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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 1. INTRODUZIONE

1. Premessa

Il diritto amministrativo può essere definito come la branca del diritto pubblico interno che ha per
oggetto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione. Esso riguarda in particolare i
rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio di poteri ad essa attribuiti dalla
legge per la cura di interessi della collettività.
Il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi che si è andato formando
nell’Europa nel corso del XIX secolo in parallelo all’evoluzione dello Stato di diritto.
Rispetto alla tradizione millenaria del diritto privato, si tratta dunque di un diritto recente.
Il diritto amministrativo può essere avvicinato lungo una pluralità di percorsi. In primo luogo, esso
va colto in una prospettiva storica. In terzo luogo, occorre fissare le distinzioni e i nessi del diritto
amministrativo con altre branche del diritto (diritto costituzionale, diritto europeo, diritto privato,
diritto penale).

2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo

2.2. Stato di diritto e Stato a regime amministrativo

Lo Stato di diritto si regge su alcuni elementi strutturali che occorre richiamare sinteticamente.
Essi costituiscono infatti le precondizioni necessarie per sottoporre gli apparati amministrativi alla
signoria della legge e dunque per la stessa nascita di un diritto amministrativo.
1. In primo luogo, lo Stato di diritto presuppone il trasferimento della titolarità della sovranità a
un parlamento eletto da un corpo elettorale.
2. Inoltre, esso si fonda sul principio della tendenziale separazione dei poteri.
3. Un terzo elemento strutturale dello Stato di diritto è l’inserimento nelle costituzioni di riserve
di legge.
Il principio di legalità si pone al centro dell’intera costruzione del diritto amministrativo.
4. Per rendere effettive la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di
libertà, lo Stato di diritto richiede un quarto elemento: che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di
ottenere la tutela delle proprie ragioni nei confronti della pubblica amministrazione innanzi a un
giudice imparziale, indipendente dal potere esecutivo.
In Francia e in altri Paesi dell’Europa continentale, la giustizia nell’amministrazione venne
realizzata attraverso l’istituzione verso la fine del XIX secolo di un giudice speciale, separato dal
giudice ordinario, che favorì la nascita del diritto amministrativo.

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2.3. Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore

Il modello teorico dello Stato di diritto è di per sé neutrale rispetto alla gamma e all’ampiezza
delle funzioni assunte come proprie dai poteri pubblici. Nel corso del XIX e del XX secolo si sono
succedute una pluralità di fasi e di esperienze. Ad esse corrispondono altrettanti modelli di Stato.
Con la Rivoluzione francese si fecero strada le ideologie di impronta liberista in campo
economico, tendenti a ridurre al minimo le ingerenze dirette dello Stato nei rapporti economici e
sociali.
Emerse così il cosiddetto «Stato guardiano notturno», dominante per buona parte del XIX secolo.
Lo Stato assunse su di sé principalmente due compiti: la tutela dell’ordine pubblico interno e la difesa
del territorio da nemici esterni.
La visione liberista e liberale dello Stato entrò in crisi, verso la fine del XIX secolo e l’inizio del
XX secolo, con l’affermarsi sulla scena politica e istituzionale di nuove ideologie (socialismo,
operaismo, cattolicesimo, ecc.) e classi sociali.
queste trasformazioni segnarono il passaggio a un modello di Stato che va sotto i nomi in larga
misura fungibili di «Stato interventista», «Stato sociale» o «Stato del benessere».
La svolta autoritaria, con l’avvento del regime fascista in Italia e del regime nazista in Germania,
favorì, soprattutto negli anni Trenta, una ulteriore espansione della presenza dello Stato.
La crisi economica degli anni Trenta, provocata dal crollo del mercato borsistico del 1929, causò
fallimenti a catena dei maggiori gruppi finanziari e imprenditoriali e richiese interventi di salvataggio
da parte dei pubblici poteri. Si accrebbe così la presenza diretta dello Stato nell’economia e si affermò
dunque il modello dello «Stato imprenditore» o gestore diretto di aziende di produzione ed erogazione
di un’ampia gamma di beni e servizi.
In parallelo, l’influenza delle ideologie collettivistiche nel secondo dopoguerra portò
all’approvazione di programmi di nazionalizzazione di settori economici strategici. Emerse così anche
nelle democrazie occidentali lo «Stato pianificatore». Esso si caratterizza per predisposizione a livello
centrale di piani e programmi settoriali (trasporti, sanità, energia elettrica, rete commerciale, ecc.),
volti a indirizzare risorse pubbliche e private verso obiettivi predeterminati.
La presenza diretta o indiretta dello Stato nelle attività economiche e sociali determinò una
crescita esponenziale della spesa pubblica.
Furono avviate politiche di liberalizzazione, con la soppressione di regimi di monopolio legale, e
di privatizzazione di molte attività assunte direttamente dai pubblici poteri.
Un siffatto processo venne promosso in Europa anche da numerose direttive europee di
liberalizzazione (telecomunicazioni, energia elettrica, gas, servizi postali, ecc.) volte a favorire
l’apertura dei mercati alla concorrenza transfrontaliera all’interno del mercato unico.
Lo «Stato imprenditore» si trasformò così in «Stato regolatore».
I compiti di regolazione sono stati affidati di norma ad autorità o agenzie indipendenti dal
governo, così da sottolineare ancor più il ruolo tecnico, neutrale e non dirigista del regolatore
pubblico.
In definitiva, l’impegno o il disimpegno dei poteri pubblici nelle attività economiche e sociali è
soggetto a moti pendolari in relazione al mutare delle percezioni collettive e delle ideologie.

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2.5. L’evoluzione della pubblica amministrazione in Italia

Anche in Italia l’organizzazione e le funzioni della pubblica amministrazione hanno subito


mutazioni profonde a partire dall’unificazione nazionale.
In epoca cavouriana, fu adottato il modello dell’amministrazione per ministeri.
All’inizio del XX secolo, in epoca giolittiana, furono potenziate le strutture ministeriali e istituite
le prime aziende ed enti pubblici nazionali (Istituto nazionale delle assicurazioni – INA, Istituto
nazionale per la prevenzione sociale – INPS).
La Grande Crisi determinò l’estensione della mano pubblica in numerosi settori economici. Nel
1933 venne istituito l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), ente pubblico economico al quale
venne attribuita la titolarità delle azioni di numerose imprese oggetto di interventi di salvataggio. Nel
1936 venne approvata una legge bancaria, rimasta in vigore fino all’inizio degli anni Novanta del
secolo scorso, che riorganizzò il sistema bancario secondo una visione pubblicistica e pianificatoria
dell’attività creditizia.
La Costituzione del 1948, che rifondò su basi democratiche e secondo il principio dello Stato di
diritto l’ordinamento italiano, incorporò una matrice interventista nei rapporti tra Stato, società ed
economia.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso anche in Italia lo Stato imprenditore entrò in crisi
dati i suoi costi sempre meno sostenibili In una fase di squilibrio della finanza pubblica. Vennero così
avviati processi di liberalizzazione, imposti da direttive europee, e di privatizzazione di imprese
ritenute non strategiche. Si fece strada così lo Stato regolatore che comportò un riassetto complessivo
degli apparati amministrativi.
I processi di liberalizzazione portarono all’istituzione di autorità di regolazione (Autorità di
regolazione per energia, reti e ambiente, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Autorità garante
della concorrenza e del mercato, ecc.) indipendenti dal potere esecutivo e dotate di poteri di
regolazione, di vigilanza e sanzionatori assai estesi.
Il processo di riforma della pubblica amministrazione sembra comunque un’operazione mai
conclusa. La crisi economica e finanziaria in atto nel nostro Paese ha favorito, soprattutto tra il 2011 e
il 2012, processi di razionalizzazione degli apparati, di liberalizzazione di attività economiche e di
adozione di meccanismi di spending review volti a contenere i costi.

4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto

4.1. Il diritto costituzionale

Il diritto costituzionale e il diritto amministrativo sono strettamente legati.


In primo luogo, il diritto amministrativo non è altro che il «diritto costituzionale reso concreto».
Così, per esempio, il grado di tutela dei diritti di libertà e dei diritti sociali si misura non solo e non
tanto sulla Costituzione, quanto piuttosto sulle leggi amministrative che attuano il disegno
costituzionale e sulla concreta applicazione che esse ricevono ad opera principalmente degli apparati
amministrativi. Il diritto alla salute, definito dall’art. 32 come «fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività», trova poi svolgimento e attuazione pratica nella legislazione istitutiva del
Servizio sanitario nazionale e più in generale nella legislazione sanitaria.
4.2. Il diritto europeo

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Il diritto amministrativo italiano ha acquisito una dimensione europea sotto cinque profili
principali: la legislazione amministrativa, l’attività, l’organizzazione, la finanza, la tutela
giurisdizionale.
1. In primo luogo, l’art. 117, comma 1, Cost. stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e
delle regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione, «dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario».
Questo vincolo condiziona la legislazione amministrativa settoriale statale e regionale che in molte
materie è ormai nient’altro che la trasposizione, con gli adattamenti e le integrazioni necessarie, delle
direttive europee.
Per esempio, il Codice dei contratti pubblici, che disciplina le procedure per l’aggiudicazione degli
appalti di lavori, forniture e servizi, recepisce tre direttive europee che pongono già una
regolamentazione quasi esaustiva. In materia di tutela dell’ambiente la legislazione nazionale si è
sviluppata fin dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso con una forte impronta europea. I settori
delle comunicazioni elettroniche o dell’energia elettrica e del gas e in generale di diritto pubblico
dell’economia sono regolati anzitutto da fonti europee.
2. In secondo luogo, l’art. 1, comma 1, l. n. 241/1990 include tra i principi generali dell’attività
amministrativa anche «i principi generali dell’ordinamento comunitario».
Questi ultimi sono ricavabili sia dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (proporzionalità, tutela del legittimo
affidamento, ecc.).
3. In terzo luogo il diritto europeo condiziona l’assetto organizzativo degli apparati pubblici.
Così numerose agenzie e autorità indipendenti sono state istituite in Italia specie nell’ultimo quarto di
secolo in attuazione di direttive europee.

4.3. Il diritto privato

 L’autonomia del diritto amministrativo.


L’autonomia del diritto amministrativo dal diritto privato emerge in particolare da un istituto
introdotto dalla l. n. 241/1990 e cioè dagli accordi stipulati tra amministrazione e soggetti privati (art.
11, comma 1, l. n. 241/1990).
A questo tipo di accordi di natura pubblicistica «si applicano, ove non diversamente previsto, i
principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili» (comma 2).
Per tradizione la nascita del diritto amministrativo come disciplina autonoma si fa risalire in
Francia al celebre arrêt Blanco del 1873. Il Tribunal des Conflits, in una causa per danni proposta da
un privato, anziché applicare le regole civilistiche, statuì che la responsabilità civile
dell’amministrazione non può essere disciplinata dai principi stabiliti dal codice civile per i rapporti tra
individui.
In materia di responsabilità civile, anche nel nostro ordinamento l’applicazione delle regole del
codice civile (artt. 2043 ss.) è stata oggetto di deroghe ed eccezioni poste dal legislatore e giustificate
dall’esigenza di salvaguardare le prerogative dell’amministrazione.
 I moduli privatistici dell’attività e dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
L’attività delle pubbliche amministrazioni è regolata in parte da leggi amministrative e in parte dal
diritto privato.
Le pubbliche amministrazioni sono dotate innanzitutto di soggettività piena nell’ordinamento
giuridico. Esse godono, al pari delle persone giuridiche private, di una capacità giuridica generale,

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quest’ultima intesa come l’attitudine ad assumere la titolarità di diritti e obblighi in conformità alle
norme del codice civile e delle leggi speciali.
Le pubbliche amministrazioni dunque possono instaurare relazioni giuridiche con altri soggetti
dell’ordinamento regolate dal diritto comune. L’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990 enuncia infatti il
principio secondo il quale la pubblica amministrazione, «nell’adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge non disponga diversamente».
Il solo limite generale che sussiste per esse è costituito dal fatto che la capacità giuridica generale
è attribuita alle pubbliche amministrazioni per realizzare le finalità di interesse pubblico affidate alla
loro cura.
La capacità di diritto privato delle pubbliche amministrazioni viene integrata da una sorta di
capacità speciale, attraverso l’attribuzione per legge di poteri amministrativi necessari per la cura di
interessi pubblici.
L’esercizio dei poteri amministrativi si sostanzia nell’adozione di atti aventi natura autoritativa,
caratterizzati dall’unilateralità nella produzione degli effetti e dalla loro sottoposizione al principio di
legalità e agli altri principi del diritto amministrativo.
L’utilizzo della capacità di diritto privato da parte della pubblica amministrazione può dar luogo a
intersezioni tra regimi giuridici.
Così, in materia di contratti della pubblica amministrazione per la fornitura di beni e servizi e per
l’esecuzione di lavori convivono regole pubblicistiche e regole privatistiche. Le prime riguardano
soprattutto la formazione della volontà della pubblica amministrazione, in particolare la scelta del
contraente, che avviene attivando un procedimento amministrativo. Le regole privatistiche riguardano
la fase dell’esecuzione degli obblighi contrattuali.

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CAPITOLO 2. LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO

1. Premessa

In molti casi la legge si limita a porre i principi fondamentali della disciplina di una determinata
materia e delega agli apparati amministrativi il compito di stabilire in via sublegislativa, con
regolamenti e con altri tipi di atti, le regole di dettaglio volte a disciplinare anche i comportamenti dei
privati.
Secondo le definizioni più ampie di regulation, la cosiddetta funzione regolatrice della pubblica
amministrazione include tutti gli strumenti formali e informali di condizionamento dell’attività dei
privati. Essa attenua almeno in parte il principio della separazione dei poteri. In molti ambiti, la
pubblica amministrazione ha sia il potere di porre le regole, pur nei limiti stabiliti dalla legge, sia di
applicarle nei singoli casi.
Le pubbliche amministrazioni, peraltro, prima ancora che soggetti regolatori, sono soggetti
regolati sottoposti a un corpo più o meno esteso di norme.
Emerge qui dunque una distinzione tra «fonti sull’amministrazione» e «fonti
dell’amministrazione».
Le prime hanno come destinatarie le pubbliche amministrazioni che diventano soggetti
eteroregolati, sottoposti ai principi dello Stato di diritto. Esse disciplinano l’organizzazione, le
funzioni e i poteri di queste ultime e fungono da parametro per sindacare la legittimità dei
provvedimenti da esse emanati. Le fonti sull’amministrazione sono costituite, in base al principio della
riserva di legge relativa di cui all’art. 97 Cost., anzitutto da fonti normative di rango primario e in
secondo luogo da fonti normative di rango secondario (per esempio i regolamenti governativi).
Le seconde, invece, sono strumenti a disposizione delle pubbliche amministrazioni sia per regolare
comportamenti dei privati sia, nei limiti in cui la legge riconosca ad esse un ambito di autonomia
organizzativa, per disciplinare i propri apparati e il loro funzionamento.
Il tema delle fonti del diritto va ripreso anche nell’ambito dell’esposizione del diritto
amministrativo. Maggiore attenzione va dedicata alle «fonti dell’amministrazione», che includono sia
fonti normative in senso proprio (regolamenti, statuti), sia atti di regolazione aventi natura non
normativa (atti amministrativi generali, direttive, circolari, ecc.).

2. La Costituzione

La Costituzione del 1948 è la fonte giuridica di rango più elevato. Essa è il parametro in base al
quale la Corte Costituzionale esercita il sindacato sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge.
La revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali richiede un procedimento di
approvazione da parte del parlamento con maggioranze qualificate (art. 138 Cost.). La Costituzione
rientra dunque nel novero delle costituzioni rigide, per le quali è previsto un procedimento di
modificazione aggravato rispetto a quello delle leggi ordinarie.
Da un punto di vista contenutistico, la Costituzione del 1948 appartiene alle cosiddette costituzioni
lunghe, contrapposte a quelle brevi ottocentesche.
La Costituzione, infatti, individua anche un’ampia serie di compiti dei quali lo Stato, e per esso la
pubblica amministrazione, deve farsi carico nell’interesse della collettività (salute, istruzione
scolastica e superiore, assistenza e previdenza sociale, tutela del risparmio, ecc.).
La Costituzione non tratta invece in modo diffuso l’assetto della pubblica amministrazione,
trascurato dai costituenti. La Costituzione enuncia i principi essenziali in tema di organizzazione
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(imparzialità e buon andamento, nonché equilibrio di bilancio enunciati nell’art. 97); di raccordi tra
politica e amministrazione (art. 95, che pone il principio della strumentalità dell’amministrazione
rispetto alla politica generale del governo e il principio della responsabilità politica dei ministri in
relazione all’attività amministrativa); di assetto della giustizia amministrativa (artt. 103, 113, 125). Sul
versante organizzativo la Costituzione pone l’accento sul principio autonomistico (art. 5), ed enuncia
il principio di sussidiarietà (art. 118). Sul versante finanziario, pone il principio del pareggio di
bilancio (art. 81).
La riforma del titolo V della parte II della Costituzione ad opera della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 ha ridefinito i rapporti tra le fonti statali e regionali sulla base dei seguenti principi:
la equiordinazione tra competenze legislative statali e regionali, che devono essere esercitate nel
rispetto della Costituzione e, come si è già accennato, dei «vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali» (art. 117, comma 1); l’attribuzione alle regioni di una
competenza legislativa generale residuale, con indicazione tassativa delle materie attribuite alla
competenza legislativa esclusiva e concorrente dello Stato (art. 117, commi 2 e 3).

3. Fonti dell’Unione europea

In base all’art. 117, comma 1, Cost., le fonti dell’Unione europea si pongono su un livello
gerarchicamente più elevato rispetto alle fonti primarie. Vige anzi il principio secondo il quale le
norme nazionali contrastanti con il diritto europeo devono essere disapplicate.
Questo principio vale sia per i giudici nazionali, sia per le pubbliche amministrazioni, quando
esercitano un potere amministrativo ed emanano un provvedimento.
Per la pubblica amministrazione, il vincolo derivante dal diritto europeo è addirittura più
stringente di quello che discende dalla Costituzione. Essa infatti non può disapplicare le leggi contrarie
alla Costituzione, né ha il potere attribuito ai giudici di sollevare in via incidentale la questione alla
Corte Costituzionale.
Il primato del diritto europeo si spinge invece fino al punto di vietare alle pubbliche
amministrazioni di dare esecuzione a un provvedimento la cui illegittimità sia stata affermata da una
sentenza passata in giudicato, allorché esso sia stato ritenuto contrario al diritto europeo dalla Corte di
giustizia.
In estrema sintesi, le fonti europee sono costituite anzitutto dai Trattati istitutivi delle Comunità,
più volte modificati e integrati.
In aggiunta ai Trattati vanno menzionate la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU).
I regolamenti hanno portata generale e sono direttamente vincolanti per gli Stati membri e per i
loro cittadini. Non richiedono alcuna forma di recepimento da parte degli Stati membri e non possono
essere derogati da questi ultimi. Inoltre costituiscono un parametro diretto per sindacare la legittimità
degli atti amministrativi.
Le direttive emanate dal Consiglio e dalla Commissione hanno per destinatari gli Stati e sono
vincolanti «per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi
nazionali in merito alla forma e ai mezzi». Esse dunque non sono, di regola, immediatamente
applicabili. Al pari dei regolamenti, devono contenere una motivazione.
Le direttive dettagliate contengono anche prescrizioni puntuali (autoapplicative). Una volta
scaduto il termine previsto per il recepimento da parte degli Stati membri, esplicano un’efficacia
diretta negli Stati inottemperanti e possono costituire un parametro che condiziona la legittimità degli
atti della pubblica amministrazione.
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Tra gli atti dell’Unione europea si collocano infine le decisioni che hanno un contenuto puntuale.
Esse applicano a fattispecie concrete norme generali e astratte previste da fonti europee. Sono
vincolanti per gli Stati membri, ma non hanno un’efficacia diretta.
Lo strumento specifico per il recepimento delle norme europee (ma anche delle sentenze della
Corte di giustizia) è costituito da due leggi annuali di iniziativa governativa: la legge europea che
modifica o abroga le disposizioni statali vigenti contrastanti con il diritto europeo; la legge di
delegazione europea, che attribuisce deleghe legislative al governo per il recepimento delle direttive
europee. Quest’ultima prevede che nelle materie non coperte da riserva di legge il recepimento possa
avvenire in via regolamentare e individua i principi fondamentali ai quali le regioni si devono attenere
per dare attuazione alle direttive europee nelle materie attribuite alla loro competenza legislativa
concorrente.
Con la l. n. 234/2012 sono stati rafforzati i meccanismi di raccordo tra parlamento e Unione
europea anche con riguardo alla fase per così dire ascendente del processo di adozione di tali atti e in
particolare di quelli normativi.

4. Fonti normative statali, riserva di legge, principio di legalità

La Costituzione pone una disciplina delle fonti statali di rango primario e cioè in estrema sintesi:
la legge, approvata dalle due Camere e promulgata dal presidente della Repubblica; il decreto legge,
che può essere adottato dal governo in casi straordinari di necessità e urgenza e che deve essere
convertito in legge dalle Camere entro 60 giorni; il decreto legislativo emanato dal governo sulla base
di una legge di delegazione che definisce l’oggetto e determina i principi e i criteri direttivi e il limite
di tempo entro il quale la delega può essere esercitata.
In seguito alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3/2001, come si è accennato, la
potestà legislativa statale non è più generale, ma può essere esercitata solo nelle materie
tassativamente indicate dall’art. 117, commi 2 e 3 (potestà legislativa esclusiva e concorrente).

 Le riserve di legge. Numerose disposizioni costituzionali prevedono che determinate materie


debbano essere disciplinate con legge (o con atti aventi forza di legge) escludendo o limitando il
ricorso a fonti secondarie e in particolare a regolamenti governativi. Viene cioè istituita una riserva di
competenza a favore del parlamento.
Poiché le leggi sono espressione della volontà popolare espressa in parlamento dai rappresentanti
eletti dai cittadini, i vincoli e le limitazioni ai diritti individuali in esse contenute sono assentiti dagli
stessi cittadini e non sono rimessi all’arbitrio degli organi del potere esecutivo. La legge promuove
inoltre l’eguaglianza dei cittadini nella titolarità di diritti e doveri attraverso due suoi caratteri tipici; la
generalità, cioè la sua riferibilità a classi più o meno ampie di destinatari; l’astrattezza, cioè la
suscettibilità a un’applicazione ripetuta a casi presenti e futuri, anziché una tantum.
Le riserve di legge sono di tre tipi: assoluta, rinforzata e relativa.
La riserva di legge assoluta, come per esempio quella in materia penale, richiede che la legge
ponga una disciplina completa ed esaustiva della materia ed esclude l’intervento di fonti
sublegislative. Essa ammette solo i regolamenti di stretta esecuzione, cioè di mero svolgimento di
precetti legislativi.
La riserva di legge rinforzata aggiunge al carattere dell’assolutezza il fatto che la Costituzione
pone direttamente taluni principi materiali o procedurali relativi alla disciplina della materia che
costituiscono un vincolo per il legislatore ordinario. Essa è prevista soprattutto in relazione ai diritti di
libertà.
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La riserva di legge relativa, come per esempio quella in materia tributaria, richiede che la legge
ponga prescrizioni di principio e consente l’emanazione di regolamenti di tipo esecutivo contenenti le
norme più di dettaglio che completano la disciplina della materia.
La qualificazione di una riserva di legge come assoluta o relativa dipende nei singoli casi da
un’interpretazione letterale e sistematica delle disposizioni costituzionali che pongono la riserva.
La riserva di legge va distinta, anche se ha in comune la funzione di garanzia dei soggetti privati
nei confronti dell’amministrazione, dal principio di legalità.

 Il principio di legalità. Il principio di legalità costituisce uno dei principi fondamentali del
diritto amministrativo. Esso è richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990, secondo il quale l’attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla legge. Il principio di legalità si ricava indirettamente
da disposizioni costituzionali. In particolare l’art. 113 Cost. presuppone che il giudice trovi nella legge
un parametro oggettivo rispetto al quale sindacare gli atti impugnati. Il principio di legalità riceve un
riconoscimento implicito anche nei Trattati europei.
Il principio di legalità assolve a una duplice funzione: di garanzia delle situazioni giuridiche
soggettive dei privati che possono essere incise dal potere amministrativo (legalità-garanzia); di
ancoraggio dell’azione amministrativa al principio democratico e agli orientamenti che emergono
all’interno del circuito politico-rappresentativo (legalità-indirizzo).
Il principio di legalità può essere inteso in due accezioni.
1. In un primo senso, esso va inteso come preferenza della legge: gli atti emanati dalla pubblica
amministrazione non possono porsi in contrasto con la legge. La legge costituisce cioè un limite
negativo all’attività dei poteri pubblici: ove travalicato, determina l’illegittimità degli atti emanati
(vizio di violazione della legge).
2. In un secondo senso, il principio di legalità richiede che il potere amministrativo trovi un
riferimento esplicito in una norma di legge. Quest’ultima costituisce il fondamento esclusivo dei
poteri dell’amministrazione: essa deve attribuire in modo espresso alla pubblica amministrazione la
titolarità del potere, disciplinandone modalità e contenuti.
La pubblica amministrazione non gode dunque di una legittimazione propria, ma i poteri da essa
esercitati devono trovare un ancoraggio nel circuito politico-rappresentativo, cioè nella legge, che
diventa, appunto, il fondamento e la misura del potere.
In assenza di una norma di conferimento del potere, l’amministrazione può far uso soltanto, come
si è visto, della propria capacità di diritto privato. Il potere esercitato in assenza di una norma di
conferimento comporta la nullità dell’atto emanato.
Il principio di legalità inteso nel secondo senso ha a sua volta una duplice dimensione: la legalità
formale (estrinseca o in senso debole) e la legalità sostanziale (intrinseca o in senso forte).
Per soddisfare la prima è sufficiente la semplice indicazione nella legge dell’apparato pubblico
competente a esercitare un potere normativo secondario o amministrativo che risulta dunque
indeterminato nei suoi contenuti. La seconda esige che la legge ponga, sia pur in termini generali, una
disciplina materiale del potere amministrativo, definendone i presupposti per l’esercizio, le modalità
procedurali e le altre sue caratteristiche essenziali. Come si vedrà trattando della distinzione tra poteri
discrezionali e vincolati, il massimo di legalità sostanziale si raggiunge nel caso di poteri
integralmente vincolati.
La seconda delle due concezioni appare più rispondente alla Costituzione e a una visione più
evoluta dello Stato di diritto. Ciò se non altro perché l’effettività della tutela giurisdizionale contro gli
atti dell’amministrazione presuppone che il giudice disponga di parametri legislativi che vadano al di
là della mera attribuzione di un potere indeterminato nei suoi elementi essenziali.
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La riserva di legge relativa e il principio di legalità inteso in senso sostanziale hanno alcuni
elementi in comune poiché assolvono all’analoga funzione garantistica di delimitare il potere
esecutivo.
La riserva di legge relativa concorre a definire i rapporti per così dire interni al sistema delle fonti
normative. Infatti, stabilisce condizioni e limiti al potere regolamentare del governo ed esige che la
legge disciplini almeno in parte la materia. Da questo punto di vista, anche per la riserva di legge si
pone la questione di quanta parte della disciplina di una determinata materia debba essere contenuta
direttamente nella fonte primaria e quanto spazio di intervento possa essere rimesso invece alla fonte
regolamentare, cioè al potere esecutivo.
Il principio di legalità prescrive che il potere dell’amministrazione, anche allorché si esplichi
nell’emanazione di norme secondarie, trovi un fondamento nella legge e qui vi è una sovrapposizione
con il principio della riserva di legge relativa.
Tuttavia il principio di legalità si riferisce, oltre che ai poteri normativi, soprattutto ai poteri e ai
provvedimenti amministrativi puntuali. Esso postula che il fondamento dei provvedimenti
amministrativi sia costituito anzitutto da norme di rango primario.
Inoltre, secondo la giurisprudenza amministrativa, le esigenze sottostanti al principio di legalità
possono essere soddisfatte anche da norme di rango secondario (regolamenti). Ciò vale, per esempio,
anche nel caso delle sanzioni amministrative, assimilabili per certi aspetti alle sanzioni penali
assoggettate al principio del nullum crimen sine lege e alla garanzia della riserva di legge assoluta. Il
carattere di generalità e astrattezza delle norme regolamentari garantisce comunque l’eguale
trattamento dei destinatari dell’azione amministrativa. In ogni caso per essere legittimo l’atto
amministrativo deve essere conforme anche alle norme secondarie.
Infine, i parametri che integrano il principio di legalità sono costituiti, oltre che dalle leggi e dai
regolamenti, anche dai principi generali del diritto amministrativo desumibili dalla Costituzione (per
esempio, nell’art. 97) o dal diritto europeo ed elaborati via via dalla giurisprudenza amministrativa. I
più importanti sono ora richiamati, come si vedrà, dall’art. 1 l. n. 241/1990.
Il principio di legalità richiede spesso all’amministrazione una valutazione articolata delle norme e
dei principi generali riferibili al caso concreto (la cosiddetta règle de droit). Essa può richiedere talora
alla pubblica amministrazione di accertare la conformità delle disposizioni nazionali con quelle
europee o di interpretare delle disposizioni interne nel modo più conforme ai principi costituzionali.

5. Le leggi provvedimento

Sintomo di una disfunzione nei rapporti tra parlamento e potere esecutivo sono le cosiddette leggi
provvedimento. Si tratta di leggi prive dei caratteri della generalità e astrattezza, che regolano cioè
situazioni concrete e talora un’unica fattispecie. Come esempi possono essere menzionate le leggi che
rilasciano, prorogano o revocano concessioni amministrative riferite a talune imprese, erogano
finanziamenti a una o più imprese.
La Costituzione non contiene un principio di riserva d’amministrazione che metta al riparo il
potere esecutivo per così dire da invasioni di campo ad opera del legislatore. Rientra dunque nella
discrezionalità del parlamento la scelta se utilizzare lo strumento della legge in luogo del
provvedimento amministrativo, oppure se attribuire all’amministrazione, in termini più astratti, il
potere corrispondente.
La prassi dell’amministrare per legge è stata stigmatizzata come una sorta di «legalità usurpata»
perché il parlamento occupa spazi che in base al principio della separazione dei poteri dovrebbero
essere riservati al potere esecutivo. Infatti, secondo il modello teorico che risale alle costituzioni
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

liberali, la fase della posizione delle norme che definiscono in astratto i poteri attribuiti
all’amministrazione (il cosiddetto «previo disporre») va tenuta distinta da quella dell’esercizio
concreto del potere in applicazione delle norme (il «concreto provvedere»): la prima involge
valutazioni di tipo politico e strategico in ordine alla necessità di dotare l’amministrazione degli
strumenti necessari per il perseguimento dei fini pubblici; la seconda richiede l’accertamento della
situazione di fatto e, se il potere è discrezionale, la valutazione degli interessi in gioco allo scopo di
individuare la soluzione più confacente.
La legge provvedimento scardina le garanzie offerte al privato dal regime dell’atto e del
procedimento (soprattutto in base alla l. n. 241/1990) come, in particolare, il diritto di partecipare al
procedimento, l’obbligo di motivazione e il diritto di proporre ricorso giurisdizionale innanzi al
giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo. La legge provvedimento
infatti può essere censurata soltanto sotto il profilo della costituzionalità con le forme, i limiti e i tempi
propri di questo tipo di giudizio innanzi alla Corte Costituzionale. Quest’ultima può dichiarare
incostituzionali le leggi provvedimento solo nei casi di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza.

6. I regolamenti governativi

La legge costituzionale n. 3/2001 ha introdotto il principio del parallelismo tra competenza


legislativa e competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato è cioè titolare di un potere regolamentare
esclusivamente nelle materie che l’art. 117 Cost. attribuisce alla sua competenza legislativa esclusiva.
Tale potere può essere delegato alle regioni. Nelle altre materie la potestà regolamentare spetta alle
regioni. Lo Stato può emanare regolamenti nelle materie devolute alla potestà legislativa regionale
concorrente o residuale solo nelle more dell’approvazione da parte delle regioni delle norme di loro
competenza e in caso di inerzia di queste ultime.
Una disciplina generale di rango primario è contenuta nell’art 17 l. n. 400/1988, che individua
cinque tipi di regolamenti governativi.
1. I regolamenti esecutivi pongono norme di dettaglio necessarie per l’applicazione concreta di
una legge. Non è necessario che la legge attribuisca di volta in volta al governo il potere di approvarli,
poiché la l. n. 400/1988 costituisce un fondamento legislativo generale sufficiente a soddisfare il
principio di legalità.
I regolamenti di questo tipo possono essere emanati per dare esecuzione a regolamenti europei e,
nei casi in cui la legge di delegazione europea lo autorizzi, anche a direttive.
2. I regolamenti per l’attuazione e l’integrazione possono essere emanati nelle materie non
coperte da riserva di legge assoluta nei casi in cui la legge si limiti a individuare i principi generali
della materia e autorizzi espressamente il governo a porre la disciplina di dettaglio.
3. I regolamenti indipendenti intervengono nelle materie non soggette a riserva di legge là dove
manchi una disciplina di rango primario.
4. I regolamenti di organizzazione costituiscono in realtà una sottospecie di regolamenti
esecutivi e di attuazione. Essi disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche
amministrazioni «secondo le disposizioni dettate dalla legge». Peraltro, già l’art. 97 Cost. pone una
riserva di legge relativa in materia di organizzazione degli uffici e dunque richiede una disciplina di
fonte primaria che ne delinei in termini generali l’assetto.
5. I regolamenti delegati o autorizzati sono previsti nelle materie non coperte da riserva
assoluta di legge e attuano la cosiddetta delegificazione. Sostituiscono cioè la disciplina posta da una
fonte primaria con una disciplina posta da una fonte secondaria. La loro entrata in vigore determina
infatti l’abrogazione delle norme vigenti contenute in fonti anche di rango primario.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

L’art. 17, comma 2, l. n. 400/1988 pone alcune condizioni: occorre una legge che autorizzi il
governo a emanarli; la stessa legge deve contenere le norme generali regolatrici della materia (la
delegificazione della materia non è dunque totale); essa deve altresì disporre l’abrogazione delle
norme vigenti rinviando il prodursi dell’effetto abrogativo al momento all’entrata vigore del
regolamento.
I regolamenti sin qui menzionati sono attribuiti alla competenza del Consiglio dei ministri.
6. I regolamenti ministeriali e interministeriali sono previsti dall’art. 17, comma 3, nelle
materie attribuite alla competenza di uno o più ministri. Questi regolamenti possono essere emanati
solo nei casi espressamente previsti dalla legge e sono gerarchicamente sottordinati ai regolamenti
governativi.
Sotto il profilo formale e procedurale i regolamenti recano la denominazione «regolamento», sono
adottati previo il parere del Consiglio di Stato, sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità e
alla registrazione della Corte dei conti e vengono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Il procedimento
per la loro adozione non prevede la partecipazione dei privati che anzi è espressamente esclusa. Non è
richiesta neppure la motivazione.
L’art. 17 l. n. 400/1988 non esaurisce la tipologia dei regolamenti governativi in quanto numerose
leggi speciali prevedono fattispecie che derogano alla disciplina generale. Una specie particolare di
fonti secondarie emersa nella prassi legislativa consiste nei regolamenti emanati con decreto del
presidente del Consiglio dei ministri.
Il regime giuridico dei regolamenti, che sono atti formalmente amministrativi anche se
sostanzialmente normativi, è in parte quello proprio dei provvedimenti amministrativi, in parte quello
proprio delle fonti del diritto.
Come tutti i provvedimenti amministrativi, ove contengano disposizioni contrarie alla legge i
regolamenti possono essere impugnati innanzi al giudice amministrativo e conseguentemente
annullati.
Inoltre, in base al principio della preferenza della legge, i regolamenti sono suscettibili di
disapplicazione da parte del giudice ordinario. Anche il giudice amministrativo può disapplicare una
norma regolamentare in almeno due ipotesi: quando il provvedimento impugnato viola un regolamento
a sua volta difforme dalla legge, oppure quando il provvedimento impugnato è conforme a un
regolamento che però contrasta con una legge. In entrambi i casi il giudice esercita il proprio sindacato
valutando la legittimità del provvedimento direttamente rispetto alla norma primaria: esso risulta nella
prima ipotesi legittimo (disapplicazione in malam partem in quanto conduce al rigetto del ricorso);
nella seconda ipotesi illegittimo (disapplicazione in bonam partem in quanto conduce
all’accoglimento del ricorso). In definitiva il giudice può disapplicare il regolamento anche quando
quest’ultimo non sia espressamente impugnato (disapplicazione normativa).
Dal secondo punto di vista, e cioè in quanto fonti del diritto, ai regolamenti si applicano le norme
generali sull’interpretazione contenute nell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile
(interpretazione letterale e logica; analogia legis e juris). A differenza delle fonti primarie, non
possono essere oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale.

7. I testi unici e i codici

La produzione normativa ha acquisito ormai una dimensione patologia. L’«inflazione legislativa»


e il disordine normativo sono dovuti anzitutto al cattivo funzionamento del parlamento riconducibile a
fattori collegati alla forma di governo, quali l’instabilità politica, la scarsa omogeneità e coesione delle
maggioranze di governo.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Le leggi amministrative organiche frutto di un disegno coerente sono poco frequenti. Prevalgono
invece gli interventi normativi estemporanei, limitati a modifiche puntuali, spesso mal coordinate, di
testi legislativi previgenti inseriti in leggi omnibus o in sede di conversione di decreti legge.
Lo stock di leggi amministrative vigenti si presenta come un insieme frastagliato, stratificato nel
tempo e poco stabile. Di rado le leggi successive abrogano in modo espresso le leggi precedenti.
Utilizzano tutt’al più la formula generica dell’abrogazione implicita delle riforme incompatibili.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso è cresciuta la consapevolezza della necessità di
promuovere un riordino della legislazione almeno nelle materie più rilevanti. Si è anzi cercato di
istituzionalizzare questo tipo di attività prevedendo a cadenza annuale un disegno di legge per la
semplificazione e il riassetto normativo da presentare al parlamento entro il 31 maggio.
Lo strumento di riordino più tradizionale è costituito dai testi unici che accorpano e
razionalizzano in un unico corpo normativo le disposizioni legislative vigenti che disciplinano una
determinata materia. Si distinguono usualmente i testi unici innovativi e i testi unici di mera
compilazione.
I primi sono emanati sulla base di un’autorizzazione legislativa che stabilisce i criteri del riordino
(cosiddetti testi unici autorizzati o delegati). Essi sono fonti del diritto in senso proprio in quanto
sono atti a innovare il diritto oggettivo e determinano l’abrogazione delle fonti legislative precedenti.
I secondi sono emanati su iniziativa autonoma del governo (testi unici «spontanei») e hanno
soltanto la funzione pratica di unificare in un unico testo le varie disposizioni vigenti, rendendo così
più semplice il loro reperimento.
I testi unici hanno interessato varie materie: enti locali, edilizia, documentazione amministrativa,
società a partecipazione pubblica.
Negli ultimi anni si è fatto ricorso soprattutto allo strumento del codice. Il codice si differenzia dal
testo unico per essere concepito, oltre che per coordinare i testi normativi, anche per innovare in modo
più esteso la disciplina e per essere incorporato in una fonte di rango primario.
I codici (detti anche codici di settore) hanno riordinato varie materie: contratti pubblici,
protezione civile, dati personali, beni culturali, ambiente.
Il parlamento ha approvato poi una serie di disposizioni volte ad abrogare le leggi più risalenti.
Una disposizione rubricata come Taglia leggi (art. 24 d.l. 25 giugno 2008, n. 112) ha abrogato circa
29.000 leggi approvate in epoche lontane e che avevano esaurito i loro effetti.
In realtà, le operazioni di riordino della legislazione non garantiscono la stabilità e l’organicità
della disciplina, esposta di frequente al rischio di interventi normativi successivi che introducono
integrazioni, deroghe o altre modifiche in modo poco coordinato.

8. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici

La Costituzione prevede tre fonti normative regionali: gli statuti, le leggi e i regolamenti.
Lo statuto delle regioni ordinarie determina la forma di governo e i principi fondamentali di
organizzazione e funzionamento. La sua approvazione avviene attraverso un procedimento aggravato
che prevede una duplice approvazione a maggioranza assoluta da parte del consiglio regionale e può
essere sottoposto a referendum popolare. Lo statuto delle regioni speciali è approvato con legge
costituzionale.
Le leggi regionali sono approvate dal consiglio regionale e promulgate dal presidente nelle
materie attribuite dall’art. 117 Cost. alla competenza concorrente e residuale delle regioni.
La giurisprudenza costituzionale ha peraltro ritenuto che anche nelle materie di competenza
regionale lo Stato possa, entro certi limiti, legiferare. Da un lato, infatti, alcune materie attribuite alla
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

competenza legislativa esclusiva statale hanno natura trasversale e consentono dunque alle leggi statali
di introdurre disposizioni che non possono essere derogate dalle regioni. Dall’altro lato, in base al
principio di sussidiarietà verticale, ove una funzione richieda di essere esercitata in modo unitario a
livello statale, anche la funzione legislativa viene per così dire attratta nell’ambito della competenza
statale.
I regolamenti regionali sono adottati dalla giunta regionale. Prima della legge costituzionale n.
3/2001 la potestà regolamentare era attribuita allo stesso consiglio regionale competente a emanare le
leggi e dunque essa si sovrapponeva allo strumento legislativo di fatto utilizzato con maggior
frequenza.
Una disciplina più puntuale dei rapporti tra leggi regionali e regolamenti è rimessa agli statuti.
Le fonti normative di comuni, province e città metropolitane sono essenzialmente gli statuti e
i regolamenti.
I primi sono menzionati nell’art. 114, comma 2, Cost., che qualifica gli enti locali come «enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo principi fissati dalla Costituzione». Viene
valorizzato così il principio autonomistico già enunciato nell’art. 5 Cost., secondo il quale la
Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali.
Sotto il profilo della gerarchia delle fonti, lo statuto ha un rango subprimario poiché si pone al di
sotto delle leggi statali di principio. L’art. 117, comma 2, lett. p), prevede infatti una competenza
legislativa esclusiva dello Stato limitata agli «organi di governo e funzioni fondamentali» degli enti
locali e sembra dunque precludere l’emanazione di una normativa legislativa di dettaglio non
derogabile dagli statuti.
I regolamenti degli enti locali sono emanati nelle materie di competenza degli enti locali nel
rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto e disciplinano l’organizzazione e il
funzionamento degli organi e degli uffici e l’esercizio e funzioni.
I regolamenti comunali, approvati di regola dal consiglio comunale, costituiscono una fonte di
utilizzo assai frequente. In base alle leggi vigenti, intervengono in materie importanti come
l’urbanistica, l’edilizia, il traffico, i rifiuti urbani, ecc.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, molti altri enti pubblici hanno acquisito una
maggiore autonomia organizzativa e funzionale, che include, di regola, anche la potestà di dotarsi di
un proprio statuto, nell’ambito dei principi stabiliti dalla legge, e di regolamenti di organizzazione e di
disciplina delle funzioni. Anche le cosiddette autorità amministrative indipendenti, istituite, come si
vedrà, per la vigilanza e regolazione di settori economici particolari, in base alle leggi istitutive, sono
titolari di poteri di autorganizzazione e normativi assai estesi.

9. Gli atti di regolazione aventi natura non normativa

A livello di teoria generale, la distinzione tra atti normativi e atti non normativi è fondata su criteri
formali e sostanziali che in realtà non sono univoci e rischiano di essere tautologici.
Propri degli atti normativi sarebbero i caratteri della generalità, dell’astrattezza e della novità,
intesa quest’ultima come attitudine della norma a sostituire, modificare o integrare le norme
preesistenti. Secondo altre impostazioni sarebbero rilevanti la finalizzazione a regolare in astratto
rapporti giuridici, più che a far fronte a bisogni pubblici concreti; la indeterminatezza dei destinatari
sia a priori sia a posteriori. La giurisprudenza appare oscillante e comunque tende a qualificare come
atti normativi atipici molti atti che dettano regole di comportamento a soggetti esterni
all’amministrazione (per esempio, alcuni tipi di circolare).

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Peraltro, nell’ambito del diritto amministrativo, la distinzione tra atti normativi e non normativi,
riferita soprattutto ai cosiddetti atti amministrativi generali ha scarsa rilevanza pratica poiché il loro
regime giuridico è in massima parte coincidente.
In sede di teoria generale si ritiene infatti che dalla qualificazione di un atto come normativo
derivino le seguenti conseguenze principali: si applica il principio jura novit curia, e pertanto sotto il
profilo probatorio la parte privata è sottratta all’onere di allegazione e di prova delle norme applicabili
al caso concreto, onere che vale soltanto per i fatti; è consentito il ricorso in Cassazione per
«violazione o falsa applicazione di norme di diritto»; valgono i criteri interpretativi posti dall’art. 12
delle preleggi.
Queste particolarità sfumano in gran parte nel contesto del diritto amministrativo se si considera il
regime sostanziale e processuale degli atti amministrativi, specie di quelli a contenuto generale.
Infatti, quanto al principio jura novit curia, nel processo amministrativo il ricorrente deve
specificare nell’atto introduttivo del giudizio i motivi di ricorso, cioè i profili specifici di vizio
sottoposti all’esame del giudice, e deve dunque indicare anche «gli articoli di legge o di regolamento
che si ritengono violati». Il giudice non può dunque individuare d’ufficio il parametro normativo in
base al quale operare il proprio sindacato.
Quanto alla ricorribilità in Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, l’art.
111, ultimo comma, Cost. consente il ricorso per Cassazione avverso le sentenze del giudice
amministrativo «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione». Pertanto non rileva a questi fini se il
provvedimento impugnato sia illegittimo per violazione di una norma giuridica in senso proprio o per
violazione di una prescrizione contenuta in un atto amministrativo generale o in una circolare. La
tutela offerta è infatti identica in entrambi i casi poiché è comunque esclusa la ricorribilità in
Cassazione avverso la sentenza del giudice amministrativo che offra un’interpretazione errata della
norma invocata come parametro di legittimità del provvedimento impugnato.
La «violazione di legge» è invece elencata, insieme all’eccesso di potere e all’incompetenza, tra i
vizi del provvedimento amministrativo indicati dall’art. 21-octies l. n. 241/1990. Tuttavia ciascuno dei
tre vizi assume un’identica rilevanza ai fini dell’annullabilità del provvedimento.
Quanto infine alle regole sull’interpretazione, per gli atti amministrativi vale la disciplina prevista
dal codice civile per i contratti, ma non tutte le disposizioni codicistiche sono ritenute compatibili con
il carattere unilaterale e autoritativo dei provvedimenti. Per esempio, non si ritengono applicabili i
principi dell’interpretazione delle clausole contro il loro autore, dell’interpretazione del contratto in
modo meno gravoso per l’obbligato incompatibili con il ruolo e la missione della pubblica
amministrazione.

10. Gli atti amministrativi generali

Di regola i provvedimenti amministrativi hanno un contenuto concreto e si rivolgono a uno o più


destinatari determinati (per esempio, una sanzione amministrativa irrogata al proprietario di un veicolo
in divieto di sosta). Fissano cioè autoritativamente il modo di essere di un rapporto giuridico tra
pubblica amministrazione e privato in relazione alla specifica situazione di fatto e, nel caso in cui si
tratti di un potere discrezionale, all’atteggiarsi degli interessi pubblici e privati in gioco.
Tuttavia di frequente la pubblica amministrazione ha il potere di emanare atti amministrativi
aventi contenuto generale che sono diretti alla cura concreta di interessi pubblici. Si rivolgono in modo
indifferenziato a categorie più o meno ampie di destinatari non necessariamente determinati nel
provvedimento, ma determinabili sulla base di esso.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

La tipologia degli atti amministrativi generali è variegata e le classificazioni proposte in dottrina


hanno per lo più una valenza descrittiva. Tra gli atti generali vengono fatti rientrare usualmente i piani,
i programmi, le direttive, gli atti di indirizzo, le linee guida, le autorizzazioni generali, i provvedimenti
che fissano in modo autoritativo i prezzi e le tariffe, ecc.
Alcuni di questi atti esprimono scelte attuative dell’indirizzo politico-amministrativo e per questo
motivo sono emanati dagli organi amministrativi ancorati in modo più diretto al circuito
rappresentativo. A livello statale la competenza è attribuita al governo al quale spetta il compito di
mantenere l’unità dell’indirizzo politico e amministrativo e di coordinare l’attività dei ministri o ai
ministri ai quali spetta definire i piani, i programmi e le direttive generali che trovano poi svolgimento
nell’attività dei dirigenti generali. A livello locale, i consigli comunali e provinciali approvano, tra gli
altri, i programmi, i piani territoriali e urbanistici, gli indirizzi alle aziende pubbliche e agli enti
dipendenti, ecc.
Gli atti amministrativi generali sono soggetti a un regime giuridico che deroga in parte a quello
proprio dei provvedimenti amministrativi e che ricalca quello degli atti normativi. Come i regolamenti,
non richiedono una motivazione (art. 3, comma 2, l. n. 241/1990); il procedimento per la loro
adozione non prevede la partecipazione dei soggetti privati (art. 13 l. n. 241/1990); l’attività
dell’amministrazione diretta alla loro emanazione è esclusa dal diritto di accesso (art. 24, comma 1,
lett. c), l. n. 241/1990). Per molti atti amministrativi generali sono previsti obblighi di pubblicazione e
ciò accentua la loro valenza regolatoria.
Di seguito verranno analizzati alcuni tipi di atti amministrativi generali.

11. a) I bandi di concorso e gli avvisi di gara

Tra gli atti amministrativi generali privi del carattere di astrattezza, dei quali è dunque certa la
natura non normativa, rientrano i bandi di concorso per l’assunzione di dipendenti nelle pubbliche
amministrazioni, oppure gli avvisi di gara per la scelta del contraente nei contratti stipulati dalle
pubbliche amministrazioni.
I bandi di concorso costituiscono l’atto di avvio del procedimento per la selezione di personale
delle pubbliche amministrazioni. Essi specificano i requisiti di partecipazione, le modalità e i termini
per la presentazione delle domande di partecipazione, lo svolgimento delle prove scritte e orali, i
criteri per l’attribuzione dei punteggi. Hanno contenuto concreto poiché esauriscono i loro effetti al
completamento della procedura, che avviene con l’approvazione della graduatoria finale.
Analogamente, i bandi o avvisi di gara disciplinati dal Codice dei contratti pubblici individuano
l’oggetto del contratto, il tipo di procedura, i criteri per l’ammissione e per la valutazione delle offerte.
Il bando costituisce la lex specialis della singola procedura di gara, vincola pertanto la stazione
appaltante e condiziona la legittimità degli atti adottati.

12. b) Gli atti di pianificazione e di programmazione

Una delle esigenze che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi è che esso avvenga in
modo coerente con una strategia complessiva. Pertanto in molte materie, a monte dell’emanazione di
provvedimenti puntuali o dell’erogazione di servizi, la legge prevede un’attività di pianificazione o
programmazione con la quale si prefigurano obiettivi, priorità, limiti, contingenti e altri criteri che
presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi e all’attività degli uffici pubblici.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Così, per esemplificare, il rilascio dei permessi di costruzione avviene nel rispetto dei piani
regolatori comunali; l’allocazione delle frequenze radiotelevisive avviene sulla base del piano
nazionale delle frequenze.
L’attività di pianificazione e di programmazione serve anche a creare i raccordi tra i diversi livelli
di governo secondo il metodo della cosiddetta pianificazione a cascata. Così, per esempio, in materia
sanitaria, l’attività di programmazione si articola nel piano sanitario nazionale e, a livello regionale,
nei piani sanitari regionali.
Molti atti di pianificazione e di programmazione pongono la questione se essi rilevino solo
all’interno dei rapporti organizzatori tra i diversi livelli di governo, oppure se, ed eventualmente entro
quali limiti, contengano prescrizioni direttamente vincolanti i soggetti privati e dunque assumano una
valenza regolatoria.
Inoltre, dal punto di vista della teoria della regolazione amministrativa, gli atti di pianificazione
sono considerati tra gli strumenti di intervento pubblico più intrusivi della libertà di iniziativa privata e
in taluni casi con effetti discorsivi della concorrenza.
Ancora, il modello della pianificazione a cascata e delle pianificazioni settoriali si è rivelato
spesso oneroso in termini di adempimenti e di difficile attuazione data anche la difficoltà operativa di
raccogliere e razionalizzare tutte le informazioni rilevanti necessarie per la formulazione dei contenuti
del piano. È accaduto così che molti atti di pianificazione e programmazione previsti per legge non
siano poi stati mai emanati, oppure si siano limitati a introdurre prescrizioni generiche.
Il piano regolatore generale costituisce lo strumento principale di governo del territorio da parte
dei comuni. Esso fu previsto in origine dalla legge urbanistica del 1942. È disciplinato oggi dalle leggi
regionali che in questa materia hanno adottato talora soluzioni originali e innovative.
Il piano regolatore suddivide anzitutto il territorio comunale in zone omogenee (zonizzazione) con
l’indicazione per ciascuna di esse delle attività insediabili, in base a criteri e parametri definiti in modo
uniforme a livello nazionale: attività edificatoria a fini abitativi, industriale, agricola, ecc.
Il piano individua poi le aree destinate a edifici e a infrastrutture pubbliche o a uso pubblico
(localizzazione). Se la localizzazione riguarda terreni di proprietà privata, essa determina un vincolo
di inedificabilità di durata quinquennale che decade se nel frattempo non interviene l’espropriazione. Il
piano regolatore è corredato dalle cosiddette norme tecniche di attuazione che specificano, in
particolare, le distanze, le altezze e le destinazioni d’uso degli edifici.
Il piano regolatore generale è approvato all’esito di un procedimento aperto alla partecipazione
dei privati. Infatti, il piano viene adottato dal comune e pubblicato per 30 giorni per consentire agli
interessati di prenderne visione e di presentare osservazioni. Viene poi sottoposto a una nuova delibera
del consiglio comunale che deve pronunciarsi sulle osservazioni presentate.
Il piano adottato è soggetto all’approvazione della regione. Questa esercita un controllo che non è
limitato alla mera legittimità, poiché può proporre modifiche al fine di una migliore tutela degli
interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la conformità al piano territoriale di coordinamento
provinciale. Le proposte di modifica sono comunicate al comune il quale con delibera del consiglio
comunale può approvare controdeduzioni delle quali la regione tiene conto in sede di approvazione
definitiva. La notizia dell’approvazione del piano regolatore viene data nel Bollettino Ufficiale della
regione. Il piano regolatore si qualifica, in definitiva, come atto complesso che prevede il
coinvolgimento del comune e della regione con poteri propri.
Poiché la procedura di approvazione richiede tempi lunghi, il piano regolatore, fin dalla sua
adozione formale, produce l’effetto di precludere il rilascio di permessi a costruire non compatibili con
le nuove prescrizioni (misure di salvaguardia).

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

È controversa la natura giuridica del piano regolatore. Si discute cioè se abbia natura
essenzialmente normativa (regolamentare), tale da condizionare soltanto l’adozione dei piani attuativi,
oppure di atto amministrativo generale tale da produrre effetti giuridici immediati in capo a destinatari
ben individuati (i proprietari dei terreni soggetti ai vincoli).
Prevale in giurisprudenza la tesi intermedia della natura mista dei piani regolatori che, «da un
lato, dispongono in via generale ed astratta in ordine al governo ed all’utilizzazione dell’intero
territorio comunale, e, dall’altro, contengono istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione,
destinazione e sistemazione di singole parti del comprensorio urbano» (Cons. St. Ad. Plen. 22
dicembre 1999, n. 24). Ne consegue che occorre valutare caso per caso i contenuti del piano allo scopo
di appurare se esso leda in via immediata posizioni giuridiche di singoli proprietari e pertanto sia
necessario impugnarlo nel termine perentorio di 60 giorni; oppure se abbia una valenza soltanto
programmatoria e che pertanto solo l’emanazione dei provvedimenti attuativi determini una lesione
delle situazioni giuridiche soggettive tale da rendere necessaria la proposizione di un ricorso
giurisdizionale.
In termini generali, la disciplina legislativa dei piani regolatori e dei piani attuativi ha natura
principalmente procedimentale e rimette alle amministrazioni amplissimi spazi di discrezionalità. I
piani producono una pluralità di effetti: di disciplina del potere di pianificazione a cascata; di
conformazione del territorio; di conformazione del diritto di proprietà correlato in particolare alle
prescrizioni che limitano le possibilità di edificazione riferite alle singole particelle immobiliari. Gli
effetti conformativi possono sconfinare in effetti sostanzialmente espropriativi e ablatori nei casi in
cui, come ha precisato la giurisprudenza costituzionale civile, essi determinino un vincolo particolare
permanente incidente su beni determinati, facendo così sorgere il problema della indennizzabilità.

13. c) Le ordinanze contingibili e urgenti

Gli Stati devono dotarsi di strumenti per far fronte a situazioni di emergenza imprevedibili che
possono mettere a rischio interessi fondamentali della comunità (incolumità pubblica, sanità, ecc.), ma
che non si prestano a essere classificate e disciplinate ex ante in modo puntuale a livello di fonti
primarie.
Con l’avvento della Costituzione questo tipo di potere, che soprattutto nel ventennio fascista venne
esercitato con molta frequenza, venne assorbito in gran parte dal potere attribuito al governo, nei casi
straordinari di necessita e d’urgenza, di emanare decreti legge (art. 77 Cost.) contenenti disposizioni di
rango primario.
A livello subcostituzionale, numerose disposizioni di legge attribuiscono ad autorità
amministrative il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti (nei settori dell’ordine pubblico,
della sanità, dell’ambiente, della protezione civile, ecc.) delle quali è discussa la natura amministrativa
o normativa.
Tra gli esempi più risalenti nel tempo vi è anzitutto il potere del prefetto, «nel caso di urgenza o
per grave necessità pubblica di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine
pubblico e della sicurezza pubblica».
Il sindaco, nella sua veste di ufficiale del governo, può adottare «provvedimenti contingibili e
urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la
sicurezza urbana» (art. 54, comma 4, Testo unico degli enti locali). Può adottarli anche in caso di
emergenze sanitarie o di igiene pubblica in ambito locale (art. 50, comma 5), nonché per ragioni di
sicurezza urbana, decoro, vivibilità, tranquillità e riposo dei residenti. Poteri analoghi sono attribuiti

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

alle regioni e al ministro della Salute nel caso di situazioni che interessino territori e comunità più
ampie.
Le leggi attributive di questo tipo di poteri si limitano di solito a individuare l’autorità
amministrativa competente ad adottarli, a descrivere in termini generali il presupposto che ne legittima
l’emanazione e a specificare il fine pubblico da perseguire. Pur rispettose del principio della legalità
formale, esse lasciano indeterminato il contenuto del potere e i destinatari del provvedimento.
L’autorità competente è dunque titolare di un’ampia discrezionalità, sia nel momento in cui
apprezza in concreto se la situazione di fatto giustifichi l’esercizio del potere di ordinanza, sia nel
momento in cui essa individua le misure specifiche da adottare.
Le ordinanze in questione operano in definitiva una deroga al principio della tipicità degli atti
amministrativi, in base al quale la norma attributiva del potere deve definirne in modo
sufficientemente preciso presupposti e contenuti, e sollevano dunque, un problema di compatibilità
con il principio di legalità inteso in senso sostanziale. Esse pongono inoltre vari problemi di
applicazione e di qualificazione.
È controverso in primo luogo se ed entro quali limiti i poteri di ordinanza devono rispettare le
leggi vigenti. La giurisprudenza anche costituzionale ha chiarito da tempo (sentenza 2 luglio 1956, n.
8) che, quanto meno, le ordinanze non possono essere emanate in contrasto con i principi generali
dell’ordinamento giuridico e con i principi fondamentali della Costituzione. Inoltre devono avere
un’efficacia limitata nel tempo e devono essere motivate e adeguatamente pubblicizzate.
Un limite interno è costituito dal principio di proporzionalità, e pertanto il contenuto delle
ordinanze deve essere calibrato in funzione dell’emergenza specifica che deve essere in concreto
fronteggiata.
Trattandosi di uno strumento extra ordinem, il potere di ordinanza ha un carattere residuale, nel
senso che non può essere esercitato in luogo di poteri tipici previsti dalle norme vigenti già idonei a far
fronte a quel tipo di situazione.
Quanto alla qualificazione giuridica, le ordinanze hanno di regola natura non normativa anche
quando si rivolgono a categorie più o meno ampie di destinatari. Esse si riferiscono infatti ad
accadimenti specifici e dunque hanno un carattere concreto e un’efficacia temporalmente circoscritta.
Tuttavia ove la situazione di emergenza tenda a protrarsi, le ordinanze acquistano inevitabilmente
anche un carattere di astrattezza e perdono quello della temporaneità. Specie nel caso delle ordinanze
emanate dai sindaci in materia di sicurezza o decoro urbano esse finiscono così per assumere
caratteristiche simili ai regolamenti comunali, intesi come atti normativi in senso proprio di rango
sublegislativo.
Le ordinanze contingibili e urgenti vanno distinte da altri atti amministrativi che hanno come
presupposto l’urgenza, ma il cui contenuto e i cui effetti sono predefiniti in tutto e per tutto dalla
norma attributiva del potere (i cosiddetti atti necessitati). Così, per esempio, nel caso in cui i lavori
relativi alla costruzione di un’opera pubblica siano dichiarati indifferibili e urgenti, l’autorità
competente può disporre l’occupazione d’urgenza dei terreni interessati prima ancora che si sia
concluso il procedimento di espropriazione. In materia di contratti pubblici, l’urgenza può consentire
una deroga al ricorso a procedure a evidenza pubblica e legittimare dunque la trattativa diretta con un
solo fornitore. In altri casi, l’urgenza può giustificare l’emanazione di un atto da parte di un organo
diverso da quello competente in via ordinaria che poi provvede alla ratifica.

14. d) Le direttive e gli atti di indirizzo

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Affini agli atti di pianificazione, in quanto espressione della funzione di indirizzo politico-
amministrativo, sono le direttive amministrative. Il loro contenuto non è costituito, come accade
tipicamente nel caso delle fonti primarie e secondarie, da prescrizioni puntuali e vincolanti in modo
assoluto, ma è limitato all’indicazione di fini e obiettivi da raggiungere, criteri di massima, mezzi per
raggiungere i fini. Esse dunque attribuiscono ai loro destinatari spazi di valutazione e di decisione più
o meno estesi in modo tale da poter tener conto in sede applicativa di tutte le circostanze del caso
concreto. Ove giustificato, i destinatari possono anche disattendere in tutto o in parte le indicazioni
contenute nella direttiva per ragioni che devono essere espresse nella motivazione.
Si distinguono generalmente le direttive che si inseriscono in rapporti interorganici e le direttive
che attengono a rapporti intersoggettivi. In questo secondo ambito esse possono assumere una
rilevanza regolatoria ove siano indirizzate a una pluralità di destinatari.
Nel contesto dei rapporti interorganici le direttive sono uno strumento attraverso il quale
l’organo sovraordinato orienta l’attività dell’organo o degli organi sottordinati. Laddove il rapporto
interorganico ha un carattere propriamente gerarchico (per esempio, il ministro dell’Interno nei
confronti dei prefetti) la direttiva può essere utilizzata talvolta in luogo dell’ordine gerarchico che ha
un contenuto puntuale ed è riferito a una situazione concreta.
Laddove invece l’organo sottordinato è investito di una competenza autonoma, cioè non inclusa
del tutto in quella dell’organo sovraordinato e dunque il rapporto non può essere qualificato come
propriamente gerarchico, la direttiva connota un rapporto organico, definito come rapporto di
direzione.
Un esempio tra i più rilevanti è, come si vedrà nel capitolo X, il rapporto di direzione che
intercorre tra ministro e dirigenti generali in base al principio della distinzione tra indirizzo politico-
amministrativo e attività di gestione. Al ministro è preclusa ogni competenza gestionale e
amministrativa diretta e può soltanto formulare «direttive generali per l’attività amministrativa e per la
gestione» ed esercitare un controllo ex post. I dirigenti generali sono titolari dei poteri di gestione e di
emanazione degli atti e provvedimenti, curano l’attuazione delle direttive generali impartite dal
ministro e a loro volta definiscono gli obiettivi che i dirigenti a loro sottoposti devono perseguire.
Le direttive che si inseriscono in rapporti intersoggettivi costituiscono uno strumento attraverso
il quale, per esempio, il ministro competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti
di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del
ministero di settore o della regione.
Storicamente, esse sono state previste di frequente dal legislatore nel campo del diritto
dell’economia.
In anni più recenti, con la riduzione della presenza pubblica diretta o indiretta nell’economia, lo
strumento della direttiva è stato utilizzato con minor frequenza.
Sono emersi però nella legislazione altri tipi di direttive a valenza spiccatamente regolatoria. Per
esempio, le autorità indipendenti preposte ai servizi di pubblica utilità possono emanare direttive nei
confronti delle imprese erogatrici dei servizi per definire i livelli generali di qualità di questi ultimi o
la contabilizzazione separata dei costi delle singole prestazioni. La violazione di queste direttive da
parte delle imprese destinatarie comporta l’applicazione di sanzioni amministrative.
Una questione discussa attiene alla cogenza della direttiva, cioè alle conseguenze che possono
derivare nel caso in cui il destinatario non si attenga alle indicazioni in essa contenute. Esse infatti
tendono a condizionare l’esercizio della discrezionalità dei destinatari i quali mantengono dunque un
ambito di valutazione autonoma. I poteri di reazione in capo all’organo o al soggetto sovraordinato
sono pertanto per lo più di tipo indiretto e si possono manifestare in interventi sull’organo

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

(scioglimento, mancato reincarico dei suoi titolari, ecc.). Di rado, essi includono poteri che incidono
sulla validità degli atti adottati (revoca, annullamento d’ufficio).

15. e) Le norme interne e le circolari

Le organizzazioni complesse si dotano di regole interne volte a disciplinare il funzionamento e i


raccordi tra le varie unità operative.
Nel diritto pubblico, il tema delle norme interne si ricollega storicamente alla ricostruzione
dell’ordinamento della pubblica amministrazione come ordinamento giuridico particolare (sezionale o
derivato), in qualche misura separato (e autonomo) dall’ordinamento generale statuale.
In base alla teoria della pluralità degli ordinamenti, ciò che avviene all’interno di ciascun
ordinamento particolare non ha sempre una rilevanza nell’ordinamento generale. Sono ammesse anche
norme derogatorie rispetto a quelle applicabili alla generalità dei consociati.
Gli ordinamenti sezionali si fondano su alcuni elementi costitutivi: la plurisoggettività, con la
predeterminazione dei soggetti inseriti nell’ordinamento settoriale sulla base di atti di ammissione, di
iscrizione o di attribuzione di status; un’organizzazione interna stabile con distribuzione di ruoli e di
competenze; la presenza di norme interne emanate dagli organi preposti all’ordinamento speciale e
rese effettive da un sistema di sanzioni anch’esse interne; l’istituzione di organi giustiziali speciali
(commissioni di disciplina, corti arbitrali sportive, ecc.).
Le norme interne possono assumere variamente la forma di regolamenti interni, di istruzioni o
ordini di servizio, direttive generali, ecc. La forma usuale di comunicazione delle norme interne è
costituita dalla circolare.
Il modello degli ordinamenti giuridici sezionali è stato via via superato in seguito all’entrata in
vigore della Costituzione che non ammette, se non entro limiti assai ristretti, la rinuncia o la
compressione dei diritti fondamentali.
Le norme interne e i comportamenti assunti sulla base di esse acquisiscono sempre più spesso una
rilevanza nell’ordinamento generale. Così, per esempio, l’illecito sportivo può comportare
l’applicazione non soltanto delle sanzioni speciali previste dalle norme interne all’ordinamento (per
esempio, nel gioco del calcio, l’ammonizione o l’espulsione dalla partita in seguito a un intervento
falloso), ma anche di quelle previste dall’ordinamento generale (per esempio, sanzioni penali relative
alle lesioni personali provocate a un giocatore).
Anche la giurisprudenza amministrativa in una visione sostanzialistica tende a valutare le norme
interne sotto il profilo della loro attitudine a incidere effettivamente su situazioni giuridiche
individuali, ritenendo così impugnabili una serie di atti organizzativi in precedenza sottratti al
sindacato giurisdizionale.
La distinzione tra norme interne e norme esterne si è venuta così attenuando. A ciò ha contribuito
anche la l. n. 241/1990, che aveva già introdotto un obbligo generalizzato di pubblicare, secondo le
modalità previste per le singole amministrazioni, «le direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e
ogni atto che dispone in generale sulla organizzazione, sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti
di una pubblica amministrazione ovvero nel quale si determina l’interpretazione di norme giuridiche o
si dettano disposizioni per l’applicazione di esse» (art. 26). Analogamente, in materia di sovvenzioni,
contributi e altri sussidi finanziari, le amministrazioni competenti erano obbligate a predeterminare e a
rendere pubblici i criteri e le modalità alle quali esse si devono attenere nell’individuare i singoli
beneficiari (art. 12). Oggi gli obblighi di pubblicità sono stati confermati ed estesi anche per finalità di
prevenzione della corruzione.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

In molti casi le norme interne sono pubblicate anche nella Gazzetta Ufficiale. Il Testo unico delle
disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del presidente della
Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana prevede infatti che i ministri
competenti possano richiedere la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle circolari esplicative dei
provvedimenti legislativi.
In definitiva, gli obblighi di pubblicazione contribuiscono a far assumere alle norme interne una
rilevanza esterna. Esse fanno sorgere nella generalità degli amministrati l’aspettativa che esse
costituiranno una guida dell’azione amministrativa finalizzata all’adozione di atti che producono
effetti diretti nei loro confronti.
Una rilevanza giuridica esterna indiretta delle norme interne è comunque da tempo acquisita.
Infatti, se l’amministrazione emana un provvedimento amministrativo violando una norma interna, il
giudice amministrativo può censurarlo sotto il profilo dell’eccesso di potere. Inoltre il dipendente che
viola le norme interne può essere passibile di sanzioni disciplinari.
Una specie sui generis di norme interne è costituita dalla prassi amministrativa, cioè dalla
condotta uniforme assunta nel tempo dagli uffici in relazione alle valutazioni compiute e alle decisioni
prese in casi analoghi. Il principio di coerenza che presiede all’esercizio dell’attività degli uffici fa sì
che i precedenti, una volta consolidatisi, acquistino in un certo senso una forza normativa. Infatti, essi
devono essere tenuti in debito conto in occasione di successivi casi di svolgimento dell’attività e
diventano vincolanti ove non sussistano ragioni particolari per discostarsene.
La prassi amministrativa non va comunque confusa con la consuetudine, che diventa vera e
propria fonte del diritto allorché si forma un convincimento generalizzato della sua obbligatorietà
(cosiddetta opinio juris sive necessitatis).
Secondo alcune ricostruzioni la prassi potrebbe anche essere promossa da un atto
dell’amministrazione che preannunci quale sarà il comportamento assunto dagli uffici, creando così un
legittimo affidamento nei confronti dei soggetti esterni all’amministrazione.
Il mezzo principale di comunicazione delle norme interne è costituito dalle circolari. Esse sono
uno strumento di orientamento e di guida degli uffici, che di fatto ha per questi un grado di cogenza
talora superiore alle norme giuridiche anche di rango primario.
Secondo una definizione ormai classica, le circolari sono «atti di un’autorità superiore che
stabiliscono in via generale ed astratta regole di condotta di autorità inferiori nel disbrigo degli affari
d’ufficio». Le circolari, dunque, secondo le elaborazioni teoriche più risalenti costituiscono degli atti
tipici aventi efficacia esclusivamente interna.
Le circolari acquistano in alcuni casi una dimensione intersoggettiva quando vengono indirizzate a
enti e soggetti esterni all’apparato che li emette.
Inoltre, il contenuto delle circolari può essere il più vario. Esse possono contenere infatti ordini,
direttive, interpretazioni di leggi e altri atti normativi, informazioni di ogni genere e tipo. Le circolari
perdono così il carattere di atto amministrativo tipico e diventano soltanto uno strumento di
comunicazione di atti ciascuno dei quali aventi una propria configurazione tipica.
Nella prassi sono emersi almeno tre tipi di circolari.
Le circolari interpretative mirano a rendere omogenea l’applicazione di nuove normative da
parte delle pubbliche amministrazioni. Queste circolari hanno un maggior grado di vincolatività
allorché vengono emanate nell’ambito di apparati strutturati in modo gerarchico. Al di fuori di questo
ambito, si ritiene generalmente che la circolare interpretativa valga soltanto come un’opinione più o
meno autorevole che però non è giuridicamente vincolante. Così, per esempio, una circolare
interpretativa del ministero dell’Interno che ha per oggetto norme applicate da enti autonomi quali gli

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

enti locali non impedisce a questi ultimi, anche se ciò accade di rado, di far propria una diversa
interpretazione.
È pacifico comunque che le circolari di questo tipo non vincolano l’interpretazione dei giudici.
Le circolari normative hanno la funzione di orientare l’esercizio del potere degli organi titolari di
poteri amministrativi. Esse dunque non hanno per oggetto l’interpretazione delle norme da applicare,
bensì gli spazi di valutazione discrezionale rimessi dalla legge all’autorità amministrativa. Attraverso
queste circolari, l’organo sovraordinato indirizza l’attività degli organi subordinati, specificando le
finalità, indicando priorità, fornendo criteri, ecc. Il destinatario deve tenerne conto in modo adeguato,
ma può anche disattenderle purché fornisca una motivazione congrua.
Le circolari informative sono emanate per diffondere all’interno dell’organizzazione notizie,
informazioni e messaggi di varia natura. In questo senso possono essere assimilate a bollettini e
newsletter specializzate e a diffusione limitata previste in molti contesti anche privati.
In conclusione, le circolari non danno origine a un fenomeno unitario. I contenuti, il grado di
cogenza e l’attitudine a produrre effetti giuridici nei rapporti interni ed esterni all’amministrazione
vanno verificati caso per caso in relazione al contesto organizzativo in cui ciascuna di esse si inserisce.

16. La soft law, le raccomandazioni e le linee guida

La funzione di regolazione a livello europeo e nazionale si è evoluta lungo direttrici che mettono
in crisi le classificazioni tradizionali in tema di fonti normative e atti amministrativi.
La linea direttrice principale è rappresentata dalla cosiddetta soft law. Questa consiste nell’insieme
di strumenti, spesso informali (comunicazioni, inviti, segnalazioni, note informative, auspici,
messaggi, ecc.), volti a influenzare i comportamenti delle autorità amministrative e dei soggetti
amministrati. La soft law mette in discussione il principio di tipicità delle fonti e degli atti
amministrativi con valenza regolatoria, che costituisce un’esplicazione del principio di legalità.
La componente autoritativo-prescrittiva di questo tipo di fonti appare recessiva rispetto a quella
per così dire persuasiva-sollecitatoria. Il grado di effettività della soft law dipende essenzialmente
dall’autorevolezza dell’organo da cui essa promana.
Può rientrare in questo contesto anche il modello che va sotto il nome di comply or explain. Il
regolatore, anziché imporre regole uguali per tutti, propone una soluzione ritenuta ottimale che il
destinatario può seguire, oppure decidere di non seguire. In questo caso deve esplicitare e rendere
pubbliche le ragioni per le quali ritiene di doversi discostare, assumendosi così le conseguenti
responsabilità. Questo sistema è stato applicato in molti Paesi e a livello europeo nei codici di
corporate governance che individuano l’assetto organizzativo di vertice delle società incluso il sistema
dei controlli interni.

17. La better regulation e altri modelli di regolazione

1. Negli ultimi anni molti Stati si sono dotati di strumenti che promuovono la qualità della
regolazione (better regulation) e che perseguono una pluralità di obiettivi: contenere
l’iperregolazione; ridurre gli oneri che gravano sulle stesse pubbliche amministrazioni e sui privati per
adeguarsi alle nuove normative; evitare che un’eccessiva quantità di regole comprometta la
competitività del sistema economico, ingessato da vincoli con effetti anticompetitivi che scoraggiano
gli investimenti, e incrementi indirettamente i costi sociali.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Uno degli strumenti è la cosiddetta analisi di impatto della regolazione (regulatory impact
analysis) introdotta nel nostro ordinamento alla fine degli anni Novanta con numerose disposizioni
legislative e applicative.
L’analisi di impatto della regolazione (AIR) obbliga le pubbliche amministrazioni, prima di
approvare un atto di regolazione, a individuare tutte le soluzioni astrattamente possibili valutando i
costi e i benefici di ciascuna di esse e a esplicitarle in un documento che correda la proposta di atto
normativo.
Una volta approvate, le norme devono essere sottoposte anche a una verifica ex post che accerti in
particolare i loro costi, le eventuali difficoltà applicative e i risultati effettivamente conseguiti rispetto
alle attese. A questo fine interviene la cosiddetta verifica dell’impatto della regolamentazione
(VIR). Essa consiste in una valutazione, operata dopo il primo biennio di applicazione delle norme e
periodicamente a cadenza biennale, che può sfociare nella proposta di perfezionare, modificare o
abrogare le norme emanate. A livello governativo, nell’ambito del dipartimento per gli Affari giuridici
e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri è stato istituito un ufficio di livello dirigenziale
generale per l’analisi e la verifica dell’impatto della regolamentazione (AVIR). Entro il 30 aprile di
ogni anno il presidente del Consiglio dei ministri presenta al parlamento una relazione sullo stato di
applicazione dell’AIR.
Si tratta per ora di strumenti ancora in fase di sperimentazione e che solo alcune autorità di
regolazione hanno applicato in modo puntuale.
2. Sempre in epoca recente sono stati sperimentati in vari paesi modelli di regolazione innovativi.
Va richiamato anzitutto un approccio più flessibile alla regolazione proposto da una corrente di
pensiero ispirata al cosiddetto «paternalismo libertario». Lo Stato, anziché obbligare i soggetti
privati a tenere determinati comportamenti, magari anche con la minaccia di sanzioni, individua
l’opzione che ritiene preferibile per tutelare i reali interessi degli stessi soggetti privati, senza però
eliminare la loro libertà di scelta. L’opzione proposta dai pubblici poteri si applica per così dire di
default, cioè in mancanza di una diversa manifestazione di volontà esplicita del soggetto interessato. È
stato dimostrato infatti, anche tramite esperimenti di psicologia comportamentale, che spesso i privati
soffrono di deficit o pregiudizi cognitivi e non sanno valutare correttamente i propri reali interessi di
lungo periodo. Per esempio, nelle scelte su come impiegare il reddito, tendono a sottovalutare i rischi
futuri e ad attribuire un valore maggiore a esigenze di consumo immediato. Pertanto spetta ai pubblici
poteri promuovere le misure ritenute migliori sotto il profilo dell’interesse individuale e collettivo
(spinta gentile). Così lo Stato potrebbe stabilire, come regola generale, una trattenuta dai salari dei
lavoratori finalizzata a garantire prestazioni previdenziali o sanitarie future, salva l’opzione espressa
del singolo lavoratore di far versare subito le somme in questione in busta paga (opt out); oppure
potrebbe prevedere come facoltativa la trattenuta nel senso che essa è operata solo in seguito a
un’adesione espressa (opt in).
Un altro modello innovativo è quello della regolazione cogestita dal regolatore pubblico e da
soggetti privati. Essa supera almeno in parte la contrapposizione fra eteroregolazione pubblica e
autoregolazione privata: la prima include le fonti normative e gli altri atti di regolazione attribuiti alla
competenza di soggetti pubblici e che pongono una disciplina autoritativa e unilaterale dei
comportamenti privati; la seconda si riferisce alle manifestazioni dell’autonomia negoziale volte a
porre una regolazione di attività private su basi consensuali.
Come forma minimale di temperamento dell’unilateralità del potere di regolazione, leggi recenti,
spesso di derivazione europea, hanno reso obbligatorie per i poteri normativi sublegislativi attribuiti
alle autorità amministrative indipendenti forme di partecipazione al procedimento dei soggetti
interessati. A questi ultimi è attribuito il diritto di presentare osservazioni sugli schemi di atti
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

normativi predisposti e successivamente approvati dall’autorità. Il modello di riferimento è quello


dell’Administrative Procedure Act del 1946, che prevede per gli atti normativi sublegislativi un
procedimento di notice and comment, articolato in una fase di pubblicazione di uno schema di atto
normativo e in una seconda fase di raccolta di osservazioni e proposte di modifiche da parte dei
soggetti interessati da valutare prima di emanare l’atto.
Negli Stati Uniti dal 1996 è previsto un modello avanzato di regulatory negotiation. L’agenzia di
regolazione competente, nei casi in cui ritenga percorribile utilmente questa via, può istituire un
comitato consultivo, composto da un numero limitato di esponenti di interessi rilevanti e coordinato da
un facilitator, che ha il compito di predisporre un testo normativo condiviso.
Un ulteriore modello di regolazione cogestita emerso anche in Italia è quello della cosiddetta
autoregolazione monitorata (audited self-regulation). Essa è prevista per esempio nel Testo unico
della finanza, per l’organizzazione e la gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari che
può essere svolta da società di gestione del mercato, cioè da soggetti privati. Questi hanno, tra gli altri,
il compito di predisporre un regolamento di disciplina del mercato. Il regolamento approvato dalla
società di gestione è poi sottoposto a un controllo pubblicistico da parte della CONSOB. Essa deve
accertare la conformità del regolamento alla disciplina europea e ai criteri di trasparenza del mercato,
dell’ordinato svolgimento delle negoziazioni e della tutela degli investitori. La CONSOB può
richiedere alla società di gestione di introdurre le modifiche necessarie.
3. Alcuni modelli di regolazione attenuano la distinzione tra provvedimenti di tipo individuale e
atti normativi. Così, per esempio, l’autorizzazione, definita come atto amministrativo che consente
l’esercizio di un’attività rimuovendo un limite all’esercizio di un diritto e che è emanata su istanza
della parte interessata, acquista una dimensione regolatoria nei casi in cui la legge preveda
l’emanazione da parte dell’autorità amministrativa delle cosiddette autorizzazioni generali.
Anche i procedimenti di tipo sanzionatorio, quelli cioè volti ad accertare la sussistenza di un
illecito amministrativo e ad applicare una sanzione nei confronti di un soggetto determinato, si aprono
in alcuni casi a una dimensione regolatoria. Così, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e
altre autorità di regolazione, allorché avviano procedimenti sanzionatori nei confronti di un’impresa
possono concluderli senza accertare l’illecito e irrogare la sanzione, accettando impegni. Questi ultimi
sono proposti dall’impresa stessa e consistono in obblighi comportamentali volti a rimuovere anche
per il futuro le ragioni sottostanti all’apertura del procedimento sanzionatorio. In alcuni casi essi sono
assunti a favore di soggetti terzi e pertanto questo tipo di impegni, avallati dall’Autorità sentiti in
contraddittorio tutti gli interessati, assumono una dimensione regolatoria.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 3. IL RAPPORTO GIURIDICO AMMINISTRATIVO

1. Le funzioni e l’attività amministrativa

La funzione di amministrazione attiva consiste nell’esercizio, attraverso moduli procedimentali,


dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge a un apparato pubblico al fine di curare, nella
concretezza dei rapporti con soggetti privati, l’interesse pubblico.
Può essere utile anticipare alcune nozioni generali. Tali nozioni costituiscono la trama all’interno
della quale possono essere inseriti i singoli elementi che connotano il regime della funzione di
amministrazione attiva. Esse consentono di inquadrare la relazione fondamentale tra potere e interesse
legittimo, cioè il rapporto giuridico amministrativo.

