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SCIENZA DELLE FINANZE

CAPITOLO 1: INTRODUZIONE

Le scienze delle finanze si occupano dello studio delle attività che riguardano le attività di prelievo e di
spesa esercitate dal settore pubblico, attività spesso designate con il nome di “finanze pubbliche”.
Le questioni trattate tecnicamente non parlano tanto dell’aspetto puramente “finanziario” ma più di come
vengono “spese” o utilizzate le risorse perciò si parla anche di “economia del settore pubblico” ovvero dello
studio micro e macroeconomico delle modalità attraverso cui lo Stato e i sui enti provvedono all’allocazione
delle risorse.
Le due principali dimensioni d’analisi della materia sono:

-Analisi Positiva: ha come obiettivo quello di individuare i nessi causali tra variabili economiche e di
rispondere a quesiti del tipo “qual è l’effetto di una riduzione dell’imposta sul reddito da lavoro?” (teoria
dell’equilibrio economico generale, la libera allocazione delle risorse sul mercato fornisce la massima
felicità possibile alle due parti)

-Analisi Normativa: cerca di fornire indicazioni circa la relazione tra strumenti specifici (es. tassazione del
reddito) e possibili obiettivi (es. redistribuzione del reddito) (economia del benessere che attribuisce un
particolare ruolo allo Stato e al suo intervento come “somma della volontà dei singoli”)

Proprio per questo motivo questa materia si fonde con altre non solo di natura economica ma anche
giuridica, sociale, politica.

LE DIVERSE CONCEZIONI DELLO STATO

-Concezione organicista: Questa concezione considera la società alla stregua di un organismo naturale, gli
individui costituiscono le cellule e gli organi di questo organismo mentre lo Stato e il cuore dello stesso.
L’individuo in quest’ottica ha senso solo come parte del tutto e della collettività. L’obbiettivo dello Stato e
guidare la società e a dare gli obiettivi all’organismo sociale.

-Concezione meccanicista: Lo Stato non è un organo della società quanto più un artificio creato dagli
individui per fare da “arbitro”tra gli interessi dei singoli che sono divergenti tra di loro e per garantire così
una pace sociale istituzionalizzando il conflitto (assumendo il monopolio della coercizione fisica),
l’attenzione si sposta sull’individuo, è una visione smaccatamente più liberale anche se può avere varie
declinazioni (smithiana piuttosto che social-democratica)
CAPITOLO 2: STRUMENTI DELL’ANALISI POSITIVA

Nella teoria dell’offerta del lavoro la decisione di lavorare o meno si basa su un’allocazione razionale del
tempo, la teoria economica assume che gli individui utilizzino per lavorare il proprio tempo libero nella
misura in cui i benefici superano i costi.

Effetto sostituzione: Quando il prezzo di un bene si riduce, i prezzi relativi (il prezzo in rapporto ai prezzi
degli altri beni)si modificano, e il consumatore tenderà a consumare una quantità superiore del bene il
cui prezzo si è ridotto (ad es. se l’aumento della tassazione sui redditi diminuisce la paga oraria di un
lavoratore esso, per l’effetto sostituzione, sarà portato a consumare di più il bene “tempo libero” il cui
prezzo è diminuito per effetto dell’aumento della tassazione e quindi spinge il soggetto a lavorare meno)

Effetto reddito: All’aumentare del prezzo di un bene diminuisce il potere d’acquisto del consumatore
permettendogli di acquistare una quantità sempre minore di quei beni che sono aumentati (la perdita di
reddito, sempre attraverso un aumento della tassazione sui redditi, e la diminuzione del potere d’acquisto
porta il soggetto a lavorare di più e consumare meno tempo libero al fine di mantenere lo stesso potere di
acquisto di prima o quasi)

Entrambi i comportamenti (lavorare di meno e lavorare di più) sono perfettamente razionali e entrambi
validi, variano da soggetto a soggetto in base a quale effetto prevale, se quello di sostituzione o reddito.
Al fine di individuare in quali condizioni prevalgono determinati effetti dell’intervento dello Stato in
economia si possono condurre studi sperimentali atti a identificare la correlazione tra intervento A ed
effetto B cercando di escludere eventuali fattori “esterni” che chiameremo C anche se questo processo di
isolamento della correlazione A-B non è facile da ottenere in quanto C non è sempre visibile.
L’econometria è un altro strumento utile allo studio reale delle scienze delle finanza e della gestione
economica dello stato, l’econometria è l’utilizzo dell’analisi statistica di dati economici per la stima di
relazioni causali.

CAPITOLO 3: STRUMENTI DELL’ANALISI NORMATIVA

Il quadro di riferimenti utilizzato per analizzare gli effetti degli interventi pubblici è l’economia del
benessere, la branca economica che si occupa di stabilire la desiderabilità sociale di allocazioni
economiche alternative. Il punto di massima soddisfazione di un individuo (ovvero il punto “p” sulla curva
d’indifferenza) è detto “Pareto efficiente”.

In condizione di Pareto efficiente non è più possibile aumentare la soddisfazione di un individuo senza
ridurre quella di un altro, un allocazione non è Pareto efficiente se comporta sprechi poiché tali sprechi
avrebbero potuto essere usati da un altro soggetto senza ridurre il benessere di altri. Il luogo in cui si
situano tutti i punti Pareto efficienti è detto curva dei contratti (in figura)
In economia il valore assoluto della pendenza della curva d’indifferenza indica il rapporto al quale
l’individuo è disposto a scambiare un bene per una quantità aggiuntiva di un altro bene ed è chiamato
saggio marginale di sostituzione, l’uguaglianza paretiana quindi richiede l’uguaglianza dei saggi marginali
di sostituzione di tutti i consumatori.

LA PRODUZIONE

Finora abbiamo supposto che le quantità di beni fossero fisse, ma ora proviamo a dire che gli input
produttivi possono essere spostati in modo che le quantità di beni siano modificabili (all’aumentare di una
diminuisce l’altra). Il saggio al quale il sistema economico può trasformare la produzione di un bene in un
altro è detto “saggio marginale di trasformazione”.
Finché il saggio marginale di sostituzione NON è uguale al saggio marginale di sostituzione lo scambio tra
tipologie di produzione è sempre possibile fino a quando sono uguali ovvero quando si è raggiunta
l’efficienza paretiana. Un utile strumento grafico per capire l’allocazione può essere la cd “Scatola di
Edgeworth”

PRIMO TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE

Avendo specificato le condizioni necessarie per l’efficienza paretiana possiamo ora chiederci se un sistema
economico complesso possa effettivamente raggiungerla. Se ipotizziamo che tutti i consumatori e
produttori agiscono da concorrenti perfetti (concorrenza perfetta) e che esiste un mercato per tutti i beni il
primo teorema stabilisce che le risorse vengono allocate in maniera Pareto efficiente senza interventi
esterni. In questo caso i consumatori sono “price taker” e non hanno modo di influenzare il mercato lo
stesso vale per i venditori che se alzano il prezzo della propria merce si vedranno surclassati dalla
concorrenza e se la abbassano perdono soldi.

SECONDO TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE

Anzi tutto dobbiamo dare due premesse: la concorrenza perfetta non esiste e non per forza l’efficienza
paretiana è desiderabile. Infatti la migliore allocazione per il singolo consumatore (efficienza paretiana)
non per forza coincide con la desiderabilità della società, infatti, se la società preferisce una distribuzione
più paritaria ed equa sarà il punto “q” il migliore (pur essendo NON Pareto efficiente) e non il punto “p5”
che è Pareto efficiente (Parliamo in questo caso di una scelta intrapresa in funzione del benessere sociale)

Entrano così in gioco non solo valutazioni d’efficienza ma anche di giustizia ed equità.

La massimizzazione del benessere sociale è perciò estremamente importante, nel grafico sotto il punto “i”
pur essendo pareto efficiente garantisce un minor benessere sociale rispetto a “ii”, mentre “iii”fornisce sia
equità e benessere sociale che efficienza poiché su una curva d’indifferenza più alta. In quest’ottica lo
Stato e la politica entrano nell’economia.
La frontiera delle unità possibili è derivata dalla curva dei contratti e indica l’utilità massima di un
individuo dato il livello di utilità di un’altra persona, i punti p3 e p5 corrispondono con quelli della figura
precedente e idem per il punto “q” vediamo quindi che in p5 l’utilità è più elevata per Eva mentre in p3 è il
contrario, in “q” l’utilità è pressoché uguale tuttavia, come già detto, tale punto non si trova (in nessuno dei
due grafici) in un punto di efficienza paretiana. In definitiva la frontiera delle unità possibili indica l’utilità
massima che un individuo può raggiungere, data l’utilità dell’altro, i punti sulla curva sono pareto efficienti,
quelli più in basso non lo sono e quelli più in alto sono irraggiungibili.

Questi teoremi fondamentali sono validi solo se tutti i consumatori e i produttori NON hanno potere di
mercato e quindi sono “price taker” e si presuppone una concorrenza perfetta e la conseguente assenza di
informazione asimmetrica che è invece comunissima nei mercati reali (ad es. assicurazioni).

Nella realtà vi sono anche beni cosiddetti “pubblici” che sono non rivali e non escludibili (ad esempio il
faro che non può essere oscurato per i marinai che non pagano il servizio).

Un altro tipo di beni sono i beni meritori ovvero i beni che lo Stato dovrebbe fornire indipendentemente
dal fatto che i componenti della società li richiedano (ad es. il sostegno pubblico alle arti)
Questo grafico ci fa vedere di quanto varia la “felicità” (surplus) del consumatore in relazione
all’abbassamento dei prezzi di un determinato bene

In definitiva l’obbiettivo dell’economia del benessere sta nel fatto che offre un sistema coerente per
valutare interventi pubblici di natura differente non sulla base unicamente dei risultati ma dando una
forte importanza ai processi messi in atto per raggiungere una maggiore equità e benessere sociale.
CAPITOLO 4: I BENI PUBBLICI

Abbiamo già visto cosa sono i beni pubblici puri (ovvero quei beni il cui consumo non è rivale ne
escludibile) per cui il costo marginale del consumo da parte di un individuo è nullo (non rivalità) e
escludere dal consumo di tale bene è molto costoso o impossibile. Anche se tutti consumano la stessa
quantità di un bene pubblico non è detto che tale consumo debba essere valutato da tutti coloro che ne
usufruiscono in maniera positiva.
I beni pubblici possono essere sia puri (faro) che impuri (ad es una biblioteca) che sono caratterizzati da un
certo grado di non-rivalità e non-escludibilità che però non sono illimitati e non è neanche sempre detto
che non-escludibilità e non-rivalità siano sempre associate e possono essere anche caratteristiche della
persona non considerabili come merci (l’onestà).
I beni privati possono essere forniti anche dal settore pubblico (vedi edilizia popolare o assistenza
sanitaria) e viceversa possono esserci beni pubblici forniti dal settore privato (ad es. servizi di autobus
privati di linea o servizi privati appaltati per i netturbini).

FORNITURA EFFICIENTE DEI BENI PRIVATI

Somma orizzontale delle curve di domanda: la curva di domanda di mercato per un bene privato come i
capi d’abbigliamento si ottiene sommando il numero di capi di abbigliamento che ogni individuo
consuma per ciascun prezzo
Vediamo ora un grafico dimostrativo della fornitura efficiente di un bene privato, il mercato è in equilibrio
quando domanda e offerta si equivalgono, in figura O mostra il tasso marginale di trasformazione che varia
al variare della produzione del bene
FORNITURA EFFICIENTE DEI BENI PUBBLICI

Per fornire la quantità efficiente di un bene pubblico è necessario che la somma delle disponibilità dei
cittadini-consumatori a pagare per un’ulteriore unità sia uguale al suo costo marginale.
Il grafico mostra la somma verticale delle curve di domanda per acquistare la 20° unità di un determinato
bene (a sarà disposto a pagare 6 mentre b 4, in totale 10).
La quantità efficiente di bene pubblico prodotto è quella in corrispondenza del punto in cui la
disponibilità a pagare un’unità in più è pari al costo marginale per produrre quell’unità. Nella figura sotto
la quantità efficiente è situata nel punto in cui la disponibilità totale a pagare (che si ottiene sommando le
curve di domanda a e b) in figura DrA+E interseca la curva di offerta Sr.

Nel caso di un bene privato quindi vi è efficienza se il tasso marginale di sostituzione è uguale per tutti gli
individui e coincide con il saggio marginale di trasformazione, nel caso del bene pubblico invece dal
momento che tutti consumano la stessa quantità è necessario che il valore complessivo che i
consumatori attribuiscono all’ultima unità fornita di tale bene (cioè la somma dei saggi marginali di
sostituzione)sia uguale al costo marginale di quell’unità aggiuntiva prodotta; per i beni pubblici vi è inoltre
pericolo di free riding e di opportunismo, ciò favorisce il fatto che lo Stato fornisca beni pubblici
solitamente in quantità inferiore a quella efficiente

In alcuni casi le imprese pubbliche forniscono servizi che si possono ottenere anche privatamente, la
combinazione tra fornitura pubblica e privata dei beni servizi di pubblica utilità è sostanzialmente cambiata
nel tempo ed è diversa di paese in paese, se ad esempio le materie prime sono diversamente pagata nel
settore pubblico rispetto al privato sarebbe maggiormente efficiente scegliere il settore meno costoso, nel
caso di forniture pubbliche di un bene i costi amministrativi possono essere suddivisi tra un vasto gruppo di
persone, più vasta è la collettività maggiore è il beneficio derivante dalla suddivisione dei costi. Più i gusti
sono differenziati più è considerato efficiente il servizio fornito dal privato a scapito di maggiori costi di
gestione tipici del privato. Un’interpretazione possibile del concetto di equità richiede che alcuni beni
economici siano disponibili per tutti e quindi fornite pubblicamente (istruzione, sanità ecc.).
Una volta trovato un accordo sul fatto che taluni beni devono essere forniti dal settore pubblico rimane da
capire se debbano essere prodotti dallo stesso settore pubblico o dal privato, questa questione si inserisce
in un più ampio dibattito sul ruolo dello Stato in economia.
Cerchiamo di capire meglio questo dibattito sulla fornitura e produzione pubblica e privata attraverso un
servizio in particolare: l’istruzione. L’istruzione è di fatto un bene privato in quanto viene recepita
diversamente da ogni studente andando a influenzare più o meno positivamente il benessere degli
studenti aumentando le loro capacità di guadagnarsi da vivere in futuro, si devono però sottolineare le
particolarità che rendono l’istruzione, in realtà, un bene pubblico anche se non perfettamente puro. Le
scuole infatti hanno una fortissima influenza socializzante, politica e culturale che garantisce la tenuta del
sistema sociale-economico-politico, non è solo un sistema per favorire la socializzazione e la formazione
politica ma anche per la creazione di capitale umano spendibile in economia. Considerando anche gli
aspetti di equità e mobilità sociale diviene evidente come l’istruzione sia un bene che è bene sia fornito e
prodotto in maniera quasi gratuita dallo Stato, come vediamo nel grafico sotto pur diminuendo la quantità
di istruzione da eo a ep (che è di poco minore) la quantità di beni passa da co ad A che è molto maggiore,
non si può dare per scontato che la fornitura gratuita dell’istruzione da parte dello Stato comporti
necessariamente un aumento del consumo.

Abbiamo visto come è poco probabile che i mercati privati possano produrre beni pubblici puri in maniera
pareto efficiente per cui le decisioni riguardo tali tipi di beni devono essere collettive, decisioni a livello
collettivo devono essere prese anche per produrre beni di tipo privato ma che hanno elementi di pubblicità
molto importanti e significativi come l’istruzione.
CAPITOLO 5: LE ESTERNALITA’

Le esternalità sono attività di un oggetto economico che influisce sul benessere di un altro direttamente
ossia non mediante variazioni dei prezzi del mercato. Al contrario degli effetti che agiscono su terzi
mediante i prezzi le esternalità alterano le condizioni di efficienza economica.
Un esempio può essere: Alberto gestisce una fabbrica che scarica rifiuti in un fiume che Lisa usa per pescare
e che usa per guadagnarsi da vivere, l’attività di Alberto peggiora le condizioni di Lisa in maniera non diretta
e senza riflettersi direttamente sui prezzi del mercato, inoltre Alberto NON paga l’acqua in quanto bene
pubblico e quindi non la utilizza seguendo logiche di efficienza; un’esternalità deriva dunque dalla mancata
assegnazione dei diritti di proprietà o dall’impossibilità di farlo. Fintanto che una risorsa è di proprietà di
qualcuno, il prezzo ne riflette il valore per usi alternativi e la risorsa viene impiegata in modo efficiente, al
contrario le risorse di proprietà comune vengono utilizzate in maniera non per forza efficiente perché
nessuno è incentivato ad economizzarne l’uso.

Le esternalità posso essere prodotte sia dai consumatori sia dalle imprese, le esternalità possono poi essere
positive (se l’influenza dell’attività sul terzo è indirettamente positiva) o negative, i beni pubblici possono
essere considerati come un tipo particolare di esternalità, quando il consumo individuale crea
un’esternalità positiva su tutti gli altri consumatori l’esternalità positiva ha le caratteristiche di un bene
pubblico puro (si pensi al consumo di un vaccino), il consumo è quindi “privato” ma i suoi effetti sono
benefici per gli altri.

Vediamo ora rappresentato in figura il problema di Lisa e Alberto


Come si vede in figura i mercati privati in cui sono presenti esternalità non producono un livello di output
socialmente efficiente (Q*) in quanto si piazza in Q1, in secondo luogo il grafico non ci mostra solo che
passare da Q1 a Q* si accresce l’efficienza ma ci dice anche di quanto, il profitto marginale di una data
quantità di output è la distanza verticale tra MB e MPC mentre Lisa ci guadagna in termini di pesci e quindi
aumenta i suoi benefici, per lei il guadagno , per ogni unità in meno di output, è dato dalla distanza
verticale tra MD e l’asse orizzontale e quando l’output si riduce da Q1 a Q* è pari a d abfe (che è pari a
cdhg) mentre Alberto perderebbe l’area dcg, mentre per la società il guadagno sta nell’area dhg.
In presenza di esternalità quindi si verifica un’allocazione inefficiente delle risorse, vi sono tuttavia alcuni
metodi con i quali si può mitigare questo problema:

-Assegnare diritti di proprietà privati alle cose e alle risorse in questione, se Alberto è titolare di diritti di
proprietà sull’acqua del fiume ridurrà l’output di un’unità se riceve in cambio una somma di denaro almeno
pari al profitto netto che avrebbe tratto producendo quell’unità. Lisa è disposta a pagare Alberto purchè la
somma pagata sia inferiore al danno arrecatole dall’output e perciò possono raggiungere un accordo in
corrispondenza di Q*, in caso di esternalità la contrattazione tra privati pota ad un allocazione efficiente a
condizione che i diritti di proprietà siano assegnati, l’efficienza sarà raggiunta indipendentemente da chi
detiene tali diritti (Teorema di Coase), in quest’ottica non è utile l’intervento dello Stato per correggere le
esternalità

-Fusione, un modo per affrontare le esternalità consiste nell’internalizzare fondendo le imprese coinvolte,
se Alberto e Lisa coordinassero le loro attività il profitto ricavato sarebbe più elevato della somma dei
profitti ottenuti singolarmente, se Alberto fosse proprietario di entrambe le attività dovrebbe considerare
gli effetti che le sue stesse attività della fabbrica avrebbero sull’impresa ittica.

-Regole di convivenza civile, a differenza delle imprese i singoli individui non possono dar vita a fusioni per
internalizzare le esternalità, alcune convenzioni sociali possono essere considerate tentativi di costringere
le persone a tenere conto delle esternalità che producono (ad es. non si buttano i rifiuti per terra).

-Stato, in caso gli individui non riescano a trovare una soluzione efficiente può intervenire lo Stato in vari
modi:

1)Imposte Pigouviane: imposta che grava su chi provoca un’esternalità negativa per ogni unità prodotta e
per un ammontare pari quindi al danno marginale che l’impresa provoca in efficienza di output. Tali
imposte gravano su ogni singola unità prodotta da chi inquina o da chi produce esternalità negative il cui
ammontare è pari al danno marginale che l’impresa provoca in corrispondeza del volume efficiente di
output.
Il danno marginale in corrispondenza dell’output efficiente Q* è dato dalla distanza cd e l’imposta
pigrouviana dovrebbe essere pari a questa distanza, di conseguenza il produttore varierà aggiungendo cd a
MPC e spostando la produzione a Q* allineandolo al costo marginale sociale (MSC) nel punto in cui
interseca il beneficio marginale (MB).

2)Sussidi: Supponendo che il numero delle imprese inquinanti sia fisso si può ottenere il volume
efficiente di produzione pagando chi inquina per non farlo, il sussidio per non inquinare è un modo
diverso per aumentare i costi di produzione per chi effettivamente inquina in quanto chi inquina,
rinunciando al sussidio, aumenta i suoi costi di produzione.

