andamento dell'azione
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amministrativa; ha precisato che il meccanismo è legittimo solo per i dirigenti che siano stati
nominati intuitu personae dall'organo politico, in virtù di un rapporto di stretta fiduciarietà. Di
recente il legislatore è nuovamente intervenuto prevedendo che, con decisione largamente
discrezionale legata a “motivate esigenze organizzative”, si possa disporre il passaggio dei dirigenti
ad altro incarico prima della scadenza dell’incarico in corso. Sembra trattarsi di uno spoils system
generalizzato, che non è più l’eccezione ma diviene regola per tutti i tipi di dirigenti pubblici.
PARTE III
Due sono i tipi principali di attività amministrativa: l'attività pubblicistica e autoritativa (puissance
publique) e l'attività privatistica e consensuale. Questa distinzione si basa essenzialmente sugli
strumenti utilizzati dalle pubbliche amministrazioni. L'attività pubblicistica e autoritativa è quella
tradizionalmente tipica delle pubbliche amministrazioni; si esprime attraverso l'adozione di
particolari strumenti: i provvedimenti amministrativi. Gli effetti giuridici di questi provvedimenti si
producono indipendentemente dal consenso degli amministrati; si tratta di atti unilaterali della
pubblica amministrazione conclusivi di procedimenti e costitutivi di situazioni giuridiche di diritto
soggettivo o di interesse legittimo. L'attività pubblicistica e autoritativa è retta ampiamente dal
diritto amministrativo, ma è anche soggetta a principi giuridici generali che trovano le loro radici
nel diritto privato e comune (la buona fede, la correttezza, la libera concorrenza, la trasparenza).
L'attività privatistica si pone in essere tramite l'adozione di strumenti pattizi attraverso la
stipulazione di contratti, convenzioni, accordi e altri moduli consensuali.
Il concetto di "funzione" può avere significati differenti. Funzione sta ad indicare un attività che è
giuridicamente rilevante nel suo complesso, hanno rilevanza non soltanto gli atti che compongono
l'attività, ma quest'ultima nel suo insieme, ivi compresi i non-atti. E' quel che si verifica quando una
determinata attività viene "procedimentalizzata". "Procedimentalizzare" o "funzionalizzare" un
attività comporta la sottoposizione di tutti i suoi elementi a controllo. "Funzione amministrativa"
può indicare l'insieme delle attività svolte dalle pubbliche amministrazioni, ricomprendendo sia le
attività pubblicistiche che quelle privatistiche. Vi è tuttavia una nozione più ristretta di funzione
che si ha quando si parla di "funzione pubblica". Tale nozione si è consolidata quando è sorta la
distinzione fra "pubbliche funzioni" e "servizi pubblici" (fine '800 inizi '900). In tale contesto
funzione pubblica ha preso ad indicare le attività della pubblica amministrazione finalizzate a
dettare prescrizioni, mentre il concetto di servizio pubblico ha individuato quelle attività finalizzate
a fornire prestazioni ai cittadini. Il concetto di service public si affermò agli esordi del XX sec., le
pubbliche amministrazioni svilupparono accanto alle attività imperative, forme di azione
consistenti nel rendere servizi ai cittadini. Fu una delle principali caratteristiche dello Stato
pluriclasse, non più espressione della sola borghesia ma anche dei ceti emergenti. La dottrina
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francese introdusse dopo alcuni anni una distinzione; il servizio pubblico può essere di tipo
amministrativo e allora è erogato usualmente da una pubblica amministrazione, oppure può
essere di tipo economico, in tale circostanza è gestita da un impresa privata o pubblica in
partecipazione totale o parziale dello Stato. Il servizio pubblico amministrativo è largamente
soggetto a norme pubblicistiche; il servizio pubblico economico a norme privatistiche. La
definizione giuridica di servizio pubblico ha dato luogo a molti dibattiti; si sono affiancate una
nozione soggettiva ed una oggettiva. In base alla prima, diviene servizio pubblico un'attività di
prestazione nel momento in cui essa è assunta in mano pubblica. In base alla nozione oggettiva è
servizio pubblico un'attività di prestazione che presenta determinate caratteristiche oggettive a
prescindere dalla titolarità soggettiva (può essere gestita da soggetti privati o pubblici) purchè
sottoposta ad una regolazione pubblica. La concezione oggettiva ha trovato alimento in Italia sulla
base dell'art.43 Cost. secondo cui possono essere presi in mano pubblica attività che si riferiscano
a servizi pubblici essenziali, prevedendo quindi anche l'assunzione in mano pubblica di servizi
prima gestiti da privati, aventi rilevanza pubblica. Talune prestazioni, anche se erogate da imprese
private, possono essere considerate come servizi pubblici; quel che caratterizza la regolazione dei
servizi pubblici è che essa condiziona le scelte dell'imprenditore, venendo ad imporgli obblighi che
mai questi assumerebbe ove considerasse il proprio interesse commerciale.
Le pubbliche amministrazioni possono svolgere direttamente attività di impresa, si parla in tali casi
di imprese pubbliche. Diversi sono gli strumenti organizzativi utilizzati dalle amministrazioni per
gestire imprese. Uno dei primi strumenti è stato quello dell'amministrazione autonoma posta alle
dipendenze di un ministro, ma dotata di ampi poteri decisionali. Successivamente le
amministrazioni hanno utilizzato lo strumento dell'ente pubblico economico. Oggi lo strumento
più in uso è quello della società in partecipazione pubblica, totale o parziale. Può trattarsi di
attività di mera impresa oppure di attività imprenditoriale che da luogo ad un servizio pubblico di
tipo economico. Si ha attività di mera impresa quando prevale l'aspetto della produzione e della
vendita. Si ha servizio pubblico di tipo economico quando prevale l'aspetto delle prestazioni rese
agli utenti. Il diritto privato domina il regime dell'impresa pubblica, in particolare l'impresa
pubblica è sottoposta alle regole di concorrenza. Se l'impresa pubblica da luogo a servizio pubblico
economico, le regole di concorrenza incontrano un limite: non trovano applicazione per tutto ciò
che è connesso all'adempimento della "specifica missione" loro affidata, cioè dei peculiari compiti
di servizio pubblico loro attribuiti (servizio universale es. Poste italiane servizio postale ordinario); i
servizi a valore aggiunto sono invece pienamente sottoposti alla disciplina della concorrenza (es.
posta celere). Si è al di fuori della logica e delle regole del mercato e della concorrenza quando il
servizio svolto dall'amministrazione pubblica esce dai confini dell'impresa: è il caso delle
prestazioni rese in nome del principio solidaristico. A partire dagli anni 80 del Novecento si è avuta
una forte tendenza alla privatizzazione delle imprese pubbliche. Si distinguono una privatizzazione
formale e una privatizzazione sostanziale. La prima sta ad indicare la trasformazione della forma
organizzativa, in particolare la trasformazione da ente pubblico economico a società a
partecipazione pubblica; il capitale resta integralmente in mano pubblica. La privatizzazione
sostanziale invece, sta ad indicare il passaggio del capitale da mani pubbliche a mani private.