 Le funzioni. La legge, allorché istituisce un apparato amministrativo, ne delinea anzitutto le


funzioni correlate alle finalità di interesse pubblico.
I fini pubblici concorrono a definire la «missione» (mission) affidata a un soggetto pubblico che
consiste appunto nella cura di un determinato interesse pubblico individuato dalla legge. Quanto più i
fini sono definiti dalla legge in modo preciso e focalizzato, tanto più mirata può risultare l’azione
posta in essere dall’apparato e tanto più agevole è anche valutare ex post l’operato dell’ente.
Va anzitutto precisato che il termine «funzione» ha una molteplicità di significati. Per esempio,
esso può essere riferito ai vari tipi di attività posti in essere dagli apparati pubblici, e in questo senso si
distingue tra funzione di regolazione, di amministrazione attiva e di controllo.
Per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un
determinato apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. L’apparato è tenuto a
esercitarle per la cura in concreto dell’interesse pubblico (per esempio, l’ambiente o la privacy). A tal
fine la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la
titolarità di questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze).
Di regola le funzioni amministrative vengono elencate dalla legge in modo più o meno analitico o
al momento dell’istituzione di un apparato amministrativo, o in sede di modifica della legislazione di
settore e di riassetto complessivo degli apparati amministrativi.
Per esempio, la legge istitutiva delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, dopo
aver individuato le finalità generali della normativa (concorrenza ed efficienza, livelli adeguati di
qualità nei servizi, ecc.), elenca le funzioni attribuite alle autorità di regolazione: il controllo delle
condizioni e delle modalità di accesso all’attività per i gestori dei servizi, la definizione e
l’aggiornamento della tariffa base per i servizi erogati dai gestori, il controllo sullo svolgimento dei
servizi, ecc.
Un esempio di legge di riordino è il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 che ridefinì i rapporti tra centro
(Stato) e periferia (regioni ed enti locali) in una serie ampia di materie. Per ciascuna di esse venne
individuato un elenco tassativo di funzioni che continuano ad essere attribuite allo Stato. Tutte le
funzioni residue vennero trasferite alle regioni e agli enti locali, secondo il principio della sussidiarietà
verticale. Il decreto legislativo contiene anche elenchi di funzioni soppresse, cioè ritenute non più utili.
 L’attività amministrativa. L’esercizio delle funzioni comporta lo svolgimento da parte
dell’apparato pubblico di una varietà di attività materiali e giuridiche. L’attività amministrativa
consiste nell’insieme dei comportamenti e decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti
amministrativi) riconducibili a una pubblica amministrazione in relazione alle funzioni affidate ad essa
da una legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno scopo o fine pubblico, cioè alla cura di un
interesse pubblico e, per questo, anch’essa è dotata del carattere della doverosità.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le
pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento
espresso (art. 2, co. 1 l. n. 241/1990).

Il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità.


All’attività amministrativa fa riferimento l’art. 1 l. n. 241/1990 secondo il quale essa «persegue i
fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza».
Sotto il profilo giuridico, la nozione di attività amministrativa va tenuta distinta da quella di atto
o provvedimento. Essa si presta a qualificazioni che consentono di valutare in modo complessivo e
unitario l’operato delle singole amministrazioni in termini sia di legalità, sia soprattutto di efficienza,
efficacia ed economicità. A ciò provvedono gli organi di controllo come soprattutto la Corte dei conti,
preposta al controllo successivo sull’attività degli enti pubblici. L’atto amministrativo, che
costituisce un singolo episodio o un frammento dell’attività posta in essere da un apparato, si presta
invece a essere valutato soprattutto sotto i profili della conformità o meno all’ordinamento (legittimità)
e dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto l’interesse pubblico (opportunità o merito
amministrativo).
Una questione interpretativa è stabilire dove vada tracciata la linea di confine tra attività
amministrativa e attività di diritto privato in senso proprio della pubblica amministrazione (cui si
riferisce l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990). La giurisprudenza tende a ritenere che un apparato
pubblico svolge attività amministrativa «non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri
autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità
istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato».

2. Il potere, il provvedimento, il procedimento

L’attività amministrativa può esprimersi, oltre che in comportamenti materiali, nell’adozione di


atti o provvedimenti amministrativi che sono la manifestazione concreta dei poteri amministrativi
attribuiti dalla legge a un apparato pubblico.
In relazione a ciascuna funzione la legge individua in modo puntuale i poteri conferiti al singolo
apparato.

 Il potere. La nozione di potere può essere applicata, oltre che al potere amministrativo, al
potere legislativo, che consiste nel dettare norme generali e astratte che innovano l’ordinamento
giuridico; al potere giurisdizionale, che consiste nel risolvere una controversia con una sentenza
suscettibile di passare in giudicato; e, secondo alcune ricostruzioni, al potere negoziale, che consiste
nella possibilità di disporre autonomamente dei propri interessi.
Prima ancora che essere una categoria giuridica, il potere, è una categoria sociologica correlata
alle dinamiche dei gruppi organizzati. Taluni individui sono in grado di esercitare un’influenza
dominante su altri. Si parla anche di potere sociale che le collettività e i gruppi esercitano sui singoli
individui.
I poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità
giuridica speciale di diritto pubblico che si esprime nella possibilità di produrre, con una
manifestazione di volontà unilaterale, effetti giuridici nella sfera dei destinatari. Essa si aggiunge,
integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto comune, intesa quest’ultima come attitudine ad
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive previste dall’ordinamento,
di cui essi, al pari delle persone giuridiche private, sono dotati. Il potere amministrativo pone il suo
titolare in una posizione di sovraordinazione rispetto al soggetto nella cui sfera giuridica ricadono gli
effetti giuridici prodotti in seguito al suo esercizio.
Occorre distinguere tra potere in astratto e potere in concreto.
La legge definisce gli elementi costituivi di ciascun potere (potere in astratto). Ove
l’amministrazione agisca in mancanza di una norma attributiva del potere, si configura un difetto
assoluto di attribuzione che, determina la nullità del provvedimento. Il potere in astratto ha il carattere
dell’inesauribilità: fin tanto che resta in vigore la norma attributiva, esso si presta a essere esercitato in
una serie indeterminata di situazioni concrete.
Ogni qual volta poi si verifica una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella
norma di conferimento del potere, l’amministrazione è legittimata a esercitare il potere (potere in
concreto) e a provvedere alla cura dell’interesse pubblico. Oltre che legittimata, in virtù del principio
di doverosità che connota l’intera attività amministrativa, l’amministrazione è tenuta ad avviare un
procedimento che si conclude con l’emanazione di un atto o provvedimento idoneo a incidere sulla
sfera giuridica del soggetto destinatario e a disciplinare il rapporto con l’amministrazione.
Emerge così un elemento dinamico del potere, che dalla dimensione statica della norma si traduce
in un atto concreto produttivo di effetti giuridici.
L’unilateralità del potere non è un elemento indefettibile di quest’ultimo poiché esso può essere
fatto oggetto, a certe condizioni, di un accordo con il destinatario dell’atto e dunque può acquisire una
connotazione consensuale e bilaterale.

È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto
assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi
espressamente previsti dalla legge (art. 21-septies l. n. 241/1990).

 L’atto e il provvedimento. Nell’ordinamento italiano manca una definizione legislativa di


atto o provvedimento. Nel nostro ordinamento l’atto amministrativo costituisce una nozione elaborata
essenzialmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Alcune indicazioni si possono ricavare sia dalla Costituzione sia da alcune leggi generali.
In particolare, l’art. 113 Cost. stabilisce che «Contro gli atti della pubblica amministrazione è
sempre ammessa la tutela giurisdizionale»; la legge determina quali organi giurisdizionali abbiano il
potere di «annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla
legge». Queste disposizioni richiamano due aspetti del regime giuridico degli atti amministrativi: la
loro sottoposizione necessaria a un controllo giurisdizionale operato dal giudice amministrativo e dal
giudice ordinario; la loro annullabilità nei casi di accertata difformità dei medesimi rispetto alle norme
giuridiche.
Sul piano storico, la nozione di atto amministrativo emerse proprio allorché alla fine del XIX
secolo venne istituito in Italia un giudice speciale, distinto da quello ordinario. La IV Sezione del
Consiglio di Stato si pose subito il problema di quali caratteristiche dovessero avere gli atti delle
amministrazioni per poter essere sottoposti al controllo giurisdizionale e contribuì così, insieme con la
dottrina, a elaborare la teoria dell’atto amministrativo.
A questo riguardo, l’art. 26 Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato stabiliva che il giudice
amministrativo può decidere «sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di
legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa che abbiano per oggetto un interesse
d’individui o di enti morali giuridici». Questa disposizione processuale definiva le condizioni minime
29
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

per poter accedere alla tutela giurisdizionale amministrativa. Doveva trattarsi cioè di un atto emanato
da un’autorità amministrativa, ritenuto illegittimo (per incompetenza, eccesso di potere o violazione di
legge) che fosse lesivo di una situazione giuridica soggettiva del privato (il cosiddetto interesse
legittimo).
Altre disposizioni legislative rilevanti si ritrovano nella l. n. 241/1990 che pone una disciplina
generale del procedimento amministrativo e dell’atto amministrativo.
Anzitutto, l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990, stabilisce che la pubblica amministrazione agisce
di regola secondo le norme del diritto privato «nell’adozione di atti di natura non autoritativa». Questi
ultimi vanno dunque distinti dagli atti aventi natura autoritativa, per i quali, invece, vale il regime
pubblicistico proprio degli atti amministrativi.
Inoltre, l’art. 3 l. n. 241/1990 chiarisce che ogni provvedimento deve essere motivato, indicando
anche qui un elemento formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati.
Ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio del procedimento deve essere comunicato «ai soggetti nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti» e l’art. 21-bis
specifica che «il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei
confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata». Queste disposizioni
richiamano implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti e cioè l’autoritarietà (o
imperatività) intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti
giuridici nei confronti dei terzi. Viene posta, inoltre, la distinzione tra provvedimenti ampliativi e
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari privati.
Infine, l’art. 2, comma 1, l. n. 241/1990 pone in capo all’amministrazione il dovere di concludere
il procedimento «mediante l’adozione di un provvedimento espresso».
Come emerge dalle disposizioni costituzionali e legislative ora richiamate, i termini «atto» e
«provvedimento amministrativo» vengono utilizzati come sinonimi. In sede dottrinale, tuttavia, si è
cercato di porre una distinzione tra atto amministrativo e provvedimento amministrativo.
Il primo include ogni «dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta
da un soggetto dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa». Pertanto
costituiscono atti amministrativi, per esempio, quelli endoprocedimentali come i pareri, le valutazioni
tecniche, le proposte, le intimazioni, oppure le certificazioni che spesso hanno una funzione
strumentale o accessoria rispetto al provvedimento.
Il secondo costituisce la subcategoria più importante degli atti amministrativi, e può essere
definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere all’esito
di un procedimento, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo
unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo
(per esempio, un decreto di espropriazione, un’autorizzazione, una sanzione amministrativa, ecc.).

 Il procedimento. La l. n. 241/1990 richiama già nel titolo e poi in numerose disposizioni la


nozione di procedimento amministrativo.
L’esercizio del potere amministrativo avviene secondo il modulo del procedimento, cioè attraverso
una sequenza, individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di atti (a partire dalla comunicazione
di avvio del procedimento ai soggetti interessati) strumentali all’emanazione di un provvedimento
produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni.
La l. n. 241/1990 non fornisce una definizione di procedimento a differenza di quanto fanno le
omologhe leggi di altri ordinamenti.
Il procedimento costituisce, in realtà, la modalità ordinaria di esercizio di tutte le funzioni
pubbliche corrispondenti ai tre poteri dello Stato, in considerazione delle esigenze di accentuare la
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

trasparenza e di garantire meglio la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti che sono espressione
diretta dell’autorità dello Stato. La funzione legislativa assume la forma del procedimento legislativo;
la funzione giurisdizionale assume quella del processo; la funzione amministrativa si manifesta nel
procedimento amministrativo, che si conclude con un provvedimento dotato di «autoritarietà» o
«imperatività».

3. Il rapporto giuridico amministrativo

Solo in epoca relativamente recente ha trovato un riconoscimento, anche in giurisprudenza, la


nozione di rapporto giuridico amministrativo, cioè il rapporto che intercorre tra la pubblica
amministrazione che esercita un potere e il soggetto privato titolare di un interesse legittimo. Nella
visione tradizionale, infatti, lo Stato era concepito come un’entità collocata in una posizione di
sovraordinazione istituzionale rispetto ai soggetti privati relegati nella posizione di amministrati o di
sottoposti, tale da escludere la configurabilità di vincoli giuridici bilaterali.
Questa relazione giuridica bilaterale si sviluppa anzitutto nel procedimento amministrativo
finalizzato all’adozione di un provvedimento e continua talora, una volta emanato quest’ultimo, anche
successivamente dando origine a un rapporto di durata (per esempio, come si preciserà nel capitolo IV,
una concessione pluriennale per la gestione di un servizio pubblico).
La relazione tra potere amministrativo e interesse legittimo costituisce, in un’accezione ancora
generica, un rapporto giuridico.
Conviene muovere da alcuni concetti di base elaborati allo scopo di inquadrare la varietà dei
rapporti giuridici di diritto comune.
I rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti partendo dalla coppia diritto soggettivo-
obbligo, dei quali sono titolari rispettivamente il soggetto attivo e passivo del rapporto. Secondo le
definizioni tradizionali, il diritto soggettivo consiste in un potere di agire, riconosciuto e garantito
dall’ordinamento giuridico, per soddisfare un proprio interesse. Il diritto soggettivo include in sé una
serie di facoltà che ne costituiscono l’estrinsecazione (godimento della cosa, ecc.).
Alla titolarità del diritto soggettivo corrisponde, in capo al soggetto passivo del rapporto giuridico,
a seconda dei casi: un dovere generico e negativo di astensione, cioè di non interferire o turbare
l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti reali e della personalità); oppure un vero e proprio
obbligo giuridico, cioè il dovere specifico e positivo di porre in essere un determinato comportamento
o attività (prestazione) a favore del titolare del diritto (diritti relativi, come i diritti di credito). Ad esso
corrisponde dal lato del soggetto attivo una pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione.
Accanto alla coppia diritto soggettivo-obbligo, il diritto privato conosce altri tipi di situazioni
giuridiche che ci avvicinano alla dinamica del rapporto amministrativo, caratterizzato invece dalla
sussistenza di una relazione non paritaria tra la pubblica amministrazione che esercita il potere e il
titolare dell’interesse legittimo.
Per un verso, infatti, viene individuata una situazione giuridica soggettiva attiva, la potestà, che, a
differenza di quanto accade per il diritto soggettivo, è attribuita al singolo soggetto per il
soddisfacimento, anziché di un interesse proprio, di un interesse altrui. Si tratta cioè di un potere-
dovere, nel senso che il soggetto è tenuto a esercitarla secondo criteri non già di «pieno», bensì di
«prudente arbitrio», e nel farlo deve perseguire la finalità della cura dell’interesse altrui.
Per altro verso, una particolare categoria di diritti soggettivi è costituita dal diritto potestativo,
che consiste nel potere attribuito a un soggetto di produrre un effetto giuridico (costitutivo,
modificativo o estintivo) con una propria manifestazione unilaterale di volontà. Ciò sul presupposto di
una prevalenza attribuita dalla norma all’interesse del titolare del potere rispetto a quello del soggetto
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

che subisce una modificazione nella propria sfera giuridica. Quest’ultimo si trova in uno stato definito
di soggezione.
I casi più tipici di diritto potestativo nei rapporti interprivati sono il diritto di prelazione (art. 732
cod. civ. nei rapporti tra coeredi), il diritto recesso (art. 1373 cod. civ.), il diritto di chiedere la
comunione forzosa di un muro di confine (art. 874 cod. civ.).
Il diritto potestativo rappresenta una particolare modalità di produzione degli effetti giuridici nei
rapporti intersoggettivi che vale anche per il potere amministrativo.
La produzione degli effetti giuridici segue usualmente lo schema norma-fatto-effetto giuridico. Il
modo di operare di un siffatto schema, che è tipico delle relazioni ricostruibili in termini di diritto
soggettivo-obbligo, può essere così delineato. La norma definisce in termini astratti gli elementi della
fattispecie e l’effetto giuridico che ad essa si ricollega, ponendo direttamente essa stessa la disciplina
degli interessi in conflitto in relazione a un determinato bene. Tutte le volte che nella vita economica e
sociale si verifica un fatto concreto che è sussumibile nella fattispecie normativa si produce, in modo
automatico, un effetto giuridico.
Così, per esempio, l’art. 2043 cod. civ. individua gli elementi costitutivi del fatto illecito dal quale
consegue, come effetto giuridico, il sorgere dell’obbligo di risarcire il danno.

Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il
fatto a risarcire il danno.

Se il proprietario di un appartamento causa un danno all’appartamento sottostante in seguito alla


rottura di un tubo dell’acqua, questo accadimento, ove integri tutti gli elementi della fattispecie
dell’illecito extracontrattuale, fa sorgere in capo al proprietario in questione l’obbligo di risarcire il
danno.
Il diritto conosce anche un’altra tecnica di produzione degli effetti che segue lo schema norma-
fatto-potere-effetto giuridico. Questa sequenza si differenzia da quella sopra esaminata poiché viene
meno l’automatismo nella produzione dell’effetto giuridico. Infatti, il verificarsi di un fatto concreto
conforme alla norma attributiva del potere determina in capo a un soggetto (il titolare del potere) la
possibilità di produrre l’effetto giuridico individuato a livello di fattispecie normativa attraverso una
propria dichiarazione di volontà. Tra il fatto e l’effetto giuridico si interpone un elemento aggiuntivo,
cioè il potere, e il titolare di quest’ultimo è pienamente libero di decidere se provocare con una
propria manifestazione di volontà l’effetto giuridico tipizzato dalla norma. Questo è lo schema proprio
del diritto potestativo.
La dottrina processualcivilistica ha elaborato questa tipologia di situazione giuridica per
inquadrare la tutela giurisdizionale di tipo costitutivo che si distingue da quella di accertamento e di
condanna. Essa individua due tipologie di diritti potestativi.
Nei diritti potestativi stragiudiziali la produzione dell’effetto giuridico discende in modo diretto
dalla manifestazione di volontà del titolare del potere. Si tratta dunque di un potere unilaterale e
autosufficiente. Nei diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale il prodursi dell’effetto
giuridico presuppone, in aggiunta alla dichiarazione di volontà del titolare del potere, un previo
accertamento giudiziale che verifichi la sussistenza nella fattispecie concreta degli elementi previsti in
astratto a livello di fattispecie normativa.
Un esempio del primo tipo è il potere del datore di lavoro di licenziare un dipendente per giusta
causa o per giustificato motivo; esempi del secondo tipo sono il disconoscimento della paternità,
l’annullamento del contratto.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

A queste situazioni si riferisce l’art. 2908 cod. civ., dedicato alla tutela costitutiva, secondo il
quale, nei casi tassativi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può emanare una sentenza volta a
costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici con effetto tra le parti.
Anche per i diritti potestativi del primo tipo è prevista una fase di verifica giurisdizionale che,
tuttavia, presenta due caratteristiche: è posticipata rispetto alla produzione dell’effetto giuridico;
l’iniziativa processuale spetta a colui nella cui sfera giuridica si è prodotto l’effetto giuridico. Questa
seconda peculiarità determina un’inversione tra posizione sostanziale e posizione processuale delle
parti: il soggetto passivo nel rapporto sostanziale (che si trova in uno stato di soggezione) diventa parte
attiva (nella veste di attore) nel rapporto processuale ed è dunque gravato dell’onere di contestare il
prodursi dell’effetto giuridico che altrimenti si consolida; viceversa, il soggetto attivo nel rapporto
sostanziale (titolare del potere) diventa parte passiva nel rapporto processuale.
La seconda tipologia di diritti potestativi, grazie al preventivo accertamento giurisdizionale in
contraddittorio tra le parti, tutela meglio gli interessi di colui che subisce in modo passivo il prodursi
nella propria sfera giuridica dell’effetto tipico. Ha però come controindicazione la perdita di
immediatezza nella produzione dell’effetto giuridico dovuta al tempo necessario per lo svolgimento
del processo, determinando dunque un maggiore intralcio nei traffici giuridici. Spetta al legislatore
calibrare caso per caso quando prevalga l’uno o l’altro interesse.
Il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo stragiudiziale.
Infatti, la produzione dell’effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà
dell’amministrazione che emana il provvedimento. Inoltre, l’accertamento giurisdizionale può
avvenire solo in via posticipata, cioè in seguito alla proposizione di un ricorso innanzi al giudice
amministrativo su iniziativa del soggetto privato nella cui sfera giuridica l’atto impugnato ha prodotto
l’effetto.
Nel caso del potere amministrativo questo schema trova giustificazione nell’esigenza di garantire
la realizzazione immediata dell’interesse pubblico la cui cura è affidata all’amministrazione. Inoltre,
poiché essa, in base alla l. n. 241/1990, è tenuta a ispirare la propria attività a criteri di correttezza,
imparzialità e trasparenza e al principio di partecipazione, la posizione dei soggetti destinatari del
provvedimento trova già una qualche tutela nella fase procedimentale, cioè prima che l’effetto
giuridico si sia prodotto.
Sussistono tuttavia alcune specificità del potere amministrativo rispetto allo schema del diritto
potestativo e in particolare di quello stragiudiziale.
In primo luogo nei rapporti interprivati, il diritto potestativo stragiudiziale trova usualmente un
fondamento consensuale di tipo pattizio. Così, per esempio, nella compravendita il diritto di riscatto
può essere esercitato di regola solo se viene negozialmente convenuto.
Inoltre, nei rapporti privati la fattispecie normativa che disciplina il diritto potestativo determina in
modo rigido l’effetto giuridico che può essere prodotto attraverso la dichiarazione di volontà del
titolare del diritto. Il potere e l’effetto giuridico sono cioè interamente vincolati. Il solo ambito di
scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al se esercitarlo.
Il potere amministrativo, invece, per un verso, trova fondamento diretto nella legge, cioè nella
norma di conferimento del potere, piuttosto che nel consenso di colui nella cui sfera giuridica si
produce l’effetto, e senza che sussista, di regola, un rapporto giuridico preesistente tra il soggetto
privato e la pubblica amministrazione. In ogni caso, solo in senso figurato si può ritenere che la legge
abbia un fondamento in ultima analisi consensuale, per il fatto cioè che, nei regimi parlamentari, essa è
approvata dai rappresentanti degli elettori.
Per altro verso, il potere conferito dalla legge alla pubblica amministrazione non è sempre
integralmente vincolato. Anzi, di regola, all’amministrazione sono attribuiti margini più o meno ampi
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

di apprezzamento e valutazione discrezionale che, come si vedrà, possono determinare una


modulazione del contenuto e degli effetti del provvedimento emanato. La disciplina degli interessi in
conflitto in ordine ai beni non è posta, dunque, integralmente e direttamente dalla norma, ma
quest’ultima rimette almeno una parte della determinazione dell’assetto finale degli interessi al
soggetto titolare del potere. Ne consegue che in presenza di una contestazione relativa all’atto di
esercizio del potere, il giudice potrà operare un sindacato pieno soltanto sugli aspetti vincolati del
potere e non potrà sostituirsi al titolare del potere nell’operare la valutazione discrezionale. Accertato
che il potere è stato esercitato in modo non corretto, esso dovrà limitarsi ad annullare il provvedimento
rimettendo all’amministrazione il compito di emanare un nuovo atto, esente dai vizi riscontrati, che
operi una corretta composizione degli interessi.

4. La norma attributiva del potere

Conviene a questo punto trattare in modo più specifico il potere amministrativo esaminando
anzitutto la struttura della norma attributiva del potere.
Secondo una classificazione tradizionale, le norme che si riferiscono alla pubblica
amministrazione sono di due tipi. Le norme di azione disciplinano il potere amministrativo
nell’interesse esclusivo della pubblica amministrazione, hanno come scopo assicurare che
l’emanazione degli atti sia conforme a parametri predeterminati e non hanno una funzione di
protezione dell’interesse dei soggetti privati. Esse seguono lo schema norma-fatto-potere-effetto. Le
norme di relazione, invece, sono volte a regolare i rapporti intercorrenti tra l’amministrazione e i
soggetti privati, a garanzia anche di questi ultimi, definendo direttamente l’assetto degli interessi è
dirimendo i conflitti insorgenti tra cittadino e pubblica amministrazione. Esse seguono l’altro schema
norma-fatto-effetto, tipico, come si è visto, del diritto soggettivo.
La norma di azione segna i limiti per così dire interni al potere volti a guidare l’attività
dell’amministrazione, mentre la norma di relazione segna i limiti per così dire esterni al potere
tracciando i confini tra la sfera giuridica dei soggetti privati rispetto a quella dell’amministrazione. Ne
derivano una serie di conseguenze: sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, la distinzione tra
interesse legittimo, correlato alla prima, e diritto soggettivo, correlato alla seconda; sul piano delle
qualificazioni giuridiche, l’applicazione della categoria dell’illegittimità (annullabilità) o della illiceità
(nullità) agli atti che violano l’uno o l’altro tipo di norma; sul piano della giurisdizione, l’attribuzione
delle controversie al giudice amministrativo o al giudice ordinario e la definizione dei rispettivi poteri
(annullamento o disapplicazione). Mentre il giudice ordinario è chiamato ad accertare la conformità o
meno del fatto rispetto alla norma di relazione, il giudice amministrativo è chiamato ad accertare la
conformità, non solo del fatto, ma anche e soprattutto dell’atto rispetto alla norma di azione.
Una siffatta ricostruzione dicotomica delle norme appare ormai datata. Essa è legata a una
concezione dell’interesse legittimo, ormai superata, come una situazione giuridica oggettiva che riceve
tutt’al più una tutela indiretta e riflessa da parte dell’ordinamento e non è inquadrabile nello schema
del rapporto giuridico. Appare dunque preferibile utilizzare la formula più generica di norma
attributiva del potere.
In attuazione del principio di legalità, la norma attributiva del potere individua gli elementi
caratterizzanti il particolare potere (potere in astratto) attribuito a un apparato pubblico.
1. Quanto al soggetto competente, ogni potere amministrativo deve essere attribuito in modo
specifico dalla norma alla titolarità di uno e un solo soggetto e, ove l’organizzazione di questo prevede
una pluralità di organi, a uno e un solo organo. L’atto emanato da un soggetto o organo diverso da
quello previsto è affetto da vizio di incompetenza.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

2. Il fine pubblico costituisce un elemento che è specificato in modo espresso dalla norma di
conferimento del potere o che può essere ricavato implicitamente dalla legge che disciplina la
particolare materia. Il fine pubblico è eteroimposto dalla norma e orienta le scelte effettuate in
concreto dall’amministrazione. La violazione del vincolo del fine, cioè il perseguimento da parte del
provvedimento emanato di un fine diverso da quello previsto dalla norma, configura un vizio di
eccesso di potere per sviamento.
3. Un terzo elemento consiste nei presupposti e requisiti sostanziali in presenza dei quali il
potere sorge e può essere esercitato (fatti costitutivi del potere). La loro sussistenza in concreto è una
delle condizioni per l’esercizio legittimo del potere.
L’espressione «presupposti e requisiti di legge» è utilizzata dall’art. 19 l. n. 241/1990 ed è riferita
alle autorizzazioni cosiddette vincolate che sono sostituite dalla cosiddetta segnalazione certificata
d’inizio di attività (SCIA), cioè da una semplice comunicazione effettuata dal privato
all’amministrazione. Analogamente l’art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 241/1990 prevede che il
responsabile del procedimento valuti a fini istruttori «le condizioni di ammissibilità, i requisiti di
legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento».
Così, per fare un esempio, il Testo unico in materia edilizia, a proposito del permesso di costruire,
indica come presupposti la conformità del progetto alle previsioni degli strumenti urbanistici (in
particolare il piano regolatore), dei regolamenti edilizi e in generale della disciplina urbanistico-
edilizia vigente, nonché l’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o l’impegno a realizzarle.
Inoltre, prevede come requisito soggettivo che il permesso possa essere rilasciato a chi dimostri di
essere proprietario dell’immobile o di avere un altro titolo giuridico come, in particolare, un diritto di
superficie.
A proposito dei presupposti e dei requisiti sostanziali, la questione più delicata è costituita dal
grado di analiticità, pur nella necessaria astrattezza della fattispecie normativa. Infatti, a seconda delle
espressioni linguistiche utilizzate, il potere può risultare più o meno ampiamente vincolato o, per
converso, più o meno ampiamente discrezionale. Ciò lungo una linea continua delimitata da due
estremi.
Al primo estremo si collocano i poteri integralmente vincolati (norma-fatto-effetto giuridico). In
relazione ad essi l’amministrazione non ha altro compito se non quello di verificare se nella fattispecie
concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati dalla norma attributiva e, nel caso positivo, di
emanare il provvedimento che produce gli effetti anch’essi rigidamente predeterminati dalla norma
(per esempio, il rilascio di un permesso a costruire in conformità alle prescrizioni del piano regolatore
e del regolamento edilizio).
Al secondo estremo si pongono i poteri sostanzialmente «in bianco» (per esempio, le ordinanze
di necessità e di urgenza) che rimettono al soggetto titolare del potere spazi molto ampi di
apprezzamento, di valutazione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie
per tutelare un determinato interesse pubblico.
La discrezionalità emerge allorché la norma autorizza ma non obbliga l’amministrazione a
emanare un certo provvedimento. Ciò accade anzitutto quando il legislatore prevede che
l’amministrazione «può» oppure «ha la facoltà di» emanare un determinato atto; oppure usa aggettivi
come «opportuno», «indispensabile», «conveniente» riferiti a una misura o al contenuto di un
provvedimento, rinviando così a valutazioni necessariamente soggettive dell’interesse pubblico.
In generale, gli spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere sono tanto più ampi quanto più
la norma fa ricorso ai «concetti giuridici indeterminati». La norma definisce cioè i presupposti e i
requisiti con formule linguistiche tali da non consentire di accertare in modo univoco il loro verificarsi
in concreto. Come esempi possono valere alcune espressioni utilizzate dal legislatore: un interesse
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

storico-artistico «particolarmente rilevante» che legittima l’imposizione del regime vincolistico;


oppure un’intesa tra imprese che falsi il gioco della concorrenza «in maniera consistente» il cui
accertamento comporta l’applicazione di una sanzione (art. 2 legge antitrust n. 287/1990); il carattere
«anomalo» di un’offerta presentata nell’ambito di una procedura di gara per l’aggiudicazione di un
contratto che conduce all’esclusione della medesima.
I concetti giuridici indeterminati possono essere di due categorie: i concetti empirici o
descrittivi che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto (come, per esempio, la
«pericolosità» di un edificio lesionato); i concetti normativi o di valore, che contengono un elemento
di soggettività (come, per esempio, un film o uno spettacolo «adatto» al pubblico dei minori). I primi
involgono giudizi a carattere tecnico-scientifico e coprono l’area delle valutazioni tecniche; i secondi
involgono giudizi di valore e coprono l’area della discrezionalità amministrativa.
In generale, si ritiene che i concetti giuridici indeterminati presentino un «nocciolo» di certezza,
che include i casi che rientrano o meno nel parametro normativo, e un «alone» di incertezza, con
riferimento alle situazioni limite nelle quali la sussunzione del caso concreto nel parametro normativo
è incerta e opinabile.
Un esempio è quello di un regolamento di polizia che vietava agli zingari di viaggiare «in orde»,
senza che la norma ponesse alcun parametro numerico certo.
L’applicazione di una siffatta norma si scontra dunque con la difficoltà di individuare in concreto i
casi che possono essere in essa sussunti. Se è certo che un nucleo familiare di tre o quattro persone non
integra mai la fattispecie (certezza negativa), è altrettanto certo che un gruppo di cinquanta o più
persone la integra sempre (certezza positiva). Il concetto giuridico indeterminato presenta, quindi, un
doppio limite negativo e positivo.
La difficoltà sta infatti nell’individuare con precisione dove tali limiti vadano tracciati e, dunque,
quando si trapassa dal giudizio certo a quello problematico e opinabile.
Sorge così il problema di chi abbia il «diritto di ultima decisione», e cioè fino a che punto le
valutazioni compiute dall’amministrazione in sede di interpretazione e di applicazione dei concetti
giuridici indeterminati possano essere sindacate dal giudice.
La tecnica normativa dei concetti giuridici indeterminati, nei limiti in cui concedono
all’amministrazione spazi di valutazione e di decisione non sindacabili, comporta una caduta del
valore della legalità sostanziale. Invero, in un mondo ideale che realizzi al massimo grado lo Stato di
diritto, i poteri amministrativi dovrebbero essere integralmente vincolati.
Tuttavia un siffatto ideale è irraggiungibile perché presuppone l’onniscienza del legislatore e la
sua capacità di intervenire in modo tempestivo ad aggiornare le norme vigenti. In realtà, il parlamento
è sempre meno in grado di porre un sistema completo e preciso di regole che definiscano per ogni
possibile evento futuro l’assetto degli interessi.
Anche in ambito civilistico, del resto, i codici hanno abbandonato da tempo il metodo casistico,
caratterizzato dalla definizione minuziosa delle fattispecie per adottare quello delle clausole generali.
Un siffatto metodo si è rivelato comunque incapace di disciplinare la varietà pressoché infinita delle
fattispecie che si presentano nella vita economica e sociale.
4. La norma attributiva del potere prescrive anche i requisiti formali degli atti (di regola la
forma scritta) e le modalità di esercizio del potere.
Va anticipato che, ai sensi dell’art. 21-octies l. n. 241/1990, l’inosservanza delle norme sul
procedimento o sulla forma degli atti non determina in modo automatico l’annullabilità del
provvedimento per violazione di legge, essendo richiesto di valutare se essa abbia influito o meno sul
contenuto dispositivo del provvedimento adottato in concreto. Se quest’ultimo, in assenza di
violazione, non avrebbe potuto essere comunque diverso, il provvedimento adottato non è annullabile.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

5. La norma di conferimento del potere può disciplinare anche l’elemento temporale


dell’esercizio del potere e ciò sotto più profili.
Può in primo luogo individuare un termine per l’avvio dei procedimenti d’ufficio. Così, per
esempio, nei procedimenti sanzionatori, una volta accertata una violazione, l’amministrazione entro 90
giorni deve notificare l’atto di contestazione e il mancato rispetto del termine determina l’estinzione
dell’obbligazione di pagare la somma dovuta.
In secondo luogo deve specificare il termine massimo entro il quale, una volta avviato il
procedimento, l’amministrazione deve emanare il provvedimento conclusivo. L’art. 21 l. n. 241/1990
pone un sistema di regole completo volto a individuare per tutti i tipi di procedimenti il termine in
questione, attuando così il principio di certezza del tempo dell’agire della pubblica amministrazione.
In terzo luogo, le leggi amministrative scandiscono talora anche i tempi per l’adozione degli atti
endoprocedimentali. Così, per esempio, la l. n. 241/1990 prevede che gli organi consultivi
dell’amministrazione debbano rendere i pareri richiesti entro un termine di 20 giorni (art. 16) e che gli
organi tecnici debbano esprimere le valutazioni richieste entro 90 giorni (art. 17). Gran parte dei
termini in questione ha, come si vedrà, natura ordinatoria, poiché la loro violazione non inficia la
legittimità degli atti adottati tardivamente, ma può giustificare altre misure, come, per esempio, un
intervento sostitutivo o una sanzione disciplinare. L’art. 17-bis l. n. 241/1990 introdotto dall’art. 3 l.
n. 124/2015 prevede un meccanismo inedito di silenzio-assenso nei rapporti tra pubbliche
amministrazioni competenti a esprimere concerti, nulla osta o altri atti di assenso.
6. Infine la norma attributiva del potere individua in termini astratti gli effetti giuridici che l’atto
amministrativo può produrre una volta emanato all’esito del procedimento.
In generale, i provvedimenti in quanto manifestazione del potere hanno l’attitudine a produrre
effetti costitutivi, cioè possono costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche di cui sono
titolari i destinatari dei provvedimenti.
Sono esempi di provvedimenti con effetti costitutivi in senso stretto le concessioni amministrative
per l’uso esclusivo di un bene demaniale che attribuiscono in capo a un soggetto privato un diritto
soggettivo a svolgere una certa attività (per esempio per l’installazione e la gestione di uno
stabilimento balneare).
Sono esempi di provvedimenti con effetti modificativi la sanzione disciplinare di sospensione
dall’iscrizione a un albo professionale che impedisce per un tempo determinato lo svolgimento
dell’attività.
L’esempio paradigmatico di provvedimento con effetti estintivi è il decreto di espropriazione che
fa venir meno in capo al proprietario del bene immobile il diritto di proprietà la cui titolarità viene
trasferita alla pubblica amministrazione o ad altro soggetto in favore del quale il procedimento di
espropriazione è stato attivato.

5. Il potere discrezionale

La discrezionalità, che può essere riferita, oltre che al potere, anche all’attività e al provvedimento
amministrativo, costituisce la nozione forse più caratteristica del diritto amministrativo.

 La discrezionalità. Nel diritto amministrativo la discrezionalità connota l’essenza stessa


dell’amministrare, cioè della cura in concreto degli interessi pubblici. Tale attività presuppone che
l’apparato titolare del potere abbia la possibilità di scegliere la soluzione migliore nel caso concreto.

37
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Emerge qui una tensione quasi insanabile con il principio di legalità inteso in senso sostanziale,
che nella sua accezione più estrema porterebbe attribuire all’amministrazione, come si è detto, soltanto
poteri vincolati.
Ma ciò, oltre ad essere impossibile, sarebbe inopportuno. Infatti, le situazioni concrete nelle quali
l’amministrazione deve intervenire hanno un grado ineliminabile di contingenza e di imprevedibilità
tale da richiedere nel decisore un qualche spazio di adattabilità della misura da disporre.
Infatti, allorché il potere è integralmente vincolato, a rigore, anche i soggetti privati sono in grado
di valutare da soli se una certa attività o un certo comportamento sono ad essi consentiti. Si spiega così
perché l’art. 19 l. n. 241/1990 abbia introdotto per molte autorizzazioni vincolate («il cui rilascio
dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge») un regime di
liberalizzazione. La disposizione infatti sostituisce il regime del controllo preventivo operato
dall’amministrazione nell’ambito del procedimento autorizzatorio avviato su istanza di parte con il
regime della segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA): il privato autovaluta se ha titolo per
svolgere una certa attività, la intraprende sulla base di una semplice comunicazione
all’amministrazione, mentre il controllo da parte di quest’ultima sulla conformità dell’attività alla
legge può avvenire soltanto a posteriori.
Infine, se il potere è vincolato, la stessa funzione dell’atto amministrativo cambia. Infatti si
potrebbe sostenere che, allorché nella vita economica e sociale si verifica un accadimento che integra
gli estremi della norma di conferimento del potere vincolato, l’effetto giuridico sorge
automaticamente, cioè senza l’intermediazione necessaria di un atto amministrativo che accerti la
sussumibilità della fattispecie concreta nella fattispecie normativa astratta e determini il prodursi
dell’effetto giuridico. L’atto amministrativo avrebbe dunque natura meramente dichiarativa, cioè
ricognitiva di un effetto già prodottosi, e non costitutiva.
Questa ricostruzione è accolta nel settore tributario nel quale si ritiene che l’obbligazione tributaria
sorge a prescindere dall’emanazione di un atto di accertamento del tributo da parte
dell’amministrazione finanziaria.
Se dunque, per le ragioni sin qui esposte, i veri poteri sono quelli discrezionali, sorge il problema
teorico e pratico di come conciliare due esigenze: attribuire all’amministrazione quel tanto di
discrezionalità che consente la flessibilità necessaria per gestire i problemi della collettività; evitare
che la discrezionalità si traduca in arbitrio.
E su questo punto emerge una differenza rispetto al diritto privato nel quale l’autonomia negoziale
(art. 1322 cod. civ.) è espressione della libertà dei privati di provvedere alla cura dei propri interessi.
Ove si mantengano nei limiti del lecito, le scelte dei privati non sono sottoposte a regole e principi
particolari. Basta cioè che il soggetto privato sia pienamente capace (art. 1425 cod. civ.) e che la sua
volontà non sia affetta da vizi (art. 1427 cod. civ.). Il fine concretamente perseguito dal soggetto
privato è relegato alla sfera interna di quest’ultimo ed è insindacabile. Se la scelta operata è
irragionevole, arbitraria, o anche contraria ai suoi veri interessi, ciò non inficia di per sé il negozio
posto in essere.
L’amministrazione titolare di un potere invece ha un ambito di libertà più ristretto, in quanto la
scelta tra una pluralità di soluzioni deve avvenire, non solo nel rispetto dei limiti per così dire esterni
posti dalla norma di conferimento del potere e dei principi generali dell’azione amministrativa, ma
anche nel rispetto di un vincolo per così dire interno consistente nel dovere di perseguire il fine
pubblico. Queste regole sono ora enunciate nell’art. 1 l. n. 241/1990, secondo il quale, come si è visto,
l’attività amministrativa «persegue i fini determinati dalla legge» ed è retta, in particolare, dai criteri
«di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza».

38
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il giudice ha sviluppato tecniche di sindacato in applicazione di principi quali la ragionevolezza, la


proporzionalità, la par condicio, la tutela del legittimo affidamento.
La discrezionalità amministrativa non trova una definizione legislativa, anche se è richiamata
direttamente o indirettamente in alcune disposizioni generali. Così, l’art. 11 l. n. 241/1990, nel
disciplinare gli accordi tra l’amministrazione procedente e i privati, specifica che essi hanno per
oggetto «il contenuto discrezionale del provvedimento». L’art. 21-octies pone un limite
all’annullabilità del provvedimento affetto da vizi del procedimento o della forma allorché esso abbia
«natura vincolata» (comma 2).
Anche il Codice del processo amministrativo, a proposito del giudizio avverso il silenzio della
pubblica amministrazione, chiarisce che il giudice può conoscere la fondatezza della pretesa del
ricorrente a ottenere un provvedimento favorevole richiesto «solo quando si tratta di attività vincolata
o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità». Nell’ambito del
giudizio di legittimità infatti il giudice non può mai sostituire le proprie valutazioni di merito a quelle
dell’amministrazione.
Volendo porre una definizione di discrezionalità amministrativa, essa consiste nel margine di
scelta che la norma rimette all’amministrazione affinché essa possa individuare, tra quelle consentite,
la soluzione migliore per curare nel caso concreto l’interesse pubblico.
La scelta avviene attraverso una valutazione comparativa (ponderazione) degli interessi pubblici e
privati rilevanti nella fattispecie, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale. Tra di essi vi è
anzitutto il cosiddetto interesse pubblico primario (corrispondente al fine pubblico) individuato dalla
norma di conferimento del potere e affidato alla cura dell’amministrazione titolare del potere. Compito
di quest’ultima è massimizzare la realizzazione dell’interesse primario.
Tuttavia, poiché gli interessi non vivono isolati, l’interesse primario deve essere messo a confronto
e valutato alla luce dei cosiddetti interessi secondari rilevanti.
In alcuni casi essi sono individuati direttamente dalle norme che disciplinano il particolare tipo di
procedimento, come, per esempio, quando la legge prescrive che debba essere acquisito il parere di
un’amministrazione diversa da quella procedente. Altri emergono nel corso dell’istruttoria.
Tra gli interessi secondari si annoverano non soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal
provvedimento, ma anche gli interessi dei privati. I soggetti privati possono partecipare al
procedimento proprio allo scopo di rappresentare il proprio punto di vista con la presentazione di
memorie e di documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare (art. 10 l. n. 241/1990).
Così, per esempio, per elaborare e approvare il progetto di un’autostrada o di una tratta ferroviaria,
l’amministrazione deve tener conto, oltre che dell’interesse primario alla viabilità, anche di quello
relativo alla tutela dell’ambiente (attraverso la cosiddetta valutazione d’impatto ambientale), agli oneri
a carico della finanza pubblica, alla salvaguardia di attività industriali già insediate, agli interessi delle
comunità locali che dalla realizzazione dell’opera pubblica ritraggono soltanto svantaggi (da attenuare
con misure compensative), ecc.
In definitiva, la scelta operata dall’amministrazione deve contemperare l’esigenza di massimizzare
l’interesse pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi
secondari incisi dal provvedimento. L’amministrazione deve dar conto dell’attività di ponderazione
degli interessi nella motivazione del provvedimento, e ciò al fine di garantire la trasparenza nel
processo decisionale.
La discrezionalità amministrativa incide su quattro elementi logicamente distinti:
1. sull’an, cioè sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ed emanare il
provvedimento. Si pensi, per esempio, alla decisione se annullare d’ufficio un provvedimento
illegittimo ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990;
39
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

2. sul quid, cioè sul contenuto del provvedimento. Si pensi, per esempio, nel caso di
un’ordinanza contingibile e urgente, alla misura concreta più adatta per fronteggiare la situazione;
3. sul quomodo, cioè sulle modalità da seguire per l’adozione del provvedimento al di là delle
sequenze di atti imposti dalla legge che disciplina lo specifico provvedimento. Si pensi, per esempio,
alla scelta di acquisire un parere facoltativo;
4. sul quando, cioè sul momento più opportuno per esercitare un potere d’ufficio avviando il
procedimento e, una volta aperto quest’ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei
termini massimi per la conclusione del procedimento (stabiliti in base all’art. 2 l. n. 241/1990).
Occorre ancora porre la distinzione tra discrezionalità in astratto e vincolatezza in concreto.
All’esito dell’attività istruttoria operata dall’amministrazione per accertare i fatti e acquisire gli
interessi e gli altri elementi di giudizio rilevanti e all’esito della ponderazione di interessi può darsi
infatti che residui, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, un’unica scelta legittima tra
quelle consentite in astratto dalla legge. Nel corso del procedimento la discrezionalità può cioè ridursi
via via fino ad annullarsi del tutto.
In questo caso si parla di vincolatezza in concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto che
si verifica allorché la norma già predefinisce in modo puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il
potere. Questa distinzione è posta nel Codice del processo amministrativo (art. 31, comma 3). La
disposizione precisa infatti che il giudice può accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio
«solo quando si tratti di attività vincolata» (vincolatezza in astratto) oppure «quando risulta che non
residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità» (vincolatezza in concreto).
Una riduzione dell’ambito della discrezionalità può avvenire anche per un’altra via, ovvero
attraverso il cosiddetto autovincolo alla discrezionalità. Di frequente tra la norma di conferimento
del potere che concede all’amministrazione spazi di discrezionalità più o meno ampi e il
provvedimento emanato si interpone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di
criteri e parametri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ciò accade di regola, per esempio,
nei giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso le quali sono tenute a specificare, prima di
esprimere le proprie valutazioni sui singoli candidati, i parametri di giudizio già indicati nella
normativa di riferimento e nel bando. L’art. 12 l. n. 241/1990 prevede poi che la concessione di ogni
forma di contributo o ausilio finanziario è subordinata «alla predeterminazione da parte delle
amministrazioni procedenti dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi».
I criteri devono essere resi pubblici e, come prevede da ultimo la normativa anticorruzione, deve
essere pubblicato anche l’elenco dei destinatari di contributi di importo superiore a mille euro. La
pubblicazione è addirittura condizione di efficacia dell’atto amministrativo.
Ciò accresce l’oggettività e la trasparenza delle decisioni, perché i criteri così stabiliti vincolano
l’attività dell’amministrazione e la violazione dei medesimi è sindacabile da parte del giudice
amministrativo in modo non dissimile dalla violazione di norme giuridiche in senso proprio.

 Il merito amministrativo. Individuata la nozione di discrezionalità amministrativa, occorre


mettere a fuoco quella speculare di merito amministrativo. Il merito amministrativo ha infatti una
dimensione essenzialmente negativa residuale: esso si riferisce all’eventuale ambito di valutazione e di
scelta spettante all’amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall’area della legalità (cioè
dei vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell’azione amministrativa). Se il potere è
integralmente vincolato, lo spazio del merito risulta nullo. Rientrano di regola nel merito, per esempio,
la valutazione espressa dalla commissione su un candidato che partecipa a un concorso pubblico, la
decisione di chiudere al traffico veicolare una strada in occasione di una corsa ciclistica.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il merito, in definitiva, connota l’attività dell’amministrazione da considerare essenzialmente


libera. La scelta tra una pluralità di soluzioni tutte legittime (ragionevoli, proporzionate, coerenti con il
fine pubblico) può essere apprezzata cioè solo in termini di opportunità o inopportunità (o di altri
parametri e giudizi di valore, comunque non giuridici). Essa è insindacabile nell’ambito del giudizio di
legittimità nel senso che il giudice non può sostituire le proprie valutazioni a quelle operate
dall’amministrazione.
La distinzione tra legittimità e merito rileva in più contesti.
Il primo è quello dei controlli amministrativi. Questi ultimi si articolano in controlli di
legittimità e di merito, i primi finalizzati ad annullare gli atti amministrativi illegittimi, i secondi a
modificare o sostituire l’atto oggetto del controllo.
In secondo luogo, il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di
legittimità, che è quella di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, alla giurisdizione
«con cognizione estesa al merito», nell’esercizio della quale «il giudice amministrativo può
sostituirsi all’amministrazione». Il giudice amministrativo può cioè rivalutare le scelte discrezionali
dell’amministrazione e sostituire la propria valutazione. La giurisdizione di merito è limitata a pochi
casi tassativi ed è tendenzialmente recessiva.
In terzo luogo, i confini tra legittimità e merito rilevano anche in materia di responsabilità
amministrativa dei funzionari pubblici in relazione al cosiddetto danno erariale, cioè al danno
provocato all’amministrazione stessa e che rientra nella giurisdizione della Corte dei conti.

 Le valutazioni tecniche. La discrezionalità amministrativa va tenuta distinta dalle valutazioni


tecniche. Queste ultime si riferiscono ai casi in cui la norma attributiva del potere, nell’utilizzare
concetti giuridici indeterminati di tipo empirico, rinvia a nozioni tecniche o scientifiche che in sede di
applicazione alla fattispecie concreta presentano margini di opinabilità. Spesso le valutazioni tecniche
sono espresse da organi appositi chiamati a rendere il loro giudizio nell’ambito del procedimento.
L’art. 17 l. n. 241/1990 regola le modalità attraverso le quali il responsabile del procedimento procede
ad acquisirle e i rimedi in caso di ritardi.

Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l’adozione di un provvedimento
debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed
enti non provvedano […] il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ed
altri organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità
tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari (art. 17, comma 1).

La disposizione di cui al comma 1 non si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini ( art. 17,
comma 2).

Tra le valutazioni tecniche rientrano, per citare qualche esempio, in aggiunta a quelli fatti a
proposito dei concetti giuridici indeterminati, i giudizi medici aventi per oggetto l’idoneità ad essere
arruolati nelle forze militari o di polizia o la riconducibilità di una determinata malattia alla causa di
servizio; i giudizi formulati dalle commissioni di concorso o istituite per valutare le offerte presentate
nell’ambito delle procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici; le valutazioni ingegneristiche
volte ad appurare la statica di edifici lesionati in occasione di un terremoto.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Mentre la discrezionalità amministrativa attiene al piano della valutazione e comparazione degli


interessi, le valutazioni tecniche attengono al piano dell’accertamento e della qualificazione di fatti
alla luce di criteri tecnico-scientifici.
A proposito delle valutazioni tecniche è ancora oggi frequente l’uso dell’espressione
«discrezionalità tecnica», che non è in realtà corretta proprio perché nella discrezionalità tecnica
manca l’elemento volitivo che caratterizza invece la discrezionalità in senso proprio, cioè quella
amministrativa. Il Codice del processo amministrativo richiama la nozione di «valutazioni che
richiedono particolari competenze tecniche».
L’uso del medesimo sostantivo (discrezionalità) si giustifica probabilmente per il fatto che,
soprattutto in passato, il problema dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni
tecniche era posto in termini analoghi a quello dei limiti del sindacato sulla discrezionalità
amministrativa. Infatti, in entrambi i casi si riteneva precluso, a differenza di quanto accade per i fatti
semplici, un sindacato pieno che comporti una valutazione autonoma del giudice che si sovrapponga
(e sostituisca) a quella dell’amministrazione. La valutazione del giudice è necessariamente altrettanto
opinabile rispetto a quella dell’amministrazione e dunque non ci sarebbe ragione per preferirla. Più
correttamente, il giudice può soltanto ripercorrere dall’esterno l’attività valutativa (sindacato
estrinseco non invasivo del merito) per verificare se la valutazione è affetta da vizi logici,
incongruenze o da altre carenze utilizzando le tecniche di rilevamento dell’eccesso di potere.
Solo in epoca più recente il giudice amministrativo ha intrapreso, pur sempre con una certa
prudenza, un’opera volta a rendere più intenso il proprio sindacato sulle valutazioni tecniche. Esso
infatti non è più soltanto estrinseco e si spinge invece a verificare l’attendibilità e la correttezza del
criterio tecnico utilizzato. In caso di valutazioni tecniche che presentano un oggettivo margine di
opinabilità, il giudice può soltanto sindacare che il provvedimento non abbia esorbitato da essi.
Nel sindacare le valutazioni tecniche il giudice amministrativo è ormai agevolato dal fatto di poter
ricorrere allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, nominando un esperto il quale, in
contraddittorio con i consulenti delle parti, fornisce una risposta a quesiti su questioni tecniche posti
dal giudice.
Nell’ordinamento tedesco il giudice amministrativo ritiene ormai da tempo pienamente sindacabile
l’applicazione nei casi concreti dei concetti giuridici indeterminati di tipo empirico, anche se con
alcune eccezioni come i giudizi su prove d’esame, le valutazioni demandate dalla legge a collegi di
esperti indipendenti o a portatori di interessi, correlate ad attività di pianificazione o con impatto
politico rilevante, ecc.
Negli Stati Uniti la giurisprudenza mantiene un atteggiamento di maggior deferenza nei confronti
delle valutazioni tecniche dell’amministrazione limitandosi a un sindacato di ragionevolezza.
Valutazioni tecniche ed esercizio della discrezionalità amministrativa, proprio perché riguardano
momenti logici diversi, possono coesistere in una stessa fattispecie. Al riguardo si usa talora
l’espressione «discrezionalità mista», che in realtà sarebbe preferibile evitare. Come esempi si
possono ricordare la fattibilità tecnica di un progetto di opera pubblica proposto di propria iniziativa
da un soggetto privato (il cosiddetto promotore) da realizzare attraverso la tecnica della finanza di
progetto e la valutazione di conformità dell’opera all’interesse pubblico.
Le valutazioni tecniche vanno distinte, oltre che dalla discrezionalità amministrativa, anche dai
meri accertamenti tecnici. Questi ultimi riguardano fatti la cui esistenza o inesistenza è verificabile in
modo univoco, sia pure con l’impiego di strumenti tecnici. A differenza delle valutazioni tecniche, i
meri accertamenti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo
nell’ambito del giudizio di legittimità.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

6. L’interesse legittimo

Esaurita l’analisi del potere amministrativo, occorre esaminare il termine passivo del rapporto
giuridico amministrativo, cioè l’interesse legittimo.
Al pari del diritto soggettivo, l’interesse legittimo trova un riconoscimento costituzionale nelle
disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale (artt. 24, 103, 113 Cost.) ed è dunque una situazione
giuridica soggettiva (attiva) dalla quale, nonostante tutte le critiche, non si può prescindere.
La distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche ha assunto tradizionalmente rilievo sotto
due aspetti: è assurta a criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, il primo investito della giurisdizione sui diritti soggettivi, il secondo della
giurisdizione sugli interessi legittimi; è servita a delimitare l’ambito della responsabilità civile della
pubblica amministrazione.
Questo secondo aspetto è stato superato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n.
500/1999 che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo.
Il primo aspetto mantiene invece la sua attualità. La Corte Costituzionale ha ribadito che la
giurisdizione amministrativa ha per oggetto gli interessi legittimi. Ad essa può essere devoluta in casi
tassativi anche la cognizione di diritti soggettivi, ma solo quando questi ultimi sono in qualche modo
connessi e intrecciati a un rapporto nel quale l’amministrazione si presenta essenzialmente in veste di
autorità.
Per inquadrare l’interesse legittimo conviene porsi in una prospettiva storica.
Occorre partire dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248, che attribuì al giudice civile la giurisdizione in
tutte le controversie tra il privato e la pubblica amministrazione nelle quali si facesse questione di un
«diritto civile o politico», ossia di un diritto soggettivo, ancorché la controversia fosse correlata
all’emanazione di un provvedimento.
Nella prassi interpretativa il giudice civile dimostrò timidezza nel sindacare gli atti della pubblica
amministrazione e nel qualificare la posizione del privato in termini di diritto soggettivo. Si creò così
un vuoto di tutela di fronte a numerosi casi di illegittimità e abusi da parte dell’amministrazione.
Da qui l’origine della legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, che mirava
a integrare la legge del 1865 introducendo un nuovo rimedio per tutelare tutte le situazioni non
qualificabili come diritto soggettivo. La IV Sezione venne investita del potere di decidere sui ricorsi
contro gli atti o provvedimenti amministrativi illegittimi aventi per oggetto «un interesse d’individui o
di enti morali giuridici».
La giurisprudenza e la dottrina si dovettero confrontare subito con il problema di riempire di
contenuto la formula generica di «interesse», posta dal legislatore come requisito per poter proporre il
ricorso alla IV Sezione e ottenere l’annullamento del provvedimento.
Dell’interesse legittimo sono state offerte nel tempo una pluralità di ricostruzioni, ormai superate,
che meritano di essere ricordate prima di esaminare quelle più recenti.

 Il diritto fatto valere come interesse. Inizialmente vi fu chi ritenne che la situazione
giuridica soggettiva devoluta alla cognizione della IV Sezione fosse un normale diritto «fatto valere
come interesse». Era così rimessa alla libera scelta del privato, in funzione del tipo di tutela che
intendeva ottenere, la via giurisdizionale da perseguire, senza necessità di costruire una nuova
situazione giuridica soggettiva distinta dal diritto soggettivo.
Ma questa concezione fu subito disattesa dalla giurisprudenza, che invece ancorò il riparto di
giurisdizione al criterio più oggettivo della causa petendi, cioè della situazione giuridica soggettiva
fatta valere in giudizio.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

 L’interesse legittimo come interesse di mero fatto. Per lungo tempo un filone dottrinale
negò all’interesse legittimo la consistenza di vera e propria situazione giuridica avente natura
sostanziale, ascrivendo ad essa soltanto un significato processuale. L’interesse legittimo fu cioè
considerato come un interesse di mero fatto, collegato alla norma d’azione volta a tutelare in modo
esclusivo l’interesse pubblico. L’interesse di mero fatto fa però sorgere in capo al privato un interesse
processuale ad attivare la tutela innanzi al giudice amministrativo nel momento in cui
l’amministrazione emana un atto amministrativo illegittimo.

 Il diritto alla legittimità degli atti. Secondo un’altra visione risalente, l’interesse legittimo
doveva essere qualificato come un «diritto alla legittimità degli atti della funzione governativa», cioè
un diritto soggettivo avente per oggetto esclusivamente la pretesa formale a che l’azione
amministrativa sia conforme alle norme che regolano il potere esercitato.

 Il diritto affievolito. Un’altra interpretazione consiste nella cosiddetta teoria della


«degradazione» o dell’«affievolimento» del diritto soggettivo. Essa considera l’interesse legittimo
come un «diritto affievolito», cioè come la risultante dell’atto di esercizio del potere amministrativo
che incide su un diritto soggettivo. Il provvedimento autoritativo, ancorché illegittimo, è idoneo a
intaccare il diritto soggettivo trasformandolo in interesse legittimo. Tipico esempio di diritto
affievolito è il diritto di proprietà inciso dal potere espropriativo.
La categoria dei diritti soggettivi affievoliti fa coppia con quella simmetrica dei cosiddetti diritti
soggettivi «in attesa di espansione». Si tratta di diritti, già attribuiti in astratto alla titolarità di un
soggetto privato, il cui esercizio è però condizionato all’esercizio di un potere dell’amministrazione,
nei confronti del quale il titolare del diritto vanta un interesse legittimo. Tipico esempio è quello
dell’autorizzazione ad aprire un esercizio commerciale.
Gli effetti pratici di questo tipo di impostazione furono quelli di restringere l’area del diritto
soggettivo, ritenuto sempre cedevole di fronte al potere amministrativo, relegando così a un ruolo
marginale il giudice ordinario.

 L’interesse occasionalmente protetto. Le ricostruzioni tradizionali dell’interesse legittimo


sottolineano il fatto che l’interesse privato è posto in una posizione subalterna rispetto all’interesse
pubblico. Solo in presenza di un diritto soggettivo, infatti, l’interesse del privato correlato a un bene
della vita è oggetto di una tutela diretta e immediata da parte dell’ordinamento.
Questa impostazione è sottesa a un’altra fortunata definizione dell’interesse legittimo come
interesse occasionalmente (indirettamente) protetto da una norma (la norma d’azione) volta a tutelare
in modo diretto e immediato l’interesse pubblico. Secondo questa visione, le norme che disciplinano il
potere hanno come scopo primario la tutela dell’interesse pubblico e il soggetto privato può trovare in
esse una qualche protezione solo in via riflessa e indiretta.
L’interesse legittimo si distingue dunque dal diritto soggettivo proprio per il fatto che
l’acquisizione o la conservazione di un determinato bene della vita non è assicurata in modo
immediato dalla norma, bensì passa attraverso l’esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro
sussista alcuna garanzia in ordine alla sua acquisizione o conservazione. La presenza di un ambito di
discrezionalità esclude infatti che il soggetto titolare sia in grado di prevedere ex ante l’assetto finale
degli interessi posto dal provvedimento emanato. Quest’ultimo potrebbe, del tutto legittimamente,
negare o sacrificare l’utilità collegata all’interesse legittimo.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Così, per esempio, chi ha partecipato a un concorso pubblico svoltosi in modo regolare e tuttavia
non si è collocato nella graduatoria tra i vincitori vede comunque soddisfatto il suo interesse legittimo.
Il bene della vita, cioè nell’esempio l’assunzione nei ruoli dell’amministrazione, è dunque esterno
all’interesse legittimo e rileva tutt’al più alla stregua di un mero presupposto di fatto o come «substrato
economico».
La norma attributiva del potere offre in definitiva al titolare dell’interesse legittimo una tutela
strumentale, mediata attraverso l’esercizio del potere, anziché finale, come accade invece per il diritto
soggettivo, nel quale la norma attribuisce al suo titolare in modo diretto un certo bene della vita o
utilità.
Ove il potere sia stato esercitato in modo non conforme alla norma attributiva del potere, il titolare
dell’interesse legittimo può proporre ricorso al giudice amministrativo al fine di ottenere
l’annullamento del provvedimento lesivo, cioè la rimozione con efficacia ex tunc degli effetti da esso
prodotti.

 Le ricostruzioni più recenti dell’interesse legittimo. Le definizioni tradizionali


dell’interesse legittimo sono state variamente criticate dalla dottrina. Quest’ultima da tempo ha messo
in luce la loro connotazione ideologica, collegata a una visione autoritaria dei rapporti tra Stato e
cittadino e fondata sul «postulato di generale sovraordinazione della pubblica amministrazione». Lo
Stato, preposto alla cura dell’interesse pubblico, si colloca in una posizione di sovraordinazione
rispetto al cittadino e ciò esclude che tra essi possa intercorrere un rapporto giuridico in senso tecnico.
L’impianto delineato è entrato in crisi in seguito all’emergere di una nuova sensibilità, più in linea
con i valori espressi dalla Costituzione, dall’ordinamento europeo e dalla l. n. 241/1990. L’interprete
deve muovere, sia dalla prospettiva dei poteri attribuiti allo Stato e agli apparati pubblici, sia
dall’angolo di visuale dei diritti di libertà del cittadino e dall’esigenza di offrire una protezione più
completa delle situazioni giuridiche soggettive. Si è sottolineato, per esempio, che la Costituzione
attribuisce ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi una pari dignità e che pertanto a entrambi
l’ordinamento deve assicurare una tutela piena ed effettiva (art. 24).
Per il superamento della concezione tradizionale dell’interesse legittimo è stata determinante
l’apertura alla risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, operata con la sentenza delle
Sezioni Unite della Cassazione n. 500/1999.

Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno (art. 2043 cod. civ.).

La Corte ha posto cioè una linea di confine della risarcibilità tutta all’interno dell’interesse
legittimo in ragione della rilevabilità di una lesione a un bene della vita già ascrivibile in qualche
modo alla sfera giuridica del soggetto privato titolare dell’interesse legittimo.
La connotazione sostanziale dell’interesse legittimo emerge anche dal modo nel quale la
giurisprudenza ha inquadrato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo devoluta ora alla
giurisdizione del giudice amministrativo.
La giurisprudenza infatti si è subito posta la questione se il risarcimento del danno costituisca un
diritto soggettivo distinto dall’interesse legittimo nel senso che la lesione di quest’ultimo ad opera del
provvedimento illegittimo fa sorgere in capo al suo titolare un diritto al risarcimento del danno. La
Corte Costituzionale ha inteso l’azione risarcitoria non già come volta a tutelare un diritto soggettivo
autonomo, bensì in funzione «rimediale», cioè come tecnica di tutela dell’interesse legittimo che si
affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita dall’annullamento. Se l’interesse
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

legittimo incorpora anche una pretesa risarcitoria, esso ha necessariamente per oggetto un bene della
vita suscettibile di essere leso da un provvedimento illegittimo.
Il bene della vita, correlato all’interesse legittimo, trova tutela anche attraverso l’azione di
adempimento, introdotta dal Codice del processo amministrativo che prevede ora anche l’azione di
adempimento. Il giudice può infatti condannare l’amministrazione, ove la pretesa risulti fondata, a
emanare il provvedimento richiesto dal privato attribuendogli così il bene della vita al quale egli aspira
(per esempio, un’autorizzazione che consente di intraprendere un’attività economica).
In definitiva, nella ricostruzione dell’interesse legittimo il baricentro si sposta così dal
collegamento con l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o «bene della vita» che il soggetto
titolare dell’interesse legittimo mira a conservare o ad acquisire.
L’interesse legittimo ha dunque una connotazione sostanziale.
Il Consiglio di Stato ha definito l’interesse legittimo come «la posizione di vantaggio riservata ad
un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si
compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere,
in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene», e ha sottolineato che
«l’interesse effettivo che l’ordinamento intende proteggere è quindi sempre l’interesse ad un bene
della vita».
All’esito dell’evoluzione ora tratteggiata si può dunque affermare che la norma di conferimento
del potere abbia il duplice scopo di tutelare l’interesse pubblico e di tutelare l’interesse del privato (che
mira a conservare o ad acquisire una utilità finale o bene della vita).
Nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, da un lato, l’amministrazione titolare del
potere cura in via primaria l’interesse pubblico (pur dovendo tener conto anche degli altri interessi
pubblici e privati rilevanti nella fattispecie); dall’altro, il titolare dell’interesse legittimo mira
esclusivamente al proprio interesse individuale, con libertà di scegliere le forme di tutela da attivare
nel processo e prima ancora nell’ambito del procedimento amministrativo.
In conclusione, volendo proporre una definizione sintetica, l’interesse legittimo è una situazione
giuridica soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla
norma di conferimento del potere, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a
influire sull’esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita .
I poteri e le facoltà in questione si esplicano principalmente all’interno del procedimento
attraverso l’istituto della partecipazione (artt. 7 ss. l. n. 241/1990). Quest’ultima consente al privato di
rappresentare il proprio punto di vista presentando memorie e documenti e, prima ancora, mediante
l’accesso agli atti del procedimento. Il privato può persino sottoporre all’amministrazione proposte che
possono sfociare, ove accolte, in un accordo avente per oggetto il contenuto discrezionale del
provvedimento (art. 11 l. n. 241/1990).
Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare in parte la posizione di soggezione nei confronti del
titolare del potere. L’interesse legittimo acquista così una dimensione attiva.
Ad essa corrispondono in capo all’amministrazione una serie di doveri comportamentali nella fase
procedimentale e nella fase decisionale (imparzialità, ragionevolezza), che sono finalizzati anche alla
tutela dell’interesse del soggetto privato.
In ogni caso il titolare dell’interesse legittimo fa valere nei confronti dell’amministrazione una
pretesa a che il potere sia esercitato in modo legittimo e, per quanto possibile, in senso conforme
all’interesse sostanziale del privato all’acquisizione o alla conservazione di un bene della vita. La
«prestazione» che viene così richiesta all’amministrazione ha natura infungibile, in quanto il titolare
dell’interesse legittimo può acquisire o conservare una certa utilità esclusivamente tramite l’esercizio o

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

il mancato esercizio del potere da parte dell’unica autorità competente in base alla norma attributiva
del potere.
Sulla base di siffatte considerazioni, è emersa nella dottrina più recente una visione che dissolve
l’interesse legittimo nella figura più generale del diritto soggettivo. Infatti, il diritto soggettivo, lungi
da essere una categoria unitaria, include anche figure di diritti diverse da quelle più tipiche correlate in
modo diretto e immediato a un bene della vita (diritto di proprietà, diritto di credito avente per oggetto
una somma di danaro). Si pensi, per esempio, al diritto a un comportamento secondo buona fede
nell’ambito delle trattative finalizzate alla stipula di un contratto. Il titolare di questo genere di diritti
fa valere nei confronti dell’obbligato una pretesa a un comportamento conforme a certi standard, che si
sostanziano anche in quelli che la dottrina civilistica definisce «doveri di protezione», senza che vi sia
alcuna garanzia di un risultato predeterminato.
In definitiva, l’interesse legittimo presenta sia una dimensione passiva (soggezione rispetto al
potere esercitato), sia una dimensione attiva (pretesa a un esercizio corretto del potere alla quale
corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell’amministrazione da far valere nel
procedimento o anche in sede giurisdizionale).

7. Gli interessi legittimi, oppositivi, pretensivi

Sotto il profilo funzionale gli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie.
Gli interessi legittimi oppositivi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina
la produzione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del
destinatario, sacrificando l’interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere di espropriazione,
all’irrogazione di una sanzione amministrativa, all’imposizione di un vincolo di inedificabilità.
Gli interessi legittimi pretensivi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina
la produzione di un effetto giuridico che incide positivamente e che amplia la sfera giuridica del
destinatario, dando soddisfazione all’interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere di
rilasciare una concessione per l’uso di un bene demaniale o un’autorizzazione per l’avvio di un’attività
economica, oppure all’iscrizione a un albo professionale.
Negli interessi legittimi oppositivi il rapporto giuridico amministravo che si sviluppa nel
procedimento ha una dinamica di contrapposizione, nel senso che il suo titolare cercherà di
intraprendere tutte le iniziative volte a contrastare l’esercizio del potere che sacrifica un bene della
vita. Il suo interesse a evitare che si determini una compressione della propria sfera giuridica è
soddisfatto nel caso in cui l’amministrazione, all’esito del procedimento, si astenga dall’emanare il
provvedimento che produce l’effetto negativo. Non rileva, peraltro, dal punto di vista del soggetto
privato se l’omessa emanazione del provvedimento sia legittima o illegittima. Al titolare dell’interesse
legittimo oppositivo infatti interessa soltanto non veder sacrificata o compressa la propria sfera
giuridica, cioè a conservare il proprio bene della vita.
Negli interessi legittimi pretensivi il rapporto giuridico amministrativo ha una dinamica più
collaborativa, nel senso che il titolare dell’interesse legittimo pretensivo cercherà di porre in essere
tutte le attività volte a stimolare l’esercizio del potere e a orientare la scelta dell’amministrazione in
modo tale da poter conseguire il bene della vita. Il suo interesse a far sì che si determini un
ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto nel caso in cui l’amministrazione, all’esito del
procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo. Anche qui non rileva, dal punto
di vista del privato, se l’emanazione del provvedimento sia legittima o illegittima. Al titolare
dell’interesse legittimo pretensivo infatti interessa soltanto poter veder ampliata la propria sfera
giuridica, cioè acquisire un bene della vita.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

I due tipi di dinamica si riflettono sia sulla struttura del procedimento, sia su quella del processo
amministrativo.
Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il procedimento si apre usualmente d’ufficio e la
comunicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo. Nel caso degli
interessi legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un’istanza o
domanda di parte che fa sorgere l’obbligo di procedere e di provvedere in capo all’amministrazione
titolare del potere (art. 2 l. n. 241/1990) e che instaura il rapporto giuridico amministrativo.
Anche il processo amministrativo e la tipologia di azioni in esso esperibili presentano caratteri
propri in funzione del diverso bisogno di tutela.
Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il bisogno di tutela è legato all’interesse alla
conservazione del bene della vita. L’annullamento dell’atto impugnato con efficacia ex tunc soddisfa
in modo specifico tale bisogno. Infatti il ricorrente viene reintegrato nella situazione in cui esso si
trovava prima dell’emanazione del provvedimento.
Nel caso degli interessi legittimi pretensivi il bisogno di tutela è legato invece all’interesse
all’acquisizione del bene della vita. Rispetto a tale bisogno l’annullamento del provvedimento di
diniego o l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di concludere il procedimento nel termine
stabilito ex art. 2 l. n. 241/1990 con un provvedimento espresso si rivelano insufficienti. Infatti non
determinano in via immediata l’acquisizione del bene della vita in capo al titolare dell’interesse
legittimo che richiede invece l’adozione da parte dell’amministrazione del provvedimento. Soltanto
una sentenza che condanni l’amministrazione a emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente
satisfattiva. L’azione che consente un siffatto risultato è la cosiddetta azione di adempimento, cioè
l’azione di condanna a un facere specifico.
Anche la tutela risarcitoria, che può essere attivata per soddisfare i bisogni di tutela non coperti
dalla tutela specifica (di annullamento del provvedimento illegittimo e di adempimento), si atteggia
diversamente con riferimento agli interessi legittimi oppositivi e agli interessi legittimi pretensivi.
Con riferimento agli interessi legittimi oppositivi essa riguarda i danni derivanti dalla privazione
o limitazione nel godimento del bene della vita nel caso in cui il provvedimento illegittimo abbia
trovato esecuzione. La sentenza di annullamento con efficacia retroattiva, infatti, pur eliminando l’atto
e i suoi effetti, non può porre rimedio per il passato a questo particolare profilo di danno. Per esempio,
se dopo l’emanazione di un decreto di esproprio si è avuta l’esecuzione con l’apprensione materiale
del terreno, una volta annullato il provvedimento, il proprietario deve essere risarcito del danno
conseguente al mancato godimento del bene nel periodo intercorrente tra l’esecuzione del
provvedimento espropriativo e la restituzione del bene medesimo. In ogni caso la lesione del bene
della vita emerge in re ipsa per effetto dell’accertamento dell’illegittimità e dell’annullamento del
provvedimento.
Con riferimento agli interessi legittimi pretensivi la tutela risarcitoria riguarda i danni
conseguenti alla mancata o ritardata acquisizione del bene della vita nel caso in cui sia stato emanato
un provvedimento di diniego o l’amministrazione sia rimasta inerte (per esempio, il mancato o
ritardato avvio di un’attività commerciale sottoposta a un regime di autorizzazione). Per esempio, se
per effetto di un diniego illegittimo di un’autorizzazione un’impresa non ha potuto intraprendere
un’attività economica deve essere risarcito il mancato guadagno nel periodo intercorrente tra il diniego
illegittimo e il rilascio del provvedimento favorevole.
La distinzione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare i cosiddetti provvedimenti
«a doppio effetto», che producono cioè ad un tempo un effetto ampliativo e un effetto restrittivo nella
sfera giuridica di due soggetti distinti e che danno origine a un rapporto giuridico trilaterale. Si pensi

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

per esempio al rilascio di un permesso a costruire un edificio che impedirebbe una vista panoramica al
proprietario del terreno confinante.
In questi casi, la dinamica dei rapporti tra l’amministrazione e i soggetti privati titolari di un
interesse legittimo pretensivo e oppositivo diventa più articolata, sia nell’ambito del procedimento, sia
nell’ambito del processo, proprio perché si instaura anche una dialettica che vede contrapposti due
interessi privati.
Nella fase procedimentale le parti private tenderanno infatti a sottoporre all’amministrazione gli
elementi istruttori e valutativi che inducano quest’ultima a provvedere in senso conforme al proprio
interesse e contrario all’interesse dell’altra parte privata.
Nella fase processuale successiva all’emanazione del provvedimento che determina
contestualmente un effetto ampliativo nei confronti di un soggetto e uno restrittivo nei confronti di un
altro, invece, accanto alla parte ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l’annullamento
e all’amministrazione resistente, interviene come parte processuale necessaria il controinteressato.
Quest’ultimo è appunto la parte che ha tratto un’utilità dall’emanazione del provvedimento e che
affianca l’amministrazione nella difesa della legittimità del provvedimento emanato.