A destra di Q* la somma del costo marginale privato e della rinuncia al sussidio supera il beneficio
marginale e quindi non conviene produrre, in tutti i punti a sinistra di Q* invece conviene produrre anche
se dovesse rinunciare al sussidio tuttavia produrrebbe di meno e perciò è spinto a produrre Q* ovvero
l’output efficiente. Tuttavia i sussidi vengono forniti attraverso l’erario e la tassazione che a sua volta
distorcono gli incentivi/sussidi.
3)Imposta sulle emissioni: far pagare un’imposta pigouviana su ciascuna unità di emissioni prodotte
piuttosto che su ogni output prodotto. L’efficienza richiede che il produttore riduca l’inquinamento se il
beneficio marginale sociale (MSB) è maggiore del costo marginale (MC) per farlo; e* rappresenta la
quantità efficiente di riduzione dell’inquinamento

Un’imposta sulle emissioni f* comporta la quantità efficiente di riduzione dell’inquinamento che sta in e*
L’imposta sulle emissioni presenta alcuni importanti vantaggi quando vi è più di un unico soggetto
inquinante, con un’imposta sulle emissioni è possibile raggiungere l’allocazione efficiente in termini di costo
e allo stesso tempo compensare coloro che riducono maggiormente l’inquinamento. In breve l’impresa che
riduce meno le emissioni subisce un’imposizione più elevata rispetto a chi ha ridotto di più, dal momento
che è sottoposta a una tassazione complessiva più elevata. Il vantaggio principale di un’imposta sulle
emissioni è che consente di ottenere la riduzione dell’inquinamento al minor costo possibile. Un’imposta
sulle emissioni induce ciascun soggetto inquinante a ridurre l’inquinamento fino al punto in cui il costo
marginale della riduzione è pari al livello dell’imposta; questo comporta costi marginali uguali per i vari
soggetti inquinanti e quindi efficienza in termini di costi.

SISTEMA CAP-AND-TRADE

Viene definito un sistema cap&trade perché fissa un tetto massimo (cap) al livello complessivo delle
emissioni consentite a tutti i soggetti vincolati, ma permette ai partecipanti di acquistare e vendere sul
mercato (trade) diritti a emettere CO2 (quote) secondo le loro necessità, all'interno del limite stabilito.
Politica di assegnazione di autorizzazioni a inquinare; il numero di autorizzazioni viene stabilito in base al
livello desiderato di inquinamento e ai soggetti inquinanti viene consentito di scambiare dietro compenso,
l’assegnazione dei diritti di proprietà da parte di un soggetto terzo (es. lo Stato) produce delle conseguenze
in termini di distribuzione, non di efficienza. Fin tanto che i soggetti nel mercato possono vendersi le
autorizzazioni l’allocazione finale è efficiente in termini di costi (questo sistema prende il nome di sistema
cap and trade). Tale sistema gode di un particolare vantaggio, mentre se con l’imposizione di imposta sulle
emissioni l’inflazione altererebbe la stessa facendola diminuire, con un sistema cap and trade ciò non
avviene poiché le il sistema si regola autonomamente senza bisogno di interventi legislativi per variare le
imposte. Tuttavia un sistema cap and trade presenta anche alcuni svantaggi come la variazione nel costo di
riduzione dell’inquinamento al mutare delle condizioni economiche. Un’opzione interessante può essere
quella di combinare i due sistemi, secondo questo approccio l’autorità pubblica stabilisce un sistema cap
and trade tuttavia rende anche noto che venderà tutte le autorizzazioni da se a un prezzo prestabilito (noto
come safety valve price o valvola di sicurezza)
Con benefici marginali sociali anaelastici e costi superiori a quelli previsti il sitema cap and trade comporta
un’eccessiva riduzione dell’inquinamento mentre un’imposta comporta una riduzione non sufficiente (il
sitema cap and trade è tuttavaia più efficiente).

Quando i benefici marginali sociali sono elastici (prevalentemente parallelo all’asse orizzontale) e i costi
superiori a quelli attesi il sistema cap and trade comporta un’eccessiva riduzione dell’inquinamento
mentre un’imposta sulle emissioni comporta una insufficiente (anche se più efficiente del cap and trade).

Nel caso di imposta sulle emissioni i soggetti inquinanti devono pagare allo Stato le imposte per ciascuna
unità di inquinamento prodotta, nel caso di un sistema cap and trade se le autorizzazioni sono distribuite
gratuitamente non ci saranno introiti per lo Stato, all’opposto generano introiti per lo Stato se esso impone
safety valve price.

NORME COMMAND AND CONTROL

Le imposte sulle emissioni e i sistemi cap and trade sono considerati delle dorme di regolamentazione per
incentivi, facendo aumentare il costo opportunità dell’inquinamento costringono i soggetti inquinanti a
tener conto dei danni marginali associati al loro comportamento lasciando ai soggetti ampia varietà per
scegliere come ridurre le esternalità negative. L’approccio più tradizionale era invece chiamato command
and control che erano caratterizzate da una flessibilità decisamente minore, uno standard tecnologico (ad
es. l’imposizione di una procedura per lo smaltimento degli scarti produttivi) è un tipico esempio di questo
tipo di norme che non incentiva le imprese a modalità nuove e più economiche per ridurre l’inquinamento
e non incentiva lo sviluppo di tecnologie più avanzate. Uno standard di performance è un altro tipo di
norma command and control che stabilisce obiettivi di emissioni per ciascun soggetto inquinante e lascia
una certa flessibilità in merito alle modalità di raggiungimento.
Un sistema di command control può essere preferibile rispetto ad uno per incentivi a determinate
condizioni, il sistema basato sugli incentivi ha senso solo se le emissioni possono essere monitorate mentre
uno standard tecnologico difficilmente potrà essere non verificabile dallo Stato.

ESTERNALITA’ POSITIVE

La definizione l’abbiamo già vista, un esempio di esternalità positiva può essere una ricerca scientifica
realizzata da un’azienda e poi condivisa alla collettività e alle altre imprese che beneficeranno
dell’invenzione. Nell’immagine sotto è rappresentato graficamente l’esempio fatto sopra, MSB è il
beneficio marginale sociale della ricerca mentre MEB sta per beneficio marginale esterno MPB è il
beneficio marginale privato, MC sono i costi marginali. In questo caso R1 non è sufficiente e quindi per
raggiungere l’efficienza (costi marginali=beneficio marginale sociale) sarà utile un sussidio pigouviano che
permetta di collocarsi sul punto socialmente più efficiente. Quando un impresa produce esternalità positive
il mercato fornisce una quantità inferiore di quel bene rispetto all’efficienza sociale, ma un sussidio
adeguato può correggere tale inefficienza.
CAPITOLO 6: TEORIA DELLE SCELTE COLLETTIVE

Gli stati democratici utilizzano varie procedure di votazione per prendere decisioni in merito alla spesa
pubblica e al suo finanziamento, Lindhal propose un modello per decidere all’unanimità quanto bene
pubblico produrre e come finanziarlo nell’ipotesi che ciascuno dichiari le proprie preferenze.
Sull’asse orizzontale è rappresentata la quantità di beni annui e su quello verticale il contributo pagato da
ogni singolo individuo (quote) o la il cd prezzo di Lindahl, appare chiaro quindi come la quantità di bene
domandato dal singolo sia inversamente proporzionale alla quota a carico dello stesso, invece la richiesta
delle altre di quel bene parti aumenta. L’equilibrio di questo sistema è dato da un insieme di prezzi di
Lindhal tale per cui ogni individuo vota per la stessa quantità di bene pubblico r(*), anche in questo caso si
può parlare di allocazione Pareto efficiente.

Tale procedimento ha però dei limiti, anzitutto assume che gli individui esprimano sinceramente le loro
preferenze (se uno di due dovesse scoprire qual è il tetto massimo dell’altro punterebbe subito a quello) in
secondo luogo è probabile che ci voglia molto tempo per trovare il prezzo-imposta che soddisfi entrambi
soprattutto valutando la complessità di ipotesi in cui i soggetti sono moltissimi allungando enormemente i
tempi delle votazioni unanimi (per questo sono preferibili i sistemi a maggioranza e le votazioni a
maggioranza). Se le preferenze del singolo sono il più delle volte coerenti quelle della comunità no
(paradosso del voto), è molto importante anche la manipolazione dell’ordine del giorno (influenzare il
risultato anteponendo o preponendo alcuni ordini del giorno), questo può però portare ad un nulla di fatto
e ad una ciclicità del voto. Le preferenze possono poi essere divise in unimodali (se man mano che si
allontana dall’esito che preferisce il suo beneficio cala costantemente) e bimodali (se allontanandosi dalla
risoluzione che preferisce il suo beneficio cala ma poi aumenta di nuovo).
Continuiamo a considerare il caso semplice in cui le alternative possibili riguardano solo la quantità
desiderata e definiamo l’elettore mediano ovvero l’individuo le cui preferenze occupano la posizione
intermedia nell’insieme ordinato delle preferenze di tutto il gruppo votante. Il Teorema dell’elettore
mediano afferma che se tutte le preferenze sono unimodali il risultato di una votazione a maggioranza
rifletterà la preferenza espressa dall’elettore mediano, se qualcuno dei votanti ha preferenze bimodali ci
sarà il rischio di imbattersi nel paradosso del voto (votazioni del gruppo non coerenti).

Un limite del sistema della votazione a maggioranze semplice è che non consente agli individui di
esprimere quanto stia a cuore un certo tema, con lo scambio dei voti è possibile invece risolvere questo
problema, se si scambiassero i voti ci sarebbe più possibilità di far passare più proposte traendo comunque
un beneficio totale netto per ogni opera positivo e aumentando il benessere

Ma può anche ridurlo, se per esempio solo alcune parti si accordano per votare a favore della realizzazione
di due opere pubbliche che singolarmente non sarebbero state approvate, escludendo una terza parte che
preferiva una terza opera e che non la vedrà realizzata. Si vede quindi come, grazie allo scambio di voti, un
gruppo può formare una coalizione per far approvare, attraverso un voto di maggioranza, progetti che
procurano loro benefici e i cui coti ricadono sulla minoranza che non ne ricava particolari benefici.

TEOREMA DELL’IMPOSSIBILITA’ DI ARROW

Arrow sosteneva che in una società democratica il metodo di scelta collettiva debba soddisfare i seguenti
criteri:

1)deve portare ad una decisione e quindi non deve fallire in caso di preferenze multimodali

2)deve essere in grado di stabilire una graduatoria tra tutti gli esiti possibili
3) deve riflettere le preferenze individuali

4)deve essere coerente (se A migliore di B e B migliore di C allora A migliore di C)

5)indipendenza delle alternative irrilevanti (l’ordine di preferenza tra A e B deve essere indipendente da
un fattore C)

6)Non è ammessa la dittatura nel senso che le preferenze della società non devono tendere a riflettere
quelle di un singolo individuo

Grazie a questi principi Arrow ragiona che è, in genere, impossibile, trovare un metodo di decisione che
soddisfi tutti, questo risultato è noto come il Teorema dell’impossibilità di Arrow mette in dubbio che i
sistemi democratici possano funzionare in maniera pienamente efficiente e soddisfacente per tutti i
membri di una società democratica. Il teorema non afferma che è del tutto impossibile trovare una regola
decisionale coerente , dice semplicemente che non vi sono garanzie che la società democratica sia in grado
di farlo a meno che non vi sia una pressoché totale uniformità delle preferenze individuali, estremamente
difficile ma non impossibile, le organizzazioni governative e gli istituti socializzanti spingono infatti in questa
direzione (istruzione pubblica obbligatoria).

DEMOCRZIA RAPPRESENATIVA

Quanto abbiamo visto fin ora è una brutale semplificazione, un modello realistico di studio dello Stato e
delle decisioni collettive deve tenere conto gli obbiettivi e le scelte di chi ha il compito di governare e
rappresentare la volontà popolare (nelle democrazie rappresentative). Infatti i referendum su temi
economici sono piuttosto rari, si preferisce lasciare tali questioni ai governi democraticamente eletti e
quindi ai rappresentati dei cittadini votanti: i politici. Downs dimostrò che il politico che intende
massimizzare i voti adotta il programma preferito dell’elettore mediano (cioè del votante che si trova in
mezzo alla distribuzione delle preferenze degli altri votanti). Questo modello ha due conseguenze, la prima
è che i sistemi bipolari tendono a essere stabili nel senso che entrambi i politici tendono a avvicinarsi al
centro la seconda è che sostituire l’elezione diretta con un sistema rappresentativo non ha grossi effetti sui
risultati poiché entrambi riflettono le preferenze dell’elettore mediano, tuttavia l’elettore mediano è
puramente teorico in quanto è difficile esista un unico soggetto che su tutti i temi sia mediano, è
decisamente più realistica l’idea di un gruppo di elettori mediani che hanno opinioni mediane su vari
argomenti. Nel nostro esempio si da per scontato che i politici rispondano passivamente alle istanze degli
elettori ma nella realtà non è sempre così, anzi, molto spesso sono i politici a influenzare la base elettorale,
infine la nostra analisi presuppone che tutti i cittadini siano propensi al voto e ignora i costi da sostenere
per l’informazione al voto nonché il problema del free riding, di fatto ogni cittadino ha un incentivo a non
votare ma se troppi cittadini non votano il sistema democratico collassa.
Parliamo ora dei funzionari pubblici o come spesso vengono definiti: i burocrati; la burocrazia per quanto
spiacevole è la base dello stato moderno. Niskanen ha sostenuto che nel settore privato un individuo che
voglia rendere più redditizia la sua azienda è incentivato a farlo perché ha come ricompensa un salario più
elevato, mentre l’interesse dei burocrati è focalizzato sulla reputazione e sul potere dal momento che le
opportunità di miglioramento salariale sono relativamente poche e legate all’anzianità di servizio.
Vediamo questa situazione rappresentata graficamente, Q è l’output della burocrazia (case popolari
costruite in 1 anno, quantità di missili acquistati dalla Difesa in 1 anno ecc.)V rappresenta il valore totale
attribuito a ciascun livello di Q dal legislatore e la sua pendenza rappresenta l’utilità marginale sociale, la C
invece rappresenta il costo totale ad ogni livello di output (la grandezza della macchina burocratica) e la sua
pendenza ci da idea del costo marginale. Notiamo quindi come il punto efficiente sta in Q* mentre il
burocrate tenderà a posizionare la Q su Qbc dove è massimizzata la dimensione della burocrazia senza
superare il vincolo V, questo può provocare una sovradimensione burocratica.

Abbiamo finora assunto che i cittadini che vogliano esprimere le proprie preferenze possano farlo solo
attraverso il voto ma ciò non è sempre vero, gli individui con interessi comuni possono infatti agire insieme
aumentando notevolmente il proprio potere d’influenza creando veri e propri gruppi di pressione che
possono avere alti tassi d’adesione e ingenti risorse con variabilità in base al volume del reddito
complessivo, alla zone geografica, al settore d’interesse e alle caratteristiche demografiche-sociali e
politiche.

Consideriamo ora l’interazione tra burocrati, politici eletti e gruppi di pressione (il cd. triangolo di ferro)
che è forse la relazione più importante nei paesi democratici occidentali. I gruppi di pressione e i burocrati
sono ben organizzati e si avvalgono dell’arma dell’informazione spesse volte a scapito di coloro che
sopportano i costi e non sono organizzati.
Molti dei problemi relativi alle decisioni collettive sono sorti con l’estendersi del ruolo dello Stato
nell’economia, a seguito illustriamo alcune delle più importanti teorie sulla crescita della spesa pubblica,
una tesi è che l’incremento della spesa pubblica è espressione delle preferenze dei cittadini, la Legge di
Wagner postula infatti che i servizi pubblici aumentino più velocemente del reddito. Nell’approccio
Marxista l’aumento della spesa pubblica è intrinseco nel sistema politico, il settore privato tende alla
sovrapproduzione e lo Stato, controllato dalla borghesia capitalista, aumenta la spesa per assorbire
questa produzione (stretta connessione tra sistema economico e sistema politico).
In contrasto con le teorie viste prima che considerano l’aumento della spesa pubblica come qualcosa di
intrinseco al sistema dello Stato stesso ve ne sono altre che considerano tale fenomeno come frutto di
casualità(guerre, disastri climatici e naturali ecc) che fanno aumentare vertiginosamente la spesa pubblica
per poi farla tornare in fase di stallo una volta superata la crisi o l’evento per inerzia (effetto
spiazzamento). Infine si sostiene che la spesa pubblica aumenti perché gli individui a basso reddito
ricorrono al sistema politico affinché il reddito venga distribuito a loro favore (RdC), i politici ottengono i
voti di chi ha un reddito pari o inferiore a quello mediano offrendo benefici a tali fasce della popolazione
imponendo un costo netto a coloro che invece hanno redditi superiori a quello mediano (redistribuzione
del reddito).

Il sostanziale aumento dl settore pubblico non implica che vi sia qualcosa di distorto nel processi politico
di determinazione del bilancio, nel dibattito sul controllo della spesa pubblica e più in generale sul ruolo
dello Stato nell’economia si possono distinguere due posizioni avverse, secondo la prima il problema
fondamentale è che una quota rilevante della spesa non è controllabile o meglio è rigida(spese legate a
impegni assunti dal governo in passato o addirittura in campagna elettorale o legati a questioni etiche o
politiche), in base alle seconda il problema sta nelle istituzioni politiche che gestiscono tali programmi, in
quest’ottica i rimedi proposti sono molti, Niskanen ritiene che la burocrazia sia la causa principale
dell’incremento incontrollato dell’intervento statale in economia, propone di creare incentivi finanziari
per controllare i burocrati, tuttavia vi potrebbero essere controindicazioni come l’opportunismo derivante
da informazione asimmetrica, Niskaen inoltre spinge molto sulla produzione privata finanziata dal pubblico.

CAPITOLO 7: REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO

L’allocazione efficiente delle risorse non è l’unico metro di giudizio quando si intraprendono politiche
pubbliche, includendo sistematicamente la distribuzione del reddito nell’analisi l’economista può fare in
modo che i politici decidano tenendo conto sia dell’efficienza che dell’impatto redistributivo.
Uno strumento utile in questo senso è la linea della povertà ovvero il livello di reddito considerato
sufficiente a garantire i mezzi per soddisfare i bisogni essenziali, in generale è bene ricordare che l’analisi
sulla povertà e la diseguaglianza risultano distinte tuttavia possiamo considerarli come due aspetti dello
stesso problema. Nel valutare gli interventi che potrebbero diminuire la povertà sarebbe utile sapere il
divario di povertà ossia quanto reddito si dovrebbe trasferire alla popolazione povera per elevarne il
reddito almeno alla linea di povertà. Capire perché esistano notevoli diseguaglianze di reddito occupa da
tempo un posto centrale nel dibattito economico, nei paesi occidentali la causa principale delle
diseguaglianze dei redditi sta nelle differenze reddituali dei capifamiglia che si va sempre più ad acuire a
causa della situazione del sistema produttivo economico, tuttavia le cause sono molteplici e non possono
essere univoche e perciò anche le politiche per contrastarle sono di difficile identificazione.

In genere il reddito censito consiste solo nelle entrate in denaro delle famiglie mentre, dando una
definizione più ampia ala concetto di “reddito”, possiamo interpretarlo anche come la somma di quanto
consumato e risparmiato in quel periodo e anche quindi dei beni e dei servizi consumati (compresi beni
durevoli come casa o macchina). Inoltre le cifre ufficiali ignorano le imposte ignorando che le famiglie con
redditi più elevati sono soggette anche a tassazioni più elevate, viene quindi calcolato sulla base del lordo.
Il reddito viene calcolato su base annua, il concetto di reddito ha senso solo se riferito ad un arco di tempo,
di solito si fa riferimento all’anno ma non è detto che tale misurazione annua rifletta correttamente la
situazione economica di un individuo. Esistono problemi nella definizione dell’unità da osservare, la
maggior parte delle persone infatti non vive da sola e prende decisioni economiche anche in relazione ai
membri del proprio nucleo famigliare, il reddito si deve perciò calcolare su base personale o famigliare?

