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Riassunto Economia Politica di Sergio Alessandrini,


Francesco Passarelli
Economia politica (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)

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1 | Il sistema economico: i soggetti e le interdipendenze


Il sistema economico

Il sistema economico è definito da un insieme di istituti che regolano i rapporti economici tra i diversi soggetti
della società; tali rapporti alla loro base hanno uno scambio tra individui e soggetti giuridici. L’individuo neces-
sita di soddisfare bisogni di vario genere mediante l’utilizzo di risorse disponibili. Tuttavia, tali risorse sono di-
sponibili in quantità limitata, quindi esse possono essere definite beni economici, ossia sono utili (soddisfano un
bisogno) e scarsi. L’altro soggetto, solitamente un’impresa, trasforma le risorse impiegando fattori produttivi e
tecnologie per soddisfare i bisogni dei consumatori.
L’economia ha il compito di spiegare il comportamento degli individui, ossia dei consumatori, di come essi rag-
giungano la soddisfazione dei propri bisogni in presenza di risorse scarse.

La teoria economica

Gli economisti si dedicano allo studio delle loro discipline mediante l’applicazione del metodo scientifico, cioè
mediante la formulazione e la verifica di teorie sul funzionamento dei consumi, della produzione e della distri-
buzione della ricchezza. In questo processo una funzione importante è rappresentata dall’uso di modelli, ossia
grafici ed equazioni, nei quali si individuano le variabili, ossia grandezze che possono assumere diversi valori e
possono essere misurate in termini monetari o reali (unità o quantità). In un modello economico si individuano
due tipologie di variabili: le variabili endogene, cioè quelle che vengono spiegate dalla teoria, e quelle esogene,
riferite a fattori estranei alla teoria e
che influenzano le variabili endogene.
Le ipotesi sono un’altra componente
del modello economico, fondamentali
e che possono assumere diverse for-
me, ad esempio le più importanti sono
quelle che definiscono i comporta-
menti dei soggetti economici.
Fondamentale nell’analisi economica
è la presa in considerazione del mer-
cato, ossia l’incontro tra la domanda
dei consumatori e l’offerta delle im-
prese, anche se queste ultime possono
domandare i c.d. beni intermedi ne-
cessari per proseguire con il processo
produttivo.

Un modello economico aggregato: il


flusso circolare dei beni e del reddito

Il metodo più semplice ed immediato nel descrivere il sistema economico è quello di immaginare la relazione tra
famiglie ed imprese per poter analizzare il flusso circolare dei beni e del reddito. Vi sono due tipologie di flus-
si:

● Flusso monetario costituito dal valore dei beni/servizi o dai salari e stipendi dei dipendenti, espressi in
unità monetarie, così da renderli confrontabili con la spesa delle famiglie;
● Flusso reale, ossia i beni e servizi espressi in quantità fisiche.

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3 | Le scelte del consumatore


La composizione della spesa

Il primo passo dell’analisi economica è la costruzione del lato della domanda, concentrandosi sull’importanza
delle scelte del consumatore all’interno del sistema economico. Il consumatore può disporre di una qualsiasi
combinazione di quantità differenti di diversi beni, ossia un paniere.

Spesa e allocazione: il vincolo di bilancio

Supponendo che il consumatore acquisti nel corso di un determinato periodo di tempo una quantità data di due
beni x e y, ci si vuole chiedere quanto egli abbia effettivamente speso. Conoscendo il prezzo dei due beni, è pos-
sibile determinare il reddito speso, indicato con R, tramite la seguente formula: 𝑅 = 𝑝𝑥 ⋅ 𝑥 + 𝑝𝑦 ⋅ 𝑦. Applicando
tale formula denominata vincolo di bilancio a diversi panieri, potrebbe accadere che la quantità di reddito speso
sia la stessa. La formula Spesa = Reddito può essere riscritta in termini più espliciti, ossia:

𝑅 𝑝𝑥
𝑦= − 𝑥
𝑝𝑦 𝑝𝑦
Tale formula in modo esplicito indica:

𝑅
● : l’intercetta sulle ordinate, ossia il massimo del consu-
𝑝𝑦
mo del bene y se non si consuma nulla del bene x (reddito
reale);
𝑝𝑥
● : rappresenta l’inclinazione, ossia il prezzo relativo; ciò
𝑝𝑦
significa che se si volesse aumentare il consumo del bene x
si dovrebbe contrarre il consumo del bene y a parità di red-
dito.
La retta di bilancio, quindi, raccoglie tutti i punti che rappresenta-
no la medesima spesa.

Potrebbe accadere, tuttavia, che il reddito monetario disponibile dal consumatore raddoppi: in questo caso si ve-
rifica uno spostamento della retta verso l’alto, raddoppiando la distanza rispetto alla posizione precedente. Un
altro caso di modificazione della retta si ha nel caso in cui si verifichi una variazione dell’inclinazione, causata
dalla variazione di uno o di entrambi i prezzi dei beni presi in oggetto. In questo caso si verifica un cambiamen-
to del prezzo relativo, del rapporto dei relativi prezzi che causa, infatti, una variazione dell’inclinazione.

La struttura delle preferenze

Fino a questo punto sono stati presi in considerazione soltanto due tipologie di beni. C’è da osservare, tuttavia,
che il consumatore viene coinvolto sempre più spesso nella scelta di panieri ben più complessi, spesso riferibili
a diverse alternative di spesa. Il vincolo di bilancio rappresenta una parte del modello: vengono identificati tutti i
possibili panieri acquistabili con un determinato budget, tuttavia non si è in grado di dire quale possa essere il
paniere preferito.
Si necessita, quindi, di illustrare i gusti del consumatore mediante le curve di indifferenza. Dimostrare le prefe-
renze del consumatore tramite un modello non è affatto semplice, in quanto si tratta di un concetto con implica-
zioni di natura psicologica, pertanto è possibile fornire varie ipotesi che possano rendere possibile la realizza-
zione di tale modello:

1) La non sazietà, in quanto il consumatore preferisce sempre avere maggiori quantità di un determinato
bene, ciò significa che tra due panieri sceglierà quello con quantità maggiore di un determinato bene.

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Nel grafico, quando ci si sposta in verticale, in orizzontale o in alto a destra, si è sicuri di incontrare
sempre panieri preferiti dal consumatore;
2) La totale capacità di confronto, secondo cui il consumatore è sempre in grado di dire se tra i due pa-
nieri è indifferente o ha una preferenza per uno dei due, dimostrando che egli è in grado di saper colle-
gare fenomeni di vario genere;
3) La transitività delle scelte, secondo la quale il consumatore, ipotizzando vi siano tre panieri A, B e C,
è sempre in grado di ordinare per grado di soddisfazione tali panieri.
Dopo aver imposto tali ipotesi si sa di avere a che fare con un consuma-
tore che è in grado di identificare l’insieme dei panieri perfetti, ossia
quelli che offrono ad egli una maggior soddisfazione, l’insieme dei pa-
nieri che offrono meno soddisfazione e quelli che offrono la medesima
utilità.

In tale figura è facilmente


dimostrabile che il consu-
matore potrà preferire pa-
nieri identificabili nel pun-
to c rispetto ad a, ritenen-
do invece quest’ultimo
maggiormente favorevole
rispetto a b.

Si identificano, quindi, va-


rie regioni:

● Regione preferita (punto c): il consumatore preferisce i


punti in tale regione rispetto a tutti gli altri, ciò significa
che il punto a non sarà mai preferito rispetto ad un punto della regione preferita;
● Regione dominata (punto b): il consumatore non preferisce
i punti in tale regione, ciò significa che il punto a sarà sem-
pre preferito rispetto ad un punto della regione dominata;
● Regione rappresentata dai punti d, e che contengono più di
un bene, ma meno di un altro rispetto al punto a.
Date tali premesse, è possibile risalire alla c.d. curva di indifferenza,
ossia un luogo di punti che rappresentano panieri che procurano al
consumatore il medesimo grado di soddisfazione e nei confronti dei
quali egli si dichiara indifferente. Ora è necessario individuare quali
siano le caratteristiche di tali curve:

a) Inclinazione negativa: applicando l’ipotesi di non sazietà,


infatti i panieri appartenenti alla stessa curva non possono
che trovarsi in alto a sinistra ed in basso a de-
stra. Il significato di tale affermazione sta nel
fatto che, partendo da un paniere qualsiasi, le
minori quantità di un bene devono essere com-
pensate da una maggior quantità dell’altro bene
per poter lasciare il consumatore indifferente.
La curva deve, quindi, essere sempre decre-
scente;
b) Assenza di intersezioni: applicando l’ipotesi
di transitività, è possibile risalire al fatto che un
punto non può mai appartenere a più curve di
indifferenza diverse (le curve non possono in-

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tersecarsi), in quanto il consumatore sa sempre identificare quale dei diversi panieri egli preferisca e,
quindi, se dovessero dare diversa soddisfazione, non starebbero certamente sulla medesima curva;
c) Livelli di soddisfazione superiori lontano dall’origine: allontanandosi dall’origine si incontrano cur-
ve di indifferenza alle quali si associa un livello di soddisfazione sempre maggiore.
Ciascuna curva di indifferenza crea tre insiemi che esauriscono lo spazio delle scelte di consumo: un primo in-
sieme che identifica i panieri che forniscono un uguale livello di soddisfazione (punti appartenenti alla curva che
passa per il punto a), un secondo insieme che identifica i punti al di sopra della curva, ossia quelli che offrono
una maggior soddisfazione, ed un terzo insieme che identifica i punti al di sotto della curva, ossia quelli che of-
frono una minor soddisfazione.

Tali presupposti, tuttavia, non tengono in considerazione i gusti del consumatore, in quanto potrebbe accadere
che diversi consumatori possano ordinare i panieri in base ai propri gusti personali. Pur conservando le tre carat-
teristiche fondamentali, la forma delle curve di indifferenza cambia da un consumatore all’altro; si ha una diffe-
renza con la retta di bilancio, quest’ultima definita univocamente dati prezzi e spesa complessiva.
Per comprendere meglio i gusti del consumatore, occorre risalire al calcolo del Saggio Marginale di Sostitu-
zione (SMS), ossia il numero di unità di y che devono sostituire nel paniere un’unità del bene x affinché il con-
sumatore rimanga indifferente.

𝑆𝑀𝑆 = |𝛥𝑦/𝛥𝑥|
Tramite questa formula è possibile affermare che vi sia una relazione immediata e diretta tra i gusti del consu-
matore, l’inclinazione della curva di indifferenza, misurata dal SMS.
Ciò premesso, è possibile discutere un’altra caratteristica delle curve di indifferenza:

d) Convessità delle curve di indifferenza: un consumatore, man mano che le quantità prese in conside-
razione aumentano, sarà certamente disposto a scambiare una quantità di un determinato bene x con
meno quantità di un bene y, in quanto ne potrebbe risultare stufo. È possibile affermare, quindi, che
lungo le curve di indifferenza, ossia quando ci si sposta da sinistra a destra, il SMS decresce
(l’inclinazione delle curve diminuisce all’avvicinarsi all’asse delle ascisse, quindi la curva è convessa
rispetto all’origine).
A questo punto viene utilizzato lo strumento del saggio marginale di sostituzione per descrivere la disponibilità
di un consumatore a scambiare due beni in circostanze particolari:

● Sostituti perfetti: due beni


sono sostituti perfetti quando
servono al medesimo uso dal
punto di vista del consumato-
re. Ciò significa che il saggio
marginale di sostituzione sarà
sempre lo stesso in qualsiasi
caso, potendo affermare che
l’inclinazione delle curve è
esattamente costante (curve
lineari).
● Beni complementari: due
beni sono complementari
quando devono essere presenti in proporzioni fisse per poter assolvere una determinata necessità. Dato
che i due beni devono essere utilizzati in modo contiguo, non potrò aumentare una quantità del bene x
senza aumentare quella del bene y: ciò significa che il saggio marginale di sostituzione sarà esattamente
0 quando non si aumenta una delle due quantità, inducendo ad affermare che le curve di indifferenza
formano esattamente un angolo retto.

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L’equilibrio del consumatore: la massimizzazione della soddisfazione

Visti i due strumenti per misurare la soddisfazione del consumatore (vincolo di bilancio per identificare i possi-
bili panieri e curva di indifferenza per descrivere i gusti del consumatore), occorre verificare il paniere che possa
garantire al consumatore la maggior soddisfazione possibile con il proprio budget di spesa.
Graficamente, il consumatore non può andare oltre quello che è il vincolo di bilancio, quindi si tratta solamente
di individuare fra i panieri del vincolo di bilancio quello che appartiene alla curva di indifferenza più elevata. Il
paniere di equilibrio corrisponde esattamente al punto in cui la retta è tangente alla curva di indifferenza. Nel
punto di tangenza, quindi, vale la seguente uguaglianza:

𝑝𝑥 /𝑝𝑦 = 𝑆𝑀𝑆

4 | La domanda individuale e del mercato


Le variazioni dei prezzi

La teoria sviluppato precedentemente ci permette di intuire che il


prezzo è l’elemento determinante della domanda di un dato pro-
dotto. Graficamente, la retta del vincolo di bilancio viene inclinata
maggiormente, facendo aumentare le quantità all’interno del pa-
niere preso in considerazione, ossia quello di equilibrio.
Ciò premesso, è possibile spiegare una relazione negativa che in-
tercorre tra il prezzo (p) e la quantità (q), chiamata curva di do-
manda del consumatore. Dal grafico riportato, si può intuire che
una diminuzione di prezzo determina un aumento della quantità di
un dato bene.

Effetto di sostituzione ed effetto di reddito

Ora c’è da chiedersi come mai una diminuzione del prezzo abbia comportato un aumento delle quantità di en-
trambi i beni del paniere; la ragione sta nel fatto che una diminuzione del prezzo ha due diversi effetti sulla do-
manda del consumatore:

● Effetto sostituzione: rappresenta l’aumento del consumo maggiore del bene x che risulta da una dimi-
nuzione di prezzo relativo, in quanto il consumatore tende a sostituire il bene che costa di più con quel-
lo che costa di meno;
● Effetto reddito: rappresenta l’impatto della variazione della capacità di spesa sul consumo di x. La ri-
duzione di prezzo aumenta il reddito reale, in quanto il consumatore non può rimanere sulla medesima
curva di indifferenza, consentendo al consumatore di acquistare una quantità superiore anche del bene
y.

Le caratteristiche della curva di domanda

Per poter misurare la sensibilità al prezzo della domanda, occorre porre in relazione la variazione del prezzo con
la variazione della quantità. Tuttavia, se volessimo confrontare la reattività al prezzo della domanda di diversi
beni, occorre evidenziare che le quantità dei beni possono essere misurate in vario modo (es. ettogrammi e chi-
logrammi); occorre, quindi, ricercare una misura del bene “pura”, ossia l’elasticità della domanda. L’elasticità
della domanda al prezzo è data dal rapporto tra la variazione percentuale della quantità e la variazione percen-
tuale del prezzo in misura positiva:

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𝛥𝑞
𝑞
𝜀𝑝 =| |
𝛥𝑝
𝑝
Dal grafico, si può notare che esistono beni più o
meno elastici alla variazione dei prezzi: il bene
rappresentato nella curva D0 è un bene maggior-
mente elastico rispetto ai beni rappresentati nelle
curve D1 e D2, in quanto anche in presenza di mi-
nime variazioni di prezzo la variazione della do-
manda registra un aumento più significativo nella
prima funzione rispetto alle ultime due.
Nell’ultima citata, addirittura, la domanda non
presenta alcuna elasticità al variare del prezzo, in
quanto si tratta di un bene che il consumatore ten-
derà ad acquistare solo in caso di necessità (es.
farmaci).
Un altro dato da evidenziare è che, nonostante
l’inclinazione della domanda sia costante,
l’elasticità diminuisce progressivamente verso
l’asse delle ascisse. Ciò si deve al fatto che una stessa variazione assoluta pesa in termini percentuali sempre
meno, fino ad essere pari a zero quando il punto interseca l’asse delle ascisse.

Il prezzo è la variabile determinante fondamentale della domanda di un bene e il suo impatto si manifesta attra-
verso il valore che assume l’elasticità; guardando a tale valore si coglie l’influenza di una serie di fattori che so-
no determinanti nella scelta del consumatore:

● Presenza di beni sostituti, ossia di beni in grado di soddisfare lo stesso bisogno o bisogni simili. In
questi casi, l’effetto sostituzione è molto forte, di conseguenza la pendenza della curva di domanda sarà
bassa e l’elasticità alta;
● Natura del bisogno che il bene soddisfa: i beni di lusso tendono ad avere una domanda molto elastica
al prezzo, al contrario i beni necessari presentano una domanda rigida alle variazioni di prezzo;
● Quota del reddito rappresentata dalla spesa nel bene: più la quota è rilevante per il consumatore, più
l’elasticità della domanda è alta, in quanto anche piccoli aumenti di prezzo potrebbero sottrarre risorse
per altri acquisti;
● Tempo: alcuni acquisti sono il risultato di abitudini ben consolidate, ciò significa che il mutamento del
comportamento del consumatore non ha effetti immediati (domanda rigida inizialmente), quindi occor-
re tempo affinché la riduzione abbia gli effetti sperati (domanda più elastica);
● Prezzo dei beni sostituti e complementari: possibili variazioni del prezzo di un bene sostituto posso-
no influenzare la quantità domandata dell’altro bene (se il prezzo del bene x aumenta, si avrà un au-
mento della domanda del bene y, mentre se il prezzo diminuisce, si avrà un aumento della quantità do-
mandata del bene x). Si può misurare la sensibilità della domanda di un dato bene x al prezzo del bene y
attraverso l’elasticità incrociata che rappresenta il rapporto tra la variazione percentuale della quantità
domandata del bene x e la variazione percentuale del prezzo del bene y.
𝛥𝑞𝑥
𝑞
𝜀𝑥𝑦 = 𝑥
𝛥𝑝𝑦
𝑝𝑦

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Il segno dell’elasticità incrociata ha rilevanza, ecco perché non viene preso con valore assoluto. Il valo-
re dell’elasticità incrociata ci si aspetta abbia un valore positivo ed elevato per beni sostituti, non a caso
tale numero è una misura della sostituibilità dei beni.
Ora occorre verificare se ciò si verifichi nel caso di beni complementari: essendo i due beni non utiliz-
zabili disgiuntamente, se il prezzo di anche uno solo dei due beni dovesse aumentare, entrambi subi-
rebbero un calo della quantità domandata, viceversa aumenta la domanda se il prezzo di uno dei due
beni diminuisce;
● Reddito del consumatore: il comportamento di consumatori ricchi è decisamente diverso rispetto a
quello dei consumatori più poveri, infatti il consumatore ricco ha la possibilità di accedere ad un’ampia
gamma di diversi prodotti, questione che non si verifica nel caso del consumatore povero;
● Gusti del consumatore: se i gusti del consumatore si modificano nel tempo, portandolo a preferire
quel determinato prodotto, la curva di domanda di tale prodotto si dovrebbe spostare a destra.
Per quanto riguarda i beni durevoli, tali concetti non si possono applicare, in quanto il consumatore deve verifi-
care se il prezzo di mercato è più basso del massimo prezzo che egli sarebbe disposto a pagare per l’unica unità
di cui ha bisogno. Tali beni, infatti, avendo durata pluriennale, non sono suscettibili a variazioni di prezzo, in
quanto il consumatore tenderà ad acquistare sempre la medesima quantità di bene anche nel caso in cui il prezzo
dovesse diminuire.

La curva di domanda del mercato

Nei casi analizzati precedentemente, si sono analizzate curve di domanda individuale. La domanda di mercato
di un certo bene è data dalla sommatoria delle domande indivi-
duali di tutti i consumatori facenti parte di quello specifico mer-
cato.
Prendendo in considerazione la domanda di mercato di un dato
bene, si chiama unità marginale l’ultima unità acquistata del
bene, mentre tutte le altre vengono denominate inframarginali.
Il consumatore sono disposti a pagare un determinato prezzo per
ciascuna delle unità acquistate; potrebbe accadere, tuttavia, che
tale prezzo sia maggiore di quello effettivamente praticato dal
venditore. Il consumatore registra, quindi, un risparmio, dato
dalla differenza tra il prezzo che sarebbe disposto a pagare e
quello effettivamente pagato. La somma di tutte queste porzioni
di risparmio dà luogo al c.d. surplus aggregato dei consumato-
ri, dato dalla differenza fra la somma massima che i consumatori
sarebbero disposti a pagare e la somma che effettivamente essi
pagano.

5 | La produzione
Input primari e beni intermedi

Nella produzione solitamente vengono coinvolti input primari e beni intermedi. Per input primari si intendono:

● Lavoro, rappresentato dalle attività svolte direttamente o indirettamente dagli uomini a fini produttivi.
Nell’analisi economica, il lavoro viene considerato come un fattore unitario, e la sua produttività co-
stituisce una variabile esogena del lavoro;
● Capitale, costituito dai macchinari, attrezzature e immobili impiegati per la produzione. Tale input
comprende anche la tecnologia, la quale a sua volta determina la produttività.
Come detto precedentemente vi sono anche altri input, rappresentati da materie prime, prodotti intermedi o se-
milavorati.

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L’output

Il risultato derivante dall’impiego di tutti i fattori produttivi è l’output, il quale può essere visibile, nel caso si
tratti di beni, oppure invisibile, nel caso si tratti di servizi. A loro volta, i beni possono essere intermedi qualora
possano essere scambiati con altre imprese che necessitano di essi per il proprio processo produttivo, oppure per
usi finali se destinati direttamente al fabbisogno del consumatore. Le diverse combinazioni di lavoro e capitale,
ossia degli input primari, ai quali è associata la medesima quantità di output, danno origine ad un isoquanto.

La relazione tecnologica fra input e output

La teoria della produzione studia, quindi, le relazioni che intercorrono tra il valore degli input immessi nel
processo produttivo ed il valore dell’output risultante dal processo produttivo. Essa, quindi, rappresenta la
quantità massima di output che può essere prodotta dall’impiego dei fattori produttivi disponibili se si applica
la tecnologia in uso.

Un solo fattore variabile

Occorre evidenziare che la funzione di produzione, qualora variassero entrambi i fattori produttivi, avrebbe tre
variabili diverse, in quanto si distinguerebbero due variabili indipendenti, il lavoro ed il capitale, ed una variabi-
le dipendente, ossia l’output. Per poter ricondurre la funzione a due sole variabili, occorre, quindi, specificare
che un input debba rimanere fisso. Tale ipotesi di rappresentazione risulta particolarmente utile quando vi sono
specifiche ragioni economiche, ad
esempio quando ci si riferisce al c.d.
breve periodo, ossia l’intervallo di
tempo all’interno del quale uno dei
fattori produttivi non può essere varia-
to. In base alle caratteristiche tecniche
della produzione della singola impre-
sa, oltre al breve periodo, si può di-
stinguere anche il c.d. lungo periodo,
ossia l’intervallo minimo di tempo ne-
cessario per modificare l’impiego di
tutti i fattori produttivi.

Analizzando la funzione di produzione


a fianco, è possibile notare che
l’output, all’aumentare del lavoro, ten-
de a crescere in modo meno che pro-
porzionale: ciò è dimostrabile attraverso l’introduzione del prodotto marginale, ossia l’incremento di output
dovuto all’impiego di un’unità aggiuntiva di un determinato input (in questo caso del lavoro). In termini mate-
matici, il prodotto marginale è determinato dal rapporto tra la variazione dell’output e la variazione dell’input
preso in considerazione (lavoro nel nostro caso):

𝛥𝑓(𝑥)
𝑃𝑚𝑎𝑟𝑔𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 =
𝛥𝑥
Il fatto che il prodotto marginale di un fattore sia decrescente è il risultato di un’ipotesi con giustificazioni eco-
nomiche, riscontrabili nella c.d. legge dei rendimenti marginali decrescenti. Riprendendo il concetto prece-
dente, è possibile desumere che il prodotto marginale è decrescente; la ragione di questo fenomeno spiega il fat-
to che la funzione di produzione nel breve periodo è concava.

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Più fattori variabili: la sostituibilità dei fattori

Riprendendo la funzione di produzione a due fattori variabili e indipendenti, essa si rappresenta mediante la
struttura degli isoquanti (produzione nel lungo periodo). In figura, gli isoquanti sono stati disegnati decrescenti e
convessi, inoltre, ad isoquanti sempre più lontani dall’origine corrispondono livelli di output sempre più elevati.

a) Isoquanti con output crescenti allontanandosi dall’origine:


Ciò si spiega dal fatto che, mantenendo fisso un fattore produttivo e l’altro variabile, se quest’ultimo
subisse un aumento, il valore ottenuto come output sicuramente aumenterebbe (graficamente ci si spo-
sta sull’isoquanto associato
all’output maggiore);
b) Isoquanti decrescenti:
Si osserva che al medesimo
output sono associate una
maggior quantità di un bene e
minore dell’altro. Nella figura
rappresentata a fianco, ci si
muove sullo stesso isoquanto
aumentando impiego di lavoro,
ma riducendo impiego di capi-
tale. In sostanza, ci si può
muovere sullo stesso isoquanto
lasciando la produzione costan-
te solo se i due input vengono
fatti variare in direzioni oppo-
ste;
c) Isoquanti convessi:
Ciò è dimostrabile tramite la legge di rendimenti marginali decrescenti. Man mano che si aumenta
l’impiego dei fattori produttivi, il loro prodotto marginale tende a diminuire. La curva, quindi, viene di-
segnata convessa.
È possibile notare che gli isoquanti presentano aspetti simili rispetto alle curve di indifferenza. Così come nelle
curve di indifferenza si calcola il saggio marginale di sostituzione (disponibilità del consumatore a sostituire i
beni), negli isoquanti si calcola il Saggio Marginale di Sostituzione Tecnica (SMST) per indicare il numero di
unità di capitale che devono essere sostituite al lavoro per mantenere la produzione inalterata; ciò si indica
mediante tale formula: |𝛥𝐾/𝛥𝐿|, in parole povere il rapporto tra il prodotto marginale del lavoro ed il prodotto
marginale del capitale (𝑃𝑚𝑎𝐿 /𝑃𝑚𝑎𝐾 ). Il SMST rappresenta, inoltre, la pendenza della tangente all’isoquanto
stesso. Tale pendenza, inoltre, decresce per lo stesso motivo della decrescenza dell’isoquanto.
L’analogia tra curve di indifferenza e isoquanti è riscontrabile anche nei casi di fattori perfettamente sostituibili
(isoquanti lineari) e fattori perfettamente complementari (isoquanti ad angolo retto).