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4. Regolazione pubblica dei mercati
L'attività di regolazione dei mercati rappresenta la forma di più intensa ingerenza dei pubblici
poteri nell'economia. Recentemente però la tendenza è stata quella di distinguere tra gestione di
imprese pubbliche e regolazione pubblica di mercati; sottolineando come si stesse passando dallo
"Stato imprenditore"(= gestore diretto di attività produttive) allo "Stato regolatore"(= che evita di
ingerirsi nella gestione diretta preferendo regolare le imprese affidate all'iniziativa privata). L’OCSE
nei suoi rapporti definisce la regolazione come l’insieme degli strumenti con i quali i pubblici poteri
disciplinano imprese e soggetti privati. Nell'ambito della regolazione dei mercati si possono
distinguere interventi e misure che hanno caratteristiche giuridicamente diverse. Da un lato, si
hanno misure ed interventi diretti a disciplinare in modi differenti i diversi settori economici; si
parla in questo caso di regolazione settoriale. D'altro lato, si hanno misure ed interventi antitrust,
che applicano a tutti i settori economici la medesima disciplina comune a tutela della concorrenza,
che vieta le intese restrittive, gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni che limitano il
gioco concorrenziale. Numerosissimi sono i soggetti pubblici che adottano e applicano misure di
regolazione pubblica dei mercati. Fra gli organismi internazionali troviamo: il Fondo monetario
internazionale, l'OMC, la Banca mondiale. Vi sono poi entità che costituiscono insiemi regionali di
Stati, come l'Unione Europea. Fra i soggetti pubblici nazionali si possono annoverare organi sia
politici, sia giurisdizionali, sia amministrativi. Quando l'attività di regolazione dei mercati si esprime
con misure autoritative, vi sono alcune differenze con l'usuale attività pubblicistica delle
amministrazioni pubbliche: l'adozione di misure regolamentari o di provvedimenti amministrativi
generali va giustificata preventivamente; la discrezionalità amministrativa è attenuata; vi è un
forte impatto del principio e delle regole di libera concorrenza.
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CAPITOLO VI. Il procedimento amministrativo
1. Introduzione
La tradizione del procedimento amministrativo, di una procedura che preceda l'adozione della
misura, affonda le sue radice nel common law. La giurisprudenza dei giudici inglesi stabilisce la
regola secondo cui le amministrazioni pubbliche, prima di decidere, devono seguire una procedura
che consenta agli amministrati di far sentire la loro "voce" (il "right to be heard"). Il diritto
amministrativo francese era, invece, partito dalla sponda opposta: l'amministrazione adotta la sua
decisione senza necessità di sentire preventivamente gli amministrati; il privato può reagire
successivamente, in particolare con il ricorso giudiziale. L'impostazione francese trovò largo
consenso nella maggior parte dei paesi dell'Europa continentale fino a fine Ottocento. Con il
secondo Novecento si conosce una larga diffusione del procedimento amministrativo, in
particolare assume rilievo la legge statunitense del 1946 “Administrative Procedure Act” (APA),
voluta specialmente da amministrati altolocati che lamentavano l'eccessivo potere discrezionale
lasciato nelle mani delle agenzie amministrative. La legge conferì la possibilità di formulare proprie
osservazioni prima che la decisione amministrativa fosse adottata; gli amministrati possono ora
esprimere la loro "voce" sia in procedimenti amministrativi particolari, rivolti a destinatari
determinati, sia in procedimenti amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati.
Mancava ancora, però, la possibilità di vedere i documenti amministrativi; l'amministrato può far
valere meglio le proprie ragioni se conosce , e quindi ha potuto vedere, il fascicolo del
procedimento. Tuttavia, storicamente, la garanzia della "visione" è venuta dopo; essa è stata
assicurata negli anni Sessanta e Settanta del Novecento con il Freedom of Information Act (1966) e
il Government in the Sunshine Act (1976). L'Italia ha conosciuto la legge sul procedimento
amministrativo e sul provvedimento , solo nel 1990 con la legge n.241.
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principi quali la proporzionalità, il legittimo affidamento, la concorrenza. Trovano applicazione
all’attività amministrativa anche i principi elaborati grazie all’opera della giurisprudenza, dalla
ragionevolezza alla buona fede, alla correttezza. Tra i principi generali dell'attività amministrativa è
annoverato anche quello secondo cui "la pubblica amministrazione non può aggravare il
procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento
dell'istruttoria". Al rispetto di questi principi sono tenuti anche i soggetti privati preposti
all'esercizio di attività amministrative.
Ai principi generali, la legge n.241 aggiunge altre norme che riguardano, anzitutto, il termine di
conclusione del procedimento (art.2 e 2-bis). Le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di
adottare un provvedimento espresso a conclusione del procedimento, se "quest'ultimo consegua
obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio". Dunque nei casi in cui
l'avvio del procedimento è obbligatorio, sussiste un obbligo di concluderlo con provvedimento
espresso. Per quel che concerne l'obbligo di avvio, il mancato adempimento può dar luogo a
responsabilità civile e penale del funzionario. Per la responsabilità civile trova applicazione l'art.25
del testo unico sugli impieghi civili dello Stato; per la responsabilità penale valgono le norme
concernenti il rifiuto e l'omissione di atti d'ufficio, contenute nell'art.328 cod. pen. Per quel che
riguarda l'obbligo di concludere il provvedimento, si prevedono diversi meccanismi di fissazione
del termine. Il termine decorre dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal ricevimento dell'istanza
di parte. I termini sono fissati, per le amministrazioni statali, con decreti di natura regolamentare
del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dei ministri competenti e di concerto con i
ministri per la pubblica amministrazione e per la semplificazione normativa; gli enti pubblici
nazionali procedono "secondo i propri ordinamenti". In ogni caso il termine non può essere
superiore a novanta giorni (art.2 c.3). Termini che vanno al di là dei novanta giorni ma che non
possono essere superiori a centottanta giorni, possono essere stabiliti solo in presenza di
determinati presupposti e con procedura rafforzata. Quanto ai presupposti, la legge prevede che i
termini superiori ai novanta giorni possono essere previsti solo se "indispensabili", tenuto conto
"della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli
interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento". Quanto alla
procedura, i decreti del Presidente del Consiglio richiedono anche la proposta dei ministri per la
pubblica amministrazione e per la semplificazione normativa e la previa deliberazione del consiglio
dei ministri. In assenza di fissazione del termine, vale un termine residuale di trenta giorni. I
termini possono essere sospesi per una sola volta, e per non più di trenta giorni, per l'acquisizione
di informazioni o certificazioni relative a vicende non attestate in documenti già in possesso della
pubblica amministrazione e non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.
Le autorità indipendenti di vigilanza e sicurezza (come la Banca d'Italia, la CONSOB..) sono sottratte
alle regole sui termini dettate dalla legge n.241: questa prevede che tali autorità disciplinino i
termini "in conformità ai propri ordinamenti". Se il procedimento è iniziato d'ufficio e deve
concludersi con un provvedimento restrittivo della sfera giuridica del privato, la legge stabilisce
che, nell'ipotesi di mancato adempimento dei termini di conclusione del procedimento,
l'amministrazione non possa provvedere e debba riattivare la procedura. Se invece il
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procedimento è a istanza di parte ed è finalizzato all'adozione di un provvedimento favorevole al
privato vi sono diverse ipotesi. In alcuni casi vale il cosiddetto "silenzio assenso": l'inerzia
dell'amministrazione che perdura dopo la scadenza del termine di conclusione del procedimento
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda. Il silenzio assenso riposa su di una
previsione normativa che riguarda i "procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi": per tali tipi di provvedimenti il silenzio assenso costituisce
strumento di carattere generale, tuttavia la norma prevede eccezioni. Un'eccezione si ha se la
legge qualifica espressamente l'inerzia della pubblica amministrazione come rigetto dell'istanza
(es. quello concernente la richiesta di accesso ai documenti). Al di fuori del silenzio assenso, se
l'amministrazione non provvede nel termine si ha il cosiddetto “silenzio inadempimento”.
L'amministrazione è inadempiente perchè non ha concluso il procedimento. Negli altri due casi il
procedimento si conclude: con l'accoglimento tacito dell'istanza (silenzio assenso); o con il
provvedimento negativo tacito (silenzio rigetto). Per i casi di silenzio inadempimento è previsto il
ricorso al giudice amministrativo; il ricorrente chiede l'accertamento dell'obbligo
dell'amministrazione di provvedere, il giudice può ordinare che l'amministrazione rimasta inerte
provveda entro un termine o ove non siano necessari adempimenti istruttori della stessa
amministrazione, può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio: se la ritiene
fondata, può ordinare l'adozione di un determinato provvedimento, ad esempio una certa
autorizzazione. Al rimedio giurisdizionale si aggiunge ora la facoltà del privato di chiedere, allo
scadere del termine, l'intervento di un altro funzionario, designato dall'amministrazione, al fine di
concludere il procedimento; la conclusione deve avvenire entro un termine pari alla metà di quello
originariamente previsto. E' prevista inoltre un'azione di risarcimento per il danno ingiusto, nei
casi di inosservanza dolosa o colposa del termine. La competenza è del giudice amministrativo in
giurisdizione esclusiva, poiché l’inosservanza del termine comporta lesione di un interesse
legittimo. La pubblica amministrazione, per evitare il risarcimento, deve fornire la prova
dell'esistenza di errori scusabili o di fatti ad essa non imputabili.