Benché non vi siano dubbi sul fatto che il reddito non è distribuito in maniera equa non esiste un accordo
generale su cosa si debba intendere per equo e quindi su come lo Stato debba ridistribuire il reddito,
l’economia del benessere assume che il benessere della società dipende dal benessere degli individui che
la compongono (funzione del benessere sociale utilitaristica/ additiva, ossia una funzione secondo la
quale il benessere sociale dipende dalle utilità individuali), in quest’ottica lo Stato per aumentare il
benessere sociale deve aumentare il benessere anche solo di un individuo (non importa che sia il più
povero o il più ricco), graficamente questa funzione del benessere sociale utilitaristica additiva si
rappresenta così:

Le allocazioni A B C si equivalgono per quanto riguarda il benessere sociale anche se se in C Paolo ha


molta più ricchezza di Piero e in A il contrario. La pendenza di questa curva è di 45° in quanto si presuppone
che tutti gli individui abbiano un “peso” uguale per determinare la funzione del benessere sociale
utilitaristico additivo.
Quindi possiamo ottenere risultati non neutrali da un punto di vista redistributivo solo se introduciamo e
assumiamo alcuni elementi come:

-gli individui hanno funzioni di utilità identiche che dipendono solo da reddito

-queste funzioni di utilità presentano un’utilità marginale del reddito decrescente (man mano che il
reddito aumenta il benessere cresce ma in maniera sempre minore

-la quantità del reddito totale disponibile è fissa


Per massimizzare una funzione del benessere sociale additiva lo Stato dovrebbe ridistribuire il reddito in
modo tale da raggiungere la perfetta uguaglianza, per verificare questa conclusione rappresentiamo le
utilità marginali di Pietro e Paolo dati i 3 assunti che abbiamo visto:

La distanza tra O e O’ rappresenta la quantità totale di reddito disponibile nella società, il reddito di Paolo si
misura da O verso destra mentre per Piero vale il contrario, MU sono decrescenti come previsto dalle
nostre predette condizioni, supponiamo che inizialmente il reddito di Paolo sia Oa e quello di Pietro O’a, poi
supponiamo che il reddito di Paolo venga aumentato diventando Ob e riducendo quello di Pietro a O’b,
tuttavia poiché Pietro è più ricco di Paolo la riduzione del benessere di Pietro è minore all’aumento del
benessere di Paolo pur avendo di fatto aggiunto e sottratto la stessa quantità ab, ne consegue che la
somma delle utilità (utilità sociale) aumenti del segmento colorato cdfe (abfe-abdc); in base al seguente
ragionamento si arriva a concludere che, fino a quando i livelli di reddito dei due individui sono diversi,
anche l’utilità marginale sarà diversa e sarà possibile accrescere la somma delle utilità marginali
aumentando il reddito del più povero, il benessere sociale è infatti massimo nel punto l*.
Considerando queste conclusioni possiamo arrivare a 3 diverse implicazioni teoriche:

-Prima ipotesi: è impossibile stabilire se persone diverse hanno funzioni di utilità uguali, non si può
sapere se individui diversi ricavano lo stesso piacere dal consumo del medesimo paniere di beni
semplicemente perché non è possibile misurare oggettivamente la soddisfazione. Inoltre , le persone
presentano differenze oggettive, quali per esempio lo stato di salute o l’età che implicano necessariamente
una diversa capacità di “sfruttare” o “godere” di una stessa cifra di denaro. Nonostante questo a sostegno
dell’ipotesi dell’uguaglianza delle funzioni d’utilità individuali si può dire che comunque lo Stato può
prendere questa ipotesi non come qualcosa di realistico ma come una prescrizione etica (le persone NON
hanno la stessa funzione di utilità ma lo Stato si deve ETICAMENTE comportare come se invece
l’avessero).
-Seconda ipotesi: Un’obiezione importante riguarda l’ipotesi che l’utilità marginale del reddito sia
decrescente, mentre ciò è solitamente vero per la maggior parte dei beni è ragionevole che non lo sia per
il reddito, se dessimo per buona questa considerazione si tornerebbe al punto di partenza e sarebbe
ininfluente la distribuzione dei redditi al fine di determinare l’utilità sociale che salirebbe a prescindere
dall’equità

-Terza ipotesi: Questo esempio prevede che il reddito disponibile totale per tutta la società sia fisso e che
la dimensione della “torta” non varia con il variare della distribuzione, tuttavia se introduciamo il fattore
del tempo libero, ogni soggetto infatti sceglie quanto tempo lavorare e quanto tempo libero avere.
Imposte sui redditi e sussidi possono ridistribuire il reddito influendo sulle scelte dei cittadini sul tempo da
dedicare al lavoro e possono eventualmente far aumentare o diminuire il reddito totale disponibile della
società, la politica non necessariamente deve puntare all’uguaglianza assoluta in quanto cercando
l’uguaglianza si può incorrere in una perdita del reddito totale disponibile.

CRITERIO MAXMIN

Fino ad ora abbiamo considerato una funzione del benessere sociale additiva, tuttavia altri tipi di funzioni di
benessere sociale utilitaristiche non hanno forma additiva e quindi per essere massimizzate richiedono
interventi specifici da parte dello Stato.
Un esempio interessante di queste funzioni particolari è il criterio Maxmin per il quale il benessere sociale
dipende dall’utilità dell’individuo con il livello minimo di utilità nella collettività (ossia l’individuo che sta
peggio) questo perché la collettività ha come obiettivo la massimizzazione dell’utilità dell’individuo con il
livello minimo di utilità. Si noti come in figura (che rappresenta una funzione del benessere sociale
maxmin) il passaggio dall’allocazione A a B non comporta una aumento del benessere collettivo, mentre vi
è un aumento del benessere collettivo nel punto C dove entrambe le utilità marginali crescono. Il criterio
maxmin avrebbe un fondamento etico, soprattutto in relazione al concetto di situazione iniziale nella quale
i soggetti, non sapendo ancora la loro condizione, si posizionano su una funzione del benessere sociale di
tipo maxmin per evitare di ricadere in una condizione di svantaggio una volta “iniziati i giochi”
In queste ipotesi (sia maxmin che additiva) normalmente non è possibile una allocazione paretiana,
tuttavia se supponiamo che i valori dei cittadini più ricchi siano di tipo altruistico e il loro benessere
aumenta all’aumentare del benessere delle fasce più povere (adotta insomma come valore etico il
modello maxmin), in questo caso sarebbe possibile ottenere un miglioramento paretiano.

CAPITOLO 8: GOVERNANCE EUROPEA DELLE POLITICHE FISCALI E ADOZIONE DEL BILANCIO DI STATO

In questo capitolo, una volta considerata la possibilità e le modalità d’intervento dello Stato in economia,
andiamo ad analizzare il quadro dei vincoli europei in cui si inserisce un possibile intervento dello Stato.
Partiamo con il dire che l’Italia è un caso particolare per quanto riguarda il debito pubblico, infatti il
rapporto debito pubblico –PIL è molto alto, nel 2018 raggiungeva circa il 130% ben al di sopra del tetto del
60% stabilito dei Trattati di Maastricht, in Italia la crisi che ha attraversato gli anni 2000 la spesa del settore
pubblico è via via aumentata (meno che in altri paesi come la Spagna).
A partire dal 1999 con il Trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità e Crescita hanno rappresentato il
principale strumento con cui gli stati membri dell’unione hanno disciplinato le condizioni per l’accesso
all’Unione stessa, in particolare viene richiesto:

-un tasso di inflazione che non superi i 1,5 punti rispetto al tasso medio dei 3 paesi più virtuosi

-tassi d’interesse a lungo termine non superiori a 2% rispetto al paese con l’inflazione più bassa

-un tasso di cambio che negli ultimi 2 anni non abbia avuto oscillazioni superiori a quelle previste dal
Sistema Monetario Europeo (SME)

-Un indebitamento delle PA non superiore al 3% del PIL

-Un rapporto debito pubblico- PIL non superiore al 60%

Gli ultimi due punti sono chiariti e richiamati anche dal Patto di Stabilità e Crescita che è però stato più
volte nel 2010 e nel 2015; nel 2010 venne introdotto il cosiddetto “six-Pack” ma successivamente anche il
“Patto Europ-plus” del 2011 e del “Fiscal Compact” sempre del 2011.
Il Six-Pack prevede che i Paesi con un rapporto debito pubblico-PIL superiore al 60% riducano
progressivamente la parte eccedente di 1/20 all’anno e se non viene rispettato la Commisione può avviare
una procedura d’infrazione; questo è un metodo per controllare la finanza pubblica degli Stati membri, il
tasso della crescita pubblica è un altro elemento significativo al fine di valutare lo stato della finanza
pubblica. I regolamenti six-pack e i successivi prevedono l’introduzione di requisiti comuni per tutti gli stati
UE sulla base di statistiche, previsioni, sistemi contabili e procedure di bilancio, ma soprattutto
l’introduzione delle regole sull’equilibrio di bilancio nelle costituzioni dei vari paesi. In Italia questo ha
comportato una modifica dell’articolo 81 della Costituzione e l’adozione della l 243/12.
Il Consiglio ECOFIN ha introdotto nel 2010 il semestre europeo al fine di aumentare la coordinazione
fiscale tra gli Stati membri, contemporaneamente la Commissione Europea elaborò la Relazione sul
Meccanismo di Allerta volta ad analizzare la situazione macroeconomica dei singoli paesi ed individuare
situazione di crisi o fluttuazioni non attese sulle quali intervenire preventivamente. Gli Stati devono inoltre
elaborare Programmi di Stabilità, i paesi dell’eurozona sono tenuti a inviare entro la metà di ottobre di
Documento programmatico di Bilancio, nel quale si esplicitano i bilanci e le previsioni di spesa per l’anno
successivo in coerenza con i Programmi di Stabilità, tale documento viene poi analizzato e autorizzato, o
meno, dalla Commissione.

Vediamo ora quali sono le condizioni che rendono insostenibile il debito pubblico di uno Stato, per fare
questo è necessario distinguere tra debiti e disavanzo, il disavanzo (o deficit) è l’eccesso di spesa pubblica
rispetto alle entrate registrate in un determinato arco temporale, si definisce invece saldo primario la
differenza tra spese al netto della voce degli interessi sul debito e le entrate calcolate in un dato lasso di
tempo (solitamente 1 anno). Il debito invece rappresenta la somma dei disavanzi accumulati negli anni
passati, il debito è una variabile di stock (misurata in un dato momento) mentre il disavanzo è una
variabile di flusso (misurata in un dato arco di tempo), si capisce che con un debito consistente la spesa per
interessi diventa una voce di uscita particolarmente importante.

In Italia gli anni ’80 sono stati caratterizzati da un saldo primario costantemente negativo, questo fatto si
era già verificato nel decennio precedente, a seguito dell’estensione degli interventi sul welfare seguito
della crisi petrolifera e all’estensione del welfare e dei servizi pubblici. Solo a partire dai primi anni ’80 la
pressione fiscale ha cominciato ad aumentare stabilmente grazie alle riforme tributarie di quegli anni,
tuttavia la spesa pubblica ha continuato ad aumentare come anche la crescita della spesa sugli interessi del
debito che all’epoca erano ancora più delicati per la lira e l’inflazione. Con il Trattato di Maastricht inizia un
nuovo periodo in cui il nostro paese si impegnò per rispettare i parametri per l’entrata nella Comunità
Monetaria e che hanno caratterizzato gli anni ’90, il saldo primario nel ’97 raggiungerà il suo livello migliore
pari al 6,15% del PIL, un fenomeno spiegabile dal notevole incremento della pressione fiscale. Nel decennio
1995-2005 il rapporto debito-PIL si è ridotto notevolmente grazie, come abbiamo visto, all’aumento della
pressione fiscale, al controllo del saldo primario ma soprattutto grazie al risparmio sugli interessi sui titoli di
Stato, entrare nell’Unione Monetaria ha infatti permesso all’Italia di pagare interessi sui titoli di debito
pubblico con il neonato Euro, molto più forte e meno soggetto a inflazione che la vecchia lira.
Il 2005 è un altro momento di svolta, il saldo primario si azzera, l’indebitamento netto supera il 3% e il
rapporto debito-Pil comincia a crescere ancora, con la crisi del 2008 la finanza pubblica italiana sia
allontana definitivamente dai vincoli europei che aveva rispettato alla sua entrata.

OPERATORE PUBBLICO

Cos’è l’operatore pubblico negli stati contemporanei? Molteplici e differenti possono essere i meccanismi
di interazione tra enti e tra cittadini e enti, la Banca d’Italia definisce il settore pubblico “Il settore pubblico
raggruppa tutte le unità istituzionali le cui funzioni principali consistono nel produrre servizi non destinabili
alla vendita, ed è suddiviso in tre sottosettori:

-Amministrazioni Centrali

-Amministrazioni Locali: divisi a loro volta in enti territoriali (Regioni, Province, Comuni), azienda sanitarie
locali e ospedaliere, istituti di cura a carattere scientifico e cliniche universitarie, enti assistenziali locali
(università, istituzioni di assistenza e beneficenza), enti economici Locali (camere di commercio, enti
provinciali per il turismo, enti regionali di sviluppo ecc.)

-Enti di previdenza: come le sedi INPS o INAIL


Tutti gli enti sopra citati non solo interagiscono con i cittadini per fornire beni e servizi e riscuotere
entrate in un complesso di relazioni economiche e finanziarie di cui è necessario tener conto se si vuole
avere una rappresentazione sintetica dell’impatto del settore pubblico dell’economia, a questo fine
l’ISTAT elabora il conto economico consolidato delle Pubbliche Amministrazioni a partire dai dati
registrati nei bilanci predisposti dai vari enti, i quali vengono successivamente aggregati per giungere al
conto della finanza pubblica. Se tra gli enti pubblici considerati non esiste alcun rapporto di scambio
l’operazione di consolidamento è piuttosto semplice, al contrario se sussitono tali rapporti invece il
calcolo è molto più complesso soprattutto se tali enti sono dipendenti da enti superiori. L’indebitamento
netto (ossia la differenza tra entrate ed uscite finali ) è il parametro fondamentale indicato per la PA dal
Patto di Stabilità e crescita Europeo.

Come abbiamo già visto tale patto imponeva agli stati di tenere il rapporto deficit-Pil sotto il 3%
considerando tutti gli enti della PA (questo è stato poi modificato facendo riferimento ai cicli economici),
all’interno delle PA lo Stato costituisce il soggetto più importante poiché comprende i Ministeri e gli organi
costituzionali, per questo è estremamente pesante sia per il bilancio in se sia per come può influenzarlo
influendo sull’economia e sulla società.

ART 81 COST

A seguito della firma da parte dell’Italia del Fiscal Compact nel 2011-12 è stata adottata la legge
costituzionale 1/2012 che ha modificato l’art 81 Cost, coinvolgendo anche gli enti periferici e modificando
collateralmente anche gli art 117 e 119. In particolare il nuovo Art 81 Cost recita:

1)Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio tenendo conto delle fasi
avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico

2)Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e,
previa autorizzazione delle Camere, al verificarsi di eventi eccezionali

3)Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede a indicare i mezzi per farne fronte.

4)Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e rendiconto presentati dal Governo

5)L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non
superiori complessivamente a 4 mesi

6)Il contenuto della legge di bilancio, le forme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le
entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito delle PA sono stabiliti con legge approvata a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nel rispetto dei princi definiti con legge
costituzionale

Il 1° e il 2° comma sono la principale novità di questo articolo e rispondono all’esigenza di dare forza
costituzionale all’impegno dell’Italia assunto con il fiscal compact di assicurare l’equilibrio del bilancio.
L’equilibrio tiene conto delle fasi e quindi non deve essere aritmetico ma più strutturale, è possibile che il
bilancio sia in disavanzo se si verifica un periodo di recessione ma non nelle fasi favorevoli del ciclo durante
le quali ci dovrebbe essere almeno pareggio se non surplus di bilancio, il secondo comma ci dice invece a
quali condizioni la PA si indebiti. Il 3° comma dell’articolo stabilisce che, se durante l’anno finanziario il
Parlamento approva leggi che comportano nuove spese o nuove allora sarà sempre il parlamento e il
governo a indicare la fonte di finanziamento. Il comma 5 invece disciplina l’ipotesi che il disegno di legge di
bilancio non giunga al voto finale entro la scadenza dell’anno finanziario e che pertanto si apra un nuovo
anno finanziario senza che la PA sia autorizzata a compiere atti di gestione di spesa, per evirare la paralisi
dello Stato si è prevista la possibilità da parte del Parlamento di autorizzare con legge l’esercizio provvisorio
della legge di bilancio non ancora approvata ma con limite temporale massimo di 4 mesi.
Prima del 2013 con la legge di bilancio non si potevano imporre contestualmente nuovi tributi e nuove
spese, questo aveva spinto i giuristi a definire, prima del 2013, la legge di bilancio come una legge
puramente formale e estremamente rigida; per questi motivi nel ’78 era stata introdotta la Legge
Finanziaria, il cui iter era parallelo alla Legge di Bilancio e che consentiva al governo/parlamento di
modificare le leggi tributarie e di spesa vigenti, il parlamento discuteva e approvava la finanziaria con una
nota di variazione al bilancio a legislazione vigente e modifiche di spesa o tributarie. Dalla sua riforma del
2012 la legge di bilancio è diventata una legge sostanziale che ha la facoltà di fare ciò che prima poteva fare
solo la finanziaria, la legge di bilancio nel 2016-17 ha accorpato anche le funzioni della Legge di Stabilità
ovvero la legge che conteneva le innovazioni legislative e il saldo netto da finanziare nonché la manovra di
finanza pubblica.

-Il bilancio dello Stato è un documento politico, giuridico, contabile

-Il bilancio dello Stato è un bilancio preventivo annuale, mentre il rendiconto è costituito da un bilancio
consuntivo annuale, la legge di bilancio preventivo annuale recepisce le modifiche alla legislazione
tributaria e di spesa approvate con la legge di Stabilità

-Con la nuova formulazione dell’Art 81 cost introduce nell’ordinamento la regola del pareggio di bilancio
(fiscal compact) stabilendo che esso si considera realizzato quando il saldo strutturale del conto delle PA sia
congruente con gli obiettivi di medio periodo e sostenibilità del debito concordati in sede europea.

IL DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA

All’inizio di aprile gli stati di previsione di entrata e di spesa formulati dai singoli ministeri a legislazione
vigente si confrontano con il quadro delle previsioni macroeconomiche e con gli obiettivi di politica
economico-finanziaria che il governo intende realizzare. Il quadro economico, gli obiettivi di finanza
pubblica e gli strumenti per raggiungerli sono infatti il principale contenuto del DEF che il Governo deve
presentare al parlamento e poi inviare alla commissione europea. In particolare le previsioni
sull’andamento delle entrate e delle spese sono vagliate a fronte delle previsioni economiche e degli
obiettivi del Governo.
Il DEF è articolato in 3 parti:

1)Programma di stabilità

2)Analisi dei Conti Pubblici

3)Piano Nazionale di Riforme

Il documento identifica anche gli obiettivi per il disavanzo corrente (differenza tra spese ed entrate
correnti) e l’ammontare del fabbisogno complessivo (differenza tra le uscite totali e le entrate totali).
Il DEF è approvato con una risoluzione ciò significa che non ha valore di legge ma è un atto d’indirizzo
politico, è previsto anche una nota di aggiornamento del DEF che permette di aggiornare i conti pubblici
e di avviare una discussione parlamentare sulla base dell’andamento economico effettivo.
L’introduzione del semestre europeo ha richiesto di modificare la sessione di bilancio italiana, si è quindi
reso necessario articolare la sessione in maniera che il primo semestre dell’anno sia dedicato allo scambio
d’informazioni insieme alla Commissione e al Consiglio Europeo, e la seconda part dell’anno sia invece
riservata alla discussione in Parlamento e all’adozione della manovra.
CAPITOLO 10: LA SPESA SANITARIA

Una delle voci più importanti della spesa pubblica in praticamente tutti i paesi d’Europa è la spesa per la
protezione sociale (in Italia il rapporto spesa sociale-pil è del 30%), in Italia questa spesa è fortemente
diretta alla protezione della vecchiaia ossia alla previdenza sociale. Con “spesa previdenziale” p “spesa
sociale” intendiamo non solo la protezione per la vecchiaia, invalidità, superstiti ma anche spesa sanitaria,
interventi per disoccupazione e sussidi. Un elemento che accomuna praticamente tutti questi eventi è
l’incertezza, un modo per proteggersi contro queste eventualità incerte è quello di acquistare una polizza
assicurativa, in Europa queste assicurazioni sono garantite e gestite dallo Stato e non dal mercato, vedremo
poi il perché e ne analizzeremo le conseguenze e le motivazioni.
Un buon esempio in questo caso è la spesa sanitaria che è gestita dallo Stato per motivazioni di efficienza
e di equità, nel primo caso si tratta correggere i fallimenti del mercato e nel secondo caso di interventi di
distribuzione delle risorse pubbliche in base ai principi di equità. Per capire meglio dobbiamo capire come
funzionano le assicurazioni, l’acquirente versa una quantità di denaro chiamato premio assicurativo la
quale, a questo punto, accetta di erogare una somma di denaro all’assicurato al verificarsi di un
determinato evento (malattia per esempio) sulla base del valore atteso (ovvero del valore medio di tutti i
possibili esiti incerti, con ciascun esito ponderato sulla base della probabilità di verificarsi. Un premio equo
prevede che sia pagata una somma esattamente sufficiente a coprire il rimborsi delle spese attese per cui
in, media, la compagnia assicurativa non dovrebbe ne perdere ne ricavare denaro, ovviamente
all’aumentare del rischio che l’evento avvenga aumenta anche il premio assicurativo per non far perdere
soldi alla compagnia assicurativa. Fintanto che gli individui hanno utilità marginali decrescenti (la prima
unità di reddito vale più della seconda che varrà più della terza ecc.) prediligono la pratica del risk
smoothing, ossia il ridurre di poco il reddito negli anni in cui si hanno redditi elevati per proteggersi
contro eventuali consistenti riduzioni di reddito in altri anni; ma cosa succede se la compagnia assicurativa
NON offre un premio equo? Questo dipende molto dalla persona, graficamente questo viene rappresentato
con la funzione di utilità.
Una persona con maggiore avversione al rischio (ovvero preferenza che porta a pagare una somma
maggiore del premio equo per garantirsi un risarcimento qualora si verifichi un evento sfavorevole) è
disposta a pagare un premio per il rischio (importo superiore al premio equo che un individuo avverso al
rischio è disposto a pagare per assicurarsi) maggiore per minimizzare al rischio, una maggiore avversione al
rischio implica una maggiore perdita di utilità connessa alla perdita di reddito e pertanto una maggiore
disponibilità a pagare per assicurarsi contro la perdita. Il fatto che le compagnie assicurative possano far
pagare premi più elevati rispetto al premio equo suggerisce che gli individui sono di fatto avversi al rischio.
Inoltre in un mercato concorrenziale le compagnie assicurative fanno pagare premi più elevati di quelli equi
per poter coprire i costi amministrativi, le imposte e avere profitti normali. La differenza fra il premio che
una compagnia assicurativa fa pagare e il premio equo prende il nome di quota di ricarico (delta tra
premio pagato a una compagnia e il premio equo).
Il rischio non si è ridotto con la stipula di un’assicurazione ma si è semplicemente trasferito dal singolo
individuo alla compagnia assicurativa; più sono le persone in un gruppo di assicurati, più gli esborsi da
parte della compagnia sono prevedibili. Una maggiore prevedibilità consente alla compagnia di calcolare un
premio da far pagare ai suoi assicurati tale per cui con buone probabilità coprirà i suoi esborsi, riducendo il
suo rischio. In effetti, dunque, sommando i rischi individuali, la compagnia assicurativa ha di fatto
abbassato il rischio della collettività (sebbene la maggiore ampiezza del gruppo di assicurati contribuisca a
ridurre il rischio, il sistema funziona soltanto se il rischio è indipendente per i vari assicurati).

