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DIRITTO TRIBUTARIO -

MELIS
Diritto Tributario
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
173 pag.

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DIRITTO TRIBUTARIO

Introduzione:
Il diritto tributario ha una forte connessione con le molteplici branche del diritto, non solo dal punto di vista
sostanziale (rappresentando il richiamo ad istituti appartenenti ad altri rami del diritto) ma anche dal punto di
vista procedimentale, sanzionatorio e processuale.
Il diritto tributario costituisce infatti una disciplina orizzontale, nel senso che si rivolge a rapporti e situazioni
per lo più già disciplinati altrove e ricorre ai tradizionali strumenti del diritto amministrativo, processuale,
penale e via dicendo per assicurare l’attuazione della pretesa tributaria.
Da un punto di vista generale, questo diritto è stato inquadrato nell’ambito del diritto pubblico e in particolare
del diritto amministrativo.
Si è affermato in particolare che la legge attraverso la quale è esercitata la potestà tributaria determinerebbe
il sorgere di rapporti giuridici di indole amministrativa tra lo Stato o un altro ente pubblico titolare del diritto
al tributo e i soggetti passivi dell’obbligazione tributaria dall’altro. Tali rapporti troverebbero la loro
collocazione nel diritto amministrativo, dal momento che in esso si rinviene la disciplina delle funzioni degli
organi pubblici diretti al conseguimento di uno specifico fine dell’ordinamento che, nel caso dei diritto
tributario, coincide con il reperimento delle entrate necessarie al soddisfacimento degli interessi pubblici.
Il diritto tributario sarebbe cioè formato in gran parte da categorie giuridiche appartenenti al diritto
amministrativo —> Innanzitutto bisogna dire che la giurisprudenza è incline ad applicare i principi generali del
diritto amministrativo al diritto tributario, in tal senso ha, ad esempio, dichiarato applicabile la l. 240/90
all’attività di esazione esattoriale, nonché ha ritenuto che la totale inosservanza dell’art.3 della l. 240/90 (che
impone di indicare in ogni atto notificato al destinatario l’autorità a cui è possibile ricorrere contro l’atto stesso
e il relativo termine) da parte dell’Amministrazione, comporti il riconoscimento della scusabilità dell’errore in
cui sia eventualmente incorso il destinatario nell’individuazione dell’autorità Amministrativa (e non
giudiziaria) cui rivolgersi per l’impugnazione dello stesso provvedimento. Risultando altrimenti leso
l’affidamento che il destinatario ripone nel corretto operare dell’Amministrazione e la stessa possibilità di
tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost.

Inoltre, quasi sempre alla base base della fattispecie imponibile vi è una fattispecie di diritto privato (contratto,
donazione, successione, ecc…) assunta quale fattispecie che produce il risultato dell’applicazione del tributo:
da qui la qualificazione della norma tributaria quale norma di secondo grado, che si limita ad assumere atti o
fatti eventualmente già qualificati ad altri fini da norme di altri settori dell’ordinamento, come presupposto
dell’imposta.

Il diritto tributario ha anche numerosi punti di contatto con altre branche dell’ordinamento:
Innanzitutto il diritto costituzionale. Vi sono, infatti, in Costituzione numerose norme che interessano il
fenomeno tributario —> l’art. 23 Cost. (che contiene il principio di riserva di legge) + art. 53 Cost. (che
contiene il principio di capacità contributiva) + art. 2 (dovere di solidarietà) + art.3 (principio di eguaglianza,
nel duplice profilo formale e sostanziale) + art. 14 (che tutela la sfera personale del cittadino e quindi anche
del contribuente) + art. 25 (riserva di legge in materia penale) + art 41 (libertà di iniziativa economica
privata) + art. 75 (che vieta il referendum in materia tributaria) + art. 81 (equilibrio del bilancio) + artt. 117
e 119 (che attengono alla ripartizione della potestà impositiva fra Stato, Regioni e altri enti territoriali)…
Abbiamo poi collegamenti con il diritto europeo, esistono infatti i tributi “armonizzati”, la cui disciplina è di
origine europea (IVA e tributi doganali) e alla quale deve uniformarsi la disciplina nazionale. Il diritto europeo
ha però anche riflessi sui tributi NON “armonizzati”: l’imposizione diretta (pur rientrando nell’esclusiva
competenza degli ordinamenti nazionali) deve rispettare i divieti di discriminazione (intesa come diverso
trattamento tra residenti e non), di restrizione (cioè ostacoli posti all’esercizio di una libertà fondamentale da
parte di un proprio residente in direzione di un altro Stato membro) e di aiuti di Stato (intesi come agevolazioni
fiscali riservate a talune imprese o talune produzioni).

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Quanto al diritto internazionale, trovano applicazione in materia tributaria sia le consuetudini internazionali,
sia le convenzioni internazionali (soprattutto in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio) da
interpretare e applicare secondo i principi propri del diritto internazionale. Rilevanti sono inoltre le
conseguenze sul piano tributario della CEDU.
Con riferimento al diritto penale, il d.lgs. 74/2000 prevede alcune ipotesi delittuose connesse alla violazione
di norme di carattere tributario, fermo restando che le norme penali tributarie fanno parte del sistema penale
codicistico, le cui disposizioni trovano applicazione laddove non disposto diversamente dalle norme penali
tributarie.
Per quanto riguarda il diritto sanzionatorio tributario amministrativo esso è stato disciplinato ex novo con il
d.lgs. 472/97 sul modello del cd. “Para penalistico” della l. 689/81 (legge generale sulle sanzioni
amministrative).
Se è vero che il diritto tributario ha un suo specifico processo disciplinato (per i primi due gradi di giudizio) dal
d.lgs. 546/92 è anche vero che tale decreto contiene un rinvio al codice di procedura civile.

Infine, per quanto attiene al diritto finanziario, va premesso che lo Stato (e più in generale gli enti pubblici)
hanno necessità di mezzi finanziari per poter operare. Questi mezzi finanziari derivano da una duplice fonte:
in primo luogo, dall’attività iure gestionis —> lo Stato da un lato dispone di un proprio patrimonio che
amministra e dal quale ricava gli introiti, dall’altro gestisce attività economiche in regime privatistico (anche
in via indiretta, tramite partecipazioni in società); in secondo luogo, dall’attività iure imperii —> lo Stato si
procura la stragrande maggioranza dei mezzi finanziari acquisendo ricchezza dai cittadini, soprattutto
attraverso i tributi.
All’interno del diritto finanziario si distinguono due distinti ambiti di studio:
- La contabilità di Stato, che riguarda l’amministrazione del patrimonio e la contabilità in generale dello
Stato;
- Il diritto tributario, che disciplina quella specifica attività dello Stato diretta a procurarsi i mezzi finanziari
occorrenti per il raggiungimento delle proprie finalità. Esso però può avere finalità redistributive della
ricchezza (la redistribuzione può avviarsi già nella fase del prelievo, per poi seguire nella fase della spesa;
oppure finalità promozionali, potendo diventare uno strumento di politica fiscale per promuovere
determinate istituzioni o attività; oppure ancora, finalità disincentivanti, può cioè assumere la funzione di
indirizzo dei comportamenti dei contribuenti al fine di promuoverne alcuni e disincentivarne altri.

Capitolo Due: Prestazioni imposte, tributi e riserva di legge.


Il diritto positivo, pur non offrendo una definizione di tributo, contiene diversi riferimenti ad esso.
A livello costituzionale, l’art. 23 Cost., relativo alla cd.riserva di legge in materia tributaria, fa riferimento alle
alla categoria delle prestazioni personali e patrimoniali imposte —> ponendo un primo problema di quale sia
la relazione che intercorre tra tali prestazioni e il tributo.
Art. 23 Cost.:” Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
Anticipiamo che comunque tra i due concetti esiste un rapporto di genere a specie, nel senso che costituiscono
“prestazioni patrimoniali imposte” tutti i tributi, ma questi ultimi (pur costituendone il nucleo principale) non
esauriscono il novero delle prestazioni patrimoniali imposte.
Si rinviene poi l’art. 75 Cost., che vieta il referendum per le leggi tributarie, ponendosi anche qui il problema
della definizione del relativo oggetto (ES: le norme in tema di ritenute a titolo di acconto, la cui richiesta di
referendum abrogativo è stata dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale del 1995).
Art. 75 Cost., comma 2:” Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e
indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
Anche a livello sub-costituzionale emergono numerosi profili di rilevanza della nozione di tributo.
In primo luogo si pensi all’art. 2 d.lgs. 546/1992 contenente la disciplina del contenzioso tributario, che
attribuisce alla giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie le controversie aventi ad oggetto i tributi
di ogni genere e specie comunque denominati.
In secondo luogo, rileva sotto il profilo della possibile esclusione da IVA dei prelievi di natura tributaria, stante
la loro natura non sinallagmatica e purché ciò sia compatibile con il diritto europeo (sotto il profilo della

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concorrenza) oppure ancora, sempre sotto il profilo dell’IVA, all’individuazione dell’ambito di applicazione del
regime di esenzione previsto per le operazioni relative alla riscossione dei tributi.

• CASO EMBLEMATICO A RIGUARDO: TIA1 (TARIFFA DI IGIENE AMBIENTALE).


Questa tariffa è stata istituita in molti comuni in sostituzione della TARSU (Tassa Sui Rifiuti Solidi Urbani) per
effetto di quanto disposto dal d.lgs 22/1997 e da essi assoggettata a IVA. La Corte Costituzionale con sentenza
del 2009, dopo aver ritenuto che sul piano sostanziale la disciplina della TIA fosse analoga a quella della TARSU,
di cui la prima costituisce mera variante della seconda (mantenendone la natura tributaria), ha ritenuto che la
rilevata inesistenza di un nesso diretto tra servizio e entità del prelievo, porti ad escludere la sussistenza del
rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA ai sensi del d.p.r. 633/1972. Per cui, ai
fini dell’IVA, sono considerate in ogni caso commerciali (ancorché esercitate da enti pubblici) le attività di
erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore; in più, entrambe le
entrate devono essere ricondotte al novero di quei diritti, canoni e contributi che la normativa comunitaria
(direttiva 112/2006 CE) esclude in via generale dall’assoggettamento a IVA, perché percepiti da enti pubblici
per le attività e operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, sempre che il mancato
assoggettamento all’imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non
sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa).
Così, la giurisprudenza di legittimità, dopo alcune sentenze che avevano sostenuto l’assoggettamento a IVA
della TIA, indipendentemente dalla sua natura tributaria, ha infine accolto (CASS. SEZ. UNITE 2016) la tesi
dell’esclusione da IVA, trattandosi di un tributo (non qualificabile come corrispettivo di una prestazione di
servizi) e non esistendo specifiche disposizioni in ordine al suo assoggettamento a IVA (che peraltro sarebbe
stato di dubbia compatibilità con la normativa europea sopra richiamata).

In terzo luogo, si pensi alla particolare disciplina che caratterizza l’obbligazione tributaria. Il Fisco infatti gode
di una posizione privilegiata nella fase di attuazione del rapporto impositivo: esso emana atti autoritativi a
contenuto impositivo, è titolare della “autotutela esecutiva”, nel senso che può auto-costituirsi il titolo
esecutivo, può poi procedere all’irrogazione delle sanzioni, dispone di poteri particolarmente pregnanti nella
fase dell’esecuzione forzata anche in deroga a quelli ordinariamente spettanti ad un creditore privato.
In quarto luogo, la presenza di un tributo può determinare l’inapplicabilità di alcuni principi o regole
altrimenti previste. ES: quanto disposto dagli artt. 13 e 20 della l. 241/1990, che escludono rispettivamente i
procedimenti tributari dalle disposizioni relative alla partecipazione la procedimento amministrativo e il diritto
di accesso nei procedimenti medesimi.
In quinto luogo, si pensi a quanto disposto dall’art. 182ter della Legge Fallimentare, in tema di transazione
fiscale, ove è previsto che nel piano di concordato preventivo il debitore possa proporre il pagamento parziale
dei “tributi amministrati dalle agenzie fiscali”, oppure dall’art. 2753 co.3 cc., che riconosce il privilegio per i
crediti di natura tributaria.
Infine, un ulteriore riferimento ai tributi può essere contenuto in disposizioni di legge e di altri atti normativi,
trattati internazionali, contratti (ES: le clausole contrattuali che accollano ogni onere fiscale esistente e futuro
in capo al datore di lavoro o committente).
Secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, la categoria del tributo non rileva invece ai fini
dell’applicazione dell’art. 53 Cost., relativo alla capacità contributiva (applicabile alle sole imposte e non
anche all’intera categoria dei tributi).
Art. 53 Cost:” Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.

Il nostro ordinamento non contiene alcuna definizione di tributo, perciò al fine di precisarne la nozione, si può
partire dalla classificazione delle entrate dello Stato: innanzitutto, i mezzi finanziari di cui lo Stato necessita
per la propria esistenza possono derivare: dall’indebitamento, dalla gestione del proprio patrimonio o
dall’esercizio (anche indiretto) di attività economiche, oppure ancora da prelievi di carattere coattivo.
Escludendo l’indebitamento, nel caso di entrate di diritto privato (ossia quelle derivano dalla gestione del
proprio patrimonio) lo Stato amministra il proprio patrimonio e svolge attività economiche o partecipa al

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capitale di determinati soggetti che svolgono attività economiche, comportandosi alla stregua di un qualsiasi
operatore privato.
Nel secondo caso, quello delle entrate di diritto pubblico (esercizio indiretto di attività economiche), lo Stato
agisce, invece, mediante il proprio potere autoritativo per procacciarsi le entrate.
Infine, abbiamo i prelievi di carattere coattivo che non hanno esclusivamente natura tributaria, all’interno di
tale categoria, infatti, si possono individuare le seguenti figure:
1. Le prestazioni patrimoniali coattive a carattere sanzionatorio: si tratta di prestazioni di natura
pecuniaria variamente denominate (multe, ammende…) che costituiscono oggetto di un’obbligazione
del trasgressore, che viene ricollegata dalla legge alla violazione di un dovere giuridico;
2. I prestiti forzosi: sono forme di finanziamento imposte dallo Stato, che obbligano alcuni soggetti a
versare somme o ad acquistare e conservare i titoli del debito pubblico per un certo periodo di tempo,
di regola a fronte della corresponsione dei relativi interessi;
3. Le prestazioni para fiscali: sono dei contributi previdenziali e assistenziali;
4. Le espropriazioni per pubblica utilità: a fronte delle quali è previsto un indennizzo, ai sensi dell’art.
43 Cost.;
5. Altre entrate coattive di natura non tributaria;
6. I tributi, intesi come obbligazione (o secondo alcuni come “obbligo”) avente ad oggetto una
prestazione di regola pecuniaria (potendo però talvolta essere adempiuta anche con mezzi diversi dal
denaro, ES: assolvere le imposte sui redditi e sulle successioni con opere d’arte) a titolo definitivo o a
fondo perduto (differenziandosi sotto tale profilo dal prestito forzoso—> pubblica sottoscrizione di
titoli dello Stato imposta ai cittadini), nascente dalla legge (cioè senza che vi concorra la volontà
dell’obbligato) e coattiva al verificarsi di un presupposto di fatto che di regola non ha natura di illecito
(differenziandosi sotto tale profilo dalla sanzione).

La Corte Costituzionale ha invece delineato una definizione in “positivo” di tributo, affermando che i criteri a
cui far riferimento, per qualificare come tributari alcuni prelievi, consistono:
1) Nella doverosità della prestazione, in mancanza di rapporto sinallagmatico tra le parti;
2) Nel collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in relazione a un presupposto
economicamente rilevante.
Viene così sottolineato dalla Corte il connotato finalistico del tributo, costituito dal collegamento della
prestazione (ergo, dal concorso) alla pubblica spesa, che essa è destinata a finanziare.
Questo connotato finalistico pone in rilievo due ulteriori aspetti:
In primo luogo, esso evoca il tentativo da parte della dottrina di declinare il concetto di tributo in “positivo”,
partendo dal principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost. —> si tratta tuttavia di una tesi criticata da altra
dottrina, la quale sottolinea che l’art. 53 Cost. attiene ai requisiti di legittimità costituzionale di un tributo e
non anche alla sua esistenza in quanto tale, anche se, in realtà, l’elemento caratterizzante ai fini definitori non
consiste nel requisito della capacità contributiva, quanto più nel concorso alle pubbliche spese, menzionato
dallo stesso art. 53.
In secondo luogo, esso si collega poi alla questione se a definire il concetto di tributo concorra il suo scopo,
consistente nella finalità di procurare entrate allo Stato. Esistono così tributi con finalità “extra-fiscali” per
indirizzare certi comportamenti (ES di tributi di indirizzo: le imposte per scoraggiare il fenomeno delle case
sfitte o per disincentivare produzioni o consumi idonei a generare effetti dannosi sull’ambiente o sulla salute)
oppure per agevolare determinati soggetti o attività; oppure tributi di scopo (o assegnati alla spesa)
caratterizzati da una destinazione ex ante del relativo gettito al finanziamento di determinate attività o opere
(ES: un tributo gravante su imprese operanti in un determinato settore il gettito sia destinato a finanziare
attività loro destinate oppure a finanziare determinate spese pubbliche (ambientali); oppure un tributo
gravante su una determinata collettività locale il cui gettito sia utilizzato per costruire opere pubbliche, la cui
utilità ridondi indistintamente a favore di questa).

Parlando ora del rapporto tra prestazioni patrimoniali imposte e tributi:

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Bisogna precisare che il collegamento tra l’art. 23 Cost.e il diritto tributario non si esaurisce nelle prestazioni
patrimoniali imposte, potendo, infatti, coinvolgere anche le prestazioni personali imposte —> sono da
intendere tali tutte quelle di carattere fisico o intellettuale che possono essere imposte dallo Stato per un
superiore interesse pubblico (ES: il servizio militare, l’obbligo di rendere testimonianza, le prestazioni
obbligatorie dei medici, l’intervento in caso di calamità).
[ Per prestazioni patrimoniali imposte si intende, in primo luogo, il pagamento dei tributi, inteso come dovere
di contribuire alle spese pubbliche. Il pagamento del tributo, ossia delle tasse/imposte/contributi dev’essere
individuato e applicato dalla legge, in modo che non ci siano arbitrii nella loro riscossione da parte degli enti
preposti ].
Innanzitutto bisogna dire che la Corte Costituzionale ha affermato come il carattere essenziale delle
prestazioni patrimoniali imposte risieda nella loro coattività, nel senso di essere istituite da un atto di autorità
a carico di un soggetto senza che la volontà di questo vi abbia concorso. Si tratta delle cd. imposizioni in senso
formale, nelle quali vi rientrano: i prestiti forzosi e le prestazioni para fiscali.
Quanto ai primi, si discute se essi vi rientrino nonostante il diritto al rimborso a scadenza del capitale e una
remunerazione ragionevole, non verificandosi in tal caso alcuna perdita di valore del capitale e dunque una
vera e propria decurtazione del patrimoniale. Mentre secondo parte della dottrina l’effetto dell’imposizione
patrimoniale deve consistere nella decurtazione del patrimonio del privato, secondo altra parte, invece, l’art.
23 Cost. si riferisce all’assai ampio concetto di prestazione, dunque ad una qualsiasi obbligazione imposta in
via coattiva.
Per quanto riguarda le seconde invece, si ha qui indubbiamente una prestazione patrimoniale imposta,
nonostante venga a maturarsi (per effetto del versamento dei contributi previdenziali e/o assistenziali) un
diritto pensionistico o altro diritto assistenziale in capo al soggetto assicurato.
Si escludono invece dall’art. 23 Cost. quelle entrate che trovano la fonte di disciplina in altre disposizioni
costituzionali. Così accade per le espropriazioni forzate, disciplinate dagli artt. 42 co.3 e 43 Cost., purché
l’espropriazione sia preordinata all’acquisizione del bene in virtù della sua utilità specifica. Si escludono altresì
le sanzioni penali a contenuto pecuniario, con fonte nell’art. 25 co.2 Cost. —> è tuttavia dubbio se tale
copertura si estenda anche alle sanzioni amministrative, destinate comunque a trovare una copertura nell’art.
23 Cost., trattandosi di prestazioni patrimoniali imposte.
In secondo luogo, le imposizioni in senso formale comprendono anche ulteriori prestazioni, sempre di
carattere non tributario, che presentino l’elemento della coattività.
In più la giurisprudenza ha ricondotto alla nozione di prestazioni patrimoniali imposte anche obbligazioni
assunte contrattualmente, nelle quali (che sia per la presenza di monopoli fiscali oppure perché la
determinazione del quantum debeatur è comunque frutto di determinazioni autoritative) il privato in
considerazione della particolare natura del bene o del servizio di cui ha bisogno partecipa in modo solo
apparentemente libero o volontario alla formazione dell’obbligazione, trovandosi in realtà in una particolare
situazione di condizionamento o di sostanziale coazione —> si tratta delle cd. imposizioni in senso sostanziale
(o imposizioni di fatto), in cui, nonostante la fonte contrattuale, il corrispettivo è fissato unilateralmente ed
in via autoritativa e al privato è rimessa soltanto la libertà di richiedere la prestazione o il bene essenziale
oppure rinunziarvi.
La Corte ha superato, inoltre, il riferimento al servizio essenziale, da essa ritenuto di non facile
determinazione, per includere nella categoria delle prestazioni patrimoniali imposte tutte le prestazioni di
natura non tributaria e aventi funzione di corrispettivo, quando per i caratteri e il regime giuridico dell’attività
resa (sia pure su richiesta del privato), a fronte della prestazione patrimoniale, appare prevalente l’elemento
dell’imposizione legale.
Infine, la categoria delle prestazioni patrimoniali imposte da un lato comprende anche ulteriori ipotesi e
rispondenti ai caratteri delle prestazioni (ES: requisizione di servizi da privati in cui manchi un adeguato
indennizzo), dall’altro ne esclude altre, quali le cd. prestazioni a contenuto negativo, le quali, consistendo in
limitazioni all’iniziativa economica privata, rientrano nell’art. 41 Cost.
In conclusione, dalla giurisprudenza costituzionale emerge una nozione articolata di “prestazione patrimoniale
imposta”, idonea a comprendere prestazioni sia di carattere coattivo, sia assunte contrattualmente. Inoltre,
va evidenziato come la nozione di prestazione imposta sia stata progressivamente ampliata dalla Corte

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Costituzionale. In particolare, secondo la Corte, la prestazione imposta è quella stabilita come obbligatoria a
carico di una persona senza che la volontà di questo vi abbia concorso, risultando irrilevante la manifestazione
di volontà del destinatario di quella imposizione di richiedere il bene o il servizio in mancanza di un vero
rapporto sinallagmatico.
(( Non sono riconducibili all’art. 23 Cost. gli interventi di determinazione autoritativa di prezzi e canoni volti a
tutelare le posizioni economiche più deboli, al fine di consentire un effettivo equilibrio di posizioni contrattuali
)).

Alla definizione di prestazione patrimoniale imposta è riconducibile il concetto di TRIBUTO: esso deriva, infatti,
da un atto di autorità e determina un sacrificio di natura patrimoniale in capo al contribuente.
Esso si distingue tuttavia dalle altre tipologie di prestazioni imposte, per non avere funzione sanzionatoria o
risarcitoria, non si inserisce mai in un contesto negoziale e il destinatario è sempre lo Stato o un altro ente
pubblico (i quali, per tale via, acquisiscono i mezzi finanziari di cui hanno bisogno). Tuttavia, per la natura
soggettiva (riferita cioè al soggetto che effettua la spesa) e oggettiva (cioè la spesa rispondente all’interesse
generale dei consociati) non si può escludere che il tributo possa essere anche destinato ad un soggetto privato
(ES: canone RAI —> la Corte ha qualificato tale canone come “imposta di scopo” e ha respinto l’eccezione di
incostituzionalità fondata sulla natura di ente di diritto privato della RAI).
Non può però escludersi che ai fini di talune norme possa identificarsi una nozione di tributo diversa: com’è
avvenuto con riferimento all’art. 75 Cost.dove è stato affermato un concetto di legge tributaria comprensiva
anche dei contributi di tipo previdenziale e assistenziale (contributo al SSN), la cui riconducibilità tra tributi è
invece è tutt’altro che pacifica.

• La Corte di Cassazione (2011) si è pronunciata sulla natura giuridica del contrassegno SIAE, considerato
di natura tributaria e quindi di competenza del giudice tributario, sembra però essersi orientata verso
l’accoglimento dei principi e dei criteri stabiliti dalla Corte Costituzionale. Secondo la Corte di
Cassazione la funzione del contrassegno è quella di autenticazione del prodotto ai fini della sua
commercializzazione, in modo da garantire al consumatore che il prodotto acquistato è legittimo e
non un prodotto “pirata”. Si tratta di una funzione prevalentemente pubblica a vantaggio della
collettività e non del richiedente che ne sopporta il costo; il che spiega l’obbligatorietà ex lege del
contrassegno. Inoltre, il costo è assunto dal richiedente e assume i connotati di una imposta di scopo,
destinata a finanziare la spesa per l’esercizio della specifica attività di controllo affidata alla SIAE.
Infine, le Sezioni Unite della Cassazione hanno evidenziato in primo luogo (e modificando il loro
precedente orientamento) che è in ogni caso irrilevante il nomen iuris attribuito dal legislatore alla
prestazione patrimoniale imposta, in secondo luogo, la Corte valorizza i criteri assunti dalla Consulta,
al fine di affermare la natura tributaria del contrassegno SIAE: i) la doverosità della prestazione (infatti
chi vuole commercializzare un supporto relativo alle opere dell’ingegno, deve richiedere il rilascio del
contrassegno pagandone il costo; ii) il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica
riferita ad un presupposto economicamente rilevante (sia la legittima utilizzazione e vendita delle
opere d’ingegno sia la necessità di controllare la regolare commercializzazione delle opere).

La classificazione dei tributi:


Le forme di prelievo che sono state storicamente ricondotte alla nozione di tributo sono: l’imposta, la tassa, il
contributo e il monopolio fiscale.

A. LE IMPOSTE E LE TASSE.
La distinzione tra imposta e tassa è stata influenzata per molto tempo dalle elaborazioni della
scienza delle finanze, in particolare dalla distinzione tra entrate destinate a finanziare servizi divisibili
ed entrate destinate a finanziare servizi indivisibili.
In particolare, i servizi divisibili —> sono quei servizi fruibili da un singolo soggetto su base
individuale (uti singuli) in assetto commutativo (ES: trasporti), al cui onere per la loro erogazione lo
Stato farebbe fronte imponendo il pagamento delle tasse, commisurate (ed inferiori, trattandosi

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appunto di prezzi pubblici) al costo del servizio reso.
Per quanto riguarda, invece, i servizi indivisibili —> sono quei servizi destinati in modo
indifferenziato ai soggetti appartenenti alla collettività e dunque usufruibili uti cives (ES: la difesa
nazionale), al cui onere derivante dalla loro erogazione lo Stato farebbe fronte imponendo il
pagamento delle imposte.
Tuttavia, questo tipo di analisi che mira ad individuare le fonti di finanziamento degli oneri dello
Stato, non può essere accolta in una prospettiva strettamente giuridica: sia in considerazione del
“principio di universalità del bilancio” o di “unitarietà della cassa” (vigenti in materia di contabilità
dello Stato) sia in quanto ciò che interessa il diritto tributario è la disciplina del rapporto giuridico che
viene ad instaurarsi tra ente impositore e soggetto passivo, qualunque sia l’entrata acquisita.
In realtà, la distinzione deve investire il cd. presupposto di fatto (cioè ciò che fa nascere il tributo).
La caratteristica dell’imposta è di essere dovuta dal soggetto passivo al verificarsi di un determinato
presupposto ad esso riferibile che non presenta alcuna specifica relazione con una determinata
attività dell’ente pubblico resa nei confronti dell’obbligato.
Quindi, l’imposta consiste in un prelievo coattivo da parte dello Stato nei confronti del soggetto
passivo (contribuente), che non viene concesso in cambio di un servizio o prestazione da parte
dello Stato (a differenza delle tasse che sono invece legate alle prestazioni).
A costituire le imposte sono: i) il presupposto, cioè il fatto che determina la nascita del tributo; ii) la
base imponibile, cioè la quantità di ricchezza su cui viene calcolata l’imposta; iii) l’aliquota, ossia il
tasso da applicare alla base imponibile.
Si pensi, ad ESEMPIO, al possesso di un reddito o di un patrimonio o al consumo di un bene: il solo
fatto di essere titolari di tali indici di capacità contributiva, comporta l’obbligo di pagare l’imposta. In
considerazione di tale natura “acausale”, l’imposta viene definita anche un’obbligazione di riparto,
poiché il contribuente viene chiamato (quale membro della collettività) a partecipare alla spesa
pubblica sulla base di indici di riparto espressivi di forza economica. A ciò si collega così anche la
funzione di solidarietà (art. 2 Cost.) dell’imposta: cioè che in essa si riscontra non solo un rapporto di
carattere verticale (Stato-contribuente) ma anche orizzontale (tra gli stessi contribuenti per via della
forza economica posseduta da ciascuno). Da questa funzione di riparto si ricava il principio di
indisponibilità dell’obbligazione tributaria, nel senso che l’Amministrazione finanziaria non ha la
facoltà di scegliere, esercitando poteri discrezionali, se prelevare o meno una determinata imposta,
essendo tenuta ad esigere l’imposta se richiesta espressamente dalla legge.
LA CLASSIFICAZIONE DELLE IMPOSTE:
1. IMPOSTE DIRETTE —> sono quelle strettamente collegate alla ricchezza del soggetto e
colpiscono il reddito e il patrimonio (prelevate direttamente sull’entità economica che costituisce
la base imponibile). Non si trasferiscono e rimangono a carico del contribuente che è obbligato al
pagamento, non provocano una variazione nei prezzi dei prodotti o dei servizi. Sono imposte dirette:
IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche), IRES (imposta sul reddito delle società), IRAP
(imposta regionale sulle attività produttive), IMU (imposta municipale propria). (( Si dividono a loro
volta in imposte personali e reali. ))
2. IMPOSTE INDIRETTE —> sono quelle legate alla ricchezza nel momento in cui viene trasferita,
quindi colpiscono manifestazioni indirette di capacità contributiva in quanto sintomi di essa
(consumi, produzione…). Esse possono essere trasferite da chi è tenuto a pagarle ad altri; possono
far variare i prezzi. Sono imposte indirette: IVA e le altre imposte sui consumi (che colpiscono la
ricchezza solamente quando viene prodotta: traslando economicamente sui consumatori; o
consumata: dazi doganali) e le imposte sui trasferimenti (che colpiscono la ricchezza quando viene
trasferita: successioni, donazioni, imposta ipotecaria, imposta catastale, imposta di bollo, imposta di
registro).
3. IMPOSTE PERSONALI (O SOGGETTIVE) —> queste tengono conto, oltre che dell’indice di capacità
contributiva, anche delle condizioni familiari e sociali del contribuente cui tale indice si riferisce e
colpiscono il reddito complessivo del contribuente. (tipica imposta personale è l’IRPEF).
4. IMPOSTE REALI (O OGGETTIVE) —> colpiscono i singoli tipi di reddito (redditi da lavoro

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dipendente, redditi di lavoro autonomo, di impresa, di fabbricati…) percepiti dalla persona
considerandoli in maniera oggettiva, cioè senza tener conto delle condizioni familiari, economiche
e sociali del contribuente.
5. IMPOSTE ISTANTANEE —> sono quelle che prendono in considerazione un fatto istantaneo (ES:
imposta di bollo).
6. IMPOSTE PERIODICHE —> sono quelle che hanno come presupposto fatti che si verificano in un
certo arco temporale (periodo di imposta) ES: imposta sul reddito.
7. ADDIZIONALI —> si applicano quando, sull’ammontare di una determinata imposta, si prevede
l’applicazione di un’ulteriore aliquota percentuale rispetto a quella già prevista per l’imposta
principale. L’addizionale segue in tutto e per tutto il tributo principale, tanto da diventarne una
maggiorazione quantitativa.
8. SOVRIMPOSTE —> consistono in un tributo di tipo autonomo che viene sovrapposto alla base
imponibile di un’altra imposta e che fa capo ad un diverso soggetto attivo. La sovrimposta ha un
carattere autonomo, sicché ad ES: le esenzioni del tributo principale non si applicano al tributo
sovrimposto e viceversa.

Presupposto della tassa è, invece, lo svolgimento nei confronti di un determinato soggetto che le
richiede o provoca, di un’attività pubblica (consistente nell’emanazione di un determinato atto o
provvedimento amministrativo: ES: marche dovute a titolo di tassa di concessione governativa per il
rilascio del passaporto) oppure di un servizio pubblico (ES: raccolta dei rifiuti solidi urbani).
Perciò, la tassa è un tributo che il singolo soggetto è tenuto a versare in relazione ad un’utilità che
egli trae dallo svolgimento di un’attività statale e/o prestazione di un servizio pubblico svolti su
espressa richiesta del soggetto.
Essa trova la sua fonte nella legge e non nella volontà del soggetto.
Gli elementi costitutivi della tassa sono: i) la circostanza che essa è provocata dalla domanda o dal
comportamento del soggetto, infatti, solitamente il pagamento della tassa è determinato da una
domanda del soggetto, volta ad ottenere quel determinato servizio o attività. Talvolta, però, può
trattarsi di un’attività semplicemente provocata dal comportamento del soggetto, com’è il caso delle
tasse giudiziarie poste a carico dell’imputato condannato in un processo penale; ii) lo scambio di
utilità che si realizza, in questo caso il soggetto destinatario riceve normalmente un vantaggio
(beneficio) individuale dall’espletamento dell’attività o servizio. Nonostante ciò, lo scambio di utilità
non significa necessariamente che si attui un vantaggio, bensì che l’attività è rivolta solo ad uno
specifico destinatario (ES: caso delle tasse giudiziarie sopra). In più, lo scambio di utilità non
comporta l’effettiva fruizione di un servizio e dunque di un vantaggio concreto, quanto più alla mera
possibilità in astratto di fruire del servizio messo a disposizione della collettività.
La giurisprudenza tende in effetti ad escludere la decenza del tributo laddove il soffitto non sia
neanche astrattamente in grado di fruire del servizio e al contrario, ad affermarla quando vi sia
almeno la potenzialità di fruirne, indipendentemente dalla circostanza che il soggetto lo utilizzi in
concreto.

TASSA SUI RIFIUTI E FRUIBILITÀ DEL SERVIZIO.


La TARSU è dovuta anche laddove l’abitazione non sia utilizzata, ma potenzialmente in grado di
usufruire di quel servizio. Tale prestazione è così ritenuta dovuta per la sola circostanza che esiste un
servizio istituito nel comune, di cui si può usufruire indipendentemente dall’utilità concreta del
servizio per il soggetto. Sono così sottratti all’imposizione tutti quegli immobili oggettivamente
inutilizzabili e non quelli lasciati in concreto inutilizzati. Quindi, l’esclusione dall’obbligo del
pagamento non può essere individuata nella mancata utilizzazione legata alla volontà o alle esigenze
dell’utente e il tributo è dunque dovuto indipendentemente dal fatto che l’utente utilizzi il servizio. Un
ESEMPIO: sentenza del 2004 della Corte di Cassazione (anche del 2013) non è stata ritenuta
sufficiente ad escludere il pagamento del tributo la prova dell’avvenuta cessazione di un’attività
industriale atteso che, in tal modo, il contribuente ha solo provato la mancata utilizzazione di fatto

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del locale, ma non anche la sua obiettiva non utilizzabilità.
In più, è altresì rilevante la decisione della Corte di giustizia del 2009, con cui la stessa Corte ha
ritenuto che la normativa italiana in tema di TARSU è compatibile con il principio europeo: “chi
inquina, paga”. Infatti, il rispetto di tale principio si basa sul fatto che il costo dello smaltimento dei
rifiuti sia a carico dei detentori dei rifiuti stessi e che tutti gli utenti del servizio debbano sopportare il
costo complessivo. Resta comunque fermo il rispetto del principio di proporzionalità, non potendo
essere imposto ad un soggetto che provveda personalmente allo smaltimento dei rifiuti un tributo di
ammontare manifestamente sproporzionato rispetto alla quantità o al tipo dei rifiuti
prodotti/conferiti nel sistema di gestione dei rifiuti.

Laddove, invece, non vi sia neanche in astratto, la possibilità di usufruire del servizio, la
giurisprudenza, al fine di affermare la decenza del tributo, è stata costretta a riconoscere la natura di
imposta e non quella di tassa alla prestazione richiesta.
Ciò è avvenuto con riferimento al pagamento del CANONE RAI nelle zone oscurate, dove la Corte
Costituzionale (avendo affermato prima la sua natura di corrispettivo di diritto privato e poi di tassa)
ha infine ritenuto (1988) che si debba parlare di un’imposta di scopo correlata al possesso
dell’apparecchio televisivo, che rende possibile fruire anche dei servizi forniti da Stati esteri e dalle
emittenti private ed è dunque dovuta anche se un soggetto non possa usufruire delle trasmissioni
RAI. La Cassazione si è poi allineata alla giurisprudenza costituzionale, riconoscendo il canone dovuto
anche in caso di richiesta di oscuramento delle reti RAI e di apparecchio rotto, trattandosi di una
“prestazione tributaria fondata sulla legge e non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire
del servizio” (2016).

Pertanto la tassa è sì correlata ad un servizio e/o attività pubblica, ma non costituisce un vero e
proprio corrispettivo nell’ottica dei rapporti sinallagmatico di stampo privatistico.
È necessario ora chiedersi qual è il fine della distinzione tra imposta e tassa.
L’importanza di tale distinzione si fonda soprattutto sulla posizione della Corte costituzionale
riguardo al principio di capacità contributiva che la Corte medesima ritiene applicabile alle imposte
e non invece alle tasse, pur costituendo queste ultime “prestazioni patrimoniali imposte” rientranti
nell’art. 23 Cost.
E con riguardo alla tutela per il contribuente dinnanzi agli eventuali abusi del legislatore in tale
materia?
Innanzitutto la tutela deve situarsi sul piano dello scambio di utilità, nel senso che qualora un tale
scambio manchi (ad ES: perché il soggetto non è neanche astrattamente in grado di fruire del
servizio o tale servizio non è stato reso tout court (in breve) per fatto imputabile al creditore) la tassa
non sarà dovuta. In secondo luogo, la tutela può investire l’ammontare della tassa, che non dovrà
essere superiore al costo del servizio reso, oppure, laddove un tale costo manchi, al suo valore
“equivalente” (ossia al valore di quella prestazione ove resa da un soggetto privato —> TOSAP: tassa
per l’occupazione spazi e aree pubbliche, in cui non vi è un servizio).
In presenza di un ammontare superiore al costo, saremo invece in presenza (PER LA PARTE
ECCEDENTE) di un’imposta, la cui legittimità dovrebbe essere apprezzata in termini di capacità
contributiva. Nulla toglie poi che il legislatore tenga direttamente conto della capacità contributiva
all’interno della stessa disciplina della tassa, è il caso ad ES: dei ticket sanitari non dovuti dai soggetti
esenti per reddito; le tasse universitarie…
Come distinguere invece una tassa da un corrispettivo di diritto privato?
Si tratta di una distinzione che rileva, oltre che ai fini della giurisdizione, anche ai fini della possibilità
di applicare l’IVA e della debenza o meno di quanto richiesto. Non vi è invece differenza ai fini
dell’applicabilità o meno dell’art. 23 Cost., ove sia prevalente l’elemento dell’imposizione legale. A
tal proposito le soluzioni proposte sono diverse: i) secondo alcuni, la distinzione riguarderebbe la
natura del servizio, nel senso che si avrebbe una tassa soltanto quando si tratta di attività proprie
dello Stato, che esercita un potere autoritativo. Nelle restanti ipotesi, in cui quei servizi che lo Stato

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assume potrebbero essere resi anche da privati, si sarebbe invece in presenza di un rapporto
obbligatorio bilaterale e di un corrispettivo di diritto privato; ii) secondo altri, invece, nulla
vieterebbe allo Stato di utilizzare come entrate di diritto privato anche servizi e/o attività di
carattere giurisdizionale o amministrativo. In questo caso occorre guardare la concreta disciplina
giuridica del rapporto, distinguendo tra l’ipotesi in cui vi sia o meno un contratto: qualora ci sia un
contratto —> si tratterebbe di vedere se esso preveda l’applicabilità di norme di diritto privato (ES:
sull’adempimento, risoluzione…) e in questo caso saremmo in presenza di corrispettivi di diritto
privato; se invece non prevede l’applicabilità di tali norme allora si sarebbe in presenza di una tassa,
dovendo pertanto trovare applicazione la disciplina propria delle obbligazioni tributarie. Laddove,
invece, non ci sia un contratto, occorrerebbe vedere com’è strutturato il procedimento acquisitivo e
verificare se esso esplichi o meno attraverso gli strumenti tipici del diritto tributario.
B. I CONTRIBUTI.
Essi si situano in un livello “intermedio” tra la figura dell’imposta e quella della tassa. Il contributo è
un prelievo coattivo (come l’imposta) che viene effettuato dall’ente pubblico per finanziare
un’opera o un servizio pubblico specifico (come la tassa) nei confronti però della collettività e non
di un singolo soggetto, tenendo conto inoltre dello specifico vantaggio (imposta) pervenuto al
contribuente —> da ciò si evince che la misura del contributo viene determinata in ragione
differenziata a seconda del vantaggio che deriva a ciascun membro della collettività.
Esso si differenzia dal tributo di scopo, collegato alla realizzazione di un’opera pubblica, dove il
vantaggio conseguente ai contribuenti non è individualmente valutabile, bensì è comune in modo
indifferenziato ad una determinata classe o gruppi di persone, quindi colpisce un indice di capacità
contributiva e non il vantaggio conseguito dal singolo.
I contributi si possono classificare in due differenti tipologie:
- i contributi previdenziali —> sono versamenti obbligatori effettuati dal datore di lavoro nei
confronti dell’ente previdenziale (INPS per il settore privato e INPDAP per il settore pubblico) al fine
di ottenere la prestazione pensionistica (tutela previdenziale).
- i contributi assistenziali —> sono versamenti effettuati all’INPS o all’INAIL, al fine di ottenere una
copertura dei rischi legati agli infortuni, alle malattie professionali, all’invalidità, malattie generiche…
C. I MONOPOLI FISCALI.
I monopoli fiscali, a differenza dei monopoli di diritto che sono introdotti per fini di utilità generale,
relativi a beni e servizi ritenuti di particolare interesse pubblico, sono funzionali a procacciare
un’entrata tributaria. Lo Stato, infatti, stabilisce il prezzo del bene o servizio erogato in misura
notevolmente superiore a quello che sarebbe applicato in un regime concorrenziale, traducendosi
così in un’entrata per lo Stato. L’eccedenza non è giustificabile in alcun modo nell’ambito di un
rapporto di scambio, bensì alla luce del generale principio di capacità contributiva, rappresentata dal
consumo del bene o del servizio. Il monopolio potrebbe così essere assimilato all’imposta di
consumo. Per altri, invece, essi avrebbero natura tributaria nel solo caso in cui risulti applicato uno
specifico tributo a carico del beneficiario o del concessionario del monopolio e non anche nell’ipotesi
di fissazione di un prezzo politico particolarmente remunerativo (dal momento che in quest’ultimo
caso la vicenda si situerebbe su un piano meramente negoziale). Il tributo così applicato si
configurerebbe come imposta sulle vendite.
In ogni caso, la legittimità dei monopoli fiscali dev’essere verificata in base all’art. 43 Cost., per cui
sono ammessi i monopoli preordinati a regolamentare attività rilevanti dal punto di vista
dell’interesse pubblico.
Essi, infine, sollevano questioni di compatibilità con la normativa europea, in particolare con le
previsioni che garantiscono la libera circolazione dei servizi: per questo motivo, vi è stato un recesso
nell’utilizzazione di questi monopoli. I monopoli fiscali oggi rimasti in vigore in Italia sono quello dei
tabacchi e quello del Lotto.

Fatte tutte queste analisi, bisogna proseguire nell’esame della RISERVA DI LEGGE.

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L’art. 23 Cost. afferma che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in
base alla legge”—> in questo senso, tale articolo prevede non solo una funzione di garanzia (essenzialmente
individuale) dell’integrità della libertà del proprio patrimonio (tuttora valorizzata dalla Corte Costituzionale
con sentenza nel 2015), ma si pone anche in funzione immediata e prevalente di interessi generali.
Si attua così un rafforzamento del principio di legalità che richiede non solo che la legge sia la fonte dei
poteri dell’esecutivo, ma anche che la legge contenga (in tutto o in parte) la disciplina della materia oggetto
di riserva. A tale riguardo, l’art. 23 Cost. contiene una riserva di legge di tipo relativo, nel senso che la
materia non dev’essere disciplinata solo dalla legge (come nel caso della riserva assoluta): in materia di
prestazioni patrimoniali imposte è possibile perciò porre soltanto le basi della disciplina della materia,
rimettendo al potere esecutivo la facoltà di completarla.
A questa conclusione si perviene in base a un duplice argomento:
1) Letterale: secondo questo argomento l’art. 23 Cost. utilizza l’espressione “in base alla legge” in
contrapposizione a quella più pregnante di: “in forza di una legge”, utilizzata in materia penale
dall’art. 25 Cost.
2) Sistematico: secondo questo, invece, è necessario coordinare l’art. 23 Cost. con l’art. 5 Cost., che
riconosce e promuove le autonomie locali (soltanto una riserva relativa consente di lasciare spazio
agli enti territoriali minori).
Qui intendiamo solamente soffermarci sull’identificazione degli elementi essenziali del tributo che devono
necessariamente essere previsti dalla legge e in quale misura gli altri elementi possano essere definiti da
fonti diverse e subordinate provenienti dall’esecutivo o da organi di enti locali. La Corte costituzionale ha
evidenziato che l’art. 23 Cost. risulta rispettato quando la legge definisce i criteri direttivi, i limiti e i controlli
idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore nell’esercizio del potere che gli viene conferito
(affinché tale potere non si trasformi in arbitrio). Se anche tali criteri non fossero indicati, precisa la Corte, è
sufficiente (per rispettare il principio di riserva di legge) che gli stessi siano desumibili dalla destinazione della
prestazione, o dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinarne la misura,
oppure dall’esistenza di un modulo procedimentale che preveda la collaborazione di più organi.
Innanzitutto, la Corte costituzionale ritiene che debbano essere fissati con legge: i) il presupposto del
tributo, cioè l’atto o fatto (espressivo di forza economica) al cui verificarsi è dovuto il tributo e la legge ne
deve necessariamente prestabilire il contenuto; ii) i soggetti passivi, coloro ai quali tale atto o fatto è
riferibile. La disciplina dei soggetti va intesa in senso ampio, comprensiva non solo dei soggetti “in senso
stretto”, ma anche di quei soggetti che pur non avendo realizzato il presupposto di titolari dell’indice di
capacità contributiva, formano tuttavia oggetto di un obbligo di natura patrimoniale (ES: sostituto d’imposta:
colui che in luogo di altri è tenuto al pagamento del tributo) + i soggetti attivi, che devono essere
determinati dalla legge; iii) la base imponibile del tributo, attinente alle regole di misurazione della capacità
contributiva e l’aliquota massima, che trova applicazione una volta misurato il presupposto per calcolare
l’importo dovuto. (Si ritiene invece che la riserva non investa la determinazione dell’aliquota minina).

• TRE CASI OGGETTO DI DECLARATORIA DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE:


1) IL PRESUPPOSTO: La Corte costituzionale del 2015 ha affermato che il criterio dell’idoneità dei
prodotti e sostanze non contenenti nicotina alla sostituzione del consumo dei tabacchi lavorati
affidasse ad una valutazione soggettiva ed empirica l’individuazione di siffatti prodotti, senza
offrire elementi “concreti” dai quali ricavare (in via indiretta) i criteri e i limiti volti a circoscrivere
la discrezionalità amministrativa nella definizione del tributo.
2) I SOGGETTI PASSIVI: la Corte ha sostenuto, in materia di contributi dovuti agli Enti provinciali dei
turismo, l’illegittimità costituzionale delle norme concernenti tali contributi, dal momento che il
legislatore aveva adottato espressioni così indeterminate da non rendere possibile l’esatta
individuazione dei soggetti passivi della prestazione.
3) BASE IMPONIBILE: la giurisprudenza costituzionale ha ricondotto, all’interno della categoria
delle prestazioni patrimoniali imposte, numerose prestazioni non tributarie: com’è il caso della
Fondazione opera nazionale assistenza orfani sanitari italiani. Qui, secondo la Corte, la disciplina
(nonostante contenga l’identificazione dei soggetti tenuti alla prestazione + il modello in base al

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quale la Fondazione deve uniformare la propria attività) si limita ad evidenziare l’obbligatorietà
dei contributi previdenziali senza offrire alcun elemento idoneo ad individuare criteri adeguati
alla concreta quantificazione e distribuzione degli oneri imposti.

Nonostante ciò, la Corte ha comunque previsto maggiore elasticità rispetto al presupposto e ai soggetti
passivi, ammettendo che (in ipotesi di discrezionalità tecnica) ne possa essere rimessa l’integrazione anche
ad atti sub-legislativi, mediante l’individuazione di criteri e limiti idonei a indirizzare le scelte regolamentari.
In più, oltre alla fissazione del limite massimo dell’aliquota, la giurisprudenza costituzionale ha individuato i
seguenti elementi idonei a circoscrivere il potere esecutivo: i) il fabbisogno finanziario dell’ente per il
conseguimento del fine istituzionale cui è collegata l’entrata ricavabile dalla prestazione; ii) previsione di
controlli sull’atto cui la legge rimette la determinazione del restante contenuto della disciplina; iii)
l’affidamento della determinazione quantitativa ad un organo tecnico; iv) la partecipazione a tale organo dei
soggetti gravati dalla prestazione o dei loro rappresentanti, in modo da prospettare gli interessi della
categoria.
Tutto questo però (ritenendo cioè rispettata la riserva anche in assenza di un’espressa indicazione legislativa
dei criteri, limiti e controlli sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione) finisce per
“svilire” il profilo della riserva di legge. Nella giurisprudenza più recente, però (2003, 2007, 2011, 2012, 2013
e 2015) si evidenzia un parziale recupero del contenuto prescrittivo della riserva, affermando che: tale
riserva richieda la preventiva determinazione di sufficienti criteri direttivi di base, di linee generali, di
disciplina della discrezionalità amministrativa.

Capitolo Tre: il principio di capacità contributiva.


Art. 53 Cost:” Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
Si tratta di un principio rivolto tanto al legislatore, quanto al contribuente.
Al legislatore: poiché da una parte sancisce la funzione solidaristica del concorso alle spese pubbliche,
dall’altra esprime la funzione garantista della capacità contributiva e costituisce sia presupposto (e limite)
dell’imposizione (nel senso che solo chi ha capacità contributiva può essere tenuto a concorrere alle
pubbliche spese) sia parametro dell’imposizione medesima (nel senso che l’ammontare del prelievo
tributario dev’essere commisurato alla capacità contributiva del singolo).
Al contribuente: in quanto nell’espressione “sono tenuti” si rinviene la doverosità del concorso, necessario
per la stessa sopravvivenza dello Stato.

A seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, sono state sostenute teorie “svalutative” di questo
principio: innanzitutto si riteneva che questo articolo rientrasse tra le norme a carattere meramente
programmatico, vale a dire indicante una mera direttiva futura per il legislatore e privo di qualsiasi valore
vincolante. Si riteneva così la capacità contributiva come una “scatola vuota”, dovendo l’interprete prendere
atto del presupposto così come descritto di volta in volta dal legislatore. Altri invece rinvennero nell’art. 53
Cost.la manifestazione della teoria del beneficio, dovendo giustificare il concorso alle spese pubbliche come
una sorta di scambio tra Stato e cittadino (riferendosi appunto a manifestazioni di godimento di pubblici
servizi, in quanto tutti i presupposti di fatto delle entrate pubbliche sono costituiti da manifestazioni di tal
genere (ad esclusione degli illeciti)).
Si deve solamente alla Corte costituzionale e successivamente alla dottrina il superamento di queste teorie:
riconoscendo espressamente all’art. 53 Cost. natura precettiva.

Cominciamo ora ad analizzare l’ambito di applicazione oggettivo del principio di capacità contributiva. A tale
riguardo, la Corte costituzionale ha ritenuto che tale principio riguardi solo le imposte, in quanto relative a
prestazioni di servizi il cui costo non si può determinare in modo divisibile. Al contrario, per le tasse
(qualificabili come prestazioni divisibili per via del collegamento tra somma pagata e spesa dello Stato) l’art.
53 Cost. non troverebbe applicazione in quanto in esse partecipa alla spesa lo stesso soggetto cui la singola
attività si riferisce —> si tratta però di una posizione criticata da una parte della dottrina, la quale osserva
che l’art. 53 Cost. si limita a considerare le ipotesi di concorso alla spesa pubblica, senza distinzioni rispetto

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ai modi del concorso né rispetto alle spese pubbliche. Pertanto, anche assetti tributari para-commutativi
formerebbero parte delle prestazioni idonee a realizzare la ripartizione dei carichi pubblici all’interno della
collettività.
A tal proposito, infatti, questo tipo di impostazione non può abbracciare quei casi in cui all’interno della
tassa il legislatore tenga conto di elementi di capacità contributiva (ticket sanitari e tasse scolastiche) per
escludere la debenza di quella determinata tassa —> in tali ipotesi, ove si tratti di servizi essenziali (sanità e
istruzione) il legislatore non può porre una tassa a carico di soggetti che non siano, per le loro condizioni
economiche, in grado di sostenerla.
Oltre al riferimento dei tributi para-commutativi, la teoria del beneficio viene richiamata anche sotto altri
due profili: i) da un lato, nell’ottica della fiscalità locale e del cd. Federalismo fiscale, per indicare la
possibilità che si crei un rapporto più stretto tra i tributi richiesti a carico di una collettività, di regola in
relazione a indici di forza economica che maggiormente beneficiano dell’attività degli enti locali (ES:
immobili, sicurezza…) e le attività che questi enti esplicano a favore della collettività; fino poi ad arrivare
all’imposta di scopo, dove il prelievo è richiesto a fronte dell’esecuzione di una specifica opera la cui utilità è
rivolta a favore di soggetti obbligati al pagamento; ii) dall’altro in relazione alla giustificazione della
tassazione di soggetti non residenti, per redditi o cespiti situati nel territorio dello Stato per via del beneficio
loro derivante dall’attività posta in essere dal cd. Stato della fonte —> in uno stato è soggetto a tassazione
quel reddito che trae origine da fonti ubicate nella sua giurisdizione (indipendentemente dal fatto che il
reddito sia attribuibile a soggetti residenti o meno).

• Un esempio interessante dell’applicazione del principio del beneficio ai tributi locali riguarda
l’imposta di soggiorno istituita dalla Regione Sardegna e ritenuta costituzionalmente legittima dalla
Corte costituzionale nel 2008. La Corte, dopo aver premesso che il presupposto di tale imposta
regionale è individuato nel soggiorno di soggetti non iscritti all’anagrafe dei residenti nei comuni
sardi, nelle aziende o strutture ricettive, ecc…tali soggetti, proprio per effetto del soggiorno,
necessariamente fruiscono di servizi pubblici locali e regionali, ma anche del patrimonio ambientale
e culturale sardo, senza però concorrere al finanziamento dei primi e alla tutela del secondo a mezzo
di tributi. Al contrario, i soggetti residenti nel territorio sardo concorrono (nella generalità dei casi)
alle spese pubbliche connesse a tali beni e servizi: appare così corretto (sotto il profilo fiscale)
distinguere tali soggetti da quelli non residenti in Sardegna. Il legislatore regionale, nel porre
l’imposta di soggiorno in una misura non sproporzionata, a carico solo dei soggetti non residenti in
Sardegna, tratta diversamente e in modo adeguato situazioni giuridiche diverse e quindi non supera
nemmeno i limiti della ragionevolezza, stabiliti dall’art. 3 Cost.

Passiamo ora alla fase dell’imposizione: si deve innanzitutto escludere che l’interesse fiscale possa
condizionare il quantum del tributo, altrimenti si incorrerebbe in una violazione dello stesso principio di
capacità contributiva.
Per quanto attiene alla fase di attuazione del tributo, la Corte ha qualificato l’interesse alla riscossione dei
tributi come un interesse di natura generale, in quanto rende possibile il regolare funzionamento dei servizi
pubblici e che quindi giustifica discipline differenziate. Al riguardo, però, è necessaria una precisazione:
infatti, le regole che presiedono all’azione del Fisco (nella fase dell’accertamento e della riscossione) sono
solitamente caratterizzate da una deroga rispetto alle regole di diritto comune amministrativo, processuale,
ecc…tali deroghe, che connotano la particolarità del diritto tributario, sono state giustificate sia nel superiore
interesse generale, ma anche per via dell’inferiorità “conoscitiva” del Fisco rispetto al contribuente. Tuttavia,
oggi, il quadro si è profondamente mutato grazie ai sistemi informatici e i dati conoscitivi in possesso dello
stesso Fisco, tutto questo consente all’Amministrazione di agire con grande velocità. Bisogna dire però che
tutto questo avviene in deroga alle regole generali previste per un qualsiasi creditore, con forme e
tempistiche spesso incompatibili con un’efficace tutela del contribuente sul piano processuale —> e non
solo, ma risulta anche di dubbia legittimità non solo sotto il profilo dell’art. 24 Cost. (Norma volta a
garantire il contribuente dinnanzi a norme processuali che non lo tutelano adeguatamente), ma anche
sotto quello della tutela del diritto di proprietà contenuto nell’art.1 del primo Protocollo addizionale alla

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CEDU e del relativo principio di proporzionalità, inteso come giusto bilanciamento tra interesse statale e
interesse privato.
Infine, va sottolineato che il principio di capacità contributiva non trova applicazione solo nel momento di
istituzione dei prelievi che ne formano oggetto, ma anche in quello del relativo rimborso —> deve, infatti,
ritenersi contrario all’art. 53 Cost. il meccanismo che abbia l’effetto di impedire il rimborso dei tributi
indebitamente pagati.

Ma, cosa si intende per CAPACITÀ CONTRIBUTIVA?


L’obbligazione tributaria è un’obbligazione monetaria e quindi vi dev’essere un collegamento con un fatto
economico, un fatto cioè che esprime forza economica (ES: reddito, patrimonio, consumi, trasferimenti,
produzione, ecc…). Tuttavia, non ogni capacità economica costituisce capacità contributiva, in quanto
occorre considerare il principio dell’esenzione del cd. minimo vitale, nel senso che: non può formare oggetto
di prelievo tributario quel minimo di capacità economica necessario a soddisfare le esigenze primarie
dell’individuo.
Il principio del minimo vitale si afferma come riconoscimento della preminenza dei valori fondamentali
dell’individuo o (in ottica più generale) del suo nucleo familiare, sostanziandosi in tal caso, nelle cd.
detrazioni per carichi di famiglia.
In riferimento alla capacità contributiva quale limite al potere impositivo, esistono oggi due differenti teorie:
1. Quella che individua il principio di capacità contributiva quale limite assoluto alle scelte del
legislatore;
2. Quella che individua il principio di capacità contributiva quale limite relativo alle scelte del
legislatore.

Partiamo ora dalla teoria del limite assoluto, secondo i suoi sostenitori sono espressivi di capacità
contributiva quei fatti o situazioni che rivelano direttamente o indirettamente l’esistenza di una ricchezza in
capo al contribuente. Il reddito, il patrimonio, i consumi sono indici di capacità contributiva, perché sono
indici da cui direttamente o indirettamente si desume la ricchezza dei singoli. I suoi sostenitori esaminano
l’art. 53 Cost. sulla base prevalentemente dell’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”) e quindi, quale dovere
di concorrere alle spese pubbliche: un prelievo può esistere solo laddove vi sia ricchezza, laddove vi sia fonte
economica. Tale tesi identifica la capacità contributiva con la titolarità (idoneità soggettiva) di situazioni
giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale, che consentano di estinguere l’obbligazione tributaria —>
vale a dire la possibilità per il contribuente di destinare parte del proprio patrimonio al pagamento del
tributo.

Al contrario, i sostenitori della teoria del limite relativo ragionano nell’ottica dell’art. 3 Cost.: ritengono
dunque che siano espressivi di capacità contributiva tutti quei fatti o situazioni che siano in grado di
modificare la posizione del consociato all’interno dell’ordinamento e che quindi possano essere soggetti
passivi di imposta anche coloro che pongono in essere presupposi socialmente rilevanti, purché espressivi di
una capacità differenziata economicamente valutabile. L’art. 53 Cost. avrebbe quindi una funzione di riparto
e si limiterebbe ad imporre criteri distributivi equi e ragionevoli, che possono essere anche fatti non
patrimoniali, purché naturalmente rilevabili e misurabili in denaro.

Queste due tesi sono anche strettamente collegate al tema del rapporto tra l’art. 53 Cost.e il diritto di
proprietà. Bisogna quindi capire se i sistemi fiscali debbano essere neutrali nei confronti del mercato ed
essere rispettosi della persona quale titolare di fondamentali e naturali diritti di proprietà (lasciando al
mercato stesso il compito di garantire l’ordine spontaneo delle cose) o se invece lo strumento fiscale sia uno
strumento per realizzare il riparto dei carichi pubblici redistribuendo la ricchezza per correggere
diseguaglianze e squilibri socio-economici, modificando così l’equilibrio naturale del mercato.
QUINDI:

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1. Nella prospettiva della capacità contributiva come limite assoluto, l’art. 53 Cost.non può
comprimere il diritto di proprietà dell’individuo, ma costituisce un limite al potere d’intervento del
legislatore tributario per tutelare il diritto di proprietà stesso. Conseguentemente, l’imposta non può
avere carattere espropriativo o eccessivamente pregiudizievole per il diritto di proprietà, dovendo
essere contenuta in determinati limiti “ragionevoli”. Esiste dunque il limite massimo all’imposizione
tributaria, nel senso che una determinata capacità contributiva, anche per effetto del concorso di
imposte di diversa natura, non deve superare una “quota”del reddito complessivo del soggetto —>
pena la natura espropriativa del prelievo.
2. Nella prospettiva della capacità contributiva come limite relativo, invece, la proprietà non è un
diritto naturale intoccabile che preesiste all’intervento statale e ne costituisce un limite, bensì è
frutto di un riconoscimento dello Stato: dovendo così i diritti proprietari “cedere” rispetto agli
obiettivi solidaristici dell’ordinamento costituzionale e alle conseguenti esigenze di giustizia
distributiva. Anche questa tesi tende comunque a riconoscere un limite massimo alla tassazione
nella ragionevolezza dell’imposizione.

• Per quanto attiene agli effetti delle citate tesi sulla scelta degli indici di capacità contributiva, la
nozione di capacità contributiva in termini di mero criterio di riparto si propone di giustificare
imposte quali: IRAP (imposta regionale sulle attività produttive), le accise (imposta sulla vendita e
fabbricazione di prodotti di consumo) e le imposte ambientali.
IRAP: non colpisce un incremento del patrimonio del soggetto, ma colpisce la titolarità di
un’organizzazione produttiva in sé idonea a generare un “valore aggiunto alla produzione”.
Accise: il presupposto di tale tributo consiste nell’immissione un consumo del prodotto e quindi di
un fatto di per sé non avente consistenza patrimoniale. La tesi della capacità contributiva come
limite assoluto cerca allora di spiegare tali imposte come imposte sul consumo, in quanto l’accisa
sarebbe sempre traslata (sotto il profilo economico) sul consumatore.
Imposte ambientali: sono di difficile inquadramento. Facendo riferimento alle imposte
sull’emissione dei gas inquinanti, secondo la teoria della capacità contributiva come limite assoluto,
il fatto che si consumi ossigeno immettendo anidride carbonica nom costituisce scambio sul
mercato, perché l’ossigeno non è un bene che si compra e quindi non sarebbe espressivo di capacità
contributiva, tutto dovrebbe quindi ricondursi ad una forma di prestazione indennitaria, estranea
però all’art. 53 Cost. Qualora si faccia riferimento alla teoria della capacità contributiva come limite
relativo e si operi riferimento all’unità fisica che incide negativamente sull’ambiente o al
comportamento dell’uomo che procura danno all’ambiente: il criterio di riparto che legittimerebbe il
concorso alle spese pubbliche si collegherebbe al fatto che i tributi ambientali costituiscono la
modalità attraverso la quale, in una collettività, si ripartiscono i costi dei pregiudizi arrecati
all’ambiente e la relativa misurabilità deriverebbe dall’entità degli svantaggi che ogni emissione
potrebbe arrecare all’ambiente stesso.

Per quanto riguarda, invece, la posizione della Corte costituzionale:


Fino agli inizi degli anni ’80, essa ha sottolineato un profilo soggettivo e personale del principio di capacità
contributiva. È stata quindi considerata quale idoneità soggettiva a sopportare l’obbligazione di imposta.
Insomma, la capacità contributiva è stata riferita al soggetto, si tratta perciò di una qualità soggettiva
(avvalorata dall’utilizzo della locuzione “loro” da parte dell’art. 53 Cost.). In tale prospettiva, il presupposto
dovrebbe contenere anche elementi di patrimonialità riferibili al soggetto.
Verso la metà degli anni ’80, ha iniziato ad approcciarsi ad un altro profilo di tipo oggettivo, per affermare la
rilevanza ai fini della definizione del presupposto d’imposta di qualsiasi fatto che esprima forza economica in
sé, cui conseguirebbe anche l’idoneità alla contribuzione del soggetto tassato. In tal senso, il concorso
diviene così (non più un limite o una garanzia del cittadino) bensì un criterio di ripartizione razionale e
perequata dell’onere fiscale, con una sostanziale riconduzione del principio di capacità contributiva al
principio di eguaglianza e la rivalutazione della ragionevolezza del legislatore, intesa come razionalità,
coerenza, non contraddittorietà delle sue scelte.

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Rapporto tra art. 53 Cost. e gli altri principi costituzionali:
1. Per quanto riguarda il suo rapporto con gli artt. 2 e 3 Cost., esso costituisce rispettivamente una
proiezione del solidarismo e del principio di uguaglianza.
—> l’art. 2 Cost.: pone a carico dei consociati l’adempimento dei doveri di inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale. Tale norma, se letta congiuntamente all’art. 53 Cost.pone in rilievo il
criterio solidaristico del principio di capacità contributiva, dove il dovere tributario diviene
espressione dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Facendo emergere
così una disposizione finalizzata sia alla ripartizione dell’onere dei servizi pubblici tra tutti i
contribuenti, sia al finanziamento di quelle prestazioni sociali indirizzate ad una cerchia ristretta di
soggetti. In tal senso, risultano escluse dall’ambito dell’art. 53 Cost. le sanzioni, prive del requisito
solidaristico espresso dal concorso.
—> l’art. 3 Cost.: sancisce, invece, il principio di eguaglianza, distinto a sua volta in eguaglianza
formale e sostanziale. Il principio di eguaglianza formale vuole che non siano ammesse
discriminazioni in base al sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni sociali e
personali. Il principio di eguaglianza sostanziale, invece, chiarisce che è compito dello Stato
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona
umana. L’art. 53 Cost. dev’essere perciò letto alla luce di entrambe le sue dimensioni: così, per
quanto riguarda il principio di eguaglianza formale, esso impone di trattare in modo uguale
situazioni uguali e in modo disuguale situazioni diverse, dovendo perciò prevedere trattamenti
fiscali differenziati per ricchezze diverse. L’accertamento di tale differenziazione spetta al legislatore,
con l’unico limite della ragionevolezza della scelta operata, intesa come obbligo di coerenza e di non
contraddittorietà. Quanto al principio di eguaglianza sostanziale, lo Stato può utilizzare la leva
fiscale per cercare di promuovere e migliorare la situazione dei propri consociati, correggendo gli
squilibri sociali dovuti a situazioni differenziate di partenza. Da ciò deriva l’obbligo per lo Stato di
tenere conto delle differenti situazioni che intercorrono tra i vari consociati per promuovere la loro
crescita, il loro miglioramento (anche dal punto di vista economico) in un’ottica di giustizia
redistributiva.
Il principio di eguaglianza esprime dunque il limite “relativo” del principio di capacità contributiva,
come giustificazione della diversa contribuzione imposta ad alcuni consociati rispetto ad altri e
giustificata razionalmente dalla sussistenza di differenti sintomi di capacità contributiva.

➔ La Corte costituzionale ha affrontato il tema dell’eguaglianza anche in queste pronunzie, in cui


essa ha rinvenuto la violazione del principio medesimo sulla base di un tertium comparationis (il
giudizio di eguaglianza ha una struttura terziaria: norma di legge (oggetto del giudizio) viola o
meno l’art. 3 Cost. (parametro) in quanto posta a confronto con norma B (tertium)), talvolta
riferito alla stessa imposta, altre volte ad un dato esterno al diritto tributario (ES: la disciplina
civilistica): i) pronuncia 28/1986, sull’illegittimità costituzionale delle norme dell’imposta
successoria che assoggettavano ad un trattamento deteriore i discendenti dei figli adottivi
rispetto ai discendenti dei figli legittimi; ii) pronuncia 6/2014, sull’illegittimità della norma
relativa all’applicazione del sistema del cd.”prezzo-valore” per la determinazione della base
imponibile ai fini dell’imposta di registro, ipotecarie e catastali, nella parte in cui non ne
prevedeva l’estensione anche alle ipotesi di acquisti in sede di espropriazione forzata a seguito
di pubblico incanto, risolvendosi in una disparità di disciplina che attiene ad una categoria di
immobili sostanzialmente unitaria, quanto alla natura e alla peculiare destinazione; iii)
pronuncia 83/2015, sull’illegittimità dell’estensione del regime proprio dei tabacchi anche al
commercio di liquidi aromatizzati e di dispositivi per il relativo consumo (sigarette elettroniche),
trattandosi di prodotti che nulla hanno in comune con i primi e mancando, pertanto, la
giustificazione di scoraggiare il consumo di beni nocivi propria della tassazione dei tabacchi.
Per quanto attiene al rapporto tra agevolazioni e principio di eguaglianza, la Corte attribuisce
alle norme agevolative carattere eccezionale e derogatorio e le ritiene espressione di un potere

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discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o
irrazionalità.

Inoltre, l’art. 53 Cost. in quanto espressione del principio di eguaglianza, è stato utilizzato dalla
Corte di cassazione quale fondamento del suo mutato orientamento in tema di “abuso di
diritto” (2008) in quanto consentirebbe di contrastare operazioni abusive garantendo la parità di
trattamento tra i contribuenti.

Rimanendo poi, sempre in tema di rapporti tra art. 53 Cost. e artt. 2 e 3 Cost., la dottrina
maggioritaria ritiene che tale rapporto rappresenti il referente costituzionale del cd. principio di
indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

• Fondamentale è anche il rapporto con l’art. 24 Cost., relativo al diritto di difesa, rispetto al quale la
Corte si è sempre mossa con grande attenzione, evitando le facili generalizzazioni in punto di
interesse fiscale e risolvendo, solitamente a sfavore dello stesso, il conflitto tra i due valori, anche in
considerazione dell’essenzialità di tale diritto nel sistema costituzionale. In tal senso, infatti, esistono
sentenze in cui la Corte ha dichiarato incostituzionale la normativa tributaria, in quanto preclusiva
del diritto di difesa, o ha rinvenuto nel sistema soluzioni interpretative che ne consentissero
comunque un’adeguata tutela, ES: sentenza 33/2001: relativamente alla norma che subordinava la
messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato al pagamento dell’imposta di
registro, ICI e dell’IRPEF, considerato un impedimento di carattere fiscale alla tutela giurisdizionale
dei diritti, in contrasto con l’art. 24 Cost.

• Per quanto riguarda i rapporti con gli altri principi costituzionali, abbiamo: la tutela del diritto di
proprietà (art. 42 Cost.), ha un rapporto controverso con l’art. 53 Cost., ma dal quale parte della
dottrina ha affermato l’illegittimità dei cd. tributi espropriativi;
• Sempre con riguardo a disposizioni poste a tutela della libertà privata, abbiamo l’art. 41 Cost.
sull’iniziativa economica privata, di regola ritenuto subordinato all’art. 53 Cost. nelle sentenze della
Corte;
• Abbiamo poi l’art. 14 Cost. che contiene prescrizioni sull’inviolabilità del domicilio e delle garanzie in
tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri; articolo spesso posposto all’art. 53 Cost.
• Infine, va evidenziato il collegamento con tutte le altre disposizioni costituzionali teoricamente
suscettibili di legittimare interventi promozionali in favore di determinate situazioni, attraverso
l’utilizzo delle agevolazioni fiscali + di consentire l’utilizzo del tributo per finalità extrafiscali. La
legittimità costituzionale di trattamenti agevolativi e dunque in deroga al principio di eguaglianza (in
quanto, a fronte del possesso di determinati requisiti o presupposti, viene stabilita la non
imposizione soltanto a determinati soggetti o determinate fattispecie), può trovare razionale e
congrua giustificazione in altri principi presenti nell’ordinamento, cui il sistema di agevolazione si
ispiri verso un’ottica promozionale. Si pensi a valori quali: la famiglia, l’istruzione, il risparmio, la
previdenza, l’assistenza, la cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata,
che la Costituzione tutela e i quali possono essere tenuti in considerazione ai fini del riparto delle
spese pubbliche, giustificando un minor prelievo. Si tratta però di un tema che deve confrontarsi
anche con la disciplina europea degli aiuti di Stato, contenuta nel TFUE, in quanto il trattamento
differenziato potrebbe rappresentare un vantaggio solo per talune imprese o produzioni, falsando
così la concorrenza in ambito europeo.
L’uso extrafiscale del tributo si collega anche all’istituzione di tributi con finalità disincentivanti, cioè
con lo scopo di attenuare o inasprire l’imposizione in modo da condizionare scelte dei produttori o
dei consumatori-contribuenti. ES: i tributi ambientali; la fiscalità nutrizionale (nata con l’obiettivo di
sottoporre a tassazione cibi dannosi, i junk food, per la salute e/o di agevolare i cibi salutari. Questo
tema sta assumendo sempre più importanza, a causa delle forti esigenze finanziarie conseguenti alla
crisi economica, talvolta assumendo anche connotazioni di tipo etico-morale —> si pensi ad ES: alla

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“pornotax”, applicata nei confronti di quelle imprese produttrici o distributrici di materiale
pornografico e di incitamento alla violenza, ritenuti in conflitto quindi con principi di carattere etico-
sociale; oppure alla “Robin Hood tax”, applicata a carico di quelle imprese operanti nel settore
petrolifero, del gas ed energetico, mossa dalla finalità di sottrarre a produttori e venditori di energia
da fossili i margini di profitto extra (i guadagni di congiuntura) ascrivibili a condizioni di mercato
opportunistiche e speculative; oppure ancora alla maggiorazione della quota IRES a carico delle
società di comodo, volta a disincentivare l’utilizzo improprio della forma societaria…

I destinatari del principio di capacità contributiva:


L’art. 53 Cost. utilizza i pronome “tutti”, ciò evidenzia il principio di universalità del tributo, che deve colpire
(al verificarsi dei presupposti) tutti i soggetti indipendentemente dalla loro cittadinanza. Qui ciò che rileva è
che il singolo abbia un collegamento con il territorio dello Stato: natura personale (residenza, domicilio) o
reale (localizzazione del reddito o del cespito), che sia tale da giustificare il suo dovere di solidarietà ai sensi
dell’art. 2 Cost., indipendentemente dalla sua cittadinanza. Perciò, la scelta del presupposto di imposta deve
tenere conto dell’esistenza di criteri di collegamento effettivi, che giustifichino cioè il dovere contributivo.
(La cittadinanza viene utilizzata raramente come criterio di collegamento in ambito internazionale).

I requisiti del principio di capacità contributiva:


L’art. 53 Cost.sottolinea un nesso diretto tra capacità contributiva e soggetto obbligato. La capacità
contributiva deve riguardare il singolo contribuente.
Da qui deriva l’illegittimità costituzionale del cumulo familiare dei redditi, che prevedeva l’imputazione al
marito dei redditi della moglie, pur non potendone disporre.
Il legislatore può anche ampliare la sfera dei soggetti passivi, imponendo il prelievo anche a carico di persone
diverse da coloro cui è riferibile l’indice di forza economica —> si tratta dei casi di sostituto di imposta e
responsabile di imposta; occorre però che il soggetto al quale tale dovere viene esteso, abbia la sicura
possibilità di far ricadere l’onere economico sulla persona che realizza il fatto che manifesta la capacità
contributiva. Nel caso del sostituto di imposta, il meccanismo previsto è quello dell’obbligo di rivalsa, che sia
attua solitamente attraverso la ritenuta alla fonte. Nel caso del responsabile di imposta, invece, il legislatore
prevede un diritto di rivalsa. In ogni caso, i rapporti interni o privatistici mediante i quali si opera la
traslazione giuridica dell’imposta, rientrano tra le obbligazioni di concorso oggetto dell’art. 53 Cost. Mentre
soluzione opposta deve darsi per la traslazione economica (o occulta), attraverso cui il soggetto tenuto al
pagamento dell’imposta (percosso) riversa sull’acquirente (inciso, che ne resta anche definitivamente
colpito), il relativo onere tramite un aumento del corrispettivo richiesto.
Ulteriori problemi si creano nel caso in cui soggetto si accolli volontariamente le imposte di un altro
soggetto, allo scopo di garantire a quest’ultimo una sorta di neutralità fiscale.
Nell’ipotesi di accollo pur attuandosi (come nella rivalsa) il trasferimento del carico tributario da un soggetto
a un altro, non si è in presenza di un meccanismo finalizzato ad attuare il corretto riparto del tributo, bensì
(al contrario) di un patto finalizzato a trasferire il tributo medesimo ad un soggetto estraneo al presupposto.
A tal proposito, l’art. 8 co.2 dello Statuto dei diritti del contribuente (l. 212/2000) prevede che sia ammesso
l’accollo in materia tributaria e quindi la traslazione del tributo da un soggetto ad un altro, purché non si
liberi dalla prestazione l’originario debitore (accollo cumulativo).
Infine, dev’esservi corrispondenza tra capacità contributiva che si intende colpire e il presupposto
dell’imposta, dovendo sussistere una coerenza logica all’interno dell’imposta stessa. ES: vicenda che ha
riguardato la dichiarazione di incostituzionalità dell’ILOR (imposta locale sui redditi), ormai abrogata, ove
applicata ai lavoratori autonomi: la sua ratio era quella di tassare i redditi (anche) derivanti da patrimonio e
quindi non poteva colpire i redditi da lavoro autonomo, che sono sprovvisti di tale elemento di
patrimonialità.

Dall’art. 53 Cost., si evince che la ricchezza cui viene commisurato il prelievo dev’essere effettiva. Secondo la
Corte costituzionale non può essere considerata sufficiente una capacità meramente fittizia o apparente. Il
primo profilo rilevante attiene alla commisurazione dell’imposta su un valore lordo, senza quindi considerare

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i costi o le passività. Al riguardo la Corte ha affermato che: allorquando il valore del bene viene calcolato in
base alla differenza tra attivo e passivo, si ottiene un imponibile reale, corrispondente cioè alla effettiva
consistenza economica, diversamente si avrà un imponibile fittizio.
(L’importanza della commisurazione dell’imposta ad un reddito netto è stata sancita dalla Corte anche in
materia di accertamenti bancari).
Tuttavia la Corte ha anche affermato la costituzionalità della norma che vietava il riporto delle perdite in
materia di ILOR, in quanto le perdite pregresse, attinenti cioè ad altri esercizi, non riguardano la capacità
contributiva del periodo di imposta per il quale l’ILOR è stata applicata, ancorché ciò comportasse la
tassazione di un reddito evidentemente fittizio. Si tratta in questo caso di una conclusione essenzialmente
dovuta alla natura di tributo reale propria dell’ILOR, anche se non giustificabile in tale ottica.
La Corte ha altresì dichiarato la legittimità costituzionale della tassazione ai fini ICI del valore dell’immobile
senza poter detrarre le relative passività, sostenendo la non irrazionalità di tale scelta legislativa, in quanto
tali passività afferirebbero non all’immobile oggetto di imposizione, bensì al patrimonio generale del
soggetto che li assume in carico.
Per quanto riguarda gli oneri deducibili e le detrazioni di imposta, secondo la Corte si tratterebbe di una
sorta di concessione che lo Stato può concedere o meno, a seconda della situazione economico-finanziaria
del bilancio (134/1982: la detraibilità non è secondo la Costituzione necessariamente generale e illimitata,
ma va concretata e commisurata dal legislatore ordinario secondo un criterio che concili le esigenze
finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva, non
meno pressanti della vita individuale).
Altro profilo relativo al requisito di effettività attiene alle presunzioni —> la Corte ha affermato innanzitutto
l’incostituzionalità delle presunzioni assolute (quelle cioè che non ammettono prova contraria), in ordine
alla presenza del presupposto; e l’ammissibilità delle presunzioni relative (che ammettono prova contraria),
ma solo se fondate sull’illazione ragionevole e conformi alle regole della comune esperienza. Naturalmente
deve trattarsi di fatti che il contribuente possa ragionevolmente provare, non traducendosi in prove
impossibili.
La Corte ha poi affermato anche l’inammissibilità di presunzioni del tutto incompatibili con i fini di
tassazione che si propongono.
Sempre in tema di effettività, la Corte ha affermato la legittimità della tassazione dell’incremento nominale
di ricchezza dovuto all’inflazione, in quanto rientrante nella discrezionalità del legislatore + la legittimità
della tassazione catastale, in quanto la semplicità nella determinazione dell’imposta può legittimare forme di
imposizione catastale e in quanto il sistema catastale costituiva una forma di incentivo ad una congrua
utilizzazione di un bene.

Un ulteriore problema si pone in relazione alle ipotesi di reddito “normale” nonché ai metodi di
accertamento “induttivi”, intesi come metodi basati sull’utilizzo di presunzioni prive dei caratteri di gravità,
precisione e concordanza finalizzato alla determinazione della base imponibile.
Per quanto riguarda in generale le forme di determinazione induttiva del reddito, il loro utilizzo è
subordinato all’adozione da parte del contribuente di comportamenti antigiuridici di particolare gravità,
quali la mancata tenuta delle scritture contabili o la loro rilevante inattendibilità, la mancata presentazione
della dichiarazione dei redditi oppure l’omessa indicazione dei redditi di impresa o di lavoro autonomo
all’interno della dichiarazione presentata.
Infine, può accadere che la legge, per effetto della violazione da parte del contribuente di taluni obblighi,
determini effetti a lui sfavorevoli sul piano procedimentale, potenziando gli strumenti di controllo e
accertamento a favore dell’Amministrazione finanziaria o determinando preclusioni sul piano probatorio;
oppure sul piano sostanziale, maggiorando l’imponibile o negando la possibilità di fruire di agevolazioni o
detrazioni…per definire questo tipo di norme, si parla di sanzioni “improprie” per distinguerle dalle sanzioni
in senso stretto —> in ogni caso, qui è evidente che il requisito dell’effettività della capacità contributiva
viene meno. Si tratta, infatti, di situazioni che determinano una capacità contributiva diversa da quella reale,
solo in quanto il contribuente non ha osservato determinati obblighi. Ne deriva dunque che una sanzione
impropria può situarsi sul piano formale o procedimentale (sempre che non ne risulti irragionevolmente

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compresso il diritto di difesa, ma non anche su quello sostanziale, trattandosi peraltro di una situazione
sostanzialmente omogenea a quella delle presunzioni assolute, già oggetto di censura in sede costituzionale.

L’utilizzo del principio di capacità contributiva in funzione di interpretazione adeguatrice nelle materie
diverse:
Tra queste, la ragionevolezza di determinate presunzioni, la rettificabilità della dichiarazione dei redditi, la
valenza probatoria delle elaborazioni statistiche alla base degli accertamenti tramite studi di settore,
l’elusione fiscale e l’identità tra capacità contributiva oggetto di diverse imposte ovvero di rilevazione in capo
a soggetti diversi.
ES: i) Cass. 634/2012: che ha attribuito rilevanza ai fini dell’imposta sulle donazioni alle donazioni fatte dai
genitori verso i figli anche in mancanza di un atto pubblico e di accettazione; ii) Cass. 24049/2011: che ha
ritenuto che i principi costituzionali di eguaglianza, legalità, imparzialità amministrativa e capacità
contributiva, impongano al Fisco (anche in difetto di espressa previsione legislativa) un vincolo rispetto ad
accertamenti definitivi sul valore degli stessi fatti economici effettuati ai fini dell’applicazione di altro tributo,
quando le singole leggi di imposta non stabiliscano differenti criteri di valutazione; iii) Cass. SS. UU.
1052/2007: che nel sancire la necessità del litisconsorzio necessario tutte le volte che l’atto impositivo
contenga elementi comuni ad una pluralità di soggetti obbligati e sia proprio la posizione comune agli stessi
a formare oggetto del ricorso, afferma che la valutazione attraverso il prisma della capacità contributiva
della legittimità di un tale atto, esige l’unicità dell’accertamento giudiziale.

Capacità contributiva e parafiscalità.


Esistono numerose incertezze in merito alla qualificazione giuridica dei contributi previdenziali a tale
dibattito poi si collega anche il problema della riconduzione dei contributi previdenziali (e in generale della
“parafiscalità”) al principio di capacità contributiva.
Al riguardo la giurisprudenza costituzionale si mostra “divisa” in tre orientamenti diversi:
▪ Sentenze che collocano il contributo previdenziale sul piano tributario e ritengono applicabile l’art.
53 Cost.;
▪ Sentenze che confermano la collocazione sul piano tributario ma escludono l’applicazione dell’art.
53 Cost.;
▪ Sentenze che escludono direttamente tale collocazione, ritenendo però il fenomeno previdenziale
interamente disciplinato dall’art. 38 Cost. (Diritto alla previdenza sociale:”Ogni cittadino inabile al
lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza
sociale. (2) I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro
esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione
involontaria.”).

Partiamo dalle prime sentenze, la Corte costituzionale ha sancito la natura tributaria dei contributi e
l’applicabilità dell’art. 53 Cost. nel caso di contributo dovuto dagli armatori e dai lavoratori per
l’assicurazione marinara, calcolato in base alle retribuzioni medie mensili. Da qui il pagamento di contributi
ritenuti non proporzionali alle retribuzioni effettivamente corrisposte e dunque in violazione dell’art. 53
Cost., spezzando la retribuzione media, in quanto lontana dalla realtà.
In tale circostanza, perciò, la Corte ha stabilito l’assoluta centralità della retribuzione effettiva percepita dal
lavoratore quale base di commisurazione dei contributi, rilevando però che il legislatore, nella fissazione
delle retribuzioni medie mensili, aveva inteso garantire la rispondenza più esatta possibile con quelle
effettive, prevedendone anche l’aggiornamento annuo, in caso di modifiche. Tale ricorso poteva, peraltro,
ritenersi eccezionalmente giustificato in quanto si trattava, nella fattispecie, di speciali categorie di lavoratori
addette a particolari settori, per i quali è molto difficile e talora impossibile determinare la retribuzione
effettiva. La Corte non ha dunque escluso l’applicabilità dell’art. 53 Cost. nella valutazione della base
imponibile di commisurazione dei contributi e ha ritenuto idonea a soddisfare il dettato costituzionale la sola
retribuzione reale.

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Ulteriori indicazioni importanti relative al rapporto tra contributi previdenziali e art. 53 Cost.emergono dalla
sentenza 91/1972, con cui la Corte ha affrontato il problema della natura del contributo previdenziale
maggiorato (previsto dalla legge del 1965) per i compensi relativi agli incarichi retribuiti conferiti dall’autorità
giudiziaria. La Corte, ha in particolare, ritenuto che la natura tributaria del rapporto di prestazione
obbligatoria derivasse, oltre che dalla qualificazione pubblicistica dell’Ente al quale la prestazione era
devoluta per il conseguimento di scopi di assistenza e previdenza (compresi nell’ambito dell’art. 38 Cost.)
anche dallo speciale modo e dalla particolare finalità del prelievo di reddito. Essa ha inoltre richiamato la
propria giurisprudenza in tema di capacità contributiva quale idoneità soggettiva all’obbligazione di imposta,
deducibile dal presupposto al quale la prestazione è collegata e determinabile quantitativamente in base a
tale presupposto —> che, nel caso di specie, consiste nella percezione effettiva di un reddito e che la misura
dell’obbligazione risulta stabilita in relazione alla misura del reddito percepito.
In definitiva, la giurisprudenza di legittimità tende alla qualificazione dei contributi previdenziali come di
natura tributaria e pertanto da pagare comunque e in ogni caso, indipendentemente dalle vicende
finanziarie dell’azienda.

Quanto alle seconde, talvolta la Corte ha riconosciuto la natura tributaria ma ha escluso l’applicabilità
dell’art. 53 Cost., come nel caso dei contributi in funzione di tributi giudiziari, in quanto ritenuti servizi
indivisibili.

Per quanto riguarda, infine, le ultime, la Corte una talvolta escluso direttamente la natura tributaria (come
nel caso dei contributi assistenziali: contributi sanitari) di cui ha negato la riconducibilità all’art. 53 Cost., non
rinvenendosi né i presupposti di indistinta imposizione e ancora meno, stante l’obbligatorietà della
partecipazione del singolo, tassazione specifica per un richiesto servizio. Queste conclusioni sono state
confermate con riferimento al contributo al SSN, al quale mancherebbe un connotato tributario certo; la
Corte ha dichiarato l’inammissibilità del referendum per l’abrogazione di tale contributo, affermando però
che si tratta di leggi tributarie.
Vi sono peraltro sentenze in cui la Corte ha escluso la natura tributaria e la conseguente applicabilità dell’art.
53 Cost.con riferimento ai contributi previdenziali in senso stretto, non avendo essi ad oggetto una
prestazione patrimoniale diretta a contribuire agli oneri finanziari della pubblica amministrazione, ma
concernendo esclusivamente il regime previdenziale dei lavoratori.
Il contributo previdenziale viene collocato pertanto esclusivamente sul piano dell’art. 38 Cost.
Il caso di maggior rilievo ha riguardato la costituzionalità della normativa che limitava il cd.massimale di
retribuzione pensionabile, ritenendosi, tra l’altro, che la non utilizzazione (a favore del pensionato) dei
contributi effettivamente versati sulle quote di retribuzione eccedenti tale massimale, si risolvesse in un
prelievo fiscale senza che venisse assicurata alcuna proporzionalità del medesimo con la capacità
contributiva dei soggetti interessati. In tale occasione, la Corte ha osservato che quella contributiva
previdenziale non è una imposizione tributaria vera e propria di carattere generale, ma una prestazione
patrimoniale diretta a contribuire esclusivamente agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori;
e sottolinea la riconducibilità del sistema previdenziale ad un sistema “solidaristico” —> da ciò si evince un
abbandono delle concezioni mutualistico-assicurative a favore di quelle improntate alla “solidarietà”
nell’ambito della tutela previdenziale.
La Corte ha così ritenuto di poter enucleare due tipi di sistemi: uno di tipo mutualistico, che si caratterizza
per la riferibilità dell’assunzione dei fini e degli oneri previdenziali a fini mutualistici e per la rigorosa
proporzionalità tra contributi e prestazioni previdenziali e l’altro di tipo solidaristico, caratterizzato dalla
riferibilità dell’assunzione dei fini e degli oneri previdenziali a principi di solidarietà e per l’irrilevanza della
proporzionalità tra contributi e prestazioni previdenziali. Un ES: è la sentenza 243/1990 con cui la Corte ha
affermato che il principio di proporzionalità tra contributi e prestazioni previdenziali, su cui si fonda la
previdenza delle varie categorie di professionisti, è soggetto al correttivo del principio di “solidarietà” nella
misura necessaria per assicurare a tutti i membri della categoria una prestazione minima adeguata alle loro
esigenze di vita.

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Tuttavia, pur ragionando nell’ottica della solidarietà, talvolta la Corte ha richiamato espressamente il
principio di capacità contributiva e altre volte ne ha escluso l’applicazione: collocando il contributo in una
prospettiva meramente previdenziale attraverso l’argomento della “controprestazione” e ponendolo sotto
l’art. 38 Cost. Nel primo caso, il prelievo deve avvenire nel rispetto del principio di capacità contributiva, nel
secondo caso sussiste il solo limite della ragionevolezza, essendo il legislatore libero di poter fissare
discrezionalmente le misure e i limiti, anche in misura differenziata per le diverse categorie.

Sia che si ragioni nell’ottica dell’art. 53 Cost., sia in quella dell’art. 38 Cost., resta tuttavia fermo il principio
secondo cui il contributo previdenziale dev’essere commisurato al reddito del soggetto assicurato.

L’art. 53 co.2 Cost. dispone che il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Un’imposta si definisce progressiva quando il suo ammontare aumenta in modo più che proporzionale al
crescere dell’imponibile. La progressività può essere assicurata intervenendo sia sull’aliquota (qualora
questa aumenti al crescere della base imponibile), sia sulla base imponibile (attraverso il riconoscimento di
una deduzione alla base, la cd. “no tax area”, eventualmente decrescente al crescere del reddito).
Si tratta di un principio che indica la funzione, non solo contributiva del sistema tributario, bensì anche
redistributiva e quindi costituisce (sotto tale profilo) un’ulteriore declinazione da un lato della funzione
solidaristica dell’art. 53 Cost. e dall’altro del principio di eguaglianza, in quanto finalizzato a correggere gli
squilibri sociali.

Capitolo Quattro: l’efficacia nel tempo delle norme tributarie.