Anche l'obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo rientra fra i "principi" del
procedimento. La legge generale prevede alcuni limiti all'obbligo di motivazione: questa non è
richiesta "per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale". Dunque atti come quelli di
necessità e d'urgenza non vanno motivati. Tuttavia alcune norme speciali richiedono la
motivazione anche per provvedimenti di natura regolamentare o a contenuto ad effetti generali: è
il caso di provvedimenti adottati da amministrazioni indipendenti con compiti di vigilanza su
banche, assicurazioni e strumenti finanziari. E' ammessa la cosiddetta motivazione per relationem,
cioè quella risultante da altro atto dell'amministrazione richiamato dal provvedimento, purchè
l'atto a cui si fa rinvio sia indicato e reso disponibile.
Introdotta dalla legge n.241/1990, la figura del responsabile del procedimento consente agli
amministrati di avere un interlocutore certo, individuato per nome e cognome. Innanzitutto, le
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pubbliche amministrazioni "sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento l'unità
organizzativa responsabile dell'istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché
dell'adozione del provvedimento finale". Il primo passo consiste, dunque, nell'individuazione di
una struttura preposta all'istruttoria e agli adempimenti procedimentali; di qui si giunge
all'identificazione del funzionario responsabile tramite un atto del dirigente dell'unità organizzativa
responsabile. Finché non vi sia l'identificazione del funzionario responsabile, la responsabilità è in
capo al preposto all'unità organizzativa. Il responsabile "adotta ogni misura per l'adeguato e
sollecito svolgimento dell'istruttoria"; valuta i prerequisiti per l'emanazione del provvedimento
(condizioni di ammissibilità, requisiti di legittimazione del privato, i presupposti); accerta fatti, può
esperire ispezioni e ordinare esibizioni documentali; cura il regolare andamento della
partecipazione e del contraddittorio procedimentale. In particolare, l'accertamento dei fatti può
essere semplice o complesso. Può riguardare semplicemente dati quali l'età o il luogo di nascita
del privato; o vi può essere la necessità di accertamenti tecnici complessi, se si richiedono
competenze specialistiche, il responsabile può far ricorso a soggetti qualificati quali, Università o
enti di ricerca. Particolarmente delicate le ispezioni per le quali è richiesto un fondamento
normativo espresso, che preveda e giustifichi l'ispezione. Vi sono ispezioni regolate nei dettagli
(come quelle tributarie) e ispezioni disciplinate da poche norme (come quelle condotte da autorità
indipendenti). L'ispezione di regola non si conclude con un provvedimento amministrativo, ma con
un rapporto o un verbale ispettivo. Non si è quindi davanti ad un apposito procedimento bensì una
serie di atti reali nell'ambito della fase dell'istruttoria. In taluni casi il responsabile può essere
competente all'adozione del provvedimento finale; egli usualmente trasmette gli atti istruttori
all'organo competente ad adottare la decisione, quest'ultimo “non può discostarsi dalle risultanze
dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel
provvedimento finale”.
La garanzia della "voce" prende corpo nell'ambito del procedimento: a seguito dell'istanza privata
o dell'iniziativa d'ufficio, interviene la "comunicazione di avvio del procedimento" ove ciò non sia
impedito da "particolari esigenze di celerità". La comunicazione di avvio è rivolta ai diretti
destinatari del provvedimento e ai soggetti che per legge debbono intervenirvi ed anche ai soggetti
individuati o individuabili ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento finale. La
comunicazione di avvio è la premessa per poter esercitare le garanzie di partecipazione; essa deve
essere personale, qualora ciò non sia possibile si può ricorrere a forme di pubblicità idonee di volta
in volta stabilite dall'amministrazione. Ancor prima della comunicazione resta salvo il potere
dell'amministrazione di adottare provvedimenti cautelari. La legge precisa gli elementi che, in ogni
caso, devono essere contenuti nella comunicazione: l'oggetto del procedimento, l'ufficio e la
persona responsabile del medesimo, il termine di conclusione, l'ufficio presso il quale si può
prendere visione dei documenti. Le norme estendono la facoltà di intervenire nel procedimento
anche al di là dei destinatari della comunicazione di avvio: tutti i soggetti portatori di interessi
pubblici, privati, collettivi o diffusi cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento possono
intervenirvi. 7.2 I destinatari possono prendere visione dei documenti e far valere le proprie
ragioni presentando "memorie scritte e documenti" (l'amministrazione può anche indire audizioni
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orali, ma la regola generale è quella del contraddittorio scritto); l'amministrazione ha "l'obbligo di
valutarle ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento" (obbligo di "adeguata
considerazione"). La mancata osservanza può rendere il provvedimento finale viziato da eccesso di
potere per incompleta istruttoria. Se l'amministrazione accoglie le osservazioni scritte presentate,
può concludere accordi integrativi o anche sostitutivi del provvedimento finale. Se manca la
comunicazione di avvio, all'interessato può essere preclusa la partecipazione, a meno che non ne
venga a conoscenza in altri modi; suscita perplessità la norma che prevede la non annullabilità del
provvedimento per mancata comunicazione di avvio, purchè l'amministrazione dimostri che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato. Una sorta di
integrazione delle garanzie di partecipazione si ha nel caso di comunicazione anticipata dei motivi
del diniego nei procedimenti a istanza di parte (es. procedimenti autorizzatori): "l'autorità
competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica i motivi che
ostano all'accoglimento della domanda". Entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione, gli
istanti possono presentare osservazioni. I termini di conclusione del procedimento s'interrompono
fino alla presentazione delle osservazioni o alla scadenza dei dieci giorni. Se l'amministrazione non
accoglie le osservazioni, deve darne adeguata motivazione nel provvedimento finale. 7.3 La
portata delle essenziali garanzie di partecipazione viene a subire una forte limitazione da una
disposizione della legge n. 241/1990 a proposito dell'ambito di applicazione delle medesime
garanzie. Quest'ultime "non si applicano nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione
diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione"
(es. ordinanze di necessità e d'urgenza, di piani urbanistici, in materia di sanità o di trasporti..).
-pareri: sono atti strumentali del procedimento che intervengono nella fase istruttoria. Sono
dichiarazioni di giudizio o di opinione delle quali l'amministrazione che adotta il provvedimento
finale si avvale per raggiungere una decisione che tenga in considerazione gli interessi o gli
elementi tecnico-conoscitivi che rientrano nella competenza dell'organo che formula il parere. Il
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parere può essere obbligatorio o facoltativo, quanto alla richiesta: nel primo caso è la legge che
prevede l'obbligo di richiedere il parere; nel secondo caso è l'autorità competente ad adottare il
provvedimento finale che può chiedere il parere. Quanto agli effetti il parere non vincola l'autorità
decidente, ha valore consultivo, poichè questa deve motivare nel caso in cui la misura che adotta
si discosti dal parere ricevuto. Vi sono alcuni limitati casi di pareri vincolanti, che la normativa
definisce pareri conformi. Quando è cosi il parere acquisisce il valore di provvedimento
preliminare, cui si deve conformare la decisione finale. Per quel che riguarda la semplificazione, il
nostro legislatore ha introdotto forme di accelerazione dell'attività consultiva. I pareri obbligatori
devono essere resi entro venti giorni dal ricevimento della richiesta. Se facoltativo, l'organo
consultivo deve immediatamente comunicare il termine entro il quale il parere sarà reso, termine
che non può andare oltre i venti giorni. Se il parere non è reso nei termini previsti l'autorità
richiedente procede indipendentemente dal parere. L'organo consultivo può chiedere precisazioni
o informazioni ulteriori, in tal caso i termini menzionati possono essere interrotti per una sola
volta e il parere deve essere reso definitivamente entro 15 giorni. Tali forme di semplificazione
non si applicano alle amministrazioni pubbliche preposte alla "tutela paesaggistica, ambientale,
territoriale e della salute dei cittadini".