SELEZIONE AVVERSA E PROBLEMI DI EQUITA’

Ora che abbiamo studiato alcuni elementi che caratterizzano il mercato delle assicurazioni sanitarie
capiamo perché c’è bisogno dell’intervento del settore pubblico in questo ambito. Il problema nasce da un
fallimento di mercato ossia l’informazione asimmetrica che si produce quando una delle due parti
dispone di informazioni che l’altra non possiede, l’informazione asimmetrica risulta particolarmente
problematica nel caso del mercato delle assicurazioni sanitarie. Se la compagnia assicurativa sapesse quali
sono gli individui con rischio elevato, potrebbe far pagare loro un premio maggiore e coprire i suoi costi il
problema è che difficilmente la compagnia può saperlo, gli individui possiedono, ovviamente, più
informazioni sulla loro salute rispetto alla compagnia pertanto l’agenzia non ha altra scelta se non quella di
fare pagare lo stesso a tutti i clienti.
In breve a causa dell’asimmetria informativa, l’assicuratore non avrà i clienti migliori, dal suo punto di
vista, questo fenomeno è definito come selezione inversa (fallimento del mercato dovuto al fatto che la
parte meno informata non riesce a selezionare al meglio i propri clienti) che si verifica quando un
assicuratore stabilisce un premio sulla base del rischio medio di una popolazione, ma gli individui con
rischio basso non acquistano la polizza assicurativa con la conseguenza, per l’assicurazione, di perdere
denaro.
In breve se una compagnia assicurativa è in possesso di una quantità minore di informazioni circa i rischi di
malattia dei suoi clienti rispetto ai clienti stessi, qualsiasi premio stabilito per coprire il livello di rischio
medio potrebbe indurre le persone con rischio più basso ad abbandonarla mettendo il mercato assicurativo
a RISCHIO crollo (spirale della morte).
Dato che la selezione avversa può comportare un’offerta inefficiente di assicurazione sanitaria possiamo
chiederci se si possa in qualche modo eliminare l’asimmetria informativa che sta alla base del problema.
Se il mercato privato è in grado di far questo non è necessario l’intervento da parte di uno stato, nel
contesto delle assicurazioni sanitarie le compagnie assicurative possono selezionare i loro clienti e far
pagare loro i premi diversi sulla base dei profili di rischio, una pratica nota con il termine experience
rating. Quante più informazioni le compagnie assicurative possono ottenere sul rischio di malattia dei loro
clienti tanto più sono in grado di superare le inefficienze della selezione avversa, tuttavia questo potrebbe
portare grandi problemi di equità. In questo senso l’intervento dell’operatore pubblico è l’unica possibile
modalità di correzione di questo fallimento di mercato poiché può fornire una copertura sanitaria valida
per tutta la popolazione a prescindere dalla salute dei singoli cittadini o rendendo la sottoscrizione
obbligatoria e stabilendo premi uniformi, questo processo prende il nome di Community rating ossia la
pratica che consiste nel far pagare lo stesso premio assicurativo a individui che rientrano in diverse
categorie di rischio all’interno di una collettività, con il risultato che le persone con basso profilo di
rischio sovvenzionano quelle con elevato profilo di rischio. Il community rating è inefficiente perché le
persone con basso profilo di rischio sovvenzionano quelle con elevato profilo di rischio, però ha il pregio di
eliminare le iniquità associate alla selezione dei clienti sulla base del loro profilo di rischio, ha però il
pregio di eliminare le iniquità associate alla selezione dei clienti sulla base del loro profilo di rischio.
E’ quindi evidente come un possibile ruolo dello Stato è quello di cercare un equilibrio fra la riduzione delle
inefficienze prodotte dalla selezione avversa e la risoluzione dei problemi di equità che sorgono quando
individui con rischi diversi vengono fatti pagare premi differenti.

ASSICURAZIONE SANITARIA E AZZARDO MORALE

L’assicurazione può avere effetti distorsivi sul comportamento individuale, se gli individui sanno di poter
contare su una copertura assicurativa, possono non prendere le precauzioni necessarie a evitare i rischi
oppure hanno un incentivo a consumare una quantità eccessiva di cure sanitarie. Questi problemi di
incertezza sono chiamati azzardo morale ( fallimento del mercato dovuto al fatto che la parte meno
informata non è in grado di controllare i comportamenti della parte più informata). Di norma, quando gli
individui sono malati, seguono il consiglio del medico, indipendentemente dal prezzo; nessuno si
metterebbe si metterebbe a negoziare con un chirurgo durante un’operazione. L’implicazione di queste
considerazioni è che la curva di domanda di cure mediche dovrebbe essere una retta verticale, questo
ragionamento però trascura il fatto che molte cure mediche sono opzionali. I pazienti decidono
inizialmente se farsi curare e nonostante i casi già menzionati, i pazienti non si attengono sempre alle
raccomandazioni del medico curante. L’azzardo morale può potare a una spesa per l’assistenza sanitaria
molto elevata, tuttavia dal momento che i soggetti sono avaversi al rischio preferiscono acquistare una
polizza che non sostenere direttamente i costi; siamo quindi davanti a un trade off: quanto più generosa è
la polizza, tanto maggiore è la protezione, tanto maggiore è la protezione, ma tanto maggiore è anche
l’azzardo morale. Un’assicurazione efficiente bilancia i guadagni derivanti dalla riduzione del rischio con le
perdite derivate dall’azzardo morale. I problemi di efficienza causati dall’azzardo morale non riguardano
soltanto i mercati privati, nascono ogniqualvolta sono terzi a finanziare in parte, o compl,etamente, il costo
dei servizi (medici in questo caso), quando è lo Stato a fornire l’assicurazione il bilancio pubblico è il
cosiddetto “terzo pagatore”. La questione è che la fornitura pubblica dell’assicurazione comporta
esattamente lo stesso problma di azzardo morale dell’assicurazione privata in quanto anch’essa riduce il
prezzo dei servizi medici sostenuto dai pazienti.

Un altro aspetto critico del mercato dell’assistenza sanitaria è che gli individui potrebbero non essere ben
informati sui servizi che acquistano, al paziente non resta dunque che affidarsi all’esperienza del medico, è
difficile pensare a un altro mercato nel quale i consumatori devono fidarsi così tanto dei consigli della
persona che vende loro il servizio; tali problemi informativi giustificano l’intervento dello Stato? In gran
parte dei paesi occidentali gli Stati creano Albi professionali proprio al fine di assicurare ai pazienti la
competenza di un medico, anche in questo caso siamo di fronte ad un trade-off : consentendo ai medici di
accreditarsi presso università di medicina si può limitare l’offerta permettendo ai medici di aumentare il
loro salario sopra la soglia d’efficienza, in breve il trade-off: i fornitori di assistenza sanitaria sono in
possesso delle migliori info su come erogare l’assistenza medica, ma se l’autorità pubblica delega loro il
potere di stabilire gli standard possono utilizzare questo per aumentare i propri redditi. Un libero
mercato per l’assicurazione sanitaria può comportare inefficienze anche in assenz di informazione
asimmetrica, l’assistenza sanitaria può comportare anche alcune esternalità che l’intervento pubblico può
regolare molto più efficientemente del libero mercato.

LA SANITA’ COME INTERVENTO EQUO

Gli individui potrebbero non comprendere l’utilità della copertura assicurativa, in questo senso il
paternalismo (argomento che fa leva sulla scarsa lungimiranza degli individui) è uno degli argomenti che
suggeriscono di costringere gli individui ad acquistare un’assicurazione sanitaria. Chi sostiene l’intervento
pubblico nella produzione e/o fornitura di beni sanitari con argomentazioni di tipo equitativoritiene che il
diritto alla salute rientri nei diritti costituzionalmente tutelati indipendentemente dal reddito, rifacendosi
alle teorie sull’egualitarismo dei beni ossia dal fatto di aver assicurato a tutti i beni essenziali in termini di
salute e assistenza sanitaria.

IL SERVIZIO SANITARIO IN ITALIA E LA SUA EVOLUZIONE

Il servizio sanitario nazionale (SSN) è stato introdotto in Italia nel 1978 con l 998/78, in linea con l’art 32
Cost e ai ragionamenti equitativi precedentemente fatti, l’obbiettivo era quello di adottar un sistema
sanitario universale, ossia diretto a tutti indipendentemente dal livello di reddito a favore, e a carico, dalla
collettività. Il SSN doveva essere finaziato dalla fiscalità generale e devono essere gratuite per l’utenza,
successivamente sono anche stati introdotti i ticket ossia costi, notevolemnte inferiori a quelli privati, per
sensibilizzare l’utenza. Responsabili del SSNL erano tre livelli di governo, il governo centrale doveva
individuare gli obiettivi del Piano Sanitario nazionale e il Fondo Sanitario Nazionale da ripartire con il
secondo livello ovvero le Regioni che programmavano l’intervento sul territorio e le USL che gestivano i
servizi, compresa l’assistenza ospedaliera in maniera il più possibile uniforme su tutto il territorrio.
Nel corso dell’ultimo decennio il SSNL è stato pesantemente riformato cercando di aumentare l’efficienza
e in modo da rientrare nei paratri per l’ingresso nell’Unione Monetaria; in tutte le riforme da ’92 al ’11 gli
obiettivi sono quelli di riallocare le risorse e intervenirere sul modello organizzativo del sistema sanitario.

Poiché circa l’80% della spesa delle regioni è proprio in questa voce è importante sapere cosme si finanzia il
SSNL , negli anni ’80 e ’90 il sitema era particolarmente disfunzionale in quanto i fondi erano forniti
interamente dal governo centrale e amministrati dalle USL che non erano perciò incentivate ad un
rigorsoso controllo della spesa. Per questo nel ’93 si è fatta una riforma del sistema che prevedeva una
riforma dell’assegnazione dei fondi basata su un criterio storico e su altri parametri economici e ai
traferimenti interegionali (cittadini di altre regioni curati in una regione che non è la loro); inoltre con la il
dlgs 56/00 veniva previsto che le regioni fossero finanziate:

-Con tributi propri come l’IRAP e l’addizionale all’IRPEF

-Una compartecipazione al gettito dell’IVA per cui ogni anno una % di gettito IVA finisce nelle casse
regionali, la pecca e che, al contrario dei tributi, sull’IVA le regioni hanno pochissima possibilità di manovra

Il dlgs 56/00 disciplina il finanziamento alle regioni e del SSNL secondo i criteri della l 43/09 sul federalismo
fiscale in attuazione dell’art 119 Cost.

Il fabbisogno standard è definito come l’ammontare di risorse necessarie ad assicurare i livelli essenziali
in condizioni di efficienza e appropriatezza

Il costo standard ammesso sarà calcolato come la media procapite pesata dei costi registrati nelle regioni
bechmark (le più efficienti), il livello della spesa va depurato da componenti come il saldo di mobilità
interregionale, a questo punto si sommano tutti i costi standardizzati regionali, se la regione riesce a
sostenere i costi solo con le proprie entrate bene sennò si calcola il livello di compartecipazione sull’IVA, se
anche questo non basta lo Stato potrà coprire il disavanzo con risorse perequative statali.

Dal punto di vista della gestione è stato introdotto il principio della separazione tra chi fornisce la
prestazione e chi l’acquista, questo obiettivo è stato perseguito sostituendo le vecchie USL con le ASL,
aziende dotata di perosnalità giuridica e con autonomia gestionale e finanziaria. In sostenza le ASL possono
fornire direttamente il servizio oppurre decidere di acquistare le prestazioni dai privati utilizzando il
Diagnosis-related Group ovvero un sitema di classificazione delle diagnosi che permette di inserire
ciascun intervento di cura in un gruppo più ampio, al quale si fa corrispondere un certo ammontare di
risorse e tempo per assegnare i finanziamenti e limitare la discrezionalità dei medici, pur rispettando quei
livelli minimi di assistenza essenziali per rispondere ai fabbisogni fondamentaku di tutela della salute della
persona secondo i criteri costituzionali (questo è stato messo in pericolo dalla differenza tra l’efficienza
gestionale tra le regioni). A proposito della gestione la separazione tra la fornitura e l’acquisto delle
prestazioni dovrebbe efficentare l’utilizzo delle risorse ma può anche portare ad una segmetazione del
mercato per cui gli operatori privati forniscono solo le prestazioni più remunerative mentre il SSNL copre gli
interventi meno remunerativi ma più comuni e che comportano quindi costi maggiori per il numero di
interventi sanitari.
CAPITOLO 11: GLI INTERVENTI DI SOSTEGNO AL REDDITO IN CASO DI DISOCCUPAZIONE

L’obbiettivo delle assicurazioni contro la disoccupazione è reintegrare il reddito perso dal lavoratore che
rimane disoccupato, ma perché questo tipo di assicurazione dovrebbe essere fornita dallo Stato?
Ovviamente tutta la domanda di assicurazioni di questo tipo proviene dai lavoratori e specialmente quelli
con un’alta probabilità di restare disoccupati, di conseguenza le compagnie che fornirebbero questo
servizio devono far pagare premi relativamente alti scoraggiando in questo modo molti acquirenti e inoltre
ci sarebbe da considerare anche l’azzardo morale; per questo è difficile che questo tipo di attività sia
profittevole per i privati. Un programma assicurativo pubblico evita il problema della selezione avversa
(solo i lav più “in pericolo” di restare disoccupati acquistano l’assicurazione), non elimina tuttavia l’azzardo
morale il che complica il sistema assicurativo contro la disoccupazione anche per il settore pubblico.

EFFETTI SULLA DISOCCUPAZIONE

I fautori di un sostegno al reddito pubblico generalizzato ritengono che questo avrebbe il pregio di
rendere meno penosi i processi di mobilità e di qualificazione dei lavoratori in quanto il fatto che la
disoccupazione faccia aumentare la durata della disoccupazione non è necessariamente negativo, se i
lavoratori hanno più tempo per cercare un impiego possono trovare un lavoro più confacente alle propie
competenze aumentando l’efficienza e il loro benessere. In secondo luogo un sostegno generalizzato
permetterebbe agli individui e alle famiglie decisioni più efficienti nel campo dell’istruzione permettendo
anche a chi non ha una famiglia abbiente alle spalle di frequentare corsi di specializzazione o studi
particolari, è quindi anche uno strumento di stimolo della mobilità sociale e di sostegno a chi, pur avendo le
capacità e le qualità, deve per forza trovare un lavoro invece che studiare per aumentare il proprio reddito
e quindi il proprio benessere.
Le principali critiche rivolte a questo istituto riguardano le questioni di azzardo morale e che tale sistema
pubblico generalizzato porterebbe un disincentivo al lavoro per gli individui con salari più bassi, nonché
un’incentivo al lavoro nero.

Analizziamo ora il modo in cui esattamente i programmi di assistenza temporanea incidono sulle scelte
relative al lavoro da parte dei soggetti interessati .
Anzitutto individuiamo le due variabili principali:

-l’ammontare del sussidio di base che l’individuo riceve se non lavora (G)

-Il tasso al quale tale sussidio viene ridotto quando l’interessato ricomincia a lavorare (t)

Supponiamo che lo Stato distribuisca 300 euro al mese ma che il programma venga ridotto di 25 centesimi
per ciascun euro di reddito generato dall’individuo, quindi G=300 E T=0,25. Quindi un individuo ch
quadagna 500 vede il suo reddito ridotto di (0,25x500=) 125 euro lasciandogli un sussidio di 175 e un
reddito totale di 675 euro (funziona praticamente come un’imposta sul reddito).
Ne consegue che il sussidio è azzerato quando E=G/t dove E è il livello di reddito, quindi le questioni
fondamentali sono che più elevato è il sussidio di base più elevata dovrà essere l’aliquota, e quanto è più
bassa è l’aliquota tanto più alto è il livello di reddito che annulla il sussidio.

L’analisi delle curve d’indifferenza della scelta tra lavoro e tempo libero ci fornisce uno strumento utile per
capire un programma di welfare simile a quello che abbiamo visto incida sulle scelte di offerta di lavoro.
L’asse orizzontale della seguente figura misura il numero di ore del tempo libero che hanno ul limite fisico
(la cd dotazione di tempo rappresentata da OT) ma anche il tempo lavorato, poniamo il caso di porci sul
punto a, avremmo Oa ore di tempo libero e aT di lavoro, di conseguenza il punto T rappresenta 0 lavoro e
tutto tempo libero e quindi reddito 0. L aretta TD è invece la somma deei vari salari per ogni combinazione
tra lavoro e tempo libero e la sua inclinazione rappresenta il salario orario.

Ora però necessitiamo di conoscere le preferenze della persona presa in esame per valutare dove si
posizionerebbe sull’asse orizzontale, la seguente figura ci aiuta; come vediamo il soggetto massimizza
l’utilità sulla seconda curva d’indifferenza nel punto E1 con tutte le evidenti implicazioni reddituali e di
tempo libero
Supponiamo ora che tale soggetto abbia i requisiti per rientrare in un programma di welfare contro la
disoccupazione con un sussidio di base di 100 euro e che l’aliquota implicita sia del 25%, in che modo
questo influenza la figura? La figura di sotto ci risponde a questo questito, il soggetto ora lavorerà FT ore e
guadagna OG

Ora vediamo come si può modificare l’offerta di lavor all’entrata in vigore di tale sistema di welfare contro
la disoccupazione, date le curve d’indifferenza del soggetto l’introduzione del programma crea un incentivo
a lavorare meno facendo passare le ore di tempo lavorato da FT a KT
Analizziamo ora il caso in cui sia presene un’aliquota del 100% ovvero appena si lavora (anche solo 1 ora)
viene tolto il sussidio di disoccupazione, una tale impostazione comporta un vincolo di bilancio identificato
in PRD, in questo caso le curve d’indifferenza della seconda figura pongono la scelta migliore a 0 ore di
lavoro che fa guadagnare 400 euro, nessuno sarebbe più disposto a lavorare un x di ore tra P e R.
Un programma alternativo ai modelli che abbiamo visto è il cd workfare ossia un sistema nel quale gli
individui idonei all’impiego ricevono i sussidi soltanto se accettano di prender parte a un’attività
lavorativa o ad un corso di formazione professionale, questo sarebbe utile per mitigare il problema che
abbiamo appena visto in cui gli individui, in caso di aliquota al 100%, non lavorano nel segmento RP.
Una delle caratteristiche più comuni di questo tipo di programmi adottati in molti Paesi sono dei limiti
temporali soprattutto al fine di evitare comportamenti opportunisti da parte dei lavoratori o disincentivi
all’occupazione.
Un punto controverso sulla questione della gestione di tali sussidi è chi debba erogarli e gestirli, da un lato
se affidato ai governi locali può causare una corsa al ribasso e una gestione ricca ed efficiente potrebbe
attrarre lavoratori a rischio di disoccupazione da fuori causando un danno a chi vi era già prima, d’altra
parte la diversificazione locale può essere un vantaggio grazie soprattutto al controllo diretto che le
autorità locali possono svolgere sui programmi di welfare ma anche di workfare ed è sicuramente più a
contatto con i problemi e le esigenze del territorio rispetto alle autorità centrali e governative.
Nei Peasi occidentali per integrare i redditi delle fasce meno abbienti non si usa solo il sussidio di
disoccupazione ma soprattutto un’integrazione di reddito amministrata attraverso l’imposta sul reddito, le
deduzione dal reddito imponibile e le detrazioni d’imposta sul reddito da lavoro o ancora i crediti
d’imposta sono forme di sostegno ampissimamente diffuse con l’idea di incoraggiare il lavoro.

GLI INTERVENTI IN CASO DI DISOCCUPAZIONE

In Italia esistono diversi interventi che possono essere definiti contro la disoccupazione, nel recente passato
il quadro normativo è stato profondamente modificato inizialmente dalla Riforma Fornero e dal Jobs Act.
Gli interventi principali sono gestiti dall’INPS e possono essere distinti in due categorie:

-le misure che intervengono quando il rapporto lavorativo è cessato (NASPI o DISSCOLL)

-le misure che intervengono in costanza di rapporto di lavoro (Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria e
Straordinaria)

Nel corso degli anni in Italia si sono susseguite moltissimi tipi di sussidi alla disoccupazione, di entrambi i
tipi, con importi e durate massime diverse (CIGO, CIGS, NASPI). Nonostante in Italia non esista a tutt’oggi
un unico strumento di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, a partire dalla riforma Fornero si è
avviato un processo di razionalizzazionedi questo comparto della spesa pubblica. In estrema sintesi, la
situazione precedente era caratterizzato da un’elevata frammentarietà degli interventi ma nel passaggio ad
un sistema più razionale si va ad unificare gli interventi ma soprattutto si allarga la platea dei beneficiari,
similmente a come la DISSCOLL che colmò una lacuna del sistema introducendo la protezione dei redditi dei
parasubordinati.