Le disposizioni tributarie possono appartenere alla categoria delle norme sostanziali, procedimentali o
processuali.
Le norme sostanziali sono a loro volta classificabili in norme impositrici, sanzionatorie e agevolative.
Tra le norme procedimentali si collocano quelle che regolano la fase attuativa dinamica dell’attuazione del
tributo; tra quelle processuali si collocano quelle che regolano il contenzioso dinnanzi ai giudici tributari.
Parliamo ora delle norme impositrici: in presenza di queste vale il principio secondo cui si applicano quelle
vigenti nel momento in cui si verifica il presupposto di imposta.
In presenza di norme sanzionatorie: (per la giurisprudenza anche in presenza di sanzioni improprie) viene
invece in rilievo l’attuale antigiuridicità del comportamento. In particolare, per quanto attiene alle sanzioni
amministrative tributarie, l’art. 3 del d.lgs.472/1997 stabilisce che: salvo diversa previsione di legge, nessuno
può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione
punibile (abolitio criminis); in più aggiunge che, se la legge in vigore al momento in è stata commessa la
violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo
che il procedimento di irrogazione sia divenuto definitivo (favor rei).
Quindi, per quanto riguarda l’abolitio criminis e i relativi limiti, ove la sanzione sia già stata irrogata con
provvedimento definitivo, il debito residuo si estingue ma non è ammessa la ripetizione di quanto pagato;
nel caso di favor rei e relativi limiti, l’applicazione della legge più favorevole è impedita dal fatto che il
provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo.
( Sul fronte sanzionatorio penale, l’art. 2 cp., oltre a prevedere in ossequio all’art. 25 Cost.il principio di
irretroattività della sanzione penale, disciplina anche la retroattività delle norme più favorevoli, che incontra
il solo limite dell’irrevocabilità delle sentenze. Tale limite non sussiste però laddove venga completamente
meno la rilevanza penale di una condotta, anche per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale
della norma incriminatrice ).
In presenza di norme procedimentali: vige invece il principio secondo il quale si applica il regime normativo
in vigore nel momento in cui viene compiuto quel determinato atto o attività. Si tratta del principio del
“tempus regit actum” (o di applicazione immediata). Tale principio è riconosciuto anche dalla CEDU, con
l’effetto di sottrarre le norme procedimentali ai limiti elaborati in tema di legalità e retroattività.

Relativa alla questione dell’efficacia assume rilevanza la questione della retroattività.

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Le norme sostanziali solitamente non sono retroattive, mentre le norme procedurali hanno validità sia pro
futuro, sia per il passato.
La norma tributaria veramente retroattiva e quindi non legittima è la norma che sia innovativa,
ingiustificata e irragionevole e che con il suo agire retroattivo incide sfavorevolmente e sconvolge o altera
una situazione consolidata o garantita, compromettendo la sicurezza giuridica o la certezza del diritto;
questo può avvenire sia quando il legislatore impone una nuova o maggiore imposizione riferita a fatti
precedenti all’entrata in vigore, sia che disconosca un diritto o un’agevolazione fiscale riconosciuta in
passato.
La retroattività può essere propria o impropria: è propria quando modifica un tributo esistente in
precedenza; è impropria quando impone un nuovo tributo a fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore
della legge che lo stabilisce.
(( La norma retroattiva non va confusa con la legge interpretativa —> essa non impone alcuna novità, ma si
limita a fornire il reale significato della legge interpretata. Da tenere distinta è anche la norma di
applicazione immediata, che pur operando nel passato si rivolge ad un’attività amministrativa ancora in
corso di svolgimento all’entrata in vigore della nuova legge )).
Il divieto di retroattività non è esplicitamente previsto in nessuna norma.
Abbiamo l’art. 11 delle Preleggi, che fissa il principio di irretroattività delle leggi, affermando che: “la legge
non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Si tratta però di una norma di legge
ordinaria e come tale destinata a trovare applicazione per le norme di rango inferiore (regolamenti) e a
soccombere dinnanzi a norme equi-ordinate che dovessero espressamente disporre la retroattività del
tributo. Perciò, in presenza di norme di pari rango, l’art. 11 Preleggi può funzionare solo quale criterio
interpretativo, in particolare ove sussista il dubbio se una norma sia o meno retroattiva (da risolvere nel
senso della non retroattività della norma stessa).
Occorre perciò verificare se un limite alla retroattività dei tributi possa essere rinvenuto in fonti
sovraordinate, in particolare nelle norme costituzionali.
Allora, in via generale, da un lato non esiste in materia tributaria una norma com’è l’art. 25 Cost., operante
in materia penale che espressamente vieti la retroattività; dall’altro la Corte costituzionale ha più volte
affermato che la retroattività trova un limite nella salvaguardia (oltre che dei principi costituzionali), anche di
altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso
ordinamento (tra i quali: il rispetto del principio generale di ragionevolezza —> che prevede il divieto di
introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei
soggetti…).
La giurisprudenza poi, nel corso degli anni, ha anche utilizzato come limite il principio della capacità
contributiva, stabilito dall’art. 53 Cost. Tale principio però è utilizzabile solo nel caso in cui si analizzi in senso
oggettivo la capacità contributiva, esso infatti non ha valenza se si analizza la capacità contributiva in senso
soggettivo, in quanto si potrebbe legare la retroattività alla mutevole capacità economica del contribuente
nel tempo. Proprio per superare questa limitazione, si è fatto ricorso al principio del legittimo affidamento
del cittadino alla certezza del diritto, valore di civiltà poco utilizzato nel nostro ordinamento, ma riconosciuto
ampiamente nel diritto comunitario. Tale principio prevede che il contribuente possa agire senza subire
pregiudizio di successive modifiche sfavorevoli e questo rafforza il divieto di retroattività e vincola
maggiormente il legislatore, tuttavia risulta ancora poco per tutelare appieno i contribuenti. Questo
principio trova però un importante riferimento sia nel diritto europeo sia nella giurisprudenza della Corte
Europea dei diritti dell’uomo. Innanzitutto, per quanto riguarda il diritto europeo, la Corte di giustizia ha
ripetutamente affermato che il principio della certezza del diritto, il cui corollario è proprio il principio di
tutela del legittimo affidamento, costituisce (assieme al suo corollario) principio generale dell’ordinamento
giuridico europeo. Ed essi devo essere rispettati sia dalle istituzioni europee, sia dagli Stati membri
nell’esercizio dei poteri loro conferiti.
Tanto premesso, bisogna però menzionare anche l’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente (L.
212/2000), dove alla base si trova proprio il principio dell’affidamento. In particolare, tale disposizione
stabilisce che (salvo quanto previsto dall’art. 1 dello Statuto che riguarda le norme di interpretazione
autentica) le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. (Relativamente ai tributi periodici, inoltre,

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le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla
data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono). Emerge dunque il problema del valore da
assegnare alle norme statutarie: l’art. 1 di tale Statuto stabilisce che le disposizioni contenute all’interno
dello Statuto, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. costituiscono principi generali dell’ordinamento
tributario e possono essere derogate e modificate solo espressamente e mai da leggi speciali. Tale
disposizione afferma perciò che: i) le norme statutarie sono norme espressive di principi costituzionali; ii)
che hanno natura di principi generali dell’ordinamento tributario; iii) afferma il principio di fissità, ossia la
possibilità di una loro deroga o modifica solo espressa e mai da leggi speciali. Esse perciò non possono
fungere da parametro di costituzionalità, quindi non possono consentire l’annullamento della norma
tributaria che si ponga in contrasto con esse. Possono però costituire un valido supporto interpretativo.

L’art. 3 co. 1 dello Statuto dispone che fanno eccezione al divieto di retroattività le norme di interpretazione
autentica. Infatti, ai sensi dell’art. 1 co.2 dello Statuto, l’adozione di norme interpretative in materia
tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le
disposizioni di interpretazione autentica. (Le norme di interpretazione autentica hanno solitamente questa
struttura:”X si interpreta nel senso di Y”, si tratta cioè di norme che intervengono ove sussista un dubbio sul
significato da assegnare a un certo enunciato, che il legislatore decide di risolvere in un determinato modo).
Secondo la Corte dunque, emanare norme di questo tipo altro non è che un modo per il legislatore di
retroagire e lo scostamento tra forma e sostanza che potrebbe eventualmente nascere non è di per sé
sufficiente per determinare l’illegittimità costituzionale.
Questione diversa è quella delle modifiche normative, non attuate mediante la tecnica dell’interpretazione
autentica e riguardanti problemi sui quali coesistono tesi favorevoli al Fisco ma anche favorevoli ai
contribuenti. Qui si pone il problema se la modifica legislativa confermi la precedente interpretazione ad
essa corrispondente oppure la precedente contraria. In casi come questo, in realtà, l’applicazione delle
disposizioni previgenti dovrebbe continuare ad avvenire senza interferenze da parte delle successive
modifiche. Si rischierebbe altrimenti di leggere la nuova disposizione come nuova e innovativa e che
conferma l’interpretazione contraria.

Altro tema fondamentale è collegato alla capacità contributiva futura: è essenziale ai fini del rispetto della
capacità contributiva che il contribuente possa legittimamente omettere di versare (oppure versare in
misura inferiore) gli acconti (ai fini IRPEF, IRES, IVA, ecc..che sono commisurati all’imposta pagata nell’anno
precedente) ove ritenga che in quel periodo di imposta non realizzerà quella capacità contributiva attesa,
salvo il rischio di subire la sanzione per tale omesso o insufficiente versamento, nel caso in cui i suoi calcoli
dovessero risultare poi errati.

Le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale hanno effetto ex tunc, nel senso che a decorrere dal
giorno successivo alla data di pubblicazione della sentenza la norma censurata non può più trovare
applicazione. L’efficacia retroattiva delle sentenze della Corte costituzionale incontra un limite generale nei
rapporti esauriti (si tratta di rapporti su cui è intervenuta una sentenza passata in giudicato oppure la
prescrizione o la decadenza). Si ipotizzi che la Corte costituzionale dichiari un tributo incostituzionale, in
quanto non espressivo di capacità contributiva. La giurisprudenza ha affermato che il diritto al pagamento
della giusta imposta va contemperato con quello della certezza dei rapporti giuridici e con tutti quei principi
e norme di natura procedimentale e processuale che presiedono all’attuazione del tributo. Sicché lo spirare
dei termini per ottenerne il rimborso (decorrenti dal momento in cui il rimborso poteva essere esercitato e
non dalla sentenza della Corte), la definitività di un atto impositivo per sua mancata impugnazione nei
termini oppure il passaggio in giudicato di una sentenza sfavorevole al contribuente, determinano la nascita
di questi rapporti esauriti, tali da precludere la ripetizione del tributo pagato.
ES: sentenza con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della Robin Hood tax (2015), la Corte,
relativamente ai rapporti ancora pendenti (fatti salvi quelli esauriti) ha ritenuto di poter graduare gli effetti
temporali delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale (rimuovendo solo pro futuro gli effetti della

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disposizione costituzionalmente illegittima) ove la pronuncia possa determinare un grave impatto su altri
principi costituzionali (quali: equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.), artt. 2 e 3 Cost., artt. 3 e 53 Cost.).

Capitolo Cinque: interpretazione, elusione fiscale e analogia nel diritto


tributario.
L’interpretazione nel diritto tributario: iniziamo ora dall’argomento letterale, cioè il profilo testuale
dell’interpretazione. Lo Statuto dei diritti del contribuente pone proprio alcune regole di tecnica legislativa
assai importanti, destinate a regolare l’attività di normazione in materia tributaria, infatti ad ES: le leggi e gli
altri atti aventi forza di legge contenenti disposizioni tributarie devono menzionarne l’oggetto nel titolo; gli
atti normativi regolanti discipline diverse da quella tributaria possono contenere solo disposizioni tributarie
strettamente inerenti a tali discipline; le disposizioni modificative di leggi tributarie debbono essere
introdotte riportando il testo conseguentemente modificato, ecc…
L’interpretazione letterale è quel significato che l’enunciato esprime sulla base delle regole linguistiche sia di
tipo semantico (concernenti il significato delle parole e dei termini che lo compongono) sia di tipo sintattico
(concernenti la posizione di tali parole e termini e le relazioni esistenti tra essi). Al significato lessicale può
accompagnarsi poi un significato letterale-enunciativo, quel significato di quelle parole e termini nel
contesto dell’enunciato, oppure un significato letterale-testuale, che tiene conto della posizione
dell’enunciato rispetto ad altri enunciati e convenzioni che presiedono alla formazione dei testi.
(Si potrebbe quindi dire che il contesto a cui abbiamo appena fatto riferimento è il contesto linguistico e non
quello extra-linguistico).
È ovvio che il significato letterale trova anche nel diritto tributario un limite nelle regole linguistiche, con la
conseguenza che il metodo letterale può richiedere il necessario ricorso ad altri metodi dell’interpretazione
o comunque, ad altre operazioni non contemplate dal metodo letterale. Un conto però è ammettere la
possibilità di una pluralità di significati, a motivo dell’ambiguità (un’espressione ha più di un significato, ES:
l’art. 23 Cost., che menziona la “legge”, la quale potrebbe essere letta come legge nazionale o regionale..)
oppure della vaghezza “comune” del testo, altro poi è la contestazione della possibilità che le norme
possano diventare oggetto del metadiscorso interpretativo.
Rare sono poi le ipotesi, nel diritto tributario, della vaghezza “socialmente tipica” (o da rinvio) in cui il
termine esprime un concetto valutativo la cui applicazione richiede il necessario riferimento a variabili
parametri di giudizio e alle mutevoli tipologie della morale sociale e del costume —> termini come “buona
fede”, “ordinaria diligenza”, “lealtà e correttezza” non trovano in questa materia terreno fecondo, per la
difficoltà di rinviare a regole morali o socio-ambientali esterne ad essa.
Il profilo della vaghezza socialmente tipica, non deve essere confuso con quello della discrezionalità. Da un
lato l’utilizzo di termini implicanti valutazioni non è escluso nel diritto tributario, pur essendo certamente
limitato (si pensi alle: “valide ragioni economiche”, “agli investimenti innovativi”, “ai beni di rilevante
interesse culturale”…); dall’altro, è noto che nel diritto amministrativo (luogo delle valutazioni pratiche e
della discrezionalità) è ampio l’uso di concetti indeterminati, quali: “sicurezza pubblica”, “interesse
pubblico”, “interesse generale” e così via…
Ulteriore problematica in materia fiscale è quella che riguarda il rinvio in forma esplicita e in forma implicita
—> il rinvio in forma esplicita, può esprimersi mediante una presupposizione, la quale a sua volta può avere
ad oggetto nozioni giuridiche o extragiuridiche. Nel caso di nozioni giuridiche, vengono in rilievo nozioni
strettamente di tipo giuridico, da apprezzarsi necessariamente alla luce delle regole; nel caso di nozioni
extragiuridiche, si opera un riferimento a categorie concettuali, nozioni, ecc…che pur appartenenti al mondo
extragiuridico, vengono recepiti come criteri integrativi delle norme giuridiche, nei limiti in cui il significato
appaia compatibile con la ratio del rinvio.
—> il rinvio vero e proprio, si tratta di rinvii non recettizi, sicché le modifiche sopravvenute delle norme
rinviate rileveranno sul contenuto del rinvio e la validità di esso rimarrà subordinata a quella delle
disposizioni oggetto di rinvio nell’ordinamento a cui appartengono. Abbiamo rinvio non recettizio sia
quando la norma che effettua il rinvio, lascia la determinazione del contenuto di tale disciplina ad altra

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fonte, sia quando la norma rinvia ad un’altra disciplina (non perché intenda adottarne la disciplina, bensì per
trarne un presupposto).
* si ha, invece, rinvio recettizio allorquando la norma (o le norme) oggetto del rinvio risulti inserita e
assorbita nella norma che lo effettua quale contenuto di questa *.
—> il rinvio in forma implicita, l’enunciato utilizza un vocabolo tecnico o tecnicizzato he costituisce il nome
di un istituto o di un ente giuridico in altri enunciati legislativi appartenenti: i) allo stesso documento
normativo; ii) allo stesso settore disciplinare; iii) ad altro settore disciplinare, senza darne definizione,
oppure senza specificarne la fonte normativa, né rendendo evidente all’interprete a quale significato far
riferimento.

L’assegnazione di un significato diverso da quello “ordinario” (con una concettualizzazione tributaria


“propria”) deve considerarsi però un’eccezione e non una mera e fisiologica funzione del riferimento al
contesto. Così, l’argomento teleologico, sulla diversa funzione del concetto nel diritto tributario potrà
svolgere innanzitutto due funzioni: da un lato, quella di precisare il significato del termine adottato laddove
lo stesso (nella sua branca d’origine) sia oggetto di una pluralità di interpretazioni; dall’altro, quella di
assegnare al termine o concetto un significato diverso da quello che esso assume nella propria branca
d’origine.
Ok, occorre ora chiarire cosa deve intendersi per “significato della legge”: abbiamo un significato soggettivo,
che si stabilisce attraverso la precostituita e irripetibile volontà del legislatore storico, sicché il dogmatico del
diritto deve ripercorrere le tracce dello storico del diritto per determinare il contenuto oggettivo della legge;
oppure l’altro significato, quello oggettivo, secondo il quale il contenuto della legge sta nella legge stessa e
nelle sue parole, intese quale volontà di legge, quale senso oggettivo a prescindere dalle intenzioni del
legislatore storico. Ad oggi si preferiscono le teorie oggettive rispetto a quelle soggettive, con l’atto
legislativo si afferma che la legge di separa dai suoi autori e viene elevata ad esistenza oggettiva, con un
significato che può essere anche più ricco di quanto i legislatori pensassero nel corso dell’attività legislativa.
Essa diviene parte dell’ordinamento giuridico, alla cui trasformazione partecipa attivamente, subendo sia i
mutamenti del diritto, sia i mutamenti delle condizioni sociali, economiche, tecniche, che ne richiedono un
continuo adattamento. Bisogna perciò attuare un’interpretazione conforme al presente. Ciò non toglie
comunque che le teorie soggettive abbiano un loro spazio applicativo, soprattutto nel periodo subito
successivo all’introduzione di una nuova disciplina, dove la volontà del legislatore viene ad assumere una
forte rilevanza.
Nel diritto tributario, l’argomento teleologico si collega strettamente alla funzione dello scopo. Nella prima
metà del 1900 nacquero due tesi, le quali evidenziarono due scopi del diritto tributario: il primo era quello di
procurare allo Stato maggiori introiti possibili, al fine si sopperire alle enormi esigenze fiscali post-belliche.
Tale esigenza era alla base dell’indirizzo della Cassazione fiscale tedesca, volta anche a realizzare una vera
eguaglianza tra i contribuenti; il secondo scopo prevede la tassazione dell’equivalente economico, che si
configurava funzionale al raggiungimento del primo scopo, cioè quello di assicurare il maggiore gettito
possibile—> ma non nel senso di consentire al Fisco qualsiasi forma di prelievo, quanto invece di assegnare
alla norma tributaria la massima estensione possibile. Ne deriva così che l’acquisizione del gettito è il motivo
della legge e non il suo scopo.
Inoltre, accanto allo scopo della legge tributaria in generale, può esservi anche una specifica finalità
perseguita dalla norma tributaria: è il caso dei tributi di indirizzo, per i quali il fine di perseguire determinati
obiettivi di natura politico-sociale è fondamentale nella loro istituzione; oppure, è il caso delle norme anti-
elusive.
Lo studio dell’interpretazione teleologica nel diritto tributario si sviluppa anche uni stretta connessione con il
tema dell’elusione fiscale. Con tale termine si comprende un ampio spettro di situazioni: i) in alcuni casi il
contribuente, posto davanti alla necessità di perseguire un determinato risultato economico, tenta di
“aggirare”, attraverso l’utilizzo di una strada anomala (rispetto a quella diretta, stabilita dalla legge) un
determinato presupposto di imposta, facendo nascere un diverso presupposto o non facendone nascere
alcuno, con lo scopo (esclusivo o prevalente) di attenuare o eliminare l’onere fiscale connesso al
presupposto eluso. Cioè, il contribuente (dinnanzi allo strumento ordinario offerto dall’ordinamento) ne

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sceglie uno diverso, che dal punto di vista effettuale, si configura come equivalente rispetto al primo, ma (dal
punto di vista fiscale) determina un onere di imposta inferiore o nullo.
ES: Caio, che intendendo cedere un terreno edificabile, al fine di evitare l’imposta sui redditi derivanti dalla
plusvalenza (incremento di valore, differenza positiva tra due valori dello stesso bene, riferiti a momenti
diversi), dona il terreno edificabile ad un proprio figlio (pagando la più mite imposta sulle donazioni) e costui
lo cede ad un terzo —> in modo da approfittare dell’art. 68 TUIR (testo unico delle imposte sui redditi) che
consente di calcolare le plusvalenze come differenza tra il valore di cessione e il valore dichiarato ai fini
dell’imposta sulle donazioni; ii) una forma di aggiramento si ha anche quando il comportamento del
contribuente si configura come reazione davanti ad una situazione legislativa che gli preclude determinati
vantaggi tributari. In tal caso il contribuente, attraverso l’utilizzo di determinate fattispecie negoziali, mira ad
ottenere proprio quei vantaggi preclusi.
L’insorgenza di un presupposto indesiderato può essere evitata, eventualmente accompagnandola con
l’insorgenza di un nuovo e diverso presupposto, anche mediante il “travestimento del reddito” —> talvolta,
infatti, questa operazione consente di sfuggire alla tassazione e quindi di evitare l’insorgenza di qualsiasi
presupposto, altre volte serve per beneficiare di clausole contenute in convenzioni internazionali contro la
doppia imposizione, più favorevoli di quelle applicabili; iii) in altri casi ancora, il contribuente può tenere un
comportamento che sia semplicemente finalizzato alla “strumentalizzazione” delle norme fiscali, al fine ad
ES, di creare componenti negativi di reddito (cui corrispondano ricavi che determinano un onere fiscale nullo
o comunque inferiore rispetto al vantaggio determinato dalla deduzione del componente negativo) oppure
di recuperare perdite fiscalmente rilevanti che altrimenti andrebbero perse. In questi casi, le operazioni
dovranno essere reali e volute, poiché se così non fosse si rientrerebbe nel fenomeno simulatorio e si
abbandonerebbe il terreno dell’elusione per entrare in quello dell’evasione (in questo caso, non si aggira un
presupposto, ma si nasconde un presupposto già verificatosi). Il tratto comune a questi due fenomeni
(elusione ed evasione) è rappresentato da un lato dalla particolare abilità e scaltrezza del contribuente che
determina un presupposto diverso da quello “tipico” o ne determina uno nuovo non sostitutivo di un altro o
non ne determina alcuno; dall’altro lato dalla finalizzazione del comportamento al mero ottenimento di
vantaggi fiscali; da un altro ancora, per via delle lacune del sistema.
In ogni caso, il contrasto all’elusione fiscale si è sviluppato storicamente secondo tre approcci:
1) Il primo approccio consisteva nell’affrontare il problema dal lato della disposizione normativa elusa.
Ciò implica la verifica sia della possibilità di procedere nell’ambito del testo legislativo con forme di
interpretazione della disposizione ampie e tali da impedirne l’abuso, sia della possibilità di di operare
in via analogica sulla disposizione elusa facendovi rientrare la fattispecie elusiva;
2) Il secondo approccio consisteva nel tentativo di contrastare la fattispecie elusiva in base a principi e
istituti generali dell’ordinamento o con disposizioni ad “hoc”, rispettivamente con riferimento alla
possibilità di invocare istituti quali l’abuso del diritto, la frode alla legge o la frode ai creditori,
oppure di ricorrere a disposizioni tributarie “di chiusura”, oppure ancora di ricorrere ad espresse
disposizioni antielusive generali o speciali;
3) Il terzo approccio consisteva nell’indagare sul negozio posto in essere dalle parti, al fine di verificare
se fosse possibile qualificarlo diversamente (eventualmente tenendo conto degli effetti economici
prodottisi) da quanto hanno fatto le parti.

Per quanto riguarda il rapporto tra interpretazione ed elusione: se la fattispecie ricade all’interno della
norma elusa, ciò significa che essa ne forma parte del contenuto, magari attraverso forse di
interpretazione estensiva: si tratta semplicemente della corretta interpretazione della norma elusa.
Dunque in questo caso non vi è elusione.
Il tema dell’elusione non è riconducibile però ad una nozione unitaria: innanzitutto il concetto di elusione è
nato in Italia con la scuola di Pavia e con il suo fondatore Griziotti, le cui tesi sono state accusate di
confondere tra giuridico e meta-giuridico e di assumere il compito di colmare le lacune non dell’interprete,
bensì del legislatore. Negli anni ’70 e ’80 si affacciarono tesi che sostenevano la possibilità di ricorrere in
chiave antielusiva alla frode alla legge ex art. 1344 cc. Si trattava però di una norma di applicazione
problematica perché da un lato, risultava difficile qualificare le norme tributarie come norme imperative e

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dall’altro, l’applicazione di questo articolo comportava un effetti di nullità eccessivo ai fini tributari, essendo
invece sufficiente rendere inopponibili al fisco gli atti posti in essere dalle parti. Si avviarono così le prime
approfondite riflessioni se introdurre nel nostro ordinamento una norma generale antielusiva o se
proseguire sulla strada delle norme speciali —> per conciliare le diverse esigenze di giustizia e certezza si
giunse ad una soluzione di compromesso: attraverso l’art. 10 della legge 408/1990, con il quale venne
disposto che è consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere vantaggi tributari conseguiti in
operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale,
liquidazione, valutazioni di partecipazioni, cessione di crediti…poste in essere senza valide ragioni
economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta. Si trattava di una
norma con una struttura di carattere generale (scopo di ottenere un risparmio di imposta in modo
fraudolento; in mancanza di valide ragioni economiche, effetto di disconoscimento) ma richiedeva per poter
operare, la ricorrenza delle specifiche operazioni ivi elencate. Infatti, al di fuori di tali operazioni, si restava
nell’ambito dell’elusione fiscale legittima, dal momento che il comportamento, pur avendo le caratteristiche
strutturali del comportamento elusivo, ricorreva ad operazioni diverse da quelle elencate.
Va sottolineato come il concetto di elusione fiscale legittima si distingua dal mero risparmio di imposta (che
si ha nell’ipotesi di un minor onere fiscale derivante da un comportamento che non integra gli elementi
costitutivi dell’elusione, sostanziandosi in una scelta pacificamente ammessa dall’ordinamento. ES: scelta
della forma societaria, delle modalità di finanziamento…); in più l’elusione si distingue anche dall’erosione di
imposta (si tratta di un concetto economico e non giuridico, in quanto sta ad indicare una situazione di fatto
in cui un certo tipo di redditi, ES redditi finanziari…, subisce un minor prelievo impositivo rispetto ad altri,
come i redditi da lavoro).
La norma poi non brillava nemmeno dal punto di vista della formulazione, infatti, si poneva il problema del
significato dell’avverbio “fraudolentemente” —> da taluni inteso come “in frode alla legge” (nel senso
civilistico del termine, quindi di “oggettivo aggiramento della legge”), da altri come frode in senso penalistico
(quindi connotato da artifizi e raggiri).
Il problema dell’elusione si acuì poi verso la fine degli anni ’80, a motivo di alcune operazioni elusive di
portata rilevante: dividend washing (poste in essere dai fondi comuni per beneficiare del credito di imposta
sui dividendi altrimenti non spettante) e dividend stripping (poste in essere da società controllanti estere per
beneficiare del credito di imposta sui dividendi altrimenti non spettante ed evitare altresì la ritenuta sui
dividendi in uscita). Così l’Amministrazione finanziaria, in assenza di una norma antielusiva generale
(introdotta appunto solo nel 1990), cercò di contrastare tali operazioni ricorrendo essenzialmente all’art.
1344cc., all’interposizione ex art. 37 co.3 del d.p.r. 600/1973. La giurisprudenza di legittimità però sostenne
inizialmente una tesi “contra fiscum” negando alle norme tributarie la natura di norma imperativa,
escludendo così l’applicazione dell’art. 37 del d.p.r. 600/1973, in quanto limitato ai casi di interposizione
fittizia. Da tutto questo si evince che nel nostro ordinamento, prima dell’introduzione di una clausola
antielusiva, non era possibile colpire fenomeni elusivi al di fuori di specifiche norme antielusive.
Venne così introdotta la legge 408/1990 e in seguito il d.lgs. 358/1997 che introdusse l’art. 37bis al d.p.r.
600/1973, in sostituzione dell’art. 10 della suddetta legge.
L’art. 37bis così prevedeva:
a) Ribadiva la struttura quasi generale della norma antielusiva, introducendo un elenco più ampio di
operazioni rilevanti + la sua applicabilità alle sole imposte sul reddito;
b) Sostituì l’avverbio “fraudolentemente” con un’altra formula: “degli atti, fatti o negozi diretti ad
aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o
rimborsi altrimenti indebiti”. Chiarendo la riconducibilità alla frode alla legge tributaria nel senso
dell’art. 1344cc.;
c) L’inopponibilità (inefficacia relativa) nei confronti dell’Amministrazione finanziaria;
d) Tutte le operazioni per essere considerate elusive dovevano essere prive di valide ragioni
economiche;
e) La deduzione delle imposte già pagate;
f) Una serie di garanzie procedimentali a favore del contribuente, consistente nella richiesta di
chiarimenti prima di emanare l’avviso di accertamento, pena la nullità dello stesso;

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g) L’istituto dell’interpello “disapplicativo” delle norme antielusive specifiche, per dimostrare che nel
caso particolare gli effetti elusivi non potevano verificarsi.
Nel 2005 si assiste poi ad un cambio di rotta nella giurisprudenza della Cassazione, a favore del Fisco: in un
primo momento, infatti, con due sentenze del 2005 la Cassazione sostenne la tesi secondo cui nelle
operazioni interessate mancherebbe qualsiasi interesse economico e dunque si tratterebbe di atti primi di
causa, con la conseguente nullità dei negozi posti in essere. In un secondo momento, poi, con una sentenza
del 2006 afferma la diretta applicabilità del principio dell’abuso di diritto di fonte europea. Non sarebbero
dunque opponibili al Fisco, in forza del diritto europeo, gli atti che costituiscono abuso di diritto, con un
principio applicabile a tutti i settori del diritto tributario. Affermato così in via giurisprudenziale un principio
anti-abuso, la Cassazione si trova ad affrontare il problema del ruolo svolto dall’art. 37bis —> l’esistenza
della citata norma antielusiva interna costituirebbe un mero sintomo dell’esistenza di una regola generale,
dando origine ad un doppio binario e a risultati paradossali, prevedendo garanzie procedimentali soltanto
nei casi stabiliti dallo stesso articolo e non anche per quello ad esso estranee.
In ogni caso la Cassazione tornò in seguito sui suoi passi, affermando che l’essenzialità del contraddittorio
anche nell’abuso del diritto di elaborazione giurisprudenziale.
Tali contrasti hanno anche portato all’intervento della Cassazione a Sezioni Unite che, con sentenze del
2008, ha affermato che la fonte del principio antiabuso va rinvenuta (in tema di tributi non armonizzati) non
nella giurisprudenza europea, bensì negli stessi principi costituzionali (in particolare nell’art. 53 Cost.) che
informano l’ordinamento tributario italiano.
Per evitare un uso indiscriminato del nuovo principio, la Corte ha tuttavia successivamente ritenuto di dover
precisare i confini dell’abuso di diritto e gli oneri probatori del Fisco e del contribuente, affermando in
particolare che:
• Il Fisco deve verificare l’esistenza di un vantaggio fiscale che costituisca lo scopo predominante e
assorbente dell’operazione posta in essere;
• Il Fisco deve provare il disegno elusivo e le modalità di alterazione degli schemi negoziali classici
perseguiti essenzialmente per pervenire ad un risultato fiscale;
• Il contribuente deve allegare l’esistenza di valide ragioni economiche alternative di reale spessore
che giustifichino operazioni così strutturate.
La Cassazione pone in questo modo dei limiti all’Amministrazione finanziaria, che non può contestare
genericamente l’abuso di diritto, ma è tenuta proprio ad una prova rigorosa.
In seguito, si è dimostrato necessario un intervento legislativo in materia, avviato con la legge delega
23/2014 e concretizzatosi nel d.lgs. 128/2015 che ha introdotto nello Statuto dei diritti del contribuente il
nuovo art. 10bis, rubricato: “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”.
La nuova disposizione unifica così i concetti di abuso del diritto e quello di elusione fiscale. La soluzione
tecnica adottata, però, non è la più semplice (che sarebbe stata di lasciare in vita l’art. 37bis, eliminando
unicamente il terzo comma e facendolo diventare clausola generale antiabuso), il legislatore infatti ha
preferito intervenire sullo Statuto dei diritti del contribuente che, in quanto espressivo dei principi
costituzionali (tra cui sempre l’art. 53 Cost.) rende la soluzione finale meno vulnerabile a nuove creazioni
giurisprudenziali.
Perciò, con la nuova disposizione: configurano “abuso di diritto” o elusione fiscale, una o più operazioni prive
di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi
fiscali indebiti. Oltre ad individuare gli elementi strutturali dell’abuso, nell’anomalia della condotta
(operazioni prive di sostanza economica) e nella riprovevolezza del risultato (vantaggi indebiti), il legislatore
ne precisa ulteriormente il contenuto —> per quanto attiene alle operazioni “prive di sostanza economica”,
esse vengono innanzitutto definite come quelle inidonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi
fiscali. Si tratta, in sostanza, di quelle operazioni artificiose, costruite per aggirare determinate disposizioni,
pur nel rispetto formale delle norme fiscali (che non vengono direttamente violate, come nell’evasione).
Queste operazioni realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti, intendendo come tali: i benefici, anche
non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento
tributario.

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Infine, il comma 4 di tale articolo, esclude la natura abusiva di quelle operazioni caratterizzate dalla presenza
di valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a
finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale del contribuente.
Inoltre, il legislatore si preoccupa di delineare i confini anche rispetto ad altri concetti, infatti, prevede la
piena libertà del contribuente di scegliere tra regimi opzionali diversi oggetti dalla legge e tra operazioni
comportanti un diverso carico fiscale —> si tratta del legittimo risparmio di imposta.
Nonché la possibilità di contestare l’abuso di diritto solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti
contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie —> si tratta della violazione diretta delle
disposizioni (frode, interposizione, simulazione…) riconducibile al genus dell’evasione.
Perciò possiamo dire che: configurano abuso di diritto una o più operazioni inidonee a produrre effetti
significativi diversi dai vantaggi fiscali che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano
essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

Parliamo ora dell’argomento sistematico: innanzitutto al concetto di “sistema” va assegnato un triplice


significato.
Ad un primo livello si pone il profilo sistematico-testuale, quale idea che gli enunciati contenuti nei testi
legislativi compongano un testo, cioè stiano in relazione l’uno con l’altro conformemente ad una concezione
della legge come “norme espresse da un testo”, anziché come “formulazioni raccolte in un documento”.
Ad un secondo livello si pone il profilo sistematico-concettuale, relativo all’utilizzo in fase decisoria delle
teorie dogmatiche degli istituti giuridici. Esiste anche un sistema di concetti di importanza vitale nello studio
del diritto tributario, ES: le implicazioni di carattere sistematico che derivano dalla ricostruzione della
nozione di “elusione fiscale”, dalla natura giuridica della dichiarazione dei redditi…
Ad un terzo livello, infine, si pone il profilo del sistema-principi, vale a dire la conformità delle norme ai
principi del diritto, dove occorre verificare se e quali direttive possano derivare all’interprete medesimo
nello svolgimento della propria attività in materia tributaria (dal sistema, dalla Carta Costituzionale e dai
principi in generale). A tale riguardo le indicazioni non sono troppo confortanti, abbiamo infatti da un lato gli
interessi contrapposti di Fisco e contribuente (il primo alla riscossione dei tributi per assicurare il corretto
funzionamento dello Stato; il secondo ad essere tassato secondo la legge); dall’altro lato, con riferimento ai
due principi costituzionali cardine del sistema positivo (artt. 23 e 53 Cost.), sussistono tuttora diverse
incertezze; da un altro lato ancora, non conducono a sviluppi gli altri principi generali operanti in materia
tributaria accanto ai richiamati principi costituzionali.

L’ultima questione da esaminare è quella relativa all’analogia. Lo schema argomentativo è il seguente: data
la disposizione A, la quale connette determinate conseguenze giuridiche B alla fattispecie C1; data poi la
somiglianza tra la fattispecie C1 e C2, dove quest’ultima non è disciplinata da alcuna norma specifica. Allora
la disposizione A dev’essere intesa nel senso di trovare applicazione (determinando sempre le conseguenze
giuridiche B) anche alla fattispecie C2.
Il problema consiste essenzialmente nella delimitazione dei confini esistenti tra interpretazione (da un lato) e
analogia legis e analogia juris (dall’altro). Il problema dell’analogia passa dunque per una doppia strada, la
prima, che impone di privilegiare la giustizia formale (che prescrive di determinare ex ante, con una regola
astratta che raggruppi casi singoli in categorie esattamente delimitate e informate ad un principio generale,
le differenze giuridicamente rilevanti) sulla giustizia sostanziale (la quale vincola l’interprete ad ancorare l
proprio procedimento interpretativo in senso lato alla testualità normativa su cui poggia la fattispecie
impositiva. Tuttavia, ci sono ancora troppe lacune in materia. Così il problema si sposta sul piano
dell’argomentazione razionale, postulando la necessità di ricorrere ad un’argomentazione forte per superare
il testo normativo. La correzione oltre il significato letterale limite si inquadrerà in un problema di efficacia
argomentativa, di procedimento di un discorso persuasivo, da valutare nel contesto dell’argomentazione
impostata.
Secondo la Cassazione (2011) in materia tributaria, mentre l’interpretazione analogia, pur non essendo in
astratto esclusa (in quanto le norme impositive non appartengono alle categorie contemplate dall’art. 14
Preleggi —> che concerne solo le norme penali e quelle eccezionali) trova in concreto difficile possibilità di

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applicazione in ragione della struttura solitamente rigida della loro formulazione; l’interpretazione estensiva
(che tende cioè a comprendere nella portata concreta della norma tutti i casi da essa anche implicitamente
considerati, quali risultanti non soltanto dalla lettera ma anche dalla ratio della disposizione) è sempre stata
ritenuta ammissibile, sia con riguardo alle norme di imposizione, sia alle disposizione che accordano benefici
fiscali. Analogamente deve ritenersi ammissibile l’interpretazione evolutiva, la quale si limita ad adeguare la
formula legislativa ai mutamenti (economico-sociali o tecnici) intervenuti nel tempo.
Per quanto attiene, infine, all’integrazione analogica delle norme di agevolazione, si è soliti distinguere tra
esclusioni ed esenzioni.
▪ Le norme di esclusione sono quelle che escludono dall’ambito di applicazione di un tributo una
particolare fattispecie, ma ciò avviene semplicemente per chiarezza, dal momento che già di per sé
quella fattispecie non rientrerebbe nel presupposto applicativo di quel tributo. Vi è quindi una
delimitazione in termini negativi della sfera di applicazione della norma impositiva, concorrendo così
alla definizione della struttura stessa del presupposto di fatto del tributo.
ES: sono esclusi dall’IVA i passaggi di beni in dipendenza di fusioni, tra società fuse o incorporate.
▪ Le norme di esenzione sono invece vere e proprie norme di agevolazione “in senso stretto”, in
assenza delle quali la fattispecie che ne forma oggetto rientrerebbe a pieno titolo nel presupposto
del tributo. Tali norme assumono dunque vera e propria natura derogatoria che, secondo la
giurisprudenza, le renderebbe insuscettibili di applicazione analogica (norme di agevolazione in
senso stretto sono anche quelle che stabiliscono riduzioni dell’imponibile, dell’aliquota, detrazioni,
ecc…).
ES: sono esenti da IVA le prestazioni sanitarie di tipo ambulatoriale.
In tema di interpretazione estensiva e analogia, è interessante richiamare la Cassazione del 1967 che ritenne
applicabile l’esenzione dall’imposta sul bestiame prevista per cavalli e muli in servizio nell’esercito o negli
altri corpi armati dello Stato, delle Province e nei Comuni. Atteso che l’esenzione si giustificava per la qualità
degli enti proprietari o detentori dei quadrupedi, i cui fini istituzionali escludevano l’impiego del bestiame in
attività di commercio e industria, venendo a mancare quelle finalità speculative, espressione di capacità
contributiva sui cui il tributo era destinato ad incidere.
In ogni caso, le questioni da esaminare sono due: la prima consiste nel vedere se effettivamente le
agevolazioni costituiscano norme eccezionali; la seconda di appurare se, quand’anche esse costituiscano
norme eccezionali, l’integrazione analogica sia vietata. È evidente che la soluzione in negativo della prima
assorbe anche la seconda. L’art.14 Preleggi vieta l’analogia, sia nel diritto penale sia nel diritto eccezionale.
Ma al di là di questa piccola certezza, vi sono dubbi —> infatti, non abbiamo una vera e propria definizione di
“norma eccezionale”. Si va dall’antica ricostruzione che ne veniva data come ius singulare privo di qualsiasi
ratio, quindi frutto dell’autorità che l’ha posto; passando per il criterio quantitativo che considera eccezionali
quelle disposizioni che regolano un numero di casi più limitato; per arrivare all’accezione come quella norma
che deroga ad una norma generale (ossia che regola un determinato comportamento in modo opposto a
quello in cui verrebbe regolato se la norma eccezionale non esistesse); fino a giungere alla considerazione
come concetto di relazione, perché ogni norma può essere insieme comune ed eccezionale a seconda che si
consideri parte di un sistema di un principio, oppure faccia parte del sistema di un principio che si trova di
fronte al sistema di un principio superiore; per concludere con quella che la identifica in ogni norma che non
sia riconducibile a principi generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma anzi, che faccia eccezione
ai principi o sia in contrasto con essi.
Se guardiamo alla realtà delle agevolazioni, esse soddisfano solo alcune tra le definizioni sopra elencate.
È dunque il primo della relatività a mettere in luce la vera natura delle norme di agevolazione. Le
agevolazioni, perciò, sono non di rado espressioni di un principio, nel cui ambito potrebbe essere possibile
procedere ad interpretazione estensiva e anche, ove ne ricorrano i presupposti, ad integrazione analogica. Si
pensi ad ES. alle agevolazioni per le aree depresse, a favore dei comuni colpiti da calamità naturali, che
trovano ampi riferimenti in ordine costituzionale. Il sistema costituzionale diventa così il luogo “privilegiato”
all’interno del quale verificare l’eccezionalità della norma di agevolazione, essendo irrilevante la deroga a
livello del singolo tributo.

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Ciò non toglie comunque la possibilità di verificare caso per caso, ai fini dell’integrazione analogica, la
rispondenza delle norme di agevolazione a determinati principi, dai quali estrapolare la ratio che ne
consenta l’applicazione a fattispecie simili a quelle direttamente regolate.
Per quanto riguarda, infine, le norme procedimentali e processuali, si tende ad ammettere l’integrazione
analogica. Con riferimento al procedimento tributario, l’art. 1 del d.lgs. 546/1992 stabilisce che per quanto
non previsto, si applicano le norme del codice di procedura civile in quanto compatibili, dunque con un
giudizio di compatibilità simile all’analogia.

Capitolo Sei: l’efficacia della norma tributaria nello spazio.


Il tema dell’efficacia nello spazio della norma tributaria implica tre ordini di problemi:
1) La determinazione dello spazio nel quale la legge esplica in generale la propria efficacia;
2) La territorialità cd. “in senso formale”;
3) La territorialità cd. “in senso materiale”.

Partiamo dal primo profilo, la legge tributaria esplica la propria efficacia su tutto il territorio dello Stato
(inteso come territorio politico) all’interno del quale è obbligatoria per tutti i destinatari. Può però accadere,
da un lato che certe zone del territorio siano esclude dalla nozione di “territorio rilevante”, come avviene per
la nozione di “territorio doganale” o per la nozione di “territorio ai fini IVA”; dall’altro lato può accadere che
l’ambito di applicazione territoriale di determinate norme sia limitato a porzioni del territorio, come ad ES:
avviene per i tributi locali oppure per le agevolazioni di carattere territoriale, fermo restando l’obbligo della
loro osservanza in tutto il territorio nazionale.
Allora, più esattamente il territorio individua l’ambito spaziale rispetto al quale una norma di diritto
internazionale generale attribuisce allo Stato il diritto di sovranità internazionale, da intendersi come il
diritto di esercitare il potere di governo su una determinata comunità territoriale in via esclusiva (con il
conseguente obbligo per gli altri Stati di astenersi dal penetrare e agire nel territorio senza autorizzazione).
Questo “territorio” a sua volta viene indicato come “territorio in senso stretto”, comprendente il sottosuolo,
il mare territoriale ad esso adiacente e lo spazio atmosferico sovrastante.
Più articolato è invece il profilo relativo agli Enti territoriali: la Suprema Corte di Cassazione (2005 e 2016) ha
chiarito, ai fini dell’assoggettabilità ad ICI degli edifici siti sulle piattaforme petrolifere in mare territoriale,
che i poteri della Regione e degli Enti locali sul territorio dello Stato (compreso il mare territoriale) convivono
con quelli dello Stato —> infatti, la Regione è legittimata ad esercitare un complesso di poteri sul mare
territoriale, che coesistono con quelli spettanti allo Stato.

Con il secondo profilo parliamo dell’espressione territorialità in senso formale, con essa si intende una sorta
di delimitazione dello spazio nel quale la pretesa tributaria di uno Stato può essere concretamente
realizzata, si tratta quindi (in altre parole) di un insieme di limiti all’uso della forza internazionale e interna
degli Stati, secondo il diritto internazionale le cui norme stabiliscono, appunto, che cosa uno Stato può fare
nel proprio territorio o nel territorio di un altro Stato (individuando quindi i limiti concernenti l’uso di tale
forza). In particolare, il fondamento dei limiti all’esercizio di poteri (pubblici) nel territorio di un altro Stato
viene tradizionalmente ricondotto al principio di sovranità di ogni Stato membro all’interno della comunità
internazionale. Con specifico riferimento all’imposizione tributaria, tali limiti riguardano l’esercizio nell’altrui
territorio di poteri di accesso, ispezione e verifica, ma soprattutto riguardano la tutela del credito tributario
all’estero —> tale problema viene tradizionalmente affrontato affermando l’esistenza di un principio di non
collaborazione tra Stati: nel senso che, gli altri Stati potrebbero legittimamente sottrarsi alla realizzazione
sul proprio territorio dei crediti tributari di Stati esteri affermando la conseguente necessità di fondare la
validità e l’efficacia di atti amministrativi su un accordo o altro atto normativo (di fonte internazionale o
comunitaria) tra codesti Stati.
Tuttavia, in dottrina, sussistono opinioni diverse riguardo il principio di non collaborazione tra Stati, talvolta
ne afferma l’esistenza, altre volta la nega.

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Tale tema è stato così affrontato dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel
1998, attraverso l’emanazione del cd. “Codice di condotta”, contenente raccomandazioni dirette agli Stati
membri sulla lotta contro i “paradisi fiscali” (tax havens) e i regimi fiscali preferenziali dannosi, compresa
l’adozione di misure legislative di vario genere.
Per quanto riguarda i tax havens, nella prima versione del codice di condotta, essi erano definiti come quegli
Stati nei quali il livello di imposizione fosse nullo o praticamente irrilevante ovvero mancasse un effettivo
scambio di informazioni o trasparenza nell’applicazione delle norme fiscali. In seguito ad un delicato lavoro,
nel 2001 nacque una nuova versione di tale concetto, l’OCSE infatti eliminò dalle caratteristiche il livello di
imposizione, ritenendo di dover basare la qualificazione esclusivamente sul grado di cooperazione dello
Stato nei confronti delle Amministrazioni degli altri Stati e sul grado di trasparenza dei regimi fiscali. Perciò,
l’OCSE ritenne di dover sanzionare i soli Stati “non trasparenti” (cioè quelli che, non attuando efficaci
politiche di scambio di informazioni, consentono a chi opera nel loro territorio, di trarre vantaggi da tale
opacità).
L’obiettivo divenne quindi quello di ottenere dalla maggior parte dei Paesi, l’impegno ad assicurare la
massima trasparenza e un effettivo scambio di informazioni. In questo contesto, lo scambio di informazioni
acquisì una grandissima importanza, in quanto l’adozione di adeguate procedure (che consentano tale
scambio) costituisce un criterio fondamentale per classificare i “paradisi fiscali”.
Così l’OCSE, per raggiungere codesto obiettivo, elaborò nel 2002 il primo modello di convenzione per lo
scambio di informazioni, che da quel momento venne utilizzato per la stipula di centinaia di accordi (TIEAs:
Tax Information Exchange Agreements).
Nel novembre 2008 venne fissato un limite minimo di 12 accordi in tema di scambio di informazioni stipulati
tra Stati aderenti all’OCSE, la quale nel 2009 (in esito al G-20) ha confermato questa impostazione,
ampliandola però anche agli Stati non aderenti all’OCSE e distinguendo un triplice livello di trasparenza e
volontà di cooperare con le amministrazioni fiscali di altri Stati: i) una lista bianca, contenente un elenco di
Stati, territori o giurisdizioni che hanno seguito gli standard OCSE, stipulando almeno 12 accordi con gli altri
Stati membri; ii) una lista grigia, contenente l’elenco degli Stati, territorio o giurisdizioni che si sono
impegnati a rispettare gli standard internazionali, ma che hanno siglato meno di 12 accordi ad essi conformi;
iii) una lista nera, contenente l’elenco degli Stati, territori o giurisdizioni che non si sono impegnati a
rispettare tali standard.
Tutto questo ha determinato una vera e propria corsa agli accordi, che ha fatto sì che nelle liste
successivamente rilasciare dall’OCSE non figurasse più alcun Paese all’interno della lista nera.
Allo stato attuale, secondo l’OCSE, possono dirsi sufficientemente diffusi i meccanismi per lo scambio di
informazioni. (Il passaggio da una lista all’altra è stato determinato solo dalla stipula di un numero ritenuto
adeguato di convenzioni, in tema di scambio di informazioni). —> tale approccio quantitativo però è stato
considerato dai più “insufficiente” ed è proprio per questo che, in Messico, è stato creato un “Peer review
process” (un processo di revisione paritaria), finalizzato a monitorare e controllare i progressi fatti, verso un
completo ed effettivo scambio di informazioni. Lo scopo del gruppo è quello di monitorare l’attuazione dei
principi generali in tema di scambio di informazioni, di garantirne l’uniforme implementazione e fornire un
supporto sistematico nella loro attuazione.
Lo scambio di informazioni dev’essere effettivo e per poterlo essere, secondo l’OCSE devono verificarsi
contemporaneamente tre circostanze:
1) La disponibilità dell’informazione (ciò si verifica quando innanzitutto è possibile identificare i
proprietari di società o comunque i soggetti coinvolti in altri enti; in caso di fondazioni: i fondatori, i
membri del consiglio. In più si verifica quando lo Stato dispone di strumenti autoritativi in grado di
obbligare i propri contribuenti a fornire le informazioni che non siano in suo possesso…);
2) Un appropriato accesso all’informazione (si ha quando le autorità fiscali dello Stato richiesto
dispongono dei mezzi adeguati per reperire l’informazione e fornirle allo Stato richiedente, anche se
detenute da banche, istituzioni finanziarie…Lo Stato richiesto deve adottare quindi tutte le misure a
sua disposizione per la raccolta delle informazioni richieste indipendentemente dal fatto che tale
Stato non abbia alcun interesse diretto al loro ottenimento. Lo Stato deve avere norme che

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obblighino i contribuenti a fornire le informazioni e lo stesso non può declinare la richiesta di
informazioni in virtù di previsioni sul segreto e sulla riservatezza, anche bancaria o societaria);
3) L’esistenza di un meccanismo di scambio di informazioni (si verifica quando lo scambio è effettuato
su richiesta, laddove le informazioni richieste siano ragionevolmente rilevanti per lo Stato
richiedente, inoltre, sono fornite informazioni relative a tutti i contribuenti. Lo Stato richiesto non
può opporsi a fornire informazioni invocando il segreto bancario/segreto fiduciario. Le informazioni
possono essere richieste anche a fini civilistici o penali e in tal caso indipendentemente dal fatto che
un determinato comportamento sia considerato reato nello Stato richiedente, nel limite in cui ciò
che viene chiesto sia possibile e nel rispetto delle leggi dello Stato richiesto. Sono però previsti
meccanismi che tutelano la riservatezza delle informazioni).

Sulla base di tali principi il Peer Review Group è stato incaricato di procedere ad una procedura di rating
(classificazione), articolata in due fasi: la prima ha ad oggetto l’esame dell’adeguatezza del sistema legale e
regolamentare adottato dalla singola giurisdizione per l’implementazione dei meccanismi di scambio di
informazioni e di quanto può ancora essere fatto per migliorare; la seconda concerne la verifica dell’efficacia
ed effettività dei meccanismi di scambio di informazioni, quindi l’adeguamento della normativa del singolo
Stato agli standard internazionali.
Laddove la prima fase del processo di rating faccia emergere l’assenza degli elementi fondamentali per
l’adozione dei meccanismi per lo scambio di informazioni, non sarà possibile accedere alla seconda fase.
Al contrario, laddove venga riscontrata l’esistenza di un adeguato contesto legislativo e regolamentare in
materia, sarà possibile procedere alle verifiche nella seconda fase. L’attività di verifica si conclude con la
pubblicazione dei rapporti sulle relative risultanze (Peer Review Report).
In conclusione, appare ormai impossibile (oggi) affermare l’esistenza di un principio di non collaborazione tra
Stati, almeno con riferimento al reperimento di informazioni.

Sul fronte internazionale, esistono anche strumenti convenzionali relativi alle verifiche simultanee
internazionali e all’assistenza alla riscossione. Abbiamo, su un piano generale la Convenzione sulla mutua
assistenza amministrativa a fini fiscali (Strasburgo, 1988, firmata ad oggi da circa 60 Stati (tra cui anche
l’Italia)) che disciplina, oltre allo scambio di informazioni, anche le verifiche simultanee, l’assistenza alla
riscossione delle imposte dovute all’estero dai residenti di altri Stati e al notifica dei documenti prodotti in
un altro Stato. Essa ha poi formato oggetto (nel 2010) di un Protocollo di modifica, inteso ad allinearne il
contenuto ai nuovi standard internazionali e di trasparenza in materia di scambio di informazioni.
Per quanto concerne le verifiche simultanee previste da tale Convenzione, questo tipo di cooperazione
prevede che le amministrazioni di due o più Stati conducano una simultanea attività di ispezione,
esaminando (nei rispettivi ambiti territoriali) la situazione di uno o più contribuenti di comune interesse con
l’obiettivo di scambiarsi reciprocamente informazioni ottenute durante il controllo. Per quanto riguarda
invece l’assistenza alla riscossione, rileva l’art. 27 modello OCSE che prevede che gli Stati contraenti possano
prestarsi reciproca assistenza nella riscossione dei crediti tributari. In particolare, l’assistenza reciproca si
sostanzia nel potere di uno Stato contraente di riscuotere le imposte dovute dall’altro Stato contraente
oppure adottare misure conservative nei confronti del contribuente (secondo le norme che regolano
l’accertamento e la riscossione nel primo Stato).
Trattazione specifica merita poi anche il diritto europeo. In questo ambito esistono da tempo atti normativi
in materia di cooperazione amministrativa tra le diverse autorità fiscali nazionali (con riferimento tanto allo
scambio di informazioni tra le amministrazioni, quanto all’assistenza che ciascuno Stato membro deve
prestare nel proprio territorio per il recupero dei crediti tributari vantati da altro Stato membro).
In particolare, in materia di IVA, trova applicazione il Regolamento UE 2010 n. 904 del Consiglio in materia
di cooperazione amministrativa e lotta contro la frode IVA, il quale prevede un’ampia serie di attività
(scambio di informazioni, richiesta di notifica, controlli simultanei) finalizzate all’accertamento dell’imposta.
Normative ad hoc sono poi previste in materia doganale e in materia di accise. Per quanto riguarda invece le
imposte diverse dall’IVA, dai dazi doganali e dalle accise, trova applicazione la direttiva 2011/16 che
valorizza il criterio della prevedibile rilevanza dell’informazione per lo Stato richiedente, elimina il segreto

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bancario, prevede termini certi per lo scambio di informazioni e introduce una clausola “della nazione più
favorita” (secondo la quale se uno Stato membro dovesse prevedere nei confronti di un terzo una
cooperazione più estesa di quella prevista dalla direttiva, non potrà poi però rifiutarsi di concedere tale
cooperazione più favorevole anche agli altri Stati membri che vorranno prendervi parte). La direttiva si
occupa infine anche delle verifiche simultanee e della notifica degli atti.
In materia di assistenza alla riscossione, va richiamata la direttiva 2010/24 che prevede che su domanda
dell’autorità richiedente, l’autorità adita proceda al recupero dei crediti oggetto di un titolo che consente
l’esecuzione nello Stato membro richiedente.
Infine, va evidenziato che l’attenzione dell’UE, OCSE, G-8 e G-20 si è recentemente spostata in direzione del
rafforzamento dello scambio automatico di informazioni, quale nuovo standard nella lotta all’evasione e
all’elusione fiscale. Tale scambio è previsto poi dal FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act) che impone
agli intermediari finanziari stranieri la trasmissione automatica all’autorità fiscale americana di tutti i dati
relativi ai redditi di natura finanziaria conseguiti da soggetti con residenza fiscale in USA.

Completiamo ora l’analisi con il terzo profilo, relativo alla territorialità in senso materiale: con tale
definizione ci si riferisce alla determinazione dell’ambito spaziale entro il quale la potestà normativa di uno
Stato può collegare a determinati presupposti il sorgere di un’obbligazione tributaria. Anche qui, all’inizio si
considerò inesistente qualsiasi limite di diritto internazionale alla potestà impositiva tributaria, poi si
sostenne la necessità della sussistenza nella norma impositrice di un criterio di collegamento (soggettivo o
oggettivo) con il territorio dello Stato —> e quest’ultima tesi si può ricondurre al caso Nottebohm, nel quale
la Corte internazionale di giustizia (1955) elaborò il concetto di legame effettivo a proposito
dell’individuazione dei soggetti (cittadini effettivi) in relazione ai quali lo Stato abbia il diritto di esercitare la
protezione diplomatica. Si tratta di un principio ammesso nel diritto internazionale che prevede che allo
straniero non possano essere imposte prestazioni o comportamenti non giustificati da sufficiente
collegamento di costui con il territorio dello Stato in questione, tra i quali: il dovere tributario. Questo
principio mostra però almeno due limiti in materia tributaria: i) il primo deriva dal fatto che il principio
Nottebohm è fondato sul criterio della cittadinanza, mentre nel diritto tributario tale criterio di
collegamento è scomparso dal nostro ordinamento; ii) il secondo è che, trattandosi di un principio
internazionale, la sua osservanza è rimessa ad organi internazionali e quindi sarebbe causa di ineffettività.
Si può però percorrere una strada differente: prendendo sempre in considerazione il principio di capacità
contributiva, si è visto che (con riferimento al nostro ordinamento) il fondamento del principio di
territorialità deve rinvenirsi nell’uso del pronome “tutti” contenuto nell’art. 53 Cost. e nel collegamento con
l’art. 2 Cost. nel senso che sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica tutti e solo coloro in capo ai quali è
rinvenibile un dovere solidaristico, in quanto collegati su base personale o reale al nostro territorio. Ne
deriva dunque che un tributo che dovesse assumere a presupposto un fatto privo di qualsiasi collegamento
con il nostro territorio (ES: tassazione di un soggetto residente in Zambia per redditi prodotti nello
Zimbabwe venuto in vacanza in Italia) risulterebbe, oltre che in violazione del diritto internazionale,
soprattutto il violazione dell’art. 53 Cost.

Avendo affrontato l’argomento del ragionevole criterio di collegamento, si distinguono a riguardo due
tipologie di criteri di collegamento: quelli di natura personale e quelli di natura reale.
Naturalmente ogni tributo ha specifiche caratteristiche in relazione ai criteri di collegamento e più in
generale alla territorialità: si pensi all’imposta di registro (atti giuridici formati nello Stato ma anche
all’estero che esplicano effetti di natura reale o locatizia su beni situati nello Stato), all’imposta di bollo (atti,
documenti, registri formati nello Stato o all’estero in caso “d’uso” in Italia), alle donazioni (beni e diritti
trasferiti ovunque situati qualora il donante sia residente in Italia), alle successioni (beni ovunque situati nel
caso di de cuius residente; in caso contrario solo beni situati in Italia), all’IVA (operazioni effettuate nel
territorio dello Stato), all’IRAP (attività produttive esercitate nel territorio dello Stato)…
Per quanto riguarda l’imposta sui redditi, da un lato vi è il criterio di natura personale della residenza fiscale
(in cui la localizzazione spaziale del presupposto di imposta avviene guardando la collocazione del soggetto
passivo, cui essa è imputabile, in una determinata collettività —> in particolare, questa collocazione può

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essere riferita al rapporto del soggetto con l’ordinamento giuridico in senso ampio (cittadinanza), oppure
con il territorio dello Stato (ES: il fatto di risiedere abitualmente in un determinato territorio). Dall’altro lato
vi è il criterio di natura reale del luogo di produzione del reddito, in cui la localizzazione avviene guardando il
territorio in cui legislatore assume che si è verificato il presupposto di imposta.

Sotto il profilo internazionale questi criteri di collegamento vengono apprezzati in quanto espressione del
principio del reddito mondiale e del principio della fonte.
Il primo: principio del reddito mondiale, trova fondamento nel criterio della residenza fiscale e postula per i
residenti l’assoggettamento a tassazione di tipo personale (ricostruendone le condizioni economiche
complessive) per i redditi ovunque prodotti.
Il secondo: principio della fonte, trae origine dal criterio del luogo di produzione del reddito e attribuisce
rilevanza a quei soli redditi che vengono localizzati nel territorio dello Stato.

Criteri di collegamento personali e reali nell’IRPEF.


L’art. 2 co.2 TUIR definisce la nozione di residenza fiscale ai fini dell’IRPEF considerando fiscalmente
residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte all’anagrafe della
popolazione residente o hanno domicilio o residenza nel territorio dello Stato, ai sensi del codice civile. Il
co.3 prevede poi che i soggetti residenti siano tassati sui redditi ovunque prodotti, secondo il principio del
reddito mondiale. Al contrario, un soggetto fiscalmente NON residente (nel senso che non integra alcuno
degli elementi costitutivi) è tassato solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato. In particolare, si
considerano prodotti nel territorio dello Stato: a) i redditi fondiari (che per definizione sono quelli inerenti ai
terreni e fabbricati situati nel territorio dello Stato, iscritti o inscrivibili in catasto); b) i redditi di capitale
corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio o da stabili organizzazioni; c) i redditi di lavoro
dipendente che derivano da attività prestate nel territorio dello Stato; d) i redditi da lavoro autonomo
derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato; e) i redditi d’impresa derivanti da attività esercitate
nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni; f) i redditi diversi derivanti da attività svolte nel
territorio dello Stato e da beni che si trovano nel territorio stesso; g) i redditi derivanti dalla partecipazione in
società in regime di trasparenza fiscale.

La doppia imposizione internazionale.


La diversità tra i concetti di residenza o tra i criteri di collegamento reali utilizzati, oppure ancora l’operare
congiunto del principio di residenza e del principio della fonte, possono determinare fenomeni di doppia
imposizione.
La doppia imposizione può derivare, infatti, da tre tipologie di conflitto:
1) Dal conflitto residenza-fonte, quando una situazione di fatto sia assunta quale presupposto dei
tributi in uno Stato sulla base del criterio soggettivo (residenza del contribuente) e nell’altro Stato
sulla base del criterio oggettivo (localizzazione del reddito all’interno dello Stato della fonte): in tal
caso, una parte del reddito formerà oggetto di doppia tassazione.
2) Dal conflitto residenza-residenza, quando un soggetto sia considerato residente più Stati (ES: in uno
Stato a motivo della sua dimora abituale e in un altro a motivo del suo domicilio).
3) Dal conflitto fonte-fonte, quando una medesima fonte di reddito venga localizzata in più Stati,
indipendentemente dalla residenza del soggetto, in quanto assume rilievo un diverso criterio di
collegamento (ES: un interesse attivo venga da un lato localizzato nello Stato in cui risiede il debitore
e dall’altro nello Stato in cui è situato il bene immobile oggetto del finanziamento).
La doppia imposizione si definisce giuridica, quando è lo stesso reddito in capo al medesimo soggetto a
formare oggetto di un doppio prelievo.
La doppia imposizione si definisce economica, quando invece la medesima imposizione coinvolge lo stesso
reddito in senso economico, ma in capo a soggetti diversi (ES: ai rapporti tra società controllanti e
controllate situate in Stati diversi, dove l’utile della controllata viene tassato una seconda volta in capo alla
controllante quale dividendo.

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Limitandoci nella nostra trattazione solamente all’ipotesi di doppia imposizione giuridica, esistono
meccanismi per la relativa eliminazione. Questi meccanismi possono essere: unilaterali (quando sono
previsti dagli ordinamenti interni), bilaterali o (più raramente) multilaterali (quando sono previsti da
convenzioni contro la doppia imposizione).

Partiamo ora dai meccanismi unilaterali: essi si applicano ai conflitti residenza-fonte e possono essere di due
tipi: i) l’esclusione (o esenzione) dall’imponibile interno dei fatti extraterritoriali tassati all’estero; ii) credito
di imposta, per le imposte pagate all’estero. Nel primo caso, non si include nel reddito imponibile quella
parte del reddito complessivo prodotta all’estero; nel secondo caso, pur includendo nel reddito imponibile i
redditi prodotti all’estero, si consente di scomputare dall’imposta (dovuta nello Stato di residenza sui redditi
prodotti all’estero) l’imposta già pagata nello Stato della fonte.
Il nostro ordinamento utilizza quale sistema unilaterale contro la doppia imposizione giuridica unilaterale: il
credito per le imposte pagate all’estero, in quanto conforme ad un sistema che si propone di realizzare la
personalità e la progressività dell’imposizione sui redditi, in modo da considerare (nell’ottica del principio di
eguaglianza) “indifferente” la circostanza che il reddito sia stato prodotto in Italia o anche all’estero.
A tale proposito, l’art. 165 TUIR prevede che: “se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi
prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione
dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi
prodotti all’estero e il reddito complessivo al netto delle perdite di periodi precedenti d’imposta, ammesse in
diminuzione”. Si tratta del credito di imposta limitato, in quanto l’imposta estera riconosciuta “a credito”
non potrà mai superare l’imposta italiana corrispondente al reddito estero. L’imposta estera non assorbita
potrà tuttavia essere riportata in avanti ed utilizzata in futuro, in compensazione, laddove si verificasse la
situazione opposta —> cioè un’imposta estera inferiore a quella italiana corrispondente al reddito estero.

Gli ordinamenti interni non possono invece risolvere il conflitto residenza-residenza, perché se due Stati
considerano allo stesso tempo un soggetto fiscalmente residente nei rispettivi territori, nessuno dei due
Stati ha l’obbligo di rinunciare in via unilaterale alla “propria”residenza fiscale. Quindi questo tipo di conflitto
non può essere risolto a livello unilaterale, occorrendo una soluzione a livello bilaterale o multilaterale.
Gli strumenti maggiormente utilizzati a livello internazionale per risolvere i problemi della doppia
imposizione internazionale sono le convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito o sul
patrimonio —> si tratta di trattati internazionali che (nel caso della doppia imposizione) consentono di
ripartire la potestà impositiva tra lo Stato della residenza e lo Stato della fonte.
In queste convenzioni sono presenti le seguenti tipologie di norme:
• Un primo gruppo di disposizioni contiene le norme relative all’ambito di applicazione soggettivo,
oggettivo e territoriale delle convenzioni;
• Un secondo gruppo contiene le norme di definizione (le imposte sul reddito e sul capitale, traffico
internazionale, autorità competente, residente di uno Stato contraente…);
• Un terzo gruppo (che costituisce l’essenza delle convenzioni) contiene le norme che ripartiscono il
potere impositivo tra gli Stati (cd. norme di ripartizione o di distribuzione), localizzando le varie
fattispecie reddituali all’interno dell’uno o dell’altro sulla base di determinati criteri di collegamento.
Molto importante è che a ciascuna categoria reddituale si abbina un criterio di collegamento
rilevante, stabilendo poi a quale Stato spetti il diritto di imposizione —> a tal fine, le Convenzioni
possono alternativamente: i) assegnare il diritto di imposizione al solo Stato di residenza (in questo
caso lo Stato della fonte deve astenersi dall’esercitare qualsiasi imposizione); ii) assegnare il diritto di
imposizione al solo Stato della fonte (in tal caso è lo Stato della residenza che deve astenersi dal
tassare il reddito); iii) prevedere un diritto di tassazione concorrente tra Stato della fonte (a volte
senza limiti e altre volte con un “tetto massimo”) e lo Stato di residenza (con l’obbligo di
quest’ultimo di concedere un credito per le imposte pagate nell’altro Stato oppure l’esenzione dei
redditi ivi prodotti);
• Un quarto gruppo di disposizioni ha ad oggetto le misure bilaterali contro la doppia imposizione. A
questo proposito si propongono due diversi metodi: da un lato, il metodo dell’esenzione (integrale o

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con progressività —> nel senso che il reddito estero viene tenuto in considerazione solo al fine di
determinare l’aliquota applicabile al reddito di fonte nazionale; dall’altro, il metodo del credito di
imposta “limitato”, cioè non superiore all’imposta che sarebbe stata pagata nello Stato di residenza;
• Un quinto gruppo riguarda, infine: a) le norme sulla procedura amichevole (strumento di carattere
internazionale finalizzato a risolvere conflitti che derivano dall’interpretazione o dall’applicazione
della convenzione); b) il principio di non discriminazione; c) le norme sullo scambio di informazioni;
d) le norme sull’entrata in vigore e sulla cessazione del vincolo internazionale; e) altre disposizioni
procedurali.
È importante anche riconoscere che tali convenzioni permettono di risolvere anche il conflitto residenza-
residenza: anzi, le stesse norme di ripartizione del reddito tra Stato della fonte e Stato di residenza
richiedono, in via preliminare, di individuare quale sia lo Stato della residenza e quale lo Stato della fonte,
altrimenti la convenzione non potrà operare —> definiti entrambi, diviene possibile procedere
all’applicazione delle norme di distribuzione.
Va tuttavia precisato che la finalità di questi trattati non si riduce all’eliminazione della doppia imposizione
internazionale, tant’è vero che, proprio per chiarirne la più ampia funzione, ne è stata multata nel tempo la
denominazione da: “Convenzioni contro la doppia imposizione” in “Convenzioni in materia di imposte sul
reddito e sul patrimonio”.

Esistono anche Convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione in materia di successioni + trattati che,
pur non concernendo direttamente la materia tributaria, contengono norme che possono avere rilevanza
sotto il profilo tributario, come ad ES: la clausola della nazione più favorita, con la quale gli Stati contraenti si
obbligano a concedere all’altra parte contraente il trattamento accordato da parte di uno Stato terzo.
Va anche ricordato che questi trattati internazionali vengono spesso stipulati avvalendosi di modelli
predisposti da alcune organizzazioni internazionali: l’organizzazione più rilevante è certamente l’OCSE; vi è
poi il modello ONU, considerato in contrapposizione al modello OCSE, in quanto pone alla base del suo
funzionamento essenzialmente il principio della residenza.

Capitolo Sette: le fonti interne del diritto tributario.


È necessario, per trattare le fonti del diritto tributario, ricollegarsi all’argomento dell’interpretazione. In
particolare, l’interpretazione agisce sempre sui segni: in alcuni casi questi segni sono prodotti dall’uomo (e
tra questi alcuni si concretizzano in enunciati linguistici, com’è il caso delle disposizioni normative).
Attraverso l’esame della forma simbolica rappresentativa della realtà si risale dunque DAL segno ALLA cosa
significata. Parlando ora dell’attività di interpretazione (nel senso di attribuzione di un significato ad un
testo/enunciato normativo) assume rilievo fondamentale la distinzione tra disposizione (intesa come
enunciato, ossia una qualsivoglia espressione in lingua, di forma e/o significato compiuti) che sia parte di un
documento normativo (quest’ultimo a sua volta inteso come qualsiasi documento elaborato da un’autorità
normativa, cioè come fonte del diritto) e norma (intesa come risultato dell’operazione di interpretazione o
come espressione del discorso dell’interprete).
Tra disposizione e norma non vi è una corrispondenza biunivoca.
Sotto un primo profilo, vi è il caso dell’una SENZA l’altra: cioè, si può avere una disposizione senza norma —
> se si ritiene ad esempio che siano espressivi di norme soltanto gli enunciati deontici (vale a dire espressivi
di regole di condotta, quali i comandi, le autorizzazioni, i divieti) sicché risultano in tale prospettiva
disposizioni senza norme: le disposizioni abrogatrici, quelle programmatiche, quelle attributive di status, le
norme di definizione…in questo caso siamo in presenza di “frammenti di norme” e lo stesso può dirsi nel
caso in cui se si ritiene che per norma possa intendersi esclusivamente una regola autosufficiente,
contenente cioè al proprio interno tutti gli elementi necessari per individuare il destinatario e il relativo
contenuto precettivo.
Quanto invece alle norme senza disposizione, esse risultano ogni qualvolta la norma sia il risultato della
combinazione di più disposizioni, ciascuna delle quali non “autosufficiente”. In questo caso, oggetto
dell’interpretazione è una pluralità di enunciati, dal cui reciproco collegamento emerge un significato nuovo,

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non determinabile dalla considerazione autonoma di ciascuna disposizione (cd. combinato disposto). Più
importante è quella categoria di norme che non derivano da alcuna disposizione, ad ES: in quanto ricavate
dall’ordinamento giuridico in sé considerato (si tratta dei principi generali dell’ordinamento impliciti, quali:
affidamento, ragionevolezza…) oppure in quanto desunte in via analogica da altra norma espressa, oppure
ancora da un sottoinsieme di norme unitariamente considerato (il sistema del diritto civile, quello
amministrativo…), oppure infine in quanto norme consuetudinarie, ove non riunite in raccolte.
Sotto il secondo profilo, si potrà avere il caso in cui ad una disposizione corrispondano PIÙ norme, oppure
ad una norma PIÙ disposizioni.
Si ha disposizione con più norme sia quando le norme siano attribuibili congiuntamente (ad ES: l’art. 23 Cost.
esprime sia il principio di riserva di legge con riferimento alle prestazioni personali imposte, sia lo stesso
principio con riferimento alle prestazioni patrimoniali imposte) oppure disgiuntamente (qui, in particolare, la
pluralità di norme va ravvisata nella pluralità di interpretazioni riferibili alla disposizione, a ciascuna delle
quali corrisponde una norma —> in questo caso, l’interprete, più che trovare LA norma, ne individua UNA tra
le tante che sono ricavabili dagli enunciati normativi).
Si ha, invece, l’ipotesi di una sola norma con più disposizioni, sia quando due disposizioni siano
perfettamente “sinonime”, sia nei casi di norme derivanti dalla combinazione di più disposizioni.
Bisogna poi fare un accenno all’oggetto dell’interpretazione giuridica, che ha ad oggetto (appunto) sia segni
non appartenenti al linguaggio scritto, sia segni appartenenti allo stesso (vale a dire enunciati linguistici, cioè
disposizioni) —> questi ultimi poi potranno consistere in atti generativi di norme generali e atti generativi di
norme individuali. Pertanto potranno rispettivamente formare oggetto di interpretazione sia i segni non
racchiusi in un enunciato linguistico (ES: le consuetudini non inserite in raccolte), sia la legge, l’atto avente
forza di legge, il regolamento, il trattato internazionale, le raccolte di consuetudini…

Noi affronteremo l’argomento degli atti generativi (fonti di produzione) di norme generali, intesi come la
legge e gli atti aventi forza di legge. Va subito detto che si tratta degli cui viene rimessa la base legislativa
prevista dal principio di legalità enunciato dall’art. 23 Cost. che, nell’utilizzare il vocabolo “legge” si riferisce
alle leggi in senso stretto, anche di rango costituzionale, ai decreti legge e ai decreti legislativi, alle leggi
regionali (a statuto speciale o ordinario) e alle leggi delle province autonome di Trento e Bolzano. La Corte
costituzionale, riguardo alle leggi regionali, le ha fatte rientrare a pieno titolo tra le leggi di cui all’art. 23
Cost. e tale conclusione appare più evidente in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione.
Abbiamo utilizzato l’espressione “atti generativi di norme generali”, ma potremmo anche riferirci alle leggi
provvedimento, che dispongono per uno o più casi concreti e nei confronti di uno o più soggetti determinati.
Tali leggi però, nel diritto tributario, sconterebbero il rischio di violare il principio di capacità contributiva
(art. 53 Cost.) e il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) salvo che il soggetto singolarmente tassato non sia il
solo a manifestare la capacità contributiva oggetto dell’imposizione.
➡️ La nozione di legge provvedimento è tutt’altro che pacifica in dottrina: secondo MORTATI esse possono
essere intese come leggi caratterizzate dalla concretezza dei soggetti individuati dalla legge o della
situazione regolata, potendo ipotizzare anche che esse siano rivolte ad una classe di soggetti, ma che
permettano comunque una compiuta determinazione dei destinatari delle prescrizioni. Sotto tale profilo è
interessante ricordare l’art. 3, co.2-bis del decreto legge 40/2010, che consentiva ai contribuenti interessati di
definire (attraverso il versamento del 5% del relativo valore) le controversie tributarie pendenti dinnanzi alla
Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha rimesso pero alla Corte di giustizia il quesito pregiudiziale relativo
alla coerenza della disciplina con il divieto di aiuti di Stato (di cui all’art. 107 TFUE) in quanto si sostanziava in
un vantaggio, quanto meno indirettamente, differenziato, di cui soltanto un numero ristretto di soggetti
potevano beneficiare. I giudici europei hanno tuttavia evidenziato l’assenza del carattere selettivo della
disciplina, in quanto essa è applicabile in generale a tutti i contribuenti che siano parti di un procedimento
pendente in materia tributaria dinnanzi la Corte suprema di Cassazione, qualunque sia la natura
dell’imposta. Inoltre, il fatto che solo i contribuenti che soddisfano tali condizioni possano beneficiare di
questa misura non può conferire alla disposizione carattere selettivo.
Per quanto riguarda i decreti legislativi, essi sono emanati dal Governo su delegazione delle Camere, con
determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti (art. 76 Cost.).

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➡️ un caso interessante di difetto di delega ha riguardato la disciplina introdotta dall’art. 3 co.8 e 9 del d.lgs.
23/2011 che, al fine di contrastare l’evasione degli affitto, ha previsto ex lege, per i contratti di locazione ad
uso abitativo non registrati nei termini, una durata di quattro anni e un canone di locazione pari al triplo
della rendita catastale. La Corte costituzionale (2014), rilevato preliminarmente che il sindacato di legittimità
si esplica attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici (di cui uno riguarda le disposizioni
che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione; il secondo
riguardante, invece, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato) ha ritenuto che la disciplina denunciata
fosse priva di copertura da parte della legge di delegazione, in riferimento sia al suo ambito oggettivo, sia
alla sua riconducibilità agli stessi obiettivi stabiliti dalla delega. In quanto, le violazioni di disposizioni di
rilievo esclusivamente tributario, non possono essere causa di nullità del contratto, con la conseguenza che la
mera inosservanza del termine per la registrazione di contratto di locazione non può comportare addirittura
una novazione, sia con riguardo al canone che alla durata.
Il problema principale che si pone in materia tributaria attiene al rapporto che deve sussistere tra legge
delega e decreti delegati, al fine di assicurare il rispetto dell’art. 23 Cost. Secondo una prima tesi, la
disciplina del soggetto passivo, del presupposto, della base imponibile e dell’aliquota dovrebbe essere
interamente contenuta nella legge delega. La dottrina tributaria e la Corte costituzionale tendono invece a
ritenere che la riserva di legge possa essere rispettata anche dal combinato disposto di legge delega e
decreti delegati, purché il decreto delegato rispetti a sua volta i principi e i criteri direttivi fissati dalla legge
delega.
Per quanto attiene, invece, ai decreti legge essi possono essere emanati dal Governo in casi di necessità e
urgenza, da indicare nel preambolo + devono essere presentati il giorno stesso alle Camere per la loro
conversione in legge. La conversione deve avvenire entro 60 giorni dalla loro pubblicazione (art. 77 Cost.).

L’utilizzo degli atti aventi forza di legge in materia tributaria pone diversi problemi: per quanto riguarda i
decreti legislativi, il loro utilizzo privilegiato si ha quando la materia (a causa della sua peculiare complessità)
richieda l’apporto di esperti e specialisti e quindi si rende opportuna la sottrazione all’ordinario iter
parlamentare. E ciò è quello che si è puntualmente verificato con le riforme tributarie (tra cui: il TU ricchezza
mobile, TU finanza locale, TU imposte dirette, la riforma tributaria del 1971, la riforma “Visco” del 1996, la
riforma “Tremonti” attuata solo in minima parte del 2003…). Deve rilevarsi però un uso spesso distorto dello
strumento della legge delega, con deleghe spesso generiche e votate a “colpi di fiducia”, il cui effetto risulta
quello di svuotare la funzione legislativa.
L’attuale abuso delle leggi delega è da ricollegare a quanto accaduto in riferimento ai decreti legge, dei quali
pure in passato si era fatto uso eccessivo, utilizzandoli anche in casi privi di necessità e urgenza —> a tutto
questo, la Corte costituzionale ha rimediato (1996) sancendo l’illegittimità costituzionale per violazione
dell’art. 77 Cost., dei decreti legge iterati o reiterati, quando tali decreti (considerati nel loro complesso o in
singole disposizioni) abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi e sopravvenuti presupposti
straordinari di necessità e urgenza, il contenuto normativo di un decreto legge che abbia perso efficacia a
seguito della mancata conversione. È da segnalare, infine, il recente orientamento della Corte costituzionale
che rinviene un vizio procedurale di costituzionalità, sempre ex art. 77 Cost., ove sussista un difetto di
omogeneità (inteso come mancanza evidente o manifesta di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni
originarie del decreto legge e quelle impugnate introdotte nella legge di conversione.

I regolamenti (di competenza dell’esecutivo) costituiscono fonte secondaria e atto idoneo ad integrare la
base legislativa, quando ciò è consentito dalla legge. Esistono tuttavia anche regolamenti regionali e di altri
enti locali minori, nonché regolamenti regionali emanati in materia di legislazione esclusiva dello Stato su
delega di quest’ultimo.
Si tratta di atti subordinati alla legge, sicché sono illegittimi se ad essa contrari (o contrari alla Costituzione),
potendo formare oggetto di annullamento da parte del giudice amministrativo (se impugnati nel termine di
decadenza di 60 giorni) o di disapplicazione in via incidentale da parte del giudice ordinario o tributario. La
recente giurisprudenza amministrativa (2009) riconosce tuttavia anche allo stesso giudice amministrativo un

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potere di disapplicazione (e non solo di mero annullamento) dei regolamenti illegittimi, sicché si assiste
ormai ad un potere generalizzato di loro disapplicazione rimesso a qualsiasi autorità giurisdizionale.
Nel caso in cui, invece, il regolamento si conformi a norme di legge che lo prevedano MA che siano tuttavia
in contrasto con norme costituzionali, dovrà essere sollevato un incidente di costituzionalità della legge e
non del regolamento, ai sensi di quanto disposto dall’art. 134 Cost. (“La Corte costituzionale giudica sulle
controversie relative alla legittimità costituzionale delle legge e degli atti aventi forza di legge dello Stato e
delle Regioni”). ES: è il caso delle questioni di legittimità sollevate dai TAR in sede di impugnazione delle
delibere comunali in materia di aliquota ICI; oppure alle ipotesi in cui la legge non detti criteri e principi
idonei ad integrare la base legale richiesta dall’art. 23 Cost.
Per quanto riguarda la tipologia dei regolamenti, l’art. 17 co.1 della legge 400/1988 prevede le seguenti
ipotesi di potestà regolamentare generale:
a) I regolamenti esecutivi —> che disciplinano, mediante prescrizioni di dettaglio, l’esecuzione di leggi
e decreti legislativi, senza tuttavia integrarne il tessuto normativo;
b) I regolamenti attuativi e integrativi —> che completano e integrano la disciplina legislativa, che
altrimenti risulterebbe lacunosa;
c) I regolamenti autonomi o indipendenti —> essi trovano poco spazio nel diritto tributario, perché
presuppongono la totale mancanza di una disciplina legislativa e trovano dunque ostacolo nella
riserva di legge;
d) I regolamenti di organizzazione —> relativi all’organizzazione e al funzionamento delle
amministrazioni pubbliche. Se ne registra però un loro scarso utilizzo, essendo l’organizzazione
regolata dalla legge.
L’art. 17 co.2 suddetta legge, prevede anche una potestà regolamentare esercitabile previa autorizzazione
legislativa nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge. In particolare si tratta di regolamenti
emananti su espressa delega della legge, che ne determina anche i principi direttivi e alla cui entrata in
vigore una specifica previsione legislativa collega l’abrogazione delle norme di rango primario preesistenti.
Essi danno luogo al fenomeno della “delegificazione” —> da qui la denominazione di regolamenti di
delegificazione, perché si affida alla normativa regolamentare il compito di disciplinare una determinata
materia sostituendo quella abrogata di fonte primaria. Naturalmente resta fermo il fatto che essi non
possono intervenire per quella parte della disciplina del tributo riservata alla legge, né la delega può
conferire tale potere. I regolamenti di delegificazione intervengono in materia tributaria con riguardo a
quella parte della disciplina che attiene alla determinazione quantitativa della prestazione e alla sua
attuazione, nei limiti della disciplina fissata con legge.
Per quanto attiene invece all’organo che li emette, i regolamenti possono provenire dallo Stato, dagli Enti
territoriali diversi dallo Stato, da Enti pubblici non territoriali. Tra gli stessi non sussiste un principio
gerarchico, ma solo un principio di competenza (ripartizione per materia). I regolamenti statali si distinguono
in: governativi e ministeriali (+ interministeriali) —> quelli ministeriali, inoltre, non possono dettare norme
contrarie ai regolamenti governativi e in questo caso vige il principio gerarchico, art. 17 co.3.
Vi sono poi gli atti amministrativi generali, menzionati dall’art. 7 co.5 del d.lgs. 546/1992, che si trovano
accanto ai regolamenti al fine di attribuire al giudice tributario il potere di disporne la disapplicazione e
rispetto ai quali si pone il problema di distinguerli dai regolamenti.
▪ Da un punto di vista sostanziale, i regolamenti sono dotati dei caratteri di generalità, astrattezza e
novità (e pertanto sono destinati a disciplinare in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una
regolazione attuativa o integrativa della legge – “astratto provvedere”); gli atti amministrativi
generali sono destinati a provvedere per curare un interesse pubblico concreto e per una generalità
indeterminata di soggetti, senza produrre norme giuridiche (“concreto provvedere”).
▪ Da un punto di vista formale, devono considerarsi regolamenti quelli che rispettano il procedimento
formativo previsto dall’art. 17 co.4 della legge 400/1988 e in particolare la forma di decreto
ministeriale o di decreto del presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri e sentito il parere (obbligatorio, ma non vincolante) del Consiglio di Stato.

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Perciò, per stabilire la natura regolamentare di un atto, occorre rilevare se esso produca norme generali ed
astratte, con cui si disciplinano i rapporti giuridici, conformi alla previsione normativa, che possono sorgere
nel corso del tempo.
➡️ Le SS.UU. della Corte di cassazione (1994) hanno affermato che i caratteri di distinzione tra atti e
provvedimenti amministrativi generali e regolamenti sono che: i primi costituiscono espressione di una
semplice potestà amministrativa e sono destinati alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti
nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma
determinabili. I secondi, invece, sono espressione di una potestà normativa attribuita all’Amministrazione,
secondaria rispetto alla potestà legislativa e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una
regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa.

SE e a QUALI CONDIZIONI una fonte normativa proveniente da un ente diverso dallo Stato possa istituire
un tributo?
A tale riguardo, la legge costituzionale 3/2001 ha riscritto il Titolo V della Costituzione, ridisegnando le
posizioni e i rapporti tra Stato, Regioni, Province e Comuni (anche sotto il profilo finanziario-tributario).
Dalla revisione costituzionale emergono un accrescimento della potestà legislativa delle Regioni e un’ampia
autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali, sia sul versante della spesa sia su quello dell’entrata. In ogni
caso, la riforma ha inciso soprattutto sulla ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni —> in
questo modo la riforma ha comportato una parificazione sul piano del potere tra Stato e Regioni.
In generale, in base al nuovo sistema: a) alle Regioni spetta la potestà legislativa in ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato (potestà residuale), ai sensi dell’art. 117 co.4 Cost.; b)
entrambe queste potestà sono esercitate con i soli limiti del rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti
dall’ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali (art. 117 co.1 Cost.); c) alle Regioni spetta la
potestà legislativa solo nei casi tassativi stabiliti dalla legge (art. 117 co.3 Cost.), ma è riservata allo Stato la
determinazione dei principi fondamentali.
Per quanto riguarda la materia tributaria, l’art. 117 Cost. prevede la seguente articolazione: il co.2 lett. e)
attribuisce allo Stato la potestà legislativa esclusiva riguardo al sistema tributario e contabile dello Stato; il
co. 3 riconduce alla competenza concorrente di Stato e Regioni la materia del coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario, attribuendo però alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la
fissazione dei relativi principi fondamentali.
Tale riserva in materia di principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario non può
comportare però alcuna riduzione del potere impositivo già spettante alle Regioni a statuto speciale e alle
Province autonome.
Il co.4 individua, invece, la competenza legislativa residuale. In tale potestà rientrano le materie che non
risultano riservate alla competenza esclusiva dello Stato (ai sensi dell’art. 117 co.2 lett. e)) e quindi, per
quanto attiene alla materia tributaria, residuano i tributi regionali e quelli locali. Più precisamente, la Corte
costituzionale afferma che la potestà legislativa delle Regioni in materia tributaria, non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato, dovrebbe riguardare esclusivamente i presupposti d’imposta collegati
al territorio di ciascuna Regione e sempre che l’esercizio di tale funzione non si traduca in un dazio o in un
ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra Regioni.
Il successivo art. 119 co.2 Cost. prevede che gli enti locali e le Regioni stabiliscano e applichino i propri
tributi, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario (facendo implicito riferimento all’art. 117 co.3).
Vi è dunque una significativa differenza tra Regioni a statuto ordinario e Regioni a statuto speciale:
o Per le prime, a statuto ordinario, lo spazio riservato alla loro potestà dipende prevalentemente dalle
scelte di fondo operate dallo Stato in sede di fissazione dei principi fondamentali di coordinamento
del sistema tributario e l’esercizio del potere esclusivo delle Regioni (di autodeterminazione del
prelievo) è ristretto a quelle ipotesi limitate di tributi aventi presupposti diversi dai già esistenti
tributi statali e dunque rientranti nel comma 4. Perciò, non è ammissibile (in materia tributaria) una
piena esplicazione di autonome potestà regionali, in carenza della fondamentale legislazione di
coordinamento dettata dal Parlamento. Lo Stato ha il potere di fissare (con propria legge) non solo i

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principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma determinare anche le grandi linee del
sistema tributario e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva di
Stato, Regioni ed Enti locali. I tributi denominati “regionali” non possono considerarsi però “tributi
propri” ove istituiti dallo Stato anteriormente al nuovo dettato costituzionale, con l’effetto che gli
stessi non potranno essere modificati con legge regionale. Per avere un tributo “proprio” in senso
stretto, si rende dunque necessario che la relativa istituzione avvenga con legge regionale, nel
rispetto dei principi di coordinamento con il sistema tributario statale definiti con apposita legge-
quadro e non desumibili dal complesso della legislazione statale. Per quanto riguarda invece le
ipotesi di tributi propri aventi presupposti diversi da quelli dei tributi statali, la Corte ha riconosciuto
il potere delle Regioni di stabilirli, in forza dell’art. 117 co.4 Cost., anche in mancanza di un’apposita
legge statale di coordinamento, a condizione però che essi siano in armonia con la Costituzione e
rispettino ugualmente i principi dell’ordinamento tributario.
o Per le seconde, a statuto speciale, la Riforma del Titolo V non potrebbe mai restringere l’autonomia
già loro spettante e quindi non è necessario attendere la legge statale di coordinamento per
legiferare in materia tributaria. Esse però sono comunque soggette al vincolo del rispetto dei principi
costituzionali e del sistema tributario statale, nel senso che nell’istituzione di tributi devono sempre
valutare la coerenza del sistema regionale con quello statale.

Con la legge 42/2009, il Parlamento ha delegato il Governo di emanare uno o più decreti legislativi recanti la
definizione dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario,
stabilendo (in conformità con l’art. 76 Cost. —> “l’esercizio della funzione legislativa non può essere
delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato
e per oggetti definiti”) alcuni principi e criteri direttivi cui il Governo dovrà uniformarsi nei propri decreti di
attuazione. Si tratta dell’atto con cui si è inteso dare attuazione al federalismo fiscale, da intendersi quale
autonomia delle politiche di entrata degli Enti territoriali, riconosciuta dalla Costituzione con lo scopo di
instaurare una proporzionalità diretta tra le entrate fiscali pertinenti al territorio di ciascun ente e quelle
effettivamente destinate al territorio stesso, in modo tale da consentire a tali enti di attuare politiche
autonome di spesa nelle materie di rispettiva competenza. Esso si fonda sul principio di autonomia di cui
all’art. 5 Cost. (“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei
servizi che dipendo dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della
sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”) e di cui costituiscono essenza i seguenti
principi generali del federalismo, contenuti nella legge delega:
a. Il principio di autonomia finanziaria, sotto il profilo della spesa e delle entrate (art. 119 Cost.);
b. Il principio di sussidiarietà, secondo il quale le attività amministrative vengono svolte dall’ente
territoriale più vicino ai cittadini (il Comune) e possono essere esercitate dai livelli territoriali
superiori se questi possono rendere il servizio in maniera più efficiente (art. 118 Cost.);
c. Il principio di semplificazione ed efficienza, per il quale ogni amministrazione locale deve decidere in
termini di costi e benefici;
d. Il principio di responsabilità, che vuole che i cittadini amministrati siano posti nella condizione di
indirizzare e controllare l’operato dei loro amministratori quanto alle decisioni di spesa e di entrata;
e. Il principio del beneficio, diretto a rendere più direttamente percepibile il collegamento nel territorio
regionale e locale (tra prelievi e spese).

Parliamo ora della disciplina prevista dalla legge delega, cui hanno fatto seguito i decreti delegati per le
Regioni a statuto ordinario e le province (d.lgs. 68/2011) e per i Comuni (d.lgs. 23/2011).
-Iniziando dalle Regioni, la delega prevede che esse finanzieranno le proprie spese attraverso tributi (propri
“stricto sensu”, istituiti e regolati con legge regionale + tributi propri “derivati”, istituiti e regolati dalla legge
statale e il cui gettito è attribuito alle Regioni + le addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali);
compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, in via prioritaria a quello dell’IVA; e per le Regioni con
minor capacità fiscale per abitante, attraverso somme provenienti dal riparto del fondo perequativo.