8. I criteri di distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi

La distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ha affaticato da sempre gli interpreti. La
dottrina e la giurisprudenza hanno individuato alcuni criteri interpretativi.
1. Un primo criterio si incentra sulla struttura della norma attributiva del potere. Ricorre ancora
nella giurisprudenza la distinzione tradizionale: la norma di relazione volta a regolare il rapporto
giuridico tra pubblica amministrazione e cittadino delimitando le rispettive sfere giuridiche e alla
quale è correlato il diritto soggettivo; la norma d’azione volta a disciplinare l’attività
dell’amministrazione ai fini di tutela dell’interesse pubblico e alla quale è correlato l’interesse
legittimo.
Nella norma di relazione la produzione dell’effetto giuridico avviene in modo automatico sulla
base dello schema norma-fatto-effetto. L’eventuale atto dell’amministrazione che accerta il prodursi
dell’effetto giuridico e dei diritti e degli obblighi posti in capo alle parti ha un carattere meramente
ricognitivo.
Si pensi, per esempio, alla categoria dei cosiddetti «atti paritetici». Si tratta, come si vedrà, di atti
attraverso i quali l’amministrazione riconosce al dipendente un’indennità di carica o un altro beneficio
attribuito direttamente da una norma di rango legislativo. Gli atti in questione pertanto hanno
un’efficacia meramente ricognitiva, anziché costitutiva, dei diritti e degli obblighi del dipendente
pubblico.
Il comportamento assunto in violazione della norma di relazione va qualificato come illecito e
lesivo del diritto soggettivo. L’accertamento dell’illiceità spetta, di regola, al giudice ordinario.
Nella norma d’azione la produzione dell’effetto giuridico avviene secondo lo schema norma-
fatto- potere-effetto. Il provvedimento emanato dall’amministrazione ha un carattere costitutivo
dell’effetto giuridico nella sfera giuridica del destinatario. Il provvedimento assunto in violazione della
norma di azione va qualificato come illegittimo e lesivo di un interesse legittimo. L’annullamento del
provvedimento illegittimo spetta di regola al giudice amministrativo.
Come già osservato, la distinzione tra norma di relazione e norma di azione non regge una volta
che anche a quest’ultima si attribuisce una valenza relazionale, cioè di disciplina del rapporto giuridico
amministrativo.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

2. Un secondo criterio consiste nella distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale. In
presenza di un potere discrezionale la situazione giuridica di cui è titolare il soggetto privato è
sempre ed esclusivamente l’interesse legittimo. Ciò perché la conservazione o l’acquisizione del bene
della vita in capo al soggetto privato è rimessa alla valutazione dell’amministrazione titolare del
potere. Di fronte al potere discrezionale il soggetto privato non è in grado di prevedere con certezza se
la sua pretesa verrà soddisfatta dall’amministrazione all’esito del procedimento. Manca, dunque, la
possibilità di ascrivere in modo immediato e diretto il vantaggio o bene della vita alla sfera giuridica
del soggetto privato, ciò che caratterizza invece la struttura del diritto soggettivo.
Diversa è la situazione, invece, nel caso in cui il potere sia vincolato. In questo caso, il soggetto
privato, valutando autonomamente la situazione concreta in cui egli si trova, è in grado di prevedere
con certezza se l’amministrazione, ove agisca in modo conforme alle norme applicabili, riconoscerà o
meno il vantaggio o il bene della vita. La situazione in cui versa il privato è in questo senso
assimilabile a quella in cui si trova il titolare di un diritto soggettivo.
In realtà, mentre una parte della dottrina già citata instaura una correlazione biunivoca tra potere
vincolato e titolarità di un diritto soggettivo, la giurisprudenza amministrativa la spezza introducendo
un’ulteriore variabile. Ammette cioè l’esistenza di un diritto soggettivo soltanto nel caso in cui i
vincoli ricavabili dalla norma che disciplina il potere abbiano una funzione di garanzia e di tutela
diretta del soggetto privato. Ove invece essi siano finalizzati principalmente alla tutela dell’interesse
pubblico, va riconosciuta l’esistenza di un interesse legittimo. Secondo questa visione le norme
attributive del potere impongono vincoli all’amministrazione anzitutto allo scopo di consentire uno
svolgimento ordinato e misurabile in modo oggettivo dell’attività amministrativa e non tutelano in
modo diretto il soggetto privato.
3. Un terzo criterio tradizionale si fonda sulla diversa natura del vizio dedotto dal soggetto
privato nei confronti dell’atto emanato.
Ove venga contestata la cosiddetta carenza di potere, cioè l’assenza di un fondamento legislativo
del potere (carenza di potere in astratto) o una deviazione abnorme dallo schema normativo
(straripamento di potere), l’atto emanato dall’amministrazione è privo dell’idoneità a produrre
l’effetto tipico nella sfera giuridica del destinatario. La situazione giuridica soggettiva di cui
quest’ultimo è titolare, e in particolare il diritto soggettivo, resiste, per così dire, di fronte al potere e
non subisce alcun «affievolimento» tramutandosi in un interesse legittimo.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha peraltro individuato alcuni diritti soggettivi, che
ricevono una tutela rafforzata nella Costituzione (in particolare il diritto alla salute o all’integrità
dell’ambiente), che di regola non possono essere incisi dal potere amministrativo e la cui tutela è
rimessa di conseguenza in via esclusiva al giudice ordinario.
Ove invece il soggetto privato lamenti il cattivo esercizio del potere, senza però contestarne in
radice l’esistenza, deducendo un vizio di legittimità del provvedimento (incompetenza, eccesso di
potere, violazione di legge), la situazione giuridica fatta valere nei confronti dell’amministrazione ha
la consistenza di un interesse legittimo.
La giurisprudenza ha incluso nella carenza di potere anche la cosiddetta carenza di potere in
concreto, ipotesi che si verifica nei casi in cui la norma in astratto attribuisce il potere
all’amministrazione, ma manca nella fattispecie concreta un presupposto essenziale per poterlo
esercitare (per esempio nel caso in cui l’espropriazione non sia stata preceduta dalla dichiarazione di
pubblica utilità oppure un atto amministrativo sia stato emanato quando è già scaduto un termine
perentorio previsto a pena di decadenza).
In epoca più recente è in corso un ripensamento alla luce dell’art. 21-septies l. n. 241/1990 che ha
disciplinato in termini generali la categoria della nullità. Essa elenca le ipotesi tassative di nullità, tra
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

le quali figura anche il difetto assoluto di attribuzione che coincide con la carenza di potere in
astratto. Di conseguenza, la carenza di potere in concreto sarebbe inquadrabile nella categoria
generale della violazione di legge e determinerebbe ormai, soltanto l’annullabilità del provvedimento
emanato.
I tre criteri seguiti dalla giurisprudenza per distinguere i diritti soggettivi dagli interessi legittimi
non risolvono nella pratica tutti i problemi di qualificazione.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

9. Il «diritto» di accesso ai documenti amministrativi

Un caso paradigmatico di incertezza in ordine alla qualificazione della situazione giuridica


soggettiva è il diritto di accesso ai documenti amministrativi che costituisce uno degli strumenti
principali volti ad accrescere la trasparenza dell’attività amministrativa e promuovere l’imparzialità.
L’accesso ai documenti amministrativi consiste nel «diritto degli interessati di prendere visione e
di estrarre copia di documenti amministrativi» (art. 22, comma 1, lett. a), l. n. 241/1990). Esso è
incluso dalla l. n. 241/1990 (art. 29, comma 2-bis) tra i livelli essenziali delle prestazioni ai quali fa
riferimento l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. e rientra dunque nella competenza legislativa esclusiva
dello Stato. È inoltre definito come «principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire
la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza» (art. 22, comma 2).
Si distingue anzitutto tra accesso procedimentale e non procedimentale.
Quanto al primo, il diritto di accesso rientra tra quelli attribuiti ai soggetti che partecipano a un
determinato procedimento amministrativo in modo da consentire ad essi di tutelare meglio le loro
ragioni avendo cognizione di tutti gli atti e documenti acquisiti al fascicolo (art. 10 l. n. 241/1990). Si
instaura così un legame funzionale tra principio di trasparenza (accesso ai documenti) e diritto di
partecipazione, che ne esce così rafforzato (partecipazione informata).
Quanto al secondo, il diritto di accesso può essere esercitato in via autonoma da chi ha interesse a
esaminare documenti detenuti stabilmente da una pubblica amministrazione.
In entrambe le fattispecie la l. n. 241/1990 sembra costruire il diritto di accesso secondo lo schema
del diritto soggettivo. In particolare con riguardo all’accesso non procedimentale, esso sorge quando il
soggetto che richiede l’accesso dimostri «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso» ( art. 22,
lett. b)).
L’accesso non è attribuito a chiunque: non basta, come ha precisato la giurisprudenza, la semplice
curiosità. È necessario che la richiesta di accesso abbia alla base un interesse in qualche modo
differenziato e la titolarità di una posizione giuridicamente rilevante (non necessariamente un diritto
soggettivo o un interesse legittimo in senso proprio, ma anche una situazione giuridica soggettiva
ancora allo stato potenziale).
Sotto il profilo oggettivo, l’accesso non procedimentale è escluso in una serie tassativa di casi e
cioè in relazione ai documenti coperti dal segreto di Stato, a quelli relativi a procedimenti tributari o a
procedimenti per l’adozione di atti amministrativi generali, ai documenti contenenti informazioni di
carattere psicoattitudinale di terzi (art. 24, comma 1, l. n. 241/1990). Altri casi di esclusione possono
essere individuati tramite regolamento di delegificazione là dove sussista il rischio di una lesione di
interessi pubblici quali, per esempio, la sicurezza e difesa nazionale, la politica monetaria, la
riservatezza di persone fisiche (l’elenco completo è previsto dall’art. 24, comma 6, l. n. 241/1990).
Allorché siano presenti esigenze di tutela della riservatezza l’amministrazione deve dunque
compiere una duplice operazione. Deve anzitutto comparare l’interesse all’accesso e il contrapposto
interesse alla riservatezza di terzi (per esempio, l’interesse di un dipendente pubblico che vuol
contestare la promozione di un altro dipendente e che a questo fine ritiene necessario acquisire copia
del libretto di servizio di quest’ultimo che però potrebbe contenere dati riservati). Deve inoltre
valutare se l’accesso ha carattere della «necessarietà», poiché la l. n. 241/1990 prescrive che deve
essere comunque garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti «la cui conoscenza sia necessaria per
curare e difendere i propri interessi giuridici» (art. 24 comma 7). Il criterio della necessarietà è reso
ancora più stringente nel caso in cui i documenti contengano dati definiti come sensibili dal Codice dei

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

dati personali (soprattutto, quelli relativi alla salute e alla sfera sessuale) e a quelli giudiziari perché
l’accesso è consentito solo «nei limiti in cui sia strettamente indispensabile» (art. 24, comma 7).
Sotto il profilo processuale, il diritto di accesso ai documenti amministrativi è incluso tra le
materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e ciò costituisce un sintomo
che in questa materia possono porsi questioni di diritto soggettivo.

10. Interessi di fatto, diffusi e collettivi

Le norme che disciplinano l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione possono


imporre all’amministrazione doveri di comportamento, finalizzati alla tutela di interessi pubblici.
Ciò si verifica non soltanto nel caso delle norme interne, ma anche nel caso di norme poste da
fonti normative primarie o secondarie. Si pensi, per esempio, alle norme che impongono alle
amministrazioni di adottare atti di pianificazione (urbanistici, del traffico, in materia ambientale,
paesaggistica), di realizzare determinate opere infrastrutturali, di contenere i livelli di spesa, di
raggiungere determinati standard qualitativi nell’erogazione dei servizi.
La violazione di siffatti doveri rileva soltanto all’interno dell’organizzazione degli apparati
pubblici e può dar origine, a seconda dei casi, a interventi di tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da
parte di organi dotati di poteri di vigilanza, all’irrogazione di sanzioni nei confronti dei dirigenti e dei
funzionari responsabili della violazione o ad altre forme di penalizzazione.
I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte attività
vantano, di regola, un interesse di mero fatto a tutela del quale non è attivabile alcun rimedio di tipo
giurisdizionale.
I portatori di un interesse di mero fatto possono tutt’al più promuovere l’osservanza da parte delle
amministrazioni dei doveri, per esempio sollecitandole ad attivarsi (con segnalazioni, petizioni) o
attraverso campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Emerge così la necessità di distinguere gli interessi di fatto dagli interessi legittimi. I criteri sono
essenzialmente due, anche se la loro applicazione in concreto è talora problematica: il criterio della
differenziazione e il criterio della qualificazione.
Quanto al primo criterio, perché possa configurarsi un interesse giuridicamente protetto, occorre
anzitutto che la posizione in cui si trova il soggetto privato rispetto all’amministrazione gravata da un
dovere di agire sia in qualche modo differenziata rispetto a quella della generalità dei soggetti
dell’ordinamento. Può essere rilevante a questo riguardo l’elemento fisico-spaziale della vicinanza,
che rende più concreto il pregiudizio in capo a taluni soggetti.
Così, per esempio, il proprietario di un terreno che confina con il terreno al cui proprietario è stato
rilasciato un permesso a costruire un edificio che impedirebbe una vista panoramica si trova in una
posizione differenziata rispetto al proprietario di aree non contigue, poste magari a grande distanza.
Una volta appurato il carattere differenziato di un interesse rispetto a quello della generalità dei
soggetti, occorre appurare se tale interesse rientri in qualche modo nel perimetro della tutela offerta
dalle norme attributive del potere (criterio della qualificazione giuridica dell’interesse).
Nella casistica giurisprudenziale i due criteri appaiono collegati nel senso che quanto più
differenziato in base a criteri materiali risulta un interesse, tanto è più probabile che esso venga
ritenuto anche oggetto di una tutela giuridica da parte dell’ordinamento, e ciò anche senza che sia
richiesta l’individuazione di una disposizione normativa specificamente finalizzata a proteggere
l’interesse del soggetto privato.
Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale. È così
emersa in dottrina e in giurisprudenza la nozione di interesse diffuso.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Gli interessi diffusi sono stati definiti come interessi non personalizzati, senza struttura, riferibili
in modo indistinto alla generalità della collettività o a categorie più o meno ampie di soggetti
(consumatori, utenti, risparmiatori, fruitori dell’ambiente).
Il carattere diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene materiale o immateriale ad
esso correlato che non è suscettibile di appropriazione e di godimento esclusivi (ambiente, paesaggio,
patrimonio storico-artistico, sicurezza stradale). Con il linguaggio degli economisti, si tratta in genere
di beni pubblici «non rivali» e «non escludibili»: non rivali, perché il loro consumo o utilizzo da
parte di uno non ne impedisce la fruizione da parte di un altro; non escludibili, perché, una volta
fornito il bene, nessuno può esserne escluso dalla fruizione.
Gli interessi diffusi costituiscono una categoria dai confini incerti. Essi finiscono per sovrapporsi
almeno in parte alla nozione di interesse pubblico. Essi, inoltre, oscillano, nelle varie ricostruzioni
dottrinali, tra l’irrilevanza giuridica (e sono dunque qualificati come interessi di mero fatto) e la
riconducibilità a una situazione giuridica soggettiva tipizzata.
L’ordinamento giuridico, tuttavia, ha iniziato a prendere in considerazione gli interessi diffusi
attribuendo ad essi una certa rilevanza sia in sede procedimentale, sia in sede processuale.
Quanto al primo ambito, l’art. 9 l. n. 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel
procedimento a qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o privati nonché ai «portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati» ai quali possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento. Il diritto di partecipazione consente dunque di immettere nel procedimento interessi
riferibili alla collettività che non coincidono necessariamente con quello curato in via istituzionale e
dall’amministrazione titolare del potere.
Più complessa è la questione della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi. I principali
criteri elaborati per aprire la strada alla tutela giurisdizionale sono essenzialmente tre: il collegamento
con la partecipazione procedimentale; l’elaborazione della nozione di interesse collettivo, quale
specie particolare di interesse legittimo; la legittimazione ex lege.
1. La prima strada proposta in dottrina è stata quella di individuare nella partecipazione al
procedimento amministrativo ai sensi della l. n. 241/1990 un elemento di differenziazione e
qualificazione tale da consentire l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento
conclusivo del procedimento.
Tuttavia, a ben considerare, diritto di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale
hanno funzioni diverse. La partecipazione al procedimento assolve non soltanto alla funzione di tutela
preventiva degli interessi dei soggetti suscettibili di essere incisi dal provvedimento, ma anche a quella
di fornire all’amministrazione una gamma più ampia di informazioni utili per esercitare meglio il
potere.
2. Un’altra via è stata quella di ampliare le maglie dell’interesse legittimo fino a includervi
alcune situazioni nelle quali il ricorrente agisce in giudizio per tutelare in realtà un interesse
superindividuale.
È stata posta in proposito la distinzione tra interessi propriamente diffusi e interessi collettivi,
cioè interessi riferibili a specifiche categorie o gruppi organizzati. A questi organismi rappresentativi
della categoria o del gruppo è stata riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione processuale
autonoma, collegata a una situazione di interesse legittimo, allo scopo di tutelare gli interessi non già
dei singoli appartenenti alla categoria, bensì della categoria in quanto tale.
3. In settori particolari il legislatore ha attribuito a determinati soggetti istituiti per la cura di
interessi diffusi una speciale legittimazione a ricorrere (legittimazione ex lege). Così, per esempio, in
materia ambientale l’art. 18 legge 8 luglio 1986, n. 349 prevede che le associazioni che abbiano

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

ottenuto un riconoscimento dal ministero dell’Ambiente in base a certe caratteristiche minime possano
ricorrere al giudice amministrativo a tutela degli interessi ambientali.
Queste e altre analoghe previsioni legislative, non trasformano gli interessi diffusi in situazioni
giuridiche soggettive di interesse legittimo o di diritto soggettivo in senso proprio, ma hanno una
rilevanza prettamente processuale.
Occorre da ultimo dedicare un cenno ai cosiddetti interessi individuali «omogenei» o
«isomorfi». Essi mantengono il carattere di situazioni giuridiche soggettive individuali, e acquistano
una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni a una pluralità di soggetti. Si pensi, per
esempio, al caso degli utenti del servizio elettrico di una città nella quale si verifica una situazione di
interruzione della fornitura di energia elettrica protratta nel tempo.
In questi casi l’interesse leso resta un interesse individuale e l’elemento di omogeneità e
comunanza consiste nel fatto che la lesione deriva da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva.
Ciascuno dei soggetti potrebbe dunque agire in giudizio autonomamente.
Per questi interessi l’ordinamento prevede forme di tutela non giurisdizionale semplificate, meno
formalizzate e costose, innanzi a organismi di mediazione o conciliazione, oppure innanzi alle stesse
autorità amministrative di regolazione (cosiddette ADR).
Di recente, il legislatore ha introdotto per essi rimedi processuali particolari ribattezzati «azioni di
classe».
Inoltre, è stato anche introdotto un ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei
concessionari di servizi pubblici da esperire innanzi al giudice amministrativo.
Quest’ultimo rimedio consente ai «titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una
pluralità di utenti e consumatori» di adire il giudice amministrativo in caso di accertata violazione di
livelli e standard di qualità predefiniti, per esempio, nelle carte dei servizi, o di ritardo nell’adozione di
atti amministrativi generali. Il ricorso non consente una tutela risarcitoria, ma mira soltanto a ottenere
una pronuncia del giudice che ripristini il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione
di un servizio pubblico. Si pensi per esempio all’azione proposta da un’associazione dei consumatori
per far valere la pretesa di far rispettare all’organizzazione scolastica lo standard normativo
rappresentato dal numero massimo di alunni che possono comporre una classe.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

11. I principi generali

Vanno anzitutto distinti, da un lato, i principi che presiedono alla distribuzione delle funzioni tra i
vari livelli di governo e che sono rivolti al legislatore (statale e regionale); dall’altro, i principi che
hanno come destinatari dirette le amministrazioni.
In questa parte verranno trattati soltanto i principi relativi alle funzioni e al rapporto giuridico
amministrativo.

 I principi sulle funzioni. Il principio fondamentale che presiede all’allocazione delle funzioni
è il principio di sussidiarietà.
In particolare, l’art. 5 TUE enuncia il principio di sussidiarietà verticale con riguardo ai rapporti
tra Stati membri e istituzioni dell’Unione al fine di contenere le spinte all’accentramento di funzioni in
capo a queste ultime. Dal principio di sussidiarietà deriva anzitutto che l’Unione europea agisce
esclusivamente nei limiti delle competenze assegnate e che, per contro, gli Stati membri sono titolari
della generalità delle competenze residue. Inoltre, le competenze attribuite all’Unione europea non
devono eccedere quelle necessarie per conseguire gli scopi dell’Unione che non possono essere
conseguiti meglio dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello locale.
L’art. 5 menziona anche il principio di proporzionalità in base al quale il contenuto e la forma
dell’azione dell’Unione non devono eccedere quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi
dei Trattati.
Nel diritto interno, l’art. 118 Cost. richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza che vanno a integrare e rafforzare il principio autonomistico posso dall’art 5.
L’art. 118 prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al
cittadino e cioè al comune. Solo le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario
che supera la dimensione territoriale dei comuni possono essere attribuite ai livelli di governo via via
più elevati.
I principi posti dall’art. 118 Cost. trovano svolgimento nelle singole materie di legislazione
amministrativa nel decreto legislativo emanato sulla base della legge di delega 15 marzo 1997, n. 59
per il conferimento delle funzioni ai vari livelli di governo.
Oltre a richiamare il principio di sussidiarietà, la l. n. 59/1997 definisce il principio di
adeguatezza, che attiene «all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente»; il principio di
differenziazione, che mira a tener conto «delle diverse caratteristiche, anche associative,
demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi». Questi due principi sono mirano in
particolare a sollecitare l’attivazione di forme di collaborazione tra enti territoriali per l’esercizio in
forma associata di talune funzioni.
La l. n. 59/1997 menziona altresì i principi di efficienza e di economicità, di responsabilità e
unicità dell’amministrazione, di omogeneità, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi
per l’esercizio delle funzioni, di autonomia organizzativa e regolamentare.
La Costituzione richiama anche la sussidiarietà orizzontale, che serve invece a definire i rapporti
tra poteri pubblici e società civile. L’art. 118, comma 4, stabilisce, infatti, che lo Stato e gli enti
territoriali «favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di
attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Questa disposizione ha il valore
simbolico, da un lato, di escludere che i poteri pubblici detengano il monopolio nella cura degli
interessi della collettività, e, dall’altro, di valorizzare le forme di autorganizzazione della società
civile. Sul piano logico la dimensione orizzontale della sussidiarietà precede quella verticale.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Anche il principio di proporzionalità è enunciato in varie disposizioni legislative europee


recepite nel diritto nazionale come criterio per la disciplina delle funzioni e dei poteri.
I principi in questione, essendo rivolti al legislatore, sono soprattutto principi e criteri di policy da
far valere nelle sedi politiche, più che principi giuridici che fondano pretese azionabili in sede
giurisdizionale.

 I principi sull’attività. Secondo l’art. 1 l. n. 241/1990 «l’attività amministrativa persegue i


fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza nonché dai principi dell’ordinamento comunitario». Tali criteri, sebbene
riferiti testualmente all’attività, possono valere in realtà anche per l’atto e il procedimento
amministrativo.
Poiché, come si è accennato, l’attività amministrativa riguarda in modo unitario il complesso delle
operazioni, dei comportamenti e degli atti posti in essere da un apparato amministrativo, anche
l’applicazione dei criteri enunciati nell’art. 1 consente di formulare un giudizio globale sull’operato
dell’amministrazione. Un siffatto giudizio globale verte, da un lato, sulla coerenza complessiva
dell’attività rispetto alla «missione» affidata dal legislatore e sulla sua conformità alle norme
giuridiche; dall’altro lato, sul buon andamento, cioè sui risultati più o meno positivi effettivamente
conseguiti mediante l’uso efficiente delle risorse disponibili.
A tal proposito, è stata di recente elaborata, la nozione di «amministrazione di risultato» che si
aggancia al principio più tradizionale del buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
L’amministrazione di risultato richiama la nozione di performance degli apparati amministrativi di
tipo aziendalistico.
Nel contesto di una riforma tesa a promuovere l’efficienza della pubblica amministrazione, il
legislatore ha disciplinato il cosiddetto «ciclo delle performance» che si applica agli apparati
amministrativi nel loro complesso. Le fasi del ciclo delle performance sono principalmente le
seguenti: la definizione di obiettivi, l’allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso di esercizio, la
misurazione e valutazione della performance organizzativa e dei singoli dipendenti, l’utilizzo di
sistemi premianti. La performance organizzativa si riferisce, in particolare, al grado di soddisfazione
dei cittadini e degli utenti, all’efficienza nell’impiego delle risorse, nella quantità e qualità dei servizi
erogati. Ad essa si collega poi la performance individuale dei dipendenti pubblici.
Più precisamente, il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990 attraverso il
riferimento all’economicità, mette in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato
dell’azione amministrativa e focalizza l’attenzione sull’uso ottimale dei fattori produttivi. È efficiente
l’attività amministrativa che raggiunge un certo livello di performance utilizzando in maniera oculata
le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il massimo dei risultati
con il minor impiego di mezzi. Si distingue tra efficienza tecnica o produttiva ed efficienza
allocativa o gestionale.
Il principio di efficacia misura invece i risultati effettivamente ottenuti rispetto agli obiettivi
prefissati in un piano o un programma.
I due principi operano in modo indipendente, perché può darsi il caso di un livello elevato di
efficacia, raggiunto però con un impiego inefficiente delle risorse. Inversamente può anche darsi il
caso di un’azione efficiente, perché non dà luogo a sprechi, ma inefficace perché non raggiunge gli
obiettivi prefissati.
L’economicità si riferisce alla capacità di lungo periodo di un’organizzazione di utilizzare in modo
efficiente le proprie risorse raggiungendo in modo efficace i propri obiettivi e, in qualche modo,
condensa gli altri due principi.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il principio di pubblicità e trasparenza è enunciato a livello europeo. Infatti, il Trattato sul


funzionamento dell’Unione europea precisa che «Al fine di promuovere il buon governo e garantire la
partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel
modo più trasparente possibile». Viene altresì stabilito che le istituzioni, gli organi e organismi
dell’Unione si basano su «un’amministrazione europea aperta», ispirandosi così al principio dell’open
government in base al quale le determinazioni assunte devono essere rese accessibili a chi vi ha
interesse.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuisce a ogni individuo diritto «di
accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto
professionale».
Il principio di pubblicità e trasparenza rileva principalmente in due ambiti.
Il primo ambito si riferisce all’organizzazione e all’attività della pubblica amministrazione che
è tenuta a mettere a disposizione della generalità degli interessati, con modalità di pubblicazione
predeterminate da parte dell’amministrazione, un’ampia serie di informazioni. La recente normativa
anticorruzione enuncia il principio generale di trasparenza «intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche».
Il secondo ambito si riferisce al diritto di accesso ai documenti amministrativi, che la l. n.
241/1990 definisce come «principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire
partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza».

 I principi sull’esercizio del potere discrezionale. I principi che presiedono all’esercizio del
potere discrezionale sono essenzialmente il principio di imparzialità, di proporzionalità, di
ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento, di precauzione.
Il principio di imparzialità è richiamato dall’art. 97 Cost. e dall’art. 41 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea. Riferito all’esercizio della discrezionalità, esso consiste
essenzialmente nel «divieto di favoritismi»: l’amministrazione non può essere influenzata nelle sue
decisioni da interessi politici, da gruppi di pressione privati o da singoli individui o imprese, favoriti
per ragioni di amicizia o di parentela. Il principio di imparzialità, così inteso, è posto a garanzia della
parità di trattamento e, in definitiva, dell’eguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione.
Il principio di imparzialità impone alle amministrazioni un vincolo giuridico che è assente nel caso
dell’agire dei soggetti privati. Questi ben possono orientare le proprie scelte avvantaggiando alcuni e
svantaggiando altri, purché non vengano superati i limiti generali o speciali dell’autonomia negoziale.
Il principio di imparzialità può entrare in tensione con il principio della responsabilità politica
delle amministrazioni volto a inserirle nei circuito politico amministrativo. I vertici delle pubbliche
amministrazioni, che costituiscono il punto di raccordo tra politica e amministrazione, sono portati a
perseguire obiettivi coerenti con le priorità della propria base elettorale. E siccome gli apparati
amministrativi sono i principali erogatori di risorse e di altri benefici diretti o indiretti utili al fine
dell’accrescimento del consenso elettorale, i vertici politici sono tentati talora a ingerirsi nella gestione
e, dunque, a condizionare a fini di parte le scelte amministrative.
Un secondo principio che presiede all’esercizio della discrezionalità è il principio di
proporzionalità. Esso, che assume particolare rilievo nel caso di poteri che incidono negativamente
nella sfera giuridica del destinatario, richiede all’amministrazione di applicare in sequenza tre criteri.
L’idoneità mette in relazione il mezzo adoperato con l’obiettivo da perseguire. In base a tale
criterio vanno scartate tutte le misure che non sono in grado di raggiungere il fine. La necessarietà
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

detta anche la «regola del mezzo più mite», mette a confronto le misure ritenute idonee e orienta la
scelta su quella che comporta il minor sacrificio possibile degli interessi incisi dal provvedimento.
L’adeguatezza della misura prescelta consiste nella valutazione della scelta finale in termini di
tollerabilità della restrizione o incisione nella sfera giuridica del destinatario del provvedimento.
Il principio di proporzionalità costituisce una specificazione di un principio ancora più generale, di
natura in realtà pregiuridica, costituito dal principio di ragionevolezza. In base alla teoria delle scelte
razionali, infatti, anche la pubblica amministrazione, al pari degli operatori economici, è un agente in
grado di perseguire determinati obiettivi ponendo in essere azioni logiche, coerenti e ad essi
funzionali.
Il principio di ragionevolezza ha però un’estensione più ampia rispetto a quello di proporzionalità
e assume rilievo generale nell’ambito del sindacato di legittimità dei provvedimenti amministrativi
come figura sintomatica dell’eccesso di potere.
Il principio di proporzionalità, oltre ad essere criterio di esercizio della discrezionalità
amministrativa, è un parametro che deve guidare il legislatore nel momento in cui alloca e disciplina i
poteri dei vari livelli di governo.
Un altro principio che presiede all’esercizio della discrezionalità, anch’esso di derivazione europea
ed elaborato prima ancora nella giurisprudenza tedesca, è il principio del legittimo affidamento.
Esso mira a tutelare le aspettative ingenerate dalla pubblica amministrazione con un proprio atto o
comportamento. Nel diritto europeo il principio ha trovato applicazione, per esempio, nella materia
degli aiuti di Stato.
Nel diritto interno il principio del legittimo affidamento interviene, per esempio, a proposito del
potere di annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo, per l’esercizio del quale è richiesta
all’amministrazione una valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento e una
considerazione del tempo ormai trascorso (art. 21-nonies l. n. 241/1990).
Il principio della tutela del legittimo affidamento si ricollega al principio ancor più generale di
diritto europeo che è quello della certezza del diritto. Tale principio ha come destinatario anzitutto il
legislatore, ma implica che anche l’agire dell’amministrazione deve essere prevedibile e coerente nel
suo svolgimento.
Va menzionato, da ultimo, il principio di precauzione. Esso comporta che, quando sussistono
incertezze in ordine all’esistenza o al livello di rischi per la salute delle persone, le autorità competenti
possono adottare misure protettive senza dover attendere che sia dimostrata in modo compiuto la realtà
e la gravità di tali rischi. La giurisprudenza italiana ha iniziato a utilizzarlo, per esempio, in materia di
autorizzazione alla messa in coltura di sementi geneticamente modificate (OGM) o in materia di
inquinamento da elettromagnetismo.
Il principio di precauzione costituisce soprattutto un principio guida per il legislatore. Esso può
trovare applicazione, entro certi limiti, anche come regola di esercizio della discrezionalità.

 I principi sul provvedimento. I principi che si riferiscono specificatamente al provvedimento


amministrativo, in aggiunta al principio di legalità.
Il principio della motivazione è desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea laddove sancisce «l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni».
Poiché attraverso la motivazione il destinatario del provvedimento e il giudice amministrativo
sono messi in grado di ricostruire le ragioni poste a fondamento della decisione, il principio della
motivazione può essere messo in relazione con il principio di trasparenza e, in ultima analisi, con
quello dell’imparzialità della decisione.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il principio di sindacabilità degli atti amministrativi è sancito dagli artt. 24 e 113 Cost.: gli atti
amministrativi che ledono i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre sottoposti al controllo
giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice amministrativo.

 I principi sul procedimento. I principi relativi al procedimento amministrativo, sono il


principio del contraddittorio, il principio di certezza dei tempi, il principio di efficienza, il principio di
correttezza e buona fede.
Il principio del contradditorio è richiamato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea secondo la quale ogni individuo ha diritto «di essere ascoltato prima che nei suoi confronti
venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio». Esso è stato poi sviluppato
nella l. n. 241/1990, che disciplina la partecipazione al procedimento amministrativo (artt. 7 ss.).
La Corte di giustizia ha qualificato tale principio come «principio di diritto amministrativo
ammesso in tutti gli Stati membri della Comunità e che risponde alle esigenze della giustizia e della
sana amministrazione».
Talora, il diritto dei privati di esporre le proprie ragioni prima che venga emanato un
provvedimento limitativo dei loro diritti viene ancorato per analogia al principio del giusto processo.
In realtà, come ha chiarito più volte la Corte Costituzionale, il principio del giusto procedimento non
ha fondamento costituzionale.
Un altro principio è costituito dal principio di certezza del tempo dell’agire amministrativo e
di celerità. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuisce a ogni individuo anche il
diritto a «che le questioni che lo riguardano siano trattate entro un termine ragionevole». La l. n.
241/1990 lo rende concreto nella disciplina volta a individuare per ciascun tipo di procedimento un
termine massimo entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento finale che conclude
il procedimento amministrativo (art. 2).
La durata ragionevole del procedimento e il rispetto dei termini massimi perseguono due obiettivi.
In primo luogo, tutelano gli interessi dei soggetti coinvolti, per i quali, in particolare, la certezza del
tempo dell’agire dell’amministrazione costituisce un fattore essenziale per poter programmare le
proprie attività. In secondo luogo, tendono a promuovere l’efficienza e l’efficacia dell’azione
amministrativa.
La l. n. 241/1990 richiama anche il principio di efficienza, prevedendo, in particolare, che
l’amministrazione «non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze
imposte dallo svolgimento dell’istruttoria» (art. 1, comma 2).

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 4. IL PROVVEDIMENTO

1. Premessa

Nel capitolo III il provvedimento amministrativo è stato definito la manifestazione di volontà


dell’amministrazione tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei confronti del soggetto
destinatario.
Per realizzare un’infrastruttura pubblica, come una nuova tratta ferroviaria o autostradale,
l’acquisizione dei terreni potrebbe certamente avvenire tramite contratti di compravendita. Ma in
mancanza del consenso dei proprietari lo Stato ha a disposizione lo strumento coattivo
dell’espropriazione per pubblica utilità.
Ancora, i proprietari dei terreni di un comune, almeno in teoria, potrebbero raggiungere un
accordo per edificare il territorio in modo ordinato. Ma poiché all’atto pratico ciò è impossibile, a
questo fine provvedono i piani regolatori comunali e i permessi a costruire rilasciati ai singoli
proprietari.
L’espropriazione, l’autorizzazione, la sanzione pecuniaria, il piano regolatore, il permesso a
costruire costituiscono esempi di provvedimenti per mezzo dei quali l’autorità amministrativa
provvede alla cura in concreto dell’interesse pubblico di cui essa è tenuta a farsi carico in base alla
legge.
Il provvedimento amministrativo costituisce dunque una manifestazione dell’autorità dello Stato.
In un sistema costituzionale improntato al principio della tendenziale separazione dei poteri il
provvedimento, espressione del potere esecutivo, si colloca a fianco di due atti tipici riconducibili agli
altri due poteri dello Stato: la legge, espressione del potere legislativo; la sentenza, espressione del
potere giurisdizionale che risolve la controversia imponendo alle parti la regola concreta del rapporto
giuridico intercorrente tra esse.
Come si è già accennato, il provvedimento, così come la legge e la sentenza, è assunto all’esito di
un procedimento atto a garantire trasparenza e tutela degli interessi coinvolti.
La disciplina del provvedimento è contenuto nella l. n. 241/1990 che ha recepito e razionalizzato
l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.

2. Il regime del provvedimento: a) la tipicità

Tra i caratteri del provvedimento amministrativo, va richiamata anzitutto la tipicità. Essa si


contrappone all’atipicità dei negozi giuridici privati enunciata dall’art. 1322, comma 2, cod. civ.
La pubblica amministrazione, al contrario, è tenuta a perseguire esclusivamente il fine stabilito
dalla norma di conferimento del potere e può utilizzare soltanto lo strumento giuridico definito dalla
stessa norma.
In questo senso, si può affermare che la tipicità dei poteri e dei provvedimenti amministrativi è un
corollario del principio di legalità inteso in senso sostanziale.
Costituiscono un’attenuazione del principio di tipicità le cosiddette ordinanze contingibili e
urgenti che possono essere emanate nei casi e per i fini previsti dalla legge, ma che non sono tipizzate.
La legge rimette infatti all’organo competente la determinazione del contenuto e degli effetti del
provvedimento.
Si fa riferimento talora anche alla nominatività dei provvedimenti per indicare che
l’amministrazione può emanare soltanto gli atti ai quali la legge fa espresso riferimento.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il principio di tipicità e la nominatività escludono che si possano riconoscere in capo


all’amministrazione poteri impliciti, cioè poteri non espressamente previsti dalla legge ma ricavabili
indirettamente da norme che definiscono altri poteri.

3. b) La cosiddetta imperatività

Intuitivamente, dagli esempi fatti nel primo paragrafo si può ricavare che l’atto amministrativo si
differenzia dai negozi di diritto privato perché è dotato di una particolare forza giuridica atta a far
prevalere, ove occorra, l’interesse pubblico sugli interessi dei soggetti privati.
Si manifesta così un secondo carattere del provvedimento amministrativo è cioè la cosiddetta
imperatività o autoritarietà, secondo l’espressione deducibile dall’art. 1, comma 1-bis, l. n.
241/1990.
Essa consiste nel fatto che la pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla legge
può imporre al soggetto privato destinatario del provvedimento le proprie determinazioni operando in
modo unilaterale una modifica nella sua sfera giuridica. Così, nell’esempio già ricordato
dell’espropriazione, l’atto conclusivo del procedimento produce lo stesso effetto traslativo del diritto
di proprietà che potrebbe essere realizzato attraverso il contratto di compravendita. Nell’imperatività si
manifesta la dimensione verticale (di sovraordinazione) dei rapporti tra Stato e cittadino che si
contrappone a quella orizzontale (di equiordinazione) delle relazioni giuridiche privatistiche.
L’imperatività non è nient’altro che una formula lessicale che esprime la particolare modalità di
produzione degli effetti nei rapporti tra l’amministrazione titolare del potere e il soggetto privato
titolare di un interesse legittimo. Infatti, il provvedimento è imperativo nel senso che ha l’attitudine a
modificare la sfera giuridica del soggetto privato destinatario senza che sia necessario acquisire il suo
consenso.
L’imperatività coincide dunque con l’unilateralità nella produzione di un effetto giuridico che
accomuna ogni atto di esercizio di un potere in senso proprio. Del resto, la stessa unilateralità non è un
carattere indefettibile del provvedimento atteso che l’esercizio del potere può prevedere un momento
consensuale, allorché l’amministrazione proceda alla stipula di un accordo con il soggetto privato
avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11 l. n. 241/1990).
L’efficacia del provvedimento non dipende dalla validità del medesimo, cioè dalla sua conformità
alla norma attributiva del potere. Anche l’atto illegittimo è in grado di produrre gli effetti tipici al pari
dell’atto valido. Tuttavia gli effetti possono essere rimossi con efficacia retroattiva, insieme al
provvedimento viziato, in seguito a una sentenza di annullamento del giudice amministrativo oppure
in seguito all’annullamento pronunciato dalla stessa amministrazione. Vale cioè quello che è stato
definito il principio dell’equiparazione dell’atto invalido all’atto valido. Solo il provvedimento
affetto da nullità ai sensi dell’art. 21-septies l. n. 241/1990 non ha carattere imperativo e dunque le
situazioni giuridiche soggettive di cui è titolare il soggetto privato destinatario non sono intaccate e
«resistono» di fronte alla pretesa dell’amministrazione.
L’imperatività emerge con più evidenza negli atti amministrativi che determinano effetti ablatori o
comunque restrittivi della sfera giuridica del destinatario. La volontà eventualmente contraria del
soggetto privato non preclude il prodursi dell’effetto giuridico. Il destinatario del provvedimento si
trova dunque in una posizione di passività (più tecnicamente di soggezione).
Ma, a ben vedere, la relazione giuridica con l’amministrazione non è paritaria e consensuale
neppure nel caso degli atti amministrativi emanati su domanda o istanza dell’interessato e che
determinano un effetto ampliativo della sfera giuridica di quest’ultimo attribuendogli un diritto, una
facoltà o altra utilità.
62
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Infatti, la domanda o istanza del privato fa sorgere in capo all’amministrazione (ex art. 2 l. n.
241/1990) un dovere di avviare il procedimento e di emanare all’esito di quest’ultimo, ove il soggetto
privato risulti in possesso dei presupposti e dei requisiti di legge, il provvedimento richiesto. La
volontà del soggetto privato espressa nell’istanza costituisce il fatto presupposto che legittima
l’esercizio del potere. Essa però non si fonde con quella dell’amministrazione che emana il
provvedimento. L’effetto giuridico ampliativo viene comunque prodotto in via unilaterale dal
provvedimento emanato.

4. c) L’esecutorietà e l’efficacia

Una terza caratteristica di molti provvedimenti è la cosiddetta esecutorietà (art. 21-ter l. n.


241/1990). Essa può essere definita come il potere dell’amministrazione di procedere all’esecuzione
coattiva del provvedimento in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, senza
dover rivolgersi preventivamente a un giudice allo scopo di ottenere l’esecuzione forzata.
L’esecutorietà deroga al principio civilistico del divieto di autotutela, cioè di farsi giustizia da sé.
Nei rapporti interprivati, l’autotutela è ammessa infatti solo in casi eccezionali. La regola generale
è invece che chi vuol far valere le proprie ragioni deve rivolgersi al giudice civile che accerti
l’inadempimento degli obblighi nascenti dal negozio ed emani una sentenza di condanna, e che
disponga le misure coattive necessarie per l’esecuzione della sentenza. Queste ultime vengono poste in
essere, secondo procedure formalizzate, da un ufficiale giudiziario. La pubblica amministrazione ha
invece la possibilità di portare a esecuzione i provvedimenti con propri uomini e mezzi. Così, se il
proprietario di un bene non coopera all’esecuzione del provvedimento di esproprio con la consegna
materiale spontanea del bene, l’amministrazione può procedere direttamente ad apprendere il bene, se
necessario, anche con l’uso della forza.
Il privato destinatario non è tenuto a collaborare, ma non può opporsi alle attività esecutive,
comportamento che potrebbe rilevare addirittura in sede penale.
Anche l’ordine di polizia volto a sciogliere una manifestazione non autorizzata in un luogo
pubblico può sfociare, in caso di inottemperanza, nello sgombero coatto delle persone coinvolte.
In definitiva, mentre l’imperatività opera sul piano della produzione degli effetti giuridici,
l’esecutorietà opera su quello, da tenere ben distinto, delle attività materiali necessarie per conformare
la realtà di fatto alla situazione di diritto così come modificata dal provvedimento. Entrambe, come si
è visto, connotano il regime del provvedimento in modo antitetico rispetto a quello dei negozi privati.
Prima dell’introduzione dell’art. 21-ter l. n. 241/1990, il fondamento dell’esecutorietà è stato
rinvenuto nella cosiddetta presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo.
La giustificazione teorica di quest’ultima venne variamente individuata nella provenienza dell’atto
amministrativo da organi espressione della sovranità; nell’esigenza di assicurare un andamento
regolare e sollecito dell’attività dell’amministrazione; nelle garanzie offerte dai metodi concorsuali di
selezione dei funzionari pubblici e dal sistema dei controlli amministrativi. Questi e altri elementi
portano a ritenere che, di norma, i provvedimenti siano emanati in modo legittimo e dunque possono
essere portati a esecuzione dall’amministrazione immediatamente. In realtà, la presunzione di
legittimità aveva una connotazione ideologica e si ricollegava a una visione autoritaria dei rapporti tra
Stato e cittadino. La dottrina ha dimostrato da tempo l’inconsistenza teorica di questo principio che
però continua talora a essere richiamato dalla giurisprudenza.
L’art. 21-ter l. n. 241/1990 pone una disciplina embrionale dell’esecuzione coattiva dei
provvedimenti, confermando anzitutto la dottrina prevalente secondo la quale l’esecutorietà non è una

63
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

caratteristica propria di tutti i provvedimenti amministrativi, ma deve essere di volta in volta prevista
dalla legge.
Il comma 1 precisa infatti che il potere di imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi è
attribuito all’amministrazione solo «nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge».
Questa disposizione peraltro ha dato origine al dubbio se essa fondi in via generale un siffatto
potere, oppure se essa si limiti a operare un rinvio alle norme che prevedono in modo più specifico
l’esecuzione forzata amministrativa.
L’esecutorietà è riferibile non soltanto agli obblighi nascenti dal provvedimento, ma anche a quelli
aventi fonte negoziale. Infatti, il comma 1 dell’art. 21-ter richiama in termini generali l’adempimento
coattivo degli «obblighi nei loro confronti», includendo così implicitamente anche gli obblighi che
sorgono nell’ambito dei rapporti paritari.
In relazione agli obblighi nascenti da un provvedimento amministrativo, quest’ultimo deve
indicare il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Inoltre, l’esecuzione
coattiva può avvenire solo previa adozione di un atto di diffida con il quale l’amministrazione intima
al privato di porre in essere le attività esecutive già indicate nel provvedimento, concedendo così al
privato un’ultima chance.
In definitiva, in base al comma 1 dell’art. 21-ter, l’esecutorietà del provvedimento dà luogo a un
procedimento d’ufficio in contraddittorio con il soggetto privato.
Il comma 2, infine, menziona in modo specifico l’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto
somme di denaro, precisando che ad esse si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei
crediti dello Stato.
L’esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento emanato sia efficace ed
esecutivo. La l. n. 241/1990 dedica due articoli all’efficacia e all’esecutività del provvedimento.
Secondo l’art. 21-bis il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista
efficacia con la comunicazione al destinatario e ha dunque natura di atto recettizio.
Sono peraltro esclusi dall’obbligo di comunicazione i provvedimenti aventi carattere «cautelare e
urgente» che sono sempre immediatamente efficaci. Inoltre, l’art. 21-bis stabilisce che i provvedimenti
limitativi non aventi carattere sanzionatorio possono contenere una clausola motivata di immediata
efficacia.
L’art. 21-bis detta alcune disposizioni più minute sulla modalità da seguire per la comunicazione
del provvedimento.
L’esecutività del provvedimento è disciplinata dall’art. 21-quater, secondo il quale i
provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente
stabilito dalla legge o dal provvedimento amministrativo.
All’efficacia del provvedimento consegue dunque la necessità che esso venga portato subito a
esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha emanato l’atto, e prima ancora dal
destinatario del medesimo, là dove il provvedimento faccia sorgere in capo a quest’ultimo un obbligo
di dare o di fare.
In realtà, non tutti i provvedimenti amministrativi pongono un problema di esecutività (o
eseguibilità). Spesso infatti la produzione dell’effetto giuridico realizza appieno l’interesse pubblico
alla cui cura è finalizzato il provvedimento emanato, senza bisogno di ulteriori attività di tipo
esecutivo.
In base all’art. 21-quater l’esecuzione del provvedimento può essere differita o sospesa
discrezionalmente dall’amministrazione.

5. d) L’inoppugnabilità
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Un’ultima caratteristica generale del provvedimento amministrativo consiste nella cosiddetta


inoppugnabilità, che si ha allorché decorrono i termini previsti per l’esperimento dei rimedi
giurisdizionali innanzi al giudice amministrativo. In particolare, l’azione di annullamento va proposta
nel termine di decadenza di 60 giorni; l’azione di nullità è soggetta a un termine di 180 giorni; l’azione
risarcitoria può essere proposta in via autonoma nel termine di 120 giorni.
Esigenze di certezza e di stabilità dell’assetto dei rapporti giuridici conseguenti all’emanazione di
un provvedimento giustificano in definitiva la previsione di termini decadenziali brevi per
l’esperimento dei mezzi di tutela giurisdizionale.
L’inoppugnabilità non esclude peraltro che l’amministrazione possa rimettere in discussione il
rapporto giuridico esercitando, come si vedrà, il potere di autotutela. Emerge qui un ulteriore
elemento di asimmetria tra le parti del rapporto giuridico amministrativo: l’inoppugnabilità garantisce
la stabilità del rapporto giuridico amministrativo solo sul versante delle possibili contestazioni da parte
del soggetto privato.
L’atto amministrativo può diventare inoppugnabile anche in seguito ad acquiescenza da parte del
destinatario, che consiste in una dichiarazione espressa o tacita di assenso all’effetto prodotto dal
provvedimento. Si discute se l’acquiescenza abbia una rilevanza sostanziale, nel senso che provochi
l’estinzione della situazione giuridica di cui è titolare il destinatario del provvedimento, oppure se essa
rilevi soltanto sotto il profilo processuale, nel senso di precludere o di rendere comunque ammissibile
il ricorso giurisdizionale proposto.

6. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione

Come per tutti gli atti giuridici, anche per il provvedimento amministrativo possono essere
individuati alcuni elementi strutturali che consentono, di volta in volta, di identificarlo e di
qualificarlo. Essi si ricavano dalle nozioni elaborate in sede di teoria generale.
1. Il soggetto si individua in base alle norme sulla competenza. Di regola, si tratta di pubbliche
amministrazioni, ma in casi particolari, anche soggetti privati sono titolari di poteri amministrativi. Si
pensi, per esempio, al caso di un’impresa privata concessionaria di un pubblico servizio.
2. Un secondo elemento è costituito dalla volontà. Il provvedimento è manifestazione della
volontà dell’amministrazione che va intesa non già in senso psicologico, bensì in senso oggettivato
(volontà procedimentale). I vizi della volontà non determinano in via diretta l’annullabilità del
provvedimento, bensì rilevano tutt’al più, come si vedrà, in via indiretta come figura sintomatica
dell’eccesso di potere.
3. Quanto all’oggetto del provvedimento, si tratta della cosa, attività o situazione soggettiva cui
il provvedimento si riferisce. L’oggetto deve essere determinato o quanto meno determinabile.
4. Il contenuto si ricava dalla parte dispositiva dell’atto e consiste in «ciò che con esso l’autorità
intende disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare». In proposito, rileva soprattutto la
distinzione tra contenuto vincolato e discrezionale del provvedimento.
Il contenuto dell’atto può essere integrato con clausole accessorie che, come si è già accennato,
fissano prescrizioni e condizioni particolari. Esse non possono snaturare il contenuto tipico del
provvedimento e devono essere coerenti con il fine pubblico previsto dalla legge attributiva del potere.
Con riferimento all’atto amministrativo ricorre frequentemente la nozione di motivi, cioè le
ragioni di interesse pubblico poste alla base del provvedimento, che si deducono dalla motivazione.
5. La motivazione è la parte del provvedimento che, secondo la definizione contenuta nell’art. 3
l. n. 241/1990, enuncia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

dell’amministrazione in relazione alle risultanze dell’istruttoria. Nel caso in cui il provvedimento si


fondi su una pluralità di ragioni autonome esposte nella motivazione, è sufficiente che una sola sia
legittima per escludere l’annullabilità dell’atto (cosiddetta prova di resistenza).

Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione


amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo
che nelle ipotesi previste dal comma 2 (art. 3, comma 1).

L’obbligo di motivazione, la cui violazione può essere una causa di annullabilità, costituisce uno
dei principi generali del regime degli atti amministrativi, che lo differenzia da quello sia degli atti
legislativi, sia degli atti negoziali.
La motivazione avvicina il regime del provvedimento a quello degli atti giudiziari per i quali vi è
addirittura una garanzia costituzionale. Le pubbliche amministrazioni soffrono, anche se in misura
minore rispetto ai giudici, di un deficit di legittimazione democratica che richiede di essere
compensato attraverso un onere di giustificazione. La motivazione, insieme ad altri istituti come la
partecipazione al procedimento, concorre dunque a promuovere l’«accettabilità dell’attività
amministrativa» da parte dei soggetti amministrati.
La motivazione adempie a tre funzioni principali: promuove la trasparenza dell’azione
amministrativa perché rende palesi le ragioni sottostanti le scelte amministrative; agevola
l’interpretazione del provvedimento; costituisce una garanzia per il soggetto privato che subisce dal
provvedimento un pregiudizio perché consente un controllo giurisdizionale più incisivo sull’operato
dell’amministrazione.
La motivazione deve dar conto di tutti gli elementi rilevanti, acquisiti nel corso dell’istruttoria
procedimentale, che hanno indotto l’amministrazione a operare una determinata scelta. In particolare,
nella motivazione devono emergere le valutazioni operate dall’amministrazione sugli apporti
partecipativi dei privati (art. 10, lett. b), l. n. 241/1990). In ogni caso, dalla motivazione deve essere
possibile ricostruire in modo puntuale l’iter logico seguito dall’amministrazione per pervenire a una
certa determinazione. La motivazione può essere anche per relationem, cioè con un rinvio ad altro atto
acquisito al procedimento del quale si fanno proprie le ragioni (art. 3, comma 3, l. n. 241/1990). La
motivazione può essere sintetica nel caso di domande presentate all’amministrazione volte al rilascio
di un provvedimento che risultino manifestamente inammissibili e infondate.
La motivazione assume particolare importanza nel caso di provvedimenti discrezionali, mentre in
quelli vincolati essa può essere limitata all’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che
giustificano l’esercizio del potere. Essa è infatti lo strumento principale per sindacare la legittimità, in
particolare in termini di ragionevolezza e di proporzionalità, delle scelte operate dall’amministrazione.
In generale, quanto più ampio è l’ambito della discrezionalità tanto più stringente è da ritenere
l’obbligo della motivazione.
L’art. 3, comma 2, l. n. 241/1990 esclude dall’obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a
contenuto generale. Tuttavia, la legislazione recente, in particolare con riferimento alle autorità
amministrative indipendenti preposte alla vigilanza sui mercati finanziari, ha previsto un obbligo di
motivazione «con riferimento alle scelte di regolazione e di vigilanza».
Sulla motivazione del provvedimento si è riacceso di recente il dibattito in seguito ad alcune
disposizioni contenute nella l. n. 15/2005 di riforma della l. n. 241/1990 e nella l. n. 190/2012, che
sembrano indicare direttrici contrastanti, l’una tesa a rafforzarla, l’altra a dequotarla.
Quanto alla prima direttrice, infatti, l’art. 10-bis sulla comunicazione dei motivi ostativi
dell’accoglimento dell’istanza valorizza l’istituto della motivazione. Infatti, prima di poter rigettare
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

l’istanza di un privato volta ad ottenere un provvedimento favorevole, l’amministrazione deve


comunicare all’interessato i motivi per i quali la domanda non può essere accolta. Chi ha presentato
l’istanza può formulare le proprie osservazioni; di queste l’amministrazione dovrà dar conto nella
motivazione del provvedimento finale nei casi in cui esse siano disattese. Nella stessa direzione, l’art.
6, comma 1, lett. e), l. n. 241/1990 prevede ora che l’organo competente ad adottare un provvedimento
amministrativo, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del
procedimento, deve indicare nella motivazione le ragioni.
Quanto alla seconda direttrice, l’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 esclude che il
provvedimento possa essere annullato per vizi formali o procedurali ove il contenuto dispositivo del
medesimo in ogni caso non avrebbe potuto essere diverso.

Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla


forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21-octies,
comma 2).

Si discute dunque se la motivazione abbia perso almeno in parte la sua rilevanza e possa essere per
così dire «dequotata» a vizio meramente formale. Ciò che importa, in una visione più sostanzialista, è
che la decisione sia sorretta da ragioni valide, che potrebbero emergere magari anche nel corso del
giudizio amministrativo instaurato per sindacare la legittimità dell’atto, più che il fatto che esse sono
esternate nella motivazione. Si pone così la questione del se ed entro quali limiti sia superato il divieto
tradizionale dell’integrazione della motivazione nel corso del giudizio, enunciato dalla giurisprudenza
amministrativa, e dunque dell’ammissibilità della cosiddetta motivazione successiva.
6. L’atto amministrativo richiede di regola la forma scritta. In taluni casi l’atto può essere
esternato oralmente (l’ordine di polizia o impartito dal superiore gerarchico, la proclamazione del
risultato di una votazione). In seguito al processo di informatizzazione in corso negli ultimi anni, l’atto
può essere sottoscritto con la firma digitale e comunicato utilizzando le tecnologie informatiche.
Il provvedimento può assumere la veste formale di un accordo tra l’amministrazione titolare del
potere e il privato destinatario degli effetti volto a determinare il contenuto discrezionale del
provvedimento. L’art. 11 l. n. 241/1990 prevede, a pena di nullità, la forma scritta.
In giurisprudenza emerge anche la nozione di provvedimento implicito. Quest’ultimo costituisce
sul piano logico il presupposto necessario di un provvedimento espresso o di un comportamento
concludente. Così, per esempio, può essere ritenuto implicito il provvedimento di nomina di un
dipendente pubblico che, senza l’adozione di un atto formale, venga inserito nell’organizzazione, gli
siano conferiti compiti specifici e riceva in modo regolare la retribuzione.
L’art. 21-septies l. n. 241/1990 contiene un richiamo agli «elementi essenziali» del
provvedimento, la mancanza dei quali costituisce una delle cause di nullità, analogamente a quanto
prevede per il contratto l’art. 1418, comma 2, cod. civ. Gli elementi essenziali dell’atto amministrativo
non sono elencati in modo puntuale dalla legge (come fa invece l’art. 1325 cod. civ. per i requisiti del
contratto) e dunque essi vanno individuati in via di interpretazione, tenendo presente, come si vedrà,
che nel diritto amministrativo le ipotesi di nullità tendono a essere limitate al minimo.
Per identificare il contenuto dispositivo del provvedimento soccorrono le regole
dell’interpretazione previste in via generale dal codice civile per l’interpretazione dei contratti (artt.
1362 ss. cod. civ.). La giurisprudenza ritiene che alcune di esse non possono essere applicate ai
provvedimenti. È questo il caso dell’art. 1370 sull’interpretazione contro l’autore della clausola, che
finirebbe per penalizzare sempre l’amministrazione che emana in modo unilaterale l’atto. Non può
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

trovare applicazione neppure l’art. 1371, secondo il quale nel caso di oscurità l’atto deve essere inteso
nel senso meno gravoso per l’obbligato, poiché prevale l’esigenza di garantire il perseguimento
dell’interesse pubblico.
Su un piano più descrittivo, l’atto amministrativo indica nell’intestazione l’autorità emanante,
contiene nel preambolo i riferimenti alle norme legislative e regolamentari che fondano il potere
esercitato, richiama gli atti endoprocedimentali e altri atti ritenuti rilevanti e la motivazione, enuncia
nel dispositivo la determinazione o statuizione finale. Reca anche la data e la sottoscrizione e
menziona i destinatari e l’organo giurisdizionale cui è possibile ricorrere contro l’atto e il termine
entro il quale il ricorso va proposto.

7. I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori e le sanzioni amministrative

Conviene ora dar conto della tipologia dei provvedimenti amministrativi, con l’avvertenza che le
classificazioni e subclassificazioni hanno più che altro un valore descrittivo. Inoltre, i provvedimenti
amministrativi si prestano a essere ordinati secondo una pluralità di criteri che possono essere usati
anche in modo concorrente.
È opportuno riprendere la distinzione, da un lato, tra poteri il cui esercizio determina effetti
limitativi della sfera giuridica del destinatario ai quali sono correlati gli interessi legittimi oppositivi e,
dall’altro lato, poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario ai
quali sono correlati gli interessi legittimi pretensivi.
Le principali subcategorie dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari sono i
provvedimenti ablatori reali e personali, gli ordini e le diffide, i provvedimenti sanzionatori.

 I provvedimenti ablatori reali. Tra i provvedimenti ablatori reali va ricordata soprattutto


l’espropriazione per pubblica utilità, nella quale si manifesta al massimo grado il conflitto tra
l’interesse pubblico e gli interessi privati. Esso trova un punto di composizione, da un lato, nel
consentire alla pubblica amministrazione, all’esito di un procedimento in contraddittorio, di trasferire
coattivamente il diritto di proprietà dal privato all’amministrazione o al soggetto beneficiario
dell’espropriazione; dall’altro, attribuendo al privato il diritto a un indennizzo (art. 42, comma 3,
Cost.).

 I provvedimenti ordinatori. Tra i provvedimenti ablatori personali vanno rientrano gli ordini
amministrativi e i provvedimenti che impongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare (divieti)
puntuali.
L’ordine è un provvedimento che prescrive un comportamento specifico da adottare in una
situazione determinata. Nelle organizzazioni improntate al principio gerarchico esso è lo strumento in
base al quale il titolare dell’organo o dell’ufficio sovraordinato impone la propria volontà e guida
l’attività dell’organo o dell’ufficio sottordinato.
Se l’ordine appare palesemente illegittimo, l’impiegato è tenuto a farne rimostranza motivata al
superiore, il quale ha sempre il potere di rinnovarlo per iscritto. In questo caso, l’impiegato è tenuto a
darvi esecuzione, a meno che non si tratti di un atto vietato dalla legge penale (art 17, d.p.r. 10 gennaio
1957, n. 3). La mancata osservanza dell’ordine impartito può comportare l’adozione di sanzioni
disciplinari in capo al titolare dell’organo o dell’ufficio sottordinato e può indurre il superiore
gerarchico ad avocare a sé la competenza.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Gli ordini amministrativi sono previsti talora anche al di fuori dei rapporti interorganici e dunque
riguardare rapporti intersoggettivi tra l’amministrazione titolare del potere e i soggetti privati
destinatari.
Gli ordini di polizia, in particolare, sono emanati dalle autorità di pubblica sicurezza in base al
Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Tra di essi vi è l’invito a comparire dinanzi all’autorità
di pubblica sicurezza entro un termine assegnato, la cui inosservanza è sanzionata anche penalmente,
oppure l’ordine di sciogliere una riunione o un assembramento che metta in pericolo l’ordine pubblico
preceduto da un invito e da tre intimazioni formali. Gli ordini di polizia, al pari degli altri
provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza, sono dotati di esecutorietà, cioè possono essere
eseguiti in via amministrativa.
L’imposizione di obblighi comportamentali, con atti che, al di là della denominazione, hanno
contenuto prescrittivo ordinatorio, è prevista da numerose leggi, specie nell’ambito di rapporti con
autorità preposte alla vigilanza di categorie di imprese o a controlli su attività private. Così, per
esempio, in materia bancaria e creditizia, la Banca d’Italia può emanare nei confronti delle banche
vigilate provvedimenti specifici riguardanti l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento dei rischi,
l’organizzazione aziendale, inclusi il divieto di effettuare determinate operazioni o di distribuire utili.
Essa può anche disporre misure inibitorie nei confronti dei soggetti vigilati nel caso in cui
nell’esercizio dei controlli emergano irregolarità.
Questi esempi già introducono una sottospecie di provvedimenti ordinatori costituita dalla diffida,
che consiste nell’ordine di cessare da un determinato comportamento posto in essere in violazione di
norme amministrative, anche con la fissazione di un termine per eliminare gli effetti dell’infrazione.
La diffida può comportare, in caso di inottemperanza, l’applicazione di sanzioni di tipo
amministrativo.
Un esempio di diffida è il potere attribuito all’autorità competente al controllo degli scarichi di
acque inquinanti di ordinare al titolare dell’autorizzazione che non rispetta le condizioni in essa
contenute di cessare dal comportamento entro un termine determinato. In più, nel caso in cui si
manifesti una situazione di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente, la medesima autorità può
sospendere l’autorizzazione. In materia antitrust l’Autorità garante della concorrenza e del mercato,
ove accerti una fattispecie di intesa restrittiva della concorrenza o di abuso di posizione dominante,
«fissa alle imprese e agli enti interessati il termine per l’eliminazione delle infrazioni» e nei casi più
gravi irroga una sanzione pecuniaria. Con riguardo agli abusi di informazioni privilegiate e di
manipolazione del mercato, la CONSOB può ordinare in via cautelare di porre termine a condotte che
facciano presumere l’esistenza di violazioni della normativa.

 Le sanzioni amministrative. Le sanzioni amministrative sono volte a reprimere illeciti di tipo


amministrativo e hanno dunque una funzione afflittiva e una valenza dissuasiva. In base alla teoria
della pluralità degli ordinamenti giuridici, le sanzioni amministrative garantiscono l’effettività e
l’autosufficienza degli ordinamenti settoriali rispetto all’ordinamento generale.
Le sanzioni amministrative sono previste dalle leggi amministrative sia in caso di violazione dei
precetti in esse contenuti, sia nel caso di violazione dei provvedimenti emanati sulla base di tali leggi.
Molti casi di sanzioni del primo tipo sono disciplinati nel Codice della strada che contiene una
serie minuta di regole comportamentali soggette a un’ampia gamma di sanzioni pecuniarie e non
pecuniarie definite e quantificate direttamente dalla legge.
Sanzioni amministrative per la violazione di provvedimenti amministrativi sono invece previste
dal Testo unico degli enti locali (art. 7-bis d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) nel caso di violazione di

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

regolamenti degli enti locali o delle ordinanze contingibili e urgenti emanate dal sindaco o dal
presidente della provincia.
In molti casi, la deterrenza delle sanzioni amministrative è accresciuta dalla previsione in parallelo
di sanzioni di tipo penale. Così, per esempio, nel settore del mercato mobiliare, l’abuso di
informazioni privilegiate costituisce, a seconda della gravità dei comportamenti tipizzati, un illecito
penale o un illecito amministrativo.
In realtà, sussiste un certo grado di fungibilità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative e la
dottrina ha dibattuto a lungo se e quale possa essere il criterio sostanziale di distinzione. Entrambi i
tipi di sanzione hanno infatti l’analoga finalità di prevenzione generale e speciale di illeciti e ciò
spiega una certa affinità di regime. Il legislatore italiano, per tradizione, ha impostato la distinzione
sulla base di criteri formali (qualificazioni legislative dell’illecito come penale o amministrativo) con
piena libertà di scegliere il tipo di sanzione da applicare a seconda dei mutevoli indirizzi della politica
legislativa volti a criminalizzare o a depenalizzare gli illeciti.
In ogni caso, la legge 24 novembre 1981, n. 689 detta una disciplina generale delle sanzioni
amministrative, richiamando una serie di principi tipicamente penalistici. Tra di essi vi è anzitutto il
principio di legalità, in base al quale nessuno può essere sottoposto a sanzioni amministrative se non in
forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione e secondo il quale leggi
che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati
(art. 1). Un altro principio penalistico è quello della personalità, che si manifesta nelle regole relative
alla capacità di intendere e di volere (art. 2), al concorso di persone (art. 5).
Da qualche anno la distinzione tra sanzioni amministrative e sanzioni penali è stata messa in
dubbio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Corte di Strasburgo, le sanzioni
amministrative hanno natura sostanzialmente penale nei casi in cui, per il tipo e la gravità della
sanzione irrogata, abbiano un carattere particolarmente afflittivo.
Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: le sanzioni pecuniarie, che fanno sorgere
l’obbligo di pagare una somma di danaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla
norma; le sanzioni interdittive, che incidono sull’attività posta in essere dal soggetto destinatario del
provvedimento (ritiro della patente, decadenza da una concessione); le sanzioni disciplinari. Talora
l’irrogazione di una sanzione può comportare anche l’applicazione di sanzioni accessorie, come per
esempio, la confisca amministrativa di cose la cui fabbricazione, uso, detenzione o alienazione
costituisce un illecito amministrativo (art. 20).
Le sanzioni pecuniarie presentano alcune specificità. Anzitutto, l’obbligazione pecuniaria grava a
titolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che pone in essere il comportamento illecito (per
esempio l’ente del quale è dipendente: art. 6). Inoltre l’obbligazione può essere estinta tramite il
pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni dalla contestazione della
violazione, cioè prima che abbia corso il procedimento in contraddittorio per l’accertamento
dell’illecito (art. 16). L’oblazione evita dunque che si arrivi a un accertamento definitivo dell’illecito.
Per l’amministrazione ha il vantaggio di non gravare gli uffici di un’attività istruttoria talora onerosa.
Le sanzioni disciplinari si applicano a soggetti che intrattengono una relazione particolare con le
pubbliche amministrazioni (dipendenti pubblici, professionisti iscritti ad albi, ecc.) e sono volte a
colpire comportamenti posti in violazione di obblighi speciali collegati allo status particolare (doveri
di servizio, codici deontologici, ecc.). Esse consistono, a seconda della gravità dell’illecito,
nell’ammonizione (o censura), nella sospensione dal servizio o dall’albo per un periodo di tempo
determinato, nella radiazione da un albo o nella destituzione.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Sul piano funzionale, va posta anche la distinzione tra sanzioni in senso proprio, che hanno una
valenza essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole, e sanzioni ripristinatorie, che hanno
come scopo principale quello di reintegrare l’interesse pubblico leso da un comportamento illecito.
Queste ultime non vanno considerate come sanzioni amministrative in senso stretto.
Le sanzioni amministrative sono applicate, di regola, soltanto nei confronti del trasgressore e ciò
in coerenza con il carattere personale delle responsabilità (art. 3 l. n. 689/1981). La persona giuridica
può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità solidale e, in ogni caso, l’ente che
paghi la sanzione può esercitare l’azione di regresso nei confronti dell’autore dell’illecito (art. 6,
comma 3).
Una particolare forma di responsabilità amministrativa è prevista a carico delle imprese e degli
enti «per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato» (art. 1, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n.
231). Questa responsabilità sorge direttamente in capo all’ente «per reati commessi nel suo interesse o
a suo vantaggio» dagli amministratori e dipendenti. Tra questi reati figurano, per esempio, la truffa in
danno dello Stato, la concussione o il riciclaggio di danaro sporco.
La responsabilità amministrativa degli enti comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie e
interdittive come, per esempio, la sospensione e la revoca di autorizzazioni e licenze, il divieto di
contrattare con la pubblica amministrazione. All’applicazione di questo particolare tipo di sanzione
amministrativa provvede il giudice penale competente a conoscere dei reati corrispondenti. L’ente può
sottrarsi alla responsabilità amministrativa solo se dimostra di aver adottato modelli di organizzazione,
gestione e controllo idonei a prevenire la commissione da parte degli amministratori e dipendenti dei
reati, introducendo regole e procedure interne. In questo modo i vertici degli enti sono sollecitati a
dotarsi di un’organizzazione atta a minimizzare il rischio della commissione di reati.

8. Le attività libere sottoposte a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione


certificata di inizio di attività

I provvedimenti amministrativi con effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario sono
essenzialmente quelli di tipo autorizzativo.
Negli ordinamenti giuridici che si ispirano al modello dello Stato di matrice liberal-democratica
l’attività dei privati, in linea di principio, è libera, nel senso che essa è sottoposta esclusivamente al
diritto comune.
Tuttavia, nei casi in cui l’attività dei privati può interferire o mettere a rischio un interesse della
collettività, si giustificano regole speciali volte a porre prescrizioni e vincoli particolari. Nel
conformare le attività dei privati all’interesse pubblico le leggi amministrative devono rispettare il
principio di proporzionalità. Quest’ultimo impone un onere di giustificare la misura introdotta che
deve comportare il minor sacrificio possibile dell’interesse privato.
Il rispetto delle leggi amministrative è assicurato in un primo gruppo di casi attraverso un semplice
regime di vigilanza, che può portare all’esercizio di poteri repressivi e sanzionatori nei casi in cui
vengono accertate violazioni. Si pensi, per esempio, al pedone o al ciclista che non rispettino le regole
poste dal Codice della strada. In questi casi l’attività non richiede alcuna interlocuzione preventiva con
una pubblica amministrazione e può essere considerata ancora come libera, anche se entro i margini
più ristretti segnati dalle regole di tipo amministrativo.
Per agevolare i controlli effettuati dall’amministrazione, in un secondo gruppo di casi di attività
libere nel senso ora precisato, la legge grava i privati di un obbligo di comunicare preventivamente a
una pubblica amministrazione l’intenzione di intraprendere un’attività. Talvolta la comunicazione è
contestuale all’avvio dell’attività; altre volte tra la comunicazione e l’avvio dell’attività è previsto un
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

termine minimo. Per esempio, l’agricoltore che voglia vendere direttamente al dettaglio i propri
prodotti deve darne comunicazione al comune.
La fattispecie delle attività regolate e sottoposte a un regime di comunicazione preventiva è ora
disciplinata in termini generali dall’art. 19 l. n. 241/1990. Questo articolo prevede l’istituto della
segnalazione certificata d’inizio di attività (cosiddetta SCIA).
La SCIA riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di
controllo preventivo sotto forma di «autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o
nullaosta comunque denominato», a un regime meno intrusivo di controllo successivo (ex post),
effettuato cioè dall’amministrazione una volta ricevuta la comunicazione di avvio dell’attività.
L’avvio dell’attività può essere contestuale alla presentazione della SCIA. Il privato deve
corredare la segnalazione con un’autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti
dalla legge per lo svolgimento dell’attività. In caso di dichiarazioni mendaci scattano sanzioni
amministrative e penali. L’attività viene cioè intrapresa sulla base di un’autovalutazione della
conformità dell’attività alla legge.
In caso di «accertata carenza dei requisiti e dei presupposti» previsti dalla legge per lo
svolgimento dell’attività l’amministrazione, nel termine perentorio di 60 giorni, emana un
provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti. In
alternativa può invitare il privato a conformare l’attività alla normativa vigente entro un termine non
inferiore a 30 giorni.
Nel caso della SCIA, dunque, l’amministrazione esercita un potere d’ufficio di verifica che può
sfociare in un provvedimento di tipo ordinatorio.
Peraltro anche dopo la scadenza del termine di 60 giorni per l’attività di controllo,
l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti da leggi vigenti
(art. 21, comma 2-bis). Può persino attivare il potere interdittivo sopra esaminato ove sussistano i
presupposti previsti dalla l. n. 241/1990 per l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi (art.
19, comma 4).
Il campo di applicazione della SCIA è definito dall’art. 19 l. n. 241/1990. Esso pone un criterio
generale in base al quale la SCIA sostituisce di diritto ogni atto di tipo autorizzativo «il cui rilascio
dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge», cioè, come
si è accennato, ogni atto di tipo vincolato. In presenza di discrezionalità, infatti, non è concepibile che
il soggetto privato possa farsi carico, in luogo dell’amministrazione, di una valutazione e ponderazione
degli interessi in gioco. Un secondo criterio è che deve trattarsi di atti autorizzativi per i quali non sia
previsto alcun limite o contingente complessivo o altri strumenti di programmazione di settore. In
questi casi occorre infatti individuare qualche parametro per selezionare gli aspiranti a svolgere
l’attività e attivare di conseguenza un procedimento comparativo incompatibile con l’avvio della
stessa sulla base di una semplice comunicazione.
Accanto a questi due criteri generali, l’art. 19 prevede alcune esclusioni allorché entrino in gioco
interessi pubblici particolarmente rilevanti, oppure si tratti di atti autorizzativi imposti dalla normativa
europea.
La SCIA ha dato origine a un dibattito dottrinale che si è incentrato soprattutto sulla questione se
la SCIA attui una liberalizzazione effettiva delle attività in precedenza soggette a un regime
autorizzatorio tradizionale, oppure se rientri ancora in qualche modo all’interno di tale schema sia pur
rivisitato.
Per esempio, secondo alcune ricostruzioni ormai superate, la SCIA sarebbe una forma di
«autoamministrazione» dei privati, resa possibile proprio dal fatto che lo svolgimento dell’attività è
subordinato dalle leggi amministrative alla presenza di presupposti e requisiti vincolati. La sussistenza
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

di questi ultimi in una fattispecie concreta può essere accertata in modo agevole dal soggetto
interessato che valuta autonomamente la propria situazione e, per così dire, emana l’atto autorizzativo
«in luogo» dell’amministrazione. Così ricostruita, la dichiarazione presentata dal privato avrebbe
natura provvedimentale. Come tale potrebbe essere impugnata innanzi al giudice amministrativo da un
soggetto terzo che abbia interesse a contrastare l’avvio dell’attività.
Un problema delicato è quello della tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria
sfera giuridica per effetto dell’avvio dell’attività. Infatti, mentre l’autorizzazione espressa costituisce
un atto impugnabile da parte del terzo che vuole opporsi all’avvio dell’attività, nel caso della SCIA
manca un provvedimento che gli consenta il ricorso al giudice amministrativo.
Secondo una prima interpretazione, il terzo potrebbe proporre innanzi al giudice amministrativo
un’azione di accertamento atipica volta a far dichiarare che l’attività avviata non è conforme alle
norme amministrative e a indurre, di conseguenza, l’amministrazione ad esercitare i poteri repressivi e
interdettivi.
Il legislatore ha precisato anzitutto che la SCIA, la denuncia e la dichiarazione di inizio di attività
«non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili». Ha stabilito poi che «gli interessati
possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire e esclusivamente l’azione contro il silenzio».
In pratica, il terzo che desideri contrastare l’avvio dell’attività deve invitare l’amministrazione a
emanare un provvedimento che vieti la prosecuzione dell’attività e se l’amministrazione non provvede
può rivolgersi al giudice per far accertare l’obbligo di provvedere.

9. Le autorizzazioni e le concessioni

Con i regimi autorizzatori, che introducono un controllo ex ante, subordinando l’avvio


dell’attività a un provvedimento di assenso, si passa invece al modello dell’amministrazione titolare di
poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera giuridica del privato. Secondo la teoria
della regolazione amministrativa esso è considerato come maggiormente intrusivo nelle libertà dei
privati.
La scelta da parte del legislatore tra i due modelli di controllo ex post o ex ante richiede una
valutazione caso per caso. In base al d.lgs. n. 59/2010, «i regimi autorizzatori possono essere istituiti o
mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale» indicati in un elenco tassativo
piuttosto esteso. L’autorizzazione preventiva è ammessa quando l’obiettivo della tutela dell’interesse
pubblico «non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva, in particolare in quanto un
controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale efficacia».
Del resto, la Costituzione, per evitare limitazioni arbitrarie nell’esercizio di alcuni diritti
fondamentali, pone il divieto di introdurre regimi autorizzatori che condizionano il diritto di
associazione e di stampa (artt. 18, comma 1, e 21, comma 2) o prevede, nel caso delle riunioni in
luogo pubblico, che possa essere imposto solo un obbligo di preavviso (art. 17, comma 3).
Nell’ambito del modello del controllo ex ante sulle attività dei privati vanno considerate
principalmente le autorizzazioni e le concessioni.
1. Secondo una definizione classica l’autorizzazione è l’atto con il quale l’amministrazione
rimuove un limite all’esercizio di un diritto soggettivo del quale è già titolare il soggetto che presenta
la domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità dell’attività ai parametri
normativi posti a tutela dell’interesse pubblico. Le autorizzazioni danno dunque origine al fenomeno
dei diritti soggettivi in attesa di espansione, il cui esercizio è appunto subordinato a una verifica
preventiva da parte di una pubblica amministrazione. Rispetto a un siffatto potere «conformativo»
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

dell’amministrazione, il soggetto privato vanta una posizione di interesse legittimo (pretensivo) che fa
coppia con il diritto soggettivo preesistente.
La concessione è l’atto con il quale l’amministrazione attribuisce ex novo o trasferisce la titolarità
di un diritto soggettivo in capo a un soggetto privato. Nel rapporto giuridico amministrativo che si
instaura tra il soggetto privato che presenta l’istanza di concessione e l’amministrazione, il primo si
presenta titolare di un interesse legittimo (pretensivo), per così dire, allo stato puro. Solo in seguito
all’emanazione del provvedimento concessorio sorge in capo al privato un diritto soggettivo pieno che
può essere fatto valere anche nei confronti dei terzi.
Sul piano funzionale l’autorizzazione, come si è visto, è uno strumento di controllo da parte
dell’amministrazione sullo svolgimento dell’attività allo scopo di verificare preventivamente che essa
non si ponga in contrasto con le norme che definiscono i presupposti e i requisiti. L’ autorizzazione
spesso si esaurisce senza che si instauri una relazione con l’amministrazione che vada al di là di una
generica attività di vigilanza da parte di quest’ultima sulla permanenza in capo al soggetto privato
delle condizioni previste dalla legge. La concessione instaura invece in molti casi un rapporto di lunga
durata con il concessionario. Tale rapporto è caratterizzato da diritti e obblighi reciproci e da poteri di
vigilanza continuativi e talora anche di indirizzo delle attività poste in essere in base alla concessione.
Le concessioni si suddividono in due subcategorie, a valenza essenzialmente descrittiva. Le
concessioni traslative trasferiscono in capo a un soggetto privato un diritto o un potere del quale è
titolare l’amministrazione. Un esempio è la concessione dell’uso di un bene demaniale per
l’installazione di uno stabilimento balneare. Le concessioni costitutive attribuiscono al soggetto
privato un nuovo diritto (per esempio un’onorificenza).
Quanto all’oggetto, invece, le concessioni sono di più specie.
Vi sono in primo luogo le concessioni di beni pubblici, come in particolare i beni demaniali sui
quali possono essere attribuiti diritti d’uso esclusivi. Esempi sono l’installazione di un chiosco di
giornali sulla pubblica via.
Una seconda specie è data dalle concessioni di servizi pubblici o di attività ancor oggi sottoposte
a un regime di monopolio legale o di riserva di attività a favore dello Stato o di enti pubblici, come,
per esempio, la trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica e del gas.
Una terza specie è data dalle concessioni di lavori o di servizi assimilate dal Codice dei contratti
pubblici a normali contratti.
Rientrano infine nel fenomeno concessorio alcuni tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di
danaro pubblico erogati, spesso con criteri discrezionali, per il perseguimento di interessi pubblici alle
quali fa riferimento l’art. 12 l. n. 241/1990.
2. Dopo aver dato conto della ricostruzione dogmatica tradizionale delle autorizzazioni e delle
concessioni, è possibile ora svolgere alcune osservazioni critiche da due punti di vista.
In primo luogo, la visione tradizionale è stata condizionata in modo preponderante dal dibattito in
tema di situazioni giuridiche soggettive.
In realtà, la bipartizione delle autorizzazioni e delle concessioni apparve fin dall’inizio troppo
rigida e inadatta a inquadrare una realtà molto più variegata. Vennero così individuate, all’interno di
ciascuna categoria, alcune fattispecie intermedie, di incerta consistenza.
In particolare, fu posta la distinzione tra autorizzazioni costitutive, talune connotate da un’ampia
discrezionalità e in relazione alle quali è dubbia la preesistenza di un diritto soggettivo in capo al
privato; autorizzazioni permissive, più vicine al modello classico, che operano come condiciones
juris, cioè come fatti permissivi o ostativi all’esercizio di una determinata attività con funzione talora
di mero controllo di quest’ultima, talaltra anche di programmazione e direzione (panifici, vendita di

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

alcolici e superalcolici); autorizzazioni ricognitive volte in prevalenza a valutare l’idoneità tecnica di


persone o di cose (le abilitazioni).
Tra le categorie ibride vanno menzionate anche le licenze aventi due caratteristiche: riguardano
attività nelle quali non sono rinvenibili preesistenti diritti soggettivi dei soggetti privati; il loro rilascio
è subordinato a valutazioni di tipo tecnico o discrezionale o di coerenza con un quadro
programmatorio che ne comporti il contingentamento, previsto per esempio nei piani commerciali.
In secondo luogo, storicamente, le autorizzazioni e le concessioni vennero inquadrate, all’interno
della teoria del provvedimento amministrativo, come atti autoritativi.
In origine, infatti, nella seconda metà del XIX secolo, le concessioni amministrative, che erano un
fenomeno all’epoca in piena espansione, vennero qualificate come normali contratti a prestazioni
corrispettive disciplinati dalle norme civilistiche. Qualche decennio dopo, per effetto della svolta della
dogmatica italiana nella direzione panpubblicistica, le concessioni vennero considerate provvedimenti
eminentemente discrezionali, modificabili e revocabili ad nutum senza alcun obbligo di indennizzo.
Alle autorizzazioni e alle concessioni venne dunque riconosciuto il carattere unilaterale e
autoritativo: unilaterale, pur in presenza di una volontà del privato espressa attraverso la
presentazione dell’istanza; autoritativo anche nei casi di autorizzazioni integralmente vincolate, nelle
quali l’atto sembra avere, come si è visto, una valenza meramente ricognitiva di un effetto che
scaturisce direttamente dalla legge.
Il tentativo di depurare le concessioni da ogni elemento privatistico e paritario apparve ben presto
una forzatura.
La dottrina e la giurisprudenza elaborarono infatti la nozione di concessione-contratto volta ad
attenuare il carattere unilateral-pubblicistico dell’atto concessorio. Ci si rese conto cioè che,
soprattutto nei casi di affidamento della gestione di servizi pubblici per periodi di tempo prolungati e
richiedenti la realizzazione di infrastrutture complesse e onerose, l’unilateralità della concessione era
poco più che una finzione. Nella realtà, i privati concessionari pretendevano garanzie per investimenti
di lunga durata e altri impegni da parte del concedente incompatibili con la concezione autoritaria
tipica del provvedimento amministrativo discrezionale.
Con la concessione-contratto il fenomeno concessorio si sdoppia così in due componenti: un
provvedimento volto ad attribuire al concessionario il diritto a svolgere una certa attività; un contratto
o una convenzione volti a regolare su base paritaria i diritti e gli obblighi delle parti nell’ambito di un
rapporto di durata. Tra questi rientrano tipicamente l’obbligo in capo al concessionario di
corrispondere un canone concessorio. Tra i poteri in capo al concedente vi sono quelli di verifica
sull’andamento della gestione. Il contratto regola anche il diritto del concedente di recesso e di riscatto
subordinandoli a una serie di garanzie, incluso il pagamento di un indennizzo secondo criteri
predefiniti, e superando in questo modo il principio della revocabilità ad nutum. Nei casi più
complessi il momento contrattuale finisce per essere preponderante rispetto al momento autoritativo,
ridotto spesso a un mero atto di approvazione del contratto.
3. La distinzione tra autorizzazioni e concessioni ha richiesto un ripensamento complessivo sia
alla luce del diritto europeo, che ignora la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, sia alla
luce del diritto interno. Quel che conta sia per le autorizzazioni sia per le concessioni è, alla fin fine,
che in mancanza di un atto di assenso preventivo dell’amministrazione l’attività non può essere
intrapresa.
Il d.lgs. n. 59/2010 dà una definizione omnicomprensiva di «regime autorizzatorio» che include
«qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi a un’autorità competente
allo scopo di ottenere una decisione formale o una decisione implicita relativa all’accesso ad
un’attività di servizio o al suo esercizio».
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Inoltre, specie quando si tratti di attività economiche, il diritto europeo ha sempre guardato con
sfavore la discrezionalità. Infatti, subordinare l’esercizio di un’attività imprenditoriale a una
valutazione discrezionale dell’amministrazione significa negare la possibilità di ricostruire la
posizione giuridica soggettiva del privato o dell’impresa in termini di diritto in senso proprio e ciò può
costituire una «barriera all’entrata» in un determinato mercato.
Proprio per questa ragione numerose direttive europee emanate nell’ultima parte del secolo scorso
hanno trasformato i regimi di concessione discrezionale in regimi di autorizzazione vincolata.
Uno dei primi casi riguardò il sistema creditizio. La legge bancaria del 1936 subordinava
l’apertura di un istituto di credito al rilascio di una concessione discrezionale della Banca d’Italia.
Negli anni Settanta del secolo scorso, allo scopo di aprire il mercato dei servizi bancari a un
maggior grado di concorrenza, una direttiva europea pose il divieto di subordinare l’avvio dell’attività
bancaria a valutazioni discrezionali e in particolare al criterio del cosiddetto «bisogno di mercato». Il
regime concessorio venne così trasformato in regime autorizzatorio espungendo ogni elemento di
discrezionalità propriamente amministrativa.
Oggi il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, per un verso, precisa che l’attività
bancaria «ha carattere d’impresa»; per altro verso, subordina il rilascio dell’autorizzazione a una serie
di condizioni oggettive che attribuiscono alla Banca d’Italia solo spazi di valutazione tecnica.
Le direttive di liberalizzazione volte a eliminare i regimi di monopolio legale hanno interessato i
grandi servizi pubblici. Da qui la sostituzione dei regimi concessori con regimi di autorizzazioni
vincolate.
Così, per esempio, il Codice delle comunicazioni elettroniche stabilisce che l’attività di fornitura
di reti o servizi «è di preminente interesse generale» ed è «libera», mentre in precedenza era sottoposta
a un regime concessorio. Per l’avvio è previsto un regime di autorizzazione generale che richiede
all’impresa una semplice comunicazione preventiva al ministero delle Comunicazioni.
In termini più generali, il d.lgs. n. 59/2010, che si applica a un ambito assai esteso di attività
economiche, nel porre alcune disposizioni guida in materia di regimi autorizzatori rivolte soprattutto al
legislatore, enuncia il principio che l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi «costituiscono
espressione della libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non
giustificate o discriminatorie» e impone l’applicazione del principio di proporzionalità.
Il d.lgs. n. 59/2010 individua una serie di requisiti di accesso all’attività vietati in modo assoluto
perché non giustificati o discriminatori. Sono discriminatori, per esempio, i requisiti che richiedono al
prestatore di servizi la cittadinanza o la residenza italiana. Non giustificata è invece «l’applicazione
caso per caso di una verifica di natura economica che subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla
prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato, o alla valutazione degli
effetti economici potenziali o effettivi dell’attività o alla valutazione all’adeguatezza dell’attività
rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti».
Accanto ai requisiti vietati, il d.lgs. n. 59/2010 enumera una serie di requisiti che sono ammessi
solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale, così come definito dallo stesso decreto
in un elenco tassativo, e previa notifica alla Commissione europea. Tra questi rientra, per esempio, la
previsione di tariffe obbligatorie minime o massime, di restrizioni quantitative o territoriali.
Nei casi in cui il numero delle autorizzazioni deve essere limitato «per ragioni correlate alla
scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili» o per altri motivi imperativi di
interesse generale, il loro rilascio deve avvenire attraverso una procedura di selezione pubblica sulla
base di criteri resi pubblici, atti ad assicurare l’imparzialità. Essa realizza una forma di concorrenza
«per il mercato», che costituisce un surrogato della concorrenza «nel mercato», appunto nei casi in
cui non è possibile la compresenza di più operatori in competizione tra loro.
76
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

In definitiva, le condizioni alle quali i regimi autorizzatori subordinano l’accesso e l’esercizio di


un’attività di servizi devono essere, oltre che non discriminatorie e giustificate da un motivo di
interesse generale, «chiare e inequivocabili», «oggettive», «rese pubbliche preventivamente».
Un ripensamento nella ricostruzione dogmatica delle autorizzazioni e delle concessioni è imposto
anche dall’evoluzione interna al nostro ordinamento.
Si è già visto che, in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500/1990, la
distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi non segna più la linea di confine della risarcibilità
del danno conseguente a un’attività amministrativa illegittima. Perde così di significato, a fini
risarcitori, la distinzione tra concessioni e autorizzazioni fondata sulla preesistenza o meno della
titolarità in capo al soggetto privato di una situazione giuridica di diritto soggettivo. Ai fini della
risarcibilità entra in gioco soltanto il cosiddetto giudizio prognostico, nel quale è essenziale
determinare se e quali margini di discrezionalità sussistano in capo all’amministrazione.
In conclusione, alla luce dell’evoluzione del diritto europeo e del diritto interno, la distinzione più
rilevante è tra atti autorizzativi discrezionali e vincolati, o com’è stato detto tra «autorizzazioni
discrezionali costitutive» e «autorizzazioni vincolate ricognitive».
Nelle prime l’atto amministrativo è la fonte diretta dell’effetto giuridico prodotto, secondo lo
schema già visto della norma attributiva del potere; nelle seconde l’effetto giuridico si ricollega
direttamente alla legge, cioè al verificarsi in concreto di un fatto sussumibile nella norma. All’autorità
che emana l’atto è riservato in via esclusiva il compito di accertare la produzione dell’effetto giuridico.
L’avvio dell’attività nel secondo tipo di autorizzazioni è dunque precluso in assenza dell’atto
amministrativo, non tanto perché il soggetto privato non abbia già acquisito nella sua sfera giuridica il
diritto a esercitarla, quanto perché, per ragioni di certezza delle relazioni giuridiche, l’ordinamento
riserva, almeno in prima battuta, all’amministrazione il compito di verificare se sussistono in concreto
i presupposti e i requisiti richiesti dalla norma per svolgerla.
In ogni caso, anche se non si voglia accogliere quest’ultima ricostruzione dottrinale, la presenza o
meno della discrezionalità assume un rilievo determinante, in caso di diniego illegittimo dell’atto
autorizzativo, ai fini della tutela giurisdizionale. Infatti, la natura vincolata o discrezionale del potere
condiziona la possibilità di veder accolta da parte del giudice amministrativo la cosiddetta azione di
adempimento, cioè l’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto.