-valutazioni tecniche: sono anch'essi atti strumentali del procedimento che intervengono nella
fase istruttoria; anch'esse sono dichiarazioni di giudizio. Esse si concretano in accertamenti tecnici
complessi di fatti o situazioni materiali svolti da organismi dotati di elevata competenza
specialistica. Le valutazioni tecniche sono di regola effettuate da organi o enti appositi, diversi
dall'amministrazione decidente. Per tali casi il legislatore italiano ha introdotto forme di
semplificazione procedimentale. Le disposizioni legislative o regolamentari che prevedono la
valutazione tecnica possono stabilire un termine entro il quale l'accertamento deve essere
effettuato, in mancanza vale il termine di 90 giorni dal ricevimento della richiesta di valutazione
tecnica. Se l'organismo apposito non provvede entro il termine, il responsabile del procedimento
"deve chiedere le suddette valutazioni ad altri organi dell'amministrazione pubblica o ad enti
pubblici equipollenti"; ad esse non si può rinunciare come invece accade per i pareri. I termini per
produrre la valutazione possono essere interrotti una sola volta e la valutazione deve essere
effettuata entro 15 giorni dal ricevimento degli elementi istruttori. Per le amministrazioni, che
essendo dotate di particolare expertise tecnica, effettuano valutazioni tecniche sulla propria
attività, non trova applicazione la norma sulla semplificazione procedimentale. La stessa norma
non si applica se la valutazione debba essere effettuata da organismi preposti alla "tutela
dell'ambiente, del paesaggio e della salute dei cittadini".
-autocertificazioni: sono atti amministrativi dichiarativi tramite i quali un pubblico ufficio attesta
un determinato fatto, un atto, uno stato, una qualità personale, attribuendo ad essi certezza. Il
certificato è il documento che contiene la certificazione e ha funzione di "ricognizione,
riproduzione o partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi,
registri o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche". Esso ha, di regola,
l'efficacia dell'atto pubblico: fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato. La legge n.241/1990 consente all'interessato
di poter provare atti, fatti, stati e qualità personali senza esibire i relativi certificati; in particolare
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prevedendo forme di autocertificazione. Sono previste forme di semplificazione che si concretano
in dichiarazioni sostitutive; vi sono due tipi di dichiarazioni sostitutive: la dichiarazione sostitutiva
di certificazione e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. La prima è un atto privato
sottoscritto dall'interessato, prodotto in sostituzione del certificato come definito dalla legge. Le
norme elencano gli stati, le qualità personali e i fatti che possono essere comprovati con
dichiarazioni sostitutive di certificazioni. La seconda è un documento sottoscritto dall'interessato
concernente stati, qualità personali e fatti che siano di sua diretta conoscenza, non compresi in
pubblici registri e dunque non suscettibili di essere comprovati con dichiarazioni sostitutive di
certificazioni. Le dichiarazioni sostitutive non hanno piena funzione certificatoria, ma attenuano
l’onere di documentazione del privato consentendogli di produrre affermazioni circa fatti o stati di
cui è richiesta dimostrazione. Ne segue che esse non costituiscono certezze pubbliche: restano
esposte alla prova contraria e l'amministrazione può sempre verificarne la veridicità. Il
procedimento amministrativo per il quale gli atti certificativi sono richiesti deve avere comunque
corso, una volta acquisita la dichiarazione dell’interessato. Resta ferma la facoltà di verificare la
veridicità e l’autenticità delle attestazioni prodotte. Un ulteriore semplificazione è prevista dalla
legge 241; i documenti necessari per l'istruttoria del procedimento sono acquisiti d'ufficio quando
sono in possesso dell'amministrazione procedente o di altre amministrazioni pubbliche.
-la conferenza di servizi: consente un "esame contestuale" di vari interessi pubblici, garantendo
un coordinamento tra diverse amministrazioni che intervengono nel medesimo procedimento o in
procedimenti connessi. La conferenza di servizi può intervenire nella fase istruttoria o nella fase
decisoria del procedimento. La conferenza in fase istruttoria non è obbligatoria. E' invece
obbligatoria nella fase decisoria quando "l'amministrazione procedente deve acquisire intese,
concerti, nulla osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro 30 giorni
dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta". E' invece
facoltativa se nello stesso termine sia intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni
interpellate. Norme specifiche sono dettate sulla cosiddetta "conferenza di servizi preliminare";
essa può essere convocata per "progetti di particolare complessità e di insediamenti produttivi di
beni e servizi, su motivata richiesta dell'interessato", documentata da un progetto preliminare o
da uno studio di fattibilità: la finalità è quella di verificare quali siano le condizioni per ottenere gli
atti di consenso sul progetto definitivo. Disciplinato è lo svolgimento della conferenza di servizi: la
prima riunione deve essere convocata entro 15 giorni dall'indizione, ovvero entro 30 giorni nei casi
di particolare complessità dell'istruttoria; nella prima riunione viene fissato il termine per
l'adozione della decisione conclusiva, non si possono superare di regola i 90 giorni. Sono tempi che
si aggiungono ai termini del procedimento. Quanto alle modalità di partecipazione delle
amministrazioni convocate, ciascuna prende parte alla conferenza tramite un unico
rappresentante. Ultimati i lavori della conferenza o decorsi i 90 giorni, l'amministrazione
procedente adotta "la determinazione motivata di conclusione del procedimento" tenendo conto
delle posizioni prevalenti espresse in quella sede. Il criterio delle "posizioni prevalenti" non
equivale più a quello della maggioranza, è piuttosto un criterio qualitativo. Gli eventuali dissensi
delle amministrazioni che hanno partecipato alla conferenza possono essere superati
dall’amministrazione procedente se non sono prevalenti, vanno comunque motivati e devono
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essere pertinenti all’oggetto della conferenza. Si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà
dell’amministrazione rappresentata, come anche l’assenso dell’amministrazione invitata ma
assente. La conferenza di servizi non da luogo ad un organo collegiale, si è piuttosto in presenza di
un "luogo per l'acquisizione di modalità di semplificazione dell'azione amministrativa". Ne deriva
che non si applicano ad essa le regole in materia di organi collegiali. La giurisprudenza ha precisato
che il consenso, oltre che in forma tacita, puo’ intervenire anche in modo non contestuale al di
fuori dell’ambito della conferenza. La determinazione conclusiva del procedimento sostituisce ogni
altro assenso, comunque denominato, di competenza delle amministrazioni partecipanti. Esistono
tuttavia alcuni dissensi qualificati (quelli espressi da un amministrazione preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità) che non possono essere superati e producono l'effetto di rimettere la
decisione al Consiglio dei ministri che si pronuncia entro 60 giorni. Occorre la previa intesa con la
Regione o le Regioni e le Provincie autonome interessate, qualora il dissenso sia tra un
amministrazione statale e una regionale o più amministrazioni regionali; ovvero è necessaria la
previa intesa con la Regione e gli enti locali se il dissenso intercorre tra un amministrazione
regionale ed un ente locale o tra più enti locali. In caso di mancata intesa, il Consiglio dei ministri
può comunque adottare la deliberazione finale superando il dissenso; se il dissenso è motivato da
una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di loro competenza, il Consiglio dei
ministri delibera con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province interessate,
nell'esercizio del proprio potere sostitutivo previsto dall'art.120 Cost.