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La legge delega introduce poi alcuni concetti fondamentali, in tema di spese e relativo finanziamento, in
particolare: i) distingue per le materie di competenza regionale esclusiva e concorrente, tre tipologie diverse
di spesa: 1. LEP —> livelli essenziali delle prestazioni, individuate in: sanità, assistenza e istruzione; 2. Quelle
non riconducibili a detto vincolo; 3. Quelle finanziate con i contributi speciali, con finanziamenti UE e con i
cofinanziamenti nazionali; ii) associa a ciascuna classe di spesa un criterio di determinazione (costi standard);
iii) associa determinate modalità di finanziamento a ciascuna classe di spesa; iv) dispone la soppressione dei
trasferimenti.
Per quanto riguarda la disciplina attuativa (per le Regioni a statuto ordinario e per le Province) il d.lgs.
68/2011 regolamenta i singoli tributi e compartecipazioni (addizionale IRPEF, compartecipazione IVA, tassa
automobilistica…) la soppressione dei trasferimenti, le modalità di gestione dei tributi regionali, i LEP, le
spese regionali e il fondo perequativo.

-Parliamo ora dei Comuni e Province, per gli stessi sono previsti: a) tributi propri derivati, istituiti dallo Stato
che ne stabilisce gli elementi fondamentali; b) tributi propri derivati istituiti dalle Regioni, relativamente a
presupposti non assoggettati a imposizione da parte dello Stato; c) tributi propri di scopo (comunali), per
finanziare opere pubbliche e di investimento pluriennali nei servizi sociali; d) compartecipazioni al gettito
(istituite dalle Regioni) dei tributi e delle compartecipazioni regionali; e) compartecipazioni per i comuni, ai
tributi statali (tra cui l’IVA e l’IRPEF); f) finanziamento per le Province, prioritariamente attraverso il gettito
derivante da tributi il cui presupposto è connesso al trasporto su gomma; g) imposizione immobiliare per i
Comuni, compresa quella sui trasferimenti della proprietà e di altri diritti reali; h) il riparto dei fondi
perequativi per le funzioni fondamentali.
Per quanto riguarda la disciplina attuativa, il d.lgs. 23/2011 ha previsto per i Comuni i seguenti tributi propri
derivati: l’imposta municipale propria (IMU), l’imposta municipale secondaria, la cedolare secca sugli affitti,
l’imposta di scopo e l’imposta di soggiorno.

Passiamo ora a generali osservazioni sulle norme della legge delega.


Innanzitutto, il legislatore ha optato per un modello di federalismo di tipo cooperativo o solidaristico, e non
di tipo competitivo, lasciando alla legge statale il potere di fissare i principi fondamentali di coordinamento e
assicurando la garanzia dei livelli essenziali di prestazioni. In secondo luogo, per quanto attiene alla
ripartizione delle basi imponibili tra i diversi livelli di Governo, la legge 42/2009 esclude espressamente sia la
possibilità di ogni doppia imposizione regionale sul medesimo presupposto statale (salvo le addizionali
previste dalla legge statale) sia ogni intervento della regione sulle basi imponibili e sulle aliquote che non
siano del proprio livello di Governo, sia ogni possibilità di riduzione di oneri fiscali tra tributi i cui proventi
non sono devoluti l medesimo livello di Governo. Il che dovrebbe comportare che il divieto di doppia
imposizione regionale opera quale principio fondamentale di coordinamento del sistema tributario
complessivo —> lo scopo sarebbe quello di evitare lo “straripamento” regionale e il conseguente conflitto
con quello statale. Tale divieto però comporta due conseguenze: la prima fa trasparire l’intenzione del
legislatore di mantenere intatto il sistema tributario statale senza trasferire alla competenza esclusiva delle
Regioni alcun consistente tributo—> e ciò comporta una riduzione della potestà primaria di imposizione
regionale, che limita l’esercizio della potestà all’istituzione residuale di tributi propri soprattutto di tipo
corrispettivo e di scopo; la seconda fa risaltare il non perfetto allineamento tra il regime applicabile alle
Regioni a statuto ordinario e quello applicabile alle Regioni a statuto speciale —> occorre qui tenere a mente
che il divieto non si estende automaticamente alle Regioni a statuto speciale, queste infatti in base ai loro
statuti di rango costituzionale, possono istituire tributi propri alla sola condizione di essere in armonia con i
principi del sistema tributario statale e non soltanto ai principi di coordinamento dettati dallo Stato.
Per quanto riguarda i tributi locali, deve ritenersi che da un lato spetti anche alle Regioni il potere di
individuare e stabilire tributi propri regionali (o locali) in senso stretto, senza la mediazione dello Stato e che,
dall’altro, agli enti locali (non potendo essi creare tributi propri, per via del limite derivante dall’art. 23 Cost.)
sono riconosciuti dei margini nell’ambito della base legislativa fornita dalla legge regionale. Con specifico
riferimento al potere regolamentare di Province e Comuni, in relazione alle proprie entrate è previsto che
essi incontrino limiti nell’impossibilità di definire: fattispecie imponibili, soggetti passivi, aliquota massima.

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L’Amministrazione finanziaria svolge un’attività interpretativa nella predisposizione di regolamenti di
attuazione, nell’adozione di atti o provvedimenti nei confronti dei singoli contribuenti (nell’esercizio del
potere di accertamento, liquidazione, riscossione…) e infine attraverso le circolari, note, risoluzioni
ministeriali, mediante le quali l’Amministrazione esprime una propria opinione interpretativa relativamente
a determinate disposizioni. In particolare, si distingue tra le circolari rivolte alla generalità dei casi e le note o
risoluzioni, orientate invece alla soluzione interpretativa di una fattispecie concreta sulla quale sia stata
richiesta l’opinione interpretativa dell’Amministrazione finanziaria. Esse sono subordinate ovviamente alla
legge e ai regolamenti.
Si tratta cioè di atti ad efficacia meramente interna, deputati a regolare a coordinare l’azione
dell’Amministrazione finanziaria nel suo complesso privi di valore vincolante per gli organi deputati, in sede
giurisdizionale, all’applicazione degli atti normativi. L’Amministrazione finanziaria non ha infatti poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute e di fronte alle norme tributarie essa e il
contribuente si trovano su un piano di parità, per cui la cosiddetta interpretazione ministeriale (sia essa
contenuta in circolari o risoluzioni) non vincola né i contribuenti né i giudici né costituisce fonte di diritto.
Conseguentemente, ne deriva che a tali atti ministeriali non si estende il controllo di legittimità esercitato
dalla Corte di Cassazione, in quanto essi sono solo atti interni alla medesima Pubblica Amministrazione e
destinati ad esercitare una funzione direttiva. La circolare non è dunque ami atto impugnabile, né di fronte al
giudice amministrativo (non essendo un atto generale di imposizione) né dinnanzi al giudice tributario (non
essendo atto di esercizio di potestà impositiva). La circolare poi è stata tradizionalmente ritenuta non
vincolante anche per la stessa Amministrazione finanziaria, non solo potendo lo stesso organo emittente
mutare la propria opinione interpretativa e così tornare sui suoi passi, ma anche potersene discostare.
È proprio sulla questione del revirement (inversione) ministeriale che il dibattito ha portato all’applicabilità
del principio di buona fede nel diritto tributario: prevedendo che, una volta assunto un determinato
comportamento, il soggetto pubblico è tenuto a non discostarsi rispetto ai rapporti che si sono già
conformati a quel dato comportamento, nonché le sue conseguenze in tema di invalidità degli atti impositivi
conseguenti al revirement. Nonostante non sia mancata una giurisprudenza contraria al revirement, la
dottrina ha però cercato di ampliare la tutela del contribuente contro la contraddittorietà
dell’Amministrazione finanziaria. Così essa ha ritenuto che l’obbligo di “non contraddizione” prescinde dal
carattere discrezionale o vincolato dell’attività dell’Amministrazione finanziaria; che il principio di buona
fede dispone di solidi riferimenti costituzionali negli artt. 2, 41, 97 Cost…
Esiste poi anche una soluzione prospettata dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. 212/2000): l’art. 10
co.1 sancisce che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria debbano essere improntati sul
principio della collaborazione e della buona fede; il co.2 prevede che “non sono irrogate sanzioni, né richiesti
interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti
dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima,
oppure qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fati direttamente conseguenti a
ritardi, omissioni o errori dell’amministrazione”. Continuando a leggere… co.3 “le sanzioni non sono
comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e
sull’ambito di applicazione della norma tributaria”.

Capitolo Otto: le fonti europee ed internazionali del diritto tributario.


Gli atti provenienti da altri ordinamenti stanno assumendo sempre più rilevanza all’interno del diritto
tributario, contribuendo a rendere sempre più complesso lo svolgimento delle relative operazioni di
interpretazione e applicazione. Questo fenomeno è riconducibile a quello della “moltiplicazione delle fonti
normative”, il quale implica l’esistenza di una grade quantità di atti normativi concorrenziali rispetto alla
legge ordinaria, che non si esauriscono tuttavia in atti interni, ma comprendono anche atti riferibili ad
ordinamenti diversi.
Iniziamo ora la trattazione del sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico europeo.
( Il processo di unificazione è passato attraverso una serie di trattati tra cui i più importanti sono: il Trattato
istitutivo del 1957, l’Atto Unico Europeo del 1986, il Trattato dell’Unione Europea di Maastricht del 1992, il

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Trattato di Amsterdam del 1997 e il Trattato di Nizza del 2001 —> a Nizza fu approvata anche la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea. Si è giunti poi al Trattato di Lisbona del 2007 che ha approvato il
Trattato che istituisce l’Unione Europea (TUE) e il Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) ).
In particolare, l’art. 288 TFUE delinea le varie fonti del diritto europeo, tra le quali: il regolamento (ha
portata generale ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati
membri); la direttiva (vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere,
salva però la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi), la decisione (è obbligatoria
in tutti suoi elementi e se designa i suoi destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi) e le
raccomandazioni e i pareri (non vincolanti).

• I TRATTATI, costituiscono le fonti primarie dell’ordinamento UE e si situano al vertice ideale della


gerarchia delle fonti europee. La loro superiorità rispetto alle fonti derivate emerge chiaramente dall’art.
263 TFUE che indica tra i motivi di impugnazione degli atti delle istituzioni a violazione del Trattato
medesimo (TFUE appunto). Alle disposizioni del Trattato (che prevedono regole per gli Stati membri e
per le istituzioni) la Corte di giustizia ha riconosciuto effetto diretto e dunque l’attitudine a produrre
direttamente gli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti tra gli Stati membri e i loro amministrati. In
questo caso preciso si tratta di effetti diretti verticali, vale a dire riguardanti le situazioni giuridiche attive
di persone sia fisiche sia giuridiche nei rapporti gli Stati membri. In ogni caso, gli Stati membri sono
tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto europeo, purché si tratti di una
violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro, dei limiti posti al suo potere discrezionale.
Sul piano del contenuto, il TFUE contiene diverse norme che interessano la materia tributaria.
Innanzitutto, racchiude il principio della libera circolazione delle merci (art. 28 e ss. TFUE) che disciplina
l’unione doganale e contiene il divieto, fra gli Stati membri, di dazi doganali all’importazione e
all’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente + prevede l’adozione di una tariffa doganale
comune nei rapporti con i paesi terzi.
I profili tributari vengono alla luce con riferimento alla tutela della concorrenza, si tratta in particolare
delle norme relative ai cd. “Aiuti di Stato”, disciplinati dall’art. 107 TFUE —> tra gli aiuti di Stato, quelli di
carattere tributario assumono importanza centrale, vincolando il legislatore nazionale (nell’emanazione
di norme di agevolazione) al rispetto dei requisiti sostanziali e delle modalità procedimentali indicati
dalle norme del TFUE. Sempre a livello dei Tratti, vi sono poi vere e proprie disposizioni fiscali contenute
negli artt. 110-113 TFUE, che hanno ad oggetto rispettivamente: la non discriminazione e
l’armonizzazione in materia di imposizione indiretta. (Per quanto riguarda la prima, si tratta di
disposizioni direttamente applicabili dalla Corte di giustizia; per la seconda, il passo più importante di
attuazione è stato effettuato con l’IVA, che ha il compito di realizzare un prelievo fiscale “neutrale” e
non discriminatorio sulle attività economiche. Manca, invece, nel TFUE qualsiasi riferimento
all’imposizione diretta, sia in ordine alla sua armonizzazione, sia in ordine al principio di non
discriminazione. Per quanto riguarda l’armonizzazione in materia di imposte dirette, la base giuridica per
un intervento dell’UE può essere rinvenuto nell’art. 115 TFUE, mentre per quanto riguarda la non
discriminazione in materia di imposte dirette, è stata la Corte di giustizia ad elaborarlo (ricavandolo dalle
norme del Trattato che tutelano le libertà fondamentali: circolazione dei lavoratori, di stabilimento, di
prestazioni di servizi…).
• I PRINCIPI, un riferimento espresso ai principi generali si trova solo nell’art. 340 par.2 TFUE, che richiama
i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, nella definizione della responsabilità
extracontrattuale dell’Unione. Aldilà di questo richiamo, si possono comunque distinguere in tre
categorie di principi: i) i principi generali di diritto relativi a ogni sistema giudico, in particolare quelli
comuni desunti dagli ordinamenti degli Stati membri e recepiti nell’ordinamento europeo; ii) i principi
generali propri del diritto europeo, ricavati in modo autonomo dal sistema dei testi scritti, in quanto
ritenuti espressione di regole più generali; iii) i principi relativi alla protezione dei diritti fondamentali
dell’uomo, cui fa espresso riferimento l’art. 6 TUE che: ha riconosciuto alla Carta dei diritti fondamentali
dell’UE (Carta di Nizza) il medesimo valore giudico dei trattati + ha previsto l’adesione (ad oggi non
ancora avvenuta) dell’UE alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) + ha

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sancito che i diritti fondamentali come risultanti dalla stessa CEDU e dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, costituiscono principi generali del diritto UE. Secondo la Corte costituzionale
(2011) si tratta di tre fonti distinte, dove la prima (Carta di Nizza) può applicarsi alle sole fattispecie
disciplinate dal diritto europeo e non già da sole norme nazionali, prive di ogni legame con
l’ordinamento; la seconda (CEDU) non può considerarsi direttamente applicabile nel diritto interno,
dovendo pertanto trovare applicazione i meccanismi di adattamento propri dei trattati internazionali; e
la terza (principi generali dell’UE) si limita a garantire un certo grado di elasticità al sistema ma non
rende i suddetti principi applicabili a fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale. Tali principi
hanno però un’applicazione quanto mai estesa, talvolta essi funzionano come criteri interpretativi,
consentendo di selezionare tra tutte le interpretazioni possibili, quella che risulti più aderente al
principio di riferimento; più spesso, invece, essi individuano veri e propri limiti all’esercizio del potere
normativo dell’UE o degli Stati membri, funzionando così da parametro nella valutazione della legittimità
dell’esercizio di tale potere.
Tra i principi più importanti richiamati dalla Corte di giustizia ritroviamo:
A) il principio della certezza del diritto —> nei suoi diversi e numerosi profili, dalla trasparenza
dell’attività di amministrazione europea e dei singoli Stati membri, al termine ragionevole dato dalla
Commissione per pronunziarsi sulla compatibilità di aiuti di Stato notificati; dalla non retroattività degli
atti…
B) il principio del legittimo affidamento —> considerato parte dell’ordinamento giuridico comunitario,
prevede che gli amministrati possano contare sul “mantenimento” di una situazione giuridica, qualora
dovesse essere modificata improvvisamente (modifica che gli stessi non potevano prevedere). Tale
principio, come emerso in materia di aiuti di Stato, non può essere tuttavia invocato laddove il
comportamento dello Stato, nonostante sia posto in essere in buona fede, sia illegittimo (ES: quando
l’aiuto non è stato notificato).
C) il principio di proporzionalità —> i mezzi impiegati per raggiungere un determinato scopo devono
essere idonei e non eccedere quanto necessario per il raggiungimento di tale fine.
D) il principio dell’effetto utile —> che impone un’interpretazione e applicazione delle norme europee
funzionale al raggiungimento delle loro finalità.
E) il principio della leale cooperazione —> un’applicazione specifica di tale principio in materia tributaria
si è avuta per gli aiuti di Stato, nell’ipotesi in cui uno Stato membro incontri difficoltà nel recupero di
aiuti dichiarati incompatibili dalla Commissione.
F) il principio di eguaglianza —> che trova espresso riconoscimento (a livello TFUE) nel principio di non
discriminazione (art. 18 TFUE) il quale impone che situazioni analoghe vengano trattate in maniera
analoga e situazioni diverse in maniera differenziata e che, in caso contrario, il trattamento dev’essere
obiettivamente giustificato.
G) ulteriori numerosi principi di carattere procedimentale e processuale —> che hanno avuto
applicazione nel settore tributario. ES: la materia dei tributi riscossi in violazione di norme europee (le
cui procedure di rimborso, fermo restando il principio dell’autonomia procedurale di ciascuno Stato
membro) non devono risultare meno favorevoli di quelle che riguardano procedure di rimborso di tributi
interni (principio di equivalenza) né rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti
conferiti dall’ordinamento giuridico europeo, garantendo dunque l’osservanza del principio di
effettività); oppure riferimento al principio del contraddittorio; principio del diritto di accesso agli atti;
principio del diritto all’autotutela…
• I REGOLAMENTI, l’art. 288 TFUE ne indica le caratteristiche: la portata generale, il carattere obbligatorio
in tutti i suoi elementi e la diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri. La portata generale è di
massima importanza, in quanto serve a distinguere i regolamenti dalle decisioni, e consiste nella natura
generale e astratta delle norme contenute all’interno del regolamento, rivolte cioè a categorie di
soggetti determinate in astratto e nel loro insieme (quindi non determinati o determinabili, come nelle
decisioni). A tal proposito è bene ricordare che la Corte di giustizia ha affermato che il carattere
“regolamentare” di un atto non viene meno solo perché sia possibile determinare, con maggiore o
minore precisione, il numero o anche l’identità dei destinatari in un determinato momento, purché la

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qualità di destinatario dipenda da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall’atto.
Laddove, invece, l’atto consenta di identificare i destinatari e appaia determinato nel suo contenuto
dalla situazione specifica di ciascuno di essi (anziché da criteri astratti e oggettivi) si tratterà dunque di
decisioni collettive.
Per quanto attiene al carattere dell’obbligatorietà in tutti i suoi elementi, essa comporta da un lato,
l’impossibilità di avere un’applicazione anche solo parziale e dall’altro, la sussistenza di un vincolo
relativo sia al risultato da perseguire e con la conseguenza che l’atto risulta idoneo a prendere in
considerazione e a disciplinare in modo “esclusivo” i rapporti giuridici ai quali si riferisce. Diretta
applicabilità, significa infine che il regolamento ha una validità automatica negli Stati nell’Unione, senza
che si renda necessario un intervento del potere normativo nazionale (traendo la propria fonte
direttamente dall’adesione ai Trattati da parte di questi Stati). Con il regolamento si intende dettare una
disciplina di tipo uniforme per una determinata materia per l’Unione Europea considerata nel suo
insieme. In materia tributaria, il regolamento ex art. 249 TFUE è poco utilizzato. Quanto alla disciplina
sostanziale, esso ha trovato utilizzo sostanzialmente in materia di dazi doganali (vista la necessità di
procedere all’abolizione delle barriere e alla conformazione del regime di ingresso e di circolazione dei
beni provenienti dall’estero attraverso una disciplina unitaria) senza lasciare margini di discrezionalità
agli Stati membri. Quanto all’ambito procedimentale, importanti regolamenti sono stati adottati per
favorire la cooperazione tra le diverse amministrazioni finanziare e la prevenzione di frodi in materia
doganale.
• LE DIRETTIVE, sono atti che vincolano gli Stati solo relativamente al risultato da raggiungere, lasciandoli
liberi quanto alle forme e ai mezzi atti a conseguire tale scopo. La disciplina della direttiva non si
sostituisce a quelle nazionali, anzi, gli Stati membri devono adattare il proprio diritto alle disposizioni
della direttiva stessa —> così la Corte di giustizia è pervenuta alla tesi dell’efficacia diretta della direttiva.
Vi sono dunque effetti diretti quando la direttiva è destinata a confermare oppure integrare o rendere
puntuali determinate disposizioni del Trattato che divengono tal modo complete e perfette. Alle
caratteristiche individuate e attinenti al contenuto si aggiunge anche l’elemento della non tempestiva o
non corretta trasposizione della direttiva all’interno dello Stato membro —> tale recepimento non
corretto/tempestivo si identifica come un inadempimento dello Stato. Questo inadempimento (come
sovente precisato dalla Corte) si riscontra sia nel caso in cui non via stato alcun provvedimento di
attuazione della direttiva entro il termine stabilito, sia nel caso in cui il recepimento sia stato solo
parziale oppure ancora nel caso in cui siano state adottate disposizioni interne non conformi alla
direttiva stessa. Occorre dunque che siano scaduti gli eventuali termini previsti per il recepimento nel
diritto interno o che il recepimento sia avvenuto, ma non correttamente.
La violazione del diritto europeo comporta, secondo la Corte di giustizia, il diritto al risarcimento dei
danni subiti da coloro che sono stati lesi dall’inadempimento dello Stato. In ogni caso, però, anche
qualora i termini per provvedere al recepimento non siano ancora decorsi, sussiste in capo al giudice
nazionale l’obbligo di interpretare il diritto interno in conformità con i principi e fini della direttiva non
ancora trasposta. Per quanto riguarda l’estensione degli effetti diretti, non vi è (diversamente da quanto
stabilito dalla Corte di giustizia con riferimento al TFUE e ai regolamenti) efficacia orizzontale, poiché le
direttive non impongono obblighi agli individui (con l’unica eccezione dello Stato che agisca come datore
di lavoro, al fine di evitare che esso tragga vantaggio dalla sua trasgressione del diritto europeo. Proprio
in questo senso, la Corte ha affermato che da un lato, la direttiva non può avere l’effetto di imporre ad
un singolo un determinato comportamento e dall’altro, uno Stato non può invocare una norma
nazionale contrastante con una direttiva non recepita, alla prima delle quali il destinatario si sia
adeguato per irrogare sanzioni. Nel caso poi di norme interne contrastanti con la direttiva, il principio di
certezza del diritto e di non retroattività impediscono l’applicazione della direttiva.
Per quanto attiene al campo di azione della direttiva, esso consiste principalmente nel ravvicinamento
delle legislazioni, infatti è proprio nei settori in cui gli Stati continuano a detenere la potestà normativa
che la direttiva ha trovato il proprio terreno di utilizzo privilegiato. In effetti, anche la materia tributaria
ha fatto ampio ricorso allo strumento della direttiva. ES: per quanto riguarda l’armonizzazione
dell’imposizione indiretta: esistono moltissime direttive che hanno interessato l’imposta sul valore

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aggiunto oppure la direttiva sulle imposte indirette sulla raccolta di capitali…
Quanto, invece, all’imposizione diretta, vanno ricordate la direttiva 90/434, in materia di fusioni,
scissioni, conferimenti di attivo…la direttiva 90/435 in materia di utili distribuiti tra società madri e figlie
situate in Stati membri diversi…
Anche direttive di carattere non fiscale possono avere riflessi tributari, così ad ES: la direttiva 76/207 che
prevede che gli uomini e le donne devono fruire delle medesime condizioni di licenziamento, senza
discriminazioni fondate sul sesso. Infine, meritano un richiamo anche le direttive attinenti al settore
della cooperazione amministrativa tra le diverse autorità fiscali nazionali (con riferimento ad ES:
all’assistenza che ciascuno Stato membro deve prestare nel proprio territorio per il recupero dei crediti
tributari vantati da altro Stato membro + lo scambio di informazioni tra le amministrazioni finanziarie
nazionali in materia di imposte dirette…).
• LE DECISIONI, hanno come destinatari non solo soggetti determinati e individuati nominativamente, ma
anche determinabili con sufficiente precisione (confine che le separa dai regolamenti, art. 288 TFUE). Si
tratta di atti interamente obbligatori rispetto a coloro che ne sono destinatari, i quali possono essere sia
persone fisiche o giuridiche, sia gli stessi Stati membri —> quando hanno come destinatario: uno Stato
membro, esse impongono l’obbligo di adottare un successivo provvedimento normativo. Tipico esempio
ne sono le decisioni prese in materia di concorrenza o di aiuti concessi dagli Stati alle imprese pubbliche
o private. Sempre la Corte di giustizia ha ritenuto che (ove ne sussistano i criteri) sia possibile
riconoscere l’effetto diretto, anche alle decisioni rivolte agli Stati. Quando, invece, sono rivolte ad altri
soggetti, la decisione assomiglia molto all’atto amministrativo dei sistemi giuridici nazionali, poiché essa
rappresenta lo strumento a disposizione degli organi europei (in questo caso, la Commissione) per
applicare il diritto a singole fattispecie concrete.
Importante è notare che la decisione, quando impone obblighi di pagamento ai singoli, ha efficacia di
titolo esecutivo, da far valere negli Stati membri, attraverso le procedure nazionali rispettivamente
utilizzabili —> tale efficacia esecutiva viene attribuita dall’art. 299 TFUE a tutti gli atti del Consiglio, della
Commissione o della BCE, che comportano un obbligo pecuniario a carico di persone che non siano gli
Stati.
• LE RACCOMANDAZIONI E I PARERI, sono gli ultimi atti menzionati dall’art. 288 TFUE, sono caratterizzati
dal fatto di non essere vincolanti. E proprio per questa loro caratteristica, possono essere emanati da
tutte le istituzioni europee (anche se finora è sempre stata la Commissione a farne uso). Anche qui si
pongono problemi di qualificazione: le raccomandazioni sono dirette agli Stati membri e contengono
l’invito a conformarsi ad un determinato comportamento, mentre i pareri costituiscono con il quale le
istituzioni europee fanno conoscere il loro punto di vista su una determinata questione. Inoltre, le
raccomandazioni (in caso di loro spontanea esecuzione) sono idonee a produrre il cd. effetto di liceità,
che vale a rendere lecito il comportamento raccomandato, anche quando esso si concreta nella
violazione di preesistenti norme internazionali (ES: di origine pattizia). Quindi, la raccomandazione può
funzionare da un lato come parametro di precisazione (sul piano interpretativo) di norme interne ed
europee, dall’altro come criterio di valutazione della legalità dei comportamenti adottati dagli Stati
membri. È interessante notare, infine, come negli ultimi anni si è assistito in ambito europeo ad un forte
ricorso a forme decisionali a carattere non vincolante e/o non legislativo, com’è il caso delle indicazioni
contenute in raccomandazioni, linee guida, accordi multilaterali…che hanno iniziato a svolgere un triplice
ruolo di supervisione, stimolo e indirizzo (quindi di coordinamento) per la politica fiscale degli Stati
membri.
• LE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA, l’art. 267 par.1 lett. a) TFUE, attribuisce alla Corte di giustizia
UE il compito di interpretare il diritto europeo. L’attività della Corte ha trovato applicazione anche in
materia tributaria, ne hanno formato oggetto principale: i tributi di ordine europea (in particolare l’IVA).
Un profilo essenziale qualificante l’attività processuale del giudice europeo attiene all’oggetto di tale
attività —> infatti, l’art. 267 TFUE riserva in via esclusiva alla Corte di giustizia il potere di interpretare, in
via pregiudiziale, le norme europee, spettando invece al giudice nazionale accertare il fatto e applicare le
norme al caso concreto. Si attua perciò una cooperazione ai fini della decisione giudiziale, in quanto: la
decisione della Corte di giustizia delinea il significato della norma europea ove rilevante nel giudizio,

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mentre il giudice nazionale perviene alla decisone, applicando le norme rilevanti (compresa quella
europea interpretata in via pregiudiziale) alla fattispecie concreta. Da un punto di vista teorico, la Corte
di giustizia viene investita (indirettamente e incidentalmente) di una questione interpretativa rilevante ai
fini di un giudizio interno, tuttavia però è necessario osservare che, da un lato, raramente la questione
sollevata si limita alla richiesta di mera interpretazione della norma europea (coinvolgendo solitamente
anche la compatibilità di quest’ultima con la norma interna) e dall’altro, che la sentenza della Corte può
(proprio per il contenuto che la caratterizza caso per caso) porsi immediatamente come decisoria della
controversia pendente davanti ai giudici nazionali. Tuttavia, quanto al profilo del giudizio di
interpretazione-compatibilità, la Corte ha più volte negato la possibilità di potersi pronunciare
direttamente sulla compatibilità delle norme interne con le norme europee, in quanto competente
unicamente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi necessari per effettuare l’interpretazione. Per
quanto attiene invece il rapporto con il fatto, la Corte di giustizia non accerta il fatto storico, ma questo
può comunque rimanere collegato al giudizio (potendo ad ES: accadere che la particolare formazione
della fattispecie possa condurre ad escludere l’applicazione del diritto europeo). Oppure, la sentenza
della Corte può essere talmente precisa e dettagliata, da rendere la decisione del giudice nazionale
praticamente automatica.
L’art. 267 TFUE prevede anche in capo al giudice nazionale la facoltà di rinvio nei gradi intermedi di
giurisdizione e un obbligo in caso di grado terminale di giurisdizione. La Corte di giustizia, interpretando
sempre tale articolo, ha stabilito però alcuni limiti all’obbligo di rinvio: i) innanzitutto deve trattarsi di
una questione pertinente, cioè, la decisione dev’essere in grado di influire sull’esito della lite; ii) la
questione dev’essere materialmente identica ad altra questione sollevata in relazione ad analoga
fattispecie, che sia già decisa in via pregiudiziale; iii) deve esistere una giurisprudenza costante della
Corte che, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui è stata prodotta, risolva la
questione, anche in mancanza di una stretta identità tra le materie del contendere; iv) la corretta
applicazione del diritto europeo dev’essere imposta al punto da non lasciare alcun ragionevole dubbio
sulla soluzione. Però, riferendoci al secondo punto, il fatto che la questione sia materialmente identica
ad altra, solleva in relazione ad analoga fattispecie che sia già stata decisa in via pregiudiziale, non toglie
(ad avviso della Corte) la possibilità per il giudice nazionale di deferire nuovamente alla Corte delle
questioni di interpretazione, per ottenere chiarimenti e specificazioni sull’interpretazione già data o
magari una diversa.
Si delinea così un’impostazione in termini di precedente delle sentenze interpretative della Corte di
giustizia, la Corte di cassazione ha però stabilito che le sentenze della Corte di giustizia costituirebbero
solo espressione di una regola casistica e come tale non fissata una volta per tutte, ma suscettibile di
svilupparsi grazie ad apporti successivi.
• I TRATTATI STIPULATI DALL’UE con altri Stati, ai sensi dell’art. 300 par.7 TFUE, essi hanno valore
vincolante per gli Stati membri, senza necessità di recepimento con legge statale.

Ma le norme europee come trovano ingresso nel nostro ordinamento?


Per quanto riguarda il Trattato istitutivo della CEE e gli atti successivi modificativi e integrativi, sono entrati
tutti nel nostro ordinamento con la normale procedura di adattamento del diritto interno al diritto
internazionale pattizio. Per quanto riguarda gli atti del diritto europeo “derivato”, invece, in alcuni casi tale
adattamento può essere automatico (essendo atti di adattamento ad hoc) oppure necessario (anche per atti
dotati solo formalmente di diretta applicabilità). Al fine di provvedere all’emanazione di atti interni di
adattamento del diritto europeo non direttamente applicabile, il legislatore con la legge 234/2012 ha
previsto che l’implementazione del diritto UE nell’ordinamento italiano avvenga tramite due strumenti: la
legge di delegazione europea e la legge europea. La prima, il cui disegno di legge dev’essere presentato dal
Governo entro il 28 febbraio di ogni anno, è finalizzata al conferimento di deleghe legislative per il
recepimento delle direttive e degli altri atti dell’UE, ivi comprese le sentenze della Corte di giustizia; la
seconda, è volta a prevedere norme (anche di abrogazione di norme esistenti) finalizzate alla diretta
attuazione degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’UE, ivi comprese le sentenze della Corte di giustizia e
i trattati internazionali conclusi. Viene comunque prevista la possibilità per il Governo di adottare appositi

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disegni di legge per l’attuazione di singoli atti normativi dell’UE, in casi di particolare importanza politica,
economica e sociale. Una volta entrata nell’ordinamento, la norma europea deve confrontarsi con la norma
nazionale. A tale riguardo, la Corte di giustizia ha elaborato il principio del primato del diritto europeo su
quello interno con esso contrastante, sia esso precedente o successivo. Infatti, il giudice nazionale
(incaricato di applicare le disposizioni di diritto europeo) ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali
norme, purché dotate di effetti diretti, disapplicando all’occorrenza e di propria iniziativa, qualsiasi
disposizione nazionale contrastante con il diritto europeo, senza doverne chiedere o attendere la previa
rimozione in via legislativa.
Una volta effettuato il trasferimento dei poteri sovrani all’Unione, gli Stati membri non possono più
esercitare i propri poteri originari. Si tratta di una concezione di stampo monistico, che prevede che l’UE sia
un ente superiore e le cui regole vengono imposte per forza propria nei confronti degli Stati membri, proprio
perché facenti parte dell’ordinamento europeo. La Corte costituzionale italiana preferisce la soluzione della
“disapplicazione”, seguendo una prospettiva dualista. In un primo momento ritenne applicabile il principio
della successione delle leggi nel tempo (1964), muovendo dal presupposto che il diritto europeo dovesse
essere assimilato ad un qualsiasi corpo di norme nazionali, con la conseguenza che queste ultime (se
successive ai Trattati) dovessero essere considerate prevalenti. Successivamente (1973) la Corte
costituzionale ha ritenuto di trovarsi in presenza di due ordinamento autonomi e distinti (ma comunque
coordinati) e quindi allo Stato risulterebbe precluso intervenire laddove via la competenza europea in base ai
Trattati —> il fondamento si troverebbe nell’art. 11 Cost.in base al quale: “L’Italia consente, in condizioni di
parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le nazioni”, la Corte decise così di risolvere il conflitto attraverso un giudizio di legittimità
costituzionale, non potendo ammettere un potere di disapplicazione al giudice nazionale, che avrebbe finito
per garantire l’applicazione della norma europea soltanto inter partes. Perciò viene considerata
incompatibile con il diritto europeo qualsiasi soluzione che avesse l’effetto di impedire l’immediata
applicazione da parte del giudice nazionale del diritto europeo.
Per quanto riguarda il rinvio pregiudiziale, la Corte costituzionale è competente al riguardo prima nei giudizi
“in via principale” (in quanto giudice di unica istanza) e successivamente nei giudizi in via incidentale (ma
solamente nel caso di norme UE non dotate di effetto diretto). Quindi, nella prospettiva della compatibilità
della norma interna con quella UE: i) se si dubita dell’interpretazione o della validità di una norma UE
immediatamente applicativa, dovrà essere il giudice della controversia ad attivare il rinvio (pena:
l’inammissibilità dell’eventuale questione di legittimità); ii) ove tale dubbio investa una norma UE non
immediatamente applicativa, dovrà essere la Corte costituzionale ad attivare il rinvio.
Quanto al sindacato di costituzionalità, la Corte ha ritenuto di dover esercitare il proprio sindacato di
costituzionalità sulle statuizioni della legge interna, laddove il metodo della disapplicazione non assicuri
l’applicazione del diritto europeo (che si verifica nell’ipotesi in cui la norma europea non sia dotata di
efficacia diretta).

Passando alla trattazione dei vincoli internazionali, emergono innanzitutto quelli derivanti dalle fonti
consuetudinarie, come comportamento costante e uniforme tenuto dalla gran parte dei membri della
Comunità internazionale, con la convinzione che esso corrisponda ad un obbligo giuridico.
In materia tributaria, una prima fonte tradizionalmente qualificata come diritto internazionale
consuetudinario concerne il trattamento ai fini tributari dei redditi degli Stati e degli agenti diplomatici (e
comporta il non assoggettamento ad imposte di tali redditi da parte dello Stato in cui i redditi sono stati
prodotti o in cui opera l’agente diplomatico, purché tali redditi siano ottenuti nell’esercizio delle funzioni
pubbliche). Meno pacifica però risulta l’esenzione accordata agli agenti diplomatici, talvolta ricondotta ad un
atto di mera cortesia internazionale. Si tratta dell’art. 34 della “Convenzione sulle relazioni diplomatiche”, il
quale prevede che l’agente diplomatico sia esente da tutte le imposte (personali o reali, nazionali o regionali
o comunali).
Ai cd. “principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili” di cui all’art. 38 dello Statuto della Corte
internazionale di giustizia, quali principi esistenti e uniformemente applicati nella maggior parte degli Stati e

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sentiti come obbligatori e necessari sono: il principio del reddito mondiale e della fonte, il principio di non
discriminazione, principio di territorialità della potestà amministrativa di imposizione…
I vincoli internazionali più importanti che si pongono al legislatore tributario nazionale sono quelli derivanti
dai trattati, tra i quali dominano le convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito e sul
patrimonio. Esistono poi ulteriori vincoli, quali: i) non può essere applicato in uno Stato contraente il diritto
tributario di un altro Stato contraente; ii) le norme di localizzazione contenute nelle convenzioni contro la
doppia imposizione non determinano l’applicabilità del diritto straniero ad una determinata fattispecie
tributaria, ma limitano l’operatività delle norme interne. Le fattispecie previste nelle convenzioni si
aggiungono alle norme di diritto interno; iii) le Convenzioni non quantificano mai l’ammontare di imposta
che può essere prelevato nello Stato della fonte (o della residenza) sui redditi localizzati, rinviando a tal
fine all’ordinamento tributario di tali Stati. Laddove le Convenzioni intervengano sul quantum non si tratta
di vere e proprie norme di imposizione, perché in questi casi l’imposizione prescinde dalla localizzazione del
reddito.
Secondo la CEDU: l’imposizione fiscale costituisce un’ingerenza del potere pubblico nel diritto di proprietà
che si giustifica in virtù delle eccezioni in materia di pagamento delle imposte. Tale ingerenza deve realizzare
un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e l’imperativo della salvaguardia
dei diritti fondamentali dell’individuo, pertanto non può costituire un onere eccessivo o “attentato” alla sua
condizione finanziaria.
La riforma del Titolo V della Costituzione: essa ha comportato la riforma dell’art. 117 Cost. il quale ora
sancisce che la potestà legislativa di Stato e Regioni è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Perciò, il generale divieto di
venir meno agli obblighi internazionali viene integrato dalle norme internazionali (secondo uno schema
talvolta qualificato come “norme interposte” altre volte in termini di “rinvio mobile”) rendendo così
concreto il contenuto (e quindi la prescrizione) contenuta nell’art. 117 Cost. Di conseguenza, all’introduzione
di tale disposizione viene riconosciuto il merito di aver colmato una lacuna esistente nell’ordinamento,
prevedendo così una garanzia costituzionale dinnanzi alla violazione degli obblighi internazionali. Resta
fermo, comunque, che i trattati internazionali sono subordinati dall’intera Costituzione, senza dunque
acquisire la forza delle norme ivi contenute.
Al tempo stesso, la Corte costituzionale: da un lato ribadisce l’applicabilità dell’art. 10 Cost. (“L’ordinamento
giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”) al diritto
consuetudinario —> ulteriore conseguenza è che per le norme di diritto internazionale resta sempre
necessario un atto di adattamento, al contrario del diritto consuetudinario per il quale è previsto un
adattamento automatico nel nostro ordinamento.
Parlando ora della norma tributaria internazionale, essa vincola gli ordinamenti interni sotto diversi profili:
1) In alcuni casi la convenzione agisce sull’estensione del criterio di collegamento personale.
2) Modifica il criterio di collegamento reale rilevante (ES: tutti quei casi in cui i criteri di collegamento
interni siano diversi da quelli previsti a livello convenzionale).
3) Limita il quantum del prelievo (ES: consente allo Stato del soggetto erogante, di prelevare una ritenuta
non superiore ad una certa percentuale).
In tutti questi casi la convenzione prevale sulla norma interna precedente. Inoltre, la norma internazionale
integra la fattispecie interna e non la sostituisce, sicché spesso è la norma interna a permettere
l’applicabilità della norma internazionale.
Cosa succede però se la norma convenzionale successiva sia più sfavorevole per il contribuente rispetto a
quelle interne? Non esiste nessuna indicazione precisa dalla dottrina internazionale, così ci si può rifare a tre
punti di riferimento: 1) il principio del non aggravamento: si tratta di un principio generale del diritto
internazionale generalmente riconosciuto, secondo il quale le convenzioni internazionali contro la doppia
imposizione non potrebbero mai peggiorare la situazione del contribuente, così com’è già regolata nel diritto
interno. Alcuni però ritengono che non vi è alcuna prova dell’esistenza di questo principio consuetudinario
all’interno del diritto internazionale. Anzi, spesso si osserva come le convenzioni prevedano trattamenti più
sfavorevoli quando introducono l’istituto dello scambio di informazioni (ad esempio); in Italia tale principio
ha trovato spazio in numerose pronunce ministeriali e giurisprudenziali, dimostrando così l’adesione del

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paese a tale principio: un esempio è costituito dall’art. 169 TUIR secondo il quale “le disposizioni del
presente Testo Unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi
internazionali contro la doppia imposizione”. Tuttavia, tale principio può essere anche desunto dallo scopo
principale delle convenzioni che è quello di prevenire la doppia imposizione operando in senso limitativo nei
confronti dei vari ordinamenti. Venendo poi all’introduzione di una norma interna più favorevole
successivamente all’avvenuto adeguamento del diritto interno ad una convenzione contro la doppia
imposizione, bisogna comunque affermare la prevalenza della norma internazionale su quella interna
successiva. Il fatto che una norma internazionale prevalga su quella interna, in quanto norma speciale,
significa che il giudice (nelle controversie) deve applicare la norma speciale qualora ne ricorrano le
condizioni, in questo senso però, l’art. 169 TUIR non ribadisce un generico principio di specialità, ma ne
tempera gli effetti, consentendo così al contribuente di effettuare una scelta in merito alla norma applicabile
—> laddove la norma interna sia più favorevole al contribuente questi potrà applicare la norma interna. 2) la
collocazione dei trattati nel sistema delle fonti interne: abbiamo quattro ipotesi—> 1. Sistemi costituzionali
che accordano espressa preferenza a livello costituzionale alle Convenzioni internazionali (Francia e Paesi
Bassi); 2. Sistemi costituzionali che riconoscono tale prevalenza e la riconducono a principi costituzionali non
scritti (Belgio e Lussemburgo); 3. Sistemi costituzionali nei quali norme internazionali e norme interne hanno
pari rango (Stati Uniti); 4. Sistemi che affermano la supremazia del Parlamento e che dunque subordinano
l’operatività dei trattati internazionali alla volontà di esso (Regno Unito). Nell’ordinamento italiano, sono
ancora da esplorare gli effetti di ciascuna delle possibili ricostruzioni dell’art. 117 Cost.sulle conclusioni
possibili a proposito dell’art. 169 TUIR.
Problema inverso: la norma interna successiva è più sfavorevole di quella internazionale: l’art. 31 par.3 lett.c)
della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati consente di adattare la convenzione ai mutamenti delle
norme proprie dell’ordinamento internazionale, conferendo importanza al diritto internazionale generale;
tuttavia, il principio del diritto internazionale rimane sempre quello di attribuire ai termini il significato che
essi avevano al momento in cui la convenzione fu conclusa (principio di contemporaneità), sicché
l’attribuzione di un significato diverso rimane sempre l’eccezione —> infatti, può accadere facilmente che
nel corso del tempo il significato dei termini subisca un’evoluzione che si riveli poi compatibile con le
aspettative e intenzioni delle parti al momento in cui esse conclusero il trattato. Il problema qui non riguarda
tanto le interpretazioni evolutive, quanto più le modifiche alle legislazioni interne (molto frequenti in
materia tributaria). A ciò si collega il treaty overriding: vale a dire la possibilità da parte di una norma interna
di “violare” il trattato. Se infatti si modifica la legislazione interna, si pone il problema di verificare se questa
modifica si configuri come una semplice violazione del trattato o se possa dar luogo ad una interpretazione
evolutiva del trattato stesso. Si tratta dunque di valutare l’entità delle modificazioni apportate alla
legislazione interna, che dovranno essere tali da non ripercuotersi in modo determinante sulla disciplina
convenzionalmente stabilita (di ripartizione dei redditi transnazionali, pena l’inadempimento degli obblighi
assunti sul piano internazionale).

( giugno 2017, 70 Paesi hanno firmato, presso la sede OCSE, una Convenzione definita MLI attraverso la
quale viene prevista la possibilità di modificare automaticamente (senza dunque rinegoziare una ad una) le
varie Convenzioni internazionali per adeguarle alle nuove regole elaborate nell’ambito del cd. Progetto BEPS,
volto a contrastare i comportamenti finalizzati all’erosione della base imponibile degli Stati. È entrata in
vigore nel marzo 2018, a seguito dell’avvenuto deposito da parte di alcuni Stati, per gli altri occorrerà
attendere il relativo deposito.

Capitolo Nove: i soggetti passivi.


Soggetto passivo: colui al quale è riferibile il presupposto. Per “soggetti passivi” però devono essere intesi
non solo i soggetti in senso stretto, quindi i titolari dell’indice di capacità contributiva, ma anche quei
soggetti che pur non avendo realizzato il presupposto formano comunque oggetto di un obbligo di natura
patrimoniale. Ci si riferisce alla figura del:
1. Sostituto d’imposta, ossia colui che in luogo di altri è tenuto al pagamento del tributo, oppure

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2. Responsabile d’imposta : ossia colui che è coinvolto a titolo di solidarietà passiva dipendente nel
pagamento di un tributo per un fatto riferibile al titolare dell’indice di capacità contributiva.
In secondo luogo, è necessario fare un piccolo riferimento anche al principio di capacità contributiva: l’art.
53 Cost. evidenzia un nesso diretto tra capacità contributiva e soggetto obbligato (“in ragione della ‘loro’
capacità contributiva”) sicché la capacità contributiva deve riguardare il singolo contribuente. Da qui ne
deriva ad ES: l’illegittimità costituzionale del cumulo familiare dei redditi, che prevedeva l’imputazione al
marito dei redditi della moglie, pur non potendone disporre.
Il legislatore, inoltre, può ampliare la sfera dei soggetti passivi ed imporre il prelievo anche a soggetti diversi
da coloro cui è riferibile l’indice di forza economica, ma quest’ultimo deve avere la sicura possibilità di far
ricadere l’onere economico sulla persona che realizza il fatto, ossia, manifesta la capacità contributiva (c.d.
“diritto di rivalsa”).
Vi è dunque un concetto di soggetto passivo più ampio di quello inteso come titolare della capacità
contributiva, al quale in ogni caso deve essere consentito di far ricadere il carico finale del tributo su colui
che di tale capacità contributiva è titolare. L’art. 8 co.2 dello Statuto dei diritti del contribuente ammette, in
materia tributaria, l’accollo e quindi la traslazione del tributo da un soggetto ad un altro purché non si liberi
dalla prestazione l’originario debitore.
Premesso tutto ciò bisogna ora approfondire il discorso esaminando due punti fondamentali:
I) Quali sono i soggetti in astratto suscettibili di essere titolare di una capacità giuridica ai fini tributari:
in altri termini che presentino un’attitudine alla titolarità di situazioni giuridiche soggettive proprie
del diritto tributario;
II) Qual è il loro ruolo all’interno della fattispecie tributaria.

La nozione di soggettività tributaria si ricollega alla titolarità di situazioni giuridiche soggettive, siano esse
attive o passive. Si tratta di una distinzione che non coincide con quella tra soggetti attivi e soggetti passivi,
dal momento che sia i primi che i secondi possono alternativamente essere titolari di situazioni giuridiche
attive o passive.
I soggetti attivi: coloro che sono titolari del potere impositivo.
I soggetti passivi: vi è una duplice nozione. Da un lato sono considerati soggetti passivi coloro ai quali:
- è riferito il presupposto impositivo, inteso come atto o fatto al cui verificarsi è dovuto il tributo, dove tale
presupposto esprime appunto una capacità contributiva di quel soggetto e nel cui patrimonio deve, dunque,
manifestarsi l’effetto tipico di decurtazione. Si suole parlare in questo caso di contribuente.
- non è riferito il suddetto presupposto, ma che sono comunque titolari di situazioni giuridiche soggettive di
carattere sostanziale o strumentale. Le situazioni giuridiche di carattere sostanziale possono poi esser
relative all’obbligazione di pagare il tributo (il cd.obbligato), oppure a qualificazioni o relazioni rilevanti ai fini
della determinazione dell’an e del quantum del tributo (ES: residente/non residente, commerciali/non
commerciali).
Anche lo Stato può essere soggetto passivo, a meno che non vi sia una norma che lo escluda espressamente
dall’elenco di tali soggetti passivi (ES: art. 74 TUIR in tema di imposte sui redditi).

Ulteriore distinzione molto importante è quella tra contribuente di diritto e contribuente di fatto:
-Il contribuente di diritto è colui che è giuridicamente tenuto a corrispondere il tributo.
-Il contribuente di fatto, è colui che è destinato a sopportare in via definitiva l’onere economico del prelievo.
La posizione del contribuente di fatto è irrilevante sul piano del rapporto obbligatorio d’imposta, ma può
acquisire rilevanza giuridica in quanto soggetto passivo di un eventuale rapporto giuridico di rivalsa, quando
cioè gli sia espressamente conferito tale diritto, il cui esercizio produce un effetto economico, la traslazione.
Quali esempi si possono ricordare le accise, i cui soggetti passivi hanno diritto di rivalsa verso i cessionari dei
prodotti per i quali hanno assolto il tributo; oppure l’IVA, i cui soggetti passivi (imprenditori che pongono in
essere cessioni di beni o prestazioni di servizi) hanno l’obbligo di addebitare l’imposta alle oro controparti.
Parte della dottrina sostiene che questo rapporto abbia natura tributaria, mentre per un’altra parte ha
natura privatistica. L’adesione all’una o all’altra tesi comporta conseguenze in ordine all’individuazione del
soggetto passivo del tributo. La tesi da accogliere è quella della natura pubblicistica, ossia tributaria. Quindi

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nel caso dell’IVA il soggetto passivo è colui che subisce la rivalsa. Analoga considerazione deve farsi per il
sostituto e il responsabile di imposta, i quali da un lato sono obbligati nei conti dell’erario al pagamento del
tributo, ma dall’altro hanno (rispettivamente) l’obbligo e il diritto di rivalersi su un altro soggetto (che è
dunque colui che realizza il presupposto di fatto del tributo.

➡️ La Corte di cassazione (2003) ha affermato che dall’esame congiunto di due articoli 17 e 18 del d.p.r.
633/1972, va desunta l’esistenza di tre distinti rapporti giuridici (due sono sicuramente di natura tributaria: il
rapporto tra cedente e Amministrazione finanziaria, relativamente al pagamento dell’imposta; quello tra
cessionario ed Erario concernente l’esercizio del diritto di detrazione), il terzo rapporto è quello tra cedente e
cessionario, relativo all’addebito dell’imposta in fattura a titolo di rivalsa, che vede invece l’estraneità
dell’Amministrazione finanziaria, sicché in caso di ripetizione di quanto versato a titolo di rivalsa, il
cessionario può promuovere un’azione nei confronti del cedente solamente davanti al giudice ordinario.
Tuttavia, in sentenze più recenti, la Cassazione ha affermato che il cessionario o committente che
acquisiscono beni o servizi nell’esercizio di un’impresa, sono (a differenza dei meri consumatori finali)
soggetti attivi nel rapporto IVA. Perciò possono chiedere direttamente all’Erario il rimborso delle somme
indebitamente versate, purché (ovviamente) il cessionario compia operazioni imponibili che diano diritto a
detrazione (2015). Pertanto, da ciò ne deriva che i soli ad essere carenti della legittimazione sono i
consumatori finali e i soggetti passivi che compiano operazioni che non diano diritto a detrazione.

Vi sono però anche casi in cui la rivalsa è vietata, ciò accade per le imposte indirette dove sono presenti
norme che dichiarano nulli i patti sull’imposta o i casi in cui è vietata la traslazione sui prezzi (ES: ove vi sia il
rischio che una forma di imposizione prevista per colpire una determinata manifestazione di capacità
contributiva venga di fatto traslata sui consumatori finali).
In tutti questi casi risulta dunque che la soggettività passiva del tributo è attribuita al soggetto che deve
versare il tributo. Il divieto di esercitare la rivalsa o la traslazione ha lo scopo di far sì che il titolare della
capacità contributiva resti il soggetto definitivamente gravato dal peso del tributo.
In altre ipotesi, invece, la traslazione non è prevista dalla legge e viene affidata semplicemente all’operare
delle regole economiche del mercato: qui, il soggetto percosso trasferisce il prelievo al soggetto inciso
includendolo nel corrispettivo (naturalmente se e in quanto il mercato lo consenta e qualora non sussista il
divieto di traslazione sui prezzi). In questo caso il soggetto passivo del tributo resta comunque colui che è
tenuto a versarlo non essendovi una rivalsa giuridica dalla quale poter argomentare in relazione
all’individuazione del titolare della capacità contributiva.
➡️ A ciò possiamo collegare un caso interessante: quello delle addizionali sull’energia elettrica. Secondo la
Cassazione (2013), il fabbricante di energia elettrica è il soggetto passivo del rapporto tributario con
l’Amministrazione finanziaria in ordine alle addizionali sull’imposta di consumo dell’energia elettrica, mentre
il cessionario (anche qualora abbia ceduto quote di energia ai terzi ma senza aver ottenuto la licenza di
esercizio) è soggetto meramente inciso dal tributo. Ne deriva che il rapporto inerente al pagamento
dell’imposta si svolge soltanto tra Amministrazione finanziaria e i soggetti che forniscono direttamente i
prodotti e ad esso è del tutto estraneo l’utente consumatore. I due rapporti si pongono dunque su un piano
diverso: quello tra fornitore e Amministrazione finanziaria ha rilievo tributario, quello tra fornitore e
consumatore rilievo civilistico. Perciò il diritto al rimborso spetta esclusivamente al soggetto passivo
dell’imposta, ossia al fornitore.

La capacità giuridica nel diritto tributario.


Dobbiamo adesso esaminare il problema di quali siano i soggetti in astratto suscettibili di essere titolari di
una capacità giuridica ai fini tributari, ossia coloro che presentano un’attitudine alla titolarità di situazioni
giuridiche soggettive. In linea generale sono: le persone fisiche, le persone giuridiche, gli enti privi di
personalità giuridica tipizzati dal codice civile (ad es. le società di persone, le associazioni, ecc.) e, infine, gli
enti non tipizzati in capo ai quali sussistano le seguenti caratteristiche: i) esistenza di un centro autonomo di
imputazione di effetti o di rapporti giuridici; ii) autonomia di tale centro rispetto ad altri soggetti;

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iii) imputazione ad esso di effetti o rapporti sub specie del presupposto d’imposta (e dunque di effetti
giuridici patrimoniali). Inoltre, anche se siamo in presenza di un soggetto collettivo, il legislatore ha deciso di
ritenere idoneo ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive (tassare) esclusivamente le singole
persone fisiche che lo compongono, fermo restando che al soggetto collettivo possono comunque essere
riferite ulteriori qualificazioni (residente/non residente…).
Problema: enti formatisi sotto un altro ordinamento giuridico. L’art. 73 co.1 lett.d) TUIR fa riferimento, per
i soggetti non residenti: alle società e gli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica.
Con ciò il legislatore ha stabilito che il centro d’imputazione degli effetti giuridici per i soggetti non residenti
è il soggetto collettivo e non i suoi partecipanti (ad es. per la società di persone, il centro d’imputazione non
sono i partecipanti, bensì è quell’ente cui gli stessi siano unitariamente riferibili).
Tale norma, dunque, dovrebbe considerare come soggetti passivi anche quegli enti (anche se ignoti al nostro
ordinamento) ai quali il proprio ordinamento di provenienza attribuisca personalità giuridica. Più in generale
occorrerebbe dare rilievo a tutti gli autonomi centri di imputazione giudica che appiano, in quanto tali,
titolari di rapporti di diritto secondo l’ordinamento di origine.
Si devono, dunque, considerare non solo le persone giuridiche in senso tecnico, ma qualsiasi ente diverso
dalle persone fisiche che un ordinamento, nella sua discrezionalità, elevi sulla base di diversi presupposti e a
tutela di interessi diversi a centro autonomo di imputazione di situazioni giuridiche. Non sembra invece
possibile considerare come soggetti IRES, gli enti che (dal punto di vista dell’ordinamento italiano) possano
considerarsi soggetti di diritto, ma cui l’ordinamento di origine non riconosca alcuna autonomia sul piano
civilistico rispetto ai partecipanti, cioè, l’ordinamento italiano non può considerare come enti quelle
formazioni che non sono considerate tali (mancando dei presupposti per la formazione sociale ad ente) nello
Stato di costituzione.

Il sostituto d’imposta: al fine di perseguire obiettivi di rafforzamento della garanzia patrimoniale del Fisco e
di semplificazione dei suoi rapporti nei confronti della molteplicità dei contribuenti, il legislatore può
coinvolgere nell’attuazione del prelievo soggetti diversi da quelli che hanno realizzato l’indice di capacità
contributiva, sia “sostituendo” un soggetto ad un altro (sostituto), sia “aggiungendo” un soggetto a colui che
ha realizzato l’indice di capacità contributiva (responsabile d’imposta). Il collegamento tra le due figure è
testimoniato dalla “comunanza” normativa nell’art. 64, d.p.r. 600/1973: sostituto d’imposta: comma 1: “Chi
in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a
questi riferibili ed anche a titolo di acconto, deve esercitare la rivalsa se non è diversamente stabilito in
modo espresso”.
Responsabile d’imposta: Comma 3: “Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento
dell’imposta insieme con altri, per fatto o situazioni esclusivamente riferibili a questi, ha diritto di rivalsa”

Cominciamo la trattazione del sostituto d’imposta: le teorie recenti non si esprimono più in termini di
sostituzione tra rapporti giuridici (perché il tributo è in capo al sostituto sin dall’origine), ma si concentrano
sulla struttura della fattispecie, che presenta una “deviazione” rispetto al normale meccanismo di
applicazione del tributo. Vi è una norma base che fissa il presupposto in capo al soggetto sostituito e una
norma secondaria che imputa l’obbligo di pagamento in capo al sostituto realizzando un effetto di
sviamento. Anzi, la giustificazione del meccanismo di sostituzione si rinviene proprio nella particolare
posizione occupata dal sostituto rispetto al sostituito, essendo il primo debitore del secondo: potendo così,
nel momento in cui adempie alla propria prestazione nei confronti del sostituito, versare una minor somma
rispetto al dovuto e trattenerne una parte da versare all’Erario —> questo risultato è ottenuto attraverso lo
strumento della ritenuta, che altro non è che una particolare modalità di esercizio dell’obbligo di rivalsa che
il sostituto ha nei confronti del sostituito e serve soprattutto far ricadere il peso del tributo sul reale titolare
della capacità contributiva (il sostituito).
È necessaria però una precisazione: la sostituzione d’imposta assume (nel nostro ordinamento) una duplice
configurazione:
1) sostituzione “a titolo d’imposta” (o “propria”), dove l’effettuazione della ritenuta ed il versamento
all’erario da parte del sostituto esaurisce qualsiasi rapporto di natura tributaria in capo al soggetto sostituito,

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che non dovrà presentare alcuna dichiarazione, realizzando così il c.d. anonimato del contribuente.
Il prelievo personale e progressivo (che caratterizza l’IRPEF) viene “sostituito” con uno di carattere reale e
proporzionale, il cui intero ammontare forma oggetto di obbligo di ritenuta e di versamento in capo al
sostituto, sicché in caso di omissione della ritenuta, il Fisco potrà chiedere solamente l’ammontare della
ritenuta non versata (oltre sanzioni e interessi). Si parla in tal caso anche di imposta sostitutiva (intesa come
sostituzione in senso oggettivo). Inoltre, nell’effettuazione della ritenuta si sostanzia la c.d. rivalsa del
sostituto, attraverso la quale il sostituto procede al recupero nei confronti del sostituito, dell’imposta da
pagare all’erario.In più, come emerge dall’art. 64 d.p.r., la rivalsa è di regola obbligatoria: si tratta di un vero
e proprio obbligo (diritto- dovere) e, dunque, non solo di un mero diritto.
2) sostituzione “a titolo di acconto” (o impropria), dove invece l’effettuazione della ritenuta, ed il
versamento all’erario da parte del sostituto non esaurisce il rapporto tra Fisco e contribuente.
Quest’ultimo, infatti, è tenuto comunque a dichiarare il reddito oggetto di ritenuta, includendolo nel reddito
complessivo, ed a calcolare la corrispondente imposta, di cui la ritenuta costituisce, di fatto, un acconto. Il
sostituito detrae dall’imposta così calcolata la ritenuta subita e versa all’erario la differenza. Oppure, ove la
ritenuta sia superiore all’imposta dovuta, maturerà un corrispondente credito che potrà formare oggetto
(alternativamente) di compensazione, riporto o rimborso. In tale contesto la dottrina prevalente tende ad
attribuire soggettività passiva soltanto al sostituto a titolo d’imposta, riconoscendo al sostituto a titolo di
acconto la natura di titolare dell’obbligo di versamento della ritenuta. Nel primo caso saremmo davanti ad
una forma di sostituzione, ma non nel senso civilistico del “poter agire in nome altrui”, bensì nel senso che
l’obbligazione tributaria farebbe capo al soggetto obbligato alla ritenuta e non al contribuente; nel secondo
caso, invece, avremmo davanti una forma di riscossione anticipata, in cui l’obbligazione tributaria
permarrebbe in capo al sostituito. Secondo altra parte della dottrina, invece, si nega la natura di soggetto
passivo al sostituto, pena l’incostituzionalità della disciplina (ex art. 53 Cost.) per mancata coincidenza con
colui che ha realizzato il presupposto.
3) ritenuta diretta, è la ritenuta che viene prelevata dallo Stato sui redditi corrisposti ai propri creditori (ES:
lo Stato nei confronti dei propri dipendenti).

Nei rapporti tra sostituto e sostituito possono verificarsi alcune situazioni patologiche:
A. Ipotesi di ritenuta a titolo d’imposta con rivalsa facoltativa, qui l’unico soggetto passivo è il sostituto che
non è obbligato a rivalersi sul sostituito, il quale è estraneo a qualunque rapporto giuridico con il titolare
del credito tributario e dunque anche nel caso in cui la ritenuta non sia stata operata;
B. Ipotesi di ritenuta a titolo di imposta con rivalsa obbligatoria si possono avere i seguenti casi:
- Il sostituto effettua la ritenuta ma non la versa: in questo caso il sostituto è suscettibile di sanzione per
omesso versamento ex art. 13, d.lgs. 471/1997, mentre il sostituito deve ritenersi del tutto estraneo al
rapporto impositivo, avendo subito il prelievo mediante ritenuta;
- Il sostituto non effettua la ritenuta, ma ciononostante la versa: il sostituito non subisce alcuna conseguenza
per effetto della mancata ritenuta, mentre al sostituto saranno applicate le sanzioni previste per l’omesso
obbligo di effettuazione della ritenuta, tuttavia egli può recuperare successivamente in via di rivalsa
l’importo della ritenuta in capo al sostituito, cui l’imposta è riferibile in termini di capacità contributiva (con
l’esclusione delle sanzioni amministrative);
- Il sostituto non effettua e non versa la ritenuta: qui sorgono numerosi problemi, in quanto il sostituito non
essendo tenuto a presentare la dichiarazione per redditi “soggetti” (anche se non materialmente
assoggettati) a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, esso non può assolvere in dichiarazione l’imposta e
finirebbe dunque per rimanere estraneo al rapporto obbligatorio e non potrebbe essere assoggettato ad
alcuna procedura di riscossione. Così l’art. 35 d.p.r. 602/1973 prevede che il sostituito sia obbligato in solido,
nel caso di iscrizione a ruolo del sostituto, per le imposte (per l’ammontare della ritenuta e non per l’imposta
corrispondente al reddito complessivo), gli interessi e le sanzioni relativi ai redditi sui quali esso non ha
operato e versato le ritenute. Ai sensi dell’art. 64 co.2 d.p.r.ha diritto di intervenire nel procedimento
instaurato nei confronti del sostituto, in quanto interessato a far valere eventuali esenzioni o esclusioni. Da
tutto questo si evince che l’atto impositivo sarà intestato al solo sostituto, il quale avrà l’onere di
comunicarlo al sostituito (pena la perdita del diritto di rivalsa nei suoi confronti); quanto alle sanzioni, non

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trovano più applicazione congiunta le sanzioni per omessa effettuazione della ritenuta e omesso
versamento, bensì le sole sanzioni per omessa effettuazione.
C. Nelle ritenute a titolo d’acconto, si possono avere i seguenti casi:
- Il sostituto effettua la ritenuta ma non la versa: il sostituito dovrebbe avere il pieno diritto a scomputare la
ritenuta subita e il Fisco dovrebbe agire solo verso il sostituto, essendo l’obbligazione del sostituto del tutto
anonima e distinta da quella del sostituito;
- Il sostituto non effettua la ritenuta, ma ciononostante la versa: il sostituito non subirà alcuna conseguenza
per effetto della mancata effettuazione, ma al sostituto saranno applicate le sanzioni previste per l’omesso
obbligo di effettuazione della ritenuta, tuttavia potrà recuperare successivamente in via di rivalsa l’importo
della ritenuta in capo al sostituito, cui l’imposta è riferibile in termini di capacità contributiva (sempre con
l’esclusione delle sanzioni amministrative).
- Il sostituto non effettua la ritenuta, né la versa: in tale ipotesi vi sono due possibilità:
a. Il sostituito dichiara i relativi redditi, versando l’intera imposta dovuta. Sono previste unicamente le
sanzioni per omessa effettuazione della ritenuta.
b. Il sostituito non dichiara i relativi redditi, nel qual caso il Fisco (se ritiene il reddito imponibile) potrà agire
nei confronti di ambedue. Deve anche qui però escludersi la responsabilità solidale rispetto all’ammontare
della ritenuta, trattandosi di obbligazioni distinte: la prima, relativa alla ritenuta non operata, la seconda
relativa all’imposta corrispondente ai redditi non dichiarati.
D. Ipotesi in cui il sostituto effettua la ritenuta ma questa è contestata dal sostituito, non ritenendo costui
che la somma erogata abbia natura di reddito imponibile. Innanzitutto, va premesso che la dottrina ritiene
che tra sostituto e sostituito sussista un rapporto di diritto privato: il primo è da un lato debitore del secondo
di una somma a vario titolo (dividendi, retribuzione…) e dall’altro ha diritto di rivalsa, che si attua mediante
ritenuta, anticipata corresponsione da parte del sostituito…).
In tal caso, dal momento che si prospetta un rapporto di natura privatistica, spetterebbe al giudice ordinario
la giurisdizione, ipotizzando che l’azione del sostituito verso il sostituto sia finalizzata all’ottenimento
dell’integrale pagamento del credito. E così hanno anche confermato le SS.UU.della Cassazione (mutando di
recente opinione, 2013) ritenendo che le controversie tra sostituito e sostituto relative all’esercizio del
diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte versate direttamente dal sostituto, rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario, trattandosi di un diritto esercitato nell’ambito di un rapporto privatistico appunto.

La solidarietà passiva nel diritto tributario: Mentre non si ravvisa nel diritto tributario solidarietà attiva, vi
sono situazioni giuridiche passive che possono far capo ad una pluralità di soggetti. Si distingue in particolare
tra: solidarietà in senso sostanziale, riferita all’obbligazione di pagare il tributo; solidarietà in senso
formale, che riguarda gli obblighi strumentali del contribuente e gli effetti degli atti dell’Amministrazione
finanziaria nel caso di obbligazioni solidali.
A sua volta, la solidarietà sostanziale si distingue tra :
1. Solidarietà paritetica: gli effetti di un’unica fattispecie sono contemporaneamente riferibili a distinti
soggetti e il presupposto è dunque posto in essere da più soggetti che si trovano, rispetto ad essa, nella
condizione prevista dalla norma. Esistono due ipotesi:
- l’unico fatto imponibile si riferisce per l’intero a più soggetti, in quanto volto ad evidenziare la loro capacità
contributiva e non invece a ripartire tra gli stessi il tributo (ciò si verifica solitamente nelle imposte reali
oppure indirette). Altri esempi: si pensi ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, gli eredi sono
obbligati solidalmente al pagamento dell’imposta nell’ammontare complessivamente dovuto da loro e dai
legatari…
La fonte della solidarietà passiva è controversa, si discute se sia applicabile l’art 1294 cc sulla responsabilità
in solido: “I condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente”. Per una
parte della dottrina tale articolo è applicabile dunque anche all’obbligazione tributaria, mentre per un’altra
(TESAURO) l’applicabilità è esclusa perché non esiste alcuna ragione per la quale quella norma del codice
civile dovrebbe essere applicata all’obbligazione tributaria e se al diritto tributario si applicassero le norme
del codice civile sarebbero superflue le disposizioni delle leggi tributarie che stabiliscono la solidarietà.

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-i soggetti si trovano nella relazione prevista dalla norma rispetto all’unica fattispecie, ma questa consiste in
un fatto che evidenzia una capacità contributiva riferibile, per quote, a più soggetti. Si pensi, ad ES, alla
solidarietà tra coeredi relativamente all’imposta di successione, dove la legge prevede esplicitamente la
solidarietà per l’imposta complessivamente dovuta. Qui, in effetti, si può ritenere l’esistenza di una pluralità
di distinti presupposti di imposta fra loro frazionabili, con la conseguenza che ciascun coerede risponderebbe
per fatto proprio in relazione alla frazione di presupposto a lui riferibile e per fatto altrui, in relazione alle
residue frazioni riferibili agli altri coeredi.
Trova invece applicazione, nella solidarietà paritetica, l’art 1299 cc, in base al quale chi ha pagato l’intero
può ripetere dai condebitori soltanto la quota di competenza di ciascuno di essi. Naturalmente, tale
competenza andrà determinata in ragione della partecipazione di ciascuno al presupposto di imposta, salvo
norme che stabiliscono una diversa ripartizione.
2. Solidarietà dipendente: il presupposto è riferibile ad uno o più soggetti, mentre la norma tributaria (per
tutelare l’interesse fiscale alla sicura e rapida esazione dei tributi) coinvolge con vincolo solidale
nell’obbligazione tributaria anche soggetti cui sicuramente non è riferibile la capacità contributiva
evidenziata dal presupposto.
Si distingue tra una solidarietà:
- contestuale, in cui gli elementi che subentrano nella fattispecie estensiva sussistono contemporaneamente
al verificarsi della fattispecie imponibile tipica;
- successiva, nella quale i predetti elementi subentrano dopo che si sono esauriti gli effetti della fattispecie
imponibile, di regola riferibili a modificazioni soggettive del rapporto. La solidarietà dipendente (ed in
particolare anche la figura del responsabile di imposta), costituisce concetto di elaborazione dottrinale, che
ha fatto riferimento al rapporto di pregiudizialità-dipendenza, caratterizzato dal fatto che l’obbligazione del
coobbligato dipendente esiste in quanto esiste quella principale. Ma le conseguenze di tale rapporto, sono
complesse, ponendosi da un lato il problema sostanziale se il coobbligato dipendente possa contestare il
merito dell’accertamento (e non soltanto le condizioni della propria responsabilità solidale), dall’altro quello
procedimentale dell’atto da notificare al coobbligato solidale.
Una prima impostazione sostiene che l’obbligato dipendente non sarebbe vincolato dall’imposizione
definitiva nei confronti del coobbligato principale e potrebbe contestarne i presupposti con un giudizio
autonomo.
Tale dottrina è contestata da chi sostiene la c.d. efficacia riflessa dell’accertamento definitivo (in sede
amministrativa o giurisdizionale) nei confronti del coobbligato dipendente, senza che ciò comporti profili di
costituzionalità. Conseguentemente, per quanto attiene al problema se l’Amministrazione finanziaria sia
tenuta ad esperire un’autonoma procedura di accertamento nei confronti del coobbligato dipendente,
dovrebbe essere risolto negativamente, potendo l’Amministrazione finanziaria utilizzare il ruolo emesso nei
confronti del debitore principale anche nei confronti del coobbligato dipendente, notificando a quest’ultimo
solo la cartella di pagamento.
L’art. 11 della l. 151/1991, come modificato dal d.lgs. 193/2001, dispone adesso che: se i soggetti sono
solidalmente tenuti al pagamento delle tasse, delle imposte dirette, dei tributi erariali…la cartella di
pagamento è notificata soltanto al primo intestatario della partita iscritta a ruolo; a ciascuno degli altri
soggetti tenuti in solido, invia una comunicazione informandolo del contenuto della notifica. La disposizione
si esprime in termini di primo intestatario, postulando che anche gli altri coobbligati siano intestatari del
ruolo e che nei confronti di questi ultimi sia possibile procedere ad una mera comunicazione. Essa sarebbe
applicabile sia nei confronti dei coobbligati dipendenti, nei cui confronti occorrerebbe non soltanto un titolo
che legittimi l’iscrizione a ruolo, ma anche la relativa iscrizione al ruolo.
La giurisprudenza costituzionale poi ha fornito una precisa soluzione al problema portando la giurisprudenza
di legittimità ad allinearsi alla sua decisione: si tratta della sentenza 184/1989 sulla responsabilità solidale dei
coniugi che hanno presentato un’unica dichiarazione congiunta, che prevede che il “coobbligato può tutelare
i propri diritti dinanzi al giudice competente entro i termini decorrenti dalla notifica dell’avviso di mora nei
propri confronti, nel caso in cui venga per la prima volta, mediante tale notifica, a legale conoscenza della
pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria in via solidale e ciò, eventualmente, anche per contestare
nel merito l’obbligazione tributaria del coniuge, proponendo, attraverso l’impugnativa dell’avviso di mora,

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gravame avverso l’accertamento operato nei confronti del marito” —> tale impostazione risulta però
incompatibile con la nuova disciplina degli accertamenti c.d esecutivi, non potendosi procedere alla
riscossione in capo al coobbligato per un titolo esecutivo formatosi nei confronti dell’obbligato principale.

Tipica ipotesi di responsabilità solidale dipendente è quella del responsabile d’imposta, riconducibile all’art.
64 co.3 d.p.r. 600/1973, secondo il quale “chi, in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento
dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibile a questi, ha diritto di rivalsa”.
Questa figura non va innanzitutto confusa con quei soggetti sui quali non incombe alcuna obbligazione, in
quanto semplicemente terzi esposti all’azione esecutiva del creditore su alcuni beni di loro proprietà gravati
da diritti reali di garanzia.
Esso viene coinvolto nel prelievo al fine di meglio assicurare il soddisfacimento della pretesa erariale,
attraverso l’ampliamento dei patrimoni escussi, ma proprio per il fatto che egli non è titolare della capacità
contributiva, bensì svolge solo una funzione di garanzia è richiesto un titolo giustificativo della prestazione.
È possibile individuare alcune figure di responsabili d’imposta:
- I notai per l’imposta di registro, dove le operazioni avvengono con il ministero o per il tramite di un
soggetto che riveste nell’ordinamento giuridico una particolare qualifica. Qui il responsabile, in virtù della
sua qualifica, è in grado di assicurarsi preventivamente le somme con le quali far fronte all’obbligazione.
- Il cessionario d’azienda; dei nuovi possessori di immobili per il pagamento di imposte, interessi e sanzioni,
iscritti o ascrivibili a ruolo a nome dei precedenti possessori; del rappresentante IVA del soggetto non
residente e senza stabile organizzazione in italia; del cessionario del credito IVA; del rappresentante
negoziale delle parti contraenti per l’imposta di registro…
- Le parti di uno dei molteplici negozi contenuti tutti nel medesimo atto, non necessariamente connessi, non
derivanti per la loro intrinseca natura l’uno dagli altri, obbligate (le parti) a rispondere anche dell’imposta
principale di registro relativa alle disposizioni cui i medesimi sono estranei; oppure i coniugi che si sono
avvalsi della facoltà di presentare su un unico modello la dichiarazione dei redditi di ciascuno di essi.
- La responsabilità della società partecipata per il debito dei soci nella trasparenza delle società di capitali,
oppure del consolidato fiscale, la responsabilità della controllante per le maggiori imposte derivanti da avvisi
di rettifica della dichiarazione medesima…
- Vi è una responsabilità solidale dipendente che discende dalle stesse regole generali civilistiche, qual è la
responsabilità dei soci delle società semplici, delle società in nome collettivo e dei soci accomandatari delle
società in accomandita. Tale responsabilità solidale vale limitatamente al periodo in cui si è stati soci e nei
soli rapporti con i creditori sociali (art. 2290 cc, sino al momento in cui la cessione della quarta sia stata
iscritta nel registro delle imprese o i terzi ne abbiano avuto conoscenza).
Per quanto riguarda invece, la responsabilità dei soci di società di capitali: l’art 36 d.p.r 602/73 modificato
con d.lgs 175/2014, prevede la responsabilità del liquidatore (e anche degli amministratori, qualora all’atto
dello scioglimento non si sia provveduto alla sua nomina) per le imposte non assolte dalla società di capitali,
laddove soddisfi crediti di ordine inferiore a quelli tributari oppure distribuisca ai soci, nella fase della
liquidazione, beni e somme della società (nei limiti della somma che l’Erario avrebbe altrimenti ottenuto
dalla liquidazione).
La responsabilità tributaria dei soci di società di capitali, ora non pare più disciplinata dall’art. 2495 cc
(secondo il quale: ferma restando l’estinzione della società dopo la cancellazione, i creditori sociali possono
far valere i loro crediti nei confronti dei soci sino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al
bilancio finale di liquidazione) poiché con le modifiche avvenute con il d.lgs 175/2014 la norma civilistica
parrebbe aver perso la propria autonomia, sul piano tributario.
Ad oggi perciò risulta applicabile l’art 36 che prevede una responsabilità dei soci e associati nei limiti del
valore dei beni ricevuti indipendentemente da qualunque comportamento del socio e presume che il valore
di quanto ricevuto sia proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato.
Tale norma non vale per le società di persone, per le quali restano ferme le maggiori responsabilità
civilistiche (i regimi di responsabilità patrimoniale).
Tale forma di responsabilità, introdotta dall’art 36, deve essere coordinata con altre norme, come l’art. 28
che prevede il differimento dell’estinzione della società dopo il decorso di 5anni dalla richiesta di

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cancellazione dal registro delle imprese. Oppure alle norme che disciplinano la scissione, dove alla norma
civilistica che fissa un limite alla responsabilità, se ne affianca una fiscale che prevede la responsabilità delle
beneficiarie per le imposte, le sanzioni, gli interessi e ogni altro debito.
La Corte costituzionale ha poi affermato che il collegamento con la capacità contributiva non esclude che la
legge stabilisca prestazioni tributarie a carico solidalmente, oltre che del debitore principale, ance di altri
soggetti non direttamente partecipi dell’atto assunto come indice di capacità contributiva e che
l’imposizione a carico di soggetti non direttamente partecipi dell’atto dev’essere legittimata da rapporti
giuridico-economici intercorrenti tra i soggetti.
Per il sostituto d’imposta si è vista la possibilità di far ricadere sul sostituto l’onere del tributo, perseguita
tramite la ritenuta che consente sicuramente di traslare il carico sul reale titolare della capacità contributiva.
Lo stesso dovrebbe essere perseguito per il responsabile d’imposta e a tal fine è sì previsto un diritto di
rivalsa, che però da solo non è sufficiente a prestare idonee garanzie. Occorre, infatti, che il soggetto sia in
grado ex lege di assicurarsi preventivamente le somme, oppure che vi sia un rapporto contrattuale tale da
potersi premunire contro il rischio di rimanere inciso dal tributo, oppure che ci sia un comportamento
ascrivibile al coobbligato. Infatti un conto è attribuire al soggetto un obbligo/diritto/facoltà di rivalsa (con le
connesse conseguenze) altro è garantire l’effettività che deve pure ritenersi presupposta dall’art 53 Cost. In
altri termini, ciò che rileva dal punto di vista del rispetto del principio di capacità contributiva non è tanto
l’attribuzione di una determinata posizione giuridica soggettiva in capo a colui che è tenuto a versa
l’imposta, quanto la concreta possibilità che questo soggetto ha di ottenere da colui che ha realizzato il
presupposto del tributo la somma di denaro necessaria per assolvere l’obbligazione tributaria.
Secondo l’autore del libro il principio di capacità contributiva impone di far pre l’avere l’interesse del privato
alla propria integrità patrimoniale, mentre da alcune sentenze della Corte costituzionale, sembrerebbe
emergere un (non condivisibile) favor per l’interesse “ordinamentale” alla corretta applicazione dei tributi.
Per quanto riguarda i rapporti interni: Il diritto di rivalsa del coobbligato dipendente si esercita per l’intero
anziché pro quota (come avviene invece nella solidarietà paritetica).
Infine, va ricordato come la solidarietà dipendente non è di solito responsabilità sussidiaria, sicché il Fisco
può in genere liberamente, escutere l’uno o l’altro soggetto senza doversi prima rivolgere al debitore
principale.
Il responsabile limitato: Fino a qui si è affrontata la tematica del coobbligato illimitato, cioè colui che
garantisce l’obbligazione con tutto il patrimonio. Esistono casi in cui la responsabilità è legata ad un
determinato complesso di beni. Ed è il caso del responsabile limitato, che versa in una situazione di mera
soggezione all’esecuzione, in quanto terzo titolare di beni aggredibili dall’Amministrazione finanziaria, in
forza di diritti di seguito derivanti da un privilegio speciale sui beni cui il tributo si riferisce, oppure in quanto
terzo assoggettato ad una responsabilità patrimoniale legata alla presenza di cespiti che, per la loro
particolare natura, rappresentano la naturale e oggettiva garanzia di soddisfacimento del debito d’imposta.
1.Status: Si tratta di soggetti a tutti gli effetti TERZI, coinvolti solo nella procedura esecutiva, senza che sorga
alcuna responsabilità solidale e pertanto hanno margini di tutela ridotti: l’atto di accertamento e la cartella
di pagamento non devono essere loro notificati e l’esecuzione sul bene non può aver luogo senza che sia
necessaria l’escussione preventiva dell’alienante. Tuttavia, si ritiene che esso possa dispiegare intervento
volontario o su istanza di parte nel giudizio riguardante l’accertamento e che possa far valere in giudizio le
eccezioni non sollevate dal debitore.
Nel caso in cui subisca l’espropriazione o la eviti pagando, egli potrà rivalersi nei confronti del dante causa,
surrogandosi nei diritti del Fisco.
2.Termini: sono previsti dei termini di decadenza dal privilegio entro i quali l’Amministrazione finanziaria
dovrà attivarsi.

Per quanto riguarda la solidarietà in senso formale, possono distinguersi due aspetti: 1) relativo agli
adempimenti strumentali (dichiarazioni, comunicazioni) dove l’adempimento di un condebitore solidale
libera gli altri; qui più che di solidarietà bisognerebbe parlare di obblighi soggettivamente fungibili. 2) è
quello dell’efficacia degli atti dell’Amministrazione finanziaria nei confronti dei condebitori solidali e dei
risvolti di tale efficacia nei rapporti interni. Giurisprudenza e dottrina, in seguito a numerosi scenari, sono

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giunte a ritenere applicabili anche al diritto tributario le regole civilistiche in materia di solidarietà, con la
conseguenza che il riferimento alla pluralità di rapporti obbligatori consente pacificamente a ciascuno di essi
di avere vicende diverse da quelle degli altri. Perciò i principi di fondo della disciplina civilistica trovano
applicazione così anche al diritto tributario: gli effetti degli atti compiuti da o nei confronti di un condebitore,
se favorevoli—> possono estendersi anche agli altri condebitori; se sfavorevoli—> non si estendono; se
neutri—> si estendono se l’interessato vuole profittarne. Tuttavia, la Cassazione non pare superare
l’orientamento consolidato per il quale (in materia tributaria) la solidarietà tra più soggetti tenuti al
pagamento del tributo non fa sorgere un rapporto unico e inscindibile, ma una pluralità di rapporti
obbligatori di identico contenuto.

“Supersolidarietà tributaria”: inizialmente, l’Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza ritenevano che


sia gli atti posti in essere da un solo coobbligati, gli atti del Fisco posti in essere nei confronti di un obbligato,
producevano effetti nei confronti di tutti gli altri, anche se questi ultimi non ne fossero venuti a conoscenza.
Tale tesi però fu dichiarata incostituzionale per violazione degli artt. 24 e 113 Cost., risolvendosi (quando
applicata agli atti di accertamento del Fisco) in una limitazione del diritto dei soggetti non notificati a far
valere in giudizio le proprie ragioni.
L’atto di accertamento produce effetti solo nei confronti dei soggetti cui è stato notificato e se
l’amministrazione vuole aggredire più patrimoni, moltiplicando la garanzia, deve notificare l’atto di
accertamento a tutti i coobbligati. Il coobbligato che abbia ricevuto la notifica potrebbe far notificare l’atto
agli altri coobbligati, tenuto conto che la giurisprudenza ritiene che l’atto notificato ad uno dei coobbligati
interrompa i termini di decadenza nei confronti di tutti i coobbligati.
Con la sentenza 9859/2014 la Cassazione ha affermato che: “l’azione di regresso spetta al coobbligato
solidale che ha pagato solo qualora egli abbia sostenuto il pagamento di somme certe il cui obbligo gravava
su tutti, in relazione alle quali il creditore abbia liberamente scelto di rivolgersi all’uno invece che all’altro
coobbligato solidale. Non spetta quando il coobbligato, concludendo un accordo con l’Amministrazione,
abbia assunto esclusivamente in proprio l’obbligo di pagare una somma seppur allo stesso titolo per cui
sussiste l’obbligazione solidale, senza coinvolgere nel procedimento di accertamento gli altri coobbligati”.
Limite della definitività per mancata impugnazione: sentenza 7053/91 SS.UU Cassazione: riconoscendo
l’ipotesi in cui un coobbligato, dopo aver ricevuto la notifica, decida di non impugnare l’atto ( per cui l’atto è
divenuto definito nei suoi confronti ) la Cassazione riconosce la possibilità di avvalersi del giudicato reso nei
confronti di altro coobbligato con le seguenti limitazioni:
- Sussistenza di un giudicato di segno opposto
- La circostanza che il giudicato favorevole sia basato su ragioni personali
- Avvenuto pagamento dell’imposta in base ad accertamento divenuto definitivo perché non impugnato.
Problema del soggetto notificato e impugnante che abbia tuttavia subito un giudicato sfavorevole, senza
essersi potuto avvalere del giudicato favorevole di un altro coobbligato: con la sentenza 12317/2016 la
Cassazione ha negato la possibilità di espansione del giudicato favorevole, perché l’esistenza del giudicato
diretto è preclusiva di tale possibilità nonostante l’esistenza di un’ulteriore giudicato favorevole al
coobbligato.
Litisconsorzio necessario: La Corte di Cassazione nel corso degli anni (2000/2011/2014) ha espressamente
sostenuto la non configurabilità di una situazione di litisconsorzio necessario e la “non riunione” d’ufficio dei
processi. Infatti, la Cassazione sostiene che la solidarietà tra più soggetti tenuti al pagamento del tributo non
fa sorgere un rapporto unico ed inscindibile, ma una pluralità di rapporti obbligatori di identico contenuto
che non danno pertanto luogo ad una situazione processuale di litisconsorzio necessario.

Capitolo Dieci: l’obbligazione tributaria e le sue vicende modificative ed


estintive.
L’obbligazione tributaria: il presupposto del tributo è un atto o fatto, al cui verificarsi il tributo è dovuto. In
realtà, il tema della nascita dell’obbligazione è più complessa e la dottrina si è sempre divisa in due filoni per
spiegare la nascita dell’obbligazione tributaria.
Tesi “dichiarativista”: la nascita si riconduce alla realizzazione del presupposto di fatto del tributo.

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Tesi “costituitivista”: l’obbligazione sorge solo a seguito dell’emanazione di un atto autoritativo dell’ente
impositore, ossia dell’esercizio di un potere.
Natura: L’obbligazione tributaria, anche se obbligazione di diritto pubblico, in nulla differisce dalle
obbligazioni del diritto privato, fermo restando che la sua disciplina è fonte esclusivamente legale.
Infatti, anche qualora vi siano delle lacune legislative che interessano la materia tributaria, queste non
potranno essere colmate direttamente con le norme del codice civile, ma si dovrà ricorrere allo strumento
analogico.
La successione nel debito d’imposta e le altre modificazioni soggettive del rapporto:
Art 65 d.p.r. 660/73: prevede responsabilità solidale dei coeredi per le obbligazioni per tributi il cui
presupposto si sia verificato anteriormente alla morte del dante causa.
Questa è una deroga al principio civilistico contenuto negli artt.752-754, per il quale gli eredi sono tenuti al
pagamento in proporzione della loro quota ereditaria, che la giurisprudenza della Cassazione ritiene
applicabile alle sole imposte sui redditi, in considerazione della natura eccezionale della norma.
Gli eredi oltre a subentrare nella titolarità del debito, succedono al de cuius in tutti gli obblighi connessi
all’adempimento dell’obbligazione tributaria e sono soggetti a specifiche comunicazioni.
Sul fronte attivo, agli eredi si trasmettono i crediti di rimborso nei confronti dell’ente impositore e i diritti di
rivalsa verso altri privati e resta ferma la posizione di rinunciare o accettare con beneficio d’inventario
l’eredità. Imposte diverse da quelle sui redditi: trovano diretta applicazione le disposizioni generali
rispettivamente contenute nell’art 2504 cc secondo cui la società che risulta dalla fusione o quella
incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione.
Delegazione e espromissione: non essendo possibile la liberazione del debitore originario in considerazione
del principio di indispensabilità dell’obbligazioni tributaria, parte della dottrina ritiene possibile ammettere la
delegazione e l’espromissione cumulative, posto che da esse l’Erario trarrebbe esclusivamente un vantaggio
consistente nel rendere il terzo irrevocabilmente tenuto al pagamento del tributo insieme al debitore
originale
L’estinzione dell’obbligazione tributaria:
A. Adempimento: In primo luogo, l’obbligazione tributaria si estingue mediante adempimento. Tipicamente,
l’adempimento si attua con il pagamento di una somma di denaro, sempre più frequentemente attraverso
deleghe irrevocabili a banche convenzionate. Sono tuttavia previsti dei casi di adempimento mediante “datio
in solutum”, in cui il contribuente può assolvere il tributo mediante la dazione di beni di interesse artistico,
storico o archeologico, previa accettazione del creditore. Nel caso di ritardato adempimento, la disciplina
delle singole imposte individua la misura e la decorrenza degli interessi.
In caso di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, l’Amministrazione finanziaria non può disporre del suo
credito, non risultando ammesse né la novazione, né la remissione del debito, né la rinuncia preventiva
all’applicazione del tributo.
B. Compensazione: Ai sensi dell’art. 8, l. 212/2000, “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per
compensazione”, tale articolo ha quindi previsto la compensazione quale istituto generale. La dottrina e
parte della giurisprudenza di merito ne sostengono l’immediata operatività, escludendo che essa possa
essere condizionata da regolamenti attuativi. La giurisprudenza di legittimità, al contrario, oscilla tra
l’attribuzione a tale disposizione di una natura meramente programmatica, in assenza di regolamenti
attuativi, altre secondo cui la compensazione sarebbe un principio immanente del nostro ordinamento.
C. Confusione: Un’ulteriore modalità di estinzione dell’obbligazione tributaria consiste nella confusione,
ossia (come nel diritto civile) quando le qualità di creditore e debitore convergano in capo al medesimo
soggetto di diritto, anche se l’unica ipotesi prospettabile in materia tributaria è quella dell’ente impositore
cui sia devoluta l’eredità del contribuente debitore.
Altra modalità estintiva dell’obbligazione tributaria è rinvenibile nelle normative di condono fiscale, con le
quali viene consentito al contribuente di definire in via agevolata l’obbligazione, con il pagamento di una
somma ridotta. (Metodo che oggi trova però un forte ostacolo nel diritto europeo e nell’IVA).
Per le obbligazioni derivanti dall’applicazione di sanzioni amministrative e penali-tributarie, è la morte
dell’obbligato che ne determina l’estinzione.

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D. Decadenza e Prescrizione: L’obbligazione tributaria può altresì estinguersi per intervenuta decadenza
dell’azione amministrativa di accertamento o liquidazione, cioè per il mancato esercizio di tipici poteri
amministrativi; oppure per prescrizione del credito ormai liquido ed esigibile, ma non azionato
esecutivamente nei termini di legge.
Quanto alla prima, infatti, la legge disciplina i termini di decadenza dell’azione di accertamento, diversi da
imposta ad imposta. I termini di decadenza operano tuttavia anche a sfavore del contribuente, ad esempio
in relazione al potere di chiedere il rimborso dell’imposta.
Quanto alla seconda, una volta che il credito sia divenuto liquido ed esigibile, decorre il termine di relativa
prescrizione, che si ritiene essere quello decennale previsto dalla disciplina generale codicistica ex art.
2946cc. E ciò nonostante l’art. 2934cc escluda espressamente l’applicazione della prescrizione ai diritti
indisponibili. Tale fenomeno è comunque giustificabile mediante una triplice considerazione: i) la norma
citata si riferisce ai diritti indisponibili dei rapporti di diritto privato; ii) vi sono diverse norme tributarie che
presuppongono l’esistenza di un termine generale di prescrizione decennale; iii) è lo stesso art.8 dello
Statuto dei diritti del contribuente che fa riferimento all’impossibilita di prorogare il limite ordinario stabilito
dal codice civile. I termini quindi non sono prorogabili. Vengono tuttavia previste delle deroghe, ad ES, in
caso di mancato funzionamento degli uffici, da accertare mediante un apposito procedimento.
Va poi ricordato che l’estinzione della società di persone (per effetto della sua cancellazione dal registro
delle imprese, pur privandola della capacità giuridica e processuale) determina un fenomeno successorio in
capo ai soci e pertanto non comporta l’estinzione dell’obbligazione (solidale, illimitata e sussidiaria) del socio
stesso.

PARTE II: L’ATTUAZIONE DEL TRIBUTO


Capitolo Undici: i moduli attuativi dell’obbligazione tributaria.
La nascita dell’obbligazione tributaria: Per molto tempo, l’analisi del diritto tributario si è risolta nello studio
dei rapporti tra la nascita dell’obbligazione tributaria e l’accertamento inteso come atto di esercizio della
funzione amministrativa di imposizione.
Peraltro, tale studio è stato complicato dalla circostanza che, fin dalle origini del diritto tributario, è stato
possibile riscontrare una pluralità di moduli attuativi dei tributi potendo distinguere tra:
1. Tributi senza accertamento: ossia quelli nei quali è assente la fase di accertamento in quanto: a) il
concretarsi della fattispecie astratta prevista dalla norma impositiva determina direttamente la necessità
di eseguire la prestazione da parte del soggetto passivo; e b) all’esecuzione della prestazione segue poi il
controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria circa l’esatto adempimento dell’obbligazione imposta
(ES: tasse di concessione governativa, tasse di circolazione…).
2. Tributi con accertamento: cioè quelli nei quali è presente una fase di accertamento. Vi rientrano atti
posti in essere dal contribuente in adempimento di specifici obblighi posti a suo carico carico dalla legge,
ma anche atti posti in essere dall’Amministrazione finanziaria nell’esercizio di poteri e facoltà ad essa
conferiti dalla legge (ES: le imposte sul reddito, IVA, IRAP…).