In un’ottica di lungo periodo, occorre evidenziare che anche il capitale può subire variazioni. Benché i fattori
produttivi possono variare anche in proporzioni differenti l’uno dall’altro, la teoria di solito prende in considera-
zione le variazioni di L e K come proporzionali. Il problema ora consiste nel verificare se l’output aumenta con
una certa proporzione o meno:

● Se il processo produttivo realizza l’output nella stessa proporzione degli input, la funzione di produzio-
ne viene detta a rendimenti costanti di scala;
● Se l’output aumenta in modo meno che proporzionale rispetto agli input, la funzione di produzione pre-
senta rendimenti di scala decrescenti;
● Se l’output aumenta in modo più che proporzionale rispetto agli input, la funzione di produzione pre-
senta rendimenti crescenti di scala.

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6 | I costi della produzione e l’offerta


La spesa per l’acquisto dei fattori

Dopo aver definito le relazioni tra input ed output, ora occorre evidenziare le relazioni che intercorrono tra out-
put e costi della produzione, consapevoli che tale relazione dipende dalle caratteristiche tecnologiche della fun-
zione di produzione.
Avendo menzionato i costi della produzione, ora bisogna descrivere quali siano: riguardo al lavoro, è determina-
to dal prodotto tra l’importo dei salari (supponendo che essi rimangano costanti) e le ore di lavoro; riguardo al
capitale, esso genera dei costi che sono riconducibili agli interessi, calcolati su un tasso di interesse periodico. In
termini matematici, si sintetizza il costo della produzione con la seguente formula:

𝐶 = 𝑤 ⋅ 𝐿 + 𝑟 ⋅ 𝐾, dove C rappresenta il costo della produzione, w l’importo dei salari e/o stipendi, r il tasso di
interesse

Le tecniche che danno origine ad un medesimo costo appartengono ad un insieme definito isocosto, graficamen-
te rappresentato mediante una retta con pendenza pari al rapporto tra il costo del lavoro e del capitale (𝑤/𝑟),
mentre la posizione dipende sempre dalla spesa complessiva per l’utilizzo dei fattori produttivi C.
È ragionevole supporre che un’impresa tenda a minimizzare i propri costi, ossia quella che consente di scegliere
l’isocosto più basso. La tecnica che permette ciò viene selezionata con il criterio della minimizzazione dei co-
sti, graficamente rappresentato dal punto di tangenza della retta dell’isocosto sulla curva dell’isoquanto. In tale
punto si osserva che la pendenza dell’isocosto è uguale a quella dell’isoquanto, ossia 𝑆𝑀𝑆𝑇 = 𝑤/𝑟 → 𝑃𝑚𝑎𝐿 /
𝑃𝑚𝑎𝐾 = 𝑤/𝑟.

Ora si suppone l’impresa intenda incrementare di un’unità il livello della produzione. Nel breve periodo,
l’aumento della produzione è possibile soltanto modificando l’unico fattore produttivo variabile.
Nel lungo periodo l’impresa deve produrre a livelli di isocosto maggiori rispetto al caso precedente. La varia-
zione del costo causata dall’aumento di un’unità nella produzione ha una forte rilevanza nel comportamento del-
le imprese; tale aumento prende il nome di costo marginale. Riconducendo il costo marginale alla natura dei
rendimenti di scala, si afferma che:

● Rendimenti costanti di scala:


In un’ottica di lungo periodo, il costo totale cresce proporzionalmente alla produzione ed il costo mar-
ginale è costante.
● Rendimenti crescenti di scala:
In un’ottica di lungo periodo, i costi marginali decrescono man mano che la produzione aumenta; i co-
sti totali crescono in misura meno che proporzionale rispetto all’output.
● Rendimenti decrescenti di scala:
In un’ottica di lungo periodo, i costi marginali sono crescenti ed i costi totali aumentano in misura più
che proporzionale rispetto alla produzione.
Nel breve periodo le cose cambiano radicalmente, in quanto le variazioni del costo totale sono determinate so-
lamente dalla variazione nell’impiego di lavoro. In un’ottica di breve periodo, il costo marginale è crescente ed
il costo totale aumenta in misura più che proporzionale rispetto alla produzione.

Le funzioni di costo illustrano, quindi, l’andamento dei costi della produzione per ogni livello assegnato
all’output, fornendo il minimo costo con cui ogni livello di output è prodotto. I diversi concetti di costo utilizzati
nelle funzioni sono di vario tipo:

● Costo totale: rappresenta la spesa che l’impresa sopporta per l’acquisto e l’uso dei fattori produttivi,
composto, quindi, dal costo del lavoro (𝑤 ⋅ 𝐿) e dal costo del capitale (𝑟 ⋅ 𝐾); come somma di tali com-
ponenti viene espresso mediante l’isocosto. Con la funzione di costo totale, si mette in relazione il co-
sto totale con la produzione;

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● Costo marginale: rappresenta il costo che l’impresa sostiene per produrre l’ultima unità di output. Nel
lungo periodo ciò dipende da variazioni di entrambi i fattori produttivi, mentre nel breve periodo il co-
sto marginale è dovuto esclusivamente al maggior utilizzo di lavoro;
● Costo medio: viene anche denominato costo unitario, in quanto fornisce un’idea di quanto costi
all’impresa produrre ciascuna unità di prodotto.
● Dipendenza dei costi dall’output:
Si distinguono costi fissi, i quali non dipendono in alcun modo dalla produzione, e costi variabili che,
appunto, si modificano quando l’output del processo produttivo cambia. I costi fissi si possono distin-
guere in costi fissi irrecuperabili da quelli recuperabili. Inoltre, si intuisce che i costi fissi/variabili
totali possono essere ripartiti per ogni unità di prodotto, dando origine a costi fissi medi e costi varia-
bili medi;
● Variabilità dell’input:
In base alle variazioni dei fattori produttivi considerate, si possono distinguere fenomeni di breve pe-
riodo quando almeno uno dei fattori produttivi non subisce variazioni, e fenomeni di lungo periodo
quando entrambi i fattori produttivi subiscono variazioni. In particolare, l’andamento dei costi di breve
periodo risente della legge dei rendimenti marginali decrescenti, mentre i costi di lungo periodo riflet-
tono la natura dei rendimenti di scala.

Le funzioni di costo nel breve periodo

Occorre prendere in considerazione i costi totali, i costi fissi ed i costi variabili. I costi fissi sono costanti, quindi
vengono rappresentati mediante una retta orizzontale, i costi variabili seguono la legge sui rendimenti marginali
decrescenti ed il costo totale segue lo stesso andamento dei costi variabili, ma ad andamento pari ai costi fissi.
Ripartendo i costi fissi sulla produzione, si afferma che essi tenderanno a diminuire progressivamente con
l’aumentare della produzione: si intuisce, quindi, che i costi fissi medi hanno un andamento decrescente e se-
guono l’andamento di un’iperbole equilatera (i costi fissi medi, infatti, sono elevatissimi se prossimi allo zero).
Ora occorre analizzare i costi variabili: ripartendo essi sulla produzione, si afferma che, per effetto dei rendi-
menti marginali decrescenti, essi tenderanno ad aumentare più che proporzionalmente rispetto alla produzione. I
costi variabili medi, quindi, hanno un andamento crescente all’aumentare della produzione. Analizzando ora i
costi totali, si afferma che i costi medi decrescono per valori bassi della produzione e tendono ad aumentare per
valori sempre più alti prossimi ai costi variabili medi. Tale andamento ad «U» è dovuto alla diversa incidenza
che hanno i costi fissi medi ed i costi variabili medi all’interno del processo produttivo. Nel tratto decrescente
dei costi medi si dice che l’impresa ha la possibilità di sfruttare le c.d. economie di scala, cercando di diminuire
i costi unitari espandendo la produzione; oltre il punto di minimo della curva dei costi medi, l’impresa subisce
diseconomie di scala, dovuto al fatto che la produttività marginale del fattore variato è bassa.
Inoltre, occorre osservare come la curva di costo marginale interseca quella del costo medio nel punto di mini-
mo di quest’ultimo: ciò è dovuto al fatto che quando i costi marginali sono inferiori ai costi medi questi ultimi
tendono a decrescere, mentre quando risultano superiori ai costi medi tendono a crescere.

Le funzioni di costo nel lungo periodo

Analizzando le funzioni di costo nel lungo periodo, si riprende il concetto dei rendimenti di scala:

● Costo totale:
Nei tratti in cui i rendimenti di scala sono crescenti, la curva è concava; nei tratti in cui i rendimenti so-
no costanti, la funzione è lineare, mentre nei tratti in cui i rendimenti sono decrescenti la curva è con-
vessa.
● Costo marginale:
Nei tratti in cui i rendimenti di scala sono crescenti, i costi sono decrescenti; nei tratti in cui i rendimen-
ti sono costanti, i costi sono costanti, mentre nei tratti in cui i rendimenti sono decrescenti i costi sono
crescenti.
● Costo medio:
La curva dei costi medi osserva l’andamento dei costi marginali: il costo marginale inizialmente rimane
al di sotto del costo medio, tratto in cui quest’ultimo è decrescente, poi la curva dei costi marginali si

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sovrappone nell’eventuale tratto costante ed, infine, quando la curva dei costi marginali è superiore a
quella dei costi medi, l’andamento di questi ultimi è crescente.
Esistono specifiche relazioni che intercorrono tra alcune tipologie di costo, servendosi dell’uso dei grafici:

● Relazione costi marginali e costi variabili:


Se l’impresa producesse una sola unità di prodotto, il costo marginale sarebbe pari al costo variabile.
Supponendo, invece, che l’impresa produca più unità di prodotto, si afferma che la curva dei costi va-
riabili rappresenta la somma di tutti i costi marginali sostenuti dall’impresa. L’area al di sotto della
curva dei costi marginali rappresenta, quindi, i costi variabili dell’impresa, ossia la differenza tra i costi
totali ed i costi fissi.
● Relazione costi marginali e costi variabili medi:
Sulla base della prima relazione, si può definire questa seconda. I costi variabili medi sono pari ai costi
variabili divisi per la quantità, ad ogni livello di produzione. Il valore del costo variabile unitario molti-
plicato per la quantità prodotta dà come risultato il costo variabile. Graficamente, tale prodotto corri-
sponde all’area di cui si accennava poco fa, ossia quella sottostante la curva di costo marginale.

7 | La concorrenza perfetta
Le condizioni per la concorrenza perfetta

Il mercato di concorrenza perfetta si basa su ipotesi piuttosto estreme, infatti nella realtà è molto difficile che
esse possano realmente verificarsi:

1) Grande numero di imprese e di consumatori.


2) Prodotti omogenei, facendo sì che il consumatore possa percepire all’interno del mercato la presenza
di beni sostituti perfetti. Si nasconde, quindi, qualsiasi forma di differenziazione percepibile ai consu-
matori.
Dalle prime due ipotesi si può affermare che ciascuna impresa in regime di concorrenza perfetta non
può alterare il prezzo di mercato: si dice, pertanto, che le imprese, per poter vendere i prodotti al mer-
cato, sono price taker.
3) Perfetta mobilità dei fattori, ossia che le imprese siano efficienti allo stesso modo. Tale espressione
implica pareggiamento dei costi delle imprese. Nel lungo periodo la perfetta mobilità dei fattori produt-
tivi implica che, nel caso in cui le imprese facciano profitti positivi, nuove imprese potranno entrare nel
mercato.
4) Conoscenza perfetta, ciò significa che i consumatori devono essere perfettamente a conoscenza di tut-
te le particolarità di un determinato mercato.
5) Assenza di barriere all’ingresso e/o all’uscita dal mercato.
Il profitto dell’impresa corrisponde alla differenza tra i ricavi totali ed i costi totali. Tale concetto di profitto,
tuttavia, viene inteso in due modi differenti:

● Il concetto di profitto secondo il contabile:


Il concetto di profitto contabile viene spesso utilizzato per valutare il risultato economico ottenuto da
una determinata impresa; esso corrisponde alla differenza tra ricavi e costi contabili.
● Il concetto di profitto secondo l’economista:
Il concetto di profitto economico tiene conto anche dei costi opportunità, ossia dei mancati guadagni
che l’imprenditore avrebbe potuto realizzare svolgendo la più lucrativa delle attività possibili.

L’offerta nel breve periodo

Uno dei concetti principali della teoria microeconomica consiste nella volontà dell’impresa di massimizzare il
profitto. La regola generale di massimizzazione del profitto consiste nell'uguaglianza tra costi marginali e ricavi
marginali (prezzo).
Assunta tale ipotesi, occorre analizzare il modo migliore per descrivere l’offerta di un’impresa, ossia la quantità
che per un’impresa è conveniente produrre, in caso di un comportamento price taker. La curva di costo margina-

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le indica l’offerta ad ogni livello di prezzo, in quanto l’impresa deve saper offrire la quantità ottimale ad ogni
livello di prezzo, fino a quando il costo marginale coincide con il prezzo di mercato; essa è, quindi, la curva di
offerta nel breve periodo della singola impresa in concorrenza perfetta.
Riguardo, invece, alla curva di offerta di mercato a ogni prezzo, si intuisce che essa è la somma delle offerte in-
dividuali di ogni impresa.

L’equilibrio di breve periodo

In una prospettiva di analisi dell’equilibrio di mercato nel breve periodo, occorre considerare che la domanda di
mercato è data dalla somma delle domande dei singoli consumatori. L’equilibrio di mercato nel breve periodo
si può identificare come l’intersezione della curva di domanda (decrescente) e la curva di offerta (crescente) da
cui è possibile identificare quantità e prezzo di equilibrio.
Riguardo all’equilibrio dell’impresa, occorre prima considerare il concetto di domanda dell’impresa, ossia il
rapporto che essa ha con i suoi clienti, quindi la relazione tra il prezzo praticato e la quantità che riesce a vende-
re. Graficamente, la curva di domanda della singola impresa ha una forma ad «L»: se l’impresa decidesse di
aumentare, anche se di poco, il prezzo dei propri beni, la domanda crollerebbe fino a zero, in quanto i prodotti
sono omogenei (senza differenziazioni); nel caso in cui il prezzo dell’impresa fosse quello preso dal mercato, la
domanda del consumatore tenderebbe a rimanere stabile. In condizioni di equilibrio dell’impresa si avrebbe un
punto di pareggio esattamente nell’intersezione tra la curva dei costi marginali e dei ricavi marginali, ossia del
prezzo assunto tramite price taking dall’impresa.

Occorre fare diverse considerazioni sul profitto:


partendo dalla definizione di esso, ossia la differen-
za tra ricavi totali e costi totali, se tale concetto vie-
ne espresso in termini unitari, si può affermare che
esso è dato dalla differenza tra prezzo e costo me-
dio (il profitto viene inteso con il simbolo 𝜋):

𝜋/𝑞 = 𝑅𝑇/𝑞 − 𝐶𝑇/𝑞 = 𝑝 − 𝐶𝑚𝑒

L’area del profitto dell’impresa è rappresentata da


un rettangolo che ha per lati la quantità e la diffe-
renza tra prezzo e costo medio.

L’offerta nel lungo periodo e l’equilibrio

Il lungo periodo considera una possibilità di ingres-


so nel mercato di nuove imprese, visto che vi è mancanza di barriere all’ingresso o all’uscita dal mercato, ossia
in un aumento di offerta. In particolare, entreranno nuove imprese nel mercato non appena le imprese già pre-
senti ottengono dei profitti positivi che, appunto, attraggono nuove imprese. La variazione che tutto ciò ha in
termini grafici si registra in uno spostamento verso destra della curva di offerta del mercato, essendoci maggiori
imprese sul mercato. In corrispondenza del vecchio prezzo di equilibrio, tuttavia, si crea un eccesso di offerta,
pertanto il prezzo deve automaticamente ridursi, esaurendo le possibilità di profitto. L’entrata di nuove imprese
continuerà fino a quando i profitti saranno azzerati, ossia quando il prezzo raggiunge i costi unitari medi.
Gli effetti ricadenti sulla singola impresa si traducono in uno spostamento della curva di domanda dell’impresa
verso il basso, essendosi ridotto il prezzo. Nel lungo periodo, le imprese possono cercare di ridurre i propri costi,
sfruttando le economie di scala e portandosi nel punto di minimo della curva dei costi medi di lungo periodo.

Ora bisogna supporre le conseguenze di un aumento della domanda in mercati di concorrenza perfetta, ad
esempio un prodotto potrebbe essere maggiormente gradito dai consumatori. Nel lungo periodo, aumenti o di-
minuzioni della domanda porteranno ad aumenti o diminuzioni di offerta: a causa di un aumento della domanda,
i profitti delle imprese aumentano, in quanto aumenta il prezzo del prodotto a parità d’offerta; nuove imprese
saranno attratte dai profitti positivi, pertanto entreranno nel mercato, fino a quando i profitti resteranno nulli. Il

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prezzo tornerà ai livelli precedenti, quindi non subisce alcuna variazione. Le possibili diminuzioni di prezzo si
verificano solo qualora si riesca a ridurre il livello minimo della curva dei costi medi di lungo periodo.

Il surplus del produttore

Il surplus del produttore rappresenta l’area compresa tra la curva di offerta dell’impresa ed il prezzo di merca-
to.

Nel breve periodo, quest’area corrisponde alla somma dei profitti e dei costi fissi e, quindi, dalla differenza tra
ricavi totali e costi variabili. Il surplus del produttore può essere riscritto nel seguente modo:

𝑆𝑃 = 𝑅𝑇 − 𝐶𝑉 = (𝑅𝑇/𝑞 − 𝐶𝑉/𝑞) ⋅ 𝑞 = (𝑝 − 𝐶𝑉𝑚𝑒) ⋅ 𝑞


La rappresentazione grafica dell’ultimo concetto sottoli-
nea il fatto che l’impresa realizza profitti positivi nel
breve periodo solamente quando i costi variabili medi
sono inferiori al prezzo di vendita. Dato che sulla curva
di offerta quest’ultimo è pari al costo marginale, si af-
ferma che l’impresa rimane ad operare sul mercato
quando il costo marginale è superiore al costo variabile
medio.
Nel lungo periodo, il surplus del produttore si ricava
nello stesso modo, facendo attenzione che nel lungo pe-
riodo non ha senso continuare a produrre se i profitti so-
no negativi, in quanto i costi fissi potrebbero essere az-
zerati chiudendo l’impresa. Occorre, pertanto, che il surplus del produttore di lungo periodo sia sufficiente a co-
prire i costi fissi. Il surplus del produttore nel lungo periodo non può essere superiore ai costi fissi, pertanto si
conclude che il surplus nel lungo periodo è esattamente pari ai costi fissi.

Introdotto questo concetto, si è in grado di costruire il grado di benessere che i produttori ricavano dalla parteci-
pazione allo scambio dei beni. Sommando tutti i surplus delle imprese, si ottiene il c.d. surplus aggregato dei
produttori. Questo nel breve periodo è uguale alla differenza tra i ricavi totali ed i costi medi variabili, mentre
nel lungo periodo è pari ai costi degli impianti di tutte le imprese che partecipano alla produzione.
Se a questo si aggiunge il benessere aggregato dei consumatori, si ottiene il c.d. benessere sociale.

8 | Il monopolio
Le ragioni del monopolio

Esistono diverse situazioni che possono dare origine alla formazione del monopolio:

● Monopolio delle risorse: l’impresa può essere l’unica fabbricante di un determinato prodotto e riesce a
mantenere tale questa condizione, mantenendo il segreto sulla tecnologia produttiva.
● Monopolio legale: quando la condizione precedente può essere violata dai concorrenti, interviene il
c.d. brevetto, una protezione legale che tutela l’impresa riguardo un determinato prodotto o innovazio-
ne. In questo modo, l’impresa manterrà la posizione dominante sul mercato.
● Monopolio naturale: una sola impresa è in grado di offrire un prodotto a costi più bassi rispetto a
quelli affrontati da due o più imprese.
Il monopolio esiste, quindi, perché sono presenti barriere che impediscono l’entrata di nuove imprese (brevetti,
marchi, conoscenza esclusiva della tecnologia, licenze, concessioni governative, economie di scala e controllo
su un input fondamentale).

La capacità di fissare il prezzo

L’impresa che opera in condizioni di monopolio fronteggia l’intera domanda di mercato, quindi non occorre più
distinguere tra curva di domanda dell’impresa e del mercato.

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A differenza della concorrenza perfetta, nella quale la curva di domanda è perfettamente elastica a variazioni di
prezzo, nel monopolio la curva di domanda è negativamente inclinata, quindi il monopolista sa che se riduce il
prezzo può incrementare la quantità e viceversa. L’impresa monopolista non ha vincoli in termini di prezzo,
bensì solamente in termini di curva di domanda: egli non può fissare congiuntamente il prezzo e la quantità, in
quanto può fissare il prezzo e lasciare ai consumatori la scelta della quantità, oppure fissare una determinata
quantità di prodotto e lasciare al consumatore la discrezionalità sul prezzo.

Per stabilire la quantità ottimale da produrre, il monopolista confronta l’andamento dei costi e ricavi in base alla
produzione. Mentre nella concorrenza perfetta,
l’impresa ha dimensioni talmente ridotte che un
incremento delle proprie vendite non può alterare
in alcun modo il prezzo, rendendo il ricavo mar-
ginale sostanzialmente costante, nel monopolio,
invece, il ricavo marginale varia con la produzio-
ne; in particolare, è decrescente e sempre inferio-
re al prezzo. Il monopolista, per poter vendere
anche solo un’unità aggiuntiva di prodotto, deve
abbassare il prezzo anche su tutte le unità di pro-
dotto già vendute (unità inframarginali). Se
esprimessimo generalmente tale concetto, si af-
fermerebbe che il ricavo marginale è dato dalla
differenza fra il prezzo e il prodotto della varia-
zione negativa del prezzo con le unità inframarginali:

𝑅𝑀 = 𝑝 − 𝛥𝑝 ⋅ 𝑞

Il fatto che il ricavo marginale sia sempre inferiore al prezzo


rende la curva del ricavo marginale maggiormente inclinata ri-
spetto alla curva di domanda.

Occorre riprendere alcuni concetti della curva di domanda, ri-


portando il fatto che nel punto di mezzo di tale curva, ossia dove
il ricavo marginale è nullo (vedi grafico), l’elasticità al prezzo è
pari al valore 1. Questo suggerisce una precisa relazione tra ri-
cavo marginale ed elasticità della curva di domanda.
In termini generali, il fatto che i ricavi totali rimangono costanti
indica che il ricavo marginale è nullo; sostanzialmente, quando
l’elasticità della curva di domanda è 1, il ricavo marginale è pari
a 0. Affinché si registri un aumento dei ricavi totali occorre che
la riduzione di prezzo provochi aumenti maggiori di domanda,
quindi significa che l’elasticità della curva di domanda deve es-
sere maggiore di 1, rendendo così i costi marginali positivi. Una
situazione, invece, da evitare sarebbe quella in cui l’elasticità di
domanda sarebbe inferiore ad uno, provocando ricavi marginali
negativi e ricavi totali decrescenti.

La massimizzazione del profitto

Anche per descrivere il comportamento di equilibrio di un’impresa monopolista si fa riferimento all’ipotesi di


massimizzazione del profitto; i profitti, infatti, sono massimi dove la differenza tra ricavi e costi totali è maggio-
re. Nella rappresentazione a fianco, sono state riportate le curve dei costi e ricavi totali. La maggiore differenza
è data proprio in corrispondenza di qM, ossia la quantità di equilibrio. Occorre notare che una maggiore quanti-
tà di costi totali rispetto ai ricavi totali si traducono in una porzione negativa della curva di profitto ( 𝜋), fino ad
intersecare l’asse delle ascisse, punto in cui le curve dei costi e ricavi totali si intersecano tra loro. In seguito, la

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curva di profitto è positiva, infatti i ricavi totali sono maggiori dei costi totali, raggiungendo la massima espan-
sione nel punto qM. La curva di profitto decresce, ma rimane positiva (costi totali inferiori a ricavi totali), fino ad
intersecare nuovamente l’asse delle ascisse (costi totali uguali a ricavi totali). Al di là di questo punto, i costi to-
tali ritornano ad essere maggiori dei ricavi, provocan-
do una curva di profitto negativa.

L’equilibrio del monopolista può essere rappresentato


in un altro modo, si può affermare che il monopolista
massimizza il profitto quando produce la quantità per
cui il ricavo marginale uguaglia il costo marginale.
Osservando la figura precedente si osserva che la cur-
va di profitto è crescente perché i ricavi aumentano
maggiormente rispetto ai costi; in poche parole, quan-
do la quantità è inferiore a quella di equilibrio, i ricavi
marginali superano i costi marginali, quindi il mono-
polista ha incentivo ad aumentare la produzione, cosa
che non accade quando la quantità supera quella di
equilibrio, in quanto il monopolista deve ridurre la
quantità fino al livello di equilibrio. Nel punto esatto
di equilibrio tra costi e ricavi marginali, infatti,
l’impresa monopolista ottiene il massimo del profitto.

Nella figura è rappresentata la curva di domanda che con-


sente al monopolista di determinare il prezzo di equilibrio,
in corrispondenza del punto di equilibrio qM. Ora occorre
chiedersi qual è effettivamente l’area di profitto che
l’impresa ottiene dal prezzo e quantità di equilibrio. Pren-
dendo in considerazione la curva dei costi medi, si nota che
l’area di profitto è il rettangolo costruito dalla quantità di
equilibrio e dalla differenza tra il prezzo ed i costi medi.

Il grafico dell’ultima figura può essere utilizzato per illustra-


re l’equilibrio dell’impresa monopolista nel breve e nel lun-
go periodo, facendo attenzione che, per esempio, la curva dei
costi medi ha cause ben diverse nei due momenti:

● Nel breve periodo, essa riflette la presenza dei costi fissi e dei rendimenti marginali decrescenti. Inol-
tre, il monopolista può anche accettare di conseguire un risultato economico negativo con un prezzo in-
feriore ai costi medi (esiste comunque un margine tra prezzo e costi variabili che permette di coprire i
costi fissi);
● Nel lungo periodo, viene evidenziato il fenomeno delle economie di scala a bassi livelli di produzione
ed il fenomeno delle diseconomie di scala a livelli elevati. Inoltre, i profitti economici di equilibrio de-
vono essere necessariamente positivi, altrimenti l’impresa uscirebbe dal mercato.