-segnalazione certificata di inizio attività: in alcuni casi la semplificazione si concreta nella riduzione
degli oneri burocratici; tale semplificazione raggiunge una soglia assai elevata allorchè, ove il
privato intenda avviare proprie attività, taluni atti e procedimenti amministrativi vengono eliminati
e sostituiti da atti e procedimenti privati. Nel nostro ordinamento tale percorso è stato avviato nel
1990 con la previsione dell'istituto della "Dichiarazione di inizio attività" (DIA); oggi lo schema
normativo generale è contenuto nell'art.19 della legge sul procedimento, che disciplina "la
segnalazione certificata di attività" (SCIA). Il regime previsto originariamente con la DIA aveva una
struttura "bifasica": ad una prima dichiarazione di volontà ad intraprendere un'attività seguiva una
seconda comunicazione con cui si notificava l'effettivo avvio. L'amministrazione aveva il potere di
controllare ex-post le regolarità dei requisiti al fine di vietare la prosecuzione dell'attività. Il regime
introdotto con la SCIA invece prevede un solo atto del privato, appunto la segnalazione di inizio
attività: dalla data di presentazione della segnalazione l’attività può essere senz’altro iniziata. In
primo luogo la SCIA si applica quando la possibilità di avviare un'attività privata sia sottoposta
all'adozione di particolari atti di tipo autorizzatorio da parte di amministrazioni pubbliche; ha
dunque natura di atto del privato che sostituisce il procedimento autorizzatorio preliminare. L’atto
di tipo autorizzatorio, per poter essere sostituito dall’atto del privato deve essere privo di
discrezionalità amministrativa: esso deve limitarsi al mero accertamento di requisiti di legge e la
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SCIA non si applica nelle ipotesi nelle quali sia previsto un contingente, un numero massimo di
autorizzazioni, poiché ciò lascia all’amministrazione un margine di valutazione discrezionale. In
base a questo regime resta alla pubblica amministrazione un potere di intervento ex-post,
finalizzato ad accertare la sussistenza o meno delle condizioni, delle modalità e dei fatti
legittimanti per l'avvio dell'attività privata; si tratta di un controllo successivo che può essere
esercitato entro 60giorni dal ricevimento della segnalazione e che si caratterizza per l'assenza di
discrezionalità, poichè si limita alla verifica di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai requisiti
e ai presupposti stabiliti dalla normativa. Ove si accerti che tali requisiti non sussistono,
l'amministrazione ha il potere-dovere di adottare "motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa", è tuttavia
consentito all'interessato "di conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro
un termine fissato dall'amministrazione, non inferiore a trenta giorni". Questi provvedimenti
dell’amministrazione sono atti interdittivi. La norma precisa che decorso il termine di 60giorni per
emanare un provvedimento interdittivo, all'amministrazione è consentito intervenire "solo in
presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la
salute, la sicurezza pubblica o la difesa nazionale". E' comunque fatto salvo il potere
dell'amministrazione pubblica di intervenire "in via di autotutela", adottando provvedimenti di
revoca o di annullamento d'ufficio (provvedimenti amministrativi di secondo grado); la revoca o
l'annullamento verrebbero così ad incidere sul preesistente provvedimento che in questo caso,
non essendoci un provvedimento di primo grado, è rappresentato da un provvedimento tacito di
diniego del provvedimento interdittivo, che verrebbe in essere alla scadenza dei 60giorni, con il
quale l'amministrazione può vietare la prosecuzione dell'attività e può rimuovere gli eventuali
effetti dannosi. Le controversie sorte nell’applicazione delle norme sulla SCIA sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Secondo la giurisprudenza, il terzo può esperire
un azione di annullamento avverso il provvedimento tacito di diniego della misura interdittiva che
viene in essere dopo il decorso di 60giorni, al fine di ottenere gli effetti dell'interdizione medesima.
Prima che si formi tale provvedimento tacito, lo strumento di tutela del terzo, è l'azione di
accertamento, finalizzata ad ottenere una pronuncia giudiziale che verifichi l'insussistenza dei
requisiti e dei presupposti richiesti per l'esercizio dell'attività. Escluse dall'applicazione della
disciplina della SCIA sono gli atti delle amministrazioni preposte alla cura di particolari interessi
quali la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, il diritto d'asilo, l'amministrazione
della giustizia e delle finanze, casi in cui sussistono vincoli ambientali, paesaggistici o culturali ed
infine gli atti "imposti dalla normativa comunitaria". Problemi particolari ha posto soprattutto il
coordinamento del regime della SCIA con la DIA prevista in materia edilizia che, come la DIA già
disciplinata dalla legge 241, non consentiva che l’attività edilizia iniziasse contestualmente alla
dichiarazione privata: recentemente il legislatore ha precisato che, la SCIA si estende agli
interventi edilizi precedentemente compiuti con DIA, eccettuati i casi in cui la DIA sia alternativa al,
o sostitutiva del, permesso di costruire. Ove trovi applicazione la SCIA in materia edilizia, il termine
per l’esercizio del potere interdittivo è ridotto da 60 a 30 giorni dal ricevimento della segnalazione.
9.7 Nei procedimenti avviati su istanza di parte, l'inerzia della pubblica amministrazione può dar
luogo ed esiti diversi; vi sono casi in cui le norme espressamente qualificano il silenzio protratto
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oltre il termine come rigetto dell'istanza, si parla in tali ipotesi di "silenzio rigetto o silenzio
diniego". Può esservi "silenzio inadempimento" quando non vi sono qualificazioni normative
esplicite. Ma l'ipotesi che dovrebbe avere la portata più estesa è quella in cui l'inerzia è da
intendersi come accoglimento dell'istanza: il cosiddetto "silenzio assenso". La figura è ora regolata
dalla legge sul procedimento amministrativo; prima della legge n.15/2005 che ha modificato la
legge n.241/1990, il silenzio assenso valeva soltanto per i procedimenti previsti da appositi
regolamenti; ora è applicabile in tutti i procedimenti a istanza di parte, salve le eccezioni esplicite e
tassative. La norma dispone che nei "procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi" il silenzio dell'amministrazione decidente "equivale a
provvedimento di accoglimento della domanda", se la stessa amministrazione non comunica, nei
termini di conclusione del procedimento, il provvedimento negativo o non indice, entro 30giorni
dalla presentazione dell'istanza, una conferenza di servizi. Nei casi di silenzio assenso la legge
prevede che l'amministrazione possa assumere decisioni in via di autotutela, adottando
provvedimenti di revoca o di annullamento di ufficio. Nel caso del silenzio assenso c'è un
provvedimento di primo grado -tacito- che accoglie l'istanza: l'amministrazione può revocarlo o
annullarlo d'ufficio se ne ricorrano i presupposti. Il terzo leso dal silenzio assenso può chiedere in
sede giurisdizionale l'annullamento del provvedimento tacito. Il silenzio assenso non opera nel
caso di atti e procedimenti, che intervengono in materie richiamate anche dalla SCIA (vd sopra);
inoltre non opera nei casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di "provvedimenti
amministrativi formali" non taciti e nei procedimenti appositamente indicati in decreti del
Presidente del Consiglio. Ulteriore eccezione nelle ipotesi in cui la legge qualifica il silenzio come
rigetto dell’istanza.
La legge n.241/1990 si applica integralmente alle amministrazioni statali e agli enti pubblici
nazionali; alcune sue norme valgono per tutte le amministrazioni pubbliche (norme sul
riconoscimento del danno per l'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento, sugli accordi con i privati e tra amministrazioni, sulla tutela giurisdizionale in
materia d'accesso); si applica anche alle società a capitale pubblico totale o prevalente,
limitatamente all'esercizio delle funzioni amministrative, cioè quando esercitano funzioni
pubbliche e/o servizi pubblici. Regioni ed enti locali sono tenuti al rispetto dei principi ricavabili
dalla legge n.241; in tali casi, Regioni ed enti locali, non possono stabilire garanzie inferiori rispetto
a quelle previste dalla legge n.241 ma possono prevedere livelli superiori di tutela. Le Regioni a
statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano "adeguano" la propria legislazione
alle regole sopra indicate sull'ambito di applicazione della legge n.241. Ai soggetti privati preposti
all'esercizio di attività amministrative si applicano i principi della legge n.241: la legalità,
l'economicità, l'efficacia, la pubblicità, la trasparenza e i principi dell'ordinamento comunitario.