Mentre con riferimento ai tributi SENZA accertamento nessuno dubita che la realizzazione nel concreto della
fattispecie imponibile comporti direttamente la nascita (in capo al soggetto passivo) dell’obbligo di
adempiere alla prestazione impositiva, per quanto riguarda i tributi CON accertamento, si sono formate
teorie differenti in particolare due teorie: teoria dichiarativa e teoria costitutiva.

Iniziamo ora dalla teoria dichiarativa: la norma disciplina direttamente il fatto, collegandovi determinati
effetti sostanziali. Quindi la posizione giuridica di cui è titolare il contribuente (che assume rango di diritto
soggettivo) discende direttamente dal presupposto e l’intervento amministrativo in fase di accertamento
assolve unicamente la funzione di mera applicazione delle norme.
Più precisamente (e in sintesi) si sostiene che:
- Lo schema tipico del rapporto d’imposta deve identificarsi in quello dell’obbligazione legale, ossia un
rapporto di debito-credito, non diverso dalle comuni obbligazioni privatistiche;

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- La nascita dell’obbligazione tributaria si collega direttamente al verificarsi della fattispecie astratta prevista
dalla stessa norma tributaria secondo lo schema norma-fatto;
- Gli atti di accertamento dell’Amministrazione finanziaria hanno efficacia meramente dichiarativa e hanno la
funzione di rendere liquide ed esigibili obbligazioni già sorte in forza della legge;
- Il compito dell’Amministrazione finanziaria è definito in termini di mero accertamento di rapporti
interamente regolati dalla legge;
- Le regole dettate per le obbligazioni civilistiche si applicano in linea di massima anche ai rapporti tributari;
- Le controversie tributarie hanno ad oggetto diritti soggettivi e sono soggette alle normali regole del giudizio
di accertamento sui rapporti obbligatori.

Secondo la teoria costitutiva: l’esercizio del potere di accertamento e la conseguente emanazione del
relativo atto di natura provvedimentale costituiscono il momento costitutivo dell’obbligazione tributaria. Per
quanto attiene alla posizione giuridica del contribuente (secondo molti) essa si qualifica come diritto
soggettivo (ma ci sono altri autori che la riconducono all’interno dello schema dell’interesse legittimo).
Quindi, per i sostenitori di questa teoria, l’obbligazione sorge con la dichiarazione o per effetto dei
provvedimenti dell’Amministrazione finanziaria.
E più precisamente si sostiene che:
- Anteriormente all’emanazione dell’avviso di accertamento non può parlarsi di un rapporto di
debito/credito tra Stato e cittadino. In quanto l’obbligazione tributaria può essere adempiuta solo ed
esclusivamente dopo la realizzazione di alcuni schemi procedurali caratterizzati, il più delle volte, dalla
presenza di atti provenienti dall’Amministrazione finanziaria;
- Solo con il concreto esercizio della funzione amministrativa impositiva deriva il sorgere dell’obbligazione
tributaria, secondo lo schema norma-potere-fatto;
- Nei tributi con accertamento, le norme regolatrici dell’imposta hanno natura di norme strumentali o di
azione, ossia di norme attributive alla Pubblica Amministrazione una funzione amministrativa impositiva e
dei correlati poteri autoritativi;
- Dal momento che l’atto di accertamento ha natura di provvedimento amministrativo con efficacia
costitutiva del rapporto di imposta, la tutela giurisdizionale è volta esclusivamente all’annullamento dello
stesso (impugnazione-annullamento);
- La situazione soggettiva del contribuente si inquadra: secondo alcuni nello schema del diritto soggettivo,
secondo altri in quello dell’interesse legittimo.

La Cassazione propende per la teoria dichiarativa: 2013 —> ha affermato che l’accertamento tributario non
fa sorgere l’obbligazione tributaria, ma segue alla stessa con efficacia dichiarativa. L’accertamento tributario
non è dunque condizione di esistenza o elemento costitutivo del credito d’imposta (teoria costituiva), ma
condizione di esigibilità del credito tributario (teoria dichiarativa).

Procedimento tributario e procedimento amministrativo.


La maggiore attenzione della dottrina alla fase di attuazione del tributo ha avuto quale denominatore
comune l’inquadramento del rapporto di imposta entro il modello del procedimento amministrativo. Sono
nate diverse tesi a riguardo: secondo un primo orientamento, l’identificazione dell’iter di attuazione del
prelievo tributario con il procedimento amministrativo si risolve in una mera descrizione delle modalità di
svolgimento del rapporto obbligatorio di imposta (poiché tale rapporto, nato per effetto della legge al
verificarsi del presupposto) è già di per sé espressione di un collegamento tra le situazioni soggettive del
contribuente e dell’Amministrazione.
Un secondo orientamento della dottrina, considerava il procedimento come l’unico mezzo atto a collegare
situazioni soggettive non corrispondenti, quali gli obblighi del contribuente e il potere di imposizione
dell’Amministrazione —> tutte preordinate allo stesso fine: la nascita dell’obbligazione tributaria.
Ad oggi, a seguito dell’evoluzione del sistema normativo fiscale, vi è stato il definitivo abbandono di ogni
tentativo di ricostruire secondo un omogeneo modello procedimentale l’attività dell’Amministrazione
finanziaria. La giurisprudenza di legittimità mostra, invece, di ammettere l’applicabilità della legge 241/1990

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alla materia tributaria, ora ritenendo, in linea generale, che “i principi generali dell'attività amministrativa,
stabiliti dalla l. 241/1990, si applicano, salva la specialità, anche per il procedimento amministrativo
tributario in quanto sul piano normativo generale si deve tener presente che il procedimento amministrativo
(anche quello tributario) è la forma della funzione e che il potere di adottare l’atto amministrativo finale è
solo l’esercizio terminale di un potere che è stato frazionato, in conformità alle norme sul procedimento e
quindi sulla divisione del potere amministrativo anche nel potere di iniziativa”.
L’evoluzione dell’ordinamento tributario ha dimostrato quindi l’impossibilità di ricondurre ad un unitario e
omogeneo modello procedimentale l’attività dell’Amministrazione finanziaria. E ciò perché: in primo luogo,
l’attività dell’Amministrazione finanziaria (diretta all’attuazione del prelievo) si articola in schemi diversi a
seconda del tributo al quale ci si riferisce. In secondo luogo, pur nell’ambito di un medesimo tributo (è il
caso delle imposte sui redditi e dell’IVA), il procedimento è a schema variabile —> ma perché? Perché per
raggiungere il fine del procedimento (cioè l’attuazione del prelievo) possono essere sufficienti solo atti del
contribuente (come la dichiarazione ed il conseguente versamento dell’imposta dovuta) oppure possono
essere necessari uno o più atti amministrativi, secondo sequenze diverse.
Altri elementi sono ravvisabili all’interno della fase istruttoria, nell’ambito della quale l’organo procedente
può decidere di avvalersi di uno o più dei molti poteri istruttori previsti dalla legge, ponendo in essere di
conseguenza i relativi atti e attività secondo moduli e successioni non prefissati.
Ancora, l'attività dell’Amministrazione finanziaria non si esaurisce nella fase istruttoria e di accertamento,
ma abbraccia anche la fase sanzionatoria tributaria e la fase della riscossione.
Infine, va sottolineato il fatto che la delimitazione del contenuto del procedimento tributario di
accertamento risente inevitabilmente del progressivo ampliamento del concetto stesso di “accertamento”.
Infatti, la funzione impositiva dell’Amministrazione ha assunto con il tempo sempre maggiore articolazione
(a seguito dell’introduzione di istituti diretti a definire in modo anticipato alcuni aspetti dell’obbligazione
tributaria, oppure sono diretti a definire l’obbligazione in via amministrativa successivamente all’emissione
dell’atto di accertamento…). Benché dunque molti fattori contribuiscano ad ampliare il concetto di
procedimento tributario e a renderne variabile la struttura, se si considera il modello attuativo delle imposte
sui redditi e dell’IVA, è possibile identificare le seguenti “fasi” in cui si snoda il modulo attuativo tipico del
rapporto impositivo, esse sono: presupposto, dichiarazione, liquidazione e controlli formali, controlli
sostanziali, avviso di accertamento, riscossione, espropriazione forzata.
1) Presupposto d’imposta: si collega all’individuazione da parte del legislatore dell’indice di forza
economica. Nelle imposte sui redditi tale presupposto è costituito, secondo l’art. 1 TUIR, dal possesso di
redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie previste dal legislatore, mentre nel caso dell’IVA
esso si identifica nell’effettuazione di cessioni di beni o prestazioni di servizi nel territorio dello Stato da
parte di soggetti esercenti impresa, arti o professioni, nonché nell’importazione di beni da parte di
qualunque soggetto. A seconda che il contribuente integri o meno il presupposto d’imposta, sorgono in
capo ad esso obblighi riferiti alla presentazione della dichiarazione e di versamento del tributo. Bisogna
precisare che nel nostro ordinamento è lo stesso contribuente a procedere alla liquidazione dell’imposta
dovuta (cd.autoliquidazione del tributo), senza alcun coinvolgimento dell’Amministrazione finanziaria.
Tale autoliquidazione avviene in base alla dichiarazione e costituisce una forma di versamento contenuta
nella più ampia categoria dei versamenti diretti (in cui rientrano anche i versamenti per ritenute alla
fonte e i versamenti per acconti d’imposta). Il “presupposto” o oggetto dell’imposta costituisce dunque
una manifestazione di capacità contributiva del soggetto, alla quale la legge ricollega l’obbligo di
pagamento di uno specifico tributo. Il presupposto è quindi il compimento di una serie di atti, i quali
sono soggetti a registrazione, cioè che vanno registrati su un determinato registro. Si registra l’atto per
un obbligo tributario ma anche per un proprio interesse, un interesse della certezza dell’atto. Se il
presupposto non si verifica o si è verificato in misura inferiore e il contribuente ha pagato in più rispetto
a quanto dovuto: si avrà il rimborso di imposta. Perciò, in caso di mancata integrazione del presupposto
di imposta, il contribuente non è tenuto (in linea generale) né alla presentazione della dichiarazione
(salve le eccezioni richieste dalla legge) né al versamento del tributo —> qualora, però, il contribuente
proceda al versamento del tributo pur non avendo integrato il presupposto d’imposta (o versi il
contributo in misura superiore rispetto a quella dovuta) sorge in capo a questi il diritto al rimborso.

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2) Dichiarazione: qualora si integri il presupposto di imposta, sorge in capo al contribuente l’obbligo di
presentazione della dichiarazione, quale atto volto a potare a conoscenza del Fisco la realizzazione del
presupposto stesso. Essa costituisce la base per l’autoliquidazione del tributo ad opera del contribuente
e dunque si collega anche alla fase della riscossione del tributo. Se è vero che l’obbligo di presentazione
della dichiarazione si correla alla verifica del presupposto, non mancano dunque casi in cui pur
integrando il presupposto, il contribuente non è tenuto alla presentazione della dichiarazione —> si
pensi ad ES (per quanto riguarda le imposte sui redditi) al caso di soggetti esonerati dall’obbligo di
dichiarazione, pur in presenza di un reddito (purché tale reddito non ecceda un determinato
ammontare). Quanto all’IVA, invece, un soggetto non è tenuto alla presentazione della dichiarazione
quando, pur avendo posto in essere operazioni comprese nel campo di applicazione del tributo, abbia
effettuato nel periodo di imposta solo operazioni esenti.
Vi sono poi casi in cui il contribuente viola l’obbligo di presentazione, omettendo di presentarla o ne
presenti una affetta da nullità. Omissione: Si considera quindi “omessa” non solo quando la sua
dichiarazione manchi del tutto, ma anche nel caso in cui essa sia presentata oltre i 90 giorni dalla
scadenza del termine utile. Nullità: La dichiarazione è invece affetta da nullità allorché essa non rechi la
sottoscrizione del contribuente ovvero di colui che ne ha la rappresentanza legale o negoziale, nonché
ove essa non sia redatta su modelli conformi a quelli approvati e resi disponibili dall’Amministrazione
finanziaria.
La dichiarazione presentata oltre i 90 giorni pur considerandosi omessa ai fini della successiva fase di
accertamento, costituisce titolo per l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle somme dovute.
3) Liquidazione e controlli formali: attività queste che, avendo ad oggetto la dichiarazione del
contribuente, non possono naturalmente essere svolte qualora questi ne abbia, legittimamente o
illegittimamente, omesso la presentazione.
La liquidazione è prevista per le imposte sui redditi (art. 36-bis d.p.r. 600/1973) ed è finalizzata a
correggere esclusivamente gli errori materiali e di calcolo riguardanti i versamenti delle imposte, la
determinazione degli imponibili e comunque gli errori rilevabili direttamente dalla dichiarazione.Tale
attività di liquidazione ha carattere generalizzato, non richiede lo svolgimento di alcuna attività di ricerca
di informazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria (fondandosi esclusivamente sulle risultanze
della dichiarazione o su dati già a disposizione della stessa Amministrazione) e non prevede
l’instaurazione di un contraddittorio con il contribuente, essendo disposta solo una comunicazione
dell’esito del controllo. La partecipazione del contribuente è limitata al caso in cui, a seguito del
ricevimento della comunicazione, esso intenda fornire chiarimenti all’Amministrazione procedente su
dati o elementi non considerati. Qualora dalla liquidazione della dichiarazione emerga un’imposta o una
maggiore imposta dovuta, si evidenzia un collegamento immediato e diretto tra la fase in discorso e
quella della riscossione, atteso che l’Amministrazione procederà, successivamente alla menzionata
comunicazione, all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle somme dovute. Del pari, qualora emerga
una posizione di credito del contribuente, si procede al rimborso del quantum non dovuto dal
contribuente. Diversamente dalla liquidazione della dichiarazione, il controllo formale previsto dall’art.
36-ter d.p.r. 600/1973 ha carattere eventuale (vi provvedono gli uffici sulla base di criteri selettivi
determinati dal Ministro delle Finanze) e presuppone un’attività articolata da parte degli uffici, chiamati
all’espletamento di una ridotta attività istruttoria anche con il coinvolgimento del contribuente, al quale
può essere richiesto di esibire documenti che giustifichino determinate voci della dichiarazione.
Alla fine del controllo formale della dichiarazione, l’ufficio è tenuto a comunicare al contribuente i motivi
che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili, delle imposte, dei contributi…al fine di consentire al
contribuente di esporre (nei 30 giorni successivi al ricevimento della comunicazione) eventuali
osservazioni. Qualora risulti confermata l’esistenza di un debito d’imposta si procede all’iscrizione a
ruolo a titolo definitivo delle somme dovute.
4) Controlli sostanziali: rivolti a verificare la corretta rappresentazione dei fatti in dichiarazione e la
corretta interpretazione delle norme applicabili. Si tratta quindi della fase di accertamento “in senso
stretto”, avente ad oggetto l’individuazione del presupposto di fatto posto in essere dal contribuente e
che si compone di un complesso di atti e fatti, legati in procedimento ed eventualmente in sub-

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procedimenti. Per quanto riguarda l’iniziativa del procedimento di accertamento, tale potere spetta non
solo agli organi dell’Amministrazione finanziaria, bensì anche alla Guardia di Finanza (ex art. 33 co3 d.p.r.
600/1973). Si tratta, dunque, di un procedimento ad iniziativa d’ufficio, non potendo ascrivere alla
dichiarazione una funzione di impulso procedimentale.
Si evince qui il carattere meramente eventuale dell’attività di controllo sostanziale: anche qui
l’Amministrazione procede al controllo delle sole dichiarazioni individuate in base a criteri selettivi, che
individuano quelle categorie di contribuenti la cui situazione fiscale risulta anomala o comunque che
impone degli accertamenti. In questo senso, dunque, la fase di iniziativa procedimentale consiste
nell’individuazione (da parte dell’Amministrazione) dei contribuenti da controllare in base ai criteri
summenzionati, fermo restando il carattere non vincolante di tali criteri (dal momento che
l’Amministrazione può procedere al controllo anche di soggetti che non rispondono a tali
caratteristiche).
Attività istruttoria: La funzione dei controlli sostanziali, da individuarsi nella determinazione dell’an e del
quantum del presupposto del tributo, necessita di un’attività conoscitiva da parte dell’Amministrazione
che deve essere sufficientemente ampia da consentire alla stessa Amministrazione l’acquisizione di tutti
gli elementi rilevanti ai fini della corretta determinazione del presupposto d’imposta. Sulla scorta degli
elementi raccolti nell’ambito dell'attività istruttoria, gli organi procedenti (siano essi appartenenti
all’Amministrazione finanziaria o alla Guardia di Finanza) esprimono le proprie valutazioni conclusive in
merito alla illegittimità o meno del comportamento del contribuente.
A prescindere dalle valutazioni espresse dai vari organi che hanno proceduto all’attività istruttoria, il
giudizio sui risultati dell’attività di controllo è rimesso esclusivamente all’Amministrazione finanziaria
(fase della decisione) che può prevedere che:
- I risultati dell’istruttoria coincidono con la determinazione qualitativa e quantitativa del presupposto
effettuata dal contribuente in sede di dichiarazione;
- La dichiarazione effettuata dal contribuente non era veritiera (cioè che possa aver integrato il
presupposto di imposta in modo diverso, dal punto di vista qualitativo/quantitativo, rispetto a quanto
dichiarato). In questo caso l’Amministrazione finanziaria procede con l’emissione di un avviso di
accertamento avente contenuto rettificativo dell’adempimento spontaneo del contribuente.
(Dichiarazione omessa: nel caso di dichiarazione omessa tali accertamenti hanno sempre esito positivo).
5) Avviso di accertamento: contenuto rettificativo dell’adempimento spontaneo del contribuente.
Occorre tener presente che, anche qualora l’Amministrazione finanziaria ritenga la dichiarazione
presentata dal contribuente non veritiera, non sempre la stessa procede all’emanazione dell’avviso di
accertamento: ciò a motivo della presenza di una gamma sempre più ampia di strumenti deflativi del
contenzioso tributario in cui il contribuente, trovandosi in una situazione di lite “potenziale” con
l’Amministrazione stessa, è portato a versare subito (in tutto o in parte) l’imposta oggetto di
contestazione, rinunziando al contenzioso e accedendo così ad una serie di vantaggi (quali, la riduzione
delle sanzioni amministrative e penali, la copertura da possibili futuri accertamenti sulla stessa annualità,
il pagamento dilazionato delle somme dovute, ecc.). In questa ipotesi, l’emissione dell’avviso di
accertamento è sostituita dall’emissione di un atto di definizione della pretesa tributaria, alla formazione
del quale partecipa lo stesso contribuente. Il riferimento è in particolare all’accertamento con adesione
avente ad oggetto i rilievi formulati nel processo verbale di constatazione, che si connota per
l’intervento della volontà “adesiva” del contribuente in un momento antecedente l’adozione dell’avviso
di accertamento.
Nell’ipotesi in cui il contribuente abbia omesso la presentazione della dichiarazione o abbia presentato
una dichiarazione affetta da nullità, la valutazione (prima degli organi che hanno provveduto all’attività
istruttoria e poi l’Amministrazione finanziaria) riguarderà l’illegittimità della condotta del contribuente
stesso —> e l’Amministrazione procederà all’accertamento d’ufficio (laddove l’avviso che ne scaturisce
ha contenuto integralmente sostitutivo di quello della dichiarazione del contribuente, se presentata)
connotato da un minor rigore probatorio (rispetto a quello richiesto per l’accertamento in rettifica della
dichiarazione presentata). Segue…

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6) Riscossione: finalizzata a consentire all’Erario di incassare i tributi dovuti dal contribuente. Si tratta di
una fase che sottostà al principio di tipicità, nel senso che gli obblighi di versamento in capo ai
contribuenti e i poteri di riscossione, anche forzata, da parte dell’Amministrazione finanziaria, seguono
procedure ben precise, stabilite dalla legge. Essa può avere natura spontanea o forzata (coattiva), nei
casi in cui il contribuente non adempia volontariamente alla propria obbligazione tributaria.
L’atto tipico della fase della riscossione è l’iscrizione a ruolo, atto recettizio che costituisce titolo
esecutivo, in quanto in base ad esso si può immediatamente procedere alla riscossione coattiva.
L’iscrizione a ruolo del contribuente si distingue a seconda che sia “a titolo provvisorio” ovvero “a titolo
definitivo”. Sono iscritte a titolo definitivo le maggiori imposte emergenti dalla liquidazione della
dichiarazione ovvero dal suo controllo formale; sono iscritte a titolo provvisorio, invece, le imposte e i
relativi interessi accertati da avvisi non ancora definitivi.
Cartella di pagamento: Il “ruolo”, quale mero elenco dei debitori delle imposte formato
dall’Amministrazione finanziaria, non ha contenuto individuale, nel senso che non è atto specificamente
riferito al singolo contribuente debitore. Tale fine è assolto invece dalla cartella di pagamento il cui
contenuto si risolve in un estratto a portata individuale del ruolo dei debitori. A differenza del ruolo, la
cartella di pagamento è atto non dell’amministrazione finanziaria, bensì dell’Agente della Riscossione, il
quale provvede a redigerla e a notificarla al contribuente entro il termine di decadenza di cui all’art. 25,
d.p.r. 602/1973.Tuttavia, bisogna dire che la netta separazione delle fasi di adozione dell’avviso di
accertamento e di riscossione del quantum dovuto è venuta meno a partire dal 2011, a partire cioè dal
momento di efficacia della riforma operata dall’art. 29 del d.l. 78/2010, che ha introdotto nel nostro
ordinamento i cd. accertamenti esecutivi, sia pur limitatamente alle imposte sui redditi, all’IVA e all’IRAP.
Le modifiche hanno riguardato il contenuto dell’avviso, prevedendo che esso debba contenere anche
l’intimazione ad adempiere entro il termine di presentazione del ricorso (60 giorni dalla notifica) e
all’obbligo di pagamento degli importi nello stesso indicati. Mediante tali modifiche è stata eliminata la
fase dell’iscrizione a ruolo, per cui l’agente della riscossione (al quale è affidata la riscossione delle
somme decorsi 30 giorni dal termine ultimo per effettuare il pagamento), sulla base dell’avviso di
accertamento e senza la preventiva notifica della cartella di pagamento, può ora direttamente procedere
ad espropriazione forzata.
7) Espropriazione forzata: Al mancato adempimento entro il termine previsto (60 giorni dalla notifica) del
debito recato dalla cartella di pagamento ovvero dall’avviso di accertamento, fa seguito l’inizio
dell’espropriazione forzata, cui provvede l’agente della riscossione. Tale fase trova la propria disciplina
generale nelle regole processuali-civilistiche applicabili per l’esecuzione forzata tra privati.
Il principale tratto differenziale della riscossione esattoriale rispetto all’ordinario processo di esecuzione
è costituito dal ruolo dell'autorità giudiziaria: mentre il privato è tenuto a rivolgersi a questa per il
compimento dei diversi atti in cui consiste l’espropriazione forzata, l’agente della riscossione (quale
soggetto che opera a tutela di un interesse di natura pubblicistica) agisce direttamente, al di fuori
dell’intervento dell'autorità giudiziaria. Se è vero, dunque, che le forme di espropriazione forzata che
connotano la riscossione esattoriale non si discostano da quelle previste dal codice di procedura civile,
ciò che sottolinea la differenza sta nel potere riconosciuto all’agente della riscossione di compiere
direttamente gli atti tipici di tali forme di espropriazione, senza l’intermediazione dell’autorità
giudiziaria. Qualora l’espropriazione non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di
pagamento (o dall’avviso di accertamento esecutivo) l’agente della riscossione, prima di intraprendere
l’espropriazione forzata è tenuto a notificare al contribuente l’avviso di mora, contenente l’intimazione
al contribuente, di adempiere al pagamento delle somme dovute entro 5 giorni.

Dopo aver analizzato le fasi che caratterizzano il procedimento di attuazione delle imposte sui redditi e
dell’IVA, occorre verificare quali siano le regole e gli strumenti a favore del contribuente.
Con particolare riferimento alla partecipazione del contribuente al procedimento impositivo, essa (assieme
all’attività dell’Amministrazione finanziaria) è finalizzata alla determinazione di un’obbligazione tributaria,
corrispondente alla reale capacità contributiva del soggetto passivo. Può accadere, in concreto, che le
opinioni dell’Amministrazione finanziaria e del contribuente divergano, tuttavia, in un’ottica di corretta

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attuazione del rapporto tributario, tale diversità di posizioni dovrebbe trovare (ove possibile) una
composizione/soluzione nel corso del procedimento, evitando che il dissenso delle parti possa risolversi solo
in sede contenziosa (successiva all’emanazione dell’atto di accertamento).
Sotto un profilo generale, si è assistita nel tempo ad un’evoluzione dell’ordinamento fiscale, dove all’inizio il
contribuente ricopriva quasi esclusivamente una posizione di soggetto passivo di obblighi di collaborazione
con l’Amministrazione ai fini di un più efficace controllo. Solo successivamente, grazie all’impulso di dottrina
amministrativa e tributaria, la disciplina del processo tributario si è aperta all’ingresso di forme più
partecipative per il contribuente —> tuttavia, le norme in materia di partecipazione del privato all’attività
amministrativa previste dalla legge 241/1990 NON si applicano per espressa previsione dell’art. 13 stessa
legge, ai procedimenti tributari. Né vi sono norme di carattere generale sulla partecipazione o sancito il
diritto del contribuente al contraddittorio amministrativo.
Il legislatore ha previsto solo specifiche forme per la partecipazione del contribuente al procedimento
tributario, le quali possono ricondursi a due tipologie:
1. Da un lato, le forme di partecipazione di carattere collaborativo: il contribuente interviene nel corso
dell’attività istruttoria, in funzione della raccolta di elementi conoscitivi a favore dell’Amministrazione. Qui, il
coinvolgimento del contribuente viene richiesto al solo fine di fornire elementi che lo stesso è già tenuto a
fornire sotto pena di sanzioni amministrative.
2. Dall’altro, forme di partecipazione difensiva: di solito si colloca nella fase procedimentale della decisione o
dopo l’emanazione dell’atto finale. E’ caratterizzata per la facoltà di intervento del contribuente e per la
previa comunicazione da parte dell’amministrazione, delle conclusioni provvisoriamente raggiunte.
In questa fase il contribuente ha a disposizione alcuni strumenti, in chiave difensiva, come la richiesta di
chiarimenti; alla richiesta di chiarimenti possono essere assimilati: l’invito a comparire in materia di
accertamento da studi di settore oppure l’invito a comparire per fornire dati e notizie rilevanti. Si collocano
poi, sempre in ottica difensiva, l’art. 12 co.7 L. 212/2000, che consente al contribuente di comunicare
osservazione e richieste entro sessanta giorni dal processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli
organi di controllo + gli artt. 36-bis co.3 e 36-ter d.p.r. 600/73 che consentono al contribuente di fornire i
chiarimenti necessari a seguito della comunicazione dell’esito positivo dei relativi controlli.
Lo Statuto del contribuente ha introdotto nell’ordinamento alcuni importanti istituti partecipativi, sempre in
chiave difensiva + ha espresso anche principi di carattere generale (quali, la piena informazione al
contribuente, la buona fede e quello di collaborazione tra contribuente e amministrazione). Tutte queste
fattispecie sono connotate da un fattore comune: quello di essere dirette all’instaurazione del
contraddittorio con il contribuente in un momento del procedimento intermedio tra la fase istruttoria e
quella della decisione, con l’evidente scopo di consentire al contribuente di apportare elementi conoscitivi in
funzione difensiva.
Dalla mancanza di una disposizione di carattere generale sulla partecipazione del contribuente potrebbe
concludersi che questa sia consentita solo attraverso i singoli strumenti partecipativi previsti da disposizioni
fiscali di carattere specifico.
Quindi, il principio del giusto procedimento troverebbe espressione nell’ordinamento solo se in quanto il
legislatore abbia previsto specifici istituti diretti a garantire la piena tutela di tutte le parti coinvolte —>
conclusione che non vale in ambito europeo dove la giurisprudenza si è indirizzata in favore di un principio
generale che attribuisca il diritto al contraddittorio o che, in termini più generali, garantisca la partecipazione
del contribuente nell’ottica del giusto processo.
In particolare per la Corte di Giustizia UE (2008) l’esistenza di un diritto generalizzato al contraddittorio
discende dal diritto di difesa, che va tutelato nell’ambito del procedimento amministrativo.
Il diritto al contraddittorio va inteso in senso sostanziale, nel senso che la sua violazione comporterà
l’annullamento della decisone soltanto quando, senza tale violazione, il procedimento avrebbe potuto
condurre ad un risultato differente.
Per quanto attiene poi alla posizione (in merito al diritto al contraddittorio) della giurisprudenza di legittimità
nazionale, essa mostrava un indirizzo svalutativo dell’osservanza delle regole procedimentali sul
contraddittorio —> si è contrapposto in questo senso un nuovo indirizzo che ha rivalutato il principio del

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contraddittorio procedimentale , affermando che dalla mancanza del contraddittorio può derivare la nullità
dell’avviso anche se non prevista espressamente (Cass SS.UU 26635/2009).
Tale visione aveva raggiunto il suo apice con due sentenze della Cassazione (2014), dove le Sezioni Unite
avevano elevato il contraddittorio a principio fondamentale immanente nell’ordinamento, a cui dare
attuazione anche in difetto di una specifica previsione normativa, quale espressione degli artt. 24 e 97 Cost.
+ 41,47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
L’art. 41 della Carta, infatti, nel delineare il principio del giusto procedimento prevede sì il diritto di accesso
al fascicolo, ma soprattutto il diritto di essere ascoltati prima che venga adottato un provvedimento
individuale che rechi pregiudizio alla persona—> a ciò si può collegare anche il diritto di essere informati dei
fatti e successivamente di adottare ogni comportamento utile a prevenire una decisione con effetti negativi.
Si registrò però anche un orientamento più generale che tendeva a non riconoscere tale portata espansiva al
principio del contraddittorio, ciò costrinse ad un ulteriore rinvio alle Sezioni Unite.
Cass. SS.UU 24823/2015 : La Cassazione fece così un passo indietro: essa ha infatti escluso, per i tributi non
armonizzati, l’esistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, che deve quindi
ritenersi limitato alle specifiche ipotesi previste dalla legge. Diversamente, i tributi armonizzati devono
ritenersi governati dal principio generale del contraddittorio di fonte europea (elaborato dalla Corte di
giustizia e codificato nell’art. 41 della Carta).
Tale giurisprudenza non è condivisibile secondo l’autore del libro, poiché da un lato, svaluta la portata
dell’art 97 Cost.(soprattutto per il fatto che la partecipazione al procedimento dei soggetti coinvolti è
finalizzata alla realizzazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa) e
dall’altro, non motiva sull’espresso richiamo ai principi europei del giusto processo.
Infatti, si registrano delle resistenze in sede giurisprudenziale che hanno portato anche al sollevamento di
questione di legittimità costituzionale dell’art 12 della L. 212/2000 nella parte in cui limita il contraddittorio
ai soli casi in cui il contribuente sia stato destinatario di accessi, ispezioni o verifiche —> situazione che
appare irragionevolmente discriminatoria nei confronti dei soggetti destinatari di accertamento.
Naturalmente, una volta ammessa la necessità del contraddittorio, quest’ultimo deve essere effettivo. Il che
significa che l’Amministrazione prima di emanare l’avviso di accertamento deve:
- esternare formalmente le contestazioni che intenderebbe muovere (non essendo sufficiente una mera
richiesta di chiarimenti);
- dare un congruo preavviso al contribuente per preparare le sue difese e un congruo tempo per esporle;
- riservarsi un congruo tempo per esaminarle ed eventualmente disattenderle, motivandole.
Dalla violazione delle norme sul contraddittorio deve conseguire l’illegittimità dell’attività stessa e dei relativi
atti e non la loro semplice irregolarità.

La partecipazione dei terzi al procedimento di accertamento: Alcuni poteri attribuiti all’Amministrazione


finanziaria per l’attività di accertamento, possono essere esercitati nei confronti di soggetti diversi dal
contribuente sottoposto al controllo.
Si tratta di soggetti terzi che, grazie ai rapporti economici intercorsi con il contribuente, sono in grado di
fornire documenti, dati e notizie utili al controllo e che sono obbligati a forniti su richiesta
dell’Amministrazione.
I terzi assumono così una funzione ausiliaria rispetto all’Amministrazione finanziaria e gli atti relativi
all’attività svolta nei loro confronti e gli eventuali elementi di prova acquisiti entrano a far parte del
procedimento relativo al contribuente controllato.
Il terzo può anche intervenire spontaneamente nel procedimento di accertamento riguardante un
determinato contribuente fornendo dati e notizie all’ufficio procedente.
Infine, l’art. 36 d.p.r. 600/1973 pone a carico di determinati soggetti (che a causa o per l’esercizio delle loro
funzioni vengono a conoscenza di determinati fatti che possono configurarsi come violazioni finanziarie) di
comunicare tali fatti al comando della Guardia di finanza competente per territorio.

Il ruolo del regime dell’adempimento collaborativo nell’ambito di un nuovo rapporto tra fisco e
contribuente finalizzato alla “tax compliance”: Lo schema tradizionale del rapporto tra contribuente e Fisco

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è quello per il quale l’amministrazione finanziaria è chiamata a vigilare ex post, sul corretto assolvimento
degli obblighi tributari posti a carico dei contribuenti.
Tale approccio si è rivelato scarsamente efficace ai fini della promozione dell’adempimento spontaneo degli
obblighi tributari (cd. tax compliance), in quanto non prevede adeguati strumenti normativi per favorire il
dialogo tra Amministrazione finanziaria e contribuenti.
Per quanto riguarda l’Italia, fu introdotto il d.lgs 128/2015, che prevede il c.d regime dell’adempimento
collaborativo, ossia un regime opzionale di cooperative compliance, sostanzialmente in linea con i regimi
previsti in altri paesi OCSE, che anche se in fase di prima attuazione il numero dei contribuenti che potranno
aderire è assai ridotto. È poi necessario che la società che intenda aderire a tale regime abbia istituito un
sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale.
I contribuenti che aderiscono al regime devono comunicare all’Agenzia delle entrate i rischi di natura fiscale
e le operazioni che possono rientrare nella pianificazione fiscale aggressiva. L’agenzia delle entrate ha
obblighi “speculari” a quelli imposti al contribuente: deve procedere (ad ES) ad una valutazione trasparente,
oggettiva e rispettosa dei principi di ragionevolezza e proporzionalità del sistema di controllo interno del
rischio fiscale adottato dal contribuente.
Benefici derivanti dall’adesione: il controllo fiscale viene effettuato di comune accordo tra Fisco e
contribuente, anche prima della prestazione delle dichiarazioni fiscali, così da raggiungere un elevato livello
di certezza giuridica, visto che l’an e quantum dell’obbligazione tributaria sono definiti ex ante.
Nel 2017 è stata prevista una disciplina attuativa con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate
che ha disciplinato i doveri dell’Agenzia e del contribuente, lo svolgimento della procedura, le cause di
esclusione dal regime…
Vanno poi rilevati ulteriori strumenti e istituti volti a favorire il dialogo e l’adempimento spontaneo dei
contribuenti: è stato infatti previsto un ricorso sempre maggiore alle comunicazione preventive, al fine di
segnalare eventuali anomalie risultati dall’incrocio tra la posizione fiscale dei contribuenti ed i dati presenti
nelle banche dati, anche prima della scadenza dei termini per la prestazione delle dichiarazioni fiscali. A ciò
poi si aggiungono recenti interventi che hanno interessato quegli istituti che tendono ad incentivare i “tax
settlement”, per definire quanto prima le controversie tributarie con il Fisco —> tra questi: mediazione e
conciliazione giudiziale + la possibilità di usufruire della non punibilità di taluni reati o di una significativa
riduzione della pena applicabile al caso di pagamento di tributi non dichiarati e/o non versati.

Capitolo Dodici: la dichiarazione, la sua liquidazione e i controlli formali.


La dichiarazione: definita come l'atto fondamentale di collaborazione del contribuente con il Fisco,
attraverso la quale il primo porta a conoscenza del secondo la realizzazione del presupposto di imposta.
Esistono nell’ordinamento, tributi che non prevedono una dichiarazione: si tratta in genere di tributi di
natura istantanea (si pensi ad ES, all'imposta di registro, in cui gli elementi da portare a conoscenza del Fisco
sono di regola contenuti nello stesso atto da registrare —> salvo che si tratti di contratti verbali o di
operazioni compiute da enti o società esteri…).
Altri tributi prevedono invece una specifica dichiarazione che deve essere presentata dal contribuente
talvolta una tantum (ES: variazione catastale di un immobile già dichiarato ai fini IMU), altre volte in
occasione di una singola operazione (ES: operazioni doganali), altre volte, infine, periodicamente (ad ES, ai
fini delle imposte sui redditi dell'IRAP e dell’IVA.)
Esistono altresì delle ipotesi in cui l'obbligo di presentazione della dichiarazione è posta in capo a soggetti
che non sono contribuenti: così, il sostituto d'imposta deve presentare ogni anno una dichiarazione in cui è
tenuto ad elencare tutti soggetti nei cui confronti ha operato quale sostituto, l'ammontare dei redditi
corrisposti, la ritenuta operata e i versamenti effettuati.
La dichiarazione può svolgere diverse funzioni e avere diverso contenuto:
Innanzitutto , lo svolgimento dell’obbligo di dichiarazione va inquadrato nell’ambito degli obblighi di natura
strumentale, diretti all’applicazione del tributo e all’esercizio dei poteri di controllo da parte degli uffici. La
sua funzione primaria è quella di rappresentare le vicende economiche rilevanti i fini dell’applicazione dei
singoli tributi. A tal proposito, la dichiarazione, oltre a riportare gli estremi identificativi del contribuente e di

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chi ne ha la rappresentanza, contiene di norma l'indicazione degli elementi attivi e passivi necessari secondo
le norme concernenti le singole imposte, alla determinazione dell'imponibile e dell’imposta.
La dichiarazione dei redditi contiene anche la liquidazione dell’imposta dovuta in base all’imponibile
dichiarato: si tratta della cd.autoliquidazione (o autotassazione), introdotta nel nostro ordinamento con la
legge 576/1975.
Nel caso delle società di persone (o delle associazioni professionali o enti equiparati), dove il reddito è
imputato ai singoli soci (o associati), la relativa dichiarazione contiene invece solo la determinazione della
base imponibile e l’indicazione delle quote di reddito attribuibili a ciascun socio (o associato).
La dichiarazione può altresì contenere dati e notizie non immediatamente rilevanti per la determinazione
delle imposte, ma utili ai fini dell'attività di accertamento, attraverso quello che viene comunemente definito
“monitoraggio fiscale”.
Dichiarazioni a fini IVA: queste dichiarazioni e quelle cui sono obbligati i sostituti d’imposta hanno un
contenuto meramente ricognitivo —> con la dichiarazione annuale IVA il contribuente riepiloga le
liquidazioni periodiche (mensili o trimestrali) e i versamenti effettuati; anche la dichiarazione del sostituto di
imposta richiede di riepilogare i redditi erogati da terzi nel periodo di imposta e le corrispondenti ritenute
operate e versate.
Il legislatore tributario, in tempi recenti, al fine di semplificare gli adempimenti e stimolare l’assolvimento
degli obblighi tributari, ha introdotto (limitatamente alle imposte sui redditi) la cd. dichiarazione
precompilata —> l’Agenzia delle Entrate rende disponibile ai titolari di redditi da lavoro dipendente e
assimilati, in via telematica, la dichiarazione (modello 730) entro il 15 aprile di ogni anno, che gli stessi
potranno accettare o modificare. L’Agenzia si limita ad inserire le informazioni disponibili in Anagrafe
tributaria, i dati relativi ad alcuni oneri trasmessi da banche (interessi passivi per mutui ipotecari), enti
previdenziali, assicurazioni (spese sanitarie rimborsate, premi per contratti assicurativi), università
(rimborsi), nonché i dati contenuti nella certificazione unica rilasciata dai sostituti d’imposta.
Sotto il profilo procedimentale, la dichiarazione è dunque un atto dovuto in base ad un obbligo
generalizzato, ma talvolta il legislatore ha previsto dei casi in cui è dovuta anche in assenza di redditi e/o
debito d’imposta (anche per i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, anche se non è stato
prodotto alcun reddito, art. 1 co1 d.p.r. 600/1973), sia casi in cui non deve essere presentata pur in presenza
di redditi —> i soggetti passivi sono talvolta esonerati dall’obbligo di dichiarazione pur in presenza di un
reddito, se il reddito non eccede un determinato ammontare (art. 1 co.4).
Nell’ambito IVA, è tenuto a presentare la dichiarazione anche chi non ha effettuato operazioni imponibili,
mentre non è tenuto chi ha effettuato (nel periodo di imposta) solo operazioni esenti.
In questi casi, la dichiarazione è legittimamente non presentata e NON PUÒ CONSIDERARSI OMESSA. (In ogni
caso, il contribuente esonerato può comunque presentarla per far valere deduzioni, detrazioni o richiedere
rimborsi).
La dichiarazione costituisce l'oggetto della successiva attività di controllo dell'Amministrazione finanziaria,
anche se nella normalità dei casi la dichiarazione esaurisce la fattispecie dell'accertamento, non essendo
seguita da un atto di rettifica dell’Amministrazione.
L’omissione della dichiarazione condiziona le modalità della successiva attività di controllo, consentendo
l’accertamento d’ufficio.
La dichiarazione dei redditi ha rilevanza poi anche sui piani della riscossione e del rimborso, poiché reca la
quantificazione dell’imposta (ossia la liquidazione dell’obbligazione tributaria).
Essa rileva anche sul piano procedimentale e processuale, quale strumento di prova.
Le dichiarazioni devono essere redatte a pena di nullità, su stampati conformi ai modelli approvati
annualmente con provvedimento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e devono essere presentate
obbligatoriamente in via telematica (eccezionalmente mediante presentazione all’ufficio postale).
La presentazione telematica può essere effettuata: i) direttamente dal contribuente, oppure ii) tramite
intermediari abilitati (in questo caso può essere predisposta sia dal contribuente, sia dall’intermediario).
Termine: La presentazione va effettuata entro il 30 settembre dell'anno successivo a quello cui i redditi si
riferiscono. La dichiarazione “rettificativa”, intesa come ulteriore dichiarazione presentata entro il termine

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per la presentazione della dichiarazione originaria, consente al contribuente di esercitare tutte le facoltà
previste in sede di dichiarazione e non dà luogo ad alcuna sanzione amministrativa.
Sono considerati intermediari abilitati all’invio telematico: gli iscritti agli albi dei commercialisti, ragionieri,
periti commerciali, consulenti del lavoro e altre figure tra cui i CAF (centri di assistenza fiscale) —> sono
organizzazioni nate con la legge 413/1991, costituiti generalmente in SPA che hanno ottenuto
l’autorizzazione all’iscrizione all’albo nazionale dei CAF (tenuto presso il Ministero dell’Economia e delle
Finanze).
➔ Differenza: Il sostituto d’imposta è chi (datore di lavoro, ente pensionistico…) per legge,
sostituisce in tutto o in parte il contribuente nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria,
trattenendo le imposte dovute dai compensi, salari, pensioni o altri redditi erogati e
successivamente versandole allo Stato. Essi sono tenuti a denunciare annualmente le trattenute
operate tramite un’apposita dichiarazione.

La presentazione della dichiarazione avviene in via telematica, solo in alcuni casi eccezionali (ES: i
contribuenti che devono presentare la dichiarazione per conto di contribuenti deceduti) è possibile
presentare la dichiarazione in forma cartacea tramite una banca o un ufficio postale (in tal caso il termine è
quello del 30 giugno dell’anno successivo).
La dichiarazione si considera presentata nel giorno in cui è trasmessa, direttamente o tramite intermediari,
mentre la prova della presentazione è data dalla comunicazione dell’Amministrazione attestante l’avvenuto
ricevimento. (Se è presentata a mezzo di posta, si considera presentata nel giorno in cui è consegnata dal
contribuente all’ufficio postale).
La dichiarazione presentata entro 90gg dalla scadenza si considera valida, salva l’applicazione di sanzioni.
Quella presentata dopo i 90gg si considera omessa, ma costituisce comunque titolo per la riscossione delle
imposte risultanti dalla stessa.
La dichiarazione deve essere sottoscritta dal contribuente a pena di nullità. La nullità per omessa
sottoscrizione può essere sanata se il contribuente provvede a mettere la firma entro 30gg dal ricevimento
del relativo invito da parte dell’ufficio.

La dichiarazione dei redditi: Originariamente si riteneva che la dichiarazione fosse assimilabile ad una
confessione stragiudiziale, sul presupposto secondo cui con essa il contribuente rappresenti fatti a sé
sfavorevoli e favorevoli all’Amministrazione finanziaria. Ne conseguiva l’irretrattabilità di quanto dichiarato
se non per errore di fatto o violenza.
Si è però osservato che siccome la dichiarazione è un atto dovuto manca l'animus confitenti (la confessione è
un atto spontaneo). Inoltre, essa è obbligatoriamente richiesta anche solo per attestare la sussistenza di
condizioni negative di tassazione, cioè per attestare fatti che possono essere favorevoli al contribuente.
Tali argomentazioni hanno indotto la dottrina a preferire altre ricostruzioni, in ordine alla sua natura
giuridica. E quindi dottrina e giurisprudenza sono adesso orientate nel ritenere che la dichiarazione sia una
dichiarazione di scienza, cioè l'atto con il quale il contribuente deve affermare ciò che egli conosce rispetto
ad una determinata situazione fiscalmente rilevante, gli effetti della dichiarazione discendono solo della
legge e non dalla volontà del dichiarante, che non rileva come tale. Essa ha pertanto natura volontaria e non
negoziale. Quindi non si applica la disciplina civilistica dei vizi della volontà. Il corollario di tale posizione è la
libera ritrattabilità della dichiarazione.
Tale ricostruzione deve essere precisata, nel senso che la dichiarazione dei redditi, non può essere
considerata tout court una dichiarazione di scienza, ma ha natura composita. Infatti, le dichiarazioni di
scienza comportano la mera attestazione di fatti, ma mai delle valutazioni di diritto. Mentre la dichiarazione
dei redditi comporta delle valutazioni o qualificazioni giuridiche.
Quindi la dichiarazione dei redditi deve essere considerata come un atto composito che può contenere in sé
dichiarazioni di scienza, valutazioni di fatto e di diritto da intendersi quali meri atti giuridici e delle vere e
proprie manifestazioni di volontà connesse alle opzioni. Viene poi data rilevanza anche al comportamento
concreto e concludente del contribuente (dove, per “comportamento concludente”, si deve intendere
l’effettuazione da parte dello stesso di adempimenti che presuppongono inequivocabilmente la scelta di un

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determinato regime, osservandone i relativi obblighi, al posto di quello operante come regime di base). Ciò
significa che un eventuale errore del contribuente in dichiarazione potrà essere rimosso, semplicemente per
effetto di un suo diverso comportamento concludente.
L’ art. 2 co.1 d.l. 16/2012 consente di sanare la mancata comunicazione preventiva per la fruizione di
benefici di natura fiscale o l’accesso a regimi fiscali opzionali, in presenza dei seguenti requisiti:
a) la violazione non sia già stata oggetto di constatazione o altre attività di accertamento;
b) il contribuente abbia i requisiti sostanziali previsti dalle norme di riferimento;
c) la comunicazione o adempimento devono essere effettuati entro il termine di presentazione della prima
dichiarazione utile;
d) sia versata contestualmente la sanzione di 258 euro.
Si tratta di una particolare forma di ravvedimento operoso, finalizzato ad evitare che mere dimenticanze
relative a comunicazioni o in generale ad adempimenti formali non eseguiti tempestivamente precludano al
contribuente la possibilità di fruire di benefici fiscali o di regimi opzionali.
Rettificabilità/emendabilità: Può accadere che la dichiarazione sia errata, a danno del fisco quanto danno
del contribuente. Tale ipotesi dev’essere distinta da quella della sua revoca, che si ha nell’ipotesi in cui il
contribuente (prima della scadenza del termine) presenti una seconda dichiarazione in sostituzione di quella
precedente, fermo restando che la prima dichiarazione presentata è irritrattabile e potrà essere usata dal
Fisco per attingere elementi utili al fine del controllo della dichiarazione sostitutiva.
In particolare, le correzioni possono determinare un aumento del reddito e quindi risolversi in una rettifica a
sfavore del contribuente (il quale dovrà una maggiore imposta o avrà diritto a un minor credito) oppure una
diminuzione del reddito e risolversi quindi in una rettifica a favore del contribuente (che dovrà una minore
imposta o avrà diritto ad un maggior credito).
L’ipotesi di rettifica a sfavore del contribuente richiede di stabilire unicamente se e in quali limiti il
ravvedimento del contribuente incida sulle sanzioni applicabili —> questione risolta dal legislatore con
l’istituto del ravvedimento operoso.
Per quanto riguarda, invece, la rettifica a favore del contribuente, le questioni riguardano il relativo oggetto,
i termini e le modalità. In questo contesto risulta necessario conciliare due esigenze contrapposte: da un
lato, quella del contribuente di pagare l’imposta su un presupposto effettivamente realizzatosi (ex art 53
principio di capacità contributiva) e dall’altro, l’interesse pubblico della certezza dei rapporti giuridici, che
risulta dalle disposizioni normative che prevedono vincoli procedurali per le richieste di rimborso dei
contribuenti.
Dopo diversi orientamenti giurisprudenziali le Sezioni Unite nel 2002 hanno affermato che la dichiarazione di
redditi ha natura di dichiarazione di scienza e conseguentemente può essere emendata in relazione a
qualsiasi tipo di errore (sia di fatto che di diritto) quando da essa possa derivare l’assoggettamento del
contribuente a oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che dovrebbero essere a suo carico. Secondo
la Corte, la possibilità riconosciuta al contribuente di poter correggere a suo favore la dichiarazione, discende
dalla natura non negoziale e non dispositiva della stessa. Essa motiva tutte le proprie
affermazioni/conclusioni sulla base di considerazioni di ordine costituzionale: infatti, un sistema legislativo
che negasse totalmente la rettificabilità della dichiarazione dei redditi a favore del contribuente,
genererebbe un prelievo fiscale indebito e illegittimo, ponendosi in pieno contrasto con i principi
costituzionali in tema di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di oggettiva correttezza dell’azione
amministrativa (art. 97 Cost.). Se si tratta invece di errori riferibili ad una manifestazione di volontà
negoziale, allora la giurisprudenza ha escluso la possibilità di rettifica, salva la dimostrazione (secondo la
disciplina dei vizi di volontà di cui agli artt. 1427 e ss. Cc) della rilevanza dell’errore, con riguardo al requisito
dell’essenzialità e della sua obiettiva riconoscibilità da parte dell’Amministrazione finanziaria.
La giurisprudenza ha ritenuto che la rettifica della dichiarazione possa avvenire in sede contenziosa —> in
questo caso è onere del contribuente dimostrare la fondatezza della sua rettifica (al contrario della sede
precontenziosa —> dove l’ufficio deve attenersi alla rettifica effettuata).
La Cassazione, sempre con sentenza del 2002, provvede poi ad analizzare gli strumenti a disposizione del
contribuente per far valere eventuali errori della dichiarazione, individuandoli innanzitutto nell’art. 38 d.p.r.
602/1973 —> secondo il quale il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare istanza di

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rimborso entro il termine di 18 mesi (adesso 48) dalla data del versamento, nel caso di errore materiale,
duplicazione e inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento. (Tale sentenza però si riferiva al
periodo anteriore al d.p.r. 322/1998 (come modificato dal d.p.r. 435/2001) che ha previsto la possibilità di
presentare una dichiarazione rettificativa a favore del contribuente.
Se la rettifica interviene prima della scadenza del termine per la presentazione —> si parla di dichiarazione
correttiva (da redigere su modelli conformi a quelli approvati per il medesimo periodo di imposta); se la
rettifica è a sfavore del contribuente, occorre versare la maggiore imposta; in caso contrario, il contribuente
può procedere in compensazione o chiedere a rimborso le somme.
Più rilevanti sono le ipotesi in cui la rettifica interviene dopo la scadenza del termine di presentazione —> in
tal caso occorre presentare una dichiarazione integrativa, da redigere su modelli conformi a quelli approvati
per il medesimo periodo di imposta.
I tre strumenti individuati dalle Sezioni Unite (la dichiarazione integrativa a favore, l’istanza di rimborso, il
processo) quale modo per far valere errori commessi in dichiarazione a danno del contribuente, dovrebbero
essere pienamente fungibili quanto al loro oggetto, poiché tutti finalizzati al perseguimento del medesimo
obiettivo: determinare la giusta imposta, in ossequio all’art. 53 Cost.
Il legislatore però ha deciso di intervenire in materia, proprio per porre rimedio all’insoddisfacente
orientamento delle Sezioni Unite.
ES: per quanto riguarda la questione del credito che deriva dalla presentazione della dichiarazione
integrativa a favore (redditi, IRAP, sostituti e IVA) la nuova disciplina distingue a seconda che la dichiarazione
venga presentata:
- Entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo successivo: il credito è utilizzabile
immediatamente in compensazione orizzontale; nel caso di crediti IVA oltre alla compensazione è
ammessa anche la detrazione oppure il rimborso.
- Oltre tale termine: la compensazione può avvenire solo con riferimento al versamento dei debiti
maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello di presentazione della dichiarazione
integrativa. Nel caso di crediti IVA oltre alla compensazione è ammesso il rimborso.
Inoltre, la nuova disciplina dispone che resta ferma per il contribuente, la possibilità di far valere (anche in
sede di accertamento o di giudizio) eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione
tributaria, determinando così un maggiore imponibile/di un maggiore debito d’imposta o di un minor
credito.
Gli obblighi relativi alla dichiarazione sono presidiati da sanzioni amministrative e penali. Ai fini
dell'esenzione amministrativa la dichiarazione può essere omessa, nulla, incompleta e infedele.
Si parla di omissione non solo quando la dichiarazione non è stata presentata affatto ma anche quando è
stata presentata oltre i 90 giorni dalla scadenza.
La legge qualifica come nulla la dichiarazione non redatta su stampati conformi a quelli ministeriali e quella
non sottoscritta (oppure non sottoscritta da persona legittimata). Da una punta di vista dell'accertamento, la
dichiarazione nulla è equiparata a quella commessa.
La dichiarazione è infedele, invece, quando un reddito netto non è indicato nel suo esatto ammontare.
È incompleta quando è omessa l'indicazione di una fonte reddituale.

La fase successiva alla dichiarazione dei redditi, in relazione all’esigenza di un controllo immediato delle
dichiarazioni è stata risolta con l’introduzione della liquidazione e il controllo formale delle dichiarazioni con
il d.p.r. 600/1973.
La liquidazione: non è finalizzata alla rettifica del reddito, bensì alla sola verifica dell’esattezza numerica dei
dati dichiarati.
Nel caso delle imposte dirette —> la liquidazione si colloca come fase antecedente a quella (eventuale)
dell’accertamento in senso stretto.
Nel caso delle imposte indirette (quali ad ES: l’imposta di registro) —> si parla invece di liquidazione del
tributo in altro senso: qui la fase della liquidazione è quella in cui gli uffici applicano l’aliquota alla base
imponibile e determinano in concreto il tributo da pagare.

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In queste ipotesi, la liquidazione è un atto con cui si estrinseca il calcolo dell’imposta, traducendo in entità
numerica la capacità contributiva del contribuente .
In particolare, il controllo eseguito in base all’art. 36-bis d.p.r. 600/1973 è finalizzato a correggere
esclusivamente gli errori materiali e di calcolo riguardanti i versamenti delle imposte, la determinazione degli
imponibili e gli errori rilevabili direttamente dalla dichiarazione, dando luogo (in caso) anche ad un rimborso
a favore del contribuente.
Sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in
possesso dell’anagrafe tributaria, l’ufficio, entro il termine ordinatorio di inizio del periodo di presentazione
delle dichiarazioni relative all’anno successivo, provvede a:
a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione degli
imponibili, delle imposte, dei contributi e dei premi;
b) correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze delle imposte, dei
contributi e dei premi risultanti dalle precedenti dichiarazioni;
c) ridurre le detrazioni d’imposta indicate in misura superiore a quella prevista dalla legge o non spettanti
sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni;
d) ridurre le deduzioni dal reddito, esposte in misura superiore a quella prevista dalla legge;
e) ridurre i crediti di imposta esposti in misura superiore a quelli previsti dalla legge;
f) controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti delle imposte, dei
contributi e dei premi dovuti a titolo di acconto e di saldo e delle ritenute alla fonte operate in qualità di
sostituto di imposta.
La caratteristica di tali controlli è quella di non richiedere lo svolgimento di alcuna attività di ricerca di
informazione da parte dell’Amministrazione finanziaria. La verifica avviene esclusivamente sulla base della
dichiarazione del contribuente.
Analoga disposizione è prevista in materia di liquidazione dell’imposta sul valore aggiunto, prevista dall’art.
54-bis d.p.r. 633/1972 introdotto dal d.lgs. 241/1997 (poiché nel sistema IVA non esiste una norma analoga
all’art. 36-ter d.lgs. 600/1973). Con questa è stata prevista una procedura di liquidazione dell’IVA del tutto
automatizzata, che non presuppone lo svolgimento da parte degli uffici di alcuna attività di ricerca di
informazioni.
L’art. 54-bis quindi prevede che l’ufficio (entro il termine dell’inizio del periodo di presentazione delle
dichiarazioni relative all’anno successivo) proceda a:
a) Correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione del volume
d’affari e delle imposte;
b) Correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze di imposta
risultanti dalle precedenti dichiarazioni;
c) Controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti dell’imposta risultante
dalla dichiarazione annuale a titolo di acconto e di conguaglio, nonché dalle liquidazioni periodiche.

Quando dai controlli automatici emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione,
l’esito della liquidazione è comunicato al contribuente per evitare la reiterazione di errori e per consentire la
regolarizzazione degli aspetti formali, salvo un termine di 30giorni per fornire agli uffici eventuali
chiarimenti.

Controllo formale: ai sensi dell’art. 36-ter gli uffici dell’Amministrazione finanziaria procedono (entro il 31
dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione) al controllo formale delle dichiarazioni
presentate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta sulla base di criteri selettivi.
((Il controllo formale si differenzia dalla liquidazione perché non riguarda solo la dichiarazione ma anche i
documenti che devono corredarla)).
Gli uffici dunque possono:
a) escludere (in tutto o in parte) lo scomputo delle ritenute d’acconto non risultanti dalle dichiarazioni dei
sostituti o dalle certificazioni richieste ai contribuenti;

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b) escludere (in tutto o in parte) le detrazioni d’imposta non spettanti, anche in base a documenti
eventualmente richiesti;
c) escludere (in tutto o in parte) le deduzioni dal reddito non spettanti, anche in base a documenti
eventualmente richiesti;
d) determinare i crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti
richiesti ai contribuenti;
e) liquidare la maggiore imposta e i maggiori contributi dovuti sull’ammontare complessivo dei redditi
risultanti da più dichiarazioni o certificati, presentati per lo stesso anno dal medesimo contribuente;
f) correggere gli errori materiali e di calcolo contenuti nelle dichiarazioni dei sostituti d’imposta.

Nel controllo formale è prevista la possibilità di una ridotta attività istruttoria, consistente nella richiesta al
contribuente di esibire documenti che giustifichino determinati voci o di controllo incrociato della
dichiarazione con altre dichiarazioni. Il contribuente o sostituto d’imposta è invitato a fornire chiarimenti in
ordine ai dati contenuti nella dichiarazione, ma ciò non consente di assimilare l’istituto alle fattispecie di
accertamento.
L’esito del controllo formale è comunicato al contribuente o al sostituto d'imposta con l'indicazione dei
motivi che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili o di altri dati dichiarati.
Se il contribuente è destinatario della dichiarazione precompilata i controlli (ex art. 36-ter d.p.r. 600/1973)
possono non aver luogo, in particolare se:
- il contribuente accetta la dichiarazione senza modifiche o apporta modifiche che non incidono sulla
determinazione del reddito/imposta;
- il contribuente si avvale di un Caf o di un professionista abilitato, in questo caso sarà il CAF ad essere
destinatario dei controlli.

Differenza tra liquidazione e controllo formale:


Art. 36-bis – la liquidazione delle imposte, dei contributi, dei premi e dei rimborsi dovuti in base alle
dichiarazioni: la liquidazione è un controllo di massa, di tipo generalizzato, delle dichiarazioni.
Art. 36-ter – il controllo formale delle dichiarazioni: gli uffici procedono secondo criteri selettivi determinati
dal Ministro delle finanze.
Inoltre, mentre nella liquidazione non è prevista l’instaurazione del contraddittorio con il contribuente
mediante richiesta di chiarimenti; nel controllo formale, prima dell’ultimazione del controllo, il contribuente
può essere invitato a fornire chiarimenti a a produrre documenti.

I controlli in esame si concludono con l’invio al contribuente di un c.d. “avviso bonario”.


Qualora a seguito dell’avviso il contribuente o il sostituto di imposta rilevi eventuali dati o elementi non
considerati o valutati erroneamente nella liquidazione dei tributi, lo stesso può fornire i chiarimenti
necessari all’Amministrazione finanziaria entro i 30 giorni successivi al ricevimento dell’avviso. Entro tale
termine, il contribuente potrà tuttavia anche procedere al pagamento e in tal caso avrà accesso alle sanzioni
in misura ridotta. Il mancato versamento nei termini comporta l’impossibilità di fruire delle indicate riduzioni
delle sanzioni. Qualora l’ufficio non condivida le prospettazioni del contribuente o in mancanza di
pagamento, la somma è iscritta a ruolo. Da qui si evince come gli avvisi bonari siano meri adempimenti
procedimentali a carico dell’Amministrazione finanziaria, tesi a sollecitare la partecipazione del contribuente
alla fase attuativa del tributo e a favorirne la regolarizzazione delle violazioni.
Per quanto attiene ai termini entro i quali deve concludersi l’attività di liquidazione e di controllo formale,
essi hanno carattere ordinatorio. Ai fini temporali, essi dovranno far riferimento ai termini per la notifica
della cartella di pagamento (stabiliti dall’art.25 d.p.r. 602/1973) rispettivamente nel terzo e quarto anno
successivi a quello di presentazione della dichiarazione.

Capitolo Tredici: l’attività istruttoria.


Decorsi i termini di legge per adempiere agli obblighi dichiarativi, può prendere avvio la fase di controllo da
parte dell'Amministrazione finanziaria. Tale controllo concerne da un lato, tutti gli adempimenti formali e

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strumentali connessi e propedeutici rispetto al verificarsi del presupposto o anche da esso svincolati (sia nei
confronti del contribuente che di terzi) con una funzione di prevenzione e vigilanza sul sistema nel suo
complesso. Dall’altro, talvolta si risolve in attività meramente conoscitive finalizzate cioè ad una migliore
percezione di quella stessa realtà economica da sottoporre a controllo.
(( In sintesi l'attività istruttoria va ben oltre l'emissione degli avvisi di accertamento, denotando talvolta una
sua autonomia funzionale )).
Nel campo delle imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. 600/1973 spettano agli Uffici compiti
istituzionali, quali:
- il controllo delle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituiti d’imposta;
- la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte dovute;
- la vigilanza sull’adempimento degli obblighi relativi alle scritture contabili e degli adempimenti strumentali;
- l’irrogazione delle pene pecuniarie e presentazione all’autorità giudiziaria di un rapporto sulle violazioni
sanzionate penalmente;
- la raccolta delle informazioni per le autorità competenti degli altri stati membri Ue ed effettuazione dello
scambio con le stesse.
A ciò si aggiungono quei compiti conoscitivi sulla realtà economica che si sono tradotti, negli ultimi anni,
nell’acquisizione di dati per l’elaborazione di studi di settore e dati relativi agli indici di spesa (utilizzati per
l’accertamento sintetico).
Possiamo pertanto affermare che l'attività istruttoria dell'Amministrazione ha natura conoscitiva in senso
lato —> in quanto finalizzata a fornire all'Erario tutte le conoscenze per svolgere le proprie attività e la
determinazione del presupposto d'imposta previa acquisizione di tutti gli elementi rilevanti.
L’attività istruttoria presenta alcune caratteristiche generali:
1) Innanzitutto, l’atto finale risultante all’esito dell’esercizio di poteri istruttori non richiede
necessariamente che si sia esperito un previo contraddittorio con il contribuente nella fase istruttoria, in
quanto le Sezioni Unite hanno negato l’esistenza di un principio generale del contraddittorio (con
l’eccezione dei tributi armonizzati).
2) L’attività istruttoria finisce per incidere su una serie di posizioni soggettive e in particolare sulle libertà
individuali del privato (libertà personale, segreto professionale, libertà di domicilio, libertà di
comunicazione, diritto alla privacy…) di rilevanza sia costituzionale sia internazionale. L’esercizio dei
poteri comporta l’emissione di un provvedimento con il quale viene imposto al contribuente o a terzi di
tenere un determinato comportamento (si tratta di un provvedimento amministrativo, la violazione del
quale comporta sanzioni amministrative a carattere pecuniario).
Tutto ciò comporta dunque delle conseguenze:
La prima: che l’elencazione dei poteri istruttori debba ritenersi tassativa.
La seconda attiene agli eventuali limiti riguardanti le modalità di esercizio dei poteri attribuiti
all’Amministrazione finanziaria: alcuni limiti sono espressamente previsti dalla legge (ES: gli accessi
domiciliari e non + le perquisizioni personali + le aperture di borse (ultime due che devono essere
subordinate al rilascio di apposite autorizzazioni preventive in ossequio ai principi costituzionali sopra
richiamati).
L’Amministrazione finanziaria inoltre è titolare di poteri (non in qualità di creditore, bensì quale autorità
pubblica) in vista del perseguimento di un interesse pubblico all’attuazione del prelievo. Si tratta di poteri a
carattere autoritativo, che necessariamente finiscono per incidere sulle libertà individuali del privato. Perciò,
secondo parte della dottrina, in forza del principio di imparzialità (art. 97 Cost.) l’Amministrazione finanziaria
non può ignorare l’interesse secondario del privato, connesso alla compressione di tali libertà e ne deve
tener sempre conto per il raggiungimento del suo fine primario (interesse fiscale all’acquisizione di elementi
conoscitivi e di controllo), tutto questo nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza —> che
fungono qui da veri e propri limiti giuridici all’esercizio del potere.
Quindi, da un lato i mezzi impiegati dovranno essere adeguati al fine perseguito, dall’altro le attività di
indagine dovranno avere una loro utilità (e non essere irragionevoli).

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Ciò induce questa dottrina ad affermare che al di fuori di questi vincoli (legislativi o derivati dai principi
generali) l’Amministrazione conserva margini insindacabili di scelta sull’an, quando, quid e quomodo
dell’esercizio del suo potere.
Sicché la posizione giuridica del contribuente, i cui diritti soggettivi siano stati lesi da un provvedimento
valido ed efficace, oppure invalido, appare qualificabile come un interesse legittimo
Nel caso in cui, invece, l’Amministrazione operi al di fuori dei poteri ad essa attribuiti dalla legge, allora si
dovrà ritenere che il privato conservi l’originaria situazione giuridica soggettiva di diritto soggettivo.
Problema relativo alla tutela (immediata o differita) del destinatario di tali atti:
La Cassazione (Cass. SS.UU 8587/2016) ha accolto la soluzione della tutela differita dinnanzi ad atti istruttori,
ritenendo che si tratti di atti endoprocedimentali, eventualmente censurabili unitamente all’avviso di
accertamento successivamente emesso. Per non determinare vuoti di tutela, ha previsto un’eccezione, si
tratta del caso in cui l’atto impositivo non sia emanato o tale atto (anche se emanato) sia avulso dall’esame
dei documenti illegittimamente acquisiti o non sia stato impugnato, ipotesi in cui è possibile ricorrere al
giudice ordinario e non a quello amministrativo, data la natura diritto soggettivo della posizione giuridica
sottostante.
Importante è che l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha ammesso il diritto del
contribuente a un controllo giurisdizionale effettivo sulla regolarità della decisione che prescrive l’ispezione
al fine di prevenire la continuazione o per proporre un opportuno rimedio.
Ulteriore problema di carattere generale attiene all’applicazione dell’art. 22 L. 241/1990, che stabilisce il
principio di accessibilità degli atti amministrativi. Questo principio va coordinato con il co.1 lett.b) art. 24
L.241/1990 che esclude il diritto d’accesso nei procedimenti tributari, che sono regolati da particolari norme
e con il co7 secondo il quale dev’essere comunque garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi quando la conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi.
In merito, il Consiglio di Stato (2008, 2010) ha riconosciuto al contribuente un interesse giuridicamente
rilevane ad accedere agli atti relativi al procedimento tributario, salvo consentirgli l’esercizio di tale diritto
solo una volta emesso l’atto impositivo.
Ma si tratta comunque di una soluzione inaccettabile, perché va contro il diritto dell’UE: così la Corte di
giustizia ha riconosciuto la possibilità che vengano in rilievo obiettivi di interesse generale (tutela della
riservatezza, segreto professionale…) idonei a giustificare delle restrizioni, ma è chiaro che una totale
preclusione al diritto di accesso PRIMA dell’emissione dell’atto impositivo, si rivela del tutto incompatibile
con la necessità di informarsi prima della sua emanazione.
Possono esercitare il diritto di accesso anche soggetti diversi dal contribuente accertato?
La giurisprudenza ha accordato, sempre sulla base della L. 241/1990, il diritto di accedere a dati fiscali di un
terzo, a condizione che la domanda di accesso sia sorretta da un interesse meritevole di tutela (qual è la
legittima difesa in giudizio).
Passiamo ora all’analisi dei soggetti destinatari dei controlli: mentre le liquidazioni (art. 36-bis d.p.r.
600/1973) sono esercitate in modo generalizzato nei confronti di tutti i contribuenti, non accade lo stesso
per i controlli sostanziali (lo stesso discorso vale per i controlli formali). Per i controlli sostanziali il sistema
attuale ha segnato il passaggio dall’originario controllo generalizzato a quello orientato, nei confronti di
situazioni di maggior rilievo economico e più significativamente esposte al rischio di evasione. Trova dunque
applicazione il principio della c.d eventualità dell’accertamento, da cui consegue la necessità di procedere
ad una selezione dei contribuenti che riduca la discrezionalità (e quindi la responsabilità)
dell’Amministrazione finanziaria, pur assicurando l’efficacia dei controlli.
Il legislatore ha previsto all’art. 37 d.p.r. 600/1973 che la selezione delle dichiarazioni da sottoporre a
controllo avvenga sulla base di liste selettive, attraverso le quali si individuano possibili operazioni sospette o
categorie di contribuenti.
Più precisamente, i destinatari dell’attività di accertamento sono individuati sulla base di criteri selettivi
fissati annualmente dal Ministro delle Finanze e sono finalizzati a garantire l’efficienza, l’imparzialità e
l’obiettività dell’attività di controllo e possono dunque comportare responsabilità per i funzionari che non vi
si attengono.

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Ci si interroga però sulla natura giuridica di tali decreti e della relativa efficacia: secondo alcuni hanno
efficacia esterna, in quanto sono oggetto di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e in questo modo si
garantirebbe meglio la ratio della loro istituzione (la tutela dei terzi rispetto all’imparzialità
dell’Amministrazione). La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza, invece, attribuiscono loro efficacia
interna, in quanto si tratta di mere norme organizzative.
Al tema della scelta del contribuente sotto controllo, si collega anche quello delle ragioni che hanno portato
a tale verifica e quindi al diritto per il contribuente di conoscere tali ragioni e anche l’oggetto di tale verifica.
(Per quanto riguarda i soggetti di maggiori dimensioni vengono effettuati controlli sistematici a scadenze
prestabilite).
I soggetti titolari dei poteri istruttori: sono l’Amministrazione finanziaria (attraverso la polizia tributaria) e
Guardia di Finanza (attraverso la polizia giudiziaria).
La Guardia di finanza opera secondo le regole del codice di procedura penale ed i relativi dati sono coperti
dal segreto istruttorio
I poteri istruttori si distinguono, sulla base della diversa pervasività che li caratterizza, in due
categorie:
1) Il potere di richiedere al contribuente o a terzi informazioni (trasmissione di dati e notizie; esibizione e
trasmissione di atti e documenti; potere di “invitare” il contribuente a comparire, di persona o a mezzo
di un proprio rappresentante, per fornire informazioni o chiarimenti).
2) Il potere di effettuare accessi, ispezioni e verifiche, presso il contribuente o terzi.

Per quanto riguarda le conseguenze dell’inadempimento alle richieste degli uffici —> tale comportamento
comporta una sanzione amministrativa. Se l’inadempimento riguarda direttamente il contribuente, l’art 32
co.4 d.p.r. 600/1973 prevede che le notizie ed i dati non addotti e gli atti, documenti e libri non trasmessi o
non esibiti non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento
in sede amministrativa e nella sede contenziosa. L’Ufficio ha l’obbligo di informare il contribuente di tale
conseguenza. La giurisprudenza di Cassazione ne ha operato un’interpretazione restrittiva, affermando che
affinché si possa parlare di rifiuto del contribuente all’esibizione (con il conseguente divieto di utilizzo del
medesimo materiale documentale in sede amministrativa e giudiziale) non è sufficiente una generica
richiesta da parte degli accentratori di esibire tutte la documentazione rilevante su una determinata
questione, dovendo la stessa essere specifica.
Il contribuente deve essere espressamente avvertito delle conseguenze della mancata esibizione, pena
l’inoperatività della preclusione in esame.
In ogni caso al contribuente deve essere consentito di depositare in allegato all’atto introduttivo del giudizio
di primo grado in sede contenziosa: le notizie, i dati, i documenti, libri e registri dichiarando di non aver
potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa ad egli non imputabile (causa riferibile sia
all’Amministrazione finanziaria, ES: trasferimento dell’ufficio; sia ad un comportamento non doloso o
colposo, ES: carenze organizzative, mancanza dell’ordinaria diligenza).
Infine, è stata attribuita rilevanza penale (art. 11 d.l. 201/2011) alla risposta mendace alle richieste degli
Uffici, perciò costituisce ora reato (punito con le pene previste dal codice penale e dalle leggi speciali) il
comportamento del contribuente che esibisce o trasmette atti/documenti falsi in tutto o in parte o fornisce
dati e notizie non rispondenti al vero. Oltre al diritto a mentire può assumere rilevanza anche il diritto al
silenzio, che forma oggetto di un’ampia giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo —> secondo
la quale, il diritto ad un equo processo comprende anche il diritto a mantenere il silenzio e a non auto-
incriminarsi, con l’effetto dunque sia di opporsi alle richieste documentali sia a rifiutare di rendere risposte
atte ad esporre il soggetto al rischio di incriminazioni.

Iniziamo l’analisi dei poteri istruttori:


-Il potere di richiedere informazioni: disciplinato dall’art. 32 d.p.r. 600/1973. Attraverso tale potere gli Uffici
possono invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti
per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti o ad esibire o trasmettere atti o
documenti rilevanti ai fini dell’accertamento (anche bancario) sempre nei loro confronti. Le richieste fatte e

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le risposte ricevute devono risultare da verbale sottoscritto anche dal contribuente o dal suo
rappresentante; in mancanza, ne deve essere indicato il motivo.
Ai soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili può essere richiesta anche l’esibizione di bilanci,
rendiconti, libri o registri.
Alle società, enti e imprenditori commerciali obbligati alla tenuta delle scritture contabili possono essere
chiesti: dati e notizie relativi alle vendite, agli acquisti, alle forniture e alle corresponsioni a titoli di compenso
e rimborso spese.
Infine, può essere invitato ogni altro soggetto a esibire o trasmettere atti o documenti fiscalmente rilevanti,
concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente. Gli inviti e le richieste devono essere notificati
al soggetto passivo con l’indicazione del termine per adempiere (non inferiore a 15 giorni).
La richiesta di informazioni è un potere istruttorio meno invasivo, tanto che si caratterizza per essere svolto
presso gli stessi uffici dell’Amministrazione finanziaria —> ed è proprio per questo che il legislatore non ha
previsto particolari tutele per il contribuente.

-Le indagini finanziarie: questo potere sta assumendo forte rilevanza nella lotta all’evasione fiscale e a tale
riguardo, gli uffici (e la Guardia di Finanza) possono richiedere:
a) agli organi e alle Amministrazioni dello Stato, agli enti non economici, alle società e agli enti di
assicurazione la comunicazione di dati e notizie relativi a soggetti indicati singolarmente per categorie;
b) alle società e agli enti di assicurazione (per quanto riguarda i rapporti con gli assicurati sulla vita) i dati e
notizie attinenti alla durata del contratto di assicurazione, all’ammontare del premio e alla individuazione del
soggetto tenuto a corrisponderlo;
c) ai soggetti sottoposti ad accertamento/ispezione/verifica, previa autorizzazione del direttore centrale
dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, oppure (per la Guardia di
finanza) del comandante regionale il rilascio di una dichiarazione contenente l’indicazione della natura, del
numero e degli estremi identificativi dei rapporti (in corso o estinti) intrattenuti con le banche, le Poste
Italiane S.p.A., gli intermediari finanziari…
d) alle banche, alle Poste Italiane S.p.A., alle società enti di assicurazione per le attività finanziarie, agli
intermediari finanziari, ecc…previa autorizzazione del direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle
entrate o del direttore della stessa: dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od
operazione effettuata (anche i servizi prestati) con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi o dagli
operatori finanziari;
e) alle società fiduciarie (specificando i periodi temporali di interesse), previa autorizzazione del direttore
centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa: di comunicare le
generalità dei soggetti per conto dei quali esse hanno detenuto o amministrato o gestito beni, strumenti
finanziari e partecipazioni in imprese.
Le richieste devono essere indirizzare al responsabile della strutta accentrata, o al responsabile della sede o
dell’ufficio destinatario che ne dà notizia immediata al soggetto interessato del fatto che è stata avviata nei
suoi riguardi l’attività istruttoria.
Il problema che storicamente si è posto ha riguardato la possibilità di superare la tradizionale riservatezza
(segreto bancario, segreto fiduciario) dell’attività dei soggetti destinatari dei poteri indicati. Tuttavia la Corte
costituzionale, nella sentenza 51/1992, ha chiarito che a tale dovere non corrisponde (in capo ai clienti) una
posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né un diritto della personalità, poiché la sfera di
riservatezza che circonda i conti e le operazioni degli utenti di tali servizi è direttamente strumentale
all’obiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali. In ragione di ciò la tutela del
segreto bancario è lasciata interamente alla scelta discrezionale del giudice ordinario.
Ed è con la L. 413/1991 che si è avuto il superamento del segreto bancario, in particolare:
a. consentendo all’Amministrazione finanziaria di valutare discrezionalmente l’opportunità di accedere ai
conti bancari e non più nelle sole ipotesi tassativamente previste dal legislatore;
b. semplificando il procedimento di autorizzazione, mediante l’eliminazione del doppio livello di
autorizzazione. Allo stato attuale, per procedere ad indagini finanziarie, occorre l’autorizzazione del direttore

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centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, o del
comandante di zona della Guardia di finanza.
Il legislatore ha trovato nel meccanismo autorizzatorio l’elemento di bilanciamento tra gli interessi erariali
tutelati dall’art. 53 Cost. e l’interesse allo svolgimento di un’attività economica, tutelato dagli artt. 41 e 42
Cost.
A seguito di una recente evoluzione dell’ordinamento, le potenzialità delle indagini finanziare sono
“aumentate” per via del progressivo ampliamento della cd. Anagrafe tributaria, con la creazione del cd.
archivio unico dei rapporti finanziari. (( l’Anagrafe, istituita con il d.p.r. 605/1973, con lo scopo di consentire
la raccolta e l’elaborazione dei dati relativi alla fiscalità dei contribuenti italiani —> ha formato oggetto di
una serie di interventi normativi che hanno previsto l’obbligo di comunicazione dei dati identificativi (anche
il codice fiscale) di ogni soggetto che intrattenga rapporti con gli operatori finanziari )).
I dati comunicati all’anagrafe sono utilizzati anche per la redazione di specifiche liste selettive di contribuenti
esposti a maggior rischio di evasione. Perciò, ad oggi si può parlare del pieno superamento del segreto
bancario, che non vede più (come in passato) l’impiego dell’indagine finanziaria solo per rafforzare
informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria, bensì per reperire elementi alla luce dei quali
avviare l’accertamento.
Va tuttavia rilevato che la trasmissione automatica tra enti pubblici di dati relativi al contribuente, rischia di
porsi in contrasto sia con la normativa europea in materia di trattamento dei dati personali, sia con l’art. 8
CEDU, relativo al rispetto della vita privata. In ogni caso, il Garante della privacy, con provvedimento del
luglio 2017 ha ritenuto idonee le misure e gli accorgimenti assicurati dall’Agenzia delle entrate in relazione al
trattamento dei dati personali.

Le presunzioni bancarie: parliamo ora del possibile utilizzo delle indagini finanziarie ai sensi dell’art 32 d.p.r.
600/1973 che prevede una duplice presunzione:
1. I dati e gli elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati a seguito delle indagini
finanziarie, sono posti a case delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38,39,40,41 del d.p.r. se
il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta;
2. alle stesse condizioni, i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni
sono posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne
indica il soggetto beneficiario e se non risultino dalle scritture contabili.
Maggiore criticità assume la presunzione che ricollega ai prelevamenti la riduzione di ricavi, che si fonda sulla
logica secondo cui ad un acquisto in nero corrisponderebbe una cessione in nero —> la Corte costituzionale
ha tuttavia ritenuto che siffatta previsione non sia lesiva del canone di ragionevolezza dell’art 3 Cost.
Tuttavia, in ossequio al principio di effettività della capacità contributiva, la stessa Corte esclude che tali
prelevamenti possano essere assunti nella loro dimensione lorda, dovendo dare rilevanza ai costi sopportati
per produrre il ricavo o il compenso.
La dottrina, in considerazione delle conseguenze assai gravi delle presunzioni in esse, ha sostenuto la
necessità di subordinarne l’operatività al previo esperimento del contraddittorio.
La giurisprudenza di legittimità ritiene che si tratti di presunzioni legali relative, che invertono l’onere della
prova a favore dell’Amministrazione finanziaria, la quale sarebbe legittimata ad emettere un atto di
accertamento sulla base delle sole risultanze acquisite in ambito finanziario, gravando poi sul contribuente
l’onere della prova contraria (la quale deve tendere a dimostrare che gli elementi desumibili dalla
movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni fiscalmente rilevanti).
Con il d.l. 193/2016, il legislatore è intervenuto per mitigare la presunzione relativa ai prelevamenti anche
per le imprese (tenendo conto anche delle esigenze familiari e personali dell’imprenditore) ha così stabilito
di dover tenere in considerazione solo dei prelevamenti superiori a 1.000 € giornalieri e a 5.000 € mensili.
Se la presunzione sui prelevamenti ha ora un ambito di applicazione soggettivo limitato, quello della
presunzione relativa ai versamenti è assai esteso. Da un lato, la Cassazione ha chiarito che l’utilizzazione dei
dati raccolti presso le aziende di credito non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività di
impresa (o lavoro autonomo), potendo gli stessi essere usati anche per dimostrare l’esistenza di
un’eventuale attività occulta oppure per quantificare il reddito ricavato. Dall’altro ha ritenuto che le norme

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in tema di accertamento bancario hanno portata generale e riguardano quindi la rettifica delle dichiarazioni
dei redditi di qualsiasi contribuente.

-La verifica fiscale (accessi, ispezioni e verifiche): il principale “modulo ispettivo” adottato
dall’Amministrazione finanziaria per accertare l’assolvimento degli obblighi da parte del contribuente è
costituito dalla verifica fiscale. Si tratta di un’attività di carattere amministrativo ed autoritativo posta in
essere dall’Amministrazione finanziaria. Essa si svolge presso il contribuente, si tratta di attività invasive che
incidono fortemente sulle libertà individuali del privato (infatti, proprio per questo motivo, il legislatore ha
previsto una serie di garanzie a tutela del contribuente) e consta di quattro fasi:
1) Accesso: consiste nel potere di entrare e permanere (anche senza o contro la volontà del contribuente)
nei locali di pertinenza dello stesso. Vi sono diverse ipotesi:
a. accesso presso la sede in cui si svolge l’attività di impresa, commerciale o agricola: l’accesso qui dev’essere
autorizzato con un ordine scritto, firmato dal capo dell’Ufficio fiscale deputato all’effettuazione del controllo.
b. accesso presso enti non commerciali: è necessaria solo l’autorizzazione interna del capo dell’ufficio
procedente
c. accesso presso studi di professionisti: in questo caso il legislatore ha dovuto contemperare le esigenze
dell’accertamento tributario con il segreto professionale cui sono tenuti i professionisti stessi. Non è
sufficiente l’ordine scritto del capo d’ufficio, ma è necessaria la presenza del professionista stesso, così da
garantirgli la possibilità di eccepire il segreto professionale.
(Ipotesi particolare riguarda l’accesso ai locali promiscui, cioè adibiti sia allo svolgimento di attività
economiche sia ad abitazione. In tale ipotesi, il legislatore tributario ha previsto (per garantire a favore del
contribuente il diritto all’inviolabilità del domicilio —> art. 14 Cost.) che l’ordine scritto di procedere del
capo d’ufficio, debba essere accompagnato da un’ulteriore autorizzazione dell’autorità giudiziaria).
d. accesso ai locali diversi da quelli in cui si esercita l’attività: ES, l’abitazione privata del contribuente,
occorre l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria e l’esistenza di gravi indizi di violazione delle norme
tributarie + lo scopo preciso di acquisire documenti, scritture ed altre prove delle violazioni. Il legislatore ha
consentito tale strumento all’Autorità finanziaria solo quando essa sia già in possesso di una serie di
elementi di particolare gravità.
Si è posto altresì il problema della natura giuridica dell’autorizzazione. Per la dottrina è un atto
amministrativo in senso sostanziale, in quanto emesso nell’esercizio di una funzione amministrativa di
controllo, da un organo giurisdizionale. Per la giurisprudenza, l’autorizzazione del Procuratore della
Repubblica integra un atto amministrativo, come tale sindacabile nella contesa tributaria che insorga in
esisto a detto accesso e postula una valutazione positiva e motivata della ricorrenza in concreto di gravi
indizi di violazione. Di ogni accesso e di ogni attività svolta dev’essere redatto un processo verbale di verifica
giornaliero.
2) Ricerca: è un’attività a carattere amministrativo alla quale gli uffici possono procedere previa
autorizzazione. È finalizzata all’acquisizione di elementi utili alla ricostruzione della posizione tributaria del
contribuente. Qualora per l’acquisizione di documentazione fosse necessario aprire casseforti, cassetti,
borse e così via, il contribuente può: i) non opporsi e consegnare tutti i documenti; ii) rifiutarne l’apertura e
in questo caso sarà necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
3) Ispezioni: sono delle attività concernenti il controllo delle scritture contabili o di altra documentazione
rilevante. Tale controllo è finalizzato a verificarne la regolarità formale e sostanziale. La verifica contabile
consiste nell’esame della completezza e veridicità della contabilità.
4) Verificazioni: consistono nel riscontro tra gli elementi contabili e quelli di fatto (ES: possono essere
oggetto di verifica la resa di una certa macchina o le rimanenze di un magazzino).
Tale analisi deve essere completata facendo riferimento all’art. 12 dello Statuto del contribuente, rubricato
“diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”.
-comma 1 prevede che l ‘accesso deve essere effettuato solo quando vi sia un’effettiva esigenza d’indagine e
controllo sul luogo e durante l’orario ordinario di esercizio dell’attività del contribuente.
-comma 2 prevede invece il diritto del contribuente ad essere informato delle ragioni che abbiano
giustificato la verifica e l’oggetto che la riguarda + ha il diritto di farsi assistere da un professionista abilitato.

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-comma 3 attribuisce al contribuente il diritto di stabilire il luogo dove svolgere le ispezioni.
-comma 4 prevede la redazione, al termine della verifica, di un processo verbale di constatazione
contenente l'esposizione analitica dei rilievi effettuati e l'individuazione delle sanzioni applicabili.
-comma 5 prevede poi che l'attività di verifica presso la sede della contribuente non si possa protrarre oltre i
30 giorni lavorativi, prorogabili di altri 30 giorni nei casi di particolare complessità individuati e motivati dal
dirigente dell’ufficio. Ambedue i termini sono ridotti a 15 giorni nei casi in cui la verifica sia svolta presso la
sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi.

In quanto redatto da pubblici ufficiali esso costituisce atto pubblico e prova legale, per cui fa piena prova fino
a querela di falso delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere
avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Per il resto, in particolare per le valutazioni giuridiche espresse
dai verbalizzanti, si è in presenza di mera espressione di giudizio non vincolante per l’ufficio né per il
contribuente o per il giudice. Esse sono idonee a produrre effetti giuridici —> poiché grazie alle stesse è
possibile iscrivere l’ipoteca legale o effettuerà un sequestro conservativo.
-comma 6 (nella prospettiva di una tutela più ampia) prevede che il contribuente, nel caso ritenga che i
verificatori procedano con modalità non conformi alla legge, può rivolgersi anche al Garante del
contribuente.
-comma 7 prevede che il contribuente, nei 60 gg. successivi al rilascio della copia del processo verbale di
chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, può comunicare osservazioni e richieste che sono
valutate dagli uffici impositori e prima della scadenza del termine l’avviso di accertamento non può essere
emanato, salvo casi di particolare e motivata urgenza. La giurisprudenza si era divisa sul quesito se e a quali
condizioni sia nullo l’avviso di accertamento emanato dall’Agenzia delle entrate prima dello spirare del
termini dei 60 giorni. Sono così intervenute le Sezioni Unite (18184/2013) hanno ritenuto che l’avviso di
accertamento sia nullo ove non suscitano ragioni di urgenza, nonostante la norma non commini alcuna
sanzione in tal senso. Con riferimento alla deroga dell’urgenza di provvedere: la Corte aderisce
all’orientamento che fa derivare l’illegittimità non già dalla mancanza, nell’atto emanato, dalla motivazione
sulla ricorrenza di un caso di urgenza, bensì dalla non configurabilità del requisito dell’urgenza, ritenendo
estraneo il rispetto delle regole procedimentali al contenuto della motivazione degli atti tributari. Le ragioni
non devono pertanto essere indicate nell’avviso di accertamento bensì solo a seguito di specifica
contestazione del contribuente. Per quanto riguarda il contenuto della deroga: inizialmente la
giurisprudenza riconosceva come motivo di urgenza l’imminente scadenza dei termini di decadenza, tuttavia
si deve accogliere con favore il successivo orientamento che ne ha escluso la rilevanza, affermando che
l’approssimarsi del termine di decadenza è evento indifferente rispetto alla posizione del contribuente.
Secondo la giurisprudenza (2014) costituisce una questione di urgenza idonea a derogare il termine di 60
giorni la “pericolosità fiscale” del contribuente dalla quale possa scaturire il rischio di perdita del credito
erariale. Decorrendo così il termine di 60 giorni dalla consegna del verbale di chiusura delle operazioni, il suo
rilascio viene ritenuto condizione di validità del successivo avviso di accertamento.
L’art. 12 dello Statuto del contribuente, richiama il rispetto del principio di collaborazione e buona fede che
deve improntare i rapporti tra Fisco e contribuente + deve considerarsi diretta applicazione dei principi
costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, di capacità contributiva e di
uguaglianza.
L’attività istruttoria potrebbe essere svolta con modalità non legittime. Si distinguono diverse ipotesi, come
ad ES: una sproporzionata o irragionevole compressione di un diritto fondamentale del contribuente oppure
l’ipotesi in cui ci si sia avvalsi di un potere istruttorio non previsto dalla legge.
Quali sono le conseguenze sull’atto finale emesso all’esito di un procedimento in cui si sono verificati dei vizi
dell’attività istruttoria? Le soluzioni della dottrina oscillano tra la tesi dell’invalidità derivata e quella della
inutilizzabilità delle prove illegittimamente o illecitamente acquisite.
Secondo la teoria dell’invalidità derivata, i vizi dell’istruttoria darebbero luogo ad un vizio intrinseco, proprio
cioè dell’atto impugnato.
Secondo la teoria dell’inutilizzabilità, i vizi dell’attività istruttoria determinerebbero una carenza probatoria
estrinseca dell’avviso di accertamento e dunque porterebbero ad una sua infondatezza.

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La dottrina è ormai univocamente orientata nel senso della inutilizzabilità e dunque nel ritenere che, ogni
qual volta un atto di accertamento sia in tutto o in parte fondato su prove illegittimamente acquisite, esso
dovrebbe ritenersi in tutto o in parte illegittimo per infondatezza nel merito. Inoltre, anche in virtù del rinvio
che l’art. 70 d.p.r. 600/1973 fa al codice penale ed al codice di procedura penale: che dispone
l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (art. 191
c.p.p.). È poi ancora prevalente in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale si può parlare di
inutilizzabilità solo laddove il vizio dell’attività istruttoria comporti la lesione di un diritto direttamente
tutelato dalla Costituzione. Infine, per quanto riguarda il profilo relativo alla responsabilità per il
comportamento illecito —> all’illiceità del comportamento consegue la responsabilità civile, penale e
amministrativa di colui che ha agito o di colui per il quale si è agito.

Capitolo Quattordici: i metodi di accertamento.


Con l'espressione metodi di accertamento si designano le modalità attraverso cui l'Amministrazione
finanziaria è legittimata a ricostruire la base imponibile del tributo.
L’art 38 d.p.r. 600/1973 disciplina i metodi di accertamento del reddito delle persone fisiche distinguendo
tra: 1. metodo analitico;
2. metodo analitico-induttivo;
3. metodo sintetico-puro (c.d. spesometro)
4. metodo sintetico-redditometrico.
L’art 39 disciplina invece i metodi di accertamento dei redditi determinati in base alle scritture contabili, vale
a dire dei soggetti esercenti attività di impresa e di lavoro autonomo (compresi i soggetti diversi dalle
persone fisiche) distinguendo tra:
1. metodo analitico o contabile;
2. metodo analitico-induttivo;
3. metodo di accertamento c.d. induttivo o extra contabile.