Il benessere sociale

Nel mercato di concorrenza perfetta è stata introdotta la misura del benessere sociale come somma del surplus
aggregato del consumatore e del produttore (in questo caso della sola impresa monopolista). In figura è rappre-
sentato l’equilibrio del mercato in condizioni di monopolio (M, ossia quantità e prezzo sulla curva di domanda
in corrispondenza dell’intersezione tra ricavi e costi marginali). Mettendo a confronto i due grafici (concorrenza
perfetta e monopolio), si nota il prezzo di equilibrio è maggiore nel monopolio e, quindi, la quantità scambiata è
minore. Si può dedurre, quindi, che il surplus del consumatore nel mercato di monopolio è minore, causando un
maggiore surplus del produttore (monopolista) rispetto ai mercati di concorrenza perfetta. L’analisi evidenzia
che, quando a produrre è una sola impresa, si possono ottenere il massimo livello di profitti possibile. Nel mo-

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nopolio, nonostante un alto valore di surplus del produttore (SP), la somma delle due aree di surplus è inferiore
rispetto ai mercati di concorrenza perfetta. Il benessere sociale, infatti, si riduce quando a produrre è un’unica
impresa: la società nel suo complesso riceve un danno dal monopolio (area di perdita, P).

Tale area di perdita, tuttavia,


varia in relazione all’elasticità
della domanda: tanto più la do-
manda è elastica, minore è
l’area di perdita (seconda figura,
con maggiore inclinazione della
curva di domanda), mentre, qua-
lora la domanda fosse molto più
rigida, maggiore sarebbe l’area
di perdita (prima figura, con mi-
nore inclinazione della curva di
domanda).

La discriminazione del prezzo

Le situazioni precedenti han-


no analizzato monopolisti che
fissavano lo stesso prezzo per
diversi consumatori, indipen-
dentemente dalla quantità ac-
quistata da ognuno di essi; la
realtà, tuttavia, presenta situa-
zioni differenti. Il monopoli-
sta, ad esempio, attua compor-
tamenti che rappresentano la
c.d. discriminazione del
prezzo, cercando di incrementare i
suoi profitti oltre il livello che egli
può ottenere praticando il prezzo
unico (es. «tessere fedeltà», «pro-
mozioni 3x2»…). Nella figura
vengono evidenziate le due aree di surplus di cui il monopolista può tentare di appropriarsi passando dal prezzo
unico alla discriminazione. L’area A è il surplus dei consumatori, la somma che essi sarebbero disposti a pagare
in più per acquistare il bene. L’area B rappresenta, quindi, una perdita di opportunità per l’impresa monopolista.
Queste due aree presentano la stessa origine, in quanto il monopolista può aumentare le quantità vendute solo
attraverso una riduzione del prezzo unico sulle unità inframarginali, tuttavia egli potrebbe far pagare maggior-
mente ai consumatori che sono disposti a pagare di più e riducendo il prezzo a chi, invece, è disposto a pagare di
meno. L’impresa monopolista può, quindi, aumentare la quantità venduta e incrementare i suoi profitti, spingen-
dosi fino al punto D di equilibrio in caso di perfetta discriminazione.

9 | La domanda e l’offerta dei fattori produttivi


La domanda di lavoro

Il soggetto che esprime la domanda di lavoro è l’impresa, in quanto il lavoro è il fattore produttivo che condi-
ziona la produzione dei beni finali. Si dice che la domanda di lavoro è una domanda derivata, in quanto dipen-
de dalla domanda dei singoli beni offerti dalle imprese (es. se aumenta la domanda di PC, allora aumenteranno
le richieste di programmatori e tecnici). Per spiegare il concetto occorre innanzitutto partire da tre ipotesi, ossia:

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a. produzione di un unico bene omogeneo e situazione in cui l’impresa opera in un mercato perfettamente
concorrenziale;
b. obiettivo principale dell’impresa è la massimizzazione del profitto;
c. la tecnologia viene data.
Dall’equilibrio della concorrenza perfetta si sa che l’impresa massimizza i profitti quando il costo marginale
eguaglia il ricavo marginale; tale concetto può essere applicato anche per il fattore lavoro. La condizione di
equilibrio sarà proprio:

𝐶𝑚𝑎 = 𝑅𝑚𝑎

Essendo l’impresa price-taker sia sul mercato dei beni finali sia su quello dei fattori produttivi, la parte sinistra
della relazione (costo marginale) esprime il prezzo di un’unità aggiuntiva di fattore produttivo variabile, esatta-
mente uguale al salario nominale w; la parte destra (ricavo marginale), invece, esprime l’incremento del ricavo
totale in conseguenza della vendita di un’unità aggiuntiva del bene finale, identificabile con il valore del pro-
dotto marginale del lavoro (VPmaL, in altre parole il prodotto marginale del lavoro, PmaL, moltiplicato per il
prezzo del bene finale). La relazione
diventa la seguente:

𝑤 = 𝑃𝑚𝑎𝐿 ⋅ 𝑃 = 𝑉𝑃𝑚𝑎𝐿
𝛥𝑃𝑇
𝑤= 𝑃 = 𝑉𝑃𝑚𝑎𝐿
𝛥𝐿
Nella figura a fianco è rappresentata la
curva di domanda del lavoro. Il punto
di equilibrio è rappresentato dal punto
E: dato il saggio salariale w1 è possibi-
le, quindi, risalire alla quantità di lavo-
ro di equilibrio che l’impresa deve ri-
chiedere. In caso di aumento di salario
(w2), l’impresa sarà costretta a richie-
dere meno forza lavoro.

Le determinanti della domanda di lavoro possono riassumersi in:

a) saggio salariale w: a salari elevati corrisponde una minore domanda di lavoro;


b) prodotto marginale del lavoro (PmaL);
c) prezzo del bene finale (P);
d) progresso tecnico, il quale può influenzare il prodotto marginale del lavoro;
e) presenza di altri fattori produttivi che possono sostituire il lavoro (es. macchinari che riducono la do-
manda del fattore produttivo lavoro).
La domanda di mercato del lavoro è la somma delle domande di lavoro delle singole imprese.

L’offerta di lavoro

Prima di introdurre il concetto di offerta del lavoro, occorre ipotizzare che il lavoro sia un fattore produttivo
omogeneo e che non vi sia differenziazione salariale. I principali fattori che determinano l’offerta di lavoro so-
no:

a) il saggio salariale;
b) i gusti del lavoratore in merito alla scelta tra lavoro e tempo libero;
c) il tasso di popolazione attiva;
d) il grado di istruzione.
Ogni individuo dispone del proprio tempo di 24 ore giornaliere in relazione ad obiettivi precisi, infatti può di-
stribuirlo sul tempo libero e sul lavoro; ogni individuo razionale è, quindi, perfettamente in grado di esprimere le

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proprie preferenze tra lavoro e tempo libero (in questo caso


deve rinunciare ad una quota salariale).
Dalla teoria delle scelte individuali si sa che ogni variazione
del prezzo relativo ha due effetti ben precisi: un effetto di so-
stituzione ed un effetto reddito. Se il saggio salariale aumenta,
l’effetto di sostituzione porta il singolo individuo a destinare
più tempo all’attività meno costosa e a ridurre il tempo desti-
nato all’attività più costosa (nel nostro caso il tempo libero).
L’individuo deciderà di lavorare di più, rendendo i beni pre-
senti sul mercato meno costosi (il soggetto lavoratore possie-
de il reddito necessario per farvi fronte), fino a quando si pre-
senta l’effetto reddito, ossia la variazione del potere
d’acquisto, inducendo il consumatore a più beni e tempo, ri-
nunciando a quote di lavoro e di reddito. In figura si traduce
in un aumento di offerta di lavoro all’aumentare del salario, fino ad arrivare ad un livello talmente alto di salario
nominale (w2) da indurre il consumatore a lavorare di meno, provocando una diminuzione di offerta
all’aumentare sempre maggiore del salario.

L’offerta di mercato del lavoro non è altro che la somma delle ore/giornate lavorate dai singoli lavoratori ad
ogni livello salariale.

L’equilibrio del mercato del lavoro

Il mercato del lavoro è in equilibrio quando la domanda di lavoro eguaglia l’offerta di lavoro. Nella figura è vi-
sibile il punto di equilibrio in corrispondenza del salario nominale di equilibrio (w*) e delle unità lavorative di
equilibrio (L).
In sintesi, la domanda di lavoro è una domanda derivabile, ossia basata sulla domanda dei beni finali rispetto ai
quali vengono impiegati i fattori produttivi nel processo produttivo (funzione di produzione); l’offerta di lavoro
non è determinata dal costo, bensì dall’atteggiamento degli individui verso il lavoro ed il tempo libero.

La determinazione del prezzo dei fattori fissi: la rendita

Vi possono essere dei casi in cui l’offerta del fattore produttivo è completamente inelastica (es. terra coltivabi-
le). Vengono presi in considerazione due fattori: la quantità del bene in oggetto ed il suo prezzo d’uso o rendita.
Occorre in questo caso introdurre il concetto di rendita economica, ossia la remunerazione del fattore produtti-
vo in misura superiore a quello che è richiesto per il suo impiego. La curva di offerta in figura è rappresentata
da una retta verticale O come simbolo di inelasticità. La domanda del bene viene, invece, data dalla domanda
del bene finale (es. nel caso della terra coltivabile il grano). L’equilibrio di mercato si ha nel punto E in corri-
spondenza dell’intersezione tra la domanda e l’offerta del bene in oggetto. Il punto di equilibrio permette di risa-
lire alla quantità di terra coltivabile (t1, sempre costante e pari all’offerta) e alla rendita in relazione alle caratte-
ristiche del bene (p1). Dalla figura si può notare che la curva di domanda può subire un aumento, spostandosi

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verso l’alto, qualora la richiesta del bene in oggetto sia maggiore, facendo così anche aumentare il prezzo d’uso
del bene (da p1 a p2).

Il prezzo unitario della terra non dipende da condizioni tecniche, bensì dai prezzi dei beni finali che condiziona-
no la sua domanda. Nel caso della terra coltivabile, se aumenta la domanda del grano, aumenta senz’altro la do-
manda della terra coltivabile e, quindi, la sua rendita.
Se il fattore fisso non presenta possibilità di impieghi
alternativi, il suo costo opportunità è nullo e tutto il
pagamento che si riceve costituisce una rendita eco-
nomica pura. Se, invece, il fattore produttivo fisso ha
possibilità di impieghi alternativi, il loro rendimento
rappresenta un costo opportunità che giustifica il
prezzo minimo richiesto dal proprietario. La curva di
offerta ha pendenza positiva (data dal costo opportuni-
tà) nella sezione inferiore alla piena disponibilità del
bene, successivamente diventa inelastica come nel ca-
so precedente. In presenza di una curva di domanda,
l’equilibrio si raggiunge nel punto E come in figura.
La situazione non è cambiata, in quanto il pagamento
complessivo della terra è pari al prezzo d’uso p1
moltiplicato per la quantità utilizzata t1. Tuttavia,
si possono individuare due sezioni: una rappresen-
tata dal costo opportunità del fattore produttivo
fisso e consiste nel prezzo pagato per poter di-
sporre del terreno per l’utilizzo attuale; la seconda
parte, invece, rappresenta la rendita che il fattore
produttivo fisso percepisce in eccesso al costo op-
portunità. Quest’ultima area ombreggiata corri-
sponde esattamente al surplus del produttore, in-
fatti essa è equivalente ad un rendimento in ecces-
so al costo opportunità del fattore produttivo in
questione.

10 | La concorrenza monopolistica
La «love for variety»

Viene rimossa un’altra delle ipotesi che precedentemente è stata formulata per la concorrenza perfetta, ossia
l’omogeneità del prodotto. In molti casi reali, infatti, i consumatori si trovano di fronte a beni che soddisfano il
medesimo bisogno e che si differenziano solo per aspetti puramente qualitativi (es. gusto, estetica). Quando ci si
trova ad analizzare caratteristiche che comportano un miglioramento qualitativo riconoscibile da tutti, ma che
vengono preferite solo da alcuni consumatori, si parla di differenziazione orizzontale. Quando, invece, la dif-
ferenza nella capacità di soddisfare un determinato bisogno è riconoscibile da tutti, per cui un bene presenta
una qualità superiore ad altri, si parla di differenziazione verticale.
Molto spesso i consumatori sono convinti che un prodotto sia di qualità superiore, pur non essendoci dal punto
di vista oggettivo tali differenziazioni. In questo caso, si ipotizza che il consumatore non sempre sia in grado di
distinguere la qualità dei prodotti sostituti, creando una certa rigidità dei consumi che può essere sfruttata dalle
imprese per acquistare una quota di mercato (es. pubblicità, una forma di differenziazione che in certi casi serve
per segnalare ai consumatori la superiorità del prodotto).

I modelli di concorrenza monopolistica

Una maggior differenziazione dei prodotti dà origine ad un mercato intermedio tra la concorrenza perfetta ed il
monopolio, ossia la concorrenza monopolistica. Si ha a che fare con un grande numero di imprese che sono

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libere di entrare ed uscire dal mercato nel lungo periodo e con molti consumatori che percepiscono le differen-
ziazioni dei singoli beni immessi sul mercato. Le imprese in tale mercato abbandonano il comportamento price
taker tipico della concorrenza perfetta, permettendo loro di acquisire un minimo potere di mercato. Esistono due
tipologie di modelli che spiegano tale forma di mercato:

● Modelli del consumatore rappresentativo, i quali prendono spunto dai lavori di Chamberlin e Robin-
son; in essi tutte le imprese tentano di vendere i loro prodotti a tutti i consumatori del mercato. Ciascun
produttore ha uguale probabilità di vendere il proprio prodotto agli acquirenti dei prodotti sostituti a
fronte di una diminuzione di prezzo.
● Modelli di concorrenza spaziale, in cui ogni consumatore ha specifiche preferenze ed è disposto a pa-
gare affinché il suo prodotto preferito contenga tali caratteristiche per poter soddisfare pienamente i
propri bisogni e richieste.
Entrambi i modelli spiegano la differenziazione orizzontale, tuttavia il modello di concorrenza spaziale si appli-
ca meglio a fenomeni di differenziazione verticale, dato che la differenziazione è un dato oggettivo a tutti i con-
sumatori.

Il modello del consumatore rappresentativo

In tale modello il consumatore considera i beni venduti come dei sostituti imperfetti della propria varietà di
prodotto preferita. Le preferenze dei consumatori tenderanno, quindi, a distribuirsi in modo uniforme nella scel-
ta dei beni venduti sul mercato. Dal lato dell’impresa si afferma che ognuna di esse tenderà a specializzarsi nella
produzione di una varietà e, solo nel caso in cui i prezzi di tutti i beni siano gli stessi, ogni impresa vende lo
stesso numero di prodotti, detenendo stesse quote di mercato (esempi di quote di mercato diverse si hanno in
caso di differenze nei prezzi).
Ciascuna varietà ha una curva di domanda a pendenza negativa ed elasticità elevata, in quanto sono presenti
dei beni sostituti. Dal momento che ogni impresa produce una varietà di prodotto, la curva di domanda della va-
rietà di prodotto coincide con la curva di domanda dell’impresa. Nonostante l’alto numero di produttori, ognuno
di essi può contare su curve di domanda simili a quelle di un monopolista. La differenza fondamentale con il
monopolista è che quest’ultimo non ha beni sostituti, cosa che invece, si verifica nel modello in esame. La do-
manda di un qualsiasi bene differenziato che presenta beni sostituti dipende, quindi, dal livello dei prezzi degli
altri beni.

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Nella figura a fianco, si nota che la curva di domanda dell’impresa che produce quella data varietà (di) è elastica
per la presenza di beni sostituti. Nel punto A si nota che il prezzo del bene in questione (pA) è allineato al prezzo
degli altri beni sostituti sul mercato considerato; l’impresa da noi considerata, pertanto, venderà una quantità di
prodotto esattamente uguale a quella delle altre imprese che producono beni sostituti (qA), non a caso la quota di
mercato è esattamente uguale a quella delle altre imprese. Se, invece, il prezzo di una varietà subisse una ridu-
zione (pB), ipotizzando che i prezzi degli altri beni sostituti rimangono stabili, un determinato numero di consu-
matori che preferivano una determinata varietà di prodotto si sposterebbe verso il bene sostituto con minor prez-
zo d’acquisto. L’impresa, quindi, catturerebbe non solo un numero maggiore dei propri consumatori, ma anche
quote di mercato che prima erano ap-
partenute ad altre imprese. Grafica-
mente, l’aumento dei propri consuma-
tori si ha nel segmento C-E, per quan-
to riguarda, invece, la sottrazione di
nuovi consumatori ad altre imprese, ci
si riferisce al segmento E-B. Da notare
il fatto che l’aumento della quota di
mercato si ha solo se le altre imprese
mantengono inalterato il prezzo dei
loro prodotti. Se, invece, le altre im-
prese reagissero ugualmente,
l’impresa considerata non potrebbe
più contare su un aumento di quota di
mercato, mantenendo essa inalterata
allo stesso livello del punto A. Si può verificare un possibile passaggio da quest’ultimo punto al punto E solo
qualora tutte le imprese riducano simultaneamente i prezzi. In questo caso, l’aumento della domanda
dell’impresa è molto più basso; ciò ci permette di disegnare una curva Di che descrive l’andamento della do-
manda dell’impresa nel caso in cui i prezzi di tutte le varietà sul mercato variano allo stesso modo (tale curva è
ovviamente meno elastica rispetto alla curva di).

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Per poter descrivere l’equilibrio di breve periodo nel modello del consumatore rappresentativo, occorre assu-
mere l’ipotesi che le imprese adottano una tecnologia simile e, quindi, un uguaglianza in termini di curve di co-
sto. La funzione di produzione presenta rendimenti marginali decrescenti ed esistono costi fissi, quindi è presen-
te una curva di costo medio con forma ad «U». Le imprese, per poter massimizzare il profitto, producono la
quantità che possa rendere il ricavo marginale (trae origine dall’andamento della curva di domanda) pari al costo
marginale. Come accennato poco fa, l’impresa ha a che fare con due diverse curve di domanda (di in caso di
unica variazione di prezzo, altrimenti se la variazione di prezzo riguarda contemporaneamente tutte le imprese si
ha Di). Per poter stabilire quale delle due curve sia quella di riferimento si assume un’ulteriore ipotesi: qualun-
que sia la scelta di produzione dell’impresa,
i rivali non modificano in alcun modo il
loro comportamento (motivazione riscon-
trabile nel fatto che l’impresa si ritiene tal-
mente piccola all’interno del mercato che
non influenza le altre scelte).
Le caratteristiche dell’equilibrio di breve
periodo innanzitutto consistono in
un’uguaglianza tra costo e ricavo margina-
le. In corrispondenza della quantità di equi-
librio (qiCM) l’impresa applica il prezzo di
equilibrio (pCM) letto in corrispondenza del
punto CM sulla curva di domanda di. Il ten-
tativo di sottrarre clienti ai concorrenti da
parte della nostra impresa generica non rie-
sce in alcun modo, dato che i rivali reagi-
scono all’impresa abbassando a loro volta i prezzi (non a caso per il punto CM passa anche la curva di domanda
meno elastica Di). L’impresa, quindi, realizza il profitto solo nell’area in cui il prezzo supera il costo medio.
L’impresa, tuttavia, può conseguire perdite nel breve periodo, purché abbia un minimo surplus per coprire i costi
fissi.

Nel lungo periodo vi è una piena recuperabilità


dei costi fissi e libertà di entrata e uscita dal
mercato. L’equilibrio di lungo periodo man-
tiene le caratteristiche dell’equilibrio di breve;
occorre aggiungere che, in virtù della libertà di
entrata e di uscita dal mercato, nuove imprese
continueranno ad entrare nel mercato concor-
renziale fino a quando i profitti delle imprese
sono nulli (in altre parole, il prezzo è uguale al
costo medio).

Lo scenario che si ottiene dal modello del con-


sumatore rappresentativo è molto simile alla
concorrenza perfetta, in quanto i profitti sono nulli e le imprese non adottano gradi di differenziazione diversi,
non permettendo loro di acquisire una posizione dominante.

Nel modello del consumatore rappresentativo l’ipotesi che le imprese concorrono per la conquista degli stessi
clienti pone alcuni problemi. Il consumatore, infatti, una volta abbandonata la varietà preferita, considera tutte le
altre in modo simmetrico. Con quest’ultima ipotesi, sorgono molti problemi in fase di definizione dei limiti del
mercato entro i quali le imprese concorrono e dell’applicabilità dello stesso modello del consumatore rappre-
sentativo.

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La concorrenza spaziale

Le critiche rivolte al modello del consumatore rappresentativo hanno spinto la letteratura economica verso la
costruzione di ulteriori nuovi modelli, in cui le preferenze dei consumatori sono sicuramente più realistiche: i
consumatori non ritengono necessariamente che tutti i prodotti siano sostituibili, ma hanno delle specifiche pre-
ferenze. Tale affermazione rappresenta il modello di concorrenza spaziale. In tali modelli le varietà di prodotti
vengono rappresentate lungo un asse o una circonferenza. Quanto sono più distanti le diverse varietà, tanto
maggiore è il sacrificio che il consumatore sopporta spostandosi da una varietà ad un’altra. Questo spostamento
può essere effettivo (costi di trasporto) oppure figurato.

Una versione piuttosto semplice di concorrenza spaziale si deve ad Hotelling, il quale immagina che i prodotti
differiscano per un unico aspetto e che in consumatori si distribuiscano lungo l’asse delle preferenze.
In tale modello viene definito come equilibrio quella situazione in cui entrambe le imprese non desiderano
cambiare la propria strategia (vedi punto E, posto esattamente al centro dell’asse). Quando le imprese possono
fissare anche il prezzo, lo sce-
nario cambia sostanzialmente:
un’impresa può reagire me-
diante maggior differenziazio-
ne; la curva di domanda
dell’impresa diventa sempre
più rigida, mantenendo alto il
prezzo senza il rischio di perdere molti clienti. Tale modello si applica bene alla differenziazione verticale, caso
in cui i consumatori sono disposti a pagare qualsiasi prezzo per ottenere un bene specifico che sappia soddisfare
determinati bisogni. Quando le imprese possono cambiare le caratteristiche del prodotto senza incorrere in ul-
teriori costi di diversificazione, non esiste un vero e proprio equilibrio e, quindi, è soggetto ad una forte dinami-
cità.

Per superare tali problemi sull’equilibrio dei modelli basati sull’asse delle preferenze, sono state proposte figure
circolari. I consumatori si distribuiscono uniformemente lungo una circonferenza i cui punti rappresentano pos-
sibili varietà di prodotto. I consumatori acquistano la varietà che consente loro di ottenere il maggiore surplus,
anche tenendo conto dei costi di spostamento; in ogni caso non pagano oltre un determinato prezzo di riserva,
raggiunto il quale essi decidono di acquistare un bene completamente diverso. Le imprese devono decidere co-
me differenziare i propri prodotti; esse, avendo concorrenti a destra e a sinistra dei punti sulla circonferenza,
tenderanno ad allontanarsi il più possibile da esse per poter mantenere la porzione più ampia possibile di merca-
to.

L’equilibrio di breve periodo prevede che le im-


prese fissino lo stesso prezzo ad un livello comun-
que inferiore a quello del mercato di monopolio; la
differenziazione dei prodotti raggiunge il massimo
livello e le varietà di prodotto sono a livello di punti
equidistanti tra loro.
Nell’equilibrio di lungo periodo, se i costi margi-
nali sono costanti, l’equilibrio si raggiunge con un
determinato numero di imprese fino a quando nes-
sun nuovo produttore desidera entrare, rendendo i
profitti nulli. All’aumentare delle imprese, il prezzo
deve abbassarsi; allora, se i costi fissi aumentano, le
imprese devono aumentare i prezzi per coprire tali
costi e rendere i profitti nulli, possibile solo quando
alcune imprese escono dal mercato. In sintesi, se
aumentano i costi fissi, allora le varietà prodotte subiranno un calo, mentre se fossero i costi marginali ad au-
mentare, non si avrebbe alcuna variazione nelle quantità, aumentando progressivamente i prezzi.

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11 | L’oligopolio
La percezione dell’interdipendenza

Quello del modello di Hotelling è un primo caso di interdipendenza, la quale si verifica quando le imprese sul
mercato possono incidere sul comportamento dei rivali e, a loro volta, vengono influenzate. L’interdipendenza è
elevata quando sul mercato operano poche imprese, pertanto si può parlare di oligopolio. Il tema
dell’interdipendenza tiene conto dell’ipotesi di perfetta omogeneità del prodotto, a differenza dei mercati di con-
correnza monopolistica.

Il duopolio di Cournot

Il modello più semplice di oligopolio si deve a Cournot, il quale formulò nel secolo scorso un’analisi
nell’interazione tra due imprese (appunto, duopolio di Cournot). Nel mercato esistono due imprese che produ-
cono beni esattamente omogenei e, quindi, perfettamente sostituibili dal punto di vista dei consumatori. La do-
manda di mercato presenta la classica pendenza negativa e le due imprese hanno come obiettivo fondamentale
quello di massimizzazione del profitto. Una volta prodotte, le due quantità vengono vendute sul mercato al prez-
zo al quale i consumatori sono disposti ad acquistarle; le due imprese, pertanto, agiscono in modo simultaneo,
senza però conoscere la quantità prodotta dall’altra impresa. Le due imprese, però, conoscono rispettivamente le
proprie caratteristiche produttive, ossia la struttura dei costi (stesse curve di costo, si ipotizza la curva di costo
marginale perfettamente costante, orizzontale).
In sintesi, sono due gli aspetti importanti dell’interdipendenza delle imprese:

a) Le decisioni di ogni duopolista dipendono dalla sue aspettative sulle scelte del rivale;
b) Le decisioni di ogni impresa duopolista possono retroagire con l’effetto di influenzare il concorrente a
mutare le proprie scelte.
Per procedere all’analisi occorre definire due aspetti:

● Ipotesi di variazione congetturale nulla: ciascuna impresa ritiene che la quantità fissata dal rivale non
muti al variare della produzione. Ogni impresa, quindi, può essere in grado di formulare ipotesi e aspet-
tative sulla quantità del rivale, producendo in base a tali aspettative. L’impresa, tuttavia, non si preoc-
cupa di una possibile variazione delle scelte dell’impresa concorrente, attribuendo valore nullo a tale
concetto di interdipendenza (variazione congetturale nulla).
● Monopolio sul mercato residuale: entrambi i duopolisti detengono la supremazia assoluta del mercato
residuo, ossia di quella quota di mercato non coperta dalle vendite dell’altra impresa; l’impresa consi-
derata si comporta, quindi, come monopolista sulla domanda residuale.
L’impresa generica formula ipotesi sulla quantità prodotta dal rivale, calcolando direttamente la propria doman-
da residuale DR(q2) e stabilisce la quantità migliore da produrre (q1). Quest’ultima varia, allora, in funzione
dell’aspettativa iniziale; tale relazione che mostra la migliore risposta dell’impresa generica per ogni possibile
strategia dell’impresa concorrente è chiamata funzione di reazione.