10. Gli atti dichiarativi

Occorre dar conto di altre tipologie elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Una prima tipologia è quella degli atti amministrativi dichiarativi, nei quali cioè il momento
volitivo tipico dei provvedimenti è assente e ai quali va invece riconosciuta una funzione meramente
ricognitiva e dichiarativa finalizzata alla produzione di certezze giuridiche.
Più tipicamente, nella categoria degli atti dichiarativi rientrano le certificazioni, che sono
dichiarazioni di scienza effettuate da una pubblica amministrazione in relazione ad «atti, fatti, qualità,
e stati soggettivi» (art. 18 l. n. 241/1990).
L’amministrazione pubblica organizza, elabora, verifica e detiene stabilmente una gran massa di
dati e informazioni in registri, elenchi, albi, ecc. Si pensi, per esempio, ai registri dello stato civile dei
comuni contenenti i dati anagrafici.
Le certificazioni relative a questo tipo di dati sono espressione di una funzione che i pubblici
poteri hanno assunto da sempre come propria, quella cioè di certezza pubblica.
La funzione di certezza pubblica si realizza con due modalità: la tenuta e l’aggiornamento di
registri, albi, elenchi pubblici nei quali certe categorie di soggetti o di beni possono essere iscritti in
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

base a procedimenti tipizzati e in relazione al possesso di determinati requisiti; la messa a disposizione


ai soggetti interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e certificazioni che
costituiscono la modalità tradizionale per dimostrare il possesso di presupposti e requisiti richiesti ai
privati per poter svolgere molte attività. Esse vengono usualmente presentate nell’ambito dei
procedimenti autorizzatori.
L’art. 18 l. n. 241/1990 e il Testo unico sulla documentazione amministrativa prevedono però due
modalità alternative alle certificazioni che dovrebbero essere preferite. Da un lato, le pubbliche
amministrazioni sono tenute a scambiarsi d’ufficio le informazioni rilevanti senza gravare i soggetti
privati dell’onere di ottenere il rilascio dei certificati. Dall’altro, in molti casi le certificazioni possono
essere sostituite con l’autocertificazione, cioè tramite una dichiarazione formale assunta sotto propria
responsabilità dal soggetto.
Le cosiddette dichiarazioni sostitutive di certificazione possono avere a oggetto la data, il luogo
di nascita, la residenza, la cittadinanza, l’iscrizione in albi, la qualità di studente o di pensionato, ecc.
Così, per esempio, la domanda di partecipazione a un concorso pubblico o l’istanza per poter ottenere
un sussidio prevedono usualmente l’autocertificazione del possesso dei requisiti richiesti dal bando e
dalle norme vigenti.
L’amministrazione che utilizza il dato autocertificato nell’ambito di un procedimento può
verificarne, almeno a campione, la correttezza e deve farlo nei casi in cui sorgono dubbi sulla
veridicità delle dichiarazioni. Se l’autocertificazione è falsa possono essere irrogate sanzioni anche di
tipo penale.
Inoltre, in caso di dichiarazioni mendaci e di false attestazioni, sempre con funzione sanzionatoria,
all’interessato è negata la possibilità di conformare l’attività alla legge sanando la propria posizione
(art. 21 l. n. 241/1990). Viene altresì disposta nei suoi confronti la decadenza dai benefici
eventualmente conseguiti dal provvedimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera.
Tra gli atti dichiarativi rientrano i cosiddetti atti paritetici. Si tratta di una categoria di atti
elaborata dalla giurisprudenza allorché negli anni Trenta del secolo scorso il legislatore attribuì al
giudice amministrativo in particolari materie la cognizione di diritti soggettivi in aggiunta ai
tradizionali interessi legittimi (cosiddetta giurisdizione esclusiva). La figura dell’atto paritetico serviva
in quel contesto a superare la regola della necessità di impugnare l’atto nel termine di 60 giorni, con la
conseguenza che la pretesa del privato poteva essere fatta valere in sede giudiziale nel normale
termine di prescrizione. Così, per esempio, se l’amministrazione nega un compenso o un’indennità
spettante a un dipendente pubblico non privatizzato o erra nella quantificazione degli oneri di
urbanizzazione correlati al rilascio di un permesso a costruire, la comunicazione formale
dell’amministrazione non vale come provvedimento in senso proprio.
Un’altra specie di atti dichiarativi è costituita dalle verbalizzazioni, che consistono nella
«narrazione storico giuridica» da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenuti in sua
presenza.
La verbalizzazione assume un rilievo particolare in relazione alle attività deliberative degli organi
collegiali (consiglio o giunta comunale, ecc.). Di regola essa è affidata a un segretario non componente
del collegio che dà atto della presenza dei membri del collegio al fine della verifica del quorum
costitutivo, dell’andamento della discussione sui punti all’ordine del giorno, riporta le eventuali
dichiarazioni di voto e l’esito delle votazioni.
Ove redatto da un pubblico ufficiale il verbale fa fede delle operazioni compiute e delle
dichiarazioni ricevute e i suoi contenuti possono essere contestati solo attraverso l’esperimento di
procedimenti particolari.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Tra gli atti amministrativi non provvedimentali rientrano i pareri e le valutazioni tecniche. Esse
sono manifestazioni di giudizio da parte di organi o enti pubblici contenenti valutazioni e
apprezzamenti in ordine a interessi pubblici secondari o a elementi di carattere tecnico che
l’amministrazione titolare del potere amministrativo e competente a emanare un provvedimento
amministrativo deve tenere in considerazione (artt. 16 e 17 l. n. 241/1990).

11. Altre classificazioni: atti collegiali, atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione

I provvedimenti amministrativi possono essere classificati anche in base a ulteriori criteri.


1. Un primo criterio riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Accanto ai casi nei
quali il provvedimento è emanato da un organo di tipo monocratico, si pongono i casi nei quali il
provvedimento è espressione della volontà di più organi o soggetti e ha dunque natura di atto
complesso. Un esempio può essere il decreto interministeriale, espressione della volontà paritaria e
convergente di più ministri.
Vanno menzionati anche gli atti collegiali nei quali il provvedimento è emanato da un organo
composto da una pluralità di componenti designati con vari criteri. Le delibere assunte dagli organi
collegiali avvengono con modalità procedurali definite negli statuti o nei regolamenti dei singoli enti e
amministrazioni. Anzitutto, la riunione del collegio viene convocata di regola dal presidente e a
ciascuno dei componenti è comunicato in anticipo l’ordine del giorno. Prima di procedere alla
discussione e all’assunzione della delibera va verificata la sussistenza del numero legale. La delibera è
validamente assunta ove sia approvata dalla maggioranza dei presenti. La delibera è riferibile
unitariamente all’organo collegiale, ma le eventuali responsabilità che possano sorgere non ricadono
sui componenti dell’organo assenti o dissenzienti. Di tutte le operazioni, inclusa la votazione, dà conto
il verbale della seduta.
2. Un secondo criterio è quello dei destinatari del provvedimento. Esso consente di individuare
anzitutto la categoria degli atti amministrativi generali. Questi atti si rivolgono, anziché a singoli
destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di soggetti.
Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi. Anche i primi si
indirizzano a categorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, i quali, però, a
differenza degli atti generali, sono già individuati singolarmente con precisione.
Anche gli atti plurimi sono rivolti a una pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza di
quanto accade per gli atti collettivi, sono scindibili in relazione a ciascun destinatario. La distinzione
tra atti collettivi e plurimi rileva soprattutto in sede di tutela giurisdizionale poiché l’impugnazione
proposta da uno dei destinatari dell’atto plurimo, proprio in virtù della scindibilità degli effetti, non
può andare a beneficio né intaccare la situazione giuridica soggettiva degli altri destinatari.
3. Un terzo criterio prende in considerazione la natura della funzione esercitata e l’ampiezza
della discrezionalità. In base ad esso è stata elaborata la categoria degli atti di alta
amministrazione, distinta da quella degli atti politici non sottoposti al regime del provvedimento
amministrativo.
La linea di confine tra atti politici e atti amministrativi è sempre stata dibattuta. Il giudice
amministrativo ha via via ristretto la nozione di atto politico, abbandonando la teoria di origine
francese del movente o dei motivi soggettivi dell’atto che allargava troppo l’area della insindacabilità.
Ha accolto invece una nozione oggettiva di atto politico. In essa rientrano gli atti che, a differenza di
quelli amministrativi, sono liberi nel fine e che sono emanati da un organo costituzionale nell’esercizio
di una funzione di governo. È questo il caso, per esempio, delle deliberazioni del Consiglio dei
ministri che approvano un decreto legge o un decreto legislativo.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Altri atti del governo, definiti atti di alta amministrazione, hanno invece una natura
amministrativa, anche se sono caratterizzati da un’amplissima discrezionalità. Tra di essi rientrano i
provvedimenti di nomina e revoca dei vertici militari o dei ministeri, i decreti che autorizzano
l’estradizione. Questi atti operano un raccordo tra la funzione di indirizzo politico e la funzione
amministrativa. Essi devono essere motivati e sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo, il
quale però esercita su di essi un sindacato meno intenso, limitandosi a rilevare le violazioni più
macroscopiche dei principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale.

12. L’invalidità dell’atto amministrativo

Non tutti i casi di difformità tra il provvedimento e le norme che lo disciplinano danno origine a
invalidità. Le conseguenze di tale difformità infatti possono essere variamente graduate dal diritto
positivo. Nei casi di imperfezioni minori, l’atto è semplicemente irregolare ed è suscettibile di rettifica
o regolarizzazione. Si ha invalidità allorché la difformità tra atto e norme determina una lesione di
interessi tutelati da queste ultime e incide sull’efficacia del primo in modo più o meno radicale, sotto
forma di nullità o di annullabilità.
L’invalidità trova una disciplina compiuta nella l. n. 241/1990 in seguito alle modifiche introdotte
dalla l. n. 15/2005 e, per i risvolti processuali, nel Codice del processo amministrativo. Conviene
muovere da alcune nozioni generali.
In sede di teoria generale viene operata una distinzione tra norme che regolano una condotta e
norme che conferiscono poteri. Le prime impongono obblighi comportamentali o attribuiscono
diritti; le seconde conferiscono poteri, come per esempio quello di fare testamento, di contrarre un
matrimonio o di porre in essere un contratto, e regolano le procedure, i presupposti e i limiti
all’esercizio di poteri (privati o anche amministrativi) volti alla produzione di effetti giuridici.
I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti e contro di essi
l’ordinamento reagisce in vario modo (sanzioni penali, obbligo di risarcimento, ecc.). Gli atti posti in
essere in violazione delle norme del secondo tipo sono qualificabili come invalidi e contro di essi
l’ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti.
L’invalidità può essere definita più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal
suo modello legale. Come si è già anticipato, essa può essere sanzionata, in funzione della gravità
della violazione, secondo due modalità: l’inidoneità dell’atto a produrre gli effetti giuridici tipici, cioè
a creare diritti e obblighi o altre modificazioni nella sfera giuridica dei soggetti dell’ordinamento
(nullità); l’idoneità a produrli in via precaria, cioè fin tanto che non intervenga un giudice (o un altro
organo) che, accertata l’invalidità, rimuova con efficacia retroattiva gli effetti prodotti medio tempore
(annullamento).
Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo si ispira a (ma non coincide con)
quello accolto dal codice civile, che, nell’ambito della disciplina del contratto, distingue la nullità e
l’annullabilità (artt. 1418 ss. e 1425 ss. cod. civ.).
In primo luogo, nel diritto civile la nullità ha carattere atipico. Infatti, il codice civile del 1942
delinea uno schema atipico sanzionando con la nullità tutti i casi di contrarietà del contratto a norme
imperative (art. 1418, comma 1). Questa disposizione rimette all’interprete la valutazione caso per
caso in ordine al carattere imperativo o meno della norma violata (cosiddetta nullità «virtuale»).
La nullità del provvedimento amministrativo è prevista solo in relazione a poche ipotesi tassative,
mentre la violazione delle norme attributive del potere viene attratta nel regime ordinario
dell’annullabilità (sotto il profilo della violazione di legge).

80
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Questa differenza si spiega per il fatto che le norme in materia di contratti hanno di regola
carattere dispositivo, possono cioè essere derogate dalle parti.
Nel diritto amministrativo, invece, in coerenza con la logica della legalità e della tipicità, le norme
attributive del potere, in quanto finalizzate a garantire i soggetti destinatari del provvedimento e a
tutelare un interesse pubblico, hanno di regola carattere cogente (imperativo). Esse non possono essere
cioè derogate o disapplicate dall’amministrazione. Sanzionare con la nullità ogni difformità tra
provvedimento e norma attributiva del potere costituirebbe una reazione sproporzionata da parte
dell’ordinamento.
Tutto ciò spiega perché storicamente, come si è accennato, si affermò il principio che equipara il
provvedimento amministrativo invalido a quello valido ai fini della produzione dell’effetto giuridico
tipico (salvo suo successivo annullamento). Questo principio appare infatti più rispettoso delle
prerogative dell’amministrazione e dell’esigenza di consentire la realizzazione immediata della cura in
concreto dell’interesse pubblico. Non venne accolto invece il principio, seguito nell’ordinamento
inglese, della inidoneità dell’atto non conforme al modello legale a produrre l’effetto.
In definitiva, il regime dell’annullabilità costituisce il regime ordinario del provvedimento
amministrativo invalido, mentre la nullità è «categoria residuale del diritto amministrativo» (Cons. St.,
Sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364).
L’invalidità può essere totale o parziale: la prima investe l’intero atto, la seconda una parte di
questo, lasciando inalterata la validità e l’efficacia della parte non affetta dal vizio. Anche il
provvedimento amministrativo può essere colpito da invalidità totale o parziale. Quest’ultima
evenienza si può avere nel caso di provvedimenti con effetti scindibili, come in quello, già esaminato,
degli atti plurimi. Un esempio è l’atto di nomina di una pluralità di vincitori di un concorso o di un
giudizio di idoneità: l’esclusione dalla graduatoria di un partecipante per assenza di requisiti non
comporta la caducazione dell’intero atto di approvazione della medesima. Ha effetti scindibili anche il
piano regolatore con riferimento alle destinazioni edificatorie delle singole aree: l’illegittimità delle
prescrizioni che si riferiscono a una determinata area non si estende alle prescrizioni riferite ad altre
aree. Un esempio di nullità parziale è l’inserimento in un bando di gara per l’aggiudicazione di un
contratto di casi di esclusione dei concorrenti ulteriori rispetto a quelle stabilite in modo tassativo dal
Codice dei contratti pubblici.
L’invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata, originaria o sopravvenuta.
1. Nel caso di invalidità propria assumono rilievo diretto i vizi dei quali è affetto l’atto. Nel
caso di invalidità derivata, l’invalidità dell’atto discende per propagazione dall’invalidità di un atto
presupposto. Per esempio, l’illegittimità di un bando di gara determina a valle l’invalidità dell’atto di
aggiudicazione o di approvazione della graduatoria dei vincitori.
L’invalidità derivata può essere di due tipi: a effetto caducante, quando travolge in modo
automatico l’atto assunto sulla base dell’atto invalido; a effetto invalidante, quando l’atto affetto da
invalidità derivata, per quanto a sua volta invalido, conserva i suoi effetti fin tanto che non venga
annullato. L’effetto caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta causalità tra i due atti: il
secondo costituisce una mera esecuzione del primo. Se invece l’atto successivo non costituisce una
conseguenza inevitabile del primo, ma presuppone nuovi e ulteriori apprezzamenti che segnano una
discontinuità fra due atti, l’invalidità derivata ha soltanto un effetto viziante, con la conseguenza che
essa deve essere fatta valere attraverso l’impugnazione autonoma di quest’ultimo. Così, per esempio,
l’invalidità dell’atto di ammissione di un candidato a una prova concorsuale si propaga agli atti
successivi della procedura fino all’approvazione della graduatoria, ma quest’ultima è affetta da
un’invalidità derivata viziante e non caducante.

81
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

2. Passando a considerare l’invalidità originaria e l’invalidità sopravvenuta, va premesso che in


linea di principio trova applicazione anche nel diritto amministrativo il principio del tempus regit
actum, secondo il quale la validità di un provvedimento si determina in base alle norme in vigore al
momento della sua adozione.
Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi nei casi di legge retroattiva,
di legge di interpretazione autentica e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle prime due
ipotesi, la retroattività della nuova legge rende, ora per allora, viziato il provvedimento emanato in
base alla norma abrogata. Nella terza ipotesi, le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale
rendono invalidi i provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti
giuridici sorti anteriormente, a meno che non si tratti di rapporti esauriti, cioè di fattispecie ormai
interamente realizzate.
Conviene svolgere ancora due considerazioni generali sull’invalidità del provvedimento.
La prima è che la l. n. 241/1990 ha razionalizzato le acquisizioni giurisprudenziali. Come si è già
accennato, la teoria dei vizi dell’atto amministrativo è il frutto in gran parte dell’elaborazione della IV
Sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo dovette cioè riempire di contenuto le scarne
disposizioni della legge del 1889 che attribuivano alla sua competenza i ricorsi «per incompetenza, per
eccesso di potere o per violazione di legge».
Così, in primo luogo, la giurisprudenza interpretò subito la formula «eccesso di potere» (che
riprendeva quella francese di excès de pouvoir), non già come «straripamento di potere», bensì come
«sviamento di potere».
La IV Sezione del Consiglio di Stato fece cioè ricorso all’eccesso di potere per sindacare la
legalità «intrinseca» dei provvedimenti discrezionali e non soltanto la legalità «estrinseca», cioè la loro
conformità formale a disposizioni di legge. Così, in una controversia relativa a un decreto governativo
discrezionale di scioglimento di un’opera pia, il Consiglio di Stato si spinse sino a verificare che l’atto
impugnato, pur rispettoso delle norme applicabili, non contenesse «nulla di illogico e d’irrazionale o di
contrario allo spirito della legge», aprendo pertanto la strada a un controllo sulle scelte discrezionali
dell’amministrazione. In seguito, il giudice amministrativo, allo scopo di accertare l’eccesso di potere
inteso in questa accezione più ampia, elaborò le cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere,
rendendo così sempre più penetrante il sindacato sulla discrezionalità amministrativa.
In secondo luogo, nel silenzio della legge, la giurisprudenza individuò ipotesi nelle quali il
provvedimento è affetto da deviazioni abnormi dalla norma attributiva del potere o è addirittura
emanato in assenza di una base legislativa tanto da non poter essere inquadrato all’interno del regime
dell’illegittimità. Emerse così una tipologia di vizi più gravi sussunti nella categoria della carenza di
potere o anche della nullità (o talora inesistenza). In presenza di tali vizi, il provvedimento perde il
carattere imperativo e dunque non è in grado di travolgere i diritti soggettivi. Gli atti assunti in carenza
di potere vennero pertanto attribuiti alla cognizione del giudice ordinario, mentre gli atti con
riferimento ai quali veniva contestato soltanto il cattivo esercizio del potere restarono affidati alla
cognizione del giudice amministrativo.
Una seconda osservazione generale è che la teoria dei vizi del provvedimento nel nostro
ordinamento è stata condizionata dalla questione del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e
giudice amministrativo fondato sulla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo.
In questo contesto è stata elaborata anche la distinzione tra due tipi di comportamenti patologici
dell’amministrazione.
Da un lato vi sono i «meri comportamenti» (o «comportamenti senza potere») assunti in
violazione di una norma di relazione, cioè lesivi di un diritto soggettivo, e ascrivibili alla categoria
della illiceità. Essi sono equiparabili a un qualsivoglia comportamento posto in essere da un soggetto
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

privato non conforme alle norme civilistiche (in particolare ex art. 2043 cod. civ.). Si pensi, per
esempio, a un incidente stradale provocato da un mezzo dell’amministrazione. Dall’altro vi sono i
comportamenti nei quali il collegamento funzionale tra provvedimento invalido e l’attività materiale
esecutiva posta in essere dall’amministrazione integra una violazione della norma attributiva del
potere e lede un interesse legittimo, facendo confluire, in definitiva, l’intera fattispecie nell’ambito
della giurisdizione del giudice amministrativo.
La questione è sorta a proposito dell’espropriazione per pubblica utilità, dove è emersa la
distinzione tra «occupazione usurpativa» e «occupazione appropriativa». La prima si ha allorché il
terreno viene occupato in carenza di qualsivoglia titolo (in «via di fatto» o in carenza di potere); la
seconda allorché l’occupazione avviene nell’ambito di una procedura di espropriazione ancorché
illegittima. In quest’ultimo caso, secondo la Corte Costituzionale, i comportamenti costituiscono
«esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della pubblica amministrazione» e
pertanto sono inclusi nella giurisdizione del giudice amministrativo. Al contrario, i comportamenti che
danno origine a un’occupazione usurpativa vanno qualificati come illeciti e sono attribuiti alla
giurisdizione del giudice ordinario.
In definitiva, la questione del riparto di giurisdizione ha reso necessario, anche a costo di qualche
forzatura, sfumare la distinzione tra comportamento e atto di esercizio del potere amministrativo,
attraendo la fattispecie dei comportamenti riconducibili all’esercizio del potere nella categoria della
illegittimità piuttosto che in quella della illiceità.
Un nesso tra illiceità del comportamento dell’amministrazione e illegittimità del provvedimento è
emerso in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 500/1999 che ha
affermato il principio della risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo. L’illegittimità del
provvedimento, infatti, è uno degli elementi costitutivi (insieme al danno, al nesso di causalità e
all’elemento soggettivo) dell’illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. Come ha
chiarito anche la giurisprudenza amministrativa, il danno non è cagionato «dal provvedimento in sé
stesso, ma da un fatto, ossia da un comportamento» e assume dunque rilievo non già «una mera
illegittimità del provvedimento in sé ma un’illiceità della condotta complessiva» (Cons. St. Ad. Plen.
23 marzo 2011, n. 3).
Esaurite le osservazioni preliminari, conviene individuare anzitutto le disposizioni rilevanti in
tema di invalidità contenute nella l. n. 241/1990 e nel Codice del processo amministrativo. I due testi
normativi instaurano una corrispondenza tra disciplina sostanziale e disciplina processuale
dell’invalidità. Ciò costituisce una novità sotto il profilo sistematico rispetto alla situazione precedente
nella quale, in assenza di un corpo di disposizioni generali sul provvedimento, il regime dei vizi
veniva estrapolato da norme processuali o dalle elaborazioni giurisprudenziali.
L’annullabilità è disciplinata dall’art. 21–octies l. n. 241/1990 e dall’art. 29 Codice del processo
amministrativo. Entrambe le disposizioni riprendono la tripartizione tradizionale dei vizi di legittimità,
e cioè l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di legge. Rispetto al regime precedente, il
primo riduce l’area dell’annullabilità operando la cosiddetta dequotazione dei vizi formali. Il secondo
conferma l’impianto tradizionale dell’azione di annullamento.
La nullità è disciplinata dall’art. 21-septies l. n. 241/1990, che individua quattro ipotesi tassative,
e dall’art. 31, comma 4, del Codice che disciplina l’azione di nullità.
A livello europeo, l’art. 263 TFUE, nel disciplinare il ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione
europea, prevede che ove esso sia fondato il giudice «dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato».
Questa disposizione viene però interpretata nel senso che l’atto è annullabile e l’azione promossa ha
natura costitutiva e non meramente dichiarativa. Quanto alla tipologia dei vizi l’art. 263, comma 2,

83
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

TFUE prevede quattro ipotesi: l’incompetenza, la violazione delle forme sostanziali, la violazione dei
trattati e di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, lo sviamento di potere.

13. L’annullabilità

Per tradizione, l’atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di


legge viene qualificato come illegittimo (e pertanto suscettibile di annullamento). La l. n. 241/1990
ricalca invece la distinzione civilistica tra nullità e annullabilità. L’art. 21-octies, infatti, fa riferimento
soltanto a quest’ultima. L’art. 21-nonies usa invece ancora la terminologia «provvedimento
amministrativo illegittimo», prevedendo che esso possa essere annullato d’ufficio.
In realtà, annullabilità e illegittimità sono sostantivi usati in modo intercambiabile. Tuttavia,
poiché il comma 2 dell’art. 21-octies opera una dequotazione dei vizi formali, non si può più ritenere
che tutti gli atti illegittimi siano annullabili.
La stessa tripartizione tradizionale dei vizi che possono essere causa di annullabilità ha una
rilevanza minore dopo che la Costituzione ha sancito che la tutela giurisdizionale non può essere
esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. Sono state
dichiarate così incostituzionali le leggi amministrative che sottraevano al sindacato del giudice
amministrativo alcune tipologie di vizi o addirittura alcuni tipi di provvedimenti.
Inoltre, le conseguenze dell’annullamento, cioè il venir meno degli effetti del provvedimento con
efficacia retroattiva (ex tunc), non cambiano in relazione al tipo di vizio accertato. L’annullamento
elimina comunque l’atto e i suoi effetti in modo retroattivo e l’amministrazione ha l’obbligo di porre
in essere tutte le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, la situazione di fatto e di
diritto in cui si sarebbe trovato il destinatario dell’atto ove quest’ultimo non fosse stato emanato
(cosiddetto effetto ripristinatorio).
Ciò che varia in funzione del tipo di vizio è invece il cosiddetto effetto conformativo
dell’annullamento, cioè il vincolo che sorge in capo all’amministrazione nel momento in cui essa
emana un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato. Da questo punto di vista la distinzione
più rilevante è tra vizi formali e vizi sostanziali.
Infatti, se il vizio accertato ha natura formale o procedurale, come per esempio la mancata
acquisizione di un parere obbligatorio, non è da escludere che l’amministrazione, acquisito il parere,
possa emanare un nuovo atto dal contenuto identico rispetto a quello dell’atto annullato. Se, al
contrario, il vizio ha natura sostanziale, come per esempio la mancanza di un presupposto o di un
requisito posto dalla norma attributiva del potere o un eccesso di potere per travisamento dei fatti,
l’amministrazione non potrà reiterare l’atto annullato.
La retroattività dell’annullamento, che costituiva fino a poco tempo fa un principio consolidato, è
oggetto di un ripensamento nella giurisprudenza.
Sul versante processuale, l’art. 29 Codice del processo amministrativo conferma il regime
tradizionale secondo cui contro il provvedimento affetto da violazione di legge, incompetenza ed
eccesso di potere può essere proposta l’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo nel
termine di decadenza di 60 giorni. L’annullabilità non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma, in
base al principio dispositivo, può essere pronunciata solo in seguito alla domanda proposta nel ricorso
il quale deve indicare anche in modo specifico i profili di vizio denunciati.

14. a) L’incompetenza

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

L’incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un organo o da un soggetto diverso da


quello indicato dalla norma attributiva del potere. Si tratta dunque di un vizio che attiene all’elemento
soggettivo dell’atto. L’incompetenza è una sottospecie della violazione di legge, poiché la
distribuzione delle competenze tra i soggetti pubblici e tra gli organi interni è operata da leggi,
regolamenti e altre fonti normative pubblicistiche (statuti). Il rispetto di queste norme è funzionale allo
svolgimento ordinato delle attività amministrative e costituisce una garanzia per i destinatari dei
provvedimenti, specie nei casi in cui questi ultimi producono effetti limitativi o restrittivi della sfera
giuridica.
Si distingue generalmente tra incompetenza relativa e incompetenza assoluta. La prima si ha
quando l’atto viene emanato da un organo che appartiene alla stessa branca, settore o plesso
organizzativo dell’organo titolare del potere; la seconda, che determina nullità o carenza di potere
(difetto di attribuzione), si ha invece allorché sussiste un’assoluta estraneità sotto il profilo
soggettivo e funzionale tra l’organo che ha emanato l’atto e quello competente. Secondo la
giurisprudenza, l’incompetenza relativa riguarda appunto «solo la ripartizione dei compiti e di
funzioni nell’ambito di un unitario plesso amministrativo».
Sul piano meramente descrittivo il vizio di incompetenza può essere per materia, per grado, per
territorio.
L’incompetenza per materia attiene alla titolarità della funzione; quella per grado
all’articolazione interna degli organi negli apparati organizzati secondo il criterio gerarchico
(organizzazioni militari o di polizia); quella per territorio attiene agli ambiti nei quali gli enti
territoriali o le articolazioni periferiche degli apparati statali possono operare (per esempio le
prefetture di due province contigue).
Si fa riferimento talora anche alla competenza per valore, che assume rilievo per lo più
all’interno di apparati pubblici con riguardo alla ripartizione tra i vari organi del potere di emanare
provvedimenti che comportino esborsi di spesa.
La specificità del regime giuridico dell’incompetenza rispetto a quello della violazione di legge sta
venendo meno progressivamente. In primo luogo, la giurisprudenza più recente ritiene applicabile
anche al vizio di incompetenza l’art. 21-octies, comma 2, cioè il principio della dequotazione dei
vizi formali volto a limitare l’annullabilità degli atti vincolati. Inoltre, a differenza di quanto accade
per i vizi formali, si riteneva ammessa la convalida dell’atto da parte dell’organo competente anche in
corso di giudizio. Tuttavia, l’art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241/1990 prevede in via generale la
possibilità della convalida del provvedimento annullabile ed è dunque dubbio se sopravviva ancora
questa specificità del regime dell’incompetenza.

15. b) La violazione di legge

La violazione di legge è considerata una categoria generale residuale, perché in essa confluiscono i
vizi che non sono qualificabili come incompetenza o eccesso di potere.
Essa raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative
contenute in fonti di rango primario o secondario che definiscono i profili vincolati, formali e
sostanziali, del potere.
Si discute se la nozione di violazione di legge includa anche la violazione dei principi generali
dell’azione amministrativa ai quali fa esplicitamente o implicitamente rinvio l’art. 1 l. n. 241/1990
(imparzialità, proporzionalità, irretroattività del provvedimento) in passato sussunti nella categoria
dell’eccesso di potere. Il sindacato sulla discrezionalità amministrativa in applicazione di un principio
generale comporta un operazione ermeneutica più complessa rispetto all’accertamento di una
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

difformità tra l’atto e una prescrizione normativa che pone un vincolo puntuale e dunque appare
preferibile non operare una siffatta inclusione.
La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella, già vista, tra vizi formali e vizi
sostanziali. L’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 enuclea tra le ipotesi di violazione di legge la
«violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti», cioè una subcategoria di vizi
formali che, a certe condizioni, come si è accennato più volte, sono dequotati a vizi che non
determinano l’annullabilità del provvedimento.
La disposizione pone più specificamente due condizioni: che il provvedimento abbia «natura
vincolata»; che pertanto «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato».
La prima condizione rinvia alle nozioni, già esaminate, di discrezionalità o vincolatezza in astratto.
Se si accerta che il potere è integralmente vincolato, ne discende, come conseguenza automatica,
anche l’altra condizione, e cioè che risulta «palese» che, anche in assenza del vizio formale o
procedurale rilevato, il contenuto del provvedimento sarebbe rimasto invariato. In questo caso il
provvedimento non può essere annullato né dal giudice amministrativo nell’ambito di un giudizio di
impugnazione, né dalla stessa amministrazione in sede di esercizio del potere di autotutela. Infatti
l’art. 21-nonies l. n. 241/1990 prevede che l’amministrazione può annullare il provvedimento
illegittimo ai sensi dell’art. 21-octies «esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2».
Il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 individua una fattispecie particolare
costituita dall’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento disciplinata dagli artt. 7 ss. della
stessa legge per la quale è previsto un regime in parte uguale e in parte diverso da quello del primo
periodo, già esaminato. Eguale è l’operazione richiesta all’interprete e cioè la ricostruzione di quello
che sarebbe stato l’esito del procedimento ove tutte le norme sul procedimento e sulla forma fossero
state rispettate. Se la conclusione di questa sorta di simulazione è che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, l’atto non può essere annullato.
La disposizione presenta però due specificità: manca il riferimento alla natura vincolata del potere;
si richiede all’amministrazione che ha emanato l’atto di dimostrare «in giudizio» che il vizio
procedurale o formale accertato non ha avuto alcuna influenza sul contenuto del provvedimento.
Quanto al primo aspetto, la disposizione include nel suo campo di applicazione anche i poteri
discrezionali (in astratto). Solo qualora risulti ex post che l’amministrazione non aveva altra scelta
legittima se non quella di emanare un atto con quel contenuto (vincolatezza in concreto), può operare
il principio della non annullabilità per violazione delle norme formali e procedurali.
Quanto al secondo aspetto, l’onere della prova grava sull’amministrazione nei confronti della
quale sia stato proposto un ricorso per l’annullamento del provvedimento viziato. Ciò comporta una
deroga alle regole processuali ordinarie che vietano all’amministrazione di integrare la motivazione
nel corso del giudizio. Infatti, in questa particolare fattispecie si ha un ampliamento dell’oggetto del
giudizio agli elementi forniti dall’amministrazione per dimostrare che il vizio formale non ha inciso
sul contenuto del provvedimento impugnato. Poiché, tuttavia, la prova richiesta dalla disposizione è
una prova negativa, la giurisprudenza addossa sul ricorrente l’onere di allegare in giudizio gli elementi
che sarebbero stati prodotti nell’ambito del procedimento ove la comunicazione di avvio del
medesimo procedimento fosse stata effettuata.
L’art. 21-octies, comma 2, si inserisce nella tendenza del nostro ordinamento a valorizzare il
principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (amministrazione di risultato) a scapito,
entro una certa misura, di quello del rispetto della forma e dunque della funzione di garanzia assolta
dalle norme relative al procedimento e alla forma. Il regime della legittimità degli atti amministrativi si

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

avvicina così a quello degli atti processuali per i quali vale il principio che «la nullità non può mai
essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato».
L’art. 21-octies, comma 2, ha dato origine a dispute in dottrina e a una cospicua giurisprudenza
non ancora consolidata. Per esempio, la giurisprudenza ha chiarito che la mancanza della motivazione
in un provvedimento integralmente vincolato non può giustificare l’annullamento di quest’ultimo, ma
applica talora la stessa regola anche a provvedimenti che presentano margini di discrezionalità
allorché dagli atti del procedimento risultino già in qualche modo le ragioni sottostanti.
La disposizione pone varie questioni interpretative.
È dubbio anzitutto se essa abbia valenza sostanziale, se attenga cioè al regime giuridico del
provvedimento, o soltanto processuale.
In questa seconda visione, l’art. 21-octies, comma 2, rileva soltanto ai fini dell’accertamento della
sussistenza di uno dei presupposti processuali costituito dall’interesse a ricorrere. Quest’ultimo manca
appunto nei casi in cui il ricorrente, in seguito all’annullamento e alla rinnovazione del procedimento,
non possa attendersi una decisione diversa da quella già emanata. L’atto non può essere dunque
annullato dal giudice, ma, sotto il profilo sostanziale, continua a essere affetto da illegittimità che
potrebbe portare l’amministrazione a esercitare il potere di annullamento d’ufficio. Questa tesi sembra
oggi smentita dalla modifica dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990 che esclude espressamente
l’annullamento d’ufficio in presenza di vizi formali ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2.
Secondo un’altra interpretazione, la disposizione avrebbe tipizzato in via legislativa una fattispecie
di irregolarità non invalidante del provvedimento.
L’irregolarità del provvedimento può essere definita come un’imperfezione minore del
provvedimento che non determina la lesione di interessi tutelati dalla norma d’azione. Danno origine a
irregolarità, per esempio, l’erronea indicazione di un testo di legge o di una data, un errore
nell’intestazione del provvedimento. L’irregolarità non rende invalido il provvedimento che è
suscettibile di regolarizzazione, attraverso la rettifica del provvedimento.
In realtà, il disvalore della violazione delle norme sulla forma dell’atto e sul procedimento previsto
dall’art. 21-octies, comma 2, sembra essere maggiore rispetto a quello di una mera irregolarità non
lesiva di alcun interesse pubblico apprezzabile, proprio per la funzione di garanzia che può essere
riconosciuta agli aspetti formali. Sembra dunque preferibile una terza interpretazione che qualifica
come illegittimi anche i provvedimenti non annullabili ai sensi della disposizione. Del resto, potrebbe
sembrare contraddittorio che la dequotazione dei vizi formali sia stata prevista proprio da una legge (l.
n. 15/2005) che, per altri aspetti introduce nuove garanzie procedurali.
L’art. 21-octies, comma 2, in definitiva, seguendo quest’ultima interpretazione, ha stabilito
soltanto che per taluni atti illegittimi l’annullamento, vuoi da parte del giudice vuoi d’ufficio,
costituisce una reazione dell’ordinamento da ritenersi non proporzionata, visto che il provvedimento
risulta sostanzialmente legittimo.
Resta peraltro da appurare quali altre conseguenze possano essere ricollegate ai vizi formali e
procedurali. La tutela risarcitoria non sembra percorribile poiché è difficile configurare un danno in
capo al privato da un atto il cui contenuto non sarebbe stato comunque diverso. Ipotizzabile è invece, a
certe condizioni, una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario al quale sia
imputabile la violazione formale o procedurale riscontrata.

16. c) L’eccesso di potere

L’eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso mette in
condizione il giudice di operare un sindacato che va oltre la verifica del rispetto dei vincoli puntuali
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posti in modo esplicito dalla norma attributiva del potere e che può spingersi invece fino alle soglie del
merito amministrativo.
Secondo la ricostruzione più diffusa, l’eccesso di potere riguarda l’aspetto funzionale del potere,
cioè la realizzazione in concreto dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione. Si
spiega così perché si tratta di un vizio sostanzialmente sconosciuto nell’ambito del diritto privato.
Dell’eccesso di potere sono state offerte in dottrina molte ricostruzioni che lo qualificano
variamente come un vizio della causa, della volontà, dei motivi, del contenuto del provvedimento.
L’elaborazione oggi prevalente definisce l’eccesso di potere come vizio della funzione, intesa come la
dimensione dinamica del potere che attualizza e concretizza la norma astratta attributiva del potere in
un provvedimento produttivo di effetti. In tale passaggio, possono emergere anomalie, incongruenze e
disfunzioni che danno origine appunto all’eccesso di potere.
Si è già ricordato come la figura primigenia dell’eccesso di potere è lo sviamento di potere che
consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma attributiva del potere. Una
siffatta violazione si ha allorché il provvedimento emanato persegue un fine diverso da quello in
relazione al quale il potere è conferito dalla legge all’amministrazione. Talvolta il fine pubblico non è
posto in modo espresso dalla legge, ma va ricavato in via interpretativa.
Esempi di sviamento di potere sono il trasferimento d’ufficio di un dipendente pubblico non
privatizzato, motivato da esigenze di servizio, che in realtà ha una finalità punitiva; il provvedimento
comunale che nega l’installazione di un’antenna di telefonia mobile per ragioni di tipo urbanistico-
edilizio, che in realtà persegue il fine sanitario di minimizzare l’esposizione dei residenti
all’inquinamento elettromagnetico.
Nella pratica lo sviamento di potere è difficile da provare, in quanto il provvedimento,
all’apparenza, si presenta come perfettamente conforme alle disposizioni normative che regolano quel
particolare potere. Ciò ha indotto la giurisprudenza, come si è accennato, a rilevare il vizio in via
indiretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del potere discrezionale costituiti dalle
cosiddette figure sintomatiche. Con una metafora, se l’eccesso di potere può essere visto come una
«malattia» del provvedimento discrezionale, la diagnosi va operata essenzialmente attraverso i
«sintomi», cioè le manifestazioni caratteristiche dell’affezione rilevabili dall’osservatore.
Le figure sintomatiche dell’eccesso di potere costituiscono una categoria aperta, non tipizzata dal
legislatore. Alcune sono ormai consolidate in dottrina e nella prassi applicativa e si prestano a essere
classificate secondo vari criteri. Uno di essi può essere di riferirle, in ordine logico, alle fasi del
procedimento, distinguendo quelle che riguardano la fase istruttoria e quelle che riguardano la fase
decisionale. Un altro criterio è quello di distinguere tra figure sintomatiche intrinseche, che
emergono direttamente dall’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali, e figure
sintomatiche estrinseche, che invece emergono dal confronto tra il provvedimento ed elementi di
contesto esterno. Prima di addentrarci nella ricostruzione teorica delle figure sintomatiche conviene
analizzarne più da vicino le principali fattispecie.
c1) Errore o travisamento di fatti. Se il provvedimento viene emanato sul presupposto
dell’esistenza di un fatto o di una circostanza che risulta invece inesistente o, viceversa, della non
esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta esistente emerge la figura dell’eccesso di
potere per errore di fatto (o anche travisamento dei fatti).
Si pensi, per esempio, al diniego di un permesso di costruire a causa di un vincolo paesaggistico
giustificato dalla natura boschiva del terreno, che invece è in gran parte privo di alberi; a un piano
regolatore che non indichi nelle planimetrie un edificio del quale è certa la preesistenza.
L’errore di fatto può emergere in sede processuale sia in seguito alla produzione di prove da parte
del ricorrente, sia in seguito all’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice amministrativo.
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Quest’ultimo non incontra più alcun limite giuridico a un accertamento pieno dei fatti autonomo
rispetto a quello operato nel provvedimento impugnato.
Non rileva se l’errore è inconsapevole o volontario. Inoltre, l’errore di fatto riguarda
esclusivamente la percezione oggettiva della realtà materiale e non anche il momento, logicamente
successivo, della valutazione dei fatti da parte dell’amministrazione rimessa al suo apprezzamento.
c2) Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria del procedimento l’amministrazione è tenuta ad
accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per
operare una scelta consapevole e ponderata.
Ove questa attività svolta dal responsabile del procedimento nominato ai sensi della l. n. 241/1990
(artt. 4 ss.) manchi del tutto o sia effettuata in modo frettoloso, incompleto o poco approfondito, il
provvedimento è viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria.
L’amministrazione, per esempio, non può prendere per buona la ricostruzione di fatti operata dalla
parte privata intervenuta nel procedimento, ma deve condurre le opportune verifiche.
A differenza dell’errore di fatto, nel caso del difetto di istruttoria non si può escludere che il
quadro fattuale posto alla base del provvedimento risulti in effetti esistente e che dunque la scelta
operata sia corretta, ma l’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in
proposito. Annullato l’atto e posta in essere una nuova istruttoria, questa volta in modo corretto,
l’amministrazione ben potrebbe adottare un atto con il medesimo contenuto.
c3) Difetto di motivazione. Nella motivazione del provvedimento l’amministrazione deve dar
conto, in sede di decisione, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Per quanto sintetica,
essa deve consentire una verifica del corretto esercizio del potere, cioè dell’iter logico seguito per
pervenire alla determinazione contenuta nel provvedimento, traendo le fila degli elementi istruttori
rilevanti e operando la ponderazione degli interessi.
Il difetto di motivazione ha varie sfaccettature. La motivazione può essere in primo luogo
insufficiente, incompleta o generica, se da essa non traspare in modo percepibile l’iter logico seguito
dall’amministrazione e non emergono le ragioni sottostanti la scelta operata. L’insufficienza della
motivazione non è solo un fatto di quantità, ma anche di qualità, come, per esempio, nel caso di
omessa considerazione specifica di un interesse acquisito al procedimento.
La l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni che specificano il contenuto minimo della
motivazione. Così, come già visto, l’amministrazione è tenuta a valutare gli apporti partecipativi di chi
interviene nel procedimento (art. 10) e a dar conto delle ragioni per le quali non accoglie le
osservazioni presentate dall’interessato al quale sia comunicato il preavviso di rigetto di un’istanza
(art. 10-bis). La motivazione può consistere soltanto in «un sintetico riferimento al punto di fatto o di
diritto ritenuto risolutivo» nel caso in cui l’amministrazione ritenga un’istanza manifestamente
inammissibile o infondata (art. 1, comma 2, l. n. 241/1990).
In realtà, non esiste un criterio univoco per determinare se una motivazione sia sufficiente. Si può
peraltro ritenere che quanto più ampia è la discrezionalità dell’amministrazione e quanto più gravosi
sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è lo standard
quantitativo e qualitativo imposto alla motivazione. Per prassi, per esempio, i provvedimenti delle
autorità indipendenti, che spesso hanno un impatto sui mercati regolati assai rilevante, sono emanati
con una motivazione particolarmente ampia, talora con rinvio a documenti illustrativi degli aspetti
tecnici e di mercato.
La motivazione può essere inoltre illogica e contraddittoria, allorché essa contenga proposizioni
o riferimenti a elementi incompatibili tra loro. Può essere infine perplessa o dubbiosa là dove non
consenta di individuare con precisione il potere che l’amministrazione ha inteso esercitare.

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Anche nel caso del difetto di motivazione, non è da escludere che, una volta annullato il
provvedimento, l’amministrazione possa emanarne uno di contenuto identico, emendato dal vizio
rilevato. Peraltro, come già accennato, non è consentito all’amministrazione di integrare o emendare la
motivazione del provvedimento in sede di giudizio.
Nel caso in cui la motivazione manchi del tutto, il vizio può essere qualificato come violazione di
legge, in quanto l’obbligo di motivazione è ora previsto espressamente dall’art. 3 l. n. 241/1990.
c4) Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Si è già osservato trattando dei principi che
presiedono all’esercizio della discrezionalità, che il diritto amministrativo assume, come principio
logico prima ancora che giuridico, che la pubblica amministrazione agisca come un soggetto razionale.
Pertanto, emerge un vizio di eccesso di potere tutte le volte che il contenuto del provvedimento e le
statuizioni del medesimo fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza, apprezzabili in modo
oggettivo in base a canoni di esperienza.
Per esempio, un provvedimento di diffida a cessare e a porre rimedio a una violazione di una
norma amministrativa non può assegnare al diffidato un termine così breve da non poter essere
rispettato. Un bando di concorso per l’assunzione di dipendenti pubblici non può richiedere il possesso
di titoli che non siano correlati alle mansioni che i vincitori saranno chiamati a svolgere.
Può essere considerata come sottospecie dell’illogicità e irragionevolezza la contraddittorietà
interna (intrinseca) al provvedimento. Questa emerge, in particolare, se non vi è coerenza tra le
premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. Si pensi a un piano regolatore che
prevede la destinazione a servizi pubblici di un’area in cui insistono attività industriali, contraddicendo
la relazione illustrativa che enuncia invece l’obiettivo di difendere e incrementare le attività
produttive. Più in generale, tutti i passaggi dell’iter argomentativo seguito dall’amministrazione
devono essere legati da un rapporto di consequenzialità logica.
La contraddittorietà può essere anche esterna (estrinseca) al provvedimento, quando è rilevabile
dal raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell’amministrazione che
riguardano lo stesso soggetto. Così è affetto da questo tipo di contraddittorietà il provvedimento che
esprime una valutazione non positiva ai fini dell’avanzamento di carriera di un militare di alto grado
che ha ottenuto una serie continua di giudizi encomiastici in relazione ai servizi prestati nel corso della
carriera. Se la contraddittorietà riguarda provvedimenti emanati nei confronti di soggetti diversi, si ha
la figura sintomatica della disparità di trattamento.
La contraddittorietà intrinseca o estrinseca costituisce una violazione del principio di coerenza che
deve presiedere all’agire della pubblica amministrazione.
c5) Disparità di trattamento. Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza impongono
all’amministrazione di trattare in modo eguale casi eguali.
Il vizio può emergere sia allorché casi eguali siano trattati in modo diseguale, sia allorché casi
diseguali siano trattati in modo eguale. Per stabilire in concreto se le situazioni da confrontare siano
identiche o differenziate va utilizzato il criterio della ragionevolezza. Il vizio in questione emerge di
frequente nei giudizi comparativi, nelle progressioni di carriera o nel riconoscimento di altri benefici
ai dipendenti pubblici, oppure nelle classificazioni dei terreni contenute nei piani regolatori ai fini di
individuarne le destinazioni d’uso.
Perché possa essere censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento sia
discrezionale. Inoltre la comparazione deve riferirsi a provvedimenti legittimi. L’emanazione di un
atto illegittimo a favore di uno o più soggetti non può cioè fondare la pretesa di un altro soggetto a
vedersi riconoscere, sempre illegittimamente, la stessa utilità.
c6) Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa. Come si è visto,
l’attività della pubblica amministrazione deve essere posta in essere non solo in conformità con le
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disposizioni contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti normative. Essa deve essere conforme
anche alle norme interne contenute in circolari, direttive, atti di pianificazione o altri atti contenenti
criteri e parametri di vario tipo che hanno come scopo quello di orientare l’esercizio della
discrezionalità da parte dell’organo competente a emanare il provvedimento.
I principi di coerenza e di rispetto dell’assetto organizzativo dell’amministrazione richiedono che
l’organo titolare di un potere discrezionale, nel momento in cui emana un provvedimento, tenga conto
delle norme interne. Se ciò non accade emerge un sintomo dell’eccesso di potere. Per evitare di cadere
in questo vizio il titolare del potere deve esplicitare nella motivazione le ragioni per le quali ha
ritenuto di disattendere nel caso concreto le prescrizioni poste dalle norme interne.
c7) Ingiustizia grave e manifesta. In qualche rara occasione la giurisprudenza, per ragioni
essenzialmente equitative, si spinge fino al punto di censurare provvedimenti discrezionali il cui
contenuto appaia manifestamente ingiusto.
Il caso dal quale trae origine questa figura sintomatica risale agli anni Venti del secolo scorso e
riguarda l’esonero dal servizio per scarso rendimento di un dipendente delle ferrovie. Quest’ultimo
aveva subito un incidente sul lavoro con effetti disabilitanti permanenti e ciò aveva indotto in un primo
momento l’amministrazione ad adibirlo a mansioni meno impegnative, piuttosto che collocarlo subito
a riposo per inabilità dovuta a causa di servizio. A breve distanza di tempo il dipendente veniva però
esonerato per scarso rendimento.
L’ingiustizia manifesta è una figura sintomatica che si colloca al confine tra il sindacato di
legittimità e il sindacato di merito. Perché non si debordi nel merito il carattere ingiusto del
provvedimento deve essere «manifesto», cioè di immediata evidenza per qualsiasi persona di
sensibilità media. Del resto, com’è stato osservato, anche nel diritto privato il giudice può dichiarare
nulla la determinazione dell’oggetto del contratto rimessa dalle parti a un terzo arbitratore ove essa sia
«manifestamente iniqua o erronea» (art. 1349 cod. civ.).
Altre figure sintomatiche hanno una configurazione più dubbia. Talora in esse vengono infatti
inclusi anche i vizi della volontà, la violazione dei principi di proporzionalità e del legittimo
affidamento. Questi principi generali peraltro, hanno ormai un fondamento legislativo tramite il rinvio
all’ordinamento europeo contenuto nell’art. 1 l. n. 241/1990 e pertanto la loro violazione può essere
qualificata come violazione di legge.
In passato, veniva annoverata tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere anche la violazione
o elusione del giudicato amministrativo, ora attratta dalla l. n. 241/1990 nella categoria della nullità.
La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere è controversa.
1. Secondo alcune teorie, esse rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di
potere e hanno una valenza essenzialmente processuale. Possono cioè essere ricondotte allo schema
civilistico delle presunzioni. Queste, secondo la definizione del codice civile sono le conseguenze che
il giudice ritrae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Le singole figure sintomatiche sono
costituite cioè da situazioni che, sulla base dell’esperienza, consentono «di dubitare che si sia attuata la
divergenza dell’atto dalla sua finalità». Si discute se, una volta appurata l’esistenza di una figura
sintomatica, sia ammessa in giudizio la prova contraria, se cioè l’amministrazione possa dimostrare
che, nonostante il sintomo, non sussiste uno sviamento. In realtà, una siffatta prova contraria non è
compatibile con la struttura attuale del processo amministrativo, che è ancora ispirato al principio del
divieto di integrazione della motivazione del provvedimento in corso di giudizio.
2. Secondo altre teorie, le figure sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia
dallo sviamento di potere e hanno una valenza sostanziale, prima ancora che processuale. Esse cioè
sono riconducibili alla violazione dei principi generali dell’azione amministrativa e più

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precisamente dei principi che presiedono all’esercizio della discrezionalità. Rilevano in particolare i
principi di logicità, di ragionevolezza, di completezza dell’istruttoria, di accettabilità, ecc.
In applicazione di tali canoni, il giudice analizza tutte le fasi dell’esercizio del potere discrezionale
ripercorrendo l’iter seguito e verificando la ricostruzione della situazione di fatto e l’acquisizione di
tutti gli elementi rilevanti per la decisione, la valutazione e ponderazione degli interessi acquisiti, la
coerenza tra le premesse e il dispositivo del provvedimento, gli altri elementi di contesto.
In una siffatta verifica il giudice non entra nel merito delle scelte discrezionali sostituendo la
propria valutazione a quella effettuata dall’amministrazione, ma «riesamina l’iter logico di formazione
del provvedimento amministrativo» cogliendone le contraddizioni e le incongruenze. Il sindacato sul
provvedimento dell’amministrazione può essere anche molto penetrante, ma resta pur sempre esterno
e indiretto e pertanto non deborda dal perimetro del sindacato di legittimità.
3. Di recente, le figure sintomatiche sono state ricondotte alle clausole generali (buona fede,
imparzialità) che fanno sorgere obblighi comportamentali nell’ambito del rapporto giuridico
amministrativo intercorrente tra la pubblica amministrazione e il cittadino.

17. La nullità

Si è già anticipato che la nullità ha ormai un fondamento nel diritto positivo e una rilevanza teorica
equiparata all’annullabilità, anche se nella pratica costituisce un fenomeno quantitativamente
marginale.
L’art. 21-septies l. n. 241/1990 individua anzitutto quattro ipotesi tassative di nullità.
1. La mancanza degli elementi essenziali accomuna la nullità del provvedimento a quella del
contratto (art. 1418, comma 2, cod. civ.), anche se la l. n. 241/1990 non li elenca in modo preciso,
rimettendo all’interprete il compito di individuare le singole fattispecie. Gli esempi che vengono talora
fatti, come l’espropriazione di un edificio distrutto o di un bene demaniale, costituiscono casi di
scuola.
2. Il difetto assoluto di attribuzione è già stato esaminato trattando della carenza di potere e
dell’incompetenza assoluta. Esso corrisponde alla figura dello straripamento di potere che, come si è
accennato, avrebbe potuto costituire l’archetipo dell’eccesso di potere.
3. La violazione o elusione del giudicato è un’ipotesi particolare che riprende e legifica gli
orientamenti giurisprudenziali. Si ha elusione del giudicato allorché l’amministrazione, in sede di
nuovo esercizio del potere in seguito all’annullamento pronunciato dal giudice con sentenza passata in
giudicato, emana un nuovo atto che si pone in contrasto con quest’ultima allorché essa ponga un
vincolo puntuale e non lasci all’amministrazione alcuno spazio di valutazione. Il nuovo atto, cioè,
«ignora e palesemente trascura il sostanziale contenuto del giudicato e manifesta il reale intendimento
dell’amministrazione di sottrarsi al giudicato».
In un primo periodo la giurisprudenza riteneva che l’elusione del giudicato fosse causa di nullità e
potesse essere dedotta nell’ambito del giudizio di ottemperanza. Al contrario, la semplice violazione
del giudicato, che si ha quando il nuovo atto è affetto da vizi non riconducibili in modo immediato al
giudicato e non appalesa un intento elusivo, rendeva l’atto annullabile e il vizio andava fatto valere in
un normale giudizio di impugnazione.
Questa distinzione, che dava origine a incertezze, venne superata negli anni Novanta del secolo
scorso dalla giurisprudenza, che ha ritenuto esperibile il giudizio di ottemperanza tutte le volte che il
ricorrente faccia valere una difformità tra atto emanato in sostituzione di quello annullato e
accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. È questa la soluzione accolta dall’art. 21-septies.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

4. La quarta ipotesi di nullità si riferisce ai casi in cui la legge qualifica espressamente come
nullo un atto amministrativo (nullità testuale).
Di frequente, per esempio, leggi di contenimento della spesa prevedono la nullità di atti di
assunzione di dipendenti pubblici in violazione di divieti o contingenti in esse previsti. In termini più
generali, il Testo unico degli impiegati civili dello Stato comminava la nullità delle assunzioni senza
concorso. La nullità è talora disposta per legge con riguardo a termini di conclusione di procedimenti
amministrativi qualificati espressamente dalla legge come termini posti a pena di decadenza.
Un’ipotesi di nullità prevista per legge riguarda gli atti adottati da organi collegiali scaduti,
decorso il periodo di prorogatio di 45 giorni durante il quale possono comunque essere posti in essere
solo gli atti di ordinaria amministrazione. Un regime così rigoroso è stato introdotto allo scopo di
contrastare il fenomeno ricorrente dell’inerzia da parte degli organi titolari del potere di nomina che
ritardavano il rinnovo delle cariche per periodi molto lunghi eludendo così le disposizioni sulla durata
in carica degli organi.
Si è discusso se un’ipotesi di nullità sia costituita dagli atti adottati dall’amministrazione in
applicazione di norme nazionali contrastanti con il diritto europeo. In un primo periodo la
giurisprudenza amministrativa sembrava orientata, per un verso, a ritenere disapplicabile la norma
nazionale e, per altro verso, a qualificare come nullo o inesistente il provvedimento contrastante con il
diritto europeo. Successivamente è prevalso l’orientamento che lo qualifica invece soltanto come
annullabile, e ciò in ragione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici di diritto pubblico. Del
resto, a livello europeo, gli atti emanati in violazione del Trattato o di altre norme europee ricadono, di
regola, nel regime dell’annullabilità. Il provvedimento è considerato invece nullo quando la norma
attributiva del potere si pone in violazione del diritto europeo.
Sul versante processuale, il Codice del processo amministrativo disciplina l’azione per la
declaratoria della nullità che può essere proposta innanzi al giudice amministrativo entro un termine
di decadenza breve (180 giorni) e ciò in relazione, come si è visto, all’esigenza di garantire stabilità
all’assetto dei rapporti di diritto pubblico. A differenza di quanto accade per l’annullabilità, la nullità
può essere rilevata d’ufficio dal giudice o opposta dalla parte resistente (pubblica amministrazione).

18. L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la ferma la conversione, la


revoca, il recesso

Conviene ora esaminare i provvedimenti che l’amministrazione può emanare per porre rimedio
all’invalidità o alla non conformità all’interesse pubblico di un provvedimento amministrativo. I
provvedimenti in questione sono assunti nell’ambito dei procedimenti definiti di secondo grado
proprio perché hanno per oggetto atti già emanati che l’amministrazione sottopone a un riesame.

 L’annullamento d’ufficio. La misura specifica per reagire all’illegittimità del provvedimento


è costituita dall’annullamento con efficacia ex tunc dell’atto emanato.
L’annullamento del provvedimento illegittimo può essere pronunciato, sotto il profilo soggettivo,
dal giudice amministrativo, dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi,
dagli organi amministrativi preposti al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti. In
queste ipotesi l’annullamento è doveroso, nel senso che deve essere necessariamente pronunciato ove
sia accertato un vizio.
Ha carattere discrezionale e costituisce una delle manifestazioni del potere di autotutela della
pubblica amministrazione, e cioè l’annullamento d’ufficio.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Una specie particolare di annullamento d’ufficio è quello attribuito al Consiglio dei ministri nei
confronti di tutti gli atti degli apparati statali e locali. Si tratta del cosiddetto annullamento
straordinario del governo a «tutela dell’unità dell’ordinamento» in particolare contro il rischio che
gli enti locali assumano determinazioni aberranti. Proprio per la sua particolare delicatezza, esso
richiede l’acquisizione preventiva di un parere del Consiglio di Stato.
Affinché l’amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di annullamento d’ufficio
devono sussistere quattro presupposti esplicitati dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
1. Il primo è che il provvedimento sia «illegittimo ai sensi dell’art. 21-octies», e dunque sia
affetto da un vizio di violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve
ricadere in una delle ipotesi di vizi formali di cui al comma 2 dell’articolo in questione.
2. Devono inoltre sussistere «ragioni di interesse pubblico», rimesse alla valutazione
discrezionale dell’amministrazione, che rendano preferibile la rimozione dell’atto e dei suoi effetti
piuttosto che la loro conservazione, pur in presenza di un’illegittimità accertata. L’interesse astratto al
ripristino della legalità violata non è sufficiente, ma l’amministrazione deve porre a fondamento un
altro interesse pubblico che deve essere presente al momento in cui è disposto l’annullamento
d’ufficio. Tale è, per esempio, l’interesse dello Stato a evitare l’irrogazione di sanzioni per violazioni
del diritto europeo.
3. L’annullamento d’ufficio richiede in terzo luogo una ponderazione di tutti gli interessi in
gioco da esplicitare nella motivazione. Devono essere valutati, specificamente, oltre all’interesse
pubblico all’annullamento, da un lato, quello del destinatario del provvedimento, che per esempio ha
ottenuto un provvedimento favorevole (come un’autorizzazione o una concessione) tale da ingenerare
una situazione di affidamento; dall’altro quello degli eventuali controinteressati, come, per esempio, i
proprietari di terreni confinanti con quello in relazione al quale è stato rilasciato un permesso a
costruire illegittimo.
4. Infine, la valutazione discrezionale deve tener conto del fattore temporale. L’annullamento
può essere disposto «entro un termine ragionevole», principio espresso dalla giurisprudenza europea e
previsto anche in altri ordinamenti. Se infatti è trascorso un lungo lasso di tempo dall’emanazione del
provvedimento illegittimo, prevale tendenzialmente l’interesse a mantenere inalterato lo status quo e a
tutelare l’affidamento creato. Se invece l’amministrazione rileva immediatamente l’illegittimità del
provvedimento emanato, magari prima ancora che esso sia portato a esecuzione, essa può procedere
all’annullamento d’ufficio senza dover valutare in modo approfondito interessi diversi dal mero
ripristino della legalità. Rientra nella discrezionalità dell’amministrazione stabilire se il termine è
«ragionevole» e ciò introduce un elemento di incertezza sulla stabilità dei rapporti giuridici
amministrativi. Proprio per ovviare a ciò, l’art. 6 della l. n. 124/2015 fissa, almeno per alcuni tipi di
provvedimenti (di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici), il termine in diciotto mesi
decorso il quale l’amministrazione decade dal potere.
Il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle regole generali della l.
n. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione dei soggetti
interessati. Una modifica recente dell’art. 21-nonies, comma 1, prevede che rimangano ferme «le
responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo».
Attesa la natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio, l’amministrazione non è tenuta a
prendere in esame e a dar seguito a segnalazioni ed esposti da parte di soggetti privati che denunciano
l’illegittimità di un atto amministrativo.

 La convalida. In alternativa all’annullamento d’ufficio, l’art. 21-nonies, comma 2, prevede


che l’amministrazione possa procedere alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre in
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Il potere in questione è


espressione del principio generale della conservazione dei valori giuridici, che permea anche il diritto
amministrativo così come il diritto privato, e che consiste nella eliminazione del vizio del quale è
affetto il provvedimento amministrativo. A differenza di quanto avviene nei rapporti interprivati, nei
quali la convalida del negozio costituisce una facoltà del soggetto leso al quale spetta l’azione di
annullamento (art. 1444 cod. civ.), la convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla
stessa amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato. Si tratta di un istituto di applicazione poco
frequente e che ha comunque un ambito limitato, anche in conseguenza del principio della
dequotazione dei vizi formali.
Ove la convalida riguardi il vizio di incompetenza è ricorrente nell’uso l’espressione di ratifica.
Peraltro, la ratifica si riferisce, più propriamente, alle ipotesi nelle quali all’interno di
un’amministrazione pubblica un organo può, in base alla legge, esercitare in caso d’urgenza una
competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo, che poi è chiamato a far proprio l’atto
emanato. Si tratta dunque di un fenomeno che non attiene alla patologia del provvedimento.

 La sanatoria. Si parla talora anche di sanatoria nei casi in cui l’atto è emanato in carenza di
un presupposto e quest’ultimo si materializza in un momento successivo, oppure nei casi in cui un atto
della sequenza procedimentale viene posto in essere dopo il provvedimento conclusivo (ad esempio
una proposta o un accertamento tecnico intervenuti successivamente all’emanazione dell’atto).

 La conferma e l’atto confermativo. All’esito di un procedimento di riesame aperto su


sollecitazione di un privato o anche d’ufficio, l’amministrazione può pervenire, in seguito
all’istruttoria, alla conclusione che il provvedimento, nonostante i dubbi iniziali, non è affetto da alcun
vizio. In questi casi l’amministrazione emana un provvedimento di conferma.
In giurisprudenza, si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento autonomo dal
contenuto identico rispetto a quello oggetto del riesame, e atto meramente confermativo. Con
quest’ultimo l’amministrazione si limita a comunicare al privato che chiede il riesame che non vi sono
motivi per riaprire il procedimento e procedere a una nuova valutazione. L’atto meramente
confermativo non può essere considerato dunque come un nuovo provvedimento suscettibile di essere
impugnato.

 La conversione. Ai provvedimenti affetti da nullità e da annullabilità si ritiene generalmente


applicabile, anche in assenza di una disposizione legislativa espressa, la conversione, sulla falsariga
del modello civilistico (art. 1424 cod. civ.).

 La revoca. Gli atti ai quali si è fatto sin qui cenno sono assunti all’esito di procedimenti di
secondo grado aventi per oggetto provvedimenti affetti da invalidità. Ma anche i provvedimenti validi
sono passibili di un riesame che ha per oggetto il merito (opportunità), cioè la conformità
all’interesse pubblico dell’assetto degli interessi risultante dall’atto emanato. Interviene qui uno degli
istituti più caratteristici del diritto amministrativo, cioè la revoca del provvedimento.
Nel diritto amministrativo, il potere di revoca è considerato come una manifestazione del potere di
autotutela della pubblica amministrazione ed è ammesso da sempre dalla giurisprudenza. Tra i casi più
risalenti può essere ricordato quello delle concessioni di illuminazione a gas rilasciate a livello
comunale, revocate in seguito alla possibilità d’impiego di lampade elettriche.
Il potere di revoca, che ha carattere discrezionale, è giustificato dall’esigenza di garantire nel
tempo la conformità all’interesse pubblico dell’assetto giuridico derivante da un provvedimento
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

amministrativo, esigenza che è ritenuta prevalente rispetto a quella di tutela degli affidamenti creati.
Esso dà una connotazione di precarietà e instabilità al rapporto giuridico amministrativo.
L’art. 21-quinquies l. n. 241/1990 pone una disciplina generale della revoca precisandone meglio
i presupposti e gli effetti. L’articolo è stato introdotto dalla l. n. 15/2005 ed è stato poi integrato dai
commi 1-bis e 1-ter sulla quantificazione dell’indennizzo.
L’art. 21-quinquies, comma 1, distingue due fattispecie: la revoca per sopravvenienza e la
revoca espressione dello jus poenitendi.
Sono riconducibili alla prima fattispecie due ipotesi tipizzate dalla disposizione. La prima è la
revoca per «sopravvenuti motivi di pubblico interesse», che interviene allorché l’amministrazione
opera una rivalutazione dell’assetto degli interessi alla luce di fattori ed esigenze sopravvenute, cioè
non presenti al momento in cui l’atto era stato emanato. Un esempio può essere la destinazione di un
tratto di spiaggia non più a balneazione sulla base di una concessione demaniale, ma a riserva naturale.
È riconducibile alla revoca per sopravvenuti motivi di interesse pubblico il recesso dagli accordi
integrativi o sostitutivi del provvedimento previsto dall’art. 11, comma 4, l. n. 241/1990.
Costituisce revoca per sopravvenienza anche l’ipotesi del «mutamento della situazione di fatto»
non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento, ipotesi peraltro sovrapponibile all’altra.
Infatti, l’esigenza di rivalutare l’interesse pubblico dipende spesso da mutamenti della situazione di
fatto, quali, per esempio, l’emersione di nuove tecnologie (come nel caso della revoca della
concessione di illuminazione a gas), un incremento demografico, una modifica della situazione di
mercato, ecc.
La revoca jus poenitendi riguarda l’ipotesi di «nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario», che si ha nei casi in cui l’amministrazione si rende conto di aver compiuto una
ponderazione errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. Si tratta di
un’ipotesi controversa, che legifica quasi un «diritto all’arbitrio o al capriccio» in contrasto con il
principio del legittimo affidamento, e di dubbia compatibilità con il diritto europeo. Nel 2014 l’art. 21-
quinquies l. n. 241/1990 è stato modificato nel senso di vietare questo tipo di revoca in relazione ai
provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici e ciò al fine di attribuire
maggiore stabilità e certezza al rapporto giuridico amministrativo.
Sotto il profilo soggettivo la revoca può essere disposta «dallo stesso organo che ha emanato l’atto
ovvero da altro organo previsto dalla legge». Nell’equilibrio dei poteri spettanti al ministro e ai
dirigenti, il d.lgs. n. 165/2001 esclude espressamente che il primo possa revocare gli atti emanati dai
secondi, mentre prevede che possa annullarli d’ufficio.
A differenza dell’annullamento d’ufficio, che ha efficacia retroattiva (ex tunc), la revoca
«determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti» (ex nunc).
La revoca ha tipicamente per oggetto provvedimenti «a efficacia durevole», come per esempio le
concessioni di servizi pubblici. Ma il comma 1-bis, nel disciplinare l’indennizzo, fa riferimento anche
ad atti aventi «efficacia istantanea» nei casi in cui incidano su rapporti negoziali. Peraltro, si ritiene
generalmente che non sono suscettibili di revoca i provvedimenti che hanno già prodotto gli effetti o
siano stati interamente eseguiti. Per esempio, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche non può
essere revocato un ordine già interamente eseguito. Del pari, non sono suscettibili di revoca gli atti
vincolati (per i quali non si può porre, per definizione, un problema di valutazione dell’interesse
pubblico) e più in generale le certificazioni e le valutazioni tecniche.
L’art. 21-quinquies prevede un obbligo generalizzato di indennizzo nei casi in cui la revoca
«comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati». Questa previsione può costituire
una remora all’esercizio indiscriminato di questo potere perché non fa gravare interamente sui soggetti

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

privati le conseguenze economiche di un provvedimento emanato pur sempre in modo legittimo e che
ha creato un affidamento.
I commi 1-bis e 1-ter dell’art. 21-quinquies pongono alcuni criteri per quantificare l’indennizzo
in caso di revoca di atti che incidono su rapporti negoziali nell’obiettivo di ridurne l’importo.
L’indennizzo è limitato al danno emergente, escludendo così il lucro cessante, ed è suscettibile di
un’ulteriore riduzione anzitutto in relazione alla «conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti
della contrarietà dell’atto oggetto di revoca all’interesse pubblico». Si tratta di una disposizione di
dubbia opportunità perché presuppone che sia onere anche del soggetto privato operare una
valutazione dell’interesse pubblico che invece, nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo,
spetta esclusivamente alla pubblica amministrazione.
Le controversie relative alla quantificazione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Trattandosi di un atto discrezionale, la revoca richiede una motivazione adeguata. Sotto il profilo
procedimentale, è un procedimento di secondo grado che si apre con la comunicazione di avvio e che è
aperto alla partecipazione dei soggetti interessati.
La revoca disciplinata dall’art. 21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta revoca
sanzionatoria e dal mero ritiro.
La prima può essere disposta dall’amministrazione nel caso in cui il privato, destinatario di un
provvedimento amministrativo favorevole (autorizzazione, concessione), non rispetti le condizioni e i
limiti in esso previsti, oppure non intraprenda l’attività oggetto del provvedimento entro il termine
previsto.
Il mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci. Può avvenire per
ragioni di legittimità o anche di merito e non necessita di una valutazione specifica dell’interesse
pubblico e degli interessi dei destinatari del provvedimento, e ciò proprio perché non ha ancora inciso
in modo diretto su situazioni giuridiche soggettive di soggetti terzi.