Va precisato però che i metodi previsti dall’art. 38 possono trovare applicazione anche nei confronti dei
soggetti che producono redditi determinati in base alle scritture contabili.
—>I metodi di accertamento del reddito delle persone fisiche:
1.Accertamento Analitico: oggetto di questo accertamento sono i redditi appartenenti alle singole categorie
reddituali (art. 38 co.2 —> secondo cui la rettifica deve essere fatta “con riferimento analitico ai redditi delle
varie categorie di cui all’art.6”).
L’ufficio, conoscendo la fonte produttiva del reddito, rettifica la dichiarazione se il reddito complessivo
dichiarato risulta inferiore a quello effettivo o non sussistono o non spettano le deduzioni dal reddito o le
detrazioni d’imposta indicate nella dichiarazione.
Qui l’Amministrazione finanziaria è dunque a conoscenza della fonte del reddito. Al fine di procedere
all’accertamento analitico, gli uffici dovranno muovere dalla verifica della certezza oggettiva del presupposto
(ES: nel caso delle imposte dirette: il possesso di un reddito appartenente ad una delle sei categorie
reddituali previste) e successivamente procedere alla determinazione della base imponibile secondo gli
ordinari criteri previsti nell’ambito di ciascuna categoria reddituale.
Il terzo comma dell’art. 38 aggiunge che l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nella
dichiarazione (salvo quanto stabilito dall’art. 39) possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal
confronto con le dichiarazioni degli anni precedenti…sulla base di presunzioni semplici, purché siano gravi,
precise e concordanti. Esso presenta così un duplice contenuto: ribadisce il principio per cui gli errori della
dichiarazione possono essere desunti sulla base di puntuali informazioni che gli uffici ricavano e legittima il
ricorso al ragionamento induttivo. Si introduce in questo modo nell’accertamento di tipo analitico un
elemento di induzione e così si perviene al secondo metodo di accertamento —>
2. Accertamento analitico-induttivo: L’induttività attiene ad uno specifico elemento reddituale nell’ambito
di una determinata categoria reddituale e non investe il reddito nella sua globalità. Innanzitutto, nel
consentire l’utilizzo di tali presunzioni, il legislatore amplia il campo di operatività dell’accertamento analitico
e il meccanismo delle presunzioni consiste nel risalire dall’esistenza di un fatto certo o noto (ma che non

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dimostra in modo diretto ciò che si vuole provare) si arriva a desumere l’esistenza del fatto da provare
(art.2727cc). Si tratta delle cd. prove indirette (critiche o logiche) che si aggiungono alle prove dirette (o
storiche, quali i documenti, confessioni, testimonianze…).
Le presunzioni possono avere natura:
- legale (è la legge a stabilire quando, da un determinato fatto, si debba desumere l’esistenza di un altro). E
possono essere assolute, se non ammettono prova contraria, oppure relative, se la ammettono.
- essere semplici: quando le presunzioni formano oggetto di un ragionamento extralegale, siamo in presenza
di presunzioni semplici, per la cui ammissibilità (art. 2727cc), sono necessari i requisiti di gravità, precisione e
concordanza. In questo caso, non è la legge a stabilire il passaggio dal fatto noto a quello ignoto, bensì è il
giudice (e prima ancora l’Amministrazione) che stabilisce liberamente se dalla conoscenza di determinati
fatti noti si debba desumere in via induttiva l’esistenza di un determinato fatto ignoto. (Si parla di
presunzioni semplicissime: quando il legislatore ammette il ricorso alle presunzioni anche in assenza dei
requisiti di gravità, precisione e concordanza).
La gravità, attiene al grado di continuità logica tra il fatto noto e quello ignoto (in giurisprudenza è
considerato sufficiente, ai fini della gravità, che l’esistenza del fatto ignoto sia desunta con ragionevole
certezza, anche probabilistica).
La precisione, impone che i fatti noti non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica.
La concordanza, richiede che la prova sia fondata su fatti noti convergenti, nella dimostrazione del fatto
ignoto o almeno non smentiti da altri dati ugualmente certi.
Secondo i più recenti orientamenti giurisprudenziali: non è necessario che il fatto ignoto sia desumibile da
una pluralità di fatti noti, ma ritengono che sia sufficiente anche un unico fatto noto, purché tutti gli aspetti
di esso siano chiaramente e univocamente concordanti sul verificarsi del fatto ignoto. In tal caso la prova
presuntiva costituisce prova completa, alla quale il giudice può attribuire rilevanza anche in via esclusiva.
Perciò, la verifica della sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza è una valutazione che
non può effettuarsi a priori, trattandosi di una questione da risolvere caso per caso secondi i criteri di
rilevanza e ammissibilità.
3. Accertamento sintetico: è quello secondo cui la capacità di spesa (o comunque l’impiego di una
determinata somma di denaro ovvero la disponibilità di beni e servizi che tale spesa implica) costituisce
indice presuntivo di un reddito.
L’Amministrazione finanziaria può quindi risalire, sulla base della spesa sostenuta da un contribuente, al
fatto ignoto, cioè all’esistenza di un reddito, per poi confrontarlo con il reddito dichiarato (e accertare, in
caso di discordanza, un maggior reddito imponibile rispetto a quanto dichiarato).
Il metodo sintetico si basa, dunque, sulla rilevazione del tenore di vita e della capacità di spesa del
contribuente (cd. «redditometro»).
Qui, a differenza del metodo analitico, si prescinde dall’individuazione della fonte produttiva e dalla
corrispondente categoria reddituale e si mira direttamente a ricostruire il reddito complessivo netto, quale
ne sia la fonte. Si tratta in particolare del reddito complessivo a fini IRPEF, con esclusione di ogni sua
rilevanza ai fini IVA e IRAP.
Trattasi di accertamento presuntivo del reddito, che determina l’inversione degli oneri probatori ed impone
al contribuente di giustificare l’apparente discordanza tra il contenuto della propria dichiarazione e la sua
effettiva capacità economica (art. 38 d.p.r. 600/1973).
L’art. 22 d.l. 78/2010 ha apportato significative modifiche all’istituto dell’accertamento sintetico, applicabili
a partire dagli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla
data della sua entrata in vigore.
- Il comma 4 dell’art. 38 disciplina il c.d. “accertamento sintetico-puro” (o in senso stretto).
Nella versione prima del d.l 78/2010, gli uffici in base ad elementi e circostanze di fatto certi, muovendo
dalla spesa riferibile ad un determinato soggetto, potevano quantificare il reddito ad esso attribuibile per poi
confrontarlo con il reddito dichiarato. Il nuovo testo ora non richiama più il contenuto induttivo di “elementi
e circostanze di fatto certi”, bensì si riferisce indistintamente alle spese di qualsiasi genere sostenute nel
periodo di imposta.

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- Il comma 5 dell’art. 38 disciplina invece l’accertamento c.d. “sintetico-redditometrico”. La precedente
normativa rinviava ad un decreto ministeriale per l’individuazione del contenuto induttivo di alcuni elementi;
questo decreto era stato denominato “redditometro” e prevedeva un elenco di beni distinti per
caratteristiche ai quali venivano associati valori di reddito. Il redditometro era volto quindi a quantificare a
priori l’ammontare della spesa connessa alla disponibilità di beni e servizi individuati presso il contribuente.
Nel testo novellato, viene previsto un nuovo redditometro e la sua elaborazione deve avvenire mediante
l’analisi di campioni significativi di contribuenti (con differenziazioni in base al nucleo familiare e all’area
territoriale di appartenenza).
Il ragionamento logico su cui si basa l’accertamento redditometrico è quello per il quale dal possesso di
determinati beni o di altri indici di spesa, si desume l’ammontare della spesa connessa per il loro acquisto e
mantenimento. Dal sostenimento di questa spesa si desume il possesso di un reddito adeguato,
predeterminato normativamente. Perciò ora non ci si muove più direttamente dalla spesa, ma dalla titolarità
di indici di spesa.
Per la formazione del nuovo redditometro sono state prese in considerazione più di 100 voci, distinte in
sette categorie (abitazione, mezzi di trasporto, contributi e assicurazioni, istruzione, attività sportive e
ricreative e cura della persona, altre spese significative quali oggetti d’arte/gioielli/donazioni, investimenti
immobiliari e mobiliari netti). La metodologia di stima si riferisce a gruppi omogenei di famiglie, differenziate
per aree geografiche. L’Agenzia delle entrate, prima di procedere all’accertamento, dovrà verificare la cd.
famiglia fiscale e valutare la congruità della spesa in tale ambito. L’attuale formulazione della norma segna
comunque un passo avanti nel prevedere che la redazione del redditometro debba farsi mediante l’analisi di
campione significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area
territoriale di appartenenza. Il decreto del Ministero dell’Economia e delle finanze emanato nel 2012 ha
individuato il contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva (decreto poi modificato
nel 2015 ad opera del Garante per la privacy). Esso prevedeva dunque un elenco delle spese del
contribuente dettagliato a tal punto da risultare come interferenza nella vita privata del contribuente —> sia
il Tribunale di Napoli, sia la giurisprudenza tributaria ne hanno rinvenuto il contrasto con il Codice della
privacy.
In conclusione, si può dire che la determinazione del reddito accertabile in via sintetica, si baserà su questi
quattro elementi:
1. Le spese certe: spese per beni e servizi di uso corrente
2. Gli investimenti/incrementi patrimoniali: L’accertamento sintetico può essere effettuato anche in base ad
altri fatti tra cui la spesa per incrementi patrimoniali. Quando l’esborso è elevato in rapporto ai redditi
dichiarati dal contribuente nell’anno in cui viene fatta la spesa e in quelli precedenti, è legittimo presumere
che siano stati utilizzati redditi non dichiarati.
3. La quota di risparmio dell’anno;
4. La spesa per elementi certi: spese ancorate all’esistenza di elementi oggettivamente riscontrabili (mq di
un’abitazione).
Valore probatorio: si è discusso in dottrina sul valore probatorio della quantificazione redditometrica: tra la
natura di presunzione legale relativa e quella di presunzione semplice. Nel primo caso, il passaggio induttivo
da fato noto (sostenimento di una spesa) al fatto ignoto (possesso del reddito) è operato da una norma, con
la conseguenza che tale passaggio è vincolante sia per l’ufficio sia per il giudice (a meno che il contribuente
non dimostri che tale indice di spesa non è applicabile alla sua specifica situazione).
Nel secondo caso non vi è una predeterminazione normativa, quindi il giudice (e prima l’Amministrazione) è
libero di trarre le conclusioni che ritengono derivare dall’esistenza del fatto noto —> in tal caso, il giudice
sarà libero di considerarlo non idoneo a fornire la dimostrazione del maggior reddito.
La tesi tradizione è a favore della natura di presunzione legale, ma a seguito di recenti sentenze della Corte
di cassazione, acquista sempre più forza la tesi della natura di presunzione semplice.
Per quanto attiene alla prova contraria che il contribuente può fornire, si stabilisce che essa può consistere
nel fatto che il maggior reddito attribuito derivi da redditi diversi da quelli posseduti dal contribuente nel
periodo di imposta, da redditi esenti (ES: dividendi derivanti da partecipazioni qualificate), da redditi soggetti
a imposizione alla fonte a titolo di imposta o redditi comunque legalmente esclusi dalla base imponibile.

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Il contribuente ha poi la facoltà di dimostrare ance il diverso ammontare delle spese attribuite al medesimo.
Cioè, il contribuente potrà dimostrare le circostanze giustificative del suo tenore di vita oltre che dimostrare
l’insussistenza di fatti (spese sostenute, beni posseduti) che gli uffici hanno utilizzato per procedere
all’accertamento con metodo sintetico. Di tali circostanze il contribuente deve dimostrare solo l’esistenza e
non anche il loro impiego per sostenere le spese (sicché sarebbe un eccessivo onere a carico del
contribuente). In conclusione, la prova contraria del nuovo redditometro dovrebbe riguardare la sola
esistenza in astratto delle circostanze giustificative. Inoltre, dev’essere pacifico che la prova contraria non
può ritenersi in alcun modo vincolata, al fine di dissipare ogni dubbio di legittimità costituzionale per
violazione del principio costituzionale del diritto alla difesa.
La prova contraria potrà essere fornita sia in sede contenziosa che durante l’accertamento. A seguito
dell’introduzione del d.l. 78/2010 che ha istituzionalizzato il contraddittorio con il contribuente, l’ufficio ha
ora l’obbligo di invitare a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti il contribuente stesso.
Il mancato rispetto del contraddittorio è motivo di nullità dell’avviso di accertamento. L’accertamento
emanato successivamente al contraddittorio dovrà tenere conto delle deduzioni difensive del contribuente,
in quanto solo in tale modo l’obbligo del contraddittorio acquista un reale contenuto. Infine, contrariamente
a quanto sostenuto in giurisprudenza, deve escludersi l’applicabilità dell’accertamento sintetico nei confronti
di soggetti non residenti. Se il contribuente non residente sostiene spese nel territorio italiano che siano
indice di capacità contributiva, le stesse non potranno che essere correlate al reddito ovunque prodotto dal
contribuente.

Il metodo di accertamento dei redditi determinati in base alle scritture contabili:


A. L’accertamento analitico (o contabile): del reddito di impresa o del reddito da lavoro autonomo è
disciplinato dall’art 39 co.1 lett.a-b-c) d.p.r 600/1973 e trova applicazione quando le scritture contabili siano
state regolamene tenute e risultino disponibili e non inattendibili nel loro complesso.
Con riferimento all’accertamento del reddito di impresa, esso tende a garantire la coerenza
dell’accertamento con la sua deviazione dal conto economico dell’impresa; esso dunque parte dai
documenti contabili dell’impresa purché essi siano formalmente regolari e sostanzialmente attendibili.
Il legislatore prevede tre diverse fattispecie in cui si rende applicabile il metodo di rettifica analitico:
1. Non corrispondenza tra gli elementi indicati nella dichiarazione e quello risultati dal bilancio o dal conto
economico;
2. Inesatta applicazione delle disposizioni che disciplinato la determinazione del reddito d’impresa.
3. L’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati,
che risulti in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari compilati nel corso dell’attività istruttoria
espletata dall’ufficio, dagli atti e documenti esibiti e trasmessi dal contribuente.
B. L’accertamento analitico induttivo: in presenza di una contabilità regolarmente tenuta e attendibile,
l’Amministrazione finanziaria deve dunque operare la quantificazione del reddito imponibile secondo moduli
procedurali rigorosi. In questo contesto si inserisce l’ulteriore ipotesi contenuta alla lett.d) dell’art. 39,
secondo il quale l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate può essere
desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi precise e concordati. (Si è in presenza del
metodo analitico-induttivo) si tratta di un metodo misto, dove all’interno del metodo analitico si inseriscono
elementi induttivi. Quindi, in presenza di una contabilità formalmente regolare e sostanzialmente
attendibile, l’ufficio dovrà contestare specificatamente le singole poste, attive o passive, in cui la contabilità
stessa si articoli, avvalendosi anche di presunzioni. L’esame della giurisprudenza in materia evidenzia un
utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo non solo per rettificare una singola posta, ma anche per
ricostruire l’ammontare complessivo dei ricavi dell’impresa.
Va tuttavia rilevato come l’operatività di tale accertamento presuppone un fatto di evasione, ossia
l’occultamento dei ricavi. Esso pertanto non può essere utilizzato dall’ufficio per accertare dei redditi
normali, rettificando sulla base di parametri esterni (ES: la difformità rispetto ad un valore congruo di
mercato..), i corrispettivi legittimamente pattuiti dai contribuenti e nei quali non sia dimostrato alcun loro
occultamento. Il principio generale rimane sempre quello dei corrispettivi pattuiti tra le parti, cui l’ufficio non
può sostituire il valore normale.

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Ai sensi dell’art. 62-sexies d.l. 331/1993 sono ricondotti nell’ambito dell’accertamento analitico-induttivo gli
studi di settore. Inizialmente l’accertamento analitico-induttivo era precluso nei confronti del contribuente
che risultasse congruo rispetto alle risultanze degli studi di settore (art. 10 L.146/1998). Questa disposizione
è stata abrogata dall’art. 10 co.9 d.l. 201/2011 che dispone che nei confronti dei contribuenti soggetti
all’accertamento basato sugli studi di settore, che dichiarano ricavi/compensi pari o superiori a quelli
calcolati dallo studio di settore, sono:
A) preclusi gli accertamenti basati su presunzioni semplici;
B) ridotti di un anno i termini di decadenza per l’attività di accertamento, salvo in presenza di violazioni
penalmente rilevanti;
C) è ampliato lo scostamento richiesto tra reddito dichiarato e reddito accertabile che legittima
l’accertamento sintetico.
Tali benefici, si applicano al contribuente che abbia: i) regolarmente assolto agli obblighi di comunicazione
dei dati ai fini degli studi di settore; ii) sulla base dei dati indicati nel modello di studi, il soggetto deve
risultare coerente agli specifici indicatori previsti dai decreti di approvazione dei singoli studi di settore.

Gli studi di settore:


Con l’art. 62-sexies d.l. 331/1993, l legislatore ha previsto che gli accertamenti ex art 39 co.1 lett.d) d.p.r.
600/1973 + art. 54 d.p.r. 633/1972 possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i
ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondamentalmente desumibili dalle caratteristiche e dalle
condizioni d’esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore (elaborati ai sensi dell’art.
62-bis). In particolare, quest’ultimo come modificato dall’art 10 L. 146/1998, stabilisce che gli uffici del
dipartimento delle entrate del ministero delle finanze, sentite le associazioni professionali e di categoria,
elaborano (in relazione ai vari settori economici) appositi studi di settore al fine di rendere più efficace
l’azione di accertamento e di consentire una più articolata determinazione dei coefficienti presuntivi + che a
tal fine gli uffici identifichino campioni di contribuenti appartenenti ai medesimi settori da sottoporre a
controllo allo scopo di individuare elementi caratterizzanti dell’attività esercitata.
A tale normativa hanno fatto seguito altre disposizioni che hanno introdotto anche nuovi indici presuntivi di
compensi e ricavi, al fine di facilitare l’attività di accertamento degli uffici.
Innanzitutto abbiamo le disposizioni dettate dall’art. 10 L. 146/1998 che stabilisce che gli accertamenti
basati sugli studi di settore sono effettuati qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulti
inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi. Nel caso di
accertamento effettuato sulla base degli studi di settore, l’ufficio, prima della notifica dell’avviso di
accertamento, invita il contribuente a comparire (ai sensi del d.lgs. 218/1997).
L’art 10 bis, prevede invece che gli studi di settore siano soggetti a revisione al massimo ogni tre anni dalla
loro entrata in vigore, precisando che ai fini dell’elaborazione e della revisione degli studi di settore, si tiene
conto di valori di coerenza, risultanti da specifici indicatori definiti da ciascuno studio. Tali valori però non
sono mai stati determinati e in mancanza, il legislatore ha elaborato ulteriori parametri di riferimento,
destinati ad affiancare i coefficienti presuntivi di compensi e ricavi contemplati dagli studi di settore.
Con la legge 296/2006 è stato inoltre previsto che fino all’elaborazione e revisione degli studi di settore si
deve tenere conto altresì di specifici indicatori di normalità economica idonei all’individuazione di ricavi,
compensi e corrispettivi attribuibili al contribuente in relazione alle caratteristiche e alle condizioni di
esercizio della specifica attività svolta.
Gli studi di settore permettono all’Amministrazione finanziaria di determinare i ricavi o i compensi dei
soggetti appartenenti ai singoli settori economici. Costituiscono una ricostruzione statica dell’ammontare dei
ricavi e compensi di imprese e lavoratori autonomi, elaborata in funzione del settore di appartenenza.
Procedura della loro costruzione si compone delle seguenti fasi:
1. Vengono trasmessi ai contribuenti dei questionari relativi ad una serie di elementi extracontabili e
contabili (data di apertura, mq dell’attività, localizzazione, numero di dipendenti…);
2. L’esame dei dati raccolti è effettuato attraverso una tecnica statistica denominata analisi delle
componenti principali, che consente di individuare le variabili più importanti per la formazione dei c.d cluster

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(cioè delle classi di imprese omogenee in cui può articolarsi lo svolgimento delle diverse attività
economiche);
3. Attraverso una tecnica denominata la regressione multipla, si determina una funzione di stima dei ricavi
presunti sulla base dei fattori individuati (è diversa a seconda del cluster di appartenenza).
4. Lo studio è sottoposto alla valutazione di una commissione ministeriale costituita tra il Ministero
dell’economia e delle finanze e le associazioni di categoria.
Se la commissione convalida lo studio, questo viene approvato con decreto dal Ministro dell’economia e
delle finanze.
Gli studi di settore così elaborati consentono una valutazione del reddito in termini di congruità
(corrispondenza dei ricavi al ricavo atteso risultante dall’applicazione dello studio) e coerenza
(corrispondenza dei ricavi ai valori di indicatori economici predeterminati, per ciascuna attività, dallo studio
di settore).
A questo punto vi possono essere quattro possibilità:
a) il contribuente è congruo e coerente: l’accertamento in base agli studi di settore non può essere
effettuato, ma l’interessato può essere oggetto di una verifica mirata per controllare se i dati relativi allo
studio di settore sono stati correttamente indicati;
b) il contribuente è congruo ma NON coerente: l’accertamento non può essere effettuato, tuttavia il
contribuente può essere selezionato per un controllo teso a verificare le cause della non coerenza (ES:
un’eccessiva produttività per addetto—> può implicare la presenza di lavoratori “in nero”);
c) il contribuente NON è congruo ma coerente: lo studio di settore trova applicazione;
d) il contribuente NON è né congruo né coerente: lo studio di settore trova applicazione.

Per quanto riguarda il loro ambito di applicazione: si applicano ai soggetti che nel periodo di imposta di
riferimento hanno indicato nella dichiarazione dei redditi ricavo o compensi per un importo non superiore a
5 milioni. Sono tuttavia previste delle clausole di esclusione e di inapplicabilità.
Sono clausole di esclusione: l’esercizio esclusivo o prevalente di attività per le quali non esiste uno studio di
settore, l’inizio o la cessazione dell’attività nel corso dell’anno..
Sono cause di inapplicabilità: la natura di società cooperative, consortili e consorzi che operano
esclusivamente per le imprese socie o associate, oppure di società cooperative.
Per quanto riguarda il loro valore probatorio: è previsto che gli indicatori di normalità economica
costituiscono presunzioni semplici e che i contribuenti che dichiarino ricavi ad essi inferiori non sono soggetti
ad accertamento automatico e in caso di accertamento, spessa all’ufficio accertatore motivare e fornire
elementi di prova per gli scostamenti riscontrati.
Sull’efficacia probatoria degli studi di settore è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che ha
evidenziato come essi costituiscano un mezzo di accertamento con natura di presunzione semplice, in
particolare essi rappresentano un mero indicatore di una possibile anomalia del comportamento del
contribuente, ove la redditività di quest’ultimo si manifesti gravemente incongruente rispetto alla normale
redditività dello studio di settore applicato. L’Amministrazione finanziaria è tenuta ad attivare un
contraddittorio, pena la nullità dell’accertamento per verificare la situazione economica del contribuente.
Nel caso degli studi di settore, la gravità, precisione e concordanza della presunzione non è ex lege
determinata da standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da
attivare obbligatoriamente. Il giudice potrà poi valutare liberamente l’applicabilità degli standard al caso
concreto.

C. Il metodo induttivo: L’art 39 co.2 d.p.r. 600/1973 disciplina infine l’accertamento induttivo. È una norma
che ha carattere eccezionale, poiché consente all’Amministrazione di prescindere in tutto o in parte dalle
risultanze del bilancio e delle scritture contabili e di utilizzare presunzioni semplicissime (prive di gravità,
precisione e concordanza), nonché dati e notizie raccolti.
Essa presuppone la ricorrenza delle seguenti e tassative circostanze, di particolare gravità:
- la dichiarazione non è stata presentata;
- il reddito d’impresa o di lavoro autonomo non è stato indicato nella dichiarazione;

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- dal verbale di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha sottratto all’ispezione una o più
scritture contabili obbligatorie;
- le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili
risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro
complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica,
- il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ad esibire o trasmettere documenti;
- l’omessa presentazione dei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli
studi di settore o di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti
(a prescindere da qualsiasi differenza tra il reddito accertabile e quello dichiarato).

Il presupposto di tale accertamento è dunque rappresentato dalla mancanza o dall’inutilizzabilità


dell’impianto contabile o della mancata dichiarazione dei redditi oggetto di accertamento. L’inaffidabilità
complessiva delle scritture e quindi la gravità delle infrazioni, andrà determinata caso per caso.
Un caso classico è quello del reperimento della contabilità in nero, di per sé idonea a mettere in crisi la
contabilità ufficiale.
Differenza tra accertamento analitico-induttivo e quello extracontabile: sta nel fatto che in entrambi i casi si
procede ad un accertamento basato su presunzioni, ma mentre nel primo caso si rettificano singole poste di
costi o ricavi o di spese o compensi (sostituendole a quelle indicate); nel secondo caso si rettificano i ricavi e i
costi complessivi per poi giungere al reddito (inteso come differenza tra tutti i ricavi e tutti i costi).
Per la giurisprudenza, la netta separazione va ricercata nella parziale od assoluta inattendibilità dei dati
risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso l’incompletezza/falsità/inesattezza degli elementi non
consente di prescindere dalle scritture contabili (essendo l’ufficio legittimato a colmare le lacune
riscontrate). Nel secondo caso, le omissioni o le false ed inesatte indicazioni risultano tali da inficiare
l’attendibilità e l’utilizzabilità anche degli altri dati contabili.

I metodi di accertamento nell’IVA.


La disciplina dei metodi di accertamento ai fini IVA è analoga a quella appena esaminata per le imposte sui
redditi relativamente ai soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Nonostante le differenze tra le
due imposte, i medesimi componenti attivi e passivi, sono di regola rilevanti ai fini della determinazione delle
rispettive basi imponibili.
Da ciò discende un’analoga disciplina non solo per quanto riguarda i poteri istruttori di cui godono gli uffici,
ma anche gli stessi metodi di accertamento.
Vale anche qui la distinzione tra metodo analitico o contabile (art. 54 co.1 e 2), metodo analitico-induttivo
(art. 54 co.2) e metodo di accertamento induttivo o extracontabile (art. 55).
Gli uffici procedono con metodo analitico, rettificando singole voci delle dichiarazioni annuali presentante
dai soggetti IVA. Le irregolarità possono risultare dal contenuto della dichiarazione stessa, dal confronto con
i dati risultanti dalle liquidazioni periodiche o precedenti dichiarazioni del contribuente…si tratta dunque di
ipotesi in cui le inesattezze (previa ispezione della contabilità) risultano direttamente dagli stessi documenti
presentati dal contribuente. Ulteriori inesattezze possono derivare da documenti di altri contribuenti oppure
da altri atti e documenti in possesso dell’ufficio. L’infedeltà delle dichiarazioni può risultare dagli esiti
dell’attività istruttoria, sulla base di presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti. Anche in
questo caso l’ufficio provvederà ad una rettifica di singole voci della contabilità del contribuente, sulla base
di presunzioni (metodo analitico-induttivo).
Infine, il legislatore ha previsto anche l’utilizzo del metodo induttivo- extracontabile, per ricostruire
l’ammontare complessivo dell’imponibile rilevante ai fini IVA e dell’aliquota applicabile sulla base dei dati e
delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza.
L’ufficio può ricorrere a questa metodologia solo nelle seguenti ipotesi tassativamente individuate:
a. Omessa presentazione della dichiarazione annuale;
b. Dichiarazione non sottoscritta o priva di indicazioni essenziali ai fini della determinazione dell’ammontare
delle operazioni effettuate;

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c. Omessa tenuta, rifiuto di esibizione o sottrazione all’ispezione dei registri o delle scritture contabili
obbligatorie;
d. Mancata emissione, totale o parziale, delle fatture;
e. Mancata conservazione, rifiuto di esibizione o sottrazione all’ispezione di tutte o parte delle fatture
emesse;
f. Inattendibilità complessiva della contabilità dovuta al riscontro di gravi, numerose e ripetute irregolarità
formali dei registri e delle altre scritture contabili.

Capitolo Quindici: l’avviso di accertamento. L’accertamento parziale e


integrativo.
L’avviso di accertamento si configura come l’atto finale attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria
procede ad accertare le eventuali irregolarità emerse in sede di controllo c.d. “sostanziale”.
Esso dunque, chiude la fase di controllo ed apre la possibile fase contenziosa mediante l’impugnazione
dell’avviso stesso: tra le due fasi si collocano, tuttavia, gli strumenti cd. “deflativi” del contenzioso.
L’avviso di accertamento ha una duplice funzione, come affermato dalla Corte costituzionale sentenza
313/1985 secondo la quale deve intendersi come atto efficace nei confronti del soggetto passivo di imposta,
conclusivo di un procedimento o subprocedimento di accertamento, il quale accerta e dichiara la sussistenza
(in tutto o in parte) dell’obbligazione tributaria o di un suo elemento l’accertamento di questo obbligo è
impugnabile dinanzi ai giudici.
Nel nostro ordinamento (in cui l’attuazione dei tributi è fondata sul sistema dell’autotassazione) si tratta di
un atto non necessario, che attiene alla fase patologica del rapporto di imposta e dal quale gli uffici possono
prescindere qualora il controllo sostanziale (pur attivato) si concluda con la constatazione della correttezza
del comportamento del contribuente.
L’avviso di accertamento può avere contenuto “rettificativo” oppure “sostitutivo” dell’adempimento
spontaneo: i) nel primo caso, l’accertamento (c.d. in rettifica) presuppone l’avvenuta valida presentazione di
una dichiarazione dei redditi da parte del contribuente; ii) nel secondo caso, l’accertamento (c.d. d’ufficio)
presuppone, invece, l’omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente o la presentazione
di una dichiarazione nulla.
La differenza sostanziale tra le due ipotesi consiste nel minor rigore probatorio richiesto nella seconda.
Infatti, in assenza di dichiarazione, l’Amministrazione dispone di una maggiore libertà nella ricostruzione del
reddito rispetto all’ipotesi di un’avvenuta presentazione. Ai sensi dell’art. 41 d.p.r. 600/1973 gli uffici delle
imposte procedono all’accertamento d’ufficio nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di
dichiarazione nulla —> l’ufficio determina il reddito complessivo del contribuente e i singoli redditi, sulla
base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza.

L’avviso di accertamento è un atto unilaterale di natura autoritativa e produttivo di effetti sul piano
sostanziale, indipendentemente dalla volontà delle parti. Esso può considerarsi un provvedimento
amministrativo sotto il profilo della sua attitudine a divenire definitivo, ove non impugnato entro 60 giorni
dalla sua notificazione e a consentire direttamente l’espropriazione forzata.
L’avviso di accertamento costituisce espressione del potere di autotutela, da non intendersi solo come
potere di annullamento, revoca o sospensione d’ufficio degli atti amministrativi ritenuti illegittimi o
infondati, ma anche nella possibilità da parte dell’Amministrazione finanziaria di accertare direttamente la
sussistenza dei presupposti d’imposta e di procedere all’affermazione e realizzazione della relativa pretesa
mediante gli atti che si rendono necessari (autotutela esecutiva).
A seguito del riconoscimento della sua natura provvedimentale, autoritativa e decisoria al suo destinatario
deve quindi essere riconosciuta una congrua forma di tutela, che si concretezza nella relativa impugnazione
ai fini di ottenerne l’eliminazione. In questo caso il contribuente agirà quale attore in senso solo formale
(essendo colui che prende l’iniziativa di adire il giudice) poiché attore in senso sostanziale dovrà considerarsi
l’Amministrazione finanziaria (essendo essa ad avanzare la pretesa), come tale gravata dell’onere probatorio
(dovendo escludere l’applicazione del principio di presunzione di legittimità degli atti dell’Amministrazione
finanziaria).

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L’avviso di accertamento ha dunque natura sostanziale. Tale riconoscimento si ricollega alla tesi secondo cui
l’azione dell’Amministrazione finanziaria, si svolge secondo i modelli amministrativistici tipici dell’esercizio di
poteri pubblici: l’avviso di accertamento è dunque atto terminale di un preciso procedimento
amministrativo. Tuttavia, con riferimento alla disciplina delle invalidità dell’atto impositivo, la legge 15/2005
ha apportato delle modifiche inserendo all’interno della L. 241/1990 due disposizioni ad hoc:
a) Art. 21-septies, disciplina la nullità dell’atto stabilendo che è nullo il provvedimento amministrativo che
manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in
violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge —> In
questa prospettiva la nullità assorbe l’inesistenza e si configura come categoria eccezionale ricorrente in
ipotesi tassativamente indicate.
b) Art. 21-octies, disciplina invece l’annullabilità dell’atto, stabilendo che è annullabile il provvedimento
amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti
qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato —> l’annullabilità costituisce dunque la regola nell’ambito delle invalidità dei
provvedimenti amministrativi.
Nel diritto tributario, dove è assente una teoria generale dell’invalidità, si è tradizionalmente ritenuto che
l’invalidità dell’atto tributario dovesse essere regolata secondo gli schemi del diritto amministrativo e che
quindi la nullità dell’avviso di accertamento dovesse essere intesa solo quale annullabilità.
La dottrina si è variamente espressa sull’applicabilità delle nuove norme in materia di nullità. Una parte ne
ha escluso in toto l’applicabilità alla materia tributaria; altra parte ha ritenuto di dare prevalenza alla scelta
del legislatore di non escludere tali disposizioni dal novero di quelle applicabili alla materia tributaria.
Dopo una lunga diatriba giurisprudenziale e dottrinale è intervenuta la Corte di cassazione (Cass. 22800-
22803- 22810/2015) che ha neutralizzato le disposizioni contenute nella L. 15/2005, affermando
l’inapplicabilità non solo dell’art. 21-septies, ma anche dell’octies: da un lato perché non si può ritenere
invalido ogni atto adottato in violazione di legge (ma solo quelli emanati in violazione di una disposizione di
legge o di un principio), dall’altro essendo irrilevante la circostanza che il contenuto dell’atto sarebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Per la Suprema Corte le nullità sono o quelle testualmente
disposte dalle norme tributarie o quelle ricavabili da un principio fondamentale, senza che sia necessario
accedere ad ulteriori indagini se esse abbiano o meno influito sul contenuto dell’atto.

L’effetto “impo-esattivo”:
Alla luce delle modifiche introdotte dall'articolo 29 co.1 lett.a) d.l. 78/ 2010, riguardanti il contenuto
dell'avviso di accertamento, si è previsto che questo debba contenere anche l'intimazione ad adempiere,
entro il termine per la proposizione del ricorso (60 giorni dalla notifica), l'obbligo di pagamento degli importi
nello stesso indicati ovvero, in caso di tempestiva impugnazione dell'atto, di un terzo delle imposte sugli
imponibili accertati e dei relativi interessi ai sensi delle disposizioni previste in tema di riscossione frazionata,
di cui all’art. 15 d.p.r. 602/1973.
Mediante tali modifiche è stata eliminata la fase dell'iscrizione a ruolo, per cui l'agente della riscossione,
sulla base dell'avviso di accertamento e senza la preventiva notifica della cartella di pagamento, può ora
direttamente procedere ad espropriazione forzata.
L'avviso di accertamento viene così a cumulare una triplice natura e funzione: 1) atto impositivo 2) titolo
esecutivo 3) precetto.
Quindi, l’avviso di accertamento deve adesso contenere la “intimazione ad adempiere”. Di conseguenza, un
avviso, sprovvisto di intimazione, dovrebbe essere considerato valido ma incapace di consentire agli agenti
della riscossione di procedere ad esecuzione forzata.
Dal momento che il nuovo avviso di accertamento diviene immediatamente esecutivo decorsi 60 giorni dalla
sua notificazione, alla notifica dell'atto di accertamento viene riconosciuta efficacia costitutiva (e non
semplicemente perfezionativa del titolo esecutivo). La notificazione non si pone, quindi, come termine
ultimo in corrispondenza del quale il titolo esecutivo progressivamente si perfeziona, ma quale circostanza
idonea a far decorrere il termine, in esito al quale il titolo esecutivo potrà considerarsi formato.

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La norma prevede poi che in caso di mancato pagamento o di mancata proposizione del ricorso e decorsi 30
giorni dal termine ultimo per effettuare il pagamento, le somme intimate nell’atto di accertamento
dovranno essere affidate in carico all’agente della riscossione, anche ai fini dell’esecuzione forzata. Ne
consegue che, in pendenza del termine di 30 giorni per l’affidamento in carico all’agente della riscossione, si
configura un’improcedibilità assoluta dell’atto di accertamento.
L'agente della riscossione, una volta ricevuto l'avviso, procede ad espropriazione forzata, senza la preventiva
notifica della cartella di pagamento, con i poteri, le facoltà e le modalità previste dalle disposizioni che
disciplinano la riscossione. Lo stesso agente dovrà informare il contribuente della presa in carico delle
somme per la riscossione (tramite raccomandata semplice o posta elettronica).
L’esecuzione forzata è sospesa per un periodo di 180gg dall’affidamento in carico agli agenti della riscossione
degli atti, salvo che gli stessi vengano a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo di un
pregiudizio alla riscossione. A seguito delle ulteriori modifiche apportate dal d.lgs. 159/2015, la sospensione
non opera in caso di accertamenti definitivi (ES: in caso di accertamenti non impugnati.
In più non è altresì più presto che l'espropriazione forzata sia avviata, a pena di decadenza, entro il 31
dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento divenuto definitivo.
Requisiti dell’avviso di accertamento. L’agente della riscossione dovrà ora agire esclusivamente entro il
termine di prescrizione applicabile in relazione alla natura delle somme da riscuotere.

Il contenuto dell’avviso di accertamento è costituito da elementi formali e sostanziali.


1. Elementi formali:
i) La competenza, l’atto deve essere emanato dall’ufficio competente nei confronti del contribuente,
individuato con riferimento al domicilio fiscale di quest’ultimo alla data in cui è stata o sarebbe dovuta esser
presentata la dichiarazione. A tal fine si distingue tra persone fisiche (residenti e non residenti) e soggetti
diversi dalle persone fisiche —> per le prime, rileva il comune di iscrizione anagrafica se residenti o il comune
di produzione del reddito se non residenti; per i secondi, si fa riferimento alla sede legale.
(Il domicilio fiscale: è riferito al Comune dello Stato, costituisce il criterio di collegamento rilevante
nell’ordinamento italiano ai fini procedimentali (competenza ai fini dell’accertamento e delle commissioni
tributarie; presentazione di istanze di ricorso; notificazioni..) mentre ai fini sostanziali rileva il diverso
concetto di residenza fiscale).
L’emanazione dell’avviso di accertamento da parte di un ufficio territorialmente incompetente comporta
l’emissione di un atto in carenza di potere, avendo la competenza dell’ufficio tributario carattere funzionale
ed inderogabile. Con la conseguenza che tale vizio comporterebbe la nullità assoluta dell’avviso (come tale
rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento). La giurisprudenza più recente, invece, distingue il
difetto assoluto di attribuzione dal vizio di incompetenza, precisando che il primo non è applicabile alla
materia tributaria e che il secondo comporta la nullità dell’avviso da eccepire entro il primo grado.
ii) La sottoscrizione, cioè inteso come riferibilità dell’atto ad una persona fisica, cui attribuirne la materiale
paternità. In particolare, in base agli artt. 42 d.p.r. 600/1973 e 56 d.p.r. 633/1972, l’avviso deve essere
sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un impiegato della carriera direttiva, a pena di inesistenza della
sottoscrizione e conseguente nullità dell’atto impositivo. (Si tratta anche qui di nullità da eccepire entro il
primo grado e quindi di una sostanziale annullabilità).
Qualora l’avviso sia sottoscritto da persona diversa dal capo dell’ufficio: è espressamente richiesta la delega
e il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario alla sottoscrizione.
Inoltre, ai fini della validità dell’avviso di accertamento, è sufficiente che il soggetto delegato appartenga alla
carriera direttiva (cioè i funzionari rientranti nella “terza area funzionale”, a prescindere dal possesso della
qualifica di dirigente. Inoltre, la delega può essere conferita con atto proprio o con ordine di servizio, purché
venga indicato (assieme alle ragioni della delega, quindi le cause) il termine di validità (dovendosi escludere
una delega a tempo indeterminato) e il nominativo del soggetto delegato —> non è sufficiente l’indicazione
della sola qualifica professionale del destinatario senza alcun riferimento alle generalità del delegato
(deleghe impersonali o in bianco). Infine, è compito dell’Amministrazione dimostrare (solo in caso di
contestazione) l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega.

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iii. La pendenza del termine di accertamento: ai sensi dell’art. 43 d.p.r. 600/1973 (in materia di imposte
direte) e dell’art.57 d.p.r. 633/1972 (in materi a di IVA) gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a
pena di decadenza:
1) entro il 31/12 del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
2) nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla entro il
31/12 del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione sarebbe dovuta essere presentata.
3) in caso di accertamento basato sulla presunzione di cui all’art 12 d.l. 78/2009 (secondo il quale le attività
finanziarie e patrimoniali estere, detenute negli Stati a fiscalità privilegiata si presumono costituite con
redditi sottratti alla tassazione)i termini sono raddoppiati.
Inoltre, il d.l. 223/2006 aveva previsto che, in caso di violazione comportante denuncia penale (art. 331
c.p.p.), i termini precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la
violazione. Ciò per dare maggiore tempo all’Amministrazione finanziaria per accertare fatti particolarmente
complessi, mediante l’esito delle investigazioni.
In seguito (2015) il legislatore ha poi espunto dall’ordinamento il raddoppio dei termini (al fine di dissipare
incertezze sul piano applicativo), prevedendo così per gli accertamenti relativi ai periodi di imposta in corso
al 31 dicembre 2016, termini più ampi di quelli originali:
- entro il 31/12 del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione;
-nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, entro il 31/12
del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione sarebbe dovuta essere presentata.
Nel caso di dichiarazione integrativa, i termini di decadenza devono essere calcolati a partire dall’anno di
relativa presentazione, limitatamente agli elementi oggetto dell’integrazione della dichiarazione.
L’opinione giurisprudenziale prevalente ritiene che il vizio di inosservanza del termine rende l’atto
annullabile, in quanto il decorso del termine non estinguerebbe il potere impositivo ma ne renderebbe
soltanto illegittimo l’esercizio, quindi l’atto sarebbe solamente annullabile se contestato il relativo vizio. Il
termine di decadenza deve tenere conto del termine di 60 giorni, entro il quale il contribuente può
presentare memorie difensive.
iv. La notificazione al destinatario: è un atto recettizio, che dovrà avvenire entro i termini di decadenza
appena indicati. Si tratta di una condizione integrativa dell’efficacia della decisione assunta dall’ufficio
finanziario, ma non requisito di giuridica esistenza e perfezionamento dell’atto (con la conseguenza che se
un atto viene annullato per vizi di notifica, è sufficiente il rinnovo della sua sola notificazione e non anche
dell’atto).
Ai sensi dell’art. 60 d.p.r. 600/1973, la notificazione è eseguita secondo le norme dagli artt. 137 e ss c.p.c.
con alcune differenze:
- La notificazione è eseguita (oltre che dagli ufficiali giudiziari) dai messi comunali o dai messi speciali
autorizzati dall’ufficio;
- il messo deve far sottoscrivere l’atto o l’avviso dal consegnatario o indicare i motivi per i quali il
consegnatario non lo ha sottoscritto;
- se il consegnatario non è destinatario dell’atto o dell’avviso, il messo consegna o deposita la copia dell’atto
da notificare in busta che provvede a sigillare e su cui trascrive il numero cronologico della notificazione,
dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia. Il consegnatario deve sottoscrivere una
ricevuta e il messo dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso a mezzo di raccomandata;
- salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel
domicilio fiscale a mezzo di raccomandata;
- è facoltà del contribuente eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio
domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano. Ciò deve risultare da apposita
comunicazione effettuata all’ufficio competente;
- quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione, non vi è abitazione, ufficio o azienda del
contribuente (irreperibilità assoluta) o comunque quest’ultimo risulti irreperibile o trasferitosi in luogo
sconosciuto, l’avviso del deposito della copia si affigge nell’albo del comune e la notificazione si reputa
eseguita nell’ottavo giorno successivo all’affissione. In caso di irreperibilità relativa, l’atto è depositato alla

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casa comunale. L’avvenuto deposito è comunicato al destinatario sia con l’affissione di un avviso presso la
porta dell’abitazione sia con l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento;
- è facoltà del contribuente non residente nello Stato e che non vi abbia eletto domicilio, comunicare un
indirizzo estero per la notificazione degli avvisi e degli atti che lo riguardano.
- a persona residente all’estero o con residenza/dimora/ufficio sconosciuti, non si applicano le norme in
tema di notificazione per pubblici proclami o in altri modi stabiliti dal giudice.
(La Corte costituzionale ha affermato che la notificazione deve garantire al notificatario l’effettiva possibilità
di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e quindi l’esercizio del suo diritto di difesa).
Esistono poi tre ipotesi di notifica per mezzo del servizio postale:
1. La notificazione può essere effettuata, dai soggetti abilitati (messi comunali o messi speciali autorizzati)
con impiego di plico sigillato e raccomandata con avviso di ricevimento, a mezzo del servizio postale, ai
sensi del codice civile. La notificazione è effettuata alla data della spedizione, mentre i termini che
iniziano dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto, secondo il principio della
scissione soggettiva degli effetti. In caso di irreperibilità relativa, la notifica si perfeziona trascorsi 10
giorni dal deposito presso l’ufficio postale (cd. compiuta giacenza).Nel caso di irreperibilità assoluta, la
notifica si perfeziona decorsi 8 giorni dall’affissione dell’avviso di deposito. La prova dell’effettiva
ricezione dell’atto è data dall’avviso di ricevimento e non consente forme equipollenti.
2. La notificazione può anche essere effettuata in via diretta da parte degli Uffici finanziari, a mezzo del
dello stesso servizio postale. Anche qui, per quanto riguarda la decorrenza dei termini per impugnare (in
caso di mancato recapito della raccomandata), la notifica deve ritenersi eseguita quando sono decorsi 10
giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza.
3. Vi è poi una notificazione in via diretta effettuata attraverso la raccomandazione ordinaria (così accade
per gli avvisi di accertamento parziale, per le notifiche ai contribuenti non residenti e per le cartelle
esattoriali.

Infine, per la notifica di avvisi di accertamento alle imprese individuali o costituite in forma societaria e ai
professionisti iscritti in albi o elenchi potrà essere effettuata direttamente dal competente ufficio a mezzo di
PEC all’indirizzo del destinatario risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta certificata.
Per la notifica delle cartelle esattoriali trova applicazione la specifica procedura prevista dal d.l. 602/1973.
Anche in questo caso, la giurisprudenza ha ritenuto che la notificazione possa avvenire direttamente da
parte dell’agente della riscossione con raccomandata con avviso di ricevimento.
Per quanto attiene alle conseguenze di eventuali vizi di notifica, la giurisprudenza applica anche alla
notificazione dell’avviso di accertamento le norme sulla sanatoria delle notifiche invalide degli atti
processuali e ritiene che il ricorso contro l’avviso di accertamento sani i vizi di notificazione atteso il
raggiungimento dello scopo, con la doppia eccezione che il conseguimento dello scopo (impugnazione)
intervenga dopo il termine di decadenza oppure che si tratti di ipotesi di inesistenza della notifica (fermo
restando che in questo caso l’Ufficio potrà rinotificare l’atto, nel caso in cui si ancora nei termini).
Quest’ultima ipotesi ha recentemente subito un ridimensionamento, infatti con una sentenza del 2016 le
Sezioni Unite hanno “marginalizzato” le ipotesi di inesistenza, affermando che non si tratta di un vizio più
grave della nullità, bensì di ipotesi di non atto, in cui cioè viene posta in essere un’attività priva degli
elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile l’atto.

Diversa dalla notificazione è la comunicazione: prevista dall’art 6 co.1 L. 212/2000, secondo il quale
l’Amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui
destinati. Questa si distingue dalla notificazione e dal dovere di informazione —> secondo il quale, invece,
l’Amministrazione deve informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa
derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione.

2. Elementi sostanziali:
A. Il dispositivo: varia a seconda della struttura e della disciplina dei diversi tipi di imposte.

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In materia di imposta su redditi, l’art. 42 d.p.r. 600/1973, stabilisce che l'avviso di accertamento deve recare
l'indicazione dell'imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate al
lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute d'acconto e dei crediti d'imposta. In altri termini, si tratta di
tutti quegli elementi rilevanti per la determinazione dell’imponibile e dell’imposta.
Con riferimento all’aliquota, la sua indicazione deve essere fornita secondo il principio di precisione e
chiarezza delle indicazioni che è alla base del precetto di cui all'articolo 42 del suddetto d.p.r. Alcuni
elementi dovranno essere indicati soltanto laddove esistenti (detrazioni, crediti d’imposta, ritenute…),
compresa la stessa imposta, in quanto si può trattare di casi di avvisi senza imposta. Maggiormente
dettagliati e differenziati sono gli elementi che devono contenere gli avvisi di accertamento ai fini IVA, in
relazione ai quali l’art. 56 d.p.r. 633/1972 distingue a seconda della tipologia di accertamento svolta.
B. L’obbligo di motivazione: previsto dall’art. 42 d.p.r 600/1973, secondo cui l'avviso di accertamento deve
essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e in
relazione a quanto stabilito dalle disposizioni dei precedenti articoli + dall’art. 7 dello Statuto, secondo il
quale gli atti dell’Amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dalla legge sul
procedimento amministrativo (241/1990).
La motivazione consiste nell'iter logico-giuridico che sta alla base dell’atto di accertamento, ossia
nell'indicazione dei fatti contestati, delle norme che si ritengono violate e di quelle ritenute applicabili, delle
argomentazioni giuridiche e dell'enunciazione+valutazione delle prove.
La motivazione rappresenta quindi la garanzia per il contribuente di poter valutare la fondatezza della
pretesa dell'Amministrazione finanziaria e di poterne eventualmente contestare la legittimità, attraverso una
motivata impugnazione. Essa completa anche il gruppo di garanzie che compongono il principio del giusto
procedimento (e più in generale, del principio di “buona amministrazione”), enunciato dall’art. 41 della Carta
europea dei diritti fondamentali.
Il contenuto della motivazione varia a seconda della natura dell’imposta, può essere “minimo” per gli atti
relativi ad imposte sui trasferimenti della ricchezza e può essere più “articolato” per gli accertamenti in
materia di imposte sui redditi. Il suo contenuto deve quindi necessariamente adeguarsi all’oggetto dell’atto
stesso. —> La motivazione sarà adeguata quando nell’atto siano state indicate con precisione le singole
vicende o situazioni.
Per quanto attiene agli effetti della mancanza di motivazione: l’art. 42 d.p.r. precisa che l’effetto è la nullità
dell’atto, anche se in realtà, si tratta di annullabilità. Inoltre, appare fondamentale l’esistenza dell’obbligo di
enunciare le prove nell’avviso di accertamento, in quanto in questo modo si può rinvenire un bilanciamento
tra le esigenze del contribuente di conoscere le prove a fini difensivi. Ulteriore problema è quello della
motivazione “per relationem”, è il caso in cui le ragioni della motivazione risultano da altro atto
dell’Amministrazione —> lo Statuto afferma che: se nella motivazione si fa riferimento ad altro atto, questo
dev’essere allegato all’atto che lo richiama; poi, anche il d.p.r. 600/1973 sancisce che: se la motivazione fa
riferimento ad un altro atto non conosciuto o non ricevuto dal contribuente, questo dev’essere allegato
all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale. Anche se sussiste
una grande differenza tra le due disposizioni, la soluzione più corretta sembra quella di risolverla caso per
caso, escludendo qualsiasi ipotesi di mera conoscibilità.
Sussistono poi casi di motivazione doppia o rafforzata. L’art. 42 d.p.r. 600/1973, prevede infatti che l’avviso
di accertamento deve essere motivato “con la specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che
giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici”. Anche in caso di accertamento induttivo ai fini IVA,
sussistono analoghi obblighi di motivazione rafforzata.
L’art. 12 L.212/2000 prevede un obbligo di motivazione rafforzata se, prima dell’emanazione dell’avviso di
accertamento, il contribuente interviene nel procedimento esponendo le sue ragioni. In tal caso sorge
l’obbligo per gli uffici di valutare le deduzioni del contribuente e di dare atto anche di tale attività nell’avviso
di accertamento conclusivo del procedimento.
C. Ulteriori indicazioni: per quanto riguarda il contenuto dell’atto, assolvono ad una generale funzione di
garanzia dei pirati e di loro completa informazione, le ulteriori indicazioni contenute nell’atto stesso, ES:
l’ufficio da cui ottenere informazioni, il responsabile del procedimento, l’organo giurisdizionale o
amministrativo davanti al quale viene presentato il ricorso oppure le modalità e i termini per provvedervi.

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Quesito classico del diritto tributario è se l’avviso di accertamento debba essere uno e uno solo per ciascun
periodo di imposta (principio di unicità) e (proprio perché unico) avere ad oggetto a totalità del presupposto
realizzato dal contribuente (principio di globalità) OPPURE se la pretesa tributaria possa frammentarsi in una
pluralità di atti per ciascun periodo di imposta, ricostruendo progressivamente la capacità contributiva del
contribuente.
A sostegno della prima tesi, i principi di unicità e di globalità dell’avviso di accertamento poggiano su
fondamenta molto solide e costituzionalmente rilevanti, quali: i) le esigenze di certezza e stabilità dei
rapporti giuridici; ii) il principio di buon andamento e imparzialità della P.A.; iii) il principio di non
aggravamento del procedimento; iv) il principio di proporzionalità: v) il diritto di difesa del contribuente.
Tuttavia, anche la frammentazione del potere trova rilevante sostegno a livello costituzionale: a) nell’art. 53
Cost.; b) nel principio di buon andamento della P.A.; c) nelle esigenze di accelerare le procedure di
riscossione.
Bisogna dire però che ad oggi i principi di unicità e globalità dell’accertamento risultano ormai solo
tendenziali e la dottrina si interroga quindi se il principio vigente non sia ormai quello della frammentazione
dell’attività impositiva.
È opportuno distinguere poi tra l’avviso di accertamento parziale ed integrativo.
§ L’accertamento parziale: prevede che l’ufficio possa limitarsi ad accertare il maggior reddito o la maggiore
imposta che ne risulta sulla base i elementi che derivano da:
1.attività istruttorie (accessi, ispezioni, verifiche e questionari);
2.segnalazioni, effettuate dagli uffici dell’Amministrazione finanziaria, dalla Guardia di finanza o da altre
pubbliche amministrazioni ed enti pubblici;
3.dati in possesso dell’anagrafe tributaria;
4.accertamenti basati sugli studi di settore.
L’art. 41-bis (introdotto da un d.p.r. 1982) d.p.r. 600/1973 esclude espressamente la possibilità di
procedere ad accertamento parziale nelle ipotesi previste dagli artt. 36-bis e 36-ter d.p.r. 600/1973 (in un
certo senso già parziali, ma che necessitano di una procedura ad hoc).
Quindi, gli accertamenti parziali non possono essere fondati su prove presuntive.
(L’istituto dell’accertamento parziale svolge un ruolo significativo anche nel sistema di accertamento ai fini
IVA, infatti, qualora vi sia fondato pericolo per la riscossione delle imposte, l’ufficio può procedere anche
prima della scadenza del termine per la dichiarazione annuale: a) al controllo automatico della tempestiva
effettuazione dei versamenti; b) all’accertamento induttivo-extracontabile delle liquidazioni periodiche.
La caratteristica di tale forma di accertamento parziale è quella di essere effettuato prima della
presentazione della stessa dichiarazione IVA annuale, ovverosia di quell’atto che è di regola oggetto di
accertamento. Di conseguenza, l’accertamento parziale avrà ad oggetto non l’intero periodo d’imposta, ma
solo una porzione dello stesso. Tale parzialità si connota, quindi, per il fatto di riguardare solo una parte del
periodo temporale di riferimento).

§ L’accertamento integrativo: disciplinato dall’art. 43 d.p.r. 600/1973 e interviene successivamente


all’emanazione di un primo avviso di accertamento.Infatti, fino alla scadenza del termine per la notifica
dell’avviso di accertamento, tale avviso può essere integrato o modificato in aumento mediante la
notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.
Si parla più esattamente di:
a) avviso di accertamento integrativo, se l’ufficio rinviene nuovi elementi che riguardino questioni non
considerate nel primo avviso.
b) avviso di accertamento modificativo, se l’ufficio rinviene nuovi elementi che riguardino questioni già
oggetto di un precedente avviso, mutandone tuttavia la qualificazione (ad ES, reddito di impresa anziché di
lavoro autonomo) o la quantificazione (ad ES. la percentuale di deducibilità diversa).
Tale accertamento, oltre a possedere i requisiti dall’art. 42 d.p.r. 600/1973 dovrà, a pena di nullità, indicare
specificatamente i nuovi elementi dei quali l’ufficio è venuto a conoscenza, intendendosi come tali tutti quei
fatti o circostanze idonei a portare ad una contestazione a carico del contribuente.

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La novità degli elementi dovrà, invece, essere accertata oggettivamente non rilevando lo stato soggettivo
dell’accertatore. Sono tali solo quegli elementi impossibili da conoscere al momento dell’emanazione del
primo avviso, in quanto non solo non conosciuti, ma nemmeno conoscibili mediante l’impiego di
un’ordinaria diligenza nel corso dell’attività istruttoria svolta in concreto.
(Lo stesso può dirsi in tema di accertamento ai fini IVA, dove sussiste una normativa analoga che prevede
che è consentito agli uffici procedere ad accertamenti modificativi o integrativi a condizione che siano
giustificati da una sopravvenuta conoscenza di elementi nuovi che (a pena di nullità) devono essere indicati).
((Il rapporto tra l’atto di accertamento integrato e quello integrativo: è stato variamente ricostruito non solo
dalla dottrina, ma anche dalla giurisprudenza. La Cassazione, in un primo orientamento ha ritenuto che i due
atti si integrino tra loro. Un più recente orientamento ha ritenuto che il potere di accertamento integrativo
da parte dell’Amministrazione finanziaria abbia per presupposto un atto che continui ad esistere e non
venga sostituito dal nuovo avviso di accertamento. Questo secondo atto, integra e modifica l’oggetto e il
contenuto del primo, ma ciascuno di essi conserva la propria autonoma esistenza ed efficacia. Quindi è
necessaria una distinta impugnazione)).

▪ L’avviso di recupero:
Al fine di contrastare la violazione di indebita compensazione è stato previsto il c.d. avviso di recupero. Esso
ha ad oggetto un atto tipico della riscossione (costituito dal modello di versamento unificato) e non la
dichiarazione. Per quanto riguarda la sua natura giuridica, l’avviso di recupero è equiparabile ad un vero e
proprio avviso di accertamento.
Il d.lgs. 158/2015 prevede una disciplina sanzionatoria più lieve nel caso in cui il credito, anche se
sostanzialmente inesistente, possa essere facilmente intercettato mandiate controlli automatizzati (si
intende “inesistente” il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e
che non sia riscontrabile mediante controlli).
Gli avvisi di recupero devono essere notificati entro i 31 dicembre dall’ottavo anno successivo a quello in cui
è avvenuto l’utilizzo indebito del credito di imposta.
In caso di mancato pagamento entro il termine assegnato dall’Ufficio (di solito non inferiore a 60 giorni) le
somme dovute sono iscritte a ruolo.

Capitolo Sedici: l’autotutela, gli interpelli e gli istituti deflativi del


contenzioso tributario.
Dall'ultimo decennio del secolo scorso, il legislatore tributario, ha avviato un percorso teso ad introdurre
nell'ordinamento una serie di istituti che si caratterizzano per il fatto che il contribuente, trovandosi in una
situazione di lite potenziale (o già in atto) con gli uffici, versa subito (in tutto o in parte) l'imposta oggetto di
contestazione, rinunciando al contenzioso ed accendendo così ad una serie di vantaggi (ES: riduzione delle
sanzioni amministrative e penali, il pagamento dilazionato delle somme dovute…).
Si tratta di istituti che costituiscono espressione dei nuovi modelli dell'azione amministrativa in materia
tributaria, improntata sempre più all'ampliamento degli istituti partecipativi, alla valorizzazione delle forme
di collaborazione tra Fisco e contribuente e a forme di esercizio consensuale del potere piuttosto che a
manifestazioni collaterali ed autoritative della potestà pubblica.
Ad oggi il quadro degli strumenti cd. “deflativi” del contenzioso risulta così composto:
1. accertamento con adesione (art. 1 e ss. d.lgs. 218/1997);
2. acquiescenza (art. 15 d.lgs. 218/1997);
3. reclamo e mediazione (art. 17-bis d.lgs. 546/1992 introdotto dalla L. 111/2011);
4. conciliazione giudiziale (art. 48 d.lgs. 546/1992);
Tali strumenti (i primi tre operano nella fase amministrativa, mentre la conciliazione opera nella fase
contenziosa) non presuppongono necessariamente il coinvolgimento del contribuente nella fase
procedimentale o processuale. Quest'ultimo si verifica soltanto per gli istituti “bilaterali” (accertamento con
adesione, reclamo e conciliazione giudiziale) e non per quelli “unilaterali”, rimessi alla volontà del
contribuente (acquiescenza).

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Agli istituti deflativi del contenzioso tributario si può ascrivere anche il cd. ravvedimento operoso, con il
quale il contribuente, anche in presenza di attività di verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria, può
autonomamente procedere a correggere i propri errori con il pagamento del tributo e delle sanzioni in
misura ridotta, prevenendo così future contestazioni. E si può aggiungere anche la definizione delle sole
sanzioni, attraverso la quale il contribuente (ricevuto un avviso di accertamento) si riserva di discutere il
merito della pretesa tributaria, ma non anche le sanzioni perché le definisce mediante il loro pagamento in
misura ridotta.
Il concetto di istituti deflativi può essere esteso anche ad altre occasioni di contatto tra l'Amministrazione
finanziaria ed i contribuenti, in cui si rinvengono delle finalità di prevenire e/o eliminare il contenzioso, sono:
l’interpello e l’autotutela.
▪ L’interpello: strumento attraverso il quale contribuente può conoscere preventivamente l’opinione
dell’Amministrazione finanziaria in ordine al regime fiscale per una determinata fattispecie, così da
prevenire per quanto possibile un futuro contenzioso.
▪ L’autotutela: con essa si riconosce all’autorità pubblica (di solito a seguito di apposita istanza del
contribuente) di rivalutare il contenuto di un proprio atto per modificarlo o annullarlo (prima o dopo
l’instaurazione del contenzioso).

Partiamo ora dall’interpello: Il contribuente si attiva senza che vi sia stata a “monte” un’attività di controllo
dell’Amministrazione. Esso è quindi un procedimento attraverso il quale lo stesso contribuente chiede
all'Amministrazione di esprimere un parere sul regime fiscale di un fatto, atto o negozio, in modo tale da
evitare di subire, a posteriori, le conseguenze di eventuali errori nell’applicazione della legge tributaria. Tale
parere può eventualmente risolversi in un vero e proprio accordo tra Amministrazione finanziaria e
contribuente. In un sistema tributario basato sull'adempimento spontaneo dei contribuenti, diviene
indispensabile assegnare all'Amministrazione finanziaria (oltre all’attività di controllo) l'attività di consulenza
giuridica dei contribuenti. Tale attività può consistere in un'attività interpretativa di carattere generale (che
si esplica attraverso le circolari, rivolte alla generalità dei contribuenti, operatori, uffici) o di carattere
particolare (si esplica in risoluzioni, pareri e accordi).
Il legislatore, nel tempo, ha introdotto diverse forme di interpello, accomunate dalla finalità di conoscere il
parere dell’Amministrazione finanziaria, ma che si differenziavano per procedura e oggetto; fermo restando
che L’interpello non è mai vincolante per il contribuente.
Prima del d.lgs. 156/2015, il legislatore aveva previsto quattro tipologie di interpello:
1. Interpello ordinario (art.11 L. 212/2000);
2. Interpello preventivo antielusivo (art. 21 L. 413/1991);
3. Interpello per la disapplicazione di norme antielusive (ex art. 37-bis co.8 d.p.r. 600/1973);
4. Interpello internazionale.
Ad essi si aggiunsero:
5. I casi speciali in cui il legislatore aveva previsto la stessa procedura dell’interpello ordinario per
l’applicazione di specifiche disposizioni tributarie anche di tipo agevolativo oppure per la disapplicazione di
alcune disposizioni tributarie volte a prevenire comportamenti elusivi;
6. la generale attività di consulenza giuridica.
Ora, il d.lgs. 156/2015 ha unificato le varie specie di interpello all’interno dell’art. 11 dello Statuto del
contribuente e ne prevede quattro:
A. Interpello relativo all’applicazione delle disposizioni tributarie e alla corretta qualificazione di fattispecie
(corrispondente alla precedente figura di interpello ordinario);
B. Interpello probatorio, relativo alla sussistenza delle condizioni e alla valutazione dell’idoneità degli
elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di particolari regimi fiscali;
C. Interpello antiabuso, relativo all’applicazione della disciplina sull’abuso del diritto;
D. Interpello disapplicativo di norme antielusive specifiche (corrispondente a quello contenuto nell’art. 37-
bis d.p.r. 600/1973).
Ad essi si aggiungono poi:
E. Interpello internazionale;

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F. Interpello sui nuovi investimenti;
G. La generale attività di consulenza giuridica.
Tutti gli interpelli hanno carattere facoltativo, ad eccezione dell’interpello disapplicativo, che ha invece
carattere obbligatorio.

A. Interpello ordinario: art.11 co.1 lett.a) Statuto, il contribuente può ricorrervi al fine di ottenere il parere
dell'Amministrazione finanziaria in ordine all’applicazione delle disposizioni tributarie, quando vi sono
condizioni di obiettiva incertezza sulla corretta interpretazione, nonché per la qualificazione di fattispecie
alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle medesime. La richiesta può riguardare l’interpretazione
di qualsiasi norma tributaria che disciplini gli aspetti procedurali oppure sostanziali del rapporto tributario.
All’interpello ordinario sono ricondotte le ipotesi di interposizione (art. 37 d.p.r. 600/1973: in sede di
rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri
soggetti quando sia dimostrato che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona), nonché alla
corretta classificazione di spese sostenute dal contribuente tra quelle di pubblicità, di propaganda o di
rappresentanza.
L’istanza deve essere proposta in presenza di condizioni di obiettiva incertezza sulla normativa applicabile.
Qualora manchi un’interpretazione ufficiale, per definire le condizioni di obiettiva incertezza, si può fare
riferimento all’elaborazione giurisprudenziale.

B. Interpello probatorio: art. 11 co.1 lett.b) Statuto, il ricorrente può ricorrervi al fine di ottenere il parere
all’Amministrazione finanziaria in ordine alla sussistenza delle condizioni e alla valutazione della idoneità
degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente
previsti. Nonostante questo tipo di interpello non abbia più carattere obbligatorio, il contribuente è
comunque tenuto a segnalare in dichiarazione di no averlo presentato o di averlo presentato senza aver
ricevuto risposta positiva (a pena di sanzione amministrativa). L’Amministrazione finanziaria, infine, esclude
l’applicazione dell’interpello probatorio qualora si tratti di questioni meramente fattuali di cui è essenziale
verificare la veridicità e completezza (e che ritiene possibile effettuare solamente in sede di accertamento).

C. Interpello antiabuso: art. 11 co.1 lett.c) Statuto, il contribuente può ricorrervi al fine di ottenere il parere
dell’Amministrazione finanziaria in ordine all’applicazione della disciplina sull’abuso del diritto ad una
specifica fattispecie. Il contribuente è interessato a conoscere se esistano o meno gli elementi costitutivi
dell’abuso del diritto.

D. L’interpello per la disapplicazione delle norme antielusive: art. 11 co.2 Statuto, consiste nella possibilità
per il contribuente di chiedere la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare
comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive
altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, dimostrando che il quella fattispecie gli effetti elusivi che la
norma intendeva precludere non si verificano.
Al contrario delle prime tre forme di interpello, qui il contribuente “interpella” l’Amministrazione,
prevedendo così un carattere obbligatorio per questa forma. Si prevede poi che, in caso in cui non venga
resa risposta positiva da parte dell’Amministrazione, resta ferma la possibilità per il contribuente di fornire la
dimostrazione anche ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. La mancata
segnalazione nella dichiarazione dei redditi dell’avvenuta disapplicazione della norma tributaria nonostante
la mancata presentazione dell’interpello (o nonostante la mancata risposta negativa) forma oggetto di
sanzione amministrativa ad hoc.

La procedura e gli effetti (per tutte le forme di interpello):


Il legislatore delegato ha esteso a tutte le forme di interpello quanto originariamente previsto per l’interpello
ordinario. L’istanza deve essere preventiva, a pena di inammissibilità. Ciò non significa che dev’essere
presentata prima che il contribuente ponga in essere il comportamento oggetto dell’istanza, bensì che essa
dev’essere presentata prima della scadenza dei termini previsti dalla legge per la presentazione della

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dichiarazione o per l’assolvimento di altri obblighi tributari aventi ad oggetto o connessi alla fattispecie cui si
riferisce l’istanza medesima. (Tale principio trova applicazione anche all’interpello antiabuso).
L’oggetto dell’interpello deve essere una fattispecie concreta e personale, riguardante il contribuente
istante. Potranno tuttavia formulare l’istanza anche i soggetti obbligati in base alla legge a porre in essere gli
adempimenti per conto dei contribuenti, i sostituti d’imposta e gli obbligati solidali dipendenti.
In ordine al contenuto l’interpello deve indicare il tipo di istanza presentata e le specifiche disposizioni di cui
si richiede l’interpretazione, l’applicazione o la disapplicazione; deve esporre in modo chiaro e univoco la
soluzione proposta; indicare il domicilio e il recapito dell’istante. L’assenza di tali elementi non comporterà
l’immediata inammissibilità dell’istanza, atteso che l’Amministrazione sarà tenuta ad invitare il contribuente
a regolarizzarla (entro 30 giorni).
Il contribuente deve anche allegare copia della documentazione rilevante ai fini della risposta (anche qui
l’Amministrazione può richiedere al contribuente di integrare la documentazione presentata).
Quanto ai destinatari, nel caso dei tributi erariali, l’istanza è rivolta al direttore regionale delle entrate
(competente per territorio) individuato sulla base del domicilio fiscale del contribuente.
Nel caso in cui l’istanza sia formulata da Amministrazioni centrali dello Stato, enti pubblici a rilevanza
nazionale, soggetti di rilevante dimensione o contribuenti esteri, la competenza è invece delle strutture
centrali dell’Amministrazione finanziaria. Per i soli interpelli antiabuso era prevista (in via transitoria) la
competenza esclusiva della direzione centrale normativa (fino al 31 dicembre 2017).
La risposta da parte dell’Amministrazione deve essere resa entro 120 giorni (90 per l’interpello ordinario)
dalla presentazione dell’istanza; in caso di silenzio sull’istanza si forma l’assenso sulla formulazione
interpretativa se formulata dal contribuente.
I termini per la risposta si considerano sospesi nel caso di richiesta al contraente di regolarizzare la
documentazione presentata. Nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria richieda di integrare la
documentazione, il parere dovrà essere reso entro 60 giorni dalla ricezione della documentazione
integrativa. La risposta dell’ufficio finanziario ha efficacia esclusivamente nei confronti del contribuente
istante. Il parere dell’Agenzia non vincola il contribuente, bensì soltanto gli uffici dell’Amministrazione
finanziaria. È sancita la nullità degli atti emanati in difformità della risposta o dell’interpretazione prospettata
dal contribuente sulla quale si è formato silenzio-assenso.
Il legislatore ha escluso l’impugnabilità delle istanze di interpello, con l’unica eccezione delle istanze di
interpello disapplicativo, le quali sono tuttavia impugnabili solo unitamente all’atto impositivo, secondo il
modello della tutela differita. Qualora l’istanza venga formulata da un numero elevato di contribuenti e
riguardi la stessa questione o questioni analoghe tra loro, l’Amministrazione finanziaria può fornire risposta
collettiva mediante pubblicazione con ricordare o risoluzione, da comunicare anche ai singoli destinatari.
((Tuttavia, secondo l’autore, nonostante si tratti di risposta collettiva, dovranno attribuirsi ad essa gli effetti
propri dell’interpello ad personam, non potendo far discendere l’esistenza di effetti vincolanti dalla
discrezionalità dell’Amministrazione e dal numero dei soggetti interpellanti)).

E) L'interpello internazionale: riformato dal d.lgs. 147/2015 con confluenza della disciplina nel nuovo 31-
ter d.p.r. 600/1973, è un istituto teso realizzare un’ulteriore forma di collaborazione tra Amministrazione
finanziaria e contribuenti (in particolare coloro che operano in mercati internazionali).
Vi possono accedere le imprese con attività internazionale sia residenti che non nel territorio dello Stato.
Con riferimento alle imprese residenti, possono acervi le imprese pongono in essere operazioni con società
non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono
controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa. Riguardo le seconde, sono abilitate
al ruling internazionale solo quelle che hanno una stabile organizzazione nel territorio dello Stato.
Oggetto di interpello possono essere: a) La determinazione del valore normale delle operazioni infragruppo;
b) Il trattamento fiscale di dividenti interessi o royalties in entrata ed uscita dal territorio dello Stato; c) La
valutazione preventiva della sussistenza almeno dei requisiti configurano una stabile organizzazione nel
territorio dello Stato da parte di un’impresa non residente; d) Il trattamento fiscale di altri componenti
reddituali in entrata o in uscita dal territorio; e) L’attribuzione alle stabili organizzazioni (italiane o estere) di

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utili o perdite; f) l’individuazione del valore di ingresso e di uscita dei beni dell’impresa che trasferisce la
propria residenza.
La procedura di ruling di standard internazionale si avvia con una istanza del contribuente. Il soggetto
interessato deve sempre prospettare il caso controverso, illustrando la soluzione che intende adottare sul
piano applicativo della normativa di riferimento prescelta. Segue una fase in contraddittorio, di cui viene
redatto il processo verbale a prova delle attività svolte. L’esito finale consiste nella stipula di un accordo tra
l’ufficio dell'Agenzia delle entrate e il contribuente; vincolante per il periodo di imposta nel corso del quale
esso è stipulato e per i quattro periodi d'imposta successivi. Qualora non si raggiunga l’accordo se ne dà
indicazione nel processo verbale.
L’accordo non va inteso come avente natura ed efficacia negoziale, bensì meramente dichiarativa, in quanto
frutto della corretta identificazione dei valori di trasferimento, delle norme operanti e dei relativi effetti.
L’Amministrazione finanziaria italiana invia copia dell’esito della procedura all’Autorità fiscale competente
degli Stati di residenza o di stabilimento delle imprese, affinché questi (nei limiti della loro legislazione) ne
tengano conto al fine di evitare fenomeni di doppia imposizione. Il rapporto tra il contribuente e
l’Amministrazione finanziaria non si risolve con la conclusione dell’accordo, ma prosegue per verificare che
quanto in esso previsto sia rispettato e se i presupposti di fatto o di diritto siano mutati.
In caso di violazione dell’accordo, l’Amministrazione invia una comunicazione all’impresa invitandola a far
pervenire, entro 30 giorni dalla data di notifica, eventuali teorie a difesa del proprio operato. Se l’impresa
non risponde o argomenta in modo insufficiente le proprie ragioni, l’accordo si considera risolto a decorrere
dalla data in cui risulta accertato il comportamento integrante la violazione dell’accordo. (Se la data non è
accertabile allora la risoluzione retroagisce alla data di efficacia originaria dell’accordo.
L’accodo è rinnovabile purché ne sia fatta richiesta 90 giorni prima della scadenza dello stesso, almeno 15
giorni prima della scadenza.

F) Interpello per i nuovi investimenti: art. 2 d.lgs 147/2015, un nuovo interpello volto a favorire gli
investimenti in italia e consente alle imprese, italiane ed estere, di presentare un apposito business plan per
conoscere il relativo trattamento fiscale, oltre che delle relative operazioni straordinarie. Dev’essere
presentato presso la Divisione contribuenti e la risposta deve pervenire entro 120 giorni e nel caso di
richiesta di documentazione integrativa, entro 90 giorni dal relativo invio.

G) Consulenza giuridica: una risposta dell’Amministrazione finanziaria può essere sollecitata anche mediante
un’istanza di consulenza giuridica.
Per consulenza giuridica si intende l'attività interpretativa finalizzata all'individuazione del corretto
trattamento fiscale di fattispecie riferite a problematiche di carattere generale prospettate:
- Dagli uffici dell'Amministrazione finanziaria, inclusa Equitalia;
- Dalle associazioni sindacali e di categoria e dagli ordini professionali;
- Da Amministrazioni dello Stato, da enti pubblici, nonché da altri enti istituzionali operanti con finalità di
interesse pubblico.
La consulenza giuridica ha dunque rilevanza sia interna (contribuisce a creare il patrimonio interpretativo
dell'Amministrazione finanziaria) sia esterna (costituisce uno strumento di supporto a disposizione del
contribuente).
Le richieste di consulenza differiscono dall'interpello in quanto la questione rappresentata non è
immediatamente riferibile ad uno specifico contribuente, ma a varie categorie di destinatari.
Come l'interpello, i pareri resi in sede di consulenza giuridica esterna non vincolano il contribuente.
Nell’ipotesi poi in cui l’Amministrazione intenda contestare il comportamento posto in essere dal
contribuente che si era precedentemente adeguato all’indirizzo espresso dall’Agenzia in risposta alla
consulenza giuridica, non gli saranno irrogate sanzioni, né potranno essere richiesti interessi moratori.

▪ Parliamo ora del ravvedimento operoso: art 13 d.lgs. 472/1997.


Con esso il contribuente, correggendo i propri errori e omissioni, entro i termini prefissati dal legislatore,
può ottenere una riduzione delle sanzioni.

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Il campo di applicazione di tale istituto è stato ampliato dalla L. 190/2014 che intende favorire nuove forme
di comunicazione e collaborazione tra contribuente e Agenzia delle entrate, la quale può rendere disponibili
al contribuente gli elementi e le informazioni di cui è in possesso, riferibili allo stesso contribuente, affinché
possa valutare con attenzione la propria posizione.
Per effetto sempre della legge 190/2014, per i tributi amministrati dall'Agenzia delle entrate non opera più
la preclusione, che non consentiva al contribuente di ravvedersi quando la violazione fosse stata già stata
contestata o fossero iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento. Ora,
solamente la notifica di un avviso di liquidazione o di accertamento impedisce il ravvedimento operoso.
L'essersi avvalsi del ravvedimento operoso non preclude in ogni caso l'inizio o la prosecuzione di accessi,
ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di controllo e accertamento.
Il pagamento della sanzione ridotta potrà essere eseguito contestualmente al pagamento del tributo e al
pagamento degli interessi moratori calcolati al tasso legale con maturazione giorno per giorno.
Il ravvedimento può essere effettuato anche in maniera frazionata, purché siano corrisposti (oltre al tributo)
anche interessi e sanzioni commisurati alla frazione del debito d’imposta versato tardivamente. Non è invece
ammesso il pagamento rateale. Il legislatore è poi intervenuto anche sulla decorrenza dei termini per la
notifica delle cartelle e per gli accertamenti in caso di presentazione di dichiarazione integrativa e
regolarizzazione della violazione, che decorrono dalla data della presentazione della dichiarazione stessa.

▪ La definizione delle sole sanzioni:


Il contribuente può definire le sole sanzioni mantenendo ferma la possibilità di contestare, nella sede
contenziosa, le maggiori imposte il cui esisto favorevole non legittima tuttavia nessun rimborso delle
sanzioni definite in via agevolata.
Presupposto è che siano contestate al contribuente le violazioni delle norme tributarie.
Occorre però distinguere a seconda che le sanzioni siano state irrogate autonomamente o unitamente alle
maggiori imposte accertate.
A seguito delle modifiche apportate dal d.l. 98/2011 al d.lgs 472/1997 le sanzioni possono essere contestate
con due procedimenti:
1. atto autonomo di contestazione, per le ipotesi in cui le sanzioni non siano collegate ad alcun tributo. Tale
atto autonomo deve contenere (a pena di nullità) l’indicazione dei fatti attribuibili al trasgressore, gli
elementi probatori, le norme applicate…
b. atto contestuale all’avviso di accertamento, le sanzioni collegate al tributo cui si riferiscono sono
obbligatoriamente irrogate con atto contestuale all’avviso di accertamento o di rettifica, motivato a pena di
nullità, come il precedente.
Nel caso in cui le sanzioni siano state irrogate unitamente al tributo cui si riferiscono è ammessa la loro
definizione agevolata con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione irrogata e comunque
non inferiore ad 1/3 dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo.
Più articolato è il caso in cui siano state irrogate le sole sanzioni, qui il contribuente è destinatario di un atto
di contestazione della violazione che deve contenere l’invito al pagamento delle somme dovute nel termine
di 60 giorni dalla sua notificazione. Entro il termine previsto per la proporzione del ricorso, il contribuente
può definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad 1/3 della sanzione. Qualora non intenda
definire la controversia, può produrre entro lo stesso termine delle deduzioni difensive.
L’ufficio ha un anno di tempo per irrogare sanzioni con atto formale motivato (atto di irrogazione) o
archiviare la posizione. Nel primo caso, l’ufficio potrebbe rideterminare le sanzioni irrogate a seguito
dell’accoglimento delle deduzioni prodotte dal contribuente; oppure irrogare le sanzioni senza accoglimento
delle deduzioni proposte. In ogni caso, l’atto di irrogazione è impugnabile nel termine di 60 giorni.

Continuiamo con l’autotutela: nel diritto amministrativo si designa con tale termine l’attività con cui la
Pubblica Amministrazione provvede a risolvere i conflitti.
Essa è espressione di quella capacità di "farsi giustizia da sé" che l’ordinamento conferisce ad ogni P.A. in
vista dell'esigenza di assicurare il più efficace perseguimento dell'interesse pubblico, attribuendole la
possibilità di riesaminare la propria attività senza l'intervento dell'Autorità giudiziaria.

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È un'attività formalmente amministrativa che può provenire dallo stesso ufficio autore dell'atto soggetto a
riesame (autotutela immediata), oppure da un organo che appartiene alla stessa organizzazione dell'ufficio
autore dell’atto (autotutela mediata).
L’ufficio che ha emanato l'atto illegittimo o che è competente per gli accertamenti in ufficio ovvero, in caso
di grave inerzia, la Direzione regionale dalla quale l'ufficio dipende, hanno il potere-dovere di porre in essere
provvedimenti di autotutela, mediante l'annullamento o la revoca di atti riconosciuti illegittimi o infondati,
ancorché non impugnabili; fatta eccezione per il caso in cui il provvedimento di accertamento o di diniego di
rimborso sia coperto da giudicato “sostanziale" favorevole all’Amministrazione. Per quanto attiene agli
aspetti operativi, viene attribuito agli uffici il potere di annullamento (nel caso di vizi di legittimità, o vizi di
forma o procedimentali) e di revoca (nel caso di atti infondati, ossia viziati nel contenuto) dell’atto.
Il ritiro di un precedente atto non si limita alla fattispecie del c.d. “controatto” (avente identica struttura
dell’atto precedente ma dispositivo di segno contrario) tuttavia può coinvolgere anche la sua riforma, in cui
non si nega il contenuto dell’atto precedente, ma lo si sostituisce con uno diverso (cd. autotutela
sostitutiva). Al tempo stesso l’Amministrazione potrà revocare in autotutela anche un proprio precedente
atto di autotutela, in questo caso però non si avrà una “rinascita” dell’atto impositivo, bensì se ne dovrà
emanare uno nuovo.
È altresì attribuito all'ufficio il potere di concedere la sospensione amministrativa dell'atto, anche in caso di
pendenza di ricorso giurisdizionale. Il compito di decidere sulla validità dell'atto, sarà lasciato ai giudici
tributari, senza che la posizione del contribuente sia pregiudicata sul piano della riscossione.
Se l'esercizio del potere-dovere di autotutela risulta favorevole al contribuente e questi abbia già provveduto
(in tutto o in parte) al pagamento delle imposte, l’Amministrazione sarà tenuta ai conseguenti obblighi
restitutori.
L’art 2 d.m. 37/1997 elenca le varie ipotesi di annullamento d’ufficio (o di rinuncia all’imposizione in caso di
auto-accertamento) nei casi di illegittimità dell’atto o dell’imposizione:
1. Errore di persona;
2. Evidente errore logico o di calcolo;
3. Errore sul presupposto dell’imposta;
4. Doppia imposizione;
5. Mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti;
6. Mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza;
7. Sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati;
8. Errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile dall’Amministrazione.
Quando si verificano tali presupposti, l'ufficio procede all'annullamento anche se:
- l’atto è divenuto ormai definitivo per avvenuto decorso dei termini per ricorrere;
- il ricorso è stato presentato ma respinto con sentenza passata in giudicato per motivi di ordine formale
(inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità…);
- vi è pendenza di giudizio;
- non è stata prodotta in tal senso alcuna istanza da parte del contribuente.

L’unico limite all’autotutela è l’emanazione di una sentenza passata in giudicato per motivi di ordine
sostanziale. L’annullamento di un atto in via di autotutela può essere attivato anche in mancanza dell’istanza
del contribuente e dunque spontaneamente dall’ufficio anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilità dell’atto. L’art. 13 dello Statuto del contribuente ha previsto che il Garante del contribuente
possa attivare le procedure di autotutela nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione
notificati al contribuente. L’esito dell’autotutela può consistere nell’annullamento (o revoca) totale o
parziale dell’atto. Nel caso di annullamento/revoca parziale —> per evitare discriminazioni sul piano
sanzionatorio, il contribuente ha la possibilità di avvalersi degli istituti di definizione agevolata delle sanzioni,
ai quali avrebbe potuto accedere per definire l’atto oggetto di annullamento/revoca parziali, a condizione
che rinunci al ricorso proposto.

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Esaminiamo ora la natura del potere di autotutela e delle situazioni giuridiche soggettive, nonché la
giurisdizione nel caso di silenzio o diniego dell’autotutela. Possono quindi individuarsi le seguenti 4 macro-
tesi:
1) Tesi di chi ritiene assenti quelle ulteriori esigenze di pubblico interesse (diverse dal mero ripristino della
legalità violata) in grado di giustificare l’annullamento dell’atto, attribuendo al contribuente un interesse di
mero fatto e negando l’autotutela in caso di provvedimenti definitivi.
2) Tesi di chi riconosce i caratteri di discrezionalità e la titolarità di un interesse legittimo, ma solo di natura
procedimentale, con la conseguenza che il giudice amministrativo potrebbe solo rilevare l’eccesso di potere
ed obbligare l’amministrazione alla reiterazione dell’atto, ma non con un determinato contenuto.
3) Tesi di chi riconosce nel potere di autotutela i caratteri della discrezionalità ma attribuisce una posizione
di interesse legittimo al contribuente, in modo che l’esercizio del potere di annullamento abbia luogo in
modo ragionevole e non arbitrario. In tal caso il giudice amministrativo potrebbe procedere all’annullamento
e indicare i criteri cui l’amministrazione deve conformarsi nel successivo esercizio dell’azione impositiva.
4) Tesi di chi ritiene che il potere di autotutela si giustifichi con il solo riferimento al ripristino della legalità
violata. Mentre nel diritto amministrativo, ai fini dell’esercizio dell’autotutela, la P.A. deve tener conto dei
confliggenti interessi privati e dello stesso interesse pubblico; nel diritto tributario l’esercizio dell’autotutela
deve tener conto dei principi costituzionali che presiedono al prelievo tributario + del principio in base al
quale tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva.
La giurisprudenza, dopo un periodo di forti oscillazioni, in ordine alla giurisdizione competente a conoscere
la materia, ha riconosciuto (2005) alla giurisdizione tributaria in ordine alle impugnazioni proposte avverso il
rifiuto espresso o tacito dell’Amministrazione a procedere ad autotutela, partendo dal carattere generale
della giurisdizione delle Commissioni tributarie. Il legislatore (2015) ha escluso l’autonoma impugnabilità
degli atti di annullamento o revoca parziali, trattandosi di rettifica dell’originaria pretesa impositiva e non di
un nuovo atto sostitutivo del primo.
La Cassazione esaminando poi il tema della natura dell’esercizio dell’autotutela, ne ha affermato la natura
discrezionale, con una duplice conseguenza: (1) tale natura non osta alla giurisdizione tributaria non
esistendo una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo; (2)
il sindacato del giudice amministrativo avrà ad oggetto il corretto esercizio del potere discrezionale
dell’Amministrazione, nei limiti e nei modi in cui l’esercizio di tale potere può essere suscettibile di controllo
giurisdizionale, che non potrà mai comportare la sostituzione del giudice all’Amministrazione nelle
valutazioni discrezionali, né l’adozione dell’atto ai autotutela da parte del giudice. Il giudice tributario potrà
quindi ordinare all’Amministrazione di procedere, ma non come procedere. Il potere di autotutela non
costituisce un mezzo di tutela del contribuente e nel giudizio instaurato contro il rifiuto espresso di esercizio
dell’autotutela, potrà esercitarsi unicamente un sindacato sulla legittimità di tale rifiuto e non sulla
fondatezza della pretesa tributaria. Il contribuente, d’altro canto, dovrà prospettare l’esistenza di un
interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto —> in modo tale che, qualora il
giudice ravvisi l’esistenza di interessi che l’Amministrazione finanziaria ha trascurato o sottovalutato,
l’Amministrazione stessa resterà “vincolata” ad accogliere l’istanza di autotutela e accogliere l’istanza.
Quindi, nell’autotutela tributaria, l’interesse pubblico è quello di ristabilire una giusta imposizione, in luogo
di quella in precedenza esercitata in contrasto con l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo.
Sotto questo profilo, una volta riconosciuta l’impugnabilità dei provvedimenti di rigetto della richiesta di
annullamento in autotutela, meritano consenso quelle posizioni della giurisprudenza (rimaste però isolate)
che prevedono che l’Amministrazione finanziaria (informata dell’errore in cui è incorsa) debba compiere le
necessarie verifiche e (accertato l’errore, indipendentemente dalla sussistenza di un interesse pubblico) in
seguito annullare il provvedimento riconosciuto illegittimo/errato, ciò anche se il contribuente abbia lasciato
scadere il termine utile per impugnare il provvedimento. In tali casi, l’autotutela si considera obbligatoria e
non vi è spazio per la mera discrezionalità dell’Amministrazione (in quanto si troverebbe in contrasto con i
principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione). Infine, rilevante è anche il riconoscimento da
parte della Guardia di finanza che ha ritenuto applicabile l’autotutela anche ai propri atti, pur non
trattandosi di atti impositivi.

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Iniziamo ora a parlare degli istituti deflativi del contenzioso tributario “in senso stretto”: sono istituti
destinati ad operare nel caso in cui il contribuente, trovandosi in una situazione di lite potenziale (o in corso)
con gli uffici, rinuncia al contenzioso e versa l'imposta determinata in contraddittorio con l'Amministrazione,
a fronte di una riduzione dell'entità delle sanzioni e di altri vantaggi.
Tali istituti (in particolare l'accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale), vanno posti in relazione
con il dogma dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria —> questo principio si fonda sulla constatazione
secondo cui l’individuazione delle fattispecie impositive (dei soggetti obbligati al pagamento, del suo
ammontare, delle modalità e delle forme di accertamento e riscossione) sono regolati da disposizioni
imperative, vincolanti sia per lo Stato sia per i privati. Con l’entrata in vigore della Costituzione, l’esistenza di
un principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria è stato desunto da più principi: dal principio di
riserva di legge (art. 23 Cost.), dal principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), dal principio di
imparzialità nell’azione della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.).
Si pone però un problema di qualificazione giuridica degli istituti deflativi del contenzioso che consentono
agli uffici dell’Amministrazione finanziaria di tornare sulle proprie valutazioni per sostituirle con altre,
secondo moduli che prevedono la partecipazione del contribuente.
Nel diritto amministrativo la partecipazione del cittadino ai procedimenti amministrativi e la possibilità di
stipulare accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, trova il suo fondamento normativo nella L.
241/1990. L’art. 11 regola gli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, stabilendo che
l’Amministrazione procedente possa concludere (senza pregiudizio di diritti di terzi e nel perseguimento del
pubblico interesse) accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del
provvedimento finale.
L'applicazione di questa disposizione è esclusa, ad opera dell’art. 13 stessa legge, per i procedimenti
tributari, poiché regolati da particolari norme. Da ciò si evince non una totale preclusione per il
contribuente, bensì solamente il dovere di utilizzare le norme tributarie. Quindi, le alternative che si
pongono con riguardo all'individuazione della natura giuridica degli istituti in esame (per ovviare al problema
del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria) sono le seguenti:
1) atto unilaterale della P.A. con l'assunzione dell’adesione del contribuente quale condicio iuris per la sua
efficacia;
2) contratto di transazione;
3) accordo bilaterale non avente natura contrattuale.
Lo scopo delle parti resta quello di individuare (motivandola adeguatamente) una soluzione del contrasto
interpretativo in fatto e/o in diritto, che sia conforme alle disposizioni di legge applicabili nella specie.
Infine, per quanto concerne gli effetti penali: si dispone che le pene previste per i comportamenti aventi
rilevanza penale-tributaria sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie se (prima della
dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado) i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei
delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento.

§ L’accertamento con adesione.


La procedura di accertamento con adesione può avere inizio a seguito di un: i) invito dell’ufficio a comparire,
l’ufficio deve indicare al contribuente i periodi di imposta suscettibili di accertamento, il giorno e il luogo di
comparizione, le maggiori imposte, le ritenute, i contributi, le sanzioni, gli interessi dovuti e i motivi che
hanno portato all’apertura dell’accertamento; oppure ii) su istanza del contribuente, il quale può presentare
una specifica istanza:
A- Quando siano stati effettuati nei suoi confronti accessi, ispezioni o verifiche (può presentarla in qualsiasi
momento prima dell’emissione dell’avviso di accertamento);
B- Successivamente alla notifica di accertamento, in tal caso occorre provvedere prima della scadenza del
termine per l’impugnazione dell’avviso medesimo.
L’ufficio, entro 15 giorni dal ricevimento dell’istanza, formula al contribuente l'invito a comparire,
telefonicamente o telematicamente.
Dal giorno della presentazione dell'istanza sono sospesi per 90 giorni i termini per l'impugnazione.
Con la comparizione del contribuente nella data prefissata si avvia la fase di contraddittorio.