CAPITOLO 12: LA SPESA PREVIDENZIALE

La prevalenza della spesa previdenziale sulle altre componenti della spesa sociale non è recente: già nel
1992 la spesa per l’assistenza superava di poco l’1,5% del PIL mentre quella previdenziale superava il 14%.
Nonostante la distinzione tra assistenza e previdenza non sia sempre chiara può essere utile, per capire
meglio, distinguere la pensione di vecchiaia (cessazione dell’età lavorativa per pura limitazione d’età) e la
pensione di anzianità (basata sulla contribuzione) o tra la pensione d’invalidità (vittime di incidenti che
vedono ridursi le proprie capacità di generare reddito) e le pensioni ai superstiti (che vanno a coloro che
sono stati legati a vincoli familiari con un lavoratore deceduto che contribuiva al loro mantenimento); le
prime due categorie ricadono nella funzione previdenziale assicurativa mentre le altre in quella
puramente assistenziale.
Il punto di partenza per la maggior parte degli studi sulla previdenza e sul risparmio è la teoria del ciclo
vitale di ricambio secondo la quale le decisioni di consumo e risparmio da parte degli individui si basano
su considerazioni riguardanti la loro vitra intera e la pianificazione a lunghissimo termine; l’introduzione
del sistema previdenziale può notevolmente alterare la quantità di risparmio nel corso della vita, tali
variazioni sono la conseguenza di tre effetti: l’effetto sostituzione della ricchezza, l’effetto anticipo dell’età
del pensionamento, l’effetto eredità. L’effetto sostituzione della ricchezza è una teoria che postula che i
lavoratori sono consapevoli che, in cambio dei contributi versati alla previdenza sociale, riceveranno una
data pensione, se consideriamo i contributi un mezzo per risparmiare i lavoratori, in funzione di questi
benefici futuri, tenderanno a risparmiare meno per conto loro; questo prende il nome di effetto
sostituzione della ricchezza che spiazza il sistema di risparmio privato.

Le prime prestazioni sociali sono state erogate, in Italia, dalle mutue create dalle singole categorie di
lavoratori, Solo con la diffusione dell’industria e con la formazione della classe operaia il sistema
previdenziale è progressivamente diventato obbligatorio e gestito da istituti politici. La crescita della spesa
sociale che si è registrata fino alla fine di anni ’70 si spiega quindi con la progressiva estensione degli
interventi, mentre le ragioni dei disavanzi crescenti che si sono verificati nel corso degli anni ’80 e agli inizi
degli anni ’90 sono da ricondurre a fattori quali il metodo di finanziamento degli enti previdenziali,
l’andamento macroeconomico e l’evolversi della struttura sociale. Si è così formato un consistente debito
previdenziale, ossia è diventata sempre più significativa la differenza tra il valore attuale delle prestazioni
previdenziali che lo Stato si è impegnato a pagare e il valore dei contributi sociali che verranno versati.

Per capire come si è formato il debito previdenziale italiano è opportuno fare un passo indietro e
analizzare meglio i sistemi pensionistici pubblici con particolare riferimento alle modalità di finanziamento.
Le entrate degli istituti previdenziali pubblici sono i contributi versati da lavoratori e datori di lavoro che
possono essere impiegati in maniera diversa a seconda che il sistema di finanziamento sia a ripetizione o a
capitalizzazione. Nei sistemi a ripartizione il gettito contributivo riscosso in ogni periodo è destinato al
finanziamento delle prestazioni erogate in quello stessso periodo, insomma le generazioni che lavorano
pagano le pensioni per coloro che non lavorano più mentre nei sistemi a capitalizzazione i contributi
versati dai lavoratori sono investiti nel mercato dei capitali e, al momento del pensionamento, la
pensione è pari ai contributi versati dal lavoratore stesso e aumentati del rendimento ottenuto dalla
capitalizzazione.
Nei sistemi a ripartizione a tempo t+1 il montante contributivo serve per pagare le pensioni degli anziani, la
cui pensione pro capite sarà quindi pari al rapporto tra i contributi che stanno versando i giovani (cSt+1
Nt+1) e il numero di anziani (Nt) che hanno diritto alla pensione e perciò il calcolo si presenta così:

P.ripartizione=cSt+1 x Nt+1/Nt

Nel sistema a capitalizzazione, invece, il monte contributivo versato dagli anziani (cStNt) nel primo periodo
verrà impiegato al tasso r e utilizzato nel secondo periodo per pagare le pensioni

P.capitalizzazione= cStNt(1+r)/Nt
Dal semplice confronto di queste due relazioni si può notare che, a parità di aliquota contributiva c, i due
sistemi si equivalgono soltanto se il tasso di interesse è pari alla somma del tasso di crescita della
produttività e del tasso di crescita degli occupati. Una delle giustificazioni all’intervento dello Stato nel
settore previdenziale è la necessità di garantire le pensioni in termini reali, assicurando i lavoratori contro
il rischio dell’inflazione. In effetti originariamente il sistema previdenziale in Italia era a capitalizzazione, ma
i significativi tassi di inflazione registrati negli anni ’70 avevano fortemente diminuito il valore reale delle
riserve e favorito il passaggio a un sistema a ripartizione. Successivamente, però, fattori quali il progressivo
invecchiamento medio della popolazione (riduzione di n), il rallentamento della crescita e dell’occupazione
(anche m è diminuito) e altri elementi che hanno fatto si che il tasso di crescita del monte contributivo non
e più stato sufficiente a coprire le prestazioni previdenziali che lo Stato si era impegnato a garantire, da qui
la formazione del debito previdenziale.

SISTEMI RETRIBUTIVI E CONTRIBUTIVI

I sistemi pensionistici si possono distinguere anche a seconda del criterio utilizzato per definire
l’ammontare della pensione. Possiamo parlare di sistema retributivo quando il salario considerato per
definire la pensione è calcolato tenendo conto delle ultime retribuzioni, la ratio è quella di mantenere il
tenore di vita del lavoratore anche quando smette di lavorare. Il secondo è invece il sistema contributivo
che è invece un sistema di calcolo della pensione che fa riferimento ai contributi versati dal lavoratore
durante la carriera lavorativa, inoltre a differenza del sistema retributivo quello contributivo calcola i
tassi di rendimento di capitale accantonato con attraverso il mercato ma attraverso la legge.
In Italia fino al ’94 il nostro sistema era di tipo retributivo e con marcate differenze tra settori di lavoratori
(dipendenti vs autonomi) e tra settori economici, successivamente si adotto il sistema contributivo per
proteggersi dall’inflazione.
Il sistema contributivo non è tuttavia esente da problemi, infatti se diminuisce il tasso di crescita della
popolazione (come succede in gran parte dell’occidente e soprattutto in Italia) l’equilibrio finanziario è
assicurato da un’aliquota di equilibrio maggiore e ossia con l’aumento supportato dalle generazioni più
giovani , vale ovviamente anche altre il contrario. In Italia, prima delle riforme Dini, il sovrapporsi di istituti
nati in momenti diversi, l’uso distorto di alcuni di essi e i tentativi di modificare le aliquote per sanare i conti
pubblici avevano creato una giungla contributiva in cui era molto difficile arrangiarsi. Le riforme Amato e
Dini hanno avuto l’obbiettivo di contenere la spesa pensionistica, la prima aumenterà l’età pensionabile di
5 anni sia per uomini che per donne con 35 anni di contributi mentre e i criteri per la determinazione della
pensione totale (Pt= tasso di rendimento pari al 2% per ogni anno di contribuzione x retribuzione
pensionabile che è una media delle retribuzioni imponibili di tutti gli anni in cui ha contribuito). Questo
nuovo sistema post riforma ha favorito la separazione tra interventi assistenziali e previdenziali limitando le
pensioni di invalidità e anzianità e ha uniformato il trattamento delle diverse categorie di lavoratori.
Con la riforma Dini si è invece voluto riformare il sistema cambiandolo da retributivo a contributivo al fine
di dare flessibilità per l’accesso al pensionamento, proseguire il processo di armonizzazione; istituisce
inoltre il cd sistema misto. Con la riforma Dini la pensioni venivano calcolate moltiplicando il montante
contributivo, ottenuta applicando l’aliquota del 33% alle retribuzioni dei vari anni, per un saggio pari alla
media mobile quinquennale del tassi di variazione del PIL nominale, il risultato è moltiplicato per un
coefficiente chiamato coefficiente di trasformazione che varia a seconda dell’età di pensionamento.
GLI INTERVENTI SUCCESSIVI A DINI

Le misure adottate dal governo Prodi nel 1998 avevano il duplice obiettivo di accelerare l’uniformazione
della normativa dei regimi pensionistici e di elevare i requisiti di pensionamento per alcune categorie (ad
es. insegnanti pubblici), queste misure non hanno però influito molto sul lungo termine. Durante il secondo
governo Berlusconi con la legge Maroni si era previsto un unico requisito per andare in pensione per tutti
(40 anni di contributi o 65 anni d’età e 35 di contributi) prevedendo anche modifiche sulla totalizzazione dei
periodi contributivi. Con il secondo governo prodi del 2007 vengono introdotte delle tutele e una normativa
speciale nei confronti di coloro che svolgono lavori usuranti e una nuova normativa sulle totalizzazione.
Durante il terzo governo Berlusconi è stata adottata una modifica della normativa in attuazione di una
sentenza della Corte di Giustizia Europea equiparando l’età pensionabile e il trattamento per uomini e
donne.

Con le riforme del 2009-2011 si è inteso rispondere alle richieste di contenimento della spesa e di
armonizzare dei trattamenti in accordo con la normativa UE senza però rivoluzionare il sistema, solo con la
Riforma Fornero sono state apportate modifiche sostanziali al sistema della pensioni modificando i requisiti
d’accesso, il meccanismo di calcolo degi coefficienti di trasformazione nonché di alcune aliquote
contributive con lo scopo di ridurre il divario generazionale in ottica di equità e di riduzione della spesa
pubblica; in particolare, per quanto riguarda i requisiti d’accesso, il legislatore ha abolito il sistema delle
quote precedentemente illustrato e ha previsto due canali di accesso al pensionamento: il pensionamento
di vecchiaia (almeno 20 anni di contributi e 67 d’età) e il pensionamento anticipato (41-42 anni di
contributi ) con sistema di calcolo contributivo in entrambi i casi e per tutti a partire dal 2012. Il criterio
della speranza di vita sarà utilizzato non solo per definire i coefficienti di trasformazione ma anche per i
requisiti d’accesso e infatti dal 2013 è entrato in vigore su base triennale il ricalcolo del criterio anagrafico
in base alla fluttuazione dell’aspettativa di vita attesa; la legge Fornero ha infine previsto un incremento
progressivo delle aliquote contributive per far fronte all’insufficienza di risorse dovute alla crisi del 2008 che
causarono un gran numero di esodati ovvero di quei lavoratori che avevano sottoscritto accordi di
prepensionamento con le aziende o che erano coperti da forme di sostegno alla disoccupazione (come la
mobilità o la Cassa integrazione) e per i quali lo spostamento nel tempo della maturazione del diritto alla
pensione ha comportato periodi di assenza completa di reddito.
CAPITOLO 14: TASSAZIONE E DISTRIBUZIONE DEL REDDITO

Uno dei temi più ricorrenti nel dibattito pubblico dei paesi occidentali negli ultimi decenni è l’equa
distribuzione del carico tributario in relazione alla distribuzione del reddito. L’incidenza legale indica il
soggetto che è giuridicamente tenuto al pagamento dell’imposta, al contrario l’incidenza economica
rappresenta il soggetto che effettivamente l’onere dell’imposta (ad es. tassa per i produttori di un bene su
ogni unità prodotta che però comporta l’aumento del prezzo per i consumatori), se le due nozioni ricadono
su soggetti differenti parliamo di traslazione d’imposta.

Nonostante la maggior parte dei sistemi fiscali preveda la tassazione sia delle persone fisiche che di quelle
giuridiche per l’economista contano solo le persone fisiche che sopportano il carico fiscale; spesso si fa
riferimento alle persone fisiche come fornitori di input del processo produttivo e trova quindi una
spiegazione la cd distribuzione funzionale del reddito ossia il modo in cui il reddito è distribuito fra
persone classificate in riferimento al ruolo che hanno come fornitori di input nel processo produttivo.
Questa impostazione risulta relativamente antiquata, ad oggi è essenziale analizzare come le imposte
influiscano sulla distribuzione quantitativa del reddito ossia il modo in cui il reddito è distribuito
indipendentemente dall’origine dello stesso.

Il problema dell’incidenza consiste sostanzialmente nello stabilire come le imposte modificano i prezzi,
uno problema strettamente connesso a questo primo problema è la dimensione temporale dell’analisi
infatti l’incidenza dipende dalla variazione dei prezzi ma anche dal tempo che essi richiedono per essere
implementati, nella maggior parte dei casi si ritiene che le reazioni siano maggiori nel lungo termine
piuttosto che ne l breve.

Con l’analisi dell’incidenza con bilancio in pareggio si calcola l’effetto combinato dell’imposizione fiscale e
della spesa pubblica finanziata dalle stesse imposte, l’effetto distributivo dipende infatti non solo da come
vengono prelevate le risorse ma anche da come vengonono “spese”.

L’analisi degli effetti dell’introduzione di imposte alternative è detta incidenza differenziale dell’imposta
mentre gli effetti di un’imposta che viene svolta ipotizzando che non vi siano possibili sostituzioni con
altri tributi e che le risorse prelevate non vengano spese è detta incidenza assoluta dell’imposta.

Proprio in base al concetto di incidenza economica l’imposta viene poi definita proporzionale progressiva o
regressiva , queste definizioni non sono però univocamente intese. Un modo per individuare una
definizione consiste nell’utilizzare il concetto di aliquota media, ossia il rapporto tra le imposte versate e il
reddito. Se l’aliquota media è costante l’imposta è proporzionale. Se l’aliquota media aumenta al crescere
del reddito il sistema impositivo è progressivo se scende invece è regressivo.
E’ quindi molto importante chiarire che cosa si intenda quando si utilizzano questi due termini regressivo e
progressivo; d’ora in poi supporremo che siano definiti utilizzando il concetto di aliquote medie. La
seconda questione è come si può ottenere un imposta progressiva, tale progressività si può ottenere anche
applicando aliquote diverse per scaglioni di reddito o classi di reddito, l’imposta i questo caso si ottiene
moltiplicando il reddito per l’aliquota associata allo scaglione o alla classe di reddito. Il meccanismo per
scaglioni è particolarmente complesso in quanto l’aliquota applicabile non è unica ma varia in base allo
scaglione (ad es. per 9000 euro di reddito e con 3 aliquote di 3000 euro al 10%-20%e 30%; ai primi 3000
euro si applica una aliquota del 10%, ai 3000 dopo del 20% ecc.).
Una prima teoria dice che il sistema tributario è tanto più progressivo quanto maggiore è l’incremento
delle aliquote medie al crescere del reddito. Alternativamente si può affermare che un sistema fiscale è
più progressivo se l’elasticità del gettito fiscale rispetto al reddito (cioè la variazione percentuale del
gettito divisa per quella del reddito) è più elevata.

Passiamo ora al problema fondamentale di questo capitolo, ovvero a come le imposte influiscono sulla
distribuzione del reddito, poiché abbiamo affermato che l’aspetto essenziale della questione sta nel fatto
che le imposte producono variazioni dei prezzi relativi è necessario capire meglio le modalità di
determinazione dei prezzi; analizziamo quindi i modelli di equilibrio parziale (modelli che considerano
unicamente ciò che avviene in un mercato ignorando i possibili effetti su altri mercati). Questo tipo di
analisi è estremamente appropriato quando il mercato dei beni soggetti a imposta è relativamente ridotto
rispetto all’economia nel suo insieme.

Esaminiamo dunque l’incidenza di un’imposta specifica (imposta applicata come ammontare fisso su ogni
unità di bene venduto); un elemento fondamentale nell’analisi consiste nel riconoscere che, in presenza di
un imposta, il prezzo pagato dai consumatori differisce dal prezzo ricevuto dai produttori. In precedenza
si poteva utilizzare l’analisi della domanda e dell’offerta per stabilire il prezzo unico del mercato. Ora questa
analisi deve essere modificata per tener conto di due prezzi diversi, uno per i consumatori e uno dei
produttori. Mostriamo graficamente questo esempio, consideriamo quindi a come Pa prezzo massimo per
cui si acquisterebbe Qa, dopo l’introduzione dell’imposta specifica il dato che abbiamo detto prima non
cambia tuttavia quando i consumatori pagano Pa chi lo vende non riceve Pa ma Pa-u ovvero il punto b in
figura, il punto a è stato scelto in maniera arbitraria ma scegliere altri punti, come ad es il punto m, è
indifferente e il risultato è la creazione di un’altra curva di domanda uguale a quella indicata ma inferiore
di u rispetto all’originale indicato nella seconda figura.
La curva D’c è quella che interessa ai produttori. L’equilibrio, dopo l’inserimento di un’imposta specifica,
può essere individuato nel punto Q1, l’imposta perciò riduce la quantità prodotta e venduta da Q0 a Q1.
Per quanto riguarda invece del prezzo di equilibrio anche se dobbiamo distinguere due tipi di prezzi: il
prezzo ricevuto dal produttore e quello pagato dai consumatori. Il primo si trova nel punto Pn mentre il
secondo si trova nel punto Pk. In seguito all’introduzione di questa imposta il benessere del lavoratore
quindi diminuisce ma anche quello dei produttori, seppur in misura minore, si trova ridotto poiché ora
guadagnano Pn e prima guadagnavano P0. Di fatto si spartiscono l’onere.

Questa analisi ha due implicazioni; l’incidenza di un’imposta specifica è indipendente dal fatto che sia
attribuita ai consumatori o ai produttori, l’incidenza legale ci dice poco circa l’incidenza economica
dell’imposta, l’unica cosa che realmente rileva è il cd cuneo fiscale ossia la differenza prodotta
dall’imposta tra il prezzi pagati dai consumatori e quello ricevuto dai produttori.
La seconda implicazione è che l’incidenza di un’imposta specifica dipende dalle elasticità della domanda e
dell’offerta, più è elastica la curva di domanda (il consumatore può passare da un produttore all’altro)
minore è l’imposta che grava sui consumatori e analogamente più è elastica la curva di offerta minore è
l’imposta che grava sui produttori. La prima immagine che vediamo sotto ha una curva di offerta
perfettamente anelastica e il prezzo incassato dai produttori scende di un importo esattamente pari
all’imposta,mentre nella seconda l’offerta del bene è perfettamente elastica e sono i consumatori a
supportare l’onere.
IMPOSTE SUI FATTORI DI PRODUZIONE

Finora abbiamo esaminato le imposte sui beni di consumo ma l’analisi può essere applicata anche ai fattori
di produzione.
L’imposta sul salario, consideriamo ora un’imposta sul salario utilizzata per finanziarie il sistema di
sicurezza sociale, in numerose legislazioni sono previste due aliquote contributive, una a carico dei
lavoratori e una a carico dei datori di lavoro. Se l’offerta di lavoro è perfettamente anelastica allora
un’imposta sul salario fa si che il salario ricevuto dai lavoratori scenda dell’esatto ammontare
dell’imposta. I lavoratori, pertanto, sopportano l’intero onere.

Le imposte sui beni in mancanza di concorrenza. L’ipotesi dei mercati concorrenziali ha svolto un ruolo
importante nella nostra analisi, esaminiamo ora come cambiano i risultati in presenza di forme di
mercato diverse.
Monopolio: la forma di mercato opposta alla concorrenza perfetta che si verifica quando tutta la domanda
di un mercato è soddisfatta da un solo produttore, nell’immagine sotto vediamo come il monopolista
produce X0 e fa pagare P0 e riceve i profitti rappresentati da abcd
Con l’introduzione di un imposta specifica a carico del monopolista questo schema si modifica
notevolmente, tale imposta specifica sposta la curva della domanda effettiva (D’x) e la curva dei ricavi
marginali (Dx) verso il basso di un x pari all’ammontare dell’imposta. La quantità di equilibrio si riduce
passando da X0 a X1, il prezzo pagato dai consumatori sale da P0 a Pg e il prezzo ricevuto dal produttore da
P0 a Pn facendo diminuire i ricavi del monopolista che passano da abcd 8presenti nell’immagine prima) a
fghi diminuendi, di fatto di cifa.
Oligopolio: tra i due estremi della concorrenza perfetta e del monopolio c’è l’oligopolio in cui la domanda è
soddisfatta da un numero relativamente ristretto di produttori. Poiché l’incidenza dipende principalmente
dalle modalità di variazione dei prezzi a fronte della tassazione e poiché l’equilibrio in oligopolio dipende
dalle ipotesi che si fanno sull’interazione strategica tra produttori, non esiste una teoria univoca
dell’incidenza dell’imposta in un mercato oligopolistico. Tuttavia è possibile farsi un’idea delle
problematiche connesse a questa possibilità, dal punto di vista delle imprese la situazione ideale sarebbe la
collusione ovvero la realizzazione congiunta del prodotto che massimizza i profitti dell’intera industria,
questo livello di output viene anche chiamato soluzione di cartello . Una soluzione di questo tipo esige che
ogni impresa riduca la produzione per far salire il prezzi di mercato fino a quello di monopolio ma questo
equilibrio è piuttosto difficile da ottenere poiché, una volta creato tale cartello, ogni azienda componente è
incentivata barare cioè a sfruttare il prezzo più elevato prodotto dal cartello per produrre una quantità
superiore di beni rispetto a quella prevista per il funzionamento del cartello stesso, per questo l’output
reale del mercato oligopolistico è solitamente più elevato di quello previsto.
Man mano che i produttori riducono la produzione si avvicinano alla soluzione di cartello aumentando i
profitti pre-imposta; teoricamente i profitti pre-imposta potrebbero coprire l’imposta stessa anche se è
difficile.
LE IMPOSTE SUI PROFITTI

Finora abbiamo analizzato le imposte sulle vendite , le imprese possono essere tassate anche sul profitto,
ovvero la differenza tra ricavi totali e i costi dei fattori produttivi, ossia il rendimento di quell’attività per il
proprietario. Dimostreremo ora che se le imprese massimizzano i profitti, un’imposta di questo tipo non
può essere trasferita ed è sopportata solo dai proprietari dell’impresa. Un’imposta con una data aliquota
sui profitti non modifica né i costi marginali né i ricavi marginali, quindi nessuna impresa è incentivata a
cambiare la sua decisione di produzione e poiché il livello di prodotto non varia non cambia neppure il
prezzo pagato dai consumatori e il loro benessere.
Nell’equilibrio concorrenziale di lungo periodo un’imposta sui profitti non produce gettito; i profitti sono
pari a 0, cioè annullati dalla concorrenza. Per un monopolista ci possono essere profitti perfino nel lungo
periodo ma, per i motivi illustrati prima, l’imposta è sopportata dal monopolista stesso . In sostanza se
un’impresa massimizza i suoi profitti prima dell’introduzione dell’imposta e continua a farlo dopo essa
graverà sul produttore e non potrà essere trasferita.