1. Per la costruzione della funzione, inizialmente occorre formulare le diverse aspettative della prima im-
presa circa la produzione del rivale (l’impresa concorrente può produrre q2’ e q2’’, stabilendo che la
prima sia maggiore della seconda).

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2. Successivamente si costruiscono le domande residuali, partendo dai valori ipotizzati per q2 (si sottrae
dalla domanda di mercato l’aspettativa del rivale). Le due domande residuali ottenibili in corrisponden-
za delle aspettative sono rispettivamente DR(q2’) e DR(q2’’) nei due grafici in alto. Graficamente DR
rappresenta uno spostamento parallelo della curva di domanda di mercato per l’aspettativa del concor-
rente duopolista. Il prezzo del bene prodotto è ovviamente unico, in quanto il prodotto è omogeneo,
escludendo eventuali diffe-
renze di prezzo. Il mercato
tenderà ad aggiustare automa-
ticamente il prezzo assorben-
do la produzione dei due
duopolisti. Una volta ricavate
le due curve di domanda resi-
dua, l’impresa può agire co-
me un monopolista.
3. In seguito si ricava la quanti-
tà ottimale da produrre, te-
nendo conto del potere di
monopolio sul mercato resi-
duo. Nei due grafici in alto si
osserva che la quantità otti-
male corrisponde
all’intersezione tra costo
marginale (costante, ossia
orizzontale) e ricavo margi-
nale, rendendo questi ultimi
uguali nel punto
d’intersezione. Il prezzo, in-
vece, si ha in corrispondenza
della curva di domanda resi-
duale.
La risposta ottimale è, quindi, negativamente correlata alla produzione del rivale, infatti, nel caso la quantità
prodotta dal rivale fosse elevata, la domanda residuale dell’impresa generica sarebbe nettamente più bassa, e vi-
ceversa. Per ogni valore atteso di q2 (quantità prodotta dal rivale) esiste, quindi, sempre una risposta ottimale,
identificabile con la funzione di reazione rappresentata dalla
retta inclinata negativamente fr1.

Anche per la seconda impresa esiste una funzione di reazione,


ottenuta sulla base della produzione della quantità q1 relative
all’impresa 1. Tale funzione è anch’essa rappresentata da una
curva di domanda negativamente inclinata (fr2).
Più generalmente, sulla retta fri vengono rappresentate le produ-
zioni che garantiscono il massimo profitto dell’impresa i per
ogni possibile quanti-
tà dell’impresa j.

Ogni impresa tenta di


portarsi sulla propria funzione di reazione con il fine di massimizzare
il proprio profitto. Questo duopolismo fa sì che nel modello di Cour-
not nasca una specie di gioco fra le due imprese nel quale entrambe
devono prevedere le scelte dell’impresa rivale. Il gioco tra le due im-
prese si ritiene, pertanto, in equilibrio quando entrambe le imprese
producono la quantità ottimale, data la quantità di equilibrio prodotta
dal rivale (non sono indotti a deviare dal gioco). Graficamente,

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l’equilibrio della concorrenza nel modello di Cournot si ha nell’intersezione delle due funzioni di reazione.

LA TEORIA DEI GIOCHI

Il paragone tra modello di Cournot e gioco tra i due rivali non è affatto casuale, in quanto uno degli sviluppi del-
la teoria economica è rappresentato dalla teoria dei giochi, la quale offre strumenti di analisi per interpretare
l’interdipendenza oligopolistica.
L’equilibrio sviluppato precedentemente rappresenta un’applicazione in termini generali del concetto di equili-
brio nell’ambito della teoria dei giochi dal vincitore del premio
Nobel Nash. Esaminiamo ora le caratteristiche di tale modello
elaborato da Nash:

A) Le strategie:
Prendendo in considerazione due possibili strategie
per ogni impresa, si può affermare che l’impresa 1 po-
trebbe produrre q1C e q1S; la seconda impresa, invece,
potrebbe produrre le quantità q2C e q2S. Rappresentano
queste situazioni in un grafico, si giunge a conclusione
che esistono quattro possibili esiti di equilibrio nei
punti C, S, A e B.
B) I guadagni:
Per poter descrivere il «gioco», occorre precisare
l’entità delle vincite in palio; si tratta di associare a ciascuna coppia di strategie i profitti che le due im-
prese ricaverebbero. Dato che non si hanno a disposizione informazioni precise sulle curve di domanda
e sulle funzioni di costo delle due imprese, occorre fare delle ipotesi. Supponendo che nel punto C le
due quantità prodotte siano uguali e, essendo simili i costi delle due imprese, i profitti non possono che
essere uguali (π1C e π2C danno lo stesso profitto ipotizzando, per esempio, pari a 50). Guardando il gra-
fico, nel punto S, la quantità prodotta dalla prima impresa aumenta, mentre quella della seconda dimi-
nuisce; ciò significa che, in termini di profitto, π1 sarà maggiore di π2 (in termini numerici, ipotizziamo
π1 uguale a 60 e π2 uguale a 30). Nel punto A, la quantità della prima impresa è rimasta invariata (ri-
spetto a q1C), mentre si è ridotta quella della seconda impresa. La prima impresa sta meglio rispetto a C
ed anche a S; la seconda impresa, invece, sta peggio rispetto a C, ma meglio rispetto ad S (l’impresa 1
potrebbe diminuire il prezzo su una maggiore produzione). A livello di profitti, si ipotizzano π1 pari a
70 e π2 pari a 40. Nel punto B, infine, entrambe le imprese stanno peggio rispetto ad S e C, pertanto si
ipotizzano π1 pari a 20 e π2 pari a 20.
C) La forma strategica:
Per rappresentare il modo strategico si utilizza la c.d. forma strategica che si rappresenta mediante una
matrice le cui righe rappresentano le strategie dell’impresa 1 e le colonne le strategie dell’impresa 2.

Per poter ricavare l’equilibrio di Cournot-Nash, occorre riprendere il concetto di equilibrio trattato preceden-
temente, ossia l’esito dal quale nessun «giocatore» ha incentivo a deviare le condizioni imposte dalla teoria del
gioco. Si prendono in considerazione, quindi, le singole caselle della matrice:

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● Casella in basso a sinistra:


Se la prima impresa producesse q1S alla seconda non converrebbe produrre q2C perché potrebbe portare
il suo profitto da 20 a 30 producendo q2S. Il punto B non è di equilibrio.
● Casella in basso a destra:
Se la seconda impresa producesse q2S, alla prima impresa non converrebbe in alcun modo produrre q1S
quando, invece, potrebbe portare il profitto da 60 a 70, producendo in q1C. Nemmeno il punto S è di
equilibrio.
● Casella in alto a destra:
Se la prima impresa producesse q1C, la seconda impresa produrrebbe q2C per portare i profitti da 40 a
50. Nemmeno il punto A è di equilibrio.
● Casella in alto a sinistra:
Rappresenta l’unica alternativa in cui il sistema è in equilibrio, in quanto entrambe le imprese non han-
no convenienza a deviare la teoria dei giochi verso altri livelli produttivi, in vista di minori profitti. Non
a caso il punto C rappresenta l’equilibrio nel modello di Cournot.
È bene sottolineare che gli equilibri di Nash si verificano nei casi di giochi non cooperativi, ossia
nell’impossibilità di stipulare accordi vincolanti tra le singole imprese. A tale concetto si distingue quello di gio-
chi cooperativi, ossia in presenza di accordi vincolanti per le imprese presenti nel «gioco»: l’esistenza di giochi
cooperativi si ha nella collusione.

La collusione

Fino a questo momento non è mai stata presa in considerazione l’eventualità che le imprese potessero costituire
forme di cooperazione sul mercato. In precedenza, si è percepito che nell’oligopolio i concorrenti, con
l’obiettivo di massimizzare il proprio profitto, cercano di danneggiarsi a vicenda; ecco l’utilità nella stipulazione
di accordi che limitino la concorrenza reciproca. Le imprese, quindi, formano un cartello, il cui obiettivo è quel-
lo di massimizzare i profitti delle imprese che partecipano all’interno dell’accordo stesso. Il cartello, quindi, mi-
ra alla produzione di una quantità pari a quella prevista nel mercato di monopolio.

Non si ha, tuttavia, un’idea di come questa produzione debba essere ripartita tra gli aderenti all’accordo. La re-
gola generale prevede che, data una quantità da produrre (QM), se si hanno diversi impianti tra i quali ripartire la
produzione è possibile minimizzare i costi totali assegnando quote che rendano uguali i costi marginali di tutti
gli impianti. Un esempio è rappresentato dalle tabelle a fianco: nella prima tabella si può notare che, per ugua-
gliare i costi marginali di entrambe le imprese, conviene far produrre alla prima impresa una quantità pari a 2 ed
alla seconda una quantità pari a 3 (la QM della seconda tabella è, infatti, pari a 3, che deve essere ripartita tra le
imprese facenti parte del cartello); la seconda tabella mostra gli effetti che quest’ultima decisione provoca sui
costi totali, infatti, la somma dei costi totali di entrambe le imprese è più bassa che in altre diverse ripartizioni
dei costi (la somma dei costi è, infatti, di 31).

q Cma1 Cma2

1 7 12

2 12 15

3 14 20

QM q1 q2 CT1 CT2 CT1 + CT2

3 3 0 33 0 33

3 2 1 19 12 31

3 1 2 7 27 34

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3 0 3 0 47 47

Oltre alla quantità totale da produrre e allo schema


di ripartizione, occorre un sistema di controllo
che eviti possibili deviazioni dal cartello, consen-
tendo di punire i trasgressori. Questo elemento è
particolarmente importante in quanto, se è vero
che i membri aderenti al cartello hanno conve-
nienza ad aderire ad esso, è altrettanto giusto af-
fermare che ogni impresa aderente è incentivata a
tradire l’accordo, una volta che tutte le altre im-
prese hanno aderito. Per chiarire questo punto ci si
serve di un grafico che riporta le funzioni di rea-
zione dei due oligopolisti. Il punto C è il classico
equilibrio di Cournot, mentre il punto coll rappre-
senta l’accordo tra le due imprese, le quali si divi-
dono il mercato nella produzione di due quantità
(q1coll e q2coll). I punti T1 e T2 rappresentano l’esito
maggiore in termini di profitto (il primo nel caso dell’impresa 1 ed il secondo in caso dell’impresa 2), qualora
una delle due imprese, confidando nel rispetto dell’accordo da parte dell’altra impresa, sia incentivata a tradire,
spostandosi sulla propria funzione di reazione.

Dalla figura in alto si può notare che il gioco ha un solo equilibrio di Nash, ossia quello rappresentato nella
combinazione che presenta il tradimento da parte di entrambe le imprese. Secondo quanto prevede il modello di
Cournot, si prevede che il «non aderire» costituisce una strategia dominante, cioè che garantisce profitti più
elevati della strategia alternativa, indipendentemente da quello che fa l’avversario. Il gioco illustrato in figura
costituisce uno strumento fondamentale di analisi, in quanto suggerisce che la cooperazione è un risultato im-
possibile, o almeno estremamente difficile, e assolutamente meno vantaggioso per entrambi i giocatori. Il gioco
preso in esame ha preso il nome di dilemma del prigioniero, prendendo spunto dalla possibilità di indurre la
confessione da parte di entrambi i complici di un delitto. Sotto il profilo del benessere sociale, è assolutamente
dannoso che entrambe le imprese decidano di colludere, in quanto si tornerebbe ad una forma di mercato di mo-
nopolio (zona di perdita, con la conseguenza che aumenta il surplus del produttore, facendo diminuire quello del
consumatore).
In sintesi, le condizioni che favoriscono la collusione sono:

a) Basso numero di imprese, infatti è più facile accordarsi sulle quote di produzione, l’incentivo a tradire
da parte delle imprese è minore in presenza di poche imprese ed il controllo di possibili tradimenti
dell’accordo presenta costi relativamente minori in presenza di poche imprese.
b) Ampia quota di mercato, in modo da essere in grado di influenzare il prezzo in modo sostanziale.
c) Comunicazione efficiente, ossia quando si ha un organo istituzionalizzato in grado di garantire la co-
municazione tra le imprese e di creare occasioni di incontro per scambiare opinioni tra le imprese part-
ner (per mezzo dei loro manager).

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d) Costi marginali crescenti, in quanto l’instabilità del cartello viene meno qualora vi siano imprese che
hanno incentivo a deviare, ossia quando tali imprese possano avere costi marginali decrescenti.

Il modello di Stackelberg

Il gioco della competizione tra le imprese ora viene preso nella possibilità che una delle due imprese possa effet-
tuare la sua mossa in anticipo rispetto all’altra. Il gioco, in questo caso, non viene più detto simultaneo, bensì
sequenziale.
La sequenzialità dà all’impresa che agisce per prima (l’impresa leader) un vantaggio enorme rispetto
all’impresa che segue (l’impresa follower), il quale può essere utilizzato per incrementare i profitti.

Il gioco appena descritto potrebbe essere rappresentato nella figura in alto: per poter sfruttare al meglio possibile
il vantaggio nell’effettuare la prima mossa, l’impresa leader deve essere in grado di prevedere le mosse
dell’impresa follower. È evidente che il massimo profitto del leader si ha nel caso di (q1C, q2S). Questo esito, tut-
tavia, non può verificarsi, in quanto il follower produrrebbe q2C per portare i profitti da 40 a 50. Negli altri casi,
come si è visto precedentemente in altre applicazioni, l’equilibrio di questo gioco sequenziale è quello rappre-
sentato dalla coppia produttiva (q1S, q2S).
Questo modello è stato introdotto da Stackelberg, presentato in versione moderna rispetto alla teoria dei giochi.
In generale, l’impresa leader anticipa tutte le mosse dell’impresa follower, cercando di calcolare la funzione di
reazione e di selezionare il punto sul quale può ottenere il massimo profitto, tenendo conto delle possibili mosse
del follower. La rappresentazione più moderna del modello è fornita in questa figura:

La competizione di prezzo: Bertrand

I modelli precedenti si basano sull’ipotesi che le imprese assumano decisioni sulle quantità da produrre, essendo
possibile aggiustare il prezzo in ogni circostanza per vendere tutto l’output. Questa ipotesi fu considerata estre-
ma da Bertrand, il quale, sostituendo il prezzo alla quantità come variabile strategica, si ottiene un risultato
completamente diverso.
Si consideri due imprese con strutture di costo uguali che competono sul mercato con gli stessi prezzi di vendita.
Esse, anziché decidere la quantità, decidono il prezzo, consapevoli che dovranno offrire al mercato a quel prezzo
tutta la produzione richiesta. Ciascuna impresa, quindi, prende in considerazione diversi livelli di prezzo e valu-
ta quale applicare.

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Le due imprese arriverebbero a portare il livello dei prezzi al costo marginale, cercando almeno di coprire i costi
variabili e accettando di dividere il mercato con il concorrente rivale. A differenza del modello di Cournot, il
quale sosteneva che l’equilibrio di mercato è sempre più vicino a quello della concorrenza perfetta, con la pre-
senza di un numero sempre maggiore di imprese, Bertrand dimostra, invece, che anche in presenza di due sole
imprese il mercato può trovarsi in condizione di equilibrio.

13 | Nuovi contributi all’analisi dell’impresa e dell’organizzazione del mercato


Le funzioni dell’impresa, l’organizzazione del settore e del mercato

La teoria neoclassica si è sempre interessata dell’attività dell’impresa e del settore, sviluppando l’aspetto tecno-
logico della produzione, senza, tuttavia, indagare sulla natura di tali ripartizioni delle varie fasi del processo
produttivo o di spiegare le determinanti di tale fenomeno.
Nel mondo economico cresce, quindi, l’attenzione per gli aspetti organizzativi e relazionali a scapito di quelli
produttivi.

Un contributo a questa analisi viene dato dalla teoria delle funzioni dell’impresa, la quale venne proposta da
Stigler nel 1951. Per poter trattare a pieno tale teoria occorre, inizialmente, introdurre due ipotesi: la prima ipo-
tizza che le funzioni dell’impresa non siano correlate, mentre la seconda ipotizza che vi sia una proporzione
sempre costante tra il tasso di output di ogni funzione e quello del prodotto finale. Grazie a queste due ipotesi è
possibile ricavare il costo medio finale del prodotto come somma dei costi medi delle singoli funzioni
dell’impresa.
Se l’impresa dovesse crescere di dimensioni, potrebbe sfruttare i rendimenti crescenti, anche se sarà frenata dai
rendimenti decrescenti di alcune fasi e funzioni. Per l’impresa sorge un dilemma, in quanto potrebbe esternaliz-
zare quelle fasi di lavoro che rallentano la crescita dell’impresa stessa.
Tale dilemma può essere risolto tramite un apporto fondamentale al concetto di impresa, fornito da Coase, il
quale affermò che l’impresa è un’organizzazione economica che offre beni o servizi in un mercato, utilizzando
risorse umane e capitale per compiere una trasformazione economica. L’impresa è, quindi, un’istituzione che
evolve nel tempo che organizza i fattori produttivi per fornire beni/servizi al mercato. Le imprese, tuttavia, pos-
sono esistere, sempre secondo Coase, quando i costi di transazione sono positivi, mentre non esistono affatto
quando i costi di transazione sono nulli. In sintesi, per poter risolvere il dilemma dell’internalizzazione o ester-
nalizzazione, la soluzione di Coase-Stigler prevede che l’impresa deve cercare di produrre ad un costo inferio-
re rispetto a quello di acquisto di mercato.

Il governo delle relazioni contrattuali fra soggetti economici

La teoria delle funzioni dell’impresa costituisce un passo in avanti rispetto all’analisi neoclassica, in quanto af-
ferma la presenza di una pluralità di forme organizzative. Nonostante questo merito, la teoria presenta ancora il
limite di non aver spiegato le implicazioni della sua analisi in riferimento ai costi di governo delle relazioni
contrattuali (costi delle transazioni).
A differenza del concetto precedente, ora ci si riferisce al vero e proprio rapporto di scambio fra i soggetti eco-
nomici del sistema, ossia alle transazioni. L’impresa in questa nuova prospettiva non è più un soggetto che of-
fre solo beni/servizi ai consumatori finali, ma si comporta anche come acquirente di beni e/o servizi con precisi
obiettivi e strategie. Il termine scambio, utilizzato in precedenza dalla teoria neoclassica per indicare il compor-
tamento del mercato, ora viene sostituito da quello di rapporto contrattuale e di transazione. Le transazioni in-
terindustriali dovrebbero, quindi, diventare l’oggetto dell’analisi della teoria delle funzioni dell’impresa. Alla
base delle transazioni vi è il contratto che si instaura tra le parti; al posto del «centralismo legale» del banditore
che risolve le controversie senza costi aggiuntivi, si ha l’azione del tribunale per risolvere le controversie.

Ciò che giustifica l’impresa sono i costi di transazione, ossia i costi d’uso del mercato. Secondo l’analisi fornita
da Williamson, si hanno quattro tipologie di costi:

1) Costi di ricerca e di selezione del partner più adatto ad una determinata transazione;

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2) Costi di negoziazione, ossia quelli necessari per giungere ad un accordo circa i termini della transazio-
ne stessa;
3) Costi di controllo sull’esecuzione della transazione, per assicurarsi che la controparte si attenga scrupo-
losamente ai termini del contratto;
4) Costi sostenuti per l’imposizione della transazione in caso di non osservanza dell’accordo stipulato.

Le caratteristiche della natura umana e delle transazioni

LE CARATTERISTICHE DELLA NATURA UMANA

● Capacità cognitiva dell’individuo, inteso come comportamento razionale, ossia la capacità di formula-
re e risolvere problemi complessi. Tale razionalità è, tuttavia, limitata, in quanto si ipotizza che il
comportamento dell’individuo non tutti i soggetti dispongono della stessa quantità di informazioni in
termini contrattuali, pertanto cade il concetto tradizionale della razionalità assoluta nella scelta tra mez-
zi e fini.
● Comportamento opportunistico, ossia che il soggetto ricerchi sempre il proprio interesse anche con
l’astuzia, la frode e l’inganno.
● Bisogno di riconoscimento, ossia della stima, prestigio, successo personale e tutti gli elementi extra-
economici che si aggiungono al profitto economico.
La presenza dei primi due fattori implica l’impossibilità di stipulare e realizzare contratti perfetti e/o completi, in
quanto gli enti economici devono sostenere costi di transazione.

LE CARATTERISTICHE DELLA TRANSAZIONE

● Specificità delle risorse oggetto della transazione, ossia quelle che comportano degli investimenti du-
revoli. Il valore di queste risorse diventerebbe di molto inferiore se, in quanto sono specifiche e in se-
guito alla risoluzione prematura del contratto, esse venissero destinate ad usi diversi o utilizzate da di-
versi utenti.
● Incertezza: alla base di ogni transazione vi è una valutazione soggettiva delle singole informazioni. In
condizioni di incertezza, queste informazioni non sono più disponibili e utilizzabili da tutti o, almeno,
non più con lo stesso grado di affidabilità. Tali problemi si potrebbero evitare con una maggiore infor-
mazione. L’incertezza può avere diverse origini, pertanto si distinguono:
○ Incertezza «primaria», ossia riferita ad eventi casuali della natura o riferibili a cambiamenti
improvvisi ed imprevedibili dei consumatori.
○ Incertezza «secondaria», ossia attribuibile all’assenza di comunicazione fra gli operatori
economici che non permette di scoprire le decisioni del concorrente.
○ Incertezza «comportamentale», ossia la diretta conseguenza dell’opportunismo delle parti
che volontariamente alterano le informazioni in modo falso o con minacce.
● Frequenza delle transazioni, in quanto la maggior ripetitività delle transazioni consente di recuperare
facilmente i costi degli investimenti effettuati per l’organizzazione.

LA SCELTA MAKE OR BUY

I costi di transazione dipendono dalla specificità delle risorse, dall’incertezza e dalla frequenza con cui esse av-
vengono. In base alle diverse caratteristiche di esse:

● l’impresa opta per l’acquisto (buy) quando non vi è una specificità delle risorse, vi è certezza nelle
transazioni e che esse sono poco frequenti;
● l’impresa opta per la produzione interna (make) quando vi è una maggior specificità delle risorse, vi è
incertezza nelle transazioni e che esso sono molto frequenti.

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14 | L’incertezza e l’informazione
L’agency problem

In presenza di incertezze informative (le c.d. asimmetrie informative), le forze di mercato non possono essere
in grado di allocare in modo efficiente tutte le risorse disponibili. Occorre, quindi, considerare le conseguenze in
previsione di un nuovo approccio chiamato contratto di agenzia (rapporto principal-agent); tale relazione è
presente in tutti gli accordi e contratti di natura implicita ed esplicita dai quali ha origine la transazione.

La caratteristica essenziale del contratto di agenzia è la presenza di due individui: il principal e l’agent. Il primo
affida al secondo il compito di svolgere una determinata azione; il secondo deve scegliere, tra più possibili al-
ternative, quella che assicura un maggior benessere ad entrambi i soggetti. Il primo soggetto, invece, deve solo
prescrivere una regola di liquidazione del compenso del secondo soggetto; la regola viene, ovviamente, prescrit-
ta prima di intraprendere il contratto di agenzia e obbliga il primo soggetto a pagare il secondo (la parte residua
costituisce il compenso del primo soggetto). Il contenuto di tutti questi elementi deve essere iscritto in un con-
tratto, sapendo bene che gli interessi delle due parti non coincidono: il compenso spettante all’agent deve essere
particolarmente incentivante per indurlo a raggiungere l’obiettivo.
Il rapporto tra i due soggetti sopra descritto diventa piuttosto problematico quando l’informazione a disposizione
dei due contraenti è differente, in presenza di incertezza. Dalla figura si può affermare che si possono individua-
re due situazioni differenti.

L’AZIONE NASCOSTA

Il caso tipico è quello definito da Arrow di azione nascosta (o azzardo morale), in cui si fa l’ipotesi che l’azione
dell’agent non sia direttamente osservabile dal principal e che, quindi, il risultato finale sia determinato esclusi-
vamente dall’azione dell’agent. Il risultato dell’azione è una variabile x(a, Z), ossia che dipende dall’azione (a)
dell’agent e dalla moltitudine degli eventi casuali della natura (Z). Anche il compenso dell’agent (s) sarà varia-
bile, in quanto dipende dal suo operato, ossia 𝑠[𝑥(𝑎, 𝑍)]. Ipotizzando che i due contraenti adottino un compor-
tamento per massimizzare la propria funzione di utilità, si nota che, una volta che il principal definisce la regola
del compenso in relazione al risultato conseguito, l’agent potrà massimizzare il risultato atteso in relazione al
compenso. Il principal può indirettamente controllare l’operato dell’agent, anche se è il secondo soggetto che
sceglie direttamente l’azione.
Introducendo il concetto di rischio, si nota che il rapporto tra i due soggetti evidenzia due aspetti problematici,
ossia la semplice condivisione del rischio e la condivisione del rischio in presenza di asimmetrie informative.

a) Semplice condivisione del rischio: si verifica quando entrambi i contraenti sono avversi al rischio. In
questo caso, oltre alla definizione dei compensi, si potrebbe anche definire una seconda regola di ripar-
tizione dei rischi connessi all’azione dell’agent. Se quest’ultimo soggetto fosse indifferente al rischio, il

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principal gli potrebbe scaricare tutti gli oneri derivanti dalla sua azione. Il principal quantifica
l’ammontare del rischio e trattiene per sé una quota di reddito, quindi il reddito dell’agent sarebbe
composto da un compenso lordo comprendente il rischio dell’azione.
b) Condivisione del rischio in presenza di asimmetrie informative: tale situazione considera, invece, la
presenza di asimmetrie informative che crea un trade-off tra compensi ed efficienza del sistema. Ecco
la definizione di agency problem. La caratteristica fondamentale è che il principal non può valutare
l’azione dell’agent (nemmeno indirettamente) e, quindi, non può stabilire un compenso che sia allo
stesso tempo incentivante ed efficiente.