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Al termine dei 150 giorni dalla notifica dell'avviso di accertamento, se non è stato sottoscritto l'atto di
adesione, rimane pienamente efficace l'atto iniziale. La Corte costituzionale ha ritenuto che la sospensione
possa essere interrotta solo in caso di rinuncia formale da parte del contribuente o in caso di presentazione
del ricorso e che ogni differente comportamento o atto non abbiano rilievo.
In entrambe le ipotesi (accertamento con adesione su iniziativa dell’ufficio o su istanza di parte) qualora si
raggiunga l’equilibrio tra la pretesa erariale e la disponibilità del contribuente a soddisfare la stessa, si
procede alla sottoscrizione dell’atto di adesione.
Dalla data di sottoscrizione, il contribuente ha 20 giorni di tempo per effettuare il versamento della prima o
unica rata, che costituisce il momento in cui l'adesione si perfeziona (art. 9 d.lgs. 218/1997). L’adesione non
si perfeziona con la formale stesura dell’accordo, ma con il pagamento delle somme concordate. Nel caso
invece di mancato pagamento delle rate successive alla prima, l’Amministrazione potrà riscuotere le rate
successive con l’applicazione di una sanzione aggiuntiva pari al 45% sull’imposta.
Dal mancato perfezionamento discenderà la possibilità di impugnare l’avviso di accertamento. Nel caso di
coobbligati, l’atto potrà essere definito da uno solo di essi e la relativa adesione, che produce effetti anche
sugli altri, comporta la perdita di efficacia degli avvisi di accertamento —> tuttavia, la giurisprudenza
ammette l’azione di regresso del coobbligato solidale che ha pagato, solo qualora egli abbia sostenuto il
pagamento di somme certe, il cui obbligo grava su tutti e non quando invece il coobbligato abbia assunto un
obbligo in proprio, prendendo accordi con l’Amministrazione, senza coinvolgere nel procedimento di
accertamento con adesione gli altri coobbligati.
Per quanto riguarda il contenuto dell'atto di adesione, esso è analogo a quello dell'avviso di accertamento:
deve essere motivato e deve contenere la liquidazione delle imposte e degli altri importi dovuti.
L’accertamento definito con adesione è definitivo: non è impugnabile da parte del contribuente e non è
integrabile o modificabile da parte dell’ufficio.
Esso esclude l’esercizio dell’ulteriore azione accentratrice da parte dell’Amministrazione finanziaria a meno
che: a) non sopravvenga la conoscenza di nuovi elementi, in base ai quali sia possibile accertare un maggior
reddito (superiore al 50% del reddito definito); b) la definizione riguardi accertamenti parziali; c) la
definizione riguardi redditi derivanti da partecipazione nelle società o nelle associazioni indicate dall’art. 5
TUIR o in aziende coniugali non gestite in forma societaria; d) l’azione accertatrice sia esercitata nei confronti
di società o associazioni o aziende coniugali alle quali partecipa il contribuente.
Sotto il profilo sanzionatorio, nel caso in cui si pervenga alla sottoscrizione dell’atto, le sanzioni sono ridotte
ad un terzo del minimo. Il cumulo giuridico è ammesso, in deroga al principio generale, solo separatamente
per ciascun tributo e per ciascun periodo di imposta.

§ L’acquiescenza.
L’acquiescenza può essere definita come la rinuncia ad opporsi giudizialmente alla pretesa del Fisco e ad
avviare un procedimento di adesione da parte del contribuente.
Non vi sono limiti all’utilizzo di tale strumento, che è un atto unilaterale del contribuente che non prevede
istanze da presentare e si realizza con il semplice pagamento, entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di
accertamento degli importi indicati nell’atto stesso.
In particolare, ove il contribuente rinunci ad impugnare l’avviso di accertamento o di liquidazione e a
formulare istanza di accertamento con adesione e provveda dunque a pagare le somme dovute, le sanzioni
sono ridotte a 1/3.
Le somme dovute, possono essere versate anche ratealmente, senza garanzie.

§ Il reclamo e la mediazione.
Il ricorso a tale istituto è obbligatorio per le controversie che soddisfano due requisiti:
- soggettivo: deve trattarsi di controversie aventi ad oggetto atti emessi dall’Agenzia delle entrate,
dall’Agenzia delle dogane, dei monopoli e di altri enti impositori. Significativa è l’estensione anche agli agenti
della riscossione, ma solo in quanto compatibile.
- oggettivo: deve trattarsi di controversie di valore non superiore a € 50.000 o delle controversie catastali
(benché di valore indeterminabile) promosse dai singoli possessori.

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Per valore della lite: deve intendersi l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni
irrogate con l’atto impugnato. ((Se il valore è inferiore ai 2582,28 euro, il reclamo potrà essere presentato
dallo stesso contribuente, in caso contrario dovrà servirsi di un difensore)).
Dal punto di vista procedurale, il ricorso produce gli stessi effetti del reclamo e può contenere una proposta
di mediazione.
Il reclamo sarà (per le Agenzie fiscali) valutato da strutture appositamente create ed autonome, diversi da
quelle che hanno emanato gli atti, mentre per gli altri enti impositori tale disposizione si applica solo se
compatibile con la struttura organizzativa dell’ente. (Cioè, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs.
156/2015 è ora previsto che gli enti impositori, a seconda delle loro dimensioni e del loro livello di
organizzazione, dovranno valutare se istituire o meno un’apposita struttura). La presentazione del reclamo
attribuisce all’ente destinatario il termine di 90 giorni per valutare la richiesta. Durante tale termine il ricorso
è improcedibile, tanto che qualora il contribuente depositi anticipatamente il ricorso, la Commissione, deve
rinviare la trattazione per consentire la mediazione.
Già la L. 147/2013 aveva previsto che la presentazione del reclamo comportasse un effetto sospensivo
automatico, così il d.lgs 156/2015 ha confermato tale effetto, prevedendo che la riscossione e il pagamento
delle somme dovute in base all’atto oggetto di reclamo siano per legge sospesi fino alla data dalla quale
decorre il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente.
Il reclamo è volto all’annullamento totale o parziale dell’atto o finalizzato al componimento della
controversia tramite mediazione. Esso dovrà avere i contenuti previsti dall’art. 18 d.lgs 546/1992 per il
ricorso ed essere notificato entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto che si intende impugnare.
L’obbligo di presentazione del reclamo viene accompagnato dalla facoltà, in capo al proponente, di inserire
nello stesso una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell’ammontare della
pretesa. Questo istituto ha un ambito di applicazione più ampio rispetto agli altri istituti deflativi, in quanto
riguarda, non solo gli accertamenti, ma anche tutti gli atti impugnabili (compresi i dinieghi di rimborso).
Inoltre, la decisione che l’è te deve adottare sull’istanza di reclamo del contribuente si fonda sul grado di
sostenibilità della pretesa, sull’incertezza della questione controversa e sul principio di economicità
dell’azione amministrativa.
L’organo destinatario, se non intende accogliere il reclamo volto all’annullamento né l’eventuale proposta di
mediazione, formula d’ufficio una proposta di mediazione. Laddove, invece, intenda accettare la proposta
formulata dal contribuente, dovrà riportare la propria accettazione in un processo verbale costituente titolo
di riscossione che si perfezionerà con il pagamento dell’intero importo concordato o della prima rata entro
20 giorni. Nelle controversie aventi ad oggetto dei rimborsi, la mediazione si perfeziona con la sottoscrizione
dell’accordo nel quale sono indicate le somme dovute + indicazioni dei termini e delle modalità di
pagamento.
In caso di esito positivo del procedimento di reclamo/mediazione, le sanzioni amministrative si applicano
nella misura del 35% dei minimi edittali.
In caso di esito negativo (o decorsi 90 giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo) il
ricorso diviene procedibile. Ne deriva l’obbligo in capo al proponente/ricorrente di costituirsi in giudizio nei
successivi 30 giorni, mediante deposito presso la Commissione tributaria competente per territorio della
copia conforme all’originale del reclamo, corredato dalla ricevuta di presentazione/spedizione.
Nelle controversie soggette a reclamo, la parte soccombente del processo (a seguito del manato
accoglimento del reclamo) è condannata a corrispondere, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma parti
al 50% delle spese di giudizio come rimborso delle spese del procedimento instaurato. Lo scopo specifico
dell’istituto è quello di rimuovere in via preventiva e immediata gli eventuali profili di illegittimità e
infondatezza degli atti, evitando l’instaurazione del giudizio.
Il reclamo/mediazione costituisce quindi un rimedio amministrativo para-processuale che, a differenza degli
altri istituti deflativi del contenzioso tributario (come l’autotutela e l’accertamento con adesione) ha
carattere generale e obbligatorio —> generale, perché la mediazione opera con riferimento a tutti gli atti
impugnabili emessi da qualunque ente impositore; obbligatorio (attiene a entrambe le parti), perché da un
lato, il contribuente è tenuto a presentare preventivamente l’istanza (a pena di improcedibilità), dall’altro,
l’ufficio è tenuto ad esaminare l’istanza pur non dovendo dare risposta espressa.

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§ La conciliazione giudiziale.
Istituto profondamente modificato dal d.lgs 156/2015.
L’operatività dell’istituto non è più limitata al giudizio di primo grado, ma è estesa al giudizio di secondo
grado (resta tuttavia esclusa nel giudizio di cassazione). Il perfezionamento della conciliazione in un grado di
giudizio piuttosto che in un altro, comporta solo differenze in ordine alla riduzione delle sanzioni —> queste
si applicano nella misura del 40% del minimo previsto dalla legge se la conciliazione si svolge nel primo grado
di giudizio e del 50% del minimo se si svolge nel corso del secondo grado di giudizio.
Il d.lgs 156/2015 ha previsto che l’accordo di conciliazione possa prevedere anche il pagamento delle
somme dovute al contribuente. Quanto alle cause aventi ad oggetto sanzioni, esse non sono considerate
conciliabili se irrogate con atto autonomo; sono invece conciliabili se irrogate unitamente alle imposte,
atteso che in questo caso la loro definizione consegue alla definizione delle imposte stesse. Per quanto
riguarda il ruolo, esse non possono essere conciliabili perché altrimenti sarebbe messa in discussione una
pretesa tributaria definitivamente accertata.
Per quanto attiene alla procedura, si possono distinguere due ipotesi, la cui disciplina si trova negli artt. 48 e
48-bis.
= Conciliazione fuori udienza: si verifica se le parti raggiungono un accordo prima della fissazione dell’udienza
di trattazione della controversia (di primo o secondo grado). Occorre che le parti presentino un’istanza
congiunta, per la definizione totale o parziale della controversia. La conciliazione si perfeziona con la
sottoscrizione dell’accordo delle parti (nel quale sono contenute: oltre alle somme dovute dal contribuente o
dall’Amministrazione finanziaria, anche i termini e le modalità di pagamento). Al giudice spetta verificare le
condizioni di ammissibilità della conciliazione e non più la sussistenza dei presupposti e delle condizioni di
ammissibilità.
Al perfezionamento dell’accordo consegue la dichiarazione di cessazione della materia del contendere a cui
provvede il Presidente della sezione con decreto (quando non sia ancora stata fissata la data dell’udienza di
trattazione), oppure la Commissione tributaria con sentenza o con ordinanza.
= Conciliazione in udienza: si verifica se è stata fissata la data per la trattazione della causa. Così ciascuna
delle parti, fino a 10 giorni liberi prima dell’udienza può presentare istanza (singola e non congiunta) di
conciliazione totale o parziale. La Commissione valuta la sussistenza delle condizioni e invita le parti ad
avvalersi dell’istituto in esame, eventualmente rinviando la causa ad altra udienza. Se la conciliazione ha
luogo, viene redatto apposito processo verbale nel quale sono indicate le imposte, le sanzioni, gli interessi, i
termini e le modalità di pagamento. La Commissione emette sentenza di cessazione della materia del
contendere.
In entrambe le ipotesi è, inoltre, permesso il pagamento rateale.
La conciliazione si perfeziona con la sottoscrizione dell’accordo. Il legislatore ha poi regolato anche gli effetti
dell’inadempimento, stabilendo che (in caso di mancato pagamento di quanto conciliato) tanto l’accordo
quanto il processo verbale costituiscano titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore o al
contribuente.
Quanto, infine, alla natura e agli effetti della conciliazione rispetto alla pretesa fiscale originaria, sussistono
orientamenti diversi: secondo un primo, bisognerebbe riconoscere alla conciliazione natura meramente
ricognitiva dell’obbligazione tributaria; secondo un altro e più recente, la conciliazione comporterebbe
l’estinzione della pretesa fiscale originaria, unilaterale ed incontestata e la sua sostituzione con una certa e
concordata.

§ La transazione fiscale.
Non rientra in senso stretto tra gli istituti deflativi.
Si tratta di un istituto disciplinato dall’art 182-ter e costituisce lo strumento mediante il quale
contribuente/debitore ha la possibilità di adempire (in misura anche parziale) al pagamento dei tributi e dei
relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali o dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza
obbligatorie, ivi compresi quelli non iscritti a ruolo. Quindi, l’istituto è congegnato al fine di consentire il
pagamento parziale e/o dilazionato dell’obbligazione tributaria con effetto integralmente liberatorio.

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Capitolo Diciassette: la riscossione e il rimborso.
Con il termine riscossione si fa riferimento al complesso delle norme e degli istituti predisposti dal legislatore
al fine di consentire all’ente impositore di incassare le somme dovute a titolo di imposte, sanzioni ed
interessi dai contribuenti.
I modi di attuazione della riscossione sono disciplinati dalla legge e la loro determinazione è tassativa, ne
consegue tanto per l’Amministrazione finanziaria quanto per il contribuente l’impossibilità di utilizzare
modelli attuativi diversi da quelli espressamente previsti.
Esistono due tipologie: la riscossione spontanea e la riscossione da inadempimento, a seconda che la
riscossione stessa consegua o meno ad un inadempimento del contribuente. Nella riscossione da
inadempimento, poi, assume particolare rilevanza la riscossione coattiva, volta all’esecuzione forzata del
pagamento delle somme dovute dal contribuente.
Tanto la riscossione spontanea, quanto la riscossione per inadempimento trovano la loro disciplina
fondamentale nel d.p.r. 602/1973.
((A partire dall’Unità d’Italia e fino al 1998, soggetti chiamati a svolgere le funzioni della riscossione, erano gli
esattori privati, attraverso un sistema ritenuto in grado di assicurare un flusso costante e regolare di entrate
all’Amministrazione finanziaria. Successivamente, con la riforma del 1998, agli esattori sono stati sostituiti i
concessionari, quali soggetti privati incaricati della gestione della riscossione dei tributi in base ad una
concessione amministrativa rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze dietro svolgimento di
un’apposita gara.
L’attività degli esattori e dei concessionari si fondata su alcuni principi fondamentali, che assicuravano un
elevato grado di efficienza della riscossione, il più importante è il cd. “obbligo di non riscosso per riscosso”, in
base al quale il soggetto incaricato della riscossione era tenuto a versare all’Amministrazione finanziaria le
somme iscritte a ruolo alle prescritte decadenze anche ove non le avesse ancora riscosse.
Tuttavia, tenuto conto della qualità di mero concessionario, si riconosceva allo stesso il diritto di ottenere il
rimborso delle somme anticipate e che non era riuscito a riscuotere dai contribuenti (cd. discarico). Con il
d.lgs. 46/1999 è stato abolito il principio “obbligo di non riscosso per riscosso”, in più ha introdotto varie
ipotesi di c.d. discarico automatico, consentendo così al concessionario di interrompere l’azione di
riscossione per le quote di contributi ritenuti inesigibili al ricorrere di determinate condizioni. Da qui si è
generata la crisi del sistema di riscossione, che ha portato nel 2005 all’abolizione dei concessionari ed
all’attribuzione delle funzioni di riscossione all’Agenzia delle entrate, che la esercita tramite Equitalia S.p.A.
Con il d.l. 193/2016: è stato previsto lo scioglimento delle società del Gruppo Equitalia, con la cancellazione
d’ufficio dal registro delle imprese a decorrere dal 1° luglio 2017 e ha attribuito lo svolgimento delle funzioni
relative alla riscossione un ente pubblico economico denominato “Agenzia delle Entrate-Riscossione” che
subentra a titolo universale nei rapporti giuridici attivi e passivi del Gruppo Equitalia ed assume la qualifica di
agente della riscossione.))

➢ La riscossione spontanea.
Prendendo le mosse dalla riscossione spontanea riguardo le imposte sui redditi, sono previste tre modalità di
riscossione: 1) la ritenuta diretta; 2) i versamenti diretti; 3) l’iscrizione a ruolo.
➡️Per IRAP e IVA, l’unica modalità di riscossione spontanea sono i versamenti diretti ⬅️
1. La ritenuta diretta: consiste nell’obbligo, posto a carico delle amministrazioni dello Stato, che versano
determinate somme (ES: emolumenti, stipendi…) di trattenerne una parte e riversarla all’Amministrazione
finanziaria.
Sotto il profilo oggettivo presenta caratteristiche simili alla ritenuta alla fonte, ma si differenzia da questa
sotto il profilo soggettivo (posto che lo Stato è al contempo sia soggetto erogatore della prestazione
pecuniaria sia beneficiario del tributo).
Quanto alla natura giuridica: la dottrina più recente si limita ad individuare in essa una pura e semplice
modalità di riscossione dei tributi diretti.
2. I versamenti diretti: qui è il contribuente ad essere chiamato direttamente alla liquidazione e al
versamento del tributo. È la principale modalità di riscossione spontanea prevista nel nostro ordinamento.

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Limitatamente alle imposte sui redditi, all’IRAP e all’IVA, si provvede mediante versamenti diretti, alla
riscossione:
- delle ritenute alla fonte operate dai sostituti di imposta, ivi comprese quelle operate dalla Camera dei
Deputati, dal Senato e dalla Corte costituzionale.
- delle somme dovute in acconto a e a saldo per le imposte sui redditi e l’IRAP.
- delle somme dovute in acconto, a saldo nonché in esito alle liquidazioni mensili o trimestrali dell’IVA.
- delle somme dovute dal contribuente in base ad un avviso bonario, in esito alla liquidazione o al controllo
formale della dichiarazione.
La disciplina dei versamenti diretti è stata profondamente modificata dal d.lgs. 241/1997, che ha previsto i
versamenti unitari delle imposte sui redditi, delle relative addizionali, delle ritenute, dell’IVA, delle imposte
sostitutive, dei contributi previdenziali ed assistenziali da effettuarsi mediante delega irrevocabile ad una
delle banche aderenti alla convenzione conclusa con il Ministero delle Finanze o alle Poste italiane.
Il contribuente conferisce delega mediante apposito modello di pagamento (F24) presso la banca o l’ufficio
postale, che rilasciano apposita quietanza.
La compensazione, è una delle forme di pagamento delle somme dovute e si distingue in:
- compensazione verticale: che consente di recuperare crediti sorti in periodi d’imposta precedenti e non
chiesti a rimborso con debiti della stessa imposta e per la quale non vi è la necessità di presentare particolari
modelli o istanze;
- compensazione orizzontale: che consente al contribuente di compensare debiti e crediti relativi a tributi
diversi, anche nei confronti di enti diversi enti impositori.
Tuttavia, il contribuente deve osservare alcuni vincoli ai fini della compensazione:
- quantitativo: la soglia massima dei crediti che possono essere compensati orizzontalmente è pari a 700mila
euro per ogni anno solare.
- procedurale: per i crediti riferiti alle impose sui redditi, all’IRAP e all’IVA, di ammontare superiore a 5mila
euro la compensazione orizzontale è subordinata all’apposizione nella dichiarazione o nell’istanza da cui
emerge il credito. Infine, è bene ricordare che l’Agenzia delle entrate ha il potere di sospendere (per un
periodo fino a 30 giorni) l’esecuzione delle deleghe di pagamento che contengano compensazioni orizzontali
che presentino profili di rischio.
3. L’iscrizione a ruolo: consiste nell’iscrizione in un elenco di tutti i debitori e delle somme dagli stessi
dovute, formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo dell’agente della riscossione. Prevede l’iscrizione
a ruolo per:
a) i casi di riscossione non derivanti da inadempimento (ES: i redditi soggetti a tassazione separata);
b) le somme il cui pagamento è stato ripartito in più rate su richiesta del debitore.
Il ruolo, quale atto riferito a una pluralità di soggetti, non è di regola notificato o comunicato
autonomamente al contribuente, che è invece destinatario della cartella di pagamento, formata dall’agente
della riscossione e consistente nella parte del ruolo relativa al singolo contribuente (tramite la cartella, il
contribuente viene a conoscenza dei dati contenuti nel ruolo che lo riguardano).

➢ La riscossione da inadempimento.
La principale modalità di riscossione per le imposte sui redditi, l’IRAP e l’IVA è costituita dall’avviso di
accertamento esecutivo. Ad essa si affianca l’iscrizione a ruolo, che ha portata residuale.
Quanto all’avviso di accertamento esecutivo, possiede le funzioni di atto impositivo, titolo esecutivo e
precetto; funzioni queste che in precedenza erano svolte, rispettivamente, dall’avviso di accertamento,
dall’iscrizione a ruolo e dalla cartella di pagamento. Qualora gli importi dovuti in base all’accertamento
esecutivo siano successivamente rideterminati, sono riscossi con intimazione ad adempiere.
Per quanto concerne, invece, l’iscrizione a ruolo, nel sistema tributario vigente ha assunto carattere
residuale, anche nel contesto della riscossione da inadempimento, quantomeno con riferimento alle imposte
sui redditi, all’IRAP ed all’IVA. Nell’ambito delle impose sui redditi, dell’IRAP e dell’IVA, l’iscrizione a ruolo
trova applicazione per la riscossione delle:
a) maggiori imposte dovute a seguito di liquidazione o controllo formale della dichiarazione non versate dal
contribuente in base al c.d. “avviso bonario”;

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b) sanzioni irrogate e non connesse con l’accertamento del tributo;
c) somme dovute in base all’adesione al processo verbale di constatazione,
d) maggiori imposte dovute a seguito di sentenza di primo grado, avente ad oggetto contestazioni fondate
sulla norma antielusiva (di cui all’art. 37-bis);
e) somme dovute dal contribuente decaduto dal beneficio del termine, a seguito di concessione di un piano
di rateazione.
In base alla prassi dell’Amministrazione finanziaria, l’iscrizione a ruolo trova applicazione anche in caso di
mancato pagamento di una delle rate dovute a seguito di accertamento con adesione.
I ruoli si distinguono in: ordinari e straordinari.
Nel ruolo ordinario —> sono indicati i dati relativi al contribuente nonché le notizie relative all’imponibile,
all’aliquota da applicare e all’imposta dovuta.
Nel ruolo straordinario sono iscritte le imposte, le sanzioni e gli interessi dovuti per i quali sussiste fondato
pericolo per la riscossione.
A tale criterio distintivo fondato sulle condizioni soggettive del contribuente, si affianca un ulteriore criterio
di distinzione: fondato sulle caratteristiche dell’atto cui la riscossione si collega. Si tratta della distinzione tra:
iscrizioni a ruolo a titolo provvisorio e iscrizioni a ruolo a titolo definitivo.
Nel ruolo a titolo definitivo —> sono iscritte: a) le imposte e le ritenute alla fonte liquidate a seguito della
liquidazione o del controllo formale della dichiarazione; b) le imposte o le maggiori imposte determinate in
base ad accertamenti definitivi; c) i redditi dominicali dei terreni e redditi agrari determinati in base a
risultanze catastali; d) gli interessi accessori rispetto alle predette somme e le relative sanzioni.
Nel ruolo a titolo provvisorio —> sono iscritte invece le sole imposte accertate in base ad accertamenti non
definitivi (per una quota pari a 1/3), le imposte e relativi interessi e sanzioni dovuti in forza delle pronunce
del giudice tributario emesse nei diversi gradi di giudizio (riscossione frazionata).
Il limite del terzo non trova applicazione per i ruoli straordinari, ove il fondato pericolo per la riscossione
giustifica l’iscrizione a ruolo delle somme dovute a titolo di imposte, sanzioni, interessi per il loro intero
ammontare (art. 15-bis d.p.r. 602/1973).
Alla formazione del ruolo pensa l’ufficio dell’Agenzia delle entrate competente, iscrivendo (in ruoli distinti
per ciascuno degli ambiti territoriali in cui operano gli agenti della riscossione) le somme dovute per
imposte, sanzioni e interessi dei contribuenti aventi il domicilio fiscale nell’ambito territoriale di riferimento.
Quanto al contenuto del ruolo: esso deve indicare il codice fiscale del contribuente, la specie ordinaria o
straordinaria del ruolo, la data in cui il ruolo è divenuto esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente
atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria.
Va rilevato che l’obbligo di motivazione del ruolo, si atteggia in modo diverso a seconda dell’esistenza o
meno di atti ad esso precedenti che abbiano portato a conoscenza del contribuente le ragioni logico-
giuridiche su cui la pretesa si fonda (ES: una motivazione di tipo sintetico può ritenersi accettabile qualora
l’iscrizione a ruolo avvenga a seguito della notificazione di un avviso di accertamento o di liquidazione,
potendo in tali casi il ruolo limitarsi al richiamo di tali atti. Diversamente qualora il ruolo costituisca il primo e
unico atto con cui l’Amministrazione finanziaria manifesta la pretesa tributaria, la relativa motivazione
dev’essere quella propria di un atto impositivo, contenente gli elementi indispensabili per consentire al
contribuente di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell’imposizione).
Il ruolo poi dev’essere anche sottoscritto, la sottoscrizione dev’essere apposta dal titolare dell’ufficio o da un
suo delegato (anche mediante firma elettronica) e vale ad attribuire il carattere di esecutività al ruolo.
Secondo la giurisprudenza, la sua mancanza, non inficia la legittimità dell’atto.
Il contribuente è quindi destinatario della sola cartella di pagamento, quale atto dell’agente della riscossione
territorialmente competente. Essa contiene l’intimazione ad adempiere all’obbligo risultante dal ruolo, entro
60 giorni, con l’avvertimento che (in sua mancanza) si procederà all’esecuzione forzata. La cartella di
pagamento deve contenere altresì l’indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione al ruolo e
quello di emissione e notificazione della cartella, al fine di assicurare trasparenza e piena informazione del
cittadino. La notificazione della cartella di pagamento, deve avvenire entro i termini perentori stabiliti
dall’art. 25 d.p.r. 602/1973 e con le modalità stabilite dall’art. 26 (ivi compresa la posta elettronica
certificata).

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Il pagamento delle somme iscritte a ruolo o risultanti dall’avviso di accertamento esecutivo può essere
effettuato presso gli sportelli dell’agente della riscossione, le agenzie postali e le banche. Nel rispetto di
determinate condizioni, è possibile provvedere al pagamento mediante cessione di beni culturali,
compensazione volontaria con crediti d’imposta e compensazione con crediti certi, liquidi ed esigibili,
maturati nei confronti di Regioni, enti locali ed enti del Servizio Sanitario nazionale.
Qualora il contribuente si trovi in una temporanea situazione di difficoltà, può richiedere la dilazione del
pagamento delle somme iscritte a ruolo (anche quelle iscritte a ruoli provvisori, ma non le somme iscritte a
ruoli straordinari).
Si ha la decadenza dal beneficio della rateazione in caso di mancato versamento di cinque rate, anche non
consecutive. Possono poi essere ricondotte nel genus delle dilazioni di pagamento anche la sospensione
della riscossione in caso di situazioni eccezionali e la sospensione amministrativa della riscossione.
L’ordinamento prevede anche una speciale procedura di sospensione legale della riscossione e
annullamento di diritto dell’atto.
Precisamente, entro 60 giorni dalla notifica da parte dell’agente della riscossione del primo atto di
riscossione utile o di un atto della procedura cautelare o esecutiva eventualmente intrapresa dallo stesso
agente, il contribuente può presentare all’agente della riscossione una dichiarazione che documenti che gli
atti emessi dall’ente creditore prima della formazione del ruolo, sono stati interessati da: a) prescrizione o
decadenza del diritto di credito sotteso; b) un provvedimento di sgravio emesso dall’ente creditore; c) dalla
sospensione dell’efficacia esecutiva degli atti concessa in via amministrativa o giudiziale; d) sentenza che
abbia annullato in tutto o in parte la pretesa avanzata dall’ente creditore; e) dall’avvenuto pagamento di
somme dovute.
La presentazione della dichiarazione comporta l’immediata sospensione delle attività di riscossione e viene
trasmessa con tutta la documentazione allegata, dall’agente della riscossione all’ente creditore al fine di
valutare l’esistenza delle ragioni fatte valere dal contribuente e procedere (in caso) all’annullamento in
autotutela dell’atto impositivo. Se l’ente creditore non risponde entro 220 giorni, il ruolo o l’avviso di
accertamento esecutivo sono annullati di diritto.
Infine, per alcune entrate aventi natura tributaria, ma diverse da quelle sopra menzionate (ES: tassa
portuale) la riscossione da inadempimento avviene attraverso l’ingiunzione fiscale —> consiste nell’ordine
dell’ente creditore di pagare entro 30 giorni la somma dovuta.

➢ La riscossione coattiva.
Qualora il contribuente non provveda al versamento degli importi iscritti a ruolo ovvero affidati in carico
all’agente della riscossione in base ad avviso di accertamento esecutivo, l’agente procede ad esecuzione
forzata.
L'esecuzione forzata tributaria è sempre attuata per espropriazione, mediante una serie di atti diretti a
trasformare i beni del debitore in denaro al fine di consentire all’ente creditore di soddisfare le sue pretese.
L'agente della riscossione procede all’esecuzione forzata sulla base del titolo esecutivo rappresentato dal
ruolo o dall'avviso di accertamento esecutivo.
L'avvio dell'espropriazione forzata è sottoposto diversi limiti:
1) Limite quantitativo: non si procede ad accertamento, iscrizione a ruolo e riscossione dei crediti relativi a
tributi erariali e regionali qualora il credito (comprensivo di interessi a sanzioni) sia di ammontare non
superiore a € 30 per ciascun periodo d'imposta.
2) Limiti temporali: nel caso di somme iscritte a ruolo l'espropriazione forzata è avviata dall’agente della
riscossione trascorsi 60 giorni dalla notificazione della cartella di pagamento; mentre, in presenza di avviso di
accertamento esecutivo l'agente della riscossione intraprende le azioni esecutive decorso un periodo di 180
giorni dall'affidamento in carico dell'avviso (periodo nel quale l'esecuzione forzata è sospesa —> tale
sospensione non si applica per gli avvisi di accertamento esecutivi divenuti definitivi per mancata
impugnazione o per passaggio in giudicato della relativa sentenza…).
Prima della riforma sulla riscossione operata dal d.lgs. 159/2015, il termine per l’avvio dell’espropriazione
forzata in materia di imposte sui redditi, IVA e IRAP era fissato nel 31 dicembre del terzo anno successivo a

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quello in cui l’avviso di accertamento esecutivo è divenuto definitivo. A seguito della riforma, tale termine è
stato soppresso dal legislatore, prevedendo così un termine unico di prescrizione decennale.
Al fine di evitare di esporre il contribuente indefinitamente all’avvio dell’espropriazione forzata, il legislatore
ha previsto che, ove sia trascorso più di un anno dalla notificazione della cartella di pagamento o dall'avviso
di accertamento esecutivo, l'agente della riscossione deve far precedere l’avvio dell'espropriazione forzata
dalla notificazione dell'intimazione ad adempiere entro cinque giorni, all'obbligo risultante dal ruolo o
dall’avviso di accertamento esecutivo. Tale intimazione perde di efficacia se trascorsi 180 giorni dalla data
della notificazione.
L’espropriazione forzata tributaria trova la sua disciplina nelle previsioni civilistiche e processual-civilistiche
applicabili in rapporto al bene oggetto di esecuzione.

((Che natura ha l’espropriazione forzata tributaria? La dottrina è da sempre divisa: (1) abbiamo un primo
orientamento che sostiene una prevalente natura amministrativa, attesa la natura amministrativa delle
funzioni esercitate dall’agente della riscossione, atteso il carattere provvedimentale del titolo esecutivo…; (2)
per un secondo indirizzo ad essa si dovrebbe riconoscere natura giurisdizionale, come emergerebbe dal
rinvio alla generale disciplina del processo esecutivo di stampo giurisdizionale…; (3) infine, c’è anche chi ha
sostenuto una natura ibrida dell’espropriazione forzata tributaria.))

Prima di avviare l’espropriazione, l’agente della riscossione ha interesse ad avere una piena e puntuale
conoscenza del patrimonio del debitore, in modo da migliorare il grado di efficacia delle azioni esecutive.
Infatti, in questa prospettiva, negli ultimi anni il legislatore ha riconosciuto maggiori poteri di indagine
all’agente della riscossione ai fini dell’accertamento. ES: può accedere in modo autonomo e senza
intermediazione del Ministero delle finanze alle informazioni contenute nell’anagrafe tributaria.
La consultazione di tali dati costituisce non una mera facoltà, bensì un vero e proprio onere per l’agente,
qualora infatti l’azione esecutiva non sia svolta su tutti i beni del debitore risultanti dall’anagrafe tributaria al
momento del pignoramento. In via facoltativa, l’agente può accedere a tutti i dati rilevanti ai fini della
riscossione, presentando apposita richiesta telematica ai soggetti pubblici o privati che detengano tali dati.
Inoltre, l’agente può anche inviare una richiesta ai soggetti terzi debitori del contribuente interessato
(banche e altri intermediari finanziari) di rendere per iscritto una dichiarazione stragiudiziale, in cui indicano
(in modo dettagliato) le cose e le somme dagli stessi dovute al contribuente contro cui si procede.
Acquisita la conoscenza del patrimonio del debitore, l’agente della riscossione avvia l’espropriazione forzata,
che si avvale di tre fasi:
1. Pignoramento;
2. Vendita o assegnazione del bene pignorato;
3. Distribuzione del ricavato.

1) Pignoramento: anche nell’espropriazione tributaria mobiliare si procede al pignoramento mediante


redazione di processo verbale, che viene consegnato o notificato al debitore, a seconda che questi assista o
meno al pignoramento. L’agente della riscossione è tenuto ad osservare la disciplina dettata dal codice di
rito sui regimi di impignorabilità (assoluta o relativa) di taluni beni. (A seguito delle modifiche normative
intervenute nel 2013, l’agente della riscossione è tenuto ad osservare anche il regime di impignorabilità
relativa previsto dal codice di procedura civile relativo agli strumenti, oggetti e libri indispensabili per
l’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere, che possono essere pignorati nei limiti di 1/5 del
relativo valore e solo qualora gli altri beni risultino insufficienti a soddisfare il credito).
2) Assegnazione: la custodia dei beni è affidata al debitore o ad un terzo, in mancanza sono presi in
consegna dal Comune del luogo dove si svolge la procedura. Sono previste due eccezioni: a) il denaro, titoli
di credito e gli oggetti preziosi pignorati sono consegnati al cancelliere presso il giudice dell’esecuzione; b) i
beni indispensabili per l’esercizio professionale, dell’arte o del mestiere sono sempre affidati in custodia al
debitore.

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Vendita: per la vendita dei beni mobili pignorati, l’agente della riscossione non deve proporre istanza al
giudice dell’esecuzione, potendo precedere mediante affissione di un avviso presso la casa comunale. La
vendita avviene sulla base di due incanti, ad un prezzo stabilito dall’agente della riscossione ovvero da uno
stimatore nominato dal giudice. Tra il pignoramento e il primo incanto deve trascorrere un termine minimo
di 10 giorni, salvo diversa e motivata richiesta dell’agente. Un’eccezione a tale regime è prevista per i beni
indispensabili all’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere, in un’ottica di salvaguardia della
continuità dell’attività economica. Se i beni non sono venuti al primo incanto, si procede al secondo incanto
ed eventualmente ad un terzo o alla vendita a trattativa privata.
L’espropriazione presso terzi, è rivolta all’assegnazione di crediti che il debitore esecutato vanti nei confronti
di terzi in modo che sia soddisfatto il credito tributario per cui l’agente della riscossione procede. Tale forma
di espropriazione è quella che meglio esprime i tratti di autotutela esecutiva e la natura amministrativa che
la dottrina dominate e una parte della giurisprudenza riconoscono all’espropriazione forzata tributaria.
A differenza di quanto avviene nel processo esecutivo ordinario (dove il terzo è sempre chiamato a
presentarsi davanti al giudice dell’esecuzione), ci sono casi in cui non è richiesta la partecipazione del giudice
dell’esecuzione —> ES: pignoramento di canoni d’affitto o locazione (si attua mediante l’ordine all’affittuario
o all’inquilino di pagare direttamente all’agente della riscossione i canoni scaduti e quelli in scadenza fino
alla concorrenza del credito per cui l’agente procede) oppure è il caso del pignoramento di beni del debitore
posseduti da terzi o crediti verso terzi (anche in questo caso l’agente notifica al terzo un ordine di consegna
dei beni o di pagamento del credito all’agente, fino alla concorrenza del credito).
Qualora il terzo non provveda all’ordine di pagamento, si procede (previa citazione del terzo e del debitore)
secondo l’ordinaria disciplina processual-civilistica.
Nell’espropriazione tributaria immobiliare, particolarmente rilevanti sono i limiti all’espropriazione cui
l’agente della riscossione deve conformarsi qualora avvii la procedura espropriativa. Si tratta di limiti riferiti
ora al bene oggetto dell’espropriazione, ora all’ammontare del credito posto in riscossione, ora ancora, al
momento in cui l’espropriazione può essere avviata.
Quanto al bene oggetto di espropriazione, non può essere espropriata la prima casa (vale a dire l’unico
immobile di proprietà del debitore, adibito ad uso abitativo e in cui egli vi risiede anagraficamente). Tale
limite, invece, non si applica alle abitazioni di lusso (vale a dire gli immobili classificati nelle categorie
catastali A/8 (abitazioni in ville) e A/9 (castelli e palazzi di eminente prestigio artistico e storico)) e altre
abitazioni comunque qualificate come abitazioni di lusso. Per gli altri immobili diversi dalla prima casa e per
le abitazioni di lusso qualificabili come prima casa —> l’agente della riscossione può procedere ad
espropriazione solo se l’ammontare del credito supera i 120mila euro.
Inoltre, l’espropriazione può essere iniziata solo dopo il decorso di sei mesi dall’iscrizione di ipoteca
sull’immobile.
Così l’agente della riscossione avvia l’espropriazione immobiliare con il pignoramento eseguito mediante la
trascrizione dell’avviso di vendita, redatto direttamente dall’agente stesso e senza l’autorizzazione del
giudice dell’esecuzione. L’avviso dev’essere notificato al debitore entro 5 giorni dalla trascrizione e deve
indicare il giorno, l’ora e il luogo in cui devono tenersi i tre incanti previsti per la vendita dell’immobile, con
un intervallo minimo di 20 giorni tra essi. Alla procedura di vendita, che è effettuata mediante pubblica asta,
può partecipare chiunque, ad eccezione del debitore e dell’agente della riscossione. L’immobile è
aggiudicato al miglior offerente nel corso dell’incanto. Qualora anche il terzo incanto abbia esito negativo,
allora l’agente della riscossione richiede l’assegnazione dell’immobile allo Stato per un prezzo che è pari al
prezzo base del terzo incanto.
Al trasferimento della proprietà dell’immobile provvede il giudice con decreto, ordinando, al contempo, la
cancellazione di tutte le ipoteche e i pignoramenti, se esistenti.
3) Si procede a questo punto con la distribuzione del ricavato: trova applicazione la disciplina prevista dagli
artt. 83 e 84 d.p.r. 602/1973.
Nei casi in cui il titolo esecutivo sia rappresentato dall’ingiunzione fiscale, trovano applicazione le norme in
tema di riscossione coattiva di cui al regio decreto 639/1910. Tuttavia, in ragione del carattere speciale delle
norme previste dal regio decreto e anche per il fatto che sono state emanate in tempo molto lontano, se ne

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impone un’integrazione con la disciplina dettata dal codice di rito e un racconto con i principi fondamentali
dell’ordinamento.
Quanto alla tutela del debitore in questo contesto di espropriazione forzata, occorre aver presente due
forme di tutela:
• Azione di risarcimento danni: ha ormai assunto un ruolo residuale e suppletivo rispetto alle opposizioni.
Tale azione rientra nella giurisdizione del giudice ordinario ed è soggetto al regime di ripartizione
dell’onere probatorio applicabile all’azione di responsabilità ex art. 2043 cc. In particolare, l’attore che
assume l’irregolarità formale o l’illegittimità degli atti esecutivi compiuti è chiamato a dimostrare non
solo l’esistenza del danno e la lesione ad esso derivante, ma anche il carattere ingiusto del danno subito
(consistente nella lesione del diritto del soggetto attore all’integrità del proprio patrimonio. In ragione
della necessità che il danno sia attuale al momento della proposizione dell’azione, tale forma di tutela ha
carattere successivo rispetto all’espropriazione.
• Opposizioni: durante lo svolgimento dell’espropriazione forzata il debitore e i terzi interessati possono
avvalersi delle opposizioni al fine di far accertare dal giudice i vizi di carattere formale o sostanziale che
connotino la procedura. Anche nel processo tributario l’opposizione attiene all’an dell’azione esecutiva,
avendo ad oggetto la contestazione del diritto di promuovere l’esecuzione forzata per vizi originari del
titolo esecutivo o per la sopravvenienza di fati impeditivi o estintivi del diritto all’esecuzione.
L’opposizione agli atti esecutivi riguarda il quomodo dell’azione esecutiva, in quanto si contesta la
legittimità (formale e sostanziale) dei singoli atti esecutivi. Qualora il debitore ritenga illegittima
l’esecuzione di uno degli atti esecutivi, può proporre opposizione all’esecuzione o opposizione agli atti
esecutivi.
L’opposizione del terzo è promossa dal terzo che pretenda di avere la proprietà o altro diritto reale sui
beni pignorati e chiede al giudice ordinario competente di accertare l’assoggettabilità del bene pignorato
ad esecuzione —> in sostanza, il terzo non contesta l’azione esecutiva dell’agente nei confronti del
debitore, bensì la legittimità del pignoramento, dal momento che quest’ultimo ha colpito beni di sua
appartenenza e quindi pregiudicato un suo diritto. Innanzitutto, deve essere promossa prima della data
fissata per il primo incanto, costituendo un presupposto processuale dell’azione, da ritenersi altrimenti
preclusa. In più, il terzo non può proporre opposizione qualora i beni mobili pignorati nella casa di
abitazione o nell’azienda del debitore o dei coobbligati, abbiano formato oggetto di una precedente
vendita nell’ambito di una procedura di espropriazione promossa dall’agente nei confronti del debitore
o del coobbligato. Infine, sono previsti penetranti limiti posti per i prossimi congiunti del debitore
(coniuge, parenti e affini fino al terzo grado): essi possono dimostrare la proprietà dei relativi beni solo
con atto pubblico o scrittura privata avente data certa anteriore.

Decorsi 60 giorni dalla notificazione della cartella di pagamento oppure l’affidamento in carico dell’avviso di
accertamento esecutivo all’agente della riscossione, legittima quest’ultimo all’iscrizione dell’ipoteca, del
fermo amministrativo sui beni mobili registrati e l’adozione di misure di conservazione del credito previste
dal diritto comune (quali l’azione surrogatoria, l’azione revocatoria o la richiesta di sequestro conservativo).
Ciò non è concesso qualora siano intervenuti provvedimenti di sospensione o dilazione.
A. Iscrizione di ipoteca: l’agente della riscossione può iscrivere l’ipoteca sugli immobili del debitore e dei
coobbligati per un importo pari al doppio dell’importo complessivo del credito per cui si procede.
L’ipoteca può essere iscritta solo se l’importo del credito non sia inferiore a 20mila euro, avendo riguardo
all’ammontare di tutti i crediti iscritti a ruolo, anche se oggetto di contestazione da parte del contribuente.
Inoltre, l’agente deve inviare al debitore una comunicazione preventiva consentente l’avviso che il mancato
pagamento delle somme dovute entro il termine di 30 giorni comporterà l’iscrizione dell’ipoteca. La mancata
notificazione di tale comunicazione determina la nullità dell’iscrizione dell’ipoteca. La mancata notifica di
tale comunicazione comporta la nullità dell’iscrizione ipotecaria.
B. Fermo amministrativo su mobili registrati (ES: autoveicoli, motoveicoli…): esso comporta non solo il
vincolo sul bene rispetto ad eventuali atti dispositivi successivi, ma anche il divieto di circolazione. Anche qui
l’agente della riscossione deve comunicare preventivamente che il mancato pagamento delle somme entro
30 giorni, comporterà l’iscrizione del fermo.

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Quanto alla natura dell’iscrizione di ipoteca e del fermo amministrativo, la giurisprudenza propende per la
qualificazione dei due istituiti come procedure alternative all’esecuzione forzata vera e propria, rivolte ad
indurre il debitore all’adempimento spontaneo del debito iscritto a ruolo.

Parliamo ora del rimborso, è quella posizione di credito del contribuente vanta nei confronti
dell'Amministrazione finanziaria e che può originare dallo stesso meccanismo attuativo del prelievo
tributario ovvero da errori commessi dal contribuente nella liquidazione nel versamento del tributo oppure
ancora da errori commessi dagli stessi uffici dell’Amministrazione.
In assenza di una definizione normativa del rimborso, la dottrina ha elaborato una propria definizione
secondo cui esso rappresenta un’attribuzione patrimoniale dall’Erario al contribuente, volta a neutralizzare
gli effetti di una precedente attività solutoria, carente di causa solvendi.
Le fattispecie di rimborso possono distinguersi in: crediti di rimborso e crediti di restituzione.
- Crediti di rimborso: conseguono ad un pagamento indebito, che esso lo sia dall’origine o per causa
sopravvenuta.
- Crediti di restituzione: la fattispecie non origina dall'indebito, ma dall’operare di criteri teleologici di vario
tipo (ragioni agevolative, equitative, di sostegno finanziario…) che il legislatore ritiene prevalenti rispetto alla
logica strettamente impositiva, che impediscono il consolidamento degli effetti attributivi dell’originario
pagamento e che comportano la restituzione di tributi legalmente percepiti (ES: restituzione di quanto
pagato in eccesso a titolo di imposta di registro…).
- Crediti di imposta in senso stretto: alle prime due categorie si affianca anche questa terza, in cui il credito
in capo al contribuente origina, essenzialmente, da specifici meccanismi di attuazione del tributo.
Quanto alle cause del rimborso o della restituzione dei tributi sono:
a) la carenza di legge, che può dipendere da:
- carenza ab origine della norma impositiva;
- mancata conversione di un decreto legge;
- abrogazione retroattiva della norma impositiva o introduzione retroattiva di una norma di favore;
- norma di interpretazione autentica contra fiscum;
- dichiarazione di incostituzionalità;
- contrasto della norma impositiva interna o dell’atto amministrativo con il diritto europeo.
b) i versamenti anticipati rispetto al verificarsi del presupposto d’imposta, che si rivelino di ammontare
eccedente rispetto all'imposta effettivamente dovuta;
c) l’errore del contribuente o dell’ufficio (per il contribuente —> errore in dichiarazione; errore dell’ufficio—>
può emergere in sede di liquidazione del tributo);
d) l’illegittimità dell'atto impositivo, sia esso appartenente alla fase dell'accertamento o della riscossione.

Il rimborso delle imposte sui redditi —> In via generale l'ordinamento pone a carico del soggetto titolare del
diritto l’onere di proporre apposita richiesta di rimborso entro un termine stabilito (generalmente a pena di
decadenza) dalla disciplina dei singoli tributi. Ove la disciplina non preveda nulla, soccorre il termine stabilito
in via generale (due anni decorrenti dal pagamento o dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la
restituzione).
Venendo ai procedimenti di rimborso previsti ai fini delle imposte sui redditi, devono distinguersi: i rimborsi
su istanza di parte dai rimborsi d’ufficio.
§ I Rimborsi d’ufficio: sono caratterizzati dall'inesistenza in capo al contribuente dell’onere di presentazione
dell'istanza entro il termine di decadenza. Pertanto, tali ipotesi devono ritenersi tassative, derogando al
principio generale che prevede un termine entro il quale presentare la richiesta.
Sono poi previste due ipotesi in relazione alla dichiarazione dei redditi:
- La prima riguarda il rimborso dei versamenti effettuati dal contribuente in misura superiore all'imposta
liquidata dall’ufficio.
- La seconda riguarda il rimborso della differenza tra i crediti d'imposta o le ritenute versate e l’imposta
liquidata in base alla dichiarazione.

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Quanto alla fase della riscossione —> il rimborso d'ufficio è previsto nel caso di errori materiali o duplicazioni
dovuti all'ufficio delle somme iscritte a ruolo o risultanti da avvisi di accertamento esecutivi.
§ I Rimborsi su istanza di parte: per i quali occorre distinguere tra:
- rimborsi richiesti con la dichiarazione dei redditi;
- rimborsi chiesti con istanza d’ufficio;
- rimborsi chiesti mediante l’impugnazione dell’iscrizione a ruolo.
Per i rimborsi richiesti con la dichiarazione dei redditi: viene in rilievo anzitutto il caso in cui l'ammontare
degli acconti, delle ritenute e dei crediti d'imposta sia superiore a quello dell'imposta netta riferita al reddito
complessivo del contribuente. In tal caso, quest'ultimo ha diritto di computare l’eccedenza in diminuzione
dell'imposta nel periodo d'imposta successivo ovvero di chiederne il rimborso mediante la dichiarazione dei
redditi. In assenza di espressa scelta, il credito si considera riportato per il periodo di imposta successivo.
Controversa è la questione relativa al consolidamento del credito chiesto a rimborso mediante la
dichiarazione dei redditi —> secondo la giurisprudenza più recente, tale credito non si consolida né con la
scadenza del termine annuale né con lo spirare del termine di esercizio del potere di accertamento, dovendo
il contribuente agire per il recupero del credito entro l’ordinario termine di prescrizione decennale; secondo,
invece, l’orientamento della Cassazione più recente, il credito in discorso si consolida nell’an e nel quantum
con la decadenza del potere di accertamento.
Passiamo ora ai rimborsi chiesti con istanza, viene in rilievo la disciplina stabilita dagli artt. 37 e 38 d.p.r.
602/1973, relativa al rimborso di ritenute dirette ed al rimborso di versamenti diretti.
Il contribuente assoggettato a ritenuta diretta può chiedere entro 48 mesi il rimborso all’ufficio dell’Agenzia
delle entrate competente in base al suo domicilio fiscale, qualora si sia verificato un errore materiale.
Del pari, sempre entro 48 mesi dalla data del versamento, il contribuente può richiedere il rimborso
all’ufficio dell’Agenzia delle entrate competente in base al suo domicilio fiscale.
In caso di presentazione dell’istanza ad un ufficio dell’Agenzia delle entrate, la giurisprudenza ha affermato
di recente che l’istanza di rimborso presso ufficio incompetente costituisce atto idoneo sia ad impedire la
decadenza del contribuente dal diritto al rimborso sia a determinare la formazione del silenzio-rifiuto
impugnabile dinanzi al giudice tributario, tutto questo perché l’ufficio non competente è comunque tenuto a
trasmettere l’istanza all’ufficio competente, in conformità alle regole di collaborazione tra organi
dell’Amministrazione.
La legittimazione attiva alla presentazione dell’istanza di rimborso spetta al contribuente debitore nei
confronti dell’Erario. L’istanza di rimborso dev’essere presentata entro il termine di 48 mesi. Ai fini
dell’individuazione del dies a quo del termine occorre effettuare alcune precisazioni: Se il rimborso attenga
ad un versamento a saldo dell’imposta, il termine di 48 mesi decorre dalla data di versamento del saldo
stesso. Se il saldo ha ad oggetto un versamento in acconto, il termine decorre dal versamento del saldo solo
nel caso in cui il relativo diritto, derivi da un’eccedenza degli importi anticipatamente corrisposti rispetto
all’ammontare del tributo che risulti complessivamente dovuto al momento del saldo.
In caso di sostituzione tributaria, il termine decorre dal momento dell’effettuazione della ritenuta per il
sostituto e dal momento del versamento per il sostituto se la ritenuta ed il versamento sono indebiti ab
origine.
Un’ ultima ipotesi di rimborso riferita alle imposte sui redditi è quella di richiesta mediante l’impugnazione
dell’iscrizione a ruolo, ossia mediante la richiesta cumulativa dell’annullamento del ruolo e della condanna
dell’Amministrazione finanziaria al rimborso.

Il rimborso dell’IVA —> Nel contesto dell’IVA occorre distinguere il rimborso dell'imposta in senso proprio
dal meccanismo della cd. procedura di variazione dell'imponibile o dell'imposta.
Partiamo dalla procedura di variazione dell’imponibile o dell’imposta: qualora un'operazione per cui sia stata
emessa fattura, venga meno in tutto o in parte o se ne riduca l'ammontare imponibile, l’art. 26 d.p.r.
633/1972 consente l'emissione di un'apposita nota di variazione in diminuzione dell'imponibile o
dell'imposta. In tal caso il cedente o prestatore avrà diritto di recuperare la maggiore IVA applicata
sull'operazione portando il relativo ammontare in detrazione, mentre il cessionario o committente avrà
diritto alla restituzione dell'eccedenza di IVA applicata in rivalsa.

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Quanto invece al rimborso dell'imposta indebitamente versata: a seguito delle innovazioni avvenute con la
L.167/2017 è disciplinato dall’art. 30-ter co.1 del d.p.r. 633/1972 che ammette il rimborso entro il termine
di due anni dal pagamento o, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
È bene precisare, poi, che il dies a quo del termine biennale dev’essere individuato nel momento del
pagamento. Resta fermo che la mancata attivazione della procedura di variazione (ex art. 26) preclude
soltanto il recupero della maggiore IVA versata tramite detrazione, ma non fa venire meno il diritto del
contribuente a richiedere il rimborso della maggiore IVA versata mediante istanza di rimborso presentata nel
termine biennale. Inoltre, anche per l’IVA indebitamente versata per contrasto con il diritto europeo, sulla
base di sentenze interpretative della Corte di giustizia, il dies a quo del termine biennale dev’essere
individuato nella data di effettuazione del versamento. È in ogni caso escluso il rimborso dell’IVA qualora il
versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale.
Inoltre, occorre rilevare che il meccanismo applicativo del tributo e l'obbligo di versamento dello stesso a
scadenze periodiche infrannuali, comporta di frequente l’emersione di un'eccedenza detraibile nella
dichiarazione annuale. Per questa ragione il legislatore consente al contribuente di attivare il rimborso di tale
eccedenza direttamente per mezzo della dichiarazione, permettendogli di optare (in alternativa al rimborso)
per il computo dell'eccedenza detraibile in detrazione nell'anno successivo ovvero per l'utilizzo in
compensazione. Secondo la giurisprudenza prevalente il rimborso chiesto mediante la dichiarazione è
soggetto al solo termine di prescrizione decennale e non anche quello di decadenza biennale. In caso di
mancata esposizione dell’eccedenza detraibile nella dichiarazione annuale, resta comunque fermo il diritto
del contribuente di chiedere il rimborso dell’IVA non dovuta con le modalità e i termini previsti dall’art. 30-
tre d.p.r. 633/1972.

Capitolo Diciotto: le sanzioni tributarie.


❖ Le sanzioni amministrative tributarie:
Il sistema sanzionatorio tributario è stato oggetto di una radicale riforma nel 1997, prima di allora le sanzioni
erano contenute nella L. 4/1929.
La riforma del 1997 è stata attuata con 3 decreti legislativi, emanati in virtù della delega contenuta nell’art. 3
co.133 L. 662/1996.
1. D.lgs. 471/1997 – riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di IVA e di
riscossione dei tributi;
2. D.lgs. 472/1997 – disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme
tributarie;
3. D.lgs. 473/1997 – revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla
produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti.
Il 471 è di carattere particolare, in quanto contiene le norme sanzionatorie per le specifiche violazioni
commesse con riguardo alle imposte sui redditi e l’IVA.
Anche il 473 contiene norme di carattere particolare, riferite ad alcuni tributi indiretti.
Tuttavia, il decreto che interessa maggiormente è il 472, con il quale si è data attuazione ai principi cardine
del sistema delle sanzioni amministrative nel diritto tributario.
Con il d.lgs. 158/2015 è stata operata una revisione del sistema sanzionatorio, sia amministrativo che
penale, dando attuazione all’art. 8 L. 23/2014. Con riferimento alle sanzioni amministrative, l’art. 8 ha
delegato il Governo ad operare una revisione del regime “della dichiarazione infedele” e del sistema
sanzionatorio amministrativo al fine di correlare al meglio le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti.
Per quanto riguarda i principi generali contenuti nel d.lgs. 472/1997: il sistema sanzionatorio è stato
modellato su quello penale, cambia ovviamente la tipologia di misura punitiva irrogabile. Le sanzioni
amministrative sono tali perché non si traducono in misure detentive, ma solo in sanzioni pecuniarie ed
eventualmente in sanzioni accessorie a contenuto interdittivo.
Le sanzioni accessorie sono previste nell’art. 21 d.lgs. 472/1997 (interdizione per una durata massima di sei
mesi dalle cariche di amministratore, sindaco, revisore di società di capitali e di enti con personalità giuridica
(pubblici o privati); interdizione dalla partecipazione a gare per l’affidamento di pubblici appalti e forniture,

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sempre per la durata massima di 6 mesi; interdizione dal conseguimento di licenze, concessioni o
autorizzazioni amministrative per l’esercizio di imprese o attività di lavoro autonomo e loro sospensione…).
I principi più importanti introdotti dal d.lgs 472/97 in materia di sanzioni amministrative sono:
§ Il principio di legalità (contemplato dall’art. 3 co.1, di chiara matrice penalistica), in base al quale solo una
legge in senso formale può introdurre una norma sanzionatoria.
§ la regola dell’irretroattività della norma sanzionatoria (sempre art. 3 co.1), che vieta di sanzionare il
soggetto per un dato comportamento in un momento antecedente all’entrata in vigore della norma
sanzionatoria.
§ Il principio del favor rei (art. 3 co.2 e 3), che stabilisce che se in un momento successivo a quello in cui è
stato commesso il fatto viene prevista una sanzione più tenue oppure viene meno del tutto la norma
sanzionatoria, il soggetto deve poter beneficiare del nuovo regime (anche se, al momento in cui ha
commesso il fatto, quel determinato comportamento era espressamente sanzionato).
§ Principio di imputabilità (art. 4), secondo il quale la sanzione può essere irrogata in quanto chi ha
commesso il fatto aveva la capacità di intendere e di volere.
§ Principio di colpevolezza (art. 5), in base al quale la violazione della norma tributaria deve dipendere,
affinché possa essere sanzionata, da un’azione od omissione, cosciente e volontaria, dolosa o colposa.
Una fondamentale differenza tra il sistema penale e tributario, sta nel fatto che nei casi di violazione di una
norma tributaria che comporti l’applicazione di sanzioni amministrative opera una presunzione di colpa in
capo a chi abbia commesso la violazione. Sarà dunque onere di costui provare eventualmente di aver agito
senza colpa.
L’art. 6 d.lgs. 472/1997 prevede quali cause di non punibilità:
a) l’errore incolpevole sul fatto (co.1);
b) le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali
le violazioni si riferiscono (co.2);
c) il fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi e che ha impedito il
versamento del tributo (co.3);
d) l’ignoranza inevitabile della legge tributaria (co.4);
e) la forza maggiore (co.5);
f) la violazione che non arreca pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incide sulla
determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo (co.5-bis).
Tra le cause di non punibilità una particolare menzione meritano le obiettive condizioni di incertezza.
Innanzitutto, l’incertezza deve essere obiettiva, la violazione dev’essere frutto di una norma che in sé era
oggettivamente difficile da interpretare. Perciò non è facile stabilire cosa debba intendersi per incertezza
obiettiva, in quanto, in un certo senso l’incertezza è sempre soggettiva (si tratta infatti di una condizione in
cui si trova il soggetto e non l’oggetto). Il legislatore così ha voluto segnare un limite di carattere
quantitativo, nel senso che le sanzioni non saranno irrogabili ogni qual volta, anche per gli operatori giuridici
più qualificati, la disposizione si presenti di dubbia interpretazione.
Ai principi propri del diritto penale sono ispirate anche le regole di determinazione della sanzione.
L’art. 7 d.lgs. 472/1992, fa riferimento ad alcuni elementi, tra i quali:
a) la gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente;
b) l’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze;
c) la sua personalità;
d) le condizioni economiche e sociali.
Emerge qui con evidenza la funzione punitiva della sanzione. Proprio perché nel diritto tributario non vi sono
strumenti per tracciare un quadro complessivo della “personalità” del trasgressore, il legislatore ha preferito
dettare così specifici criteri. In questo modo, la personalità del trasgressore deve essere desunta anche dai
suoi precedenti fiscali. (“Anche” nel senso che non dev’essere l’unico criterio utilizzabile).
Le sanzioni amministrative tributarie, la maggior parte delle volte non sono determinate in misura fissa,
bensì attraverso dei limiti minimi e massimi, che segnano lo “spazio” all’interno del quale l’Amministrazione
finanziaria può individuare la sanzione in base ai criteri stabiliti.

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Il limite minimo o massimo potrà essere superato solo per espressa previsione normativa. Ed è lo stesso art.
7 co.3 a stabilire i casi in cui la sanzione può essere aumentata fino alla metà (del limite massimo) e al co.4 i
casi in cui può essere ridotta fino alla metà del limite minimo.
Dal momento che le sanzioni amministrative non hanno una finalità risarcitoria, bensì una punitiva, è
evidente che essa non possa trasmettersi agli eredi, i quali non sono responsabili delle eventuali violazioni di
norme tributarie commesse dal de cuius. Laddove sia stato notificato al de cuius un avviso di accertamento,
con il quale sia stato richiesto un maggior tributo e siano state contestualmente irrogate le sanzioni
amministrative, mentre l’obbligazione relativa al tributo si trasmetterà agli eredi, l’obbligazione relativa alle
sanzioni invece si estinguerà.
Per quanto riguarda gli enti aventi personalità giuridica: inizialmente era prevista la responsabilità del
dipendente o del legale rappresentante che avesse commesso la violazione e contestualmente era prevista
la responsabilità solidale della persona giuridica (la quale ha effettivamente “beneficiato” della violazione
tributaria) salvo il diritto di regresso nei confronti del dipendente o legale rappresentante.
Il legislatore è intervenuto in materia con l’art 7 d.l. 269/2003, che prevede che le sanzioni amministrative
relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico
della persona giuridica, poiché il destinatario della sanzione è pur sempre colui che si avvantaggia della
violazione tributaria, mentre lo stesso non può dirsi per colui che commette la violazione. La mancata
coincidenza tra chi commette e colui che si avvantaggia, rende meno critica la previsione dell’art 7. Sarebbe
dunque eccessivo ritenere che ci sia una ingiustificata discriminazione tra i legali rappresentanti o dipendenti
di una società o persona giuridica che non subiscono sanzioni per le violazioni commesse relativamente al
rapporto fiscale della persona giuridica.
È frequente, nel diritto tributario, che l’Amministrazione finanziaria si trovi a contestare ad uno stesso
soggetto una pluralità di violazioni. Di fronte quindi, alla contestazione di più violazioni, vi sono due
possibilità:
1) Cumulo materiale: applicare tante sanzioni quante sono le violazioni, irrogando una sanzione finale che
sia semplicemente la somma algebrica delle singole sanzioni;
2) Cumulo giuridico: applicare una sanzione che viene determinata: da un lato, tenendo conto del fatto che
sono state commesse più violazioni, ma dall’altro evitando la mera somma algebrica che può astrattamente
comportare l’applicazione di sanzioni eccessive rispetto alla gravità del comportamento tenuto dal soggetto.
L’art 12 d.lgs. 472/1997 ha optato per il cumulo giuridico sia nel caso di concorso formale (che si ha quando
con una sola azione si commettono diverse violazioni della medesima disposizione o di distinte disposizioni
anche relative a tributi diversi) sia nel caso di concorso materiale (che si ha quando con più azioni od
omissioni si commettono diverse violazioni formali della medesima disposizione).
In tutti questi casi l’Amministrazione dovrà applicare la sanzione che dovrebbe infliggersi per la violazione
più grave, aumentata da un quarto al doppio.
L’art 12 contempla le sole violazioni formali, cioè le violazioni che non incidono sulla determinazione
dell’imponibile o sulla liquidazione del tributo. ES: il caso in cui il contribuente omette di indicare il numero
della partita IVA nella dichiarazione —> se tale violazione si verifica più volte nel corso del periodo di
imposta, si applicherà la regola del cumulo giuridico. Qualora vengano commesse violazioni sostanziali, cioè
quelle che incidono sulla determinazione dell’imponibile o sulla liquidazione del tributo, la regola è quella del
cumulo materiale. Se però le violazioni sostanziali sono funzionalmente collegate tra loro (c.d. illecito
continuato) dovrà essere applicato il cumulo giuridico.
Per quanto riguarda i procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative, l’art. 16 si riferisce
all’ipotesi in cui l’ufficio intenda procedere nei confronti del contribuente irrogando soltanto le sanzioni
(l’alternativa è agire per il recupero della maggiore imposta).
L’ufficio, prima di irrogare le sanzioni, deve previamente notificare un atto di contestazione delle sanzioni nel
quale vengono indicati i fatti attribuiti al trasgressore, gli elementi probatori, le norme applicate e i criteri
che l’ufficio ritiene di seguire per la determinazione delle sanzioni.
Il contribuente, di fronte all’atto di contestazione delle sanzioni, ha 4 possibilità:
1) Può pagare la sanzione in misura ridotta (evitando le sanzioni accessorie) entro il termine per la
proposizione del ricorso alla CTP (Commissione tributaria provinciale).

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2) Entro lo stesso termine, può produrre deduzioni difensive in cui illustrerà all’ufficio le ragioni per cui
ritiene che le sanzioni non siano dovute. In questo caso l’ufficio potrà: a) condividere le deduzioni difensive
del contribuente e rinunciare all’irrogazione della sanzione; b) non condividere in tutto o in parte le
deduzioni difensive. E dovrà notificare entro un anno dalle deduzioni l’atto di irrogazione delle sanzioni, che
dovrà essere motivato a pena di nullità.
3) Entro lo stesso termine, può proporre l’impugnazione dinanzi alla CTP, in questo caso l’atto di
contestazione delle sanzioni sarà considerato come un vero e proprio atto di irrogazione delle sanzioni (atto
impugnabile davanti al giudice tributario).
4) Può evitare di porre in essere uno dei tre comportamenti sopra indicati; in questo caso la sanzione sarà
dovuta per l’intero così come le eventuali sanzioni accessorie.
Oltre al procedimento di irrogazione delle sanzioni previsto dall’art. 16, vi è quello previsto dall’art 17, che si
riferisce all’ipotesi dell’atto con cui l’ufficio oltre ad irrogare le sanzioni, recuperi a tassazione anche il
maggior tributo. In questo caso non vi è la possibilità di presentare deduzioni difensive, così il contribuente
potrà: 1) o pagare un terzo della sanzione, entro il termine di proposizione del ricorso giurisdizionale; 2) o
l’impugnazione immediata; 3) o non pagare e non impugnare, con la conseguenza che l’atto diverrà
definitivo ed il contribuente sarà poi tenuto a pagare la sanzione per l’intero.
Se il contribuente decide di avvalersi della definizione agevolata, potrà poi impugnare l’atto impositivo
dinanzi alla Commissione tributaria per chiedere l’annullamento dello stesso. Qualora il contribuente
risultasse vincitore in giudizio non potrà recuperare la sanzione pagata in via agevolata prima della
proposizione del ricorso.

Capitolo Diciannove: la giurisdizione, gli atti impugnabili e l’oggetto del


processo tributario.
Le controversie riguardanti la materia tributaria sono devolute ad un apposito giudice: le Commissioni
Tributarie Provinciali e Regionali (a cui si affianca la Corte di Cassazione per le sole questioni di legittimità).
L’organizzazione degli uffici giudiziari è disciplinata dal d.lgs. 545/1992 mentre la disciplina del processo
tributario si rinviene nel d.lgs. 546/1992.
L. 448/2001 prevede l’attuale assetto della giurisdizione tributaria. Prima di tale legge la giurisdizione
generale sulla materia tributaria era affidata al giudice ordinario con l’eccezione di alcuni tributi
tassativamente elencati dal d.lgs. 546. Alle Commissioni Tributarie erano devolute le controversie relative ad
imposte sui redditi, IVA, imposta sulle successioni e donazioni, imposte ipotecaria e catastale...Tuttavia, la
giurisdizione tributaria era da qualificarsi quale residuale rispetto a quella del giudice ordinario, al quale
spettava pronunciarsi in caso di silenzio della legge.
Con l’intervento del 2001, il legislatore attribuì alle Commissioni tributarie la cognizione generale della
materia tributaria.
L’art. 12 d.lgs. 488/2001 ha stabilito che appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie
avente ad oggetto tributi di ogni genere e specie, compresi quelli regionali, provinciali e comunali.
Allo stato attuale, la giurisdizione delle Commissioni tributarie si estende a tutti i rapporti aventi natura
tributaria, ossia a tutti i rapporti in cui viene esercitata una potestà impositiva, quindi devono essere portate
all’attenzione di tali giudici:
1) Le controversie instaurate nei confronti di qualunque ente impositore e concernenti:
a) Obbligazioni facenti capo ai soggetti passivi del tributo (in particolare quelle dei sostituti d’imposta).
b) Obbligazioni di rimborso (rientra nella fattispecie anche la domanda diretta del cessionario del relativo
credito).
c) Obbligazioni accessorie (si intendono tali tutte le posizioni giuridiche che presentano un’intima
connessione con l’atto impugnato e quindi: le spese di notifica, gli interessi moratori ed il maggior danno da
svalutazione monetaria…mentre non sono tali quelle che si fondano su un comportamento illecito
dell’Amministrazione finanziaria.
d) Sanzioni connesse alla violazione delle predette obbligazioni.
2) Le controversie instaurate nei confronti dei soggetti incaricati della riscossione di tributi, se relative
all’esistenza del titolo giuridico per cui si procede alla riscossione.

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Restano invece escluse dalla giurisdizione tributaria (per essere affidate al giudice ordinario) le controversie
riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria giuridicamente successivi alla notifica della cartella di
pagamento e dell’intimazione ad adempiere.
Con riferimento alle controversie che possono instaurarsi nella fase della riscossione, occorre precisare che il
d.lgs. 156/2015 ha chiarito che sono devolute alla giurisdizione delle Commissioni tributarie non solo le
controversie avviate nei confronti dei soggetti incaricati della riscossione erariale, bensì anche quelle nei
confronti di privati incaricati della riscossione locale.
Nasce così la seguente distinzione:
A. Le controversie riguardanti il titolo della riscossione, ovverosia quelle concernenti il diritto dell’ente
impositore a riscuotere il tributo, sono devolute al giudice tributario.
B. Le controversie riguardanti gli atti strettamente esecutivi, ossia quelle concernenti le concrete modalità
operative mediante le quali viene esercitata la riscossione, sono devolute al giudice ordinario nelle forme
delle opposizioni di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c. (si tratta dei processi concernenti la pignorabilità dei beni
aggrediti, la conversione del pignoramento, la fissazione della vendita...).
Le questioni relative alla pignorabilità, pur essendo tecnicamente una forma di opposizione all’esecuzione,
non riguardano il diritto di procedere, ma il modo in cui si procede e pertanto sono devolute giudice
ordinario. Vanno invece proposte davanti al giudice tributario solo le questioni concernenti eventuali errori
della persona cui si è notificato il ruolo o i modi con cui lo si è notificato.
Spettano invece al giudice ordinario le questioni sulla regolarità dei singoli atti esecutivi ex art. 165 c.p.c.
Mentre sono attribuite al giudice tributario le controversie relative all’esistenza del titolo in base al quale si
procede (e al giudice ordinario le questioni relative al modo in cui si procede).
Non sussistono, invece, problemi per le azioni ex art. 619 c.p.c. che riguardano l’opposizione di terzo e che
quindi sono correttamente ed esclusivamente devolute al giudice ordinario.
Occorre infine precisare che spettano al giudice tributario le controversie relative alla richiesta di fermo
amministrativo sui beni mobili registrati e di iscrizione di ipoteca sugli immobili. Quanto all’ipotesi di crediti
tributari, il legislatore ha risolto la questione in favore del giudice tributario.
Appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie di natura esecutiva, in cui è il
contribuente ad agire nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. Si tratta di quelle controversie che
hanno ad oggetto il diritto del contribuente/creditore al rimborso dell’indebito ex art. 2033cc. In questi casi il
contribuente richiede una tutela di natura esecutiva, sicché non ricorrono i presupposti di applicabilità della
riserva in favore della giurisdizione tributaria.
Appartengono sempre alla competenza del giudice ordinario le azioni che eventuali soggetti diversi dal
contribuente possono intraprendere contro l’Amministrazione, è il caso dei condebitori solidali, dei garanti…
Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie catastali, sono quelle promosse dai singoli
possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni... Si
tratta di controversie che concernono operazioni catastali individuali.
Sono dunque escluse dalla competenza del giudice tributario:
- le controversie aventi ad oggetto atti di qualificazione, classificazione, stima e formazione, revisione e
aggiornamento delle rendite, destinati ad operare nei confronti di una generalità indeterminata di soggetti.
La competenza è del giudice amministrativo.
- le controversie tra privati, o anche tra privati e P.A, aventi ad oggetto la verifica dell’esistenza e
dell’estensione della proprietà. Queste sono di competenza del giudice ordinario. (Solo qualora i privati
contestino le risultanze dei pubblici registri sussiste la giurisdizione del giudice tributario.
In più, appartengono alla giurisdizione tributaria anche le domande di condanna di una parte nel caso in cui
un giudice ravvisi una condotta processualmente illecita.
Con riferimento, invece, alle controversie tra sostituto d’imposta e sostituito, si prevede che la competenza
sia del giudice ordinario, vista la natura privatistica del rapporto tra soggetto attivo e soggetto passivo
dell’obbligo di rivalsa.
Infine, concorrono a definire il perimetro della giurisdizione delle Commissioni tributarie:
a) L’art. 2 co.3 d.lgs. 546/1992, in forza del quale il giudice tributario risolve incidenter tantum (in via
puramente incidentale) e senza efficacia di giudicato, ogni questione da cui dipende la decisione delle

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controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela
di falso e quelle sullo stato o sulla capacità delle persone;
b) L’art. 7 co.5, che attribuisce alle Commissioni Tributarie, qualora ritengano illegittimo un regolamento o
un atto generale rilevante ai fini della decisione, il potere di non applicarlo limitatamente al giudizio
proposto davanti a loro, ferma l’eventuale impugnazione dello stesso nella diversa sede competente
(cioè quella del giudice amministrativo).
Non rientrano nella giurisdizione del giudice tributario le controversie in tema di contributi previdenziali
obbligatori.
L’art. 19 d.lgs. 546/1992 reca il novero degli atti impugnabili.
Tale disposizione fornisce i cd. limiti interni della giurisdizione tributaria, circoscrivendo le tipologie di
controversie suscettibile di formare oggetto di quest’ultima entro la cornice enucleata dal precedente art. 2,
che invece fornisce i cd. limiti esterni. Va comunque precisato che è solo l’art. 2 la norma espressamente
dedicata a definire l’oggetto della giurisdizione tributaria, senza che tale disciplina possa essere condizionata
dal dettato dell’art. 19, il quale elenca tutti gli atti che possono essere oggetto di impugnazione dinnanzi al
giudice tributario, una volta definito il perimetro della sua giurisdizione.
Il processo tributario ha la struttura del processo da ricorso in quanto l’attore (il contribuente) può proporre
la propria domanda solo impugnando un atto o un comportamento inerte dell’Amministrazione finanziaria
(ES: liti con oggetto il diniego del rimborso). Qui, però, l’impugnazione, anche se rivolta contro un atto, tende
non al suo annullamento, bensì all’accertamento della fondatezza della pretesa erariale.
L’art. 19 individua così: a) l’avviso di accertamento del tributo; b) l’avviso di liquidazione del tributo; c) il
provvedimento di irrogazione delle sanzioni; d) il ruolo e la cartella di pagamento; e) l’avviso di mora; e-bis)
l’iscrizione di ipoteca sugli immobili; e-ter) il fermo di beni mobili registrati; f) gli atti relativi alle operazioni
catastali; g) il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi non dovuti;
h) il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;
i) ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni
tributarie.
Sarebbe permessa un’interpretazione estensiva dell’elenco dell’art. 19 all’esito della quale è consentito al
contribuente l’accesso alla giurisdizione tributaria tutte le volte in cui un ente impositore esercita un potere
riconducibile ad una delle aree individuate dall’art. 19 medesimo. Si eviterebbero così vuoti di tutela.
Secondo un’interpretazione funzionale dell’art. 19 sarebbero impugnabili davanti al giudice tributario tutti
gli atti espressivi di una manifestazione di volontà impositiva dell’Ufficio, idonei ad incidere negativamente
nella sfera patrimoniale del contribuente. Quindi anche quegli atti atipici, non immediatamente riconducibili
a quelli indicati dall’art 19. La giurisprudenza più recente ha precisato che essi sono atti diversi da quelli
menzionati nell’elenco dell’art 19 e non immediatamente riconducibili ad alcuna ipotesi ivi inficiata. Per la
Cassazione tali atti non sono di per sé idonei a divenire definitivi, sicché possono essere impugnati solo in via
facoltativa, previa dimostrazione, da parte del contribuente, di un suo interesse ad agire (quindi il
contribuente deve dimostrare al giudice che l’atto impugnato provoca una lezione attuale ad un bene della
vita di cui egli è titolare).
La mancata impugnazione di uno di questi atti non comporta per il contribuente alcuna decadenza
processuale o alcun consolidamento della pretesa contenuta nell’atto, infatti, ove egli non si sia avvalso della
facoltà di impugnarlo, potrà sindacare il contenuto dell’atto atipico, in sede di impugnazione del primo atto
tipico, a lui successivamente notificato.
Tuttavia, tale posizione della giurisprudenza è fortemente criticata in dottrina, in quanto
l’atto/provvedimento o è impugnato (e a quel punto non diventa definitivo) oppure non è impugnato (e
diventa definitivo) senza che siano ammesse altre possibilità. Se invece l’atto non ha natura
provvedimentale, allora risulta inidoneo a cristallizzare la pretesa del contribuente, a prescindere dal
comportamento tenuto dallo stesso e quindi non si pone il problema della sua impugnabilità.
Parliamo ora dell’accesso alla giurisdizione tributaria, quando ne è consentito l’accesso? Ai sensi dell’art 19
d.lgs 546/1992 è consentito nei confronti dei seguenti atti:
A) Avviso di accertamento del tributo, al contribuente è consentita l’impugnazione dell’avviso di
accertamento del tributo. Per la Cassazione devono essere qualificati come avvisi tutti quegli atti con cui

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l’Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria formalizzata in un atto cancellabile solo
in via di autotutela o attraverso l’intervento del giudice, accompagnata dalla sollecitazione a pagare
spontaneamente (per evitare spese ulteriori). La mancata indicazione del termine per impugnare o la
mancanza delle forme da osservare per l’impugnazione sono omissioni che possono soltanto rendere
inidoneo l’atto a far decorrere il termine (per impugnare) o giustificare la rimessione in termini del
contribuente per errore scusabile. Sono poi equiparati agli avvisi di accertamento, gli avvisi di recupero, in
quanto essi, oltre ad avere una funzione informativa dell’insorgenza del debito tributario, costituiscono
manifestazioni della volontà impositiva da parte dello Stato al pari degli avvisi di accertamento o di
liquidazione —> sono considerati impugnabili: il provvedimento di recupero di crediti di imposta non
spettanti; la comunicazione di revoca di crediti di imposta.
B) Avvisi di liquidazione del tributo, dovrebbero rientrarvi quegli atti, variamente denominati (avviso bonario,
avviso di liquidazione, comunicazione dell’esito della liquidazione), che si caratterizzano per il fatto che
attraverso di essi l’Ente impositore non intima né richiede alcunché, ma si limita ad avvertire il contribuente
della possibilità di iscrivere a ruolo un tributo non producendo effetti negativi diretti e immediati a carico del
contribuente. (Ad essi, secondo la giurisprudenza, dev’essere riconosciuta autonoma impugnabilità).
C) Provvedimenti che irrogano le sanzioni, si tratta di provvedimenti disciplinati dagli artt. 16 e ss. d.lgs.
472/1997 con i quali gli Uffici esercitano i poteri sanzionatori loro attribuiti e per effetto dei quali il
contribuente è destinatario di un atto avente ad oggetto le sole sanzioni.
D) Sono poi impugnabili il ruolo e la cartella di pagamento. Non si pongono particolari problemi in tema di
impugnabilità della cartella di pagamento, tuttavia se ne sono posti in riferimento a quella del ruolo: in
particolare la giurisprudenza ha dovuto distinguere il “ruolo” dal cd. “estratto di ruolo”. Per la Cassazione, il
primo è un provvedimento dell’ente impositore, il secondo invece è solo un documento formato dall’agente
della riscossione che non contiene alcuna pretesa impositiva. Differenza che serve per escludere
l’impugnabilità dell’estratto di ruolo, essendo inidoneo a contenere qualsivoglia pretesa impositiva.
E) L’avviso di mora, di cui all’art. 50 co.2 d.p.r. 602/1973, nonostante non sia più previsto dal legislatore in
sede di riscossione, la sua menzione nell’art. 19 ha consentito di considerare impugnabili eventuali atti quali
il sollecito di pagamento (che precede la fase della riscossione). Il riconoscimento dell’impugnabilità
dell’avviso di mora poi è fondamentale per il caso in cui esso sia notificato a soggetti diversi dall’obbligato
principale.
E-bis) per quanto riguarda l’iscrizione di ipoteca, la giurisdizione è devoluta al giudice tributario purché i
crediti garantiti dall’ipoteca abbiano natura tributaria. Si è posto il problema della conoscenza da parte del
contribuente dello svolgimento di tale attività e anche qui è intervenuto il legislatore con il d.l. 70/2011 che
ha previsto l’obbligatorietà della preventiva comunicazione di iscrizione ipotecaria ai fini della validità della
stessa misura cautelare. Così l’agente della riscossione adesso è tenuto a notificare al proprietario
dell’immobile una comunicazione preventiva contenente l’avviso che (in mancanza di pagamento delle
somme entro 30 giorni) sarà iscritta l’ipoteca.
E-ter) Fermo di beni mobili registrati, l’inclusione del fermo nel novero degli atti impugnabili ha sollevato un
problema operativo, dal momento che esso non è atto recettizio, perciò il contribuente poteva subirlo senza
venirne preventivamente a conoscenza. Così, l’Amministrazione finanziaria cercò di ovviare a questa
situazione (2006) dando istruzioni affinché l’iscrizione di fermo dovesse essere preceduta da un preavviso,
contenente un ulteriore invito a pagare le somme dovute entro i successivi 20 giorni, decorsi i quali il
preavviso assumeva il valore di comunicazione di iscrizione di fermo. Successivamente è intervenuto il
legislatore con l’art. 52 co.1 lett.m-bis) d.l. 69/2013, che prevede che la procedura di iscrizione di fermo di
beni mobili registrati sia avviata dall’agente della riscossione con la notifica al debitore o ai coobbligati iscritti
nei pubblici registri, attraverso una comunicazione preventiva contenente l’avviso che (in mancanza di
pagamento delle somme dovute entro il termine di 30 giorni) sarà eseguito il fermo. La giurisprudenza ha
così ritenuto impugnabile sia tale preavviso di fermo per far valere i vizi attinenti all’esistenza della pretesa,
sia il successivo fermo per far valere eventuali vizi della procedura.
F) Atti relativi alle operazioni catastali, si tratta di atti relativi alle operazioni di misura, di classamento,
relativi all’attribuzione di rendita mediante stima diretta, alle operazioni di intestazione e quelli relativi
all’accertamento della diminuzione di produttività. Sono da ricondurre a questa lettera tutti gli atti aventi ad

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oggetto operazioni catastali in qualsiasi forma adottati, purché idonei a produrre effetti negativi in capo al
proprietario di un bene immobile.
G) È dichiarato impugnabile il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed
interessi non dovuti, si tratta delle cd. liti sui rimborsi, cioè le controversie mediante le quali il contribuente
esercita un’azione per ottenere una pronuncia di condanna dell’ente impositore alla restituzione di quanto
pagato indebitamente.
Quanto al rifiuto espresso —> non è vincolato dalla legge a forme particolari, sicché esso può derivare da
qualsiasi atto (anche atipico) purché dallo stesso emerga una volontà dell’Amministrazione di non accogliere
(in tutto o in parte) la richiesta del contribuente.
Quanto al rifiuto tacito —> nel sistema tributario esso non costituisce un atto impugnabile di per sé ma un
mero presupposto processuale. Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria è considerato un mero
comportamento fattuale, che se perdura per oltre 90 giorni, comporta l’azionabilità della pretesa di
rimborso.
H) Atti di diniego o revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari
(quali le domande per l’applicazione di legislazioni di tipo condonistico). Secondo la giurisprudenza si
considerano atti di diniego gli atti di natura dichiarativa della sussistenza (totale o parziale) delle condizioni
previste dalla legge) affinché il contribuente possa fruire del diritto ad un regime, sostanziale o procedurale,
di favore. Anche il diniego tacito può essere impugnato, in quanto incombe sul contribuente l’onere di
contestare qualunque provvedimento che accerta e dichiara la sussistenza dell’obbligazione tributaria.
I) Ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni
tributarie, il legislatore ammette che singole leggi possano prevedere l’autonoma impugnabilità di specifici
atti.
L’art. 19 d.lgs. 546/1992 oltre a fornire l’elenco degli atti impugnabili, fissa le seguenti regole:
a) Gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente (salvo quanto chiarito in tema di
atti atipici);
b) Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri;
c) La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto
notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo.
In ogni caso, eventuali vizi dell’attività istruttoria, da cui derivi la compressione di diritti soggettivi
riconosciuti al contribuente, possono essere fatti valere unitamente al successivo primo atto impugnabile
(tipicamente l’avviso di accertamento) notificato al contribuente, ricevendo così una tutela differita.
Nell’ipotesi in cui l’attività di accertamento non si concluda con l’emissione di un atto impositivo o questo
non sia concretamente impugnato, il contribuente non resta comunque privo di tutela potendo ricevere
tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario.
Ove, invece, il destinatario di un atto istruttorio non sia il contribuente, ma un soggetto terzo —>
quest’ultimo non potrà impugnare alcun atto davanti agli giudice tributario, ma potrà adire immediatamente
il giudice ordinario.
La regola per cui ciascuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri,
comporta un ulteriore corollario: l’omessa impugnazione di un atto autonomamente impugnabile implica la
definitività del suo contenuto, in tal modo il suo contenuto non può più essere messo in discussione.
Eccezione alla regola: in caso di mancata notifica dell’atto presupposto o di nullità della medesima, il
contribuente può far valere in giudizio le questioni che avrebbe potuto sollevare avverso il precedente atto
impugnabile e che non ha potuto sollevare per il vizio della notifica, purché l’atto presupposto appartenga
alla sequenza procedimentale, predeterminata dal legislatore per l’attuazione del tributo di cui si discute.
QUESTIONE: l’impugnazione dell’atto precedente unitamente a quello successivo è una facoltà od un onere
per il contribuente?
Per un indirizzo minoritario, costituisce un onere, a pena della sua definitività.
Per un secondo orientamento sarebbe una mera facoltà, infatti imporre al contribuente l’impugnazione di
entrambi gli atti significherebbe privilegiare l’Amministrazione finanziaria.

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Da tutto questo si evince che non sono esperibili nel processo tributario azioni di accertamento preventivo
negativo, cioè azioni volte a far accertare la situazione fiscale di un contribuente prescindendo da un atto
d’impulso dell’Amministrazione finanziaria.
Perciò il fatto che l’art. 19 d.lgs. 546/1992 stabilisca che il ricorso davanti alla Commissione tributaria possa
essere proposto soltanto avverso gli atti impugnabili tassativamente indicati dal medesimo articolo
comporta che, in assenza di uno di tali atti, al contribuente è inibito accedere alla giustizia tributaria.
Sono quindi esperibili solo azioni per accertare l’illegittimità di un dato atto impositivo.
Si può osservare dunque come il problema della natura e dell’oggetto del processo tributario sia stato a
lungo dibattuto —> secondo l’indirizzo dichiarativa, gli atti dell’Amministrazione finanziaria avrebbero
efficacia dichiarativa di obbligazioni già sorte, in questa prospettiva il processo tributario sarebbe
riconducibile al modello di un processo di impugnazione-merito e le azioni esperibili dal contribuente
sarebbero di accertamento del credito vantato dalla stessa Amministrazione finanziaria. Per le teorie
costitutive, invece, gli atti impositivi avrebbero efficacia costitutiva e il processo tributario sarebbe
riconducibile al modello del processo di impugnazione-annullamento, quindi di un processo nel quale il
contribuente contesterebbe la regolarità degli atti emessi nei suoi confronti. La giurisprudenza di Cassazione
ha svalutato, nel corso del tempo, tali differenziazioni. Risulta così accertato che il processo tributario è solo
formalmente costruito come un giudizio di impugnazione dell’atto impositivo che costituisce veicolo di
accesso a tale giudizio. Il superamento dell’orientamento per cui gli atti tributari avevano solo lo scopo di
provocare la reazione del contribuente ha consentito di ritenere che l’impugnazione dell’atto devolve alla
cognizione del giudice l’intero rapporto tributario. Il contribuente potrà, dunque, contestare tanto la
legittimità formale e sostanziale dell’atto. È così pacifico che l’oggetto del processo tributario si estenda a
valutare tutte le situazioni giuridiche soggettive che sorgono in capo al contribuente.
In questo contesto, a differenza del processo amministrativo, non è riconosciuta al contribuente
l’impugnazione dell’atto per eccesso di potere, in quanto l’Amministrazione finanziaria non procede a quella
ponderazione di interessi tipica delle Pubbliche Amministrazioni.
Anche nei limiti in cui è consentito all’Amministrazione finanziaria esercitare un potere discrezionale, al
giudice tributario non è consentito sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’Agenzia delle entrate. La
Cassazione ritiene così che, in tali casi, l’oggetto del processo sia solo la legittimità del rifiuto e non la
fondatezza della pretesa tributaria.
Alla luce di questo quadro risulta che la maggiore o minore ampiezza della sentenza conclusiva del processo
(che annullerà in tutto o in parte l’atto impositivo) dipenderà, in primo luogo, dalla motivazione dell’atto
impositivo e in secondo luogo, dai motivi di ricorso proposti dal contribuente. Non sussiste, dunque, alcun
onere del giudice tributario di sollevare d’ufficio questioni attinenti alla validità dell’atto impugnato. Ciò
nonostante, al giudice tributario è stato comunque attribuito il potere di eccepire d’ufficio profili quali la
decadenza del contribuente dalla presentazione di istanza di rimborso di un tributo + il dovere di verificare
d’ufficio questioni di natura processuale quali: la tempestiva impugnazione dell’atto, la sussistenza della
legittimazione processuale delle parti…
Al contribuente spetterà così l’onere di devolvere alle Commissioni Tributarie la conoscenza tanto dell’atto
impositivo, quanto del rapporto sottostante, con l’effetto che la sentenza dichiarerà la sussistenza o meno
dei vizi dell’atto o sostituirà le valutazioni dell’Ufficio con quella dei giudici sulla debenza o meno
dell’imposta.
Dal momento che oggetto della cognizione del giudice tributario è solo il rapporto contestato, deriva altresì
l’inammissibilità di domande riconvenzionali, di domande di restituzione o di riduzione in pristino o di
eccezioni di compensazione.
Oltre a tali azioni, sono esperibili davanti alle Commissioni tributarie: azioni di condanna alla restituzione di
somme indebitamente versate. In questi casi spetterà al giudice (adito dopo la presentazione dell’istanza di
rimborso rigettata espressamente dall’Amministrazione) accertare la natura indebita del pagamento del
contribuente e poi condannare l’Amministrazione al rimborso di quanto ricevuto in eccesso.
È ammessa, infine, la tutela cautelare a favore del solo contribuente.
Infatti, egli può chiedere: (1) alla Commissione tributaria provinciale la sospensione dell’esecuzione dell’atto
impugnato se da esso può derivargli un danno grave e irreparabile (art. 47 d.lgs. 546/1992); (2) può chiedere

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alla Commissione tributaria regionale la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata se sussistono
gravi e fondati motivi, se dall’atto possa derivargli un danno grave e irreparabile (art. 52 d.lgs. 546/1992); (3)
può chiedere alla Commissione che ha pronunciato la sentenza nel frattempo impugnata davanti alla Corte
di cassazione, la sospensione tanto dell’esecutività della sentenza impugnata, quanto dell’atto di cui si
discute, se da uno di essi può derivargli un danno grave e irreparabile (art. 62-bis d.lgs. 546/1992).
Infine, il legislatore ha previsto anche la possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza davanti alle
Commissioni tributarie. Questo giudizio, per effetto delle modifiche apportate è diventato l’unico sistema
attraverso il quale il contribuente può ottenere, a danno dell’ente impositore o dell’incaricato (erariale o
locale) della riscossione, l’esecuzione delle sentenze (a lui favorevoli) rimaste inattuate.

Capitolo Venti: presupposto, soggetti passivi e determinazione della base


imponibile IRPEF.
IRPEF: Imposta sul reddito delle persone fisiche costituisce il tributo di maggiore importanza
nell’ordinamento tributario italiano. Per comprenderne la natura, è necessario richiamare le classificazioni
delle imposte:
1. Imposte dirette e indirette:
- le prime sono rivolte a colpire manifestazioni dirette di capacita contributiva (reddito, patrimonio) e sono
prelevate direttamente sull’entità economica che costituisce la base imponibile (ES: IRPEF, IRES, IMU);
- le seconde invece, colpiscono manifestazioni indirette di capacita contributiva, in quanto sintomi di essa
(consumi, produzione, trasferimenti). ES: l’IVA e le altre imposte sui consumi, che colpiscono la ricchezza
solo nel momento in cui viene prodotta (accise sulla fabbricazione) o consumata (dazi doganali, accise sul
consumo) + si pensi alle imposte sui trasferimenti che la colpiscono quando viene trasferita (imposte sulle
successioni e donazioni, imposta di registro, imposta di bollo…).
2. Imposte sul reddito e sul patrimonio:
- le prime, colpiscono il reddito, inteso quale flusso di ricchezza pervenuto al soggetto in un determinato
periodo di tempo;
- le seconde, assoggettano ad imposizione il patrimonio, mobiliare o immobiliare.
3. Imposte personali e imposte reali:
- le prime, dette anche soggettive, tengono conto oltre che dell’indice di capacità contributiva, anche delle
condizioni familiari e sociali del contribuente cui tale indice si riferisce, attribuendo rilevanza a tutta una
serie di oneri che diminuiscono la libera disponibilità del reddito;
- Le seconde, dette anche oggettive, si riferiscono invece semplicemente all’indice di capacità contributiva.
4. Imposte fisse, proporzionali, progressive e regressive, classificate sotto il profilo economico:
- fisse, qualora siano stabilite in misura invariabile oppure secondo parametri prestabiliti (peso, volume);
- proporzionali, quando l’aliquota media resta costante per qualsiasi livello del reddito;
- progressive, quando l’aliquota media (intesa come rapporto tra imposta e base imponibile) aumenta
all’aumentare del reddito o del patrimonio;
- regressive, quando l’aliquota media decresce all'aumentare del reddito o del patrimonio.