 Il recesso dai contratti. L’art. 21-sexies l. n. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale
dai contratti della pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo «nei casi previsti
dalla legge o dal contratto». Si tratta di una disposizione che riguarda l’attività negoziale di diritto
privato della pubblica amministrazione e che ribadisce, in modo forse ovvio, che in questo ambito essa
non gode di alcun privilegio. È dubbia in ogni caso la sua collocazione nella l. n. 241/1990, atteso che
il recesso non ha di regola natura provvedimentale, ma attiene a rapporti privatistici.
Tra le disposizioni legislative che disciplinano in modo specifico il recesso dai contratti vi è quella
in tema di comunicazioni e certificazioni antimafia che lo prevede nei casi in cui emergano, anche in
seguito all’assunzione di informazioni da parte della pubblica amministrazione, tentativi di
infiltrazione mafiosa.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 5. IL PROCEDIMENTO

1. Nozione e funzioni del procedimento

Come si è visto, il procedimento amministrativo può essere definito come la «sequenza di atti ed
operazioni tra loro collegati funzionalmente in vista e al servizio dell’atto principale».
Il procedimento è anzitutto una nozione di teoria generale collegata alle modalità di produzione di
un effetto giuridico. Nello schema già esaminato norma-fatto-effetto, l’effetto giuridico si produce
alcune volte al verificarsi di un singolo accadimento (fatto giuridico semplice); altre volte al
verificarsi di una pluralità di accadimenti (fatti complessi).
Nel caso di fatti complessi l’effetto giuridico deriva dunque da una combinazione di eventi,
comportamenti o atti che devono verificarsi o essere posti in essere in parallelo o in sequenza
(fattispecie a formazione successiva).
Nella fattispecie a formazione successiva l’effetto giuridico si produce solo allorché la sequenza si
è integralmente realizzata secondo l’ordine normativamente dato. Prima di tale momento possono
sorgere tutt’al più effetti prodromici.
Restano invece esterni alla fattispecie i cosiddetti presupposti, cioè fatti che non concorrono
direttamente alla produzione dell’effetto giuridico, ma che si collocano per così dire a monte della
fattispecie e ne condizionano l’operatività. Così, per esempio, la morte di una persona è il presupposto
perché possa aprirsi la successione (artt. 456 ss. cod. civ.).
Nel diritto amministrativo, dopo una fase nella quale la nozione di procedimento fu ignorata, a
partire dalla seconda metà del secolo scorso essa assunse un rilievo crescente in dottrina e
giurisprudenza. Con la legge n. 241/1990 il procedimento è assurto ormai al rango di istituto cardine
dell’intero sistema.
Dopo la legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, l’attenzione della
giurisprudenza e della dottrina si concentrò esclusivamente sull’atto amministrativo. Il problema più
immediato, dovuto alla necessità di definire le caratteristiche del nuovo rimedio processuale, fu infatti
quello di distinguere gli atti impugnabili da quelli non impugnabili.
Inoltre, i tempi non erano maturi per far emergere la rilevanza giuridica degli atti e delle
operazioni prodromici all’emanazione del provvedimento. In primo luogo, infatti, la
procedimentalizzazione dell’attività ai fini di coordinamento tra apparati e organi non era un’esigenza
avvertita in un’epoca in cui la struttura dell’amministrazione era compatta e ruotava intorno al modello
ministeriale. In secondo luogo, l’organizzazione delle amministrazioni era ritenuta irrilevante per il
diritto, e pertanto tutto ciò che accadeva a monte del provvedimento era relegato alla sfera interna
dell’amministrazione: il solo punto di contatto tra gli apparati pubblici e la sfera giuridica dei soggetti
privati era rappresentato dall’atto produttivo di effetti autoritativi.
Il procedimento trovò ingresso nel diritto amministrativo negli anni Trenta del secolo scorso come
sviluppo delle acquisizioni della teoria generale in tema di fattispecie. Venne così elaborata anzitutto
la nozione di atto complesso, cioè del provvedimento che è il frutto della confluenza di manifestazioni
di volontà provenienti da più soggetti, tutte necessarie ai fini della produzione dell’effetto giuridico.
Emersero via via distinzioni più sofisticate (atto composto, continuato, ecc.), anche in relazione
all’omogeneità o disomogeneità e al carattere servente o primario delle manifestazioni di volontà. Fu
proposto anche il concetto piuttosto ambiguo di atto-procedimento.
Del procedimento amministrativo sono state offerte in dottrina varie ricostruzioni.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

1. La prima elaborazione organica del procedimento amministrativo operò un’analisi formale e


strutturale degli atti e delle operazioni della sequenza procedimentale e delle fasi in cui questa è
articolata.
2. Un’altra ricostruzione collocò invece il procedimento all’interno della dinamica del potere,
cioè come «momento della concretizzazione del potere in un atto».
3. Come sviluppo e integrazione dell’approccio formale e strutturale emerse in dottrina una terza
ricostruzione volta a mettere in luce soprattutto la connessione con la discrezionalità amministrativa.
Per poter operare una scelta corretta, tutti i fatti e gli interessi rilevanti devono essere, prima ancora
che valutati e ponderati, acquisiti all’interno del procedimento dall’organo decidente. La sequenza
delle operazioni e degli atti previsti dalle singole leggi che disciplinano i poteri pubblici serve dunque
a immettere in modo strutturato nel processo decisionale gli interessi più rilevanti.
Il procedimento amministrativo assolve a una pluralità di funzioni.
1. Una prima funzione è consentire un controllo sull’esercizio del potere, attraverso una
verifica del rispetto puntuale della sequenza degli atti e operazioni normativamente predefinita. La
legalità assume così una dimensione procedurale, oltre che sostanziale.
2. Una seconda funzione è quella di far emergere e dar voce agli interessi incisi direttamente
o indirettamente dal provvedimento. Ciò sia nell’interesse dell’amministrazione che può così
colmare le asimmetrie informative che spesso sussistono nei rapporti con i soggetti privati, sia
nell’interesse di questi ultimi che hanno la possibilità di rappresentare e difendere il proprio punto di
vista. La partecipazione acquista così una dimensione collaborativa.
Questa dimensione è presente soprattutto nei procedimenti di tipo individuale nei quali il
provvedimento determina effetti ampliativi nella sfera giuridica del destinatario.
La dimensione collaborativa è presente anche nei procedimenti di regolazione. Ad essi non si
applicano di regola, come si è accennato, le disposizioni sulla partecipazione previste dalla l. n.
241/1990, ma sempre più spesso la partecipazione è imposta dal diritto europeo specie con riguardo
agli atti di regolazione delle autorità indipendenti.
L’amministrazione deve appurare che tutti gli interessi coinvolti siano adeguatamente
rappresentati e deve vagliare criticamente gli apporti partecipativi dei privati. Questi ultimi sono
necessariamente di parte e vanno messi a confronto con gli apporti partecipativi dei portatori di
interessi di segno contrario. Inoltre, la voce degli interessi più organizzati (le cosiddette lobby) tende a
sovrastare quella degli altri interessi, con il rischio di condizionare e influenzare le valutazioni
dell’amministrazione.
3. Una terza funzione del procedimento è quella del contraddittorio. Essa emerge soprattutto
nei procedimenti di tipo individuale, nei quali la pubblica amministrazione esercita un potere che
determina effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario e il rapporto giuridico si connota, come
si è visto, in termini di contrapposizione, più che di collaborazione.
Il contraddittorio può assumere una dimensione verticale o orizzontale.
La prima si riferisce ai casi in cui il rapporto giuridico ha carattere bilaterale e coinvolge
l’amministrazione titolare del potere e il destinatario diretto dell’effetto giuridico restrittivo
(provvedimenti sanzionatori, di imposizione di vincoli). Nel contraddittorio verticale
l’amministrazione deve essere, con un ossimoro, «parte imparziale». Deve cioè a un tempo curare
l’interesse pubblico di cui essa è portatrice e garantire la posizione della parte privata portatrice di un
interesse contrapposto. Vi è però il rischio che un’amministrazione troppo zelante tenda a considerare
il contraddittorio come un impaccio alla propria azione.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

La dimensione orizzontale del contraddittorio emerge nei procedimenti nei quali i privati sono
portatori di interessi contrapposti e nei quali pertanto l’organo decidente è chiamato a garantire «la
parità delle armi».
In alcuni casi il contraddittorio orizzontale è perfettamente paritario, come per esempio nei
procedimenti di tipo contenzioso attribuiti alla competenza delle autorità di regolazione chiamate a
risolvere controversie tra gli utenti e le imprese che erogano il servizio.
Nel contraddittorio orizzontale di tipo paritario risulta più naturale per l’amministrazione
mantenere una posizione di terzietà.
4. Una quarta funzione del procedimento è quella di costituire un fattore di legittimazione del
potere dell’amministrazione e di promuovere la democraticità dell’ordinamento amministrativo.
Il procedimento, aperto alla partecipazione di tutti i soggetti interessati, diviene la sede nella quale si
individua la regola per il caso concreto dettata dal provvedimento. La democrazia procedimentale
completa, anche se non soppianta, la democrazia rappresentativa. Questa funzione del contraddittorio
è essenziale nei procedimenti gestiti dalle autorità indipendenti che sono affette da un deficit di
legittimazione democratica.
5. Una quinta funzione del procedimento è quella di promuovere il coordinamento tra più
amministrazioni nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada a incidere su una pluralità di
interessi pubblici curati da ciascuna di esse. In un modello di organizzazione dei pubblici poteri
improntato al pluralismo questa funzione ha assunto un peso crescente.
Accanto a modelli di coordinamento debole, la legislazione prevede modelli di coordinamento più
forte (il parere vincolante, l’intesa, il decreto interministeriale, ecc.). Allorché l’avvio di un’attività da
parte di un privato sia subordinato al rilascio di una pluralità di atti autorizzativi all’esito di una
pluralità di procedimenti paralleli, il coordinamento può avvenire, come si vedrà, con altre modalità
(la conferenza dei servizi, l’autorizzazione unica).
In definitiva, il procedimento assolve a più funzioni, spesso compresenti nella singola fattispecie.
Di volta in volta, a seconda del tipo di procedimento, può prevalere l’una o l’altra funzione. Così, nei
procedimenti di tipo regolatorio, nelle ipotesi in cui è ammessa la partecipazione al procedimento, ha
un ruolo primario la funzione di rappresentanza degli interessi e quella conoscitiva. Nei procedimenti
di tipo individuale rileva soprattutto quella di garanzia del soggetto nella cui sfera giuridica ricadono
gli effetti del provvedimento.

2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990

Il procedimento amministrativo in molti ordinamenti ha trovato una disciplina organica in leggi


generali, dalle quali ha tratto ispirazione la l. n. 241/1990.
In una prospettiva di comparazione, conviene accennare soprattutto alle leggi austriaca e
statunitense che hanno rappresentato due modelli di riferimento.
L’esperienza austriaca fu per molti aspetti pionieristica. Già nel 1875, la legge istitutiva del
Tribunale amministrativo supremo attribuì a quest’ultimo il potere di annullare gli atti
dell’amministrazione adottati all’esito di una procedura difettosa. In mancanza di ulteriori
specificazioni legislative, la giurisprudenza stabilì i casi nei quali può essere considerato difettoso un
procedimento. Nel 1925 venne emanata una legge generale sul procedimento, che sviluppava il
cosiddetto modello processuale del procedimento.
Quest’ultimo venne infatti concepito come uno strumento per tutelare la posizione del privato,
cioè per garantire gli interessi del cittadino nei confronti di una pubblica amministrazione che

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

incorporava in sé, oltre che il valore della legalità, anche quello della giustizia, in conformità al
principio della «sicurezza del diritto».
Ancor oggi, nell’ordinamento austriaco il livello elevato delle garanzie procedimentali consente di
semplificare i rimedi propriamente giurisdizionali. In generale, quanto più completa ed efficace è la
tutela degli interessi dei privati nell’ambito del procedimento, tanto minore è l’esigenza di un sistema
articolato di garanzie giurisdizionali.
Negli Stati Uniti, in un sistema costituzionale improntato a una separazione più rigida dei poteri,
l’attribuzione massiccia di poteri regolatori e amministrativi alle agenzie federali negli anni Trenta
determinò un conflitto istituzionale tra presidente e Corte Suprema. Quest’ultima infatti dichiarò
incostituzionali una serie di leggi interventiste emanate per superare la crisi economica. Il conflitto si
ricompose anche in seguito all’emanazione nel 1946 dell’Administrative Procedure Act che legittimò
il ruolo delle agenzie federali, ma le sottopose a regole e a controlli stringenti.
La legge configura anzitutto un procedimento aperto a un’ampia partecipazione dei soggetti
interessati secondo il modello della public interest representation. Nei procedimenti di regolazione la
rappresentanza degli interessi viene assicurata attraverso il modello del notice and comment.
Nei procedimenti di tipo individuale, per attuare il principio del giusto procedimento vengono
introdotte garanzie del contraddittorio di tipo paraprocessuale. Sul piano organizzativo la legge
prescrive una distinzione netta all’interno delle agenzie tra i funzionari che curano l’istruttoria e
l’organo collegiale che assume la decisione. Così anche nei procedimenti in cui il contraddittorio ha
una dimensione verticale si creano le premesse per una decisione assunta da un organo, composto da
membri definiti come administrative law judges, in qualche misura terzo rispetto agli uffici istruttori e
le parti private.
In definitiva, l’Administrative Procedure Act sottopone le agenzie federali a regole procedurali
stringenti. Il rispetto di queste regole è assicurato dalle corti ordinarie che accertano se l’esercizio del
potere sia avvenuto «without observance of procedure required by law».
Altri ordinamenti europei come quello tedesco e quello spagnolo si sono dotati di leggi generali
sul procedimento molto analitiche. La legge tedesca, che include anche una disciplina generale
dell’atto amministrativo e del contratto di diritto pubblico, contiene una definizione di procedimento
che per il suo carattere generale può servire a inquadrare il concetto in termini di teoria generale.
In Italia, un progetto di legge fu elaborato tra il 1944 e il 1947. Il progetto fu riproposto e
rielaborato in varie legislature senza però essere approvato. All’inizio degli anni Ottanta del secolo
scorso fu intrapreso un nuovo tentativo ad opera di una commissione presieduta da un altro illustre
studioso, Mario Nigro. La commissione elaborò un testo che, arricchito anche di una parte sulla
disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi, ispirò la legge 7 agosto 1990, n. 241
(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi). Il testo è stato più volte modificato e integrato anche negli ultimissimi anni. La
modifica più importante è costituita dalla l. n. 15/2005 che ha inserito nel suo corpo, come si è visto,
una disciplina del provvedimento amministrativo.
Rispetto a leggi omologhe, la l. n. 241/1990 è una legge soprattutto di principi, molti dei quali già
affermati dalla giurisprudenza amministrativa, senza la pretesa di porre una disciplina esaustiva di tutti
gli istituti.
La l. n. 241/1990, come si è accennato, non contiene né una definizione generale di procedimento,
né una disciplina organica delle singole fasi di cui esso si articola. Disciplina solo alcuni istituti
fondamentali come il termine del procedimento, il responsabile del procedimento, la partecipazione,
alcuni istituti di semplificazione, il diritto di accesso, ecc. La l. n. 241/1990 fornisce però una cornice

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

generale che integra tutte le leggi amministrative che disciplinano, in modo più o meno articolato,
anche con norme derogatorie o speciali, i singoli procedimenti.
Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è individuato sulla base di un criterio soggettivo e
oggettivo. Sotto il profilo soggettivo essa si applica alle amministrazioni statali, agli enti pubblici
nazionali e anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente alle attività che
si sostanziano nell’esercizio delle funzioni amministrative (art. 29). Le disposizioni sul diritto di
accesso hanno un campo di applicazione più esteso perché include anche i gestori di pubblici servizi
(art. 23).
Inoltre, le regioni e gli enti locali possono dotarsi di una propria disciplina sulla base dei principi
stabiliti dalla l. n. 241/1990. Peraltro, gli spazi per una disciplina regionale difforme sono limitati e in
ogni caso questa deve essere tale da prevedere garanzie non inferiori a quelle assicurate ai privati dalle
disposizioni statali, con espressa previsione della possibilità «di prevedere livelli ulteriori di tutela».
Ben potrebbe, per esempio, una regione introdurre ipotesi di contraddittorio orale non previste, come
si vedrà, dalla l. n. 241/1990.
Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica nella sua interezza ai procedimenti di tipo
individuale. Alcune categorie di procedimenti come quelli tributari non sono sottoposti alla l. n.
241/1990, bensì alle regole contenute nelle discipline speciali.
Prima di intraprendere un’esposizione della disciplina del procedimento, è opportuno mettere in
luce il modello di rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini a essa sotteso.
1. In primo luogo, la l. n. 241/1990 colma la distanza e la separatezza tradizionali tra
amministrazione e soggetti privati, che avevano come unico punto di contatto il provvedimento
autoritativo emanato in modo unilaterale.
Per un verso, infatti, i soggetti privati fanno ingresso nel procedimento attraverso gli strumenti di
partecipazione.
Per altro verso, la l. n. 241/1990 favorisce, per quanto possibile, il ricorso a strumenti consensuali
in luogo dell’esercizio unilaterale per così dire dall’alto di poteri autoritativi. Prevede che
l’amministrazione possa stipulare accordi con gli interessati, anche su proposta di questi ultimi, per la
determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11).
Il dialogo tra pubblica amministrazione e cittadino e la ricerca di soluzioni consensuali danno
sostanza alla concezione del diritto amministrativo «paritario» teorizzata negli anni Settanta del secolo
scorso. Il soggetto privato si fa in qualche modo «coamministratore».
2. In secondo luogo viene attenuata la concezione individualistica e atomistica dei rapporti tra
Stato e cittadino propria della concezione liberale ottocentesca. Infatti, al procedimento possono
partecipare non solo i singoli individui incisi dal provvedimento, ma anche i portatori di interessi
diffusi costituiti in associazioni o comitati (art. 9 l. n. 241/1990). L’amministrazione si apre cioè alle
espressioni della società civile.
3. In terzo luogo, la l. n. 241/1990 supera in gran parte il principio del segreto d’ufficio sulle
attività interne all’amministrazione che rendeva imperscrutabile l’operato dell’amministrazione. La l.
n. 241/1990 enuncia infatti il principio di pubblicità e trasparenza (art. 1) e pone una disciplina del
diritto di accesso ai documenti amministrativi (Capo VI) che tutela la riservatezza di soggetti terzi, ma
non riconosce una riservatezza dell’amministrazione. L’obbligo in capo ai dipendenti pubblici di
mantenere il segreto d’ufficio, cioè di non divulgare informazioni riguardanti l’attività amministrativa
di cui l’impiegato è in possesso, opera in via residuale, cioè «al di fuori delle ipotesi e delle modalità
previste dalle norme sul diritto di accesso» (art. 28), le quali hanno dunque una priorità. Per garantire
l’accessibilità «totale» delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

amministrazioni è previsto inoltre l’obbligo di rendere pubblici tutti gli atti organizzativi interni ed è
stato introdotto l’accesso civico.
4. In quarto luogo, la l. n. 241/1990 fa cadere il velo dell’anonimato tra il cittadino e gli apparati
amministrativi visti dall’esterno come un tutto indistinto spersonalizzato. La figura del responsabile
del procedimento (artt. 5 ss.) personalizza il rapporto con i soggetti privati e consente di attribuire in
modo più certo le responsabilità interne a ciascun apparato.
5. In quinto luogo, la l. n. 241/1990 cerca di superare anche la tradizionale separatezza tra le
stesse pubbliche amministrazioni.
In definitiva, la l. n. 241/1990, in linea con i valori espressi dalla Costituzione, supera il modello
autoritario dei rapporti tra Stato e cittadino a favore di un modello che pone l’accento sui «nuovi
diritti» di cittadinanza amministrativa, come quello a un termine certo per rilascio di un atto
amministrativo, di interazione con il responsabile del procedimento, di partecipazione, di accesso ai
documenti amministrativi, di motivazione delle decisioni, ecc. Dopo la l. n. 241/1990, accolta
all’epoca come una sorta di «rivoluzione copernicana», il diritto amministrativo si presta così a essere
ricostruito attraverso il prisma dei nuovi diritti, oltre che attraverso quello tradizionale del potere.
La l. n. 241/1990 è una tra le più avanzate e più in linea con la visione contemporanea di una
società aperta. Al tempo in cui fu approvata, essa fu addirittura culturalmente in anticipo sui tempi.
Ciò spiega le resistenze in sede attuativa o lo scarso impiego degli strumenti più innovativi che si
registrano ancor oggi.

3. Le fasi del procedimento

Il procedimento si articola in tre fasi: l’iniziativa, l’istruttoria e la conclusione.

4. a) L’iniziativa

La prima fase è quella dell’iniziativa, cioè dell’avvio formale del procedimento destinato a
sfociare nel provvedimento finale produttivo degli effetti nella sfera giuridica del destinatario.
Va posta anzitutto la distinzione tra obbligo di procedere e obbligo di provvedere, entrambi
espressione del principio generale della doverosità dell’esercizio del potere amministrativo. In base al
primo, l’amministrazione competente è tenuta ad aprire il procedimento su istanza di parte o d’ufficio
e a porre in essere le attività previste nella sequenza procedimentale. Il secondo pone in capo
all’amministrazione il dovere di portarlo a conclusione attraverso l’emanazione di un provvedimento
espresso.
I due obblighi si deducono dall’art. 2 l. n. 241/1990. Infatti, da un lato, il comma 1 fa riferimento
all’ipotesi in cui il procedimento «consegua obbligatoriamente a un’istanza» e a quella in cui esso
«debba essere iniziato d’ufficio». Dall’altro il medesimo comma pone il dovere di concludere il
procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Nei procedimenti su istanza di parte, l’atto di iniziativa consiste in una domanda o istanza
formale presentata all’amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un
provvedimento favorevole (in relazione al quale vanta, come si è visto, un interesse legittimo
pretensivo).
Tuttavia non ogni istanza del privato fa sorgere l’obbligo di procedere. Infatti, quest’ultimo sorge
solo in relazione a sequenze procedimentali tipiche, cioè in relazione ai procedimenti amministrativi
disciplinati nelle leggi amministrative di settore. Si pensi, per esempio, ai procedimenti autorizzativi
previsti dalle leggi che regolano le attività economiche.
103
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

In alcuni casi il procedimento è aperto su impulso di pubbliche amministrazioni che formulano


proposte all’amministrazione competente. Così, per esempio, l’amministrazione straordinaria o la
liquidazione coatta amministrativa di un istituto di credito viene disposta dal ministero dell’Economia
e delle Finanze su proposta della Banca d’Italia.
Nei procedimenti d’ufficio, l’apertura del procedimento avviene su iniziativa della stessa
amministrazione competente a emanare il provvedimento finale. I procedimenti d’ufficio riguardano
per lo più poteri il cui esercizio determina un effetto restrittivo nella sfera giuridica del soggetto
privato destinatario (titolare di un interesse legittimo oppositivo). Si pensi per esempio al
procedimento espropriativo o a quello di irrogazione di una sanzione.
Nei procedimenti d’ufficio si pone il problema di individuare con precisione il momento in cui
sorge l’obbligo di procedere.
Infatti, in molte situazioni l’apertura formale del procedimento avviene all’esito di una serie di
attività cosiddette preistruttorie, condotte sempre d’ufficio, dai cui esiti possono emergere situazioni
di fatto che rendono necessario l’esercizio di un potere (in relazione al principio di doverosità).
Tra le attività preistruttorie vanno annoverate le ispezioni. Il potere di ispezione attribuito dalla
legge ad autorità di vigilanza è esercitato nei confronti di soggetti privati allo scopo di verificare il
rispetto delle normative di settore. L’ispezione consiste in una serie di operazioni di verifica effettuate
presso un soggetto privato, in contraddittorio con quest’ultimo, delle quali si dà atto in un verbale.
L’ispezione può concludersi con la constatazione che l’attività è conforme alle norme, oppure può far
emergere fatti suscettibili di integrare una o più violazioni. Solo in quest’ultimo caso, sorge in capo
all’amministrazione l’obbligo di aprire un procedimento d’ufficio volto a contestare la violazione e
che può concludersi con l’adozione di provvedimenti ordinatori o sanzionatori.
Lo svolgimento delle attività preistruttorie e l’avvio dei procedimenti d’ufficio possono avvenire
anche in seguito a denunce, istanze o esposti di soggetti privati. Questi atti tuttavia non fanno
sorgere in modo automatico il dovere dell’amministrazione di aprire il procedimento nei confronti del
soggetto denunciato. Rientra nella discrezionalità dell’amministrazione valutarne la serietà e la
fondatezza. Solo in rari casi la giurisprudenza, in relazione a esigenze di giustizia sostanziale e
facendo leva sul dovere di correttezza e di buona amministrazione, riconosce una pretesa
giuridicamente qualificata in capo al soggetto privato a che l’amministrazione eserciti un potere
d’ufficio nei confronti di un terzo.
Nel diritto europeo della concorrenza trova una protezione particolare l’impresa che denuncia un
illecito. La Commissione UE deve infatti valutare se aprire d’ufficio un procedimento sanzionatorio
nei confronti dell’impresa o delle imprese concorrenti.
L’amministrazione deve dare comunicazione dell’avvio del procedimento anzitutto al soggetto o
ai soggetti destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro «nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti» (art. 7 l. n. 241/1990). La comunicazione
viene inviata anche a eventuali altri soggetti che per legge devono intervenire nel procedimento e, più
in generale, a soggetti individuati o facilmente individuabili che possono subire un pregiudizio dal
provvedimento, sempre che non sussistano ragioni particolari di impedimento. Per quest’ultimo
gruppo di soggetti, la l. n. 241/1990 individua criteri piuttosto elastici.
La comunicazione deve indicare l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, il
nome del responsabile del procedimento, il termine di conclusione del procedimento, l’ufficio in cui si
può prendere visione degli atti (art. 8).
Nei procedimenti d’ufficio la comunicazione di avvio del procedimento è funzionale a garantire il
contraddittorio. L’omessa comunicazione rende annullabile il provvedimento finale, ma, come si è già
sottolineato, l’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 ha ristretto i casi in cui ciò può avvenire.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

5. b) L’istruttoria

L’istruttoria del procedimento ha lo scopo di accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti
ai fini della determinazione finale.
I fatti da accertare riguardano i presupposti e i requisiti richiesti dalla norma di conferimento del
potere ovvero, secondo la l. n. 241/1990, «le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione
ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento» valutati dal responsabile del
procedimento (art. 6, comma 1, lett. a)).
Gli interessi da acquisire entrano in gioco esclusivamente nei procedimenti relativi a poteri
propriamente discrezionali, nei quali, come si è visto, l’interesse pubblico cosiddetto primario,
desumibile dalla norma di conferimento del potere, deve essere valutato e ponderato unitamente agli
interessi secondari, pubblici e privati.
L’istruttoria è retta dal principio inquisitorio. Infatti, secondo l’art. 6, comma 1, lett. b), l. n.
241/1990 il responsabile del procedimento «accerta d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli
atti all’uopo necessari». Quest’ultimo effettua di propria iniziativa le indagini necessarie, senza essere
vincolato alle allegazioni dei soggetti privati e ciò perché l’esercizio dei poteri avviene per curare
interessi pubblici.
Al contrario di quanto accade nell’istruttoria processuale, nel procedimento amministrativo
l’amministrazione può compiere tutti gli accertamenti necessari con le modalità ritenute più idonee.
L’art. 6, comma 1, lett. b) menziona tra gli atti istruttori il rilascio di dichiarazioni, l’esperimento di
accertamenti tecnici, le ispezioni e l’ordine di esibizioni documentali. Il responsabile del procedimento
può anche compiere le verifiche della documentazione prodotta dalle parti e, in particolare, della
veridicità dei dati autocertificati dall’interessato.
Nella scelta dei mezzi istruttori l’amministrazione deve attenersi ai principi di efficienza e di
economicità, evitando di aggravare il procedimento al di là di quanto necessario (art. 1, comma 2, l.
n. 241/1990).

La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate
esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria (art 1, comma 2).

Alcuni atti istruttori sono richiesti talvolta dalle leggi che disciplinano i singoli procedimenti.
Questo è il caso dei pareri obbligatori (art. 16 l. n. 241/1990) e delle valutazioni tecniche (art. 17) di
competenza di amministrazioni diverse da quella procedente.
I pareri, espressione della funzione consultiva, possono essere obbligatori o facoltativi. I primi
sono previsti dalla legge in relazione a specifici procedimenti e l’omessa acquisizione rende illegittimo
il provvedimento finale. L’amministrazione competente a esprimere il parere deve rilasciarlo entro un
termine di 20 giorni. In caso di ritardo, l’amministrazione titolare della competenza decisionale può
procedere indipendentemente dall’espressione del parere (art. 16, comma 2, ma il comma 3 prevede
una serie di eccezioni).

Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano in caso di pareri che debbano essere rilasciati da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini (art. 16,
comma 3).

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

I pareri facoltativi, invece, sono richiesti ove l’amministrazione procedente ritenga possano essere utili
ai fini della decisione.
In casi non frequenti, i pareri possono essere, oltre che obbligatori, anche vincolanti:
l’amministrazione che li riceve non può assumere una decisione difforme dal contenuto del parere,
neppure motivando le ragioni in relazione alle quali essa ritiene di discostarsi (come può avvenire
invece nel caso di pareri soltanto obbligatori). Il solo potere che residua talora in capo
all’amministrazione procedente è quello di rinunciare a emanare l’atto finale.
Le valutazioni tecniche richieste a organismi dotati di particolari competenze non giuridiche sono
soggette a un regime che ricalca in parte quello dei pareri (art. 17).
L’art. 17-bis della l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 3 della l. n. 124/2015, allo scopo di
accelerare i tempi di conclusione dei procedimenti, introduce un meccanismo inedito di silenzio-
assenso tra amministrazioni. Stabilisce termini stringenti per il rilascio di assensi, concerti e
nullaosta di amministrazioni statali (di regola 30 giorni), decorsi i quali l’atto «si intende acquisito»
(comma 2). Il termine può essere interrotto nel caso in cui l’amministrazione che deve rendere
l’assenso, il concerto o nullaosta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica motivate. Il
termine è di 90 giorni nel caso in cui l’amministrazione sia preposta alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini (comma 3).
La tendenza più recente in tema di adempimenti istruttori è di sgravare per quanto possibile i
soggetti privati da oneri di documentazione, imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i
documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria ( art. 18, comma 2, l.
n. 241/1990). Ai privati può essere richiesta soltanto l’autocertificazione, che, come si è accennato,
consiste nella possibilità per i soggetti privati di dichiarare sotto propria responsabilità il possesso di
determinati stati e qualità. Si è addirittura stabilito per legge, da ultimo, che i certificati rilasciati da
un’amministrazione non hanno valore se prodotti presso altre amministrazioni e ciò al fine di
costringerle allo scambio reciproco delle informazioni necessarie.
L’attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali. L’art. 11 l. n. 241/1990
prevede, per esempio, che per favorire la conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento può essere predisposto un calendario di incontri ai quali sono invitati, separatamente o
contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali contro interessati (comma 1- bis).
Inoltre, qualora sia opportuno un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un
procedimento, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi istruttoria (art. 14,
comma 1) nella quale ciascuna amministrazione interessata può esprimere le proprie valutazioni.
Delle attività istruttorie compiute e delle risultanze delle medesime viene dato conto attraverso la
redazione di un verbale. In quanto provenienti da un’autorità amministrativa i verbali fanno piena
prova fino a querela di falso dei fatti che in essi risultino menzionati.
L’istruttoria è aperta alla partecipazione dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e
partecipare al procedimento (art. 10 l. n. 241/1990). Questi ultimi sono i soggetti ai quali
l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche
i portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni
o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento (art. 9).
La partecipazione e l’intervento si sostanziano in due diritti. Il primo è quello di prendere
visione degli atti del procedimento (cosiddetto accesso procedimentale) non esclusi dal diritto di
accesso (art. 10, comma 1, lett. a)). Il secondo consiste nella possibilità di presentare memorie scritte e
documenti (lett. b)).
L’amministrazione ha l’obbligo di valutare i documenti e le memorie presentate, e deve pertanto
darne conto nella motivazione del provvedimento. Emerge così un collegamento tra contributi
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

partecipativi e motivazione del provvedimento, che, come già visto, deve dar conto delle «risultanze
dell’istruttoria» (art. 3 l. n. 241/1990).
Sotto il profilo organizzativo l’istruttoria è affidata al responsabile del procedimento, assegnato
di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l’apertura del procedimento. Il
suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti interessati (art. 5 l. n.
241/1990).
Il responsabile del procedimento costituisce uno degli istituti più caratteristici della l. n. 241/1990.
Consente al cittadino di avere un interlocutore certo con il quale confrontarsi e rende meno
spersonalizzato il rapporto con gli uffici.
I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990 e includono
tutte le attività propedeutiche all’emanazione del provvedimento finale e l’adozione «di ogni misura
per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria» (lett. b)).

Il responsabile del procedimento:


a) valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che
siano rilevanti per l’emanazione di provvedimento;
b) accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari, e adotta ogni misura per
l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria. In particolare, può chiedere il rilascio di dichiarazioni
e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed
ispezioni ed ordinare esibizioni documentali;
c) propone l’indizione o, avendone la competenza, indice le conferenze di servizi di cui all’articolo 14;
d) cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti;
e) adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all’organo
competente per l’adozione. L'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso
dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal
responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale (art. 6 l. n.
241/1990).

In aggiunta a quelle già menzionate relative all’accertamento dei fatti, va richiamato il potere di
chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (lett. b)). Emerge qui una funzione
di supporto nei confronti del soggetto privato che è spesso sfornito delle conoscenze e dell’esperienza
necessaria.
Inoltre, allo scopo di prevenire fenomeni di corruzione, il responsabile del procedimento deve
astenersi quando si trovi in «conflitto di interessi» anche potenziale (art 6-bis, introdotto dalla l. n.
190/2012).
Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento (o l’autorità competente a
emanare il provvedimento) è tenuto ad attivare una fase istruttoria supplementare nei casi in cui, come
si è accennato, sulla base degli elementi già acquisiti sia orientato a proporre o ad adottare un
provvedimento di rigetto dell’istanza (art. 10-bis l. n. 241/1990). Al soggetto che l’ha proposta, e che
dunque ha dato avvio al procedimento, deve essere data comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda. Entro 10 giorni l’interessato può presentare osservazioni scritte,
eventualmente corredate da altri documenti, nel tentativo di superare le obiezioni formulate
dall’amministrazione. L’eventuale provvedimento finale negativo che rigetta l’istanza deve dar conto,
come si è accennato, delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni eventualmente
presentate.
Di norma il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti
gli atti, corredati da una relazione istruttoria, all’organo competente a emanare il provvedimento
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

finale. Quest’ultimo si deve attenere alle risultanze dell’istruttoria. Può eccezionalmente discostarsene
ma, come si è anticipato, deve indicarne le ragioni nel provvedimento finale (art. 6, comma 1, lett.
e)). Queste regole tendono a valorizzare la figura del responsabile del procedimento. Il suo operato
non può essere infatti sconfessato senza che la dialettica interna all’amministrazione emerga in modo
formale nella motivazione dell’atto.

6. c) La conclusione: il termine, il silenzio, gli accordi

Conclusa l’istruttoria, l’organo competente a emanare il provvedimento assume la decisione


all’esito di una valutazione complessiva del materiale acquisito al procedimento. Se il potere esercitato
ha natura discrezionale, nella fase decisoria avviene la comparazione e ponderazione degli interessi
propedeutica alla scelta finale tra più soluzioni alternative.
L’art. 2 l. n. 241/1990 pone in capo all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento
mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Il provvedimento può essere emanato, a seconda dei casi, dal titolare di un organo individuale
(come il sindaco o il ministro), oppure da un organo collegiale (giunta comunale o provinciale, ecc.).
Accanto ad atti semplici (o monostrutturati) è frequente nelle leggi amministrative il ricorso ad
atti complessi (o pluristrutturati). Tale è, per esempio, specie nei rapporti tra ministeri, il decreto
interministeriale nel quale converge la volontà paritaria di una pluralità di amministrazioni. L’atto
finale è sottoscritto da entrambe le autorità. Si parla di concerto allorché il ministero competente a
emanare il provvedimento deve prima inviare al ministero concertante lo schema di provvedimento
per ottenere l’assenso o proposte di modifica.
Un’altra decisione pluristrutturata è l’intesa che interviene soprattutto nei rapporti tra Stato e
regioni. Essa può essere di tipo debole, quando il dissenso regionale può essere motivatamente
superato dallo Stato all’esito del confronto e ciò al fine di evitare effetti paralizzanti, oppure in senso
forte, nei casi in cui sia indispensabile il doppio consenso.
La determinazione finale è assunta sulla base delle regole vigenti al momento in cui essa è
adottata. Al procedimento si applica infatti il principio del tempus regit actum: le modifiche legislative
intervenute a procedimento avviato trovano immediata applicazione, a meno che non si sia in presenza
di situazioni giuridiche ormai consolidate o di fasi procedimentali già del tutto esaurite.
Con riferimento alla fase decisionale, i temi principali da approfondire sono il termine del
procedimento e i rimedi in caso di mancato rispetto del termine; il silenzio della pubblica
amministrazione; l’accordo come modalità consensuale alternativa al provvedimento unilaterale.

c1) Il provvedimento deve essere emanato entro il termine stabilito per lo specifico procedimento.
L’art. 2 pone una disciplina dei termini di conclusione dei procedimenti che è generale e completa:
generale, perché essa si applica là dove manchino disposizioni legislative speciali in tema di termini
di conclusione del procedimento; completa, perché l’applicazione della medesima vale per tutte le
fattispecie di procedimenti.
L’art. 2 rimette anzitutto a ciascuna pubblica amministrazione, nei casi in cui i termini dei
procedimenti da essa curati non siano già stabiliti per legge, l’obbligo di individuare i termini per
ciascun tipo di procedimento con propri atti di regolazione e di renderli pubblici. Di regola la durata
massima non deve superare i 90 giorni, in ragione della sostenibilità sotto il profilo organizzativo,
della natura degli interessi pubblici coinvolti e della complessità del procedimento (commi 3 e 4). Le
amministrazioni godono dunque di una certa discrezionalità.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Se le amministrazioni non provvedono a porre una propria disciplina, si applica un termine


generale residuale di 30 giorni (comma 2). La sua brevità funge da stimolo per le amministrazioni a
individuare con le modalità sopra viste termini di durata più congrua.
In definitiva, l’art. 2 l. n. 241/1990 dà corpo al principio della certezza del tempo dell’agire
amministrativo. Questo principio risponde sia all’esigenza dell’amministrazione alla cura sollecita
dell’interesse pubblico di cui è portatrice, sia a quella dei soggetti privati che dovrebbero poter
programmare le proprie attività facendo affidamento sulla tempestività nell’adozione degli atti
amministrativi necessari per intraprenderla.
Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a 30 giorni in caso di necessità di
acquisire informazioni o certificazioni (comma 7).
Accanto ai termini relativi alla conclusione del procedimento individuati in base ai criteri posti
dall’art. 2 l. n. 241/1990 (termini finali), le leggi e i regolamenti che disciplinano i singoli
procedimenti prevedono talora termini endoprocedimentali relativi ad adempimenti posti a carico
dei soggetti privati o relativi ad atti attribuiti alla competenza di altre amministrazioni (termini
endoprocedimentali). Per esempio, i termini per l’acquisizione di pareri e valutazioni tecniche sono
fissati in via generale rispettivamente in 20 e 90 giorni dalla stessa l. n. 241/1990 (artt. 16 e 17).
I termini finali ed endoprocedimentali hanno di regola natura ordinatoria, perché la loro
scadenza non fa venir meno il potere di provvedere, né rende illegittimo (o nullo) il provvedimento
finale emanato in ritardo. Solo nei casi in cui la legge qualifichi in modo espresso il termine come
perentorio e a pena di decadenza il provvedimento tardivo è considerato viziato. Così, per esempio,
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può vietare un’operazione di concentrazione tra
imprese entro un termine di 45 giorni dalla comunicazione, definito espressamente come perentorio. In
materia di espropriazione, la dichiarazione di pubblica utilità, che costituisce il presupposto del
decreto di espropriazione, indica un termine entro il quale quest’ultimo deve essere emanato: il suo
decorso determina l’inefficacia della dichiarazione con effetti caducanti su eventuali atti del
procedimento emanati successivamente.
I termini previsti per gli adempimenti a carico dei soggetti privati nell’ambito del
procedimento (come per esempio quello di 10 giorni previsto dall’art. 10-bis per controdedurre ai
motivi ostativi) hanno invece di regola natura più cogente: il loro decorso fa decadere il soggetto
privato dalla facoltà di porli in essere o in caso di adempimento tardivo consente all’amministrazione
di non tenerne conto. Ciò è soprattutto vero per i procedimenti di tipo concorsuale nei quali deve
essere garantita la par condicio.
Il mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento può provocare conseguenze
di vario tipo. Può far sorgere una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario o una
responsabilità di tipo dirigenziale nei confronti del vertice della struttura (art. 2, comma 9, l. n.
241/1990). Può costituire un elemento di valutazione al fine di attribuire la retribuzione di risultato.
Nei casi più patologici il ritardo può essere fonte di responsabilità penale.
Il mancato rispetto del termine può costituire anche motivo per l’esercizio del potere sostitutivo
da parte del dirigente sovraordinato.
Il potere sostitutivo è disciplinato anche nell’art. 2 l. n. 241/1990. In primo luogo l’organo di
governo di ciascuna amministrazione individua tra le figure apicali il soggetto (di regola un dirigente)
titolare del potere sostitutivo (comma 9-bis). In secondo luogo, in caso di ritardo, il privato può
rivolgersi al titolare del potere sostitutivo che deve concludere il procedimento entro un termine pari
alla metà di quello originariamente previsto attraverso le strutture competenti o nominando un
commissario ad acta (comma 9-ter). In terzo luogo, entro il 30 gennaio di ogni anno il titolare del
potere sostitutivo comunica all’organo di governo i procedimenti nei quali non è stato rispettato il
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

termine (comma 9-quater) e ciò al fine di sensibilizzarlo e indurlo a intraprendere le iniziative


necessarie per risolvere questo tipo di problema. Infine, i provvedimenti su istanza di parte rilasciati in
ritardo devono indicare sia il termine previsto dalla legge, sia il termine effettivamente impiegato
(comma 9-quinquies).
L’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può anche far
sorgere l’obbligo di risarcire il danno a favore del privato (art. 2-bis l. n. 241/1990). Il danno da
ritardo prescinde del tutto dalla spettanza o meno del bene della vita sotteso all’interesse legittimo. Ciò
significa che il tempo dell’agire amministrativo costituisce un «bene della vita» autonomo da quello
correlato all’esercizio del potere. Per esempio, anche un’autorizzazione legittima ma rilasciata in
ritardo può provocare all’impresa un danno causato dal mancato utilizzo delle attrezzature e
maestranze per il periodo di tempo intercorrente dalla data di scadenza del termine per l’emanazione
dell’atto a quella della sua effettiva emanazione.
Il comma 1-bis dell’art. 2-bis prevede, anche a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per il
risarcimento, il riconoscimento di un indennizzo automatico per il ritardo alle condizioni e con le
modalità stabilite da un regolamento (peraltro mai emanato).

c2) La conclusione del procedimento con l’emanazione di un provvedimento espresso è


l’evenienza prevista come fisiologica dalla l. n. 241/1990. Tuttavia può accadere che
l’amministrazione non concluda il procedimento entro il termine previsto e la situazione di inerzia si
protragga nel tempo. Si pone così la questione del silenzio della pubblica amministrazione.
Fino ad anni recenti il regime ordinario del silenzio della pubblica amministrazione di fronte a
istanze o domande presentate da soggetti privati è stato quello del cosiddetto silenzio-
inadempimento. In questi casi l’inerzia mantenuta oltre il termine assume il significato giuridico di
inadempimento dell’obbligo formale di provvedere posto dall’art. 2 l. n. 241/1990, cioè di concludere
il procedimento con un provvedimento vuoi di accoglimento, vuoi di rigetto dell’istanza.
Nei casi di silenzio-inadempimento il privato interessato può proporre al giudice amministrativo
un’azione allo scopo di accertare l’obbligo di quest’ultima di provvedere ed eventualmente la
fondatezza della pretesa e un’azione di adempimento volta a condannare l’amministrazione al rilascio
del provvedimento richiesto.
In realtà, per reagire ai ritardi e al silenzio dell’amministrazione il privato ha a disposizione una
serie di rimedi spesso macchinosi e poco efficaci.
Per risolvere in radice il problema, la l. n. 241/1990 e altre leggi amministrative prevedono due
regimi di silenzio cosiddetto significativo: il silenzio-diniego (o rigetto) e il silenzio-assenso (o
accoglimento).
Il decorso del termine di conclusione del procedimento produce un effetto giuridico ex lege, nel
primo caso di diniego dell’istanza, nel secondo caso di accoglimento della medesima. In entrambi i
casi il procedimento si conclude con un provvedimento tacito.
Le fattispecie (non frequenti) di silenzio avente valore di diniego sono tassativamente stabilite
dalla legge. Per esempio, la l. n. 241/1990 ne prevede una a proposito del diritto di accesso ai
documenti amministrativi. L’art. 25, comma 4, stabilisce infatti che «decorsi inutilmente 30 giorni
dalla richiesta, questa si intende respinta». Contro questo tipo di atto di diniego tacito può essere
proposto ricorso secondo le normali regole vigenti per il processo amministrativo.
Le ipotesi legislative di silenzio-assenso sono molto più numerose, in linea con la tendenza a
rimuovere gli ostacoli alle attività dei privati. Una disciplina generale è posta dall’art. 20 l. n.
241/1990.

110
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il campo di applicazione del silenzio-assenso definito dall’art. 20, commi 1 e 3, è individuato in


base ad alcuni criteri di tipo negativo. Il regime non vale anzitutto nei casi di provvedimenti
autorizzatori (di tipo vincolato) sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di attività soggetti,
come si è visto, a un regime di liberalizzazione. Non vale inoltre per i procedimenti che riguardano un
elenco piuttosto lungo di interessi pubblici (comma 4). Non vale in terzo luogo neppure nei casi in cui
la normativa europea impone l’adozione di un provvedimento formale. Non vale in quarto luogo nei
casi tassativamente previsti per legge di silenzio-rigetto. Non vale infine per i procedimenti individuati
con decreto del presidente del Consiglio dei ministri.
I casi di esclusione del regime del silenzio-assenso riguardano in definitiva molti procedimenti che
continuano dunque a ricadere nel regime del silenzio-inadempimento.
L’amministrazione può evitare che si formi il silenzio-assenso non soltanto provvedendo nel
termine previsto, ma anche indicendo entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza una conferenza
dei servizi (comma 2). Può essere questo un modo agevole per l’amministrazione per guadagnare
tempo.
Il silenzio-assenso ha, come si è chiarito, valore provvedimentale. Ciò determina due
conseguenze: il silenzio può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di
annullamento d’ufficio; può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo, per esempio da un
soggetto terzo che vuol contrastare l’avvio dell’attività da parte del soggetto che ha presentato
l’istanza.
Sotto il profilo procedurale, quest’ultimo deve dichiarare sotto propria responsabilità la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In caso di dichiarazioni mendaci possono essere
irrogate sanzioni anche penali e comunque rimangono fermi i poteri di vigilanza e di controllo anche
dopo l’avvio dell’attività.
In conclusione, il regime del silenzio-assenso non fa venir meno l’obbligo di provvedere in capo
all’amministrazione (di cui all’art. 2 l. n. 241/1990), non altera la struttura del procedimento, ma
incide solo sulla fase decisionale, introducendo un incentivo al rispetto del termine. A differenza di
quanto accade con la segnalazione certificata d’inizio di attività, resta fermo il modello del controllo
ex ante sulle attività private.
Il regime del silenzio assenso presenta alcuni difetti.
In primo luogo, poiché esso può applicarsi anche a provvedimenti discrezionali, la valutazione di
interessi pubblici, di fatto, nei casi di inerzia assoluta dell’amministrazione, non viene operata. Né essa
può essere ovviamente demandata al soggetto privato che presenta l’istanza al quale, come si è visto,
viene richiesto di autocertificare i presupposti e i requisiti vincolati. L’amministrazione abdica così al
proprio ruolo di cura dell’interesse pubblico.
In secondo luogo, dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato l’istanza, il silenzio-
assenso non soddisfa l’esigenza di certezza in relazione allo svolgimento di attività sottoposte a
controllo pubblico. Infatti, formatosi il silenzio-assenso, il privato non è in grado di sapere se dietro
l’atteggiamento silenzioso dell’amministrazione si celi un’inerzia assoluta degli uffici, oppure se una
qualche istruttoria sia stata in realtà compiuta, anche se l’amministrazione non è stata in grado di
provvedere nel termine. Pertanto il rischio che l’amministrazione intervenga in autotutela è molto
maggiore nel caso del silenzio-assenso di quanto non sia in quello dell’annullamento d’ufficio di un
provvedimento positivo espresso.
In definitiva, il silenzio-assenso è una scorciatoia non risolutiva del problema del mancato rispetto
dei termini che non giova né all’interesse pubblico né a quello privato. Del resto anche la Corte
Costituzionale ha individuato limiti di ammissibilità del silenzio-assenso allo scopo di contenerne
l’ambito di applicazione.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

c3) Gli accordi integrativi e sostituivi.


Il provvedimento espresso costituisce l’esito normale e più frequente del procedimento
amministrativo. Esiste tuttavia una modalità alternativa di conclusione del procedimento che la l. n.
241/1990 tende a favorire e cioè l’accordo integrativo o sostitutivo del provvedimento (art. 11).
Infatti, là dove occorra valutare e ponderare più interessi di regola «è preferibile la composizione
negoziata a quella imposta».
Gli accordi pongono l’amministrazione su un piano più paritario rispetto al soggetto privato e
riducono il rischio di possibili contenziosi.
Prima di essere disciplinati in termini generali dalla l. n. 241/1990, gli accordi erano emersi nella
prassi e successivamente nella legislazione speciale in contesti particolari. Si pensi per esempio al le
convenzioni urbanistiche, nelle quali l’interesse perseguito dall’amministrazione all’ordinato assetto
del territorio e quello dei privati che realizzano progetti di ampia portata (le cosiddette lottizzazioni
per l’edificazione di parti significative del territorio) hanno molti punti di convergenza e sussistono
dunque ampi spazi per ricercare soluzioni condivise. In materia espropriativa la normativa prevede in
alternativa all’emanazione del provvedimento unilaterale, l’accordo di cessione volontaria del bene
che garantisce al proprietario un corrispettivo di importo superiore all’indennità di esproprio.
In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto il contenuto discrezionale del
provvedimento ed è finalizzato a ricercare un miglior contemperamento tra l’interesse pubblico
perseguito dall’amministrazione procedente e l’interesse del privato spesso contrapposto al primo. I
poteri vincolati, invece, non si prestano a essere oggetto di accordi in quanto in essi manca il
presupposto per una negoziazione e cioè un ventaglio più o meno ampio di scelte.
L’accordo può essere promosso dal soggetto privato, il quale può presentare a questo fine
osservazioni e proposte in sede di partecipazione al procedimento. L’accordo fa salvi i diritti dei terzi
che ben potrebbero contestarne i contenuti proponendo un’azione di annullamento innanzi al giudice
amministrativo (art. 11, comma 1). Come si è accennato, il responsabile del procedimento, per favorire
l’accordo, può organizzare anche incontri informali con i soggetti interessati (comma 1-bis) avviando
veri e propri tavoli di trattativa.
L’amministrazione non è tuttavia obbligata a concludere accordi integrativi o sostitutivi con i
privati e può sempre prediligere la via del provvedimento unilaterale non negoziato. La possibilità di
stipulare accordi dunque attenua ma non elide del tutto il carattere asimmetrico del rapporto tra
pubblica amministrazione e soggetti privati.
Sotto il profilo formale, gli accordi devono essere stipulati per atto scritto, a pena di nullità, salvo
che la legge disponga altrimenti e devono essere motivati (comma 2). Quest’ultima prescrizione rende
il regime dell’accordo più simile a quello del provvedimento unilaterale.
Ad essi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili. Data la matrice pubblicistica degli accordi, le controversie relative alla loro conclusione
ed esecuzione rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Gli accordi integrativi servono solo a concordare il contenuto del provvedimento finale che viene
emanato in attuazione dell’accordo. Sul piano formale il provvedimento mantiene la sua
configurazione di atto unilaterale produttivo di effetti. Gli accordi integrativi pongono la questione se
il mancato o parziale recepimento dei suoi contenuti nel provvedimento finale renda quest’ultimo
illegittimo.
Negli accordi sostitutivi gli effetti giuridici si producono in via diretta con la conclusione
dell’accordo, senza necessità di un atto formale di recepimento. Tuttavia, a garanzia dell’imparzialità e
del buon andamento dell’azione amministrativa, gli accordi devono essere preceduti da una
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

determinazione dell’organo competente per l’adozione del provvedimento la quale autorizza e


stabilisce i limiti della negoziazione. In questo modo si recupera indirettamente, a monte dell’accordo,
un momento di unilateralità (comma 4-bis).
Un altro momento di unilateralità può emergere anche dopo la conclusione dell’accordo. Infatti,
l’amministrazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, può recedere dall’accordo (comma
4), e ciò anche se il recesso non sia espressamente previsto in quest’ultimo. Il recesso ha cioè fonte
legale ed è dunque espressione di un potere in senso proprio. Non va pertanto confuso con il recesso
dai contratti già esaminato (art. 21-sexies l. n. 241/1990).
Il potere di recesso è riconducibile alla revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ex art.
21-quinquies l. n. 241/1990. Ad esso si accompagna l’obbligo di liquidare un indennizzo per gli
eventuali danni subiti dal privato (comma 4).
Si discute in dottrina se gli accordi disciplinati dalla l. n. 241/1990 possano essere qualificati come
contratti di diritto pubblico, accentuando così la peculiarità del loro regime rispetto a quello dei
contratti di diritto comune. In alternativa essi possono essere qualificati come contratti aventi un
oggetto pubblico, nei quali cioè la specialità discende soprattutto dal fatto che si riferiscono al potere
discrezionale, cioè a un oggetto di per sé indisponibile. In realtà, soprattutto in seguito alle modifiche
apportate dall’art. 11 che, come si è visto, prevede ora che gli accordi siano motivati, il loro regime è
sempre più assimilabile a quello di un normale provvedimento amministrativo.
La disciplina degli accordi ha il valore simbolico di proporre l’immagine di un’amministrazione
più aperta al dialogo e ai contributi propositivi dei privati. Nella pratica, peraltro, gli accordi sono
ancora poco utilizzati.

7. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il subprocedimento

I procedimenti possono avere, in base alle leggi che li disciplinano, una struttura semplice o
complessa a seconda del loro oggetto e del numero e della natura degli interessi pubblici e privati
incisi e dunque della necessità di coinvolgere una pluralità di amministrazioni.
Si spazia tra due estremi: procedimenti autorizzatori semplici nei quali la sequenza
procedimentale consiste soltanto in una domanda o istanza, in un’istruttoria limitata a poche verifiche
documentali e in una decisione affidata a un’unica autorità; procedimenti complessi che richiedono
accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pareri o di valutazioni tecniche con il
coinvolgimento anche nella fase decisionale di una molteplicità di amministrazioni statali, regionali e
locali.
I procedimenti a struttura complessa sono spesso articolati all’interno in subprocedimenti
sequenziali, ciascuno avente una unità funzionale autonoma. Talvolta i subprocedimenti si
concludono con atti suscettibili di incidere in via immediata su situazioni giuridiche soggettive.
Producono cioè effetti esterni diversi e indipendenti rispetto all’effetto giuridico primario riferibile al
provvedimento assunto a conclusione del procedimento.
Così, per esempio, il procedimento per la conclusione di un contratto pubblico prevede nelle
procedure cosiddette ristrette, cioè su invito della stazione appaltante, un subprocedimento, detto di
prequalifica. Questa fase è volta a individuare, in applicazione di requisiti minimi di capacità tecnica e
finanziaria definiti dal bando di gara, le imprese ammesse alle fasi successive di presentazione e
valutazione comparativa delle offerte che si concludono con l’aggiudicazione. Inoltre, dopo la
conclusione della fase di valutazione delle offerte vi è una fase di verifica delle eventuali offerte
anomale che dà origine a un subprocedimento in contraddittorio che può concludersi anche in questo
caso con l’esclusione dall’impresa. La non ammissione alla presentazione di un’offerta al termine
113
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

della fase di prequalifica e l’esclusione dell’impresa che ha presentato un’offerta anomala a


conclusione del subprocedimento di verifica sono ad un tempo atti endoprocedimentali o
provvedimenti autonomi: endoprocedimentali, perché fanno parte della sequenza che dal bando di
gara si sviluppa fino al provvedimento finale di aggiudicazione; provvedimenti autonomi, in quanto
producono effetti giuridici negativi nella sfera giuridica del loro destinatario e sono dunque suscettibili
di impugnazione immediata.
In realtà, la distinzione tra procedimento e subprocedimento ha carattere relativo e non va
enfatizzata. Un punto fermo è che l’unitarietà del procedimento si ha solo nel caso in cui nessuno degli
atti endoprocedimentali è suscettibile di produrre effetti giuridici autonomi esterni. In caso contrario
potrebbe essere più corretto ricorrere alla nozione di procedimenti autonomi ancorché collegati.
In termini generali, si parla di procedimenti collegati nelle ipotesi in cui una pluralità di
procedimenti, da avviare in sequenza o in parallelo, sono funzionali a un risultato unitario.
Un esempio di procedimenti collegati, avviati in sequenza, è l’espropriazione per pubblica
utilità che si articola in una pluralità di procedimenti connessi sotto il profilo teleologico: la
conclusione di quello antecedente con un provvedimento autonomo è condizione per l’avvio di quello
successivo in vista del risultato finale consistente nel trasferimento coattivo del diritto di proprietà da
un soggetto privato all’amministrazione o a un altro soggetto privato.
Un esempio di procedimenti collegati, avviati in parallelo, sono la realizzazione e la messa in
opera di un impianto industriale che presuppone il rilascio di una molteplicità di atti autorizzativi
previsti per garantire la conformità alle norme urbanistiche, di sicurezza, sanitarie, ambientali,
paesaggistiche, ecc. Il collegamento tra questo tipo di procedimenti è funzionale, nel senso che la
conclusione positiva di ciascuno di essi è necessaria per l’avvio di una determinata attività o
l’ottenimento di un certo risultato. Sotto il profilo organizzativo, per coordinare le attività relative a
ciascun procedimento è previsto a livello comunale il cosiddetto sportello unico delle imprese, presso
il quale possono essere svolte tutte le formalità necessarie.
In aggiunta alle distinzioni sin qui fatte che si riferiscono ai profili strutturali, anche per i
procedimenti sono state elaborate varie classificazioni, aventi per lo più valore descrittivo.
Così, per esempio, si possono distinguere i procedimenti di primo grado e di secondo grado.
Gli uni sono finalizzati all’emanazione di provvedimenti amministrativi con effetti esterni e alla cura
di un interesse pubblico (come una licenza, un’autorizzazione, una diffida). Gli altri hanno invece per
oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e per scopo la verifica della loro legittimità e
compatibilità con l’interesse pubblico.
Rientrano tra questi ultimi i procedimenti di autotutela, come l’annullamento d’ufficio o la revoca,
e i ricorsi amministrativi.
Un’ulteriore distinzione è tra procedimento in senso proprio e procedura interna
all’amministrazione. Il primo si riferisce agli atti della sequenza procedimentale che trovano
disciplina nella legge o in una fonte normativa in senso proprio (regolamenti). La procedura interna
riguarda invece gli atti e adempimenti interni all’amministrazione che sono previsti da regole di tipo
organizzativo. Così, per esempio, le istanze e domande presentate dai privati vanno registrate in un
protocollo interno che dà certezza sulla data di ricezione.

8. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento

I procedimenti esaminati nel paragrafo che precede pongono il problema del coordinamento degli
adempimenti e delle tempistiche relative all’adozione dei vari atti da parte degli uffici o delle
amministrazioni competenti.
114
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

La l. n. 241/1990 individua come strumento principale di coordinamento e di accelerazione dei


tempi e delle decisioni la conferenza di servizi. Alcune fattispecie di conferenza di servizi sono
disciplinate anche da leggi speciali.
Da un punto di vista descrittivo, la conferenza di servizi consiste in una o più riunioni dei
rappresentanti degli uffici o delle amministrazioni di volta in volta interessate che sono chiamate a
confrontarsi e a esprimere il proprio punto di vista e, nel caso di conferenza decisoria, anche a
deliberare.
Con la conferenza di servizi viene meno la sequenza lineare degli atti endoprocedimentali
attribuiti alla competenza di ciascuna amministrazione. I rappresentanti delle amministrazioni sono
chiamati a un confronto e a operare una valutazione dell’interesse pubblico affidato alla cura di
ciascuna di esse, non più in modo isolato, ma in connessione con gli altri interessi pubblici curati dalle
altre amministrazioni che partecipano alla conferenza.
La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di servizi.
1. La conferenza di servizi istruttoria è sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere un
esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento singolo o in più
procedimenti amministrativi connessi riguardanti medesime attività o risultati (conferenza di servizi
interprocedimentale) (art. 14, comma 1).
Nel caso di procedimento attribuito alla competenza di una sola amministrazione, la conferenza di
servizi istruttoria serve a raccogliere in un unico contesto, e con il confronto di tutti gli uffici interni
interessati, gli elementi istruttori utili che saranno posti alla base della decisione finale adottata
dall’organo competente a emanare il provvedimento finale.
Nel caso di conferenza di servizi interprocedimentale la convocazione è operata di regola
dall’amministrazione che cura l’interesse pubblico prevalente. Anche questa conferenza funge da sede
per un confronto tra le amministrazioni preliminare all’assunzione da parte di queste ultime delle
proprie determinazioni. È da ritenere peraltro che le posizioni espresse in sede di conferenza non
possano essere poi disattese in sede di emanazione dei singoli atti.
2. La conferenza di servizi decisoria è un modulo procedimentale volto a sostituire i singoli atti
volitivi e valutativi delle amministrazioni competenti a emanare «intese, concerti, nullaosta o assensi
comunque denominati», che devono essere acquisiti per legge da parte dell’amministrazione
procedente (art. 14, comma 2). La conferenza è convocata dall’amministrazione procedente, anche su
richiesta del soggetto privato interessato, nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo
autorizzativo che condizionano l’avvio di un attività (comma 4).
La conferenza di servizi si conclude con un verbale nel quale sono riportate le posizioni espresse
da ciascuna amministrazione partecipante. Sulla base del verbale, l’amministrazione procedente
assume una determinazione motivata di conclusione del procedimento che «sostituisce a tutti gli effetti
ogni autorizzazione, concessione, nullaosta o atto di assenso comunque denominato di competenza
delle amministrazioni partecipanti» (art. 14-quater, comma 1).
Sotto il profilo giuridico la conferenza di servizi non può essere qualificata come un organo
collegiale competente a emanare una determinazione unitaria, ma ogni atto di assenso mantiene la
propria autonomia quanto a imputazione all’amministrazione di riferimento.
I lavori della conferenza di servizi decisoria sono disciplinati da una serie di regole sulle modalità
di convocazione e di svolgimento, sulla tempistica e sull’assunzione della decisione (artt. 14-ter e 14-
quater).
Di regola la conferenza si svolge in forma semplificata, cioè in modalità asincrona (art. 14-bis).
In pratica, l’amministrazione procedente acquisisce entro termini stabiliti (decorsi i quali opera il
silenzio-assenso tra amministrazioni) le determinazioni motivate (assenso, dissenso, proposta di
115
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

modifica) di competenza delle altre amministrazioni. La conferenza si conclude con una


determinazione motivata. La modalità asincrona, introdotta dal d.lgs. n. 127/2016 con finalità
acceleratorie, contraddice in parte la logica di questo istituto, il cui pregio principale è quello
dell’esame congiunto e contestuale delle questioni.
Nel caso di determinazioni di particolare complessità, la conferenza di servizi è convocata in
forma simultanea e con modalità sincrona, convocando cioè una riunione alla quale sono invitate
tutte le amministrazioni interessate (art. 14-ter).
Gli aspetti più rilevanti della disciplina della conferenza decisoria, che deve concludersi entro 45
giorni dalla data della riunione, sono due.
Il primo riguarda la partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui
rappresentanti devono essere muniti dei poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti.
L’assenza alla conferenza dei servizi regolarmente convocata determina un effetto di silenzio-assenso
(art. 14-ter, comma 7) in relazione all’atto attribuito alla competenza dell’amministrazione non
partecipante.
Il secondo attiene al dissenso manifestato da una o più amministrazioni partecipanti alla
conferenza di servizi. Nella formulazione originaria la l. n. 241/1990 prevedeva il principio
dell’unanimità dei consensi, che è stato poi superato dati i suoi effetti paralizzanti atteso che ogni
decisore ha un potere di veto.
La regola ora vigente è che la determinazione finale motivata all’esito della conferenza di servizi
adottata dall’amministrazione procedente è formulata sulla base delle «posizioni prevalenti espresse
dalle amministrazioni partecipanti» (art. 14-ter, comma 7). Quest’ultima espressione va intesa in
senso qualitativo, anziché in quello quantitativo di voto a maggioranza dei partecipanti, e consente
dunque di superare il dissenso espresso da singole amministrazioni.
L’efficacia della determinazione finale è sospesa nel caso in cui i rappresentanti di
amministrazioni che curano interessi pubblici ritenuti di rango prioritario (ambientale, paesaggistico,
storico-artistico, salute, incolumità) propongono una opposizione al presidente del Consiglio dei
ministri il quale convoca una riunione per cercare di trovare una soluzione condivisa (art. 14-
quinquies). Se il dissenso non è superato, la determinazione finale viene rimessa al Consiglio dei
ministri (comma 6).
La disciplina della conferenza di servizi decisoria incrina il principio dell’esclusività delle
competenze attribuite alle singole amministrazioni, nessuna delle quali è dunque in grado di opporre
veti assoluti. Si pone così la questione se le amministrazioni dissenzienti siano legittimate a tutelare le
proprie prerogative impugnando innanzi al giudice amministrativo il provvedimento che non tiene
conto del loro dissenso. Ad ogni buon conto, molte difficoltà che ha incontrato in questi anni la
conferenza di servizi decisoria dipendono dall’impossibilità di tante amministrazioni a cogestire con
altre amministrazioni le proprie competenze.
3. Il terzo tipo di conferenza di servizi è quella preliminare (art. 14, comma 3) che può essere
convocata su richiesta motivata di soggetti privati interessati a realizzare progetti di particolare
complessità o di insediamenti produttivi. Il privato sottopone uno studio di fattibilità alle
amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le intese ancor prima di
presentare formalmente le istanze necessarie.
Accanto alla conferenza di servizi l’ordinamento prevede altre forme di coordinamento.
1. Il Testo unico sull’ordinamento degli enti locali disciplina uno strumento di coordinamento
analogo alla conferenza di servizi decisoria costituito dall’accordo di programma promosso, dal
presidente della regione, della provincia o dal sindaco. L’accordo in questione, finalizzato alla

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

definizione e attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che coinvolgono una


pluralità di amministrazioni, è però retto ancora dal principio del consenso unanime dei partecipanti.
2. La l. n. 241/1990 prevede, in termini ancor più generali, gli accordi tra pubbliche
amministrazioni come strumenti «per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di
interesse comune» (art. 15). A questi accordi si applicano alcune delle regole previste per gli accordi
tra privati e pubblica amministrazione di cui all’art. 11 l. n. 241/1990. Da ultimo è stato introdotto
l’obbligo di sottoscrizione con firma digitale, la cui violazione comporta addirittura la nullità
dell’accordo (comma 2-bis). L’oggetto di questo tipo di accordi è definito in modo volutamente
generico («attività di interesse comune») e consente dunque di coprire un’amplissima gamma di
situazioni nelle quali le amministrazioni si trovino a interagire.
Molti tipi di accordi (o protocolli d’intesa) più specifici sono previsti nella legislazione
amministrativa come strumento di coordinamento bilaterale o plurilaterale paritario.
3. Un altro strumento per attuare un coordinamento è la cosiddetta autorizzazione unica, nella
quale confluiscono una pluralità di atti di assenso attribuiti alla competenza di più amministrazioni.
Un esempio di autorizzazione unica è quella prevista per la costruzione e l’esercizio di impianti di
produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili. L’autorizzazione unica è attribuita alla
competenza della regione, la quale convoca una conferenza di servizi entro 30 giorni dal ricevimento
della domanda di autorizzazione. L’autorizzazione deve essere rilasciata nel rispetto delle normative
vigenti in materia di tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico-artistico e può
costituire anche una variante allo strumento urbanistico. Essa è rilasciata «a seguito di un
procedimento unico al quale partecipano tutte le amministrazioni interessate».
4. Uno strumento organizzativo concepito per rendere più agevole il coordinamento e
semplificare i rapporti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto sportello unico, cioè un
ufficio istituito con la funzione di far da tramite tra questi ultimi e i vari uffici e amministrazioni
competenti a emanare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessari.
Così, per esempio, è lo sportello unico per le attività produttive che ha la funzione di agevolare
l’impresa nell’ottenimento di tutte le autorizzazioni necessarie.
Lo sportello unico è previsto anche dalla direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato
interno come punto di contatto mediante il quale i prestatori di servizi possono presentare le domande
di autorizzazione e svolgere le altre formalità necessarie per poter intraprendere un’attività.
Per poter operare in modo efficace, lo sportello unico presuppone una riorganizzazione
complessiva degli uffici e delle amministrazioni. Nella prassi, molti sportelli unici si limitano a fare da
mero tramite con gli uffici competenti senza esercitare un ruolo propulsivo.

9. Tipi di procedimento: a) L’espropriazione per pubblica utilità

Nel capitolo IV è stata posta una distinzione tra provvedimenti produttivi di effetti restrittivi e
ampliativi della sfera giuridica del destinatario.
Può essere a questo punto opportuno analizzare alcuni esempi di procedimenti finalizzati
all’emanazione di provvedimenti rientranti nelle due macrocategorie.
Conviene iniziare dai procedimenti relativi a provvedimenti che producono effetti restrittivi nella
sfera giuridica del destinatario.
Il procedimento espropriativo è uno di quelli che per primi sono stati oggetto di una disciplina
legislativa articolata. Ciò attesa la sua incidenza su uno dei diritti considerati più rilevanti, come quello
di proprietà, e la conseguente necessità di circondare l’esercizio del potere di una serie di garanzie a
favore del soggetto privato.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Inizialmente la disciplina generale venne posta nella legge 25 giugno 1865 n. 2359.
Oggi la materia è contenuta nel Testo unico in materia di espropriazioni che ha operato una
unificazione dei procedimenti, prevedendo quattro fasi: l’apposizione del vincolo finalizzato
all’esproprio che consegue all’approvazione del piano urbanistico generale o a una variante; la
dichiarazione di pubblica utilità; l’emanazione del decreto di esproprio; la determinazione
dell’indennità di esproprio.
Il Testo unico enuncia anzitutto il principio di legalità precisando che l’espropriazione «può essere
disposta nei soli casi previsti dalle leggi o dai regolamenti».
Il potere espropriativo è attribuito a tutte le amministrazioni competenti a realizzare un’opera
pubblica. Il potere in questione è dunque un potere per così dire «diffuso» e accessorio. In alcuni casi
l’iniziativa può partire anche da un soggetto privato a favore del quale viene emesso il decreto di
esproprio e che, proprio per questo, è tenuto al pagamento dell’indennità.
1. Il vincolo preordinato all’esproprio instaura un raccordo tra l’attività di pianificazione del
territorio e il procedimento espropriativo. Il vincolo può essere posto all’esito delle procedure di
pianificazione urbanistica ordinarie o speciali, o in seguito all’approvazione di un progetto preliminare
o definitivo di un’opera pubblica.
L’apposizione del vincolo è circondata da alcune garanzie. È infatti prevista la partecipazione dei
proprietari ai quali deve essere inviato con un congruo anticipo un avviso di avvio del procedimento
affinché essi possano formulare nei 30 giorni successivi le proprie osservazioni. L’avviso deve essere
comunicato personalmente agli interessati o, allorché il numero dei destinatari sia superiore a
cinquanta, la comunicazione deve essere fatta mediante avviso pubblico.
Il vincolo ha la durata di cinque anni ed entro questo termine deve intervenire la dichiarazione di
pubblica utilità. Esso costituisce un atto impugnabile innanzi al giudice amministrativo in quanto già
produttivo di effetti giuridici nei confronti dei proprietari.
2. La dichiarazione di pubblica utilità costituiva in passato una fase fondamentale del
procedimento di esproprio essendo volta ad accertare la conformità dell’opera da realizzare
all’interesse pubblico, così da giustificare il trasferimento coattivo del diritto di proprietà dei terreni
sui quali è prevista la costruzione dell’opera. Molte leggi speciali hanno tuttavia dequotato questa fase
ritenendola per così dire assorbita in altri atti. Si ritiene infatti che con questi atti risulti accertato in re
ipsa l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera. La dichiarazione di pubblica utilità ha a sua
volta un’efficacia temporalmente limitata (cinque anni, suscettibili di proroga, oppure il diverso
termine apposto nella dichiarazione) e prima della scadenza del termine deve intervenire il decreto di
esproprio. La scadenza del termine comporta l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
3. Il decreto di esproprio determina il trasferimento del diritto di proprietà dal soggetto
espropriato al soggetto nel cui interesse il procedimento è stato avviato. A questo effetto si aggiunge
anche l’estinzione automatica dei diritti reali o personali gravanti sul bene espropriato, salvo quelli
compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata. In base al Testo unico, l’efficacia del
provvedimento è subordinata a due condizioni sospensive. Infatti, l’effetto traslativo si produce in
seguito alla notifica e all’esecuzione del decreto, che deve avvenire nel termine perentorio di due anni
mediante l’immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio.
4. Il decreto di esproprio deve indicare l’importo dell’indennità che è quantificato all’esito di
una fase in contraddittorio con gli interessati. Infatti, non appena sia divenuta efficace la dichiarazione
di pubblica utilità, il promotore della procedura espropriativa formula ai proprietari un’offerta. Questi
ultimi, assistiti eventualmente anche da propri tecnici di fiducia, possono indicare quale sia il valore da
attribuire al bene ai fini della determinazione dell’indennità. L’autorità procedente, valutate le
osservazioni degli interessati, determina in via provvisoria la misura dell’indennità. Nei 30 giorni
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

successivi i privati possono comunicare all’autorità espropriante una dichiarazione irrevocabile di


assenso rispetto alla proposta. In questa ipotesi il beneficiario dell’espropriazione e il proprietario
possono stipulare la cessione volontaria del bene, con il pagamento immediato dell’indennità
concordata. Se il privato non accetta la proposta, o comunque decorsi inutilmente 30 giorni dalla
notifica dell’atto che determina l’indennità provvisoria, l’autorità competente emana il decreto di
esproprio e deposita l’indennità provvisoria rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti.
Da questo momento in poi il procedimento per la determinazione in via definitiva dell’indennità
ha uno svolgimento autonomo, con un’ulteriore fase di contraddittorio con il privato. Il procedimento
prevede, in ultima battuta, l’intervento di una commissione provinciale istituita presso l’ufficio tecnico
erariale che procede alla determinazione definitiva dell’importo. A questo punto il proprietario che
intenda contestare quest’ultima può avviare un procedimento innanzi alla Corte d’appello per ottenere
una determinazione in via giudiziale dell’indennità. Il giudizio deve essere instaurato entro 30 giorni
dalla notifica del decreto di esproprio o della stima peritale.
Il procedimento di esproprio è espressione di un potere tipicamente unilaterale. Tuttavia
l’ordinamento tende a favorire soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria del
bene. I vantaggi per l’espropriando sono essenzialmente di tipo pecuniario, visto che il prezzo di
cessione è commisurato all’indennità di esproprio con alcune maggiorazioni. L’accordo di cessione
produce gli effetti del decreto di esproprio.
In definitiva, il procedimento di espropriazione si caratterizza per la presenza in tutte le fasi in cui
esso è articolato di garanzie del contraddittorio particolarmente rigorose.
La vicenda espropriativa può dar luogo al fenomeno dei procedimenti collegati in parallelo. Infatti,
una volta avviato il procedimento di espropriazione e, più precisamente, subito dopo che sia
intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità e prima dell’emanazione del decreto di esproprio,
l’amministrazione può avviare il procedimento di occupazione d’urgenza al fine di acquisire
immediatamente la disponibilità materiale del bene e di intraprendere i lavori per la realizzazione
dell’opera pubblica.
Ciò può avvenire in tre ipotesi: allorché l’amministrazione ritenga che l’avvio dei lavori rivesta
carattere di urgenza tale da non consentire il perfezionamento del procedimento ordinario; in relazione
ai progetti delle grandi opere pubbliche previste dalla cosiddetta legge obiettivo per le quali l’urgenza
è già accertata per legge; allorché la procedura espropriativa riguardi più di cinquanta proprietari.
Anche il procedimento di occupazione d’urgenza si svolge in contraddittorio con i proprietari
interessati nella fase di immissione nel possesso dei beni.
Un accenno va fatto alla retrocessione dei beni espropriati. Il fondamento dell’istituto è che il
diritto di proprietà può essere sacrificato solo nella misura strettamente necessaria per conseguire le
finalità di pubblico interesse.
La retrocessione consiste infatti nel diritto del soggetto espropriato di riacquistare la proprietà del
bene nei casi in cui l’opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene espropriato viene
utilizzato. La retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l’opera pubblica non sia stata realizzata
nel termine di dieci anni dall’esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima allorché risulti
l’impossibilità della sua esecuzione. L’espropriato può richiedere la restituzione integrale del bene e il
pagamento di una somma a titolo di indennità. La retrocessione parziale può essere richiesta per le
parti del bene espropriato che non siano state utilizzate una volta completata l’opera pubblica. Il
comune ha tuttavia un diritto di prelazione sull’area inutilizzata che può essere così acquisita al
patrimonio indisponibile dell’ente territoriale.

119
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il corrispettivo a carico del soggetto che richiede la retrocessione è determinato tra le parti e in
caso di mancato accordo può essere avviata la stessa procedura prevista per la determinazione
dell’indennità di esproprio innanzi alla commissione provinciale.
Conviene infine menzionare la cosiddetta acquisizione sanante. L’istituto in questione consente
all’amministrazione che ha occupato sine titulo un bene per scopi di pubblica utilità, che ha visto
annullati dal giudice amministrativo o che abbia annullato d’ufficio in pendenza di giudizio i
provvedimenti emanati di disporne l’acquisizione, non retroattiva, al suo patrimonio indisponibile. Il
provvedimento deve prevedere un indennizzo corrispondente al valore venale del bene e un
risarcimento del danno per il periodo di occupazione senza titolo. Il provvedimento di acquisizione
richiede una motivazione puntuale in particolare «in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti
interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione».

10. b) Le sanzioni pecuniarie e disciplinari

Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni, al pari di quello espropriativo, è strutturato in


modo da garantire il rispetto del principio del contraddittorio.

 Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato in termini


generali dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 che distingue più fasi: l’accertamento; la contestazione
degli addebiti; l’ordinanza-ingiunzione. Quest’ultima può essere oggetto di un’opposizione cioè di una
verifica giurisdizionale.
1. A monte dell’apertura del procedimento, vi è anzitutto la fase dell’accertamento che consiste
in un’attività di raccolta e di prima valutazione di elementi di fatto suscettibili di integrare una
fattispecie di illecito amministrativo. L’attività preprocedimentale, come si è visto, consiste
nell’assunzione di informazioni, in rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, in ispezioni di cose e
luoghi e in altre operazioni tecniche. Queste attività sono effettuate dagli agenti accertatori individuati
nelle normative di settore, come gli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e gli organi amministrativi
addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista una sanzione
pecuniaria.
Le attività poste in essere e le risultanze delle medesime confluiscono in un processo verbale
redatto dall’agente accertatore. Il verbale fa piena prova fino a querela di falso in relazione agli
elementi fattuali oggettivi.
2. Se l’accertamento fa emergere la violazione di norme amministrative, l’ufficio competente
procede alla contestazione dell’illecito al trasgressore. Ove possibile essa deve essere immediata e in
ogni caso deve essere notificata nel termine di 90 giorni dall’accertamento. Questo termine ha natura
perentoria in quanto il suo decorso determina l’estinzione dell’obbligazione del pagamento della
somma dovuta. L’immediatezza o il termine breve per la contestazione costituiscono una prima
garanzia per l’interessato, perché il decorso di un lungo lasso di tempo può rendergli più difficoltosa la
ricostruzione dei fatti e l’individuazione di elementi a difesa.
La contestazione deve indicare con sufficiente precisione gli elementi di fatto suscettibili di essere
sussunti in una fattispecie sanzionatoria, in modo tale che il contraddittorio risulti ben focalizzato.
Entro 30 giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati
possono presentare scritti difensivi e documenti. Possono anche chiedere di essere sentiti
personalmente dall’autorità amministrativa.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Entro 60 giorni dalla notificazione della contestazione l’interessato può procedere all’oblazione,
cioè al pagamento di una somma ridotta, che estingue l’obbligazione pecuniaria senza che si proceda a
un accertamento definitivo dell’illecito.
3. L’autorità procedente, ove ritenga provata la violazione all’esito della valutazione degli
elementi istruttori e dell’eventuale audizione orale, emana l’ordinanza-ingiunzione che determina
l’ammontare della sanzione pecuniaria e ingiunge al trasgressore il pagamento della medesima,
insieme con le spese, entro un termine di 30 giorni. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione
con ordinanza motivata comunicata all’organo che ha redatto il rapporto.
L’ordinanza-ingiunzione può irrogare, a seconda dei casi, anche sanzioni accessorie come, per
esempio, la confisca di cose il cui uso, porto, detenzione o alienazione costituisce violazione
amministrativa oppure la sospensione di una licenza.
Il pagamento deve avvenire entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento. L’ordinanza-
ingiunzione vale come titolo esecutivo.
4. Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione innanzi al giudice ordinario
entro un termine di 30 giorni dalla notificazione del provvedimento. La giurisdizione del giudice
ordinario si giustifica in quanto la situazione giuridica soggettiva del soggetto nei cui confronti viene
irrogata la sanzione ha la consistenza di un diritto soggettivo.
La l. n. 689/1981 si pone in una relazione di specialità rispetto alla l. n. 241/1990. Essa contiene
cioè un sistema organico e compiuto di norme sostanziali e procedurali che è autosufficiente, tale da
non richiedere integrazioni esterne da parte della l. n. 241/1990.
La l. n. 689/1981 è la legge generale in tema di sanzioni amministrative. Essa però subisce di
frequente deroghe nelle discipline del settore. Per esempio, molte leggi amministrative modificano la
durata dei termini, oppure non prevedono il contraddittorio orale.
Tra le norme speciali contenute nelle discipline di settore, merita di essere richiamata la regola
secondo la quale le funzioni istruttorie devono essere affidate a uffici o organi distinti dall’organo
collegiale che assume la determinazione finale. Questa regola, che costituisce un’ulteriore garanzia del
contraddittorio, è stata introdotta per le autorità amministrative indipendenti operanti in particolare nel
settore finanziano ed è stata attuata in una disciplina di dettaglio nei regolamenti approvati da ciascuna
autorità.
Norme speciali relative ai procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato e di altre autorità di regolazione prevedono che il procedimento
sanzionatorio possa concludersi, come si è già accennato, anziché con l’accertamento dell’illecito e
l’irrogazione della sanzione, con l’approvazione di impegni proposti dall’impresa alla quale è stato
contestato l’illecito volti a porre rimedio alle distorsioni concorrenziali. In caso di mancata
ottemperanza il procedimento sanzionatorio può essere riaperto.
La specialità di tali regimi si manifesta anche nel fatto che in molti casi i ricorsi avverso i
provvedimenti sanzionatori sono devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che
può anche sindacare nel merito (e modificare) l’entità della sanzione pecuniaria irrogata.
 Una specie di sanzioni amministrative è costituita dalle sanzioni disciplinari previste per i
dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Anche i procedimenti per l’irrogazione delle sanzioni
disciplinari prevedono ampie garanzie del contraddittorio.
Così, in particolare, il dirigente dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi, l’ufficio competente per i
procedimenti disciplinari che vengano a conoscenza di comportamenti illeciti di un dipendente
pubblico devono contestare per iscritto l’addebito «senza indugio e comunque non oltre 20 giorni». Il
dipendente è convocato con un preavviso di 10 giorni per esercitare il proprio diritto di difesa con
l’eventuale assistenza di un procuratore o di un rappresentante di un’associazione sindacale. Il
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

dipendente può decidere di non presentarsi e può limitarsi a inviare una memoria scritta.
L’amministrazione procede, ove necessario, a un’ulteriore attività istruttoria, per esempio assumendo
informazioni anche presso altre pubbliche amministrazioni o acquisendo documenti.
Il procedimento si conclude con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione, entro 60 giorni
dalla contestazione dell’addebito.
I termini sopra indicati hanno carattere perentorio: il loro superamento determina la decadenza
dall’azione disciplinare e per il dipendente dall’esercizio del diritto di difesa.
Le sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal dipendente davanti al giudice ordinario
previo esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione presso un collegio di conciliazione
istituito presso la Direzione provinciale del lavoro o attraverso altre procedure eventualmente previste
nei contratti collettivi nazionali. Nel caso di sanzioni irrogate a dipendenti esclusi dal regime di
privatizzazione, la giurisdizione è del giudice amministrativo.