I problemi posti dalla tassazione dei terreni sono anch’essi piuttosto specifici. La caratteristica distintiva
della terra è il fatto che è un bene fisso e durevole (quindi questa analisi vale per ogni bene abbia
caratteristiche simile). Quando viene introdotta un imposta sulla terra, essendo un bene a offerta rigida, il
canone annuale ricevuto dal proprietario diminuisce dell’intero importo dell’imposta. Inoltre i potenziali
acquirenti della terra prendono in considerazione il fatto che, se comprano la terra, insieme al flusso di
rendita acquistano anche un insieme futuro di oneri fiscali. Pertanto nel momento in cui viene introdotta
l’imposta il prezzo della terra scende del valore attuale di tutti i versamenti futuri delle imposte, questo
processo di inclusione del flusso d’imposte nel prezzo di un bene è detto capitalizzazione.

Quando si introduce un’imposta in un settore di dimensioni relativamente grandi rispetto all’economia


considerare solo gli effetti su quello specifico mercato può non essere sufficiente, l’analisi di equilibrio
generale del mercato prende in considerazione proprio l’interconnessione dei mercati. L’idea di
affrontare l’incidenza delle imposte in un contesto di equilibrio generale può apparire molto complessa,
fortunatamente si possono prendere in considerazione, per ottenere risultati utili, anche solo due beni, due
fattori di produzione e nessun risparmio. Un tipo di imposta utile da comprendere in quest’ottica sono le
imposte parziali sui fattori ossia le imposte applicate a un fattore soltanto quando questo viene impiegato
in un determinato settore.

IL MODELLO HARBEREG

L’opera pionieristica nell’applicazione dei modelli di equilibrio generale all’incidenza delle imposte è di
Harberg, le principali ipotesi del modello di questa economista sono le seguenti:

- Tecnologia: in ogni settore le imprese utilizzano il capitale e il lavoro per produrre l’output. Le
tecnologie impiegate sono tali che il raddoppio simultaneo di entrambi gli input determina il
raddoppio dell’output; ovvero i rendimenti di scala sono costanti. Tuttavia le tecnologie di
produzione possono variare da settore a settore. In generale i settori differiscono per la facilità con
cui si può sostituire il capitale con il lavoro (elasticità della sostituzione). Il settore in cui il rapporto
capitale/lavoro è relativamente elevato si dice ad alta intensità di capitale al contrario è definito ad
alta intensità di lavoro.
- Comportamento dei fornitori dei fattori: i fornitori di capitale e lavoro massimizzano i rendimenti
totali. Inoltre, il capitale e il lavoro sono perfettamente mobili ossia possono essere trasferiti
liberamente da un settore all’altro a seconda dei desideri di chi li detiene. Di conseguenza il
rendimento del capitale marginale netto, come il rendimento del lavoro marginale netto, deve
essere uguale in ciascun settore (può essere ad alta intensità di lavoro o di capitale)
- Struttura del mercato le imprese sono concorrenziali e massimizzano i profitti; tutti i prezzi
(compreso il salario) sono perfettamente flessibili. I fattori sono quindi pienamente impiegati e il
rendimento per ciascun fattore di input è il valore del suo prodotto marginale.
- Offerte totali dei fattori Le quantità totali di capitale e lavoro dell’economia sono fisse con la
libertà di trasferire i fattori da un settore all’altro
- Preferenze dei consumatori Tutti i consumatori hanno le stesse preferenze, un’imposta non può
quindi produrre alcun effetto distributivo influendo sugli impieghi del reddito degli individui.
Questa ipotesi consente di concentrarsi sull’effetto delle imposte sulle fonti di reddito
- Sistema di incidenza dell’imposta il quadro di riferimenti per l’analisi è l’incidenza differenziale
delle imposte, in altri termini consideriamo gli effetti della sostituzione di un’imposta con un’altra

E’ chiaro come queste ipotesi siano piuttosto restrittive ma servono a semplificare l’analisi.

L’imposta su un bene (tA). Quando si introduce un’imposta sui generi alimentari, il prezzo relativo
aumenta e i consumatori sono introdotti a sostituire quel bene con un altro (es. ,manifatturiero). Di
conseguenza si produce una quantità minore del bene sostituito e al contrario si produrrà di più il bene
sostituto, man mano che la produzione del bene alimentare diminuisce parte del capitale e del lavoro
utilizzato nel settore agroalimentare passa al manifatturiero. Essendo probabile che il rapporto
capitale/lavoro sia diverso nei due settori, affinché l’industria manifatturiera sia disposta ad assorbire i
fattori non impiegati da quella agroalimentare i prezzi relativi di capitale e lavoro devono variare.
Supponiamo che il settore agroalimentare sia un settore ad alta intensità di capitale, di conseguenza
devono essere assorbite dal manifatturiero ingenti quantità di capitale e l’unico modo per impiegare tutto il
capitale disponibile è di diminuirne il prezzo (compreso di quello già utilizzato ne manifatturiero). Nelle
nuove condizioni di equilibrio si trova remunerato meno tutto il capitale impiegato, non solo quello del
settore agroalimentare, in termini generali un’imposta sull’output di un settore particolare determina
una diminuzione del prezzo relativo dell’input utilizzato in quel settore ma anche in altri.
Per compiere un passo ulteriore rispetto a queste affermazioni di natura qualitativa sono necessarie
informazioni aggiuntive, maggiore è l’elasticità della domanda di generi alimentari più ampia sarà la
sostituzione nei consumi di questi prodotti con i manufatti. Maggiore è la differenza proporzionale dei
fattori impiegati nella produzione agroalimentare e di prodotti manifatturieri maggiore deve essere al
riduzione del prezzo del capitale perché questo possa essere assorbito dalla manifattura. Infine più è
difficile sostituire capitale con lavoro nell’industria manifatturiera maggiore è la riduzione del saggio di
rendimento del capitale necessaria ad assorbire il capitale aggiuntivo dell’agroalimentare.
Pertanto in questo esempio l’imposta sui generi alimentari tende a colpire le persone che ricevono una
quota considerevole del loro reddito dalle rendite del capitale. L’incidenza totale dell’imposta sui generi
alimentari dipende dunque sia dal lato delle fonti di reddito che dai consumi, un capitalista che consuma
molti generi alimentari è doppiamente colpito mentre invece un lavoratore che consuma molti generi
alimentari si trova in condizioni rispetto alle sue fonti di reddito e peggiori per quanto riguarda i consumi.
Imposta sul reddito (t) come si è osservato in precedenza, un’imposta sul reddito equivale a un insieme
di imposte sul capitale e sul lavoro della stessa aliquota. Dato che l’offerta dei fattori è completamente
fissa questa imposta non può essere scaricata e viene sopportata in modo proporzionale alla
composizione iniziale dei redditi individuali.

Imposta generale sul lavoro (t1) un imposta generale sul lavoro è un’imposta sul lavoro impiegato nella
produzione sia di generi alimentari sia di prodotti manifatturieri. Di conseguenza non esistono incentivi a
spostare l’impiego del lavoro da un settore all’altro; dall’ipotesi di offerta fissa dei fattori ne deriva che il
lavoro debba sopportare tutto l’onere

Un’imposta parziale sui fattori (tKM) Se viene tassato solo il capitale utilizzato nel settore manifatturiero,
gli effetti iniziali sono due: effetto sull’output (il prezzo dei produttori manifatturieri tende ad aumentare
con seguente diminuzione della quantità domandata dai consumatori) effetto sulla sostituzione dei
fattori (man mano che il capitale diventa più costoso nel settore manifatturiero i produttori utilizzano
una quantità minore di capitale e maggiore di lavoro)
CAPITOLO 15:TASSAZIONE ED EFFICIENZA

Per i contribuenti i tributi rappresentano un costo, spesso si considerano semplicemente come una
somma di denaro dovuta al fisco ma le cose non stanno sempre esattamente così. Rimane vero che
l’introduzione di nuovi tributi altera le decisioni degli agenti economici e la perdita di benessere che ne
deriva può essere anche superiore a quella legata al prelievo fiscale vero e proprio (in questo caso si parla
do eccesso di pressione tributaria)e che determina una perdita non solo di benessere personale ma anche
di benessere sociale.

Facciamo ora un esempio, prendiamo un soggetto che acquista solo due beni (diciamo orzo e frumento), i
prezzi di questi due beni riflettono il loro costo marginale sociale perché non vi sono tributi né altri
fallimenti del mercato come le esternalità o una struttura di mercato monopolistica. Per convenienza
presumiamo che i costi marginali sociali siano costanti rispetto all’output. Nella figura sotto, che
rappresenta graficamente il nostro esempio, possiamo notare che il suo vincolo di bilancio (AD) ha una
pendenza pari al rapporto tra il prezzo dell’orzo e del frumento, di conseguenza il soggetto che vuole
massimizzare la propria utilità sceglierà il punto E1 sulla curva d’indifferenza i dove consuma O1 e F1.
L’introduzione dell’imposta(in questo caso sull’orzo) modifica il vincolo di bilancio modificandone la
pendenza, il nuovo vincolo di bilancio (AF), la distanza tra Fa e Fb rappresenta perciò la somma prelevata
dallo Stato come tributo.
Vediamo ora come il soggetto sceglie il nuovo punto in cui massimizzare l’utilità al modificarsi del vincolo di
bilancio a seguito dell’introduzione di un imposta sull’orzo, supponiamo allora che il suo paniere preferito
sia nel punto m E2 sulla curva d’indifferenza ii (che è peggio comunque di i); ma il problema essenziale è
capire se vi è una tassa che procuri lo stesso gettito allo stato ma che non faccia diminuire di così tanto
l’utilità del soggetto, insomma capire se ci troviamo in un caso di eccesso di pressione tributaria.

Per far ciò dobbiamo capire quanto si perde passando da i a ii ossia l’equivalente monetario della perdita
per lo spostamento della curva d’indifferenza ossia la cd variazione equivalente (misura della perdita
provocata dal tributo). La sottrazione di reddito (che poi è quello che avviene indirettamente con
l’introduzione di un tributo) fa spostare il vincolo di bilancio in maniera parallela a se stesso verso
l’origine del piano cartesiano , quindi misurando lo spostamento verso l’interno della retta AD sino a che
risulta tangente alla curva d’indifferenza ii si ottiene la variazione equivalente.
Nella figura sotto il vincolo di bilancio HI è parallelo alla retta AD ed è tangente alla curva d’indifferenza ii.
La distanza verticale tra AD e HI, cioè ME3, rappresenta la variazione equivalente. Vediamo quindi come
ME3 e GN sono uguali mentre vi è una differenza tra ME3 e GE2 pari a E2N, ciò significa che la variazione
equivalente è maggiore del gettito raccolto dallo stato con l’imposta sull’orzo e che quindi tale tributo
peggiora le condizioni del soggetto per un’utilità maggiore dell’entrata tributaria che genera (caso di
eccesso di pressione tributaria). Ma non tutte le forme di tassazione causano necessariamente questo
fenomeno di eccesso di pressione tributaria, come vediamo anche dal grafico sotto un’imposta in somma
fissa provoca lo spostamento parallelo del vincolo di bilancio verso l’origine e poiché le entrate derivanti
dalle imposte a somma fissa sono uguali alla variazione equivalente abbiamo dimostrato come la
tassazione in somma fissa non causa solitamente un eccesso di pressione fiscale. Insomma se
confrontassimo un’imposta a somma fissa in somma fissa a un tributo su un unico bene (orzo in questo
caso) che generi lo stesso gettito la prima lascerebbe il soggetto su una curva d’indifferenza più alta.
Ma se la tassazione in somma fissa è così efficiente perché viene utilizzata di rado? L’imposta fissa non è
uno strumento economicamente attraente per diverse ragioni, anzitutto può risultare come una
tassazione iniqua in quanto uguale per tutti i cittadini a prescindere dal reddito, questo è molto
difficilmente aggirabile dai sistemi tributari in quanto necessiterebbe dal calcolo dell’imposta basato su
un’indefinita capacità individuale che misuri la possibilità di produrre reddito, anche se fosse possibile
misurare questa capacità di misurazione sarebbe praticamente impossibile controllarla.

L’economia del benessere ci aiuta in qualche modo a capire perché si verifica l’eccesso di pressione
tributaria; perché un allocazione delle risorse sia Pareto efficiente è necessario che il saggio marginale di
sostituzione tra orzo e frumento sia uguale al saggio marginale di trasformazione. Se l’orzo è soggetto a
un tributo i consumatori lo pagano: MRSof=(1+t0)P0/Pf questa equazione è la rappresentazione algebrica
del punto E2 nel disegno sopra.

Lo spostamento parallelo al vincolo di bilancio d’origine si può ottenere, oltre che con una tassazione a
somma fissa anche con un’imposta sul reddito; le due imposte sono quindi equivalenti? Se il reddito fosse
fisso l’imposta sul reddito sarebbe a somma fissa ma il reddito può essere influenzato dalle scelte
individuali circa l’offerta di lavoro e quindi generalmente un’imposta sul reddito è diversa da un’imposta
fissa

Se la domanda di un bene non varia con l’introduzione di un tributo sullo stesso significa che non vi è
eccesso di pressione tributaria? Abbiamo detto che l’eccesso di pressione deriva dal fatto che le decisioni
di consumo vengono alterate dall’introduzione del tributo . Possiamo quindi affermare che, se non vi è
variazione nella domanda del bene non vi è eccesso di pressione? La variazione equivalente del tributo
sull’orzo è RE3 che supera le entrate tributarie sull’orzo, che supera le entrate tributarie sull’orzo per un
importo paria E2S. Quindi anche se il consumo non è cambiato il tributo comporta comunque un eccesso di
pressione pari a E2S. Per essere più precisi dobbiamo distinguere due tipi di effetti legati all’introduzione
dell’imposta sull’orzo, esiste una reazione non compensata rappresentata dallo spostamento da E1 a E2 che
mostra come il consumo cambi a causa del tributo ed esprime gli effetti dovuti sia alla perdita di reddito sia
al cambiamento indotto dall’imposta sul prezzo relativo. Lo spostamento da E1 a E3 è detto effetto reddito
ed è dovuto esclusivamente alla perdita di reddito, dal momento che i prezzi relativi si suppongono
inalterati. Questo effetto equivale a quello dovuto all’introduzione di un’ imposta in somma fissa. Lo
spostamento da E3 a E2 è dovuta alla variazione dei prezzi relativi ed è detto effetto sostituzione. Per
calcolare l’eccesso di pressione è necessario confrontare il gettito nei punti E2 ed E3 lungo la curva
d’indifferenza ii, ma lo spostamento da E3 a E2 lungo la curva ii è proprio la reazione compensata.
La curva di domanda compensata indica il variare della quantità domandata al variare del prezzo e
simultaneamente dell’ammontare di reddito necessari a compensare la variazione dei prezzi, così che il
consumatore rimanga sulla curva di indifferenza iniziale. Un modo per sintetizzare quanto detto finora è
dire che l’eccesso di pressione tributaria dipende dai movimenti lungo la curva di domanda compensata e
non lungo quella ordinaria.
CALCOLO DELL’ECCESSO DI PRESSIONE TRIBUTARIA

Abbiamo detto che il concetto di eccesso di pressione può essere reinterpretato utilizzando le curve di
domanda compensate. Questa interpretazione si basa essenzialmente sulla nozione di surplus del
consumatore, ossia la differenza tra ciò che si è disposti a pagare per un bene e ciò che effettivamente si
paga, il surplus del consumatore è rappresentato dall’area compresa tra la curva di domanda e la retta
orizzontale del prezzo di mercato. Supponiamo che la retta D0 dell’immagine sotto rappresenti la curva di
domanda compensata (ossia la curva di domanda che indica il variare della quantità domandata al variare
del prezzo, mantenendo costante l’utilità) dell’orzo, consideriamo poi P0 come il costo marginale dell’orzo
che è costante, perciò la curva di offerta è O0; in situazione d’equilibrio vengono consumati q1 di orzo. Il
surplus del consumatore è aih.
Supponiamo ora che venga introdotta un’imposta t0 sull’orzo e che il suo nuovo prezzo sia P0 e sia
associato alla curva d’offerta O’0. Offerta e domanda ora intersecano l’outupt q2 e il nuovo equilibrio ha le
seguenti caratteristiche:

-il surplus del consumatore si riduce nell’area compresa agf

-Il gettito dell’imposta sull’orzo rappresentato da gfdh

-La somma del surplus del consumatore dopo l’imposta (hafd) è minore del surplus originale del
consumatore (ahi), il triangolo fid rappresenta l’eccesso di pressione tributaria

Maggiore è la spesa iniziale per il bene su cui grava il tributo , maggiore è l’eccesso di pressione
tributaria, inoltre all’aumentare dell’aliquota fiscale, vi è un aumento al quadrato dell’eccesso di
pressione tributaria e quindi, a parità di condizioni, raddoppiando un’imposta l’eccesso di pressione
quadruplica.
CAPITOLO 16: TASSAZIONE: IL TRADE OFF TRA QUITA’ ED EFFICIENZA

La teoria della tassazione ottimale dei beni fornisce un quadro d’insieme per rispondere alla domanda:
quale aliquota adottare per la tassazione di un insieme di beni di consumo?
Anzitutto diciamo che un’imposta della stessa aliquota su tutti i beni (compreso il tempo libero) equivale
a un’imposta a somma fissa che non provoca eccesso di pressione. Quindi il risultato sembra
tendenzialmente positivo, ma c’è un problema: non è possibile applicare un’imposta al tempo libero
perché gli unici strumenti fiscali disponibili sono le imposte sui beni X e Y. Di conseguenza, un certo eccesso
di pressione è inevitabile; l’obiettivo della tassazione ottimale dei beni consiste nella scelta di aliquote per X
e Y in modo che l’eccesso di pressione sia il minimo possibile. Quella che sembra la migliore tassazione a
prima vista pari tra i due beni, la cd tassazione neutrale, in realtà non è la più efficiente.

LA REGOLA DI RAMSEY

Secondo la regola di Ramsey prevede che per minimizzare l’eccesso di pressione totale occorre che
l’eccesso di pressione al margine (ossia dell’ultimo euro di gettito derivante da ciascun bene) tra tutti i
beni tassati sia identico. Per dirlo in altro modo la regola di Rmasey sostiene che per minimizzare l’eccesso
di pressione le aliquote dovrebbero essere fissate in modo tale che la riduzione percentuale della
quantità domandata di ciascun bene sia la stessa. Questo perché l’eccesso di pressione è una conseguenza
di una distorsione delle quantità e per minimizzare tale eccesso è necessario che tutte queste variazioni
siano delle stesse proporzioni.

Se i beni non sono perfetti sostituti o complementari le aliquote d’imposta dovrebbero essere
inversamente proporzionali alle elasticità (regola delle elasticità inverse), questo perché un’insieme
d’imposte efficiente dovrebbe distorcere il meno possibile le decisioni, il potenziale di distorsione aumenta
proporzionalmente all’elasticità della domanda di un bene, quindi una tassazione efficace esige che siano
introdotte aliquote relativamente più elevate su beni relativamente anelastici (ossia beni che quando
hanno una variazione di prezzo subiscono una variazione meno che proporzionale della domanda del bene
stesso).

REGOLA DI CORLETT-HAUGE

Dimostra un’interessante implicazione della regola di Ramsey: quando sono presenti due beni, la
tassazione efficiente esige che l’imposta su un bene complementare al tempo libero abbia un’aliquota
relativamente elevata. Benché le autorità non possono tassare il tempo libero possono invece tassare i
beni che tendono ad essere consumati nel tempo libero riducendo indirettamente anche la domanda di
tempo libero, insomma imposta elevate sui beni complementari al tempo libero forniscono un modo
indiretto per efficientare la tassazione pur non tassando direttamente il tempo libero come un bene.
Secondo la regola delle elasticità inverse i beni con domanda anelastica dovrebbero essere tassati ad
aliquote più elevate... ma è giusto? Certamente no, l’efficienza è solo uno dei criteri da prendere in
considerazione per la valutazione di un sistema tributario e l’equità è altrettanto importante.
La società può essere disposta ad pagare un prezzo superiore in termini di eccesso di pressione fiscale in
cambio di una migliore equità e distribuzione del reddito totale, questo causa modifiche nella regola di
Ramsey che comportano delle preferenze dalla società per l’eguaglianza e del grado di divergenza nei
modelli di consumo dei ricchi e dei poveri (se i ricchi e i poveri consumano i beni nella stessa proporzione,
tassando con aliquote diverse i beni non si può influire sulla redistribuzione del reddito).