Singole disposizioni della legge 241 contengono norme specifiche sui limiti di applicabilità della
stessa legge (diritto di accesso nei confronti di amministrazioni indipendenti). Diversi procedimenti
amministrativi sono soggetti a normative speciali e molto dettagliate: in tali casi la legge 241 viene
applicata in via integrativa.
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Capitolo VII. Provvedimenti amministrativi
Ora analizziamo le ipotesi di invalidità. La legge Crispi del 1889 istitutiva della Quarta Sezione del
Consiglio di Stato, stabilì che quest'ultima potesse annullare provvedimenti delle pubbliche
amministrazioni viziati da incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere: i tre vizi di
legittimità. La l. 241/90, nella norma sull’annullabilità del provvedimento, elenca nuovamente i tre
vizi di legittimità. Le chiavi per la loro definizione restano nelle pronunce giurisprudenziali. Più
semplici le figure dell'incompetenza e della violazione di legge. L'incompetenza è difetto di
competenza. La competenza è la misura dell’attribuzione, che è l'affidamento ad una pubblica
amministrazione della cura di una serie di interessi; un provvedimento adottato da un organo
sprovvisto di competenza è annullabile e può essere convalidato tramite l'adozione del
provvedimento da parte dell'organo competente. La mancanza di attribuzione è invece vizio più
radicale, può dar luogo alla nullità per carenza di potere. Violazione della legge si ha in casi di non
conformità del provvedimento rispetto ad una disposizione normativa specifica. La legge n.241 ha
dettato regole apposite su ipotesi in cui il mancato rispetto di norme non comporta annullabilità,
pur trattandosi di patologie ricondotte al vizio di violazione della legge. Si distinguono due casi: in
primo luogo non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento
o sulla forma degli atti se il provvedimento medesimo ha natura vincolata, dunque non
discrezionale, e sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. In secondo luogo, il provvedimento amministrativo non è annullabile
per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento (anche in caso di provvedimenti
discrezionali), qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato. La ratio alla base di tali disposizioni è quella
di attribuire forte rilevanza al raggiungimento di un risultato e di uno scopo utile al pubblico
interesse, finalità che non può essere vanificata dalla sussistenza di vizi formali o procedurali.
Occorre un’interpretazione restrittiva della norma in esame. Innanzitutto, sull'amministrazione
grava comunque l'onere di dimostrare che il contenuto non sarebbe potuto essere diverso (onere
della prova). Affinchè non vi sia annullamento deve risultare che l'amministrazione a tenuto in
adeguata considerazione tutti gli interessi rilevanti per il decidere: che, in sostanza, vi sia stata
un'istruttoria amministrativa completa. Più complessa è stata l'elaborazione del concetto
dell'eccesso di potere. La figura di partenza è stata quella del cosiddetto sviamento di potere, si
prevedeva cioè l'annullamento dei provvedimenti che perseguivano fini diversi da quelli previsti
dalle norme. Sviluppandosi un maggiore pluralismo, il gioco degli interessi era divenuto più
complesso, non era più agevole individuare la deviazione, lo sviamento rispetto all'interesse
previsto dalla legge. Fu così che si svilupparono altre figure di eccesso di potere; alcune furono
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chiamate sintomatiche: la loro sussistenza era considerata sintomo del vizio (travisamento di fatto,
sussistenza di un fatto che in realtà non esiste, errore di apprezzamento, di valutazione). Altro
elemento importante è la motivazione del provvedimento: il giudice amministrativo ha iniziato a
censurare provvedimenti con motivazioni, dapprima, solo quantitativamente insufficienti ed oggi
anche qualitativamente. In realtà il giudice si è spinto più oltre verificando non solo la motivazione
ma anche i motivi, intesi come interessi concreti, valutando non il solo provvedimento ma l'intero
procedimento. Il giudice controlla se l'amministrazione abbia effettuato una valutazione compiuta,
sufficiente degli interessi in gioco nell’istruttoria, il cui difetto o insufficienza porta all’ipotesi
sintomatica di eccesso di potere. Vi sono poi figure particolari di eccesso di potere, come la
violazione di circolari, la deviazione da una prassi amministrativa consolidata o la difformità del
provvedimento rispetto ad uno precedente ed uguale. Infine possono menzionarsi due figure
importanti di eccesso di potere: l'irragionevolezza e il difetto di proporzionalità. Il controllo
giudiziale sull'irragionevolezza è stato dapprima tenue; il giudice guardava essenzialmente alla
motivazione e il criterio di valutazione si avvicinava a quello della logicità. Progressivamente ha
acquistato maggiore intensità: il giudice ora valuta la coerenza dell'intero procedimento, il nesso
fra gli intenti e gli obiettivi concreti realizzati. Con la figura del difetto di proporzionalità il giudice
valuta se il provvedimento sia indispensabile, se sia adeguato al fine che l'amministrazione intende
perseguire, se costituisca la misura meno restrittiva possibile nei confronti della sfera giuridica del
destinatario, e talora effettua un bilanciamento tra i benefici ottenuti per il pubblico interesse e i
sacrifici imposti agli interessi dei privati. Nell’analisi delle varie figure di eccesso di potere, il
controllo del giudice ha ad oggetto i fini effettivamente perseguiti dall’amministrazione, in base ad
un criterio di conformità dell’azione amministrativa rispetto ai principi giuridici; si resta nell’ambito
di un controllo di legittimità.
Si veda ora il concetto di nullità. Essa comporta l'inefficacia ab initio di un atto, il che secondo la
giurisprudenza del giudice amministrativo non si addice alle caratteristiche dell'azione delle
pubbliche amministrazioni; questa azione è finalizzata al perseguimento di pubblici interessi, se è
affetta da vizi è bene che non si tratti di patologie che vanifichino del tutto l'efficacia, ma piuttosto
vizi riconducibili alla categoria dell'annullabilità. La giurisprudenza ha avuto una svolta importante
quando la Cassazione, alla fine degli anni 40 ha introdotto la categoria della carenza di potere. Si
tratta di casi in cui il potere amministrativo manca del tutto, ipotesi che ricorre in presenza di uno
dei tre vizi di legittimità: incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere. Poichè il potere
non esiste il provvedimento è nullo ab initio e non spiega effetti, dunque lascia inalterata la sfera
giuridica del destinatario; se questi era titolare di un diritto soggettivo questo resta tale, di
conseguenza il giudice competente a conoscere della carenza di potere è il giudice ordinario. In
sostanza si è avuta un'equiparazione tra carenza di potere e nullità-inesistenza. La giurisprudenza
di cassazione ha sostenuto, in particolare, che la carenza di potere vi fosse, in primo luogo, nei casi
di difetto di attribuzione, cioè in quelle ipotesi in cui non vi è incompetenza ma sussiste il vizio più
radicale di mancanza dell'attribuzione. La corte ha ricondotto alla carenza di potere anche altre
ipotesi, caratterizzate non dal difetto assoluto di attribuzione del potere ma dalla mancanza di un
presupposto essenziale per l'emanazione del provvedimento. Queste patologie sono state definite
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come ipotesi di carenza di potere in concreto, per distinguerle dal difetto assoluto di attribuzione,
qualificato come ipotesi di carenza di potere in astratto. Il legislatore con la legge n.241/1990 è
intervenuto in materia di nullità per darne fondamento normativo; la norma stabilisce che vi è
nullità in mancanza degli "elementi essenziali", se vi è "difetto assoluto di attribuzione" o se il
provvedimento medesimo è stato adottato "in violazione o elusione del giudicato", nonché negli
altri casi previsti dalla legge. In assenza di una previsione normativa che identifichi gli "elementi
essenziali", non è agevole stabilire i confini della prima ipotesi di nullità; il giudice amministrativo
considera "elementi essenziali" del provvedimento il soggetto, l'oggetto, la volontà e la forma (es.
assenza di verbalizzazione delle deliberazioni-carenza di forma; espropriazione di beni immobili già
acquistati dall'amministrazione-mancanza dell'oggetto). L'ipotesi di "difetto di attribuzione" viene
sostanzialmente a coincidere con la carenza di potere in astratto. L'ipotesi di "violazione o elusione
del giudicato", che sussiste quando il provvedimento non si conforma ad una sentenza passata in
giudicato, è rilevante per le conseguenze in termini di competenza giurisdizionale. La norma
stabilisce infatti che le "questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in
violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo". Resta aperto il problema della competenza giurisdizionale per le altre due ipotesi
di nullità già esaminate. Se si assume che il criterio di individuazione della giurisprudenza del
giudice amministrativo consista nell'esercizio di potere amministrativo, indipendentemente dalla
natura delle situazioni soggettive, dovrebbe concludersi che la giurisprudenza spetti al giudice
ordinario; se invece si sceglie la via di dar rilievo alle situazioni giuridiche, essa spetterà al giudice
ordinario nei casi in cui il privato sia titolare di un preesistente diritto soggettivo, mentre spetterà
al giudice amministrativo nei casi in cui la posizione giuridica soggettiva sia qualificabile quale
interesse legittimo fin dall'inizio.