11. c) Le autorizzazioni. Il permesso a costruire e la valutazione di impatto ambientale

Passando a considerare i procedimenti che si concludono con provvedimenti che producono effetti
ampliativi della sfera giuridica del destinatario, conviene partire dalla disciplina generale delle
autorizzazioni che ricadono nel campo di applicazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi
nel mercato interno.
La direttiva pone anzitutto il principio secondo il quale le procedure e le formalità per l’accesso a
un’attività di servizi devono essere «sufficientemente semplici». La Commissione europea può anche
stabilire formulari armonizzati a livello comunitario.
Le procedure e le formalità «devono essere chiare, rese pubbliche preventivamente e tali da
garantire ai richiedenti che la loro domanda sarà trattata con obiettività e imparzialità». Non devono
essere dissuasive e tali da complicare o ritardare indebitamente la prestazione del servizio. Gli oneri
per i richiedenti devono essere ragionevoli e commisurati ai costi delle procedure di autorizzazione.
La domanda di autorizzazione deve essere trattata con la massima sollecitudine e comunque entro
«un termine di risposta ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente». La mancata risposta
entro il termine stabilito fa scattare il silenzio-assenso. Solo in presenza di un motivo imperativo di
interesse generale le leggi di settore possono escluderlo introducendo un regime del silenzio-
inadempimento.
Ogni domanda di autorizzazione deve essere riscontrata con una ricevuta inviata al richiedente.
Essa deve contenente informazioni relative al termine di conclusione del procedimento, ai mezzi di
ricorso esperibili, all’eventuale applicazione della regola del silenzio-assenso.
Le singole leggi amministrative che individuano regimi autorizzatori prevedono, a seconda della
complessità della materia, sequenze procedimentali più o meno articolate.
Un esempio di procedimento autorizzatorio disciplinato dal diritto interno che merita di essere
preso in esame in modo più particolareggiato è quello relativo al rilascio del permesso a costruire
disciplinato dal Testo unico in materia edilizia.
Il procedimento si apre con la presentazione allo sportello unico per l’edilizia del comune di una
domanda sottoscritta, di regola, dal proprietario. La domanda deve essere corredata da un’attestazione
concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali, da altra documentazione tecnica. Nel
caso in cui si tratti di un intervento di edilizia residenziale è richiesta anche un’autocertificazione circa
la conformità del progetto alle norme igienico-sanitarie.
Entro 10 giorni lo sportello unico comunica al richiedente il nominativo del responsabile del
procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria acquisendo i pareri interni degli uffici comunali, nonché
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

altri pareri come quello dell’azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco. Se sono richiesti altri atti di
assenso a cura di amministrazioni diverse, il responsabile del procedimento convoca una conferenza
dei servizi.
All’esito dell’istruttoria, entro 60 giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del
procedimento, valutata la conformità del progetto alla normativa applicabile, formula una proposta al
dirigente del servizio il quale nei successivi 15 giorni rilascia il permesso a costruire. Della
determinazione è dato avviso pubblico mediante affissione all’albo pretorio.
Decorsi i termini sopra menzionati «si intende formato il silenzio-rifiuto». L’interessato a questo
punto può proporre un ricorso in sede giurisdizionale. In alternativa può richiedere, con un’istanza
formale avente valore di diffida, che il dirigente si pronunci entro 15 giorni. Decorso inutilmente
anche questo termine, l’interessato può richiedere alla regione di esercitare il potere sostitutivo con la
nomina di un commissario che provvede ad acta nel termine di 60 giorni.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

12. d) I procedimenti concorsuali

Le pubbliche amministrazioni sono spesso enti erogatori di danaro e di altre utilità a favore di
soggetti privati. Peraltro in molti casi le risorse e i beni attribuibili hanno il carattere della scarsità:
coloro che ambiscono ad acquisirli sono in numero superiore rispetto alle quantità disponibili.
Si pone allora per l’amministrazione il problema di come scegliere tra più aspiranti. Alcune
indicazioni provengono già dalla Costituzione e dal diritto europeo.
Per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e più in generale agli uffici pubblici,
gli artt. 51, comma 1, e 97, comma 3, pongono rispettivamente il principio di eguaglianza e il
principio del concorso pubblico.
La direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno più volte citata dispone che
quando il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato a causa della
scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri «applicano una
procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e
preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e
completamento». L’autorizzazione così rilasciata deve avere una durata limitata e deve escludere il
rinnovo automatico, ciò affinché possa essere avviata una nuova procedura selettiva.
Sempre in termini generali, la l. n. 241/1990 prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi,
sussidi e ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualsiasi genere sono subordinate
alla predeterminazione e alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti dei criteri e
delle modalità cui esse devono attenersi.
In definitiva, nei procedimenti di tipo competitivo o concorsuale per assegnare una risorsa scarsa
valgono alcuni principi generali: la pubblicità, che consente a tutti i potenziali interessati di aver
notizia della procedura che sta per essere avviata; la parità di trattamento, che mira a porre sullo
stesso piano tutti gli aspiranti; la trasparenza della procedura, che consente un controllo sulla
corretta applicazione dei criteri di selezione; l’oggettività dei criteri, che richiede, là dove possibile,
parametri e criteri predeterminati che limitino la discrezionalità.
Uno dei principali esempi di questa tipologia di procedimenti è il concorso per l’accesso agli
impieghi pubblici che costituisce la modalità ordinaria per il reclutamento del personale alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Un secondo esempio di procedimenti di tipo concorsuale è quello dell’affidamento dei contratti
pubblici, disciplinato dal Codice dei contratti pubblici.

13. e) L’accesso ai documenti amministrativi

Nel capitolo III si è già esaminata la disciplina sostanziale del diritto di accesso ai documenti
amministrativi.
In questa sede interessa soffermarci sui profili procedimentali del diritto di accesso ai documenti
amministrativi disciplinati, oltre che dalla l. n. 241/1990, dal regolamento attuativo approvato con
d.p.r. 12 aprile 2006, n. 184.
La richiesta di accesso ex artt. 22 ss. l. n. 241/1990 va rivolta a una pubblica amministrazione e
può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati: ben individuati, perché il diritto di
accesso non è uno strumento di «controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni»
(art. 24, comma 4, l. n. 241/1990); già formati, perché l’amministrazione «non è tenuta ad elaborare
dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste».

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il d.p.r. n. 184/2006 distingue due modalità di accesso. L’accesso informale si può avere quando
non vi siano soggetti controinteressati per i quali si ponga un problema di riservatezza. La richiesta
può essere anche verbale, è esaminata immediatamente e senza formalità ed è accolta senza l’adozione
di un particolare atto, ma, più semplicemente, mediante l’esibizione del documento o l’estrazione di
copia.
L’accesso formale è necessario nei casi in cui l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali
controinteressati, o quando sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il profilo
dell’interesse o sulla accessibilità di un documento in relazione alle norme sull’esclusione e in altre
ipotesi che richiedono una valutazione più approfondita. La richiesta va presentata per iscritto e deve
indicare gli estremi del documento o gli elementi che consentano di individuarlo. La richiesta deve
essere motivata sotto il profilo dell’interesse diretto, concreto e attuale connesso all’oggetto della
richiesta che fa sorgere in capo al richiedente una situazione giuridica soggettiva individualizzata.
Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio con i soggetti controinteressati. Infatti,
l’amministrazione è tenuta a dar comunicazione a questi ultimi della richiesta presentata con
l’assegnazione di un termine di 10 giorni per l’eventuale presentazione di un’opposizione motivata.
L’accesso è gratuito e consiste nell’esame dei documenti presso l’ufficio con la presenza, ove
ritenuta necessaria, di personale addetto. L’accesso è effettuato dal richiedente o da persona da lui
incaricata. È consentito prendere appunti oppure trascrivere in tutto o in parte i documenti presi in
visione. La copia dei documenti è rilasciata dietro il pagamento, di regola, del solo rimborso del costo
di riproduzione (art. 25, comma 1, l. n. 241/1990).
Il procedimento di accesso deve concludersi entro 30 giorni dalla richiesta. Decorso il termine la
richiesta «si intende respinta» (art. 25, comma 4, l. n. 241/1990), si forma, cioè, il silenzio-diniego.
Il provvedimento che rifiuta, limita o differisse l’accesso deve essere motivato (art. 25, comma 3,
l. n. 241/1990). L’atto di accoglimento della richiesta indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno 15
giorni) concesso per prendere visione o per ottenere copia dei documenti.
Il procedimento può concludersi, oltre che con un provvedimento che concede o nega l’accesso,
anche con un provvedimento che dispone il differimento dell’accesso. Quest’ultimo si giustifica nei
casi in cui l’accesso possa compromettere, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, il buon
andamento dell’azione amministrativa (art. 24, comma 4, l. n. 241/1990), fermo restando che una
volta concluso il procedimento non vi è alcuna ragione per non rendere disponibile agli interessati
l’intera documentazione. Anche qui, nella scelta tra diniego e differimento, sembra esservi spazio per
una qualche valutazione discrezionale.
Contro il diniego espresso o tacito (ma anche contro il differimento) può essere proposto un
ricorso giurisdizionale entro 30 giorni innanzi al giudice amministrativo. Il processo segue un rito
speciale accelerato che si può concludere con una sentenza di condanna che ordina l’esibizione dei
documenti richiesti (art. 25, comma 4, l. n. 241/1990).
In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l. n. 241/1990 prevede, in prima battuta, un ricorso di
tipo amministrativo esperibile, a seconda dei casi, innanzi al difensore civico o alla Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri (artt. 25,
comma 4, e 27) che si devono pronunciare entro 30 giorni. Decorso inutilmente questo termine, il
ricorso si intende respinto e può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale. Se ritengono
illegittimi il diniego o il differimento dell’accesso, il difensore civico o la Commissione lo
comunicano all’autorità amministrativa. Se quest’ultima non emana un provvedimento confermativo
motivato entro 30 giorni, «l’accesso è consentito», cioè si forma un silenzio-assenso.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 7. LA RESPONSABILITÀ

1. Premessa

Da un punto di vista storico, la responsabilità dello Stato per comportamenti o atti illeciti dei suoi
agenti costituisce l’esito di un’evoluzione il cui punto iniziale è il principio dell’immunità del sovrano
sancito in tutti gli ordinamenti in epoca antecedente allo Stato di diritto. Secondo il detto inglese «The
King can do no wrong».
Ancora a fine Ottocento la dottrina italiana sosteneva che la responsabilità dello Stato fosse
incompatibile con l’esigenza di tutelare gli interessi pubblici che giustificava il sacrificio imposto ai
soggetti privati. Tutt’al più chiamato a rispondere poteva essere il funzionario.
Con l’affermarsi dello Stato di diritto l’immunità della pubblica amministrazione venne via via
erosa. Così, nel nostro ordinamento, già prima della Costituzione, si affermò la tesi secondo la quale la
pubblica amministrazione è responsabile nei confronti di terzi in relazione ai cosiddetti atti di gestione
in quanto in questo ambito essa opera su un piano di parità con i soggetti privati.
Il punto di arrivo del percorso delineato, con varianti significative nei singoli Stati europei, è
enunciato nell’art. 340 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Questa disposizione dà
per assodato che in base ai diritti nazionali la pubblica amministrazione risponda per danni cagionati a
terzi.
Due sono i modelli prevalenti di responsabilità della pubblica amministrazione affermatisi a
livello europeo. Il primo, adottato in Gran Bretagna, si fonda sul principio della responsabilità
personale del dipendente pubblico nei confronti dei terzi danneggiati. Il secondo modello, adottato in
Germania, si fonda sul principio opposto della responsabilità oggettiva indiretta dell’apparato, nella
sua veste di datore di lavoro del dipendente che ha posto in essere l’illecito.
Quale che sia il modello, la responsabilità dell’amministrazione e dei suoi funzionari richiede un
bilanciamento tra esigenze in parte contrapposte: rifondere pienamente i privati dei danni subiti;
scoraggiare comportamenti illeciti da parte dei dipendenti pubblici; evitare il rischio di un eccesso di
deterrenza, atteso che il timore della responsabilità personale del dipendente può costituire un freno
all’attività delle amministrazioni posta in essere per perseguire interessi pubblici compromettendone
l’efficacia. L’esposizione ad azioni risarcitone induce infatti a comportamenti opportunistici come, per
esempio, procrastinare le decisioni, scegliere tra più soluzioni possibili quella più sicura anziché quella
che massimizza l’interesse pubblico, coinvolgere nella decisione altri funzionari o apparati in modo da
rendere più difficile l’accertamento della responsabilità.

2. L’art. 28 della Costituzione e gli sviluppi successivi

La responsabilità della pubblica amministrazione in Italia trova fondamento nell’art. 28 Cost. La


disposizione stabilisce che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono
direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in
violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici».
A prima vista, l’art. 28 sembra porre in primo piano la responsabilità personale del dipendente e
solo in via subordinata (per estensione) la responsabilità dell’apparato.
Più precisamente quest’ultima sembra avere carattere sussidiario e parallelo: sussidiario, perché il
danneggiato deve proporre l’azione per danni in prima battuta nei confronti del dipendente pubblico e
può agire contro l’amministrazione solo nei casi in cui quest’ultimo non abbia un patrimonio capiente;
parallelo, perché può sorgere solo a condizione che sussista una responsabilità personale del
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

dipendente. L’interpretazione dell’art. 28, come si vedrà di seguito, è stata invece nel senso di ritenere
che la responsabilità del dipendente e dell’amministrazione abbia natura solidale e non sia
necessariamente parallela.
In realtà, l’art. 28 fu il frutto della riformulazione non felice di una disposizione concepita dai
costituenti per rafforzare la tutela dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione. L’idea originaria era
cioè di delineare una nuova responsabilità di rango costituzionale per lesione di diritti fondamentali.
Gli emendamenti introdotti snaturarono l’articolo, la cui formulazione finale diede subito adito a dubbi
interpretativi. La giurisprudenza ricondusse la portata della disposizione al modello di responsabilità
che pone in primo piano la responsabilità della pubblica amministrazione che risponde
immediatamente e direttamente per i fatti illeciti dei dipendenti.
Già prima della Costituzione, infatti, la responsabilità degli apparati pubblici derivante da
comportamenti illeciti veniva ricostruita come responsabilità diretta che sorge in base al rapporto
intercorrente tra l’agente e l’amministrazione di appartenenza. A quest’ultima si imputa direttamente
l’attività dell’agente. Ciò perché non è il dipendente pubblico che opera, ma è l’ente di appartenenza.
Pertanto, anche in caso di attività illecita posta in essere dal dipendente nell’ambito delle mansioni alle
quali è adibito, la responsabilità sorge esclusivamente in capo all’amministrazione. Quest’ultima
peraltro può rivalersi in via di regresso sul dipendente.
Solo per alcune categorie di dipendenti pubblici (giudici, cancellieri) leggi speciali antecedenti alla
Costituzione avevano previsto una responsabilità personale del dipendente con esclusione della
responsabilità dell’apparato.
L’applicazione alla pubblica amministrazione dei principi di diritto comune in tema di
responsabilità subì peraltro inizialmente numerose deroghe. Da un lato, leggi speciali riferite a
particolari tipi di attività connesse a servizi pubblici ponevano limiti alla responsabilità del gestore.
Per esempio, esse esentavano da ogni responsabilità il gestore dei servizi telefonici in caso di
interruzione colposa del servizio. Dall’altro lato, la giurisprudenza ritenne incompatibile
l’applicazione di alcune regole civilistiche alla pubblica amministrazione.
Così, per esempio, l’applicazione ai beni demaniali dell’art. 2051 cod. civ. in materia di
responsabilità da cose in custodia (per esempio, le strade pubbliche) venne a lungo esclusa.
La giurisprudenza ha via via ridotto le aree di immunità. Ha per esempio affermato che la
responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. per danni da omessa o insufficiente manutenzione delle
strade pubbliche è esclusa solo quando vi è un’oggettiva impossibilità di esercizio di un potere di
controllo a causa della notevole estensione del bene e dell’uso generalizzato da parte di terzi.
Anche la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali varie leggi che riconoscevano
esenzioni dalla responsabilità a favore dell’amministrazione.
In definitiva, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale nel nostro ordinamento ha fatto confluire
sempre di più la responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto comune.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

3. La responsabilità civile da comportamento illecito

La responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti riferita a meri


comportamenti, cioè a condotte non ricollegabili all’esercizio di un potere e all’emanazione di un
provvedimento, va analizzata tenendo distinti tre rapporti: il rapporto tra il danneggiato e il
dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento illecito; il rapporto tra il danneggiato
e la pubblica amministrazione nella quale è incardinato il dipendente pubblico; il rapporto interno
tra dipendente e amministrazione di appartenenza.
In primo luogo, la responsabilità del funzionario e dell’amministrazione per danni provocati
a terzi è una responsabilità diretta di tipo solidale. Il danneggiato può scegliere liberamente se agire
contro il dipendente, contro l’amministrazione o contro entrambi. L’art. 22 Testo unico sugli impiegati
civili dello Stato, prevede infatti, da un lato, che l’impiegato che cagioni ad altri un danno ingiusto «è
personalmente obbligato a risarcirlo»; dall’altro lato che l’azione di risarcimento nei suoi confronti
«può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’amministrazione». Per
prassi, tenuto conto che l’amministrazione è un debitore patrimonialmente molto più capiente del
dipendente, l’azione risarcitoria viene esperita soltanto nei confronti dell’amministrazione, salvo che
sussistano nei confronti del dipendente ragioni di acrimonia personale particolari.
In secondo luogo, la responsabilità della pubblica amministrazione è più ampia di quella del
dipendente. Infatti, la responsabilità personale del dipendente per danni provocati nell’esercizio
delle funzioni alle quali è preposto è limitata ai casi di dolo e colpa grave (art. 23 Testo unico). In
caso di colpa lieve, l’azione risarcitoria può essere proposta solo nei confronti dell’amministrazione.
In terzo luogo, l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente
può esercitare, come si vedrà, un’azione di regresso contro quest’ultimo secondo i principi della
responsabilità amministrativa (art. 22 Testo unico).
Occorre ora prendere in considerazione gli elementi strutturali dell’illecito civile ex art. 2043 cod.
civ. Va posta anzitutto la distinzione tra illecito causato da meri comportamenti degli agenti della
pubblica amministrazione e illecito conseguente all’emanazione di provvedimenti amministrativi
illegittimi.
Rientrano nel primo ambito, tipicamente, i danni subiti da uno scolaro non sorvegliato
adeguatamente dall’insegnante; o provocati a un autoveicolo a causa della difettosa manutenzione di
una strada.
In base all’art. 2043 cod. civ., per essere risarcibile, il danno deve essere riconducibile a una
condotta colposa o dolosa dell’agente; deve essere qualificato come «ingiusto»; deve sussistere un
nesso di causalità tra condotta ed evento pregiudizievole.
Per quanto riguarda la condotta, la responsabilità del dipendente e della pubblica amministrazione
può sorgere sia quando l’illecito consegua al compimento di atti o operazioni, sia quando esso consista
«nell’omissione o nel ritardo ingiustificato di atti o operazioni al cui compimento l’impiegato è
obbligato per legge o per regolamento» (art. 23, comma 2, Testo unico).
Inoltre, se la condotta consiste in atti o operazioni compiuti da un organo collegiale, i membri del
collegio sono responsabili in solido. La responsabilità è esclusa solo per coloro che abbiano fatto
verbalizzare il proprio dissenso (art. 24 Testo unico).
Infine, la condotta illecita deve essere riferibile all’amministrazione in base al rapporto di
immedesimazione organica. Quest’ultimo può spezzarsi (cosiddetta frattura del rapporto organico)
solo nei casi in cui il dipendente agisce per finalità personali ed egoistiche al di fuori delle proprie
incombenze.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Affinché sorga la responsabilità occorre cioè un nesso di «occasionalità necessaria» tra attività
illecita e mansioni del dipendente. A questo fine occorre verificare se il comportamento colposo o
anche doloso sia comunque collegato, in ultima analisi, a un interesse dell’amministrazione. In
particolare va stabilito se lo specifico comportamento dell’agente, si inserisca in un’attività
complessiva comunque rivolta al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente. Così, per esempio,
sussiste il nesso di occasionalità necessaria nel caso di un militare di leva che aggredisce un
commilitone nella camerata di una caserma per rivalità personali; non sussiste invece tale nesso nel
caso di un carabiniere, in libera uscita, che in un locale pubblico ferisce un amico con l’arma in
dotazione mentre per scherzo, quasi per vanteria, la maneggia incautamente.
Passando a considerare il requisito della colpa, un aspetto particolare riguarda il rapporto tra
colpa e discrezionalità. In passato la giurisprudenza riteneva che fosse precluso al giudice
l’accertamento della colpa perché esso si sarebbe risolto in un giudizio sulla discrezionalità della
pubblica amministrazione. Progressivamente la giurisprudenza ha superato questa chiusura
affermando invece il principio secondo il quale il potere discrezionale incontra un limite, non soltanto
nelle disposizioni di legge e di regolamento che prescrivono determinate modalità di comportamento,
ma anche nelle comuni regole di diligenza e prudenza. In altre parole, l’amministrazione nell’operare
le scelte discrezionali è tenuta al rispetto del principio generale del neminem laedere.
Con riguardo alla realizzazione e messa in opera dei mezzi prescelti per soddisfare gli interessi
pubblici non sorge tanto un problema di sindacato sulla discrezionalità, quanto un problema di
valutazione di un comportamento del dipendente che abbia attuato in modo difettoso, con negligenza,
imperizia o imprudenza, la scelta. Così, per esempio, il giudice non può censurare la scelta
organizzativa del proprietario e gestore di una strada pubblica di non installare un semaforo a un
incrocio. Può invece sindacare se l’incidente è dovuto al malfunzionamento del semaforo per difetto di
manutenzione.
Quanto al requisito dell’ingiustizia del danno, come già più volte accennato, la giurisprudenza,
prima della svolta operata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 500/1999,
riteneva che potesse essere definito come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. solo il danno
conseguente alla lesione di un diritto soggettivo.
Veniva così esclusa la risarcibilità dei danni causati da provvedimenti illegittimi lesivi di
interessi legittimi, mentre essa era ammessa con riguardo a tutta l’area dei meri comportamenti degli
agenti della pubblica amministrazione.
Peraltro, già in precedenza la giurisprudenza aveva esteso l’ambito della responsabilità della
pubblica amministrazione a fattispecie nelle quali emergeva un collegamento almeno indiretto con
l’esercizio di poteri amministrativi correlati agli interessi legittimi oppositivi.
L’esempio più significativo era quello dell’occupazione di un terreno avvenuta in esecuzione di un
provvedimento di espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario leso in un suo interesse legittimo
poteva proporre un’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo. In caso di accoglimento
del ricorso, la retroattività dell’annullamento del provvedimento ripristinava e faceva riespandere il
diritto soggettivo in capo al proprietario privato. Pertanto l’avvenuta occupazione del terreno, valutata
a posteriori, diventava illecita, cioè priva di titolo.
Analogamente, la revoca illegittima di una concessione amministrativa attributiva a un soggetto
privato del diritto soggettivo a svolgere una determinata attività poteva costituire un illecito risarcibile.
Una volta annullato il provvedimento di revoca da parte del giudice amministrativo, il danno da
risarcire era quello conseguente alla lesione del diritto soggettivo a svolgere l’attività.
Questo meccanismo comportava peraltro la necessità di instaurare due giudizi, dapprima innanzi
al giudice amministrativo per tutelare l’interesse legittimo, successivamente innanzi al giudice
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

ordinario per tutelare il diritto soggettivo. In base ad esso, però, l’area degli interessi legittimi
oppositivi era in grado di far sorgere una responsabilità a carico dell’amministrazione.
La giurisprudenza aveva invece negato la possibilità di richiedere il risarcimento del danno nel
caso di diniego illegittimo di un provvedimento favorevole, lesivo di un interesse legittimo pretensivo.
Ed è proprio su questo versante che la sentenza n. 500/1999 ha introdotto le innovazioni maggiori.

4. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi

La sentenza n. 500/1999 ha abbattuto la barriera della irrisarcibilità del danno da provvedimento


illegittimo, cogliendo le indicazioni del diritto europeo che non conosce la distinzione tra diritti
soggettivi e interessi legittimi.
La Corte ha operato una nuova interpretazione della nozione di «danno ingiusto» ex art. 2043 cod.
civ. A questo fine ha anzitutto qualificato questo articolo non più «come norma (secondaria), volta a
sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì come norma (primaria) volta ad
apportare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività
altrui».
In altre parole, per la sua applicazione l’art. 2043 cod. civ. non richiede che si rinvengano altre
norme primarie recanti divieti o costitutive di diritti, ma pone direttamente il criterio giuridico per
stabilire se il danno possa essere qualificato come «ingiusto». Non ha più rilievo la qualificazione
formale della situazione giuridica del danneggiato in termini di diritto soggettivo, ma è sufficiente che
sia riscontrabile «la lesione di un interesse giuridicamente rilevante». Ingiusto è il danno che lede un
interesse giuridicamente rilevante e ciò a prescindere dalla qualificazione di quest’ultimo in termini di
diritto soggettivo o di interesse legittimo.
Diventa allora cruciale stabilire in quali casi un interesse è giuridicamente rilevante.
Non tutti gli interessi legittimi sono risarcibili. Occorre appurare se per effetto del provvedimento
illegittimo risulti leso «l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla». Nel caso
degli interessi legittimi oppositivi la connessione con un bene della vita, cioè la conservazione del
bene o della situazione di vantaggio di fronte a un provvedimento che mira a sacrificarlo o a limitarlo,
è in re ipsa.
1. Nel caso degli interessi legittimi pretensivi, la cui lesione può derivare sia dal diniego
illegittimo del provvedimento favorevole richiesto, sia dal ritardo ingiustificato nell’adozione di
quest’ultimo, il collegamento con il bene della vita richiede una valutazione più articolata.
È richiesto infatti «un giudizio prognostico da condurre in riferimento alla normativa di settore,
sulla fondatezza o meno della istanza onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera
aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo
affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina
applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi
giuridicamente protetta».
Scomponendo questo passaggio centrale della sentenza n. 500/1999, ne deriva che: il giudizio
prognostico ha per oggetto la fondatezza o meno dell’istanza del privato volta a ottenere il
provvedimento favorevole e dunque tende ad appurare se all’esito del procedimento il bene della vita
o l’utilità che il privato mira a conseguire gli deve essere riconosciuto; il giudizio richiede un esame
della normativa di settore che disciplina quel particolare tipo di procedimento e ciò soprattutto per
stabilire se e quali margini di discrezionalità sono riconosciuti all’amministrazione; il giudizio va
condotto secondo un criterio di normalità, cioè prefigurando, anche alla luce della situazione concreta
di fatto, l’esito del procedimento; una volta operato questo giudizio può risultare, in caso di prognosi
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

negativa, che il privato è titolare di una semplice aspettativa non tutelata (la mera speranza a ottenere il
provvedimento favorevole) oppure, in caso di prognosi positiva, che egli si trovi in una situazione di
oggettivo affidamento, giuridicamente protetto, a conseguire il bene della vita ad opera di un
provvedimento favorevole.
Solo in quest’ultimo caso, che coincide tendenzialmente con i provvedimenti vincolati, negli
interessi legittimi pretensivi sussiste un collegamento diretto con il bene della vita tale da renderli
risarcibili.
Il risarcimento è commisurato soltanto alla cosiddetta perdita di chance nei casi in cui non sia
possibile accertare in termini di certezza assoluta, ma soltanto di probabilità, l’acquisizione o la
conservazione del bene della vita in capo al titolare dell’interesse legittimo ove il potere fosse stato
esercitato in modo legittimo. Così, per esempio, in materia di procedure di gara per l’aggiudicazione di
un contratto, l’impresa seconda classificata, che all’esito del processo ottiene una sentenza di
annullamento dell’ammissione alla procedura dell’impresa prima classificata, vede accertata in modo
univoco la pretesa a conseguire il «bene della vita» (il contratto oggetto della procedura) per effetto
dell’esclusione dalla graduatoria dell’impresa prima classificata. Se, invece, la medesima impresa
contesta l’erronea valutazione tecnico-discrezionale della commissione giudicatrice nell’attribuzione
dei punteggi riferiti ad elementi qualitativi dell’offerta e ottiene una sentenza che annulla la
graduatoria finale, la pretesa a conseguire il bene della vita può essere apprezzata solo in termini di
chance, visto che non è possibile prefigurare in modo univoco l’esito di una nuova valutazione delle
offerte da parte della commissione giudicatrice. In ogni caso la chance, per poter essere risarcibile, pur
non richiedendo di essere espressa in percentuali di probabilità, deve consistere in una concreta ed
effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato.
In definitiva, secondo la Corte di cassazione, la linea di confine tra risarcibilità e irrisarcibilità non
è più tracciata dalla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, ma è costituita dall’esistenza
o meno della lesione di un bene della vita accertata attraverso il giudizio prognostico.
2. La sentenza n. 500/1999 fornisce altri criteri per stabilire se un provvedimento illegittimo
della pubblica amministrazione sia o meno riconducibile allo schema dell’art. 2043 cod. civ.
In primo luogo, precisa che l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento non integra in
modo automatico (in re ipsa) il requisito della colpa. È richiesta invece un’indagine ulteriore che
verifichi se l’illegittimità riscontrata derivi dalla violazione delle regole di imparzialità, di correttezza
e di buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa e che si
pongono come limiti esterni alla discrezionalità. Il giudice deve cioè valutare le ragioni che hanno
determinato l’illegittimità.
In secondo luogo, la colpa va riferita, non già al funzionario agente, bensì all’apparato nel suo
complesso, andando a sindacare se vi sia stata una disfunzione che ha determinato l’illegittimità, per
esempio a causa di una cattiva organizzazione del personale, dei mezzi e delle risorse dell’ufficio.
Sul requisito della colpa, la giurisprudenza ha cercato di semplificare l’onere probatorio in capo al
danneggiato utilizzando a favore di quest’ultimo le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729
cod. civ., secondo i quali esse sono rimesse al prudente apprezzamento del giudice e devono essere
«gravi, precise e concordanti».
In pratica, per assolvere al proprio onere probatorio, il danneggiato può invocare la stessa
illegittimità come indice presuntivo della colpa, allegando anche altre circostanze idonee a dimostrare
che si è trattato di un errore inescusabile. Per superare la presunzione di colpa, spetta
all’amministrazione produrre elementi indiziari che viceversa consentano di qualificare l’errore come
scusabile. Tra questi rientrano la novità assoluta o la formulazione incerta della norma applicata, i
contrasti giurisprudenziali in ordine alla sua interpretazione, ecc. In presenza di una illegittimità
131
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

macroscopica il danneggiato, per far scattare la presunzione di colpa, può limitarsi ad allegare
l’illegittimità, gravando poi sull’amministrazione il compito di fornire elementi volti a dimostrare
l’assenza di colpa.
3. La giurisprudenza amministrativa prevalente inquadra la responsabilità per danno da lesione
di interessi legittimi all’interno degli schemi della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043
cod. civ.
Tuttavia sono emerse in dottrina e in giurisprudenza ricostruzioni che adottano gli schemi della
responsabilità contrattuale o precontrattuale.
Si è osservato infatti che nella vicenda procedimentale conclusasi con l’emanazione di un
provvedimento illegittimo, il privato danneggiato non può essere equiparato al «chiunque» o al
semplice «passante» con il quale il danneggiante non ha alcuna relazione preesistente, che è il contesto
nel quale può sorgere tipicamente la responsabilità extracontrattuale. Viceversa il contatto
procedimentale tra il privato e la pubblica amministrazione si presta a essere inquadrato nello schema
del rapporto obbligatorio o del «contatto sociale» qualificato.
Riconoscere natura contrattuale o precontrattuale alla responsabilità per danno da provvedimento
illegittimo ha come conseguenza l’applicazione del relativo regime.
In realtà, la questione rimane ancora aperta e in ogni caso qualche adattamento rispetto agli schemi
civilistici puri sembra inevitabile. Quest’opera di affidamento del regime giuridico della responsabilità
è resa più agevole dal fatto che la giurisdizione in tema di azioni risarcitone per lesione di interessi
legittimi è affidata al giudice amministrativo. Quest’ultimo è in grado di elaborare con maggior
autonomia il regime della responsabilità.
4. Un’ipotesi particolare di responsabilità si ha nei casi nei quali l’amministrazione non conclude
il procedimento avviato entro il termine previsto (danno da ritardo di cui si è già è parlato nel
capitolo V).
L’art. 2-bis stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno
ingiusto «in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento». Questa disposizione rafforza il principio della certezza del tempo dell’agire
amministrativo, che costituisce un «bene della vita» autonomo suscettibile di risarcimento a
prescindere dalla legittimità o illegittimità del provvedimento emanato.
Possono infatti darsi in astratto tre situazioni. La prima è che l’amministrazione abbia emanato nel
termine un provvedimento di diniego illegittimo e annullato dal giudice amministrativo e che essa
abbia poi rilasciato il provvedimento favorevole in esecuzione della sentenza. In questo caso il ritardo
nell’avvio di attività è causato in modo diretto dal primo provvedimento di diniego e si tratta dunque
di responsabilità da provvedimento illegittimo. La seconda è che l’amministrazione abbia rilasciato il
provvedimento favorevole in ritardo, mentre la terza è che l’amministrazione abbia negato
legittimamente il provvedimento richiesto, pur sempre in ritardo. In queste due ipotesi il danno da
ritardo emerge per così dire allo stato puro (mero ritardo) perché non è causato dal provvedimento, che
anzi in entrambe risulta legittimo, ma dal comportamento inerte (o non solerte) dell’amministrazione.
L’art. 2-bis, comma 1-bis, pone, come si è già accennato, il principio che il ritardo nella
conclusione del procedimento ad istanza di parte possa essere anche fonte di indennizzo, il cui importo
va detratto da quello eventualmente riconosciuto a titolo di risarcimento.
5. Sotto il profilo processuale, l’azione per il risarcimento del danno da lesione di interesse
legittimo rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo. Inoltre essa può essere proposta
insieme all’azione di annullamento o anche in modo autonomo. Il danno da ritardo rientra tra le
materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

132
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

6. Un ultimo accenno va dedicato alla responsabilità contrattuale della pubblica


amministrazione in base agli artt. 1218 ss. cod. civ., da sempre ammessa nei casi in cui
l’amministrazione agisce nella sua capacità di diritto privato nei rapporti con i terzi. In passato si
riteneva peraltro che essa fosse retta da alcuni principi speciali, in particolare per quanto riguarda il
carattere liquido ed esigibile dei crediti pecuniari. Si riteneva cioè che la normativa sulla liquidazione
delle somme dovute dallo Stato ai creditori contenuta nella legge sulla contabilità prevalesse sul
codice civile. A partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso è prevalsa la tesi che le norme
di contabilità hanno un carattere essenzialmente organizzativo interno e che pertanto lo Stato è
equiparato in tutto e per tutto a un debitore comune.
Anche i principi della responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., come si è
accennato, trovano ormai piena applicazione nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Più in
generale, il principio di correttezza e buona fede deve informare il comportamento della pubblica
amministrazione, oltre che del soggetto privato, all’interno del procedimento amministrativo.

5. La responsabilità nel diritto europeo

La responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto europeo può essere analizzata sotto
due profili principali: la responsabilità degli organi dell’Unione europea in relazione all’attività
giuridica posta in essere dai propri agenti in contrasto con il diritto europeo; la responsabilità degli
Stati membri per violazione del diritto europeo.
Il primo profilo trova una regolamentazione nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Il secondo ha origine essenzialmente giurisprudenziale.
1. Iniziando dal primo profilo, la disposizione rilevante è l’art. 340 TFUE già citato. Il comma 1
disciplina la responsabilità contrattuale della Comunità e si limita a operare un rinvio alla legge
nazionale applicabile al contratto in causa. Il comma 2 regola invece la responsabilità extracontrattuale
della Comunità e prevede, come si è già accennato, che «l’Unione deve risarcire, conformemente ai
principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi
agenti nell’esercizio delle loro funzioni». Questa disposizione ha acquistato una forza espansiva tale
da costituire il fondamento della responsabilità degli Stati membri.
Il comma 4 stabilisce infine che la responsabilità personale dei dipendenti dell’Unione nei
confronti di quest’ultima è regolata dalle disposizioni sul loro stato giuridico.
Quanto ai profili processuali, l’art. 268 TFUE attribuisce alla Corte di giustizia la competenza a
conoscere le controversie relative alla responsabilità extracontrattuale della Comunità di cui all’art.
340, comma 2.
I presupposti sostanziali della responsabilità delle istituzioni comunitarie deducibili dall’art.
340, comma 2, TFUE sono tre: un comportamento contra jus; l’esistenza di un danno; il nesso di
causalità.
In primo luogo nella nozione di comportamento contra jus imputabile a un’istituzione europea
rientra sia quella di comportamento o fatto materiale, sia quella di atto giuridico, normativo o
amministrativo.
La violazione deve avere un carattere grave e manifesto e ciò contribuisce a restringere l’ambito
della responsabilità delle istituzioni comunitarie in settori nei quali il potere esercitato assume
connotati di ampia discrezionalità.
Il carattere grave e manifesto della violazione può essere ricavato in via sintomatica da alcuni
indici: il grado di chiarezza e di precisione della norma violata; il carattere intenzionale o involontario
della trasgressione commessa o del danno causato, ecc.
133
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Affinché sorga la responsabilità extracontrattuale non è richiesto invece che la violazione della
norma derivi da una condotta dolosa o colposa, elemento soggettivo invece preteso in molti
ordinamenti nazionali, come quello italiano. Il danno risarcibile deve essere effettivo, cioè certo e
attuale. Può trattarsi di danni presenti o futuri, ma non meramente ipotetici. Il danno risarcibile è non
solo il danno emergente, ma anche il lucro cessante, peraltro raramente riconosciuto in concreto.
2. Passando ora a considerare la responsabilità degli Stati membri, la sentenza capostipite è la
sentenza Francovich.
Il caso riguardava il mancato recepimento da parte della Repubblica italiana di una direttiva
europea entro il termine prescritto. Due giudici nazionali, richiesti di pronunciarsi sul diritto di alcuni
lavoratori a ottenere direttamente dallo Stato italiano i benefici previsti dalla direttiva, sottoponevano
alla Corte di giustizia dell’Unione europea in via pregiudiziale alcune questioni interpretative.
Chiedevano cioè a quest’ultima di chiarire se i singoli possano far valere direttamente nei confronti
dello Stato i benefici previsti dalla direttiva risultanti da disposizioni sufficientemente precise e
incondizionate e comunque richiedere allo Stato il risarcimento del danno subito in relazione alle
disposizioni della direttiva che non abbiano tali caratteristiche.
La Corte di giustizia ha esaminato la questione della responsabilità dello Stato per danni derivanti
dalla violazione degli obblighi sorti in forza del diritto comunitario.
La motivazione della sentenza dapprima si sofferma sul fondamento della responsabilità dello
Stato, poi passa a definire le condizioni in presenza delle quali può sorgere una siffatta responsabilità.
Sul primo punto, afferma che «il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai
singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato».
La sentenza enuncia tre presupposti in presenza dei quali può sorgere la responsabilità: che la
direttiva attribuisca diritti a favore dei singoli; che il contenuto di tali diritti possa essere individuato
sulla base della direttiva stessa; che esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico
dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.
Secondo gran parte dei commentatori, la sentenza Francovich segna una tappa fondamentale nella
costruzione del sistema europeo come ordinamento autonomo, un ordinamento cioè che costruisce al
proprio interno i propri principi e che è in grado di imporli anche agli Stati membri. Nel caso di specie,
la responsabilità degli Stati membri non è più retta solo dal diritto nazionale, ma anche dai principi
autonomamente formatisi nel diritto europeo.
La sentenza Brasserie du pêcheur-Factortame del 5 marzo 1996 stabilisce che gli Stati membri
possono essere tenuti a risarcire i danni cagionati da violazioni del diritto comunitario da parte del
legislatore nazionale. I casi sottoposti alla Corte riguardavano, per un verso, un divieto di
importazione in Germania di birra francese prodotta in modo non conforme ai requisiti di genuinità
prescritti dalla legge fiscale tedesca; per un altro verso, la previsione contenuta nella legge inglese
sulla navigazione mercantile di taluni requisiti restrittivi di nazionalità, residenza e domicilio per i
proprietari e gli esercenti di pescherecci prescritti ai fini dell’iscrizione in un apposito registro.
La sentenza Lomas del 23 maggio 1996, sancisce il principio secondo il quale la responsabilità
dello Stato può sorgere non solo in relazione a un atto normativo, bensì anche a un atto amministrativo
adottato in violazione del diritto europeo. Il caso riguardava il diniego di una licenza di esportazione di
animali da macello destinati alla Spagna da parte del ministero dell’Agricoltura, della Pesca e
dell’Alimentazione britannico, giustificato dal fatto che i mattatoi spagnoli utilizzavano tecniche di
macellazione contrastanti con la direttiva 1974/577/CE relativa allo stordimento degli animali prima
della macellazione. La Corte ha sottolineato che nel caso di diniego della licenza di esportazione, il
ministero inglese non dispone di margini di discrezionalità significativi e pertanto «la semplice

134
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione
sufficientemente grave e manifesta».
La Corte ha poi precisato che la responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto
europeo sorge qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione o omissione ha dato origine alla
trasgressione.

6. La responsabilità amministrativa

La responsabilità amministrativa trova fondamento nel Testo unico degli impiegati civili dello
Stato secondo il quale l’impiegato è tenuto a risarcire l’amministrazione e «i danni derivanti da
violazioni di obblighi di servizio» (danno erariale diretto). Un caso particolare di responsabilità
amministrativa è quello, già esaminato, dell’amministrazione condannata a risarcire il danno
provocato a terzi da un proprio dipendente e che agisce in via di regresso nei confronti di quest’ultimo
(danno erariale indiretto).
Esempi di danno erariale sono la distruzione di attrezzature e macchinari dell’amministrazione, le
consulenze superflue affidate a professionisti esterni, i contratti stipulati a condizioni sfavorevoli per
l’amministrazione, ecc. Le condotte che possono dar origine a danno erariale sono atipiche, anche se il
legislatore, sempre più di frequente, individua alcuni comportamenti suscettibili di far sorgere la
responsabilità amministrativa.
La responsabilità amministrativa inerisce al rapporto interno tra dipendente pubblico e
amministrazione di appartenenza e in questo senso costituisce una sottospecie della responsabilità del
lavoratore subordinato nei confronti del proprio datore di lavoro che nasce in conseguenza della
violazione dei doveri di diligenza.
Tuttavia il regime della responsabilità amministrativa si distacca dal diritto comune e si
caratterizza per avere un carattere ibrido, a metà strada tra la responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale. Essa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma in alcune fattispecie particolari
emerge anche una finalità sanzionatoria.
Le fonti normative della responsabilità amministrativa sono costituite dal Testo unico delle
leggi sulla Corte dei conti, che risale, quanto a impostazione, alla legislazione di contabilità
approvata all’epoca dell’Unità d’Italia, e soprattutto dalla legge 14 gennaio 1994, n. 20, più volte
modificata.
Quanto al campo di applicazione, sotto il profilo soggettivo, questo tipo di responsabilità vale per
funzionari, impiegati, agenti pubblici e amministratori delle amministrazioni pubbliche statali e non
statali e di enti pubblici (aziende sanitarie locali, enti parastatali, ecc.). Nel corso del tempo la
giurisprudenza ha ampliato il novero delle figure rientranti nella nozione di agente pubblico fino ad
abbracciare anche gli amministratori di enti pubblici economici. Possono essere chiamati a rispondere
anche soggetti esterni all’amministrazione legati ad essa da un «rapporto di servizio», come per
esempio, il progettista, il direttore dei lavori.
In anni recenti la giurisprudenza della Corte dei conti aveva esteso l’ambito della responsabilità
amministrativa anche agli amministratori e dirigenti delle società per azioni in mano pubblica,
sottoponendo così questi ultimi a un doppio regime di responsabilità, cioè alla responsabilità in base al
diritto societario e a quella per danno erariale. Peraltro, la Corte di cassazione ha posto un limite a
questo tipo di estensione, affermando che in linea di principio le società pubbliche non rientrano nel
perimetro della responsabilità amministrativa.
La responsabilità ha natura personale. Quando il fatto dannoso è causato da più persone, ciascuna
risponde solo per la parte di sua competenza. Tuttavia in caso di dolo o quando le persone coinvolte
135
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

hanno conseguito un illecito arricchimento la responsabilità è solidale. Inoltre, nelle deliberazioni


degli organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso il voto
favorevole.
Sotto il profilo oggettivo, la responsabilità sorge in relazione «ai fatti ed alle omissioni commessi
con dolo e colpa grave». L’esclusione della responsabilità nel caso di colpa lieve evita di
sovraccaricare i dipendenti pubblici del rischio di essere chiamati a rispondere di attività che
comunque perseguono l’interesse pubblico.
Se il danno deriva da un provvedimento, resta ferma comunque «l’insindacabilità nel merito delle
scelte discrezionali». Ciò significa che se il provvedimento è legittimo, la Corte dei conti non può
sostituire le proprie valutazioni in ordine alla opportunità e convenienza di una determinata scelta
amministrativa. Altrimenti ne verrebbe penalizzata, con effetti paralizzanti, la managerialità degli
amministratori pubblici che devono assumere decisioni spesso in condizioni di incertezza in ordine
agli esiti delle medesime. Il sindacato della Corte dei conti, al pari di quello del giudice
amministrativo, può riguardare tutti i profili di legittimità, incluso l’eccesso di potere. Anche i canoni
di efficienza ed efficacia posti dall’art. 1 della l. n. 241/1990 come corollari del principio di buon
andamento di cui all’art. 97 della Costituzione rilevano sul piano della legittimità e non della
opportunità e pertanto possono essere posti alla base del sindacato della Corte dei conti.
È risarcibile non soltanto il danno provocato all’amministrazione in cui è incardinato il
dipendente, ma più in generale il danno cagionato «ad amministrazioni o enti diversi da quelli di
appartenenza». In quest’ultimo caso si ha il cosiddetto danno obliquo che può emergere nel caso di
un dipendente pubblico distaccato o comandato presso un’altra amministrazione, oppure nel caso del
componente di un consiglio di amministrazione di un ente pubblico nominato da un ministero o altro
ente.
Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni dalla data in cui il fatto si è
verificato, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta. Ciò
avvicina il regime della responsabilità amministrativa a quello extracontrattuale per il quale il termine
di prescrizione è quinquennale.
Ai fini della quantificazione del danno, vanno valutati anzitutto il decremento patrimoniale o la
mancata entrata da parte dell’amministrazione. Al danno patrimoniale si aggiunge in alcuni casi il
danno all’immagine dell’amministrazione, per esempio nel caso di percezione di tangenti da parte di
amministratori per il compimento di atti in violazione dei doveri d’ufficio. Il danno va liquidato
scomputando i «vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di provenienza o da altra
amministrazione, o dalla comunità amministrata». Questa non può tuttavia portare a un azzeramento
totale del risarcimento.
Una particolarità del regime della responsabilità amministrativa consiste nel cosiddetto potere
riduttivo in base al quale la Corte «può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato
o del valore perduto». Questo potere consente di modulare la somma a carico delle finanze personali
del dipendente rispetto all’enormità dei danni potenziali all’amministrazione. Si pensi al caso di un
militare che per imperizia distrugga un aereo o un mezzo blindato.
Sotto il profilo processuale, come si è accennato, e come si vedrà meglio nel capitolo XIV, la
responsabilità amministrativa viene accertata in un giudizio innanzi alla Corte dei conti.
Complessivamente la responsabilità amministrativa è retta da un regime non omologabile ai
modelli del codice civile. Essa costituisce un fattore di deterrenza che spesso ha effetti paralizzanti
sull’azione amministrativa.

136
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 8. L’ORGANIZZAZIONE

1. Nozione, fonti normative e principi generali

L’organizzazione può essere definita come una unità di persone, strutturata e gestita su base
continuativa al fine di perseguire scopi comuni che i singoli non sarebbero in grado di raggiungere
individualmente. Ogni organizzazione ha una propria struttura gestionale che stabilisce funzioni e
ruoli e attribuisce compiti e responsabilità ai singoli appartenenti. Una distinzione elementare è tra
organizzazioni informali o di fatto e organizzazioni formali o di diritto.
L’organizzazione è oggetto di studio anzitutto da parte della sociologia e delle scienze aziendali.
Risale a Max Weber un’analisi sistematica dei tipi di organizzazione riguardanti sia le attività dei
privati, sia le comunità di tipo statuale.
Quanto alle comunità di tipo statuale, il moderno Stato di diritto, conforme al modello del potere
legale-razionale, come si è visto, presuppone almeno due elementi: un sistema di regole oggettive
precostituite e l’istituzione di apparati burocratici stabili, ordinati in modo gerarchico, con
un’attribuzione precisa di competenze ai singoli uffici. A questi ultimi sono assegnati funzionari di
carriera dotati di qualificazioni specializzate.
Le teorie dell’organizzazione elaborate dalle scienze sociali e aziendali seguono una pluralità di
approcci.
Il diritto pubblico per lungo tempo ignorò i fatti organizzativi e in particolare le articolazioni
interne dello Stato. Limitò invece la propria attenzione ai provvedimenti formali e alla loro incidenza
nella sfera giuridica dei loro destinatari. La stessa definizione dello Stato come persona giuridica servì
più che altro a individuare un centro di imputazione unitario al quale riferire sotto il profilo soggettivo
i poteri, i provvedimenti e i rapporti giuridici con i cittadini.
Il fenomeno organizzativo iniziò a destare interesse nella fase in cui si ruppe la struttura
monolitica dello Stato e si affermò il pluralismo dei livelli di governo e degli apparati pubblici con la
conseguente necessità di inquadrare giuridicamente le relazioni tra essi.
L’organizzazione pubblica, intesa come fenomeno giuridico, è disciplinata nel nostro ordinamento
da una pluralità di fonti che, assommate, regolano la struttura degli apparati amministrativi.
Al livello più alto si colloca la Costituzione. Essa enuncia anzitutto i principi generali
dell’imparzialità e del buon andamento (art. 97), ai quali devono ispirarsi sia l’attività sia
l’organizzazione degli apparati pubblici, e il principio autonomistico (art. 5).
Individua poi i livelli di governo chiarendo che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato (art. 114). Prevede in particolare come
articolazioni fondamentali dello Stato i ministeri, demandando alla legge statale il compito di
determinarne il numero, le attribuzioni e l’organizzazione e di disciplinare gli enti pubblici nazionali
(artt. 95, comma 3, e 117, comma 2, lett. g) e f)).
La Costituzione stabilisce ancora in termini generali che nell’ordinamento degli uffici sono
determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari (art. 97,
comma 2).
Dedica l’intero Titolo V all’organizzazione e ai poteri di regioni, province e comuni. Enumera in
particolare gli organi delle regioni precisandone le funzioni. Demanda invece alla legge statale il
compito di individuare gli organi di governo e le funzioni fondamentali di comuni, province e città
metropolitane.
In attuazione della Costituzione, numerose fonti legislative primarie disciplinano
l’organizzazione dei ministeri e della presidenza del Consiglio dei ministri (d.lgs. 30 luglio 1999, n.
137
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

300 e 303), degli enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) e degli apparati ed enti pubblici di più
antica o recente istituzione.
In attuazione delle disposizioni di rango legislativo, l’organizzazione e il funzionamento delle
amministrazioni pubbliche è rimessa sia a fonti normative sublegislative, sia a fonti aventi natura
non normativa.
L’organizzazione statale è disciplinata anzitutto con regolamenti governativi. Inoltre, le
amministrazioni pubbliche, mediante atti organizzativi emanati secondo i rispettivi ordinamenti
(statuti, regolamenti di organizzazione, ecc.), individuano le linee fondamentali dell’organizzazione
degli uffici, nonché gli uffici di maggiore rilevanza e determinano le dotazioni organiche complessive
(art. 2 d.lgs. n. 165/2001). Gli atti organizzativi in questione sono pubblicati, insieme alle direttive, ai
programmi, alle istruzioni e alle circolari, secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti.
A livello statale, in particolare, l’organizzazione dei ministeri è disciplinata in parte dal d.lgs. n.
300/1999, che elenca i ministeri, individua le strutture di primo livello (dipartimenti, direzioni
generali), disciplina le agenzie, stabilisce le attribuzioni dei singoli ministri; in parte da regolamenti di
delegificazione che individuano gli uffici di livello dirigenziale, centrali e periferici, e definiscono la
consistenza delle piante organiche; in parte da decreti ministeriali di natura non regolamentare che
definiscono i compiti delle unità dirigenziali nell’ambito degli uffici dirigenziali generali.
A livello substatale gli statuti e le leggi regionali contengono una disciplina dell’organizzazione
delle regioni e dei loro apparati.
A livello di comuni e province, in attuazione delle disposizioni legislative statali (soprattutto il
Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con d.lgs. n. 267/2000), spetta allo
statuto stabilire le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente specificando le attribuzioni degli
organi.
Per effetto di questo complesso di fonti normative l’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni è disciplinata da una trama molto fitta di norme giuridiche.
Dalle fonti costituzionali e legislative si possono ricavare alcuni principi generali in materia di
organizzazione.
1. Il principio del buon andamento ha risvolti non solo in tema di attività della pubblica
amministrazione, ma anche in tema di organizzazione. Questa seconda dimensione emerge in
disposizioni legislative come quelle, per esempio, che prevedono il reclutamento del personale in base
a concorso (cioè in base al merito); che mirano all’accorpamento o alla soppressione di enti pubblici e
strutture inefficienti o addirittura inutili.
2. Il principio di imparzialità, anch’esso riferibile all’organizzazione oltre che all’attività, si
esprime anzitutto nelle regole volte a far sì che la politica non si ingerisca nell’amministrazione e in
particolare nel principio organizzativo della distinzione tra funzioni di indirizzo e di controllo proprie
dei vertici politici delle amministrazioni e funzioni di gestione riservate ai dirigenti. Esso inoltre sta
alla base dell’obbligo del responsabile del procedimento e dei titolari degli uffici di dichiarare
situazioni di conflitto di interessi e pertanto di astenersi dall’esercizio dei propri poteri ( art. 6-bis l. n.
241/1990).
3. Si è già fatto cenno al principio di pubblicità e di trasparenza riferito al procedimento
amministrativo. La normativa anticorruzione (l. n. 190/2012 già citata e il d.lgs. n. 33/2013) sviluppa
anche una dimensione organizzativa del principio di trasparenza.
Il d.lgs. n. 33/2013 impone infatti alle pubbliche amministrazioni di pubblicare sui propri siti e di
aggiornare le informazioni e i dati concernenti la propria organizzazione.
La dimensione organizzativa del principio di trasparenza si esprime poi nella già ricordata figura
del responsabile della trasparenza, di norma coincidente con il responsabile per la prevenzione della
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

corruzione. Quest’organo deve vigilare sul rispetto degli obblighi di pubblicazione. È stato introdotto
inoltre il programma triennale per la trasparenza e l’integrità che definisce le misure, i modi e le
iniziative volti all’attuazione dei molteplici obblighi di pubblicazione introdotti.
4. La Costituzione enuncia il principio autonomistico (art. 5) che ispira i rapporti tra Stato ed
enti territoriali. Esso supera la visione della preminenza dello Stato su ogni altro apparato
amministrativo. Il principio autonomistico ha implicazioni su diversi versanti: autonomia statutaria,
titolarità di funzioni proprie distribuite in base al già menzionato principio di sussidiarietà verticale
(art. 118), autonomia finanziaria di entrata e di spesa (art. 119), potestà legislativa e regolamentare
(art. 117).
5. Il principio autonomistico trova un bilanciamento nel principio di leale collaborazione tra i
diversi livelli di governo, dal quale derivano obblighi di consultazione e informazione reciproci,
doveri di coordinamento, ecc. Pur non trovando un riferimento espresso nella Costituzione, il principio
di leale collaborazione è ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
6. In seguito alle modifiche all’art. 97 della Costituzione introdotte nel 2012, le pubbliche
amministrazioni devono assicurare, in coerenza con l’ordinamento europeo, l’equilibrio dei bilanci e
la sostenibilità del debito pubblico.

2. Persone giuridiche, organi e uffici

La teoria dell’organizzazione pubblica si avvale in gran parte della nomenclatura e dei concetti
elaborati per le persone giuridiche private disciplinate dal codice civile.
Il codice antepone alla disciplina delle persone giuridiche private una disposizione sulle persone
giuridiche pubbliche. Le persone giuridiche pubbliche, come già accennato nel capitolo I, hanno la
medesima capacità giuridica delle persone giuridiche private, salvo il regime derogatorio che può
derivare da norme speciali. Lo Stato costituisce poi, come è stato detto, la persona giuridica per
eccellenza o l’ente pubblico per antonomasia.
La teoria dell’organizzazione ruota attorno a tre concetti: persona giuridica, organo (e ufficio),
persona fisica titolare dell’organo.
1. Personalità significa attitudine riconosciuta dall’ordinamento a diventare soggetto di diritti,
cioè titolare di diritti e doveri giuridici. La personalità giuridica viene riconosciuta sia alle persone
fisiche, sia alle persone giuridiche.
La persona giuridica è dunque un’organizzazione formale considerata dall’ordinamento giuridico
come un soggetto di diritto separato dalle persone fisiche che la compongono e dotato di una propria
capacità giuridica.
Le persone giuridiche private si distinguono a seconda che abbiano una struttura associativa, ove
prevale l’elemento personale, o di fondazione, ove prevale l’elemento patrimoniale. Anche tra le
persone giuridiche pubbliche alcune hanno struttura prevalentemente associativa (le camere di
commercio, industria e artigianato), altre natura patrimoniale (aziende sanitarie locali).
La costituzione della persona giuridica privata avviene su base negoziale, cioè con un atto
costitutivo sotto forma di accordo associativo oppure, nel caso delle fondazioni, di atto unilaterale.
L’attribuzione della personalità giuridica consegue al riconoscimento determinato dall’iscrizione nel
registro delle persone giuridiche istituito presso le prefetture. Da tempo essa non dipende più da un
atto discrezionale governativo. Nel caso delle società per azioni la personalità giuridica si acquista
automaticamente con l’iscrizione nel registro delle imprese.
L’istituzione degli enti pubblici avviene direttamente per legge nel caso di enti a statuto singolare
(come per esempio il CONI o l’ISTAT), oppure sulla base di delibere amministrative nel caso di
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

categorie di enti previste da una legge generale (università, camere di commercio). L’art. 4 legge 20
marzo 1975, n. 70 stabilisce che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non
per legge.
2. Per poter instaurare rapporti giuridici con soggetti esterni le persone giuridiche si avvalgono di
organi che possono essere definiti come centri di imputazione giuridica (o di competenza): la persona
fisica titolare dell’organo ha il potere di esprimere la volontà della persona giuridica imputando
direttamente in capo a quest’ultima l’atto e gli effetti da esso prodotti. Tra persona fisica e persona
giuridica intercorre un rapporto di immedesimazione (organica), nel senso che per mezzo della
persona fisica preposta all’organo è la stessa persona giuridica che vuole e agisce. La persona giuridica
è infatti un’entità puramente astratta e non può avere una volontà propria autonomia.
Un modello di imputazione giuridica alternativo è la rappresentanza. Il rappresentante, in base a
una procura rilasciata dal rappresentato o per conferimento ex lege, ha il potere di porre in essere atti i
cui effetti si producono direttamente nei confronti del rappresentato.
Rispetto all’immedesimazione organica, la rappresentanza instaura un legame meno intenso
poiché l’atto in quanto tale è riferibile solo al rappresentante, mentre gli effetti dell’atto si imputano
direttamente a quest’ultimo. Se il rappresentante agisce senza averne i poteri o eccedendo i limiti della
procura, l’atto e i suoi effetti non si imputano al rappresentato, salva l’eventuale ratifica.
Il modello della rappresentanza è concepito per i rapporti che coinvolgono persone fisiche poiché
presuppone una duplice volontà. Il modello della rappresentanza è invece meno adatto a spiegare il
modo di operare delle persone giuridiche.
Il modello dell’immedesimazione organica è preferibile perché riesce a dar conto dell’imputazione
in capo alla persona giuridica anche dell’attività illecita posta in essere dalla persona fisica titolare
dell’organo (o dell’ufficio) nell’interesse della prima (salvi i casi della cosiddetta frattura del rapporto
organico ai quali si è fatto cenno nel capitolo VII).
L’individuazione degli organi delle persone giuridiche è operata dalla legge e dagli statuti dei
singoli enti.
Nelle persone giuridiche a struttura più complessa il rappresentante legale può comunque
conferire, sulla base del codice civile, la rappresentanza, entro limiti di oggetto e di valore definiti
nella procura speciale, a funzionari e dipendenti.
Oltre che di organi, le persone giuridiche, specie quelle di maggior dimensione, si avvalgono per
la propria attività di uffici, cioè di unità operative interne definite da organigrammi, alle quali sono
addette una o più persone fisiche. In realtà, gli stessi organi possono essere considerati come una
specie particolare di uffici il cui titolare ha anche il potere di emanare atti giuridici che impegnano
l’ente nei rapporti esterni (uffici-organo).
A differenza degli organi, gli uffici svolgono un’attività che ha rilevanza meramente interna e
natura strumentale rispetto a quella degli organi in senso proprio.
L’organizzazione interna delle persone giuridiche private è, come si è detto, tendenzialmente
libera. Di recente, peraltro, leggi settoriali prevedono come obbligatori alcuni uffici.
Nelle amministrazioni pubbliche, invece, l’organizzazione dei pubblici uffici è sottoposta a una
riserva di legge relativa (art. 97 Cost.) ed è disciplinata da fonti legislative e da atti organizzativi
emanati dai singoli enti. Alcune strutture o uffici, come per esempio quelli deputati ai controlli interni
o del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, sono obbligatori per tutte le
pubbliche amministrazioni.
3. Gli organi e gli uffici agiscono per mezzo di persone fisiche. Alcune di esse, poste in
posizione apicale, ne assumono la titolarità; altre, con varietà di qualifiche e di funzioni, fanno parte
del personale addetto che svolge l’attività di supporto al titolare dell’organo o dell’ufficio.
140
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Nel caso delle organizzazioni pubbliche la preposizione o l’assegnazione di una persona fisica a
un organo o a un ufficio richiede un atto formale: la cosiddetta investitura nel caso del titolare, o
l’assegnazione negli altri casi. L’atto in questione è emanato talora dai vertici dell’apparato o anche, a
livelli meno elevati, dal dirigente dell’ufficio del personale. Per taluni organi, come si vedrà, la
preposizione avviene in seguito a un procedimento elettivo o con un atto di nomina da parte di soggetti
esterni all’apparato.
L’atto formale di investitura o di assegnazione instaura il rapporto di immedesimazione organica
tra la persona fisica e l’organo o ufficio.
Il rapporto di immedesimazione organica tra persona fisica, organo o ufficio e persona giuridica è
un rapporto interno di tipo organizzatorio. La persona fisica è però legata alla persona giuridica
anche da un rapporto per così dire esterno, cioè dal cosiddetto rapporto di servizio (o d’impiego).
Quest’ultimo è un rapporto giuridico bilaterale che ha per contenuto il complesso dei diritti e degli
obblighi assunti dal dipendente nei confronti del datore di lavoro.
Il rapporto di servizio è il presupposto affinché il dipendente possa essere poi assegnato a un
ufficio e possa così instaurarsi il rapporto di immedesimazione organica. Può darsi tuttavia che il
rapporto di servizio sia sorto in seguito a una procedura o a un atto di investitura annullati o dichiarati
nulli. In questi casi si pone per le persone giuridiche pubbliche il problema di quale sia la sorte degli
atti posti in essere dalla persona fisica titolare dell’organo. Questi ultimi, infatti, almeno in astratto,
dovrebbero essere ritenuti anch’essi invalidi in quanto non riferibili, sia pure ex post,
all’amministrazione. Per evitare gli inconvenienti di una siffatta eventualità è stata elaborata la figura
del funzionario di fatto, cioè di colui che pur in assenza di un’investitura formale esercita di fatto
funzioni pubbliche.
Dato conto della teoria giuridica dell’organizzazione, conviene ora analizzare in modo più
specifico la struttura degli apparati pubblici e le relazioni che insorgono tra questi.
In primo luogo vanno richiamate alcune classificazioni.
1. Anzitutto gli organi possono essere esterni o interni. Gli organi esterni sono gli strumenti
attraverso i quali la persona giuridica opera nei rapporti con altri soggetti dell’ordinamento. Gli organi
interni svolgono attività giuridiche propedeutiche alla formazione della volontà dell’amministrazione
formalizzate in un atto emanato da un organo esterno. Si pensi per esempio ad atti endoprocedimentali
come un parere dell’ufficio tecnico.
2. In secondo luogo gli organi e uffici possono essere necessari o non necessari, a seconda che
la loro istituzione sia prevista come obbligatoria dalle norme che disciplinano l’organizzazione
dell’ente. Per esempio, rientrano nella prima tipologia gli organi individuati direttamente dalla legge
come, nel caso dei comuni, il sindaco, la giunta e il consiglio comunale; nella seconda tipologia
rientrano i cosiddetti ministeri senza portafoglio.
3. In terzo luogo gli organi possono essere monocratici o collegiali. Nel primo caso all’organo è
preposta una sola persona fisica che ne assume la titolarità. Nel secondo caso, ad esso è preposta una
pluralità di persone fisiche che esprimono la volontà dell’apparato attraverso delibere assunte sulla
base di regole già esaminate nel capitolo IV.
Le modalità previste per la nomina dei componenti dell’organo collegiale variano a seconda dei
casi. Ove prevalga l’esigenza di assicurare la rappresentanza di una pluralità di interessi pubblici o
privati, le norme individuano i soggetti che possono designare uno o più componenti. In altri casi i
componenti sono scelti su base elettiva (consigli comunali). In altri casi ancora i componenti sono
nominati in ragione di specifiche competenze tecniche (commissioni di concorso).
Anche la nomina dei titolari degli organi monocratici in alcuni casi è elettiva; in altri casi è
affidata a uno o più soggetti esterni; in altri casi ancora agli stessi organi collegiali.
141
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

4. In quarto luogo, in base al tipo di funzioni, gli organi e uffici possono essere attivi, allorché
emanano gli atti amministrativi correlati alle funzioni dell’ente o svolgono le attività materiali;
consultivi, allorché esprimono pareri tecnici o giuridici; di controllo.
Ricorrenti sono anche altre distinzioni: organi ordinari e straordinari, questi ultimi istituiti per
svolgere funzioni particolari per un tempo determinato; uffici semplici e complessi, i secondi composti
da una pluralità di uffici semplici; uffici centrali e periferici; organi e uffici amministrativi e tecnici.

3. Le amministrazioni pubbliche

La pubblica amministrazione italiana ha assunto le sembianze di una costellazione di apparati


multilivello e policentrica. Accanto alle amministrazioni di tipo più tradizionale (Stato, enti territoriali)
sono stati istituiti enti pubblici di vario tipo e, in epoca più recente, soggetti formalmente privati, ma
sottoposti almeno in parte a regimi pubblicistici. Sotto il profilo quantitativo, in base ai dati
dell’ISTAT, le amministrazioni italiane sono circa 10.000.
In realtà, il perimetro della pubblica amministrazione non è tracciato in modo univoco, né rispetto
agli organi di livello costituzionale, né rispetto ai soggetti privati.
Quanto al primo versante, il Consiglio dei ministri si pone sul crinale tra politica e
amministrazione. È infatti ad un tempo organo costituzionale, dato il suo ancoraggio al circuito
politico rappresentativo garantito dal meccanismo della fiducia del parlamento, e organo di vertice e di
chiusura del sistema della pubblica amministrazione. Nella prima veste adotta atti politici, nella
seconda esercita funzioni di indirizzo e di amministrazione attiva.
Quanto al secondo versante, i criteri per distinguere gli enti pubblici dagli enti privati individuati
dalla dottrina e dalla giurisprudenza non sono univoci.
Manca in ogni caso nel nostro ordinamento una definizione legislativa di pubblica
amministrazione alla quale si ricolleghi l’applicazione di un corpo di regole e principi omogeneo.
Molte leggi amministrative settoriali individuano il proprio campo di applicazione attraverso un elenco
tassativo di enti. Alcune leggi invece prevedono che esse si applichino alle pubbliche amministrazioni
senza darne una definizione precisa.
Da qui dunque la necessità di costruire in via interpretativa la nozione di pubblica
amministrazione.
Essa può essere desunta induttivamente dalle leggi amministrative settoriali che pongono
definizioni o elenchi di enti e soggetti che rientrano nel loro campo di applicazione. Così può accadere
che alcuni enti o soggetti ricadano in più definizioni legislative e che pertanto ad essi si applichino
cumulativamente i regimi speciali pubblicistici posti dalle leggi settoriali.
Si potrebbe affermare che gli elementi che sono inclusi in tutti gli insiemi dei regimi speciali in
base alle definizioni previste dalle singole leggi amministrative di settore costituiscono il «nocciolo
duro» della pubblica amministrazione in senso stretto. In esso rientrano principalmente, le
amministrazioni statali (ministeri, agenzie), le regioni, gli enti locali, gli enti pubblici non economici
(enti previdenziali, università), le autorità indipendenti.
I principali regimi speciali da considerare sono quelli relativi al pubblico impiego, al
procedimento amministrativo, ai contratti pubblici, alla finanza pubblica e, in particolare, al Patto di
stabilità.
1. Un primo insieme di norme speciali pubblicistiche è contenuto nel d.lgs. n. 165/2001 che
pone la disciplina generale dell’organizzazione degli uffici pubblici e dei rapporti di lavoro.
L’art. 1, comma 2, definisce l’ambito di applicazione delle norme attraverso un elenco tassativo
di enti: le amministrazioni e agenzie dello Stato, gli enti territoriali (regioni, province, comuni), una
142
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

serie di enti pubblici nominativamente citati (università, aziende ed enti del Servizio sanitario
nazionale) o comunque rientranti nella categoria generale degli enti pubblici non economici.
Questa definizione, viene richiamata in molte altre leggi settoriali per definire il loro ambito di
applicazione.
2. Un secondo insieme di norme pubblicistiche è costituito dalla disciplina del procedimento
amministrativo contenuta nella l. n. 241/1990. Il suo campo di applicazione sotto il profilo soggettivo
è definito dagli artt. 1 e 29. In estrema sintesi l’art. 29 menziona le amministrazioni statali, gli enti
pubblici nazionali, le regioni e gli enti locali. Inoltre rende applicabili in modo inderogabile alcune
disposizioni della legge genericamente «a tutte le amministrazioni pubbliche» (art. 29, comma 1,
ultimo periodo). Quest’ultima espressione, che è richiamata ma non definita in modo preciso da altri
articoli, resta quindi indeterminata. Ancora, la l. n. 241/1990 si applica anche ai soggetti privati
preposti all’esercizio di attività amministrative (art. 1, comma 1-ter). Inoltre, ai fini dell’applicazione
del diritto di accesso, la l. n. 241/1990 intende per pubblica amministrazione tutti i soggetti di diritto
pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata
dal diritto nazionale o dal diritto comunitario (art. 22, comma 1, lett. e)).
3. Un terzo insieme di norme pubblicistiche riguarda i contratti per l’acquisto di beni, servizi e
lavori. Esse sono contenute, sulla scorta delle direttive europee, nel Codice dei contratti pubblici
approvato con d.lgs. n. 50/2016. Il Codice pone una serie di definizioni riferite sia a tipologie di
contratti sia di soggetti («soggetti aggiudicatori», «enti aggiudicatori», «amministrazioni
aggiudicatrici», «organismi di diritto pubblico», «imprese pubbliche», «stazione appaltante») volta a
individuare in modo specifico le parti del Codice e le procedure di volta in volta applicabili.
4. Un quarto insieme di regole speciali attiene al cosiddetto Patto di stabilità concordato in
sede europea che impegna gli Stati aderenti a porsi obiettivi di pareggio di bilancio nel medio
termine. A questo fine in Italia è stato approvato il cosiddetto Patto di stabilità interno che attribuisce
al governo strumenti per vincolare al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica anche le regioni e gli
enti locali. Le pubbliche amministrazioni alle quali si applicano le norme sul controllo della spesa
sono individuate dall’ISTAT sulla base delle norme classificatorie e definitorie del sistema statistico
nazionale e comunitario.
I criteri principali per individuare le amministrazioni pubbliche e per distinguerle dal settore delle
imprese sono i seguenti: deve trattarsi di enti che producono beni e servizi che non siano destinati alla
vendita sul libero mercato; i beni e servizi devono essere invece messi a disposizione della collettività
gratuitamente (o sulla base di prezzi economicamente non significativi); l’attività dell’ente deve essere
finanziata in prevalenza a carico delle finanze pubbliche.
L’elenco dell’ISTAT, formato sulla base di questi criteri, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e
aggiornato periodicamente, suddivide le amministrazioni pubbliche per tipologie. L’elenco fornisce
una ricognizione tendenzialmente completa delle pubbliche amministrazioni che è utile per ricostruire
la nozione generale. I ricorsi contro l’inserimento in tale elenco sono devoluti alla giurisdizione della
Corte dei conti che sta acquisendo sempre più un ruolo di primo piano in relazione al rispetto dei
vincoli derivanti dal Patto di stabilità soprattutto da parte degli enti locali. L’elenco dell’ISTAT è
richiamato anche da altre leggi amministrative allo scopo di definirne il campo di applicazione.
Volendo provare a sintetizzare i tratti caratterizzanti delle pubbliche amministrazioni, ricavandoli
induttivamente dagli elenchi e dai criteri posti dalle principali normative speciali, si può anzitutto dire
che esse si collocano al di fuori del mercato, nel senso che esse non producono beni e servizi resi sulla
base di prezzi che consentano di realizzare i ricavi atti a coprire i costi (e a produrre utili). In positivo,
la caratteristica propria delle pubbliche amministrazioni è quella di produrre beni pubblici materiali o
immateriali, quelli che cioè il mercato non è in grado di garantire in modo adeguato (ordine pubblico,
143
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

sicurezza, difesa, giustizia, pubblica istruzione, salute, ecc.) con finalità anche redistributive. Il
finanziamento di tali attività è posto in prevalenza a carico della collettività attraverso il ricorso alla
tassazione. Tali attività possono consistere, a seconda delle funzioni attribuite alla singola
amministrazione, sia nell’emanazione di atti o provvedimenti amministrativi, sia in attività materiali
(prestazioni sanitarie o assistenziali, istruzione scolastica, ecc.), sia in erogazione di danaro
(trattamenti pensionistici, contributi finanziari alle imprese, ecc.).
Una definizione di pubblica amministrazione è posta a livello europeo a proposito del principio di
libera circolazione dei lavoratori. L’art. 45, comma 4, TFUE esclude l’applicazione di questa libertà
«agli impieghi nella pubblica amministrazione». Quest’ultima nozione è interpretata dalla Corte di
giustizia in modo restrittivo e prescindendo da ogni definizione nazionale. In pratica, la nozione
europea si riferisce soltanto al nucleo ristretto di incarichi e di figure professionali che partecipano in
modo diretto o indiretto all’esercizio dei poteri pubblici e alla tutela degli interessi generali dello Stato.
Così, per esempio, non hanno queste caratteristiche gli infermieri delle aziende ospedaliere, gli
insegnanti delle scuole.

4. Lo Stato

Fin dalla legge Cavour la struttura amministrativa portante dello Stato è costituita dai ministeri.
Il modello originario di ministero, al cui vertice si colloca il ministro, punto di raccordo tra
politica e amministrazione e di collegamento con il circuito politico rappresentativo, si connotava per
la sua compattezza e unitarietà, secondo il principio gerarchico. Gli uffici e le strutture operative di
ciascun ministero erano incluse in unità di livello via via superiore, fino al vertice della piramide,
costituito dal ministro responsabile dell’intera attività e centro di imputazione unitario delle
competenze rilevanti nei rapporti con i soggetti esterni.
Nel corso dei decenni, i ministeri hanno mutato fisionomia. Infatti, il loro numero è aumentato e
molte loro funzioni sono state trasferite, in base al principio di sussidiarietà verticale, alle regioni e
agli enti locali; il principio gerarchico è stato sostituito dal principio della distinzione tra politica e
amministrazione.
Il numero e l’articolazione dei ministeri hanno subito numerose modifiche.
Come già accennato, in base all’art. 95, comma 4, Cost. spetta alla legge determinare il numero, le
attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. La disciplina generale dei ministeri è contenuta nel d.lgs.
30 luglio 1999, n. 300 emanato nell’esercizio di una delega legislativa disposta dalla legge 15 marzo
1997, n. 59.
Il d.lgs. n. 300/1999 contiene l’elenco completo dei ministeri, pone una disciplina generale della
loro organizzazione centrale e periferica, specifica le attribuzioni e le principali aree funzionali dei
singoli ministeri. Ciascun ministero è disciplinato poi da un regolamento governativo che ne specifica
l’organizzazione.
Accanto ai ministeri indicati dal d.lgs. n. 300/1999 possono essere preposti a singoli uffici o
dipartimenti della presidenza del Consiglio dei ministri, i cosiddetti ministri senza portafoglio, che
non sono a capo di un dicastero e che esercitano solo funzioni delegate dal presidente del Consiglio
dei ministri.
L’organizzazione dei ministeri è di due tipi a seconda che le strutture di primo livello siano
formate da dipartimenti o da direzioni generali. Il modello dipartimentale è previsto per i ministeri
preposti a una pluralità di ambiti di intervento, mentre quello per direzioni generali riguarda ministeri
con competenze più omogenee e circoscritte.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

I dipartimenti assicurano l’esercizio organico e integrato di funzioni e «compiti finali riguardanti


grandi aree di materie omogenee». Ad essi è preposto un capo di dipartimento che coordina gli uffici
di livello dirigenziale generale afferenti al singolo dipartimento. L’incarico di capo di dipartimento è
conferito con un procedimento che coinvolge i vertici istituzionali dell’ordinamento.
I ministeri strutturati in direzioni generali possono prevedere come figura di coordinamento un
segretario generale, nominato con le stesse modalità dei capi di dipartimento, che funge da raccordo
tra ministro e i dirigenti preposti alle direzioni generali.
Alcuni compiti dei ministri possono essere delegati ai sottosegretari di Stato.
In aggiunta a quelle centrali, fanno parte dell’organizzazione di alcuni ministeri anche strutture
periferiche, di regola a livello provinciale che realizzano il cosiddetto decentramento burocratico.
La principale struttura periferica che è la Prefettura – Ufficio territoriale del governo. Istituita sin
dall’epoca cavouriana, e sull’esempio napoleonico, la prefettura costituiva «l’occhio del governo» in
sede locale. A quest’ufficio, che ha il compito di assicurare l’esercizio coordinato dell’attività
amministrativa degli uffici periferici dello Stato e la leale collaborazione con gli enti locali, è preposto
il prefetto sottoposto alle direttive del presidente del Consiglio dei ministri e dei singoli ministri.
A livello regionale, il raccordo con lo Stato è assicurato dal commissario del governo, con sede in
ciascun capoluogo regionale, che dipende funzionalmente dalla presidenza del Consiglio dei ministri.
Rispetto allo Stato, dotato di personalità giuridica, i singoli ministeri possono essere definiti come
organi. Ciò anche se ad essi è riconosciuta una legittimazione sostanziale e processuale autonoma che
assimila il loro regime a quello degli enti in senso proprio. Inoltre, ciascun ministero ha una propria
pianta organica, è titolare di fondi propri nell’ambito del bilancio dello Stato, gode di autonomia di
spesa, è assegnatario di una dotazione di beni mobili e immobili.
Afferiscono all’organizzazione dei ministeri le agenzie, definite dal d.lgs. n. 300/1999 come
strutture preposte allo svolgimento di attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale. Esse
godono di autonomia operativa, ma sono sottoposte ai poteri di indirizzo e di vigilanza di un ministro.
Dispongono di un organico e di un bilancio propri. Sono disciplinate da uno statuto approvato con
regolamento governativo. I rapporti tra direttore generale dell’agenzia e ministro sono regolati da una
convenzione che specifica gli obiettivi dell’agenzia, i risultati attesi, stabilisce l’entità dei
finanziamenti, individua le modalità di verifica dei risultati di gestione. Tra gli esempi di agenzia
disciplinati dal d.lgs. n. 300/1999 possono essere ricordate l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e
per i servizi tecnici.
Una specie particolare di agenzia è costituita dalle agenzie fiscali, cioè l’Agenzia delle entrate,
preposta alla riscossione dei tributi, l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia del territorio. A differenza delle
altre, le agenzie fiscali hanno personalità giuridica di diritto pubblico autonoma. L’Agenzia del
demanio ha natura di ente pubblico economico, atteso che ad essa spetta la gestione e la valorizzazione
di beni immobili suscettibili di essere fonte di ricavi. Alle agenzie fiscali è preposto un comitato di
gestione composto da quattro membri e dal direttore generale.
Il modello dell’agenzia, con deroghe più o meno marcate rispetto a quello generale del d.lgs. n.
300/1999, è stato utilizzato negli ultimi anni per organismi di natura e funzioni diverse, come, per
esempio, l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (ARAN).
Lo scorporo di una serie di funzioni da uno o più ministeri e l’istituzione di un’agenzia tecnica
dotata di autonomia organizzativa e operativa non costituiscono una novità assoluta. Infatti, come già
accennato nel capitolo I, alcuni ministeri già dall’inizio del secolo scorso istituirono al proprio interno
strutture, definite aziende, preposte all’esercizio di attività di erogazione di servizi pubblici. Le
aziende in questione venivano qualificate come aziende-organo, poiché erano prive di personalità
145
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

giuridica piena. Quasi tutte queste aziende furono successivamente trasformate dapprima in enti
pubblici economici e poi in società per azioni.
Le agenzie dell’ultima generazione si differenziano dal modello tradizionale delle aziende speciali
perché sono titolari soprattutto di funzioni di regolazione e amministrative in ambiti particolari,
piuttosto che di gestione di attività di tipo economico.
Un cenno specifico va fatto alle strutture afferenti alla presidenza del Consiglio dei ministri,
disciplinata dal d.lgs. n. 303/1999, che può essere assimilata solo in parte alle strutture ministeriali in
quanto dotata di autonomia e flessibilità organizzative più accentuate. Essa si compone di una serie di
dipartimenti e uffici posti alle dipendenze di un segretariato generale preposto alla gestione delle
risorse umane e strumentali.
Presso la presidenza del Consiglio dei ministri operano anche la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e la Conferenza Stato, città
e autonomie locali, che talora si riuniscono come Conferenza unificata. Le Conferenze hanno ruoli
prevalentemente di coordinamento e consultivi. Talora adottano atti vincolanti.
Alla presidenza del Consiglio dei ministri e, in particolare, al segretariato generale, afferisce, per
gli aspetti organizzativi, l’avvocatura dello Stato. Si tratta di un organo ausiliario di rango non
costituzionale che ha una duplice funzione: di consulenza generale, in taluni casi obbligatoria, e di
rappresentanza legale in giudizio delle amministrazioni statali. Essa è articolata nell’avvocatura
generale, situata a Roma, e nelle avvocature distrettuali, situate nei capoluoghi regionali ove hanno
sede le Corti d’appello. Sul piano funzionale l’avvocatura dello Stato opera in modo indipendente e a
questo fine è istituito, come organo di autogoverno, un consiglio.