L’INFORMAZIONE NASCOSTA

In questo caso di informazione nascosta (o selezione avversa), l’agent ed il principal hanno diverse informa-
zioni riguardo alla caratteristiche del contratto, pertanto l’agent decide la propria azione sulla base di sue osser-
vazioni. L’azione in sé può essere anche osservabile dal principal, ma quest’ultimo non può essere in grado di
comprendere se rappresenti o meno l’azione più appropriata ed efficiente, dal momento che non conosce tutte le
possibili alternative dell’agent. Uno dei casi più studiati è quello dell’economia socialista pianificata, dove le
unità produttrici (agent) sono in possesso delle informazioni sulle proprie possibilità produttive, ma che spesso
non vengono comunicate all’apparato centrale (principal). L’agency problem, nell’ipotesi di selezione avversa,
è quello di stabilire a priori un sistema di incentivi e compensi che si dimostri successivamente inefficiente, dato
che le informazioni scambiate fra le parti provocano distorsioni delle scelte e, quindi, dei risultati.

15 | La determinazione del reddito nazionale


Le ipotesi dell’approccio macroeconomico

Il comportamento del sistema economico può essere analizzato nel suo complesso, individuando alcune variabili
rilevanti quali il reddito nazionale o il livello generale dei prezzi. Tale ragione costituisce un’interdipendenza tra
i diversi mercati, ossia essi sono potenzialmente in grado di influenzarsi reciprocamente, e dall’impossibilità di
spiegare alcuni fenomeni attraverso un approccio microeconomico. Questo nuovo approccio viene fornito
dall’analisi macroeconomica, con la quale si esplicitano simultaneamente le diverse variabili che compongono
il sistema economico. Si ipotizza, pertanto, un solo settore produttivo con un unico bene finale omogeneo, senza
differenze strutturali nell’economia. Attraverso un’analisi più realistica, il metodo dell’aggregazione porta ad
analizzare il comportamento di quattro mercati: i beni ed i servizi, il lavoro, la moneta e le attività finanziarie (o
titoli). I primi due misurano delle quantità flusso, mentre gli ultimi due misurano delle quantità stock.

Si considera la presenza di tecnologia e di capitale in modo costante, dato che viene analizzato solo l’equilibrio
di breve periodo, e si considera l’ipotesi di un’economia chiusa, ossia in cui non vi siano scambi con l’estero

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L’equilibrio contabile del PIL e del reddito

Il PIL può essere inteso come flusso di spesa o come flusso di redditi. In entrambi i casi il valore dei beni e ser-
vizi a prezzi di mercato è identico, quindi è possibile rendere vera la seguente identità:

𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + (𝑋 − 𝐼𝑚) = 𝑃𝐼𝐿 = 𝐶 + 𝑆 + 𝑇 + 𝑇𝑅𝑒

dove: C = Consumi di beni e servizi delle famiglie


I = Investimenti delle imprese
G = Acquisti di beni e servizi della Pubblica Amministrazione
(X-Im) = Esportazioni nette di beni/servizi
S = Risparmio lordo famiglie e imprese
T = Imposte nette della Pubblica Amministrazione
TRe = Trasferimenti netti dall’estero

Analizzando meglio l’equilibrio contabile del PIL, è possibile osservare che la sezione a sinistra misura il PIL
come flusso di spesa nei beni finali da parte dei soggetti economici (famiglie, imprese, Pubblica Amministra-
zione ed estero), mentre la sezione a destra misura il PIL come flusso di redditi guadagnati nel processo produt-
tivo. Trascurando il settore estero, l’identità precedente si riscrive in questo modo:

𝐶+𝐼+𝐺 = 𝑌 =𝐶+𝑆+𝑇

dove: Y = valore del PIL/reddito interno lordo

Questo sistema prende in considerazione, a differenza del sistema microeconomico, la domanda aggregata
come valore di beni e servizi richiesti da famiglie, imprese e Pubblica Amministrazione; l’offerta aggregata,
infatti, è composta dalla produzione necessaria a soddisfare la domanda all’interno del sistema economico chiu-
so.

𝐷𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑔𝑔𝑟𝑒𝑔𝑎𝑡𝑎 = 𝐷𝐴 = 𝐶 + 𝐼 + 𝐺

Da questa identità, che si riferisce al caso della domanda aggregata, si osserva che gli elementi che compongono
la domanda aggregata sono la spesa delle famiglie per i propri consumi personali (C), gli investimenti privati
delle imprese (I) e gli acquisti in beni e servizi della Pubblica Amministrazione (G).

𝑂𝑓𝑓𝑒𝑟𝑡𝑎 𝑎𝑔𝑔𝑟𝑒𝑔𝑎𝑡𝑎 = 𝑌 = 𝐶 + 𝑆 + 𝑇

In questa identità, che si riferisce al caso dell’offerta aggregata, il livello della produzione determina il reddito
che può essere utilizzato dagli operatori economici per soddisfare i propri bisogni, pertanto gli elementi che
compongono l’offerta aggregata sono i redditi percepiti spesi in beni di consumo delle famiglie (C) oppure ri-
sparmiati (S) oppure utilizzabili per il pagamento delle imposte (T).

Occorre effettuare un’ulteriore precisazione, in quanto i termini utilizzati precedentemente vengono misurati a
prezzi correnti (PIL nominale), anche se bisognerebbe distinguere tale concezione da quella di PIL reale che
considera solo la componente quantitativa, a prescindere dai prezzi. La relazione, quindi, si può esprimere anche
in termini reali:

𝑐+𝑖+𝑔 =𝑦=𝑐+𝑠+𝑡

I saldi della relazione macroeconomica

Nella prima relazione, che tiene conto dei rapporti con l’estero, i flussi economici possono essere riordinati in
questa relazione:

(𝑆 − 𝐼) + (𝑇 − 𝐺) = (𝑋 − 𝐼𝑚 − 𝑇𝑅𝑒)

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Le parentesi evidenziano rispettivamente i flussi netti del settore privato (famiglie e imprese), della Pubblica
Amministrazione e del resto del mondo. Ogni flusso può essere visto come un risparmio o come una spesa per
ciascun settore. Il saldo contabile finirà per essere nullo, in quanto il flusso di reddito eguaglia sempre il flusso
di spesa. Infatti, se il settore privato manifesta un maggior risparmio sugli investimenti, ciò può consentire al
settore pubblico di essere in disavanzo e di indebitarsi presso il settore privato. Nella sezione a destra, il Paese
nel suo complesso sta accumulando attività finanziarie nei confronti del resto del mondo, qualora 𝑋 > 𝐼𝑚 +
𝑇𝑅𝑒, mentre si indebita prendendo a prestito risorse quando 𝑋 < 𝐼𝑚 + 𝑇𝑅𝑒.

L’equilibrio Risparmio-Investimenti in un’economia chiusa

La relazione contabile del PIL vista precedentemente può essere ulteriormente semplificata per identificare un
equilibrio Risparmio-Investimenti implicito nell’identità del PIL. Dalla relazione vista per identificare il PIL
reale si possono ricavare due relazioni intermedie, sottraendo il consumo reale dalle due sezioni della relazione:

𝑦−𝑐 = 𝑖+𝑔 e 𝑦−𝑐 = 𝑠+𝑡

Da qui è possibile ricavare la relazione finale che interessa:

𝑖+𝑔=𝑠+𝑡

Osservando il lato della domanda (quello a sinistra), l’espressione identifica l’ammontare della domanda aggre-
gata che non è identificato alla spesa dei consumi, mentre dal lato del reddito (quello a destra) è possibile identi-
ficare l’ammontare del reddito che non viene speso dalle famiglie. L’espressione può essere ulteriormente ana-
lizzata separando settore privato e pubblico:

𝑖 = 𝑠 + (𝑡 − 𝑔)

che evidenzia l’uguaglianza degli investimenti delle imprese con il risparmio delle famiglie ed il risparmio netto
della Pubblica Amministrazione. Si può, infine, definire un’ultima relazione:

𝑖−𝑠 =𝑡−𝑔

con la quale si mostra come l’equilibrio in eccesso di investimenti delle imprese sui risparmi delle famiglie deb-
ba uguagliare il risparmio netto della Pubblica Amministrazione; ciò significa che, in caso di disavanzo della
Pubblica Amministrazione, il settore privato dovrà detenere un livello di risparmio tale da coprire tale disavan-
zo.

Gli investimenti programmati e realizzati

L’analisi economica spesso aiuta a comprendere le scelte dei soggetti economici con riferimento alle aspettative
dei soggetti economici. Occorre, quindi, distinguere i valori effettivamente spesi dai valori desiderati o pro-
grammati, questi ultimi frutto spesso di circostanze non realizzabili e riferibili a quanto i soggetti economici
vogliono spendere in base alle risorse economiche messe a loro disposizione. Non necessariamente le aspettative
delle imprese coincidono con le effettive decisioni adottate dalle famiglie; i due operatori economici, infatti, agi-
scono indipendentemente l’uno dall’altro.
È opportuno, quindi, individuare le decisioni programmate dalle decisioni effettive. Nel caso
dell’investimento, si distinguerà tra investimento programmato da quello effettivamente realizzato in conse-
guenza delle decisioni degli altri operatori economici. Nelle equazioni contabili, l’investimento i esprime il li-
vello realizzato, che a sua volta dipende da altre due componenti:

- gli investimenti programmati 𝑖, ossia gli investimenti decisi dalle imprese in base ai loro piani di pro-
duzione;
- il livello delle scorte sc che dipende da variazioni inattese della domanda delle famiglie o da una varia-
zione delle vendite finali

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In macroeconomia, l’accumulazione delle scorte costituisce una previsione errata dell’andamento della domanda
aggregata del sistema economico. L’investimento fisso realizzato tiene conto, infatti, delle due variabili elenca-
te precedentemente; si può, pertanto, sostituire alla variabile degli investimenti con le due cause determinanti:

𝑖 = 𝑖 + 𝑠𝑐

per cui l’identità dell’uguaglianza Risparmio-Investimenti diventa una condizione di equilibrio che determina il
livello del reddito:

𝑖 + 𝑠𝑐 + 𝑔 = 𝑠 + 𝑡 e 𝑐 + 𝑖 + 𝑠𝑐 + 𝑔 = 𝑦 = 𝑐 + 𝑠 + 𝑡

In questa relazione la componente delle scorte sc svolge un ruolo fondamentale: se le famiglie decidessero di
consumare di più, l’aumento della spesa determinerebbe una diminuzione delle scorte presso le imprese (𝑠𝑐 <
0). L’aumento inatteso dei consumi è stato assorbito da una diminuzione delle scorte per poter soddisfare la do-
manda delle famiglie. Essendo le scorte scese sotto i livelli normali, le imprese programmeranno un aumento di
produzione per far fronte alla maggiore domanda delle famiglie. Si procederà, quindi, ad un aumento della pro-
duzione y e, quindi, dei redditi distribuiti alle famiglie dei lavoratori: il precedente livello di reddito non può es-
sere definito in equilibrio, in quanto la variazione delle scorte è negativa. Fino a quando le scorte risulteranno
inferiori ai livelli normali, la produzione tenderà ad aumentare, arrestandosi quando la somma degli investi-
menti programmati sarà uguale alla somma degli investimenti realizzati, ossia quando la variazione delle scorte
sc sarà uguale a 0.

Riformulando la condizione di equilibrio, è possibile affermare che il PIL è in condizione di equilibrio quando
la domanda aggregata desiderata uguaglia l’offerta aggregata desiderata, ossia quando gli investimenti pro-
grammati del settore privato e pubblico (𝑖 + 𝑔) uguagliano il risparmio programmato delle famiglie (𝑠 + 𝑡)
quando non vi sono variazioni di scorte da parte delle imprese.

La domanda degli investimenti

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Gli investimenti identificano la domanda di beni durevoli espressa dalle imprese per adeguare lo stock di capi-
tale al processo
produttivo e dalle
famiglie per sod-
disfare la doman-
da di abitazioni.
Per poter far fron-
te a tali investi-
menti, occorrono
dei mezzi finan-
ziari adeguati. Il
livello degli inve-
stimenti, pertanto,
dovrà essere asso-
ciato al tasso
d’interesse, ossia il costo dell’indebitamento quando i profitti non sono sufficienti a coprire le spese
dell’investimento programmato (nel settore delle famiglie, il tasso di interesse influenza i mutui sulle case). La
domanda degli investimenti, pertanto, è indipendente dal livello del reddito e dipende esclusivamente dal tasso
d’interesse attraverso una relazione inversa. Tale relazione viene espressa dalla prima figura a fianco. Successi-
vamente, si mostrerà che l’affermazione precedente con cui si identifica il reddito indipendente dagli investi-
menti, introducendo il principio dell’acceleratore, una relazione che lega il livello degli investimenti dal livello
del reddito interno. Se le imprese prevedono un aumento del reddito da parte delle famiglie e, quindi, un aumen-
to di domanda, esse cercheranno di anticipare le decisioni di produzione, adeguando la capacità produttiva (au-
mento di investimenti programmati). Tanto più elevato è il tasso d’interesse, maggiore dovrà essere il livello di
reddito necessario per mantenere lo stesso livello degli investimenti, come indicato nella seconda figura a fian-
co.

Il comportamento del consumo, del risparmio e della tassazione

La teoria microeconomica ha spiegato che la domanda di beni dipende dal livello dei prezzi e dal reddito del
consumatore. Trascurando i prezzi, ipotizzati costanti nella macroeconomia, la spesa programmata per i consu-
mi correnti dipende esclusivamente dal reddito delle famiglie. Il reddito disponibile è quel flusso di redditi
messo a disposizione delle famiglie nell’arco di tempo considerato al netto delle imposte prelevate dalla Pubbli-
ca Amministrazione (𝑦𝑑 = 𝑦 − 𝑡). Occorre, però, prima definire un’ipotesi che prevede l’applicazione
dell’aliquota fiscale t’ al reddito totale distribuito y; all’aumentare del reddito, pertanto, aumentano le entrate
fiscali secondo questa relazione:

𝑡 = 𝑡′ ⋅ 𝑦 con 𝑡′ > 0

La domanda programmata dei beni di consumo è scomponibile in due componenti: una prima componente in-
dotta, 𝑐(𝑦𝑑 ), in quanto legata al livello del reddito corrente disponibile (ad un aumento del reddito comporta
aumento dei consumi e viceversa); una seconda componente autonoma, 𝑐, definita da altre variabili. Si ottiene,
quindi, una relazione così composta: 𝑐 = 𝑐(𝑦𝑑 ) + 𝑐. Ipotizzando che le famiglie possano destinare solo una par-
te del reddito ai consumi, si può identificare la propensione marginale al consumo 𝑐′: tanto maggiore è il suo
valore, a parità di reddito disponibile, tanto maggiore sarà la spesa in beni di consumo. All’aumentare del reddi-
to, quindi, si può individuare una nuova relazione che esprime l’andamento della spesa per i beni di consumo in
conseguenza al reddito corrente:

𝑐 = 𝑐 + 𝑐′(1 − 𝑡′) ⋅ 𝑦 con 0 < 𝑐′ < 1

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Il comportamento del risparmio si ricava per differenza, in quanto il vincolo di bilancio delle famiglie esprime la
relazione che lega il reddito corrente disponibile con le scelte di consumo e risparmio: la somma della spesa de-
siderata in beni di consumo e del risparmio desiderato deve uguagliare il reddito corrente disponibile, quindi si
ha 𝑐(𝑦𝑑 ) + 𝑠(𝑦𝑑 ) = 𝑦𝑑 . Il risparmio dipende, pertanto, dal reddito disponibile, come evidenziato nella relazione
qui sotto:

𝑠 = 𝑦𝑑 − 𝑐 → 𝑠 = 𝑦𝑑 − 𝑐 − 𝑐′𝑦𝑑 → 𝑠 = −𝑐 + 𝑦𝑑 (1 − 𝑐′) → 𝑠 = −𝑐 + 𝑦(1 − 𝑡′)(1 − 𝑐′) → 𝑠 = −𝑐 + 𝑠′𝑦


dove 𝑠′ = (1 − 𝑐′)(1 − 𝑡′) > 0

Ora occorre applicare il concetto ad una rappresentazione grafica: si rappresentano i due momenti di produzione
e di utilizzo del prodotto interno lordo o del reddito (y). In figura sono rappresentate le relazioni della tassazione
(t) e del consumo (c), utilizzate allo scopo di calcolare la propensione marginale al consumo.
Dato il livello del reddito (y0), una parte verrà certamente sottratta dalle imposte (𝑡′𝑦0 ), lasciando alle famiglie
un certo reddito disponibile (𝑦0 − 𝑡′𝑦0 ), quindi 𝑦𝑑 = 𝑦0 (1 − 𝑡′). Tale reddito disponibile dovrà essere ripartito
tra consumo e risparmio.

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Ora è possibile formalizzare il comporta-


mento delle famiglie riguardo al risparmio.
La figura a fianco mostra che è presente un
livello di reddito critico, al di sotto del quale
non si può avere un risparmio positivo.
L’inclinazione della funzione di risparmio
costituisce la propensione marginale al
risparmio, ossia quanto le famiglie tendono
a risparmiare avendo a disposizione
un’unità aggiuntiva di reddito (variazione di
risparmio in base a variazione di reddito). Si
può anche affermare come il risparmio sia
dato dalla differenza tra quella quota di con-
sumo autonomo e dalla quota di reddito di-
sponibile che non viene direttamente spesa in beni di consumo, quindi 𝑠 = −𝑐 + 𝑦𝑑 (1 − 𝑐).

La determinazione dell’equilibrio del PIL

Il livello del PIL corrente nel breve periodo è determinato dall’intersezione di due tendenze rappresentate dalla
domanda e dall’offerta aggregata, proprio come nell’analisi microeconomica. La differenza, tuttavia, sta nel
considerare un insieme di beni e servizi in senso aggregato e riferendoli al PIL, mentre nell’analisi microecono-
mica ci si riferiva ad un singolo mercato, trascurando ciò che avveniva negli altri settori. Analizzando gli ele-
menti che compongono il grafico, si ha la presenza dell’offerta aggregata, rappresentata attraverso una linea
che identifica l’identità tra valore del prodotto e valore del reddito (bisettrice, retta di 45°). Il concetto di do-
manda aggregata (𝑐 + 𝑖 + 𝑔 = 𝑐 + 𝑠 + 𝑡 con 𝑠𝑐 = 0) fa riferimento alle spese che i soggetti economici inten-
dono sostenere con il reddito distribuito nel sistema economico.

La stabilità del reddito di equilibrio

L’equilibrio del PIL nel breve periodo è stabile. In figura sono riportate esplicitamente le tre relazioni che
compongono la domanda aggregata, ossia i consumi delle famiglie, la spesa per gli investimenti delle imprese e
la spesa pubblica. L’inclinazione della curva della domanda aggregata è positiva (ma comunque inferiore
all’unità) e dipende dal valore della propensione marginale al consumo (c’). Si ipotizza, inoltre, che gli investi-
menti fissi programmati (𝑖) e la spesa pubblica (g) siano indipendenti dal livello di reddito (y). Graficamente si
può dimostrare che la pendenza della curva di domanda aggregata è influenzata solo dai consumi delle famiglie,
mentre il livello della domanda aggregata dipende da tutte e tre le componenti. Un’altra relazione definisce il
comportamento della produzione, elastica in quanto si ipotizza sempre la presenza di disoccupazione nel merca-

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to del lavoro. Si ha, pertanto, lo stesso aumento di offerta in conseguenza ad un aumento di domanda aggregata.
La variazione della produzione viene identificata come uno spostamento sulla bisettrice, dove si identifica
l’uguaglianza tra domanda e offerta aggregata.
Si ha il caso della produzione
di una determinata quantità di
y1: si osserva che la domanda
aggregata delle famiglie non è
in grado di assorbire tutta la
produzione delle imprese, per-
tanto si avranno delle scorte.
Dato che le scorte superano il
livello normale (𝑠𝑐 > 0), le
imprese decideranno di ridurre
la produzione al livello compa-
tibile con la domanda aggrega-
ta, facendo portare il livello di
reddito a quello in cui le scorte
si annullano (𝑠𝑐 = 0). Nel caso
contrario, ossia in cui l’offerta
delle imprese non riuscisse a
coprire la domanda aggregata
delle famiglie (𝑠𝑐 < 0), le im-
prese dovranno aumentare la
produzione per mantenere il reddito pari al livello in cui si riesce a coprire l’intera domanda (𝑠𝑐 = 0).

Le variazioni della domanda aggregata e del PIL

Occorre considerare, inoltre, variazioni del PIL o del reddito in seguito ad uno spostamento della curva di do-
manda aggregata. Innanzitutto va chiarito che saranno considerati solo le modificazioni della domanda aggrega-
ta dovute a componenti esogene, ossia a variazioni del livello della domanda aggregata, e non di quelle indotte
da variazioni del reddito corrente.

A — UNA VARIAZIONE DEL RISPARMIO PROGRAMMATO

Un primo caso considera una possibile


riduzione del risparmio programmato,
in quanto è aumentata la propensione
marginale al consumo c’. La curva con-
sidera una curva di risparmio (𝑠0 + 𝑡)
per cui si ha un maggiore livello di pro-
pensione al risparmio. Al livello iniziale
di reddito y0, la seconda curva di ri-
sparmio (𝑠1 + 𝑡) risulterà inferiore al
livello programmato di investimenti e
di spesa pubblica, pertanto le imprese
dovranno aumentare la produzione, in
quanto il livello delle scorte cade al di
sotto dei livelli normali. Tale produzio-
ne ha l’effetto di portare nuovamente in
equilibrio il livello dell’equilibrio Risparmio-Investimenti.

Occorre osservare che un incremento del risparmio, non compensato adeguatamente da un equivalente aumento
degli investimenti, determina una caduta della domanda: si tratta del c.d. paradosso del risparmio. Nel breve

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periodo l’effetto di aumento del risparmio non provoca effetti positivi, in quanto si verificano rallentamenti della
domanda e della produzione; nel lungo periodo, invece, aumenti del risparmio favoriscono processi di benessere
e di crescita produttiva.
Ciò è dimostrabile anche algebricamente. Richiamando l’equilibrio Risparmio-Investimenti, scritto in altro mo-
do: 𝐼 = 𝑆 + (𝑇 − 𝐺), ipotizzando l’uguaglianza fra tassazione e spesa pubblica, si avrebbe una netta relazione
tra investimenti e risparmi.

B — UN AUMENTO DEGLI INVESTIMENTI

Un secondo caso considera gli effetti di un aumento degli investimenti programmati delle imprese. Lo stesso
caso si potrebbe applicare anche nel caso di un aumento della spesa pubblica. Nella figura, la curva orizzontale
𝑖 + 𝑔 si sposta verso l’alto in corrispondenza di un livello degli investimenti programmati maggiore. Al livello
di reddito y0, la nuova funzione degli investimenti risulta superiore al livello programmato di risparmi e di pre-
lievo fiscale, pertanto le imprese avranno un eccesso di domanda. Le scorte cadono al di sotto dei livelli norma-
li, pertanto le imprese dovranno produrre maggiormente per portare le scorte sui livelli normali di reddito fino a
quando esse saranno nulle (reddito pari a y1).

Il moltiplicatore del reddito

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Per poter misurare di quanto cambia il PIL a seguito degli spostamenti della domanda aggregata si utilizza il c.d.
moltiplicatore del reddito, ossia il
rapporto tra la variazione del reddito
(variabile endogena) e la variazione
della componente esogena della do-
manda aggregata. Caratteristica fon-
damentale del moltiplicatore è il suo
valore superiore all’unità, dato che
ogni variazione dell’investimento e
della spesa pubblica ha come conse-
guenza un aumento più che propor-
zionale del PIL. Ogni variazione in
aumento del reddito indotto dalla
componente esogena viene destinato
in parte ai consumi, determinando un
aumento della domanda aggregata,
pertanto il valore del moltiplicatore
dipende dalla propensione marginale
al consumo e dalle aliquote di imposi-
zione fiscale. Dalla figura si nota che
un aumento degli investimenti provoca uno spostamento della curva di domanda aggregata verso l’alto;
l’incremento si misura sull’asse delle ordinate e corrisponde alla differenza tra a0 e a1. L’equilibrio, ovviamente,
si sposta da y0 a y1. Si nota che l’aumento del reddito nazionale è maggiore dell’aumento degli investimenti
(l’inclinazione della bisettrice è maggiore di quella della curva di domanda aggregata).

Passando ora a come si calcola tecnicamente il moltiplicatore, occorre sommare tutti gli incrementi del reddito
in seguito a variazioni della domanda autonoma. Supponendo che gli imprenditori decidano di aumentare il li-
vello degli investimenti o che la Pubblica amministrazione decida di aumentare la spesa pubblica per far fronte a
nuovi bisogni collettivi, si avrà un flusso maggiore di produzione, ossia un aumento di reddito che successiva-
mente verrà distribuito alle famiglie che lo destineranno in parte come mezzo finanziario per far fronte alla tas-
sazione e in parte ai consumi. Ciò che non verrà destinato ad alcun uso verrà, pertanto, destinato al risparmio. La
parte spesa in consumi ritorna alle imprese sottoforma di nuovi investimenti, dando inizio ad un ciclo virtuoso.
Questo concetto può essere formalizzato nella seguente formula:

𝛥𝑦 1
=
𝛥𝑖 1 − 𝑐′(1 − 𝑡′)
Occorre ricordare, tuttavia, che il valore del moltiplicatore esposto nella formula dipende dalle ipotesi stretta-
mente elencate, in quanto non è stato preso in considerazione il settore estero.