L’IRPEF è un tributo diretto, sul reddito, personale e progressivo.


È un'imposta progressiva, in quanto colpisce il reddito con aliquote che dipendono dagli scaglioni di reddito,
ed è di carattere personale, essendo dovuta (per i soggetti residenti sul territorio dello Stato) per tutti i
redditi posseduti, anche se prodotti all'estero.
La sua importanza attiene tanto al profilo quantitativo, trattandosi dell’imposta che maggiormente
contribuisce al gettito erariale, quanto qualitativo.
Esso costituisce il frutto della riforma tributaria di cui alla legge delega 825/1971 e della trasformazione da
essa operata del sistema di tassazione dei redditi (da prevalentemente reale in prevalentemente personale):
nell’intento di dare compiuta attuazione al principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.).
Il precedente sistema di tassazione era articolato su un insieme di imposte reali e cedolari che colpivano
separatamente i vari cespiti (terreni, redditi agrari, fabbricati e ricchezza mobile) ed erano ancorate ad una
rigorosa applicazione del principio di territorialità, al fine di assicurare una progressività dell’imposizione. Nel

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nuovo sistema viene mantenuta la classificazione dei redditi in sei distinte categorie, ma la natura del
reddito diviene irrilevante ai fini della tassazione confluendo tutti i redditi di categoria nel reddito
complessivo soggetto a tassazione personale e progressiva.
Oltre alla progressività, altro carattere fondamentale dell’IRPEF è la personalità, che si esprime attraverso
una determinazione quantitativa della base imponibile del tributo, fortemente influenzata dalle
caratteristiche proprie del soggetto passivo.
Il presupposto del tributo, inteso quale atto o fatto che rappresenta il titolo giustificativo dell’imposizione a
carico di un determinato soggetto e che dunque individua l’an debeatur, è individuato dall’art. 1 TUIR (d.p.r.
917/1986) nel possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate dall’art. 6: i) redditi
fondiari, ii) redditi di capitale, iii) redditi di lavoro dipendente, iv) redditi di lavoro autonomo, v) redditi di
impresa, vi) redditi diversi.
Quanto alla nozione di reddito, che costituisce l’oggetto dell’Irpef, manca una nozione unitaria di reddito,
ma è comunque possibile delineare alcuni caratteri minimi della nozione. Esso, innanzitutto, può essere
inteso come ricchezza novella (flusso di ricchezza che va ad incrementare il patrimonio di un soggetto in un
determinato periodo). Il reddito quindi si contrappone al concetto di patrimonio, rappresentandone una
variazione incrementale nel corso di un arco temporale definito.
Nonostante tale minima definizione vi sono state diverse teorie che sono state elaborate in ordine
all’individuazione della tipologia di reddito da assumere a fondamento della ricostruzione della ricchezza
individuale:
- una prima teoria prevede che il reddito vada ricondotto ad una fonte produttiva, che l’incremento
patrimoniale derivi da un’attività o da un atto di gestione idonei a produrre un risultato economico (teoria
del reddito prodotto);
- una seconda teoria valorizza il mero fatto dell’esistenza di un incremento patrimoniale, indipendentemente
dalla connessione con una fonte produttiva (teoria del reddito entrata);
- una terza tesi determina il reddito in ragione del consumo e delle spese (teoria del reddito consumato).
Dinnanzi alle incertezze e difficoltà di individuare un concetto unitario di reddito, parte della dottrina ha
elaborato una tesi nominalistica, secondo la quale è reddito solo ciò che il legislatore qualifica come tale
nella disciplina delle singole categorie.
La dottrina è pressoché concorde nel ritenere l’attuale sistema dell’imposizione reddituale quale sistema
chiuso, che sottopone a tassazione le sole fattispecie reddituali analiticamente individuate.
Le tipologie di redditi elencate dall’art. 6 possono essere distinte a loro volta in due categorie principali:
(1) Redditi da atto: consistono nei proventi generati dallo svolgimento di un atto di gestione di un
patrimonio (immobiliare o finanziario), si tratta di redditi fondiari, di capitale e diversi.
(2) Redditi da attività: sono rappresentati dai flussi incrementali di un patrimonio riferibili all’esercizio di
attività economiche nelle quali si combinano il capitale ed il lavoro altrui sotto la direzione ed il
coordinamento del titolare dell’attività, si tratta di redditi da lavoro dipendente, autonomo e di impresa.
(3) Redditi di partecipazione: non costituiscono una vera e propria categoria, si tratta di quei redditi
dichiarati dai soggetti che partecipano agli enti fiscalmente trasparenti (società di persone, associazioni
professionali ed enti equiparati). Con questa espressione si indica unicamente un criterio mediante il quale
un elemento reddituale entra a far parte del reddito complessivo di un contribuente.
Al di là di questa generale classificazione, le sei categorie reddituali contenute nell’art. 6, costituiscono
altrettanti microsistemi, ciascuno dei quali è disciplinato secondo proprie regole. Nell’ambito di ciascuna
categoria si rinvengono: a) regole sulla qualificazione del reddito di categoria e i criteri di imputazione
soggettiva; b) regole sull’imputazione del singolo elemento reddituale al periodo di imposta; c) le norme
relative alla rilevanza del reddito al lordo e al netto.
Per quanto attiene all’imputazione al periodo d’imposta, coincide nell’IRPEF con i singoli anni solari, a
ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma.
Quanto alle regole di imputazione, occorre rilevare due criteri: i) secondo il criterio di cassa, il reddito
diviene rilevante quando viene percepito o pagato, cioè quando si verifica la movimentazione finanziaria, in
entrata o in uscita (tale criterio trova applicazione per i redditi di capitale, quelli da lavoro autonomo e da

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lavoro dipendente + quelli diversi); ii) il criterio di competenza, che assume rilievo al momento in cui matura
il diritto di credito o sorge il debito (vale per il credito di impresa).
Quanto alla deduzione dei costi sostenuti, vi è di regola un tendenziale riconoscimento di tutti i costi
sostenuti in relazione al reddito prodotto o un riconoscimento in misura forfetaria dei costi stessi.
L’art. 6 co.2 sancisce il principio di sostituzione dei redditi, in base al quale i proventi percepiti in sostituzione
di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di reddito,
costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti e sono assoggettati a tassazione con
le medesime regole dei redditi che sostituiscono. Tale disciplina trova applicazione sia per i proventi
sostitutivi (quali emolumenti attributi in funzione surrogatoria dei redditi) sia per i proventi risarcitori (cioè le
somme concesse per risarcire una perdita di redditi), richiedendo in entrambi i casi una connessione diretta
tra la perdita del reddito e la sostituzione o risarcimento. Nei proventi sostitutivi tale principio opera nei casi
in cui il reddito sia già venuto ad esistenza (ma non è ancora stato tassato), mentre nei proventi risarcitori il
principio rileva in ipotesi in cui il reddito non sia ancora stato prodotto.
Inoltre, sempre dalla lettura dell’art. 6 co.2 si evince che, al di fuori delle ipotesi in cui vi sia una norma
speciale che preveda la disciplina fiscale dell’indennità corrisposta, vi è la necessità di individuare
puntualmente la funzione di ciascuna attribuzione.
- L’art. 6 co.2 esclude da tassazione i proventi dipendenti da invalidità permanente o da morte. Anche in
caso di provvedimento dell’autorità giudiziaria o di transazione, devono ritenersi escluse dalla tassazione le
somme aventi natura di mera reintegrazione patrimoniale.
- L’art. 6 co.2 dispone inoltre che gli interessi moratori e quelli per dilazione di pagamento sono qualificati
come accessori del credito e pertanto sono assoggettati alla stessa disciplina nella quale si colloca il credito
cui gli interessi accedono.
Alla definizione della nozione di reddito ai fini IRPEF, si connette anche il tema della tassazione di redditi
derivanti da attività illecite, a seguito di numerosi dibattiti dottrinali si è giunti ad una soluzione con l’art. 14
L. 537/1993, in base al quale i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificate come illecito civile, penale
o amministrativo, devono essere assoggettati alle imposte reddituali qualora: a) rientrino in una delle
categorie reddituale previste dal TUIR; b) non sia stato disposto un provvedimento di sequestro o confisca
penale. A tale norma la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto natura interpretativa.
Il tema della tassazione dei proventi di fonte illecita si connette altresì alla deduzione dei costi da illecito. Al
riguardo la L. 289/2002 ha introdotto nell’art. 14 summenzionato il comma 4-bis, in base al quale si esclude
la deduzione dei costi e delle spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato (ad eccezione
dei diritti costituzionalmente garantiti). Perciò, secondo tale previsione: sono deducibili i costi e le spese se
attengono a illeciti civili o amministrativi, sono invece indeducibili se si riferiscono a reati.
Quanto, invece, ai costi per operazioni soggettivamente inesistenti, per effetto dell’art. 8 co.1 l’indeducibilità
non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo
probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi; perciò i costi relativi
all’acquisizione di beni o servizi che, ancorché documentati da fatture per operazioni soggettivamente
inesistenti, non siano stati utilizzati per il compimento di alcun reato, sono deducibili.
Premesso ciò è da sottolineare come i redditi (in denaro o in natura, rientranti nelle singole categorie)
assumano rilievo ai fini fiscali in quanto siano anche posseduti dalle persone fisiche di riferimento.
In dottrina si è discusso molto sul significato della locuzione: “possesso di redditi”.
(1) Secondo una prima ricostruzione ad esso va attribuito lo stesso significato adottato in ambito civile, in cui
esso si identifica in una specifica relazione di fatto tra il soggetto e una cosa materiale.
(2) Altra tesi ha sostenuto che il possesso esprimesse l’effettività dell’incremento patrimoniale e dunque
l’effettiva disponibilità dei mezzi monetari per assolvere il debito d’imposta. Quindi, la soggettività passiva si
indirizza dal titolare “di diritto” al soggetto che dimostri con il proprio comportamento di disporre dello
stesso, ad ES: utilizzandone i frutti.
(3) Una terza ricostruzione (quella prevalente) fa coincidere il possesso del reddito con la titolarità della
fonte produttiva di questo. Il possesso dei redditi ne implica la titolarità giuridica, così come la si ricava dalle
singole norme che qualificano i diversi redditi e li attribuiscono a determinati soggetti in base ad atti giuridici
ben individuati (contraente, proprietario…).

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Profilo problematico è poi quello che attiene al rapporto tra i criteri di imputazione a periodo e il
presupposto di imposta —> per alcuni autori i criteri di imputazione concorrerebbero alla definizione del
presupposto (dovendo dare rilievo non tanto al perfezionamento, quanto al profilo esecutivo, cioè il
pagamento, la consegna, la spedizione…). In questo senso il presupposto d’imposta si perfezionerebbe solo
con il realizzarsi dei criteri di imputazione temporale. Per altri autori, il riferimento agli effetti giuridici delle
figure contrattuali richiamate dal presupposto dovrebbe ritenersi imprescindibile, coincidendo il momento di
realizzazione del criterio d’imputazione temporale con l’estinzione di un credito precedentemente sorto, in
capo al soggetto a cui il reddito è riferibile.
I soggetti passivi dell’IRPEF sono individuati dall’art. 2 TUIR, in base al quale vi rientrano tutte le persone
fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato. Il concetto di persona fisica non crea particolari
problemi basandosi sulla disciplina civilistica, non assumendo rilievo l’età, la capacita di agire, il sesso, lo
stato civile e la cittadinanza.
Assume invece rilevanza la nozione di “residenza”—> infatti, mentre i soggetti residenti sono tassati su tutti i
redditi, ovunque prodotti (“worldwide income taxation” o principio della tassazione del reddito mondiale), i
soggetti non residenti sono tassati soltanto per i redditi che si considerano prodotti nel territorio dello Stato
italiano (principio della territorialità).
Ai sensi dell’art. 2 co.2 TUIR, si considerano residenti ai fini IRPEF: le persone che per la maggior parte del
periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato
il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. Ai fini dell’integrazione della residenza in Italia devono
essere soddisfatti due requisiti: i) uno oggettivo —> è integrato se la persona fisica è: a) iscritta all’anagrafe
comunale della popolazione residente; b) ha nel territorio dello Stato il domicilio, inteso come il luogo in cui
la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi (art. 43 co.1 cc); c) ha sempre nel
territorio dello Stato, la residenza (che è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale – art. 43 co.2 cc). E
ii) uno temporale —> per i tre requisiti di cui sopra vale il requisito temporale, ossia devono sussistere per la
maggior parte del periodo d’imposta, normalmente pari a 183 giorni (184 per gli anni bisestili)
L’iscrizione all’anagrafe comunale avviene: i) per nascita; ii) per esistenza giudizialmente dichiarata; iii) per
dichiarazione dell’interessato che ha trasferito la propria residenza da altro Comune o dall’estero (il cittadino
italiano che cancella la propria iscrizione anagrafica comunale e trasferisce la residenza all’estero è tenuto
alla registrazione presso l’anagrafe degli italiani residenti all’estero).
Una persona fisica, anche se non è iscritta all’anagrafe comunale, è residente in Italia ai fini fiscali se ha nel
territorio dello Stato, il domicilio, inteso come il luogo in cui il soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi
affari e interessi. A parere della giurisprudenza civilistica, cui la giurisprudenza tributaria si è adeguata, il
domicilio dovrebbe essere individuato avendo riguardo a tutti i rapporti (economici, sociali, familiari, morali
e culturali) inerenti ad un soggetto, mentre secondo la dottrina il domicilio dovrebbe essere individuato
avendo riguardo alla limitata sfera dei rapporti economico-patrimoniali del soggetto.
A seguito del verificarsi di condotte evasive basate su trasferimenti fittizi di residenza all’estero, è stato
aggiunto dalla L. 448/1998 l’art. 2-bis TUIR, in base al quale sono considerati altresì residenti, salvo prova
contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori
diversi da quelli individuati dal decreto del ministro dell’economia e delle finanze (territori a regime fiscale
privilegiato, i cd. paradisi fiscali). Questa previsione, dunque, riveste natura antievasiva, rispondendo alla
necessità di contrastare la fittizia emigrazione in Paesi o territori a fiscalità agevolata.
La residenza fiscale ai fini IRPEF esplica effetti anche sulle addizionali regionali e comunali IRPEF, tali
addizionali dovranno poi essere versate alla Regione o al Comune in cui il soggetto ha il proprio domicilio
fiscale.
Parliamo ora della tassazione dei redditi del nucleo familiare: precedentemente era previsto un regime di
cumulo dei redditi coniugali, che trovava la propria ratio nell’assetto dei rapporti familiari, tale regime di
cumulo fu confermato anche dalla riforma degli anni ’70 che individuava l’elemento determinante ai fini
dell’applicazione del regime stesso nella convivenza dei coniugi. Esso però si rivelò penalizzante per il nucleo
familiare, che finiva per sopportare un onere tributario complessivamente più gravoso di quanto sarebbe
stato in assenza del regime di cumulo. Così la Corte costituzionale (1976) stabilì l’incostituzionalità di tale
regime, per violazione del principio di eguaglianza, di quello di capacità contributiva e della tutela della

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famiglia (art. 31 Cost.). A seguito di questa pronuncia, fu prevista soggettività passiva distinta di ciascun
coniuge, limitatamente ai redditi a ciascuno di essi spettanti. Attualmente, al regime dei redditi familiari è
dedicato l’art. 4 TUIR, che si occupa:
-lett. a) dei redditi dei beni che formano oggetto di comunione legale, sono imputati a ciascun coniuge per
metà del loro ammontare o per la diversa quota stabilita in eventuali convenzioni modificative. I proventi
dell’attività separata di ciascun coniuge sono a lui imputati in ogni caso per l’intero ammontare;
-lett. b) dei redditi dei beni che formano oggetto del fondo patrimoniale, sono imputati per metà del loro
ammontare netto a ciascun coniuge, indipendentemente dalla loro titolarità giuridica.
-lett. c) dei redditi dei figli minori soggetti all’usufrutto legale dei genitori, sono imputati a ciascun genitore
per metà del loro ammontare netto. Se vi è un solo genitore o se l’usufrutto legale spetta ad un solo
genitore, i redditi gli sono imputati per l’intero ammontare. Qualora i figli minori siano titolari di redditi
derivanti dalla propria attività lavorativa o da beni non soggetti all’usufrutto legale, sussiste l’obbligo di
presentazione di un’autonoma dichiarazione dei redditi da parte dei figli —> dichiarazione che sarà
presentata e sottoscritta dai genitori in qualità di rappresentanti legali.
Ulteriore analisi meritano anche i redditi prodotti in forma associata: come detto, l’IRPEF trova applicazione
nei confronti delle persone fisiche, ma i redditi possono anche essere prodotti da organismi più ampi quali le
società di persone o di capitali, le associazioni professionali, le imprese familiari…quindi, il legislatore
riconosce una soggettività tributaria piena soltanto alle società di capitali e agli enti equiparati, che sono
soggetti passivi dell’IRES e dell’IRAP. Le società di persone residenti non sono invece considerati soggetti
passivi né dell’IRPEF né dell’IRES (SÌ ai fini IRAP).
I redditi delle società semplici, in nome collettivo ed in accomandita semplice, residenti nel territorio dello
Stato sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla percezione (proporzionalmente alla sua quota
di partecipazione) —> principio di trasparenza.
Sulla base di questo principio, le società di persone residenti non presentano un’autonoma soggettività
tributaria ai fini IRPEF, ma vengono considerate uno strumento di produzione di un reddito di pertinenza dei
soci, ai quali viene direttamente attributo pro quota, indipendentemente dall’effettiva percezione. La
differenza di tale modello di imputazione, rispetto a quello applicabile alle società di capitali si giustifica alla
luce della differente disciplina civilistica in tema di distribuzione degli utili.
Il principio di trasparenza si applica ex lege alle società di persone, tuttavia, a seguito della riforma IRES può
trovare applicazione, su base opzionale e a ricorrere di determinati presupposti soggettivi e oggettivi, nei
confronti delle società di capitali.
Il principio di trasparenza non si applica però alle società di persone non residenti, che sono considerate
soggetti passivi dell’IRES, in considerazione della difficoltà per il Fisco di reperire i soci di una società non
residente.
Al ricorrere di determinate condizioni, il principio di trasparenza può trovare applicazione anche nei
confronti dell’impresa familiare (di cui all’art. 230-bis cc), intesa come impresa (necessariamente individuale)
nella quale i familiari dell’imprenditore prestano la propria attività di lavoro in modo continuativo. Ai fini
tributari si intendono come familiari: il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo —>
tale impresa acquista rilievo ai fini tributari qualora, anteriormente all’inizio del periodo di imposta, sia stato
redatto un atto pubblico o scrittura privata autenticata dal quale risultino i nomi dei familiari partecipanti e il
rapporto di parentela con l’imprenditore. In presenza di tale atto, il reddito risultante da dichiarazione dei
redditi dell’imprenditore viene imputato (proporzionalmente alla rispettiva quota di partecipazione) a
ciascun familiare.

Il criterio generale di determinazione della base imponibile IRPEF è stabilito dall’art. 3 TUIR.
L’articolo in esame si compone di tre commi: 1 comma: fornisce indicazioni in ordine all’ammontare su cui
calcolare l’imposta, specificando i diversi criteri di determinazione di tale ammontare con riferimento ai
soggetti residenti e non residenti; 2 comma: esclude dall’imponibile i redditi assoggettati al regime di
tassazione separata; 3 comma: indica in via analitica i redditi esclusi dalla formazione della base imponibile.
Come accennato, è prevista una differenziazione tra i soggetti residenti e i soggetti non residenti: i residenti
sono assoggettati ad imposizione per redditi ovunque prodotti, in base al principio della tassazione

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mondiale, in forza del quale concorrono a formare la base imponibile tutti i redditi, sia di fonte estera che
interna, posseduti dal soggetto (indipendentemente dal luogo di godimento); per i non residenti, la base
imponibile IRPEF è costituita dai soli redditi prodotti nel territorio dello Stato, alla stregua dei criteri di
localizzazione indicati dall’art. 23 TUIR —> infatti, ai sensi di questo articolo, riguardante l’individuazione dei
criteri di collegamento con il territorio italiano dei redditi prodotti dai soggetti non residenti, si considerano
prodotti nel territorio dello Stato:
a) redditi fondiari, che sono quelli inerenti ai terreni ed ai fabbricati situati nel territorio dello Stato;
b) redditi di capitale, corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili
organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti;
c) redditi di lavoro dipendente, che derivano da attività prestate nel territorio dello Stato;
d) redditi di lavoro autonomo, derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato;
e) redditi d’impresa, derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni;
f) redditi diversi, derivanti da attività svolte nel territorio dello Stato e da beni che si trovano nel territorio
dello stesso;
g) redditi derivanti dalla partecipazione in enti in regime di trasparenza fiscale, aventi sede nello Stato,
imputabili a soci, associati o partecipanti non residenti.
L’art 23 co.2 poi dispone deroghe al principio di territorialità, in funzione di prevenzione di talune pratiche
elusive. Si considerano in particolare sempre prodotti in Italia:
a) Le pensioni, gli assegni ad esse assimilabili e le indennità di fine rapporto;
b) I redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente con alcune eccezioni;
c) I compensi per l’utilizzo delle opere di ingegno, dei brevetti industriali e dei marchi d’impresa, nonché di
processi, formule e informazioni acquisite nel campo industriale, commerciale e scientifico;
d) I compensi conseguiti da imprese, società ed enti non residenti per le prestazioni artistiche o
professionali effettuate per loro conto nel territorio dello Stato.
Nei confronti dei soggetti non residenti l’IRPEF si applica sull’insieme dei redditi che si considerano prodotti
in Italia, a meno che non ricorrano i presupposti per l’applicazione della tassazione separata. Occorre poi
rilevare che alcuni redditi prodotti da soggetti non residenti sono assoggettati a forme di imposizione
sostitutiva o di ritenuta alla fonte a titolo di imposta e come tali non devono essere inseriti nella
dichiarazione dei redditi.
Le diverse fasi di determinazione del tributo: sinteticamente, il contribuente deve:
(1) anzitutto procedere alla determinazione del reddito complessivo, costituito dalla somma algebrica dei
redditi appartenenti a ciascuna categoria;
(2) successivamente sottrarre al reddito complessivo gli oneri deducibili, ottenendo il reddito imponibile;
(3) applicare al reddito imponibile le aliquote e ottenere così l’imposta lorda;
(4) sottrarre dall’imposta lorda le detrazioni d’imposta, ottenendo così l’imposta netta;
(5) infine, scomputare dall’imposta netta le ritenute d’imposta subite, i crediti d’imposta e gli acconti versati,
ottenendo l’imposta dovuta.
Cominciamo con l’analisi dei singoli punti…
(1) Determinazione del reddito complessivo: richiede che il contribuente sommi i redditi delle singole
categorie di cui all’art. 6 TUIR determinati in base alle regole di ciascuna di esse.
- compensazione orizzontale: le imprese in contabilità semplificata ed i lavoratori autonomi, possono
sottrarre dal reddito complessivo le perdite, senza possibilità di riporto a nuovo di eventuali eccedenze.
- compensazione verticale: Le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali in contabilità ordinaria
e quelle derivanti dalla partecipazione in società in nome collettivo e in accomandita semplice sono
computate in diminuzione dai relativi redditi, conseguiti nel periodo d’imposta e le eventuali eccedenze
possono essere riportate a nuovo nei periodi di imposta successivi (ma non oltre il quinto).
Sono esclusi dalla base imponibile e quindi non partecipano alla formazione del reddito complessivoi: a)i
redditi esenti dall’imposta e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o a imposta sostitutiva; b)
gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli spettanti al coniuge in conseguenza di separazione
legale o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; c) gli assegni familiari
e l’assegno per il nucleo famigliare; d) la maggiorazione sociale dei trattamenti pensionistici; e) le somme

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corrisposte a titolo di borsa di studio dal Governo italiano a cittadini stranieri in forza di accordi e intese
internazionali.
L’art 9 TUIR prevede delle regole generali ai fini della determinazione del reddito complessivo, in particolare
per la determinazione dei redditi e delle perdite i corrispettivi, proventi, spese e gli oneri in valuta estera
sono valutati secondo il cambio del giorno in cui sono stati percepiti o sostenuti o dal giorno antecedente più
prossimo. Inoltre, le componenti reddituali espresse in natura sono valutate in base al valore normale dei
beni e dei servizi da cui sono costituite.
(2) Oneri deducibili: determinato il reddito complessivo, la successiva fase prevede che il contribuente
proceda a scomputare da tale ammontare gli oneri deducibili, arrivando così ad ottenere il reddito
imponibile. Gli oneri deducibili, assieme alle detrazioni di imposta, costituiscono istituti attraverso i quali il
legislatore ha attuato il principio di personalità dell’IRPEF, anche se: mentre la deduzione, incidendo sulla
base imponibile, avvantaggia i possessori di redditi elevati (che sono assoggettati ad un’aliquota marginale
più alta), la detrazione, incidendo sull’imposta dovuta con una percentuale fissa, consente un risparmio
identico per tutti i contribuenti. La tipologia degli oneri deducibili è eterogenea e prevista dall’art. 10 TUIR.
Un primo gruppo di oneri corrisponde alle spese necessarie alla vita della persona (ES: le spese mediche e di
assistenza specifica). Un altro gruppo riguarda le spese giuridicamente necessitate (ES: assegni periodici
corrisposti al coniuge separato o divorziato). Infine vi è il gruppo delle spese socialmente utili (ES: i
contributi, le donazioni e le oblazioni erogati in favore organizzazioni non governative e le altre
organizzazioni liberali). Tra gli oneri deducibili merita menzione la deduzione per l’abitazione principale: si
deduce un importo pari alla rendita catastale dell’unità immobiliare stessa e delle relative pertinenze,
rapportato al periodo dell’anno durante il quale sussiste tale destinazione e in proporzione alla quota di
possesso da parte del contribuente. Tuttavia, con l’introduzione dell’IMU cd. sperimentale, è stato disposto
che questa “sostituisce” per gli immobili non locati anche l’IRPEF e le relative addizionali, sicché tale
deduzione rimane applicabile solo nel caso di immobili non locati ma esenti da IMU, perché restano
assoggettati alle imposte sui redditi. La deduzione degli oneri segue il principio di cassa e quindi questi
rilevano nel periodo di imposta in cui stati effettivamente sostenuti.
(3) Imposta lorda: determinato il reddito imponibile si calcola l’imposta lorda, applicando al reddito
imponibile le aliquote previste dall’art 11 TUIR. Le aliquote dell’IRPEF sono crescenti per scaglioni di reddito
e (trattandosi di imposta progressiva) a ciascuno scaglione corrisponde un’aliquota crescente in misura più
che proporzionale rispetto all’aumentare della base imponibile, fino ad un limite massimo oltre il quale
l’imposta diviene proporzionale. Attualmente sono previste 5 diverse aliquote:
1) fino a 15.000 euro, 23%;
2) oltre i 15.000 e fino a 28.000 euro, 27%;
3) oltre 28.000 fino a 55.000 euro, 38%;
4) oltre 55.000 euro fino a 75.000 euro, 41%;
5) oltre 75.000 euro, 43%.
L’art. 2 d.l. 138/2011 ha introdotto un contributo di solidarietà del 3% per tutti i contribuenti titolari di un
reddito complessivo superiore a 300mila euro lordi annui.
(4) Imposta netta: si ottiene con lo scomputo dall’imposta lorda delle detrazioni di imposta. Sono previste
detrazioni di carattere soggettivo (accordate in relazione alla situazione personale o familiare del
contribuente, quali: le detrazioni per carichi di famiglia: diminuiscono progressivamente con l’aumentare del
reddito complessivo, fino ad annullarsi quando il reddito arriva a 95mila euro per le detrazioni dei figli a
carico.) e detrazioni di carattere oggettivo (correlate alla percezione di talune tipologie di redditi (ES: per
redditi da lavoro dipendente o autonomo) o a spese di particolare natura —> per quanto riguarda le
detrazioni per tipo di redito: spettano in misura decrescente man mano che il reddito aumenta, fino ad
annullarsi quando il reddito complessivo raggiunge 55mila euro. Per le altre detrazioni, sono ammesse nella
misura del 19% e vi rientrano gli interessi passivi e i relativi oneri accessori, derivanti dai mutui ipotecari per
l’acquisto dell’abitazione principale entro un anno dall’acquisto stesso).
Il regime di detrazioni (e più in generale di determinazione dell’imposta netta) si applica ai soggetti residenti,
ma anche ad una speciale categoria di soggetti non residenti, vale a dire coloro che risiedono in Stati membri
dell’UE e che producano almeno il 75% del loro reddito complessivo in Italia che non godano di analoghe

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agevolazioni fiscali nello Stato di residenza. Quanto, invece, alla generalità dei soggetti non residenti, ad essi
spettano le detrazioni di carattere oggettivo (correlate quindi alla natura del reddito percepito).
(5) Imposta dovuta: l’ultima fase riguarda il calcolo dell’imposta effettivamente dovuta. A tal fine,
dall’imposta netta, vanno detratti (ai sensi dell’art. 22 TUIR) i crediti per le imposte pagate all’estero, le
ritenute alla fonte subite a titolo di acconto e gli acconti di imposta precedentemente versati. L’imposta così
calcolata deve formare oggetto di versamento alle previste scadenze, comunque antecedenti rispetto a
quelle stabilite per la presentazione della dichiarazione.

Una menzione particolare meritano i redditi soggetti al meccanismo della tassazione separata, individuati
tassativamente dall’art 17 TUIR. Essi vengono tassati con aliquota distinta (rispetto alle regole viste finora) e
determinati secondo regole speciali —> stabilite in considerazione della loro natura di redditi a formazione
pluriennale. La ratio della tassazione separata deve rinvenirsi nell’esigenza di evitare che redditi formatisi in
più anni, ma erogati in un’unica soluzione subiscano (a causa del carattere progressivo IRPEF) un prelievo più
oneroso di quello che sconterebbero qualora venissero tassati nei diversi periodi d’imposta in coincidenza
con la loro maturazione ( tipico ES: è il trattamento di fine rapporto, che sebbene viene maturato di anno in
anno, viene percepito dal lavoratore al termine del rapporto di lavoro).
Tali redditi possono essere classificati in due principali gruppi: i) i redditi conseguiti a fronte della cessazione
di un’attività lavorativa, quali: il TFR e le indennità equipollenti percepite dai lavoratori dipendenti, le
indennità per la cessazione dei rapporti di agenzia le indennità per la cessazione da funzioni notarili…; ii) i
redditi conseguiti a seguito del verificarsi di eventi di natura eccezionale, caratterizzati dalla maturazione
poliennale, quali: gli emolumenti arretrati per le prestazioni di lavoro dipendente…
Al di fuori dei redditi individuati dall’art 17 TUIR è previsto che anche i redditi maturati in capo ad un
soggetto defunto e percepiti dagli eredi siano soggetti a tassazione separata.
Nella generalità dei casi, il meccanismo della tassazione separata implica che ai redditi in questione si
applichi l’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente riferito al biennio
precedente.
Infine, una disciplina particolare è prevista per il trattamento di fine rapporto, in cui si tiene conto anche del
periodo di tempo nel quale è maturato il diritto alla percezione del reddito, cioè la durata del rapporto di
lavoro. In tal caso, l’aliquota corrisponde all’importo che risulta dividendo l’imponibile per il numero di anni
di durata del rapporto di lavoro e moltiplicando il risultato per un coefficiente fisso pari a 12.

Capitolo Ventuno: le categorie reddituali.


La nozione di reddito d’impresa:
Con la riforma del 2003 è stato introdotto l’IRES in sostituzione dell’IRPEG ed è stata spostata all’interno
dell’IRES la disciplina riguardante il calcolo dell’imponibile del reddito di impresa, che in precedenza si
trovava all’interno del TUIR nella parte dedicata all’IRPEF.
Il comma 1 dell’art. 55 TUIR definisce redditi di impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese
commerciali, cioè dall’esercizio per professione abituale (ancorché non esclusiva) delle attività indicate
dall’art. 2195 cc.
Anzitutto, l'attività produttiva di un reddito d’impresa si presenta, nella maggior parte dei casi, composta al
suo interno da una pluralità di atti di scambio sul mercato. Inoltre, al fine di potersi qualificare come
produttiva di reddito d’impresa, l'attività deve presentare il carattere dell'economicità della gestione, in
quanto sostenuta da entrate di natura corrispettiva.
È invece irrilevante il perseguimento di un fine di lucro di carattere soggettivo, inteso come distribuzione del
risultato al netto dei costi dedotti.
La qualificazione dell'attività quale produttiva di redditi d’impresa richiede, poi, che essa sia svolta per
professione abituale. L'abitualità implica la stabilità, la regolarità dell’iniziativa, il suo protrarsi nel tempo,
anche se non con rigorosa continuità (dal momento che le interruzioni non risultano incompatibili con
l’abitualità, come accade per le attività stagionali). Secondo la dottrina dominante, il requisito dell'abitualità
comprende quello della professionalità ed assume una funzione di discriminazione della categoria dei redditi
d’impresa rispetto a quella dei redditi diversi cui vengono ricondotti i redditi da attività commerciali

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esercitate in modo occasionale. Al contrario, risulta irrilevante il carattere dell’esclusività, con l’effetto che
viene considerata produttiva di reddito di impresa anche un’attività svolta contemporaneamente ad altre
(ES: il lavoro dipendente).
Riguardo al contenuto dell’attività esercitata, l’art. 55 comma 1 TUIR con rinvio all’art. 2195 cc, considera
fiscalmente commerciale l'attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi, quella di
intermediazione nella circolazione di beni, quella di trasporto per terra, acqua e aria, quella bancaria e
assicurativa, e le attività ausiliari alle precedenti. Tuttavia, per la qualificazione di un’attività come d’impresa
non occorre l’elemento dell’organizzazione dell’attività in forma d’impresa, intesa quale coordinamento dei
fattori della produzione esterni all’attività dell’imprenditore, preordinata alla realizzazione del risultato
produttivo.
In base al comma 2 dell’art. 55 TUIR, sono considerate produttive di redditi d’impresa altre tre fattispecie:
- le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 cc., che siano organizzate in forma d’impresa —> il
requisito dell’organizzazione fa sì che in questi casi l’elemento materiale prevalga su quello personale (che
dovrà avere rilievo secondario, rispetto alla funzione in concreto svolta dall’insieme dei fattori produttivi
(capitale, beni strumentali, lavoro altrui. Qualora invece, l’organizzazione, seppur presente, conservi però un
ruolo servente rispetto all’elemento personale le relative prestazioni di servizi daranno vita a redditi di lavoro
autonomo);
- lo sfruttamento delle miniere, cave, torbiere, laghi, saline stagni…(si tratta di un utilizzo del terreno per
attività non rientranti in quelle agricole);
- le società agricole, di cui all’art. 32 TUIR.
L’art 6 co.3 TUIR, considera reddito d’impresa: anche i redditi delle società in nome collettivo e in
accomandita semplice (da qualsiasi fonte provengano e qualunque sia l’oggetto sociale).
Anche l’art. 81 TUIR contiene una disposizione analoga per le società per azioni, le società in accomandita
per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, le
società europee e cooperative europee residenti nel territorio dello Stato, aventi per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali. In questi casi, all’adozione di un determinato tipo societario
consegue l’applicazione dell’insieme di regole dettate dal legislatore fiscale per la qualificazione,
imputazione e determinazione del reddito d’impresa (si tratta di norme che fissano delle vere e proprie
presunzioni assolute di “commercialità” dell’attività esercitata).
È controverso, invece, se la cd. società tra professionisti (STP), disciplinata dalla L. 183/2011, produca reddito
di lavoro autonomo o reddito di impresa. L’orientamento prevalente identifica la STP in termini di reddito di
impresa e applicazione del principio di competenza dal lato dell’impresa e in termini di reddito capitale
(socio) e di reddito di lavoro dipendente (amministratore) dal lato dei professionisti.
Procediamo ora con l’analisi della disciplina di determinazione del reddito di impresa:
Può rilevarsi l’esistenza di un nesso tra risultato del conto economico e determinazione del reddito
d’impresa; nesso che si esprime nel principio di derivazione del reddito d’impresa dal risultato d’esercizio.
Ricordiamo inoltre le ipotesi in cui il reddito di impresa viene determinato su base non analitica, si tratta dei
regimi di determinazione forfettaria del reddito d’impresa introdotti dal legislatore per i soggetti operanti
nel settore agricolo. (L’art. 56-bis TUIR prevede tre tipologie di attività alle quali è attribuito questo regime di
determinazione forfettaria: i) le attività dirette alla produzione di vegetali; ii) le attività agricole per
connessione, stabilite dall’art. 2135 co.3 cc.; iii) le attività di fornitura di servizi, sempre co.3 art. 2135cc.).
Ciò premesso il principio di derivazione trova la sua fonte nell’art. 83 co.1, secondo il quale il reddito
d’impresa viene determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico, le variazioni
in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle disposizioni del TUIR. La
dipendenza del reddito d’impresa dal risultato di esercizio non è assoluta, ma parziale, in quanto il reddito
d’impresa costituisce il risultato finale dell’applicazione delle opportune variazioni di natura fiscale in
aumento oppure in diminuzione. In linea generale, il rapporto tra reddito fiscale e reddito civile può ispirarsi
a tre differenti modelli: (1) Modello del binario unico —> assume il reddito civilistico come come valore
direttamente rilevante ai fini fiscali; al fine di contrastare eventuali abusi, l’Amministrazione finanziaria viene
dotata di poteri di sindacato sulle scelte di bilancio, con l’effetto di introdurre ampi margini di incertezza a
sfavore del contribuente nella fase di accertamento del reddito. (2) Modello della netta separazione tra

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determinazioni civilistiche e fiscali —> esso richiede l’individuazione di regole analitiche di determinazione
del reddito fiscale, tali da poter sostituire integralmente (secondo una valutazione esclusivamente fiscale) le
determinazioni civilistiche, dando così luogo ad un vero e proprio bilancio fiscale. Sistema definito come
“doppio binario”. (3) Modello della dipendenza (derivazione) del risultato fiscale dalle determinazioni
civilistiche —> intese quale punto di partenza da cui muovere per poter procedere all’applicazione di regole
fiscali che provvedano a dettare limiti e condizioni per la relativa rilevanza a fini fiscali. Limiti e condizioni ai
quali viene riconosciuto l’effetto di escludere ogni ingerenza dell’Amministrazione finanziaria (all’opposto di
quanto accade nel “binario unico”). È al terzo modello che si ascrive la scelta del legislatore italiano, infatti
non esiste un bilancio fiscale quale documento autonomo riepilogativo (ai fini tributari) delle componenti
reddituali e patrimoniali della società, ma solo un prospetto fiscale che accoglie le variazioni rispetto al
risultato civilistico. La ratio alla base della scelta del legislatore di instaurare un nesso di dipendenza tra
risultato civilistico e reddito d’impresa, viene rinvenuta nella circostanza che il bilancio di esercizio
costituisce il documento che più fedelmente rispecchia l’incremento di ricchezza provocato dall’esercizio di
un’attività imprenditoriale. Tale nesso però è solo parziale, poiché il reddito d’impresa si determina in sede
di dichiarazione annuale dei redditi apportando all’utile o alla perdita del conto economico le variazioni in
aumento o in diminuzione previste dal legislatore tributario.
Ciò premesso, il punto di partenza per le eventuali deviazioni è rappresentato dal risultato (utile o perdita)
del bilancio, la cui disciplina viene presupposta dal legislatore tributario.
Più in generale, la circostanza che l’utile di bilancio sia assunto quale mero fatto ai fini della determinazione
del reddito di impresa, esclude che l’Amministrazione finanziaria possa sindacare le scelte compiute in sede
di redazione del bilancio.
La regola generale della derivazione parziale hanno subito due importanti deroghe:
La prima ha riguardato i soggetti che redigono il bilancio di esercizio secondo i principi contabili
internazionali IAS (cd. IAS adopter). E a seguito dell’intervento operato nel 2007, per tali soggetti si attua un
vero e proprio rinvio (anche in deroga alle disposizioni TUIR) ai principi di qualificazione, imputazione
temporale e classificazione in bilancio, previsti dai predetti principi contabili. Si parla in tal caso di principio di
derivazione rafforzata che consente a tali soggetti di mantenere le rappresentazioni già adottate in sede di
bilancio, improntate all’aspetto economico-sostanziale proprio dei principi IAS e di sottrarsi alla complessità
delle rettifiche imposte dal TUIR nella riclassificazione dei fenomeni secondo criteri giuridico formali.
Tuttavia, il fatto che il legislatore ricorra alla tecnica del rinvio ai principi IAS fa sì che l’Amministrazione
finanziaria possa accertare la corretta applicazione di tali principi.
Quanto ai criteri di qualificazione: consiste nell’individuazione del modello giuridico-negoziale di riferimento,
in cui assume rilievo il principio della prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica, secondo il
quale gli atti dell’impresa vanno qualificati sulla base degli effetti sostanziali che producono.
Quanto ai criteri di classificazione del bilancio: occorre individuare gli specifici effetti che il suddetto modello
giuridico-negoziale eventualmente produce sul reddito.
Quanto ai criteri di imputazione temporale: si tratta della corretta individuazione del periodo d’imposta in
cui i componenti reddituali fiscalmente rilevanti devono concorrere a formare la base imponibile.
In più, il d.m. 48/2009 stabilisce che il riconoscimento dei criteri di qualificazione, classificazione di bilancio e
di imputazione non determinano in capo allo stesso soggetto passivo di imposta una doppia deduzione.
La seconda deroga riguarda quei soggetti che non abbiano adottato gli IAS, nel senso che sono destinatari
dei nuovi principi contabili nazionali elaborati dall’OIC (Organo Italiano Contabilità). Tra le principali novità
della disciplina del bilancio vi è la chiara affermazione del principio della prevalenza della sostanza sulla
forma. Come per i soggetti IAS, la tecnica del rinvio utilizzata dal legislatore farà sì che l’Amministrazione
finanziaria possa accertare la corretta applicazione dei principi contabili nazionali che ne formano oggetto. In
ogni caso, come già previsto sempre per i principi IAS, anche per i futuri principi OIC il legislatore ha
introdotto una procedura di validazione, impedendo così un loro automatico recepimento fiscale.
Da tutto questo, deriva che il principio della derivazione semplice (art. 83 TUIR) resta ormai applicabile alle
sole c.d. micro-imprese di cui all’art. 2435-ter cc. (poiché espressamente escluse dal principio di derivazione
rafforzata). Risulta quindi evidente l’esistenza di una non neutralità di tipo sostanziale tra le imprese.

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Si verifica invece una neutralità sotto il profilo procedurale, posto che in tutte e tre le ipotesi la
determinazione del reddito d’impresa si snoda attraverso i seguenti passaggi:
1. quantificazione dell’utile o della perdita alla base delle regole dettate dal c.c. e/o dai principi contabili;
2. analisi di quali fatti e quali valutazioni trovano nella norma tributaria una specifica regolamentazione;
3. verifica dell’esistenza o meno di una coincidenza tra la valutazione operata ai fini civilistici e quella
richiesta dalla normativa tributaria;
4. rettifica in sede di dichiarazione dei redditi del risultato di esercizio apportando ad esso le variazioni in
aumento ed in diminuzione richieste dalla normativa tributaria.
A tal proposito esistono:
- Variazioni in aumento, sono generate da quelle norme tributarie che obbligano l’impresa ad escludere dai
componenti negativi di reddito gli oneri che risultino in tutto o in parte indeducibili ai fini fiscali o che
risultino deducibili in periodi di imposta successivi. ((Hanno dunque il compito di sterilizzare la parte del
componente negativo di reddito che il legislatore tributario non ritiene di immettere nel circuito di
determinazione della ricchezza fiscalmente rilevante)).
- Variazioni in diminuzione, costituiscono il risultato dell’applicazione di quelle norme tributarie che
consentono di includere tra i componenti negativi di reddito oneri e costi non imputati al conto economico
secondo le regole civilistiche o di quelle norme che obbligano o consentono di escludere dai componenti
positivi di reddito proventi imputati al conto economico. Esse hanno la funzione di eliminare dal reddito
fiscalmente rilevante componenti positivi di reddito che non devono essere tassati in quel determinato
periodo di imposta.
- Variazioni a carattere permanente: derivano da scelte compiute dai due ordinamenti sull’identificazione dei
componenti di reddito. Il legislatore tributario, in queste ipotesi, ritiene di non dover tener conto né del
periodo d’imposta considerato, né in quelli successivi di componenti positivi/negativi inseriti nel conto
economico, considerandoli fisicamente non rilevanti.
- Variazioni di carattere temporaneo: derivano da scelte diverse compiute dalla normativa civilistica e quella
fiscale, in ordine alla distribuzione temporale degli elementi del reddito. Si tratta di quelle rettifiche di
carattere tributario volte a porre dei limiti al concorso di determinati componenti di reddito, al fine di farli
concorrere alla formazione del reddito imponibile in modo più rispondente alle finalità dell’ordinamento
tributario. Nel caso di variazioni a carattere temporaneo si origineranno imposte anticipate o differite, in
particolare, laddove le imposte dovute siano maggiori delle imposte di competenza, l’impresa dovrà
procedere (sussistendone i presupposti: ragionevole certezza di ottenere in futuro imponibili fiscali tali da
poter recuperare le imposte medesime) alla rilevazione di imposte anticipate IRES. Al contrario, dal
momento che le minori imposte dovute in quell’esercizio, rispetto a quelle di competenza, lo saranno in
esercizi successivi, l’impresa dovrà procedere alla rilevazione di imposte differite IRES.

La disciplina generale di determinazione del reddito d’impresa:


Ai fini della determinazione del reddito di impresa, al principio di derivazione si aggiungono ulteriori principi
e le norme speciali.
A. Il principio di competenza, art. 109 co.1 TUIR prevede che i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e
negativi, per i quali le precedenti norme non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito
nell’esercizio di competenza. Tuttavia, i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui non sia ancora certa
l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si
verificano. —> le precedenti norme dovrebbero rappresentare le deroghe al principio di competenza. Si
tratta delle ipotesi in cui sia espressamente previsto un meccanismo di imputazione temporale del
componente del reddito secondo un criterio diverso, ossia il criterio di cassa (dove occorre far riferimento al
momento dell’incasso del corrispettivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi e a quello del
pagamento del corrispettivo degli acquisti di beni e servizi). Si pensi: alla deduzione degli oneri fiscali e
contributivi, ai compensi versati agli amministratori delle società e degli enti soggetti a IRES…
A seguito delle modifiche introdotte dalla L. 232/2016, il principio di cassa si rende applicabile ai soggetti che
adottano il regime di contabilità semplificata. In tal caso, il reddito di impresa sarà determinato dalla

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differenza tra ricavi e proventi effettivamente incassati nel periodo d’imposta e spese e oneri realmente
sostenuti nel medesimo periodo d’imposta.
Oltre alle deroghe normative previste, il legislatore si discosta dalla competenza civilistica nel momento in
cui chiede la certezza dell’esistenza e l’oggettività determinabilità dell’ammontare dei componenti del
reddito. Per quanto riguarda i ricavi e in generale i componenti positivi di reddito, la disciplina tributaria si
pone in perfetta armonia con i principi civilistici. Sono, invece, irrilevanti quei componenti negativi che siano
il frutto di mere stime o presunzioni. Se infatti il requisito della certezza ovvero dell’obiettiva determinabilità
difetta, allora il contribuente è tenuto a differire l’imputazione del componente di reddito al periodo nel
corso del quale il requisito mancante si concretizza.
La certezza si riferisce all’esistenza dell’elemento reddituale (l’an) e deve intendersi quale certezza giuridica
cioè come esistenza di un titolo giuridico idoneo a costituire la fonte genetica del componente considerato.
Il requisito dell’oggettiva determinabilità dell’ammontare, si riferisce alla quantificazione dell’elemento
reddituale (quantum) ed è diretto ad evitare che nel procedimento di determinazione del reddito d’impresa
affluiscano elementi reddituali quantificati in base a mere congetture soggettive o calcoli probabilistici. La
dottrina prevalente ha evidenziato come debba distinguersi la prevedibilità della spesa rispetto alla sua
obiettiva determinabilità, che ricorre nel periodo in cui emergono tutti gli elementi necessari al calcolo del
componente di riferimento. Pertanto, affinché un dato fatto assuma rilevanza fiscale è necessario che alla
chiusura del periodo di imposta ricorrano entrambe le condizioni di certezza e obiettiva determinabilità.
Inoltre, è sufficiente che sia conosciuta o conoscibile prima della predisposizione del bilancio e della
dichiarazione dei redditi, purché si siano verificate prima della chiusura dell’esercizio.
La legislazione tributaria, poi, non si limita ad aderire al principio di competenza, ma lo integra enunciando
delle regole specifiche, che devono essere seguite per l’identificazione della data alla quale si considerano
conseguiti i corrispettivi e sostenute le spese relative alla cessione di beni e alla prestazione di servizi.
• Sono riconducibili alle cessioni di beni: i contratti ad effetti reali e contratti ad effetti obbligatori in cui
prevale un’obbligazione di dare. Art. 109 co.2 lett. a) TUIR, essi si considerano conseguiti e le spese di
acquisizione dei beni sostenute alla data della consegna o della spedizione per i beni mobili e alla data di
stipulazione dell’atto per gli immobili e per le aziende. La nozione di “cessione” si riferisce a tutte quelle
fattispecie alle quali si collega l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale su un
bene.
• Rientrano invece nella categoria delle prestazioni di servizi: quei contratti ad effetti obbligatori in cui
domina l’obbligazione di fare. Art. 109 co.2 lett.b) TUIR, i corrispettivi delle prestazioni di servizi si
considerano conseguiti e le spese di acquisizione dei servizi sostenute: alla data in cui le prestazioni di
servizi sono ultimate oppure (per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri
contratti) alla data di maturazione dei corrispettivi.
Tale regola non trova applicazione per le opere e i servizi ultrannuali, intendendo come tali quelli di
durata superiore ai 12 mesi.
→Il criterio di ultimazione della prestazione non trova applicazione per i contratti i cui corrispettivi
maturino periodicamente, contraddistinti da prestazioni con contenuto economico costante durante
l’arco di durata del contratto —> in tali casi assume rilevo la data di maturazione dei corrispettivi.
Le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono inderogabili sia per i contribuenti che
per il Fisco. Tale carattere di inderogabilità (che risponde ad un obiettivo di coerenza tra rilevazione fiscale di
un determinato componente di reddito e la sua giustificazione sotto il profilo economico-aziendalistico) è
stato più volte ribadito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha cercato anche di risolvere il
problema della doppia imposizione, che deriva proprio da questa inderogabilità.

B. Il principio di inerenza, altro requisito di deducibilità è l’inerenza del componente negativo all’attività
d’impresa, necessaria per considerarlo spesa di produzione del reddito. Sul suo fondamento normativo vi
sono diverse posizioni in dottrina: (1) alcuni autori ritengono di trovare il suo presupposto nell’art. 109 co.5
TUIR primo periodo a norma del quale le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi
(tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad
attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi

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concorrono in quanto esclusi. —> con la conseguenza però, che aderendo a questa teoria per alcuni
componenti negativi si potrebbe prescindere dall’osservanza di questo principio. (2) altri autori (più
correttamente) ritengono che l’art. 109 co.5 primo periodo costituisca NON il fondamento del principio,
bensì una norma che si occupa del connesso problema della deducibilità dei componenti negativi in presenza
di ricavi e proventi non computabili a reddito d’imposta. —> tale norma sarebbe dunque volta ad evitare che
un’impresa fruisca di agevolazioni parziali nella tassazione del reddito e possa godere anche della possibilità
di dedurre i componenti negativi dal reddito. Essa è quindi norma (a seguito del secondo periodo) di
prevenzione degli effetti di indebita estensione della portata di norme di agevolazione fiscale di carattere
parziale.
Per quanto riguarda il contenuto dell’inerenza, secondo le ricostruzioni più recenti accolte dalla
giurisprudenza, bisogna considerare inerente tutto ciò che appartiene alla sfera dell’impresa e alla sua
attività (anche potenziale). All’inerenza mancherebbe invece tutto quello che si può ricondurre alla sfera
personale o familiare dell’imprenditore, del socio o dell’amministratore o del terzo.
La rilevanza del collegamento con l’attività, è evidenziato dall’Amministrazione finanziaria che ha affermato
che il concetto di inerenza (dopo molto tempo) non è più legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività
complessiva della stessa, con la conseguenza che si rendono detraibili tutti i costi relativi all’attività
dell’impresa. Sotto questo profilo, quindi, anche i beni concessi in comodato possono considerarsi deducibili
in capo al comodante ove concorrano alla realizzazione del programma economico dell’impresa.
Sorge poi il problema di capire se possa essere rilevante l’interesse del gruppo, qualora una società sopporti
una spesa nell’interesse di un’altra del gruppo e non la addebiti a quest’ultima. L’inerenza prescinde dal
risultato dell’operazione che ha generato il costo sostenuto e dunque dal vantaggio della spesa sostenuta,
ciò che conta dunque è che la spesa sia stata sostenuta nell’interesse dell’attività di impresa.
Altra questione attiene al rapporto tra inerenza e carattere illecito del costo: ci si chiede se in riferimento ad
un componente negativo di reddito, rappresentato da una sanzione, l’inerenza sia inesistente o se possa
essere riconosciuta in presenza di determinate condizioni.
Chi sostiene l’inesistenza di un legame, fonda le proprie ragioni sull’assenza del nesso tra costo e attività di
impresa, nel senso che la spesa non nascerebbe dall’esercizio dell’impresa, ma troverebbe fonte in un altro
atto (illecito) che si pone al di fuori dell’attività di impresa.
Altra parte della dottrina si mostra a favore, sostenendo invece che il legislatore abbia inteso consentire la
deduzione dei costi connessi ad illeciti civili ed amministrativi, ciò per il fatto che tali costi troverebbero
comunque fonte nello svolgimento dell’attività di impresa e che dunque debbano essere considerati
inerenti. Il principio di inerenza, trova in alcuni casi, una specifica disciplina nell’ambito dei singoli
componenti reddituali o un limite quantitativo di deducibilità dell’onere seppur inerente. In altri casi è lo
stesso legislatore esclude espressamente la deducibilità dei costi inerenti a ragione di una politica repressiva
o di prevenzione di comportamenti elusivi.
Sotto il profilo probatorio, poi, l’inerenza deve essere provata, secondo le regole generali, dal contribuente.

C. Il principio di previa imputazione al conto economico: art. 109 co.4 TUIR prevede che le spese e gli altri
componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto
economico relativo all’esercizio di competenza.
In particolare, secondo tale norma, non possono essere ammesse in deduzione le spese e gli altri
componenti negativi di reddito che non siano stati imputati al conto economico dell’esercizio di competenza.
Una parte minoritaria della dottrina ha ritenuto che tale norma avesse funzione probatoria, cioè volta ad
agevolare la prova di quei fatti che incidono negativamente sull’importo del reddito d’impresa. Tuttavia, è
stata prevalentemente riconosciuta alla norma una funzione sostanziale, ora volta ad impedire che l’utile
dell’imprenditore o quello distribuibile ai soci, sia superiore all’utile soggetto al prelievo; ora volta ad
assicurare sia la corretta applicazione del principio di derivazione, sia la funzione di garanzia del bilancio
civilistico da parte dell’Amministrazione tributaria.
La regola di previa imputazione al conto economico (applicabile ai soli componenti negativi, posto che per i
componenti positivi l’art. 109 co. 3 stabilisce il loro concorso alla formazione del reddito a prescindere dalla
previa imputazione a conto economico) soffre di rilevanti eccezioni —> che possono essere relative ai

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componenti non imputabili al conto economico, a quelli imputati in esercizi precedenti (ma la cui
deducibilità è stata rinviata in conformità a specifiche disposizioni fiscali) e infine, a quelli che risultano da
elementi certi e precisi:
1) La prima deroga, relativa ai componenti negativi non imputabili a conto economico, ma deducibili per
disposizione di legge, viene ritenuta pacificamente applicabile per la partecipazione agli utili degli
amministratori, che l’art. 95 co.6 TUIR consente di dedurre nell’esercizio di competenza a prescindere
dall’imputazione a conto economico.
2) La seconda deroga attiene ai componenti negativi imputati a conto economico in un esercizio precedente,
per i quali, tuttavia, il legislatore tributario ha specificamente previsto disposizioni che ne consentono o
rendono obbligatorio il rinvio della deducibilità. Infatti, l’assenza dei requisiti di certezza e obiettiva
determinabilità impone il rinvio della deducibilità.
3) La terza deroga concerne i componenti negativi, non imputati al conto economico, se e nella misura in cui
risultano da elementi certi e precisi e si riferiscano a ricavi e proventi che concorrono a formare il reddito.
(( per quanto riguarda, infine, i soggetti IAS adopter e OIC adopter, si considerano imputati a conto
economico i componenti negativi imputati direttamente a patrimonio, in ossequio ai principi contabili
internazionali e nazionali, a condizione che abbiano natura reddituale e non patrimoniale e che siano
fiscalmente rilevanti ai sensi del TUIR)).

Proseguiamo ora con l’analisi delle altre categorie reddituali:


A) I redditi fondiari —> disciplina contenuta negli artt. 25 a 43 TUIR (d.p.r. 917/1986).
Ai sensi dell’art. 25 TUIR: sono redditi fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio
dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto
edilizio urbano. I redditi fondiari si distinguono in redditi dominicali dei terreni, redditi agrari e redditi dei
fabbricati. Dalla definizione emergono tre elementi:
- il riferimento al reddito dei terreni e dei fabbricati (i primi a loro volta distinti in redditi dominicali e agrari);
- la circostanza che detti terreni e fabbricati siano situati nel territorio dello Stato;
- la circostanza che essi siano iscritti o ascrivibili in catasto, con attribuzione di rendita.
La tassazione dei redditi fondiari ruota intorno al “catasto”, che svolge nel nostro ordinamento una funzione
centrale nella cd. fiscalità immobiliare.
Il catasto è lo strumento utilizzato sia per individuare i beni immobili produttivi di redditi fondiari, sia per
determinarne il relativo reddito (rendita catastale). Il catasto ha quindi una funzione strumentale ai fini della
determinazione dei redditi fondiari. A questa funzione se n’è aggiunta un'altra: il catasto adesso rileva anche
quale fonte dei valori assunti a base imponibile nell’ambito delle imposte sul patrimonio (prima ICI e poi
IMU) e sui trasferimenti di ricchezza (imposta di registro, imposta sulle donazioni e successioni) con
carattere ora sostanziale ora procedimentale. Tanto premesso, il catasto è un inventario in cui sono censiti i
terreni ed i fabbricati con attribuzione di rendita, nonché i proprietari o i titolari di diritti reali di godimento
sugli stessi beni. Esso si distingue in “catasto dei terreni” e “catasto dei fabbricati”.
Il suo scopo è fiscale e consiste nell’attribuire una rendita a singole unità elementari, costituite:
- per i terreni, dalla cd. “particella catastale”, intesa quale porzione continua di terreno, sita in uno stesso
Comune, appartenente ad un medesimo possessore ed avente stessa qualità e classe di coltura, oppure la
stessa destinazione;
- per i fabbricati, dalla cd. “unità immobiliare urbana”, intesa come fabbricato o porzione di fabbricato,
situato in una medesima zona censuaria, di per sé idonea a produrre un reddito proprio, nello stato in cui si
trova.
Tutto ciò avviene mediante una serie di operazioni tecniche di misurazione, descrittive, raffigurative ed
estimativo-valutative. Tornando adesso al profilo definitorio, i redditi da terreni si distinguono in redditi
dominicali e redditi agrari, distinzione che riflette l’ideale scomposizione dei redditi dei terreni in quattro
parti.
(1) Il reddito dominicale, è costituito dalla parte dominicale del reddito medio ordinario, retraibile dal
terreno attraverso l’esercizio delle attività agricole indicate dall’art. 32 TUIR. Si tratta di un reddito
potenziale, derivante da una fonte patrimoniale e precisamente: i) dal terreno nel suo stato naturale; ii) dal

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capitale cd. “di miglioramento”, stabilmente investito, nella prospettiva (astratta e potenziale) dell’esercizio
dell’attività agricola.
(2) Il reddito agrario, è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile: iii) al
capitale d’esercizio e iv) al lavoro di organizzazione impiegati nei limiti della potenzialità del terreno,
nell’esercizio, su di esso, di attività agricole. È connesso, dunque, all’esercizio sul fondo delle attività agricole
ed è pertanto attribuito a chi coltiva il terreno.
Le attività agricole rilevanti, ai sensi dell’art. 32 co. 2 TUIR sono:
-Lett. a) La coltivazione del fondo e silvicoltura;
-Lett. b) prima parte: L’allevamento di animali;
-Lett.b) seconda parte: L’attività diretta alla produzione di vegetali;
-Le attività connesse (terzo comma, art. 2135 c.c.) dirette alla manipolazione, conservazione,
trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di determinati beni, poste in essere dal produttore
agricolo, e provenienti dalla coltivazione del fondo, dalla silvicoltura e dall’allevamento del bestiame. Il
carattere fondamentale di questo punto è la prevalenza dell’attività agricola per connessione posta in essere
dall’agricoltore, egli perciò potrà utilizzare anche prodotti acquisiti da terzi, purché in misura non prevalente.
Non producono né l’uno né l’altro, i seguenti terreni:
- terreni pertinenziali di fabbricati urbani;
- terreni dati in affitto per usi non agricoli;
- terreni produttivi di redditi di impresa.

Venendo poi ai criteri di imputazione soggettivi —> i redditi in esame sono attribuiti al possessore a titolo di
proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale (art. 26 TUIR) con l’eccezione del caso di affitto, in cui il
reddito agrario è imputato all’affittuario a partire dalla data in cui ha effettuato il contratto.
Per possesso, con riguardo ai redditi fondiari, si deve tenere conto della nozione dell’art. 1140 c.c., stante il
collegamento con una res materiale, dal quale deriva il reddito. (locazione e comodato non attribuiscono il
possesso, gli immobili dati in comodato danno luogo ad un reddito per il proprietario). Nel caso di esercizio
di impresa agricola in forma associata, il reddito è imputato a ciascun associato secondo la quota di
spettanza.
I redditi derivanti da terreni e i fabbricati possono dare luogo, a certe condizioni, anche a redditi di natura
non fondiaria, ed in particolare di lavoro autonomo, di impresa e diversi.
Per quanto riguarda il rapporto con il reddito di lavoro autonomo e di impresa dobbiamo distinguere varie
ipotesi. Innanzitutto, per quanto riguarda i terreni, l’esercizio dell’agricoltura dà luogo a reddito d’impresa (e
non a reddito fondiario) quando: i) è svolto da società commerciali ovvero stabili organizzazioni in Italia di
soggetti non residenti; ii) nel caso delle attività indicate alle lettere b) e c) dell’art. 32, co. 2 TUIR, che
eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa.
Per quanto riguarda gli immobili: non si considerano produttivi di reddito fondiario gli immobili relativi ad
imprese commerciali e quelli che costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni, che
costituiscono reddito di impresa e reddito di lavoro autonomo.
Non producono redditi fondiari, bensì di impresa, i redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di miniere,
cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne (art. 55 co.2 lett. b) TUIR).
Ci sono poi immobili che non sono ascrivibili in catasto, in quanto situati all’estero o per la loro particolare
natura (spiagge, miniere, cave…) in questi casi tali redditi vengono inclusi nella categoria dei cd. redditi
diversi.
La determinazione dei redditi fondiari avviene con riferimento alle rendite fondiarie, determinate
dall’applicazione delle tariffe d’estimo, stabilite secondo le norme della legge catastale, alle caratteristiche
rilevanti dei terreni e dei fabbricati.
A seguito della L.236/2016 per il triennio 2017-2019 non concorrono a formare la base imponibile IRPEF e
addizionali, i redditi dei terreni (agrario e dominicale) imputabili ai coltivatori diretti e agli imprenditori
agricoli professionali.
Le tariffe d’estimo esprimono un reddito:
(A) medio, calcolato sulla media di più anni;

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(B) ordinario, riferito alla normale attività produttiva, tenendo conto della rotazione delle colture e delle
vicende favorevoli e sfavorevoli;
(C) netto, tiene conto dei costi e delle spese per la produzione del reddito.
Per evitare conflitti con il principio dell’effettività della capacità contributiva, il sistema di determinazione del
reddito prevede delle “valvole di sicurezza”:
- In primo luogo, è previsto che le tariffe d’estimo siano sottoposte a revisione d’ufficio ovvero su richiesta
del Comune interessato, per sopravvenuta variazione degli elementi determinanti e in generale ogni 10 anni;
- In secondo luogo, sono previste ipotesi in cui sia il contribuente a denunciare eventi che comportino una
variazione (anche in aumento) del reddito domenicale.
- Infine, sono previste ipotesi di inesistenza parziale o totale del reddito dominicale e/o agrario.
PERÒ non tutti i redditi fondiari sono determinati sulla base delle tariffe d’estimo, come nel caso dei:
- fabbricati “a destinazione speciale o particolare”, dove il reddito è determinato mediante stima diretta;
- “fabbricati locati”, in cui rileva il reddito effettivo solo se esso sia superiore al reddito medio ordinario.
Il d.lgs. 23/2011 ha introdotto la cd. cedolare secca sugli affitti, si tratta di un regime sostitutivo opzionale di
tassazione per gli immobili a destinazione abitativa, consistente nel pagamento di un’imposta sostitutiva
dell’IRPEF e relative addizionali (per la parte derivante dal reddito dell’immobile). In più, per i contratti sotto
cedolare secca non andranno pagate l’imposta di registro e l’imposta di bollo. La scelta per la cedolare secca
implica la rinuncia alla facoltà di chiedere, per tutta la durata dell’opzione, l’aggiornamento del canone di
locazione, anche se è previsto nel contratto.
Per i fabbricati relativi alle imprese, invece, occorre distinguere tra:
- Fabbricati non strumentali, si tratta di beni meramente patrimoniali, non locati, dove rileva il reddito
catastale.
- Fabbricati non strumentali locati, dove rileva il reddito effettivo;
- Fabbricati strumentali (per natura o destinazione) non locati, si considerano improduttivi di qualsiasi
reddito.
- Fabbricati strumentali locati, sono tassati sulla base del reddito effettivo.
Esistono poi dei fabbricati che sono totalmente improduttivi di redditi fondiari: a) sono le aree occupate
dalle costruzioni o che ne costituiscono le relative pertinenze; b) gli immobili destinati al culto, in corso di
ristrutturazione (a condizione che non siano locati); c) i fabbricati rurali.
La regola generale in tema di imputazione a periodo dei redditi fondiari è quella secondo cui essi sono
imputati indipendentemente dall’effettiva percezione: in particolare, ai sensi dell’art. 26 TUIR, i redditi
fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo.
Si tratta di una regola che è connaturata alla determinazione su base catastale dei redditi, ma che trova
applicazione anche nelle ipotesi di redditi derivanti da locazione.
Il legislatore ha previsto un correttivo, che nel caso di redditi derivanti da contratti di locazione di immobili
ad uso abitativo, i canoni di locazione (se non percepiti) non concorrono a formare il reddito dal momento di
conclusione del procedimento giurisdizionale di sfratto esecutivo per morosità del conduttore. In questi casi
per le imposte già pagate sui canoni non riscossi, è previsto un credito d’imposta relativamente a quelli
accertati come tali nel procedimento giurisdizionale di sfratto.
Alla luce di una pronuncia della Corte costituzionale, indipendentemente dalla disciplina dell’art. 26, bisogna
tenere in considerazione le ipotesi patologiche di cessazione del rapporto contrattuale, qualunque sia la
natura (abitativa o meno) del bene oggetto di locazione.

B) I redditi di capitale —> disciplina contenuta negli artt. 44-48 TUIR.


Essa costituisce il frutto di un duplice intervento normativo: da un lato, del d.lgs. 461/1997 che ha
ridisegnato il sistema di tassazione dei redditi di natura finanziaria; dall’altro, del d.lgs. 344/2003 che ha
disciplinato ex novo i redditi derivanti dalla partecipazione in società.
▪ D.lgs. 461/1997: ha interessato l’area dei redditi di natura finanziaria, nozione che ha valore descrittivo e
non definitorio e che comprende i redditi di capitale, riconducibili alla nozione di reddito prodotto, e
talune fattispecie contenute nei redditi cd. “diversi”.

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Art. 44 lett.h) d.lgs. 461/1997 ha introdotto la nozione di “reddito di capitale”: che comprende qualsiasi
rapporto avente per oggetto l’impiego di capitale.
Differenti dai redditi di capitale sono i redditi DA capitale: restano attratti alla disciplina dei redditi diversi
quei proventi che, pur implicando un impiego del capitale, sono caratterizzati dall’incertezza del risultato
economico, intesa come possibilità che da detto impiego scaturisca un differenziale negativo o positivo.
Gli interessi e i dividendi, invece, costituiscono la struttura portante della nozione di reddito di capitale.
- Gli interessi, sono compresi quelli derivanti da mutui, depositi, conti correnti, obbligazioni e titoli similari e
certificati di massa. L’art. 44 co.2 lett. c) d.lgs. 461/1997 considera similari alle obbligazioni: i buoni fruttiferi,
i titoli di massa Per interessi si intendono gli interessi corrispettivi intesi come prestazione (in genere
pecuniaria) a carico del mutuatario per godimento del capitale (o delle cose) mutuate (art. 1185 cc). Non vi
rientrano gli interessi compensativi, moratori e quelli per la dilazione del pagamento.
- I dividendi, invece, rappresentano il corrispettivo della quota di capitale conferita dal socio e la condivisione
dei frutti dell’impresa societaria, la quale, ai fini civilistici, presuppone: utili realmente conseguiti, risultanti
da un bilancio regolarmente approvato e oggetto di una delibera assembleare di distribuzione.
Tuttavia, nel sistema del TUIR non si fa riferimento ai “dividendi” bensì alla più ampia nozione di “utili”
(derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti soggetti a IRES), di cui i dividendi
rappresentano una quota. Per esigenze di natura fiscale, si usa così la nozione “sostanziale” di dividendo, in
luogo di quella formale civilistica, ulteriormente precisata dall’espressione: “utili distribuiti in qualsiasi forma
e sotto qualsiasi denominazione” che consente in questo modo di includere tra i redditi di capitale qualsiasi
utile, anche ove non risultante da un bilancio approvato e non oggetto di una delibera di distribuzione.
Rimanendo in tema di utili, costituiscono redditi di capitale, gli utili derivanti da associazioni in
partecipazione e altri contratti di cui all’art. 2554cc (contratti di cointeressenza) se l’apporto è costituito in
tutto o in parte da capitale; costituiscono altresì utile anche le somme percepite a seguito del recesso o
dell’esclusione dalla società, della riduzione del capitale esuberante o della liquidazione della società.
Non si considerano, invece, utili le somme e i beni ricevuti dai soci delle società soggette ad IRES a titolo di
ripartizione di riserve.
Alle categorie degli interessi e degli utili, si aggiungono talune ipotesi residuali di “altri proventi”, tra cui:
a) Le rendite perpetue e le prestazioni annue perpetue;
b) I compensi per prestazioni di fideiussione o di altra garanzia;
c) I proventi derivanti dalla gestione collettiva di masse patrimoniali;
d) I proventi derivanti da riporti e pronti contro termine su titoli e valute;
e) I proventi derivanti da mutuo di titoli gratuito;
f) I redditi compresi nei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e di
capitalizzazione;
g) I redditi derivanti dai rendimenti delle prestazioni pensionistiche erogate in forma periodica e delle
rendite vitalizie aventi funzione previdenziale;
h) I redditi imputati al beneficiario di trust.
Abbiamo infine, l’art. 48 TUIR che afferma che non costituiscono redditi di capitale, bensì redditi di impresa,
gli interessi, gli utili e gli altri proventi conseguiti da società ed enti commerciali, dalle stabili organizzazioni di
soggetti non residenti nonché quelli conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali.
Per quanto riguarda la determinazione dei redditi di capitale, si tratta di una determinazione su base lorda,
nel senso che non è riconosciuta alcuna deduzione. Sono perciò irrilevanti le cd. perdite di capitale. Per i
capitali dati a mutuo, gli eventuali interessi (non derivanti da titoli), salvo prova contraria, si presumono
percepiti alle scadenze e nella misura pattuita per iscritto; se essa poi non è pattuita, si computano al saggio
legale e concorrono in misura integrale alla determinazione del reddito complessivo del contribuente. Per
quanto riguarda gli utili conseguiti da persone fisiche al di fuori dell’esercizio dell’impresa, (prima della Legge
di bilancio 2018, nel caso di partecipazioni qualificate) concorrevano a formare il reddito imponibile
complessivo. Dal primo gennaio 2018, invece, si applica agli utili una ritenuta a titolo di imposta del 26%
sull’intero dividendo distribuito, come per le partecipazioni non qualificate.
Per le residue finalità applicative (ES: obblighi di notai e intermediari che intervengono nelle operazioni e per
la tassazione in Italia dei soggetti non residenti) si intendono qualificate le partecipazioni che:

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A. rappresentano una percentuale dei diritti di voto, esercitabili in assemblea ordinaria, superiore al 2%, se
si tratta di titoli negoziati in mercati regolamentati in Italia o all’estero o superiore al 20% per altri titoli;
B. Oppure che rappresentano una percentuale del capitale o del patrimonio, superiore al 5%, se si tratta di
titoli negoziati in mercati regolamentati in Italia o all’estero o superiori al 25% per gli altri titoli.
Per quanto riguarda gli utili derivanti da partecipazioni non qualificate, si applica una ritenuta del 26% a
titolo di imposta sull’intero ammontare del dividendo distribuito.
Nel caso di dividendi esteri riscossi mediante intermediari residenti, la ritenuta del 26% viene applicata sul
dividendo già al netto delle ritenute applicate dallo Stato estero; se invece i dividendi esteri non siano
riscossi mediante intermediari residenti (bensì esteri) il percepente deve autonomamente assoggettare il
dividendo ad imposta sostitutiva del 26% in sede di dichiarazione.
Per gli altri redditi di capitale, la maggior parte di essi è soggetta a ritenuta alla fonte a titolo di imposta.
Al fine di favorire l’investimento nei seguenti strumenti finanziari, il legislatore ha previsto che scontino una
tassazione del 12.5%, anziché del 26, i seguenti redditi:
- Interessi titoli di stato e di altre obbligazioni pubbliche;
- Interessi di obbligazioni emesse dagli Stati inclusi nella cd. white list e dagli enti territoriali dei medesimi
Stati.
Per quanto riguarda infine, l’imputazione a periodo, i redditi di capitale sono tassati secondo il principio di
cassa.

C) I redditi di lavoro dipendente —> la disciplina è contenuta negli artt. 49 a 52 TUIR.


Ai sensi dell’art. 49 TUIR, sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto
la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri.
Questa definizione richiama gli elementi costitutivi della definizione di prestatore di lavoro subordinato,
prevista dall’art. 2094cc, secondo cui è tale chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa,
prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
È evidente che bisogna far riferimento alla nozione giuslavoristica di lavoro dipendente, la quale tende ad
attribuire carattere essenziale e determinante al vincolo di subordinazione, inteso quale assoggettamento
del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.
Inoltre, in base ai principi generali dell’IRPEF, restano esclusi i risarcimenti del danno emergente (art. 6 co.2
TUIR) mentre sono inclusi tutti i redditi percepiti in sostituzione dei redditi di lavoro dipendente (ES: la cassa
integrazione guadagni, indennità di disoccupazione…).
Tipi di redditi: vi sono dei redditi equiparati e dei redditi assimilati.
- Redditi equiparati —> si considerano tali: (1) il lavoro a domicilio, quando è considerato lavoro dipendente
secondo le norme della legislazione sul lavoro; (2) le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse equiparati;
(3) le somme di cui all’art. 429 ultimo comma c.p.c., ossia interessi e rivalutazioni relativi a crediti di lavoro.
- Redditi assimilati —> sono una serie di redditi che vengono assimilati a quelli di lavoro dipendente, pur non
avendone tutti gli elementi caratteristici, sia per evitare ogni dubbio di qualificazione, sia per evitare possibili
elusioni. Talvolta intatti manca qualsiasi collegamento con una prestazione lavorativa (ES: le rendite vitalizie,
diverse da quelle aventi natura previdenziale) altre volte manca un vero e proprio rapporto di lavoro
dipendente (ES: indennità); altre volte ancora esiste una prestazione lavorativa, ma il compenso discende da
elementi diversi dall’effettiva prestazione lavorativa.
Tra le ipotesi di redditi assimilati rientrano anche le cd. collaborazioni coordinate e continuative, intese come
quelle attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un
rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita.
Questa assimilazione opera però solo a condizione che le attività realizzate non rientrino nei compiti
istituzionali previsti per l’attività di lavoro effettiva (si tratterebbe altrimenti di redditi di lavoro dipendente)
e non costituiscano oggetto dell’arte o professione (in tal caso si parlerebbe di redditi di lavoro autonomo).
La determinazione dei redditi di lavoro dipendente:
Il principio generale che ne informa la disciplina è quello della onnicomprensività del reddito di lavoro
dipendente, nel senso che esso è costituito:
1- da tutte le somme e i valori in genere;

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2- a qualunque titolo percepiti (anche sotto forma di partecipazione agli utili);
3- anche da terzi (si pensi alle indennità dovute dall’INPS o INAIL);
4- che trovano una loro causa nel rapporto di lavoro (ES: straordinari, mensilità aggiuntive, gratifiche
pasquali e natalizie, indennità di malattia, indennità di maternità…);
5- comprese le liberalità (in quanto libertà remuneratorie, corrisposte dal datore di lavoro);
6- con la sola esclusione delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno emergente.
Con il d.lgs. 314/1997 era stato perseguito l’obiettivo di unificare (ove possibile) le basi imponibili fiscali e
previdenziali. Così ha affiancato al principio della “comprehensive taxation” (volto ad assoggettare a
tassazione l’intero ammontare della ricchezza prodotta dal lavoro) il perseguimento di politiche sociali e
retributive attraverso l’utilizzo di un selezionato sistema di benefici —> tali benefici vengono anche
denominati fringe benefits. Va detto tuttavia che l’obiettivo del d.lgs. 314/1997 di contemperare mediante
questi benefici le esigenze di gettito con quelle di una equa tassazione del lavoro è stato snaturato dalla
progressiva riduzione di questi benefici —> solamente con la L. 208/2015 e con la legge di stabilita per il
2017 si è assistito ad un rinnovato interesse per la materia.
Tra queste ipotesi (richiamate dall’art. 51 co.2 TUIR) abbiamo:
1. i contributi previdenziali ed assistenziali;
2. i contributi di assistenza sanitaria per importi non superiori ai 3.615€ versati dal datore di lavoro o dal
lavoratore a enti o casse aventi esclusivamente fini assistenziali;
3. il vitto fornito dal datore di lavoro o in mense aziendali (compresi anche i buoni pasto);
4. le prestazioni di trasporto collettivo;
5. le rette pagate dal datore di lavoro per la frequenza di asili nido da parte dei familiari del lavoratore;
6. l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro, volontariamente o in conformità al
contratto/accordo/regolamento aziendale;
7. somme, servizi e prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di
dipendenti per la fruizione (da parte dei familiari) di determinati servizi (educazione, istruzione e frequenza
di centri estivi);
8. somme, servizi e prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di
dipendenti per la fruizione da parte dei familiari anziani o non autosufficienti, di determinati servizi di
assistenza;
9. contributi e premi versati dal datore di lavoro a favore della generalità dei dipendenti o a categorie di
dipendenti che non possiedono l’autosufficienza nelle attività quotidiane, per prestazioni (anche in forma
assicurativa).
Le ipotesi summenzionate (art. 51 co.2 TUIR) riguardano quei casi in cui è escluso il concorso alla formazione
del reddito di determinate somme o valori. Questione diversa è quella relativa invece all’eventuale
determinazione agevolata della base imponibile di redditi in natura. Infatti, l’art. 49 co.1 TUIR che
attribuisce rilevanza a tutti i redditi derivanti dal rapporto di lavoro, trova applicazione anche ove questi si
traducano in attribuzione di redditi in natura —> in questo caso, la regola generale è stabilita dall’art. 51
co.3 che prevede la loro determinazione a valore normale. Nel caso di generi in natura prodotti dall’azienda
e ceduti ai dipendenti, il valore normale è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla
stessa azienda nelle cessioni al grossista.
È il caso di menzionare anche le indennità e i rimborsi spese:
-Rimborsi spese —> si distinguono in anticipazioni effettuate nell’interesse del datore di lavoro (non
soggette a tassazione, ES: la carta per la fotocopiatrice, che devono essere documentate in modo analitico e
oggettivo) e quelle invece che riguardano spese sostenute nell’interesse del lavoratore dipendente (soggette
a tassazione).
-Indennità —> sono previste regole specifiche per le indennità di trasferta fuori dal Comune, dove occorre
distinguere tra le modalità del rimborso: (i) nel caso avvenga su base analitica, tutte le spese di trasporto,
viaggio, vitto e alloggio documentate, non concorrono a formare il reddito; (ii) nel caso di rimborso
forfettario, vi è invece una franchigia (46,48€) calcolata su base giornaliera e al netto delle spese di viaggio e
trasporto; (iii) nel caso di rimborso misto, sono previste riduzioni ai limiti su indicati.
In ogni caso, sempre in tema di rimborsi, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio generale in

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base al quale laddove il rimborso sia specificamente parametrato ai costi sostenuti (ES: chilometri percorsi)
esso deve ritenersi destinato a reintegrare il patrimonio del prestatore d’opera, depauperato per effetto
degli esborsi effettivamente sostenuti nell’interesse del datore di lavoro. Infine, va evidenziato che la
tassazione del reddito di lavoro dipendente avviene al lordo dei costi, nel senso che non è consentita alcune
deduzione a fronte dei costi sostenuti per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Per quanto riguarda l’imputazione a periodo, vige il principio di cassa c.d. allargata: si considerano percepiti
nel periodo di imposta anche le somme e i valori in genere corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12
del mese di gennaio del periodo di imposta successivo a quello cui si riferiscono.
Inoltre, i redditi di lavoro dipendente e i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, subiscono al
momento della loro erogazione una ritenuta a titolo di acconto (ai sensi, rispettivamente, degli artt. 23 e 23
d.p.r. 600/1973).
Disciplina particolare poi: è prevista per i lavoratori “impatriati” (coloro che occupano ruoli direttivi o siano
in possesso di requisiti di elevata specializzazione o qualificazione), applicabile per il periodo di imposta nel
quale avviene il trasferimento della residenza in italia e per coloro che risiedono all’estero per oltre 183
giorni all’anno, per svolgere un’attività di lavoro dipendente in via continuativa e come oggetto esclusivo del
rapporto, essi sono tassati su base convenzionale e non effettiva.

D) I redditi di lavoro autonomo —> la disciplina è contenuta negli artt. 53 e 54 TUIR.


Sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni, intendendosi per tale
l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle
considerate nel capo VI, compreso l’esercizio in forma associata.
La nozione di reddito di lavoro autonomo è residuale rispetto alla nozione di reddito d’impresa, così come
definito dall’art. 55 TUIR. La dottrina poi ritiene compatibili con la qualificazione in termini di redditi di
lavoro autonomo, anche quelle realtà professionali caratterizzate da un massiccio apporto organizzativo e
patrimoniale, restando pur sempre imputabili al professionista l’attività e la relativa responsabilità.
Le attività svolte non dovranno essere caratterizzate dalla subordinazione, ricadendo esse altrimenti sotto la
disciplina dei redditi di lavoro dipendente.
Si considerano redditi di lavoro autonomo quelli che derivano:
1- dall’utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e
di processi, ecc...se non conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali (in tal caso sono redditi d’impresa);
2- da associazioni in partecipazione quando l’apporto è costituito esclusivamente dalla prestazione di lavoro;
3- dalla partecipazione agli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di S.p.A., S.A.P.A e S.r.l.;
4- dalla cessazione di rapporti d’agenzia;
5- dall’attività di levata dei protesti esercitata dai segretari comunali.
La determinazione dei redditi di lavoro autonomo avviene al netto dei costi, sia pure con rilevanti eccezioni.
L’art. 54 TUIR afferma che esso è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in
natura percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili e quello delle spese
sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione, salvo quanto stabilito nei successivi
commi.
Per quanto riguarda i compensi (sia in denaro che in natura) devono essere assunti al netto dei contributi
previdenziali e assistenziali stabiliti per legge a carico del soggetto che li corrisponde.
Sono esclusi i rimborsi delle spese sostenute in nome e per conto del cliente e i contributi previdenziali posti
dalla legge a carico del cliente. Non rilevano neanche le prestazioni svolte a titolo gratuito, non verificandosi
appunto alcuna percezione di reddito.
Rilevano le plusvalenze (escluse quelle relative ad oggetti d’arte, antiquariato e collezione) sia quelle da
realizzo (mediante cessione a titolo oneroso o per effetto di risarcimento), sia quelle “assimilate”
(conseguenti alla destinazione, al consumo personale o familiare dell’esercente l’arte o professione).
Per quanto riguarda le spese, rileva qualsiasi spesa purché sostenute nell’esercizio dell’arte o professione. Si
tratta del requisito di inerenza, che andrà valutata in base alla specifica attività di lavoro autonomo svolta dal
contribuente,

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L’art. 54 TUIR prevede specifiche disposizioni, in particolare :
1. le minusvalenze, che rilevano solo se realizzate;
2. i beni strumentali, a) non sono ammesse in deduzione le quote di ammortamento relative agli oggetti
d’arte, di antiquariato e collezione + b) non sono ammesse in deduzione le quote di ammortamento relative
agli immobili + c) per gli altri beni, trovano applicazione i coefficienti di ammortamento…;
3. le spese di ammodernamento, ristrutturazione e manutenzione di immobili, sono deducibili nel periodo di
imposta in cui sono state sostenute, sino ad un massimo del 5% del valore complessivo di tutti i beni
materiali risultanti dal registro dei cespiti ammortizzabili;
4. i beni mobili ad uso promiscuo: deducibili in misura del 50%;
5. i beni immobili ad uso promiscuo: deducibile il 50% della rendita catastale, del canone di locazione e/o
delle spese di ammodernamento, ristrutturazione e manutenzione;
6. le spese di telefonia sono deducibili in misura pari all’80% del loro ammontare;
7. le spese relative a prestazioni alberghiere e a somministrazione di alimenti e bevande sono deducibili per
il 75% dell’ammontare.
(…)
I redditi di lavoro autonomo sono tassati secondo il principio di cassa. Secondo l’Amministrazione finanziaria,
occorre fare riferimento all’effettiva disponibilità della somma, sicché i compensi pagati mediante assegno
devono considerarsi percepiti nel momento in cui il titolo di credito entra nella disponibilità del
professionista.
Fanno eccezione al principio di cassa: (1) le quote di ammortamento per gli anni successivi al primo, i beni
strumentali il cui costo è inferiore a 516€ (deducibili integralmente nell’anno in cui è avvenuto il
pagamento); (2) i canoni di leasing; (3) la quota delle spese di ammodernamento, ristrutturazione e
manutenzione di immobili eccedente il 5%; (4) la quota di TFR deducibile per l’importo maturato; (5) il 50%
della rendita catastale dell’immobile ad uso promiscuo.
Iredditi di lavoro autonomo, se corrisposti da sostituiti di imposta, scontano una ritenuta a titolo di acconto
del 20% (ai sensi dell’art. 25 d.p.r. 600/1973).

E) I redditi diversi —> la disciplina è contenuta agli artt. 67 a 71 TUIR.


Si tratta di una categoria che accoglie una serie di ipotesi eterogenee, talvolta non riconducibili ad una
nozione di reddito prodotto (come le plusvalenze, ma anche i premi e vincite), altre volte mancanti di un
qualche requisito che non consente di inquadrarle nelle altre categorie reddituali.
Ad oggi, il sistema normativo è improntato in direzione della tipicità delle fattispecie rilevanti dal punto di
vista del reddito. Possiamo perciò individuare alcune categorie di fattispecie omogenee formo restando che
esse costituiscono redditi diversi solo se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti
nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita
semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente.
Categorie:
(1) Plusvalenze immobiliari, rilevanti qualunque sia la localizzazione territoriale del bene plusvalente e
indipendentemente dal fatto che siano ascrivibili o meno in catasto. Si tratta delle seguenti fattispecie:
- plusvalenze realizzate mediante la lottizzazione di terreni o l’esecuzione di opere volte a renderle
edificabili;
- plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più
di 5 anni, ad eccezione degli immobili acquisiti per successione e delle unità adibite ad abitazione principale;
- plusvalenze realizzate a seguito di cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria
secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.
Alle plusvalenze effettuate a seguito di esproprio trova applicazione una ritenuta a titolo di imposta del 20%
sull’ammontare dell’indennità corrisposta.
(2) Plusvalenze e agli altri redditi di natura finanziaria, si tratta di quei redditi di natura finanziaria che non
trovano collocazione tra i redditi di capitale per via delle loro peculiari caratteristiche di reddito-entrata.
Tra queste rientrano:

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- plusvalenze derivanti da cessioni di partecipazioni qualificate e fattispecie assimilate a quelle da
partecipazioni non qualificate;
- plusvalenze derivanti dalla cessione di titoli obbligazionari e simili, valute, metalli preziosi ecc…;
- altre plusvalenze e redditi finanziari realizzati mediante rapporti da cui deriva il diritto o l’obbligo di cedere
o acquistare a termine strumenti finanziari, valute, metalli preziosi o merci...ovvero di ricevere o effettuare a
termine uno o più pagamenti collegati a tassi di interesse, quotazioni…
- le plusvalenze e gli altri proventi, diversi da quelli precedentemente menzionati, realizzati mediante
cessione a titolo oneroso o chiusura di rapporti produttivi di redditi di capitale, restano comunque attratti
alla disciplina dei redditi diversi.
(3) Fattispecie che manchino di un elemento caratterizzante per consentirne la riconduzione ad altre
categorie reddituali. Tra queste vi sono:
- i redditi di natura fondiaria che derivano da beni immobili non ascrivibili in catasto, come quelli situati
all’estero;
- i redditi che derivano da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente;
- i redditi che derivano da attività commerciali non esercitate abitualmente;
- i redditi derivanti da concessione in usufrutto e dalla sublocazione di beni immobili.
(4) Puro reddito entrata, quali le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse
organizzati per il pubblico.
Ipotesi (introdotta di recente) di difficile collocazione è quella che include tra i redditi diversi quelli derivanti
dalla differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni
dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore: si tratta di una norma finalizzata a scoraggiare l’attribuzione
solo “formale” all’impresa di beni di uso invece personale.
La determinazione dei redditi fondiari è di regola al netto dei costi di produzione.
Nel caso di plusvalenze di natura immobiliare, si fa riferimento alla differenza tra i corrispettivi percepiti nel
periodo d’imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione dell’immobile ceduto, aumentato di ogni
altro costo inerente al bene. Per gli immobili ricevuti in donazione, si fa riferimento al prezzo di acquisto o di
costruzione sostenuto dal donante, mentre per i terreni ricevuti in donazione o successione bisogna
applicare l’art. 68 co.2 TUIR che assume come prezzo di acquisto il valore dichiarato nelle relative denunce
ed atti registrati.
Le minusvalenze sono sempre irrilevanti.
Nel caso di plusvalenze di natura finanziaria, si fa riferimento alla differenza tra i corrispettivi percepiti
all’atto della vendita del titolo e il costo o il valore di acquisto, ad eccezione degli interessi passivi.
Nel caso di redditi diversi di natura finanziaria rilevano anche le minusvalenze.
Per quanto riguarda le plusvalenze da partecipazioni qualificate, queste concorrono a formare il reddito per
quota pari al 58,14% del loro ammontare, con possibilità di compensazione con le minusvalenze della stessa
specie.
La regola ordinaria di tassazione delle plusvalenze è quella secondo il regime dichiarativo che comporta
l’applicazione, ad opera del contribuente, nella propria dichiarazione dei redditi, di un’imposta sostitutiva del
26% sulla somma algebrica se positiva, delle plusvalenze e minusvalenze della stessa specie realizzate nel
periodo d’imposta); se invece la somma algebrica è negativa, l’eccedenza è riportata in deduzione
dell’ammontare delle plusvalenze della stessa natura nei periodi successivi.
Sono poi ammessi anche altri due regimi su base opzionale:
- il regime “amministrato”, è un regime cui il contribuente accede per opzione, allorquando abbia immesso i
titoli di cui è proprietario in un rapporto di custodia titoli amministrato da Banche, società fiduciarie, Poste
italiane e agenti di cambio. Sul contribuente, quindi, non grava alcun obbligo dichiarativo. A ciò bisogna poi
aggiungere anche la garanzia di anonimato verso i terzi.
- il regime “di risparmio gestito”, garantisce, allo stesso modo del risparmio amministrato, l’anonimato del
contribuente e comunque lo esonera da obblighi dichiarativi. In tal caso è affidato a intermediari autorizzati
(Banche, agenti di cambio…) l’incarico di gestire patrimoni non relativi all’impresa; tali soggetti provvedono
così a tassare il reddito maturato per competenza nel corso del periodo d’imposta.