5. Gli enti territoriali: i comuni, le province, le regioni

Secondo l’art. 114 Cost., la Repubblica è costituita, oltre che dallo Stato, dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane e dalle regioni, definiti come enti autonomi con propri statuti, poteri
e funzioni. La Costituzione recepisce così «un disegno di tendenziale pari dignità istituzionale a tutti i
livelli territoriali».
Lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in tema di legislazione elettorale, di organi di governo e di
funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. La Costituzione individua inoltre gli
organi fondamentali delle regioni (consiglio regionale, giunta, presidente), definendone le funzioni
principali.
I principi fondamentali per l’allocazione delle funzioni tra i vari livelli di governo sono la
sussidiarietà (verticale), la differenziazione e l’adeguatezza. È garantita inoltre autonomia finanziaria
di entrata e di spesa, inclusa l’applicazione di tributi propri.
Lo studio dell’organizzazione delle regioni e degli enti locali appartiene anzitutto al diritto
costituzionale (e, in modo più specialistico, al diritto regionale e al diritto degli enti locali).
L’assetto ordinamentale dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali non segue, il modello per così
dire a cascata, che si ha qualora lo Stato si relaziona esclusivamente con le regioni e queste ultime, a
loro volta, con gli enti locali. Piuttosto, il modello recepito anche dalla Costituzione è quello per così
dire triangolare, visto che anche i comuni intrattengono rapporti istituzionali diretti con lo Stato, non
mediati dalle regioni. I comuni, che avevano un legame diretto soprattutto con il ministero
dell’Interno, continuano in molti casi a preferire un’interazione con lo Stato. A questo fine i comuni
hanno dato origine all’Associazione nazionale dei comuni italiani.
Dal punto di vista del diritto amministrativo, gli enti locali e le regioni rilevano soprattutto perché
costituiscono una particolare categoria di enti pubblici.
146
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Si tratta in primo luogo di enti necessari, nel senso che essi sono istituiti obbligatoriamente in
tutto il territorio nazionale. In secondo luogo, sono enti ad appartenenza necessaria, poiché ogni
cittadino, in base al criterio della residenza, trova un riferimento stabile in ciascuno di essi. In terzo
luogo, sono enti a competenza generale, perché possono curare gli interessi della popolazione di
riferimento con una certa libertà, in base agli indirizzi politici espressi dal corpo elettorale locale e agli
indirizzi politico-amministrativi dell’organo consiliare.
In quarto luogo, si tratta di enti inseriti integralmente nell’ordinamento amministrativo poiché
tutti i loro atti normativi (regolamenti) e non normativi sono sempre e necessariamente atti
formalmente amministrativi. La sola eccezione è costituita dalle leggi regionali, per le quali vige il
regime proprio degli atti legislativi.
Conviene soffermarsi più da vicino sull’ordinamento degli enti locali, oggi disciplinato
principalmente dal Testo unico approvato con d.lgs. n. 267/2000.
I comuni sono oggi circa 8.000. Le province (circa un centinaio) sono un ente intermedio tra i
comuni e le regioni.
Sotto il profilo storico-istituzionale, la disciplina degli enti locali risale all’epoca dell’unificazione
nazionale. Uno dei primi interventi di riassetto fu la legge comunale e provinciale (legge 20 marzo
1865, n. 2248). I comuni e le province vennero disciplinati secondo il principio, anch’esso di
derivazione francese, dell’uniformità giuridica. Vennero sottoposti a controlli di legittimità e di merito
penetranti da parte dello Stato.
In epoca fascista i comuni e le province vennero privati di rappresentatività politica con la
soppressione dei consigli elettivi e vennero ricondotti a mere articolazioni dello Stato. Ai segretari
comunali e provinciali, organi di vertice degli apparati amministrativi degli enti locali, venne attribuita
la qualifica di funzionari dello Stato.
La Costituzione definisce gli enti locali come autonomi, «nell’ambito dei principi fissati da leggi
generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni», cioè nei limiti stabiliti dallo Stato.

1. Passando a trattare in modo più specifico l’assetto dei comuni, il Testo unico vigente definisce
il comune come l’ente locale che rappresenta la comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo
sviluppo. Il carattere di ente a finalità generali discende dal principio secondo il quale spettano al
comune «tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione
del territorio e dello sviluppo economico».
Più concretamente, le funzioni dei comuni sono conferite nelle varie materie con legge statale o
con legge regionale. Una peculiarità è che i comuni esercitano anche alcune funzioni propriamente
statali (anagrafe, stato civile, servizi elettorali). In relazione ad esse al sindaco è attribuita la qualifica
di ufficiale di governo.
L’autonomia dei comuni si manifesta anzitutto nella potestà statutaria, ora riconosciuta anche
dalla Costituzione. Lo statuto, approvato dal consiglio comunale a maggioranza qualificata, stabilisce
le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e in particolare specifica le attribuzioni degli
organi, le forme di collaborazione tra comuni e province, la partecipazione popolare, l’accesso dei
cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi. In aggiunta al contenuto vincolato, lo
statuto può avere un contenuto facoltativo.
Ai comuni è riconosciuta anche un’ampia autonomia regolamentare nelle materie di propria
competenza e in particolare per ciò che riguarda l’organizzazione e il funzionamento degli organi e
degli uffici e per l’esercizio delle funzioni.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Tra le funzioni dei comuni rientrano i servizi alla persona e alla comunità, la polizia locale,
l’assetto e l’utilizzazione del territorio, le infrastrutture, i trasporti e la circolazione stradale,
l’ambiente, lo sviluppo economico, i servizi pubblici locali.
Sotto il profilo organizzativo, gli organi di governo del comune sono il consiglio, la giunta e il
sindaco.
Il consiglio comunale è composto da un numero variabile di consiglieri (in funzione del numero
di abitanti del comune) eletti con un sistema proporzionale. È stato superato il modello assembleare
che attribuiva all’organo elettivo molte competenze di amministrazione attiva trasformandolo in un
organo prevalentemente di indirizzo e di controllo politico-amministrativo con competenze tassative
limitate a un elenco di atti fondamentali.
Il sindaco è eletto direttamente dal corpo elettorale per non più di due mandati quinquennali. È
titolare della gran parte dei poteri comunali. È infatti organo responsabile dell’amministrazione
comunale, rappresenta l’ente, nomina e revoca gli assessori che compongono la giunta, convoca e
presiede quest’ultima. Come si è accennato, ha la qualifica di ufficiale del governo, in relazione alle
funzioni statali delegate.
La giunta è composta dal sindaco e da un numero variabile di assessori nominati da quest’ultimo
anche al di fuori dei componenti del consiglio. La giunta collabora con il sindaco ed è titolare, oltre
che di una serie di competenze individuate dalla legge, dallo statuto o dai regolamenti, di tutte le
competenze non attribuite espressamente al consiglio e al sindaco.
Accanto agli organi di governo, in tutti i comuni è istituita la figura del segretario comunale con
compiti di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa in ordine alla conformità
dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai regolamenti. In particolare, il segretario
sovrintende e coordina i dirigenti.
A partire dal 1997, i segretari comunali sono stati affrancati dalla dipendenza ministeriale e
afferiscono a un’agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali. A
questo albo attinge il sindaco per la nomina del segretario.
Il direttore generale è una figura introdotta negli anni Novanta del secolo scorso. Il direttore
generale è previsto solo per comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, è nominato con
delibera della giunta ed è assunto con contratto a tempo indeterminato al di fuori della pianta organica.
Funge da raccordo tra gli organi di governo dell’ente e la dirigenza. I dirigenti, ad eccezione del
segretario comunale, rispondono al direttore generale.
I dirigenti degli enti locali sono preposti agli uffici e ai servizi e sono responsabili della gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica, con autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo. Hanno la competenza ad adottare tutti gli atti e i provvedimenti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno, esclusi quelli espressamente riservati ad altri organi.
Agli organi di governo del comune spettano invece solo poteri di indirizzo e di controllo politico-
amministrativo. I dirigenti sono nominati dal sindaco e assegnati ai vari incarichi secondo criteri di
competenza e professionalità. Possono essere revocati dall’incarico per inosservanza delle direttive del
sindaco o in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano esecutivo di gestione.
Prima della legge costituzionale n. 3/2001 il sistema dei controlli sugli enti locali prevedeva che
gli atti amministrativi dei comuni fossero sottoposti al controllo preventivo di legittimità da parte dei
comitati regionali di controllo. Esso è stato sostituito con un sistema che privilegia i controlli interni,
quelli cioè di regolarità amministrativa e contabile, il controllo di gestione, di controllo strategico.
A quest’ultimo tipo di controlli si aggiunge quello della Corte dei conti, sotto forma di controllo
successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio volto a verificare la legittimità e la regolarità
delle gestioni, il funzionamento corretto dei controlli interni e la rispondenza dei risultati dell’attività
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

amministrativa rispetto agli obiettivi. Esso include anche la verifica del rispetto dei vincoli del Patto di
stabilità interno.
I consigli comunali possono essere sciolti con decreto del presidente della Repubblica, su proposta
del ministero dell’Interno, in una serie di casi tassativi, per esempio in seguito al compimento di atti
contrari alla Costituzione, per gravi e persistenti violazioni di legge, per gravi motivi di ordine
pubblico, per impossibilità di assicurare il normale funzionamento degli organi e dei servizi.
Per favorire la cooperazione tra comuni, il Testo unico prevede le convenzioni aventi per oggetto
l’esercizio coordinato di funzioni e servizi; i consorzi, istituti per l’esercizio associato di funzioni e
amministrati da un’assemblea rappresentativa degli enti associati e da un consiglio di
amministrazione; le unioni di comuni per l’esercizio in comune di una pluralità di funzioni. Si tratta di
strumenti, potenziati e resi obbligatori da norme recenti, volti a risolvere almeno in parte le disfunzioni
derivanti dalla frammentazione eccessiva dei comuni.
Un particolare tipo di unioni di comuni è costituito dalle comunità montane che possono essere
istituite fra comuni appartenenti anche a province diverse per la valorizzazione delle zone montane.
La cooperazione anche con altri livelli di governo può essere attuata con gli accordi di programma
promossi dal sindaco per la realizzazione di opere e interventi che richiedono l’azione integrata di una
pluralità di enti locali, regioni e amministrazioni statali.

2. Passando a considerare l’ordinamento delle province, enti intermedi tra i comuni e le regioni,
è sufficiente limitarsi a pochi cenni, atteso che il Testo unico applica ad esse gran parte delle
disposizioni previste per i comuni.
Esse sono titolari di funzioni amministrative limitate a pochi ambiti e svolgono soprattutto
funzioni di programmazione. In particolare le province esercitano le funzioni di pianificazione
territoriale provinciale di coordinamento, nonché di tutela e di valorizzazione dell’ambiente; di
pianificazione dei servizi di trasporto; di programmazione provinciale della rete scolastica. Il sistema
programmatorio comporta, di regola, che le funzioni provinciali si attengano alla programmazione di
livello superiore di livello regionale.
Alle funzioni richiamate se ne aggiungono alcune più concrete e di gestione: autorizzazione e
controllo in materia di trasporto privato; costruzione e gestione delle strade provinciali; raccolta ed
elaborazione di dati. Oltre alle funzioni fondamentali stabilite dalla legge, lo Stato e le regioni,
secondo le rispettive competenze, possono delegare alle province ulteriori funzioni, in attuazione
dell’art. 118 Cost. Per una serie di funzioni attribuite alle province è stato previsto il trasferimento ad
altri enti territoriali.
Gli organi di governo delle province, analogamente a quelli dei comuni, sono costituiti
dall’assemblea dei sindaci, che ha poteri propositivi, consultivi e di controllo, dal consiglio
provinciale, che è l’organo di indirizzo politico-amministrativo, e dal presidente della provincia.
Il territorio delle province funge in molti casi, anche da perimetro delle competenze esercitate
dagli uffici periferici delle amministrazioni statali.

Infine, le città metropolitane sono menzionate dalla Costituzione e trovano una disciplina nel
Testo unico degli enti locali. Esse assorbono le funzioni della provincia in aree caratterizzate dalla
presenza dei comuni italiani più popolosi uniti a contiguità territoriale e con rapporti di stretta
integrazione in ordine all’attività economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali e alle
relazioni sociali e culturali. La loro istituzione è stata disposta in concreto in parallelo al processo di
riforma delle province. Sono organi della città metropolitana il sindaco metropolitano, il consiglio
metropolitano, che è l’organo di indirizzo e controllo, e la conferenza metropolitana, che ha poteri
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

propositivi e consultivi, nonché il potere di approvare lo statuto. Sono state individuate come città
metropolitane Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.
Oltre alle funzioni fondamentali delle province, le città metropolitane esercitano ulteriori funzioni
stabilite direttamente dalla legge e che sono necessarie per gestire le grandi conurbazioni anche al fine
di promuoverne lo sviluppo economico: adozione di un piano strategico triennale del territorio
metropolitano; pianificazione territoriale generale; strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei
servizi pubblici; promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale. Lo Stato e le
regioni, ciascuno per le proprie competenze, possono attribuire ulteriori funzioni alle città
metropolitane in attuazione dei principi di sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza di cui
all’art. 118 Cost.

3. Pochi cenni sono sufficienti anche per l’organizzazione delle regioni. La Costituzione
individua come organi di governo il consiglio regionale, la giunta, il presidente, quest’ultimo eletto
direttamente dalla popolazione. Le regioni possono disciplinare con legge regionale il sistema di
elezione, sia pur nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge statale, e individuare nello
statuto la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento.
Con la riforma costituzionale del 2001, è venuto meno il principio del parallelismo e il riparto
delle funzioni amministrative tra i vari livelli di governo è stato reimpostato in base ai principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Inoltre, anche per le regioni è stato soppresso il controllo
governativo incentrato sulla figura del commissario del governo presso la regione con poteri di
intervento sia sugli atti legislativi sia sugli atti amministrativi delle regioni. È stata invece mantenuta
solo una figura istituzionale di raccordo costituita dal rappresentante del governo presso le autonomie.
Un controllo sugli organi di governo regionale è previsto direttamente dalla Costituzione. Infatti,
l’art. 126, comma 1 Cost. prevede che con decreto motivato del presidente della Repubblica possa
essere sciolto il consiglio regionale e rimosso il presidente della giunta per atti contrari alla
Costituzione, per gravi violazioni di legge, o per motivi di sicurezza nazionale. Di recente, sono stati
rafforzati i poteri di controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria degli organi regionali.
In base all’art. 120, comma 2 Cost., il governo è titolare di un potere sostitutivo nei confronti di
organi delle regioni, ma anche degli enti locali, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza
pubblica o quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica dell’ordinamento. Si è già sottolineato
inoltre che il governo può annullare d’ufficio gli atti amministrativi di tutte le amministrazioni
pubbliche, inclusi gli enti territoriali, a tutela dell’unità dell’ordinamento.

6. Gli enti pubblici

A partire dall’inizio del XX secolo vennero istituiti numerosi enti pubblici, diversi per struttura,
funzioni, e ambiti di autonomia. La «fuga dallo Stato», dettata dall’esigenza di superare le rigidità
delle strutture ministeriali, diede origine a quella che venne definita l’«amministrazione parallela».
1. Una prima distinzione è tra enti pubblici disciplinati da leggi generali ed enti pubblici di
tipo singolare, istituiti con una legge ad hoc. Tra i primi rientrano, per esempio, le camere di
commercio, industria e artigianato, le aziende sanitarie locali, le università.
Tra gli enti a statuto singolare rientrano, per esempio, l’Ente nazionale di assistenza al volo
(ENAC), il Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT). Le
leggi istitutive di singoli enti ne configurano le funzioni e l’organizzazione.
In generale, nel nostro ordinamento vige un principio di atipicità degli enti pubblici.
150
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

2. Una seconda distinzione è tra enti pubblici nazionali e regionali, a seconda che si tratti di
enti istituiti a livello statale o inseriti nell’ambito dell’ordinamento regionale. Sono, per esempio, enti
dipendenti dalla regione le aziende sanitarie locali che costituiscono l’unità organizzativa di base del
Sistema sanitario nazionale.
3. Un’altra distinzione è tra enti di tipo associativo e non associativo. I primi sono enti
esponenziali di categorie o di gruppi (gli ordini e collegi professionali, le camere di commercio). In
molti di essi sono previsti organi di tipo rappresentativo. Gli enti non associativi hanno natura
patrimoniale e sono gestiti generalmente da un consiglio di amministrazione con componenti
nominati, a seconda dei casi, da ministeri ed enti di riferimento individuati dalla legge o dallo statuto.
4. Un’ulteriore distinzione è tra enti pubblici non economici ed economici. La legge 20 marzo
1975, n. 70 di riordino dei cosiddetti enti parastatali e più di recente il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165
(art. 1, comma 2) in materia di pubblico impiego escludono espressamente dal proprio campo di
applicazione gli enti pubblici economici. La l. n. 70/1975, in una tabella allegata, elenca una serie di
enti pubblici non economici distinti per categorie omogenee.
In termini generali gli enti pubblici non economici si connotano anzitutto per essere istituiti per
realizzare uno scopo specifico e in questo si differenziano dagli enti territoriali (specie i comuni) che,
come si è accennato, hanno una vocazione generale. Inoltre, sono sottoposti a poteri di vigilanza e di
indirizzo più o meno penetranti da parte dei ministeri o delle regioni. Le risorse finanziarie di cui
dispongono provengono in modo diretto o indiretto da fonti erariali, e pertanto, non operano nel
mercato. Infine, esercitano la propria attività prevalentemente con moduli autoritativi (cioè con atti
amministrativi).
Gli enti pubblici economici hanno come particolarità che, mentre la loro organizzazione segue
moduli pubblicistici, la loro attività ha natura imprenditoriale ed è retta dal diritto privato (tramite atti
negoziali). Inoltre, ai dipendenti di questi enti non si applica la disciplina generale dei dipendenti
pubblici. Tuttavia, poiché la loro istituzione si giustifica comunque per il perseguimento di finalità
pubblicistiche, anch’essi sono sottoposti a poteri di indirizzo e di controllo (anche attraverso la nomina
dei componenti degli organi amministrativi) da parte dei ministeri e di altri soggetti pubblici.
In passato, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso nell’epoca di maggior
espansione dello Stato imprenditore, questa categoria annoverava i grandi gestori di servizi pubblici
nazionali (Ferrovie dello Stato, ENEL, Poste italiane, Istituto nazionale delle assicurazioni), gran parte
del sistema bancario (casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico), gli enti di gestione delle
partecipazioni statali (IRI, ENI). In seguito ai processi di liberalizzazione e di privatizzazione ai quali
si è fatto più volte cenno, quasi tutti gli enti pubblici economici sono stati o soppressi o trasformati in
società per azioni.
Anche alcune categorie di enti pubblici non economici in anni recenti sono state privatizzate pur
mantenendo funzioni di tipo pubblicistico. Così, in particolare le istituzioni di assistenza e
beneficienza hanno riacquistato la loro natura privatistica. Ciò in seguito a una sentenza della Corte
Costituzionale che ha ritenuto incostituzionale l’attrazione nell’orbita dei poteri pubblici di organismi
di tipo associativo o fondazionale di antica tradizione promossi da soggetti privati. Questa pronuncia è
importante perché, in attuazione dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali, impone al legislatore
ordinario limiti costituzionali alla pubblicizzazione di soggetti privati.
Simile è la vicenda delle fondazioni bancarie, istituite in seguito al processo di privatizzazione
delle banche pubbliche (ad opera della cosiddetta legge Amato 30 luglio 1990, n. 218). Queste ultime
furono trasformate in società per azioni e i loro pacchetti azionari vennero attribuiti appunto alle
fondazioni bancarie che la legge qualificò come enti pubblici. La loro finalità principale consiste nel
finanziare o gestire iniziative nel campo del non profit. In seguito a due sentenze della Corte
151
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Costituzionale, alle fondazioni bancarie è stata riconosciuta la natura privata e un’ampia autonomia.
La Corte ha pertanto dichiarato incostituzionali le disposizioni della l. n. 218/1990 che attribuivano
loro natura pubblicistica.
Per scelta legislativa alcuni enti pubblici non economici, come, per esempio, la Croce rossa
italiana e gli enti lirici, sono stati trasformati in enti non profit di natura privata (fondazioni). Essi
possono continuare a svolgere i compiti e le funzioni pubbliche sulla base di concessioni o
convenzioni con le autorità ministeriali competenti. Anche molti enti previdenziali alimentati da
contribuzioni obbligatorie a carico degli appartenenti a categorie professionali (notai, commercialisti)
sono stati trasformati in associazioni e fondazioni di natura privata. È invalsa nell’uso, in proposito,
l’espressione «enti privati di interesse pubblico».
Un ultimo tema da considerare è la distinzione tra enti pubblici ed enti privati. In proposito, si è
dubitato dell’utilità non solo di ricostruire una nozione unitaria di ente pubblico, ma anche di
individuare i tratti distintivi dell’ente pubblico rispetto all’ente privato. La giurisprudenza più recente,
come si è accennato, ha precisato che si tratta di una «nozione funzionale e cangiante» tale da
escludere che il riconoscimento a un determinato ente della natura pubblica implica automaticamente
l’applicazione integrale della disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione.
La distinzione tra ente pubblico ed ente privato, che ha affannato la dottrina soprattutto verso la
metà del secolo scorso, non può essere trascurata del tutto.
Essa ha acquisito nuova rilevanza in relazione a una tendenza giurisprudenziale recente che tende
a qualificare come enti pubblici anche talune società per azioni a partecipazione pubblica, soprattutto
al fine di stabilire se gli atti da esse emanati ricadano nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Ciò è accaduto per società che svolgono attività di rilevante interesse pubblico, istituite e disciplinate
da leggi speciali. Queste ultime sono legate alle strutture ministeriali da rapporti di dipendenza così
stretti da attrarle nell’orbita pubblicistica, nonostante la veste formale privatistica (Poste italiane s.p.a.,
Gestore dei servizi elettrici, ecc.).
Per risolvere le questioni relative alla qualificazione pubblica o privata di un ente, è stata elaborata
la teoria degli indici della pubblicità. In assenza di un criterio univoco, si ricorre a un metodo
induttivo che pone l’accento su una pluralità di caratteristiche, nessuna delle quali, presa
singolarmente, appare risolutiva.
Tra i vari indici o sintomi della pubblicità possono essere richiamati i seguenti: l’istituzione per
legge; il fine pubblico che l’ente deve perseguire; il rapporto di strumentalità con lo Stato o un ente
territoriale, in ragione del quale l’ente è sottoposto a poteri di indirizzo e di controllo; l’attribuzione
per legge di poteri pubblicistici; il finanziamento a carico dell’erario; il carattere necessario dell’ente.
Questi indici coincidono in gran parte con quelli individuati a conclusione del paragrafo 3 per
individuare, più in generale, i tratti caratterizzanti delle pubbliche amministrazioni.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

7. Le autorità indipendenti

Le autorità amministrative indipendenti (o anche autorità indipendenti) costituiscono una


tipologia di enti pubblici che ha avuto diffusione soprattutto a partire dagli anni Novanta del secolo
scorso, con l’affermarsi dello Stato regolatore.
Le autorità indipendenti si connotano, oltre che per un elevato tasso di tecnicità e di
professionalità, per un marcato grado di indipendenza dal potere esecutivo.
L’indipendenza è garantita anche nei confronti degli interessi privati, contro il rischio della
«cattura» del regolatore da parte dei regolati, spesso organizzati in lobby con capacità di influenza
notevoli.
Per inquadrare il modello delle autorità indipendenti conviene soffermarsi su quattro aspetti: le
ragioni dell’indipendenza, gli strumenti per garantirla, i tratti più caratteristici del loro regime,
le categorie principali.
1. Una prima ragione dell’indipendenza si riallaccia al dibattito politico-costituzionale sui
cosiddetti poteri neutri, concepiti come elementi temperanti e moderatori all’interno dei sistemi
politici nei quali prevalgono le contrapposizioni politiche e le fazioni.
La tesi è che non tutti gli apparati pubblici devono mantenere un collegamento stretto con il
circuito politico rappresentativo che risente spesso di logiche di breve periodo legate ai cicli elettorali.
Isolare la regolazione di settore dalle influenze ondivaghe della politica e dalla pressione degli
interessi privati assicura inoltre maggior stabilità e coerenza alle regole che disciplinano i singoli
mercati.
Una seconda ragione si riallaccia all’esigenza di garanzie rafforzate per taluni valori
costituzionali nei settori cosiddetti sensibili (pluralismo dell’informazione, privacy, ecc.). Alcune
autorità indipendenti hanno anche un fondamento nei Trattati UE (Sistema europeo delle banche
centrali, garanti della privacy) e nel diritto derivato (regolamenti, direttive).
L’indipendenza si giustifica in terzo luogo per la necessità di prevenire conflitti di interessi tra
Stato regolatore, che deve fungere da arbitro neutrale tra le imprese concorrenti, e Stato imprenditore,
proprietario di imprese pubbliche, che ha invece interesse a favorire il loro sviluppo anche a scapito di
quelle concorrenti. Così, per esempio, nel 2001 la Commissione UE censurò la legislazione francese in
materia di servizi postali che assegnava al ministero delle Poste la competenza a vigilare sulla corretta
applicazione delle tariffe praticate dalla propria impresa controllata alle imprese private concorrenti di
quest’ultima.
2. Gli strumenti che tendono a garantire l’indipendenza si desumono dalle leggi istitutive delle
singole autorità.
In primo luogo, le autorità indipendenti intrattengono un legame istituzionale privilegiato con il
parlamento piuttosto che con il governo. Al governo è precluso ogni potere di direttiva e di indirizzo.
La nomina dei componenti dell’organo collegiale delle autorità è attribuita ai presidenti dei due rami
del parlamento o comunque prevede un parere vincolante adottato a maggioranza qualificata dalle
commissioni parlamentari competenti. Le autorità svolgono un ruolo attivo di consulenza nei confronti
del parlamento attraverso il potere di segnalazione e di proposta finalizzato a sollecitare gli interventi
legislativi ritenuti necessari nelle materie di competenza. Le autorità inviano infine al parlamento una
relazione annuale.
Un secondo presidio deriva dalla disciplina degli organi. Anzitutto il carattere collegiale assicura
una minor influenzabilità delle decisioni. In secondo luogo, i componenti sono scelti in base a requisiti
di professionalità, competenza e di indipendenza. In terzo luogo, la durata in carica dell’organo è
particolarmente lunga (in genere sette anni) e ciò garantisce un disallineamento rispetto al ciclo
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

elettorale (cinque anni) e dunque un distacco maggiore dagli equilibri politici del momento. A ciò si
aggiunge la regola secondo la quale i componenti dell’organo non possono essere confermati per un
secondo mandato e ciò li rende meno influenzabili, perché immuni dalla tentazione di esercitare i
poteri in modo compiacente, cioè nella speranza di essere rinnovati nell’incarico. Infine, per i
componenti di alcune autorità scattano incompatibilità successive, sotto forma di divieto di assumere
incarichi da parte delle imprese regolate per un certo numero di anni dalla fine del mandato.
Un terzo presidio è dato dall’ampia autonomia, organizzativa, funzionale e finanziaria delle
autorità. Le leggi istitutive prevedono che esse operino «in piena autonomia e con indipendenza di
giudizio e di valutazione». Esse possono inoltre modellare le proprie strutture interne con regolamenti
di organizzazione. Possono dotarsi del personale di cui necessitano, entro i limiti numerici della pianta
organica stabilita dalle leggi, sulla base di concorsi gestiti autonomamente. Alcune di esse sono
autosufficienti sotto il profilo finanziario, in quanto hanno il potere di richiedere alle imprese regolate
contributi per le spese di funzionamento.
Un quarto presidio è l’inserimento in un circuito di autorità nazionali che fa capo a un
regolatore europeo previsto nei Trattati o nel diritto derivato.
3. Passando a considerare i tratti più caratteristici del regime delle autorità indipendenti , il primo
è che esse derogano, entro certi limiti, al principio della separazione dei poteri. Assommano
infatti poteri di regolazione, poteri amministrativi puntuali esercitabili in applicazione delle regole da
esse stesse poste (per esempio una sanzione irrogata per violazione di un atto di regolazione emanato
dall’autorità) e poteri di risoluzione in via stragiudiziale di controversie.
L’attribuzione di poteri di regolazione molto estesi è resa necessaria in considerazione della già
segnalata crisi della legge come strumento di disciplina di attività soggette a rapidi mutamenti
tecnologici e di mercato e di complessità tecnica elevata. Alla delega di poteri quasi «in bianco» da
parte del parlamento, corrisponde un’amplissima potestà normativa secondaria.
Le autorità sono dotate inoltre di poteri amministrativi (prescrittivi, autorizzatori, sanzionatori) che
hanno per destinatarie singole imprese. Essi presuppongono valutazioni tecniche effettuate in base a
parametri elastici.
Infine, le autorità indipendenti svolgono funzioni di tipo giudiziale. I consumatori o gli utenti
possono infatti proporre reclami e attivare altre forme di risoluzione delle controversie alternative alla
giurisdizione (ADR, alternative dispute resolutions) nei confronti delle imprese regolate.
Un secondo tratto distintivo è che esse esercitano i loro ampi poteri in forme
paragiurisdizionali, espressione controversa che denota una certa assimilazione con il modo di
operare degli organi giurisdizionali. Le leggi istitutive prevedono infatti, come si è già accennato,
garanzie del contraddittorio rinforzate, cioè eccedenti la soglia minima posta dalla l. n. 241/1990. Ciò
vale anzitutto per i procedimenti di tipo individuale, per i quali sono previsti in molti casi la
verbalizzazione, il contraddittorio orale e, per alcune autorità di esse persino la separazione tra
funzioni istruttorie e funzioni decisorie, a garanzia di una maggiore terzietà del decisore. Anche per i
procedimenti di regolazione è ormai generalizzato il modello partecipativo, già menzionato, del notice
and comment, cioè la pubblicazione della proposta di atto di regolazione con la previsione di un
termine entro il quale gli interessati possono presentare le proprie osservazioni.
Le garanzie del contraddittorio costituiscono per le autorità indipendenti un fattore di
legittimazione (la cosiddetta democrazia procedurale) atto a bilanciare, sia pur in modo imperfetto, la
mancanza di un collegamento diretto delle autorità al circuito politico-rappresentativo (democrazia
rappresentativa).
4. Le autorità indipendenti possono essere suddivise in tre categorie.

154
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

a) Le autorità di tipo generalista esercitano i loro poteri nei confronti di tutte le imprese o di
altri soggetti pubblici o privati. Le due principali sono l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato e il Garante per la protezione dei dati personali.
Le funzioni principali dell’Autorità antitrust, che hanno un aggancio costituzionale nell’art. 41
Cost. (richiamato dall’art. 1 l. n. 287/1990), sono quelle relative all’applicazione della disciplina della
concorrenza (intese restrittive, abuso di posizione dominante, controllo sulle operazioni di
concentrazione) nei confronti delle imprese, private ma anche pubbliche, operanti in tutti i mercati (la
funzione di tutela della concorrenza).
L’Autorità è investita di poteri di accertamento e di repressione delle violazioni (adjudication).
Essi sono esercitati dall’Autorità di propria iniziativa o su denuncia dei soggetti interessati, e si
sostanziano nella emanazione di provvedimenti inibitori (diffide), ordinatori e sanzionatori. I suoi atti
sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo.
I poteri dell’Autorità sono in gran parte riferiti a comportamenti illeciti già posti in essere dalle
imprese. Ciò a differenza delle autorità di settore alle quali invece la legge attribuisce anche poteri di
regolazione ex ante, cioè volti a condizionare i comportamenti delle imprese vigilate.
L’Autorità è titolare anche di poteri di advocacy, cioè di segnalazione al parlamento e al governo
di distorsioni della concorrenza causate da leggi, regolamenti o atti amministrativi generali e di
emanazione, di propria iniziativa, di pareri sulle misure necessarie per rimuoverle o prevenirle.
Nel corso degli anni, il legislatore ha esteso il campo d’azione dell’Autorità. In primo luogo, le
sono state attribuite funzioni di tutela dei consumatori in relazione alle pratiche commerciali scorrette
con potere di inibire, sospendere e sanzionare tali pratiche. In secondo luogo, le sono stati attribuiti
poteri di verifica dei conflitti di interessi relativi ai titolari di cariche di governo.
In materia di tutela, l’Autorità ha acquisito nuovi strumenti di azione: poteri di tipo cautelare (cioè
di intervento immediato nel caso di urgenza); la facoltà di concludere i procedimenti volti ad accertare
illeciti della concorrenza, anziché con una sanzione, con impegni assunti dall’impresa inquisita volti a
ripristinare e a garantire per il futuro condizioni di mercato concorrenziale; i cosiddetti programmi di
clemenza volti a favorire le denunce anche anonime di imprese aderenti a un cartello in cambio di una
esenzione o riduzione delle sanzioni a carico del denunciane.
All’Autorità è stato attribuito anche il potere di impugnare innanzi al giudice amministrativo tutti i
provvedimenti generali e individuali assunti in violazione delle norme a tutela della concorrenza.
Il Garante per la protezione dei dati personali, istituito nel 1996 in attuazione della direttiva
1995/46/CE, è preposto all’applicazione del Codice in materia di protezione dei dati personali.
Il Garante è titolare di poteri normativi e di poteri amministrativi molto estesi. I primi consistono
principalmente nella facoltà di emanare linee guida che indicano le misure organizzative e tecniche di
attuazione dei principi del Regolamento europeo. Inoltre, il Garante promuove l’adozione di codici di
deontologia da parte di varie categorie di operatori chiamati a confrontarsi con questioni relative alla
privacy (per esempio, i giornalisti o gli operatori sanitari).
I poteri amministrativi individuali includono, esemplificativamente, il potere di ordinare la
rettifica, la cancellazione di dati personali o la limitazione del trattamento dei dati; di irrogare sanzioni
amministrative.
Il Garante è anche titolare di poteri di indagine.
Il Garante ha anche compiti di consulenza alle istituzioni e di promozione della consapevolezza e
della comprensione nel pubblico in materia di privacy.
Il Garante gestisce un sistema di reclami proposti da chi si ritiene leso in un proprio diritto,
sistema che si pone in alternativa all’azione innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. Contro la

155
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

decisione sul reclamo è esperibile un’azione innanzi a quest’ultima. Il Garante costituisce in definitiva
l’esempio forse più significativo di tutela amministrativa dei diritti soggettivi.
b) Passando a considerare le autorità di tipo settoriale, può essere sufficiente menzionare le
autorità preposte alla vigilanza e alla regolazione dei mercati finanziari (Banca d’Italia,
CONSOB, IVASS). Esse trovano una disciplina minima unitaria nella cosiddetta legge sul risparmio.
L’esigenza di istituire autorità di regolazione in questi settori discende dalla presenza di alcuni
«fallimenti di mercato». Il rapporto tra i risparmiatori e le imprese che offrono varie forme di
investimento è affetto da «asimmetrie informative». I primi non sono spesso in grado di valutare né il
rischio delle operazioni proposte, né la solvibilità delle imprese cui si rivolgono. Da qui, la necessità di
una regolazione pubblica.
La Banca d’Italia, istituita in forma privatistica a fine Ottocento, acquisì progressivamente i
caratteri di istituzione pubblica (consolidati dalla legge bancaria del 1936) con due tipi di funzioni: di
banca centrale preposta al governo della moneta ai fini di garantirne la stabilità; di autorità di vigilanza
sugli istituti di credito al fine di garantirne la solvibilità.
La prima funzione è oggi attratta a livello europeo nel Sistema europeo delle banche centrali
(SEBC). Al SEBC il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea devolve le funzioni di definire e
attuare la politica monetaria con l’obiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi e con il potere
in via esclusiva di autorizzare l’emissione di banconote all’interno della Comunità e di definire e
attuare la politica monetaria della Comunità. Alla Banca centrale europea, così come alle banche
centrali nazionali, il Trattato garantisce l’indipendenza dai governi nazionali che non possono
impartire istruzioni o influenzare altrimenti le loro decisioni.
La seconda funzione è disciplinata oggi dal Testo unico delle leggi bancarie e creditizie (d.lgs. 1°
settembre 1993, n. 385) e da un corpo di norme europee. Il Testo unico attribuisce alla Banca d’Italia
un’amplia gamma di poteri: normativi, volti a disciplinare l’attività delle banche sotto il profilo, per
esempio, dell’adeguatezza del patrimonio, del contenimento dei rischi; amministrativi come, per
esempio, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria o all’acquisto di partecipazioni in banche;
ispettivi; prescrittivi, come il divieto di distribuire utili o di effettuare particolari operazioni;
sanzionatori. Nell’esercizio di questa funzione la Banca d’Italia agisce in modo integrato e sotto la
supervisione della European Banking Authority operante dal 2010 e soprattutto della Banca centrale
europea.
La CONSOB, istituita dalla legge 7 giugno 1974, n. 216, svolge funzioni di vigilanza e di
regolazione e di controllo sulla trasparenza e correttezza dei comportamenti degli intermediari, sui
mercati e sui prodotti finanziari. Ha subito nel corso degli anni una metamorfosi verso il modello
dell’autorità indipendente e ha visto accrescere i propri poteri ora disciplinati in gran parte dal Testo
unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF).
Anche la CONSOB è titolare di poteri normativi e amministrativi molto estesi. Questi ultimi
includono anche forme di soft law e di moral suasion e la cosiddetta audited self regulation, relativa ai
mercati di strumenti finanziari organizzati da società di gestione private.
La CONSOB opera in coordinamento stretto con le autorità finanziarie dei Paesi europei e in
particolare partecipa attivamente ai processi di regolazione comunitaria del CERS e del ESC, del quale
fanno parte rappresentanti dei ministeri delle Finanze.
L’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) è sorto nel 2012 in seguito alla
riconfigurazione dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo. Una
peculiarità è che l’IVASS è presieduto dal direttore generale della Banca d’Italia e ha come organo di
indirizzo il direttorio della Banca d’Italia integrato con i due componenti del consiglio dell’istituto

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

esperti in materia assicurativa e previdenziale. Questa soluzione mira a rendere sinergiche la vigilanza
assicurativa e la vigilanza bancaria nei confronti di gruppi di imprese operanti su entrambi i mercati.
c) Le autorità preposte alla regolazione dei servizi pubblici.

8. Le società a partecipazione pubblica

Storicamente il fenomeno delle società a partecipazione pubblica è legato a tre cause principali:
l’affermarsi dello Stato imprenditore soprattutto a partire dagli anni Trenta del secolo scorso; la
privatizzazione formale degli enti pubblici negli anni Novanta del secolo scorso; la
esternalizzazione di attività svolte da apparati amministrativi.
1. Quanto alla prima causa, lo Stato acquisì i caratteri di Stato imprenditore attraverso la
costituzione o l’acquisizione di imprese anche in settori deregolamentati e aperti alla concorrenza
(automobili, cantieristica). L’espansione dello Stato imprenditore, che ebbe il suo apice negli anni
Sessanta-Settanta del secolo scorso, si giustificò spesso con l’obiettivo di salvare aziende private in
crisi, tutelando i livelli occupazionali, e di promuovere politiche di programmazione economica e di
sostegno delle aree meno sviluppate del Paese.
Nel secondo dopoguerra le imprese pubbliche vennero inserite nel sistema delle partecipazioni
statali organizzato in modo piramidale. Al vertice si ponevano due comitati interministeriali (Comitato
interministeriale per la programmazione economica – CIPE – e Comitato interministeriale per la
politica industriale) e il ministero delle Partecipazioni statali. Quest’ultimo venne istituito nel 1956
con funzioni di vigilanza e poteri di direttiva nei confronti degli enti di gestione delle partecipazioni
statali (IRI, ENI, EFIM). Detti enti erano titolari in modo diretto o indiretto delle azioni delle società
pubbliche ed esercitavano l’influenza su queste ultime essenzialmente attraverso il diritto di voto nelle
assemblee e la nomina degli amministratori. Gli enti di gestione delle partecipazioni statali (aventi
natura di enti pubblici economici) si interponevano tra gli impulsi politici e amministrativi, nelle
forme del diritto pubblico (atti di indirizzo e direttive), e l’attività di impresa esercitata da società di
diritto comune.
Il sistema delle partecipazioni statali venne smantellato verso la fine degli anni Ottanta del secolo
scorso, come si è accennato, perché divenuto troppo oneroso per le finanze pubbliche e ritenuto non
compatibile con un’applicazione più rigorosa delle regole europee in tema di aiuti di Stato che
impediscono il rifinanziamento di imprese strutturalmente in perdita. Molte imprese pubbliche
vennero liquidate o privatizzate attraverso la cessione dei pacchetti azionari detenuti dallo Stato.
2. La seconda causa si è manifestata soprattutto in connessione con i processi di liberalizzazione
dei mercati negli anni Novanta del secolo scorso in seguito al recepimento di direttive europee. Gli
enti pubblici economici che gestivano servizi pubblici in regime di monopolio legale vennero
trasformati per legge in società per azioni (privatizzazione «fredda») con l’attribuzione della
titolarità delle azioni allo Stato. In molti casi queste ultime vennero cedute in tutto o in parte ad
azionisti privati (privatizzazione «calda») e talvolta quotate in borsa (ENEL, ENI). Le stesse banche
pubbliche nazionali e locali, come si è visto, acquisirono la veste giuridica di società per azioni
partecipate dalle fondazioni bancarie.
3. La terza causa si ricollega ai processi di razionalizzazione degli apparati pubblici. In molti
casi, per ragioni di efficienza e di snellezza operativa, alcune pubbliche amministrazioni hanno
ritenuto preferibile esternalizzare alcune attività strumentali all’esercizio delle funzioni
amministrative, cioè affidarle a società da esse costituite che svolgono la propria attività in prevalenza
per conto delle amministrazioni e degli enti pubblici di riferimento. Si pensi, a livello statale, alla
SOGEI, che cura per conto del ministero dell’Economia la riscossione delle imposte.
157
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Accanto a queste tre cause fisiologiche, in anni recenti il fenomeno delle società a partecipazione
pubblica è esploso, soprattutto a livello di enti locali, per ragioni patologiche: moltiplicazione di
cariche da attribuire con criteri politici, elusione delle norme pubblicistiche in tema di assunzioni di
personale, di stipulazione dei contratti attraverso procedure di gare, di vincoli finanziari legati al patto
di stabilità.
Un riordino della disciplina in tema di società a partecipazione pubblica è stato operato, con
l’obiettivo di ridurre il loro numero, nell’ambito della riforma Madia della pubblica amministrazione
ad opera del Testo unico approvato con d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
Il d.lgs. n. 175/2016 si ispira al principio di contenimento del fenomeno delle società a
partecipazione pubblica. Ad esse è imposto un divieto generale di costituire società, acquisire o
mantenere azioni anche di minoranza in società commerciali aventi per oggetto «la produzione di beni
e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali». Inoltre, il
d.lgs. n. 175/2016 elenca in modo tassativo le attività svolte dalle società a partecipazione pubblica:
servizi di interesse generale, progettazione o realizzazione di un’opera pubblica, autoproduzione di
beni o servizi strumentali agli enti partecipanti.
Da questa impostazione derivano due conseguenze: obbligo per le amministrazioni di approvare
piani di riassetto annuali delle proprie partecipazioni azionarie; obbligo di motivazione analitica delle
delibere relative alla costituzione e all’acquisto di partecipazione societarie.
Le società a partecipazione pubblica sono sottoposte a vincoli pubblicistici via via più intensi in
base alla seguente classificazione: le società quotate, alle quali il d.lgs. n. 175/2016 si applica solo nei
casi nei quali esso le richiama espressamente; le società meramente partecipate, nelle quali cioè le
amministrazioni pubbliche detengono solo pacchetti azionari di minoranza, anch’esse sottoposte in
massima parte al diritto comune; le società in controllo pubblico, nelle quali le amministrazioni
pubbliche detengono direttamente o indirettamente la maggioranza delle azioni, alle quali si applicano
gran parte dei vincoli pubblicistici; le società in-house per le quali sono previste il maggior numero di
deroghe al codice civile e il cui regime è equiparato in gran parte a quello delle pubbliche
amministrazioni; le società a partecipazione pubblica di diritto singolare istituite per la gestione di
servizi di interesse generale o per altre finalità pubblicistiche (come per esempio la RAI).
Merita soffermarsi sull’obbligo di motivazione analitica che costituisce il fulcro della nuova
disciplina. Le amministrazioni pubbliche che intendano costituire o acquisire una partecipazione
societaria devono adottare un atto deliberativo che giustifichi la necessità della partecipazione per il
perseguimento dei propri fini istituzionali esplicando «le ragioni e le finalità che giustificano tale
scelta anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria». La motivazione
deve anche considerare la «possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate,
nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato» e dar conto della compatibilità con «i
principi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa» nonché con la
disciplina degli aiuti di Stato. Gli enti locali devono sottoporre lo schema di delibera una consultazione
pubblica. Inoltre, le delibere devono essere inviate alla Corte dei conti e all’Autorità garante della
concorrenza e del mercato. Quest’ultima dovrà valutare se sussistano profili di distorsione del
mercato.
Anche l’alienazione delle partecipazioni deve avvenire con una procedura che rispetti principi di
pubblicità, trasparenza e non discriminazione.
Il d.lgs. n. 175/2016 introduce infine un sistema di monitoraggio, indirizzo e coordinamento sulle
società a partecipazione pubblica prevedendo l’istituzione nell’ambito del ministero dell’Economia e
delle Finanze di una struttura interna, con poteri ispettivi sulle società, di emanazione di orientamenti e
indicazioni sull’applicazione delle nuove norme.
158
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il d.lgs. n. 175/2016 impone alle società a controllo pubblico l’obbligo di dotarsi di regolamenti
interni volti a garantire la conformità dell’attività della società alle norme a tutela della concorrenza,
un ufficio di controllo interno, codici di condotta. Prevede anche una serie di prescrizioni minute,
quali, per esempio, limiti al numero dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, tetti
ai compensi. Il personale deve essere assunto nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e
imparzialità e dei principi previsti dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni.
Meritano un approfondimento le società in-house, le quali sono così intimamente legate sul piano
organizzativo e operativo a una pubblica amministrazione da poter essere equiparate, in definitiva, a
un ufficio interno (in-house, appunto) della medesima.
La nozione di società in-house è stata elaborata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea. In particolare, la questione è se queste società possono essere affidatarie dirette
di attività da parte delle amministrazioni di contratti pubblici remunerati da queste ultime, oppure se
l’affidamento deve avvenire all’esito di una gara a evidenza pubblica. Per poter essere destinatarie di
affidamenti diretti, in deroga al regime della concorsualità, secondo la Corte di giustizia (a partire
dalla sentenza Teckal del 18 novembre 1995), le società in-house devono possedere due requisiti: il
cosiddetto «controllo analogo» e lo svolgimento della parte più rilevante della loro attività a
favore delle amministrazioni pubbliche.
Il primo requisito tende ad assicurare che tra amministrazione pubblica titolare delle partecipazioni
nella società in-house e quest’ultima intercorra un rapporto così stretto da assimilarla a un organo
interno della prima. Questa compenetrazione esclude che gli atti o i contratti con i quali
l’amministrazione affida alla società il compito di realizzare un’opera o di fornire un determinato bene
o servizio siano dei veri contratti.
Per ottemperare al requisito del controllo analogo, in primo luogo, la partecipazione deve essere
totalitaria.
In secondo luogo, lo statuto della società o i patti parasociali devono garantire al socio pubblico un
potere di influire sulle strategie e decisioni fondamentali della società e di controllarne l’attività.
Questo obiettivo può essere raggiunto, per esempio, prevedendo che le delibere più rilevanti del
consiglio di amministrazione siano sottoposte ad approvazione da parte del socio pubblico.
Il controllo analogo può essere congiunto o indiretto. È congiunto nel caso in cui più
amministrazioni affidino a un’unica società partecipata la gestione unitaria di un servizio pubblico, ma
anche in questo caso esse sono in grado di influire sulle decisioni strategiche della società. È indiretto
nel caso in cui un’amministrazione detenga la partecipazione totalitaria in una società che a sua volta
detenga, a cascata, una partecipazione societaria totalitaria in un’altra società.
Il secondo requisito tende a escludere che la società in-house operi sul mercato e alteri la
concorrenza rispetto a società che svolgono attività similari sfruttando il vantaggio di aver ricevuto un
affidamento diretto da parte di un’amministrazione pubblica. Il d.lgs. n. 175/2016 stabilisce il limite
minino dell’80% del fatturato che deve essere conseguito per conto dell’amministrazione pubblica.
Le società in-house sono sottoposte a regole pubblicistiche ulteriori alle società a controllo
pubblico. In particolare, sono tenute all’applicazione integrale del Codice dei contratti pubblici e
ricadono nel regime della responsabilità amministrativa per danno erariale.
Alle società in-house si applica peraltro il diritto comune per tutti gli aspetti non espressamente
derogati dal d.lgs. 175/2016.
Merita un cenno specifico la cosiddetta golden share. Questa espressione si riferisce a un
complesso di poteri speciali riservati dalla legge allo Stato e inseriti negli statuti delle società in
occasione della privatizzazione formale delle grandi imprese pubbliche statali operanti in settori
159
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

strategici (energia, telecomunicazioni, trasporti), allo scopo di tutelare l’interesse nazionale. La finalità
era di impedire che le imprese strategiche potessero finire sotto il controllo per esempio di fondi
sovrani di Stati autoritari o di azionisti legati a organizzazioni terroristiche.
La Corte di giustizia ha tuttavia censurato le norme italiane perché accordavano al ministero
dell’Economia e delle Finanze un ambito di valutazione discrezionale eccessivo.
Una nuova disciplina è stata introdotta dal d.l. 15 marzo 2012, n. 21. Essa prevede che, in caso di
minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale, il
governo possa esercitare una serie di poteri speciali (golden power) molto ampi, non più collegati solo
alla titolarità di azioni (come invece accadeva per la golden share). Tra di essi rientrano, per esempio,
l’imposizione di condizioni relative alla sicurezza degli approvvigionamenti o ai trasferimenti
tecnologici in caso di acquisto di partecipazioni in società che svolgono attività di rilevanza strategica
in tali settori; poteri di opposizione agli acquisti di partecipazioni da parte di soggetti diversi dallo
Stato, da enti pubblici italiani o soggetti da essi controllati.
La legge pone alcune regole procedimentali e commina la nullità delle delibere e degli atti adottati
in violazione di queste prescrizioni. Per tener conto dei rilievi della Corte di giustizia, la legge
specifica i criteri per l’esercizio dei poteri speciali e stabilisce che comunque devono essere rispettati i
principi di proporzionalità e di ragionevolezza.

9. Cenni all’integrazione europea

L’assetto organizzativo e funzionale delle pubbliche amministrazioni nazionali è condizionato in


molti ambiti dal diritto europeo. Il modello originario di integrazione europea era quello della
cosiddetta amministrazione indiretta sperimentato dall’Inghilterra per l’amministrazione dell’impero
coloniale. Questo modello è fondato su una scissione tra disciplina della funzione, attribuita alla
competenza comunitaria, e organizzazione della medesima, rimessa in via esclusiva ai singoli Stati
membri. Progressivamente esso è stato superato dal modello della cosiddetta amministrazione
composita, caratterizzata da strutture operative in parte europee e in parte nazionali. Queste ultime
sono complementari e integrate con le prime e sono chiamate a gestire procedimenti o fasi di essi
anch’essi di natura composita.
L’influenza del diritto europeo sull’organizzazione amministrativa nazionale si manifesta in varie
forme.
In primo luogo, poiché molte politiche pubbliche sono ormai decise a livello europeo, le
amministrazioni nazionali si sono attrezzate per svolgere un ruolo attivo nell’ambito dei processi di
emanazione degli atti giuridici europei.
Così molti ministeri si sono dotati di uffici che hanno come compito principale quello di curare i
rapporti con l’Unione europea. Presso la presidenza del Consiglio dei ministri è istituito il
dipartimento per le Politiche europee. Da ultimo, come già ricordato nel capitolo I, la legge 24
dicembre 2012, n. 234 ha istituito un Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE), un
Comitato tecnico di valutazione degli atti dell’Unione europea e ha previsto presso le amministrazioni
statali nuclei di valutazione degli atti dell’Unione europea.
Sempre a livello centrale, il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE)
ha anche la responsabilità della programmazione e dell’impulso delle politiche comunitarie. A livello
periferico, le regioni, soprattutto in seguito alle modifiche all’art. 117 Cost., sono coinvolte in modo
più diretto nei rapporti con l’Unione europea.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Inoltre funzionari di amministrazioni nazionali contribuiscono alla preparazione degli atti


comunitari anche attraverso la partecipazione a comitati tecnici composti da rappresentanti di
amministrazioni nazionali e da esponenti della Commissione UE.
In secondo luogo, in base a numerosi atti normativi europei, le amministrazioni nazionali e
regionali sono talora coinvolte nello svolgimento di attività amministrative delle quali esse sono
contitolari con la Commissione europea (la cosiddetta coamministrazione). A questo fine organismi
nazionali, la cui istituzione è prevista come obbligatoria dalle norme europee, sono incaricati di
svolgere attività che costituiscono segmenti di procedimenti comunitari.
Ciò accade per esempio negli interventi di sostegno della produzione agricola da parte dell’Unione
europea. La normativa prevede infatti che i fondi europei vengano gestiti dagli Stati membri per
mezzo di un «organismo di coordinamento» e di «organismi pagatori».
Anche la gestione dei cosiddetti Fondi strutturali europei finalizzati a ridurre il divario tra regioni
più e meno ricche avviene a livello nazionale attraverso «autorità di gestione» costituite da organismi
pubblici o privati designati dallo Stato membro per la gestione degli interventi. Le autorità in
questione sono responsabili dell’efficacia e della regolarità della gestione e dell’attuazione degli
interventi sotto la vigilanza della Commissione. In aggiunta alle autorità di gestione, per ogni quadro
comunitario di sostegno è istituito a livello nazionale un comitato di sorveglianza del quale fa parte
anche un rappresentante della Commissione. La Commissione vigila sull’intero sistema e può anche
chiedere allo Stato di effettuare controlli specifici in loco per verificare la regolarità delle operazioni.
Esamina il rapporto annuale predisposto dall’autorità di gestione e può formulare osservazioni e
raccomandazioni.
In terzo luogo, le autorità amministrative indipendenti sono inserite in modo sempre più stretto in
una rete di regolatori che fa capo ad agenzie e autorità europee istituite per promuovere l’elaborazione
e l’applicazione uniforme delle regole europee.

10. Le relazioni interorganiche e intersoggettive

Nei paragrafi che precedono si è trattato dell’organizzazione da un punto di vista statico, cioè di
descrizione dell’assetto interno degli apparati pubblici (organi, uffici) e delle diverse tipologie di enti
che compongono la pubblica amministrazione. Occorre ora porci da un punto di vista, per così dire,
dinamico, analizzando le relazioni organizzative interne alle amministrazioni e i rapporti tra
amministrazioni pubbliche.
Le relazioni interorganiche e intersoggettive sono principalmente le seguenti: gerarchia,
direzione, controllo, coordinamento, delega di funzioni, avvalimento.
1. La nozione di gerarchia è già stata introdotta nel capitolo IV trattando degli ordini
amministrativi.
Storicamente, la nozione di gerarchia nasce all’interno dell’ordinamento della Chiesa cattolica e
venne applicata anzitutto agli apparati militari. Essa connota sia il rapporto tra persone incardinate
nella medesima struttura, ma anche il rapporto tra uffici. Il rapporto di gerarchia presuppone che le
competenze dell’organo o ufficio sottordinato siano tutte incluse in quelle dell’organo o ufficio
sovraordinato. Ciò spiega perché l’organo o ufficio gerarchicamente sovraordinato, oltre a emanare
ordini puntuali, può esercitare anche il potere di avocare a sé un singolo affare usualmente rimesso alla
competenza dell’organo o ufficio sottordinato; di sostituirsi a quest’ultimo in caso di inerzia; di
risolvere conflitti insorgenti tra uffici sottordinati.

161
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il rapporto di gerarchia non può sussistere invece nelle relazioni intersoggettive tra enti pubblici.
Esso costituisce oggi un modello ad applicazione limitata essendo stato sostituito da modelli più
rispettosi dell’autonomia e delle prerogative degli organi subordinati.
2. Il rapporto di direzione è meno intenso di quello di gerarchia. Esso è stato trattato nel capitolo
II là dove si è analizzata la distinzione tra direttive che si inseriscono in rapporti interorganici e
direttive che attengono a rapporti intersoggettivi.
3. Anche il controllo, come già osservato nel capitolo VI, può avere natura interorganica
(controlli interni) o intersoggettiva (controlli esterni) e dà origine a un rapporto di sovraordinazione tra
l’organo o l’ufficio titolare del potere di controllo e il destinatario di quest’ultimo. Al titolare del
potere di controllo è riconosciuta generalmente una posizione di indipendenza all’interno
dell’organizzazione.
4. Esaurite le relazioni di sovra-sottordinazione occorre ora dedicare un cenno ai rapporti di
equiparazione relativi a organi, uffici ed enti che non dipendono l’uno dall’altro, ma che sono chiamati
a cooperare tra loro. Il coordinamento è un’esigenza primaria in un sistema amministrativo che ha
acquisito una dimensione multilivello e di specializzazione delle funzioni.
Nel modello gerarchico, il coordinamento è assicurato dalla presenza di un vertice unitario che
assomma tutte le competenze.
Si discute se anche il coordinamento debba essere ricondotto a una figura di sovraordinazione
(sovrapponibile a quella della direzione) più che di equiordinazione, o se esso abbracci una pluralità di
situazioni e di strumenti non riducibili a unità.
Intanto, è utile distinguere tra coordinamento politico-amministrativo e coordinamento
amministrativo in senso stretto.
Il primo livello involge i rapporti interni al governo e quelli tra lo Stato, le regioni e il sistema
delle autonomie locali. Nel primo ambito spetta al Consiglio dei ministri il compito di dirigere la
politica generale, di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e
coordinando l’attività dei ministri. In contesti settoriali, il coordinamento tra una pluralità di ministeri
è assicurato anche da comitati interministeriali previsti da varie leggi o istituiti ad hoc. Nel secondo
ambito il coordinamento è garantito da strutture di raccordo quali, come si è accennato, la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano
(cosiddetta Conferenza Stato-regioni), la Conferenza Stato, città e autonomie locali, la Conferenza
unificata.
A livello più propriamente amministrativo, numerosi strumenti, già individuati nel capitolo V,
mirano a coordinare le attività relative a uno o più procedimenti: le intese, i pareri, le conferenze di
servizi, gli accordi tra le amministrazioni, l’autorizzazione unica, gli sportelli unici, ecc. Anche gli
organi di tipo collegiale, nei quali sia rappresentata una pluralità di amministrazioni, possono
costituire una sede istituzionale stabile per il coordinamento. Talvolta la funzione di coordinamento è
affidata a un organo in particolare, che promuove il raccordo tra le attività.
Nel caso delle autorità indipendenti, il coordinamento non può avere altra dimensione se non
quella paritaria. Esso è assicurato in particolare attraverso protocolli di intesa tra le stesse autorità,
finalizzati a regolare gli scambi di informazioni, a ripartire le attività istruttorie nei confronti delle
imprese regolate al fine di evitare duplicazioni, ecc. Per esempio, i rapporti tra Banca d’Italia e
CONSOB sono disciplinati da un protocollo d’intesa «al fine di coordinare l’esercizio delle proprie
funzioni di vigilanza e di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati».
Proprio a proposito delle autorità indipendenti è stata elaborata la nozione di relazione di
indipendenza, da porre accanto a quelle più consolidate di gerarchia e di direzione. A ben considerare
quella di indipendenza è, per così dire, una «non relazione», perché, al di fuori delle forme consensuali
162
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

di coordinamento paritario, la singola autorità può esercitare i propri poteri senza doversi rapportare
con altri soggetti.

11. Il disegno organizzativo degli enti pubblici e lo spazio regolatorio

Conviene ora accennare a due nozioni, meno tradizionali, che possono essere utili per lo studio
degli apparati amministrativi: il disegno organizzativo degli enti pubblici e il cosiddetto spazio
regolatorio.
1. Il primo consiste in una griglia di parametri e di indicatori che consentono di inquadrare
comparativamente qualsiasi tipo di apparato pubblico. In questa sede basta indicarne quelli principali.
Un primo indicatore si riferisce alle fonti che disciplinano l’apparato. Alcuni enti trovano nella
legge istitutiva o in fonti di tipo regolamentare la fonte principale; per altri invece la fonte primaria
riconosce margini assai ampi di conformazione dell’assetto organizzativo allo statuto, elaborato dallo
stesso ente e approvato dall’autorità di vigilanza. Si è già segnalata in proposito la tendenza recente ad
attribuire a molti enti una maggior autonomia organizzativa che si esprime anche nella possibilità di
disciplinare, a valle dello statuto, con propri regolamenti o atti organizzativi l’articolazione degli
uffici, i procedimenti, la gestione finanziaria e contabile, i contratti, ecc. L’analisi delle fonti consente
dunque di valutare anzitutto i margini di autonomia.
Un secondo parametro riguarda la tipologia di organi previsti per ciascun ente, le modalità di
nomina dei titolari dei medesimi e la ripartizione tra essi delle competenze. I modelli possono essere i
più vari. Fino ad anni relativamente recenti erano prevalenti i modelli organizzativi che attribuivano
gran parte dei poteri a organi assembleari o comunque a organi amministrativi collegiali. Hanno preso
poi piede modelli che tendono a concentrare i poteri gestionali in organi monocratici o a composizione
ristretta, secondo una visione manageriale tesa a rendere le decisioni più rapide e meno influenzabili
dalla politica. Leggi recenti, con funzione anche di contenimento della spesa, hanno poi ridotto il
numero massimo dei componenti degli organi collegiali.
Un terzo criterio prende in considerazione le funzioni e i poteri attribuiti all’ente. In relazione
alle finalità per le quali ciascuno di essi è istituito, la legge istituiva definisce, come si è visto, le
funzioni fondamentali e per ciascuna di esse attribuisce i poteri.
Un quarto criterio analizza i controlli e la vigilanza ai quali è sottoposto l’ente. La casistica è
variegata e spazia da enti sottoposti a poteri penetranti di controllo e di ingerenza da parte del soggetto
vigilante alle autorità indipendenti, già esaminate.
Un quinto indicatore è costituito dalle risorse finanziarie sulle quali può far affidamento l’ente.
Alcuni apparati dipendono totalmente da fondi trasferiti dall’erario. Altri apparati, come alcune
autorità indipendenti, sono autosufficienti, in quanto possono imporre un contributo ai soggetti
vigilati.
2. Il disegno organizzativo tende a fornire un’immagine statica per così dire fotografica di
ciascun apparato. La sua collocazione nel cosiddetto «spazio regolatorio» tende invece a coglierne
l’aspetto dinamico all’interno di un sistema complesso di relazioni in qualche misura mobili tra
apparati pubblici. Infatti, nessun attore, protagonista o comprimario, della cosiddetta «arena pubblica»
agisce in modo isolato. Anzi in molti casi le competenze di ciascuno di essi interferiscono, si
sovrappongono e talora si scontrano con quelle di altri apparati.
È utile dunque cercare di cogliere la posizione che, al di là dei vincoli normativi, concretamente
ciascuno di essi è in grado di occupare. Lo spazio regolatorio richiede una mappatura delle relazioni
formali e informali di ciascun apparato con gli altri apparati e attori istituzionali in modo da coglierne
tutti i legami e le influenze reciproche.
163
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

La collocazione di un apparato all’interno dello spazio regolatorio dipende anche da elementi


fattuali, come il prestigio acquisito nel tempo, le alleanze occasionali o durevoli, le relazioni personali
tra i titolari delle funzioni, i condizionamenti dell’opinione pubblica, la crisi o la reviviscenza della
politica e altri fattori contingenti.
In definitiva, lo spazio regolatorio, più che un concetto giuridico, e la rappresentazione di un
universo di apparati interdipendenti e in continua evoluzione.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 9. I SERVIZI PUBBLICI

1. Premessa

Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, prima dell’ondata di liberalizzazioni e privatizzazioni
dell’ultimo quarto di secolo, l’erogazione dei servizi pubblici alla collettività era assicurata in gran
parte da apparati pubblici.
In una fase iniziale del secolo scorso, lo Stato sociale o interventista (Welfare State) assunse su di
sé il compito di gestire con proprie strutture organizzative, per esempio, i servizi di trasporto o i
servizi postali e telefonici. A livello locale, i comuni già sul finire del XIX secolo furono attivi in
questo campo (cosiddetto socialismo municipale). La legge Giolitti individuò una serie di servizi che
i comuni potevano gestire con proprie strutture interne, cioè con le cosiddette aziende municipalizzate
(legge 29 marzo 1903, n. 103).
Si trattava di servizi necessari per il benessere della collettività che il mercato non era in grado di
offrire in quantità e qualità ritenute adeguate. E ciò per una pluralità di ragioni: erano economicamente
non profittevoli; richiedevano capitali ingenti per effettuare gli investimenti necessari (si pensi, per
esempio, alla costruzione delle reti ferroviarie); presentavano il rischio di dar origine a monopoli
privati dannosi per gli utenti.
Soltanto l’intervento diretto dei pubblici poteri poteva risolvere questi problemi, con l’assunzione
di un ruolo di supplenza rispetto alle insufficienze del mercato.
Il modello originario di organizzazione dei servizi pubblici aveva due caratteristiche.
La prima è l’introduzione per legge di un regime di riserva originaria dell’attività a favore dello
Stato, tale da escluderne lo svolgimento da parte dei privati in regime di concorrenza (i monopoli
legali ai quali fa riferimento anche l’art. 43 Cost). Per esempio la gestione delle linee ferroviarie e dei
servizi telefonici venne riservata allo Stato rispettivamente nel 1905 e nel 1907. Nel 1962 si ebbe la
nazionalizzazione del servizio elettrico affidato in gestione a un ente pubblico economico (l’ENEL).
La seconda caratteristica è la gestione diretta del servizio (tramite aziende speciali interne allo
Stato o al comune) o indiretta (per mezzo di enti pubblici economici) da parte dei pubblici poteri.
In alcuni casi per la gestione del servizio era consentito l’affidamento a soggetti privati terzi sulla base
di una concessione amministrativa, che, come si è osservato nel capitolo IV, ha una valenza
organizzatoria.
In coerenza con una visione del diritto pubblico improntata alla centralità dello Stato («è pubblico
tutto ciò e solo ciò che direttamente o indirettamente è di Stato»), la dottrina elaborò inizialmente la
concezione soggettiva di servizio pubblico, secondo la quale quest’ultimo si riferisce alle attività
svolte dallo Stato a fini sociali in forme non autoritative. Più precisamente, anche sulla scorta
dell’esperienza francese del service public, per servizio pubblico si intendeva un’attività: a) tesa a
soddisfare un bisogno di interesse generale della collettività (elemento materiale); b) assunta come
compito proprio e svolta da un soggetto formalmente pubblico (elemento organico); c) sottoposta a
un regime giuridico speciale (elemento formale).
Il servizio pubblico finiva per includere gran parte delle attività dello Stato che non avessero
natura di pubblica funzione. Questa concezione residuale del servizio pubblico emerge nel codice
penale che distingue, ai fini dell’individuazione di una serie di reati propri, il pubblico ufficiale,
preposto a una pubblica funzione, e la persona incaricata di pubblico servizio. Infatti, il pubblico
ufficiale esercita «una pubblica funzione legislativa, giurisdizionale o amministrativa»; la persona
incaricata di un pubblico servizio svolge «un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica
funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima».
165
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

I servizi pubblici sono menzionati in vari articoli della Costituzione che attribuisce allo Stato
compiti come, per esempio, quello di tutelare la salute, non solo come diritto dell’individuo, ma anche
come interesse della collettività (art. 32); di garantire l’istruzione pubblica istituendo scuole statali per
tutti gli ordini e gradi, pur riconoscendo anche ai privati il diritto di erogare questo tipo di servizio
(art. 33), di provvedere all’assistenza sociale con organi e istituti preposti o integrati dallo Stato (art.
38). Inoltre, nel definire le materie attribuite alla potestà legislativa concorrente delle regioni, l’art.
117, comma 3, menziona i servizi pubblici in settori quali le comunicazioni elettroniche, l’energia
elettrica, i porti, gli aeroporti civili, le reti di trasporto.
Progressivamente, con l’affievolirsi dell’impostazione statalista, la concezione soggettiva del
servizio pubblico divenne recessiva rispetto alla concezione oggettiva di servizio pubblico che è oggi
prevalente sia in dottrina sia in giurisprudenza. La concezione oggettiva è più in linea con il già
richiamato principio di sussidiarietà orizzontale volto a favorire il coinvolgimento dei privati nello
svolgimento di attività di interesse generale (art. 118, ultimo comma, Cost.). Essa pone l’accento sul
tipo di attività, connotata per la sua finalizzazione al benessere della collettività, a prescindere dal fatto
che essa sia svolta da un soggetto pubblico o da soggetti privati.
La nozione di servizio pubblico ebbe una forza espansiva nella seconda metà del secolo scorso
fino a diventare «un istituto cardine dell’intero diritto pubblico».
In seguito al passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore e con l’avvio dei processi di
liberalizzazione e di privatizzazione, il compito dello Stato non è più quello di erogare direttamente i
servizi pubblici, ma garantire che essi siano resi alla collettività, secondo livelli qualitativi e
quantitativi adeguati, di regola da parte di gestori privati.
Prima di procedere all’esposizione della disciplina dei servizi pubblici, conviene dar conto di due
classificazioni generali.
In primo luogo, i servizi pubblici possono essere suddivisi, già in base al diritto europeo, in servizi
aventi una rilevanza economica (trasporti, energia elettrica, telecomunicazioni) e in servizi non
economici (scuola, sanità, assistenza sociale). I primi sono suscettibili di essere esercitati in forma
imprenditoriale e si prestano a essere gestiti da soggetti privati in regime di concorrenza. Dei secondi
si fanno carico, in genere, direttamente le pubbliche amministrazioni con oneri a carico della fiscalità
generale, e il coinvolgimento dei privati è possibile solo se ai gestori vengono erogati finanziamenti
pubblici.
Una seconda distinzione è tra servizi a fruizione collettiva necessaria e servizi a fruizione
individuale. I primi si riferiscono a quelli che con il linguaggio degli economisti sono definiti come
beni non escludibili, cioè beni che se sono disponibili per uno, lo sono necessariamente per tutti.
Questi servizi sono erogati sulla base di atti che instaurano una relazione bilaterale tra pubblica
amministrazione e gestore del servizio e vengono erogati alla collettività gratuitamente. Nei secondi, il
gestore del servizio intrattiene una relazione giuridica (sulla base di un contratto) anche con gli utenti
del servizio, ai quali viene richiesto usualmente un corrispettivo commisurato alle prestazioni
effettivamente rese.
I servizi a rete sono quelli erogati agli utenti attraverso infrastrutture fisse, spesso interconnesse,
come per esempio le reti ferroviarie, le reti idriche, ecc. Le reti costituiscono spesso un monopolio
naturale. Il gestore deve rendere accessibili le reti e le infrastrutture di base a tutti gli interessati.

2. I servizi di interesse generale nel diritto europeo

La disciplina europea in materia di servizi pubblici ha due direttrici principali. Da un lato, pone
l’accento sull’importanza anzitutto sociale di quelli che vengono definiti servizi di interesse generale.
166
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Dall’altro lato, prevede che si debbano rispettare per quanto possibile le regole della concorrenza e del
mercato che valgono per le normali attività economiche.
1. Secondo la prima direttrice i servizi di interesse generale costituiscono anzitutto «elementi
essenziali per garantire la coesione sociale e territoriale e salvaguardare la competitività dell’economia
europea». Per i cittadini essi sono una componente della cittadinanza europea, indispensabile per
beneficiare appieno dei diritti fondamentali. Per le imprese che li utilizzano, invece, i servizi di alta
qualità e a prezzi accessibili sono condizioni per creare un contesto competitivo. I servizi sono
menzionati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che richiama il diritto alla
prevenzione sanitaria e alle cure mediche e ai servizi d’interesse economico generale. Il Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea riconosce «l’importanza dei servizi di interesse economico
generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione». A questo fine l’Unione e gli Stati membri
provvedono affinché tali servizi «funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche
e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti» (art. 14 TFUE).
A differenza di quanto accade in altri ordinamenti, i servizi pubblici sono dunque un elemento
caratterizzante del modello europeo di società.
2. La seconda direttrice è scolpita nel Trattato che contiene una disposizione secondo la quale
«Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle
norme dei Trattati e in particolare alle regole di concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali
norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata»
(art. 106, comma 2, TFUE). Questa disposizione pone come regola generale l’applicazione delle
regole comuni in materia di concorrenza e ammette deroghe, in base al principio di proporzionalità,
solo nei limiti dello stretto necessario per il conseguimento degli scopi di interesse pubblico che gli
Stati membri si prefiggono.
Così, in particolare, le imprese incaricate di svolgere un servizio pubblico di interesse economico
generale possono ricevere finanziamenti pubblici, in deroga alla disciplina degli aiuti di Stato, a titolo
di compensazione, secondo criteri di stretta proporzionalità, in relazione alla necessità di coprire i costi
correlati all’adempimento degli obblighi di servizio pubblico.
Gli Stati membri sono peraltro liberi di individuare le attività da annoverare tra i servizi pubblici e
le modalità di erogazione dei medesimi.
Il diritto europeo pone una distinzione tra servizi di interesse economico generale, che
riguardano beni o servizi offerti in un determinato mercato (per esempio, i trasporti, l’energia elettrica,
le poste, ecc.), e servizi non economici di interesse generale, che invece si collocano fuori dal
mercato (servizi sociali, istruzione, sanità, ecc.) e ai quali non si applicano le regole della concorrenza.
I primi rientrano nel genus dei servizi, definiti come «prestazioni fornite normalmente dietro
retribuzione», e sono inclusi, sia pur con varie eccezioni, anche nel campo di applicazione della
direttiva 2006/123/CE, già richiamata, sulla libertà di stabilimento dei prestatori e sulla libera
circolazione dei servizi. I servizi non economici d’interesse generale, invece, sono esclusi dal campo
di applicazione della direttiva proprio perché di regola vengono svolti in forme non imprenditoriali.
A livello europeo si è sempre evitato di fornire un elenco esaustivo dei servizi che ricadono nella
prima o nella seconda categoria. Ciò perché l’esistenza o inesistenza di un mercato dipende in alcuni
casi da scelte organizzative dei singoli Stati membri. Così, per esempio, l’assistenza sanitaria
ospedaliera può essere gestita, come accade in Italia e in Spagna, all’interno di un Servizio sanitario
nazionale basato sul principio di solidarietà, con oneri in massima parte a carico della finanza pubblica
e in questo caso il servizio non è offerto su un mercato. In altri Paesi, invece, l’assistenza sanitaria
viene erogata dietro il pagamento di un prezzo o direttamente da parte del paziente oppure a carico di

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

istituti di assicurazione. In questo secondo caso si apre uno spazio di mercato e di concorrenza tra
fornitori tale da far assumere ai servizi offerti una rilevanza economica.
La classificazione europea coincide sostanzialmente con alcune distinzioni di diritto interno, come
quella tra servizi di rilevanza economica e non economica.
A valle dei Trattati, negli anni Novanta del secolo scorso, sono intervenute direttive europee di
settore volte a liberalizzare i servizi di interesse economico generale. Le direttive in questione hanno
cioè aperto il mercato alla concorrenza tra più operatori, superando la prima delle due caratteristiche
del modello originario di organizzazione dei servizi pubblici individuate nel primo paragrafo, e cioè la
riserva originaria di attività.
In termini generali, le direttive di liberalizzazione operano una distinzione tra concorrenza «nel
mercato» e concorrenza «per il mercato», attribuendo alla prima una priorità rispetto alla seconda.
1. La concorrenza «nel mercato» riguarda i servizi pubblici per i quali, date le caratteristiche
particolari dell’attività, la fornitura del servizio può essere svolta da una pluralità di operatori in
concorrenza. E ciò sulla base di un provvedimento di autorizzazione non discrezionale, volto a
verificare il possesso dei requisiti tecnici ed economici minimi necessari per intraprenderla posti dalla
regolazione di settore. Tra gli esempi principali, possono essere presi i trasporti aerei e più di recente
quelli ferroviari, i servizi di telefonia, ecc.
2. La concorrenza «per il mercato» si riferisce alle situazioni nelle quali per ragioni tecniche o
economiche (monopolio naturale, costi eccessivi di duplicazione delle reti e delle infrastrutture) il
servizio pubblico può essere svolto in modo efficiente da un solo operatore. L’attribuzione del servizio
avviene in seguito a una procedura competitiva di affidamento della concessione alla quale possono
partecipare tutti i potenziali interessati. In questo modo la regolazione crea una sorta di mercato
artificiale, limitato alla fase di scelta del gestore chiamato a svolgere il servizio avendo acquisito un
diritto speciale o di esclusiva. Ciò accade, per esempio, nei casi della distribuzione dell’energia
elettrica a livello locale, della gestione delle reti e delle infrastrutture (ferroviarie, autostrade).
I servizi di interesse economico generale, nella visione europea, possono essere gestiti sia da
imprese private, sia da imprese pubbliche poste su un piano di parità concorrenziale. Come si è già
accennato, il diritto europeo non opera alcuna preferenza tra proprietà pubblica o privata delle
imprese. Inoltre, nei casi in cui sia possibile soltanto la concorrenza «per il mercato», gli Stati membri
sono comunque liberi di scegliere il modello della gestione diretta (tramite strutture pubbliche o anche
società in-house) o di affidare il servizio a soggetti terzi tramite procedure competitive.
3. La regolazione e le forme di gestione dei servizi pubblici

La disciplina dei servizi pubblici ha per oggetto tre fasi: l’assunzione; la regolazione; la
gestione.

1. L’assunzione di un’attività come servizio pubblico è il frutto di una decisione politica che,
constatata l’insufficienza del mercato nell’offrire alla collettività determinati beni e servizi, mette in
opera interventi di regolazione volti a garantire livelli minimi qualitativi e quantitativi delle
prestazioni. Riemerge dunque una colorazione soggettiva del servizio pubblico, nel senso che l’atto di
assunzione del servizio costituisce una responsabilità esclusiva dello Stato.
Rilevano a questo riguardo due caratteri della nozione di servizio pubblico: la storicità e la
relatività.
Quanto alla storicità, i beni e servizi essenziali per il benessere della collettività da considerare
come servizi pubblici variano nel tempo in base alle esigenze della società e alla situazione di mercato
concreta. Alcuni beni primari, come per esempio i generi alimentari, sono offerti sul mercato libero in
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

quantità più che sufficienti, tanto da non richiedere alcun intervento o regolazione pubblica. Altri beni,
che un tempo avevano una forte componente di servizio pubblico (per esempio, la distribuzione dei
farmaci) hanno acquisito col tempo una valenza prevalentemente commerciale. L’elenco dei servizi
(19 in tutto) che la legge Giolitti del 1903 considerava suscettibili di essere assunti dai comuni rivela
la storicità della nozione. Mentre alcuni sono ancora attuali (per esempio, la distribuzione dell’acqua),
altri hanno perso significato (per esempio, la vendita del ghiaccio). Atri servizi, oggi considerati
essenziali a livello nazionale (telefonia mobile, accesso a internet), all’epoca non esistevano.
Quanto alla relatività, a livello locale, atteso che il contesto economico e sociale è differenziato,
muta il perimetro del servizio pubblico. Non a caso, il Testo unico degli enti locali fornisce una
definizione di servizio pubblico locale a maglie così larghe da essere sostanzialmente indeterminata.
Per servizi pubblici locali si intendono infatti quelli «che abbiano per oggetto la produzione di beni ed
attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuove lo sviluppo economico e civile delle comunità
locali». I consigli comunali, che hanno la competenza in materia di organizzazione dei servizi locali,
godono, almeno in astratto, di un’amplia discrezionalità sul se assumere una determinata attività come
servizio pubblico.
Non esiste in definitiva una nozione univoca di servizio pubblico tale da distinguerla nettamente
dalla normale attività d’impresa.