16 | L’equilibrio del mercato dei beni e servizi: la curva IS


Il significato della curva IS

Il livello del risparmio programmato dipende esclusivamente dal livello del reddito disponibile, mentre la do-
manda degli investimenti dipende dal tasso d’interesse. La sovrapposizione dei grafici delle due entità dà origine
ad un’uguaglianza Risparmio-Investimenti che è rappresentabile mediante una curva IS, proprio perché ricorda
l’uguaglianza I = S (investimenti = risparmio). Tale rappresentazione grafica esprime la relazione tra il tasso
d’interesse ed il reddito di equilibrio, permettendo di individuare il livello di reddito di equilibrio e di domanda
aggregata associato a ciascun tasso d’interesse. La curva IS incorpora le ipotesi di comportamento del sistema
economico, ipotizzando che la domanda di investimenti sia sensibile alle variazioni del tasso d’interesse e ipo-
tizzando che i valori della spesa pubblica e delle esportazioni siano determinati esogenamente. Si ha, quindi, una
relazione inversa tra tasso d’interesse e livello del reddito.

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Il reddito di equilibrio viene modificato attraverso variazioni o spostamenti della curva IS, sulla base di una ca-
tena causale tra tasso d’interesse (r) e livello del reddito (y). Si hanno tre momenti:

r→i→a→y→c→a→y

1) il primo dipende dalla sensibilità della domanda degli investimenti al tasso di interesse (r → i). In par-
ticolare, l’inclinazione della curva IS dipende dalla misura in cui varia la spesa degli investimenti al
variare del tasso d’interesse;
2) il secondo è connesso alla definizione di domanda aggregata a, di cui una sua componente sono gli in-
vestimenti, pertanto l’impatto che gli investimenti hanno sulla domanda aggregata è direttamente
proporzionale alla quota imputata agli investimenti nel primo momento. Un aumento di domanda ag-
gregata produce senz’altro un incremento del PIL (i → a → y). Ciò potrebbe applicarsi anche nel caso
di variazioni esogene di anche altri componenti della domanda aggregata (es. spesa pubblica g);
3) il terzo è legato dalla relazione tra reddito e consumo (y → c → a → y), in quanto esprime i deflussi dal
circuito del reddito determinati da risparmio e tassazione, sintetizzato nel valore del moltiplicatore del
reddito indotto dalla variazione della domanda aggregata. Anche in questo caso la relazione è diretta.

Le modificazioni dell’equilibrio del mercato dei beni e dei servizi

Gli effetti sull’equilibrio del mercato dei beni e dei servizi possono essere visti sotto due prospettive:

- un possibile aumento della spesa pubblica (𝛥𝑔) in presenza di un tasso di interesse r0. La curva IS si
sposta verso l’alto perché l’incremento della spesa pubblica ha generato un eccesso di domanda;
l’aggiustamento è determinato dal livello del moltiplicatore, che distingue l’incremento della domanda
autonoma e l’incremento della domanda indotta. Sulla curva IS l’effetto della spesa pubblica è misurato
dalla differenza tra E1 ed E0. In termini algebrici, vige la seguente relazione:
1
𝛥𝑦 = 𝛥𝑔
1 − 𝑐′(1 − 𝑡′)
- un possibile aumento della pressione fiscale, determinato da incrementi dell’aliquota fiscale t’. Il red-
dito disponibile diminuisce, pertanto è possibile dedurre che il consumo delle famiglie tenda a diminui-
re in proporzione alla diminuzione. Graficamente, la curva IS si sposta verso il basso e assumerà
un’inclinazione più rigida. Dato un tasso di interesse r0, la riduzione della domanda aggregata sarà pari
alla differenza tra E0 ed E2.

Questi sono due modi che permettono di dimostrare come la spesa pubblica e la tassazione possano influire sui
livelli di produzione. Questi strumenti vengono spesso utilizzati dalla Pubblica amministrazione all’interno delle

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politiche di bilancio e di stabilizzazione; sarà possibile, quindi, aumentare la domanda aggregata mediante
un’espansione della spesa pubblica o una riduzione della tassazione, mentre si verificherà l’esatto contrario in
caso di contrazione della spesa pubblica o di aumento della tassazione.

Altri fattori che possono contribuire a determinare spostamenti delle condizioni di equilibrio possono essere una
riduzione del risparmio programmato (esprimibile in un aumento del consumo autonomo 𝑐), in particolare
provoca gli stessi effetti di un aumento della spesa pubblica perché sposta la curva IS verso l’alto.
Recenti studi individuano un effetto ricchezza anche nell’aumento dei valori delle azioni quotate in Borsa che
induce un aumento dei consumi autonomi delle famiglie.

La Legge finanziaria

Lo Stato può apportare modifiche al reddito nazionale mediante diverse manovre fiscali perseguite mediante una
politica di bilancio, la quale può avere caratteristiche espansive (aumento spesa pubblica e/o riduzione tassazio-
ne) o depressive (riduzione spesa pubblica e/o aumento aliquote tassazione). Vi sono tre leggi fondamentali che
regolano le procedure di approvazione del bilancio pubblico italiano:

- la legge 468/1978 (Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio);
- le leggi 362/1988 e 208/1999, le quali sono in pratica una riscrittura della legge precedente
La Legge finanziaria, nuovo istituto previsto dalla legge 468/1978, rappresenta la proposta di manovra di bi-
lancio per il triennio successivo entro il 30 settembre di ogni anno che il Governo sottopone al Parlamento. Si
presenta, pertanto, dopo il bilancio a legislazione vigente, pertanto la legge può contenere modifiche ad entrate e
spese che si intendono attuare per correggere gli andamenti della finanza, in coerenza con ciò che viene afferma-
to nel Documento di programmazione economico finanziaria (DPEF). Una seconda funzione legata alla Legge
finanziaria consiste nell’obbligo di quantificare l’importo dei fondi speciali per provvedimenti legislativi in cor-
so.

Analizzando la legge 362/88, la Legge finanziaria deve contenere i seguenti elementi:

a) la determinazione del saldo netto da finanziare (differenza negativa tra entrate e spese finali), ossia il
livello massimo di ricorso al mercato per il finanziamento del deficit annuale e per il rimborso di presti-
ti;
b) l’importo dei fondi speciali destinati alla copertura finanziaria di provvedimenti che si prevede siano
approvati nel corso del bilancio pluriennale;
c) la determinazione delle quote per il triennio considerato da stanziare per la copertura di spese per il
funzionamento della macchina amministrativa dello Stato (le c.d. leggi di spesa a carattere perma-
nente);
d) gli stanziamenti di spesa necessari per il rifinanziamento di norme vigenti che prevedono interventi di
sostegno all’economia classificati tra le spese in conto capitale;
e) elencazione delle possibili riduzioni di importi relativi a stanziamenti di spesa già autorizzati;
f) la rideterminazione degli stanziamenti già previsti da leggi pluriennali;
g) le variazioni di aliquote, detrazioni, scaglioni, tasse, contributi;
h) l’importo complessivo massimo da destinare al rinnovo dei contratti del pubblico impiego;
i) la quantificazione di trasferimenti di spesa da destinare a certe finalità
Le nuove disposizioni della legge 362 hanno cercato di limitare il ricorso all’utilizzo di fondi speciali. I maggio-
ri oneri iscritti tra le spese correnti possono essere iscritti tra i fondi speciali solo nei limiti delle maggiori entrate
o minori spese correnti. Altro elemento di novità della stessa riforma è rappresentato dall’introduzione dei c.d.
provvedimenti collegati alla legge finanziaria, il cui compito è quello di farsi carico di gran parte degli aspetti
quantitativi della manovra di bilancio.

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17 | La moneta
La definizione di moneta

La moneta non può essere considerata come un bene-merce, bensì il suo significato può essere riconducibile a
tre funzioni:

- la moneta come mezzo di pagamento;


- la moneta come unità di misurazione dei prezzi;
- la moneta come riserva di valore, in quanto permette di trasferire nel tempo o nello spazio il potere di
acquisto dei consumatori. Occorre, tuttavia, che il potere d’acquisto della moneta rimanga stabile, in
quanto un possibile aumento dei prezzi potrebbe determinare una diminuzione del potere d’acquisto
della stessa.
Oggi, tuttavia, occorre considerare che la moneta cartacea è stata sostituita dalla c.d. moneta bancaria che si
crea tramite le transazioni effettuate attraverso il sistema bancario; svolgono particolare ruolo gli intermediari
finanziari e le Autorità finanziarie (vedi CONSOB). Dal lato della domanda, invece, nelle economie moderne la
moneta continua a svolgere le sue tre funzioni principali: costituisce mezzo di scambio in quanto agevola le
transazioni sul mercato dei beni e dei servizi, ma è anche un’attività finanziaria. Tutti gli operatori del sistema
economico oggi si servono della moneta emessa dalla Banca centrale o creata dal sistema bancario.

L’analisi economica distingue diverse tipologie di domanda di moneta: per transazioni, a scopo precauzionale
(per far fronte a spese impreviste) e per finalità d’investimento finanziario (domanda speculativa, per far fronte
a spese future), in alternativa ad altre attività finanziarie.

La domanda di moneta

La prima tipologia di domanda di moneta è quella che viene utilizzata come mezzo di pagamento, definita come
domanda di moneta per transazioni. Essa è espressa dalle famiglie e dalle imprese non finanziarie ed è colle-
gata per via diretta al valore degli scambi correnti realizzati sul mercato dei beni e dei servizi. Tale concetto può
essere espresso tramite la seguente espressione:

𝑀𝑇𝑑 = 𝑃 𝑓(𝑦) = 𝑃𝑘𝑦

dove P indica il livello generale dei prezzi, y il livello del PIL e 𝑘 > 0 un fattore di proporzionalità che viene
considerato costante, spiegato da fattori istituzionali. La relazione afferma che la domanda di moneta a scopo
transattivo dipende dal livello del reddito corrente (y) e dal livello dei prezzi (P). Se aumentano il reddito o i
prezzi, di conseguenza aumenta anche la domanda di moneta.

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Ora occorre vedere la rappresentazione grafica di questo comportamento. La domanda di moneta 𝑀𝑇𝑑 è diretta-
mente influenzata dal livello
di reddito reale corrente, e
non dal tasso d’interesse. Per-
tanto, si possono rappresenta-
re tante linee verticali corri-
spondenti a diversi livelli di
reddito (vedi zona a sinistra
del grafico). Il movimento
verso sinistra delle linee illu-
stra il comportamento delle
famiglie: se aumenta il reddi-
to reale, quindi il potere
d’acquisto, esse avranno bi-
sogno di maggiori mezzi di
pagamento per effettuare gli
acquisti. Allo stesso modo, se
il livello generale dei prezzi
P cresce, per effetto dell’inflazione, le famiglie avranno bisogno di maggiori mezzi finanziari per mantenere
inalterato il volume degli scambi. In caso contrario, il valore reale dei mezzi di pagamento diminuisce propor-
zionalmente.

Gli economisti prekeynesiani sostenevano, invece, che la stessa quantità di moneta (M), passando di mano in
mano più volte ad una velocità costante (V), consente un determinato numero di transazioni, per cui si poteva
dedurre che il prodotto della quantità di moneta per la velocità di circolazione fosse esattamente il valore degli
scambi effettuati, ossia il prodotto del livello generale dei prezzi P per la quantità di merci e servizi venduti e
acquistati Q. Tale teoria quantitativa della moneta può essere espressa tramite la seguente relazione:

𝑀𝑉 = 𝑃𝑄

La quantità di moneta M in circolazione sarà proporzionale al valore degli scambi e al fattore di proporzionalità,
chiamato velocità di circolazione della moneta (V), ovvero

1 1
𝑀𝑇𝑑 = 𝑃𝑦 → 𝑀𝑇𝑑 = 𝑃𝑘𝑦 dove 𝑘 =
𝑉 𝑉

La domanda di moneta è legata anche alla funzione di riserva di valore, con cui far fronte a transazioni future o
incerte. Si tratta di un’innovazione introdotta dalla teoria keynesiana degli anni Trenta ed elaborata in seguito
nelle scelte di portafoglio. Si sa che la differenza fra le diverse attività di portafoglio delle famiglie è espressa
dal grado di liquidità e dal rendimento. Ipotizzando attività come moneta e titoli obbligazionari, si può rileva-
re che l’attività finanziaria produce un rendimento positivo connesso con il tasso d’interesse, corrispondente ad
un costo-opportunità che, riferito alla moneta, indicherebbe il mancato guadagno derivante da un possibile inve-
stimento in titoli obbligazionari. Si conclude, quindi, che la domanda di moneta è inversamente proporzionale
al tasso d’interesse. Se il costo opportunità sarà elevato, è evidente che la domanda di moneta sarà relativamente
bassa. Keynes individua, tuttavia, un possibile rischio di perdite connesse al valore della ricchezza finanziaria,
determinato da un’incertezza sul rendimento futuro delle attività finanziarie, muovendo le famiglie verso una
preferenza per la liquidità.

Il comportamento delle famiglie legato ad una componente di rischio delle attività finanziarie sarà guidato da
una semplice regola, ossia la relazione inversa tra il tasso d’interesse ed il prezzo dei titoli. Se il primo aumen-
ta, il secondo diminuisce, e viceversa.

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Dalle premesse precedenti è possibile comprendere meglio il significato della domanda di moneta per finalità
d’investimento finanziario o speculativo, che si esprime in una relazione inversamente correlata al tasso
d’interesse:

𝑀𝑆𝑑 = 𝑓(𝑟) dove 𝑓′ < 0

La relazione evidenzia che la preferenza per la


liquidità 𝑀𝑆𝑑 dipende dal livello del tasso
d’interesse offerto dalle attività finanziarie o
dal loro rendimento. Il tasso d’interesse indi-
vidua il costo opportunità di tenere moneta,
piuttosto che investirla.

La domanda complessiva di moneta non è


altro che la somma delle due componenti so-
pra elencate, e può essere rappresentata grafi-
camente come a fianco. La pendenza di questa
curva è data dalla sensibilità della domanda di
moneta al tasso d’interesse. Quando la prefe-
renza per la liquidità è molto alta, piccole va-
riazioni del tasso d’interesse provocano forti
variazioni della domanda di moneta. Al contrario, quando la domanda di moneta è molto bassa, piccole varia-
zioni del tasso d’interesse non provocano grandi variazioni della domanda di moneta, in quanto prevarrà la do-
manda di moneta per transazioni. La posizione della curva dipende dal livello del reddito corrente. Un aumento
del livello di reddito corrente determina un aumento della domanda di moneta per transazioni, facendo spostare
la curva verso l’alto.

L’equilibrio monetario

Ai fini della determinazione dell’equilibrio monetario, occorre definire il concetto di offerta di moneta che
viene determinata esogenamente dalle Autorità monetarie. Nella rappresentazione grafica precedente, è suffi-
ciente considerare una certa quantità di moneta messa a disposizione del sistema economico dalle Autorità mo-
netarie. L’ammontare complessivo non dipende dal tasso d’interesse, pertanto può essere rappresentata mediante
una retta perfettamente verticale corrisponden-
𝑀0
te al valore reale . Se il mercato dei beni e
𝑃
dei servizi è in equilibrio al livello di produ-
zione y1, la domanda di moneta corrispondente
uguaglia l’offerta di moneta al tasso
d’interesse r1. In caso di variazioni di domanda
o offerta di moneta, il tasso d’interesse si ag-
giusterà per consentire l’equilibrio.

Un esempio viene fornito dalla figura a fianco


in cui si considera un eccesso di offerta di mo-
neta. Tale situazione potrebbe essere identifi-
cata da un’immissione di moneta da parte delle
Autorità monetarie. Dato che né il reddito cor-
rente, né il tasso d’interesse sono cambiati, il
mercato monetario mostra inizialmente un ec-
cesso di offerta al tasso d’interesse r1, fino a quando tornerà in equilibrio al tasso d’interesse r3.

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L’offerta di moneta e la base monetaria

Il comportamento delle banche determina la quantità e la composizione della moneta: mentre la quantità di con-
tante può essere facilmente regolata e determinata dalla Banca centrale, la quantità di moneta bancaria dipende
dalle famiglie e dalle banche. Le Autorità monetarie controllano direttamente la base monetaria (BM), costitui-
ta dalla liquidità circolante e dalle attività trasformabili in moneta legale.

La funzione degli intermediari finanziari consiste in quella di soddisfare le diverse esigenze degli operatori eco-
nomici. Se un certo ammontare di contante posseduto da un soggetto in avanzo viene versato in un conto deposi-
to depositato presso una banca, quest’ultima potrà prestarlo ad un cliente, avente saldo finanziario in disavanzo.
L’attività di intermediazione svolta dalla banca ha aumentato l’offerta di moneta disponibile per il sistema eco-
nomico. Per evitare l’eccessiva discrezionalità delle banche, si è adottato un sistema di vigilanza attuato dalle
Autorità monetarie. La regolamentazione si esplica nelle procedure di erogazione del credito e nell’obbligo di
costituire delle riserve a fronte dei depositi bancari (si applica un c.d. coefficiente di riserva obbligatoria). Ipo-
tizzando che tutto il circolante sia depositato in banca dagli operatori economici. Conosciuto l’ammontare del
circolante depositato ed il coefficiente di riserva obbligatoria, si può quantificare l’ammontare di depositi e di
crediti che vengono creati dal sistema bancario.
Definendo 𝛥𝐵𝑀 la variazione del deposito iniziale in contante e q il coefficiente di riserva obbligatoria, si pos-
sono ricavare due moltiplicatori:

𝛥𝐷𝑒𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖 1
- il moltiplicatore dei depositi: =
𝛥𝐵𝑀 𝑞
𝛥𝐶𝑟𝑒𝑑𝑖𝑡𝑖 1−𝑞
- il moltiplicatore del credito: =
𝛥𝐵𝑀 𝑞
che misurano le variazioni delle due componenti finanziarie a seguito della variazione della base monetaria.

La domanda di moneta da parte delle famiglie e delle imprese è distribuita in parte come circolante (CI) e in par-
te sotto forma di depositi presso il sistema bancario (D). Pertanto si ha:

𝑀𝑑 = 𝐶𝐼 + 𝐷

La distribuzione fra queste due componenti dipende dalla preferenza di portafoglio h delle famiglie e delle im-
prese, misurata dal rapporto fra circolante e depositi posseduti:

𝐶𝐼
ℎ= → 𝐶𝐼 = ℎ ⋅ 𝐷
𝐷

Riguardo alla base monetaria, si sa che l’offerta (𝐵𝑀 𝑂 ) è sottoposta al controllo delle Autorità monetarie e costi-
tuisce uno strumento di controllo sulla liquidità. Lo stock di base monetaria rappresenta, pertanto, una passività
della Banca centrale.
La domanda di base monetaria è influenzata dal comportamento delle banche e delle famiglie, che costituiscono
i due canali di utilizzo della base monetaria. Il sistema bancario, in particolare, mantiene delle riserve (R) per far
fronte alla domanda della clientela. Il livello delle riserve bancarie è disciplinato dalla Banca centrale che lo
commisura a seconda del valore dei depositi di ciascuna banca; la riserva obbligatoria verrà versata in un conto
fruttifero presso la Banca d’Italia. Vi sono, in aggiunta, delle riserve libere, mantenute dalle banche in relazione
alle previsioni di fabbisogno di denaro. La domanda di base monetaria delle banche sarà, quindi:

𝑅 =𝑞⋅𝐷

dove q è il coefficiente di riserva obbligatoria e D il livello dei depositi. Le famiglie, invece, domanderanno con-
tante in relazione ai bisogni di spesa e del vincolo di portafoglio, pertanto la domanda complessiva di base mo-
netaria può essere espressa da questa relazione:

𝐵𝑀𝑑 = 𝐶𝐼 + 𝑅

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Utilizzando quest’ultima relazione si può dimostrare il legame tra base monetaria e moneta:

𝐵𝑀𝑂 = 𝐵𝑀𝑑 → 𝐵𝑀𝑂 = 𝐶𝐼 + 𝑅 → 𝐵𝑀𝑂 = ℎ𝐷 + 𝑞𝐷 → 𝐵𝑀𝑂 = 𝐷(ℎ + 𝑞)

da cui si ottiene la relazione finale

1
𝐷= 𝐵𝑀𝑂
ℎ+𝑞
Si può ricavare il moltiplicatore dei depositi:

1
𝑚𝑑 =
ℎ+𝑞
L’equilibrio del mercato è assicurato dall’uguaglianza tra domanda e offerta di moneta:

𝑀𝑂 = 𝑀𝑑 → 𝑀𝑂 = 𝐶𝐼 + 𝐷 → 𝑀𝑂 = ℎ𝐷 + 𝐷 → 𝑀𝑂 = 𝐷(1 + ℎ)

da cui si ottiene la relazione finale

1+ℎ
𝑀𝑂 = 𝐵𝑀𝑂
ℎ+𝑞
Quest’ultima relazione evidenzia che l’offerta di moneta dipende dal livello di base monetaria direttamente crea-
ta dalle Autorità monetarie, e dal moltiplicatore della moneta:

1+ℎ
𝑚𝑚 =
ℎ+𝑞
18 | L’equilibrio del mercato monetario: la curva LM
Il significato della curva LM

Dall’equilibrio monetario si può notare che le diverse coppie di valori di equilibrio del reddito possono essere
riprodotte in un diagramma cartesiano mediante la loro rappresentazione tramite la curva LM, inclinata positi-
vamente, con riferimento all’equilibrio monetario 𝐿 = 𝑀 (Liquidità domandata = Moneta offerta).

Le caratteristiche della curva LM

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Nella curva LM, la relazione fra il livello


del reddito corrente ed il tasso d’interesse è
fondata sulla specificazione della domanda
di moneta e sulla capacità delle Autorità
monetarie di controllare la base monetaria
e l’offerta di moneta. Quando ai punti fuori
dalla curva LM, quelli al di sopra rappre-
sentano situazioni in cui la domanda di
moneta è inferiore all’offerta perché, per
quel valore di reddito, il tasso d’interesse è
troppo elevato; i punti che si trovano sotto
la curva rappresentano, invece, un eccesso
di domanda di moneta, determinata da un
tasso d’interesse troppo basso. La carenza
di liquidità farà aumentare il tasso
d’interesse. La pendenza della curva LM è
positiva perché, in caso di aumento del
reddito, dovrebbe aumentare anche il tasso
d’interesse, in base alla seguente catena
causale:

𝑦 → 𝑚𝑑𝑇 → 𝑚𝑜 → 𝑚𝑆𝑑 → 𝑟

L’aggiustamento del mercato della moneta è determinato, pertanto, da tre momenti:

- il primo dipende dalla sensibilità della domanda di moneta alle variazioni del livello del reddito (𝑦 →
𝑚𝑑𝑇 ); l’aumento della domanda di moneta sarà maggiormente stimolato da un aumento di livello di red-
dito corrente qualora sia elevata la sua sensibilità;
- il secondo è connesso alla distribuzione della domanda di moneta fra le due componenti, ossia doman-
da di moneta per transazioni e domanda di moneta per investimenti finanziari
(𝑚𝑑𝑇 → 𝑚𝑜 → 𝑚𝑆𝑑 ). Considerando che l’offerta di moneta è fissa, la domanda di moneta speculativa si
ottiene per differenza: l’aumento della domanda di moneta a fini speculativi si ha solo in caso di una ri-
duzione della domanda di moneta per transazioni;
- il terzo è determinato dalla reattività della domanda di moneta speculativa alle variazioni del tasso
d’interesse (𝑚𝑆𝑑 → 𝑟): una riduzione di domanda di moneta speculativa è possibile solo in caso di un
aumento del tasso d’interesse.
La pendenza della curva LM dipende, quindi, dalla maggiore reattività o meno della domanda di moneta a fini
speculativi al tasso d’interesse: maggiore sarà la sensibilità, tanto più la curva sarà piatta. Gli spostamenti della
curva LM dipendono, invece, da tre possibili situazioni: una variazione dell’offerta di moneta (variazioni della
base monetaria decisa dalle Autorità monetarie); possibili variazioni esogene nella domanda di moneta e varia-
zioni del livello dei prezzi.
Riguardo alla pendenza della curva LM vi possono essere due casi limite:

1) un primo caso si verifica quando la curva riesce ad essere completamente verticale, sottolineando
l’ipotesi centrale della teoria quantitativa della moneta, secondo cui non esiste alcuna relazione tra
domanda di moneta e tasso d’interesse. La domanda di moneta dipende esclusivamente dal livello del
reddito corrente, in quanto svolge solo la funzione di mezzo di scambio;
2) un secondo caso viene indicato da Keynes per indicare una domanda di moneta infinitamente elastica al
tasso d’interesse. In queste condizioni gli operatori economici sono convinti del fatto che il tasso
d’interesse sia troppo basso e, quindi, destinato ad aumentare. Sarebbe irrazionale investire in titoli
quando il loro valore sarebbe destinato a diminuire, pertanto gli operatori economici domandano mone-
ta liquida. Si determina una situazione che viene definita trappola della liquidità, in cui le Autorità

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monetarie non sono più in grado di controllare il tasso d’interesse attraverso la regolamentazione del si-
stema economico.

Le modificazioni dell’equilibrio nel mercato della moneta

La banca centrale solitamente utilizza come strumento di politica monetaria l’operazione di mercato aperto
che consiste nell’acquisto o nella vendita di titoli pubblici sul mercato finanziario.

A — UN AUMENTO DELLA BASE MONETARIA TRAMITE LE OPERAZIONI DI MERCATO APERTO

Si ipotizza l’acquisto di titoli pubblici sui mercati


finanziari da parte della Banca centrale. Questi
titoli, precedentemente detenuti nel portafoglio
delle famiglie, sono stati ceduti presso la Banca
centrale, che ha provveduto alla stampa di circo-
lante per un importo equivalente. In termini gra-
fici, questa operazione provoca un aumento di
offerta di moneta che, a parità di reddito (curva
di domanda di moneta stabile), si determina un
aumento di domanda e, quindi, una riduzione del
tasso d’interesse. Questo concetto, applicato alla
curva LM, provoca uno spostamento della stessa
verso destra, in quanto si riduce il tasso
d’interesse a parità di reddito.