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Questo regime differisce dai due precedenti in quanto consente di compensare redditi di capitale e redditi
diversi di natura finanziaria. Il risultato di gestione è determinato quale differenza tra il valore del patrimonio
gestito al termine di ciascun anno solare ed il valore dello stesso all’inizio dell’anno solare (dunque al netto
di minusvalenze, perdite di capitale e spese).
In tutte e tre le ipotesi, se gli investimenti hanno ad oggetto titoli i cui redditi sono soggetti a ritenuta alla
fonte del 12,5%, i redditi corrispondenti sono computati nella misura del 48,08% del loro ammontare.
- Per i premi e le vincite si fa riferimento all’ammontare percepito, senza alcuna deduzione (così come per i
redditi di natura fondiaria).
- Per gli altri redditi, sono talvolta previste delle deduzioni per i costi specificamente inerenti alla loro
produzione (come nel caso dei redditi di lavoro autonomo e di impresa derivanti da attività esercitate non
abitualmente) oppure deduzioni forfettarie (come nel caso dei redditi derivanti dallo sfruttamento dei diritti
d’autore da parte di terzi, purché l’acquisto sia avvenuto a titolo oneroso).
I redditi diversi sono tassati secondo il principio di cassa, con l’eccezione del regime del risparmio gestito, in
cui trova applicazione la tassazione del risultato maturato.

Capitolo Ventidue: l’IRES, principi generali.


Imposta sul reddito delle società.
È un’imposta proporzionale e personale che si ottiene tramite l’applicazione di un’aliquota unica, la cui
entità (variata nel corso degli anni) è fissata al 24% dalla Legge di stabilità del 2017.
Il d.lgs. 344/2003 ha introdotto l’IRES in sostituzione dell’IRPEG (imposta sul reddito delle persone
giuridiche) ed è entrata effettivamente in vigore il primo gennaio del 2004.
Il legislatore ha così voluto modernizzare il regime fiscale dei capitali e delle imprese, facendo riferimento al
modello prevalente nei Paesi membri dell’UE.
Tale riforma in realtà avrebbe dovuto determinare il passaggio degli enti non commerciali tra i soggetti
passivi della nuova IRE, che avrebbe dovuto a sua volta sostituire l’IRPEF. In questa prospettiva, l’IRES
sarebbe dovuta diventare un’imposta prelevata sul solo “reddito delle società”; agli enti non commerciali si
sarebbe dovuta applicare una disciplina impositiva analoga a quella delle persone fisiche. La riforma ha poi
spostato all’interno della disciplina IRES tutte le regole relative alla determinazione del reddito d’impresa
che, in precedenza, si trovavano nella parte del TUIR dedicata all’IRPEF.
Quindi, ad oggi, le norme per la determinazione della base imponibile dei soggetti IRES “commerciali” sono
“autosufficienti” ed è la disciplina IRPEF in tema di reddito d’impresa (art. 55 e ss. TUIR) a rinviare ad esse.
La disciplina degli enti non commerciali invece continua ad essere legata alla disciplina dell’IRPEF, per via
della determinazione “isolata” del loro reddito; esistono tuttavia numerose normative speciali per questi
enti non commerciali.
L’art. 72 TUIR individua il presupposto d’imposta sul reddito delle società avvalendosi di una formulazione
identica all’art. 1 relativo al presupposto IRPEF: presupposto dell’imposta sul reddito delle società è il
possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6.
Il presupposto dell’IRES presenta tuttavia una peculiarità rispetto a quella dell’IRPEF, poiché per le società e
gli enti commerciali vale la regola generale di attrazione nell’area del reddito d’impresa del reddito
complessivo prodotto, quale che ne sia la fonte, (è il principio dell’onnicomprensività del reddito d’impresa).
Perciò il presupposto dell’imposta in esame è costituito, dunque, dal possesso del reddito d’impresa.
L’art. 73 TUIR enuncia i soggetti passivi dell’IRES, suddividendoli in quattro categorie:
a) le società di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità
limitata), società cooperative e di mutua assicurazione + le società europee e le società cooperative europee
residenti nel territorio dello Stato;
b) gli enti pubblici o privati diversi dalle società ed i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali (cd. enti commerciali);
c) gli enti pubblici o privati diversi dalle società ed i trust, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno
per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali (cd. enti non commerciali);
d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust (con o senza personalità giuridica) non residenti nel
territorio dello Stato.

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Inoltre, ai sensi del comma 2, tra gli enti diversi dalle società vanno compresi: le associazioni non
riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle
quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo.
Tale classificazione è comunque fondamentale ai fini della determinazione della base imponibile IRES,
vigendo infatti criteri distinti a seconda del soggetto passivo di riferimento, in particolare:
- Per le società di capitali e gli enti commerciali residenti, l’IRES viene applicata sul reddito complessivo netto,
ovunque prodotto, determinato sulla base delle disposizioni relative al reddito d’impresa, che ne costituisce
la qualificazione reddituale esclusiva (art. 81 TUIR).
- Per gli enti non commerciali residenti, l’IRES viene applicata sul reddito complessivo netto, ovunque
prodotto, determinato sulla base delle singole categorie di reddito loro applicabili, come se si trattasse di
una persona fisica.
- per i soggetti IRES non residenti è previsto che siano imponibili i soli redditi prodotti nel territorio dello
Stato in base alle regole di localizzazione previste dall’art. 23 TUIR. (ad es. per i redditi d’impresa sarà
necessario che essi siano prodotti mediante una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato). Ne
consegue che, per i redditi prodotti in Italia dal soggetto non residente e diversi dai redditi d’impresa
riferibili alla stabile organizzazione, non vi è alcuna capacità attrattiva esercitata dalla stessa stabile
organizzazione, il cui reddito sarà determinato avuto riguardo ai soli utili e perdite da essa realizzati, senza
tener conto di altri elementi reddituali generati nel territorio italiano. Questi altri redditi, ove considerati
prodotti in Italia, dovranno essere indicati nella medesima dichiarazione dei redditi, separati però da quelli
d’impresa.
Per quanto riguarda poi le regole di determinazione della base imponibile del reddito d’impresa (dunque
relativamente sia all’intero reddito delle società ed enti commerciali, sia al solo reddito di impresa degli enti
non commerciali), occorre distinguere tra:
- principi generali di determinazione del reddito d’impresa ((si rinvia alla trattazione del capitolo sul
reddito d’impresa));
- regole specifiche di determinazione del reddito d’impresa, si tratta delle regole riguardanti i
componenti attivi (ricavi, plusvalenze, sopravvenienze attive ecc...) e passivi (spese per prestazioni di lavoro,
interessi passivi, minusvalenze, ammortamenti ecc…) del reddito d’impresa, che danno luogo ad una
articolata e complessa disciplina.
Sul reddito così determinato, trova applicazione l’aliquota dell’imposta attualmente pari al 24%, misura che
decorre dal 1 gennaio 2017. Infine, per quanto riguarda il periodo d’imposta, è determinato con riferimento
all’esercizio o al periodo di gestione della società o ente.
Oltre alla natura giuridica dei soggetti passivi, la classificazione dei soggetti passivi ex art. 73 TUIR, si basa
anche sulla loro residenza fiscale.
Se la società o l’ente non è residente, essa viene immediatamente classificata all’interno della lett. d) (cioè
società ed enti di ogni tipo non residenti).
L’art. 73 co.3 TUIR considera residenti, ai fini delle imposte sui redditi: le società e gli enti che per la maggior
parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede amministrativa o l’oggetto principale nel
territorio dello Stato.
Quindi una società od ente si considera residente in Italia quando, per la maggior parte del periodo
d’imposta ha alternativamente:
A- la sede legale, che è quella semplicemente indicata nell’atto costitutivo e nello statuto (ai sensi dell’art.
2328cc);
B- la sede dell’amministrazione, intesa quale luogo in cui viene effettivamente esercitata la gestione
amministrativa, nel senso di alta direzione dell’impresa in cui si assumo le decisioni chiave e si determinano
le strategie di impresa. La giurisprudenza di legittimità tende ad avvalorare tale significato, anche se finisce
per inquadrarla nel più ampio concetto della sede effettiva della società;
C- l’oggetto principale, si tratta di un elemento costitutivo raramente adottato negli altri ordinamenti
giuridici, ai fini delle determinazione della residenza di società ed enti. Esso va quindi inteso come attività
economica prevalentemente esercitata per conseguire lo scopo sociale (quindi, non il luogo dove si forma la
volontà sociale, bensì quello in cui essa trova attuazione concreta).

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Altra tematica di rilevante interesse in tema di residenza fiscale delle società è quella della cd.
“esterovestizione”, termine con cui si designa la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una
società che, al contrario, ha la sua residenza fiscale in Italia. Il legislatore italiano ha così inteso contrastare
tale fenomeno mediante l’introduzione nell’art. 73 i co.5-bis e 5-ter (d.l. 223/2006).
Rileva infine ai fini della classificazione dei soggetti passivi ex art. 73 co.1 TUIR, la commercialità o meno
dell’ente. Risulta così necessario appurare se l’ente abbia o meno per oggetto esclusivo principale l’esercizio
di attività commerciali.
In caso affermativo, l’ente diviene commerciale in ragione dell’attività svolta e viene equiparato (ai fini
impositivi) ai soggetti tipici indicati nel comma 1 del suddetto articolo. Altrimenti, l’ente deve considerarsi
come non commerciale e formerà oggetto della tassazione isolata dei redditi alla stregua di un soggetto
IRPEF. Ai fini della determinazione dell’oggetto esclusivo o principale, i commi 4 e 5 dell’art. 73 TUIR
stabiliscono che: (4) l’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge,
all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata o
registrata, intendendo per “oggetto esclusivo o principale”: l’attività essenziale per realizzare direttamente
gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto; (5) e che in mancanza dell’atto
costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto principale è determinato in base all’attività
effettivamente svolta nel territorio dello Stato.
La verifica attiene perciò all’attività svolta dall’ente, che deve risultare direttamente funzionale al
perseguimento degli obiettivi e al soddisfacimento degli interessi per il quale l’ente è stato costituito (si
tratta di un’indagine a carattere qualitativo —> volta cioè ad individuare quale attività realizzi direttamente il
fine per il quale l’ente è stato creato).
A questo punto, determinata l’attività a cui fare riferimento, va verificato se essa possa o meno qualificarsi
come “commerciale”. E tale verifica va effettuata sulla base dell’art. 55 TUIR, in più sulla natura non
commerciale dell’ente possono influire anche altri elementi, tra cui lo scopo perseguito (ciò accade ad ES:
per le fondazioni bancarie, in quanto, si considerano in ogni caso come “non commerciali”, anche se
perseguono le loro finalità mediante esercizio di imprese strumentali ai loro fini statutari.

➢ La “participation exemption”:
Un istituto da esaminare, in quanto rilevante per la comprensione dell’istituto dell’IRES, attiene alla
“participation exemption” (o PEX) di cui all’art. 87 TUIR.
Si intendono le plusvalenze realizzate e relative ad azioni o quote di partecipazioni in società o enti che, in
presenza di determinati requisiti, possono essere dedotte dal reddito fiscale imponibile.
Il regime della PEX si applica alle seguenti tipologie di plusvalenze:
- Plusvalenze su titoli;
- Plusvalenze su partecipazioni al capitale sociale o al patrimonio;
- Plusvalenze su partecipazioni societarie;
- Plusvalenze su strumenti finanziari simili alle azioni;
- Contratti di associazione in partecipazione.
Esse sono stabilite nella misura del 95% per le società di capitali. All’esenzione delle plusvalenze si
accompagna l’indeducibilità delle minusvalenze aventi la stessa natura.
Per le altre tipologie di contribuenti, sono attualmente in vigore le seguenti aliquote di esenzione:
- Contribuenti IRPEF: esenzione del 50,28% del valore delle plusvalenze;
- Altri enti non commerciali: esenzione del 50,28% del valore delle plusvalenze;
- Società a responsabilità limitata che hanno optato per il regime di trasparenza fiscale: esenzione del
50,28% del valore delle plusvalenze;
- Contribuenti in regime di contabilità semplificata: nessuna esenzione.
Sono poi previsti quattro requisiti indispensabili per rendere possibile l’applicazione della PEX:
- Iscrizione della partecipazione tra le immobilizzazioni finanziarie per un periodo di almeno 12 mesi;
- Le partecipazioni cedute devono essere classificate nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso
nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie;
- La società partecipata deve esercitare un’attività commerciale per almeno un triennio;

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- La società partecipata non dev’essere residente in uno Stato a fiscalità privilegiata, almeno per un triennio.
Viene in ogni caso esclusa la rilevanza fiscale delle minusvalenze da valutazione delle partecipazioni.
Si è visto come nel sistema del TUIR il nesso di dipendenza tra il risultato d’esercizio e il reddito d’impresa sia
solo parziale, nel senso che questo si determina in sede di dichiarazione annuale dei redditi apportando
all’utile o alla perdita del conto economico le variazioni in aumento o in diminuzione, previste dal legislatore
tributario.
Gli artt. 85 a 108 TUIR disciplinano le variazioni in aumento e in diminuzione distinguendo:
- componenti positivi (artt. 85 a 91 TUIR);
- rimanenze (artt. 92 a 94 TUIR);
- componenti negativi (artt. 95 a 108 TUIR).
Partiamo ora dall’analisi dei beni relativi all’impresa, comprendono:
1. i beni merce, ossia quei beni alla cui produzione o scambio è destinata l’attività d’impresa.
2.i beni diversi dai beni merce, a loro volta distinti in: i) beni strumentali: i beni immobili possono essere
strumentali “per natura” (cioè beni che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa
destinazione senza radicali trasformazioni, anche se concessi in locazione o in comodato) o “per
destinazione” (si tratta di immobili che, pur ontologicamente diversi da quelli strumentali per natura, sono
utilizzati nell’esercizio dell’attività d’impresa); ii) beni meramente patrimoniali, ad ES: un appartamento di
civile abitazione posseduto da una società e tenuto a disposizione o dato in locazione a terzi.
Nel caso delle società di capitali o di persone, sono beni relativi all’impresa —> tutti i beni ad esse
appartenenti, a qualsiasi titolo posseduti.
Nel caso degli imprenditori individuali, bisogna distinguere tra beni che appartengono alla loro sfera
personale e familiare e quelli invece destinati all’esercizio dell’attività commerciale, in quest’ultimo caso i
beni saranno attratti alla categoria del reddito d’impresa.
L’art. 110 TUIR detta una nozione di costo del bene di carattere generale e in particolare: a) il costo è
assunto al lordo delle quote di ammortamento già dedotte; b) nel costo si comprendono anche gli oneri di
diretta imputazione, esclusi gli interessi passivi e le spese generali.
➢ I componenti positivi si articolano in ricavi (art. 85), plusvalenze (art. 86), plusvalenze esenti (art. 87),
sopravvenienze attive (art. 88), dividendi e interessi (art. 89), proventi immobiliari (art. 90) e proventi e
oneri non computabili nella determinazione del reddito (art. 91). In particolare:
a) Ricavi: riguardano i beni merce e sono definiti dall’art. 85 TUIR come
- i corrispettivi derivanti dalla cessione di beni e dalla prestazione di servizi, alla cui produzione o scambio è
diretta l’attività di impresa;
- i corrispettivi derivanti dalla cessione di materie prime e sussidiarie;
- i corrispettivi derivanti dalla cessione di azioni o quote di partecipazioni;
- le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o
danneggiamento di beni che originano ricavi;
- i contributi in denaro o il loro valore nominale, spettanti sotto qualsiasi denominazione in base a contratto,
oppure spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge.
b) Plusvalenze (art. 86 TUIR): riguardano i beni diversi da quelli che formano oggetto di ricavi, dunque, sia i
beni strumentali (ES: macchinari) sia i beni meramente patrimoniali. Possono derivare sia da operazioni
economiche, sia da risarcimento del danno, sia dalla mera iscrizione in bilancio, ma solo ove vi sia una legge
che espressamente riconosca ai fini fiscali la rivalutazione effettuata.
Per quanto attiene alla loro determinazione, esse consistono nella differenza tra il corrispettivo o
l’indennizzo conseguito al netto degli oneri accessori di diretta imputazione e il costo non ammortizzato.
Per le plusvalenze, è possibile una rateizzazione in quote costanti entro un massimo di cinque periodi di
imposta, ma solo su beni posseduti da almeno tre anni.
c) Sopravvenienze attive (art. 88 TUIR), possono derivare:
- da ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese o oneri dedotti;
- da ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito
in precedenti esercizi;

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- da indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, per danni diversi da quelli che
danno luogo a ricavi o plusvalenze;
- da contributi e liberalità, esclusi i contributi che danno luogo a ricavi. Si tratta dei contributi in conto
capitale, destinati ad aumentare i mezzi patrimoniali dei soggetti beneficiari.
Non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto
capitale alle società e agli enti commerciali e non commerciali dai propri soci e la rinuncia dei soci ai crediti,
nei limiti del valore fiscale dei crediti oggetto di rinuncia.
d) Dividendi ed interessi (art. 89 TUIR): gli utili derivanti dalla partecipazione ai soggetti di cui all’art. 5 sono
tassati per trasparenza. Gli utili derivanti dalla partecipazione in soggetti IRES residenti sono tassati per il 5%
del loro ammontare e secondo il principio di cassa. Per le partecipazioni in soggetti IRES non residenti, si
ricorda che gli strumenti finanziari emessi da soggetti non residenti si considerano dividendi alla duplice
condizione che la remunerazione sia esclusivamente correlata agli utili e che essa sia totalmente indeducibile
nella determinazione del reddito dello Stato estero di residenza del soggetto emittente. Per quanto riguarda
gli interessi, è previsto che ove non siano stati determinati per iscritto, essi si computano al tasso legale.
➢ Le rimanenze riguardano i cd. beni merce, contabilizzati a costi, ricavi e rimanenze.
In particolare, l’acquisto dei beni viene registrato come costo, mentre la vendita genera un ricavo. Tuttavia, i
costi sostenuti nell’esercizio potrebbero non aver trovato un corrispondente ricavo nello stesso esercizio. In
questo caso occorre rettificare tali costi che rimangono “sospesi”. Questo avviene mediante la
contabilizzazione delle cd. rimanenze finali, le quali vanno appostate tra i ricavi, così da controbilanciare i
costi (comprensivi anche di quelli sospesi). Qui ci si riferisce alla cd. contabilità di magazzino.
Possono poi esistere anche rimanenze di servizi, in questo caso andrà valutato il servizio in corso in base ai
costi sostenuti fino alla fine del periodo di imposta. Così si apposterà tra i ricavi una voce tale da
controbilanciare e neutralizzare tali costi.
Il valore delle rimanenze finali è così determinato:
In primo luogo, potrebbero essere determinate a costo specifico, che potrebbe essere un costo effettivo o
medio. Se ciò non è possibile il costo si può determinare ricorrendo ad una finzione, esistono due criteri:
- Criterio LIFO che si basa sull’ipotesi che le merci entrare per ultime, siano uscite per prime (criterio del
prezzo più lontano). Quindi in periodi di prezzi crescenti, tale criterio esprime rimanenze di merci ad un
prezzo inferiore a quello corrente, per cui il relativo valore è sottostimato.
- Criterio FIFO che si basa sull’ipotesi che le merci entrate per prime siano uscite per prime (criterio del
prezzo più vicino). In periodi di prezzi crescenti, tale criterio esprime un valore pari a quello di mercato.
L’art. 93 TUIR disciplina le variazioni delle rimanenze finali delle opere, forniture e servizi pattuiti come
oggetto unitario (ES: contratti di appalto, somministrazione, vendita su ordinazione…) con tempo di
esecuzione ultrannuale (con durata maggiore di 12 mesi).
La valutazione di queste rimanenze è effettuata sulla base del criterio dei corrispettivi pattuiti e maturati in
relazione alla parte eseguita fin dall’inizio dell’esecuzione del contratto.
Per la parte di opere, forniture e servizi coperta da stati di avanzamento dei lavori, la valutazione invece è
fatta in base ai corrispettivi liquidati. Per la relativa determinazione è valido qualsiasi metodo di calcolo,
purché conforme ai principi contabili.
➢ I componenti negativi:
1. Spese per prestatori di lavoro, l’art. 95 comma 1 TUIR disciplina le spese per prestazioni di lavoro
dipendente, considerando interamente deducibili nella determinazione del reddito anche quelle sostenute
in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori.
I successivi commi 2 e 3 recano alcune limitazioni relativamente ai fringe benefits, in particolare: le spese di
vitto ed alloggio sostenute per le trasferte, al di fuori del territorio comunale sono ammesse in deduzione
per un ammontare giornalieri non superiore a 180€ e 258€ per trasferte all’estero).
Il comma 5 disciplina i compensi agli amministratori, considerandoli deducibili secondo il principio di cassa.
Parliamo ora degli interessi passivi, l’art. 96 TUIR prevede una limitazione della deduzione degli oneri
finanziari per la parte che eccede il 30% del risultato operativo lordo (ROL) della società. L’applicazione di
tale disposizione presuppone due fasi: la prima, volta ad individuare gli oneri finanziari interessati dalla
norma; la seconda, volta a scomporre l’importo così determinato in diverse componenti. Ove gli oneri

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finanziari residui non dovessero eccedere il 30% del ROL, essi saranno interamente deducibili. Ove, invece,
dovessero eccedere il 30% del ROL, quelli eccedenti non saranno deducibili nel periodo di imposta
interessato, potranno tuttavia esserlo nei successivi periodi di imposta.
Oneri fiscali e contributivi, ai sensi del comma 1 dell’art. 99 TUIR, non sono ammesse in deduzione le
imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa. Non sono altresì deducibili le
imposte indeducibili per espressa disposizione di legge (ad es. IMU e IRAP, per le quali è adesso ammessa
una deducibilità parziale). Per le altre imposte (ad ES: imposta di registro, imposta di bollo, tasse di
concessione governativa ecc...) la deducibilità è ammessa nel periodo di imposta in cui avviene il pagamento,
a meno che esse non siano state capitalizzate sul costo di acquisto quali oneri di diretta imputazione (nel
qual caso seguiranno il principio di competenza economica).
Oneri di utilità sociale, l’art. 100 co.1 TUIR prevede la deducibilità delle spese relative ad opere o servizi
utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche
finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria…
L’art. 101 TUIR disciplina le minusvalenze patrimoniali, che riguardano tutti i beni relativi all’impresa diversi
dai ricavi e dalle partecipazioni PEX. Esse si determinano secondo le medesime regole applicabili alle
plusvalenze.
Per quanto attiene agli ammortamenti, il TUIR (artt. 102-104) distingue l’ammortamento dei beni materiali
da quello dei beni immateriali.
Secondo la giurisprudenza più recente, l’annotazione delle quote di ammortamento nel registro dei beni
ammortizzabili riveste carattere sostanziale e serve a prevenire comportamenti distorti ed elusivi, sicché la
relativa mancanza ne provoca l’indeducibilità.
I beni materiali si dividono in beni mobili (impianti, macchinari, altri beni mobili) e in beni immobili (che
possono essere destinati alla produzione o allo scambio e in tal caso origineranno ricavi; diversamente
potranno essere strumentali (per natura o destinazione), oppure non strumentali).
Solo quelli strumentali possono formare oggetto di ammortamento.
Il costo ammortizzabile è definito dall’art. 110 TUIR.
Le quote di ammortamento sono deducibili a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene, anche per
le imprese di nuova costituzione.
Per quanto attiene ai beni immateriali, l’art. 103 TUIR disciplina diverse fattispecie. Innanzitutto,
l’ammortamento del costo dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, dei processi, formule e
informazioni relative ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, le cui quote
sono deducibili in ciascun periodo d’imposta in misura non superiore al 50% del costo. Poi le quote di
ammortamento del costo dei marchi d’impresa, le cui quote sono deducibili in ciascun periodo d’imposta in
misura non superiore ad 1/18 del costo.
In terzo luogo, l’ammortamento del costo dei diritti di concessione e degli altri diritti iscritti nell’attivo del
bilancio, le cui quote sono deducibili in misura corrispondente alla durata di utilizzazione prevista dal
contratto o dalla legge.
Gli accantonamenti (artt. 105-107 TUIR) rappresentano, invece, un comportamento economico/contabile
dettato dalla necessità di tener conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se
conosciuti dopo la chiusura di questo. Si distingue in particolare tra: i) fondi oneri, che accolgono
accantonamenti destinati a coprire uscite future di competenza dell’esercizio + tali uscite sono di esistenza
certa, ma non ancora definite esattamente nell’ammontare o nella data di estinzione. ii) fondi rischi, che
accolgono accantonamenti a fronte di spese o perdite potenziali di esistenza probabile, ma indeterminati
nell’ammontare e/o nella data di sopravvenienza.
Nel sistema delle imposte sui redditi vige il principio di tassatività degli accantonamenti deducibili. Gli
accantonamenti diversi da quelli espressamente disciplinati dal TUIR non sono deducibili ai fini delle imposte
sui redditi, trattandosi di costi privi dei requisiti di certezza.
Il TUIR disciplina i seguenti accantonamenti:
- accantonamenti per maggiori imposte accertate, ma non definite, disciplinati dall’art. 99 TUIR;
- accantonamenti per quiescenza e previdenza, disciplinati dall’art. 105 TUIR, in particolare si prevede che gli
accantonamenti ai fondi per l’indennità di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente,

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se costituiti in conti individuali dei singoli dipendenti, sono deducibili nei limiti delle quote maturate
nell’esercizio.
Per gli altri accantonamenti l’art. 107 TUIR: stabilisce che sono previste norme ad hoc per gli
accantonamenti per spese per lavori ciclici di manutenzione e revisione di navi e aeromobili, per gli
accantonamenti per ripristino o sostituzione di beni gratuitamente devolvibili.

Capitolo Ventitré: lineamenti della disciplina dell’IVA.


IVA: imposta sul valore aggiunto.
È stata introdotta in Italia con il d.p.r. 633/1972, in attuazione delle direttive 67/227 e 67/228/CEE, 1968,
può definirsi un “tributo comunitario”. Si tratta, infatti, di un’imposta istituita a livello comunitario al fine di
perseguire lo scopo della libera circolazione di beni, persone e capitali in un unico mercato. L’IVA nasce
come imposta sugli scambi operante in modo neutrale rispetto alla fase di produzione e di scambio dei beni,
secondo criteri uniformi in tutti gli Stati membri. Per quanto attiene agli strumenti normativi utilizzati, nel
caso dell’IVA, l’armonizzazione è stata perseguita a livello comunitario attraverso lo strumento delle
direttive, consentendo così ad ogni Stato membro di adattare le rispettive legislazioni. La direttiva
2006/112/CE costituisce l’attuale testo di riferimento a livello europeo della disciplina dell’IVA. Oltre che per
la sua disciplina a livello comunitario, l’IVA può considerarsi un tributo europeo anche per altre due ragioni:
1) Una quota del gettito dell’IVA è destinata al finanziamento delle politiche comunitarie.
2) La sua interpretazione pregiudiziale è rimessa ad un giudice ad hoc (la Corte di giustizia europea, che
assicura l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del tributo).
In generale, le imposte sui consumi, cui l’IVA è ascrivibile, possono corrispondere a diversi modelli:
a) Imposta monofase: modello che consiste nell’assumere come imponibile il valore pieno dei corrispettivi
praticati, ma solo nell’ultima fase degli scambi (quella dell’immissione in consumo);
b) Imposta plurifase cumulativa: modello che consiste nell’assumere come imponibile il valore pieno dei
corrispettivi praticati in ogni singolo scambio;
c) Imposta plurifase sul valore aggiunto: modello che consiste nell’applicare l’imposta ad ogni singolo
scambio, ma solo sul valore aggiunto.
Inoltre, prima dell’IVA nel nostro ordinamento vigeva l’IGE (Imposta Generale sulle Entrate) che
corrispondeva al secondo modello di imposta plurifase cumulativa e non possedeva il carattere né di
trasparenza né di neutralità —> ciascun contribuente (con l’IGE) era tenuto al pagamento di un’aliquota fissa
su tutto il valore della merce stessa.
L’ IVA, invece, è un’imposta plurifase non cumulativa, applicata ad ogni fase del ciclo produttivo-distributivo,
ma solo sulla differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti (metodo di calcolo cd. “da
imposta a imposta”).
In tal modo, a parità di valore aggiunto, l’ammontare dell’imposta complessivamente versata all’Erario è
sempre identico, così il prelievo si configura come neutrale.
→ L’unica eccezione è rappresentata dal cd. “regime del margine” applicato al commercio di beni mobili
usati ed altre ipotesi particolari (ES: vendite di case all’asta), dove l’IVA si applica solo sulla differenza tra
prezzo di vendita e costi di acquisto al lordo dell’imposta.
Il meccanismo dell’IVA coinvolge tre soggetti: un fornitore, un cliente e l’Erario.
Il fornitore deve addebitare in via di rivalsa al cliente il tributo (in misura proporzionale al corrispettivo
contrattuale) che, a sua volta, deve versarlo all’Erario, al netto del tributo da lui stesso corrisposto ai propri
fornitori.
Inoltre, l’IVA sui beni e servizi acquistati nell’esercizio di imprese, arti o professioni, può essere a sua volta
detratta dall’IVA sulle operazioni attive, versando la differenza all’Erario o riportando l’eccedenza (o al limite
chiedendone un rimborso). Questo calcolo (chiamato liquidazione del tributo) avviene non per singola
operazione, ma per masse: con riferimento cioè a tutte le operazioni attive e passive effettuate in un
determinato periodo (mese o trimestre).
L’IVA non può essere detratta dal consumatore finale, che si limita a pagare l’IVA sul valore pieno. Così
l’imposta colpisce il consumo finale, mostrandosi invece neutrale nei passaggi intermedi tra produttori,
commercianti e professionisti: passaggi intermedi in cui comunque l’Erario riscuote delle frazioni di IVA che a

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loro volta vengono sommate alla frazione finale riscossa nel passaggio finale e tutte insieme corrispondono
esattamente all’IVA pagata dal consumatore finale sul valore pieno. Il meccanismo applicativo dell’imposta
è, dunque, incentrato sulla neutralità tendenziale del tributo per i soggetti IVA (imprenditori e lavoratori
autonomi) attraverso l’esercizio della rivalsa e il diritto alla detrazione.
Presupposto dell’IVA: l’art. 1 d.p.r. 633/1972 non definisce il presupposto, bensì le operazioni imponibili,
limitandosi ad affermare che l’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di
servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle
importazioni da chiunque effettuate. Perciò sono state sostenute diverse tesi ricostruttive, incentrate sulle
singole operazioni economiche oppure sull’attività dei soggetti IVA. Per quanto riguarda la posizione della
Corte di giustizia, essa ha ripetutamente qualificato l’IVA come imposta generale sul consumo. Tale
qualificazione non è priva di conseguenze, infatti essendo l’IVA finalizzata a colpire il consumo, essa non può
trovare applicazione quando non sia possibile identificare il consumatore finale e far gravare su di esso
l’imposta.
Parliamo ora degli elementi del tributo:
Come anticipato, ai sensi dell’art. 1 d.p.r. 633/1972: “l’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di
beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di
arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate”. Tale norma delinea il campo di applicazione
del tributo con riferimento a tre requisiti: oggettivo, soggettivo e territoriale. Inoltre, fa riferimento all’
avvenuta “effettuazione” dell’operazione + l’ulteriore concetto di “esigibilità” dell’imposta.
Dalla combinazione dei tre requisiti indicati si evincono le diverse possibili tipologie di operazioni : operazioni
imponibili, non imponibili, esenti ed escluse/fuori campo IVA/ non soggette, alle quali corrispondono a loro
volta diversi effetti.
A. Il requisito oggettivo: iniziando dal profilo oggettivo dell’operazione, esso risulta dalle cessioni di beni e
dalle prestazioni di servizi (artt. 2 e 3 d.p.r. 633/1972). In entrambi i casi deve trattarsi di attività
economiche svolte in un mercato concorrenziale e pertanto suscettibili di determinare effetti distorsivi. Ne
restano pertanto estranee tutte quelle attività che siano illecite in senso assoluto (ES: la cessione di
stupefacenti), ma non anche quelle in senso relativo, suscettibili cioè di essere svolte in modo lecito (ES:
l’esercizio abusivo di attività finanziarie).
§ Cessioni di beni: l’art. 2 le definisce come atti a titolo oneroso che comportino il trasferimento della
proprietà o costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sui beni di ogni genere.
Le caratteristiche della cessione sono: la presenza di un atto, i suoi effetti giuridici traslativi o costitutivi, la
sua onerosità e l’oggetto costituito da un bene. Non si ha, dunque, cessione quando si tratti di un diritto
reale di garanzia o personale di godimento o di un acquisto a titolo originario.
Per quanto riguarda l’atto, è sufficiente un qualsiasi atto produttivo di effetti giuridici traslativi o costitutivi.
Quanto al titolo oneroso non occorre necessariamente un contratto a prestazioni corrispettive, bensì è
necessaria l’esistenza di una controprestazione (scambio di reciproche prestazioni, nel quale il compenso
ricevuto costituisce il controvalore effettivo del servizio prestato all’utente).
L’art. 2 elenca poi una serie tassativa di ipotesi assimilate alle cessioni, cui mancano alcuni elementi della
nozione generale e che quindi non vi rientrerebbero. Si tratta:
- Vendite con riserva di proprietà e delle locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante
per entrambe le parti (qui, poiché l’effetto traslativo non è immediato, l’assimilazione si spiega nel senso di
non lasciare sospeso per eccessivo tempo il rapporto tributario, a fronte dell’elevata possibilità che il
trasferimento avvenga);
- I passaggi dal committente al commissionario o viceversa di beni venduti o acquistati in esecuzione di
contratti di commissione. Vi è poi una serie di assimilazioni che trovano la loro giustificazione nell’evitare
l’immissione in consumo di un bene senza pagamento dell’imposta: si tratta delle cessioni gratuite di beni
(non costituiscono cessione di beni quelli la cui produzione o il cui commercio non rientra nell’attività
propria dell’impresa e di costo unitario non superiore a 50€) e della destinazione di beni all’uso o al consumo
personale o familiare dell’imprenditore;
In entrambe le ipotesi l’assimilazione non opera se non è stata operata la detrazione dell’imposta
sull’acquisto.

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Infine, sono assimilate alle cessioni onerose le assegnazioni ai soci fatte a qualsiasi titolo da società di ogni
tipo e oggetto e le analoghe operazioni fatte da altri enti privati o pubblici.
Per quanto riguarda le operazioni espressamente escluse, non rientrano nella cessione di beni le:
- le cessioni aventi ad oggetto denaro o crediti in denaro, dove in effetti avviene la mera successione di un
creditore ad un altro.
- le cessioni nonché i conferimenti in società o altri enti o organizzazioni aventi ad oggetto aziende o
complessi aziendali relativi a singoli rami dell’impresa.
§ Prestazioni di servizi: Ai sensi dell’art. 3 co 1: costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso
corrispettivo, dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione,
deposito e in genere obbligazioni di fare, di non fare e di permettere qualunque ne sia la fonte.
Manca, dunque, una definizione generale del concetto di prestazione, in quanto il legislatore si limita a far
riferimento alle prestazioni verso corrispettivo dipendenti da una serie di contratti, tipicamente riconducibili
al compimento di un’opera o di un servizio. Si tratta di una indicazione meramente esemplificativa.
Nonostante la diversa espressione utilizzata rispetto alla cessione di beni si tratta del medesimo significato,
comprensivo di rapporti non nascenti da contratti a prestazioni corrispettive. Esso sarà soddisfatto, anche in
questo caso, quando vi sia una controprestazione.
Le prestazioni di servizi rilevano, se di valore superiore a 50 euro, anche se effettuate da imprenditori per
uso personale o familiare, ovvero a titolo gratuito per attività estranee all’esercizio dell’impresa. Anche in
questo caso è tuttavia richiesto che l’IVA “a monte” sia detraibile, confermando la finalità di evitare che il
bene sia immesso in consumo in violazione del principio di neutralità.
Il comma 2 prevede le assimilazioni, in particolare per:
- le concessioni di beni in locazione, affitto, noleggio o simili;
- le cessioni, concessioni, licenze e simili relative ai beni immateriali (diritti d’autore, invenzioni, disegni...);
- i prestiti di denaro;
- le somministrazione di alimenti e bevande;
- la cessione di contratti di ogni tipo e oggetto.
A queste ipotesi si aggiungono anche le assegnazioni ai soci, quando abbiano ad oggetto le operazioni sopra
indicate (primo, secondo e quinto).
Per quanto riguarda il requisito soggettivo, gli artt. 4 e 5 definiscono rispettivamente l’esercizio di imprese e
l’esercizio di arti e professioni.
A. Esercizio di impresa: Ai sensi dell’art. 4 co.1, per esercizio di impresa si intende l’esercizio per professione
abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 cc., anche
se non organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette
alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 cc.
II successivo comma 2 specifica che si considerano, in ogni caso, effettuate nell’esercizio dell’impresa le
cessioni di beni e le prestazioni di servizi poste in essere da S.n.c. e S.A.S., dalle S.p.A e dalla S.a.p.A. , S.r.l.,
dalle società cooperative, di mutua assicurazione e di armamento…
Per quanto riguarda gli altri enti, si pone la necessità di verificare se essi abbiano o meno per oggetto
esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale o agricola. In caso affermativo, le cessioni e le
prestazioni di servizi saranno considerate effettuante nell’esercizio dell’impresa. Altrimenti rileveranno solo
le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di attività commerciale o agricole.
Per i restanti soggetti, gli imprenditori individuali, bisogna verificare la ricorrenza dei requisiti elencati
nell’art. 4 co.1:
-1 deve trattarsi di una delle attività indicate nell’art. 2195 cc. oppure nell’art. 2135 cc., anche se svolta in
mancanza di organizzazione in forma di impresa. Per le restanti attività, il riferimento è quello delle
prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 cc., richiedendo l’organizzazione di impresa. Per quanto
attiene, invece, alle attività agricole esse risultano sempre rilevanti ai fini IVA, indipendentemente
dall’eventuale determinazione su base catastale del reddito.
-2 l’abitualità, intesa come non “occasionalità”, da verificarsi in concreto rispetto alle singole attività svolte.
Dovrà in ogni caso trattarsi di atti svolti in modo sistematico e coordinato in vista di un fine unitario, tali da
costituire una vera e propria attività. Non è richiesta, invece, l’esclusività dell’attività. Per quanto riguarda gli

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enti non commerciali, rilevano soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell’esercizio
dell’attività commerciale o agricola. Non rilevano le quote associative, in quanto collegate all’attività
istituzionale; rilevano invece i corrispettivi specifici.
Per gli enti non commerciali, sono considerate in ogni caso “commerciali” alcune attività, tra cui:
l’erogazione d’acqua, gas, energia elettrica… e ciò anche se il loro esercizio sia posto da enti pubblici. Per gli
enti pubblici, invece, la direttiva 2006/112/CE esclude da tassazione le attività da essi esercitate in quanto
pubbliche autorità.
B. Esercizio di arti e professioni: l’art. 5 co. 1, dispone che per esercizio di arti e professioni si intende:
l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte
di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite
tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse. La formulazione è alquanto ampia e
sembrerebbe includere qualsiasi attività abituale, non rientrante in quella di impresa e non svolta con
vincolo di subordinazione. In ogni caso, la categoria comprende sicuramente le professioni intellettuali o
artistiche, ma anche tutte quelle attività di prestazione di servizi, diverse da quelle rientranti nell’art. 2195
cc., che difettano del requisito dell’organizzazione in forma di impresa.
Il presupposto territoriale: L’art. 1 d.p.r. 600/1972 richiede, che la cessione di beni o prestazione di servizi
sia effettuata nel territorio dello Stato. L’individuazione del requisito territoriale è fondamentale in quanto
consente di stabilire che l’operazione è “soggetta” ad IVA in quel determinato Stato e non in un altro, il quale
Stato pertanto diventa creditore di quella determina imposta. Al tempo stesso, gli effetti giuridici dell’IVA
addebitata in quel determinato Stato devono esaurirsi in quello stesso Stato.
L’art. 7 d.p.r. 600/1972 delinea innanzitutto, la nozione di territorio, distinguendo tra territorio dello Stato e
territorio della Comunità.
Per quanto riguarda il territorio dello Stato, si tratta del territorio della Repubblica italiana, vale a dire quello
soggetto alla sua sovranità, comprendente lo spazio terreste nei confini, il soprassuolo e il sottosuolo e il
mare territoriale. Non comprende, invece, i comuni extradoganali di Livigno e di Campione d'Italia e le acque
nazionali del lago di Lugano, qui le operazioni effettuate non rientrano nel campo di applicazione dell’IVA.
Esso comprende però i territori extradoganali assimilati, quali punti franchi e depositi franchi.
Ai sensi dello stesso art. 7, le operazioni prive del requisito della territorialità, si considerano escluse da IVA.
Per quanto riguarda le regole generali di territorialità, è necessario distinguere tra cessioni di beni e
prestazioni di servizi.
-a. Cessioni di beni: per integrare il requisito della territorialità, la cessione di un bene (immobile o mobile)
deve riguardare un bene esistente fisicamente nel territorio dello Stato al momento in cui esse si
considerano effettuate. Per i beni mobili è richiesto un requisito ulteriore, che si tratti in particolare, di beni
nazionali, comunitari, vincolati al regime della temporanea importazione (beni di provenienza estera
introdotti in Italia per essere assoggettati a lavorazioni, trasformazioni, ecc…per poi essere riesportati).
-b. Prestazioni di servizi: le regole di territorialità sono state innovate dal d.l. 18/2010. Con queste modifiche
è stata prevista, per le prestazioni di servizi generiche, una doppia regola, a seconda dei soggetti coinvolti.
Quindi, l’art. 7-ter co.1 distingue le prestazioni in due categorie:
Lett. A) Prestazioni rese a soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, intendendosi come tali i soggetti
passivi domiciliati nel territorio dello Stato o ivi residenti che non abbiano stabilito il domicilio all’estero.
Per i soggetti diversi dalle persone fisiche si considera “domicilio” il luogo in cui si trova la sede legale e
“residenza” quello in cui si trova la sede effettiva.
Lett. B) Prestazioni rese a committenti non soggetti passivi.
Le prestazioni di servizi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti
passivi stabiliti nel territorio stesso e a nulla rileveranno il luogo dell’operazione e il domicilio del prestatore.
Non si considera territorialmente rilevante la prestazione resa a soggetti passivi stabiliti in altri Stati
(comunitari e non) ancorché il prestatore sia un operatore nazionale.
Se la prestazione si sevizi è resa ad un privato (inteso come NON soggetto passivo di imposta) la tassazione
deve avvenire nel Paese di stabilimento del prestatore del servizio.
È chiaro, perciò, che il prestatore del servizio (per determinare il regime d’IVA applicabile) dovrà stabilire lo
status del proprio cliente.

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L’art. 7-ter, fissa la regola generale per la tassazione delle prestazioni di servizi, valida per tutte le tipologie di
prestazioni, salve le deroghe (assolute e relative) fissate con riguardo a specifiche prestazioni. Le deroghe
assolute (artt. 7-quater e 7-quinquies) localizzano le prestazioni in diretta relazione con il territorio. Tra
queste deroghe rientrano:
- le prestazioni di servizi relativi a beni immobili si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando
l’immobile è situato nel territorio stesso;
- le prestazioni di trasporto di passeggeri si considerano effettuate nel territorio dello Stato in proporzione
alla distanza percorsa, dando pertanto rilevanza esclusiva al luogo in cui il trasporto viene effettuato;
- le prestazioni di servizi relativi ad attività culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e
simili (ivi comprese fiere ed esposizioni) si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando le
medesime attività vi sono materialmente svolte.
L’art. 7-sexies, contiene invece delle deroghe (relative) al principio di territorialità ove il committente sia un
privato (nazionale, comunitario o extracomunitario), ad ES.si considerano effettuate nel territorio dello Stato
(se rese a committenti non soggetti passivi: i) le prestazioni di intermediazione in nome e per conto del
cliente; ii) le prestazioni di trasporto di beni diverse dal trasporto intracomunitario; iii) le prestazioni di
trasporto intracomunitario di beni…
Infine, l’art. 7-septies, contiene particolari disposizioni, sempre in deroga, relative a talune prestazioni di
servizi rese a non soggetti passivi stabiliti fuori dall’UE.
Per quanto riguarda le operazioni relative agli scambi con l’estero, gli artt. 8 e 8-bis disciplinano le
esportazioni che il legislatore (per escludere l’applicabilità dell’IVA sui beni destinati al consumo all’estero)
qualifica come non imponibili. Per l’art. 8 sono cessioni all’esportazione le cessioni di beni che siano
trasportati o spediti fuori dal territorio comunitario, a cura o in nome del cedente o del suo commissario.
Per quanto riguarda le importazioni, queste costituiscono operazioni imponibili anche se non effettuate
nell’esercizio di imprese, arti o professioni e quindi soggette all’imposta da chiunque siano effettuate.
L’imposta è dovuta in dogana, all’atto dell’introduzione materiale dei beni nel territorio italiano, oltre ai dazi
doganali. In alcuni casi, determinati beni possono essere immessi nel territorio UE in franchigia dai dazi
doganali e senza pagamento dell’IVA.
Per quanto riguarda gli scambi con altri Stati UE (definiti: scambi intracomunitari), possiamo distinguere tra
cessioni e acquisti intracomunitari. Innanzitutto, occorre distinguere a seconda che ci si trovi in presenza (dal
lato del cessionario o committente) di un soggetto passivo o di un consumatore finale.
Se la controparte è consumatore finale, trova applicazione la tassazione nel paese di origine della merce,
conseguentemente, il fornitore applicherà l’IVA con l’aliquota del suo Stato di stabilimento e la addebiterà al
consumatore finale.
Se gli scambi avvengono tra soggetti IVA, si attua invece un meccanismo di detassazione dei beni ceduti con
trasporto e spedizione in altro Stato membro, con conseguente applicazione dell’IVA dello Stato in cui il
bene è introdotto, secondo il principio di tassazione nel paese di destinazione.
Poiché ora non vi sono più frontiere doganali (tra Stati membri UE), il meccanismo deve realizzarsi tramite
adempimenti degli stessi soggetti IVA. E quindi occorre che il cedente (iscritto nella banca dati dei soggetti
autorizzati), identificata la controparte come soggetto IVA, emetterà fattura senza applicazione dell’imposta.
A sua volta il cessionario (ricevuta la fattura) la integrerà con l’imposta corrispondente all’aliquota nazionale
applicabile e la registrerà sia tra gli acquisti che tra le vendite. Tale meccanismo si applicherà sia che
l’acquirente sia un soggetto passivo italiano (acquisto intracomunitario) sia che l’acquirente sia un soggetto
passivo UE (cessione intracomunitaria). Presupposto del regime di non imponibilità è che i beni arrivino
fiscalmente nell’altro Stato UE, la cui prova dovrà essere fornita dal cedente mediante il documento di
trasporto “Cmr”. Va, infine, ricordato che per non penalizzare gli scambi in ambito intra-UE rispetto a quelli
extra-UE, sono stati istituiti dei depositi IVA, in cui le merci vengono introdotte materialmente —>
consentendo all’acquirente di assolvere l’IVA solo al momento dell’estrazione della merce dal deposito.
L'articolo 6 disciplina il momento di effettuazione delle operazioni e l'esigibilità dell’imposta.
L’effettuazione riguarda l'operazione (cessione di beni o prestazioni di servizi), mentre l’esigibilità si riferisce
all’imposta (al diritto dell’Erario di percepire l’imposta).

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Di regola, effettuazione ed esigibilità coincidono e così sorgono il dovere di computarla a debito (per il
cedente o prestatore) e il diritto di computarla a credito (detrazione) per l’acquirente, salvo il caso che tale
esigibilità dell’imposta sia differita in forza di regole speciali e che quindi l’effettuazione dell’operazione
comporti solo obblighi formali. Il momento di effettuazione dell’operazione è rilevante poi anche sotto altri
profili: esso condiziona, infatti, il meccanismo di applicazione dell’IVA e fissa l’operazione nel tempo.
L’art. 6 distingue i momenti di effettuazione secondo i vari tipi di operazioni, delineando, per le cessioni dei
beni, norme analoghe a quelle relative al principio di competenza per le imposte sui redditi. In particolare, le
cessioni di beni immobili si considerano effettuate nel momento di stipulazione dell’atto. Per le cessioni di
beni mobili, invece, si fa riferimento alla consegna o spedizione, prescindendo, pertanto, dal
perfezionamento del contatto sul piano civilistico.
Gli effetti traslativi o costituitivi si producono successivamente alla stipula (per i beni immobili) o alla
consegna o spedizione (per i beni mobili), occorre far riferimento al momento della loro realizzazione.
Tali criteri però possono subire delle deroghe: tra queste, le cessioni per atto della pubblica autorità e quelle
periodiche o continuative, i base ai contratti di somministrazione (ES: gas ed energia elettrica) si considerano
effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo.
Per le prestazioni di servizi, rileva invece il pagamento del corrispettivo. Anche in questa ipotesi sussistono
però delle eccezioni: come, ad ES, l’autoconsumo di servizi —> dove le prestazioni si considerano effettuate
nel momento in cui sono rese o nel mese successivo a quello in cui sono rese (se periodiche o continuative);
oppure nel caso dei servizi generici —> resi da un soggetto passivo non stabilito nel territorio dello Stato a
un soggetto passivo ivi stabiliti, nonché dei servizi oggetto delle deroghe assolute, resi da un soggetto
passivo stabilito nel territorio dello Stato ad un soggetto passivo che non è ivi stabilito. Resta fermo che, se
anteriormente all’ultimazione della prestazione o alla maturazione dei corrispettivi, il corrispettivo è pagato
in tutto o in parte, la prestazione di servizi si intende effettuata alla data del pagamento.
È possibile ora individuare diverse categorie di operazioni ai fini IVA:
• Operazioni imponibili: sono quelle che integrano i requisiti soggettivo, oggettivo e territoriale (indicati
dall’art. 1) e che comportano l’addebito dell’imposta secondo le aliquote vigenti. In questa ipotesi trova
applicazione l’ordinario regime IVA.
• Operazioni non imponibili: consistono nelle esportazioni e non comportano l'addebito dell'imposta nei
confronti del concessionario ovvero del committente, in quanto si assume che il consumo avverrà in
territorio diverso da quello italiano. Tuttavia, esse consentono la detrazione dell'IVA assolta a monte
(ovvero dovuta o addebitata) sugli acquisti di beni e servizi inerenti alla specifica attività economica
esercitata.
• Operazioni esenti: non comportano l'addebito dell'imposta ma, diversamente dalle operazioni non
imponibili, non concedono a loro volta a chi le pone in essere il diritto alla detrazione dell'imposta
assolta a monte. Ne consegue che il soggetto passivo che effettua attività che danno luogo a operazioni
esenti, si colloca nella medesima situazione del consumatore finale. Sotto il profilo degli adempimenti
formali, colui che pone in essere questo tipo di operazioni vi è tenuto alla stessa stregua di chi pone in
essere operazioni imponibili. Per quanto riguarda il relativo contenuto, la tipologia delle operazioni
esenti è molto ampia ed eterogenea e deve considerarsi tassativa, tra queste: le prestazioni di tipo
sanitario, educativo o di tipo finanziario.
• Operazioni irrilevanti (escluse/fuori campo IVA/non soggette): si tratta, in primo luogo, delle operazioni
che difettano di tutti e tre i requisiti richiesti dall’art. 1 (soggettivo, oggettivo, e/o territoriale). ES: il caso
di chi effettui occasionalmente attività di volantinaggio. Vi sono poi le operazioni escluse in senso
tecnico, indicate dall’art. 2 co.3. In ogni caso tali operazioni non prevedono né l’applicabilità del tributo,
né l’adempimento degli obblighi formali, né il diritto alla detrazione.
Ai sensi dell’art. 13 co.1, la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, è data
dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o al prestatore, secondo le condizioni
contrattuali, comprensivo di debiti o oneri verso terzi.
Secondo i commi 2 lett. d) e 3, la base imponibile è costituita dal valore normale quando il corrispettivo sia
costituito da un’altra cessione o prestazione.

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Per le cessioni gratuite di beni imponibili, per l’autoconsumo e per le assegnazioni ai soci: la base imponibile
si identifica nel prezzo di acquisto o di costo, coincidente con il valore residuo del bene al momento della
cessione, dell’autoconsumo o dell’assegnazione.
Le prestazioni accessorie concorrono a formare la base imponibile della cessione o prestazione principale se
ne seguono l’aliquota.
Ai sensi dell’art. 15, vi sono poi importi che non concorrono a formare la base imponibile, tra questi: le
somme dovute a titolo di risarcimento del danno, nonché a titolo di interessi moratori o di penalità per
ritardi o altre irregolarità nell’adempimento degli obblighi del cessionario o del committente.
L’aliquota ordinaria: è pari al 22%. Esiste poi un’aliquota super ridotta al 4% e due aliquote ridotte al 5% e al
10%.
Il binomio rivalsa-detrazione consente il funzionamento dell’imposta pluriclasse sul valore aggiunto. La
rivalsa e la detrazione sono disciplinate rispettivamente dagli artt. 18 e 19.
Secondo l’art. 18, il soggetto che effettua la prestazione di beni o la cessione di servizi deve addebitare la
relativa imposta a titolo di rivalsa al cessionario o al committente. La rivalsa è quindi lo strumento che attua
la traslazione dell’imposta; essa è poi strettamente collegata al meccanismo della detrazione: quando colui
che acquista beni o servizi opera nell’esercizio dell’impresa, arti o professioni.
La rivalsa è un dovere e un diritto allo stesso tempo: dovere, poiché è la legge a prevederne l’obbligo e la
nullità di ogni patto contrario; diritto, in quanto il credito di rivalsa attribuisce al cedente o al prestatore un
privilegio speciale sui beni immobili oggetto della cessione o della prestazione e un privilegio generale su
tutti i beni mobili del cessionario o committente.
Ai sensi dell’art. 19, per la determinazione dell’imposta dovuta, è detraibile dall’imposta sulle operazioni
effettuate (quindi dall’IVA sulle vendite o “a valle”), l’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui
addebitata a titolo di rivalsa, per i beni o servizi importati o acquistati nell’esercizio della propria attività di
impresa, arte o professione. Ciò vale anche per i beni importati.
La detrazione, quindi, consente al soggetto passivo (o debitore dell’imposta) di recuperare il tributo a lui
addebitato in via di rivalsa dal cedente o dal prestatore, consentendogli di non rimanere inciso dall’imposta.
Innanzitutto, l’imposta è detraibile solo se inerente all’esercizio delle attività svolte (nel senso che il bene o il
servizio acquistato deve essere collegato all’attività del soggetto passivo).
In secondo luogo, violazioni di carattere meramente formale, non possono pregiudicare il diritto ala
detrazione, purché però sussistano le condizioni per l’esercizio di tale detrazione.
L’imposta è detraibile dal cliente se addebitata sulle fatture di acquisto rilasciate dai fornitori di beni e
servizi, indipendentemente dall’avvenuto pagamento del relativo importo da parte del cliente stesso (credito
di rivalsa).
Analizziamo ora le regole sulla detraibilità, distinguendo tra: detraibilità iniziale e rettifica della detrazione
inizialmente operata.
Ai sensi dell’art. 19 co.1, il diritto alla detrazione sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile, ma
può essere esercitato sino alla presentazione della dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla
detrazione è sorto.
Vi sono poi dei casi in cui la detrazione non è ammessa, distinguibili in due categorie:
1. Ipotesi di indetraibilità oggettiva (art. 19-bis), per alcuni beni e servizi (ad ES: aeromobili, autovetture e
autoveicoli, navi, fabbricati a destinazione abitativa...) sono previste limitazioni (totali o parziali) al diritto di
detrazione, a meno che essi non formino oggetto dell’attività propria dell’impresa.
2. Ipotesi di indetraibilità soggettiva (art. 19 co.2), non è detraibile l’imposta riguardante l’acquisto o
l’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta.
In altri termini, il soggetto che effettua questa tipologia di operazioni non può portare in detrazione l’IVA
sugli acquisti su beni o servizi utilizzati per effettuarle.
Quindi, quando un soggetto compie esclusivamente operazioni esenti o non soggette all’imposta, il
problema non si pone, le problematiche si hanno, invece, quando un soggetto esercita
contemporaneamente attività esenti da un lato e attività imponibili o non soggette dall’altro (ma con diritto
a detrazione). Tale fattispecie però deve rimanere distinta da quella in cui un soggetto svolge un’attività che
origina operazioni con diritto a detrazione da un lato e operazioni esenti/non soggette, dall’altro.

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In tale caso (attività vs mere operazioni) opera l’indetraibilità.
Nel caso in cui vi siano contemporaneamente due attività (attività vs attività), la prima che origina operazioni
con diritto alla detrazione e la seconda che origina operazioni esenti o non soggette senza diritto a
detrazione, il legislatore adotta un metodo proporzionale: si prevede quindi una percentuale forfetaria di
detrazione calcolata su tutti gli acquisti e non soltanto su quelli utilizzati promiscuamente (è il cd. pro-rata
generale di detrazione). Non si distingue tra i vari acquisti quali siano riferibili all’una o all’altra attività, ma si
opera per masse —> attribuendo il diritto alla detrazione in una percentuale corrispondete al rapporto tra
l’ammontare delle operazioni effettuate nell’anno (che danno diritto alla detrazione) e lo stesso importo
aumentato dalle operazioni esenti effettuante nell’anno.
Tali regole riguardano la detrazione iniziale, ma può accadere che la detrazione inizialmente operata debba
essere successivamente rivista nel suo ammontare, dando luogo alla cd. rettifica della detrazione (art. 19-
bis2). È necessario distinguere il caso in cui la detrazione iniziale sia stata operata in base alle regole generali
(art. 19 co.1) o in modalità pro-rata (art. 19 co.5).
Nel caso di detrazione in base alle regole generali, va precisato che la detrazione iniziale spetta in relazione
all’uso del bene o del servizio oggettivamente prospettabile al momento dell’acquisto. Tuttavia, potrebbe
accadere che il bene o servizio sia utilizzato per effettuare operazioni che danno diritto alla detrazione in
misura diversa da quella inizialmente operata, dovendo pertanto procedere alla rettifica della detrazione.
ES: l’IVA relativa ad un determinato bene o servizio potrebbe essere stata interamente detratta, poi però
quel bene o servizio dev’essere impiegato per operazioni esenti da IVA (e viceversa).
In tal caso occorre distinguere tra:
1. Beni non ammortizzabili e servizi: bisogna guardare la prima utilizzazione dei beni o servizi —> che può
determinare una rettifica in aumento (qualora si sia detratto un importo inferiore a quello spettante) o in
diminuzione (se si è detratto un importo superiore a quello spettante).
2. Beni ammortizzabili: qui, il periodo di monitoraggio del diverso utilizzo è di 5 anni (10 per gli immobili)
riferiti all’anno di entrata in funzione e ai 4 successivi.
((Nel caso di detrazione operata in base al pro-rata: è necessario monitorare il coefficiente di detraibilità, sia
anche solo esclusivamente per i beni ammortizzabili e di provvedere alla rettifica in caso di sua variazione)).
Parliamo ora dei soggetti tenuti al pagamento dell’imposta: l’art. 17 indica i debitori dell’imposta come
soggetti passivi. In particolare, l’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le
prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’Erario, cumulativamente, per tutte le operazioni
effettuate e al netto della detrazione, prevista nell’art. 19.
Il comma 2, prevede che, nel caso di cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello
Stato da soggetti non residenti nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, i relativi
obblighi sono adempiuti dai cessionari o committenti. In altri termini, quando l’operazione si considera
effettuata in Italia ed è stato un soggetto estero a porla in essere, è il soggetto passivo cessionario o
committente residente che porrà in essere gli obblighi di fatturazione e versamento, escludendo così ogni
obbligo in capo al soggetto estero.
Vi è dunque un generalizzato obbligo di cd. “reverse charge” (o inversione contabile) per tutte le cessioni di
beni e tutte le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti nei
confronti di soggetti “stabiliti” in Italia, che si applica per tutte le operazioni rilevanti in Italia.
Più esattamente, il cessionario/committente:
- procederà ad emettere una “auto-fattura” nell’ipotesi in cui il fornitore di beni o servizi sia un soggetto
stabilito fuori dall’UE, che non ha specifici obblighi comuni di emissione della fattura imposti dalla direttiva
IVA e segue dunque le regole previste dallo Stato in cui è stabilito;
- procederà invece ad una “integrazione della fattura” nell’ipotesi in cui tale fornitore sia stabilito (non
semplicemente identificato) nella UE e dunque sia già tenuto ad emettere fattura.
Il successivo comma 3, dispone che nel caso in cui gli obblighi (fatturazione e versamento) o i diritti (ES: il
diritto al rimborso dell’imposta pagata) derivanti dall’applicazione delle norme IVA siano previsti a carico o a
favore di soggetti non residenti e senza stabile organizzazione in Italia, i medesimi sono esercitati
direttamente dagli stessi soggetti ovvero tramite un loro rappresentante fiscale.

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Le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano per le operazioni effettuate da o nei confronti di soggetti
non residenti, qualora le stesse siano rese o ricevute per il tramite di stabili organizzazioni nel territorio dello
Stato. A queste ipotesi si aggiungono anche quelle di “reverse charge” interno: e in questo contesto, il
“reverse charge” nasce dall’esistenza di frodi ai fini IVA nelle quali il fornitore, dopo aver addebitato l’IVA al
cliente, si sottrae nei modi più diversi al relativo versamento, restando tuttavia fermo il diritto alla
detrazione in capo al cessionario o al committente, salvo dimostrarne la malafede o il tacito consenso con il
fornitore. (cd. “frodi carosello”). In questo modo, lo Stato si trova dinanzi ad un suo debito senza aver mai
incassato la corrispondente IVA.
Per contrastare tale tipologia di frodi, si è pertanto esteso a talune operazioni e per determinati settori a
maggior rischio (ad ES: subappalti, fabbricati abitativi e strumentali) il meccanismo del “reverse charge”,
sulla base del quale il soggetto cedente non addebita l’IVA in fattura, non facendo pertanto sorgere alcun
suo debito nei confronti dell’Erario, ma emette fattura senza applicazione dell’imposta.
Il soggetto committente o cessionario riceve tale fattura senza indicazione dell’IVA e la integra con
l’indicazione dell’aliquota e della relativa imposta.
Infine, la legge 190/2014 ha introdotto l’articolo 17-ter con cui si prevede un nuovo meccanismo di
assolvimento dell’IVA per le operazioni nei confronti: delle Pubbliche Amministrazioni, le società controllate
da soggetti pubblici, gli enti di previdenza…quindi, in base al nuovo meccanismo, la società o l’ente
destinatari dell’operazione liquidano al fornitore il solo corrispettivo pattuito e versano l’IVA direttamente
all’Erario. È una modalità applicativa del tributo diversa dal “revenge charge”, poiché l’IVA è applicata dal
cedente o dal prestare, ma il suo versamento avviene da parte del cessionario o committente.
Sul soggetto passivo gravano numerosi adempimenti formali:
(1) Dichiarazione d’inizio attività: infatti, chi intraprende l’esercizio di un’impresa, arte o professione nel
territorio dello Stato deve presentare all’Agenzia delle entrate una dichiarazione di inizio attività, ricevendo
un numero di partita IVA, che lo identifica come soggetto passivo. Si tratta di una comunicazione che ha ad
oggetto i dati identificativi del contribuente, l’attività che intende svolgere, i luoghi in cui la intende
esercitare e il luogo dove è tenuta la contabilità. Deve essere effettuata entro 30 giorni dall’inizio dell’attività
utilizzando un modello approvato con provvedimento del Direttore generale dell’Agenzia delle entrate a
pena di nullità. Il modello dev’essere presentato direttamente all’Agenzia delle entrate oppure spedito per
posta. Effettuata tale comunicazione all’Agenzia delle entrate, al contribuente viene attribuito un numero di
partita IVA che diventa il numero identificativo del contribuente. Ogni volta che vi sia una modificazione
degli elementi dichiarati o in caso di cessazione dell’attività, occorre sempre presentare una dichiarazione (la
dichiarazione di variazione).
(2) Fatturazione: è il successivo adempimento, infatti, per ciascuna cessione o prestazione il soggetto che la
effettua deve emettere fattura, non oltre il momento di effettuazione, formando un documento in duplice
copia e consegnandone o spedendone una alla controparte. Non è pertanto sufficiente compilare la fattura,
in quanto la stessa deve essere consegnata o spedita all’altra parte. La fattura, datata e numerata
progressivamente, deve avere un determinato contenuto:
- le parti tra cui avviene l’operazione e relativi elementi identificativi;
- la natura, la qualità e la quantità dei beni ceduti;
- l’imponibile, l’aliquota e l’ammontare dell’imposta.
Tra le funzioni della fattura si configurano: la possibilità di documentare l’operazione, agevolare il controllo
da parte dell’Amministrazione finanziaria, nonché di esercitare la rivalsa e la detrazione dell’imposta.
Esistono casi in cui non è obbligatorio emettere fattura, salvo che non sia richiesta dal cliente, sempre non
oltre il momento di effettuazione dell’operazione.
La fattura va emessa al momento dell’effettuazione dell’operazione e dev’essere emessa in formato
elettronico nei confronti di tutte le Amministrazioni pubbliche.
Nel caso poi, che il cessionario/committente non riceva la fattura o questa sia irregolare (sotto il profilo
meramente formale e non sostanziale) esso è tenuto a regolarizzare la fattura mediante emissione di un
documento nuovo o integrativo di quello già emesso.
(3) Registrazione: le fatture devono poi essere registrate. Si distinguono, in particolare, tre registri: il registro
delle fatture, il registro dei corrispettivi e il registro degli acquisti (rispettivamente disciplinati agli artt. 23, 24

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e 25). Le fatture emesse devono essere annotate, entro 15 giorni, in un apposito registro (cd. registro “delle
vendite”), nell’ordine della loro numerazione. Secondo una recente giurisprudenza (2015) l’omessa
registrazione rappresenta una mera irregolarità formale, che non può pregiudicare il diritto alla distrazione.
(4) Liquidazione: annotate le operazioni, il contribuente può procedere alla liquidazione, intesa quale
determinazione della differenza tra l’IVA “a debito” (derivante dalle operazioni attive) e l’IVA a “credito”
(derivante dalle operazioni passive). Le liquidazioni avvengono con periodicità “mensile” o “trimestrale”.
(5) Dichiarazione annuale: Infine, il contribuente deve presentare la dichiarazione annuale. Essa si risolve in
un riepilogo degli adempimenti già eseguiti (liquidazioni e versamenti periodici) e nella liquidazione
definitiva, in relazione alle operazioni attive e passive effettuate nell’intero periodo d’imposta.
La dichiarazione annuale deve essere presentata e redatta a pena di nullità su un apposito modello
approvato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, da trasmettere in via telematica all’Agenzia delle
entrate. La dichiarazione annuale IVA è obbligatoria anche se non sono state effettuate operazioni
imponibili. È tuttavia esonerato chi abbia effettuato soltanto operazioni esenti o abbia optato per la dispensa
dagli obblighi di fatturazione e registrazione…sono altresì esonerati i contribuenti che si avvalgono del
regime forfetario, i soggetti domiciliati o residenti fuori dall’UE.
Infine, le Sezioni Unite (Cass. 17757/2016) hanno affermato che, nonostante l’omessa dichiarazione
annuale, il diritto alla detrazione dell’imposta pagata spetti comunque.

Capitolo Ventiquattro: i tributi locali.


L’art. 12 legge di delegazione 42/2009 fissa i criteri direttivi concernenti i tributi di competenza provinciale e
comunale, prevedendo che:
a) È la legge statale ad individuare i tributi propri delle Province e Comuni, definendone (in rispetto alla
riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.) i presupposti, i soggetti passivi e le basi imponibili + fissando il
limite minimo e massimo dell’aliquota;
b) Il finanziamento delle spese delle Province deve avvenire principalmente attraverso il gettito derivante
dai tributi; mentre, per quanto concerne i Comuni, il finanziamento delle loro spese deve avvenire
principalmente attraverso una compartecipazione all’IVA e/o all’IRPEF, nonché dall’imposizione
immobiliare, con esclusione della tassazione patrimoniale sull’abitazione principale;
c) Le Regioni possono istituire nuovi tributi per gli enti locali minori, specificando gli ambiti di autonomia di
questi ultimi;
d) Gli enti locali, entro i limiti fissati dalla lettera a), hanno il potere di introdurre agevolazioni o di incidere
sull’aliquota.
L’attuazione di questa legge delega (avvenuta con i d.lgs. 23/2011 e 68/2011) ha comportato l’introduzione
di numerose modifiche significative. Il d.lgs. 68/2011 ha previsto poi la revisione dell’imposta di trascrizione,
iscrizione e annotazione dei veicoli nel Pubblico Registro Automobilistico prevedendo l’obbligo del Governo
di promuoverne il riordino con il disegno di legge di stabilità. Sul versante dei tributi comunali, invece, i
principi della legge delega 42/2009 sono stati attuati dal d.lgs. 23/2011 le cui previsioni hanno tuttavia
subito numerose modifiche. Originariamente, il nuovo modello di finanza locale doveva essere incentrato
per lo più sull’introduzione di tre nuove forme di imposizione municipale (volte a sostituire le molteplici
fattispecie impositive esistenti): i) IMU (imposta municipale propria), come tributo di natura patrimoniale in
sostituzione dell’ICI; ii) imposta municipale secondaria, tributo concepito per inglobare e sostituire i
precedenti prelievi comunali sulla pubblicità e occupazione di spazi e aree pubbliche; iii) TARES, quale
tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, in sostituzione di tutti i previgenti prelievi relativi alla gestione dei
rifiuti.
In seguito anche alla crisi economica, il quadro summenzionato ha subito sostanziali modifiche: i) IMU,
doveva avere concreta applicazione solo a decorrere dal 2014, ma è stata anticipata al 2012 con una
versione “sperimentale”; ii) l’imposta municipale secondaria non ha mai trovato concreta applicazione; iii)
TARES è stata soppressa nel 2013; iv) la modifica più incisiva però è quella relativa all’introduzione (nel
2013) di un nuovo tributo: l’IUC (imposta comunale unica).
Partiamo dall’analisi dell’IUC: innanzitutto la sua struttura è parecchio complessa e dovuta alla compresenza
di due presupposti impositivi tra loro non coincidenti. Il primo è rappresentato dal possesso di immobili ed è

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collegato alla loro natura e valore (IMU), il secondo invece è collegato all’erogazione e alla fruizione di servizi
comunali (TASI). In verità, come sottolineato da autorevole dottrina, la struttura del tributo sarebbe triplice,
in quanto composta da: i) IMU, quale tributo di natura patrimoniale dovuto dal possessore di immobili (con
esclusione delle abitazioni principali); ii) TASI, tributo per i servizi indivisibili erogati dal Comune e a carico
degli utilizzatori o possessori di immobili; iii) TARI, tassa sui rifiuti, dovuta dagli utilizzatori degli immobili e
destinata a coprire i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti.

➢ IMU. Imposta municipale unica.


Per quanto concerne il presupposto impositivo, ai sensi dell’art. 1 co.639 L. 147/2013 è rappresentato dal
possesso di immobili (diversi dalle abitazioni principali) siti in Italia, in quanto ritenuto indice di capacità
contributiva. È doveroso effettuare due precisazioni: la prima, relativa al concetto di “possesso” da
assumersi ai fini della relativa imposta e la seconda, relativa alle possibili specificazioni che devono
possedere gli immobili per poter essere assunti a base dell’imposizione. Il “possesso” rilevante ai fini IMU
non è solo quello ex art. 1140 cc. (“Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività
corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per
mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”) bensì dev’essere inteso quale riassunto di
situazioni giuridiche a carattere eterogeneo che comportano una sorta di supremazia del soggetto passivo
rispetto al bene in questione. Inoltre, ai fini IMU, non vi è alcuna limitazione in ordine all’impiego o al tipo di
immobili il cui possesso comporta tassazione, con la conseguenza di rendere tassabili anche i terreni né
coltivati né edificabili. Tutto questo premesso, l’art. 13 co.2 d.l. 201/2011 rinvia espressamente alle
definizioni di:
- terreno agricolo —> deve intendersi quel terreno adibito all’espletamento delle attività agro-silvo-pastorali
indicate dall’art. 2135cc.
- area fabbricabile —> deve intendersi quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti
urbanistici generali e a prescindere dalla concreta edificabilità dell’area;
- fabbricato —> deve intendersi ogni unità immobiliare iscritta o da iscrivere nel catasto dei fabbricati e le
relative pertinenze, inclusi i fabbricati strumentali all’attività di impresa.
Tali definizioni assumono dunque rilievo ai fini del calcolo della base imponibile, la quale è costituita dal
valore dell’immobile, determinato ai sensi dell’art. 13 co.3 e ss. d.l. 201/2011:
- per i terreni agricoli —> il valore è rappresentato dal reddito dominicale, così come risultante in catasto;
- per le aree fabbricabili —> il valore è quello previsto in commercio alla data del 1 gennaio dell’anno di
imposizione;
- per i fabbricati —> il valore è determinato muovendo dalla rendita catastale vigente al 1 gennaio dell’anno
di imposizione.
Per quanto concerne le aliquote, l’art. 13 ne prevede due (ridotta e ordinaria), a seconda che si tratti
(rispettivamente) di abitazione principale non esente o di altro immobile:
1- aliquota ordinaria: è fissata allo 0.76% variabile, in aumento o in diminuzione, dal Consiglio comunale.
2- aliquota ridotta: limitata ai soli casi in cui le abitazioni principali non siano esenti dall’imposta ed è fissata
nella misura dello 0.4%.
Il tributo è dovuto per anni solari, in proporzione alla quota e ai mesi di possesso di ciascun cespite e
dev’essere versato in due rate di pari importo, entro le scadenze (16 giugno e 16 dicembre di ogni anno),
fatta salva la possibilità per il contribuente di procedere al pagamento in un’unica soluzione.
L’art. 13 poi pone un obbligo dichiarativo in capo ai soggetti passivi tutte le volte in cui questi entrino in
possesso di un immobile —> da assolvere con apposita dichiarazione di inizio possesso. Tale dichiarazione
esplica i propri effetti anche per gli anni successivi senza necessità di rinnovazione.
Passando ora al tema dei soggetti passivi, ai sensi dell’art. 9 d.lgs. 23/2011, questi devono essere individuati
nel proprietario o nel titolare reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi e superficie; in caso poi di
concessione di aree demaniali, il concessionario; in caso di leasing, il locatario finanziario dalla data di stipula
del contratto, anche nel caso in cui l’immobile sia ancora da costruire o in corso di costruzione.
Esistono poi molteplici esenzioni ai fini dell’imposta: a) le abitazioni principali, nonché le pertinenze delle
stesse; b) i fabbricati rurali a uso strumentale; c) i terreni agricoli.

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È possibile definire l’IMU come imposta patrimoniale (in quanto tale presupposto, per via del possesso, è
pacificamente presente), speciale (perché gravante solo su alcuni tipi di beni) e ordinaria (dovuta per anni
solari).

➢ TASI. Tassa sui servizi indivisibili.


L’art. 1 co.669 e ss. L. 147/2013 la definisce quale tributo per i servizi indivisibili.
Il presupposto del tributo è il possesso o la detenzione, a qualsiasi titolo, di fabbricati o di aree fabbricabili,
per l’individuazione delle quali valgono le stesse categorie definitorie previste per l’IMU. Rimangono invece
esenti dall’imposta i terreni agricoli e le abitazioni principali.
Il soggetto passivo dell’imposta è chiunque integri il possesso o la detenzione, sicché sono considerati tali
tanto il possessore, quanto l’utilizzatore dell’immobile. Nel caso poi di più soggetti possessori o detentori, vi
sarà un’unica obbligazione con vincolo di solidarietà. Se invece il detentore è diverso dal titolare del diritto
reale, sussistono due obbligazioni autonome e distinte: il detentore dovrà il tributo nella misura stabilita dai
regolamenti comunali (compresa tra il 10% e il 30% dell’imposta totale), mentre la parte restante sarà
dovuta dal titolare del diritto reale. La TASI prende dall’IMU sia gli aspetti applicativi (quali: gli obblighi
dichiarativi e quelli di versamento) sia la relativa base imponibile, alla quale poi dovrà essere applicata
l’aliquota dell’uno per mille. Infine, la L. 147/2013 rimette ai Comuni l’onere di individuare analiticamente i
servizi indivisibili posti a base dell’imposizione e al tempo stesso non prevede la non debenza del tributo
finche tale determinazione non è effettuata. Perciò, la TASI risulta comunque dovuta al semplice verificarsi
del presupposto impositivo, inoltre, è da inquadrare in una forma di imposizione di tipo contributivo.

➢ TARI. Tassa sui rifiuti.


Disciplinata dall’art. 1 co.641 e ss. L. 147/2013. Si tratta di una forma di prelievo a copertura del costo dei
servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, il cui presupposto impositivo è correlato non tanto
all’effettivo utilizzo del servizio di smaltimento/raccolta, quanto piuttosto all’occupazione degli immobili,
criterio ritenuto idoneo e sufficiente a misurare i rifiuti prodotti dai potenziali beneficiari del servizio
medesimo. Quindi, il presupposto impositivo è il possesso o detenzione (a qualsiasi titolo) di locali o aree
scoperti, suscettibili di produrre rifiuti urbani, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie ai
locali tassabili. Allo stesso modo, i soggetti passivi sono individuati nel possessore o detentore dei predetti
locali o aree scoperte. In caso di pluralità di possessori o detentori, vale la stessa regola prevista per la TASI:
sicché vi sarà una solidarietà nel vincolo per l’adempimento dell’unica obbligazione tributaria. L’unica
eccezione a questa regola si rinviene nel caso in cui l’arco temporale durante il quale si realizza la detenzione
sia inferiore ai sei mesi nel corso dell’anno solare, in questo caso la TARI sarà dovuta solo dal possessore.
Per quanto riguarda la sua natura giuridica: la debenza della tassa è correlata al ricorrere di due semplici
condizioni: i) alla mera preparazione da parte del Comune del servizio di gestione dei rifiuti; ii) al possesso o
detenzione dei beni immobili, indice di astratta fruibilità del servizio.
Per quanto riguarda la base imponibile, è costituita dalla superficie calpestabile dei locali e aree tassabili,
dichiarate o accertate ai fini dei previgenti prelievi (TARSU, TIA, TARES…) sui rifiuti. Esclusi dall’applicazione
del tributo sono tutti quegli immobili che producono, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali al cui
smaltimento sono tenuti, a proprie spese, i produttori.
Infine, la TARI, è dovuta sulla base di una tariffa annuale determinata, su scelta discrezionale del Comune,
sulla base di uno dei seguenti metodi: 1) il Comune può determinare la tariffa, tenendo conto del costo
normalizzato; 2) nel rispetto del principio europeo: “chi inquina, paga”, il Comune può commisurare la tariffa
alle quantità e qualità medie dei rifiuti prodotti per unità di superficie. In ogni caso, a prescindere dal
metodo utilizzato, la tariffa dev’essere commisurata in modo da assicurare la copertura integrale dei costi
d’investimento e di esercizio, compresi quelli di smaltimento, restando così esclusi solamente i costi relativi
ai rifiuti speciali. Nella modulazione della tariffa, sono poi previste particolari riduzioni: riduzione legale, è il
caso in cui o il servizio di gestione dei rifiuti sia effettuato in grave violazione della disciplina di riferimento
oppure gli immobili siano siti in zone ove non è effettuata alcuna raccolta (nel primo caso: non potrà essere
preteso più del 20% della tariffa, mentre nel secondo non potrà essere preteso più del 40% della stessa). Per
quanto concerne poi la riduzione opzionale, è fatta salva la possibilità del Comune di provvedere, con

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proprio regolamento a riduzioni ed esenzioni per le abitazioni con unico occupante e per le altre ipotesi
previste dall’art. 1 co.659 L. 147/2013. È rimessa, infine, ai Comuni la scelta di stabilire le scadenze per il
pagamento.

➢ I prelievi comunali sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni.


Esiste un’imposta comunale sulle pubblicità, la quale ha per presupposto la diffusione di messaggi
pubblicitari tramite forme di comunicazione visiva o acustica, diverse da quelle previste per la pubblica
affissione. La base imponibile di questo prelievo è commisurata sulla base di una serie di fattori: la
dimensione del mezzo pubblicitario, la classe del Comune considerato, la sua popolosità…
Il soggetto passivo dell’imposta è chi dispone, a qualsiasi titolo, del mezzo di diffusione; è poi prevista una
solidarietà nel vincolo di tipo dipendente, per chi produce, vende o fornisce i servizi/beni pubblicizzati. Per
quanto concerne gli aspetti applicativi, l’imposta è applicata in base ad una dichiarazione presentata dal
soggetto passivo, prima dell’inizio dell’attività pubblicitaria.
Esiste poi il diritto sulle pubbliche affissioni, il quale è ricollegato alla fruizione (da parte del soggetto) del
relativo servizio comunale di affissione negli appositi impianti delle comunicazioni, aventi la finalità
istituzionali, sociali o anche prive di rilevanza economica oppure il contrario. Per quel che concerne la natura
giuridica, il presupposto impositivo è da ricollegare non tanto all’uso degli spazi riservati alle affissioni o
all’eventuale carattere pubblicitario del messaggio, quanto piuttosto allo sfruttamento del servizio comunale
ed è per questo che emergono i caratteri tipici dell’imposta. Quindi, la tassa è dovuta in solido da chi chiede
il servizio e dal soggetto nel cui interesse il servizio è reso.
➢ Tassa e canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche. TOSAP.
Il prelievo ha come presupposto l’occupazione di uno spazio del suolo pubblico in ragione del beneficio che
ne deriva al soggetto passivo. Il tributo è dovuto dal titolare dell’atto di concessione ovvero dall’occupante di
fatto (anche se abusivo) ed è applicato in funzione di tariffe predeterminate in base all’importanza e
all’estensione dell’area occupata. Si rimette comunque alla scelta dei Comuni e Province se applicare questa
tassa.

➢ IRAP. Imposta regionale sulle attività produttive.


È stata introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della riforma sulla tassazione delle imprese,
delineata dall’art. 3 co.143 e ss. Legge delega 662/1996. In particolare, l’IRAP nasce con la finalità di
risolvere o attenuare, i profili di complicatezza, accertamento ed eccessività del numero dei tributi previsti
nel sistema fiscale vigente negli anni Novanta.
Si tratta dunque di un tributo decentrato, gravante esclusivamente sulla produzione, con una base
imponibile molto ampia, un’aliquota ordinaria relativamente contenuta e che ha sostituito un gran numero
di tributi. Tra gli obiettivi perseguiti con la sua introduzione vi era anche quello di attribuire alle Regioni
un’imposta dal gettito significativo e almeno in parte modulabile. Nonostante però l’attribuzione del gettito
alle Regioni, la giurisprudenza costituzionale (2003) ha tuttavia negato che l’IRAP potesse qualificarsi come
tributo proprio delle Regioni. È solamente con la legge 244/2007 che l’IRAP assume natura di tributo
regionale proprio (in senso ampio). Tuttavia, la disciplina dell’IRAP rimane statale e alle Regioni non è
consentito modificare né la base imponibile né i soggetti passivi, né tantomeno il presupposto del tributo. Le
Regioni possono dunque intervenire solo sulle aliquote e disciplinare detrazioni e deduzioni + introdurre
agevolazioni ed esenzioni, il tutto ovviamente nei limiti fissati dal legislatore.
Si tratta di un’imposta sul business e ricade sui redditi percepiti da tutti gli individui (imprenditori, lavoratori,
finanziatori) che contribuiscono allo svolgimento dell’attività produttiva.
Per quanto riguarda il presupposto, è individuato nell’esercizio abituale di un’attività autonomamente
organizzata e diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. In questo
ambito, il tratto distintivo si rinviene sicuramente nel riferimento “all’attività autonomamente organizzata”,
da cui si evince la necessità di stabilità e programmazione dell’attività stessa, nonché l’esclusione
dall’applicazione del tributo di chi svolta un’attività che confluisce in un’organizzazione altrui.
L’art. 3 d.lgs. 446/1997 include tra i soggetti passivi: gli imprenditori individuali, gli esercenti arti e
professioni in forma individuale o associata, le società di persone e di capitali, gli enti non residenti e gli enti

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non commerciali e le amministrazioni pubbliche (comprese le amministrazioni dello Stato, gli enti territoriali
e gli enti locali). Sono invece espressamente ESCLUSI; i fondi comuni di investimenti mobiliari, i fondi comuni
di investimenti immobiliari, i fondi pensione, i soggetti operanti nel settore agricolo (ai sensi dell’art. 32
TUIR). Inoltre, per aversi “autonoma organizzazione” è necessaria l’esistenza di un apparato organizzativo
(autonomo e distinto rispetto alla persona del titolare), formato da beni strumentali significativi ovvero da
lavoro altrui.
La base imponibile è costituita dal valore della produzione netta, derivante dall’attività produttiva svolta in
ogni Regione; nel regime attuale la determinazione dei componenti della base imponibile IRAP si discosta da
quella propria delle imposte sui redditi e per i soggetti passivi maggiormente rilevanti vale il principio di
derivazione diretta della base imponibile IRAP dal conto economico dell’esercizio. Il riferimento è in
particolare alle società di capitali e agli enti commerciali, i cui componenti positivi e negativi del valore della
produzione netta sono individuati con riferimento ad alcune voci del conto economico; diversamente, per gli
imprenditori individuali e i lavoratori autonomi, i componenti del valore della produzione si assumono
avendo riguardo alle regole previste per la determinazione del reddito di impresa e alle risultanze della
dichiarazione dei redditi.
Per quanto riguarda le deduzioni, è prevista una deduzione dei contributi assistenziali e previdenziali relativi
a lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, delle spese relative agli apprendisti/disabili, delle spese per il
personale assunto con contratti di formazione del lavoro, delle indennità di trasferta…
Tornando alla base imponibile, occorre distinguere la disciplina propria delle società di capitali e degli enti
commerciali da quella delle società personali e imprese individuali, da quella ancora applicabile alle banche,
agli enti finanziari e alle imprese di assicurazione.
Quanto alle società di capitali e agli enti commerciali —> il valore della produzione netta risulta dalla
differenza tra il valore e i costi della produzione, con l’esclusione delle spese per il personale dipendente.
Il regime proprio delle società di capitali e degli enti commerciali può essere applicato anche dalle società di
persone e dagli imprenditori individuali, purché essi si trovino in regime di contabilità ordinaria.
Per le attività bancarie, finanziarie e assicurative, il legislatore ha previsto che la loro base imponibile venga
determinata diversamente, infatti, per le stesse il valore della produzione è dato dalla differenza tra gli
interessi attivi e quelli passivi, voci che invece sono irrilevanti per gli altri soggetti.
Quanto ai soggetti che non svolgono attività commerciali, assumono rilievo gli esercenti arti e professioni,
per i quali la base imponibile è costituita dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e
l’ammontare dei costi sostenuti, in relazione all’attività esercitata, compresi gli ammortamenti ed esclusi gli
interessi passivi + le spese per il personale dipendente.
Inoltre, dato che il presupposto dell’IRAP è costituito dall’esercizio dell’attività nel territorio regionale, nel
caso in cui un’attività venga esercitata in due o più Regioni, occorre procedere alla ripartizione del gettito. La
territorialità dell’IRAP rileva anche con riferimento ai soggetti passivi residenti in Italia e che esercitino
attività produttive all’estero: in tal caso la quota del valore della produzione dell’attività svolta all’estero non
è assoggettabile a tassazione e dovrà essere scomputati dal totale del valore della produzione imponibile in
Italia.
L’aliquota IRAP è attualmente pari al 3.9%, tuttavia le singole Regioni possono variarla in aumento o in
diminuzione. Le funzioni di liquidazione, accertamento e riscossione sono affidate all’Agenzia delle entrate.

➢ L’imposta di registro.
Attualmente è disciplinata dal d.p.r. 131/1986 (TUR), nasce originariamente come tassa per il privato a
fronte di un servizio pubblico consistente nella registrazione dell’atto. Successivamente è stato considerato
un prelievo, venendo ad assumere i caratteri dell’imposta. Infatti, il presupposto impositivo è rappresentato
non più dal servizio reso dalla pubblica autorità quanto più dalla formazione di un atto produttivo di effetti
giuridici ritenuti rilevanti dal legislatore, poiché espressione di ricchezza e quindi rilevatore di forza
economica. L’imposta di registro si colloca, dunque, tra le imposte indirette, poiché assoggetta ad
imposizione le manifestazioni indirette di capacità contributiva.
L’art. 1 TUR individua l’oggetto dell’imposta (il suo presupposto) negli atti soggetti a registrazione e in
volontariamente presentati per la registrazione. Il presupposto dell’imposta si identifica nel compimento di

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un’attività giuridica, documentata per iscritto ovvero (nei casi previsti dalla legge) anche verbale. L’atto
quindi viene in rilievo ai fini del tributo non in quanto tale, bensì in quanto produttivo di effetti giuridici
ritenuti rilevanti dal legislatore tributario. A tale principio generale fa eccezione l’ipotesi della registrazione
volontaria dell’atto, ossia il caso in cui essa non sia prescritta dalla legge. In tale ipotesi, il tributo di registro
assume come presupposto non la formazione dell’atto (produttivo di effetti giuridici), quanto la richiesta
della prestazione del servizio amministrativo di registrazione.
Il regime fiscale del tributo di registro, dunque, va determinato tenendo conto dell’effettiva sostanza
giuridica emergente dal contenuto dell’atto medesimo, indipendentemente dal nome iuris attribuito allo
stesso dalle parti. Inoltre, qualora in un solo documento siano contenuti una pluralità di atti giuridici,
l’imposta si applica distintamente in relazione a ciascun atto.
Per quanto riguarda gli atti rilevanti ai fini dell’imposta di registro, è possibile suddividerli in tre categorie:
(1) gli atti soggetti a registrazione in termine fisso —> comprende quegli atti che sono soggetti a
registrazione entro un determinato arco di tempo (solitamente 20-60 giorni);
(2) gli atti soggetti a registrazione in caso d’uso —> viene utilizzata quando un atto si deposita, per
essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell’espletamento di attività amministrative
o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali…affinché però si configuri il
caso d’uso, è necessario che non vi sia un obbligo di deposito dell’atto e che il deposito sia quindi
funzionale allo svolgimento di un’attività amministrativa;
(3) gli atti non soggetti a registrazione, ma per i quali può essere sempre chiesta la registrazione
volontaria.
Sempre in tema di individuazione del presupposto impositivo, è importante anche la fattispecie
dell’enunciazione, ossia il caso in cui un atto (definito “enunciante”) faccia espresso riferimento ad un altro
atto (definito “enunciato”), anteriore al primo. L’imposta dunque si applica anche alle disposizioni enunciate,
se l’atto enunciato era soggetto a registrazione in termine fisso, è dovuta anche la pena pecuniaria di cui
all’art. 69 TUR (art. 22 TUR).
Per quanto attiene ai contratti verbali, si applicano le disposizioni previste dall’art. 22 TUR. Tale articolo
trova applicazione anche per le enunciazioni di atti scritti, prevedendo che in caso di atti scritti per i quali era
prevista la registrazione in termine fisso, si applichi una sanzione pecuniaria.
Il principio dell’enunciazione, sembra doversi escludere per gli altri atti per i quali non vi è l’obbligo di
chiedere la registrazione.
Ulteriore presupposto dell’imposta di registro è il requisito della territorialità, ai sensi dell’art. 2 co.1 lett. a)
TUR, l’imposta di registro si applica agli atti scritti a contenuto patrimoniale che siano formati nel territorio
dello Stato. A tale regola generale sono previste poi delle eccezioni, in particolare, sono soggetti all’imposta
di registro: i) i contratti verbali ai quali l’imposta si applica indipendentemente dal luogo nel quale essi sono
formati; ii) le operazioni di società e enti esteri, alle quali l’imposta si applica indipendentemente dal luogo in
cui esse sono decise; iii) i contratti, che nonostante non siano stipulati in Italia, hanno l’effetto del
trasferimento della proprietà o costituzione/trasferimento di altri diritti reali (anche di garanzia su beni
immobili o aziende esistenti nel territorio dello Stato); iv) i contratti, che seppur non stipulati in Italia, hanno
per oggetto la locazione o l’affitto di immobili o aziende situate in Italia. Al di là di queste eccezioni: qualora
l’atto giuridico sia stipulato al di fuori dei confini nazionali viene meno il presupposto impositivo essenziale ai
fini dell’applicazione del tributo, ossia quello della territorialità.
Gli artt. 10 e 57 TUR, distinguono i soggetti obbligati a chiedere la registrazione e quelli che sono tenuti al
pagamento dell’imposta. Insomma, non sempre i soggetti tenuti a richiedere al registrazione di un atto sono
anche coloro che sono obbligati al pagamento del tributo. Tale coincidenza si realizza per quegli atti per i
quali non è prevista (ai fini della loro formazione) la partecipazione dei pubblici ufficiali (notaio) —> si tratta
di scritture private non autenticate, dei contratti verbali e degli atti formati al di fuori del territorio dello
Stato. In tali ipotesi, i soggetti che hanno stipulato l’atto sono tenuti a chiederne la registrazione e a pagare
l’imposta in sede di registrazione. Per contro, relativamente agli atti pubblici e alle scritture private
autenticate, la coincidenza tra soggetto tenuto alla registrazione e al pagamento dell’imposta è solo parziale,
in quanto, l’obbligo di registrazione dell’atto spetta al notaio o ai pubblici ufficiali che hanno redatto o

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autenticato l’atto. Per giunta, costoro risponderanno in solido con le parti stipulanti l’atto, ma non per le
imposte suppletive e complementari.
Esistono poi soggetti sui quali grava esclusivamente l’obbligo di chiedere la registrazione dell’atto, senza
alcun coinvolgimento sul piano del pagamento dell’imposta, sono: i cancellieri e i segretari degli organi
giurisdizionali, gli impiegati degli uffici dell’Amministrazione finanziaria…
In linea generale, la base imponibile dell’imposta di registro è data dal valore dei beni e diritti oggetto
dell’atto registrato. Solitamente, si utilizza come valore dei beni o dei diritti, quello dichiarato dalle parti
nell’atto o (in mancanza o se superiore) il corrispettivo pattuito per l’intera durata del contratto. Una deroga
è data dai beni immobili e dalle aziende, per i quali si assume il valore venale in commercio;
conseguentemente, l’ufficio potrà esprimere un giudizio di congruità in ordine al valore dichiarato dalle parti
o procedere alla rettifica. Una volta determinata la base imponibile, l’imposta di registro si applica in misura
proporzionale (qui il tributo è quantificato applicato alla base imponibile la percentuale indicata) o in misura
fissa (qui, l’imposta, indipendentemente dal valore dei beni o dei diritti oggetto dell’atto, si applica in una
cifra predeterminata dalla legge).

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