2. Una volta che una determinata attività viene assunta dai pubblici poteri come servizio
pubblico, si pone poi il problema della regolazione.
Essa è funzionale al raggiungimento degli obiettivi di interesse pubblico e all’attuazione in
concreto dei principi giuridici in materia di servizi pubblici. Questi ultimi si ricavano, oltre che
dalla giurisprudenza europea, anche dalla legge 14 novembre 1995, n. 481 che pone alcune norme
generali riferite alle autorità di settore.
2a) Interviene in primo luogo il principio di doverosità. Una volta presa la decisione politica di
assumere una determinata attività come servizio pubblico, i pubblici poteri si fanno carico del compito
di garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo i criteri
quantitativi e qualitativi predeterminati. A questo fine i fornitori dei servizi sono sottoposti a obblighi
di servizio stabiliti in modo puntuale.
2b) Un secondo principio è quello della continuità: l’erogazione del servizio non può essere
interrotta arbitrariamente. Il codice penale prevede una specifica figura di reato (artt. 331 e 340 cod.
pen.) Lo stesso diritto di sciopero dei lavoratori del settore subisce limitazioni in modo da garantire
comunque livelli minimi indispensabili di erogazione del servizio.
2c) Un terzo principio è quello della parità di trattamento. Tutti gli utenti hanno pari diritto ad
accedere al servizio e a ottenere prestazioni di eguale qualità. Mentre il fornitore di beni e servizi non
costituenti servizio pubblico può selezionare la propria clientela e negoziare con essa liberamente, il
gestore del servizio deve applicare condizioni tendenzialmente omogenee ai fruitori.
2d) Un quarto principio è quello della universalità. Le prestazioni correlate al servizio pubblico
devono essere garantite tendenzialmente a tutti, a prescindere dalla localizzazione, dalla fascia sociale
o di reddito. Così, per esempio, i distributori del servizio elettrico o del gas o il gestore dei servizi di
trasporto non possono rifiutarsi di erogare il servizio in località isolate con un numero limitato di
utenti tanto da rendere strutturalmente in perdita l’attività.
All’interno del perimetro del servizio pubblico in alcuni settori il regolatore individua un nucleo
ristretto di prestazioni che costituiscono il cosiddetto «servizio universale» e che devono essere
erogate anche se producono perdite (per esempio, nel settore delle comunicazioni elettroniche il
servizio di telefonia fissa). Il costo della fornitura del servizio universale viene usualmente ripartito tra
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

tutti i gestori secondo criteri predeterminati. Le prestazioni più sofisticate non incluse nel perimetro
del servizio universale non devono essere invece fornite a tutti i richiedenti se ritenute non
remunerative.
2e) Un quinto principio è quello dell’«abbordabilità». Il servizio deve essere fornito agli utenti a
prezzi accessibili. La regolazione prevede talora agevolazioni a favore di categorie di utenti meno
abbienti o altrimenti svantaggiate.
2f) Un sesto principio è quello dell’economicità, in base al quale il gestore del servizio deve
essere posto nella condizione di svolgere l’attività in modo imprenditoriale, con la possibilità di
conseguire un margine ragionevole di utile. Nel caso in cui i servizi siano strutturalmente in perdita,
l’amministrazione deve farsi carico degli oneri attraverso compensazioni e contribuzioni.
L’intera architettura della regolazione è funzionale a dar corpo e a rendere concreti questi principi.
Rientra tra i compiti della regolazione anche l’individuazione delle forme di gestione del servizio.
Esse sono individuate generalmente dalla legge che disciplina il singolo servizio o una categoria di
servizi.

3. Le principali forme di gestione dei servizi pubblici aventi rilevanza economica sono le
seguenti.
Le prime, più tradizionali e ancora interne al perimetro della pubblica amministrazione, come si è
detto, sono la gestione diretta e la gestione indiretta.
3a) Si ha gestione diretta allorché l’attività è svolta da strutture dell’ente titolare del servizio (le
aziende speciali e, a livello locale, anche i servizi di modesta rilevanza gestiti «in economia»).
3b) Si ha gestione indiretta allorché essa è affidata a un ente pubblico incaricato dello
svolgimento del servizio. Si tratta di forme ormai recessive.
3c) La terza forma, che è ancora sostanzialmente interna all’organizzazione della pubblica
amministrazione, è la cosiddetta società in-house. Quest’ultima, ove rispetti i parametri già illustrati,
può ricevere in affidamento il servizio attraverso una concessione o convenzione senza il previo
espletamento di una gara.
3d) Una quarta forma, scelta di frequente nel campo dei servizi locali, è la cosiddetta società
mista, a partecipazione pubblica e privata, che opera una prima esternalizzazione, ancora parziale del
servizio. Il modello della società mista, ora disciplinato dal d.lgs. n. 175/2016, richiede, secondo i
principi del diritto europeo, l’avvio di una procedura competitiva che ha un doppio oggetto: la scelta
del socio che abbia le caratteristiche tecniche ed economiche migliori; l’affidamento della gestione del
servizio alla società tramite il rilascio di una concessione. La quota di partecipazione del soggetto
privato può essere minoritaria o anche maggioritaria. Alla scadenza della concessione il socio privato
è tenuto a cedere la partecipazione a condizioni prestabilite al soggetto risultato eventualmente
aggiudicatario di una nuova procedura competitiva.
La società mista è una forma di partenariato pubblico-privato istituzionale che realizza una
collaborazione stabile e di lunga durata attraverso l’istituzione di un’organizzazione comune. Il
partenariato pubblico-privato può assumere infatti due forme: partenariato di tipo istituzionale;
partenariato di tipo contrattuale.
La prima si caratterizza per il fatto di instaurare una relazione molto stretta tra soggetti pubblici e
privati che interagiscono all’interno della società mista. La seconda si riferisce invece ai casi in cui
un’amministrazione si rivolge al mercato, sulla base di un contratto, per acquisire un bene o un
servizio, operando così una esternalizzazione completa.
3e) Un caso di partenariato di tipo contrattuale è la quinta forma di gestione dei servizi
pubblici, costituita dalla concessione del servizio a soggetti terzi selezionati sulla base di procedure
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

competitive nei casi in cui per ragioni tecniche o economiche il servizio si presta a essere erogato da
un solo gestore (concorrenza per il mercato). La concessione a terzi (concessione-contratto) dà vita,
anche in questo caso, a una relazione di lunga durata tra concedente e concessionario. A differenza
della società mista, la concessione a terzi non prevede un coinvolgimento organizzativo diretto del
soggetto pubblico nella gestione del servizio.
3f) Un’ultima forma di gestione del servizio è costituita dall’autorizzazione rilasciata a più
gestori che erogano il servizio in concorrenza tra loro nel rispetto degli obblighi di servizio
pubblico stabiliti dal regolatore (concorrenza nel mercato).
Una volta individuata la forma di gestione del servizio e individuato il gestore, quest’ultimo
provvede a svolgere tutte le attività giuridiche e materiali necessarie.
L’erogazione del servizio da parte del concessionario deve avvenire nel rispetto del contratto di
servizio, delle carte dei servizi e dei contratti di utenza.
Il contratto di servizio regola i rapporti tra la pubblica amministrazione titolare del servizio e
gestore. Ove il gestore venga scelto tramite gara, lo schema di contratto di servizio viene allegato al
bando e agli altri atti della procedura. Il contratto di servizio disciplina anzitutto i rapporti economici
finanziari. Il contratto individua inoltre gli investimenti da effettuare per migliorare le infrastrutture, i
controlli esercitabili dall’amministrazione e le sanzioni in caso di inadempimento, le cause di
scioglimento del rapporto e di decadenza nel caso di gravi inadempienze.
I livelli quantitativi e qualitativi di erogazione del servizio sono stabiliti in termini generali con
direttive dell’autorità di regolazione di settore che poi vigila sulla loro osservanza effettiva. I gestori
del servizio devono dotarsi di carte dei servizi che specificano i livelli qualitativi e quantitativi dei
servizi, prevedendo sistemi di indennizzo a favore dell’utente in caso di inadempimenti da parte del
gestore. Le carte dei servizi fanno sorgere in capo al gestore obblighi unilaterali nei confronti
dell’utente e vanno a integrare dall’esterno i contratti di utenza.
I rapporti tra il gestore e gli utenti sono disciplinati su base privatistica per mezzo di contratti di
utenza stipulati spesso in conformità a contratti tipo stabiliti dal regolatore. Le tariffe applicate agli
utenti sono stabilite nel contratto di servizio e sono definite in base a parametri di base stabiliti
dall’autorità di regolazione.

4. Le autorità di regolazione

Nel capitolo precedente, a proposito delle autorità indipendenti, si è posta la distinzione tra
autorità di tipo generalista e autorità di settore. Una sottospecie di queste ultime è costituita dalle
autorità di regolazione dei servizi pubblici aventi rilevanza economica istituite in concomitanza con i
processi di liberalizzazione avviati negli anni Novanta del secolo scorso.
Il passaggio dal regime di monopolio legale alla concorrenza, infatti, pone un problema in
precedenza meno avvertito e cioè quello della regolazione e dei soggetti ai quali affidare questo
compito.
Fin tanto che il servizio era gestito da una sola impresa monopolista, organizzata in forma di
azienda speciale o di ente pubblico economico, la necessità della regolazione era limitata. Da un lato, i
rapporti tra gestore e amministrazione statale o locale di riferimento inerivano alla sfera interna
dell’organizzazione anche nei casi in cui la gestione fosse affidata a un’azienda speciale; oppure erano
definiti nell’atto di concessione nel caso in cui la gestione fosse affidata a un ente pubblico
economico. Per i servizi pubblici nazionali erano previsti atti di indirizzo e direttive ministeriali
all’ente gestore in modo tale da orientare l’attività di quest’ultimo a fini economici e sociali
predeterminati. Dall’altro lato, l’unicità del gestore del servizio in regime di monopolio escludeva la
171
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

necessità di regolare i rapporti con altri gestori operanti nel medesimo mercato. Infine, la tutela degli
utenti in caso di disfunzioni del servizio era affidata ai normali strumenti del diritto comune dei
contratti.
In un contesto di liberalizzazione dei mercati l’architettura della regolazione è più complessa e ha
per oggetto più ambiti: i rapporti tra gestori dei servizi e autorità di regolazione; i rapporti
reciproci tra gestori in concorrenza; i rapporti tra gestori e utenti.
1. Nel primo ambito, infatti, i regolatori devono predisporre una cornice di regole tali da
consentire sia lo sviluppo di un mercato concorrenziale, sia il raggiungimento degli obiettivi propri del
servizio pubblico (continuità, eguaglianza, ecc.).
La regolazione volta a creare in modo artificiale i presupposti del mercato concorrenziale ha
dunque i caratteri di una regolazione ex ante.
Ad essa si aggiunge l’applicazione dei principi generali in materia di concorrenza il cui rispetto è
assicurato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
A valle dell’attività normativa le autorità di regolazione devono assicurare l’osservanza delle
norme da parte dei gestori del servizio, esercitando poteri di vigilanza, avviando, se del caso,
procedimenti sanzionatori o dichiarando, nei casi di infrazioni più gravi, la decadenza dalla
concessione.
2. Passando a considerare il secondo ambito, i gestori del servizio in concorrenza sono sottoposti
a una serie di obblighi reciproci, come per esempio, nel settore della telefonia mobile, consentire
l’interconnessione della propria rete con quella di altri operatori in modo tale che i clienti di un gestore
possano comunicare con i clienti degli altri gestori. Le relazioni tra gestori in concorrenza sono
rimesse in prima battuta a strumenti negoziali e, in caso di impossibilità di un accordo, a
provvedimenti unilaterali delle autorità di settore.
3. Quanto al terzo ambito, il rapporto tra gestore e utenti del servizio è disciplinato da un
complesso di regole poste dalle autorità di settore e dalle carte dei servizi. In caso di violazione,
l’utente può proporre un reclamo anzitutto al gestore del servizio in base a procedure da questo
stabilite e, in seconda battuta, innanzi all’autorità di settore che risolve la controversia in via
stragiudiziale.
Un nucleo minimo di disposizioni comuni alle autorità è contenuto nella l. n. 481/1995 alle quali
si aggiungono per ciascuna autorità altre disposizioni contenute nelle singole leggi istitutive e nella
disciplina di settore.
La l. n. 481/1995 individua anzitutto le finalità della regolazione: promozione della
concorrenza e dell’efficienza nei settori dei servizi di pubblica utilità; raggiungimento di livelli di
qualità in condizioni di economicità e di redditività; fruibilità e diffusione dei servizi in modo
omogeneo sull’intero territorio nazionale; definizione di un sistema tariffario certo, trasparente e
basato su criteri predefiniti; promozione della tutela degli interessi degli utenti e dei consumatori.
La l. n. 481/1995 pone inoltre alcune regole organizzative volte a garantire l’indipendenza delle
autorità in linea con quelle proprie del modello delle autorità indipendenti: requisiti di competenza e
professionalità per i componenti dell’autorità, durata dell’incarico di sette anni senza possibilità di
rinnovo, composizione collegiale dell’organo, ecc.
La l. n. 481/1995 delinea in termini generali le funzioni e i poteri delle autorità, specificati poi
nella disciplina di settore quali in particolare: formulare osservazioni e proposte al governo e al
parlamento in modo da migliorare l’assetto della regolazione (funzione di advocacy); controllare le
condizioni e le modalità di accesso ai servizi resi agli utenti in modo tale che siano rispettati i principi
della concorrenza, della trasparenza, della eguaglianza, garantendo anche il rispetto dell’ambiente, la
sicurezza degli impianti e la salute degli addetti; controllare lo svolgimento dei servizi con poteri di
172
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

ispezione, di accesso, di acquisizione della documentazione; emanare direttive concernenti la


produzione e l’erogazione dei servizi definendo in particolare i livelli generali e specifici di qualità;
valutare reclami, istanze e segnalazioni degli utenti e dei consumatori.
1. L’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (ARERA), disciplinata dalla l. n.
481/1995, è preposta alla regolazione dei settori dell’energia elettrica, del gas, del servizio idrico e dei
rifiuti. L’Autorità opera in modo integrato con le corrispondenti autorità europee.
2. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, istituita nel 1997, è preposta sia al settore
delle comunicazioni elettroniche, sia al settore dei media, sia, da ultimo, al settore postale. Nel settore
dei media l’Autorità opera anche allo scopo di garantire il pluralismo dell’informazione, la tutela dei
minori e la par condicio nelle campagne elettorali. Sul piano organizzativo in aggiunta a un organo
collegiale (il consiglio), sono previsti due sotto organi (la commissione per le infrastrutture e la
commissione per i servizi e i prodotti) con competenze specializzate nei due ambiti sopra indicati. A
livello europeo essa agisce in modo coordinato con l’Organismo dei regolatori europei delle
comunicazioni elettroniche.
3. L’Autorità di regolazione dei trasporti istituita nel 2012 è preposta ai settori ferroviario,
portuale, aeroportuale e autostradale. L’Autorità ha in particolare il potere di stabilire i criteri per la
fissazione delle tariffe, dei pedaggi e dei canoni applicati agli utenti, di regolare l’accesso alle
infrastrutture di rete da parte dei gestori del servizio in concorrenza, di definire i diritti degli utenti, di
definire gli schemi dei bandi delle gare per l’assegnazione dei servizi di trasporto in esclusiva e delle
relative convenzioni. Ha inoltre poteri di intervento in materia di servizio taxi, allo scopo di migliorare
la qualità del servizio anche attraverso la promozione dell’incremento del numero delle licenze
rilasciate e una maggior libertà tariffaria. All’Autorità è attribuito il potere eccezionale di impugnare
innanzi al giudice amministrativo (TAR del Lazio) i provvedimenti dei comuni relativi alla disciplina
del servizio taxi.

5. I servizi pubblici locali

La disciplina dei servizi pubblici locali è contenuta nel Testo unico degli enti locali, in leggi
settoriali che regolano servizi specifici come la distribuzione dell’energia elettrica e del gas o i
trasporti locali, nonché per quanto riguarda i servizi erogati da società a partecipazione pubblica, nel
d.lgs. 175/2016.
Essa ha subito nel corso degli anni vari tentativi di riforma tesi ad aprire il settore a un maggior
grado di concorrenza.
In termini generali, i servizi pubblici locali sono definiti con una formulazione normativa molto
ampia che include tutti i servizi «che abbiano per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a
realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali».
Le delibere in tema di organizzazione dei servizi sono attribuite alla competenza del consiglio
comunale o provinciale.
Le forme di gestione dei servizi aventi rilevanza economica previste nella legislazione in vigore
fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso erano essenzialmente le aziende speciali o, per i
servizi di minor dimensione, la gestione in economia.
Oggi, in base alle disposizioni legislative del Testo unico le forme di gestione sono essenzialmente
tre: le società di capitali individuate mediante una procedura a evidenza pubblica, le società a
capitale misto pubblico-privato con selezione del socio privato attraverso procedure a evidenza
pubblica, le società in-house.

173
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Leggi recenti avevano cercato di privilegiare le prime due forme di gestione in modo tale da aprire
il settore alla concorrenza; per converso per limitare gli affidamenti a società in-house.
Questi indirizzi legislativi sono stati sconfessati nel 2011 in seguito a un referendum e attualmente
la scelta tra l’affidamento in-house e l’avvio di procedure a evidenza pubblica è condizionata soltanto
dai principi del diritto europeo.
I servizi locali privi di rilevanza economica erano disciplinati dall’art. 113-bis del Testo unico
degli enti locali che prevedeva che essi potessero essere gestiti mediante affidamenti diretti ad aziende
speciali, a istituzioni, a società in-house, oppure, per i servizi di più modeste dimensioni, anche in
economia.
La disposizione è stata ritenuta incostituzionale perché invasiva delle competenze legislative delle
regioni alle quali spetta dunque individuare i modelli di gestione.

174
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

6. Il Servizio sanitario nazionale, il servizio scolastico, i servizi sociali

Occorre ora dedicare qualche cenno ad alcuni servizi pubblici privi di rilevanza economica che
incarnano il modello dello Stato sociale o del benessere. Si tratta di servizi erogati in gran parte
attraverso moduli organizzativi pubblicistici.

 Il Servizio sanitario nazionale. Uno dei più importanti è il Servizio sanitario nazionale
istituito in attuazione dell’art. 32 Cost., secondo il quale «la Repubblica tutela la salute come diritto
fondamentale dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti».
L’art. 117, comma 3, devolve questa materia alla competenza legislativa concorrente dello Stato e
delle regioni.
Almeno fino alla fine del XIX secolo l’intervento dei pubblici poteri a difesa della salute pubblica
era mirato soprattutto a evitare il propagarsi di malattie epidemiche nell’interesse della collettività, più
che a tutelare un diritto individuale. L’assistenza ai malati, invece, era rimessa soprattutto a istituzioni
religiose. In epoca crispina, come già accennato, lo Stato italiano sottopose a controlli penetranti gli
istituti di tipo ospedaliero e assistenziale trasformati in Istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficienza. Negli anni Sessanta del secolo scorso, furono istituiti gli enti ospedalieri aventi natura
giuridica pubblica e negli anni Settanta, anche in seguito all’attuazione delle regioni, vennero poste le
basi del modello attuale del Servizio sanitario nazionale (legge 23 dicembre 1978, n. 833).
La legge istitutiva n. 833/1978 trae ispirazione da una concezione universalistica, egualitaria e
onnicomprensiva del servizio sanitario. Il servizio sanitario nazionale è definito come il «complesso
delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e
al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni
individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del
servizio» (art. 1, comma 3).
Le prestazioni offerte dal Servizio sanitario nazionale includono sia servizi di tipo erogativo, come
l’assistenza medico-generica (medicina di base), l’assistenza specialistica, l’assistenza ospedaliera,
l’assistenza farmaceutica, l’assistenza infermieristica; sia attività amministrative in materia di igiene,
sicurezza sul lavoro e ambientale.
Il finanziamento è posto a carico della collettività e della fiscalità generale. Negli anni più recenti
sono state introdotte forme di partecipazione della spesa a carico dei singoli utenti ( tickets) e forme di
autofinanziamento regionale.
L’organizzazione del servizio dà origine a un’amministrazione nazionale composita. Ad essa
concorrono infatti lo Stato, al quale sono riservate competenze programmatorie; le regioni, che hanno
la responsabilità primaria di organizzazione del servizio e alle quali sono attribuite «tutte le funzioni e
i compiti amministrativi in tema di salute umana e sanità veterinaria, salvo quelli espressamente
mantenuti allo Stato»; gli enti locali, che hanno un ruolo più limitato. Allo Stato compete in
particolare la definizione dei livelli delle prestazioni essenziali. Le funzioni programmatorie si
concretizzano nell’adozione di un piano sanitario nazionale. Allo Stato compete anche l’elaborazione
di uno schema generale di riferimento per la redazione della carta dei servizi sanitari adottata dalle
singole strutture sanitarie e che mira a garantire i diritti degli utenti.
Alle regioni spettano le funzioni legislative e amministrative in materia di assistenza sanitaria e
ospedaliera. In particolare, le regioni determinano l’articolazione del territorio regionale in unità
sanitarie locali, che costituiscono la «maglia» organizzativa di base del sistema a rete, ed esercitano
poteri di indirizzo e di vigilanza su queste ultime e provvedono al loro finanziamento.

175
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Le unità (o aziende) sanitarie locali sono definite come «aziende con personalità giuridica
pubblica e autonomia imprenditoriale» (art. 3, comma 1-bis, d.lgs. n. 502/1992) i cui organi sono il
direttore generale e il collegio sindacale. Il direttore generale è nominato dalla regione con una
procedura selettiva tra candidati iscritti in un albo nazionale in possesso di professionalità ed
esperienza specifichi. Il direttore generale è responsabile della gestione complessiva dell’azienda e, in
particolare, nomina il direttore amministrativo, il direttore sanitario e i responsabili di tutte le strutture
operative. L’organizzazione è disciplinata da un atto aziendale di diritto privato, approvato dal
direttore generale.
Le aziende sanitarie locali (ASL) assicurano «l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e
di lavoro, l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera».
L’erogazione delle prestazioni sanitarie, corrispondenti ai livelli essenziali e uniformi garantiti
dalla regione, è affidata, oltre che a presidi gestiti direttamente dalle ASL, anche ad altre strutture
quali le aziende ospedaliere di rilievo nazionale e interregionale, le aziende ospedaliere universitarie.
Anche strutture private possono concorrere a erogare le prestazioni sanitarie per conto del
servizio pubblico sulla base di un sistema di autorizzazione, di accreditamento e di accordi
contrattuali.
È necessaria anzitutto un’autorizzazione alla realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie
e all’esercizio delle attività, che ha la funzione di verifica del possesso di requisiti tecnici minimi. Le
strutture autorizzate devono poi ottenere un accreditamento che la regione può rilasciare sulla base di
valutazioni discrezionali correlate alla «funzionalità rispetto agli indirizzi della programmazione
regionale», cioè al fabbisogno dei servizi definito in base al piano sanitario regionale. Ove tale
fabbisogno risulti soddisfatto, la regione può rifiutare ulteriori accreditamenti. Una volta ottenuto
l’accreditamento, le strutture definiscono con la regione accordi contrattuali che individuano le attività
che esse si impegnano a erogare per conto del servizio sanitario e che sono remunerate a carico di
quest’ultimo.
All’esito di questa sequenza procedimentale complessa, le strutture private sono inserite nel
Servizio sanitario regionale e acquistano la qualifica di gestori del servizio pubblico, sottoposti alla
vigilanza regionale.

 Il servizio scolastico. Il servizio scolastico può essere definito come un servizio pubblico
sociale a fruizione individuale coattiva e a erogazione gratuita. Anch’esso dà origine a
un’organizzazione a rete, alla quale concorrono il livello amministrativo statale, regionale e locale,
nonché, in base al principio di sussidiarietà orizzontale, istituzioni private.
I principi del servizio scolastico sono fissati nella Costituzione che tutela la libertà di
insegnamento (art. 33, comma 1) e garantisce il diritto all’istruzione (art. 34, comma 1).
L’obbligatorietà e la gratuità sono enunciate, in coerenza con una concezione universalistica del
servizio, dalla Costituzione per l’istruzione inferiore (scuola dell’obbligo) che non può avere una
durata inferiore a otto anni.
L’istruzione è definita a livello legislativo sia come diritto soggettivo riconosciuto a tutti, anche ai
minori stranieri presenti nel territorio dello Stato, sia come dovere sociale ai sensi dell’art. 4, comma
2, Cost. Inoltre, i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più
alti degli studi e a questo fine deve essere previsto un sistema di borse di studio, di assegni alle
famiglie e altre provvidenze.
Il servizio scolastico costituisce, per un verso, un compito obbligatorio per lo Stato che deve
organizzarlo e gestirlo con proprie strutture. Per altro verso, il legislatore non potrebbe, sempre per

176
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

vincolo costituzionale, creare un regime di monopolio pubblico. Infatti i privati hanno il diritto di
istituire scuole e istituiti di educazione e di ottenere un riconoscimento statale.
In seguito alla legge costituzionale n. 3/2001, l’istruzione è una materia attribuita alla competenza
legislativa concorrente dello Stato e delle regioni, le quali invece hanno competenza legislativa piena
in materia di formazione professionale.
Lo Stato ha il compito di determinare le norme generali sull’istruzione e sui livelli essenziali delle
prestazioni, nonché di effettuare il monitoraggio e la valutazione del servizio reso. Il ministero
dell’Istruzione esercita le proprie funzioni a livello periferico attraverso gli uffici scolastici regionali.
Spetta in particolare al dirigente di questi ultimi nominare il dirigente scolastico della scuola. Alle
regioni spetta la programmazione della rete scolastica, inclusa la distribuzione del personale tra le
scuole, mentre gli enti locali svolgono attività di supporto alle istituzioni scolastiche.
Le istituzioni scolastiche pubbliche hanno personalità giuridica e autonomia organizzativa,
didattica e finanziaria.
Gli organi dell’istituzione scolastica pubblica sono il dirigente scolastico, responsabile della
gestione manageriale; il collegio dei docenti, composto dai docenti della scuola e responsabile del
funzionamento didattico; il consiglio di istituto, presieduto dal dirigente scolastico e aperto alla
partecipazione di una rappresentanza di genitori e di studenti.
Per le scuole private è previsto un sistema di accertamento della idoneità sulla base di requisiti di
qualità e di efficacia, e di corrispondenza agli ordinamenti generali dell’istruzione. Esse sono
sottoposte alla vigilanza statale allo scopo di verificare la permanenza del possesso dei requisiti e il
rispetto degli obblighi di servizio pubblico. Anche le scuole private parificate possono rilasciare titoli
di studio aventi valore legale.

 I servizi sociali. I servizi sociali includono «tutte le attività relative alla predisposizione e alla
erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinati a rimuovere e
superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita».
Essi non includono però le prestazioni garantite dal sistema previdenziale per il quale la
disposizione costituzionale di riferimento è l’art. 38, che prevede il diritto dei lavoratori a veder
assicurati mezzi adeguati in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione
involontaria. Peraltro, l’evoluzione legislativa ha esteso l’ambito di applicazione delle provvidenze
sociali, secondo una concezione universalistica del sistema integrato di interventi sociali, anche a
categorie diverse dai lavoratori fino a includere tutti i cittadini italiani e anche, sia pur entro certi
limiti, gli stranieri. È peraltro attribuita una priorità di accesso ai servizi e alle provvidenze alle
persone in condizioni di povertà o con reddito limitato e ai soggetti affetti da inabilità di ordine fisico e
psichico.
Quanto ai servizi sociali, con la riforma del Titolo V della Costituzione, essi sono attribuiti alla
competenza residuale esclusiva delle regioni, mentre alla legge statale compete soltanto la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Il sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali coinvolge tutti i livelli di governo locale, in
base al principio di sussidiarietà verticale. In particolare, le regioni esercitano funzioni di
programmazione, coordinamento e indirizzo, anche attraverso la predisposizione di piani, la
determinazione degli ambiti territoriali; le province svolgono principalmente attività di raccolta di dati
e di analisi dell’offerta dei servizi; i comuni, che hanno una posizione di centralità in questa materia,
sono titolari delle funzioni amministrative in materia e provvedono all’erogazione dei servizi.
I servizi sociali sono un settore nel quale trova applicazione naturale anche il principio di
sussidiarietà orizzontale. La l. n. 328/2000 lo enuncia espressamente promuovendo e valorizzando il
177
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

più possibile il cosiddetto Terzo settore con azioni di sostegno e di qualificazione da parte degli enti
locali, delle regioni e dello Stato.
In concreto, spetta ai comuni rilasciare l’autorizzazione e provvedere all’accreditamento dei
soggetti privati in modo tale da garantire che tali soggetti abbiano i requisiti strutturali necessari
previsti dalla legislazione regionale e che siano in grado di erogare le prestazioni richieste dalla
programmazione regionale. Uno dei requisiti per ottenere l’accreditamento è l’adozione della carta dei
servizi sociali, sulla base di uno schema generale di riferimento approvato a livello statale. I comuni
esercitano anche funzioni di vigilanza sui soggetti privati autorizzati e accreditati.
Tra i soggetti privati che operano nel settore dei servizi sociali rientrano le Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficienza (IPAB).

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 11. I BENI

1. La disciplina pubblicistica dei beni pubblici

Le pubbliche amministrazioni per realizzare i propri scopi devono procurarsi beni immobili e beni
mobili. Si tratta di beni che esse possono possedere a titolo di proprietà privata o ad altro titolo
civilistico e che possono acquisire, in molti casi, seguendo procedure a evidenza pubblica.
In aggiunta le pubbliche amministrazioni, a differenza dei privati, sono titolari e gestiscono alcuni
tipi di beni per metterli a disposizione della collettività. Si pensi alle strade, ai musei, al lido del mare,
alle foreste.
Il regime speciale dei beni pubblici trova un fondamento nel codice civile (artt. 822 ss.).
La Costituzione stabilisce in primo luogo che «la proprietà è pubblica o privata» (art. 42, comma
1). In secondo luogo, precisa che «i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati»
(comma 1, secondo periodo), con ciò legittimando lo Stato e le pubbliche amministrazioni ad
assumere la veste di proprietari (e gestori) dei medesimi, al pari dei privati, senza alcun limite
particolare.
A livello europeo, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 345) mantiene un
atteggiamento di neutralità in tema di proprietà privata.
Il codice civile, come si vedrà più avanti, pone la distinzione tra beni demaniali, disciplinati da
regole pubblicistiche, e beni patrimoniali (disponibili e indisponibili), soggetti invece «alle regole del
presente codice» (art. 828, comma 1).
Anche i beni privati possono essere oggetto di un regime pubblicistico. La proprietà privata può
essere infatti conformata dal potere pubblico «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti» (art. 42, comma 2).
Il codice civile contiene varie disposizioni che conformano la proprietà privata a scopi di interesse
pubblico. Le servitù coattive includono anche quelle costituite «con atto dell’autorità amministrativa
nei casi specialmente determinati dalla legge» (art. 1032). Molte leggi amministrative settoriali
introducono limiti al diritto di proprietà allo scopo di tutelare interessi pubblici.

2. I beni di interesse privato e i beni di interesse pubblico

Può essere posta anzitutto una distinzione di tipo oggettivo tra beni di interesse privato e beni di
interesse pubblico.
1. I beni di interesse privato sono disciplinati integralmente dal codice civile. I proprietari dei
beni di interesse privato hanno diritto «di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo», sia
pure entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico (art. 832 cod.
civ.).
Tuttavia anche a questi beni disciplinati dal codice civile possono essere applicati regimi
pubblicistici che attribuiscono poteri conformativi ad apparati pubblici. Si pensi alla disciplina
urbanistica ed edilizia.
Si pensi ancora ai vincoli che gravano sui beni privati a fini di tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema.
Nella categoria dei beni di interesse privato rientrano anche alcuni beni pubblici in senso
soggettivo, e cioè i beni patrimoniali disponibili appartenenti allo Stato e agli enti territoriali
regolati dal diritto comune (art. 826 cod. civ.). Da questi beni (si pensi a immobili locati a uffici
privati), le pubbliche amministrazioni si propongono esclusivamente lo scopo di trarne un reddito. In
179
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

realtà, anche a questi beni si applicano alcune regole speciali pubblicistiche, relative alle modalità di
acquisto e vendita da parte della pubblica amministrazione, cioè alle procedure a evidenza pubblica
disciplinate dal Codice dei contratti pubblici volte a tutelare la concorrenza, e quelle relative alla
contabilizzazione nel bilancio.
2. I beni di interesse pubblico sono quei beni che sotto il profilo oggettivo hanno una rilevanza
pubblicistica. Nei beni di interesse privato l’interesse pubblico, là dove sussista, è per così dire esterno
al bene. Nei beni di interesse pubblico l’interesse pubblico è invece immanente al bene. Si pensi, per
esempio, a un reperto archeologico, a un edificio, a una statua o a un dipinto antichi.
Questa particolarità emerge nella categoria più importante di beni di interesse pubblico e cioè i
beni culturali e i beni paesaggistici.
2a) A livello nazionale la disciplina dei beni culturali e dei beni paesaggistici è contenuta nel
Codice dei beni culturali e del paesaggio.
A monte del Codice, la Costituzione affida alla Repubblica la tutela del patrimonio storico e
artistico della Nazione (art. 9).
I beni culturali sono individuati con una duplice modalità: attraverso elenchi tassativi di beni
culturali ex lege, come per esempio i musei, gli archivi di documenti pubblici, le biblioteche dello
Stato, degli enti territoriali e degli enti pubblici; attraverso un procedimento amministrativo in
contraddittorio con i proprietari titolari di alcune tipologie di beni indicate dalla legge, come, per
esempio, le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico
particolarmente importante.
I beni culturali individuati sono soggetti a un regime speciale di vigilanza e ispezione relativo alla
tutela, alla circolazione, alla fruizione e alla valorizzazione.
La tutela consiste in una serie di misure di protezione e conservazione. In particolare, per ogni
intervento di rimozione, demolizione, di esecuzione di lavori è necessaria un’autorizzazione del
ministero dei Beni culturali.
La circolazione dei beni culturali è gravata da una serie di vincoli. Alcuni beni culturali
appartenenti allo Stato e agli enti pubblici sono inalienabili in senso assoluto; per altri è previsto un
regime di autorizzazione preventiva. I beni culturali di proprietà privata possono essere alienati, ma lo
Stato e gli enti pubblici possono esercitare un diritto di prelazione. I beni culturali sono inoltre
suscettibili di espropriazione per pubblica utilità.
La fruizione dei beni culturali è disciplinata distinguendo i beni appartenenti agli enti pubblici e i
beni appartenenti ai privati. Per i primi sono previste regole volte ad assicurare il massimo grado di
fruizione pubblica. Dei secondi deve essere consentita la visita da parte del pubblico, ma solo nei casi
in cui i beni siano dichiarati di «interesse eccezionale» con atto del ministero emanato in
contraddittorio con il proprietario.
La valorizzazione consiste nell’attività di promozione della conoscenza del patrimonio culturale.
Anche la tutela e la valorizzazione dei beni paesaggistici (ville, giardini) sono disciplinate dal
Codice.
2b) Un’altra tipologia di beni di interesse pubblico è costituita dalle aree naturali protette dalla
legge quadro sulle aree protette (legge 6 dicembre 1991, n. 394).
Le aree naturali protette sono suddivise in più categorie: parchi nazionali, parchi naturali regionali,
riserve naturali protette. I parchi nazionali sono costituiti in enti aventi personalità giuridica di diritto
pubblico (enti parco). L’ente parco disciplina i beni in esso inclusi con un regolamento e un piano.
Il regolamento disciplina le attività costruttive, economiche, ricreative, di soggiorno e
circolazione. Il piano del parco suddivide il territorio in base al diverso grado di protezione.

180
Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Il perimetro del parco può includere, oltre a beni demaniali, anche terreni ed edifici di proprietà
privata che sono gravati da vincoli speciali. Infatti tutti gli interventi, impianti e opere all’interno del
parco richiedono, in aggiunta alle autorizzazioni previste dalle normative generali (per esempio, il
permesso a costruire), un nullaosta dell’ente parco volto a verificare la conformità con le disposizioni
del regolamento e del piano.
2c) Una specie di beni privati che ha acquistato il carattere di beni di interesse pubblico è
costituita dalle reti, cioè dalle infrastrutture fisiche necessarie per l’erogazione di alcuni servizi
pubblici. Le reti costituiscono elementi di monopolio naturale, che, come si è già accennato,
richiedono una regolazione pubblica ex ante almeno sotto due profili: la garanzia di accesso alla rete
da parte di una pluralità di erogatori di servizi; la definizione delle tariffe per l’uso della rete in modo
tale da evitare che il monopolista possa abusare del suo potere di mercato.
I beni sin qui considerati sono riferibili sotto il profilo soggettivo, sia a soggetti privati, sia allo
Stato e agli enti pubblici. Alcune categorie di beni, come si vedrà nel paragrafo che segue, possono
invece appartenere esclusivamente allo Stato e agli enti pubblici.

3. I beni patrimoniali indisponibili e i beni demaniali

Come già accennato, il codice civile distingue tra demanio pubblico (artt. 822 ss.) e beni
patrimoniali (art. 826). I beni patrimoniali disponibili, come si è visto nel paragrafo precedente, vanno
considerati come beni di interesse privato (in senso oggettivo).
1. I beni patrimoniali indisponibili sono sottoposti a regole speciali e, per quanto non
diversamente disposto da esse, alle regole del codice civile (art. 828). Il codice fornisce un elenco
tassativo: foreste, miniere, caserme, armamenti, ecc. (art. 830).
Il carattere indisponibile dei beni si manifesta nel fatto che essi, per quanto siano suscettibili di
alienazione, non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che
li riguardano (art. 829 cod. civ.). Il vincolo di destinazione può essere rimosso usualmente con un atto
amministrativo, analogamente a quanto accade, come si dirà, per la sdemanializzazione. Si pensi al
caso di una caserma dismessa.
2. I beni demaniali ineriscono al demanio necessario o al demanio eventuale. I beni del demanio
necessario possono appartenere soltanto allo Stato e sono elencati in modo tassativo dall’art. 822,
comma 1 cod. civ.: il lido del mare, la spiaggia, i porti, i fiumi, i laghi, ecc. I beni del demanio
eventuale fanno parte del demanio solo nel caso in cui appartengono allo Stato, alle regioni o agli enti
territoriali (art. 824) e sono elencati dall’art 822, comma 2: le strade e le autostrade, gli acquedotti, i
musei, le biblioteche, ecc.
In aggiunta ai beni indicati dal codice civile anche molte leggi speciali qualificano taluni beni
come demaniali.
I beni demaniali sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non
nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi (art. 823, comma 1). Si tratta dunque di beni
incommerciabili, non aggredibili dai creditori dell’ente secondo le regole ordinarie del codice civile
(espropriazione forzata), non usucapibili (né assoggettati al regime della prescrizione).
Inoltre, ai fini di tutela dei beni demaniali l’autorità amministrativa può ricorrere sia ai mezzi
ordinari stabiliti dal codice civile a tutela della proprietà, sia all’autotutela (art. 823, comma 2).
I beni demaniali sono in gran parte destinati alla fruizione pubblica (uso generale, per esempio del
lido del mare). Tuttavia essi possono essere attribuiti in uso e godimento a singoli utilizzatori ( uso
particolare) attraverso lo strumento della concessione amministrativa. Così, per esempio,
l’amministrazione marittima, compatibilmente con l’uso pubblico, può concedere l’occupazione e
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

l’uso, anche esclusivo, di beni del demanio marittimo (per esempio per realizzare uno stabilimento
balneare) per un determinato tempo. La concessione prevede generalmente la corresponsione di un
canone o corrispettivo da parte del concessionario.
Il codice civile prevede che il passaggio dei beni del demanio pubblico al patrimonio dello Stato
deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa con un atto del quale deve essere data notizia nella
Gazzetta Ufficiale. In seguito alla sdemanializzazione il bene è soggetto al regime di diritto privato e
può essere alienato.
Sfugge alle classificazioni del codice civile una categoria residuale di beni caratterizzati da regimi
di proprietà collettiva. Si pensi in particolare ai beni sui quali insistono i cosiddetti usi civici, attribuiti
a componenti di collettività. Alcuni esempi sono i diritti attribuiti a collettività rurali (come diritti di
pascolo, di caccia, di pesca) esercitati su terreni di proprietà dei comuni o anche di privati ora
disciplinati in gran parte da leggi regionali.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

CAPITOLO 12. I CONTRATTI

1. Premessa

Le amministrazioni pubbliche godono di una capacità generale di diritto privato. In particolare


esse possono stipulare contratti per l’acquisto di beni e servizi e per l’esecuzione di lavori necessari
per il perseguimento delle finalità di interesse pubblico. I contratti pubblici rappresentano una delle
voci principali della spesa pubblica.
Le amministrazioni esercitano peraltro la loro capacità generale di diritto privato non solo
nell’ambito del public procurement, cioè del settore delle commesse pubbliche disciplinate dal Codice
dei contratti pubblici approvato con d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma anche in altri ambiti. Si pensi, per
esempio, a quelli dei contratti collettivi e individuali disciplinanti i rapporti di lavoro dei dipendenti
pubblici.
Allorché stipulano un contratto, le amministrazioni, a differenza dei privati che sono pienamente
liberi di scegliere le proprie controparti contrattuali, sono soggette a regole di natura pubblicistica
volte a tutelare gli interessi delle stesse amministrazioni e a garantire la par condicio tra i potenziali
contraenti.
La formazione della volontà negoziale dell’amministrazione e la scelta del contraente avvengono
cioè, attraverso un procedimento amministrativo a evidenza pubblica di tipo competitivo. Tale
procedimento va a integrare le regole del diritto privato relative allo schema proposta-accettazione di
cui all’art. 1326 codice civile.
Più precisamente, la fase di formazione del vincolo contrattuale è retta da regole di diritto
pubblico e si sviluppa in una sequenza procedimentale che culmina nell’emanazione di un
provvedimento di aggiudicazione; la fase di esecuzione del contratto è invece retta essenzialmente
dalle regole del diritto privato.
Il Codice dei contratti pubblici riflette questa impostazione ponendo due criteri di integrazione
della disciplina. Da un lato, stabilisce che alle procedure di affidamento dei contratti pubblici si
applicano, per quanto non espressamente previsto dal Codice, le disposizioni sul procedimento
amministrativo di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241; dall’altro, prevede che, sempre per quanto non
previsto dal Codice, «alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del
codice civile».
In origine e per lungo tempo, la disciplina dei contratti della pubblica amministrazione è stata
contenuta nella normativa sulla contabilità dello Stato. Essa prevedeva procedure a evidenza pubblica
sia per i contratti attivi dello Stato, dai quali cioè deriva un’entrata (per esempio la vendita di un
immobile non più utilizzato per finalità pubbliche), sia per i contratti passivi, che comportano cioè
un’uscita (per esempio l’acquisto di arredi).
La collocazione della disciplina del procedimento a evidenza pubblica tra le norme sulla
contabilità trovava spiegazione nel fatto che essa mirava a garantire una gestione corretta ed efficiente
del danaro pubblico. Essa era diretta principalmente ad assicurare le condizioni economiche più
favorevoli all’amministrazione mettendo in concorrenza le imprese e a proteggere l’amministrazione
dal rischio di collusione tra queste ultime.
Questi obiettivi venivano perseguiti per mezzo di una serie minuta di regole formali e procedurali
relative alla gara pubblica (per esempio, la presentazione delle offerte in buste sigillate, la tempistica
dell’asta, le modalità di apertura delle buste, ecc.) volte a escludere o limitare il più possibile la
discrezionalità dell’amministrazione. Non a caso le due principali modalità di selezione del contraente
erano l’asta pubblica aperta a tutti i potenziali offerenti, oppure la licitazione privata, con la
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

partecipazione delle imprese invitate dalla stazione appaltante e la selezione dell’offerta migliore sulla
base di un solo parametro vincolato e cioè il prezzo offerto.
A partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, muta radicalmente l’impostazione della
disciplina. Essa pone ora l’accento soprattutto sull’esigenza di aprire il mercato degli appalti pubblici
alla concorrenza a livello europeo in attuazione del principio di libera circolazione intracomunitaria
delle merci e dei servizi. Pertanto vengono introdotte regole volte a promuovere la pubblicità dei bandi
di gara, la trasparenza della procedura e la par condicio.
Inoltre, le direttive europee privilegiano un approccio meno formalistico, più flessibile e più aperto
a momenti di confronto tra l’amministrazione e le imprese e che attribuisce a quest’ultima maggiori
spazi di discrezionalità. Nella visione europea un qualche margine di discrezionalità consente
all’amministrazione di invitare alla contrattazione le imprese ritenute più affidabili e di valutare
meglio in concreto le offerte valorizzando gli elementi qualitativi delle medesime.
I contratti a evidenza pubblica sono un settore della legislazione amministrativa che ha subito
maggiormente l’influsso del diritto europeo.
Il nuovo Codice ha sostituito il precedente approvato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che aveva
già riordinato la materia unificando in un solo corpo normativo la disciplina delle forniture, dei servizi
e dei lavori pubblici, recependo due direttive europee (2004/17/CE e 2004/18/CE).
Al Codice si aggiungeva un ponderoso regolamento di esecuzione e attuazione, ora abrogato, che
disciplinava soprattutto la progettazione, l’aggiudicazione e l’esecuzione dei lavori pubblici (d.p.r. 5
ottobre 2010, n. 207).
La disciplina generale stabilita a livello statale è adottata nell’esercizio della competenza
legislativa esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, ordinamento civile, nonché nelle
altre materie cui è riconducibile lo specifico contratto.
Tra le fonti di disciplina dei contratti pubblici rientrano anche i cosiddetti capitolati generali e
speciali, previsti già dalla normativa sulla contabilità dello Stato, dei quali è stata oggetto di
discussione la natura propriamente normativa (capitolati generali) o contrattuale (capitolati speciali).
Essi possono contenere la disciplina di dettaglio e tecnica della generalità dei contratti o di specifici
contratti stipulati dalle amministrazioni. Nei casi in cui siano menzionati nel bando o in altri atti di
gara, i capitolati costituiscono parte integrante del contratto.
I contratti pubblici sono disciplinati per aspetti specifici anche da fonti esterne al Codice. Può
essere sufficiente richiamarne alcune.
1. In primo luogo, la legge anticorruzione (legge 6 novembre 2012, n. 190) individua tra i
settori più a rischio le modalità per l’affidamento dei contratti pubblici. Obbliga pertanto le stazioni
appaltanti a pubblicare anche sui propri siti internet istituzionali una serie di informazioni relative ai
bandi pubblicati. Obblighi di trasparenza di questo tipo sono ritenuti utili per combattere i fenomeni
corruttivi.
Altre misure sono i cosiddetti patti di integrità e i protocolli di legalità sottoscritti dalla stazione
appaltante con le imprese, contenenti impegni finalizzati a garantire l’integrità dell’appalto. Il mancato
rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di
esclusione dalla gara.
2. In secondo luogo, il codice penale, come si e già accennato, contiene disposizioni che
individuano alcune figure specifiche di reato. Esse sono state integrate con il reato di turbata libertà
del procedimento di scelta del contraente. Questo reato è commesso da chi cerca di condizionare a
proprio favore con mezzi fraudolenti il contenuto del bando di gara che invece dovrebbe essere
predisposto in modo tale da favorire la partecipazione su un piano di parità di una molteplicità di
imprese.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

3. In terzo luogo, le imprese che partecipano alle gare pubbliche devono rispettare la normativa
antimafia e sono soggette a obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari derivanti dalle commesse
pubbliche anche nei rapporti con i subappaltatori e i subcontraenti così da prevenire infiltrazioni
criminali.
4. Infine, il Codice del processo amministrativo dedica alcuni articoli alle controversie in
materia di contratti pubblici che configurano, come si vedrà, un rito speciale accelerato volto a rendere
più rapida ed effettiva la tutela delle imprese che partecipano alle gare.
Sotto il profilo organizzativo, al mercato dei contratti pubblici è preposta l’Autorità nazionale
anticorruzione (ANAC) con funzioni di vigilanza, controllo e regolazione dei contratti pubblici.
L’Autorità è preposta alla vigilanza al controllo sui contratti pubblici e svolge «attività di
regolazione degli stessi» attraverso l’emanazione di «linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo».
L’Autorità è titolare in particolare di poteri ispettivi, può supportare le stazioni appaltanti nella
predisposizione degli atti, può irrogare sanzioni amministrative. L’Autorità gestisce una banca dati
nazionale dei contratti pubblici, avvalendosi anche di un apposito Osservatorio.
L’Autorità gestisce un nuovo sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di
committenza. Ai fini della qualificazione, ciascuna stazione appaltante deve dimostrare il possesso di
una serie di requisiti, tra i quali una capacità adeguata di progettazione, di gestire le procedure e di
verificare l’esecuzione dei contratti attraverso una struttura organizzativa dotata di personale
professionalmente preparato.
Gestisce anche il sistema del rating di impresa applicabile ai fini della qualificazione delle
imprese (cioè dell’ammissione alla partecipazione alle singole gare) attraverso il rilascio di una
certificazione ad opera della stessa Autorità.
Un potere particolarmente incisivo attribuito all’Autorità è quello di impugnare innanzi al giudice
amministrativo gli atti emanati in violazione della normativa in materia di contratti pubblici.
In definitiva, l’Autorità nazionale anticorruzione è preposta alla regolazione e alla vigilanza
sull’intero sistema degli appalti pubblici. Si tratta di una scelta organizzativa del legislatore nazionale
giustificata dall’obiettivo di rendere più efficiente, più concorrenziale e meno esposto a fenomeni
corruttivi il sistema dei contratti pubblici.

2. I principi generali e il campo di applicazione del Codice dei contratti pubblici

La logica proconcorrenziale della regolazione del mercato dei contratti pubblici viene esplicitata
nei principi generali enunciati dal Codice dei contratti pubblici.
L’art. 30, comma 1, stabilisce che l’affidamento dei contrati pubblici deve garantire la qualità
delle prestazioni e deve svolgersi nel rispetto dei «principi di economicità, efficacia, tempestività e
correttezza» e «dei principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità,
nonché quello di pubblicità».
Un temperamento del principio di economicità è costituito dai cosiddetti «appalti verdi», con
riferimento ai quali la stazione appaltante individua nel bando di gara o nel capitolato criteri tecnici
volti a favorire le offerte di beni e servizi che presentino soluzioni ecocompatibili.
Un altro esempio di uso strategico degli appalti per il perseguimento di finalità pubblicistiche è
costituito dai cosiddetti «appalti sociali», nei quali all’appaltatore è richiesto di avvalersi di particolari
categorie svantaggiate di lavoratori.
La logica proconcorrenziale spiega perché il Codice moduli le procedure di affidamento in
funzione del livello di rischio di distorsione della concorrenza dal lato della domanda di beni, servizi e
lavori.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

Quanto più i soggetti committenti operano in contesti non concorrenziali, tanto più elevato è il
rischio che la scelta dei propri fornitori tenda a favorire determinate imprese, per esempio a causa di
contiguità politiche, complicità affaristiche o altri interessi privati. Tanto più rigorose e formalizzate
pertanto sono le procedure per la scelta del contraente previste dal Codice. Viceversa, quanto più forte
è la pressione concorrenziale nei mercati in cui i operano committenti, tanto minore è il rischio che la
scelta dei propri fornitori sia dettata da ragioni extraeconomiche. Tanto meno necessaria è pertanto
l’introduzione di procedure di affidamento formalizzate.
A questo criterio si attiene il Codice nel definire l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione
delle norme in esso contenute.
1. Alcuni committenti operano per definizione fuori dal mercato. Essi sono anzitutto le pubbliche
amministrazioni di tipo tradizionale incluse nella definizione di «amministrazioni aggiudicatrici».
Questa include infatti «le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti
pubblici non economici» ai quali si applica il regime più garantista e formalizzato previsto per le
procedure di scelta del contraente. Questi soggetti agiscono per il perseguimento di interessi pubblici
senza subire alcuna pressione concorrenziale.
Ma la definizione di «amministrazioni aggiudicatrici» include anche gli «organismi di diritto
pubblico», cioè soggetti pubblici o anche privati che, in ragione della loro missione e dei collegamenti
organizzativi con pubbliche amministrazioni, possono essere condizionati nella politica degli acquisti
da ragioni extraeconomiche.
L’organismo di diritto pubblico viene individuato sulla base di tre parametri che devono essere
compresenti. In primo luogo, deve trattarsi di un soggetto con personalità giuridica, pubblica o privata.
In secondo luogo, deve essere istituito «per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale,
aventi carattere non industriale o commerciale». Deve cioè trattarsi di un soggetto che non persegue
fini di lucro, che non opera in normali condizioni di mercato e che non sopporta i rischi connessi alla
propria attività. In terzo luogo, deve trattarsi di un soggetto sottoposto a un’influenza dominante da
parte di una pubblica amministrazione o di un ente pubblico che può manifestarsi in base a uno o più
dei seguenti parametri: a) finanziamento maggioritario dell’attività da parte di un soggetto pubblico,
sotto forma di erogazioni concesse senza che ad esse corrisponda, in modo sinallagmatico, una
controprestazione; b) controllo sulla gestione, inteso come titolarità della maggioranza delle azioni o
quote della società; c) designazione da parte di un soggetto pubblico della maggioranza dei
componenti dell’organo di amministrazione, direzione o vigilanza.
In applicazione dei tre parametri, la giurisprudenza ha qualificato come organismo di diritto
pubblico anche alcune imprese formalmente private (come, per esempio, la Società autostrade, le
Ferrovie dello Stato).
Il Codice menziona inoltre le «imprese pubbliche», che sono sottoposte però a regole meno
stringenti in quanto si assume che esse ispirino la loro azione a una logica essenzialmente economica.
Le imprese pubbliche sono quelle sulle quali le amministrazioni aggiudicatrici «possono esercitare,
direttamente o indirettamente, un’influenza dominante». Quest’ultima si desume induttivamente dal
fatto che le amministrazioni aggiudicatrici siano proprietarie o abbiano una partecipazione finanziaria
nell’impresa pubblica o comunque dal regime giuridico di quest’ultima.
Alcune disposizioni del Codice si applicano infine alle imprese private che «operano in virtù di
diritti speciali o esclusivi» concessi per legge o sulla base di un provvedimento di una pubblica
amministrazione e che sono incluse nella categoria più generale di «enti aggiudicatoti». Si pensi per
esempio a una società petrolifera privata concessionaria del diritto di effettuare ricerche e di estrarre
minerali o idrocarburi. Proprio in virtù dei privilegi concessi, che si sostanziano nel fatto che

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

l’esercizio di un’attività è riservata a uno o pochi soggetti, queste imprese sono meno sensibili alla
pressione concorrenziale.
Le imprese pubbliche e quelle titolari di diritti speciali o esclusivi rientrano nel campo di
applicazione del Codice solo ove operino nei cosiddetti «settori speciali» che sono principalmente i
seguenti: energia elettrica e gas, acqua, servizi postali, porti e aeroporti. Si tratta di settori non ancora
aperti a una concorrenza piena, che rientrano tradizionalmente nella nozione di servizio pubblico e nei
quali gli operatori agiscono secondo moduli imprenditoriali. Per essi appare meno giustificata
l’applicazione integrale delle regole procedurali previste per i «settori ordinari». Pertanto il Codice
attenua la rigidità delle procedure individuando come modalità ordinaria di scelta del contraente la
procedura negoziata previa pubblicazione di un bando, più flessibile rispetto alle procedure aperte o
ristrette, che invece è ammessa nei «settori ordinari» solo in pochi casi tassativi.
Tuttavia, una volta che in uno Stato membro l’attività posta in essere nell’ambito dei «settori
speciali», in seguito ai processi di liberalizzazione, «è direttamente esposta alla concorrenza su mercati
liberamente accessibili», può essere attivato un procedimento per esentarli dall’applicazione del
Codice.
2. Il Codice dedica alcune disposizioni anche all’ambito oggettivo di applicazione delle norme,
individuando in un elenco alcune tipologie dei contratti esclusi in tutto o in parte dalla disciplina
generale. In tale elenco figurano, per esempio, i contratti di acquisto e vendita di strumenti finanziari, i
contratti di acquisto o locazione di beni immobili, ecc.
L’affidamento dei contratti esclusi, pur non dovendo rispettare le regole procedurali poste dal
Codice, deve comunque avvenire nel rispetto dei principi generali di «economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed
efficienza energetica».

In aggiunta alle disposizioni relative all’ambito soggettivo e oggettivo, il Codice indica anche altri
criteri per individuare la disciplina di volta in volta applicabile: l’importo e l’oggetto del contratto.
1. Sulla scia del diritto europeo, il Codice delinea infatti un regime diversificato per i cosiddetti
contratti «sopra soglia», cioè quelli di rilevanza europea, e per quelli «sotto soglia», cioè che non
superano l’importo minimo stabilito dalle direttive europee per i contratti aventi per oggetto forniture,
servizi o lavori. Per i contratti «sopra soglia» si applicano integralmente le procedure stabilite dalle
direttive europee e trasfuse nel Codice. Per i contratti «sotto soglia» il diritto europeo ritiene
sufficiente l’applicazione dei principi generali desumibili dai trattati. L’opzione nazionale fatta propria
dal Codice è però quella di prevedere anche per questi appalti procedure tipizzate sia pur semplificate.
2. Un ulteriore criterio per individuare il regime applicabile si riferisce all’oggetto del contratto.
I contratti pubblici possono avere per oggetto la realizzazione di lavori, la fornitura di beni, la
prestazione di servizi. Il Codice li sottopone a una disciplina tendenzialmente unitaria, anche se
prevede ancora una disciplina speciale piuttosto articolata per i lavori.
2a) Il Codice prevede infatti che i lavori e i servizi possano essere affidati anche attraverso lo
strumento della concessione che costituisce una tipologia contrattuale autonoma rispetto a quella
dell’appalto pubblico.
La concessione di lavori o di servizi è un contratto avente per oggetto non soltanto la realizzazione
dei lavori ma anche la gestione dell’opera o del servizio. Da quest’ultima derivano ricavi che mettono
in condizione il concessionario di recuperare nel tempo i costi e di realizzare un utile d’impresa.
L’affidamento delle concessioni avviene in modo meno formalizzato e anzi il Codice attribuisce alle
stazioni appaltanti un’ampia libertà di organizzare la procedura per la scelta del concessionario.

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

2b) La cosiddetta finanza di progetto è una tecnica particolare di realizzazione dei lavori pubblici
sperimentata con successo soprattutto nei Paesi anglosassoni e che mira ad azzerare o a ridurre al
minimo gli oneri economici a carico dello Stato. Essa prevede il coinvolgimento di una pluralità di
soggetti privati e, in particolare, di un promotore privato che propone all’amministrazione il progetto
da realizzare e di soggetti finanziatori (banche e altri investitori). Al termine della procedura di gara
l’aggiudicatario costituisce una società di progetto per realizzare ed eventualmente gestire
l’infrastruttura.
Nella finanza di progetto emerge la dimensione collaborativa del rapporto tra pubblica
amministrazione e soggetti privati che costituisce, come già accennato, una delle tendenze più
significative degli ultimi anni.
La finanza di progetto costituisce una delle forme di partenariato pubblico-privato alle quali fa
riferimento il Codice.
Per le infrastrutture di importo superiore a cento milioni di euro qualificate dal governo come
strategiche l’affidamento può avvenire a favore del cosiddetto contraente generale (general
contractor), cioè di un soggetto dotato di adeguate capacità organizzative, di esperienza e di
qualificazione che si fa carico dell’intera realizzazione dell’opera, incluso lo sviluppo del progetto
definitivo e le attività tecnico-amministrative in luogo dell’amministrazione che in pratica
commissiona l’opera «chiavi in mano».

3. Le procedure di affidamento

L’affidamento dei contratti pubblici avviene tramite un procedimento amministrativo che si


articola in più fasi.
1. L’avvio del procedimento da parte delle amministrazioni aggiudicatrici è disposto dalla
cosiddetta delibera a contrarre. La delibera a contrarre consiste in un atto unilaterale
dell’amministrazione che individua gli elementi essenziali del contratto e i sistemi di selezione dei
contraenti. Segue di regola la predisposizione e pubblicazione di un bando di gara, che deve essere
redatto in conformità ai bandi-tipo predisposti dall’Autorità nazionale anticorruzione. Il bando deve
essere redatto secondo i modelli uniformati a livello europeo e deve contenere le informazioni relative
allo svolgimento della procedura e all’oggetto del contratto. Le modalità di pubblicazione del bando
sono oggetto di una disciplina particolareggiata volta a favorire la massima diffusione delle
informazioni e ad assicurare termini minimi per la presentazione della domanda da parte delle imprese
che intendano partecipare alla procedura.
Nella redazione del bando, che insieme agli altri documenti predisposti dalla stazione appaltante
costituisce la lex specialis della gara, l’amministrazione gode di ampia discrezionalità soprattutto per
quanto riguarda l’individuazione dell’oggetto del contratto, dei requisiti minimi di partecipazione, dei
criteri di valutazione delle offerte. La discrezionalità deve essere esercitata secondo criteri di
ragionevolezza e di proporzionalità in modo tale da garantire la par condicio e una concorrenza
effettiva. In particolare i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria devono essere proporzionati rispetto
all’oggetto del contratto. Inoltre prescrizioni tecniche riferite al bene oggetto di fornitura non devono
restringere in modo irragionevole la partecipazione a uno solo o a un numero ristrettissimo di
produttori di quel tipo di bene, escludendo i produttori di beni sostanzialmente analoghi.
Il bando di gara non costituisce un atto immediatamente lesivo e può essere impugnato insieme
all’atto conclusivo del procedimento cioè all’aggiudicazione definitiva. Ciò a meno che esso abbia un
carattere immediatamente escludente, nel senso che dalla lettura delle sue clausole emerge una

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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

discriminazione evidente a danno di potenziali partecipanti tale da precludere la partecipazione. In


questo caso il bando deve essere impugnato subito.
Per consentire la partecipazione alle gare anche di imprese di dimensioni inferiori o prive di tutti i
requisiti richiesti dal bando, intervengono alcuni istituti come i consorzi stabili, i raggruppamenti
temporanei di imprese, l’avvalimento.
I consorzi stabili devono essere formati da almeno tre imprese che si impegnino a operare in
modo congiunto nel settore dei contratti pubblici per almeno cinque anni.
I raggruppamenti temporanei d’imprese sono invece istituiti con riferimento a una singola
procedura di gara e non richiedono la costituzione di un’entità giuridica separata. È sufficiente infatti
una regolamentazione pattizia con l’attribuzione di un mandato all’impresa «capofila» che assume la
rappresentanza delle altre imprese e la responsabilità principale nei confronti della stazione appaltante.
I raggruppamenti possono essere verticali, quando le imprese si impegnano a svolgere prestazioni
qualitativamente distinte individuate nel bando come principali o secondarie, o orizzontali, quando le
imprese si suddividono il medesimo tipo di prestazione richiesta in percentuali predeterminate e
specificate nell’offerta.
L’avvalimento è un istituto che consente a un’impresa che partecipa alla procedura di dimostrare
e di usufruire dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico o organizzativo richiesti dal
bando e che essa non possiede rivolgendosi a un’impresa (ausiliaria) che si impegna contrattualmente
a metterli a disposizione dell’impresa che presenta l’offerta.
2. La seconda fase del procedimento è quella di selezione dei partecipanti con uno dei sistemi
indicati nel bando tra quelli previsti dal Codice. Quest’ultimo individua tre tipi principali di procedure:
procedure aperte, ristrette e negoziate.
Le procedure aperte (corrispondenti al sistema tradizionale dell’asta pubblica) sono quelle nelle
quali ciascun operatore economico interessato può presentare un’offerta; le procedure ristrette sono
quelle alle quali ogni operatore economico può chiedere di partecipare, ma possono presentare
un’offerta soltanto coloro che vengono invitati dalle stazioni appaltanti; le procedure negoziate,
ammesse in via eccezionale nei casi tassativamente indicati dal Codice, sono quelle nelle quali
l’amministrazione consulta, con modalità meno formalizzate, gli operatori economici da essa prescelti
e negozia con uno o più di essi le condizioni del contratto.
Le procedure negoziate sono a loro volta di due tipi a seconda che sia richiesta o meno la
pubblicazione di un bando. Per esempio, essa non è richiesta quando per ragioni di natura tecnica o
artistica vi sia un solo fornitore sul mercato, oppure in casi di estrema urgenza.
Nelle procedure ristrette e in quelle negoziate la fase della valutazione delle offerte è preceduta
da una fase cosiddetta di prequalifica, nella quale le stazioni appaltanti selezionano le imprese da
invitare a presentare l’offerta che siano in possesso di requisiti minimi predeterminati tali da garantire
la serietà del potenziale contraente chiamato a partecipare alla gara. I criteri di questa selezione
preliminare sono indicati nel bando e devono essere oggettivi, non discriminatori e proporzionati. In
ogni caso il Codice prevede un numero minimo di candidati da invitare in modo da assicurare una
concorrenza effettiva.
Il Codice limita la possibilità di escludere le offerte per carenze formali imponendo alle stazioni
appaltanti di operare il cosiddetto soccorso istruttorio. È stata cioè posta una distinzione tra
irregolarità «essenziali» e «non essenziali» della documentazione prodotta dai concorrenti: le prime
sono comunque di regola sanabili; le seconde non danno luogo a doveri di regolarizzazione. Si attenua
così il tradizionale formalismo nelle procedure di gara.
3. La terza fase è quella della valutazione delle offerte che serve a individuare, tra i partecipanti
alla procedura, l’impresa con la quale l’amministrazione stipulerà il contratto. A questo fine il Codice
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

individua due criteri per individuare l’offerta economicamente più vantaggiosa: il prezzo più basso; il
miglior rapporto qualità/prezzo.
Gli aspetti qualitativi possono riguardare per esempio il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche
e funzionali, che richiedono una valutazione tecnico-discrezionale. Il bando di gara deve indicare gli
elementi qualitativi e per ciascuno di essi deve precisarne la ponderazione relativa espressa in un
numero di punti da attribuire. Quanto più analitica è la suddivisione in criteri e subcriteri e
l’indicazione dei punteggi, tanto più oggettiva diventa la valutazione tecnico-discrezionale.
Quest’ultima è affidata a una commissione giudicatrice, composta da funzionari della stazione
appaltante o da esperti esterni, nominata dalla stazione appaltante, di regola, all’esito di un pubblico
sorteggio da una lista di candidati iscritti al già citato albo. La commissione procede all’esame di
ciascuna offerta e all’attribuzione dei punteggi. Valuta dapprima gli elementi qualitativi dell’offerta e
apre da ultimo, in seduta pubblica, la busta contenente l’offerta economica.
4. La quarta fase è quella dell’aggiudicazione. A conclusione dei lavori, la commissione
giudicatrice formula una graduatoria e viene quindi dichiarata l’aggiudicazione a favore del miglior
offerente. Prima dell’aggiudicazione definitiva viene espletato un controllo sulla regolarità delle
operazioni di gara. Esso si conclude con un atto di approvazione della stazione appaltante che deve
intervenire, di regola, entro 30 giorni superati i quali si forma il silenzio-assenso.
L’aggiudicazione definitiva non equivale ancora ad accettazione dell’offerta risultata prima nella
graduatoria (art. 32, comma 6). Dal punto di vista civilistico l’offerta ha il valore di proposta
contrattuale irrevocabile per un termine predeterminato. L’efficacia dell’aggiudicazione definitiva
(cioè, in termini civilistici, dell’accettazione dell’offerta) è subordinata a un ulteriore controllo, avente
per oggetto non più la correttezza della procedura, bensì il possesso effettivo da parte dell’impresa
selezionata dei requisiti di partecipazione autodichiarati in sede di presentazione della domanda.
Divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, l’amministrazione procede alla stipula del contratto
entro un termine (di regola 60 giorni) decorso inutilmente il quale l’aggiudicatario può sciogliersi dal
vincolo contrattuale. La stipula non può avvenire comunque prima di 35 giorni dalla comunicazione
alle imprese del provvedimento di aggiudicazione, in modo tale da consentire a queste ultime di
eventualmente impugnare gli atti della procedura.
5. Il procedimento di aggiudicazione richiede talvolta l’attivazione di un subprocedimento di
verifica allorché la stazione appaltante individui, applicando alcuni criteri aritmetici indicati dal
Codice, una o più offerte anormalmente basse. La stazione appaltante ha infatti interesse a
selezionare offerte che abbiano il carattere della serietà, cioè che abbiano un senso economico minimo
per l’impresa contraente.
Il subprocedimento di verifica avviene in contraddittorio con l’impresa sospettata di aver
presentato un’offerta fuori mercato o in perdita. L’impresa è infatti invitata a presentare giustificazioni
scritte relative alle voci di prezzo o altri elementi incongrui presenti nell’offerta. Ove esse non
risultino convincenti la stazione appaltante, prima di escludere l’offerta, convoca l’offerente in
un’audizione invitandolo a indicare ogni elemento utile. Il provvedimento di esclusione deve essere
congruamente motivato e costituisce un atto che può essere impugnato immediatamente dall’offerente
escluso.
Un cenno finale meritano alcune procedure innovative previste dal Codice: il dialogo
competitivo, le aste elettroniche, gli accordi quadro.
1. Il dialogo competitivo è una procedura che può essere utilizzata in caso di appalti nei quali la
stazione appaltante non ha le conoscenze necessarie per individuare le soluzioni tecniche, giuridiche o
finanziarie di un progetto e ha dunque necessità di un confronto preliminare con le imprese per
individuare le soluzioni migliori da mettere poi a gara.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

La procedura presenta alcune specificità. Il bando di gara si limita a individuare in modo ancora
generico le necessità e gli obiettivi che si propone la stazione appaltante. Successivamente la stazione
appaltante invita le imprese ammesse alla procedura a un dialogo nel quale ciascuna di esse discute
con la stazione appaltante tutti gli aspetti dell’appalto e le soluzioni individuate. Il dialogo avviene
separatamente per ciascuna impresa e devono essere garantite sia la parità di trattamento, sia la
riservatezza delle informazioni comunicate da ciascuna impresa. La fase del dialogo si svolge in modo
informale e si conclude allorché la stazione appaltante ha individuato la soluzione o le soluzioni
meglio in grado di soddisfare le proprie esigenze. In definitiva, nella fase del dialogo
l’amministrazione si avvale del confronto con i privati per acquisire le informazioni necessarie per
curare al meglio il proprio interesse e, per incoraggiare le imprese a partecipare alla procedura, può
essere previsto un premio o un incentivo.
Conclusa la fase del dialogo, la stazione appaltante invita le imprese a presentare l’offerta finale in
base alla soluzione o alle soluzioni che sono state individuate nel corso della procedura. Le offerte
presentate sono poi valutate sulla base dei criteri fissati nel bando e all’esito della valutazione si
procede all’aggiudicazione.
Anche in questa procedura emerge la dimensione collaborativa del rapporto tra amministrazione e
privati alla quale si è fatto più volte riferimento. Tuttavia essa stenta a prendere piede nella prassi delle
stazioni appaltanti italiane.
2. Le aste elettroniche sono previste per i casi in cui l’aggiudicazione può avvenire sulla base di
elementi espressi in valori numerici precisi tali da poter essere computati e raffrontati in modo
automatico con mezzi informatici. Il bando di gara deve contenere le informazioni riguardanti lo
svolgimento dell’asta elettronica, tra le quali, per esempio, le condizioni per poter effettuare i rilanci
ed eventuali limiti minimi e massimi dei valori che possono essere indicati nell’offerta. L’asta è
preceduta da una fase nella quale la stazione appaltante opera una prima valutazione delle offerte. Nel
corso dell’asta le imprese invitate inviano con mezzi elettronici prezzi o valori via via migliorativi e
ricevono in tempo reale la rispettiva posizione in graduatoria. L’asta si conclude alla data e all’ora
preventivamente comunicata e l’aggiudicazione avviene a favore dell’offerta migliore.
3. Una procedura particolare, che si riferisce soprattutto alle forniture e ai servizi, è prevista per
gli accordi quadro. L’accordo quadro è un contratto il cui scopo è quello di stabilire le condizioni e le
clausole relative a singoli appalti da aggiudicare in un determinato periodo di tempo. L’accordo
quadro è aggiudicato all’esito di una procedura che si svolge con le modalità ordinarie a seguito della
quale vengono individuate una o più imprese. Se l’impresa aggiudicataria è una sola, a valle
dell’accordo quadro la stazione appaltante può poi stipulare i singoli contratti direttamente con
quest’ultima. Se le imprese aggiudicatarie, in base a quanto prevede il bando, sono più d’una, i singoli
contratti a valle sono conclusi tra queste ultime senza un ulteriore confronto competitivo in base a un
ordine di priorità stabilito nel bando, privilegiando il criterio della rotazione.
Gli accordi quadro sono stipulati spesso dalle centrali di committenza che sono definite come
amministrazioni aggiudicatrici che acquistano forniture o servizi, aggiudicano appalti di lavori o,
appunto, accordi quadro destinati ad altre amministrazioni. In pratica si tratta di organismi che hanno
come funzione quella di rendere più efficiente la politica degli acquisti delle pubbliche
amministrazioni superando la frammentazione dovuta a un numero elevato di stazioni appaltanti che
aggiudicano contratti di importo modesto. Le centrali di committenza istituite anche a livello regionale
sono tenute all’osservanza delle disposizioni del Codice.
La questione più delicata in materia, che ha subito oscillazioni normative, è l’obbligatorietà delle
amministrazioni pubbliche di procedere agli acquisti tramite le centrali di committenza in quanto un
siffatto obbligo può essere ritenuto una violazione dell’autonomia organizzativa dell’ente.
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

È prevista anche la figura dei «soggetti aggregatoti». Concentrando le gare pubbliche in capo a
pochi enti specializzati si può ottenere un miglioramento dell’efficienza, una riduzione della spesa e
un miglior controllo a fini anticorruzione.

4. L’esecuzione del contratto

Una volta stipulato il contratto, la sua esecuzione avviene secondo i principi generali del diritto
privato. Il Codice contiene una disciplina speciale soprattutto per quanto riguarda i lavori pubblici.
L’esatto adempimento da parte dell’impresa aggiudicataria è garantito anzitutto da idonee garanzie
fideiussorie e assicurative.
Vige poi il principio dell’invariabilità del contratto. Infatti, modifiche sostanziali di quest’ultimo
nella fase dell’esecuzione, oltre certi limiti, potrebbero alterare il senso complessivo della procedura di
gara che finirebbe, sia pure ex post, per essersi svolta in relazione a un oggetto diverso, tale da rendere
appetibile la partecipazione a un numero maggiore di imprese.
In questa prospettiva, il Codice pone in primo luogo la regola della tassatività delle cosiddette
varianti in corso d’opera, cioè delle modifiche alle prestazioni previste nel contratto. Esse sono
ammesse, in particolare nei lavori pubblici, solo in pochi casi (cause impreviste e imprevedibili,
mutamenti normativi, errori progettuali, ecc.). Comunque non possono determinare un aumento del
valore del contratto superiore a un quinto, limite oltre il quale il soggetto aggiudicatore deve risolvere
il contratto e procedere a una nuova gara.
In secondo luogo, regole particolari sono previste anche per un’altra modifica delle condizioni
contrattuali originarie, cioè l’adeguamento dei prezzi, che cerca di contemperare l’esigenza di evitare
l’aumento incontrollato degli oneri a carico dell’amministrazione con quello di non compromettere per
l’impresa la remuneratività del contratto.
In terzo luogo, il contratto non può essere ceduto, a pena di nullità, dall’impresa affidataria a
soggetti terzi. Tuttavia, entro il limite di importo del 50% delle prestazioni previste dal contratto, è
ammesso il subappalto, cioè l’affidamento da parte dell’impresa aggiudicataria di parte delle
prestazioni ad altre imprese di propria fiducia. La facoltà di procedere al subappalto deve essere
dichiarata dall’impresa già nel momento in cui presenta l’offerta, il contratto di subappalto deve essere
consegnato all’amministrazione almeno 20 giorni prima della sua esecuzione, l’impresa deve
dimostrare il possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento delle attività subappaltate.
Alla fase di esecuzione è preposto, per conto della stazione appaltante, un direttore che, per i
contratti di importo minore, può coincidere con il responsabile del procedimento.
Questa figura è particolarmente importante nel settore dei lavori pubblici. Il direttore dei lavori
costituisce infatti l’interlocutore principale dell’impresa aggiudicataria dal momento della consegna
dei lavori dopo che il contratto è diventato efficace fino alla completa esecuzione dei medesimi.
Il direttore dei lavori esercita funzioni di controllo tecnico, contabile e amministrativo
dell’esecuzione e per i lavori più complessi può essere coadiuvato da direttori operativi e da ispettori
di cantiere. Agisce in base alle istruzioni impartite dal responsabile del procedimento tese a garantire
la regolarità dei lavori.
L’andamento dei lavori è riportato in un giornale dei lavori che viene compilato ogni giorno da un
assistente del direttore dei lavori ed è previsto anche un registro di contabilità, tenuto dal direttore dei
lavori e firmato dall’esecutore. In questo registro l’esecutore dei lavori può iscrivere le cosiddette
riserve, cioè eccezioni e contestazioni relative all’andamento dei lavori e alle richieste del direttore
dei lavori (per esempio, la prescrizione di eseguire una lavorazione con una tecnica più costosa) che
possono determinare il riconoscimento a favore dell’esecutore di importi aggiuntivi che l’esecutore
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

deve quantificare nella riserva. Norme recenti hanno teso a contenere entro tetti massimi le riserve, in
modo tale da evitare il rischio, assai frequente, che il costo dell’opera risulti molto più elevato di
quanto previsto in origine.
Il direttore dei lavori certifica l’ultimazione dei lavori e predispone un conto finale in una
relazione da sottoporre al responsabile del procedimento, che a sua volta predispone una relazione
finale.
La verifica finale della conformità delle prestazioni eseguite a quelle pattuite avviene attraverso il
collaudo. Le operazioni di collaudo sono affidate dall’amministrazione a un proprio funzionario
dotato di specifica esperienza o a una commissione e possono essere in taluni casi affidate anche a
professionisti esterni. In ogni caso deve essere garantita la terzietà, perché i collaudatori non devono
aver partecipato in alcun modo alle attività procedimentali e di verifica relative ai lavori in questione.
Nel corso dell’esecuzione del contratto possono verificarsi situazioni che determinano lo
scioglimento dal vincolo contrattuale, sotto forma sia di recesso sia di risoluzione. Quanto al
recesso, la stazione appaltante può sciogliersi in ogni momento dal vincolo contrattuale, previo
pagamento dei lavori eseguiti e dei materiali utili esistenti nel cantiere, e di un indennizzo.
Quest’ultimo è commisurato al decimo dell’importo delle opere non eseguite, mentre nel caso di
recesso ad nutum negli appalti privati il codice civile prevede il riconoscimento all’appaltatore del
mancato guadagno, cioè dell’intero lucro cessante.
La risoluzione del contratto da parte della stazione appaltante è prevista dal Codice in alcune
ipotesi e in particolare in caso di grave inadempimento, irregolarità o ritardi nell’esecuzione dei lavori.
In caso di risoluzione sono posti a carico dell’appaltatore inadempiente gli oneri relativi alla maggior
spesa sostenuta per affidare i lavori ad altra impresa.

5. I mezzi di tutela

La direttiva 2007/66/CE, recepita dal d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, prevede alcuni strumenti per
garantire una tutela efficace e rapida nel settore dei contratti pubblici.
I principali sono i seguenti.
1. In primo luogo, il diritto europeo impone alle stazioni appaltanti il divieto di stipulare il
contratto prima di 35 giorni dalla comunicazione alle imprese del provvedimento di aggiudicazione
(standstill period). Inoltre nel caso in cui un’impresa proponga ricorso giurisdizionale contro il
provvedimento di aggiudicazione definitiva, presentando anche la domanda cautelare volta a ottenere
da parte del giudice in tempi rapidi una prima pronuncia sulla legittimità degli atti adottati al fine di
porvi immediato rimedio, il contratto non può essere stipulato per un termine ulteriore di 20 giorni o
comunque fino all’emanazione della pronuncia del giudice amministrativo in sede cautelare. Queste
disposizioni mirano a garantire le imprese non aggiudicatarie. Infatti, in molti ordinamenti europei,
una volta stipulato il contratto, esse non possono ottenere più la tutela specifica, cioè l’aggiudicazione
a proprio favore, ma soltanto la tutela per equivalente (risarcimento del danno).
2. In secondo luogo, in materia di contratti pubblici è previsto un rito speciale accelerato, con
termini processuali ridotti, incluso quello per la proposizione del ricorso.
Inoltre, il giudice amministrativo è titolare di poteri decisionali che comportano valutazioni
delicate relative all’assetto degli interessi determinatosi con la stipula del contratto all’esito di una
procedura della quale è stata accertata in sede di giudizio l’illegittimità. Infatti, ove tale illegittimità
dipenda da tre tipi di vizi qualificati dal Codice come gravi (aggiudicazione senza previa
pubblicazione di un bando, stipula del contratto prima della scadenza dei termini dilatori di 35 e di 30
giorni sopra esaminati), il giudice, oltre ad annullare l’aggiudicazione, dichiara l’inefficacia del
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Manuale di diritto amministrativo Marcello Clarich

contratto. Il giudice può decidere che il contratto resti efficace quando sussistono «esigenze imperative
connesse a un interesse generale». Se il giudice opta per il mantenimento dell’efficacia del contratto, è
tenuto a irrogare sanzioni pecuniarie nei confronti della stazione appaltante o a imporre una riduzione
della durata del contratto. In definitiva il giudice amministrativo diventa per così dire un manager del
contratto stipulato all’esito di una procedura illegittima.
3. In aggiunta ai mezzi di tutela previsti dal diritto europeo, il Codice dei contratti pubblici
prevede nella Parte IV rubricata Contenzioso altri strumenti di risoluzione delle controversie
alternativi alla giurisdizione: la transazione, l’accordo bonario, l’arbitrato; il parere
dell’Autorità nazionale anticorruzione.
3a) In primo luogo, è ammessa, sia pur entro certi limiti e con certe garanzie, la transazione.
Quest’ultima è limitata però alle controversie che involgono diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione
del contratto, escludendo così che essa possa riguardare situazioni giuridiche di interesse legittimo,
che hanno per definizione carattere indisponibile.
3b) In secondo luogo, nel settore dei lavori pubblici, nel caso in cui l’impresa abbia inserito
riserve nei documenti contabili che siano tali da determinare una variazione del prezzo superiore al
10% dell’importo contrattuale va attivato l’accordo bonario. Si tratta di una procedura di tipo
arbitrale promossa dal direttore dei lavori e dal responsabile del procedimento che procede alla
costituzione di una commissione di tre componenti uno dei quali indicato dall’impresa che ha iscritto
le riserve. Le parti possono attribuire alla commissione il potere di assumere una decisione vincolante,
oppure soltanto di formulare una proposta di accordo che può essere accettata o meno dalle parti.
3c) In terzo luogo è ammesso, entro certi limiti e con particolari garanzie, l’arbitrato, sempre
limitato a questioni che involgono diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione del contratto. La stazione
appaltante deve però indicare già nel bando che il contratto conterrà la clausola compromissoria.
3d) Infine, la stessa Autorità svolge un’attività di «precontenzioso» sotto forma di emanazione di
un parere sulle questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara. Il procedimento può
essere attivato dalla stazione appaltante o dalle imprese e prevede un contraddittorio sia scritto sia
orale sotto forma di audizione.

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