B — UNA DIMINUZIONE DEL COEFFICIENTE DI RISERVA OBBLIGATORIA SUI DEPOSITI BAN-


CARI

Un altro caso che si potrebbe analizzare riguarda quello di una variazione del coefficiente di riserva obbligato-
ria q. Una diminuzione di q propaga i suoi effetti tramite il moltiplicatore monetario. A parità di base monetaria
offerta dalla Banca centrale, il sistema bancario dovrà depositare minori riserve, pertanto sarà disposto a conce-
dere maggiori crediti alla clientela. I maggiori crediti dovranno essere originati da maggiori depositi, facendo
aumentare l’offerta di moneta. Il risultato sarà quello di provocare uno spostamento della curva LM verso il bas-
so, dando origine ad una riduzione del tasso d’interesse d’equilibrio a parità di reddito.

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C — L’INNOVAZIONE DEGLI STRUMENTI DI PAGAMENTO

Un ultimo caso considera una diminuzione della sensibilità di moneta al livello di reddito reale, ovvero una di-
minuzione del parametro k della domanda
di moneta a scopo di transazione. Ciò po-
trebbe avvenire, per esempio, qualora vi
sia un’innovazione degli strumenti di pa-
gamento, provocando una diminuzione di
domanda di moneta, preferendo tali nuovi
strumenti (es. bancomat, assegni…). Se
l’offerta di moneta non si adegua a questa
nuova situazione, si determina un eccesso
di liquidità. La curva LM permette di ana-
lizzare il meccanismo di trasmissione at-
traverso l’analisi delle due componenti
della domanda. In primo luogo si ha una
riduzione dell’uso della moneta come
mezzo di scambio; la seconda componen-
te va valutata in termini di impieghi alter-
nativi relativi alle risorse rese libere. Il
portafoglio delle famiglie sarà disposto ad
accogliere un grado di liquidità maggiore, a condizione di un’ulteriore riduzione dei tassi d’interesse. In termini
grafici, la curva LM subisce due effetti: si ha in primo luogo uno spostamento della curva verso destra e
l’inclinazione della curva diventerà più elastica.

19 | L’equilibrio IS-LM
Il significato di equilibrio macroeconomico

Il mercato dei beni e dei servizi e quello moneta-


rio non sono indipendenti, anzi, è presente
un’interdipendenza fra fenomeni reali e fenomeni
monetari. Le famiglie e le imprese che prendono
le decisioni in merito ai consumi correnti e agli
investimenti sono le stesse che determinano la
domanda di moneta e di attività finanziarie in base
al loro comportamento nei confronti della scelta
del portafoglio finanziario.
Il livello del reddito e del tasso d’interesse non
devono, quindi, essere discordanti, creando un si-
stema economico in equilibrio quando le rispettive
coppie di valori saranno compatibili con
l’equilibrio sia del mercato monetario sia del mer-
cato dei beni e dei servizi. Questo concetto viene
definito come equilibrio macroeconomico ed è
rappresentato dall’intersezione tra la curva IS e la curva LM.

Gli effetti di un aumento della spesa pubblica

Un primo caso analizza gli effetti sull’equilibrio macroeconomico determinati da un aumento della spesa pub-
blica g. Graficamente, la curva IS si sposta verso destra perché un incremento della spesa pubblica ha prodotto
un eccesso di domanda di beni e di servizi. Il sistema economico reagisce incrementando il livello di produzione
corrente, distribuendo tale flusso di reddito in più alle famiglie e agli imprenditori. Riguardo al mercato moneta-
rio, l’incremento del livello di reddito corrente causa un aumento della domanda di moneta per transazioni; se

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l’offerta di moneta venisse mantenuta inalterata da


parte delle Autorità monetarie, si verificherebbe un
eccesso di domanda di moneta. Per portare in equi-
librio il mercato, i tassi d’interesse dovranno subire
un aumento: si raggiungerà il nuovo equilibrio ma-
croeconomico in conseguenza di un aumento della
spesa pubblica.

Gli effetti di un’operazione di mercato aperto

Un secondo caso considera un’operazione di mer-


cato aperto, in particolare una vendita di titoli da
parte delle Autorità monetarie. Si verificherà un
innalzamento del tasso d’interesse, il quale indurrà
i risparmiatori a modificare la composizione del
loro portafoglio finanziario, detenendo più titoli e
meno moneta. Gli effetti riconducibili all’equilibrio macroeconomico sono individuabili nel c.d. meccanismo di
trasmissione.
La vendita di titoli da parte della Banca centrale ha ridotto la quantità nominale di moneta, provocando uno spo-
stamento della curva LM verso l’alto. Rispetto al livello di reddito iniziale (y0), il mercato monetario si porterà
nel punto di equilibrio transitorio E1, con un tasso d’interesse più elevato e con un portafoglio che conterrà più
titoli e meno moneta. Il mercato dei beni e dei servizi (curva IS), tuttavia, mostra un eccesso di offerta, dato che
a quel tasso d’interesse si ha una minore domanda di investimenti e di consumi, pertanto le imprese accumulano
scorte indesiderate. A questo punto si rende necessario rivedere i piani di produzione sui nuovi livelli della do-
manda aggregata, che tengono conto dei minori investimenti. L’equilibrio finale, una volta raggiunto, mostra
che la vendita di titoli da parte della Banca centrale ha determinato una riduzione del livello di produzione e un
innalzamento dei tassi di interesse: è ciò che caratterizza le manovre restrittive di politica monetaria.

Il finanziamento della spesa pubblica

Quando la Pubblica Amministrazione aumenta la spesa pubblica senza un incremento corrispondente di entrate
correnti, occorre valutare le modalità con cui finanziare il deficit di bilancio, essendo le spese maggiori delle en-
trate. Le soluzioni sono due: utilizzare il conto corrente che il Ministero del Tesoro ha presso la Banca d’Italia
per il servizio di tesoreria, oppure collocare titoli di debito presso il pubblico sul mercato finanziario. Nel primo
caso si ha la monetizzazione del disavanzo, mentre nel secondo caso si ha finanziamento del disavanzo. Nella
prima figura è riportato lo spostamento della curva IS per effetto dell’aumento della domanda aggregata. Parten-
do da un livello reddituale di sottoccupazione (y0), la maggiore spesa consente all’economia di avvicinarsi al

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reddito di piena occupazione delle risorse (y1). In corrispondenza del tasso d’interesse r0 il livello di produzione
di equilibrio aumenta in relazione al mol-
tiplicatore del reddito:

1
𝛥𝑦 = 𝛥𝑔
1 − 𝑐′(1 − 𝑡′)
Il reddito tende ad aumentare e, quindi,
anche il risparmio complessivo.
L’equilibrio del sistema economico passa
da E0 a E1 a seguito della manovra espan-
siva di spesa pubblica. Considerando la
copertura di questo ulteriore deficit,
l’offerta complessiva di moneta non cam-
bia; al livello di reddito y1 (quello in corri-
spondenza di E1), tuttavia, il mercato non
è in situazioni di equilibrio. L’eccesso di
domanda di moneta per transazioni e
l’eccesso di offerta di nuovi titoli del Te-
soro determineranno congiuntamente un
rialzo dei tassi d’interesse, facendo dimi-
nuire gli investimenti programmati delle imprese e, pertanto, la domanda aggregata. Il sistema, quindi, torna in
equilibrio nel punto E2.

La rappresentazione grafica evidenzia che l’aumento del reddito è inferiore all’aumento indicato dal moltiplica-
tore del reddito, in quanto smorzato da un aumento del tasso d’interesse. Ciò avviene in virtù del c.d. effetto
spiazzamento. Si può notare che esso sarà tanto più elevato, quanto minore è la sensibilità della moneta al tasso
d’interesse, ossia quando si è in presenza di una curva LM perfettamente verticale. Un aumento della spesa pub-
blica, infatti, non modifica il livello del reddito, bensì fa crescere il livello del tasso d’interesse. A parità di red-
dito, si sarà ridotta la spesa delle imprese e delle famiglie, quindi il sistema economico avrà a che fare con mino-
ri investimenti. Lo spiazzamento consiste in una riduzione della spesa privata per effetto dell’innalzamento del
tasso d’interesse prodotto dall’offerta di titoli da parte del Ministero del Tesoro.

Considerando, invece, il caso di monetizzazione del


disavanzo, si può ipotizzare che la Banca centrale ac-
quisti dei titoli e che come contropartita si bilanci la
situazione tramite un aumento di base monetaria.
L’immissione di liquidità sposta la curva LM verso il
basso e attenua la pressione sui tassi d’interesse:
l’eccesso di domanda di moneta per transazioni viene
soddisfatto con la liquidità aggiuntiva creata con la va-
riazione positiva di base monetaria. Nella figura a
fianco, la politica è massima nel punto E1, ossia nel
punto di equilibrio del tasso d’interesse r0 e del reddito
di equilibrio y1. C’è da osservare che la politica espan-
siva generata dal Tesoro e accompagnata dalla Banca
centrale oltrepassa, almeno nel breve periodo, le capa-
cità produttive del sistema economico (ossia oltre yP),
provocando un’inflazione dei prezzi, la quale riduce il
potere di acquisto dei risparmi e compromette il valore
dei titoli in circolazione. Per questi motivi le Autorità monetarie intervengono nelle decisioni in merito ai metodi
di copertura del disavanzo pubblico.

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20 | Il reddito nazionale e il livello dei prezzi


La domanda aggregata e il livello dei prezzi

L’analisi del sistema economico analizzata precedentemente era stata condotta ipotizzando una situazione di sot-
toccupazione in cui l’aggiustamento del sistema era determinato da una variazione di reddito. Ora, invece, oc-
corre prendere in considerazione il ruolo dei prezzi. La relazione tra il livello di spesa ed il livello dei prezzi non
è diretta, ma interagisce con il mercato monetario: un livello maggiore dei prezzi implica una minore quantità
reale di moneta, quindi minor livello di spesa. In presenza di prezzi flessibili, non esisterà più un’unica curva
LM, bensì tanti equilibri di mercato quanti sono i livelli dei prezzi. Ciò deriva dal fatto che le Autorità monetarie
controllano solo l’offerta nominale, e non reale.
Graficamente, è possibile rappresentare questo concetto tramite
la figura a fianco. Nella parte superiore della figura, si riporta la
situazione di equilibrio IS-LM, mentre in quella inferiore vi è la
domanda aggregata che esprime il livello di spesa a ciascun li-
vello dei prezzi. Si nota che al primo livello di prezzo (P0) è
rappresentata la condizione di equilibrio tra mercato dei beni e
dei servizi e mercato monetario ad un determinato livello di
reddito (y0). Ipotizzando una diminuzione del livello dei prezzi
(P1), la curva LM si sposta verso il basso, dato che aumenta la
quantità reale di moneta e il tasso d’interesse diminuisce di
conseguenza. Il minor tasso d’interesse attiva la domanda di
investimenti che, tramite il moltiplicatore del reddito, produce
effetti sul reddito di equilibrio, portandolo al livello y1. Esten-
dendo questa applicazione a tutti i possibili livello di prezzo, si
ottiene la c.d. curva DA (domanda aggregata), la quale identi-
fica la relazione tra prezzi e quantità domandata quando i mer-
cati dei beni e dei servizi e quello monetario sono in equilibrio.
La pendenza negativa della curva definisce l’effetto Keynes,
ossia la relazione fra l’aumento del livello dei prezzi,
l’innalzamento del tasso d’interesse, la riduzione degli investi-
menti e della domanda aggregata. Per quanto riguarda la posi-
zione della curva, è definita dalle componenti autonome della
spesa aggregata e dalla quantità di base monetaria creata dalle
Autorità monetarie.

L’offerta aggregata

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Ora occorre analizzare come si determina l’offerta aggregata del sistema economico. Nei mercati concorrenzia-
li, le imprese, per ottimizzare i loro obiettivi produttivi, fissano i prezzi in base ai costi e alla produttività. Quan-
do i prezzi dei fattori produttivi o dei beni inter-
medi aumentano, le curve di costo delle imprese
aumentano, spostandosi verso l’alto. Nello stesso
tempo, se aumentano i prezzi dei prodotti finali,
le imprese hanno convenienza a produrre di più
(si riducono i salari reali, dati i maggiori profitti)
e, quindi, saranno disposte ad impiegare maggio-
ri fattori produttivi. Per derivare la curva OA
bisogna considerare il mercato del lavoro ed il
meccanismo di formazione dei prezzi delle im-
prese.
Occorre distinguere tra breve e lungo periodo.
L’offerta aggregata di breve periodo è una curva
piatta, a differenza di quella di lungo periodo che
è perfettamente verticale. La differenza è attri-
buibile all’andamento dei prezzi dei fattori pro-
duttivi a fronte di un aumento dei livelli di im-
piego. In una situazione di breve periodo si può
supporre che una parte delle risorse disponibili non sia ancora utilizzata a pieno, per cui un aumento della pro-
duzione è possibile solo se si presentano le condizioni favorevoli (es. aumento domanda aggregata senza varia-
zione del livello generale dei prezzi). Nel lungo periodo, invece, tutte le risorse del sistema economico sono
completamente utilizzate, per cui, anche se dovessero aumentare i prezzi, le imprese non sono in grado di au-
mentare i livelli produttivi. Le due situazioni vengono rappresentate nella figura a fianco.

L’equilibrio macroeconomico con prezzi flessibili

Ora è possibile considerare l’equilibrio macroeconomico in condizioni di prezzi flessibili, rimuovendo un limite
interpretativo del modello IS-LM. Considerando la fi-
gura a fianco, presenta sovrapposte le curve di do-
manda e di offerta aggregata. Ipotizzando che il siste-
ma economico sia in equilibrio nel lungo periodo, al
livello y0 e con livello dei prezzi P0. Le curve di offer-
ta aggregata di breve e di lungo periodo si intersecano
con quella di domanda aggregata nel punto di equili-
brio E. Considerando un aumento della domanda ag-
gregata, si nota che uno spostamento della curva di
domanda determina un eccesso di domanda aggregata,
pertanto le imprese registreranno un aumento dei costi
di produzione a fronte di un’espansione della produ-
zione, il quale dovrà essere ricaricato sul prezzo fina-
le. L’aumento della produzione nel breve periodo si
accompagna, quindi, ad un aumento del livello dei
prezzi, definendo il nuovo equilibrio E1.

L’inflazione

L’inflazione rappresenta un aumento generalizzato dei prezzi che determina una riduzione del potere d’acquisto
della moneta. Essa può essere determinata da un aumento della moneta circolante oltre i limiti rappresentati da-
gli scambi, ossia quando i governi, non riuscendo a fronteggiare le crescenti spese pubbliche, decidono di far
emettere banconote dalle Banche centrali. L’eccesso dei mezzi di pagamento rispetto ai beni disponibili genera
inflazione monetaria. L’inflazione, però, può essere causata da un’eccessiva creazione del credito da parte di

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imprese bancarie, caso che si verificò durante la crisi del 1929 quando le banche sostennero la speculazione di
borsa con le loro concessioni di credito, creando inflazione creditizia. Vi è poi l’inflazione da domanda, in-
dotta da un eccesso di domanda aggregata rispetto all’offerta. Tale meccanismo può essere attivato da ogni ele-
mento che compone la domanda aggregata. Vi è, infine, l’inflazione da costi, dovuta ad un aumento di produ-
zione dei beni e servizi: l’imprenditore, per mantenere inalterato il proprio margine di profitto, aumenterà i
prezzi di vendita, riversando sui consumatori i maggiori costi che egli deve sostenere. Se aumenteranno i prezzi
delle materie prime o di altri beni importati dall’estero si parlerà di inflazione importata.

La misurazione dell’inflazione

La dinamica dei prezzi deve essere adeguatamente misurata, in quanto la pubblicazione di dati statistici dei
prezzi, oltre ad avere effetti legali, costituisce metro di riferimento sul quale si misurano le discrepanze tra
aspettative e realtà. L’indicatore maggiormente utilizzato è l’indice dei prezzi al consumo (IPC) che misura la
variazione dei prezzi relativi ad un paniere fisso di beni e di servizi di consumo acquistati dalle famiglie.
L’indice è pari a 100 nell’anno base ed è calcolato mensilmente dall’ISTAT. L’IPC, tuttavia, non è una misura
dell’inflazione generale, dato che misura solo le variazioni dei prezzi di beni e servizi di consumo.
Un altro indicatore è il deflatore del PIL, definito dal rapporto tra PIL nominale e quello a prezzi costanti. A
differenza dell’IPC, questo indice misura il prezzo medio dei beni e servizi finali prodotti nell’economia, inclu-
dendo anche i beni importati ed esportati.
Di recente è stato introdotto un nuovo indicatore, ossia la core inflation, uno strumento utilizzato dalle Autorità
monetarie per verificare la corrispondenza delle politiche monetarie all’inflazione e i meccanismi di trasmissio-
ne al sistema economico.

L’equilibrio di sottoccupazione e di pieno impiego

Per evidenziare la differenza tra equilibrio di sottoccupazione e di piena occupazione occorre analizzare anche il
mercato del lavoro.

Il modo più semplice di ricavare la domanda di lavoro per collegarla al PIL è quello di riprendere il concetto di
funzione di produzione, ossia la relazione che lega il livello di produzione ai fattori produttivi, ed estenderlo
all’intero sistema economico: si ha in questo modo la funzione di produzione aggregata. Dato che lo stock di
capitale, la tecnologia e l’offerta di risorse natura-
li sono dati e le imprese sono identiche fra loro,
l’unico fattore che può variare il livello produtti-
vo nel breve periodo è costituito dal lavoro. Si
avrà, quindi, una relazione diretta fra livello del
PIL ed il livello dell’occupazione lavorativa. Si
osserva che la legge sui rendimenti decrescenti
porta ad appiattire la curva, in quanto aumenti
della produzione saranno possibili solo con au-
menti più che proporzionali dell’occupazione, fi-
no alla piena disponibilità.
In un mercato concorrenziale la domanda di lavo-
ro risponde al principio della produttività margi-
nale, ciò significa che le imprese assumeranno
fino a quando il valore della produttività margina-
le del lavoro (VPmaL) sarà maggiore o uguale al
costo nominale del lavoro (w), che include il sala-
rio e altri oneri a carico del datore di lavoro. Si
ricorda che la PmaL non è altro che l’inclinazione
della funzione di produzione riferita al lavoro.
Occorre, quindi, soddisfare tale situazione di
equilibrio:

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𝑤
𝑤 = 𝑉𝑃𝑚𝑎𝐿 ovvero = 𝑃𝑚𝑎𝐿
𝑃

Dato che la produttività marginale del lavoro (PmaL) diminuisce all’aumentare dell’occupazione, ne deriva che
l’occupazione del sistema economico aumenta quando il salario reale diminuisce (w/P); il salario reale deve di-
minuire per garantire la piena occupazione delle risorse, quindi per permettere che tutti coloro che risultino di-
soccupati possano trovare occupazione. La domanda di lavoro è rappresentata dalla curva Ld a fianco. Ma per
definire il livello di occupazione bisogna anche considerare l’offerta di lavoro disponibile nel sistema economi-
co. Si sa che la quantità di lavoro che i lavoratori saranno disposti ad offrire dipende dalla remunerazione nomi-
nale: un aumento del salario nominale determina un aumento dell’offerta di lavoro. L’offerta di lavoro è rap-
presentata nella curva Lo.
L’interazione tra domanda e offerta di lavoro determina il livello di occupazione ed il salario reale del sistema
economico. Il salario si aggiusta sempre per colmare la differenza tra domanda e offerta di lavoro. Se i salari ed
i prezzi sono flessibili e coesistono condizioni di concorrenzialità, tutti i lavoratori disponibili saranno occupati,
pertanto il sistema economico si troverà in una situazione di pieno impiego; ciò significa che non ci saranno la-
voratori disposti a lavorare ad un salario reale più basso né imprese disposte ad assumere lavoratori ad un salario
superiore a quello corrente. In una situazione di pieno impiego esiste un unico livello di occupazione in grado di
esprimere un unico livello di produzione ad un unico livello di salario reale. Ma il livello di produzione può es-
sere facilmente riferito sia al mercato dei beni e dei servizi (curva IS), sia al mercato della moneta e altre attività
finanziarie (curva LM). L’esercizio di trasposizione dell’equilibrio del mercato del lavoro a questi altri due mer-
cati inizia dalla funzione di produzione aggregata
riportata nella figura a fianco (in basso).

Riprendendo l’equilibrio dei mercati dei beni e dei


servizi ed il mercato monetario (equilibrio IS-LM),
occorre collegare il salario reale con il livello dei
prezzi compatibile con il pieno impiego delle risorse.
I prezzi non vengono più considerati costanti o co-
munque esogeni al modello. I prezzi si muoveranno in
modo tale da garantire l’equilibrio simultaneo dei tre
mercati. Le Autorità monetarie fissano la quantità
nominale di moneta compatibile con il pieno impiego,
ma le variazioni dei prezzi modificano la quantità rea-
le. Se i prezzi aumentano e il potere d’acquisto della
moneta diminuisce, aumenta la domanda di liquidità
da parte delle famiglie e delle imprese, pertanto i tassi
d’interesse si adegueranno ad un equilibrio più eleva-
to. Tale riduzione di potere d'acquisto della moneta
viene evidenziato nella figura a fianco: nella prima in
alto viene evidenziato il legame del PIL con il tasso
d’interesse, mentre il secondo evidenzia il legame tra
PIL e livello dei prezzi. In definitiva, lo schema dei
tre mercati ci dice che:

a) il livello di occupazione (L), di produzione


(y) e del salario reale (w/P) sono determinati
dal mercato del lavoro e dal mercato dei beni
e dei servizi, una volta definita la funzione di
produzione aggregata del sistema economi-
co;
b) il tasso d’interesse è un fenomeno sia reale
sia monetario, determinato simultaneamente dal mercato dei beni e dei servizi e dal mercato della mo-
neta;

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c) il livello dei prezzi è determinato simultaneamente dal mercato della moneta e dal mercato dei beni e
dei servizi, pur in presenza di un comportamento autonomo delle Autorità monetarie nella creazione di
base monetaria

L’aggiustamento macroeconomico con salari e prezzi flessibili

Per poter analizzare l’aggiustamento dei mercati in presenza di salari e prezzi flessibili, occorre considerare
questo esempio. Ipotizzando che le organizzazioni sindacali riescano ad ottenere un incremento dei salari nomi-
nali, si verificherà un incremento del salario reale. Le imprese tenderanno, quindi, ad una contrazione della pro-
duzione, mentre i lavoratori aumenteranno la propria offerta di lavoro: si avrà, quindi, una situazione di eccesso
di offerta di lavoro, che è la causa della disoccupazione e del sottoutilizzo degli impianti. Dato che l’offerta di
moneta rimane costante, si verificherà un aumento dei prezzi da P0 a P1, facendo propagare gli effetti al mercato
della moneta e al mercato dei beni e dei servizi. Nel primo, l’aumento del livello di prezzi riduce l’offerta reale
di moneta, e la minor quantità di liquidità fa aumentare il tasso d’interesse. Nel mercato dei beni e dei servizi, si
hanno due effetti: il primo fa diminuire la domanda aggregata attraverso l’effetto Keynes; il secondo fa aumen-
tare la produzione e l’offerta aggregata, dato che i salari reali si riducono ed i minori costi di produzione indu-
cono le imprese alla produzione. L’equilibrio sarà ora compatibile con un livello di occupazione L1, un livello di
PIL y1, un tasso d’interesse r1 ed un livello dei prezzi P1.
Nell’ipotesi di salari e prezzi flessibili, l’equilibrio è solo temporaneo. La presenza di disoccupazione nel merca-
to del lavoro, preme per chiedere una riduzione dei salari nominali, dato che i lavoratori sono disposti ad accet-
tare retribuzioni minori rispetto a quelle correnti. Il salario nominale si abbasserà da w1 a w0: il mercato del lavo-
ro si troverà nella situazione originaria di pieno impiego. Gli effetti si propagheranno, allora, anche al mercato
dei beni e dei servizi e al mercato monetario, portandosi sui livelli originari.

L’aggiustamento macroeconomico con rigidità dei salari monetari

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Ora occorre analizzare il caso di rigidità dei salari monetari, ossia quando le organizzazioni sindacali abbiano
una resistenza alla riduzione del salario monetario. Le imprese non hanno più convenienza a mantenere inaltera-
ta la produzione, creando eccesso di domanda aggregata, la quale crea un aumento dei prezzi che riduce il potere
di acquisto della moneta. L’aumento dei prezzi determina una riduzione dei salari reali e una parte della disoc-
cupazione viene riassorbita dalle imprese, facendo raggiungere un equilibrio macroeconomico in corrispondenza
del reddito y1 e del tasso
d’interesse r1. Si crea una
c.d. disoccupazione vo-
lontaria, ossia determina-
ta da salari monetari su-
periori a quelli di equili-
brio. Dato che le organiz-
zazioni sindacali sono re-
sistenti alla variazione dei
salari monetari, occorre
intervenire aumentando
l’offerta nominale di mo-
neta, facendo spostare la
curva LM verso il basso
nel punto di equilibrio di
piena occupazione yP.
Ciò provoca un aumento
della domanda aggregata
verso DA2 e, quindi, an-
che un aumento dei prezzi
verso P2. Con salari reali
inferiori, le imprese sa-
ranno disposte ad aumentare la produzione e a riassorbire la disoccupazione. Questa situazione identifica
l’illusione monetaria dei lavoratori, in quanto essi non sono disposti a contrattare una riduzione del salario no-
minale, ma accettano, invece, riduzioni dei salari reali indotti dall’inflazione.

L’aggiustamento macroeconomico con rigidità dei salari reali

Si può individuare, inoltre, un terzo modello che identifica la rigidità dei salari reali, ossia il potere d’acquisto
dei salari monetari rimane costante; ciò significa che, in presenza di una possibile riduzione dei salari reali, ven-
gono aumentati i salari nominali per mantenere inalterato il salario reale. Aumenta il livello dei prezzi, indotto
da una riduzione dell’offerta aggregata. Continuando per più periodi, s’innesca un processo inflazionistico ed un
continuo aumento del tasso d’interesse, fino a raggiungere dei limiti estremi individuabili dal livello dei prezzi
Pn e dal tasso d’interesse rn. Il livello di piena occupazione, pertanto, non potrà mai essere raggiunto e perdurerà
nel tempo il tasso di disoccupazione volontaria.