Vi sono, anzitutto, strumenti che possono essere ricondotti alla figura giuridica del contratto. I
contratti di appalto pubblico hanno assunto estensione e complessità sempre maggiori. La fase
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preliminare alla conclusione del contratto, la cosiddetta procedura ad evidenza pubblica finalizzata
alla scelta del contraente privato, è stata oggetto di ampia disciplina comunitaria che si basa
soprattutto sulle ragioni di tutela della concorrenza nel mercato unico europeo. Sempre nel
settore delle opere pubbliche, la concessione di lavori pubblici (in cui non si ha un corrispettivo
immediato come nell’appalto) è ormai qualificata come contratto. La gestione di beni pubblici e di
servizi pubblici è sovente affidata a concessioni di tipo contrattuale. La gestione del territorio è
ormai largamente dominata dall'"urbanistica negoziata", fatta di numerosi strumenti consensuali,
dalle tradizionali convenzioni urbanistiche a istituti più recenti come i cosiddetti programmi
integrati di intervento. Le convenzioni urbanistiche sono nate come moduli riconducibili al
contratto; oggi la giurisprudenza tende a farle rientrare fra gli accordi sostitutivi di provvedimento
amministrativo, che hanno un indole più pubblicistica: una delle differenze è che l'accordo
sostitutivo è soggetto al potere generale di recesso dell'amministrazione nel pubblico interesse,
cosa che nei contratti deve essere prevista da legge o regolamento contrattuale. L’impiego
pubblico è oggi ampiamente contrattualizzato. La materia della sanità conosce un largo uso di
convenzioni sanitarie, riconducibili ai contratti. Le forme di finanziamento pubblico sono su base
contrattuale. Analoghe osservazioni possono valere per i cosiddetti contratti di programma: si
tratta usualmente di rapporti tra imprese di gestione di pubblici servizi e ministeri vigilanti, in cui
viene regolato il potere autoritativo di controllo di quest'ultimi. In tutti i casi menzionati si è in
presenza di moduli contrattuali, in alcune ipotesi possono avere un oggetto pubblico (concessioni
di beni pubblici), ciò non significa però che siano contratti di diritto pubblico. Ci si trova ,quindi,
sempre in presenza di contratti di diritto privato con graduazioni diverse di specialità.
Vi è oltre ai contratti un'altra grande categoria di strumenti consensuali, costituita dagli accordi,
che assumono forme diverse. Lo strumento che ha ricevuto una disciplina legislativa generale
piuttosto compiuta è quella dell'accordo procedimentale (ex l. 241/90). Nel corso dell'istruttoria
procedimentale gli amministrati possono presentare osservazioni, memorie e proposte; in
accoglimento di tali formulazioni, l'amministrazione può concludere "accordi con gli interessati al
fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di
questo". Vi sono dunque due tipi di accordi: gli accordi "integrativi", che servono a definire alcune
clausole; e gli accordi "sostitutivi" del provvedimento che finiscono per prendere il suo posto. La
legge prevede che la forma sia scritta, a pena di nullità, e che agli accordi integrativi e sostitutivi "si
applicano, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili". Se
l'accordo è sostitutivo, esso è sottoposto agli stessi controlli previsti per il provvedimento
sostituito. In ogni caso per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, l'amministrazione può
recedere unilateralmente dall'accordo salvo l'obbligo dell'indennizzo se vi siano pregiudizi in
danno del privato. Sono affidate alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie
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in materia di accordi. Agli accordi si applicano i soli principi del codice civile sulle obbligazioni e i
contratti, non tutte le regole privatistiche proprie dei rapporti contrattuali. E l'applicazione dei
principi è subordinata alla condizione di compatibilità (con i rapporti tra amministrazione e
amministrato e con il perseguimento degli interessi pubblici); arbitro della compatibilità è il giudice
amministrativo. Vi è poi un potere di recesso unilaterale dell'amministrazione nel pubblico
interesse, differentemente dalla facoltà della stessa di recedere da un contratto: facoltà ammessa
nei soli casi previsti dalla legge o da contratto. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
si estende non solo alla formazione e alla conclusione degli accordi, ma anche alla loro esecuzione;
non è così, di regola, per i contratti della pubblica amministrazione. Si può ricordare un'altra
categoria di accordi: gli accordi tra pubbliche amministrazioni; si tratta di formule di
coordinamento tra soggetti pubblici, spesso destinate a semplificare procedimenti amministrativi
complessi.
CAPITOLO IX. La responsabilità della pubblica amministrazione e dei dipendenti: storia e tipi
La regola della responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti per danni
causati a terzi si è affermata con molta gradualità; la soluzione iniziale era quella
dell'irresponsabilità dello Stato, come conseguenza della sovranità. La responsabilità delle
amministrazioni pubbliche era ammessa per danni derivanti dalla gestione di beni pubblici non
rientranti nel demanio dello Stato e per danni causati dalle collettività locali; in entrambi i casi la
competenza era del giudice ordinario. La responsabilità dello Stato fu ammessa, in via di principio
e parzialmente, dal noto arrèt Blanco, in cui il giudice affermò: "La responsabilità che può gravare
sullo Stato per i danni arrecati a soggetti privati dai dipendenti impiegati nel servizio pubblico...non
è ne generale, nè assoluta; è sottoposta a regole speciali". Dunque, una responsabilità dello Stato
limitata e soggetta al diritto amministrativo, speciale rispetto al diritto comune. Il problema era
quello dell'imputazione: si doveva considerare tenuta al risarcimento l'amministrazione o il
dipendente che aveva agito? La responsabilità dei dipendenti e dei funzionari delle pubbliche
amministrazioni era anch’essa limitata. In effetti valeva l'art 75 della Costituzione dell’anno VIII che
prevedeva la cosiddetta "garanzia amministrativa", che subordinava l'esercizio del risarcimento dei
danni dinanzi al giudice ordinario a un'autorizzazione del Conseil d’Etat. Dopo la morte di
Napoleone III, l'art.75 fu abrogato; la soluzione iniziale, a partire dall’arrêt Pellettier (1873), fu
quella di distinguere tra colpa personale del funzionario estranea all'esercizio della funzione
pubblica (responsabilità del funzionario), e colpa di servizio, legata all'esercizio della funzione
(responsabilità dell'amministrazione). I sistemi di common law, sono stati coerenti nello stabilire,
in nome del diritto comune a soggetti privati e pubblici, che i funzionari delle amministrazioni
rispondessero per danni secondo le regole ordinarie dei torts. Ma è stata necessaria una lunga
attesa prima che si ammettesse la responsabilità della pubblica amministrazione come tale per
danni prodotti a terzi. Il principio è stato affermato in Gran Bretagna solo con il Crown Proceeding
Act del 1947 e negli Stati Uniti con il Federal Tort Claims act del 1946. In entrambe le esperienze
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giuridiche sono rimasti alcuni limiti alla responsabilità dell’amministrazione, soprattutto in casi di
attività amministrativa discrezionale. Anche in Italia è stato lungo il cammino verso il
riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione, che è intervenuto non prima
della metà degli anni Trenta del Novecento in decisioni giurisprudenziali della Corte di cassazione. I
giudici di cassazione sottolinearono che vi era responsabilità diretta della pubblica
amministrazione, la quale non poteva spingersi oltre il “comune modo di agire”, non essendo
consentito ai poteri pubblici di violare ogni regola di comune prudenza, di “quella prudenza, cioè,
che s’impone, quale guida costante e indefettibile, a chiunque debba operare nel mondo esterno,
venendo in relazione con altri subbietti”. La giurisprudenza si consolidò e, dopo l’approvazione del
codice civile del 1942, sottolineò che la pubblica amministrazione era soggetta all’art. 2043, che
regola l’ipotesi generale di responsabilità extracontrattuale, inclusa la responsabilità per l’esercizio
di attività pericolose, per la quale il codice prevede un’inversione dell’onere della prova, essendo
chi cagiona il danno a dover provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo. La
responsabilità contrattuale e precontrattuale dell’amministrazione erano state anch’esse
riconosciute dalla giurisprudenza.