In sintesi possiamo dire che la minimizzazione dell’eccesso di pressione esige che le imposte siano fissate
in modo che la domanda di tutti i beni sia ridotta della stessa proporzione . Ne consegue che, per i beni
che NON sono complementari o sostituti, le aliquote dovrebbero essere fissate in modo da risultare
inversamente proporzionali all’elasticità della domanda. Se la società ha anche obiettivi redistributivi sono
necessarie variazioni da questo modello di pura efficienza.

TARIFFE

A volte è lo Stato che produce e/o fornisce beni e servizi e deve dunque anche stabilirne il prezzo , ovvero
deve decidere le tariffe. La produzione pubblica è una soluzione adeguata quando la produzione di un
certo bene o servizio è soggetta a costi medi costantemente decrescenti (ossia quei beni o servizi per cui
maggiore è il livello di output minore è il suo costo unitario). Questi mercati sono raramente concorrenziali
anzi il più delle volte sono descrivibili come Monopoli naturali ossia situazioni in cui alcuni fattori inerenti al
processo produttivo fanno si che un’unica impresa fornisca l’intero output dell’industria, esempi di
monopoli naturali sono le autostrade, i ponti, la produzione energetica elettrica ecc. in alcuni casi questi
beni vengono prodotti dal settore privato e poi regolamentati da pubblico e altre vengono direttamente
prodotti dal pubblico, noi ci occuperemo di questa seconda ipotesi anche se molte conclusioni sono
applicabili ad entrambi i casi.

Nell’immagine di sotto l’asse orizzontale è indicato l’output in condizione di monopolio naturale (Z) e su
quello verticale il prezzo (Pz), la curva dei costi medi è ACZ che sono decrescenti, per questo quelli marginali
saranno comunque inferiori alla media, quindi la curva dei costi marginali MCZ e mostra i ricavi aggiuntivi
per ogni livello output Z.
Se Z fosse prodotto da un monopolio non regolamentato il monopolista, che ha come obiettivo quello di
massimizzare i profitti, produce fino al punto in cui i ricavi marginali sono uguali ai costi marginali ossia il
livello Zm nell’immagine sotto, tuttavia Zm non è efficiente in quanto l’efficienza richiede che il prezzo sia
uguale al costo marginale e al livello Zm esso è superiore. Questa inefficienza e la possibilità che la società
preferisca un a maggiore equità rispetto a profitti di monopolio portano all’intervento pubblico nella
produzione del bene Z. Lo Stato dovrebbe produrre fino a che il prezzo è uguale al costo marginale, sempre
nella figura sotto l’output Z* è nel punto di efficienza tuttavia il prezzo (P*) è insufficiente per coprire i costi
della produzione tale perdita è rappresentata graficamente dal rettangolo in grigio scuro.
Una condizione che può risolvere questo caso è il punto d’intersezione tra la curva domanda Dz e dalla
curva dei costi medi ACz quindi nei punti Za e per prezzo Pa, tuttavia questa soluzione non è pienamente
efficiente. Supponiamo di far pagare la perdita MC e di coprire il disavanzo introducendo un’imposta
somma fissa, così si coprirebbe la perdita e si produrrebbe in condizioni d’efficienza. Questa soluzione
presenta tuttavia 2 problemi: anzitutto le imposte a somma fissa non sono sempre di facile introduzione e
può causare effetti discorsivi sul lavoro, in secondo luogo l’equità richiede che in consumatori di un bene
fornito pubblicamente lo paghino, si tratta dell’applicazione del principio del beneficio (i consumatori di un
bene o servizio pubblico dovrebbero pagarlo)
Fino ad ora abbiamo preso in considerazione una singola impresa pubblica, supponiamo invece che lo Stato
ne possieda molte e che queste non possano essere in perdita tutte, ma una sola si. Ipotizziamo inoltre che
lo Stato voglia che il finanziamento della produzione pubblica sia coperto dal prezzo pagato dagli utenti, di
quanto dovrebbe superare il costo marginale la tariffa per l’utente? Possiamo usare la regola di Ramsey
per rispondere a questo quesito, le tariffe vanno fissate in modo tale che la domanda di ogni bene o
servizio si riduca proporzionalmente.
LA TASSAZIONE SUI REDDITI

Fin ora abbiamo assunto che lo Stato possa stabilire imposte su tutti i beni e i fattori produttivi, vediamo
ora di analizzare quei sistemi in cui le imposte sono commisurate al reddito dei singoli cittadini. Obbiettivo
della teoria della tassazione ottimale di redditi non è altro che fornire un orientamento, ovvero un modello
sistematico per riflettere sul giusto trade off tra equità ed efficienza.

Uno di questi modelli e sicuramente il modello Edgeworth che analizzò il problema della tassazione
ottimale utilizzando un semplice modello fondato sui seguenti punti:

-Dato il gettito necessario l’obbiettivo consiste nel mantenere la somma delle utilità individuali la più alta
possibile

-Gli individui hanno funzioni di utilità identiche che dipendono unicamente dal loro reddito e presentano
un’utilità marginale decrescente del reddito( man mano che aumenta il soggetto aumenta il proprio
benessere i maniera decrescente)

-La quantità totale di reddito disponibile è fissa

Sulla base di queste premesse la massimizzazione del benessere sociale richiede che l’utilità marginale
del reddito di ciascun individuo sia la stessa. Ma le funzioni di utilità sono identiche, le utilità marginali
sono uguali solo se lo sono anche i redditi:le imposte dovrebbero essere fissate in modo che la
distribuzione del reddito dopo le imposte sia egualitaria. In particolare il reddito dovrebbe essere
prelevato in misura maggiore per i ricchi perché l’utilità marginale a cui devono rinunciare è inferiore a
quella a cui dovrebbero rinunciare i più poveri. Il modello Edgeworth implica un sistema fiscale
strettamente progressivo: i redditi più elevati vengono ridotti fino a raggiungere la completa uguaglianza,
anche fino al 100% in casi di altissimi redditi, perciò questo modello sarebbe stato messo in discussione a
partire dagli anni ’70.
Una delle critiche più fatte al sistema di Edgeworth è l’ipotesi che l’importo totale di reddito disponibile per
la collettività sia fisso. Nell’elaborare un sistema tributario ottimale si deve tenere conto dei costi, in
termini di distorsione delle scelte e quindi di eccesso di pressione, da sostenere per conseguire una
maggiore uguaglianza, costi che nel modello di Edgeworth sono pari a zero.
Il problema dell’imposta ottima consiste nell’individuare la combinazione ottimale tra sussidio e l’aliquota
fiscale marginale in modo da massimizzare il benessere sociale.

Stern ha dimostrato che, se si ipotizza una modesta sostituibilità tra il tempo libero e il reddito e se il
gettito che si vuole raccogliere è de 20% del reddito della collettività, un valore t (ossia l’aliquota fiscale
marginale)del 19% circa massimizza il benessere sociale, questo valore è notevolmente inferiore al 100%
suggerito da Edgeworth, quindi possiamo concludere che effetti di incentivo del tutto modesti sembrano
avere implicazioni importanti per le aliquote marginali ottimali. In termini più generali Stern ha dimostrato
che più elastica è l’offerta di lavoro inferiore è il valore ottimale di t, inoltre più elastica è l’offerta
maggiore è l’eccesso di pressione che deriva dalla tassazione ma anche un costo di redistribuzione più
elevato.
Sempre Stern ha calcolato che il criterio maxmin esige un’aliquota marginale dell’80% circa, non sorprende
perciò che società estremamente egualitarie hanno aliquote estremamente elevate (sempre inferiori al
100%).

Gruber e Saez hanno indagato su una forma più generale del modello di Stern che prevede 4 aliquote
marginali, coloro che rientrano nella fascia di reddito più alta dovrebbero fronteggiare un’aliquota
marginale inferiore di quelli nelle fasce più basse, questo nasce dall’intuizione che abbassando l’aliquota
marginale sui redditi elevati chi guadagna di più sia disposto a lavorare di più ed a guadagnare ancora di
più aumentando il gettito e riducendo il peso sulle spalle dei più poveri. E’ importante sottolineare come,
anche se le aliquote marginali scendono con il reddito, le aliquote medie aumentano rendendo il sistema
progressivo.

L’EVASIONE FISCALE

Passiamo ora ad analizzare uno dei principali problemi per le autorità fiscali, innanzitutto dividiamo tra
elusione fiscale (consiste nel modificare il proprio comportamento in modo da ridurre il proprio onere
tributario nel rispetto della normativa, NON è illegale) e l’evasione fiscale (consiste nel mancato
pagamento di imposte legalmente dovute ed è illegale). Esistono vari modi per evadere il fisco:

-Registrare le transazioni su due insiemi di registri diversi, uno per le operazioni commericiali reali e
l’altro da mostrare alle autorità fiscali

-Lavorare in neri e farsi pagare in contanti

-il baratto

-Pagamenti in contanti non tracciabili

Passiamo ora ad un’analisi positiva dell’evasione fiscale, poniamo che un soggetto abbia come unico scopo
il massimizzare il reddito atteso, date le sue entrate cerca di scegliere come fissare R ossia l’importo che
nasconde alle autorità fiscali; se il soggetto ha un’aliquota marginale t, il beneficio marginale per ogni euro
dichiarato è sottratto di t. Il problema sta nell’impossibilità da parte del fisco di controllo continuo, poiché il
sistema tributario può far pagare delle multe proporzionali al T evaso. Se il soggetto conosce lo schema
delle multe e la probabilità di venire scoperto allora può svolgere un’analisi costi-benefici con cui decidere
se effettivamente gli conviene o meno evadere e imbrogliare il fisco. Nell’immagine sotto l’importo non
dichiarato viene misurato sull’asse orizzontale e la somma risparmiata sulle imposte su quello verticale.
Il beneficio marginale (MB) per ogni euro non dichiarato è t, il costo marginale (MC) atteso è l’importo di
cui sale la multa per ogni euro evaso in più moltiplicato per la possibilità di essere scoperti. L’importo
ottimale di evasione si ha nel punto in cui le due curve si intersecano ossia nel punto R*
Ovviamente, data l’aliquota, la probabilità di accertamento e la multa può darsi che l’importo ottimale da
evadere sia 0 come dimostra il grafico sotto

Queste considerazioni implicano che l’evasione aumenta proporzionalmente alle aliquote fiscali, per un
valore più elevato di t aumenta anche il beneficio marginale insito nell’evasione, detto graficamente: per un
valore t più alto si sposta la relativa curva MB e l’intersezione con quella dei costi marginali si verifica per un
R più elevato. Il modello implica inoltre che l’evasione si riduce all’aumentare delle possibilità di ricevere
accertamenti e quindi di essere scoperti e anche quando sale l’aliquota della multa da pagar poiché
entrambi questi fattori aumentano il costo marginale dell’evasione. Questo modello tuttavia è obbligato a
non considerare alcuni aspetti come i costi psicologici dell’evasione, l’avversione al rischio, le scelte di
lavoro (lavori che favoriscono l’economia sommersa più di altri), la probabilità di accertamento che
aumenta all’aumentare della somma evasa ecc. al fine di semplificare lo studio del fenomeno.

E’ tuttavia interessante notare come in alcuni casi l’esistenza di un’economia sommersa aumenti il
benessere sociale. Consideriamo però le implicazioni in cui non fosse possibile, per l’economia sommersa,
di generare benessere, in tal caso l’unico obiettivo è eliminare l’esistenza di tale economia sommersa con il
minor costo amministrativo possibile, infatti se il fisco ha un bilancio molto elevato sarà più facile
individuare gli evasori, se è invece basso si può ovviare al problema e aumentare comune il costo
del’evasione aumentando di molto le multe.
Alla ricerca di un modo socialmente accettabile per affrontare l’evasione molti Stati hanno dichiarato
periodi di condono fiscale durante i quali gli individui possono pagare le imposte evase pagando una
sanzione ridotta o nulla, questo può però causare un aumento dell’evasione futura.

CAPITOLO 17: IMPOSTE PERSONALI E COMPORTAMENTI INDIVIDUALI

Chi è favorevole alla riduzione delle imposte sostiene che il sistema fiscale ha un effetto negativo sullo
sviluppo dell’attività economica, sull’altro versante c’è chi sottolinea come le riduzioni delle imposte
adottate nel passato non abbiano assicurato la crescita economica perché probabilmente i
comportamenti degli agenti sono influenzati dalle imposte sul reddito influiscono su una moltitudine di
decisioni: dall’acquisto di servizi sanitari all’entità delle donazioni per opere di carità. In questo capitolo
vedremo quattro importanti argomenti che sono stati studiati, ovvero vedremo gli effetti delle imposte
personali sul reddito sulle decisioni riguardanti:

-l’offerta di lavoro

-il risparmio

-l’acquisto dell’abitazione

-le modalità di investimento del capitale

Per capire gli effetti delle imposte personali sul reddito sull’offerta di lavoro si consideri il seguente
esempio. Il soggetto deve decidere quanto lavorare ogni settimana e quanto tempo libero consumare, nel
grafico sotto identifichiamo la dotazione di tempo come OT sull’asse orizzontale e supponiamo che tutto il
tempo sottratto al lavoro sia tempo libero. Le combinazioni tra tempo libero e lavoro e reddito sono
indicate dalla retta TD che è il vincolo di bilancio la cui pendenza è data dal salario orario. Supponiamo ora
di poter rappresentare le preferenze del soggetto con curve d’indifferenza normali e indicate da i ii iii, il
soggetto massimizza la sua utilità in E1 su ii e identificando conseguentemente tempo libero, lavoro e
reddito totale settimanale.

Supponiamo ora che il Governo decida di imporre un’imposta sul reddito da lavoro a un’aliquota t che
perciò diminuisce la retribuzione di s –t ogni ora lavorata, riducendo il costo di un ora di tempo libero. Il
vincolo di bilancio non è più DT ma si sposta e diventa TH con una differente pendenza, le combinazione E1
non è più disponibile e viene sostituita da E2 con il conseguente spostamento e distribuzione di tempo
libero, lavoro e retribuzione. La tassa ha quindi ridotto le quantità di ore lavorate .
Quello che abbiamo visto non è però detto che sia la regola assoluta, nella figura sotto vediamo come, per
un soggetto diverso da quello sopra, all’imposizione di un tributo aumenta la quantità di lavoro offerto
senza che ci sia nulla di irrazionale ne in questo ne nel comportamento opposto.

In questi casi agiscono, in maniera opposta, l’effetto reddito (l’imposta riduce il reddito individuale , se il
tempo libero è un bene normale, questa perdita di reddito porta a una riduzione del consumo del tempo
libero al fine di riequilibrare la diminuzione del reddito) e l’effetto sostituzione (quando l’imposta riduce il
salario netto, il costo opportunità del tempo libero diminuisce e quindi si tende a sostituire il lavoro con il
tempo libero e porta ad una diminuzione dell’offerta di lavoro).

Fin ora abbiamo esaminato le connessioni tra offerta di lavoro e diversi regimi fiscali, ora ci occuperemo
di come il gettito tributario varia al variare delle aliquote. Consideriamo la curva dell’offerta di lavoro OL,
essa rappresenta la quantità ottimale di lavoro per ciascun livello di salario netto nel caso in cui prevalga
l’effetto sostituzione. Abbiamo infatti visto che le ore di lavoro aumentando al crescere del salario netto
(ovvero se si riducono le imposte) solo se prevale l’effetto sostituzione, mentre diminuiscono se prevale
l’effetto reddito. Se l’aliquota è nulla il gettito è 0, ora stabiliamo che venga stabilita un’imposta
proporzionale con aliquota t1 , il gettito in questo caso è uguale all’imposta per ora di lavoro (ab) per il
numero di ore lavorate (ac), ossia il rettangolo abcd dell’immagine di sotto.
Un’aliquota più alta produce un gettito fiscale maggiore, ciò significa che lo Stato, aumentando l’aliquota,
può ottenere sempre maggiori introiti? Questo non è detto, per esempio con un’aliquota t3 le entrate
tributarie sono comprese in haji che sono inferiori a quelle dell’aliquota t2 poiché in t3 si lavora molto poco
per l’effetto sostituzione. Quando l’aliquota d’imposta è molto bassa, le entrate fiscali sono basse,
aumentando l’aliquota aumentano anche quelle; questo si verifica fino a tA, oltrepassando questo punto il
gettito fiscale diminuisce progressivamente fino ad annullarsi.

Laffer studiò la relazione tra aliquote ed entrate tributare tanto da sviluppare la cd curva di Laffer, l’idea
secondo la quale la riduzione dell’aliquota fiscale non necessariamente riduce le entrate tributarie dello
Stato è fondamentale per la cd “Supply side economy”. La curva di Laffer è una relazione ancora oggi
molto discussa, il dibattito si incentra su alcuni punti:
-Se prevale l’effetto reddito, la riduzione delle imposte e il conseguente aumento del salario netto
provocano una riduzione delle ore offerte di lavoro e quindi, necessariamente, una riduzione del gettito.

-Per ogni variazione dell’aliquota, l’aumento o la diminuzione del gettito dipendono dalla misura in cui la
variazione di ore lavorate compensa la variazione dell’aliquota stessa, ossa dell’elasticità dell’offerta di
lavoro al salario netto.

-Stabilire se l’economia stia operando realmente a destra del punto tA è una questione empirica di
difficile soluzione

-E’ difficile che una riduzione generale delle aliquote d’imposta non si traduca in riduzione di gettito, ma
anzi in un suo incremento o si “autofinanzi”. Perché ci sia un incremento di gettito è necessario che la
riduzione delle aliquote d’imposta faccia aumentare l’offerta di lavoro in maniera così consistente che la
più ampia base imponibile così creata generi un maggior gettito, nonostante le ridotte aliquote.

-Le variazioni dell’offerta di lavoro non sono l’unico motivo per cui l’aumento delle aliquote d’imposta
influisce sul gettito. Come abbiamo già sottolineato, quando le aliquote aumentano, le persone possono
sostituire il salario con forme di reddito non soggetto ad imposte, perciò, se l’offerta di lavoro resta fissa,
il gettito può ugualmente diminuire. Analogamente le persone che appartengono alle fasce di reddito più
alte, possono sostituire il reddito da lavoro con reddito da capitale, decidendo di investire su attività i cui
rendimenti siano tassati meno del lavoro. L’aliquota d’imposta che massimizza gli introiti non è la
medesima per tutte le fasce di reddito o per tutti i tipi di reddito. Alcuni politici sostengono che se si
riducessero le aliquote, l’offerta di lavoro aumenterebbe talmente che non vi sarebbe alcuna perdita di
gettito. Tale effetto è però improbabile, l’idea che la riduzione delle imposte non comporti riduzioni di
gettito è plausibile se si considerano i modi in cui i soggetti d’imposta sostituiscono forme di reddito non
tassabile a forme tassabili.

Un altro tipo di comportamento che può essere influenzato dal sistema tributario è la propensione al
risparmio. I più moderni studi sulle decisioni relative al risparmio si basano sul modello del ciclo vitale (gli
individui pianificano anno dopo anno le loro decisioni sul consumo e sul risparmio considerando tutta la
loro vita) . In altre parole ciò che si risparmia ogni anno non dipende soltanto dal reddito di quell’anno,
ma anche dal reddito che si prevede di avere nel futuro e da quello ottenuto nel passato.
Passiamo ad un analisi grafica del concetto, prendiamo ora un soggetto che ha due momenti di interesse
“ora” e “futuro”. Il soggetto ha un reddito pari a I0 euro e sa che in futuro sarà pari a I1 , possiamo
immaginare I0 come il salario e I1 come la pensione. Decidendo quanto consumare in ciascun periodo, egli
decide anche quanto denaro risparmiare o chiedere in prestito. Il soggetto può consumare tutto il reddito
nel momento in cui lo percepisce, cioè consumare I0 ora e I1 bel futuro. Questo paniere è il paniere delle
dotazioni indicato nella figura con A, in quel punto il soggetto non risparmia ne prende in prestito denaro;
egli può però decidere di risparmiare parte del suo reddito corrente per consumarlo nel futuro,
supponiamo che risparmi R reddito che potrà poi essere utilizzato in futuro con un aumento pari al tasso
d’interesse (1+i)R passando dal punto A al punto D.
Supponiamo invece che il soggetto possa ottenere un prestito di B euro, se lo ottiene quanto dovrà ridurre
in futuro il suo consumo? Gli interessi saranno pari a Bi e la riduzione del consumo futuro è pari a (1+i)B
euro sostando il paniere prescelto nel punto F. Dai tre punti D A F si può ricavare il vincolo di bilancio

Consideriamo ora di rappresentare graficamente le preferenze del soggetto attraverso curve d’indifferenza
tendendo conto del vincolo di bilancio che abbiamo tracciato; con questa rappresentazione grafica il punto
di massimizzazione dell’utilità sta nel punto E1 dove consuma C0 nel presente e C1 nel futuro (I0-C0 è il
risparmio fatto nel presente). Naturalmente questo non prova che la scelta del risparmio sia sempre la più
razionale.
Passiamo ora al problema dell’introduzione di una tassa sul risparmio nel caso in cui Giulio decida di
risparmiare e consideriamo come varia l’ammontare del risparmio se viene introdotta un’imposta su tale
reddito. In questo caso è importante sapere se gli interessi sui prestiti sono deducibili o meno .