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21 | Il comportamento dei consumi nel lungo periodo


Altre ipotesi sul comportamento del consumatore

Studi successivi al comportamento del consumatore hanno messo in discussione le dimostrazioni che legano
l’equilibrio del reddito corrente al livello della domanda aggregata, sintetizzate nella figura del moltiplicatore
del reddito. Se esse potevano valere all’interno di un ciclo economico di breve periodo, non si adeguavano affat-
to all’andamento dei consumi mostrato dalle economie dei paesi industriali nel corso dell’ultimo secolo. Nel
lungo periodo, il rapporto fra consumo aggregato e reddito prodotto (propensione media al consumo) rimaneva
sostanzialmente stabile e, quindi, il risparmio non tendeva a crescere all’aumentare del reddito. Si introdusse,
pertanto, una prima distinzione, fondata sull’elemento temporale, che richiamava due comportamenti del con-
sumo aggregato: uno di breve e l’altro di lungo periodo. Nel primo caso si giustificava una propensione margi-
nale al consumo inferiore all’unità e comunque inferiore alla propensione media al consumo. Nel secondo caso,
invece, il valore della propensione marginale al consumo tendeva ad uguagliare quella media. Si trattava, quindi,
di conciliare le due teorie, e su questo si cimentarono diversi economisti durante gli anni Cinquanta.

- Una prima ipotesi presa in considerazione fu quella di valutare l’effetto ricchezza sul livello dei con-
sumi delle famiglie.
- Un’altra ipotesi prende spunto dall’approccio sociologico. Il consumo dipende non tanto dal livello as-
soluto del reddito, ma da quello relativo. Quando le famiglie si rendono conto che un aumento del red-
dito si mantiene nel tempo, esse potranno permettersi un livello di benessere maggiore. Questa ipotesi è
stata formulata da Duesenberry.
- Una terza ipotesi, introdotta da Klein, prende in considerazione le attività finanziarie possedute dalle
famiglie. Quando le attività finanziarie diventano liquide, perché i titoli di credito giungono a scadenza
o perché aumentano il loro valore, l’eccesso di liquidità o la maggior ricchezza determinano un aumen-
to del consumo.
Tutte queste tre ipotesi non fanno altro che integrare quelle keynesiane conciliandole con l’osservazione storica
dei fatti e non modificano sostanzialmente la relazione tra reddito corrente e consumi correnti.

La preferenza temporale e il consumo

Viene fornita, comunque, un’impostazione concettuale alternativa da parte di alcuni autori che si rifanno alla
teoria classica. In una prospettiva di lungo periodo, il reddito può essere inteso come un flusso di beni di con-

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sumo che soddisfa i bisogni delle famiglie. Il flusso di reddito costituisce, quindi, solo uno strumento per
l’acquisto dei beni e dei servizi; il vero obiettivo è quello della capacità di generare un flusso di risorse utili e
distribuibili nel tempo. Le famiglie, quindi, decideranno in base a criteri fondati sulla razionalità, piuttosto che a
criteri basati su fattori psicologici.
Questa nuova concezione ha importanti risvolti sulla teoria del consumo dato che mette in evidenza il compor-
tamento ottimizzante delle famiglie. Non si tratta, quindi, solo di utilizzare le risorse disponibili per soddisfare
i bisogni correnti, ma anche di distribuire tali risorse nel tempo. Il risparmio non è più conseguenza del non con-
sumo keynesiano, bensì di una scelta responsabile degli operatori economici, il risultato dell’allocazione ottima-
le del flusso intertemporale delle risorse che costituiscono il vincolo di bilancio delle scelte delle famiglie. La
ricchezza (W) può essere definita come il valore attuale di tutti i redditi attesi:

𝑌𝜏
𝑊 = ∑𝑛𝜏=1 dove 𝜏 è il periodo temporale, r è il tasso d’interesse e 𝑌𝜏 il reddito atteso nel perio-
(1+𝑟)𝜏
do 𝜏

Il modello base, formulato da Fisher, prevede due pe-


riodi: il vincolo di bilancio a fianco indica come le fa-
miglie decideranno i livelli di consumo nei due periodi
C1 e C2. Nel periodo 1 la famiglia percepisce il reddito
monetario Y1; nel periodo 2 percepisce il reddito Y2. La
ricchezza delle famiglia è il valore attuale dei due reddi-
ti, per cui la ricchezza nel periodo 1 è:

𝑌2
𝑊1 = 𝑌1 +
(1 + 𝑟)
e questo costituisce il vincolo di bilancio all’interno del
quale la famiglia deciderà i livelli di consumo. Dalla fi-
gura a fianco si evince come vi sia un’area all’interno
della quale i consumi siano inferiori al reddito: si spo-
stano risorse nel periodo futuro.

Un secondo caso prende in considerazione l’esatto opposto, ossia quando vi sia un consumo maggiore del reddi-
to: in questo caso, invece, si prendono a prestito delle risorse che dovrebbero essere proprie della generazione
futura.

Ora occorre prendere in considerazione la preferenza delle famiglie, definita dalla curva d’indifferenza U. Il li-
vello di consumo corrente si modifica non solo perché il livello di reddito corrente cambia (si allenta il vincolo
di bilancio), ma anche perché cambia la preferenza temporale (variazione della curva di indifferenza) o perché
cambiano le condizioni del mercato finanziario. Un primo caso prende in considerazione una variazione delle
preferenze temporali delle famiglie. In questo caso, la mappa delle curve di indifferenza si sposta verso sinistra

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ed il livello di consumo corrente aumenta, al punto


che il precedente risparmio si annulla e la famiglia
si indebiterà presso il sistema finanziario pari alla
differenza tra C’1 e Y1. L’aumento del consumo
non dipende da alcuna variazione del reddito cor-
rente o futuro, bensì da una maggiore preferenza
temporale delle famiglie.

Un secondo caso prende in considerazione un


aumento del tasso d’interesse: tale variazione,
infatti, stimola un maggior risparmio delle
famiglie. Vi sarà, quindi, un effetto di sostitu-
zione intertemporale della spesa, con una di-
minuzione dei consumi correnti ed un aumen-
to dei consumi futuri; ed un effetto reddito
indotto dall’aumento della ricchezza futura, il
quale porterà a far aumentare il livello del
consumo corrente. Un aumento del tasso
d’interesse promuove il risparmio nazionale.
Graficamente si verifica una variazione
dell’inclinazione della retta del vincolo di bi-
lancio. L’effetto di sostituzione si ha nel mo-
vimento A → B, mentre l’effetto reddito si ha
nel movimento B → C (ci si sposta su una curva d’indifferenza più alta, in quanto aumentano i consumi futuri).

Il reddito e il consumo permanente

La teoria del reddito permanente, presentata da Friedman, sostiene che il consumatore adeguerà il suo model-
lo di consumo ad un livello sostenibile nel medio-lungo periodo; ciò è possibile solo se questo trova espressione
in un reddito di medio-lungo periodo, ossia il reddito permanente. La relazione è quella di collegare il livello del
reddito permanente sulla base di una propensione media che rimane costante e tende all’unità:

𝑐 = 𝑐′𝑙 ⋅ 𝑦𝑃 dove c’l è la propensione marginale al consumo di lungo periodo rispetto al reddito permanente

Un primo problema è quello di stabilire le diverse fonti di reddito della famiglia secondo la tradizionale classifi-
cazione: reddito da lavoro, redditi di capitale, pensioni, sussidi e redditi straordinari. I diversi flussi citati hanno
un diverso grado di certezza nel mantenere nel tempo il tipo ed il livello di reddito: alcuni redditi sono più certi
di altri, mentre altri sono del tutto occasionali, altri ancora certi, ma variabili nel tempo. In conclusione, si pos-
sono ordinare i vari redditi in rapporto alla loro sostenibilità nel tempo, distinguendo le variazioni transitorie
dalle variazioni permanenti. Ipotizzando neutrali i redditi transitori, si analizzeranno quelli permanenti. Cia-
scun individuo conosce i propri redditi passati, pertanto la memoria può risalire nel tempo e calcolare la media
dei flussi di reddito passati, confrontandola con il reddito corrente. Se vi è stata una variazione, il buon senso
permetterà di trarre le proprie conclusioni. È possibile, quindi, definire il reddito permanente come la somma del
livello del reddito passato e la variazione permanente del livello corrente:

𝑦𝑃 = 𝑦−1 + 𝜃(𝑦 − 𝑦−1 ) dove y è il reddito corrente, yP è il reddito permanente, y-1 è la media dei redditi passati
e 𝜃 è un parametro positivo

Il parametro 𝜃 assumerà valore 1 quando la variazione del reddito è permanente, mentre assumerà valore 0
quando la variazione è occasionale. Dato che la variazione (y-y-1) è un valore medio riferito a più fonti di reddi-
to, il parametro può assumere anche valori intermedi. La relazione precedente può essere riscritta come media
ponderata:

𝑦𝑃 = 𝜃𝑦 + 𝑦−1 (1 − 𝜃)

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Tramite questa nuova relazione è possibile separare il reddito corrente dal reddito passato. Si vede allora che se
la variazione del reddito è certa è permanente, allora il reddito permanente corrisponde esattamente al reddito
corrente (parametro uguale a 1); se, invece, il parametro è uguale a 0, il reddito permanente è uguale al reddito
passato. Generalizzando il concetto, il reddito permanente yP può essere inteso come un flusso di reddito gene-
rato dal capitale accumulato, fisico o umano. Riscrivendo la prima relazione, si ha una relazione ancora più
generale che esprime la relazione tra livello del consumo e tasso d’interesse. La teoria del consumo viene ri-
formulata, quindi, su basi totalmente nuove: il tasso d’interesse è capace di influenzare direttamente anche i
consumi ed il risparmio. In definitiva, le famiglie risparmieranno maggiormente nel periodo corrente per incre-
mentare i consumi futuri. Cambia la concezione di risparmio, inteso come differenza tra reddito corrente e red-
dito permanente: vengono, cioè, risparmiate tutte le variazioni positive del reddito corrente dovute a cause tran-
sitorie.
Vi è un contrasto tra le diverse scuole di pensiero: l’impostazione keynesiana è riferibile esclusivamente al bre-
ve termine, mentre l’impostazione di Friedman e della scuola classica è riferibile ad un lungo periodo. Sosti-
tuendo, infatti, i termini della terza relazione alla prima relazione, si ottiene:

𝑐 = 𝑐′𝑙 ⋅ 𝑦𝑃 → 𝑐 = 𝑐′𝑙 ⋅ 𝜃𝑦 + 𝑐′𝑙 ⋅ 𝑦−1 (1 − 𝜃)

nella quale la spesa per i beni ed i servizi di consumo viene distinta in due componenti: una parte che dipende
dal livello di reddito corrente e una parte che dipende dal livello di reddito passato. La propensione marginale al
consumo di breve periodo è sempre inferiore all’unità perché … è minore di 1; ciò significa ammettere che esi-
ste una certa transitorietà nei redditi delle famiglie. Se, invece, si avesse certezza assoluta sui redditi correnti e
sui redditi futuri, vi sarebbe coincidenza fra propensione marginale al consumo di breve periodo e di lungo pe-
riodo, quindi c’ = c’l, poiché … è uguale a 1.

Graficamente, viene rappresentata la relazione


del consumo permanente sovrapposta a quella
di breve periodo. Il livello di reddito
d’equilibrio y0 rappresenta la coincidenza tra
reddito corrente e reddito permanente, quindi
una relazione di sostanziale equilibrio e di sta-
bilità delle aspettative delle famiglie. Ipotiz-
zando un aumento del reddito corrente, il con-
sumo aumenta da c0 a c1. La propensione me-
dia al consumo diminuisce, dato che si passa
dal punto di equilibrio E0 al punto E1. Solo se
l’incremento del reddito si stabilizza al livello
y1, la famiglia modificherà il proprio compor-
tamento, alzando il consumo in misura corri-
spondente (il punto di equilibrio passa ad E2).

Il ciclo vitale del consumo e del risparmio

Il consumo può essere influenzato anche dalle aspettative di reddito futuro. Il consumatore può programmare i
propri consumi lungo tutto il corso della sua vita nel modo migliore per ricavarne la massima soddisfazione.
Questa ipotesi di natura economica ci consente di delineare la teoria del ciclo vitale, proposta da Modigliani. Il
profilo temporale del consumo viene ipotizzato tenendo conto dell’aspettativa di vita di l anni e di lavorare n
anni; il periodo di vita non lavorativa, ossia di pensionamento, corrisponde alla differenza l-n. Si ipotizza, inol-
tre, che l’individuo non abbia alcuna proprietà iniziale e che non destini alcuna ricchezza alla generazione suc-
cessiva; viene poi trascurato l’elemento di incertezza che riguarda la lunghezza della vita attesa, la lunghezza del
periodo lavorativo e il livello del reddito. Date queste ipotesi è possibile definire il comportamento del consu-
matore lungimirante. Egli conosce il livello di reddito e lo vuole distribuire per soddisfare un livello costante
di consumi durante la sua vita. In termini formali, è possibile scrivere il vincolo di bilancio intertemporale in
questo modo:

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𝑛⋅𝑦 =𝑙⋅𝑐

Tale relazione può essere trasformata in

𝑛
𝑐= 𝑦
𝑙
che ci dice che il consumo dell’individuo dipende dal reddito e da un fattore di proporzionalità definito dal rap-
porto tra gli anni di vita lavorativa e gli anni di vita attesa, dove tale fattore costituisce la propensione al consu-
mo.

Modigliani, inoltre, fornisce un contributo relativo al risparmio. Riprendendo la definizione di risparmio, ossia
la differenza tra reddito e consumo, è possibile formulare la seguente relazione:

𝑛 𝑙−𝑛
𝑠=𝑦−𝑐→𝑠 = 𝑦 − 𝑦→𝑠 = 𝑦
𝑙 𝑙

che ci dice che il risparmio dell’individuo durante il periodo lavorativo dipende dal reddito e da un fattore di
proporzionalità definito dal rapporto tra gli anni di vita non lavorativa e gli anni di vita attesa, dove tale fattore
costituisce la propensione al risparmio. Il modello appena descritto può essere generalizzato per ricavare delle
regole comportamentali: i consumi sono programmati in un modo tale da mantenere un livello costante di con-
sumo durante la vita dell’individuo. Si vede, inoltre, che la ricchezza reale è un atto razionale derivante
dall’accumulazione dei risparmi nel corso della sua vita lavorativa.

Un altro modo per spiegare la teoria del ciclo economico utilizza il diagramma di Fisher delle scelte intertempo-
rale, scomponendo in due parti la vita dell’individuo: il periodo lavorativo ed il periodo di pensionamento. Tutto
il reddito viene concentrato nel primo periodo, mentre il consumo deve essere distribuito fra il periodo lavorati-
vo ed il periodo di pensionamento.

22 | La bilancia dei pagamenti ed il tasso di cambio


Il tasso di cambio e il mercato delle valute estere

Prendendo in considerazione le economie aperte agli scambi con l’estero, le transazioni internazionali devono
essere accompagnate da un mezzo di pagamento accettato universalmente. Il valore che esprime la quantità di
valuta nazionale necessaria per acquistarne una estera è il tasso di cambio. Fra domanda di valuta e tasso di
cambio vi è una relazione inversa, mentre tra offerta di valuta e tasso di cambio vi è una relazione diretta: in ca-
so di apprezzamento del tasso di cambio, aumenteranno le importazioni e verranno scoraggiate le esportazioni;

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si avrà l’effetto opposto qualora il tasso di cambio si deprezzi. Nella figura a fianco viene riportato il modello
del mercato delle valute: la quantità di valuta estera è riportata sulle ascisse, il tasso di cambio viene riportato
sulle ordinate. La vendita di attività finanziarie determina un’offerta di valuta come corrispettivo della transa-
zione; il rimborso di un prestito o l’acquisto di titoli finanziari determina, invece, domanda di valuta estera.
Dall’esempio riportato in figura, il tasso di cambio p0 esprime la quantità di moneta necessaria per acquistare
un’unità di valuta estera (tasso di cambio incerto per certo); al tasso di cambio di equilibrio si acquisteranno q0
di valuta.

La domanda e l’offerta di valuta estera costituiscono il mercato valutario. Il cambio, quindi, rappresenta non
altro che il prezzo di una moneta in termini di altre monete. La domanda di valuta è strettamente correlata alla
domanda di beni e dei servizi, pertanto osserva un andamento decrescente. In generale, si osserva che il mercato
dei cambi è influenzato dal grado di apertura verso l’estero di un Paese (misurato dal rapporto tra importazioni
e PIL ed esportazioni e PIL) e dalla mobilità dei capitali. In un linguaggio comunemente utilizzato si afferma
che l’andamento del cambio è determinato dalla bilancia dei pagamenti. Più precisamente, il tasso di cambio
nominale tende ad avvicinarsi al valore in cui la bilancia dei pagamenti è in equilibrio.

Il tasso di cambio d’equilibrio

Il concetto di tasso di cambio d’equilibrio (equilibrio bilancia dei pagamenti) deve essere maggiormente quali-
ficato. È possibile, infatti, che le Autorità monetarie intervengano sul mercato per correggere le distorsioni dello
stesso. Nurske, allora, introduce tre importanti qualificazioni:

- l’equilibrio della bilancia dei pagamenti non deve essere perseguito con restrizioni ai flussi commercia-
li (dazi alle importazioni e sussidi alle esportazioni);
- non vi devono essere degli incentivi all'afflusso di capitali o dei disincentivi al deflusso di capitali;
- non vi deve essere un eccessivo livello di disoccupazione, in quanto questo comprime la domanda di
importazioni
In sostanza, l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti deve riflettere le condizioni economiche di sostanziale
equilibrio in tutti e tre i mercati; il saldo della bilancia dei pagamenti non può, quindi, essere associato ad ecces-
si di domanda o ad elevati tassi d’inflazione.

I fondamentali

In questo contesto, la bilancia dei pagamenti risulta un elemento fondamentale che determina l’equilibrio dei
tassi di cambio, ma solo dopo una correzione degli scostamenti temporanei. L’esempio più evidente è fornito dai
fondamentali dell’economia, ossia gli elementi strutturali che contribuiscono a mantenere l’equilibrio macroe-
conomico. Si devono distinguere le determinanti di breve e di lungo periodo, che non necessariamente devono
essere le stesse. Il tasso d’interesse a breve può modificare la convenienza dei movimenti di capitale, ma non la
competitività delle imprese; il tasso di risparmio così come le aspettative inflazionistiche sono, invece, rilevanti
ai fini della determinazione della salute di un paese nel lungo periodo. Il concetto di fondamentali va definito,
quindi, in funzione dell’orizzonte temporale considerato.

Il sistema dei cambi

Nell’analizzare il comportamento del tasso di cambio, bisogna considerare le diverse situazioni determinate dal-
la presenza o meno di accordi internazionali che regolino la parità dei rapporti di cambio. In un sistema di cam-
bi flessibili, si esclude ogni intervento della Banca centrale, per cui il tasso di cambio è determinato esclusiva-
mente dalla domanda e dall’offerta; in un sistema di cambi fissi, invece, le Autorità monetarie devono interveni-
re per mantenere il tasso di cambio ad un livello predeterminato da accordi internazionali.

I CAMBI FLESSIBILI

La regola che determina l’andamento dei cambi flessibili è quella della domanda e dell’offerta. Se la domanda di
valuta estera eccede l’offerta disponibile, il tasso di cambio tende ad aumentare: questo movimento dei cambi
viene definito deprezzamento, in quanto sarà maggiore una maggiore quantità di moneta nazionale per acqui-

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stare un’unità di valuta estera. Le stesse argomentazioni possono essere fatte per il caso opposto: in caso di un
eccesso di offerta sulla domanda di valuta estera, il cambio tende a diminuire, determinando un apprezzamen-
to, in quanto sarà necessaria una minore quantità di moneta nazionale per acquistare un’unità di valuta estera.

I CAMBI FISSI

In un sistema di cambi fissi, le Autorità monetarie di ciascun paese intervengono sul mercato dei cambi per man-
tenere il tasso di cambio al livello concordato nell’accordo internazionale. Esse utilizzano le riserve valutarie a
disposizione della Banca centrale. Un primo caso tiene conto di un aumento delle esportazioni, per cui il tasso di
cambio tende a scostarsi delle al livello concordato P0, subendo un apprezzamento (diminuzione). Le Autorità
monetarie devono prevenire tale situazione di apprezzamento del cambio, portando in equilibrio il mercato dei
cambi domandando l’eccesso di valuta estera, comprando valuta in cambio di moneta nazionale, portando il tas-
so di cambio ai livelli normali. Un secondo caso ipotizza un aumento delle importazioni e, quindi, un eccesso di
domanda di valuta che determina un deprezzamento del cambio (aumento). La Banca centrale riporterà il tasso
di cambio in equilibrio offrendo l’eccesso di valuta richiesta dal mercato.

Occorre osservare che vi è un limite all’utilizzo di riserve valutarie poiché esse possono esaurirsi o la loro ec-
cessiva accumulazione accentua l’inflazione sul mercato monetario. Ci si trova di fronte ad una situazione che il
Fondo Monetario Internazionale definisce squilibrio fondamentale. In tale circostanza, le Autorità monetarie
possono decidere per una svalutazione quando si è di fronte ad un disavanzo della bilancia dei pagamenti: tale
situazione è determinata da un eccesso di domanda di valuta, in quanto tale curva tende a spostarsi verso destra.
Il movimento in senso contrario si chiama rivalutazione, determinato ad un eccesso di offerta di valuta sulla
domanda. Apprezzamento e deprezzamento sono variazioni del prezzo di mercato, riferiti al caso dei cambi fles-
sibili, mentre rivalutazione e svalutazione sono “dichiarazioni” ufficiali dei prezzi di valuta, riferiti al caso dei
cambi fissi. Dal punto di vista strettamente economico, si può affermare che un aumento del tasso di cambio
(deprezzamento in caso di cambi flessibili o svalutazione in caso di cambi fissi) determina due effetti: l’effetto di
sostituzione e l’effetto di reddito; occorre distinguere anche il comportamento degli operatori economici residen-
ti da quelli non residenti.

a) Per gli operatori residenti, l’effetto di sostituzione è determinato da un aumento dei prezzi dei prodotti
esteri rispetto a quelli nazionali, inducendo un aumento della domanda dei prodotti nazionali, facendo
ridurre la domanda di valuta estera, in quanto sarà minore la quantità importata.
Riguardo all’effetto di sostituzione sui mercati esteri, aumenterà la domanda di esportazioni da parte dei
soggetti non residenti, in quanto i prodotti sono più convenienti.
b) Riguardo all’effetto reddito, si manifesta una riduzione del reddito reale degli operatori residenti, dato
che il maggior tasso di cambio riduce la domanda di importazioni e rafforzando l’effetto di sostituzio-
ne.

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La parità del potere d’acquisto

Il concetto di parità del potere d’acquisto fa parte di una teoria che spiega le variazioni del tasso di cambio
rapportandole alla competitività del paese. Si ipotizza che nel lungo periodo il tasso di cambio sia determinato
dal rapporto tra i prezzi relativi dei due paesi. In materia si trovano tre versioni: la legge del prezzo unico, la
parità assoluta e la parità relativa.

La legge del prezzo unico stabilisce che i prezzi dei prodotti identici venduti in due paesi devono essere uguali
quando espressi in valuta comune. Dato il tasso di cambio 𝜌, i due prezzi (interno ed estero) del bene scambiato
saranno legati dalla relazione seguente:

𝑃𝑖 = 𝜌 ⋅ 𝑃𝑖∗

Il tasso di cambio, quindi, eguaglia il prezzo interno e quello estero. La parità assoluta estende la legge del
prezzo unico al livello generale dei prezzi; ciò significa che un paniere di beni e servizi deve avere lo stesso va-
lore nei diversi paesi quando espresso in valuta comune. Formalmente, l’indice dei prezzi interni P che esprime
il paniere di beni sarà uguale all’indice dei prezzi del medesimo paniere espresso in valuta estera P* moltiplicato
per il tasso di cambio. Da tale concetto è possibile descrivere il tasso di cambio di parità, definendolo come
quel tasso che uguaglia il rapporto fra i prezzi del medesimo paniere di beni nei due Paesi:

𝑃
𝜌=
𝑃∗
Occorre sottolineare che il paniere deve essere identico, quindi deve contenere i beni nella stessa proporzione.
Quando il tasso di cambio si discosta dalla condizione di parità, saranno possibili arbitraggi per acquistare i beni
nel Paese con prezzi più bassi e rivenderli nel Paese con prezzi più alti. La valuta con un elevato potere
d’acquisto (prezzi più bassi, maggiormente competitivi) tende ad essere sottovalutata, pertanto esiste un incen-
tivo ad acquistare la valuta nazionale per trarre maggior vantaggio. Sul mercato dei cambi, si formerà un eccesso
di offerta, che spingerà al ribasso di tasso di cambio. La valuta sarà sopravvalutata e tenderà al rialzo nel Paese
con prezzi più alti (meno competitivi).

L’approccio della parità relativa, invece, tiene conto delle possibili distorsioni derivanti dalla presenza di costi
di informazione e di transazione, così come altri costi che limitano l’azione delle imprese. Il paniere di beni nei
due paesi, quindi, non è necessariamente identico, pertanto i rapporti fra i prezzi dei singoli panieri non sono
identici e costanti. La parità relativa del potere d’acquisto si limita a considerare la variazione del livello dei
prezzi. Tale formulazione si deve all’economista Cassel: egli ipotizza che la variazione del tasso di cambio
nominale sia uguale alla differenza fra la variazione dei prezzi dei due paesi considerati:


𝛥𝜌 𝛥𝑃 𝛥𝑃
= − ∗
𝜌 𝑃 𝑃
Generalizzando il concetto, gli scostamenti del tasso di cambio di mercato dovranno tener conto della differen-
za fra il tasso d’inflazione dei due Paesi. Ogni deviazione dal tasso di cambio di mercato dal valore di parità del
potere d’acquisto costituisce un fattore di disturbo, un fenomeno collegato con il breve periodo.

Il tasso di cambio reale

Il valore espresso dalla parità del potere d’acquisto può anche essere definito con il termine di tasso di cambio
reale. Se il tasso di cambio si muove secondo la parità del potere d’acquisto, la posizione competitiva dei due
produttori rimane invariata, dato che il tasso di cambio segue la dinamica dell’inflazione. Nel caso in cui
l’inflazione nazionale dovesse superare quella dei Paesi concorrenti, il tasso di cambio reale si deprezzerebbe,
con un conseguente peggioramento delle condizioni competitive del Paese. Solo una variazione del tasso di
cambio effettivo (e non nominale) potrà migliorare la competitività del Paese.

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