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Una delle problematiche più delicate è quella dei limiti della responsabilità civile della pubblica
amministrazione quando il fatto che cagiona il danno è un provvedimento amministrativo. Per
lunghi decenni la giurisprudenza aveva sostenuto la non risarcibilità in caso di lesioni di interessi
legittimi, a meno che non vi fosse a monte un diritto soggettivo. La soluzione negativa riposava
sulla lettura tradizionale dell’art. 2043 c.c., che considerava danno ingiusto solo la lesione di un
diritto soggettivo. Il d.lgs. 80/98 attribuì al giudice amministrativo il potere di disporre il
risarcimento del danno ingiusto in materie di sua competenza esclusiva. In precedenza i giudici
avevano riconosciuto la risarcibilità di interessi legittimi lesi da provvedimento solo in casi in cui “a
monte” ci fosse un diritto soggettivo poi degradato (interesse legittimo oppositivo) e non nel caso
in cui questo mancasse (interesse legittimo pretensivo). La svolta si ebbe con la sentenza n.
500/1999 quando la Corte riconobbe la risarcibilità di ogni danno che presenti il carattere di
ingiustizia, e cioè il danno privo di giustificazione giuridica (non iure), che si risolve nella lesione di
un interesse rilevante e meritevole di tutela per l’ordinamento, sia questo diritto soggettivo o
interesse legittimo. Occorre al tempo stesso, che la lesione di interesse legittimo sia l'effetto
dell'attività colpevole amministrativa; poichè la colpa/dolo è componente essenziale della
responsabilità. La colpa dell'amministrazione pubblica sussiste quando l'adozione e l'esecuzione
del provvedimento illegittimo, lesivo dell’interesse del danneggiato, siano avvenute in violazione
dei principi di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione. Ciò significa che l’illiceità
emerge quando vi sia un’ illegittimità rafforzata, qualificata, dell’azione autoritativa
dell’amministrazione. Una simile conclusione ha reso difficile provare l'illecito, onere che incombe
sull'amministrato. Di qui l'emergere di una tesi secondo la quale la responsabilità della pubblica
amministrazione per lesione di interessi legittimi sarebbe una responsabilità da "contatto".
Nell'ambito del procedimento vi sarebbe, appunto, un contatto fra l'amministrazione e
l'amministrato, che darebbe vita ad un rapporto giuridico tale per cui il diritto al risarcimento non
sarebbe riconducibile all'art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), ma presenterebbe
caratteristiche simili a quelle proprie della responsabilità contrattuale. Si applicherebbe quindi
l'art. 1218 c.c., in base al quale è il debitore che non esegue esattamente la prestazione cui è
dovuto a dover provare che l'inadempimento non è a lui imputabile: sarebbe dunque la pubblica
amministrazione ad essere gravata dall'onere della prova. La giurisprudenza è tornata poi ad
utilizzare l'art. 2043 c.c., con una attenuazione dell'onere della prova gravante sull'amministrato:
l'illegittimità del provvedimento produttivo di un danno ingiusto può essere di per sé sufficiente a
far sussistere l'agire colposo dell'amministrazione, là dove vi sia un vizio di legittimità
particolarmente grave. Quanto alla prova, l’amministrato può limitarsi a fornire elementi indiziari
che possano costituire presunzioni semplici della colpa dell’amministrazione. Sul piano della
competenza, spetta al giudice amministrativo conoscere di tutte le questioni concernenti
l'eventuale risarcimento del danno ingiusto. Il giudice ordinario resta competente del danno in
dispute che non sono riconducibili alla giurisdizione amministrativa. Secondo quanto chiarisce
l’art. 7 del nuovo codice del processo amministrativo, il giudice orinario può disporre il
risarcimento del danno in controversie relative a meri comportamenti dell’amministrazione, non
riconducibili, neppure mediatamente, all’esercizio del potere amministrativo (di competenza del
giudice amministrativo).
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4. La cosiddetta responsabilità amministrativa
La responsabilità civile della pubblica amministrazione impone che siano risarciti gli amministrati
che abbiano subito un danno ingiusto. La cosiddetta responsabilità amministrativa, invece, impone
il risarcimento del danno che viene a subire l'amministrazione pubblica per l'operato di funzionari
o amministratori: sia per il danno causato a terzi sia per quello arrecato direttamente
all'amministrazione (danno erariale). La materia è disciplinata da regole speciali ex l. 19/94 e l.
20/94, derogatorie rispetto al codice civile. Il giudice competente è la Corte dei conti. L'azione di
responsabilità è promossa dal procuratore regionale della medesima Corte. La c.d. responsabilità
amministrativa è limitata agli atti e alle omissioni posti in essere dai funzionari e dagli amministrati
con dolo o colpa grave. Resta insindacabile dalla Corte dei conti il merito delle scelte discrezionali
poste in essere da tali soggetti. Perchè vi sia responsabilità è necessario che vi sia, oltre alla
violazione di un dovere d'ufficio o l'adozione di un atto illegittimo, un danno ingiusto. La Corte ha
un potere riduttivo: può porre a carico dei responsabili solo una parte del danno. E' inoltre prevista
un'istanza del responsabile condannato in primo grado volta a chiedere in appello una riduzione
delle somme da pagare. La responsabilità amministrativa, è individuale. Diviene solidale in caso di
attività dolosa o di arricchimento di chi ha agito. Se vi è stato un atto collegiale, sono esenti coloro
che hanno votato contro, che non abbiano partecipato alla votazione o si siano astenuti. I titolari
degli organi politici o d’indirizzo non rispondono degli atti di competenza di uffici tecnici, quando li
abbiano approvati in buona fede. Affinchè vi sia responsabilità amministrativa è sufficiente che
esista una relazione funzionale tra l'autore dell'illecito e l'amministrazione, che sussiste non solo
quando intercorra un rapporto di impiego ma anche" quando il soggetto, benchè estraneo alla
pubblica amministrazione, venga investito, in modo continuativo, di una determinata attività a
favore dell'amministrazione, con l'inserimento nell'organizzazione e con particolari vincoli diretti
ad assicurare la rispondenza dell'attività alle esigenze generali cui è preordinata". La responsabilità
amministrativa può valere anche per gli amministratori e per i dipendenti di enti pubblici
economici e di società con partecipazione pubblica, ad eccezione delle società quotate con
partecipazione pubblica inferiore al cinquanta per cento. Dipendenti e amministratori di società in
partecipazione pubblica sono stati assoggettati alle regole della responsabilità amministrativa ove
intercorra tra la società e la pubblica amministrazione un rapporto di servizio, consistente nello
svolgimento da parte della società di un’attività o di un servizio pubblico. Recentemente alcune
pronunce della Corte di cassazione sembrano aprire la via verso una restrizione dell'ambito di
applicazione della responsabilità amministrativa ad amministratori e dipendenti di società in
partecipazione pubblica, secondo cui si imputa al soggetto che, gestendo la partecipazione
pubblica, non abbia esercitato i poteri spettanti al socio pubblico per indirizzare correttamente
l'azione degli amministratori o dei dipendenti della società.
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