-Interessi passivi deducibili: la principale modifica in questo caso avverrebbe nella pendenza del vincolo di
bilancio e viene rappresentata nella maniera seguente
-Interessi passivi NON deducibili
CAPITOLO 18: L’IMPOSTA PERSONALE SUL REDDITO

Una delle possibili modalità di classificazione delle entrate considera la loro maggiore o minore vicinanza
con i prezzi di mercato, in particolare un celebre studioso italiano suggeriva di distinguere:

-i prezzi di mercato: che sono quanto la PA ricava dalla vendita di beni e servizi prodotti dal settore
pubblico stesso

-i prezzi quasi privati: che sono il corrispettivo delle vendite di beni e servizi prodotti dal settore pubblico
per perseguire un obiettivo politico o sociale

-il prezzo pubblico : che si applica quando l’operatore pubblico è un monopolista che può discriminare il
prezzo praticato ai diversi consumatori, quando i ricavi complessivi sono inferiori ai costi si parla di prezzo
politico

-la tassa: che è il compenso corrisposto da chi fa domanda di un bene o un servizio il cui consumo va a
beneficio sia del richiedente che del resto della collettività (esternalità positive); in questo caso il costo del
bene o servizio offerto dalle PA non è interamente coperto dai ricavi, la copertura di tali spese con la
fiscalità generale giustificata proprio dalle esternalità positive (ad. Es scuola o università).

-le imposte: che sono un prelievo coattivo del settore pubblico la cui misura è stabilita da criteri politici.
Le imposte sono generalmente distinte tra imposte dirette e imposte indirette, sono imposte dirette
quelle riscosse periodicamente mediante ruoli normativi, mentre sono indirette quelle riscosse in
occasione di determinati atti compiuti anche occasionalmente dal contribuente. Secondo la natura
economica dell’imposta, sono dirette le imposte che non si trasferiscono e che colpiscono una
manifestazione immediata della capacità contributiva (le imposte sul reddito o sul patrimonio), mentre
sono indirette le imposte che si possono trasferire dai soggetti che sono tenuti a pagarle su altri soggetti
e che colpiscono una manifestazione non immediata della capacità contributiva (come ad esempio il
consumo).
Le entrate tributarie possono essere ordinarie, se sono riscosse a ogni esercizio e attingendo alla
produzione corrente, o straordinarie, se sono riscosse saltuariamente e attingendo al patrimonio della
collettività. Un criterio per distinguere le imposte è quello di considerare se l’imponibile è definito con
riferimento alle caratteristiche del contribuente o meno: così sono imposte reali quelle che si riferiscono in
modo esclusivo a un oggetto imponibile, mentre sono imposte personali quelle che colpiscono un oggetto
imponibile non in quanto tale, ma riferendolo alla situazione personale del contribuente.
Infine i tributi si possono classificare a seconda del criterio utilizzato per la loro applicazione:il principio del
beneficio (principio che richiede di correlare l’ammontare del tributo al beneficio che il contribuente trae
dall’usufruire del bene o del servizio fornito dall’operatore pubblico) e della capacità contributiva
(Principio secondo il quale l’ammontare del tributo deve essere commisurato a un qualche indicatore
della situazione economica del contribuente come reddito, consumo, patrimonio). Tra le imposte dirette
la voce più significativa è rappresentata dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF); seguono le
imposte sui redditi delle società (IRES). Tra le imposte indirette , l’imposta sul valore aggiuntivo (IVA) è
quella che fornisce il gettito più consistente.

I soggetti passivi dell’IRPEF sono sia le persone fisiche residenti che non residenti, limitatamente al
reddito conseguito nel territorio dello Stato. L’imposta dovuta si calcola sottraendo dal reddito
complessivo le deduzioni e ottenendo così il reddito imponibile. Al reddito imponibile si applica la scala
delle aliquote e il risultato è l’imposta lorda da cui si devono ancora sottrarre le detrazioni, l’importo così
calcolato è l’imposta netta.
L’imposta personale sul reddito è un’imposta diretta che si applica in base al principio della capacità
contributiva, la definizione della capacità contributiva è un aspetto discusso dalla teoria economica e sul
quale noi non ci soffermeremo. Ci limiteremo ad assumere che il reddito sia una buona approssimazione
della capacità contributiva. Le nozioni di reddito comunemente discusse come punto di riferimento per la
normativa fiscale sono le seguenti:

+ reddito-prodotto

+ reddito-entrata

+ reddito-consumo

L’adozione della nozione di reddito-prodotto implica che si considerino come componenti della base
imponibile tutte le remunerazioni derivanti dalla partecipazione a un’attività produttiva, detto altrimenti
sono tassabili solo i reddito da capitale e da lavoro, mentre sono escluse donazioni e plusvalenze
patrimoniali. A partire da osservazioni di questo tipo nella prima metà degli anni ’20 si è proposta la
nozione di reddito-entrata secondo la quale costituisce reddito fiscalmente rilevante quanto un individuo
può consumare senza ridurre il valore del patrimonio iniziale, rispetto alla precedente definizione di
reddito, la differenza principale è l’inclusione delle plusvalenze patrimoniali nella base imponibile. Sorge
a questo punto il problema di quanto tassare i guadagni in conto capitale, al momento della maturazione o
della realizzazione? Nel primo caso la tassazione si applica alla variazione di valore maturata dall’attività
patrimoniale nel corso dell’anno, indipendentemente dal verificarsi di un’operazione di vendita; nel
secondo caso invece si applica alla differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto calcolata al
momento della cessione dell’attività patrimoniale indipendentemente dell’anno in cui la cessione ha avuto
luogo. Una terza alternativa è stata teorizzata negli anni ’40, si tratta della nozione di reddito-consumo
secondo la quale la base imponibile tassabile dovrebbe coincidere con il consumo annuale del
contribuente che è dato dalla differenza tra tutte le entrate e il risparmio; rispetto alle definizioni
precedenti le differenze sono due: adottando questo approccio non sono soggetti a tassazione i risparmi e
le plusvalenze sono tassate solo nel momento in cui diventano strumento di finanziamento del consumo.
Difficilmente le imposte sul reddito hanno basi imponibili corrispondenti alla nozione di reddito-consumo,
sia perché questo tipo d’imposta è piuttosto complessa da gestire da un punto di vista amministrativo, sia
perché la sua adozione lascia aperte diverse questioni sul suo impatto distributivo.

La nozione di reddito adottata per l’IRPEF è una mediazione tra il concetto di reddito prodotto e quello di
reddito-entrata, con alcuni elementi che tengono conto della spesa. In effetti le plusvalenze sono solo in
parte considerate imponibili e le componenti di risparmio di natura previdenziale sono escluse
dall’imponibile. Ma vediamo meglio cosa prevede la normativa vigente; il reddito complessivo è dato dalla
somma delle seguenti categorie di entrate.

-I redditi fondiari comprendo i redditi agrari e da fabbricati. Per i redditi dominicali, che derivano dal
possesso a vario titolo di un terreno destinato alla produzione agricola, dal 2012 si applica l’IMU. Per i
redditi agrari, che rappresentano il profitto dell’imprenditore agricolo, la base imponibile è identificata con
le risultanze catastali ed è soggetta all’IRPEF. A proposito dei fabbricati, in via generale il reddito fondiario
rappresentato dalla rendita catastale rivalutata costituisce base imponibile IRPEF solo se non è soggetto a
IMU e, se si tratta di fabbricati dati in locazione, nel caso in cui il proprietario non abbia optato per la
tassazione sostitutiva. Inoltre è dedotta dal reddito imponibile IRPEF la rendita catastale dell’abitazione
principale del contribuente con le relative pertinenze.

-I redditi da capitale sono costituiti dai proventi derivanti da rapporti aventi a oggetto l’impiego di
capitale. A titolo puramente indicativo, rientrano in questa categoria gli interessi derivanti da mutui e
prestiti, da depositi e conti correnti e da obbligazioni, gli utili derivanti da partecipazioni in società, i
proventi derivanti da operazioni dalla gestione collettiva del risparmio, i proventi derivanti da operazioni
ecc. E’ opportuno ricordare che la categoria di redditi da capitale più significativa soggetta a IRPEF sono i
dividenti azionari, poiché le altre categorie prima citate sono assoggettate a regimi sostitutivi

-I redditi di lavoro dipendente Si considerano redditi da lavoro dipendente i compensi ricevuti per
prestazioni di lavoro subordinato e dal 2001 anche in relazione a collaborazioni svolte senza vincolo di
subordinazione ossia i proventi dei cd cococo. Il reddito da lavoro dipendente costituisce la componente
fondamentale dell’imponibile IRPEF poiché è quella più facile da accertare, sono infatti i datori di lavoro
che svolgono il ruolo di sostituiti d’imposta e trattengono mensilmente una ritenuta sullo stipendio a titolo
di acconto IRPEF in automatico.

-I redditi da lavoro autonomo sono classificati in questo modo i proventi derivanti dell’esercizio di arti e
professioni e della cessione dei diritti d’autore. In questo caso il reddito imponibile è dato dalla differenza
tra i ricavi e i costi sostenuti nel periodo di esercizio. Per evitare comportamenti elusivi la normativa
stabilisce in maniera rigorosa i costi deducibili, anche se l’accertamento di questo tipo di redditi è tutt’altro
che semplice

-I redditi d’impresa, rientrano in questa categoria i redditi percepiti nell’esercizio di imprese individuali o
di società di persone (ss, snc, sas) mentre, i redditi delle società di capitali sono tassati con l’IRES. Per le
società di persone il reddito è accertato in capo alla società, che è tenuta alla dichiarazione, e poi ripartito
dai soci in proporzione alle quote.

-Redditi Diversi rientrano in questi redditi le plusvalenze realizzate dalla lottizzazione di terreni, le
plusvalenze realizzate mediante la cessione di immobili acquistati da meno di 5 anni, le plusvalenze
realizzate mediante la cessione di partecipazioni societarie qualificate e altri tipi di plusvalenze.

L’IRPEF è stata introdotta nel ’74 con vari scaglioni che sono più volte state modificate, tappe importanti di
questo percorso la Legge Tremonti (l 80/03) che diminuì il numero di scaglioni riducendo l’aliquota
massima al 43% (prima era dell’82%) anche se originariamente essa prevedeva la riduzione degli scaglioni a
soli 2 (praticamente una flat tax). Con la Legge Tremonti viene anche introdotta la non tax area (ossia una
parte di reddito che non viene tassata). Con la L 296/06 ha invece reintrodotto un’imposta personale sul
reddito basata principalmente su più scaglioni, riportandoli a 5, e l’uso delle detrazioni dall’imposta per
ottenere la progressività. Come già detto per calcolare l’imponibile e prima di applicare le aliquote è
necessario sottrarre dal reddito complessivo le deduzioni; superato il sistema della non tax area della
riforma Tremonti, con la legislazione vigente sono deducibili:

-un importo pari al reddito dell’abitazione principale e le sue pertinenza


-i contributi previdenziali e assistenziali versati per l’obbligo di legge

-le spese mediche e per l’assistenza ai portatori di handicap; gli assegni corrisposti al coniuge, quelli
alimentari e le erogazioni liberali

Calcolato il reddito imponibile e applicare le aliquota, si ottiene l’imposta lorda, dalla quale devono essere
ancora sottratte le detrazioni:

-Spese per carichi familiari, la normativa in vigore stabilisce una detrazione per il coniuge a carico che varia
in relazione al reddito lordo del contribuente, per ogni figlio in carico l’importo detraibile aumenta.

-Le detrazioni da lavoro e da pensione, hanno nuovamente sostituito le deduzioni anche in questo caso gli
importi indicati dalla legge sono teorici in quanto calcolati in base al reddito complessivo

-Le detrazioni riguardanti gli oneri personali al 19%. Questa detrazione consente di personalizzare
l’imposta sul reddito tenendo conto di alcune caratteristiche del contribuente come lo stato di salute, gli
studi ecc. L’elenco delle spese detraibili al 19% è piuttosto lungo, sono comprese le spese mediche , i premi
assicurativi, gli interessi passivi sui mutui per l’acquisto dell’abitazione principale e le spese per la frequenza
di corsi di istruzione secondaria e universitaria.

-Sono infine previste altre detrazioni con finalità incentivanti, rientrano in questa categoria le spese per
l’affitto, se il reddito complessivo è inferiore a una certa soglia, le spese legate alla mobilità del
lavoratore dipendente (entro 3 anni dal suo spostamento), quelle per le ristrutturazioni edilizie e dal 2018
le spese sostenute per l’acquisto degli abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico.

La progressività dell’imposta personale sul reddito pone un problema di non facile soluzione: tassare il
reddito individuale o familiare? In Italia il sistema di tassazione è individuale e le detrazioni per familiari a
carico rappresentano lo strumento adottato per tenere conto delle caratteristiche della famiglia di
appartenenza del contribuente; in particolare, le detrazioni sono articolate in modo da considerare le
numerosità del nucleo familiare e il numero di percettori di reddito.

Gli economisti sono soliti distinguere tra inflazione “attesa” e “imprevista”. In genere solo quest’ultima
viene considerata negativa per l’efficienza, poiché non consente alle persone di definire il loro
comportamento in modo ottimale in relazione alla variazione del livello dei prezzi. Tuttavia, con un
sistema di tassazione del reddito non indicizzato, anche l’inflazione prevista con esattezza causa distorsioni.
Il termine con cui si indicano le distorsioni nella tassazione dovute all’inflazione è fiscal drag (aumento
della pressione fiscale imputabile all’inflazione e dovuto allo spostamento su scaglioni successivi o anche
solo alla tassazione con la stessa aliquota margina ledi un reddito nominale superiore). I fattori che
determinano l’aumento del carico fiscale in presenza d’inflazione sono due:
-Slittamento degli scaglioni: se il sistema fiscale si basa sul reddito nominale e su scaglioni crescenti con
l’inflazione, all’aumentare del reddito il contribuente è soggetto a scaglioni con aliquote più elevate pur
mantenendo il reddito reale invariato.

-Il secondo fattore è dato dal fatto che, anche gli individui che non passano a scaglioni più elevati, se
aumenta il reddito nominale una quota maggiore del loro reddito viene tassata all’aliquota marginale a
cui sono soggetti. In sostanza, l’inflazione provoca un aumento automatico dei carichi fiscali senza che
questo sia previsto da alcun provvedimento legislativo, l’inflazione e la diminuzione del potere d’acquisto di
fatto l’imposta dovuto impatta maggiormente a parità di reddito.. Un altro effetto dell’inflazione si verifica
quando le deduzioni e le detrazioni vengono fissate in termini nominali.

CAPITOLO 20: LE IMPOSTE SUI CONSUMI

Le imposte generali sulle vendite possono colpire l’intero valore di un bene o l’incremento di valore che si
registra in una determinata fase della produzione o dello scambio, e possono essere applicate in diversi
momenti del ciclo produttivo e distributivo. In base a questi due criteri si possono distinguere:

- Le imposte monofase sul valore pieno: che colpiscono una sola fase del processo produttivo e di
scambio e sono commisurate al valore pieno del bene in quella fase; rientrano in questa fattispecie
le imposte di fabbricazione del nostro ordinamento
- Le imposte plurifase sul valore pieno: che colpiscono tutte le fasi del processo produttivo e
distributivo; si tratta di un’imposizione cumulativa che era in vigore prima dell’introduzione
dell’IVA
- Le imposte plurifase sul valore aggiunto (o non cumulative): che sono imposte che colpiscono
tutte le fasi produttive e distributive ma che riguardano solo il valore aggiunto realizzato in quel
particolare stadio produttivo o distributivo. L’IVA è di questo tipo.

Per capire come funziona un’imposta plurifase sul valore aggiunto si consideri il seguente esempio:
l’agricoltore coltiva il grano e lo vende al mulino che lo trasforma in farina; la farina è venduta al fornaio
che produce il pane, e il fornaio vende il pane al droghiere il quale, a sua volta, lo vende al consumatore
finale. In ogni fase della produzione si crea una differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto
degli input necessari a produrre, e questa differenza è detta valore aggiunto (ossia la differenza tra il
prezzo di vendita e quello di acquisto degli input necessari a produrre quella differenza). Il fornaio
paga 700 euro per la farina e vende il pane a 950 euro, perciò il valore aggiunto relativo a quella
trasformazione è di 250 euro. L’imposta sul valore aggiunto si applica in percentuale sul valore aggiunto
che si crea in ogni fase della produzione. Nel nostro esempio, se l’aliquota è pari al 20%, il droghiere
dovrà versare al fisco 10 euro, ossia il 20% di 50 euro.

L’esempio serve a capire la natura del tributo, ma il calcolo necessario per individuare il debito
d’imposta è più complesso. Vediamo di capire perché. Innanzitutto per individuare l’incremento di
valore verificatosi in ciascuna fase si possono adottare due criteri: il metodo base da base e il metodo
imposta da imposta nel primo caso l’imposta dovuta si calcola applicando l’aliquota alla differenza
tra il valore delle vendite e degli acquisti degli input necessari alla produzione. Nel secondo caso il
tributo si applica al valore pieno di ciascun acquisto e di ciascuna vendita, ma il contribuente paga al
fisco solo la differenza tra l’imposta riscossa dal cliente a cui ha venduto il bene o il servizio (IVA a
debito) e l’IVA pagata sui suoi acquisti (IVA a credito) quindi l’IVA si applica sull’intero valore del
bene ceduto ma viene detratta l’IVA pagata agli eventuali fornitori . I due metodi di calcolo danno lo
stesso risultato in un unico caso, ossia se l’aliquota è unica per tutti i beni e i servizi scambiati. Dalla
normativa italiana è previsto il sistema di calcolo imposta da imposta, questo metodo è neutrale
rispetto al numero di passaggi che avvengono nel processo di produzione e distribuzione.

La base imponibile di un’imposta plurifase non cumulativa non coincide necessariamente con il valore
aggiuntivo dell’economia, e questo dipende da come la legge disciplina la detraibilità dell’imposta
pagata sugli investimenti. In sostanza l’imposta può essere riferita a tre definizioni di base imponibile
differenti, a seconda di come si trattano le spese per investimenti. Le tre possibilità sono:

-Trattarli come ogni altro input e quindi, anche se sono beni durevoli, il loro valore viene sottratto per
intero dal valore delle vendite; in questo caso l’imposta è detta IVA sul consumo perché la base
imponibile riguarda solo il consumo e non l’investimento in sé

-Dedurre, in ciascun periodo, solo l’importo corrispondente al deprezzamento; in tal modo la base
imponibile è il reddito totale al netto del deprezzamento, e l’imposta così calcolata viene definita IVA
sul reddito netto

-Non è ammessa alcuna deduzione per investimenti e ammortamenti e l’IVA è detta sul reddito lordo

La normativa italiana ed europea permette di sottrarre per intero il valore degli investimenti, ed è quindi
considerata un’imposta sul valore aggiunto di tipo consumo.
Con questo tipo di imposta si possono prevedere casi di detraibilità dell’IVA sugli acquisti o ammettere
regimi speciali; per fare ciò si distinguono le operazioni di scambio nelle seguenti tre categorie:

-operazioni imponibili: ossia le operazioni assoggettate all’imposta sull’intero loro valore secondo le
aliquote specificate dalla legge

-operazioni non imponibili: ossia le operazioni per cui l’aliquota è pari a zero e l’imposta pagata negli
stadi precedenti è rimborsata; se il principio di tassazione adottato è quello del Paese di destinazione, le
esportazioni vengono considerate operazioni non imponibili, in modo che prima della frontiera le
imposte pagate fino a quello stadio siano rimborsate e dopo venga applicata l’aliquota del Paese in cui il
bene è entrato

-operazioni esenti: ossia le operazioni per cui non si applica l’IVA, ma l’imposta pagata sugli stadi
precedenti non è rimborsata; in sostanza, in caso di operazioni esenti, l’onere dell’imposta grava
completamente sul produttore dello stadio precedente a quello finale di vendita; in Italia rientra in
questa categoria la vendita di beni e servizi forniti dalle PA.

La direttiva europea 112 del 2006 prevede un’aliquota ordinaria che non può essere inferiore al 15% e la
possibilità per gli Stati membri di adottare una o due aliquote ridotte non inferiori al 5% . La stessa
direttiva prevede che possano essere stabilite delle cosiddette aliquote ultra ridotte su beni specifici. In
Italia vigono quattro aliquote: tre ridotte (al 4%, al 5% e al 10%) e una ordinaria al 22%. L’attuale livello
delle aliquote potrebbe però subire delle modifiche nei prossimi anni a opera delle clausole di
salvaguardia. Le aliquote variano a seconda del bene che colpiscono per ragioni di equità o perché si tratta
di beni meritori (beni la cui appartenenza preferenziale allo Stato o la cui erogazione preferenziale da parte
dello Stato è una scelta politica)

Il consumo si prodotti energetici è tassato in Italia anche con una serie di accise erariali (imposte in valore
per unità di prodotto) e relative addizionali regionali tra queste:

- L’accisa erariale e addizionale regionale sul consumo di gas naturale


- L’accisa erariale e addizionale regionale sugli oli minerali
- l’accisa erariale sul consumo di energia elettrica

Questo tipo di tributi hanno il pregio di assicurare un gettito consistente, data l’ampiezza della base
imponibile (dopo IVA e IRAP sono la terza componente delle entrate da imposte dirette nei bilanci delle
PA). Infatti tutte le attività produttive richiedono, anche se in quantità e forme diverse, il consumo di
energia, indispensabile anche come consumo privato. Si tratta inoltre di beni la cui domanda è
sostanzialmente rigida, elemento che rende non particolarmente distorsiva la tassazione. Infine la
possibilità di diversificare le accise, o le aliquote delle addizionali, a seconda del tipo di prodotto
consumato e dal tipo di impiego permette allo Stato e agli Enti Locali di perseguire specifiche finalità di
politica industriale o di tutela del territorio.

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